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Nebbia rossa Persecuzione 001_il-libro Il libro Nonostante il parere contrario di suo marito Benton Wesley, Kay Scarpetta si sta recando alla Georgia Prison for Women dove ha accettato di incontrare una detenuta condannata per reati sessuali e madre di un diabolico killer. Kay determinata a far parlare la donna per scoprire finalmente che cosa davvero successo al suo vice, Jack Fielding, ucciso sei mesi prima. Non si tratta solo di unndagine a carattere personale, bens professionale, dal momento che come direttore del Cambridge Forensic Center e dati i suoi contatti al dipartimento della Difesa, Kay ha bisogno di avere al pi presto elementi utili a unndagine che riguarda una serie di macabri avvenimenti che lei convinta abbiano a che fare con la morte di Jack: lccisione di unntera famiglia avvenuta anni prima a Savannah, una giovane donna nel braccio della morte e una catena di altre morti apparentemente inspiegabili sembrano essere tutti collegati fra loro. Ma qual il filo che li unisce? Kay scopre un altro dettaglio inquietante: quello che sembrava un attentato alla sua vita, in realt rientra in un disegno pi ampio e complesso. Quali oscure trame si celano dietro questi tragici eventi? E chi si muove dietro le quinte? Ben presto la nebbia inizia a diradarsi lasciando emergere i contorni angoscianti di qualcosa di ancora pi terribile: un complotto terroristico su scala internazionale, che solo lei in grado di fermare. Diciannovesimo romanzo della serie incentrata sul mitico personaggio di Kay Scarpetta, da molti anni un fenomeno di culto, Nebbia rossa un thriller avvincente che mette in contatto il lettore con il suo lato pi oscuro, sottolineando ancora una volta le doti straordinarie che hanno fatto di Patricia Cornwell una figura di riferimento nel panorama internazionale del thriller. 002_l-autore L’autore Patricia Cornwell è una delle più famose autrici di best seller internazionali. I suoi romanzi sono tradotti in trentasei lingue, in più di cinquanta paesi. È tra i fondatori del Virginia Institute of Forensic Science and Medicine e della National Forensic Academy, e membro del Comitato consultivo del Forensic Sciences Training Program presso l’OCME di New York, nonché del McLean Hospital’s National Council, dove è sostenitrice della ricerca psichiatrica. Nel 2008, con Il libro dei morti, Patricia Cornwell ha conseguito il Galaxy British Book Award, nella sezione Crime Thriller. Il suo primo romanzo, Postmortem, è l’unico ad aver vinto nello stesso anno cinque dei premi più prestigiosi. Insolito e crudele è stato insignito del Gold Dagger Award come miglior romanzo giallo del 1993.
Nel 2009 la Fox ha acquistato i diritti della serie di Kay Scarpetta, scegliendo l’attrice Angelina Jolie per il ruolo della protagonista. Tutti i romanzi di Patricia Cornwell sono pubblicati in Italia da Mondadori. L’autrice vive tra New York e la Florida. Visitate il suo sito www.patriciacornwell.com. 003_frontispiece Patricia Cornwell NEBBIA ROSSA Traduzione di Annamaria Biavasco, Valentina Guani, Riccardo Valla 004_frontmatter1 NEBBIA ROSSA 005_frontmatter2 I miei ringraziamenti vanno al Navy and Marine Corps Public Health Center, oltre ai dottori Marcella Fierro, Jamie Downs e altri esperti che mi sono stati di grande aiuto nelle ricerche, come Stephen Braga, che ha generosamente condiviso con me le sue conoscenze di diritto penale. Come sempre, sono grata alla dottoressa Staci Gruber per le sue incredibili capacità professionali, per la pazienza e l’incoraggiamento. Questo libro è dedicato a te, Staci. 006_dedication Udii poi una gran voce dal tempio che diceva ai sette angeli: “Andate e versate sulla terra le sette coppe dell’ira di Dio”. Apocalisse 16:1 007_chapter1
1 La ferrovia taglia l’asfalto screpolato della strada che porta in quella regione degli USA chiamata Lowcountry. Mentre passo sopra i binari arrugginiti, di un colore che mi ricorda il sangue rappreso, penso che forse dovrei tornare indietro, invece che proseguire verso il GPFW, il carcere femminile della Georgia. È giovedì 30 giugno e mancano pochi minuti alle quattro: farei ancora in tempo a prendere l’ultimo volo per Boston. Ma so già che non lo farò. In questa zona, lungo la costa della Georgia, si alternano fitti boschi, vaste praterie e paludi attraversate da rigagnoli e canali su cui volano bassi egrette e aironi. Dai rami degli alberi pende la barba del frate e dal sottobosco spunta infestante il kudzu; cipressi giganti, dai tronchi nodosi e contorti, paiono creature preistoriche che avanzano lente nelle paludi. Non ho visto alligatori né serpenti, ma sono certa che ce ne sono parecchi. Si saranno nascosti, spaventati dal rumore della mia marmitta. Non so come ho fatto a finire su questo ingombrante trabiccolo bianco, che non tiene la strada e puzza di fritto, di fumo di sigaretta e anche un po’ di pesce marcio. Al mio assistente, Bryce, avevo raccomandato di prenotare una berlina di media cilindrata, sicura e affidabile, con airbag e GPS, preferibilmente una Volvo o una Camry. Quando all’aeroporto mi si è presentato un ragazzo con un furgone privo di condizionatore e senza neanche una cartina a bordo, gli ho detto che doveva esserci un errore, che doveva avermi portato il mezzo destinato a qualcun altro. Lui però mi ha fatto vedere che sul contratto c’era il mio nome, Kate Scarpetta. Ho ribattuto che io mi chiamo Kay, non Kate, e che non mi importava se sul contratto c’era il mio cognome: non era quello il veicolo che avevo prenotato. Il ragazzo, in canottiera, bermuda e scarpe da pesca, molto abbronzato, si è scusato a nome della Lowcountry Concierge Connection: non sapeva cosa fosse successo, forse un problema del computer. Avrebbe certamente provveduto a procurarmi la vettura che avevo richiesto, ma purtroppo ci sarebbe voluto un po’ di tempo: non era sicuro di riuscire a evadere la richiesta in giornata. È andato tutto storto, da quando sono partita. Mi pare di sentire mio marito, Benton, che bisbiglia: “Te l’avevo detto!”. Me lo rivedo, ieri sera, appoggiato al tavolo di travertino della cucina, alto, snello, folti capelli grigi, la faccia scura. Abbiamo bisticciato perché non voleva che venissi qui. Ho ancora un po’ di mal di testa... non so perché certe volte mi convinco che mezza bottiglia di vino possa servire a fare pace. So benissimo che non è vero. Forse ne abbiamo bevuto addirittura più di mezza. Era un ottimo pinot grigio, limpido, leggero, con un lieve retrogusto fruttato. L’aria che entra dal finestrino è calda e densa e ha l’odore pungente e solforoso di foglie marce, fango e acqua stagnante. Prendo una curva in pieno sole con il furgone che sussulta e vedo alcuni avvoltoi dal collo rosso che beccano qualcosa in mezzo alla strada. Si alzano lentamente in volo, battendo le grosse ali, e io sterzo per non passare sopra la carcassa di un
procione che emana un tanfo putrido a me ben noto. I morti puzzano tutti allo stesso modo, che siano uomini o animali. Riconosco a distanza l’odore della morte e, se scendessi a controllare, probabilmente sarei in grado di identificare la causa del decesso di quella povera bestia, quando è avvenuta, le circostanze del suo investimento e magari anche il tipo di veicolo. Sono un medico legale, anche se alcuni mi definiscono un coroner o pensano che faccia parte della polizia. In realtà ho una laurea in medicina con specializzazione in anatomia patologica e ho seguito corsi di perfezionamento in patologia forense e radiologia 3-D, questo significa che prima di effettuare l’autopsia sottopongo il cadavere a una TAC. Ho una seconda laurea in giurisprudenza e il grado di colonnello nella riserva straordinaria dell’Aeronautica, quindi lavoro per il dipartimento della Difesa, che l’anno scorso mi ha affidato la direzione del CFC, il Cambridge Forensic Center, gestito congiuntamente con lo Stato del Massachusetts, il Massachusetts Institute of Technology (MIT) e Harvard. Il mio lavoro è stabilire i meccanismi per cui certe cose portano alla morte e altre no, siano esse una malattia, un veleno, un problema medico, un atto di Dio, un’arma da fuoco o un ordigno esplosivo improvvisato (IED). Seguo le direttive del governo degli Stati Uniti e ogni mia azione deve avere fondamento legale. Redigo perizie giurate e vengo chiamata a deporre nei procedimenti giudiziari, e per questo motivo non mi è concesso fare una vita normale, avere opinioni personali o reazioni emotive neanche di fronte ai casi più efferati e raccapriccianti. Ho il dovere di essere sempre distaccata e obiettiva. Nonostante quattro mesi fa sia stata vittima di un episodio di violenza in cui ho rischiato di morire, devo essere stoica e inamovibile come una roccia. Devo essere calma, fredda e determinata. “Non mi soffrirai di disturbo da stress postraumatico, vero?” mi ha detto il generale John Briggs, comandante dell’AFME – l’Istituto di medicina legale delle forze armate – dopo l’attentato alla mia vita lo scorso 10 febbraio. “Sono cose che succedono, Kay. Il mondo è pieno di delinquenti.” “Sì, John, lo so: sono cose che succedono” gli ho risposto, come se andasse tutto bene, come se avessi tutto sotto controllo. Ma non è vero: non mi sento affatto bene. Voglio cercare di capire che cosa ha rovinato la vita a Jack Fielding e intendo fare di tutto perché Dawn Kincaid paghi per quello che ha fatto. Voglio il massimo della pena: ergastolo senza condizionale. Voglio che non esca mai più dal carcere. Guardo l’ora senza togliere le mani dal volante, perché ho paura di sbandare. Forse dovrei tornare indietro. L’ultimo aereo per Boston parte fra meno di due ore. Ce la posso ancora fare. Ma non voglio. Ho preso una decisione, nel bene o nel male, e la porterò fino in fondo. È come se avessi inserito il pilota automatico. Forse sono un’incosciente e mi lascio trasportare dal mio desiderio di vendetta. Sono arrabbiata, lo so. Come ha detto ieri sera mio
marito, che è uno psicologo forense dell’FBI, mentre preparavo la cena nella nostra casa di Cambridge, una casa antica, fatta costruire da un noto trascendentalista: “Ti stai lasciando manipolare, Kay. Fai il gioco di qualcun altro, anche se non te ne rendi conto. Pensi di essere piena di iniziativa, di perseguire un ideale di giustizia, ma in realtà stai solo cercando di placare i tuoi sensi di colpa”. “Non è colpa mia se Jack è morto.” “Ti sei sempre sentita in colpa nei suoi confronti. Tendi ad avere sensi di colpa per un sacco di cose quando invece non c’entri niente.” “Ho capito. Ogni volta che ho la sensazione di poter fare qualcosa di utile e giusto, secondo te dovrei diffidare di me stessa.” L’ho detto mentre, con un paio di forbici da chirurgo, toglievo il guscio ai gamberoni che avevo appena fatto bollire. “A me sembra di cercare coraggiosamente informazioni che possano essere utili per fare giustizia, ma in realtà sono i sensi di colpa a spingermi.” “Ti senti responsabile di tutto, pensi di dover sistemare tu ogni cosa o che tocchi a te prevenire le tragedie. Sei sempre stata così, da quando eri piccola e ti occupavi di tuo padre malato.” “Di sicuro non posso prevenire le tragedie” gli ho risposto, buttando i gusci nella spazzatura. Poi ho messo una manciata di sale grosso nell’acqua che bolliva sul mio piano cottura a induzione in vetroceramica, di cui sono molto fiera. “Jack è stato molestato da piccolo, e io non potevo farci niente. Non potevo nemmeno impedire che si rovinasse la vita. Adesso è stato ammazzato e non sono riuscita a evitare neanche questo” Ho preso il coltello. “Non è merito mio nemmeno se sono ancora viva, diciamo la verità.” Tutto questo mentre tritavo cipolla e aglio sul tagliere di polipropilene antibatterico. “Non sono morta solo perché ho avuto una fortuna sfacciata.” “Dovresti stare alla larga da Savannah, Kay” mi ha detto Benton e io gli ho chiesto di stappare il vino, per piacere. Ce ne siamo bevuti un bicchiere, ma abbiamo continuato a bisticciare. Abbiamo mangiato senza appetito la cenetta che avevo preparato con amore e, nonostante sia convinta che chi mangia bene vive felice, siamo stati infelici tutta la sera. Per colpa di quella donna. Kathleen Lawler ha fatto una vita d’inferno. Attualmente sta scontando vent’anni di carcere perché ha investito un ragazzino sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, ma ha passato più tempo in galera che a piede libero, essendo già stata condannata negli anni Settanta per molestie a un minore. Quel minore era Jack Fielding, il mio vice, che ora è morto. Lo ha ammazzato con un colpo di pistola alla testa Dawn Kincaid, la figlia nata dalla relazione con Kathleen Lawler e data in adozione subito dopo la nascita, quando la madre era in carcere. Una storia lunga, insomma. Me lo dico e me lo ripeto continuamente, in questo periodo. Se
c’è una cosa che ho imparato nella vita è che da cosa nasce cosa, sempre. La tragica storia di Kathleen Lawler è un esempio di quello che intendono gli scienziati quando dicono che il battito d’ali di una farfalla può scatenare un uragano dall’altra parte della Terra. Mentre guido un furgone rumoroso e poco affidabile in un paesaggio paludoso e infestato di piante selvatiche, che probabilmente non è cambiato molto dall’era dei dinosauri, mi chiedo quale battito d’ali abbia dato origine a Kathleen Lawler e alla scia di morte e sofferenza che si è lasciata dietro. La immagino nella sua cella di due metri per tre, con toilette in acciaio, letto di metallo e finestrella protetta da rete metallica con vista sul cortile dove ci sono un po’ d’erba, tavoli e panche da picnic in cemento e cabine WC mobili. So che ha solo due cambi di vestiti, che non sono vestiti “per il mondo libero”, come mi ha spiegato nelle e-mail che mi ha mandato e a cui non ho mai risposto, bensì divise da carcerata, brache e casacca. Ha letto almeno cinque volte tutti i libri nella biblioteca del carcere e scrive molto bene, sostiene. Qualche mese fa mi ha spedito una poesia da lei composta, dedicata a Jack: DESTINO lui tornò come soffio di aria e io ero terra, e ci trovammo ma non subito. (non c’era nulla di male, in realtà, meri cavilli cui non badammo, inutili.) dita di fuoco. freddo, freddo acciaio. fornace spalancata dal gas acceso... dimenticato come le luci di un motel accogliente. L’ho letta e riletta ossessivamente, studiandola parola per parola alla ricerca di significati reconditi, e ho temuto che dietro al riferimento al gas acceso ci fosse una volontà di morte. Forse Kathleen Lawler ha istinti suicidi e vede la morte come un motel capace di accoglierla benevolmente, ho detto a Benton, ma lui mi ha risposto che è la poesia di una donna sociopatica e disturbata, che pensa di non aver fatto nulla di male. Ha fatto sesso con un bambino di dodici anni ospite di una comunità per minori in difficoltà in cui lei lavorava come terapeuta, ma secondo lei non c’era niente di male. Anzi, era una storia bellissima, un’unione purissima, un amore perfetto. Era destino. Kathleen ne è convinta, mi ha detto Benton. Due settimane fa ho smesso di ricevere e-mail e il mio avvocato mi ha telefonato per dirmi che Kathleen Lawler ha chiesto di vedermi per parlare di Jack Fielding, che io ho aiutato a diventare anatomopatologo e con cui ho lavorato vent’anni, anche se non continuativamente.
Ho accettato di andare nel carcere femminile della Georgia a parlare con lei, ma non in qualità di direttrice del Cambridge Forensic Center, né come medico legale delle forze armate o perito del tribunale. No, semplicemente come amica. Oggi non sarò la dottoressa Kay Scarpetta. Sarò Kay e basta. E l’unica cosa che Kay e Kathleen hanno in comune è Jack. Ciò che ci diremo non sarà protetto da segreto professionale e nessuno presenzierà al nostro colloquio: né avvocati, né guardie, né altri dipendenti del carcere. La pineta si dirada, la luce cambia e sbuco in una zona aperta, che sembra un’area industriale. Cartelli di metallo mi avvisano che la strada sta per finire e che proseguire è vietato se non si dispone di regolare permesso. Supero un cimitero di macchine, pieno di camion e vetture dalle lamiere contorte, e poi un vivaio con grossi vasi di piante ornamentali, bambù e palme. Davanti a me c’è un prato con petunie e tageti disposti a formare le lettere GPFW – Georgia Prison for Women –, come se si trattasse di un parco pubblico o di un campo da golf. C’è un palazzo di mattoni rossi con un colonnato bianco che spicca per la sua solennità fra le costruzioni di cemento con il tetto di metallo protette da alte recinzioni e filo spinato che brillano sotto il sole. Facendo approfondite ricerche, ho scoperto che il GPFW è un carcere modello, da molti ritenuto esemplare per il suo impegno educativo e riabilitativo, considerato molto umano e illuminato. Corsi di formazione aiutano le detenute a imparare un mestiere: idraulica, elettrotecnica, estetica, falegnameria, meccanica, giardinaggio, cucina e catering, carpenteria. La manutenzione degli spazi interni ed esterni è svolta interamente dalle detenute, che cucinano, lavorano nella biblioteca, nell’infermeria e nel centro estetico, pubblicano una loro rivista e studiano per ottenere il diploma sostenendo l’esame da privatiste. Al GPFW tutte si devono guadagnare da vivere e hanno molte opportunità per migliorarsi, a parte le detenute del reparto di massima sicurezza, il cosiddetto “Blocco B”, dove Kathleen Lawler è rinchiusa da due settimane. Per questo ha smesso di mandarmi e-mail. Lascio il furgone nel posteggio riservato ai visitatori e controllo l’iPhone per vedere se mi sono arrivati messaggi e se ho telefonate urgenti da fare. Spero di trovare un SMS di Benton. C’è: “Caldo torrido. Previsto temporale in serata. Sta’ attenta. Tienimi aggiornato. Ti amo”. Mio marito è un uomo pratico e pragmatico e mi manda sempre le previsioni del tempo e altre informazioni utili, per dimostrarmi che mi pensa. “Anch’io ti amo, tutto bene, ti chiamo dopo” rispondo. Vedo alcuni uomini in giacca e cravatta che escono dalla direzione scortati da una guardia. Sembrano avvocati, ma forse sono funzionari del penitenziario. Aspetto che se ne vadano a bordo di una macchina priva di contrassegni e mi chiedo chi possano essere. Infilo il cellulare nella borsa e la nascondo sotto il sedile: ho deciso di portarmi appresso soltanto le chiavi e la patente, oltre alla busta bianca.
L’afa mi colpisce come uno schiaffo. Il sole è cocente, ma a sudest il cielo è coperto e l’aria profuma di lavanda e di Clethra alnifolia. Percorro un sentiero asfaltato fra arbusti e aiuole fiorite, seguita da occhi invisibili che mi spiano da dietro le finestrelle sottili delle costruzioni tutto intorno. Le detenute non hanno niente da fare, a parte scrutare il mondo di cui non possono più far parte e raccogliere informazioni, più attente e più astute degli agenti della CIA. Mi sento osservata e ho la sensazione che stiano tutte cercando di capire a chi appartenga quel furgone bianco con la targa del South Carolina e chi sia la signora con la camicetta a righine bianche e blu dentro i calzoni beige, i mocassini panama e la cintura di corda. Non indosso il mio solito tailleur né i vestiti che metto per i sopralluoghi sulla scena del crimine. Non ho gioielli, a parte l’orologio di titanio con il cinturino di gomma nera e la vera. Penso sia difficile indovinare il mio stato sociale o economico dal mio aspetto. Peccato per il furgone bianco, che cozza con l’idea che avrei voluto dare di me. Era mia intenzione passare per una signora di mezz’età, bionda e casual, che non fa niente di importante o di interessante nella vita. Purtroppo quel furgone malridotto, bianco con i finestrini scuri, mi fa passare per una che lavora in un’impresa edile o di trasporto merci. Mi sento osservata e mi chiedo se le detenute non immaginino invece che trasporti un prigioniero, vivo o morto. Non le incontrerò, ma di qualcuna di loro so il nome, perché se ne è parlato sui giornali o in TV o a qualche convegno a cui ho partecipato. Evito di guardarmi in giro e di lasciar trapelare il mio disagio nel sentirmi osservata, ma mi domando dietro quale finestra si nasconda Kathleen Lawler. Chissà come sarà emozionata! Probabilmente non pensa ad altro da giorni. Per quelli come lei, io rappresento l’ultimo legame che resta con la persona che hanno perduto o ucciso, una sorta di surrogato dei loro morti. 008_chapter2
2 La direttrice del carcere femminile della Georgia si chiama Tara Grimm e l’ufficio che occupa, in fondo a un lungo corridoio azzurrino, è stato tinteggiato e arredato dalle sue detenute. Scrivania, tavolino basso e sedie sono di rovere laccato, piuttosto massicci. Mi piacciono, perché tutto ciò che è fatto a mano ha fascino per me, per quanto sia rustico. Piante rampicanti dalle foglie a forma di cuore scendono dai davanzali e dagli scaffali della libreria, anch’essa fatta a mano, e traboccano da ceste appese, aggrovigliandosi a mezz’aria. Mi complimento con Tara Grimm per il suo pollice verde, ma lei mi spiega con voce melodiosa che sono le detenute a curare le piante nel suo ufficio. Non sa neppure come si chiamino esattamente, forse sono filodendri. «Epipremnum aureum.» Sfioro una foglia verde e gialla. «Detto anche pothos o edera del diavolo.» «Crescono a dismisura, ma io non voglio che le taglino» dice Tara Grimm mentre ripone un libro su uno scaffale dietro la scrivania. Si intitola Economia della recidività. «E vengono tutte da una piccola talea in due dita d’acqua. La trovo una lezione di vita molto importante, un’esemplificazione di ciò che le detenute hanno voluto ignorare e che a un certo punto le ha portate qui. Occorre fare attenzione a ciò che mette radici, perché un giorno potrebbe soffocare tutto il resto.» Mette a posto un altro libro, L’arte della manipolazione. «Non so.» Guarda la selva di rampicanti. «Forse stanno diventando un po’ opprimenti.» La direttrice dev’essere sulla quarantina, alta, brusca e stranamente fuori posto nel suo abito nero, scollato, che le arriva a metà polpaccio. Porta una collanina con una moneta d’oro. Sembra abbia curato particolarmente il suo abbigliamento, forse per via dei distinti signori che erano qui prima di me. Forse si trattava di personaggi importanti. Ha gli occhi scuri, il viso affilato e i capelli neri raccolti sulla nuca. Non sembra la direttrice di un carcere. Chissà se è solo una mia impressione o anche agli altri fa questo effetto. Tara, nel buddhismo, è la madre di tutti i Buddha, la divinità che porta alla liberazione, ma Tara Grimm fa esattamente l’opposto. Si liscia il vestito e si siede dietro la scrivania. Io mi accomodo su una sedia dallo schienale rigido, di fronte a lei. «Occorre che io controlli quello che intende far vedere a Kathleen» mi spiega. «È la routine. Immagino che lo sappia.» «Mi capita molto di rado di andare a trovare gente in carcere» rispondo. «A meno che non siano malati, o peggio.» «Se ha portato con sé documenti di qualsiasi genere, carte che intende esaminare con lei, bisogna che io controlli prima» insiste. Le ripeto che la mia è una visita privata, in amicizia. Se, dal punto di vista legale, è una definizione corretta, dal punto di vista sostanziale non è così.
Non sono in rapporti di amicizia con Kathleen Lawler. Voglio semplicemente carpirle informazioni, incoraggiarla a dirmi quello che mi serve senza lasciarle intendere quanto mi stia a cuore. Voglio capire se è rimasta in contatto con Jack Fielding tutto questo tempo, se si sono visti quando lei era a piede libero. Ho riscontrato che accade spesso che, quando una donna più grande molesta un minore, la relazione continui negli anni e voglio sapere se nel periodo in cui Jack lavorava con me si vedeva con lei, se ha continuato ad avere rapporti con la sua molestatrice. Mi chiedo se quando spariva improvvisamente dalla circolazione e io dovevo cercarlo dappertutto era perché Kathleen Lawler era uscita di prigione. Voglio anche capire quando Jack ha scoperto che Dawn Kincaid era sua figlia e come mai a un certo punto abbia deciso di mettersi in contatto con lei e di invitarla ad andare a vivere con lui a Salem. Da quanto tempo Dawn Kincaid stava nel Massachusetts? È stato a causa sua che Jack si è separato dalla moglie? E poi: Jack sapeva che i farmaci che prendeva alteravano il suo stato mentale o Dawn Kincaid glieli somministrava di nascosto? Di chi è stata l’idea di condurre affari illeciti al CFC in mia assenza? Non ho idea di cosa sappia Kathleen né di quel che mi dirà, ma so come intendo condurre la conversazione: l’ho concordato con Leonard Brazzo, il mio avvocato. Non ho intenzione di darle niente in cambio. Non può essere costretta a testimoniare contro la figlia e in ogni caso non sarebbe una teste credibile, ma io non voglio rivelarle nulla che possa arrivare a Dawn Kincaid e aiutarla nella sua difesa. «Immagino non abbia portato documenti relativi ai casi del Massachusetts» dice Tara Grimm. Mi sembra delusa. «Le confesso che sono curiosa di scoprire come sono andate veramente le cose.» Non è l’unica. I cosiddetti “Delitti Mensa”, come i giornalisti chiamano gli omicidi commessi da persone con un quoziente intellettivo molto alto, tanto da poter fare parte di quell’associazione internazionale che si chiama Mensa, sono particolarmente tremendi. Sono vent’anni che mi occupo di morti ammazzati, ma non finisco mai di sorprendermi. «Non intendo parlarne, per lo meno non nei dettagli» replico. «Kathleen la tempesterà di domande, ne sono certa. In fondo si tratta di sua figlia. È stata Dawn Kincaid a uccidere quelle persone e poi ad attentare alla sua vita, no, dottoressa?» Mi guarda fisso negli occhi. «Non intendo parlarne con Kathleen. Non nei dettagli.» Non intendo dire nulla neppure alla direttrice. «Non sono venuta per parlare di quei casi» ribadisco. «Ho una foto, però, che vorrei lasciarle.» «La devo vedere.» Tende la mano minuta e noto che ha le unghie curatissime, con lo smalto di un rosa intenso, parecchi anelli e un orologio d’oro con lunetta di cristallo.
Tiro fuori la busta bianca dalla tasca dei pantaloni e gliela porgo. Tara Grimm la apre e guarda la foto di Jack Fielding che lava la sua preziosa Mustang rosso ciliegia del ’67. In calzoncini corti, a torso nudo, sorride contento. È una foto di cinque anni fa, scattata prima che Jack si risposasse e poi si rovinasse definitivamente. Non ho effettuato io la sua autopsia, ma ho sezionato la sua vita nei cinque mesi precedenti la sua morte, cercando di capire che cosa avrei potuto fare per impedire che andasse a finire così. Non credo che avrei potuto fare niente. Non sono mai stata capace di frenare i suoi impulsi autodistruttivi. Guardo la foto e provo un moto di rabbia, poi mi sento colpevole, poi mi viene una tristezza infinita. «Va bene» dice la direttrice. «Bell’uomo, devo ammettere. Il body-building doveva essere un’ossessione per lui. Quante ore di palestra faceva al giorno per mantenere un fisico del genere?» Guardo i certificati e i diplomi appesi alle pareti perché non voglio vederla mentre osserva la foto. Non so perché mi turbi tanto. Forse mi dà fastidio vedere Jack attraverso gli occhi di una sconosciuta. “Direttrice dell’anno”, “Onorificenza per servizio meritorio”, “Diploma di encomio”, “Onorificenza per eccellenza del servizio”, “Supervisore del mese”. Alcune citazioni di merito si ripetono. C’è anche il diploma di laurea, conseguito con il massimo dei voti alla Spalding University, nel Kentucky. Dall’accento, però, Tara Grimm non mi sembra di qui, ma della Louisiana. Le chiedo dove è nata. «In Mississippi» mi risponde. «Mio padre era il direttore del penitenziario di Stato e io sono cresciuta in mezzo a una distesa di coltivazioni di soia e cotone, in una regione piatta come una tavola. Erano i detenuti a coltivare la terra. Poi mio padre accettò il trasferimento al penitenziario di Stato della Louisiana, ad Angola. Anche lì eravamo in mezzo alla campagna, lontano dalla civiltà. Le sembrerà strano, ma non mi dispiaceva vivere così. È proprio vero che ci si abitua a tutto. Fu su consiglio di mio padre che il GPFW venne costruito qui, in mezzo alle paludi. E fu sua anche l’idea dell’autogestione, in maniera che la struttura costasse il meno possibile ai contribuenti americani. Si può dire che ho il carcere nel sangue.» «Suo padre lavorò anche qui?» «No.» Sorride, ironica. «Non me lo vedo proprio a dirigere duemila donne. Si sarebbe annoiato, anche se certe volte le donne sono peggio degli uomini. Ha presente Arnold Palmer, il giocatore di golf che ha progettato i migliori campi da golf del mondo? Be’, mio padre era un po’ come lui, un progressista. Faceva consulenze per molti penitenziari. Quello di Angola, per esempio, gestisce un’arena per i rodei, un quotidiano e una stazione radio; alcuni detenuti sono ottimi cavallerizzi, altri sono specializzati nella lavorazione del cuoio, del legno e del metallo. Sono autorizzati a vendere i loro manufatti e a tenere parte del profitto.» Non lo dice con entusiasmo. «Quello che mi chiedo è: avete preso tutti i colpevoli degli omicidi?»
«Speriamo di sì.» «Almeno Dawn Kincaid è dentro e mi auguro che ci resti. Ha ucciso degli innocenti senza motivo» dice Tara Grimm. «Ho sentito che ha problemi psichiatrici, che soffre di stress. Che faccia tosta! E lo stress che ha causato lei?» Alcuni mesi fa Dawn Kincaid è stata trasferita al Butler State Hospital, dove i medici stabiliranno se sia in grado di assistere al processo. È tutta una messinscena: Dawn Kincaid fa finta di essere malata. Vedremo come andrà a finire. Pete Marino, il mio investigatore capo, dice che è diventata matta solo dopo che l’abbiamo presa. Ma nel vero senso della parola. «Non credo che sia riuscita a uccidere tante persone innocenti da sola. Se penso a quel povero bambino...» Tara Grimm continua a parlare di Dawn Kincaid anche se in realtà non sono affari suoi, ma io non posso fermarla. «L’ha ucciso mentre giocava in giardino, con i genitori in casa! Guardi, a parer mio, fare del male a bambini e animali è imperdonabile» esclama. Come se invece farne agli adulti fosse accettabile. «Mi chiedo se posso lasciarle la foto.» Cerco di cambiare discorso, senza espormi. «Penso che le farebbe piacere tenerla.» «Non mi pare ci sia nulla di male.» Sembra incerta, però. Mentre mi restituisce la fotografia, le leggo negli occhi che è perplessa. Si sta chiedendo come mai voglio regalare una foto di Jack Fielding a Kathleen Lawler. Indirettamente, è per colpa sua se lui è morto. Anzi, non indirettamente. Provo un moto di rabbia. Kathleen Lawler ha sedotto un minore e dalla loro unione è nata Dawn Kincaid, che alla fine lo ha ucciso. Altro che indirettamente! «Non so se Kathleen ha visto foto recenti di lui» spiego, rimettendola nella busta. «A me piace ricordarlo così, nel massimo del suo splendore.» Penso che vedendo quella foto le difese di Kathleen Lawler si abbasseranno e mi parlerà. Vedremo chi manipolerà chi. «Non so se lei è al corrente dei motivi per cui l’ho trasferita in isolamento» dice Tara Grimm. «So solo che è stata trasferita.» Sono intenzionalmente vaga. «L’avvocato Brazzo non gliel’ha spiegato?» Sembra dubbiosa. Congiunge le mani e le posa sulla scrivania ordinatissima. Leonard Brazzo è un penalista e l’ho ingaggiato perché, quando Dawn Kincaid verrà processata per aver tentato di ammazzarmi, non voglio che a perorare la mia causa sia un semplice sostituto procuratore, magari anche giovane e oberato di lavoro. Sono certa che gli avvocati che hanno accettato di difendere Dawn Kincaid a titolo gratuito cercheranno di giustificarla in tutti i modi. Anche se mi aspettava al varco, nascosta nel buio, diranno che in qualche modo è stata colpa mia se mi ha aggredito nel mio garage. Sono viva per miracolo, e per
pura fortuna. Mi dà un fastidio terribile dover ammettere che non mi sono salvata la vita da sola. Guardo i rampicanti di Tara Grimm. «Immagino che sia stata messa in isolamento per motivi di sicurezza» replico, ma intanto penso al giubbotto antiproiettile di livello 4A, con piastre in Kevlar e ceramica, ricordo la ruvidezza del tessuto in nylon, l’odore di nuovo, il peso. Quella sera, nel gelo del mio garage buio, l’ho preso dal sedile posteriore della macchina e l’ho indossato. «Mi sembra che il fatto che io abbia trasferito la detenuta nel Blocco B le abbia fatto sorgere dei dubbi riguardo a ciò che l’aspetta qui a Savannah, dottoressa» commenta Tara Grimm. «Dopo quello che ha passato, è comprensibile che non abbia più voglia di correre rischi.» Mi torna in mente la tempesta di scagliette bianche simile a una nuvola di polline che abbiamo visto quando abbiamo effettuato la risonanza magnetica sulla prima vittima di Dawn Kincaid, uccisa con un coltello WASP ad aria compressa. Particelle bianche concentrate intorno a una ferita piccola come un’asola e sparate in profondità, fin negli organi e nei tessuti molli del petto, come se dentro quel corpo fosse esplosa una bomba. Se Dawn Kincaid fosse riuscita nel suo intento, avrei fatto anch’io la stessa fine, sarei morta prima ancora di cadere per terra. «Non ho capito come mai indossasse un giubbotto antiproiettile in casa» sonda la direttrice. Non le dico che il dipartimento della Difesa mi affida anche compiti di medical intelligence e che il generale Briggs mi aveva chiesto di testare un giubbotto di ultima generazione messo a punto per le soldatesse. Adesso so che quel giubbotto è in grado di bloccare la penetrazione di lame di acciaio. Sono stata fortunata, molto fortunata. Mi ricordo lo choc di quando mi sono guardata allo specchio, subito dopo l’attentato alla mia vita. Avevo la faccia e i capelli sporchi di sangue. Mi sembra di risentire l’odore ferroso, il sibilo simile a quello di una bomboletta spray, le finissime gocce di sangue che mi sono arrivate addosso nel garage buio e freddo. «So che il cane era con lei nel garage. Sempre che sia vero quello che scrivono i giornali. Come sta Sock, a proposito?» mi domanda Tara Grimm. Mi guardo le mani. Sono pulite, le unghie squadrate, corte, senza smalto. Faccio un bel respiro profondo e mi concentro sugli odori nell’ufficio della direttrice. Non sento odore di sangue, solo il profumo di Tara Grim Youth Dew di Estée Lauder. «Bene.» La guardo e mi chiedo se mi sono lasciata sfuggire qualcosa. Come siamo arrivate a parlare del levriero? «Lo ha ancora lei, dottoressa?» Tara Grimm mi guarda negli occhi.
«Sì.» «Mi fa piacere. È un bravo cane. Lo sono tutti, alla fine. Dolcissimi. So che Kathleen non voleva darlo al primo che passava e che sperava di riaverlo, scontata la pena.» «Quando uscirà?» domando. «L’ha adottato Dawn Kincaid perché Kathleen non lo voleva dare a nessun altro. Gli si era affezionata tantissimo» prosegue Tara Grimm. «Devo ammettere che con gli animali ci sa fare. Se lei l’avesse saputo, dottoressa, forse avrebbe intuito che fra loro due c’è un legame, una sorta di alleanza. Anche se Kathleen cercherà di convincerla del contrario, la avverto. Da che sono qui, Dawn viene spesso a farle visita. Tre, quattro volte all’anno. E versa regolarmente dei soldi sul suo conto. Ora non più, naturalmente. Si scrivevano, ma la polizia ha intercettato la loro corrispondenza. Questo non significa che non possano più comunicare, ora che sono tutt’e due in carcere. Immagino che lei ne sia al corrente.» «Perché dovrei?» «Kathleen mente in proposito, ora che Dawn è nei guai. Non vuole essere sospettata di complicità da gente potenzialmente in grado di aiutarla... come lei, o qualche avvocato di grido. Tira l’acqua al suo mulino.» «Quando finirà di scontare la pena?» chiedo di nuovo. «Sa, di questi tempi sono tutti condannati ingiustamente» continua lei. «Non ho mai sentito parlare di ingiustizia a proposito di Kathleen Lawler.» «Non riavrà Sock, a meno che non viva davvero a lungo, povero cane» dice Tara Grimm in tono determinato, come se stesse a lei decidere. «Mi fa piacere che lo abbia preso lei. Mi sarebbe dispiaciuto che finisse nelle mani sbagliate, o al canile.» «Le assicuro che non succederà.» Non ho mai avuto un cane tanto devoto e bisognoso di affetto: Sock mi segue ovunque io vada. «La maggior parte dei nostri levrieri viene dal circuito delle corse di Birmingham. Anche Sock» mi informa Tara Grimm. «Quando smettono di correre, li prendiamo noi, altrimenti li sopprimono. Alle detenute fa bene capire che la vita è un dono di Dio, non un diritto, e che Dio la può dare e togliere quando vuole. Lei non sapeva che il cane era di Dawn Kincaid quando lo ha preso, immagino.» «Era chiuso in una stanza di una casa di Salem, senza riscaldamento e senza niente da mangiare, in pieno inverno.» Può farmi tutte le domande che vuole: intendo dirle meno che posso. «Me lo sono portato a casa in attesa di capire cosa farne.» «E Dawn è venuta a riprenderselo» dice la direttrice. «Quella sera stessa. È venuta a casa sua per farsi restituire il cane.» «Chi glielo ha detto?» ribatto. Mi chiedo da dove sia saltata fuori un’assurdità del genere.
«Be’, il suo interesse nei confronti di Kathleen mi risulta incomprensibile» dice Tara Grimm. «Non penso che sia stata una mossa molto saggia, data la sua posizione. Al suo avvocato, il dottor Brazzo, l’ho fatto presente, ma lui ovviamente non ha voluto approfondire i motivi per cui lei ha accettato di vedere Kathleen o le ha usato tante cortesie.» Non so di che cosa parli. «Mi perdoni la schiettezza» continua. «Le detenute autorizzate a usare la posta elettronica possono recarsi nel laboratorio informatico in certi orari e tutto ciò che scrivono o ricevono passa per la rete del carcere, che ha determinati filtri ed è monitorata. Quindi io so che cosa Kathleen le ha scritto in questi mesi.» «Quindi sa anche che io non le ho mai risposto.» «Controllo tutta la corrispondenza delle detenute, sia elettronica sia cartacea.» Si interrompe, come se io dovessi recepire il messaggio. «Credo di sapere come mai lei è tanto gentile e disponibile con Kathleen: vuole informazioni. Ma forse dovrebbe chiedersi chi c’è veramente dietro il suo invito e cosa vuole da lei questa persona. Sono certa che l’avvocato Brazzo le ha riferito i problemi che ha avuto Kathleen.» «Me ne parli.» «I pedofili non godono di grande popolarità in carcere» comincia a spiegare Tara Grimm, pensosa, con il suo accento cantilenante. «Quando sono arrivata io, Kathleen aveva già finito di scontare la pena per quel reato, ma ha continuato a combinare un pasticcio dietro l’altro e, dopo la prima condanna, è stata in carcere altre sei volte. Sempre qui al GPFW, perché non si è mai spinta più in là di Atlanta. Tutti reati legati alla droga, fino all’ultimo: non ha rispettato uno stop e ha ucciso un ragazzino che ha avuto la sfortuna di passarle davanti con lo scooter. Le hanno dato vent’anni e dovrà scontare almeno l’ottantacinque per cento della pena, prima di poter ottenere la libertà condizionale. A meno che non succeda qualcosa di strano, penso che non uscirà più.» «Cosa potrebbe succedere?» «Lei conosce personalmente Curtis Roberts, l’avvocato di Atlanta che ha telefonato al suo avvocato per invitarla qui?» «No.» «Penso che le altre detenute non sapessero che Kathleen era stata condannata per pedofilia, prima dei casi in Massachusetts. Poi è uscito sui giornali...» dice. Non mi ricordo di aver letto niente sui giornali a proposito di Kathleen Lawler. A me risultava che fosse stata trasferita nel Blocco B perché aveva fatto arrabbiare alcune detenute. «Un gruppetto di donne ha deciso di darle una lezione per quel che aveva fatto al suo collega quando era ragazzo» aggiunge Tara Grimm.
Sono abbastanza sicura che la storia degli abusi subiti da Jack Fielding non è finita sui giornali. Lo saprei. Leonard Brazzo non mi ha detto niente di tutto questo. Dubito che sia vero. «Se aggiungiamo la morte del ragazzino sullo scooter che Kathleen ha investito mentre era sotto l’effetto di sostanze stupefacenti... Tenga presente che qui dentro molte donne sono madri o nonne. Ci sono anche delle bisnonne. Quasi tutte hanno almeno un figlio e non sopportano chi fa del male ai bambini» continua Tara Grimm lentamente, con voce bassa e dura come l’acciaio. «Mi è giunta voce che alcune detenute si erano messe d’accordo per fargliela pagare e quindi l’ho trasferita per la sua sicurezza. La terrò lì finché il pericolo non sarà cessato.» «Sono curiosa di sapere cosa è uscito esattamente sui giornali.» Cerco di farla entrare nei dettagli di quella che sospetto sia una bugia. «Io non ho sentito niente. Non mi pare proprio che abbiano fatto il nome della Lawler in riferimento ai casi del Massachusetts.» «Pare che una detenuta, o forse una guardia, ne abbia sentito parlare alla TV. Di quello che Kathleen aveva fatto al suo collega» risponde Tara Grimm, evasiva. «Che lo aveva molestato da piccolo. Le voci girano velocissime, qui dentro. E fare del male a un bambino è imperdonabile, al GPFW.» «Anche lei lo ha sentito in televisione?» «No.» Mi guarda, come se cercasse di capire qualcosa. «Mi chiedo se il motivo non sia un altro» dico. «Lei dice.» È un’affermazione, non una domanda. «L’invito a venire qui mi è arrivato due settimane fa. O, meglio, è arrivato all’avvocato Brazzo» le ricordo. «Nello stesso periodo in cui Kathleen Lawler è stata trasferita nel reparto di massima sicurezza, perdendo così il diritto di comunicare via e-mail. Stando a quello che lei ha appena detto, le voci riguardo alla sua prima condanna per molestie su un minore avrebbero cominciato a girare più o meno quando mi è stato chiesto di venire qui a parlarle. Dico bene?» Tara Grimm mi fissa, imperscrutabile. Decido di dirglielo. «Mi chiedo se ne abbiano davvero parlato in TV.» 009_chapter3
3 Gli omicidi del Massachusetts sono cominciati circa otto mesi fa. La prima vittima è stata un ragazzo di vent’anni che giocava a football nella squadra di un college, il cui corpo mutilato è stato ritrovato nelle acque del porto di Boston, vicino alla sede della Guardia costiera. Tre mesi dopo è morto un bambino, ucciso a Salem mentre giocava nel giardino di casa sua. In un primo tempo si è pensato a qualche rito satanico, perché aveva dei chiodi piantati nel cranio. Poi è stata la volta di uno studente dell’MIT, pugnalato con un coltello WASP ad aria compressa in un parco di Cambridge. L’ultimo è stato Jack Fielding. Aveva un proiettile nella testa, sparato dalla sua stessa pistola. Chi lo ha ammazzato voleva farci credere che si fosse suicidato dopo aver ucciso tutti gli altri. In realtà il serial killer è la figlia di Fielding, che probabilmente avrebbe continuato a uccidere se non l’avessimo catturata dopo che ha attentato alla mia vita. «I giornali hanno parlato molto di Dawn Kincaid, ma non di Kathleen Lawler e della sua storia» dico a Tara Grimm. «Non mi pare che sia uscito nulla sugli abusi da lei perpetrati ai danni di Jack Fielding.» «È impossibile bloccare completamente l’afflusso di informazioni dall’esterno» osserva criptica Tara Grimm. «Le detenute ricevono visite dai familiari, dagli avvocati. A volte anche da personaggi influenti dalle motivazioni non sempre comprensibili, che mettono in moto meccanismi poco chiari e a volte nocivi, per cui qualcuna di loro finisce per perdere i propri privilegi, se non di più. Non le dico quante volte i sedicenti sostenitori dei diritti civili decidono di rimediare a presunte ingiustizie causando più danni che altro. Mettono in pericolo le persone, non si fanno scrupoli. Dovrebbe chiedersi, dottoressa, come mai certa gente si muove da New York per venire qui a sollevare dei gran polveroni.» Mi alzo dalla sedia rigida e dura, fatta a mano dalle detenute del carcere su richiesta della direttrice, e vedo dalla finestra alcune donne in divisa da carcerate che trafficano nelle aiuole, tagliano l’erba, sistemano le siepi e portano a passeggio dei levrieri. Il cielo è plumbeo. Chiedo a Tara Grimm a chi si riferisca. Chi è venuto qui da New York per sollevare polveroni? «Jaime Berger. Vi conoscete, mi pare.» Si sposta verso il centro della stanza. Non sentivo nominare Jaime Berger da mesi e provo un senso di doloroso disagio. «Sta svolgendo indagini di cui non conosco bene i particolari. Come è giusto che sia» dichiara. Jaime Berger è un sostituto procuratore di Manhattan e si occupa di reati a sfondo sessuale. «Ha idee grandiose e non vuole che trapeli nulla. Per questo non l’ho accennato al suo avvocato, dottoressa. Ma ho pensato che forse lei sa di cosa si sta occupando Jaime Berger e cosa c’entra il GPFW.» «Non so quali indagini stia svolgendo Jaime Berger. Non ne ho la più pallida idea.» Sto attenta a non manifestare quello che provo.
«Sembra sincera, dottoressa» osserva Tara Grimm in tono di sfida, con una luce risentita negli occhi. «Ho la sensazione che sia rimasta stupita nel sentire quello che le ho appena detto. Meno male. Mi sarebbe dispiaciuto che lei fosse venuta qui con un secondo fine, che mi avesse raccontato di voler parlare con Kathleen Lawler quando invece voleva indagare su un’altra detenuta. Mi sarebbe dispiaciuto se lei fosse venuta qui per aiutare Jaime Berger.» «Non ho nulla a che fare con il lavoro che sta svolgendo Jaime Berger.» «Forse invece sì. Ma non consapevolmente.» «Non vedo come la mia visita a Kathleen Lawler possa essere d’aiuto a Jaime Berger.» «Sono certa che lei sa che Lola Daggette fa parte della nostra squadra» dice Tara Grimm. Mi sembra uno strano modo per dire che Lola è reclusa al GPFW. Sembra che stia parlando di uno dei cani da corsa affidati alle detenute, di un’esperta di rodei o di una pianta del vivaio poco lontano, invece che di un’efferata assassina. «Uccise il dottor Clarence Jordan e la sua famiglia il 6 gennaio 2002, qui a Savannah» spiega. «Entrò di soppiatto in casa nel cuore della notte, ma non a scopo di rapina. Pare abbia ucciso per il mero gusto di uccidere. Li prese a botte e a coltellate mentre erano a letto. Tutti tranne la bambina, una dei gemelli, che fu inseguita giù per le scale e arrivò fin quasi alla porta di casa prima di stramazzare a terra senza vita.» Ricordo di averne sentito parlare dal direttore dell’Istituto di medicina legale di Savannah, Colin Dengate, all’assemblea annuale dell’Associazione nazionale di medicina legale a Los Angeles, qualche anno fa. La dinamica degli omicidi non era chiara e non si capiva come avesse fatto l’assassina a introdursi in casa. Se non sbaglio, Colin raccontò anche che si era preparata un sandwich in cucina, aveva bevuto una birra e usato il bagno senza tirare lo sciacquone. All’epoca ebbi l’impressione che l’analisi dei reperti raccolti sulla scena del crimine avesse però generato più interrogativi che risposte, perché alcuni indizi parevano in contrasto con altri. «Lola Daggette venne sorpresa mentre lavava alcuni indumenti insanguinati e inanellò una serie di bugie» mi spiega Tara Grimm. «Tossicodipendente, aveva problemi nella gestione della collera e una lunga storia di abusi e guai con la giustizia.» «Se non ricordo male, fu presa in considerazione l’ipotesi che gli assassini fossero più di uno» dico. «Io credo che sia stata fatta giustizia su questa terra, dottoressa. Il prossimo autunno Lola Daggette se la vedrà con Dio.» «Non si riuscirono a identificare alcuni campioni di DNA, o forse alcune impronte digitali.» Piano piano mi tornano in mente i particolari. «Per questo si sospettò che ci fosse più di un colpevole.»
«La teoria difensiva fu questa, sì. Fu l’unica che gli avvocati riuscirono a escogitare per spiegare la presenza del sangue delle vittime sugli indumenti. Il solo modo per dire che Lola non c’entrava era inventarsi un complice.» Tara Grimm mi accompagna in corridoio. «Sarei molto turbata se Lola tornasse in libertà. Ma non è escluso che succeda, nonostante anche in appello sia stata dichiarata colpevole. Sembra che siano stati ordinati nuovi esami sul materiale repertato sulla scena del crimine. Sul DNA, mi pare.» «Se così è, il tribunale deve aver avuto fondate ragioni per richiederli.» Sposto gli occhi verso le guardie che chiacchierano in fondo al corridoio. «Non credo proprio che il Georgia Bureau of Investigation, la polizia, la procura o la corte permetterebbero il riesame del materiale probatorio senza un motivo legittimo.» «Non possiamo escludere un ribaltamento della sentenza. E che altre detenute escano prima del tempo per buona condotta. Potrei trovarmi molte celle vuote.» Tara Grimm ha lo sguardo duro, pieno di rabbia. «Jaime Berger non è una che fa scarcerare la gente» ribatto. «Il suo mestiere è un altro.» «Non più. Le sue visite al GPFW non sono certo di piacere.» «Quando è venuta? Quanto tempo fa?» «A quanto mi risulta, ha preso casa qui a Savannah. Non lo so per certo, però.» Me lo dice come se fosse un pettegolezzo, ma ho il sospetto che sappia più di quel che lascia intendere. Se Jaime è venuta al GPFW per parlare con una detenuta nel braccio della morte, deve aver fatto la stessa trafila che ho fatto io. Deve aver parlato prima con la direttrice. “Le sue visite” ha detto Tara Grimm. Vuol dire che Jaime è venuta più di una volta. Perché avrebbe dovuto prendere casa a Savannah? Mi sembra impossibile, se penso alla Jaime Berger che ho conosciuto io. «Prima Jaime Berger, adesso lei» mormora la direttrice. «Non mi sembra una che creda alle coincidenze, dottoressa. Informo le guardie che intende regalare a Kathleen quella foto.» Torna nel suo ufficio e io percorro il lungo corridoio azzurrino per tornare alla guardiola, dove un uomo in divisa grigia e berretto da baseball mi chiede di depositare tutto quello che ho in tasca dentro un cestino di plastica. Ci metto la patente e le chiavi del furgone e gli spiego che la direttrice mi ha autorizzato a portare la fotografia a Kathleen Lawler. Mi risponde che sì, ne è al corrente, e mi controlla con un metal detector, verifica che non abbia armi nascoste e mi consegna un cartellino rosso da appuntare sui vestiti, da cui risulta che sono la visitatrice numero settantuno. Poi mi mette un timbro sulla mano destra, con un codice segreto visibile soltanto ai raggi ultravioletti, che controlleranno quando uscirò dalla struttura.
«Per entrare non ci sono problemi, ma senza questo timbro di qui non esce nessuno» mi informa la guardia. Non capisco se fa lo spiritoso, se vuole essere cordiale o cosa. Si chiama M.P. Macon, o almeno questo è il nome sulla sua targhetta. Prende la radio e dice al controllo centrale di aprire. Sento un ronzio elettronico e la pesante porta metallica verde si apre per poi richiudersi subito alle nostre spalle. Se ne apre una seconda e un cartello rosso mi avverte che sto entrando in un luogo dove non sono ammessi dipendenti che abbiano rapporti di parentela con i detenuti. Il pavimento di piastrelle è stato pulito da poco: sento la cera ancora appiccicosa sotto le scarpe. Macon mi accompagna lungo un corridoio grigio su cui si affacciano porte di metallo chiuse a chiave. A ogni incrocio ci sono specchi convessi di sicurezza. Macon è grande e grosso, ha l’espressione vigile e si guarda continuamente intorno mentre arriviamo a una porta che viene aperta a distanza. Usciamo in cortile. Fa molto caldo e le nuvole corrono nel cielo come se volessero fuggire da chissà quale pericolo incombente. Vedo un lampo in lontananza, poi sento tuonare. Cominciano a cadere goccioloni grossi come monete che picchiettano sull’asfalto. Sento odore di ozono e di erba appena tagliata. Camminiamo veloci, ma la pioggia mi inzuppa la camicetta di cotone leggero. «Non credevo si sarebbe messo a piovere così presto» dice Macon, guardando il cielo scuro, che sembra volersi aprire sopra di noi. «Di questa stagione, ogni giorno c’è un temporale. Al mattino è limpido, bellissimo; poi, fra le quattro e le cinque, viene giù come Dio la manda. Rinfresca l’aria, almeno. Stasera vedrà che si starà bene. È così, in questa stagione. In luglio e agosto, invece, non si respira.» «Ho abitato a Charleston per un po’.» «Be’, allora lo sa. Potessi prendermi tutta l’estate di ferie, me ne andrei dalle sue parti. Ci saranno una decina di gradi di differenza fra qui e Boston» aggiunge. Non mi va che sappia da dove vengo. Non è difficile da scoprire, però: basta fare una piccola ricerca per vedere che lavoro a Cambridge e l’aeroporto più vicino a Cambridge è il Logan, a Boston. Macon apre un cancello e mi fa strada lungo un vialetto costeggiato da un’alta recinzione protetta da filo spinato. La costruzione che ospita il reparto di massima sicurezza è identica alle altre, almeno esternamente. Appena entrata, però, vengo colta da un opprimente senso di disperazione che pare emanare dai muri di cemento e dalle porte di acciaio. Al primo piano, proprio di fronte all’entrata, c’è la sala di controllo, protetta da uno specchio unidirezionale. Ci sono anche una lavanderia, una cucina, un distributore del ghiaccio e una cassetta per i reclami. Mi chiedo se davvero Jaime Berger è venuta qui al Blocco B e di cosa può aver parlato con Lola Daggette. Chissà se ha a che fare con il trasferimento di Kathleen Lawler. Mi chiedo se c’entro qualcosa anch’io. Non credo che Jaime sia venuta qui apposta per mettere qual-
cuno in difficoltà. Mi sembra impossibile che abbia messo in giro lei le voci riguardo ai trascorsi di Kathleen Lawler per scatenarle contro l’ostilità delle altre detenute. Jaime è una donna in gamba, intelligente e cauta. Fin troppo cauta, a volte. Lo era, per lo meno: non la vedo da sei mesi e non so se è cambiata, se le è successo qualcosa. Mia nipote Lucy non parla mai di lei, di cosa è accaduto fra loro, e io non faccio domande. Macon apre la porta di acciaio di una stanzetta con un tavolo di Formica e due seggiole di plastica azzurre. A lato della porta ci sono due grandi finestre. «Aspetti qui. Vado a prendere la signora Lawler» dice. «La avverto, quando inizia a parlare non la finisce più.» «Sono una buona ascoltatrice.» «Le detenute sono sempre contente quando trovano qualcuno che le sta a sentire.» «La signora Lawler riceve spesso visite?» «Vorrebbe avere un pubblico ventiquattr’ore su ventiquattro. E non è l’unica.» Non risponde alla mia domanda. «Su quale sedia mi devo sedere?» «Quella che vuole lei.» In genere nelle sale adibite ai colloqui c’è una telecamera nascosta, montata diagonalmente di fronte alla persona da riprendere, che nel caso specifico sarebbe Kathleen Lawler, non io. Sono abbastanza certa che qui non ci sono telecamere. Mi siedo e guardo se ne vedo, o se individuo qualche microfono. Controllo il soffitto, direttamente sopra il tavolo, noto uno spruzzatore di metallo e un buchino con un anello bianco intorno. Il primo fa parte dell’impianto antincendio, il secondo no: il mio colloquio con Kathleen Lawler verrà registrato. Tara Grimm e forse anche altre persone sentiranno tutto ciò che ci diremo. 010_chapter4
4 Da quando è stata trasferita nel reparto di massima sicurezza, Kathleen Lawler sta rinchiusa ventitré ore al giorno in una cella piccolissima con una finestrella protetta da rete metallica che si affaccia su un fazzoletto di prato e recinzioni di acciaio. Non vede più le panche e i tavoli da picnic di cemento né le aiuole fiorite che mi ha descritto nelle sue e-mail e scorge solo di rado un’altra detenuta o un cane. Durante l’unica ora d’aria che le è concessa ogni giorno cammina in un’area protetta da sbarre, percorrendo “noiosissimi quadrati perfetti” sotto lo sguardo attento di un sorvegliante seduto su una sedia accanto a un frigorifero giallo. Se ha sete, lui le passa un bicchiere di plastica da dietro le sbarre. Kathleen Lawler non sa più che cosa sia essere toccati, accarezzati, abbracciati, mi dice con espressione teatralmente disperata, come se fosse qui nel Blocco B da una vita e non da due settimane soltanto. È come essere nel braccio della morte, sostiene. Non ha più accesso alla posta elettronica e non può comunicare con le altre detenute, se non gridando da una cella all’altra o tramite bigliettini fatti passare di nascosto sotto la porta, impresa tutt’altro che facile. Le è concesso scrivere solo un numero limitato di lettere al giorno, ma non ha soldi per i francobolli ed è grata a chi, come me, “nonostante gli impegni, trova un attimo da dedicare a quelli come lei”. Lo ripete più volte. Quando non legge o scrive, guarda la televisione. Ha un apparecchio da tredici pollici, di plastica trasparente, montato con viti di sicurezza, senza altoparlanti incorporati. Il segnale è debolissimo e la ricezione è pessima. Colpa di “tutte le interferenze elettromagnetiche che ci sono nel Blocco B”, sostiene Kathleen. «Mi spiano» accusa. «I secondini mi guardano quando mi spoglio. Sono rinchiusa qua dentro, chi può testimoniare? Devo tornare dov’ero prima.» Le sono concesse solo tre docce alla settimana e non potersi lavare abbastanza la infastidisce molto. Non sa quando potrà farsi sistemare i capelli e le unghie, a parte il fatto che le detenute che lavorano al centro estetico sono delle incapaci. E per dimostrarmelo si indica i capelli, che sono corti, ossigenati e rovinati. Si lamenta del fatto che in prigione è imbruttita. «Lo fanno apposta: ti rovinano. Così ti hanno in pugno per sempre» dice. Mi spiega che lo specchio di acciaio sopra il lavabo di metallo le ricorda costantemente la punizione che le è stata inflitta per aver infranto la legge, come se la sua vittima fosse la legge e non le persone che ha ucciso o a cui ha fatto del male. «Cerco di tirarmi su, mi creda. Mi dico che non è un vero specchio» mi confida, seduta dall’altra parte del tavolo di Formica bianco. «Tutto quello in cui ci si specchia qui dentro distorce le immagini, ha notato? Sono distorte anche le immagini in televisione. Quindi quella che vedo riflessa non sono io, ma un’immagine distorta di me. Io non sono così.»
Si aspetta che io le dica che è ancora una bella donna, che davvero gli specchi di acciaio distorcono le immagini. Invece mi limito a risponderle che dev’essere dura, che anch’io, nella sua situazione, avrei le stesse difficoltà che ha lei. Mi mancherebbe la possibilità di respirare aria pura, di vedere il tramonto, il mare. Sentirei la mancanza della vasca da bagno e del parrucchiere. Esprimo solidarietà anche sulla dieta, perché per me il cibo non è solo necessario per vivere, ma è un rito, una ricompensa, un modo per calmare i nervi e sollevare il morale. E poi mi piace parlare di cibo. Mentre Kathleen Lawler continua a lamentarsi e a incolpare gli altri per la vita dura che conduce, penso a cosa mangerò stasera. Decido che non cenerò in camera, in albergo. Non ne ho proprio voglia, dopo una giornata passata a bordo di un furgone puzzolente e poi rinchiusa in una prigione con un timbro invisibile sulla mano. Farò un salto in hotel, nel centro storico di Savannah, poi uscirò a passeggiare sul lungofiume alla ricerca di un ristorante cajun o greco. Anzi, no: italiano. Sì, ho voglia di cucina italiana. Berrò qualche bicchiere di vino rosso, corposo, magari un brunello di Montalcino o un barbaresco, e leggerò le ultime notizie e le mie e-mail sull’iPad, in maniera da scoraggiare chiunque dall’attaccare discorso. Quando viaggio e mangio da sola al ristorante, capita che qualche uomo cerchi di rimorchiarmi. Stasera però mi siederò vicino a una finestra e manderò un SMS a Benton, sorseggiando vino rosso. Gli dirò che aveva ragione lui, che c’è qualcosa che non va. Qualcuno ha cercato di fregarmi, di strumentalizzarmi. Lo ammetterò senza problemi: non ho più voglia di litigare con Benton. «Si immagina cosa vuol dire non sapere più come sei fatta, che aspetto hai?» sta dicendo la donna seduta di fronte a me in catene. Imbruttire è la cosa che le dispiace maggiormente. La addolora molto di più rispetto alla morte di Jack Fielding e del ragazzo che ha investito mentre era sotto l’effetto di sostanze stupefacenti. «Avrei potuto sfondare. Davvero» mi dice. «Sarei potuta diventare un’attrice, una modella, una poetessa famosa. Ho pure una bella voce, modestamente. Sarei potuta diventare come Kelly Clarkson, comporre le mie canzoni da sola. Certo, ai miei tempi American Idol non c’era e assomigliavo di più a una Katy Perry in versione bionda. Poetessa potrei ancora diventarlo, probabilmente. Ma è più facile avere successo se sei bella, e io lo ero. Un tempo facevo voltare gli uomini per strada, sa? Rimanevano a bocca aperta. Allora avrei potuto fare qualsiasi cosa.» Kathleen Lawler è molto pallida perché non vede il sole da anni e, pur non essendo grassa, è sformata e poco tonica. La sedentarietà a cui è costretta l’ha rovinata. Ha il seno cadente e le cosce che sbordano dalla sedia. Il suo fisico, che una volta faceva girare gli uomini per strada, dentro la divisa carceraria bianca delle detenute in isolamento è privo di qualsiasi fascino. Non sembra più neanche un essere umano: è come se fosse regredita a uno stadio primitivo e si fosse trasformata lentamente in una turbellaria, un essere vermi-
forme. Me lo dice con aria sardonica e la cadenza strascicata della Georgia. «Penserà che esagero, vedendomi adesso» continua, e io penso alle foto del suo arresto nel 1978, quando fu sorpresa a fare sesso con Jack, minorenne. «Quando l’ho conosciuto, però, al ranch di Atlanta... be’, ero uno schianto» mi spiega. «Lo dico perché è vero, sa? Capelli biondi, lunghi, seno prorompente, un culetto che sembrava una pesca e gambe lunghe, affusolate. Avevo anche dei begli occhi e Jack diceva che avevo lo sguardo da tigre. È strano come certe cose si trasmettano, come se fossimo programmati nel grembo materno o addirittura al concepimento. Non si sfugge. La roulette gira, poi si ferma, esce il tuo numero e così sei, indipendentemente da quanti sforzi fai o non fai. Siamo quello che siamo, siamo quello che non siamo, e le cose che ci capitano e le persone che incontriamo non fanno che accentuare l’angelo o il demone, il vincitore o il vinto che è in noi. È tutto lì, in quella ruota che gira: certi diventano campioni e certi vengono violentati. È tutto già deciso, possiamo tranquillamente scordarci di cambiare le cose. Lei è una scienziata, no? Non ha bisogno che le spieghi io la genetica. Lo sa già, che la natura non si può cambiare.» «Anche le esperienze che uno fa sono importanti» ribatto. «Con i cani si vede benissimo» continua lei imperterrita, perché non gliene frega niente di come la penso io. «Prenda un levriero che è stato maltrattato: reagisce in un certo modo, ha la sua sensibilità, ma non è né un bravo cane né un cattivo cane. O è nato per vincere, oppure no. O si lascia addestrare oppure no. Io posso cercare di tirare fuori il meglio di lui, fare in modo che si esprima e dargli una forma, ma non posso trasformare un cane in qualcosa che non è.» Finisce affermando che lei e Jack erano uguali e che gli ha fatto esattamente quello che era stato fatto a lei, anche se all’epoca non ne era consapevole. Nonostante fosse una terapeuta, non se ne poteva rendere conto. Era stata molestata dal pastore metodista del quartiere quando aveva dieci anni. O per lo meno così dice. «Mi portò a prendere il gelato, ma alla fine mi ritrovai a leccare qualcos’altro» mi racconta, cruda. «Mi innamorai follemente. Mi faceva sentire importante, mi emozionava tantissimo. Anche se in seguito, con il senno di poi, ho capito che la mia più che emozione era eccitazione.» Mi spiega nei dettagli i loro rapporti erotici. «Provavo vergogna, paura, ma non lo volevo ammettere. Adesso me ne rendo conto. Non legavo con i bambini della mia età, stavo sempre da sola.» Ha le mani libere in grembo, e le muove nervosamente. Ha le catene solo alle caviglie, che tintinnano e grattano contro il cemento ogni volta che sposta i piedi. Non sta ferma un momento. «Del senno di poi son piene le fosse, come si dice» continua. «Io all’epoca non potevo dire a nessuno la verità: i motel, le telefonate dalle cabine, le bugie, tutti i vari sotterfugi che
non si dovrebbero scoprire da bambini. Non potevo più essere una bambina. Quell’uomo mi tolse la spensieratezza. Andò avanti finché non compii dodici anni e gli offrirono una parrocchia più grande in Arkansas. Quando cominciò la storia con Jack, senza rendermene conto io feci a lui quello che era stato fatto a me, perché era nella mia natura farlo e nella sua accettarlo. Anzi, volerlo. Perché Jack era consenziente, oh, se lo era... Ma adesso è tutto chiaro. Adesso vedo le cose in maniera diversa. Mi ci è voluta una vita per capire che non andiamo all’inferno, ma ce lo costruiamo da soli su fondamenta già predisposte per noi. Ci costruiamo il nostro inferno come se fosse un centro commerciale.» Non mi ha detto come si chiamava il pastore che l’ha violentata da piccola, ma mi ha raccontato che era sposato con sette figli e che doveva soddisfare i bisogni che Dio gli aveva dato. La considerava una figlia spirituale, un’anima affine. Era buono e giusto che fossero uniti in un sacro vincolo e l’avrebbe anche sposata, perché la amava, ma il divorzio è peccato. Kathleen mi spiega tutto questo con voce spenta, scoraggiata. Il pastore non poteva abbandonare i suoi figli: sarebbe andato contro gli insegnamenti di Dio. «Tutte cazzate» commenta, astiosa. Ha ancora lo sguardo da tigre e il volto un tempo bellissimo adesso è tirato e flaccido. Intorno alla bocca una volta voluttuosa adesso c’è una sottile ragnatela di rughe. Le mancano diversi denti. «Naturalmente erano tutte cazzate di prima categoria e quando io cominciai a radermi il pube e a non farmi vedere quando ero mestruata probabilmente lui si trovò un’altra bambina. Possedevo bellezza, intelligenza e talento, eppure non sono arrivata da nessuna parte» dichiara con enfasi, come se fosse fondamentale farmi capire che la donna rovinata di fronte a me non è la vera Kathleen Lawler, e che un tempo era tutto l’opposto. Vuole che la immagini giovane e bella, brillante e spregiudicata. Vuole che pensi che quando sedusse il dodicenne Jack Fielding in una comunità per minori problematici era in perfetta buona fede. Ma io vedo solo una donna distrutta da abusi che hanno portato ad altri abusi e poi ad altri abusi ancora. Se la storia del pastore è vera, quell’uomo l’ha rovinata come lei ha rovinato Jack, in una catena di distruzione che non è ancora finita, che probabilmente non finirà mai. Comincia tutto così, e poi continua, in un’escalation senza fine, rovinando vite su vite. In questo modo si costruisce l’inferno, invitante come il motel dalle luci accese che Kathleen descrive nella sua poesia definendolo “accogliente”. «Mi sono sempre chiesta se la mia vita sarebbe stata diversa se certe cose non fossero successe» riflette, scoraggiata e piena di risentimento. «Forse invece sarei qui comunque. Forse Dio ha deciso questo destino per me, quando ero ancora nella pancia di mia madre. “Questa perderà tutto. Qualcuno che perde ci dev’essere: tanto vale che sia lei.” Capisce cosa voglio dire? Ma certo che capisce: chissà quanti ne vede all’obitorio.»
«Non credo nel destino» ribatto. «Buon per lei, se crede nella speranza.» È acida. «Sì, io credo nella speranza.» “Ma non per te.” Tiro fuori dalla tasca la busta bianca e la poso sul tavolo, spingendola verso di lei. Kathleen Lawler la prende in mano. Ha la pelle quasi trasparente, segnata da vene azzurrine, e le unghie corte e rosee, senza smalto. Quando china la testa per guardare la foto, vedo la ricrescita grigia dei suoi capelli ossigenati. «Questa gliel’hanno scattata in Florida, immagino» commenta, come se le foto fossero più di una. «Quella sullo sfondo è una gardenia, mi pare, quella che si vede dietro lo spruzzo della manichetta che lui tiene in mano. Ma... aspetti un attimo, accidenti.» Strizza gli occhi per guardare meglio. «Qui è più vecchio. La foto è più recente. E quei fiorellini bianchi sono ulmaria. Ce n’è un sacco, da queste parti. La vede praticamente in tutti i giardini. Qui a Savannah, dico. Non in Florida.» Dopo un momento chiede, con voce tesa: «Chi gliel’ha fatta? Lo sa?». «No. Non so né chi gliel’ha scattata né dove.» «Be’, lo vorrei sapere.» Cambia faccia. «Se era qui a Savannah o nei dintorni, e mi sembra proprio che sia così, vuol dire che lei me l’ha portata apposta per farmi arrabbiare.» «Non ho idea di chi gliel’abbia scattata né dove. Non volevo farla arrabbiare» le dico. «Ne ho fatto fare una copia perché pensavo che le facesse piacere averla.» «Forse era proprio qui. Jack è venuto qui in macchina e io non lo sapevo.» È arrabbiata, addolorata. «I primi tempi glielo dicevo, che Savannah gli sarebbe piaciuta tantissimo. Ci si vive bene. Gli consigliai di entrare in Marina e di farsi mandare alla base che stavano costruendo a Kings Bay. A Jack piaceva viaggiare, lei lo sa. Sarebbe stato contento di girare il mondo su una nave, di imparare a pilotare gli aerei e diventare un novello Lindbergh. Doveva entrare in Marina, andare per mare in tutti i paesi del mondo, oppure volare in aeroplano. Non diventare un dottore dei morti. Mi chiedo chi sia stato a convincerlo a fare quel mestiere.» Mi fulmina con lo sguardo. «Mi chiedo chi gli abbia fatto quella foto e perché io non sapevo che fosse stato qui» esclama con livore. «Non so cosa pensasse di ottenere dicendomi questo, dottoressa. Facendomi credere che Jack è venuto qui senza dirmi niente e non ha neanche cercato di vedermi. Anzi, lo so.» Mi domando dove fosse Dawn Kincaid cinque anni fa, quando è stata scattata questa foto, e con che frequenza venisse a Savannah a trovare sua madre. Forse una volta Jack è venuto a trovare Dawn ma non Kathleen. Adesso che ho davanti questa donna, di cui ho sentito tanto parlare ma che non avevo mai visto di persona prima d’ora, dubito che Jack sia venuto
qui con la sua Mustang per vederla. Dubito che l’abbia vista qui o altrove negli ultimi cinque anni, o forse anche dieci. Non riesco a credere che abbia continuato ad amarla, a frequentarla. È una donna totalmente priva di empatia, spietata e senza il minimo rimorso. Inoltre, decenni di abuso di sostanze, di abitudini distruttive e di carcere le hanno tolto fascino e bellezza. Penso sia imbruttita già da parecchio tempo e il mio vice era un uomo che alla bellezza teneva molto. «Non so dove sia stata scattata questa foto. Non conosco i particolari» ribadisco. «Era nell’ufficio di Jack e ho pensato che le facesse piacere averne una copia. Non ero al corrente di tutto quello che faceva Jack: abbiamo lavorato insieme per più di vent’anni, ma saltuariamente.» Le do l’opportunità di parlarmi di lui. «Jack, Jack, Jack» mormora lei. Poi sospira. «Non facevi altro che trasferirti da un posto all’altro. Oggi qui, domani là. Io, invece, sempre qua, in questo buco. Ho passato la vita in carcere per amor tuo, Jack.» Guarda la foto, poi guarda me e nei suoi occhi leggo più rabbia che tristezza. «Non riesco a stare fuori più di tanto» dice, come se oggi fossi venuta qui per sapere tutto di lei. «Sono come i tossici: non riesco a smettere. Solo che per me non è un problema di droga: io non riesco a smettere di perdere. Non riesco a concedermi la chance di vincere, per una volta nella vita. Ne avrei tutte le capacità, ma non è destino e così perdo sempre. È questo che intendevo quando le parlavo di genetica. Ce l’ho scritto nel DNA: Dio ha deciso che dovevo far parte dei vinti. Io e tutti quelli che verranno dopo di me. Io ho fatto a Jack quello che era stato fatto a me, ma lui non mi ha mai dato la colpa di niente. Adesso è morto e anch’io posso morire, perché le cose importanti nella vita sono imprevedibili. Siamo vittime tutti e due, forse dell’Onnipotente.» Dopo un attimo, riprende: «E Dawn? Be’, io l’ho capito subito che Dawn aveva qualcosa che non andava. Non aveva chance. È nata prematura, piccolissima, attaccata a tubi e tubetti in un’incubatrice. Me l’hanno detto, perché io non l’ho mai vista. Non l’ho nemmeno mai tenuta in braccio. Come fa un esserino così minuscolo a imparare ad amare, se passa i primi due mesi della sua vita chiusa in un acquario, lontana dalla mamma? Poi una serie infinita di affidi, perché non andava mai d’accordo con nessuno e, per finire, la famiglia con cui stava in California è precipitata in un burrone con la macchina. Morti tutti. Una tragedia. Per fortuna Dawn era già alla Stanford. Dopo è andata ad Harvard. Ed è stata la sua fine...» Dawn Kincaid ha studiato a Berkeley, non alla Stanford. E dopo è andata all’MIT, non ad Harvard. Ma non la correggo. «Anche lei, come me, aveva tutti i numeri per farcela, invece niente. La sua vita è finita prima ancora di cominciare» dice Kathleen. «Indipendentemente da come andrà il processo, la gente la ricorderà per quello di cui è stata accusata. Ormai è fritta. Se sei sospettato di aver
commesso un crimine, dopo non ti puoi più occupare di progetti segretissimi, come faceva lei.» Dawn Kincaid non è sospettata solo di aver “commesso un crimine”; è stata rinviata a giudizio per una serie di reati gravissimi, fra cui omicidio di primo grado e tentato omicidio. Evito di puntualizzare. «Per non parlare del fatto che ha perso una mano...» Kathleen Lawler alza la mano destra e mi fulmina con lo sguardo. «Con il tipo di tecnologia di cui si occupava lei, dove usi nanostrumenti e compagnia bella? Ha perso un dito e l’uso della mano; è rimasta invalida, ha ricevuto la sua punizione. Immagino che lei, dottoressa, si senta malissimo al pensiero di aver mutilato una persona.» Dawn non ha perso un dito e tanto meno l’uso di una mano. Ha perso un polpastrello e ha subito lesioni ai tendini, ma il suo chirurgo ritiene che recupererà completamente l’uso della mano destra. Cerco di non pensare al buco nero nel mio garage dove avrebbe dovuto esserci la finestra e al vento freddo che lasciava entrare. Ho sentito una corrente gelida e poi un colpo fortissimo fra le scapole. Ho perso l’equilibrio, ho cercato di difendermi agitando la torcia di metallo che avevo in mano e l’ho sentita sbattere contro qualcosa di duro, provocando un rumore secco. Poi si sono accese le luci del garage e ho visto Benton che puntava la pistola contro una ragazza con un cappotto nero, lunga distesa per terra. Ho visto il sangue e il polpastrello reciso, con la french manicure. Accanto c’era il coltello che Dawn Kincaid aveva cercato di piantarmi nella schiena, con la sottilissima lama di acciaio insanguinata. Ero tutta sporca di sangue, ne sentivo l’odore e persino il sapore. Era come se fossi passata attraverso una nuvola di sangue. Mi è venuto in mente quello che raccontavano i soldati sopravvissuti allo scoppio di uno IED in Afghanistan: avevano l’impressione che il compagno che fino a un istante prima avevano accanto fosse scomparso in una nuvola rossastra. Dawn Kincaid ha perso la presa sul suo coltello WASP quando questo già emetteva gas compresso a cinquanta atmosfere e il suo sangue mi è arrivato addosso come se fosse stato nebulizzato con un aerografo. Me lo sento ancora dentro, quasi si fosse insinuato in posti da cui non riuscir mai a toglierlo. Non correggo Kathleen Lawler, non le dico niente, perché ho capito che mi sta provocando, che mente e cerca di manipolarmi. Ripenso a quello che mi ha detto Tara Grimm. Mi ha avvertito che Kathleen avrebbe preso le distanze da sua figlia, ma che in realtà lei e Dawn comunicano parecchio. «È molto informata» dico. «È in contatto con Dawn, immagino.» «Assolutamente no. Non ci penso neanche» risponde Kathleen scuotendo la testa. «Non mi conviene, tenuto conto dei guai in cui si è cacciata. Ne ho già abbastanza per conto mio, glielo assicuro. So solo quello che ho letto o sentito. Possiamo accedere a Internet, nel laboratorio informatico, e in biblioteca ci sono riviste e giornali. Prima che mi trasferissero qui, la-
voravo in biblioteca.» «È un bel posto, per lei.» «La direttrice pensa che le persone non si riabilitino togliendo loro l’accesso all’informazione, facendole vivere in un vuoto pneumatico» dichiara. Forse sa che Tara Grimm ci sta ascoltando. «Se non sappiamo cosa succede nel mondo, come facciamo poi a reinserirci? Certo, qui dentro non riabilitano nessuno.» Indica il Blocco B. «Questo è un deposito, un cimitero, un posto dove la gente è lasciata a marcire.» Adesso non le interessa più se qualcuno ci ascolta. «Cosa vuole da me, dottoressa? Non sarebbe venuta a trovarmi se non volesse qualcosa. E non importa chi ha chiesto il colloquio. Gli avvocati, si sa...» Mi guarda. Sembra una vipera che sta per mordere. «Non credo proprio che la sua sia una visita di cortesia.» «Mi chiedevo quando ha visto sua figlia la prima volta» replico. «È nata il 18 aprile 1979 e l’ho conosciuta quando aveva appena compiuto ventitré anni.» Comincia a recitare un copione che deve essersi preparata in anticipo. È più fredda: le interessa meno essere cordiale. «Fu poco dopo l’attentato alle Torri gemelle, nel gennaio del 2002. Mi disse che uno dei motivi per cui aveva voluto ritrovarmi era proprio l’11 settembre, insieme con la morte della sua ultima famiglia affidataria, in California, dove era approdata dopo essere stata sballottata per anni come un pacco postale. La vita è breve, diceva continuamente, la prima volta che ci siamo viste. Sosteneva di essersi sempre chiesta chi fossi, che faccia avessi. Non avrebbe avuto pace se non avesse ritrovato la sua vera madre» continua Kathleen. «Così cominciò a cercarmi. Ero qui al GPFW, ma non per la condanna che sto scontando adesso. Allora era per una questione di droga. Ero uscita, poi ero tornata dentro e stavo malissimo, perché non era giusto. Ero disperata. Se non hai i soldi per pagarti un bravo avvocato e non hai commesso reati che facciano scalpore, se ne fregano tutti. Ti chiudono in un magazzino, ecco cosa fanno. Insomma, sono finita di nuovo dentro e un giorno, così all’improvviso, mi arriva una richiesta da parte di una certa Dawn Kincaid. Si immagina quanto sono rimasta sorpresa? Veniva apposta dalla California!» «Sapeva che la figlia che aveva dato in adozione si chiamava così?» Non sto più eccessivamente attenta a quello che le chiedo. «Ma no! Davo per scontato che chi adotta un bambino gli dà il nome che vuole. Immagino che i primi a prendere Dawn si chiamassero Kincaid.» «Le ha dato lei il nome Dawn? O sono stati loro?» «Io no di certo! Le ho già detto che non la presi neanche in braccio. Manco la vidi. Ero qui quando entrai in travaglio prima del tempo. Qui al GPFW, nella mia cella. Mi portarono all’ospedale a Savannah e, una volta finito, mi riportarono in cella come se niente fosse successo. Non è che mi hanno tenuta informata sul suo destino.»
«Non fu una scelta sua quella di darla in adozione?» «Che alternative avevo?» esclama. «Se sei rinchiuso come un animale non puoi fare altro che darli via, i tuoi figli! Si rende conto della situazione?» Mi guarda malissimo e io taccio. «Concepiti nel peccato. E si sa che le colpe dei genitori ricadono sui figli» dice, sarcastica. «Mi chiedo chi voglia figli, in una situazione del genere. Cosa dovevo fare? Darli a Jack?» «Darli?» Per un attimo mi guarda sbalordita, come se stesse per piangere, poi dice: «Aveva dodici anni! Poteva forse prendersi cura di Dawn, o di me, o di chiunque altro? Non poteva nemmeno legalmente. È un’ingiustizia. Saremmo stati bene insieme, io e lui. Sa quante volte ho pensato a quella creatura che avevamo messo al mondo insieme? Ma davo per scontato che nessuno avrebbe mai voluto una madre come me. Perciò si immagini la mia reazione quando ventitré anni dopo mi arriva la richiesta di visita da parte di questa Dawn Kincaid. All’inizio non ci credevo, pensavo che fosse uno scherzo, o che questa signorina stesse facendo una ricerca per qualche università, volesse scrivere un libro. Ho pensato: “Come farò a capire se è veramente mia figlia?”. Ma mi è bastata un’occhiata, sa? Assomigliava così tanto a Jack, almeno come me lo ricordavo io. È stato stranissimo, come se Jack fosse tornato da me in versione femminile. Una specie di apparizione...» «Ha detto che Dawn a un certo punto decise di ritrovare la sua madre biologica. E suo padre?» domando. «Quando incontrò lei, Dawn sapeva già di Jack?» È un particolare su cui nessuno è ancora riuscito a fare luce, neppure Benton e i suoi colleghi dell’FBI, né la Sicurezza interna e i dipartimenti di polizia coinvolti nelle indagini. È accertato soltanto che Dawn Kincaid ha vissuto per alcuni mesi nella vecchia casa sul mare che il mio vice stava ristrutturando a Salem. Sappiamo che Jack e Dawn erano in contatto da anni, ma non sappiamo da quanti. Ignoriamo come siano venuti in contatto, per quale motivo e quanto profondo fosse il loro legame. Ho cercato di fare mente locale e di ricordare se ai tempi di Richmond Jack mi abbia mai detto qualcosa a proposito di una figlia illegittima o della donna con cui l’aveva concepita. Sapevo che era stato molestato nel centro in cui aveva trascorso un certo periodo da ragazzo, ma niente di più. Non ne abbiamo mai parlato, e adesso mi pento di non aver cercato di affrontare l’argomento. Avrei dovuto, perché a quell’epoca probabilmente gli avrebbe fatto bene aprirsi. Mentre faccio questa riflessione, tuttavia, mi dico che no, non sarebbe servito a niente: Jack non pensava di aver bisogno di aiuto e non voleva essere aiutato. «Gliel’ho detto io» mi risponde Kathleen Lawler. «Le ho detto tutta la verità, tutto quello che sapevo dei suoi veri genitori. Le ho anche mostrato le foto che avevo, quelle vecchie e quelle che Jack mi aveva mandato di recente. Perché ci siamo sempre tenuti in contatto, sa?
All’inizio mi scriveva molte lettere.» Ho guardato tra gli effetti personali di Jack, dopo la sua morte, e ricordo di non aver visto neanche una lettera di Kathleen Lawler. «Poi siamo passati alle e-mail. È la cosa che mi manca di più, adesso» dice in tono rabbioso. «Le e-mail non costano niente e sono immediate: non ho bisogno di procurarmi francobolli e carta da lettere. Avanzi, rimasugli, scarti che la gente non vuole più. E noi dovremmo essere grate.» Benton e i suoi colleghi dell’FBI hanno letto e-mail di oltre dieci anni fa, che mi hanno descritto come infantili e sentimentali, ma anche infarcite di volgarità. Non faccio fatica a comprenderlo: Kathleen dev’essere stata il primo amore di Jack, che probabilmente era cotto di lei quando la arrestarono per abusi su minore. Per anni le parti più malate della loro psiche hanno continuato a cercarsi e a relazionarsi attraverso lettere e posta elettronica. Ma a un certo punto la loro corrispondenza è terminata. Non abbiamo trovato nulla che indichi che Jack abbia comunicato con Kathleen dai tempi della Virginia. Questo non significa che non fosse in contatto con la figlia biologica, Dawn Kincaid. Anzi, riteniamo che lo fosse, ma non sappiamo da quanto tempo. Forse da cinque anni, se è stata lei a scattargli questa foto. «La posta è lentissima» continua a lamentarsi Kathleen. «Spedisco una lettera e passano giorni prima che mi arrivi la risposta. Le e-mail invece sono immediate. Solo che qui al Blocco B non abbiamo accesso a Internet» mi ricorda, risentita. «E neanche ai cani. Non posso addestrare i levrieri, né tenerne uno nella mia cella. Ne stavo addestrando uno, Trail Blazer, ma ho dovuto piantare lì.» Le viene da piangere. «Ero così abituata ad avere un cane! E adesso qui, in isolamento... non posso più fare niente di quello che facevo. Nemmeno lavorare a “Inklings”.» «La rivista del carcere?» «Di cui sono la responsabile» replica. «Anzi, lo ero» aggiunge poi con amarezza. 011_chapter5
5 «Gli Inklings erano un gruppo di discussione letteraria di cui facevano parte Tolkien e C.S. Lewis» spiega Kathleen Lawler. «Si riunivano in un pub di Oxford per parlare di arte e condividere le proprie idee. Non che mi capiti spesso di parlare di arte o di condividere idee qui dentro: queste persone se ne fregano. A loro interessa solo apparire, vedere il proprio nome pubblicato, ottenere attenzione e riconoscimenti. Qualsiasi cosa, pur di interrompere la monotonia e nutrire una piccola speranza di poter fare ancora qualcosa nella vita.» «È l’unica pubblicazione del carcere?» domando. «Assolutamente sì.» È evidente che ne è orgogliosa, ma non tanto della sua impresa letteraria quanto del potere. «Le soddisfazioni qui sono ben poche. Piatti nuovi in cucina, per esempio. Io assaggio tutte le novità benché, se fossi fuori, non le toccherei manco con un dito. E poi “Inklings”. Io vivevo per quella rivista. La direttrice è generosa, ma devi stare alle sue regole. Con me è stata più che corretta, ma non voglio rimanere al Blocco B. Non ce n’è bisogno. Mi deve trasferire di nuovo» dichiara, come se sapesse che Tara Grimm la sta ascoltando. Kathleen Lawler è un personaggio potente al GPFW, o per lo meno lo era. Decideva lei chi poteva uscire sulla rivista e chi no, chi poteva diventare famosa fra le detenute e chi era destinata a rimanere nell’anonimato. Mi chiedo se non dipenda da questo l’ostilità di alcune detenute nei suoi confronti, sempre se ciò che mi è stato riferito sia vero. Chissà se è davvero per questo che è stata trasferita al Blocco B. Mi viene in mente quello che ha detto Tara Grimm a proposito della famiglia sterminata a Savannah il 6 gennaio 2002 e delle recenti visite di Jaime Berger nel reparto di massima sicurezza del carcere. «All’università ho studiato letteratura inglese: volevo diventare una poetessa. Poi invece mi sono ritrovata a lavorare nel sociale e mi sono specializzata in quel campo» mi dice Kathleen Lawler. «L’idea di “Inklings” è stata mia e la direttrice me l’ha appoggiata.» Kathleen Lawler mi ha raccontato che Dawn Kincaid è venuta a Savannah per conoscerla nel gennaio del 2002. Quindi forse Dawn era qui quando il dottore e la sua famiglia sono stati uccisi, massacrati di botte e accoltellati. Benton sostiene che questo tipo di violenza ha immancabilmente motivazioni personali e si accompagna spesso a una componente sessuale: l’assassino si eccita mentre penetra con la lama il corpo della sua vittima. Penso al caso più recente di Salem, in cui l’assassino ha penetrato il cranio di un bambino con chiodi di ferro. «Il comitato di redazione si riunisce in biblioteca per valutare le proposte e decidere il layout con quelle che si occupano della grafica.» Kathleen continua a parlare della sua rivista. «L’ultima parola sugli articoli da pubblicare spetta a me, ma la direttrice deve approvare tutto quanto. In copertina appare la foto delle autrici selezionate. È una faccenda delicata e spesso c’è chi si risente.»
«Cosa succederà alla sua rivista, adesso?» le chiedo, mentre mi domando se Lola Daggette conosce Dawn Kincaid e sa che è figlia di Kathleen Lawler. «Ovviamente io non me ne posso più occupare» risponde lei astiosa. «Quindi se ne occuper qualcun altro. Io lavoravo in biblioteca, come le ho detto. Nemmeno più questo posso fare, ora. Con i soldi che guadagnavo, ventiquattro dollari al mese, potevo permettermi qualche piccola comodità, come per esempio carta da lettere e francobolli. Ma si fa presto a spendere tutto, se non si hanno entrate. Chi mi finanzierà adesso? Chi ho io fuori di qui che mi può dare una mano? Come faccio a comprarmi lo shampoo per lavarmi i capelli?» Non le rispondo. Da me non otterrà neanche un centesimo. «Le regole sono le stesse per tutti qui al Blocco B, che tu sia dentro per un reato minore o per un omicidio di massa. Immagino sia il prezzo da pagare per la propria sicurezza» dice. Mi colpisce la sua espressione dura: è come se stesse venendo fuori una parte di lei che finora ha cercato di tenere nascosta. «Peccato che io non mi senta per niente al sicuro. Mi sembra di avere una spada di Damocle sulla testa, anzi.» «Quale spada di Damocle?» «Non so perché mi abbiano fatto questo. Devono riportarmi dov’ero.» «Perché si sente in pericolo, Kathleen?» le chiedo una seconda volta. «C’è dietro Lola» dichiara, e il cerchio si chiude. Jaime Berger è venuta più volte al GPFW per parlare con Lola Daggette, che è legata a Kathleen Lawler, che è legata a me. Non le faccio capire che so chi è Lola e continuo a chiedermi se non avesse qualche legame con Dawn Kincaid. Non so come e perché, ma sono sicura che siamo tutte collegate, dentro quel cerchio. «Mi ha fatto trasferire lei, perché fossimo vicine» dice Kathleen Lawler rabbiosa. «Il braccio della morte è in questo blocco e Lola è l’unica a starci, al momento. L’ultima prima di lei è stata Barrie Lou Rivers, quella che avvelenava i suoi clienti vendendogli tramezzini con tonno e arsenico ad Atlanta.» L’hanno soprannominata Deli Devil, il “diavolo delle Delikatessen”. Conosco la storia, ma non lo do a vedere. «Tutti i giorni quelli mangiavano i suoi tramezzini al tonno e stavano sempre peggio. Lei glieli vendeva con il sorriso sulle labbra, gentilissima» spiega Kathleen. «Poco prima che le facessero l’iniezione letale, le è andato di traverso un tramezzino con il tonno ed è morta soffocata nella sua cella. E poi dicono che il destino non esiste.» «Il braccio della morte è al piano di sopra?» «È una cella di massima sicurezza come tutte le altre. Uguale a quella in cui sono io adesso.» Kathleen Lawler alza la voce, sempre più agitata. «Lola sta qua sopra, perciò non può gridare contro di me né passarmi bigliettini direttamente, ma quello che mi vuol dire mi ar-
riva.» «Cosa le dice?» «Mi minaccia. Lo so che è lei.» Non le faccio presente che Lola Daggette è chiusa in cella ventitré ore al giorno esattamente come lei e quindi non può farle del male. «Sapeva benissimo che se mi avesse aizzato contro un po’ di gente e mi avesse messo in pericolo, mi avrebbero trasferito qui con lei. E infatti così è stato» dice in tono severo. «Lola mi vuole vicino a lei» aggiunge. Non credo che Kathleen sia al Blocco B perché così voleva Lola Daggette. È stata Tara Grimm a volerlo. «Ha mai avuto problemi simili con altre detenute, in passato?» le chiedo. «Tali da rendere necessario il suo trasferimento?» «Qui al Blocco B, intende?» Kathleen alza la voce. «Mai! Non sono mai stata in isolamento prima. Perché avrei dovuto? Devono riportarmi dov’ero. Devo riprendere la mia vita.» Macon passa davanti alle finestre della sala visite. Mi accorgo che ci guarda, ma evito di voltarmi verso di lui e penso alla poesia che mi ha mandato Kathleen e alla rivista letteraria che ha diretto fino a poche settimane fa. Chissà quante volte ha deciso di pubblicare testi suoi a scapito di quelli delle altre detenute. Guardo l’ora: il colloquio sta per finire. «È stata gentile a portarmi la foto di Jack.» Kathleen la tiene a una certa distanza da sé e strizza gli occhi. «Auguri per il processo.» Lo dice in un tono che mi colpisce, ma resto impassibile. «Un processo non è mai una passeggiata. Io naturalmente mi sono sempre dichiarata colpevole per avere uno sconto di pena. Risparmiamo i soldi dei contribuenti, no? Ho avuto anche qualche sospensione di pena per la mia sincerità, perché ho confessato che sì, ero stata io, mi dispiaceva tanto. Se non hai una reputazione da proteggere, ti conviene dichiararti colpevole. Meglio che finire davanti a una giuria che magari poi richiede una pena esemplare.» Lo dice con spregio. Non sta pensando a Dawn Kincaid, la quale non si dichiarerà mai colpevole. Mi si chiude lo stomaco. «Invece lei ha una reputazione da difendere, dottoressa Kay Scarpetta. Ha una gran bella reputazione. Quindi non sarà facile, eh?» Sorride, gelida. Ha lo sguardo assente. «Sono contenta di averla conosciuta personalmente, dopo tutto questo tempo. Così almeno ho visto il motivo di tanto casino.» «Non capisco a cosa si riferisca.» «Ho sentito parlare di lei fino alla nausea. Immagino che non abbia letto le lettere.»
Non rispondo. Non ho mai visto le lettere che Kathleen dice di essersi scambiata con Jack. «È evidente che non le ha lette.» Kathleen annuisce e sorride, mettendo in mostra i buchi dove le mancano i denti. «Quindi non sa niente, giusto? Era logico, peraltro. Se avesse saputo, non avrebbe comunicato con me. O forse sì, ma senza tutta questa sicumera. Non si sarebbe data tante arie.» Resto calma, non mi muovo. Non lascio trapelare nulla. Non mi mostro curiosa. Non esprimo la rabbia che provo. «Prima di passare alle e-mail, ci scrivevamo lettere vere» dice. «Lui usava fogli a righe che strappava dai bloc-notes, manco fosse uno scolaretto. Erano i primi anni Novanta e Jack lavorava per lei a Richmond. Stava malissimo, poveraccio. Mi scriveva che lei aveva bisogno di cazzo, che era frustrata e acida come una vecchia zitella e che forse se qualcuno l’avesse scopata lo sarebbe stata un po’ meno. Lui e quell’investigatore della Omicidi che lavorava sempre con lei ci scherzavano su, all’Istituto di medicina legale o sulle scene del crimine. Dicevano che lei passava troppo tempo all’obitorio circondata dai morti, che aveva bisogno di un uomo che la scaldasse un po’, che le facesse vedere cosa voleva dire avere un uccello ancora capace di rizzarsi.» Quando dirigevo l’Istituto di medicina legale a Richmond, l’investigatore della Omicidi con cui lavoravo era Pete Marino. Non ho mai visto queste lettere. Deve averle l’FBI. L’analista del servizio segreto anticrimine, lo psicologo forense della sede distaccata di Boston, è Benton. Benton ha letto le e-mail fra Kathleen e Jack e mi ha fatto un breve riassunto di quello che si dicevano. Sicuramente ha letto anche la corrispondenza cartacea, ma non avrebbe mai permesso che arrivassero alle mie orecchie commenti come quelli appena riferiti da Kathleen Lawler. Non avrebbe voluto che io venissi a conoscenza delle beffe crudeli di Marino, che sapessi che rideva alle mie spalle. Mi avrebbe protetto da un colpo così doloroso perché non sarebbe servito a niente dirmelo. Non reagisco. Non voglio dare a Kathleen Lawler la soddisfazione di vedermi arrabbiata. «Finalmente la vedo con i miei occhi» dice. «Il grande capo, la leggendaria dottoressa Kay Scarpetta.» «Anche lei è una figura leggendaria, per me» dico senza emozione. «Jack ha voluto più bene a me che a lei.» «Non ne dubito.» «Sono stata l’amore della sua vita.» «Non ho dubbi che lo fosse.» «Lei invece gli stava sui coglioni» aggiunge. Meno io reagisco, più lei diventa cattiva. «Diceva che lei non si rende conto di quanto è severa con il prossimo e che se si guardasse
un po’ più allo specchio capirebbe come mai non ha amici. La chiamava “la dottoressa Tuttogiusto” e diceva che lui invece era “il dottor Tuttosbagliato”. Diceva che secondo lei gli altri, compresi agenti e poliziotti, facevano sempre tutto male. Tutti nel torto, a parte lei. “Non si fa così, Jack. Si fa come dico io. Hai torto, Jack!”» Continua imperterrita a darmi addosso, provandoci gusto. «Gli diceva sempre cosa doveva fare e non fare. “Manco fossimo sempre sulla scena di un crimine, cazzo!” si lamentava sempre con me.» «A volte lo facevo arrabbiare, non è un segreto» dico, ragionevole. «Altroché!» «So bene che non è facile lavorare per me.» «Non si arriva dove è arrivata lei senza mettere i piedi in testa ai colleghi. Quelli come lei godono a prendere a calci in culo i loro sottoposti.» «No, su questo si sbaglia. Mi dispiacerebbe molto se Jack avesse detto una cosa del genere.» «Ogni volta che le cose gli andavano male, dava la colpa a lei, dottoressa.» «Lo so.» «Mai a me.» «E lei, Kathleen? Dà la colpa a Jack di quello che le è successo?» le chiedo. «Avrà anche avuto dodici anni, ma non era un bambino. Proprio per niente, glielo assicuro. Cominciò lui, sa? Mi seguiva dappertutto, cercava tutte le scuse possibili per parlarmi, per toccarmi, per dirmi quello che provava per me. Sono cose che succedono.» “Sì, purtroppo sono cose che succedono, anche se non dovrebbero” penso. «Quando vide che mi portavano via in manette, gli mancò la terra sotto i piedi. In tribunale, poi, era distrutto» continua. La sua ostilità nei miei confronti è sparita, di colpo com’era apparsa. «Ci separarono, sì, ci impedirono di vederci, ma le nostre anime rimasero unite per sempre. Jack la ammirava, certo. Era noiosissimo starlo a sentire, ma la stimava. Lo so. Il problema di Jack, però, era che non riusciva mai a provare sentimenti chiari: se ti amava, ti doveva anche detestare. Se ti stimava, al tempo stesso ti disprezzava. Voleva stare con te, ma voleva anche scappare via. Ti trovava e ti perdeva. E adesso non c’è più.» Abbassa gli occhi e si guarda le mani in grembo. Sento tintinnare le catene alle caviglie perché muove i piedi, trema. Ha la faccia rossa, sta per mettersi a piangere. «Dovevo dirlo. Anche se non è bello, lo so.» Non mi guarda in faccia. «Capisco.» «Non è che adesso mi taglia fuori, per questo? Spero proprio di no: mi piacerebbe mantenere i contatti.» «Ogni tanto fa bene sfogarsi.»
«Non sapevo come mi sarei sentita dopo un po’ di tempo, a sapere che è morto» mormora, sempre con gli occhi bassi. «Non riesco a capacitarmene. Non faceva più parte della mia vita, ma era il mio passato, la ragione per cui sono qui. Adesso la ragione per cui sono qui non c’è più, ma io sono sempre qui.» «Mi dispiace» dico. «Sento un grande vuoto intorno. È questo che provo. Mi sembra di essere in mezzo a un deserto spoglio e spazzato dal vento.» «Lo so, è doloroso.» «Se ci avessero lasciato in pace...» Alza gli occhi. Sono rossi, pieni di lacrime. «Non facevamo niente di male. Se ci avessero lasciato in pace, non sarebbe successo niente di tutto questo. Non facevamo male a nessuno! Sono gli altri che hanno fatto del male a noi!» Non dico niente. Non c’è niente da dire. «Spero che il suo soggiorno a Savannah continui a essere produttivo.» Messa così, mi sembra un’affermazione molto strana. Macon passa davanti alle finestre a lato della porta di acciaio per accertarsi che vada tutto bene. Kathleen non lo guarda, ma io intuisco che lui ha capito che la situazione è tesa. «Mi ha fatto piacere parlare con lei. Sono contenta che il suo avvocato e tutti gli altri avvocati ci abbiano lasciato questa porta aperta e le sarò grata per le foto o le altre cose che vorrà gentilmente mandarmi» aggiunge Kathleen. Mi suona strano: sembra che si riferisca a qualcosa di specifico, ma non capisco a cosa. Aspetta che Macon si allontani e si infila una mano nella scollatura della divisa bianca. Prende un fogliettino dal reggiseno e me lo passa. 012_chapter6
6 Dalle querce e dalle palmette intorno al parcheggio cadono goccioloni di pioggia. Ne sento l’odore, misto al profumo di fiori, i cui petali colorano la terra come coriandoli. L’aria è densa e calda, e il sole appare ogni tanto da dietro le nuvole scure a ovest. Salgo sul furgone, stupita che nessuno mi abbia fermato. Quando Macon mi ha accompagnato fuori dal Blocco B, lungo una stradina ancora bagnata di pioggia, si è comportato come se fosse tutto a posto, tutto normale, ma io non ci credo. Non posso credere che nessuno si sia accorto che Kathleen Lawler mi ha consegnato un biglietto di nascosto. Al posto di guardia, quando mi hanno passato la mano sotto un fascio di raggi ultravioletti facendo apparire la password – “neve” – che mi era stata timbrata sulla pelle, nessuno ha fiatato. Macon mi ha ringraziato di essere venuta, come se la mia visita al carcere femminile della Georgia fosse stata una gentilezza, un favore. Gli ho detto che Kathleen Lawler teme per la sua incolumità e lui ha sorriso e mi ha risposto che le detenute “raccontano un sacco di storie” e che è stata trasferita proprio per motivi di sicurezza. Io ho salutato e me ne sono andata. Avevo visto giusto, concludo: se anche la mia conversazione con Kathleen Lawler è stata registrata, il colloquio non è stato ripreso da nessuna telecamera, altrimenti qualcuno si sarebbe accorto del bigliettino che mi ha consegnato senza dire nulla e Macon, invece che all’uscita, mi avrebbe scortato nell’ufficio pieno di rampicanti della direttrice e mi avrebbe costretto a consegnarle il biglietto che è ancora con me, nascosto nella tasca posteriore dei pantaloni. Sono consapevole della sua presenza come se fosse un sasso, o scottasse. Peraltro, Kathleen forse non mi avrebbe dato nulla se avesse temuto di essere beccata. Sono sempre più convinta che faccia parte anche lei di questo gioco molto più infido e pericoloso di quanto immaginassi. Mi scoccia ammettere che Kathleen Lawler mi ha manipolato, ma temo proprio che sia così. Metto in moto e tiro fuori il biglietto dalla tasca. Mi guardo intorno per controllare che non ci sia nessuno in giro. Sono consapevole che potrebbero vedermi dalle strette finestre protette dalla rete metallica dei reparti detentivi o dalla palazzina che ospita gli uffici e la direzione. Dall’asfalto bagnato si alza vapore e dal finestrino aperto entra aria calda. In un angolo del parcheggio pieno di auto noto una Mercedes station wagon nera che sembra un carro funebre. È ferma, con il motore spento, ma al posto di guida c’è una donna che parla al cellulare. Fa troppo caldo per stare in macchina senza aria condizionata. Noto che ha i finestrini parzialmente abbassati. Non guarda dalla mia parte. Sono a disagio, nervosa, e a questo punto penso di avere tutte le ragioni per esserlo. Da quando Benton mi ha salutato al Logan, stamattina presto, mi sento controllata e manovrata, anche se non ho nessuna prova tangibile che sia così. Eppure è una sensazione
sempre più forte, per via di tutte le stranezze che mi sono capitate, a cominciare da questo stupido furgone sporco e puzzolente, con il vano portaoggetti pieno di tovagliolini del fast-food Bojangles e di dépliant di escursioni in barca. Ho cercato più volte di mettermi in contatto con Bryce per lamentarmi e gli ho lasciato un messaggio dichiarandomi incredula che un’agenzia seria dia a noleggio veicoli come questo. Lui, però, non mi ha richiamato. Non l’ho sentito in tutto il giorno. Forse mi evita. Poi le strane informazioni che mi sono state comunicate e ora questo bigliettino. Lo apro. È un foglio di carta bianco che è stato piegato e ripiegato fino a diventare piccolo come una pasticca per la tosse. Scritto con una biro blu, c’è un numero di telefono. Lì per lì mi sembra familiare, poi lo riconosco e faccio un salto sul sedile. CHIAMARE DA UNA CABINA è specificato in stampatello. Nient’altro: una raccomandazione sottolineata e il numero di cellulare di Jaime Berger. È tardo pomeriggio, il cielo è scuro e sta ricominciando a piovere. Sento le gocce battere sul tettuccio del furgone e faccio partire i tergicristalli, che lentamente e rumorosamente disegnano due archi unti sul vetro. Prendo la borsa da sotto il sedile e guardo la Mercedes nera che esce dal parcheggio. Sul paraurti ha un adesivo dei sommergibilisti della Marina militare. Vengo colta da un brutto presentimento e dopo un attimo capisco perché. Qualcuno mi ha frugato nella borsa. Ne sono sicura? Sì, abbastanza. Anzi, no: del tutto. Appena sono arrivata, ho mandato un SMS a Benton e ho messo il cellulare nella tasca posteriore della borsa, quella in cui tengo portafoglio, documenti, chiavi e altri oggetti di valore, e l’ho chiusa con la cerniera lampo. Adesso però il cellulare è in una tasca laterale. Non dev’essere stato difficile frugare nella macchina mentre ero all’interno del GPFW, visto che ho consegnato le chiavi alle guardie e poi sono stata chiusa dentro il Blocco B a parlare con Kathleen. Non avevo nulla di importante, comunque. Il mio iPhone e il mio iPad sono protetti da password, quindi non possono esserci entrati. Non mi sembra di avere nient’altro di interessante. Cosa cercavano? Forse pensavano che avessi qualche documento importante con me, che mi fossi portata appresso dei dossier. O forse volevano accertarsi che non fossi venuta qui per motivi diversi da quelli che ho esposto a Tara Grimm. Digito la password sul cellulare. Il mio primo impulso è di telefonare a Lucy e chiederle se è ancora in contatto con Jaime Berger. È possibile che mia nipote sia al corrente di qualcosa di utile per capire che cosa sta succedendo e in che guaio mi sono cacciata. Non la chiamo, però. Lucy non mi ha più parlato di Jaime dopo l’ultima volta che ci siamo ritrovati tutti insieme, circa sei mesi fa, durante le feste. Non ha mai ammesso che la loro relazione è finita, anche se io sospetto fortemente che lo sia. Mia nipote, infatti, non si sarebbe mai trasferita da New York a Boston senza una motivazione personale.
Non lo ha fatto per i soldi. Lucy non ha bisogno di soldi. E non lo ha fatto neanche per mettere a disposizione del Cambridge Forensic Center le sue straordinarie competenze informatiche. Non ha bisogno di lavorare per me o per il CFC. Se ha cambiato città, molto probabilmente lo ha fatto perché aveva paura di una rottura che riteneva inevitabile. Ha fatto quello che fa sempre: ha evitato un dolore e aggirato un rifiuto con la sua solita aggressività. Probabilmente è stata lei a troncare prima che lo facesse Jaime, e per farlo si è creata una nuova vita a Boston. Mia nipote ha l’abitudine di dirti che se ne va dopo che se ne è già andata. Ripercorro la stessa strada che ho fatto per arrivare al GPFW, supero il vivaio e il cimitero delle macchine e penso a dove posso trovare un telefono pubblico. Non ce ne sono più tanti come una volta. Non sono sicura che sia il caso di chiamare Jaime o chiunque altro. Benton temeva che mi stessero manovrando e comincio a pensare che avesse ragione. Ma chi vuole farlo e perché? Gli avvocati che difendono Dawn Kincaid? O c’è sotto qualcosa di ancor più sinistro? Dawn Kincaid ha cercato di uccidermi, non c’è riuscita la prima volta e vuole tentare una seconda. Questo pensiero mi colpisce come una ventata gelida e mi fa tornare il mal di testa. “Devi andartene. Scappa più lontano che puoi.” È troppo tardi per partire dal Savannah-Hilton Head Airport, ma potrei ancora andare in macchina fino ad Atlanta e prendere un aereo per Boston entro stasera. Come ci vado, però? Con questo trabiccolo? Mi vedo già in panne lungo una strada fra le paludi, in mezzo al nulla. No, la cosa migliore è restare a Savannah, come programmato. “Non essere impulsiva. Usa la logica. Sii ragionevole” mi dico mentre guido sotto la pioggia e il furgone sobbalza, rallenta e accelera quando vuole lui e i tergicristalli grattano rumorosamente sul vetro. Mi fa male la testa, mi pulsa come un ascesso e non ho più antidolorifici, visto che ho preso l’ultimo durante il viaggio. Passo davanti a una concessionaria di autocarri e a un carrozziere. Mi sembrano tutti luoghi isolati, impenetrabili e minacciosi, come se il mondo fosse un carcere di massima sicurezza. Sono chilometri che non incontro auto e ho un bruttissimo presentimento, come se stesse per capitarmi qualcosa di orribile. C’è un’immobilità strana, una sorta di irrealtà, un senso di minaccia come prima di una catastrofe. Ripenso a Lola Daggette. Non ricordo granché della strage della famiglia di Savannah, solo che fu brutale e terribile, e che molti interrogativi sono tuttora senza risposta. Non è stato accertato, per esempio, se gli assassini fossero uno o due e se avessero qualche legame con le vittime. Ricordo che ero a Greenwich, nel Connecticut, quando sentii parlare per la prima volta della “famiglia sterminata nel sonno”, come dicevano i notiziari. Era il 6 gennaio 2002 e io ero in una fase di transizione. Stavo cambiando lavoro, residenza, amicizie. Il mondo era diverso, dopo l’11 settembre. Era un periodo brutto, destabilizzante e deprimente. Guardavo la TV in camera,
cenando, e sentii della strage di Savannah, che si diceva essere opera di un’adolescente. Ricordo il viso della ragazza sullo schermo, la villa imponente delle vittime circondata da nastro giallo. Lola Daggette. Ricordo che all’udienza preliminare sorrideva e salutava con la mano le persone in aula come se non si rendesse conto della situazione in cui si trovava. Ricordo che aveva l’apparecchio per i denti e l’acne giovanile. Sembrava una ragazzina incapace di fare del male a una mosca, confusa dall’attenzione e dall’atmosfera tesa ma al tempo stesso quasi divertita. Ricordo di aver pensato che di rado la gente sembra quello che è. Nonostante mi sia scontrata con questa verità innumerevoli volte, mi sorprende ancora constatare quanto sia facile giudicare dalle apparenze, e quanto sia sbagliato. Rallento e posteggio davanti a un gruppo di negozi, il primo che incontro da queste parti. Ci sono un ferramenta, una farmacia e un’armeria. Nel parcheggio sono fermi alcuni pick-up e SUV. Noto un telefono pubblico e un Bancomat. Sulla vetrina dell’armeria c’è un cerchio rosso barrato, tipo segnale di divieto, con dentro una sagoma come quelle che si disegnano sull’asfalto dove è morto qualcuno e la scritta: “Non fare la vittima: comprati una pistola”. Oltre il vetro vedo una parete di pistole e fucili e una bacheca accanto a cui sono fermi diversi uomini. Sulla sinistra del negozio c’è un telefono nero protetto da un tettuccio di acciaio inossidabile. Prendo l’iPad dalla valigia, mentre la pioggia batte incessante sul tetto del furgone. Spengo i tergicristalli ma lascio il motore acceso e il finestrino appena abbassato. Mi collego a Internet e faccio una ricerca su Lola Daggette. Leggo un articolo pubblicato il novembre scorso sull’“Atlanta Journal-Constitution”: DEFINITIVA LA CONDANNA DELL’ASSASSINA DI SAVANNAH È stato respinto il ricorso presentato alla Corte suprema della Georgia dalla donna condannata a morte quasi nove anni fa per l’efferato omicidio di un medico di Savannah, di sua moglie e dei loro due figli. Lola Daggette verrà giustiziata. All’alba del 6 gennaio 2002 si introdusse nella villa del dottor Clarence Jordan, nel centro storico di Savannah, e aggredì il medico trentacinquenne e la moglie trentenne, Gloria, mentre erano a letto, infierendo sui loro corpi con numerose coltellate. Dopo aver ucciso i coniugi, la donna entrò nella camera dei bambini, un maschio e una femmina di cinque anni, gemelli. La polizia ritiene che la piccola Brenda, svegliata dalle urla del fratello, abbia cercato di fuggire. Il corpo venne infatti ritrovato in fondo alle scale, accanto alla porta di ingresso. Come i genitori e il fratellino, Josh, la piccola Brenda era quasi decapitata, tanto l’assassina aveva infierito su di lei.
Alcune ore dopo l’omicidio, la diciottenne Lola Daggette venne sorpresa a lavare indumenti insanguinati nel bagno della comunità di recupero in cui era residente per abuso di sostanze. A inchiodarla definitivamente fu in seguito la prova del DNA. Con la sentenza di oggi, l’iter giudiziario si è finalmente concluso e in primavera Lola Daggette verrà giustiziata nel carcere femminile della Georgia. Scorro altri articoli, in cui leggo che i suoi difensori hanno sostenuto che Lola non fosse sola e che fosse stata l’altra persona a commettere materialmente gli omicidi. Secondo la tesi difensiva, Lola Daggette non sarebbe mai neppure entrata nella casa dei Jordan, ma avrebbe aspettato il suo complice all’esterno, credendo che fosse entrato solo per rubare. Tuttavia tale presunto complice non è mai stato descritto né tanto meno identificato. Secondo i difensori, avrebbe preso in prestito alcuni vestiti di Lola e le avrebbe poi raccomandato di lavarli o di buttarli via, probabilmente allo scopo di incastrarla. Lola non ha mai testimoniato in tribunale. Capisco che la giuria l’abbia dichiarata colpevole dopo meno di tre ore di camera di consiglio. Avrebbe dovuto ricevere l’iniezione letale nello scorso aprile, ma l’esecuzione è stata rinviata perché il precedente condannato a morte aveva impiegato il doppio del tempo a morire a causa di un errore nella somministrazione dei farmaci. A seguito di ciò, il giudice federale ha aperto un’inchiesta e bloccato tutte le esecuzioni in programma, ovvero quella di Lola Daggette e di cinque detenuti della Coastal State Prison, per accertare che le procedure di esecuzione dello Stato della Georgia non costituiscano una punizione eccessiva, troppo dolorosa, lunga e crudele. La sospensione dovrebbe terminare il prossimo ottobre, e la prima detenuta a ricevere l’iniezione letale dovrebbe essere Lola Daggette. Sono esterrefatta. Se non è stata lei a uccidere i Jordan e sa chi è stato, perché non ha detto niente? Come mai protegge il vero assassino? Possibile che continui a tacere anche ora che sta per essere giustiziata? A meno che, invece, non abbia cominciato a parlare. Jaime Berger è qui a Savannah e ha avuto dei colloqui con lei. Forse ha parlato anche con Kathleen Lawler, a cui potrebbe aver prospettato una scarcerazione anticipata. Ma perché tutto questo dovrebbe interessare a un sostituto procuratore di Manhattan? A meno che l’omicidio dei Jordan, e forse anche Dawn Kincaid, non siano legati a qualche reato sessuale commesso a New York City. Ma, se davvero Jaime sta indagando su Kathleen Lawler e sua figlia Dawn, perché non mi ha contattato? Forse sta per farlo, mi dico, guardando il bigliettino sul sedile. Penso che a febbraio, quando ho rischiato di morire, Jaime non mi ha chiamato e non mi ha scritto neanche un’e-mail. Non ha chiesto mie notizie. Non ha rotto il suo silenzio, insomma. Sebbene non siamo mai state veramente amiche, la sua indifferenza, almeno apparente, mi ha fatto male e mi ha sorpreso.
Rimetto l’iPad in valigia e prendo la Visa dal portafoglio. Scendo dal furgone, sotto la pioggia. Alzo la cornetta del telefono pubblico, digito zero e poi il numero indicato sul biglietto che mi ha dato Kathleen Lawler. Infilo la carta di credito nell’apposita fessura e ottengo il segnale. Jaime Berger risponde al secondo squillo. 013_chapter7
7 «Sono Kay Scarpetta» esordisco, ma lei mi interrompe. «Ti fermi a dormire qui, spero.» «Scusa?» Penso che mi abbia preso per un’altra persona. «Jaime? Sono Kay...» «Il tuo hotel è vicino a dove sto io. Puoi venire a piedi.» Sembra che abbia fretta. Non è maleducata, ma impersonale, brusca. Non mi lascia parlare. «Passa in albergo e poi ceniamo insieme.» È ovvio che non vuole parlare. Forse non è sola. È assurdo, però: non ci si accorda per vedersi senza sapere perché ci si vede. «Dove?» chiedo. Jaime mi dà un indirizzo sul lungofiume, alcuni isolati dopo il mio albergo. «A fra poco, allora» aggiunge. «Non vedo l’ora.» Chiamo subito Lucy, mentre un uomo con jeans tagliati al ginocchio e berretto da baseball scende da una Suburban metallizzata molto sporca e viene verso di me senza degnarmi di uno sguardo, prendendo il portafoglio dalla tasca posteriore dei jeans. «Devo chiederti una cosa» dico a mia nipote appena risponde. Cerco di non sembrare troppo frustrata, ma non è facile. «Sai che non interferisco nella tua vita privata e che non sono curiosa.» «Cosa mi devi chiedere?» «Ho aspettato un po’ prima di telefonarti, ma adesso non posso più farne a meno. Sembra che non sia un segreto che sono qui. Capisci cosa ti sto dicendo?» Volto le spalle al tipo con il berretto, che preleva soldi al Bancomat. «Potresti essere un po’ meno misteriosa? Sembra che parli da dentro una scatola di metallo.» «Sono a un telefono pubblico vicino a un’armeria e piove.» «Cosa ci fai in un’armeria? È successo qualcosa?» «Jaime» dico. «No, non è successo niente. Lo spero, per lo meno.» Dopo una lunga pausa, mia nipote mi chiede: «Cosa c’è?». Capisco dalla sua esitazione e dal tono della voce che non sa niente. Non sa che Jaime è a Savannah. Non è da Lucy che Jaime ha saputo che sono qui, per quale motivo o in che albergo ho prenotato. «Volevo essere certa che non le avessi detto tu che stavo per venire a Savannah» spiego. «Perché avrei dovuto? Cosa succede?» «Non so bene neanch’io. Anzi, non lo so per niente. Tu non le hai parlato?» «No.»
«Potrebbe averglielo detto Marino?» «Per quale motivo? Perché dovrebbe essere in contatto con lei?» ribatte Lucy, come se fosse una scorrettezza tremenda che Marino parlasse con Jaime, nonostante in passato abbiano lavorato insieme. «Dici che chiacchierano amabilmente e lui le racconta i fatti tuoi? Non credo proprio. No, non avrebbe senso» aggiunge. Mi accorgo che è gelosa. Non importa che sia molto bella e intelligente: mia nipote crede di non poter essere amata da nessuno. Un tempo la chiamavo “mostro dagli occhi verdi”, perché ha gli occhi più verdi che io abbia mai visto e perché sa essere mostruosamente immatura, insicura e gelosa. Quando si sente così, non c’è da scherzare. Sa entrare senza problemi in qualsiasi computer e non si fa scrupoli a spiare o a vendicarsi di quelle che considera enormi scorrettezze ai danni suoi o delle persone a cui tiene. «Spero con tutto il cuore che Marino non divulghi informazioni riservate, né a lei né a chicchessia» rispondo. Non vedo l’ora che l’uomo con il berretto da baseball finisca di prelevare: non vorrei che stesse ascoltando la mia conversazione. «Be’, se Marino le ha detto qualcosa, lo scoprirò presto» aggiungo. Sento che Lucy sta digitando su una tastiera. «Lo vediamo subito. Sono nella sua casella di posta. No, non vedo niente da o per Jaime Berger.» Lucy è l’amministratore del sistema che usiamo al CFC e può entrare in tutti i file sul server, compresi i miei. Può entrare dove vuole, in realtà. «Nulla di recente» dichiara. La immagino che ricerca tra i file e le e-mail di Marino. «In quest’ultimo anno, no.» Mi sta dicendo che, da quando lei e Jaime hanno rotto, non risultano e-mail di Marino a Jaime Berger. Questo non significa che non siano stati in contatto telefonico o di altro tipo. Marino non è un ingenuo, sa che Lucy può controllare tutto quello che passa per i computer del CFC. Sa altrettanto bene che, se le va di farlo, Lucy controlla anche ciò che non ha nessun diritto di controllare. Se Marino è rimasto in contatto con Jaime e non mi ha detto niente, ci rimarrò molto male. «Ti spiace chiederglielo?» dico a Lucy. Mi massaggio le tempie, che mi pulsano dolorosamente. Sì, le spiace. Lo capisco da come mi risponde. «Va bene, gli parlo. Ma credo sia ancora in vacanza.» «Disturbalo pure mentre pesca, non importa. Grazie.» Riaggancio mentre il tipo con il berretto da baseball entra nell’armeria; decido che non badava a me e non era minimamente interessato a quello che dicevo al telefono. Sono un po’ paranoica. Passo davanti al ferramenta e noto, parcheggiata di fronte alla farmacia, quella che mi sembra la stessa Mercedes nera station wagon di prima, con l’adesivo dei sommergib-
ilisti della Marina militare. Piccola, piena di roba, senza nessun cliente in quel momento, la farmacia mi ricorda uno di quegli empori di paese che vendono di tutto. Ci sono bastoni, stampelle, calze contenitive, comode e cartelli che garantiscono la consegna di medicinali in giornata. Guardo gli scaffali alla ricerca di antidolorifici e rifletto sul motivo per cui Jaime Berger si interessi a Lola Daggette. Di sicuro Jaime è una donna molto determinata e, se pensa che Lola Daggette sappia qualcosa di importante, farà di tutto perché non si porti il segreto nella tomba. Non vedo altri motivi per cui dovrebbe essere andata al GPFW. Quello che non capisco è cosa c’entro io. “Be’, lo scoprirò fra poco” mi dico. Prendo un flacone di Advil e vado alla cassa. Non c’è nessuno. “Fra un paio d’ore saprò tutto quello che c’è da sapere.” Mi viene in mente che mi serve dell’acqua e vado verso il frigo, dove all’ultimo momento opto per una bottiglietta di tè freddo. Torno alla cassa e aspetto che arrivi qualcuno. Nel retrobottega c’è un uomo di una certa età che riempie dei flaconi di medicinali seguendo le ricette del medico curante. Non vedo nessun altro. Aspetto. Apro il flacone e prendo tre capsule con un sorso di tè freddo. Sto per perdere la pazienza. «Mi scusi?» dico. Il farmacista nel retrobottega mi lancia un’occhiata e chiama un collega alle sue spalle. «Robbi, vai tu alla cassa?» Siccome nessuno risponde, pianta lì quello che sta facendo e viene lui. «Mi scusi tanto. Non credevo di essere solo. Evidentemente sono tutti fuori per le consegne o in pausa. Mah.» Mi sorride e prende la carta di credito. «Desidera altro?» Quando esco per tornare al furgone, ha smesso di piovere e la Mercedes nera non c’è più. Il sole spunta da dietro le nuvole appena riparto e l’asfalto bagnato brilla sotto la luce intensa. Vedo la città vecchia, le costruzioni basse di mattoni e di pietra lungo il fiume Savannah e, in lontananza, stagliati contro il cielo scuro, i cavi del Talmadge Memorial Bridge, il ponte sospeso che prenderei se volessi andare nel South Carolina. Penso alla bellezza di Hilton Head e Charleston, all’appartamento sul mare che aveva Benton a Sea Pines, e alla casa d’epoca, ricavata da una rimessa per carrozze, con lo splendido giardino in cui abitavo alcuni anni fa. Tanto del mio passato è radicato nel profondo Sud, e provo un moto di nostalgia passando davanti alla dogana di granito grigio e al municipio dalla cupola dorata. Arrivo al mio albergo, lo Hyatt Regency, sul lungofiume. Davanti all’albergo sono ormeggiate chiatte e battelli che fanno gite turistiche; sulla riva opposta ci sono il lussuoso Westin Resort e, poco più avanti, gru che assomigliano a gigantesche mantidi religiose fra cantieri e magazzini. L’acqua è piatta, color verde bottiglia. Scendo dal furgone e mi scuso con il posteggiatore, che ha un’aria molto caraibica, in giacca bianca e bermuda neri. Gli dico che il mezzo che ho noleggiato è poco sicuro e inaffidabile, sbanda e frena poco, e mi sento in dovere di precisare che ne avevo richiesto un altro.
Prendo i miei bagagli. Una brezza calda fa frusciare querce, magnolie e palme. Le gomme delle auto sull’acciottolato producono un rumore come di pioggia battente, ma adesso nel cielo ci sono chiazze azzurre e il sole va e viene. Questa parte del mondo in cui ho passato tanto tempo della mia vita dovrebbe avere un effetto calmante su di me, dovrebbe rilassarmi. Invece sono nervosa e mi sento in pericolo. Ho paura. Vorrei che Benton fosse qui con me. Rimpiango di essere venuta. Avrei dovuto dargli retta. Bisogna che veda Jaime Berger e chiarisca tutto al più presto. L’atrio dell’albergo è uguale a quello di tutti gli Hyatt in cui sono stata, ampio e sovrastato da sei piani di stanze. Prendo l’ascensore di cristallo e ripenso al diverbio che ho appena avuto con l’impiegata alla reception, la quale sosteneva che la mia prenotazione era stata annullata. Le ho detto che non era possibile e lei mi ha risposto che aveva preso personalmente la telefonata, appena entrata in servizio, verso mezzogiorno. A chiamare era un signore che aveva il numero della prenotazione e tutte le informazioni necessarie e si è molto scusato per il disguido. Le ho chiesto se questo signore telefonava dal mio ufficio di Cambridge e lei mi ha risposto che le sembrava di sì. Le ho chiesto se era Bryce Clark e lei non se lo ricordava. Le ho fatto presente che forse dal mio ufficio avevano chiamato per confermare e non per annullare la prenotazione, che c’era stato un equivoco. No, mi ha detto sicura, scuotendo la testa. Lo escludeva nella maniera più assoluta. Avevano telefonato proprio per cancellare, dicendo che la dottoressa Scarpetta era dispiaciuta perché Savannah è una città che le piace moltissimo, ma era costretta ad annullare la prenotazione. Sperava che non le facessero pagare la camera, anche se il preavviso era davvero breve, ma aveva perso la coincidenza ad Atlanta e quindi non sarebbe riuscita ad arrivare in tempo per il suo appuntamento. La receptionist mi ha detto che il signore al telefono era piuttosto loquace e ciò mi ha fatto pensare che davvero si trattasse del mio estroverso segretario Bryce, che fra l’altro non mi ha ancora richiamato. La prenotazione annullata, il furgone invece della berlina che avevo specificamente richiesto, il biglietto di Kathleen Lawler, il telefono pubblico... Mi dico che fra poco scoprirò cosa c’è dietro tutto questo. Apro la porta della mia camera, che dà sul fiume, e vedo una nave portacontainer alta come l’albergo che passa lentamente, diretta al mare. Provo a chiamare Benton, che però non mi risponde. Gli mando un SMS dicendogli che sto per andare a un appuntamento, e gli scrivo l’indirizzo che mi ha dato Jaime Berger, perché voglio che almeno una persona fidata sappia dove sono. Non gli dico altro, però. Non specifico con chi mi devo incontrare, non gli esprimo le mie paure e i miei sospetti. Disfo la valigia meditando se cambiarmi, poi decido di lasciar perdere. Jaime Berger è in missione nel Lowcountry e ha affidato a Kathleen Lawler il compito di organizzare un incontro con me prima che io riparta. Potrebbe averla usata anche per attir-
armi qui, ora che ci penso. Per quanto tutte le mie elucubrazioni mi sembrino forzate e assurde, non riesco a smettere di cercare un senso a quello che sta succedendo. Non lo trovo, però. Se Jaime voleva che io venissi qui oggi e andassi al GPFW, se sa che ho prenotato in questo hotel, perché ha chiesto a Kathleen di darmi un bigliettino con il suo numero di cellulare? Non poteva chiamarmi direttamente? Non ho cambiato numero di telefono e lei nemmeno. Ha anche il mio indirizzo di posta elettronica. Avrebbe potuto mettersi direttamente in contatto con me in molti modi; perché ha voluto che usassi un telefono pubblico? Perché tutti questi sotterfugi? Il furgone, la prenotazione cancellata... Mi torna in mente quello che mi ha detto Tara Grimm. “Coincidenze.” Non sono una che crede alle coincidenze, ha ragione. Almeno in questo caso specifico: sono troppe per essere casuali, insignificanti. Vogliono evidentemente dire qualcosa, anche se non so bene cosa. Devo smettere di pensarci, altrimenti divento matta. Mi lavo la faccia e i denti. Avrei voglia di fare una lunga doccia o un bagno caldo, ma non ho tempo. Mi guardo allo specchio sopra il lavabo e mi vedo tirata e stanca: è stata una giornata lunga, calda e piovosa, e l’ho passata chiusa in una prigione o al volante di un furgone scassato e senza aria condizionata. Non voglio che Jaime mi veda in questo stato. Non so bene perché, ma quella donna mi mette a disagio. Mi scatena emozioni ambivalenti, un senso di imbarazzo che non si è allentato in tutto il tempo in cui ci siamo frequentate di più. È irrazionale, ma non ci posso fare niente. Vedere che Lucy la adorava mi suscitava sentimenti indescrivibili. Ricordo quando si sono conosciute, oltre dieci anni fa. Lucy era così animata! Pendeva dalle sue labbra, la guardava adorante e non riusciva a staccare gli occhi da lei. Quando poi è andata come doveva andare, anni dopo, sono rimasta stupefatta. Ero contenta, ma anche un po’ preoccupata. Ero sicura che non sarebbe durata e sapevo che Lucy avrebbe sofferto, come mai prima. Lo temevo fortissimamente. Lucy non è mai stata con nessuna donna paragonabile a Jaime, che ha quasi la mia età ed è innegabilmente affascinante e potente, ricca, brillante, bellissima. Osservo con aria critica i miei capelli biondi e corti, e me li aggiusto con il gel. La luce aspra accentua i miei lineamenti decisi, le zampe di gallina e le rughe fra il naso e la bocca. Ho l’aria affaticata e sembro più vecchia di quello che sono. A Jaime basterà un’occhiata per decidere che la brutta esperienza passata mi ha logorato. Sfiorare la morte lascia il segno. Lo stress è tossico, uccide le cellule, provoca la caduta dei capelli, interferisce con il sonno e, se non dormi, non hai mai l’aria riposata. Non sono poi così orrenda, alla fin fine: è soprattutto una questione di luce. Penso a Kathleen Lawler e alle sue lamentele riguardo alla luce e agli specchi. Mi tornano in mente certi commenti che ha fatto Benton ultimamente.
Comincio ad assomigliare a mia madre, mi ha detto l’altro giorno avvicinandosi per abbracciarmi da dietro mentre mi stavo vestendo. Secondo lui, è il taglio di capelli un po’ più corto. L’ha detto come un complimento, ma io non l’ho presa bene. Non voglio assomigliare a mia madre, non voglio essere come lei. E neanche come mia sorella, Dorothy. Abitano tutt’e due a Miami e si lamentano sempre di tutto: il caldo, i vicini, i cani dei vicini, i gatti selvatici, la politica, la criminalità, l’economia. Ovviamente si lamentano anche del fatto che sono una cattiva figlia, una cattiva sorella e una cattiva zia per Lucy, che non le vado mai a trovare e telefono di rado. Recentemente mia madre mi ha accusato addirittura di aver dimenticato le mie radici italiane, come se crescere in un quartiere italiano di Miami mi rendesse un’italiana DOC. Esco dall’albergo e vedo che il sole è calato dietro i palazzi di pietra e di mattoni lungo Bay Street. L’aria è ancora calda, ma l’umidità è diminuita. Le campane della torre del municipio suonano la mezz’ora. Scendo la scalinata in granito verso River Street e, passando di fianco all’hotel, vedo la sala da ballo e noto che la stanno addobbando per qualche festa. Poi mi trovo di fronte il fiume. Alla luce del crepuscolo è diventato color indaco. Le nuvole si stanno diradando e la luna è enorme, a forma di uovo. Strade e marciapiedi sono pieni di turisti in partenza per le escursioni in battello, in giro per negozi o alla ricerca di un ristorante. Alcuni vecchi vendono fiori gialli fatti con foglie di erba di vaniglia intrecciate, che profumano l’aria. Sento in lontananza le note malinconiche di un flauto dei nativi americani. Tutto quello che vedo mi colpisce; noto tutti quelli che passano, ma non guardo negli occhi nessuno. “Chi altro sa che sono qui? A chi altri interessa? Perché?” Cammino con una determinazione che non ho. Vorrei poter entrare in un bel ristorante e dimenticarmi di Jaime Berger e di quello che vuole da me. Vorrei potermi scordare Kathleen Lawler, la sua detestabile figlia naturale e le cose orribili che sono capitate a Jack Fielding, peggiori della morte stessa. Nei sei mesi che ho trascorso alla base dell’Aeronautica militare di Dover, Jack è degenerato completamente, fino a diventare irriconoscibile. Ero alla base per un corso di aggiornamento in radiologia patologica che mi avrebbe consentito di effettuare autopsie virtuali al CFC. Avevo dato a Jack un’opportunità straordinaria, la possibilità di dirigere il centro in mia assenza. Ma lui ha mandato tutto a catafascio. Saranno state le droghe che assumeva, sarà stata sua figlia a trasformarlo in una bestia impazzita, e in parte avrà agito per soldi. Non lo dirò a nessuno, ma penso sia meglio che Jack sia morto. Sono grata di non doverlo affrontare, di non doverlo mandare via per sempre. Non riesco a capire che cosa gli sia passato per la testa, o forse se ne fregava e basta, ma la sua fine ci ha consentito di non arrivare a una resa dei conti che sarebbe stata brutale e dolorosissima. Perché prima o poi ci saremmo arrivati: era nell’aria da una vita, e Jack avrebbe perso. Miseramente. Sono certa che sapeva che al mio ritorno avrei scoperto tutte le sue ne-
fandezze, i suoi illeciti, la sua condotta immorale. Jack sapeva di non avere scampo, sapeva che stavolta non lo avrei perdonato, non lo avrei protetto, non lo avrei ripreso a lavorare con me. Quando Dawn Kincaid lo ha ucciso, Jack Fielding era già morto. Non so bene perché, ma capire tutto questo mi ha dato una soddisfazione inaspettata, mi ha fatto sentire più sicura di me stessa. Sono cambiata, e in meglio. Non si può amare incondizionatamente, alla fine. Gli altri possono bruciarsi le tue riserve di amore, esaurendole. Non è colpa tua se a un certo punto l’amore finisce, ed è liberatorio rendersene conto. L’amore non vince sempre su tutto, non supera ogni barriera, ed è giusto così. Se Jack fosse ancora vivo, non gli vorrei più bene. Quando ho esaminato il suo cadavere nello scantinato della sua casa di Salem, non ho provato amore. Era rigido e freddo, cocciuto e inamovibile, con i suoi sporchi segreti nella morte come era stato in vita. Una parte di me era contenta che non ci fosse più. Sollevata, grata. “Grazie della libertà che mi hai concesso, Jack. Grazie di essertene andato per sempre, così non mi sentirò più in dovere di sprecare altro tempo e altre energie per te.” Passeggio un po’ per scacciare Jack dai miei pensieri e farmi coraggio, per asciugarmi gli occhi sperando che non siano arrossati. Svolto in Houston Street, allontanandomi dal fiume, mentre sento nove rintocchi di campane. Mi addentro nel centro storico; giro a destra in East Broughton Street e mi fermo in Abercorn Street davanti alla Owens-Thomas House, un edificio bisecolare con un porticato di colonne ioniche, che adesso è un museo. Anche le case intorno sono antiche e molto belle. Guardandole, mi viene in mente la villa a tre piani dei Jordan che ho visto al telegiornale nove anni fa e mi chiedo dove sia. Forse è da queste parti. Chissà se i Jordan erano le vittime designate o se si sono semplicemente trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato. In questa zona quasi tutte le case hanno l’allarme antintrusione. Forse i Jordan si erano dimenticati di inserirlo: la gente è disattenta, anche quella che ha molto da perdere e dovrebbe fare attenzione. Se volessi introdurmi di soppiatto in una villa nelle prime ore del mattino, quando i suoi abitanti dormono, non darei per scontato che l’allarme sia inserito? Negli articoli che ho scorso quando ero ferma in macchina davanti all’armeria, ho letto che Clarence Jordan era fuori casa il pomeriggio della domenica, il 5 gennaio 2002, a fare volontariato al ricovero per i poveri. Tornò a casa alle sette e mezzo. Non ho sentito parlare di allarmi, né del motivo per cui non lo inserì al suo rientro, ma evidentemente non lo fece. È impossibile che l’allarme fosse inserito quando l’assassino entrò in casa nel cuore della notte. Lola Daggette – sempre che sia lei l’assassina – ruppe il vetro della cucina al pianterreno, infilò il braccio per aprire la finestra ed entrò in casa. Se anche l’impianto di allarme non avesse avuto sensori alle finestre né di movimento, avrebbe comunque avuto contatti magnetici negli infissi e nei battenti che avrebbero fatto scattare la sirena, la quale avrebbe con-
tinuato a suonare fino al disinserimento dell’impianto. È difficile immaginare che nessuno dei quattro si sia svegliato per il rumore. Forse Jaime sa qualcosa. Forse Lola Daggette le ha rivelato cosa successe veramente quella notte. Sto per scoprire come mai sono qui e qual è il mio ruolo in questa faccenda. Sul marciapiede buio, a tratti rischiarato dalla luce degli alti lampioni di ferro, provo a chiamare il mio avvocato. Leonard Brazzo adora le steak-house e quando mi risponde mi informa che è alla Palm e che il ristorante è pieno di gente. «Aspetta che esco» mi dice la sua voce all’auricolare. «Ecco, così va meglio» aggiunge. Sento dei clacson. «Com’è andata? Cosa ti ha detto?» Si riferisce a Kathleen Lawler. «Mi ha parlato di certe lettere scritte da Jack» rispondo. «Non mi risulta che siano state trovate. Io non ho visto nessuna lettera quando ho controllato i suoi effetti personali nella casa di Salem, ma è possibile che me le abbiano tenute nascoste» dico, guardando la casa di Jaime Berger dall’altra parte della strada. È di mattoni bianchi, otto piani, con grandi vetrate. “Lei invece gli stava sui coglioni.” «Non ne so niente» replica Leonard. «Ma perché avrebbe dovuto avere lui le lettere che le scriveva?» «Non lo so.» «A meno che lei non gliele abbia restituite a un certo punto. Scusa, c’è vento. Spero che tu mi senta.» «Ti riferisco semplicemente quello che mi ha detto lei.» «L’FBI» dice. «Non mi sorprenderei se avessero chiesto un mandato per perquisire la sua cella o dove altro potrebbe tenere le sue cose, per cercare eventuali lettere o altre forme di comunicazione con Jack Fielding o Dawn Kincaid.» «E noi non lo sapremmo. Non necessariamente» rifletto. «No. Polizia e dipartimento della Giustizia non hanno l’obbligo di metterci a disposizione eventuali lettere, sempre che esistano.» Certo che non ne hanno l’obbligo. Non sono io a essere imputata di omicidio o di tentato omicidio. Ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere. Dawn Kincaid e i suoi legali hanno diritto di accedere a tutto il materiale probatorio raccolto dall’accusa, comprese eventuali lettere di Jack a Kathleen Lawler in cui si fa beffe di me, ma a me non è dato vederle. Non mi è concesso sapere cosa c’è scritto fino al processo, quando potrebbero essere usate contro di me. Le vittime non hanno diritti nel momento in cui vengono aggredite e ne hanno pochi anche quando la giustizia fa lentamente il suo corso. Le ferite non si rimarginano, riaperte costantemente da avvocati, media, giurati, testimoni capaci di dichiarare sotto giuramento che una persona come me se l’è voluta, se l’è cercata.
“Diceva che lei non si rende conto di quanto è severa con il prossimo... Una vecchia zitella acida che aveva bisogno di cazzo...” «Hai paura di quello che potrebbe esserci scritto?» mi domanda Leonard. «A quanto pare non mi dipingono molto favorevolmente, sempre che mi sia stata detta la verità. Sarebbero più utili a quell’altra.» Sarebbero più utili a Dawn Kincaid. Non voglio fare il suo nome, visto che sono su un marciapiede, al buio, fra gente che passa e macchine che mi abbagliano con i fari. Più verrò denigrata, meno credibile e meno simpatica risulterò ai giurati. «Ci penseremo quando e se verranno fuori» mi dice Leonard. Non vuole che mi agiti per qualcosa che non sappiamo neppure se esiste. «Mi chiedevo anche se Jaime Berger si è messa in contatto con te» dico, arrivando al punto. «Il sostituto procuratore?» «Precisamente.» «No. Perché avrebbe dovuto?» «Curtis Roberts» dico, facendo il nome dell’avvocato che mi ha nominato Tara Grimm. «Cosa sai di lui?» «So che collabora come volontario al Georgia Innocence Project e lavora per uno studio di Atlanta.» «Difende Kathleen Lawler a titolo gratuito, quindi.» «Parrebbe di sì.» «E perché il Georgia Innocence Project dovrebbe interessarsi a Kathleen Lawler? Ci sono dubbi sulla legittimità della sua condanna? Non è accertato che ha investito un ragazzino mentre era sotto l’effetto di sostanze?» «So solo che ha chiamato per conto di Kathleen Lawler.» Decido di non dirgli altro, pensando al bigliettino che Kathleen Lawler mi ha dato oggi pomeriggio e alla raccomandazione di usare solo un telefono pubblico. “Ma perché?” Se è stata Jaime a dirglielo, vuol dire che ha paura che io usi il mio cellulare. Dico a Leonard Brazzo che gli spiegherò con maggiori dettagli un’altra volta e gli auguro buon appetito. Poi chiudo la comunicazione e attraverso la strada, preparandomi ad affrontare qualunque cosa mi toccher affrontare. Mi chiedo quali siano le finestre di Jaime e se mi stia guardando. Mi chiedo anche cosa voglia dire per lei guardare fuori dalla finestra un mondo in cui Lucy non c’è più. Non vorrei sentire la mancanza di mia nipote. Sarebbe terribile averla conosciuta da vicino e non averla più. Nel palazzo non c’è portineria. Suono il citofono dell’appartamento 8SE e sento scattare la serratura. Evidentemente la persona che ha aperto sa già che sono io. Mi guardo intorno alla
ricerca di una telecamera e penso che è la seconda volta che lo faccio, oggi. Ne vedo una in un alloggiamento di metallo bianco che si confonde con i mattoni bianchi, in un angolo sopra la porta. Mi viene in mente che, se Jaime mi sta osservando su un monitor, probabilmente ha installato lei l’impianto a circuito chiuso e la telecamera è a infrarossi, quindi funziona anche al buio. Non mi pare che il palazzo sia dotato di un impianto di sicurezza, a parte le serrature elettroniche e il citofono. Mi incuriosisco. Quella di Savannah non è una semplice seconda casa se Jaime vi ha installato un sofisticato impianto di sicurezza. Apro la porta e ho la sensazione di avere qualcuno alle spalle. Mi volto e vedo una persona che scende da una bici e la appoggia al lampione vicino alla strada. Ha in testa un casco con una lampadina. «Jaime Berger?» chiede. Mi rendo conto che è una donna. Si toglie lo zaino, lo apre e tira fuori un grosso sacchetto bianco. «Non sono io» rispondo. Mi viene incontro tenendo in mano il sacchetto, che ha il nome di un ristorante stampato sopra. Preme il citofono e annuncia: «Ho una consegna per Jaime Berger». Le tengo aperta la porta e dico: «Va bene, dia pure a me. Salgo io. Quanto le devo?». «Sono due tekka maki, due unagi maki, due California maki e due insalate di alghe. Ha già pagato con la carta di credito.» Mi porge il sacchetto e io le do dieci dollari di mancia. «Il solito. Lo prende tutti i giovedì. Buona serata.» Chiudo il portone e prendo l’ascensore per salire all’ultimo piano, dove seguo una passatoia rossa fino all’appartamento sull’angolo sudest. Il corridoio è vuoto. Suono il campanello e alzo gli occhi verso l’obiettivo di un’altra telecamera. La porta si apre e io rimango sbigottita. «Capo» dice Pete Marino. «Non ti incazzare.» 014_chapter8
8 Mi invita a entrare come se fosse casa sua, con un’espressione seria dietro gli occhiali dalla montatura di metallo fuori moda e una piega grave della bocca che mi fanno venire il nervoso. «Jaime sarà qui a momenti.» Chiude la porta. Il mio sbigottimento si trasforma in rabbia. Lo squadro dalla testa ben rasata e luccicante ai piedi nelle scarpe di tela con la suola di gomma, senza calzini. Ha le spalle più larghe e la pancia più piatta di come me lo ricordavo. Indossa una camicia hawaiana e un paio di bermuda verdi con le tasche laterali, a vita bassa, ed è abbronzato dappertutto tranne che sotto il mento. Dev’essere stato al mare o in barca, in un posto caldo, per essere diventato tanto scuro. Persino la pelata e le orecchie sono color cognac. Intorno agli occhi la pelle è più chiara: deve aver portato sempre gli occhiali da sole, ma non il berretto. Penso al furgone, ai dépliant di barche a noleggio nel vano portaoggetti, ai tovagliolini di carta di un fast-food. Marino adora il pollo fritto e i panini di Bojangles e Popeyes e si lamenta spesso del fatto che i fritti del New England non sono nemmeno paragonabili a quelli che si mangiano al Sud. Penso ai commenti che ha fatto recentemente riguardo ai pick-up e alle barche, che ormai costano poco o niente, e a quanto gli manca il clima caldo. Mi ricordo che mi ha dato parecchio fastidio quando all’inizio del mese è venuto a chiedermi le ferie con scarsissimo preavviso. Mi ha detto che aveva trovato un’occasione da non perdere, che voleva andare a pescare e non aveva scadenze urgenti. L’ultimo giorno in cui è venuto a lavorare al CFC è stato il 15 giugno. È sparito a metà mese, nello stesso periodo in cui sono successe un sacco di altre cose: ho smesso di ricevere e-mail da Kathleen Lawler, trasferita nel reparto di massima sicurezza. Mi è stato chiesto di fare una visita al GPFW per parlare di Jack Fielding. Leonard Brazzo ha ritenuto che fosse meglio per me andarci e, ora che sono qui, scopro che anche Jaime Berger è a Savannah. Con il senno di poi, è evidente che Marino mi ha raccontato una balla. «È andata a comprare da mangiare» mi spiega, prendendo il sacchetto del sushi che ho in mano. «Una cena come si deve. Queste mi sembrano esche per pescare.» Noto una scrivania, un tavolino e due sedie sistemate vicino al muro di fronte a me, con due portatili e una stampante, libri e bloc-notes. Per terra sono impilati faldoni e classificatori. «Parlare in un ristorante non mi sembrava una buona idea» aggiunge, posando il sacchetto del sushi sul bancone della cucina. «Non sono in grado di giudicare. Non so come mai tu sia qui. Né, soprattutto, perché ci sia io» ribatto. «Bevi qualcosa?» «No, grazie.»
Passo davanti al monitor dell’impianto a circuito chiuso montato a parete, accanto all’attaccapanni. Mi sembra di sentire odore di fumo. «Capisco la tua perplessità» dice Marino, scartando il sushi. «Meglio metterlo nel frigo. Non ti arrabbiare, capo.» «Lascia perdere, per favore. Hai ripreso a fumare?» «Figurati!» «Sento odore di fumo. E lo sentivo anche sul furgone che mi hanno appioppato nonostante avessi prenotato una berlina. Quel catorcio puzza anche di pesce fritto e nel vano portaoggetti ci sono dépliant sospetti. Spero proprio che tu non ti sia rimesso a fumare.» «Non ricomincerei mai, dopo la fatica che ho fatto per smettere.» «Chi è il capitano Link Michaels?» Mi riferisco a uno dei dépliant che ho trovato nel camioncino. «“Pesca tutto l’anno con il capitano Link Michaels”» cito letteralmente. «Uno di Beaufort che organizza escursioni in barca. Simpatico. Ci sono andato un paio di volte.» «Senza berretto e senza crema solare, presumo. E i tuoi tumori?» «Non ne ho più.» Si tocca la testa, a disagio. Qualche mese fa gli hanno tolto alcuni carcinomi basocellulari. «Non è che ora che te li hanno tolti puoi andare in giro senza protezione. Devi mettere crema solare e berretto.» «Ce l’avevo, ma mi è volato via per il vento e mi sono scottato un pochino.» Si tocca di nuovo la testa pelata. «Non è più il caso di controllare a chi appartenga il mezzo che mi è toccato guidare oggi, deduco. Mi sembra di capire che non è della Lowcountry Concierge Connection» dico. «Chi ci ha fumato dentro, se non sei stato tu?» «L’importante è che nessuno ti abbia seguito fin qui» risponde lui. «Su quel furgone, ero certo che non ti avrebbero pedinato. Mi sono scordato di svuotare il vano portaoggetti. Avrei dovuto prevedere che ci avresti curiosato dentro.» «Chi era il ragazzo che me l’ha portato? Non credo proprio che lavori per un’agenzia di noleggio che si chiama Lowcountry Concierge Connection. L’hai noleggiato tu, vero? E hai chiesto al marinaio che organizza escursioni in barca di consegnarmelo.» «Non l’ho noleggiato» mi risponde. «Be’, almeno adesso so come mai Bryce non mi ha richiamato in tutto il giorno. È stato manipolato da qualcuno, presumo. Non sarebbe la prima volta che cospirate alle mie spalle. Lo avrai convinto che era per il mio bene. Gli hai detto anche di annullare la mia prenotazione in albergo?»
«Non ha importanza, visto che è andato tutto bene.» «Santo cielo, Marino!» impreco. «Perché gli hai fatto annullare la prenotazione? Cosa caspita hai nella testa? E se non avessero avuto un’altra camera da darmi?» «Sapevo che avevano altre camere libere.» «Sarei potuta andare a sbattere, con quel catorcio di furgone. Non si riesce a guidare.» «Fino all’altro giorno andava benissimo.» Si acciglia. «Cos’ha che non va? Non ti darei mai un mezzo poco sicuro, lo sai. E, comunque, se avessi avuto dei problemi l’avrei saputo.» «Poco sicuro?» ribatto. «Accelera e rallenta quando vuole lui, sobbalza e sussulta come se avesse una crisi epilettica.» «È piovuto molto, ieri notte, nel South Carolina. Un temporale fortissimo, peggio che qui. Pioveva come Dio la mandava. Era posteggiato all’aperto e il cofano non chiude perfettamente.» «Cosa c’entra il South Carolina?» «Si devono essere bagnate le candele. Ha preso la pioggia anche mentre tu eri nel carcere. E forse Joey ha beccato qualche buca e la convergenza è andata a farsi friggere. È un bravo ragazzo, ma non è quel che si suol dire una cima. Avrebbe dovuto avvertirmi se c’era qualcosa che non andava. Senti, mi dispiace. Ho preso in affitto un appartamento a Charleston, vicino all’acquario. Ci sono un molo, ormeggi per le barche... Da qui in moto ci si mette pochissimo. Volevo dirtelo, ma poi sono successe un sacco di cose e...» Mi guardo intorno, cercando di capire che cosa mi sta dicendo. “Cos’è successo? A cosa si riferisce?” «Dovevo essere sicuro che non ti seguissero, capo» dice. «Siamo sinceri, Benton sa cosa sei venuta a fare qui e ha il tuo itinerario perché Bryce gli ha mandato copia di tutte le e-mail. Sono sul computer del CFC.» Mi sta dicendo che il mezzo che Bryce mi ha prenotato è sul mio itinerario, ma il furgone con il cofano che non chiude bene no, e non si sa neppure dove alloggio, visto che la mia prenotazione allo Hyatt è stata cancellata. Non capisco cosa stia cercando di dirmi a proposito di Benton. «Mettiamola così, allora» riprende. «Nelle prenotazioni della Lowcountry Concierge Connection c’è una Toyota Camry a nome Kay Scarpetta. Se a qualcuno fosse venuto in mente di andare lì ad aspettarti perché aveva avuto accesso al tuo itinerario, alle tue e-mail, o fosse venuto in possesso di certe informazioni in qualche altro modo, non ti avrebbe incontrato. Se a quel punto avesse deciso di chiamare il tuo albergo, avrebbe scoperto che avevi cancellato la prenotazione perché avevi perso la coincidenza ad Atlanta.» «Perché Benton avrebbe dovuto farmi pedinare?»
«Magari non lui, ma qualcun altro che ha visto il tuo itinerario. Probabilmente Benton l’ha intuito e infatti non voleva che venissi.» «Come fai a sapere che Benton non voleva che venissi?» «Perché è normale che non volesse.» Non rispondo e distolgo lo sguardo da lui. Mi giro dall’altra parte e osservo la casa di Jaime, con i suoi vecchi mattoni a vista, il parquet di pino, gli alti soffitti bianchi con le travi in rovere. È più nel mio stile che nel suo, rifletto. Il soggiorno, con un divano in pelle e poltrona coordinata, tavolino basso in ardesia, dà su una grande cucina con una penisola di pietra ed elettrodomestici in acciaio inossidabile. È una cucina bene attrezzata, fatta per essere usata. Peccato che Jaime Berger non ami cucinare. Non ci sono quadri, benché Jaime sia una collezionista d’arte. Non vedo tocchi personali, a parte la roba sulla scrivania e per terra, sotto la grande finestra da cui si vedono il cielo scuro e la luna, lontana, piccola e bianca. Non riconosco mobili né tappeti che possano essere suoi, eppure conosco i suoi gusti. Ama gli arredi contemporanei, minimalisti. Predilige mobili italiani o scandinavi, legno chiaro, come acero e betulla. Jaime ama gli ambienti semplici perché ha una vita complicata. Mi viene in mente quanto poco le piaceva il loft di Lucy al Greenwich Village, in un palazzo stupendo che un tempo era una fabbrica di candele. Mi ricordo quanto ci sono rimasta male quando ho sentito che lo definiva: “Quel vecchio fienile pieno di spifferi”. «Perché Jaime ha affittato questa casa?» chiedo a Marino. Mi siedo sul divano di pelle marrone che è una riproduzione di un modello tradizionale e non è per nulla nello stile di Jaime. «E cosa c’entri tu? Cosa c’entro io? Perché pensi che qualcuno potesse pedinarmi? Avresti dovuto avvertirmi se eri così preoccupato per me. Cosa c’è? Stai pensando di cambiare lavoro? O sei già tornato a lavorare per Jaime e ti sei dimenticato di dirmelo?» «Non sto cambiando lavoro, capo. Non esattamente.» «Non esattamente? Be’, di sicuro ti ha tirato dentro qualche suo intrallazzo. Eppure ormai la conosci bene...» Jaime Berger è una donna calcolatrice. Lo è a livelli spaventosi. Marino non è in grado di competere con una così. Non lo era quando lavorava per il dipartimento di polizia di New York ed era stato assegnato all’ufficio di Jaime in procura, non lo è adesso e non lo sarà mai. Non so cosa gli abbia detto lei per giustificare la sua presenza a Savannah e i maneggi che ha fatto per attirarmi qui, ma so che non gli ha detto la verità. «Se sei qui per Jaime, vuol dire che lavori per lei» dichiaro. «Non lavori certamente per me se mi fai avere una macchina che non ho ordinato, mi cancelli la prenotazione in albergo e trami alle mie spalle.»
«Lavoro per te dando una mano a lei. Non me ne sono andato dal CFC, capo» replica Marino, con una delicatezza che mi sorprende. «Non ti farei mai una simile stronzata.» Avrei voglia di fargli notare che nei venti e passa anni in cui abbiamo lavorato insieme mi ha fatto un numero considerevole di stronzate, ma evito. Non riesco a togliermi dalla testa quello che mi ha detto Kathleen Lawler. Mi torna in mente di continuo. Nei primi anni Novanta Jack Fielding le scriveva su fogli a righe, come uno scolaretto. Immaturo, maligno e infantile come uno scolaretto che ce l’aveva con me. Lui e Marino pensavano che avessi bisogno di essere scaldata da qualcuno capace di scoparmi per bene. Per un attimo il Marino che ho davanti è quello di tanti anni fa. Me lo rivedo a bordo della sua Crown Vic piena di antenne, luci di emergenza e sacchetti di fast-food appallottolati, con il posacenere che traboccava di cicche, puzzolente di fumo di sigaretta e di inutili deodoranti che penzolavano dallo specchietto retrovisore. Mi ricordo il suo sguardo di sfida, il suo modo di fissarmi come a dire che sarò anche stata la prima donna a dirigere l’Istituto di medicina legale della Virginia, ma per lui continuavo a essere una femmina dotata di tette e culo. Mi ricordo la solitudine e il senso di straniamento che provavo tutte le sere, quando tornavo a casa nella capitale della Confederazione. «Capo?» A Richmond, dove non conoscevo nessuno. «Cosa c’è?» Mi ricordo quanto ero sola. «Di’, stai bene?» Guardo Marino e vedo l’uomo che è diventato vent’anni dopo. Incombe su di me, la testa pelata come una palla da biliardo, la pelle invecchiata dal sole. «E se Kathleen Lawler si fosse rifiutata di giocare al vostro gioco?» gli chiedo. «Se non mi avesse consegnato il bigliettino con il numero di Jaime? Cosa avreste fatto, eh?» «Un po’ la cosa mi preoccupava.» Si avvicina alla finestra e guarda fuori. «Jaime però era sicura che te l’avrebbe passato» aggiunge, dandomi la schiena. Forse sta guardando se la vede giù in strada. «Ah, ne era sicura. Capisco» ribatto. «Be’, non mi fa molto piacere.» «Lo so. Ma c’è un motivo.» Mi viene incontro e si ferma a pochi passi da me. «Jaime non poteva contattarti direttamente, a questo punto. La cosa migliore era che chiamassi tu per prima. E che lo facessi in maniera non facilmente rintracciabile.» «Per motivi di legge o cosa?» «È meglio che non risulti che è stata lei a convocarti qui. Non poteva essere lei a contattarti» ribadisce. «Domani vi incontrerete all’Istituto di medicina legale, per lavoro, ma stasera tu non sei stata qui.»
«Vediamo se ho capito: dovrei far finta di non essere qui stasera e di non aver incontrato Jaime.» «Esatto.» «Dovrei darvi corda, insomma.» «Per il tuo bene. È indispensabile.» «Non ho intenzione di coprire nessuno e non so quale sia il vostro piano» dichiaro. Invece forse lo so. Penso ai referti delle autopsie sui cadaveri dei Jordan, alle prove materiali conservate all’Istituto di medicina legale di Savannah. «Domani mattina io riparto» aggiungo, guardando nuovamente i faldoni vicino alla scrivania. Sono contrassegnati da etichette di colori diversi, con iniziali o abbreviazioni che non riconosco. «Ti passo a prendere alle otto.» Marino sta in piedi in mezzo alla stanza come se non sapesse dove mettersi. Con la sua presenza, rimpicciolisce tutto quello che c’è intorno. «Sarebbe meglio se mi dicessi perché siamo qui.» «È difficile rapportarsi con te quando sei di questo umore.» Mi guarda. Mi dà fastidio essere seduta, se lui sta in piedi. «Credevo che lavorassi per me, non per Jaime. Che facessi i miei interessi, non i suoi o di qualcun altro.» Lo dico da arrabbiata, ma in realtà sono offesa. «Ti siedi, per favore?» «Se ti avessi detto che le volevo dare una mano, che volevo fare le cose in maniera leggermente diversa, mi avresti detto di no.» Si siede sulla poltrona di pelle, facendola scricchiolare. «Non so a cosa ti riferisci. Come fai a sapere che avrei reagito così?» Mi sembra che mi stia accusando di fare la difficile. «Tu non capisci cosa sta succedendo perché nessuno è in condizione di dirti chiaro e tondo come stanno le cose.» Si protende in avanti, con le braccia appoggiate alle ginocchia. È grande, grosso, imponente. «Ti vogliono rovinare, capo.» «Credevo avessimo già stabilito che...» comincio. Ma lui non mi lascia parlare. «No.» Scuote la testa. Vedo che non si è fatto la barba. «Non hai capito. Forse Dawn Kincaid non ti può fare nulla finché è rinchiusa nel nido del cuculo, ma ci sono altri modi, altre persone. Quella è decisa a rovinarti.» «Non vedo come possa esprimere intenzioni violente e illecite di nascosto dal personale del Butler State Hospital, della polizia, dell’FBI.» Cerco di essere razionale, di non lasciarmi fuorviare dalle emozioni, dalla collera. Non voglio farmi influenzare dall’amarezza che mi provoca sapere che Jack e Marino ridevano alle mie spalle vent’anni fa, mi consideravano in quel modo, mi emarginavano. «Può farlo benissimo, invece.» Mi guarda negli occhi. «I suoi avvocati di merda, tanto per cominciare. Che possono parlarle in privato, come ha fatto Jaime con Kathleen Lawler. Se hai
paura che ti registrino o ti riprendano, comunichi per iscritto, passi dei bigliettini. Scrivi sul bloc-notes, il tuo assistito legge e nessuno dice niente.» «Dubito che i legali di Dawn Kincaid abbiano assoldato un killer, se è a questo che alludi.» «Se l’abbiano fatto non lo so, ma che ti vogliono rovinare e mandare in galera è assodato. Sei in pericolo, da qualsiasi parte la si guardi.» Mi rendo conto che è convinto di quello che dice e mi chiedo in che misura sia stato influenzato da Jaime. “Che cosa ha in mente di fare quella donna? E perché?” «Ho corso dei rischi sul tuo cavolo di furgone» ribatto. «Se fossi rimasta in panne in mezzo alla campagna...» «L’avrei saputo. So con esattezza tutto quello che hai fatto oggi. Ti ho seguito passo dopo passo, compresa l’armeria a due chilometri da Dean Forest Road, direzione nord. Ho un dispositivo di tracciamento GPS su quel furgone, e ne seguo tutti i movimenti su una mappa di Google.» «Ma è ridicolo! Chi ha orchestrato tutto questo? E perché?» domando. «Non credo sia stata un’idea tua. Jaime è venuta al Sud per parlare con Lola Daggette? D’accordo, ma cosa c’entro io? E tu? Cos’è che vuole veramente Jaime?» «Ha chiamato il CFC un paio di mesi fa» comincia a spiegare Marino. «Io ero nell’ufficio di Bryce e ho preso la telefonata. Mi ha detto che stava svolgendo alcune indagini legate a Lola Daggette, detenuta nello stesso carcere di Kathleen Lawler. Voleva sapere, almeno ufficiosamente, se avevo informazioni a proposito di Lola, se era saltato fuori il suo nome nel corso dell’inchiesta per i fatti commessi da Dawn Kincaid e...» «E tu non me l’hai riferito» lo interrompo. «Voleva parlare con me, non con te» replica lui, come se a dirigere il CFC fosse Jaime Berger, oppure lui. «Non ci ho messo molto a capire che c’era qualcosa di strano. Per cominciare, non chiamava dalla procura e il display mi dava NUMERO SCONOSCIUTO. Mi ha telefonato da casa, in pieno giorno. Mi è sembrato strano. Poi mi ha detto che doveva “trattare cose così complesse da richiedere un periodo di decompressione prima di poter riemergere”. Quando lavoravo con lei, era la frase in codice che significava che mi doveva parlare in privato e non per telefono. Così sono andato alla South Station e ho preso l’Acela per New York.» Non si sta scusando: è tranquillissimo e pensa di non aver fatto niente di male. Invece mi ha tenuto nascosto tutto per due mesi, perché Jaime Berger l’ha usato come una pedina. Lei sapeva esattamente cosa stava facendo quando lo ha chiamato parlandogli in codice. «Mi stupisce che vivi con uno dell’FBI e non sai di avere i telefoni sotto controllo» aggiunge. Sprofonda nella poltrona di pelle e accavalla le gambe. Sono enormi, anche se meno di una volta. Marino ha fatto il pugile. Era un peso massimo, una bestia. “A quanti hai spaccato
la testa, provocando danni cerebrali? A quanti hai rovinato la faccia?” «Ti controllano anche la posta elettronica» dice. Vedo che ha alcune piccole cicatrici bianche sulle ginocchia e mi chiedo come se le è procurate. «Non escludo che ti seguano pure.» Mi alzo dal divano. «Sai come funziona» mi dice mentre vado nella bella cucina di Jaime Berger, che sembra utilizzarla molto poco. «Si fanno fare un’ordinanza dal tribunale e ti spiano senza dirti niente.» 015_chapter9
9 Non gli chiedo se vuole da bere. Non dico niente. Apro il frigo e guardo cosa c’è dentro: vino, acqua minerale gasata, Coca-Cola Light, yogurt greco, wasabi, zenzero e salsa di soia. Apro gli sportelli ma negli armadietti non c’è quasi nulla, a parte piatti, tazze e bicchieri tipici di una casa in affitto. Ci sono saliera e pepiera, ma niente spezie. Vedo una bottiglia piccola di Johnny Walker Blue Label. Prendo una bottiglia di acqua naturale in dispensa, dove vedo altre bibite ipocaloriche e un certo assortimento di vitamine, analgesici e pastiglie per la digestione. Riconosco i segni desolanti delle vite spezzate: conosco le credenze e i frigoriferi di chi ha subito una brutta perdita. Jaime non si è ancora ripresa dalla rottura con Lucy. «Come fa a tenerti nascosta una cosa del genere?» Marino continua a dare addosso a Benton. «Io non ci riuscirei. Non me ne frega niente del protocollo. Se sapessi che i federali ti stanno addosso, te lo direi. Ti informerei, cazzo! E infatti lo sto facendo, mentre lui se ne sta zitto perché deve fare il bravo federale, seguire le regole anche quando sotto inchiesta c’è sua moglie. Neanche quella sera ha fatto un cazzo, peraltro. Se ne è rimasto lì tranquillo davanti al caminetto a sorseggiare il suo drink e ti ha lasciato uscire al buio da sola.» «Non è andata propriamente così.» «Sapeva che Dawn Kincaid e compagnia bella erano a piede libero e ti ha lasciato uscire da sola al buio.» «Non è andata così, ti dico.» «Sei viva per miracolo. È colpa sua, perdio. Hai rischiato di andare all’altro mondo perché lui non ha mosso un dito.» Torno verso il divano. «Questa proprio non gliela perdono.» Come se toccasse a lui perdonarlo. Mi chiedo cosa gli abbia raccontato Jaime per metterlo contro Benton a questo modo. Ha versato benzina sul fuoco, perché Marino è sempre stato geloso di Benton e si arrabbia con lui per la minima cosa. «Non voleva che tu venissi qui, ma non è che si è offerto di accompagnarti, o sbaglio?» Marino alza la voce, arrabbiato. Penso a quelle lettere e a quanto Marino sappia essere insicuro ed egoista. Quando dirigevo l’Istituto di medicina legale della Virginia, lui era l’investigatore più bravo del dipartimento di polizia di Richmond e all’inizio era scorbutico e poco collaborativo e faceva di tutto per farmi perdere il lavoro. Dopo un po’, rendendosi conto che era meglio avermi come amica e alleata, cambiò atteggiamento. Forse è sempre stata questa la sua motivazione: il fatto che io fossi potente e che mi sia sempre presa cura di lui. Meglio stare dalla mia parte, mantenersi un buon posto di lavoro, soprattutto quando il lavoro scarseggia e si invecchia. Se lo licenziassi, probabilmente finirebbe a fare la guardia del corpo. Mi sto mont-
ando da sola. Sono arrabbiata, ma anche molto triste. Mi vengono le lacrime agli occhi. «Sono stata io a non volere che mi accompagnasse e comunque al GPFW non sarebbe potuto entrare. Non sarebbe stato possibile» rispondo. Bevo dalla bottiglia. «Ammesso che quel che dici sia vero e che sul serio l’FBI stia indagando su di me per qualche motivo strampalato, Benton non ne sarebbe al corrente.» Mi risiedo sul divano. «Non glielo direbbero» continuo, seguendo la mia logica. Penso a Kathleen Lawler e ai suoi commenti riguardo alla mia fama e al fatto che, al contrario di lei, io ho una reputazione da difendere. Mi è sembrato subito che alludesse a qualcosa, che il suo fosse un avvertimento, che le facesse piacere sapere che incombeva su di me qualche disgrazia. Ripenso alle lettere, a quello che mi ha detto in proposito, e mi stupisco di quanto male mi faccia. Dopo venti e passa anni non dovrebbe darmi così fastidio. Invece mi addolora profondamente. «Lavora all’FBI e non lo sa? Ma ti sembra possibile?» Quando Marino fa così, mi rendo conto dell’astio che ha nei confronti di Benton. Non riesce ad accettare che io e Benton siamo sposati e siamo anche abbastanza felici insieme. Non ammette che mio marito, per quanto sembri borioso, abbia un fascino e una personalità. Non capisce. «Tu come fai a saperlo? Comincia a dirmi questo» replico. «Lo so perché i federali hanno richiesto ufficialmente che dal server del CFC non venga cancellato niente» mi risponde. «E questo significa che è da un pezzo che ti controllano la posta elettronica e chissà cos’altro.» «Perché io non ne sono a conoscenza?» Penso alle informazioni sensibili che il CFC ha sul server, classificate come segrete se non addirittura top-secret dal dipartimento della Difesa. «Ma come cazzo fai a mantenere la calma?» sbotta Marino. «Hai capito cosa ti ho detto? L’FBI sta indagando su di te. Sei nel mirino dei federali.» «Se fosse vero, lo saprei. Se fossi indagata per un reato federale, dovrebbero interrogarmi. Dovrebbero convocare il gran giurì. Avrebbero contattato Leonard Brazzo. Voglio sapere come mai non so niente di questa richiesta ufficiale» ripeto. «Perché non ne devi sapere niente. Nemmeno io dovrei saperlo, se è per questo.» «Lucy lo sa?» «È lei l’amministratrice del sistema informatico. Ha ricevuto lei la notifica. È lei la responsabile della conservazione di tutto il materiale sul server.» Evidentemente Lucy l’ha detto a Marino e a me no.
«Non cancelliamo niente comunque e una richiesta ufficiale di conservazione non significa che i federali abbiano letto tutto» gli faccio notare. Spaventare il prossimo è una tattica sempre efficace. Marino non ha studiato giurisprudenza e Jaime deve averlo spaventato per fargli fare quello che vuole lei. «Stai minimizzando.» È incredulo. «In primo luogo, il mio processo è di competenza federale e quindi è normale che i federali siano interessati ai nostri archivi elettronici, specie per quel che riguarda Jack, considerato il fatto che, mentre io ero a Dover, lui ha svolto attività illecite di concerto con personaggi pericolosi. Non ultima sua figlia, Dawn Kincaid. È normale che l’FBI legga le sue e-mail, i suoi file, la sua roba. E, siccome ci vuole del tempo, è normale che ci chiedano di non cancellare niente. Non era il caso di ricorrere a un’ordinanza, comunque. Cosa mai avrei cancellato? L’itinerario del mio viaggio in Georgia? Mi sorprende però che Lucy non mi abbia detto niente.» «Possono accusarci di intralciare la giustizia» dice. «È un’altra delle paure che ti ha messo Jaime? Ne ha parlato anche con Lucy?» «Non parla né con Lucy né di Lucy.» Marino conferma i miei sospetti: anch’io credo che Jaime e Lucy non si sentano più. «Sono stato io a dire a Lucy e a Bryce, chiaro e tondo, che se non volevano che tu finissi dentro dovevano stare bene attenti a quello che ti venivano a raccontare.» «Apprezzo molto che tu li abbia incoraggiati a non mettermi nei guai con la giustizia.» «C’è poco da fare gli spiritosi.» «Sono d’accordo. Mi dispiace che tu pensi che, se avessi ricevuto determinate informazioni, avrei compiuto delle irregolarità, tipo cancellare dei file. Sono sempre sotto esame, Marino, ogni giorno della mia vita. Cosa ti ha raccontato Jaime per agitarti tanto e per farti diventare così paranoico?» «Stanno interrogando gente per acquisire informazioni sul tuo conto. In aprile due agenti federali sono andati a casa sua.» Mi sento tradita. Non dall’FBI, da Benton o da Jaime, ma da Marino. Quelle lettere... Non pensavo che mi prendesse in giro, che mi sminuisse agli occhi del mio protetto, Jack, a cui facevo da mentore. Ero agli inizi della carriera e Marino parlava male di me ai miei sottoposti. «Le hanno chiesto che tipo eri, dato che ti conosce personalmente già dai tempi di Richmond, e vi siete frequentate per un lungo periodo» dice Marino, ma io non riesco a pensare ad altro che a Kathleen Lawler e a quelle lettere. «Volevano metterla con le spalle al muro prima che scomparisse nel privato» aggiunge. «Magari c’era anche del risentimento, questioni politiche, i suoi problemi con il dipartimento di polizia di New York...»
«Che tipo ero?» mi scappa detto. «Già, perché sono un tipo difficile, vero? È dura lavorare con me. Sono una che si relaziona bene solo con i morti.» «Cosa stai dicendo?» «Forse è per questo che sono indagata: perché sono un essere spregevole che rende infelice il prossimo, lo distrugge psicologicamente. Merito il carcere, per questo.» «Cosa ti prende?» Mi fissa. «Di cosa stai parlando?» «Delle lettere che Jack scriveva a Kathleen Lawler» rispondo. «E che nessuno ha avuto il coraggio di farmi vedere. Per via dei commenti che tu e Jack facevate alle mie spalle, ai tempi di Richmond. Le cose che dicevate di me e che lui riferiva a Kathleen quando le scriveva.» «Non so niente di quelle lettere.» Marino si protende in avanti sulla poltrona. Non capisce. «Non c’erano lettere in casa sua né per né da Kathleen Lawler. Non ho idea se lei ne abbia, sempre che sia vero che Jack le scriveva. Personalmente, ne dubito.» «E perché?» gli chiedo. Non riesco a non alzare la voce. «Jack non è mai stato single a lungo e credo che le sue compagne non sarebbero state molto contente che lui scrivesse alla donna che l’aveva molestato da ragazzo.» «Che si scambiavano e-mail è assodato.» «Mogli e fidanzate non ti guardano la posta elettronica» ribatte Marino. «Ma se vedono lettere nella posta, o in qualche cassetto, o non so dove, ti chiedono spiegazioni. E dubito che Jack corresse un rischio simile.» «Non cercare di placarmi.» «Ti sto solo dicendo che non ho mai visto lettere e che Jack teneva nascosta la storia di Kathleen Lawler» ribatte lui. «In tutti gli anni che ci ho lavorato insieme non me l’ha mai nemmeno nominata, lungi dal raccontarmi cosa gli era successo. Non so cosa dicevo ai tempi di Richmond e ammetto che posso aver parlato male di te, qualche volta. Ero un coglione, soprattutto agli inizi, quando ti avevano appena nominato direttrice dell’Istituto di medicina legale. Ma non dovresti dare retta a un pezzo di merda come Kathleen Lawler, che vuole solo farti del male. E c’è riuscita, che ti abbia raccontato la verità o una balla.» Sto zitta e lo guardo. «Non capisco come mai Jaime ci stia mettendo tutto ’sto tempo.» Si alza di scatto e va di nuovo a guardare fuori dalla finestra. «E non capisco nemmeno come mai ce l’hai tanto con me. Ma forse ce l’hai con Jack e te la prendi con me. Se mai, hai ragione ad avercela con quel cazzone. Quell’inutile pezzo di merda... Dopo tutto quello che avevi fatto per lui. È andata bene che l’ha fatto fuori Dawn Kincaid, perché altrimenti prima o poi l’avrei ammazzato io.» Guarda fuori dalla finestra, dandomi le spalle. Sto zitta. La rabbia mi sta passando, come quei temporali che infuriano per poco tempo e poi si placano. Mi colpisce quello che ha detto
Marino poco fa a proposito di Jaime Berger. Quando finalmente decido di rivolgermi alla sua schiena grande e grossa, gli domando cosa intendeva quando ha parlato di una presunta sparizione di Jaime “nel privato”. «Quello che ho detto. Letteralmente» mi risponde senza voltarsi. Mi racconta che Jaime Berger non lavora più alla procura di Manhattan. Ha rassegnato le dimissioni e se n’è andata. Come tanti procuratori d’assalto, dopo un po’ è passata dall’altra parte. Lo fanno quasi tutti, prima o poi: si stancano di lavorare come muli per pochi soldi in uffici governativi pieni di burocrazia, si stufano di avere a che fare costantemente con parassiti, delinquenti privi di qualsiasi rimorso, imbroglioni, tragedie senza fine. Gentaglia che fa del male ad altra gentaglia. Benché la stragrande maggioranza delle persone sia convinta del contrario, le vittime non sono sempre innocenti e degne di compassione. Jaime diceva spesso che ero fortunata ad avere a che fare con gente che non era più in grado di mentire. È raro che testimoni e vittime dicano la verità, sosteneva, ed è più facile lavorare con i morti. Da un certo punto di vista aveva ragione: da morto non puoi mentire. Non pensavo che Jaime finisse a lavorare nel privato, però. Non credo che l’abbia fatto per soldi. Sento Marino che mi racconta che Jaime non ha voluto feste d’addio. Neanche una bevuta al bar o un piccolo brindisi. Se n’è andata in silenzio, senza fanfare, senza quasi dare preavviso, più o meno nello stesso periodo in cui ha chiamato il CFC per chiedere di Lola Daggette. Mentre Marino mi racconta questo, mi rendo conto che è successo qualcosa. Non soltanto a Jaime, ma anche a lui. Ho la netta sensazione che abbiano preso una decisione importante e mi disturba che Marino non mi abbia mai detto che voleva cambiare vita. È brutto che nessuno dei due pensasse di potersi confidare con me. Forse sono davvero troppo dura e severa con gli altri. Ripenso ai commenti crudeli di Kathleen Lawler, alla sua espressione trionfante nel comunicarmeli. Sembrava che aspettasse da un secolo quel momento. Sto malissimo. Sto male perché in quello che ha detto Kathleen Lawler un briciolo di verità c’è. Non sono una persona facile ed è vero che non ho mai avuto molti amici. Lucy, Benton, qualche collega. Marino. Lo conosco da una vita ed è sempre qui con me. Non voglio che le cose cambino. «Ho la sensazione che Jaime non abbia chiamato il CFC solo per quello.» Non lo dico in tono d’accusa. «Sospetto che non sia una coincidenza se, dopo la sua telefonata e il tuo viaggio a New York, hai cominciato a parlare di quanto ti mancavano il Sud, le barche e la pesca.» «Nei periodi in cui non lavoravo sotto di te siamo sempre andati d’accordo.» Si volta e torna verso la poltrona. «Stavo meglio quando lavoravo da esterno, quando facevo consulenze su indagini specifiche, quando ero investigatore capo dell’unità Crimini violenti della polizia di Richmond, invece di lavorare nel tuo istituto o in procura per Jaime. Sono un detective spe-
cializzato in omicidi, indagini e sopralluoghi. Cazzo, con tutto quello che ho fatto e che ho visto, non voglio finire i miei giorni chiuso in un ufficio a prendere ordini e a starmene con le mani in mano in attesa che succeda qualcosa.» «Te ne vuoi andare» rispondo. «È questo che mi stai dicendo.» «Non proprio.» «Hai diritto di vivere come ti pare. Te lo meriti. Mi spiace solo che tu non te la sia sentita di parlarmene prima. È questo che mi fa male, più di tutto.» «Non me ne voglio andare.» «Per certi versi, l’hai già fatto.» «Voglio lavorare da esterno, privatamente» mi spiega. «Ne ho parlato con Jaime quando sono andato a New York. Sai, lei si è messa in proprio. Mi ha detto di pensarci un po’, che a lei le mie consulenze servono, e a te anche. Preferisco fare il free-lance, non essere di nessuno.» «Non ti ho mai considerato mio.» «Ho bisogno di un po’ di indipendenza per potermi rispettare di più. Lo so, tu non capisci. Perché tu ti rispetti sempre e comunque.» «Non credere.» «Ho voglia di stare vicino al mare, di andare in moto, a pescare. Ho voglia di lavorare per gente che mi rispetti.» «Jaime ti ha offerto un contratto di consulenza per il caso Daggette?» «Nessun contratto. Le do una mano per amicizia. Le ho detto che non posso prendere lavori finché sono al CFC e che ti avrei parlato di cambiare un po’ i termini della nostra collaborazione» mi dice. Sento il rumore di una chiave nella toppa e la porta che si apre. Entra Jaime Berger. Sento odore di carne, patatine e tartufi. 016_chapter10
10 Appoggia due grandi sacchetti di carta azzurra sulla penisola in pietra della cucina, con un gesto fin troppo allegro e rilassato per una persona che è o era procuratore a New York e ha organizzato un’operazione clandestina in Georgia che richiede un impianto di sicurezza e, a quanto mi sembra di intravedere, una pistola nascosta nella borsa hobo di cuoio marrone che lei porta a tracolla. Dimostra metà dei suoi anni con i capelli scuri dal taglio impeccabile, poco più lunghi di come li ricordavo, i lineamenti fini e ben definiti, la figura snella fasciata in jeans sbiaditi e camicetta bianca fuori dai pantaloni. Senza gioielli e con pochissimo trucco potrebbe abbindolare chiunque, ma non me. Non mi sfuggono le ombre nei suoi occhi, la fragilità del suo sorriso. «Scusami, Kay» dice subito, appendendo la borsa brutta e pesante allo schienale di uno sgabello, mentre io mi chiedo se sia per l’influenza di Marino che gira armata. Oppure è un’abitudine che ha preso da Lucy, e mi viene in mente che, se Jaime nasconde una pistola, è probabile che sia di provenienza illegale. Non vedo proprio come avrebbe potuto procurarsi un porto d’armi in Georgia: anche se ha preso in affitto un appartamento, non può avere la residenza. Videocamere di sorveglianza e una pistola detenuta illegalmente. Magari si tratta solo di normali precauzioni, visto che conosciamo entrambe la dura realtà e sappiamo cosa può succedere nella vita. Può darsi invece che Jaime sia diventata paurosa e instabile. «Sarei fuori di me dalla rabbia se mi avessero fatto uno scherzo del genere» dice. «Ma sono sicura che capirai, se non hai già capito.» Vorrei alzarmi per abbracciarla, ma lei ha già iniziato ad aprire i sacchetti del take-away e immagino preferisca mantenere tra noi una certa distanza. Non mi muovo dal divano, quindi, e cerco di non pensare allo scorso Natale a New York, né alle molte volte che ci siamo trovati tutti insieme prima di allora, o a come reagirebbe Lucy se sapesse dove sono. Chissà che effetto le farebbe vedere Jaime così bella, ma con lo sguardo allucinato e un sorriso finto, in un vecchio loft che ricorda il suo a Greenwich Village, con accanto una borsa che forse contiene una pistola. La mia diffidenza sta per raggiungere il punto critico. Jaime è una donna abituata a ottenere tutto quello che vuole, ma ha lasciato andare Lucy senza lottare, e adesso scopro che ha abbandonato altrettanto facilmente il suo vecchio lavoro. “Perché rientrava nei suoi scopi” si intromette il mio pensiero giudicante. Mi dico che non ha importanza. Nulla ha importanza se non il fatto che sono qui, il motivo per cui ci sono e – se i miei sospetti si riveleranno fondati – il fatto che l’ex amante di mia nipote mi ha attirato fin qui con l’inganno e mi sta manovrando.
«Sono certa che vi ricordate Il Pasticcio, quel ristorante a pochi isolati da qui.» Jaime tira fuori alcuni contenitori di cartone foderati in alluminio, con il coperchio di plastica, e recipienti da litro, anch’essi di plastica, pieni di qualcosa che potrebbe essere minestra. Il loft si riempie di aromi di erbe, scalogno e bacon. «Be’, ora si chiama Broughton and Bull.» Apre un cassetto e tira fuori posate e tovaglioli di carta. «Fanno un pasticcio di carne con le cipolline squisito. Coniglio brasato. Zuppa di gamberi con olio al peperoncino e pomodori verdi. Capesante con involtini di bacon e peperoni.» Apre un contenitore dopo l’altro. «Pensavo di lasciare che vi serviste da soli. Ma forse è più semplice se vi servo io» dice ripensandoci e guardandosi attorno quasi si aspettasse di veder comparire un tavolo da pranzo, come se la casa che ha preso in affitto non le fosse familiare. «Spero che tu mi abbia preso i gamberi alla brace» dice Marino, restando seduto. «E le patatine fritte» aggiunge Jaime, come se lei e Marino fossero grandi amici. «E la pasta al gratin con olio al tartufo.» «Io passo» dice Marino facendo una smorfia. «È bello fare nuove esperienze.» «Lascia perdere tartufi, olio al tartufo e roba del genere. Non mi va di assaggiare niente che puzza di merda.» Dalla pila di fascicoli sul pavimento accanto alla scrivania, Marino estrae una cartellina marrone, a soffietto. Sull’etichetta c’è scritto BLR con un pennarello nero indelebile. «Ti serve aiuto?» chiedo a Jaime, senza accennare ad alzarmi. Mi sembra che non mi voglia nel suo spazio, o magari sono io a sentirmi distante e intoccabile. «Tranquilla, grazie. Sono capace di aprire i pacchetti e mettere il cibo sui piatti. Non sarò una grande cuoca come te, ma almeno questo lo so fare.» «Il tuo sushi è in frigorifero» dice Marino. «Il mio sushi? Va bene, perché no.» Apre il frigo e prende i contenitori. «Hanno memorizzato il numero della mia carta di credito, perché confesso che per me è come una droga. Lo mangio almeno tre sere alla settimana. Probabilmente dovrei preoccuparmi per il mercurio. Tu continui a non mangiare sushi, vero, Kay?» «No. Per me no, grazie.» «Penso che servirò la zuppa nelle tazze, se non vi dispiace. A che punto sei arrivato?» Si rivolge a Marino. «Dimmi dove sei rimasto.» «Diciamo che ho capito quanto deve essere stato difficile per voi due organizzare questa serata» rispondo per lui. «Ti chiedo scusa, davvero» ripete Jaime, anche se non sembra affatto dispiaciuta. Dal tono, sembra molto sicura di avere tutti i diritti di comportarsi come si è comportata.
«Francamente, penso che tocchi a me spiegarti la situazione. Purtroppo sono stata costretta ad agire con estrema cautela.» Mi lancia un’occhiata mentre va avanti e indietro per la cucina. «Sento di avere la responsabilità morale di proteggerti. Ovviamente tendo sempre a peccare per eccesso di discrezione, così mi è sembrato imprudente chiamarti, scriverti un’e-mail o contattarti direttamente. A una domanda specifica, posso sinceramente rispondere di non averlo fatto. Sei stata tu a chiamare me. Ma chi verrà mai a saperlo, a meno che tu non decida di dirlo a qualcuno?» «A meno che io non decida di dire cosa? Che una detenuta mi ha passato un bigliettino di nascosto e io sono andata a cercare il telefono pubblico più vicino, manco fosse una caccia al tesoro?» ribatto. «Ieri ho parlato con Kathleen e mi è stato ricordato che sperava di vederti oggi.» «Ti è stato ricordato?» le chiedo, guardando Marino. «Sono sicura che tu l’avresti saputo comunque. Probabilmente Curtis Roberts è un tuo collaboratore. Mi riferisco all’avvocato del Georgia Innocence Project che ha chiamato Leonard Brazzo.» «Posso sinceramente affermare che tu mi hai contattato mentre eri in zona per impegni di lavoro tuoi» ripete Jaime. «Impegni che hai organizzato appositamente per attirarmi qui» rispondo. «Non c’è niente di sincero in tutto questo.» «Marino non ti ha avvertito. Non ha divulgato nulla che non avrebbe dovuto» continua, perorando la sua causa. «Non ti ha comunicato inviti che, date le circostanze, potesse essere sconsigliabile accettare. Nessuno ha fatto trapelare nulla che potesse avere conseguenze negative.» «Qualcuno l’ha fatto, tant’è vero che sono qui» rispondo. «Durante una conversazione coperta dal segreto professionale con un testimone di un caso su cui sto lavorando, ho lasciato capire che forse ti saresti messa in contatto con me» dice, sentendosi del tutto giustificata. «Credo che ben poco di quello che succede al GPFW non venga osservato o registrato» puntualizzo. «Ho scritto un appunto sul mio taccuino, chiedendo a Kathleen di darti il mio numero di cellulare raccomandandosi di chiamarmi da un telefono pubblico» dice Jaime. «Lei l’ha letto durante il colloquio. Nulla è stato detto a voce. Nessuno ha visto niente, e il taccuino è venuto via con me. Kathleen è ben felice di aiutarmi in tutti i modi possibili.» «Perché è convinta che avrà una riduzione di pena, stando a quanto ha detto la direttrice del carcere» commento io. «Sarebbe bene che ti sbarazzassi di tutti gli eventuali bigliettini che ti sono stati dati.»
«Da ciò dovrei dedurre che ti è stato raccomandato di non parlare con me, e che non sei tranquilla quanto alla riservatezza delle mie comunicazioni» proseguo, andando fino in fondo. «Dei miei telefoni di casa e dell’ufficio, del mio cellulare, della mia casella di posta elettronica.» «Non mi è stato specificamente raccomandato di non parlare con te» replica Jaime. «Gli agenti federali invitano sempre i testimoni e le parti in causa a non comunicare con chi è oggetto di un’indagine. Ma nessuno mi ha ordinato di non parlare con te, quindi finché loro non sanno che ti ho parlato, e preferisco che continuino a non saperlo, non ci dovrebbero essere ripercussioni. Penso che sotto quest’aspetto possiamo dire di aver superato l’ostacolo. Domani è un altro giorno e un’altra storia, una missione completamente diversa. Se a un certo punto scopriranno che ci siamo incontrate nell’ufficio di Colin Dengate, non importa. Non possono impedirci di lavorare insieme su un caso se tu, per combinazione, ti trovavi in zona.» «Lavorare su un caso» ripeto. «Che stronzi!» esclama Marino. Quelli dell’FBI gli piacciono sempre meno da quando se ne è andato dalle forze dell’ordine e non ha più il potere di arrestare nessuno. La sua ostilità ha anche a che fare con Benton. «Se si può evitare, è meglio non far innervosire l’FBI» aggiunge Jaime, prendendo da un armadietto piatti e tazze. «Non ti sarà utile, se li faccio innervosire. Inoltre c’è di mezzo anche Farbman, con i problemi che ha creato e che è capace di creare.» Dan Farbman è vicecommissario per la pubblica informazione del dipartimento di polizia di New York. Ricordo che lui e Jaime hanno avuto degli screzi in passato. Quando lavoravo all’Istituto di medicina legale di New York, alcuni anni fa, neanch’io andavo molto d’accordo con lui. Tuttavia è un po’ che non ne sento parlare e non vedo cosa possa avere a che fare il vicecommissario Farbman con eventuali problemi tra me e il dipartimento della Giustizia. Lo spiego a Jaime e le dico che non vedo proprio che cosa potrebbe avere a che fare Farbman con me. «Quello che è successo nel Massachusetts, e poi l’arresto e il rinvio a giudizio di Dawn Kincaid, non sono di competenza del dipartimento di New York né di Farbman» aggiungo, mentre osservo Marino che tira fuori alcuni documenti dalla cartellina, li sfoglia ed estrae un modulo con alcune righe evidenziate in arancione. «Il tuo è un caso federale: aggressione a un medico legale alle dipendenze del dipartimento della Difesa» spiega Jaime. «Essendo tu un funzionario federale, l’aggressione ai tuoi danni è sotto la giurisdizione federale e verrà giudicata in un tribunale federale. Il che è positivo. Ma significa anche che tu e il tuo caso siete nel mirino dell’FBI.»
«Lo so.» «Si dice che il commissario potrebbe essere nominato direttore dell’FBI, e questo significa che Farbman spera di seguirlo e di diventare responsabile dei rapporti con i media. Sapevi anche questo?» «Forse ho sentito qualcosa, voci di corridoio.» «A meno che io non riesca a impedire la nomina di Farbman, cosa che ho assolutamente intenzione di fare. Ci manca soltanto che qualcuno si metta a manipolare le statistiche nazionali sulla criminalità e sugli allarmi terroristici. Farbman non è esattamente un mio fan.» «Non lo è mai stato.» «E adesso ancora meno. Direi che i nostri rapporti versano in condizioni critiche. Ma ho intenzione di essere io quella che sopravvive» dice. «Non mi perdonerà mai di averlo accusato di mentire sulla criminalità a New York e di aver manipolato i dati statistici. Se ben ricordi, anche tu hai avuto dei dissapori con lui per lo stesso motivo.» Dispone i piatti sulla penisola. «Non ho mai accusato né lui né altri del dipartimento di polizia di New York di manipolare i dati statistici.» «Be’, io sì, e stento a credere che ti sorprenda che lui sia capace di farlo.» Pesca da un cassetto alcuni cucchiai da portata. «Ha sempre avuto la tendenza a presentare le statistiche e distorcere i fatti a suo vantaggio. Ma è la prima volta che sento dire che ha manipolato i dati» rispondo. «Davvero non lo sapevi?» «No, non lo sapevo» ripeto. Ho la sensazione che si stia chiedendo se Lucy non me ne abbia mai parlato. Evidentemente, quando Jaime ha contestato Farbman, lei e Lucy stavano ancora insieme. Marino spinge i fogli sul tavolino verso di me, e io prendo la fotocopia di un documento su carta intestata del GPFW con la stampigliatura RISERVATO: PROCEDURE PER L’ESECUZIONE CAPITALE MEDIANTE INIEZIONE LETALE DI FARMACI Sostanze: Tiopental sodico 5 g / 2% in kit sterile con siringa da 50 cc Pancuronio bromuro (20 mg) per via endovenosa Cloruro di potassio, dose consigliata dalla USP (40 mEq) con siringa sterile da 20 cc Seguono le istruzioni per la preparazione dei farmaci inclusi nel “kit”, quelle per miscelare la soluzione e quelle per collegare il deflussore a un ago di calibro 18G e a una sacca di soluzione fisiologica per mantenere pervia la linea endovenosa. Sono colpita dal tono informale e disinvolto di un documento che illustra passo per passo come si uccide una persona.
Assicurarsi di aver eliminato l’aria dalla linea, in modo che sia pronta per l’iniezione... «Ho voluto agire con discrezione, sporgendo reclamo direttamente al commissario invece di rivolgermi ai media.» Jaime continua a descrivere il suo conflitto con Dan Farbman e il dipartimento di polizia di New York. Non dimenticare di controllare il detenuto immediatamente prima di somministrare i farmaci per accertarsi della pervietà dell’ago cannula, in modo che la soluzione endovenosa non rischi di andare fuori vena o di non poter essere correttamente infusa... «Purtroppo il commissario è culo e camicia con il sindaco, e la situazione si è fatta scabrosa» spiega Jaime. «Me li sono trovati tutti contro.» «Secondo te l’FBI ha deciso di controllare la mia posta elettronica e le mie telefonate per via dei tuoi contrasti con Farbman? Per il fatto che lo hai accusato di manipolare i dati? E perché qualche anno fa ho avuto anch’io alcune divergenze con lui?» Non ci credo. Marino mette giù un altro foglio, che raccolgo per leggere il paragrafo evidenziato: Il tiopental sodico iniettato viene poi “portato in circolo” dalla normale soluzione fisiologica. QUESTA FASE DELL’OPERAZIONE È ESTREMAMENTE IMPORTANTE: se il tiopental sodico permane nell’ago cannula durante l’iniezione del pancuronio bromuro, si forma un precipitato che può ostruire la linea. «Quando ti fai dei nemici, è un casino.» Jaime non risponde alla mia domanda e si dedica all’estrazione delle bacchette per il sushi dal loro involucro di carta. «Per me, la situazione a New York si è fatta talmente difficile che ho deciso di lasciare la procura. Ho messo in vendita l’appartamento. Sto pensando di trasferirmi.» «Hai rinunciato alla tua vita a New York perché eri in cattivi rapporti con Farbman? Scusa, ma mi è difficile crederci» rispondo, esaminando intanto altri documenti che riguardano Deli Devil, l’avvelenatrice più famosa della Georgia. Tra il 1989 e il 1996, Barrie Lou Rivers avvelenò diciassette persone, nove delle quali morirono, con l’arsenico acquistato da una ditta produttrice di pesticidi; tutte le vittime erano clienti abituali della gastronomia che gestiva in un grattacielo di Atlanta dove avevano sede numerosi uffici e aziende. Giorno dopo giorno, ignare vittime si mettevano in coda nell’atrio del grattacielo davanti al suo negozio per comprare la sua specialità, che era un vero affare: un tramezzino al tonno, un sacchetto di patatine, un cetriolo sottaceto e una bibita gassata per soli due dollari e novantanove. Quando venne scoperta, la sadica avvelenatrice disse alla polizia che era stufa delle persone “che si lamentavano del cibo: almeno così si sarebbero lamentate con ragione”. Ne aveva piene le tasche di quei “cessi” che la comandavano a bacchetta manco fosse la loro “schiava nera”. «C’è dell’altro» dice Jaime Berger mentre io continuo a leggere. «Purtroppo si tratta di questioni personali. Alcune domande che mi hanno fatto gli agenti dell’FBI quando mi si sono
presentati a casa erano estremamente inopportune. Era chiaro che avevano già parlato con Farbman, e puoi immaginare quale fosse il punto su cui lui aveva insistito. Che io e te eravamo quasi parenti.» Esamino il modulo di tracciabilità dei farmaci per l’esecuzione di Barrie Lou Rivers, amministrazione penitenziaria centrale numero 121195. Risulta che la ricetta è stata scritta alle 15:20 del 1° marzo 2009. Kathleen Lawler mi ha riferito che Barrie Lou Rivers è soffocata mangiando un tramezzino al tonno nella sua cella. Se è vero, allora dev’essere morta per soffocamento dopo le quindici e venti del giorno dell’esecuzione. La ricetta per il cocktail letale è stata scritta, ma i farmaci non sono mai stati somministrati, perché la condannata è morta prima che le guardie carcerarie la legassero alla barella. Noto che il suo ultimo pasto è stato uguale a quello che serviva alle sue vittime. «Sei andata più volte al GPFW per interrogare Lola Daggette, la cui condanna è diventata definitiva» dico a Jaime. «Presumo che ti stia raccontando qualcosa di interessante, altrimenti non ti saresti trasferita a Savannah. I tuoi problemi a New York non giustificano la tua presenza qui, mi sembra.» «Lola non mi è stata di grande aiuto» dice Jaime. «Mi aspettavo che collaborasse, invece ha meno paura dell’ago del boia che di “Vendetta”, la persona che secondo lei ha ucciso la famiglia Jordan.» «Ha detto di sapere chi è Vendetta?» chiedo. «Vendetta è il diavolo» risponde Jaime. «Un fantasma maligno che le ha lasciato in camera dei vestiti sporchi di sangue.» «La giustizieranno il prossimo autunno e lei continua a fare questi discorsi?» «La sua esecuzione è programmata per il 31 ottobre. Halloween» dice Jaime. «Secondo me, il giudice che ha rimandato l’esecuzione e ha scelto la nuova data vuole rendere noto al mondo che cosa pensa di lei. Farà in modo che fra quattro mesi Lola Daggette riceva uno scherzetto, non un dolcetto. La vicenda suscita ancora forti emozioni. Sono tanti a non veder l’ora che Lola abbia ciò che ritengono meriti e che muoia soffrendo il più possibile. Sperano che il boia aspetti un po’, dopo averle somministrato il tiopental sodico, che si dimentichi di togliere l’aria dalla linea endovenosa, che questa si ostruisca.» Marino appoggia sul tavolino una pila di stampe a colori – le foto dell’autopsia –, che io raccolgo. «Il tiopental sodico agisce in fretta, ma l’effetto può esaurirsi altrettanto rapidamente, come tu ben sai» continua Jaime. «Che cosa succede se non rispetti i tempi prescritti per iniettare gli altri farmaci, e stiamo parlando del pancuronio bromuro, la sostanza che provoca il blocco neuromuscolare? Se aspetti troppo? L’effetto del tiopental sodico, l’anestetico, inizia a svanire. Se si ostruisce la linea endovenosa, il personale della prigione deve inserirne una
nuova, e al termine dell’operazione l’effetto del tiopental sodico è scomparso del tutto. Magari sembri addormentato, ma il tuo cervello è sveglio» continua. «Non puoi aprire gli occhi, né parlare, né emettere suono. Te ne stai lì, legato sulla barella, cosciente e consapevole di non poter respirare. Il pancuronio bromuro ti paralizza i muscoli del torace e tu muori asfissiato. Chi ti guarda da fuori mentre la faccia ti diventa cianotica e soffochi è ben lungi dall’immaginare che tu in realtà non sei tranquillamente addormentato. La tua agonia silenziosa può durare un minuto, due minuti, tre, a volte anche di più.» Fu Colin Dengate a eseguire l’autopsia su Barrie Lou Rivers, e ritengo di sapere che opinione possa avere su una persona che avvelenava vittime innocenti mettendo arsenico nei tramezzini che vendeva. «Il direttore del carcere, però, lo sa.» Jaime prende dal frigorifero una bottiglia di vino e una Coca-Cola Light, dando un colpo con l’anca allo sportello per richiuderlo. «Il boia anche. L’anonimo dottore con il cappuccio e gli occhiali protettivi si rende benissimo conto del tuo panico, perché vede che la frequenza cardiaca accelera prima di fermarsi del tutto. Nella cosiddetta “squadra della morte”, tra gli incaricati di compiere quell’omicidio giudiziario che è l’esecuzione della sentenza capitale, vi sono persone che vogliono far soffrire il condannato. La loro missione segreta è provocare quanto più dolore e terrore è possibile senza che gli avvocati, i giudici, l’opinione pubblica se ne accorgano. Sono cose che succedono da secoli. La lama dell’ascia del boia è poco affilata, oppure il carnefice manca il bersaglio, così deve assestare qualche colpo in più. L’impiccagione non va per il verso giusto perché il cappio scivola, così il condannato muore strangolato lentamente, torcendosi appeso alla corda davanti alla folla che sghignazza.» Mentre ascolto quello che sembra l’incipit di una delle classiche requisitorie di Jaime Berger, penso che la maggior parte delle persone che contano in questa parte del mondo, compresi alcuni giudici e personaggi politici e soprattutto Colin Dengate, non si lascerebbero commuovere. So bene come la pensa Colin non solo su quello che è accaduto alla famiglia Jordan ma anche su quello che si meriterebbe Lola Daggette. Oh sì, la vicenda suscita forti emozioni, specialmente nel mio focoso collega irlandese che dirige il Coastal Regional Crime Laboratory, l’Istituto di medicina legale del Georgia Bureau of Investigation con sede a Savannah. La calata di Jaime Berger nel Lowcountry non lo impressionerà. Anzi, forse gli sembrer un’invasione. Immagino che non la degnerà nemmeno di uno sguardo. «Come ben sai, Kay, non credo che negli Stati Uniti dovremmo imitare una forma di eutanasia messa a punto nella Germania nazista per eliminare gli indesiderabili. Non dovrebbe essere legale» prosegue Jaime sistemando su un piatto il sushi e l’insalata di alghe. «Ai medici è stato vietato di avere un ruolo attivo nelle esecuzioni, compresa persino la constatazione di morte, ed è sempre più difficile procurarsi i farmaci per l’iniezione letale. Questa
penuria deriva dalla stigmatizzazione delle case farmaceutiche statunitensi che li producono, tanto che alcuni Stati hanno dovuto importare farmaci con origini e caratteristiche discutibili. I funzionari delle carceri non dovrebbero poterseli procurare legalmente, ma non c’è modo di impedirlo. I medici collaborano, i farmacisti accettano le ricette e i farmaci arrivano nelle prigioni. In ogni caso, indipendentemente dal credo o dalle convinzioni morali di ciascuno di noi, il fatto è che non è stata Lola a uccidere i Jordan. Non ha ammazzato Clarence, Gloria, Josh e Brenda. Non li ha mai visti. Non è mai entrata in casa loro.» Lancio un’occhiata a Marino mentre studio le copie delle fotografie. A quanto mi risulta, lui è sempre stato favorevole alla pena di morte. Occhio per occhio. Date loro un assaggio della loro stessa medicina. «Penso che Lola Daggette fosse una persona incasinata, una tossicodipendente problematica, ma non ha ucciso né ha aiutato a uccidere nessuno» mi dice Marino. «È più probabile che sia stata incastrata dalla persona che lei chiama Vendetta. Avrà pensato che fosse un bello scherzo.» «Chi ha pensato che fosse uno scherzo?» «La vera colpevole. Si è approfittata di una ragazza sostanzialmente ritardata, che stava in una comunità.» Marino guarda Jaime. «Che quoziente intellettivo ha? Settanta? Credo che sotto il settanta uno sia considerato ritardato anche dal punto di vista legale» aggiunge. «“La vera” colpevole?» chiedo. «Lola non ha commesso i crimini per i quali è stata processata e condannata» interviene Jaime. «Purtroppo non ho ancora tutti i dettagli riguardo a quel che successe la notte fra il 5 e il 6 gennaio 2002, ma ho delle nuove prove e posso dimostrare che Lola non è stata in casa dei Jordan. Quello che non so ricostruire è la dinamica dei fatti da un punto di vista forense, visto che non sono un’esperta. Per esempio, le ferite. Se sono state tutte inferte con la stessa arma, che arma era? Cosa ci dice la configurazione delle macchie di sangue? Da quanto tempo erano morti i Jordan quando il vicino di casa uscì con il cane e casualmente notò che il vetro della porta sul retro era rotto, e poi che nessuno andava ad aprire o rispondeva al telefono?» «L’esperto è Colin» osservo. «Ho un ottimo pinot dell’Oregon» dice Jaime. «Va bene?» Stappa la bottiglia di vino mentre io studio le fotografie di Barrie Lou Rivers stesa sul tavolo di acciaio per l’autopsia, le spalle sorrette da una tavoletta in polipropilene, la testa riversa all’indietro, le lunghe ciocche di capelli grigi intrise di sangue. La cute del petto è stata rivoltata fino a esporre la laringe e le corde vocali, e non c’è nulla che ostruisca le vie aeree. Gli ingrandimenti del piccolo orifizio triangolare delle corde vocali evidenziano che è libero e non ostruito.
Che si tratti di un oggetto piccolo come un’arachide o un acino d’uva o di un grosso boccone di carne, nulla può scendere sotto il livello delle corde vocali in caso di soffocamento, sicché Colin ha fatto bene a controllare scrupolosamente, prima di tutto, se fosse stato aspirato del cibo. Inoltre deve aver ritenuto che il caso fosse abbastanza importante da trattenersi in laboratorio o tornare fuori orario per procedere subito all’autopsia. Secondo il verbale, infatti, venne effettuata alle ore ventuno e diciassette del 1° marzo. Esamino altre fotografie, cercando qualche conferma di ciò che Kathleen Lawler mi ha detto riguardo alla morte di Barrie Lou Rivers nella sua cella. Chiedo a Marino se ci sono i verbali della squadra di soccorso, le dichiarazioni delle guardie carcerarie in servizio o il referto dell’autopsia; lui sfoglia i documenti e mi porge quello che trova. È vero che Barrie Lou Rivers mangiò un tramezzino al tonno con pane di segale e sottaceti poco prima di morire. Il contenuto gastrico lo conferma: duecento millilitri di cibo non digerito, fra cui pezzettini di pesce, sottaceti, pane e semi di cumino. Nulla però convalida l’affermazione di Kathleen secondo cui Barrie Lou Rivers sarebbe morta soffocata. A quanto pare nessuno tentò una manovra di Heimlich, quindi è escluso che il bolo di cibo o qualsiasi altra cosa le fosse andata di traverso non sia stato rinvenuto in sede di autopsia perché espulso durante tale manovra. Nessun documento ufficiale menziona l’aspirazione di cibo o il soffocamento, ma io so che Colin ne ha cercato i segni. Posso affermarlo in base alle fotografie dell’autopsia. Poi trovo un foglio di servizio con alcune annotazioni scritte a mano alle venti e zero sette. È stata Tara Grimm a suggerire che la morte sia avvenuta per soffocamento. “Pare che Barrie Lou non riuscisse a respirare” avrebbe detto la direttrice del carcere a Colin per telefono, mentre il cadavere veniva trasferito all’obitorio. Non aveva assistito personalmente, dichiarò, ma le era stato detto che Barrie Lou “respirava a fatica e sembrava sofferente”. Tara Grimm disse a Colin che le guardie avevano pensato che fosse a causa dell’ansia. “Non mancava molto al momento in cui dovevano portarla nella camera della morte per prepararla, e Barrie Lou andava soggetta a crisi di panico e attacchi d’ansia. Mi chiedo se non sia soffocata durante l’ultimo pasto.” Colin annotò questi commenti sul foglio di servizio e controllò diligentemente se c’era cibo aspirato quando praticò la prima incisione sul cadavere di Barrie Lou Rivers, un’ora dopo la telefonata con la direttrice, la quale non presenziò all’autopsia. Tra i testimoni ufficiali elencati nel verbale c’erano un assistente dell’obitorio, un coroner e, in rappresentanza del GPFW, l’agente di custodia M.P. Macon. Lo stesso che mi ha scortato nel carcere poche ore fa. 017_chapter11
11 Stando a quanto dichiarato nel referto preliminare dell’autopsia, sia la causa sia la modalità del decesso risultano indeterminate. “Indeterminata” e “indeterminata”. In patologia forense, questo equivale a un nulla di fatto, a una partita di baseball che rimane inchiodata sullo zero a zero lancio dopo lancio finché non viene sospesa per la pioggia, per il sopraggiungere del buio o per qualcos’altro. Alla fine non importa. Invece ogni singola morte dovrebbe importare e io mi sento inadeguata ogni volta che non riesco a trovare la risposta. Perché c’è sempre una risposta, ma in alcuni casi i patologi forensi come Colin Dengate e come me non riescono a trovarla. Il cadavere non ci dà le informazioni che ci servono e noi non possiamo fare altro che dare la spiegazione più plausibile dal punto di vista medico, anche se non ci convince. Autorizziamo la consegna della salma e degli effetti personali in modo che i suoi cari possano sistemare le questioni legali, incassare l’assicurazione, fare il funerale e andare avanti. Il cadavere di Barrie Lou Rivers venne sepolto in una fossa comune perché nessuno si fece vivo né si preoccupò di lei. Alla fine Colin corresse il referto, dichiarando come causa della morte “un arresto cardiaco improvviso per infarto miocardico” e come modalità “naturale”. È scritto anche sul certificato di morte. La sua diagnosi si basò sulla presenza di una moderata aterosclerosi coronarica, il sessanta per cento dell’arteria discendente anteriore sinistra e il venti della destra, a un centimetro dall’ostio. Il lume dell’arteria coronaria circonflessa non risultava ostruito. Barrie Lou Rivers era in attesa di essere giustiziata e, secondo alcuni testimoni, dopo un ultimo pasto a base di tramezzino di pane di segale con il tonno, patatine fritte e Pepsi aveva lamentato affanno, sudorazione, debolezza, estrema prostrazione, sintomi interpretati come un attacco di panico in vista dell’esecuzione imminente. Un attacco di panico è compatibile con il cibo non digerito che Colin rinvenne aprendo lo stomaco durante l’autopsia. Lo stress o la paura molto intensi bloccano completamente la digestione. In ogni modo, pare che Barrie Lou Rivers sia morta per infarto massivo alle diciannove e quindici, cioè meno di due ore prima dell’ora stabilita per l’esecuzione. Mentre esamino il fascicolo, Jaime continua a parlare in cucina, disponendo le cose da mangiare per ognuno di noi sui piatti bianchi dell’appartamento che ha preso in affitto. Sta parlando dei Jordan. Vuole che tutte le informazioni relative alle loro ferite, alle prove materiali e alla scena del crimine vengano interpretate nel modo più preciso e irrefutabile possibile. Ha bisogno del mio aiuto. «Colin dovrebbe essere in grado di darti informazioni sulle ferite e su tutto il resto» le ricordo. «È stato sulla scena del crimine e ha effettuato le autopsie. È un anatomopatologo molto competente. Hai provato a parlarne con lui?» «Un solo colpevole. Lola Daggette. Caso chiuso» risponde Marino. «Nessuno da queste parti ha altro da dire in proposito.»
Mentre Jaime tira fuori i bicchieri da vino, ripenso all’atteggiamento di Colin quando, alcuni anni fa, presentò il caso a Los Angeles a un incontro della NAME, l’Associazione nazionale di medicina legale. Era profondamente indignato per la morte atroce del dottor Clarence Jordan e di sua moglie Gloria e visibilmente turbato per quella dei loro due figli, Brenda e Josh. In quell’occasione Colin espresse il parere che gli omicidi fossero stati commessi da una sola persona: la ragazza adolescente trovata poche ore dopo nel bagno della comunità di recupero in cui viveva mentre cercava di lavare via il sangue delle vittime dai vestiti. Ricordo di averlo sentito affermare che tutte le successive voci e dicerie riguardo a un misterioso complice di Lola Daggette erano invenzioni dell’avvocato difensore. «Sono andata all’Istituto di medicina legale soltanto una volta, parecchie settimane fa» dice Jaime. «Non è uscito dall’ufficio per ricevermi e non si è alzato dalla scrivania quando sono entrata per parlargli.» «Non si può pretendere che sia gentile con te, ma non credo che arriverebbe a ostacolare deliberatamente un legale che vuole procurarsi le informazioni di cui ha bisogno» rispondo. In realtà voglio dire che Jaime è Jaime e, soprattutto, è di New York e come tale aggressiva e supponente, convinta che al Sud siano tutti arretrati, intolleranti, disonesti e anche un po’ stupidi. Sospetto che questo trapeli dal suo atteggiamento quando interagisce con Colin, che è cresciuto da queste parti ed è profondamente influenzato dalle tradizioni locali, che si tratti di rievocazioni della Guerra civile o della parata irlandese il giorno di San Patrizio. «La legge lo obbliga a consegnarti tutte le eventuali prove a discarico» aggiungo. «Non si è reso disponibile a darmi nulla.» «Non è tenuto a dartele spontaneamente.» «Pensa che io stia soltanto cercando qualcuno che sostenga una teoria alternativa.» «Ha tutte le ragioni di pensarlo, visto che è esattamente quello che cerchi» rispondo. «Stai facendo tutto quello che farebbe un buon avvocato difensore. Quello che non capisco è come mai te ne occupi. Lasci la procura e improvvisamente ti trovi nel campo avverso a rappresentare Lola Daggette. E perché poi ti interessa Barrie Lou Rivers?» «Perché ha subito una punizione eccessiva.» Jaime versa il vino. «Mentre attendeva l’esecuzione, Barrie Lou era terrorizzata al punto che le è venuto un infarto. Di chi è stata l’idea di servirle un ultimo pasto identico a quello con cui avvelenava le sue vittime? L’ha chiesto lei? E perché? Per dimostrare il proprio pentimento o, al contrario, una totale mancanza di rimorso?» «Nessun patologo potrà mai rispondere a questa domanda» osservo. «Dubito fortemente che abbia scelto lei il menu» puntualizza Jaime. «Sospetto che lo scopo fosse darle un’anticipazione di quello che l’aspettava, terrorizzarla facendole capire
cosa aveva in serbo per lei la squadra della morte e quanto fosse impaziente di darle quello che si meritava. Non metto in dubbio che Barrie Lou abbia avuto un attacco di panico: è stata letteralmente spaventata a morte.» «Non so se sia stata davvero torturata in questo modo, e penso che non lo potrai mai accertare, a meno che non trovi qualcuno che confessi. E vorrei sapere come mai ti interessa tanto» le dico in tutta franchezza. «Mi sorprende che tu ti sia improvvisamente messa a difendere con tanto impegno individui che fino a poco tempo fa facevi rinchiudere per poi gettare via la chiave.» «Non è stata una decisione improvvisa. Ne parlavo da tempo. Dei problemi con Farbman e del fatto che mi ero stufata... comunque, è cominciato tutto prima di quanto tu pensi. Alla fine dell’anno scorso avevo avvertito Joe che stavo prendendo in considerazione altre prospettive, che mi interessavano gli errori giudiziari.» «Joe Nale il giustiziere» commenta sarcastico Marino girando una pagina di un altro rapporto. «Chissà che faccia ha fatto quando glielo hai detto» dice a Jaime. Joseph Nale è il procuratore distrettuale di Manhattan, l’ex capo di Jaime, e non vede di buon occhio chi si dedica alla lotta contro gli errori giudiziari. La maggior parte dei procuratori non apprezzano particolarmente gli avvocati che lottano contro le ingiustizie provocate da altri avvocati e dai loro periti. «Gli avevo anche detto che avevo parlato con alcuni avvocati che conoscevo, impegnati nell’Innocence Project» continua a spiegare Jaime. «La sezione locale della Georgia?» chiedo. «No, l’organizzazione nazionale di New York. Però conosco Curtis Roberts e ammetto di avergli chiesto un favore.» «Ovvero non dire a Leonard Brazzo che sei stata tu a organizzare il mio incontro con Kathleen Lawler, in modo che non lo venissi a sapere nemmeno io» azzardo. «Ho preso contatto con alcuni studi legali per cercare di restringere il campo» continua Jaime, come se non mi avesse sentito. «Molto dipende da dove deciderò di andare a stare.» «Sono certa che quello che succederà nel caso di Lola Daggette avrà il suo peso nella tua scelta» dico, non molto diplomaticamente. «È ovvio che dovrà essere uno studio importante, con uffici nel Sud e nel Sudovest» risponde porgendo un bicchiere di vino a me e una Coca-Cola Light a Marino. «Negli Stati a maggioranza repubblicana le condanne a morte sono frequenti, ma ciò non vuol dire che mi stabilirò nel Texas o in Alabama. In ogni modo, per rispondere alla tua domanda, il motivo per cui mi sto occupando dell’errore giudiziario di cui è stata vittima Lola Daggette è che lei ha scritto parecchie lettere all’Innocence Project e a varie associazioni e avvocati che difendono a titolo gratuito casi come il suo. Aggiungo che le lettere erano mal scritte e sono rimaste lì
fino al novembre scorso, quando la Corte suprema della Georgia ha respinto l’istanza di sospensione dell’esecuzione, inducendo varie organizzazioni a chiedere un riesame del provvedimento. Poi, all’inizio di quest’anno, in Georgia è successo un pasticcio durante un’esecuzione, secondo alcuni resa deliberatamente più dolorosa, scatenando un sacco di polemiche. Mi hanno chiesto se mi poteva interessare il caso Daggette, dicendomi che era meglio che se ne occupasse una donna» continua Jaime. «Pare che Lola non collabori con gli uomini, che non riesca a fidarsi di loro a causa degli abusi subiti da parte del patrigno quando era piccola. Ho detto che ci avrei dato un’occhiata. All’epoca non c’era motivo di pensare che la cosa potesse mai riguardare anche te. Ho iniziato a riesaminare il caso prima che Dawn Kincaid ti aggredisse.» «Non vedo il collegamento, a parte il fatto che Lola Daggette si trova nella stessa prigione della madre biologica di Dawn Kincaid, Kathleen Lawler» ribatto. «La quale sostiene di avere con Lola un rapporto antagonistico.» «La maggior parte dei casi riesaminati dalle associazioni legali e dalle organizzazioni della società civile riguardano detenuti in Georgia, in Virginia, in Florida, cioè negli Stati repubblicani.» Jaime fa finta di non avermi sentito. «Molti sono stati condannati a morte o all’ergastolo sulla base di errori nelle indagini, scambi di identità, confessioni ottenute con la coercizione. Non ci sono molte donne nel braccio della morte. Attualmente Lola è l’unica in Georgia, e ce ne sono soltanto cinquantasei in tutti gli Stati Uniti. E non è che in giro ci siano tanti avvocati donna con la mia esperienza.» «Questo non risponde alla mia domanda.» Non ho intenzione di lasciarle passare la retorica autocelebrativa. «Chiarisce soltanto il tuo interesse a trovarti in certe località e il motivo per cui potrebbe convenirti accettare di lavorare per uno studio importante con filiali in tutto il paese.» «Come avrete notato, in questa casa non c’è un tavolo da pranzo, quindi mangeremo in salotto. Non alzatevi, vi servo io.» Jaime arriva con la cena e i suoi occhi azzurri incontrano i miei. «Sono contenta che tu sia arrivata sana e salva, Kay. Mi dispiace se ci sono stati inconvenienti o fraintendimenti.» Intende dire che le dispiace di aver mentito, di aver brigato perché io la aiutassi in un caso che le permetterà di farsi un nome come avvocato difensore, sempre che riesca a scagionare l’assassina più famosa della Georgia, nonché l’unica donna nel braccio della morte in questo Stato. Non voglio pensare che non ci sia anche un po’ di altruismo fra le sue motivazioni, ma ho la sensazione che siano in gioco soprattutto l’ambizione e altri fattori. Jaime non vuole semplicemente riparare un torto, anzi, questo è forse addirittura secondario. Vuole il potere. Vuole risorgere dalle ceneri dopo essere stata costretta ad abbandonare il suo incarico a New York e acquisire influenza sufficiente a schiacciare i nemici come Farbman, e probabilmente
molti altri. «Non dovrei bere Cola-Cola Light» dice Marino iniziando a mangiare. «Che ci crediate o no, i dolcificanti artificiali fanno ingrassare.» «Volevo assolutamente comunicarti due cose» mi dice Jaime sedendosi sul divano con il suo piatto di sushi. «Ti consiglio di stare in guardia, perché sappiamo entrambe che intorno a questo caso si solleverà un polverone. Polizia ed FBI non prendono mai un’iniziativa soltanto per una questione di giustizia. Prima di tutto, vogliono che diventi un caso. Per raggiungere i target, per finire sui giornali, per ottenere promozioni.» Allunga la mano per prendere il bicchiere di vino. «Ti ringrazio per l’avvertimento, ma non ho bisogno del tuo aiuto» rispondo. «Invece sì. E io ho bisogno del tuo.» «Zucchero raffinato e dolcificanti.» Marino mi scocca un’occhiata mentre mangia, battendo rumorosamente il cucchiaio contro il bordo della tazza. «Me ne tengo alla larga.» «Ho la sensazione che tu ti sia inimicata Colin.» Confermo a Jaime l’evidenza dei fatti. «A volte è testardo, ma è molto bravo nel suo lavoro. È rispettato dai colleghi e dalle forze dell’ordine. È anche un vero gentiluomo del Sud e per giunta irlandese. Bisogna saperlo prendere.» «Non sono abituata a essere trattata come un paria.» Jaime usa le bacchette con destrezza. «Per certi versi forse sono stata abituata troppo bene. Nessuno è accolto meglio di un procuratore in un Istituto di medicina legale o in un reparto investigativo. È un brutto colpo ritrovarsi improvvisamente nei panni del nemico.» Mangia un pezzetto di zenzero sott’aceto e un involtino piccante al tonno. «Non è che sei diventata il nemico. Sei diventata un avvocato difensore, e non credo sia giusto pensare che quelli che lavorano per la procura siano gli unici impegnati nella ricerca della verità.» «A Colin dà fastidio che io voglia tirar fuori Lola dal braccio della morte» dice. «Non è per nulla interessato a quanto sostengo, ovvero che il caso di Barrie Lou Rivers è la dimostrazione che il GPFW sta rendendo le esecuzioni eccessivamente crudeli per infliggere dolore e sofferenza. Lo vogliono fare anche con Lola, che era appena maggiorenne quando l’hanno rinchiusa lì dentro. È disumano. È scandaloso. Lola è innocente. Ma Colin pensa che io lo stia contestando.» «Be’, è vero. Ma noi siamo abituati alle contestazioni.» «A lui non piace.» «Forse non gli piace il modo in cui lo fai.» «Avrei bisogno di un piccolo corso intensivo.» Sorride, ma i suoi occhi rimangono seri.
«Mi fa piacere che tu ti sia sentita moralmente obbligata a dirmi che qualcuno sta spargendo voci false sul mio conto e cerca di mettermi nei guai con i federali, e te ne sono grata» le dico leggermente risentita. «Ma questo non è un do ut des.» «Immagino che tu non abbia una Sharp’s nascosta da qualche parte» dice Marino a Jaime dopo aver divorato la zuppa di gamberi e metà delle patatine fritte, come se non avesse mangiato niente in tutto il giorno. Jaime intinge un altro involtino nel wasabi e gli risponde: «Avrei dovuto pensarci e prendere qualcosa di non alcolico. Mi dispiace». Poi si rivolge a me e dice: «Volevo spiegarti esattamente quello che sta succedendo prima che tu te ne accorgessi in circostanze per te svantaggiose dal punto di vista sia legale sia professionale, e il modo più sicuro per farlo mi è sembrato parlarne dietro le quinte, durante il normale svolgimento di altre attività». «Hai chiesto a una detenuta di passarmi di nascosto il tuo numero di cellulare raccomandandomi di usare un telefono pubblico. Non credo che si possa definire molto normale.» Assaggio una capasanta. «Sì, ho dato istruzioni a Kathleen in questo senso.» «E se lo va a raccontare a qualcuno?» «A chi vuoi che lo dica?» «A una delle guardie. A un’altra detenuta. Al suo avvocato. Le detenute non fanno che parlare, se solo ne hanno l’occasione.» «Non credo che le darebbero retta.» Marino è passato ai gamberi alla brace e quando si pulisce la bocca si sente il rumore del tovagliolo che sfrega sulla barba. «Non è di quelli della prigione che ti devi preoccupare, ma dell’FBI» sentenzia aprendo un’altra confezione monodose di ketchup. «Non sarebbe una bella cosa se venissero a sapere che Jaime ti tiene informata delle loro mosse, rovinandogli il fattore sorpresa. Devo trovare qualcuno che mi ripari il furgone. Magari già che ci sono prendo anche sei lattine di Sharp’s.» Marino ha ragione quando dice che l’FBI non gradirebbe se si venisse a sapere che sono stata avvisata. Ma è troppo tardi. Il “fattore sorpresa” ormai è sfumato, anche se non ho capito bene di che cosa sarei accusata. Forse Dawn Kincaid e il suo avvocato vogliono farmi causa per motivi non completamente campati per aria. Non sarebbe la prima volta, e non sarà l’ultima, che vengo accusata ingiustamente di reati, violazioni e altre nefandezze, dalla falsificazione di certificati di morte o referti di laboratorio alla scorretta etichettatura delle prove. Nel mio lavoro, scontento sempre qualcuno. C’è una probabilità del cinquanta per cento che l’una o l’altra parte si arrabbi moltissimo. «La prossima volta ricordamelo» dice Jaime a Marino. «Ti prometto che prenderò la birra analcolica che preferisci. Sharp’s, Buckler, Beck’s. C’è quel supermercato in Drayton Street, poco lontano da qui. Dovrebbero avere birra non alcolica. Scusa se non ci ho pensato
prima.» «Nessuno beve la merda annacquata che bevo io, quindi perché avresti dovuto pensarci?» Si alza, facendo scricchiolare di nuovo la poltrona di pelle. «Per favore, mi dai il biglietto del parcheggio?» mi chiede. «Più ci penso, più sono convinto che sia l’alternatore. Sarà dura trovare un meccanico a quest’ora.» Guarda prima l’orologio, poi Jaime. «Meglio che mi dia una mossa.» Cerco la ricevuta del parcheggio nella borsa e gliela do. Marino va verso la porta e, quando la apre, la sirena dell’allarme emette un suono simile all’avviso di batteria scarica di un rivelatore di fumo. Mi torna in mente la casa dei Jordan e mi chiedo se davvero quella notte non avevano attivato l’allarme, e perché. Erano troppo sicuri di sé? Troppo fiduciosi? Mi chiedo se l’assassino sapeva che l’allarme era disinserito oppure se è stato solo fortunato. «Mi telefoni quando sei pronta e io ti vengo a prendere con il furgone» mi dice Marino. «Se non funziona, chiamo un taxi. Anch’io mi fermo allo Hyatt stanotte. Siamo sullo stesso piano.» Inutile che gli chieda come fa a sapere a che piano sto. «Ti ho portato una borsa con il minimo indispensabile» aggiunge. «Qualche divisa da lavoro e altre cose che ho preso sapendo che non pensavi di fermarti uno o due giorni in più. Va bene se te la metto in camera?» «Perché no?» rispondo. «Se hai una seconda chiave, sarebbe più semplice.» Mi alzo e gli porgo anche quella. Se ne va, lasciandomi sola con Jaime. Sospetto che il suo scopo fosse proprio questo e non comprare sei lattine di birra analcolica o far riparare il furgone a un’ora in cui con tutta probabilità le officine meccaniche sono chiuse. Dev’essere stata Jaime a dirgli di andarsene subito dopo mangiato, oppure gli ha fatto un cenno di cui non mi sono accorta. Penso al fatto che Marino, quando è partito da Boston per la sua presunta vacanza, si è portato dietro una borsa di roba per me: è chiaro che la mia presenza nell’appartamento di Jaime in questo momento è stata accuratamente programmata. Dopo essersi sfilata i mocassini di cuoio blu, Jaime si alza dal divano e va in cucina a prendere la bottiglia del vino senza fare rumore sul vecchio parquet di pino. Mi dice di avere dell’ottimo scotch, nel caso io preferisca qualcosa di forte. «No, grazie» rispondo, immaginando quello che mi aspetta domani mattina. «Penso che un superalcolico sia quello che ci vuole.» «No, grazie. Ma tu serviti pure.» La guardo aprire un armadietto e tirare fuori la bottiglia di Johnny Walker Blue Label. «Che cosa può pensare di avere contro di me l’FBI o chiunque altro?» le chiedo.
«Sono per l’approccio proattivo» risponde, come se le avessi fatto tutt’altra domanda. «Non do mai nulla per scontato.» Svita il tappo metallico di un whisky talmente raffinato che mi rifiuto di credere che lo abbia acquistato per berselo da sola. Magari pensava che avremmo fatto le ore piccole e voleva farmi abbassare la guardia perché acconsentissi a fare quello che vuole, qualunque cosa sia. «L’intuizione può essere un’arma letale» aggiunge. «Potrebbe essere a questo che mirano.» «A chi ti riferisci?» chiedo, pensando che forse sta parlando di se stessa. 018_chapter12
12 Jaime si versa una bella dose di whisky liscio, senza ghiaccio, e ritorna dalla cucina con la bottiglia di vino in una mano e il bicchiere nell’altra. «A Dawn Kincaid. Ai suoi avvocati» mi risponde. «Secondo loro, si tratta di legittima difesa. Ma non da parte tua. Da parte di Dawn.» «Non ci vuole molto a immaginare che cosa sosterrà Dawn Kincaid» replico. «Dirà che è stato Jack ad ammazzare di botte Wally Jamison lo scorso Halloween, poi a piantare chiodi in testa a quel povero bambino di sei anni, Mark Bishop, a uccidere Eli Goldman, studente dell’MIT, e infine a suicidarsi sparandosi con la propria pistola. Darà la colpa di tutto al mio vice, che adesso non è più tra noi per potersi difendere. Dirà che era uno squilibrato.» «Dopodiché tu, altrettanto squilibrata, hai aggredito Dawn Kincaid.» Jaime torna a sedersi. Quando appoggia il bicchiere sul tavolo, sento odore di torba e di frutta. «Non mi sorprenderei se si inventasse una cosa del genere. Mi piacerebbe però sapere come spiegherà il fatto che si trovava a casa mia a Cambridge e mi aspettava al varco nel mio garage, al buio, dopo aver disattivato i sensori di movimento della luce esterna.» «Era lì per riprendersi il cane» risponde Jaime. «Sock, il suo levriero, era a casa tua e lei voleva riprenderselo.» «Ma fammi il piacere!» Sto cominciando a innervosirmi. «Dirà che hai preso il coltello WASP dalla cantina di Jack quello stesso giorno, durante il sopralluogo sulla scena del crimine.» «Il coltello era già sparito quando sono arrivata io» la interrompo, sempre più spazientita. «La polizia potrà testimoniare che la custodia era vuota e c’erano solo le bombolette di CO2.» «La polizia vuole che venga processata e condannata, no?» Mi riempie di nuovo il bicchiere di vino. «La polizia è prevenuta contro Dawn Kincaid, no? E la faccenda è complicata dal fatto che tuo marito è nell’FBI ed è coinvolto anche lui. Non è una situazione molto imparziale e oggettiva, no?» «Stai insinuando che Benton potrebbe aver prelevato il coltello dalla scena del crimine o che mentirebbe sapendo che l’ho preso io? Che potremmo aver manomesso le prove? Che stiamo ostacolando il corso della giustizia?» La metto alle strette. È difficile capire da che parte stia, ma non mi sembra che stia dalla mia. «Non si tratta di me o di quello che potrei insinuare io» ribatte Jaime. «Stiamo parlando di quello che dirà Dawn Kincaid.» «Non capisco come fai a saperlo.» «Sosterrà che ti aspettavi una sua visita quella sera e ti sei premurata di indossare il giubbotto antiproiettile» risponde lei. «Che hai fatto in modo che la tua torcia elettrica non funzionasse e che hai svitato la lampadina comandata dai sensori di movimento davanti al garage in modo da poter poi dichiarare che non vedevi niente. Dirà che non è vero che hai sfer-
rato un colpo alla cieca con la torcia, al buio, per difenderti da una presunta aggressione, ma che sei stata tu a tendere l’imboscata a lei.» «La torcia era vecchia e non l’ho provata prima di uscire di casa. Avrei dovuto farlo. E di certo non sono stata io a svitare la lampadina davanti al garage.» Faccio fatica a nascondere l’irritazione. «Eri preparata, la aspettavi, quando è venuta a riprendersi Sock.» Jaime si sistema più comodamente sul divano, si mette un cuscino in grembo e ci appoggia le braccia. «E secondo te lei mi avrebbe contattato per chiedere se poteva passare a riprendersi il cane, con la polizia, i federali e tutti quanti che la cercavano?» le faccio notare. «Chi crederebbe mai a una simile assurdità?» «Dirà che non sapeva che la polizia la stesse cercando. Dirà che non poteva immaginarlo, dal momento che non aveva fatto niente.» Jaime allunga la mano per prendere di nuovo il bicchiere. Il whisky sembra oro fuso in quel vetro dozzinale. Jaime comincia a sembrarmi leggermente ubriaca. «Dirà che il suo amatissimo cane, salvato dal canile, addestrato da sua madre e affidato a lei, era a casa di suo padre a Salem e tu te lo sei portato via» continua Jaime. «Dirà che glielo avevi rubato e voleva riprenderselo. Dirà che l’hai aggredita, che lei è riuscita a strapparti il coltello, ma nella colluttazione si è tagliata la mano, perdendo parte di un dito e lesionandosi tendini e nervi, e che tu le hai dato una botta in testa con la torcia, che era pesante, di metallo. Dirà che, se non fosse arrivato Benton, tu l’avresti fatta fuori. Che a quest’ora sarebbe morta.» «Lo dirà o l’ha già detto?» Poso il piatto e la guardo. Mi è passato l’appetito, e non credo che mi tornerà, stasera. Mi si è chiuso completamente lo stomaco. Se non sapessi come stanno le cose, penserei che Jaime Berger è l’avvocato di Dawn Kincaid e mi ha attirato a Savannah per comunicarmelo. Ma so che non è così. «Lo dirà e l’ha già detto» risponde Jaime, prendendo un po’ di insalata di alghe con le bacchette. «L’ha detto ai suoi avvocati e l’ha scritto in alcune lettere a Kathleen Lawler. I detenuti hanno il permesso di scriversi, se sono imparentati. Dawn, che è furba, ha iniziato a chiamarla mamma. “Cara mamma” scrive, e poi si firma “la tua affezionatissima figlia”» continua, come se avesse visto le lettere. Forse le ha viste davvero. «Anche Kathleen le scrive?» chiedo. «Lei dice di no, ma mente» risponde Jaime. «So che non ti farà piacere, Kay, ma Dawn Kincaid sta recitando perfettamente la parte della brillante scienziata che ha perso l’uso di una mano e adesso ha problemi mentali ed emotivi dovuti al trauma cranico, che è stato definito “una lesione cranica importante con conseguenze patologiche permanenti”.»
«Non è vero niente.» «È carina e affascinante. Manifesta disturbi di tipo dissociativo, stati deliranti e alterazioni cognitive, per cui è stata trasferita al Butler.» «Finge deliberatamente.» «I suoi avvocati dicono che è colpa tua e probabilmente ti faranno causa» aggiunge Jaime. «La visita che hai fatto a sua madre oggi e le eventuali comunicazioni con lei in passato sono state, secondo me, un’imprudenza. Non fanno che rendere più discutibile la tua posizione.» «Visita che hai orchestrato tu» puntualizzo per ricordarle che non sono una stupida. «Sono qui per causa tua.» Mi ha voluto mettere in una posizione di debolezza. «Nessuno ti ha costretto a venire.» «Non era necessario» ribatto. «Sapevi benissimo che sarei venuta. Mi hai incastrato.» «Sì, ho pensato che molto probabilmente saresti venuta. Ti raccomando però di evitare ulteriori contatti con Kathleen. Di qualsiasi genere» mi consiglia Jaime, come se ora fosse il mio avvocato. «Non credo che ci siano gli estremi per un’azione penale nei tuoi confronti, ma potresti avere comunque delle grane» continua, dipingendo altri scenari drammatici. «Adesso anche i ladri che si fanno male svaligiandoti la casa ti denunciano» ribatto. «È una denuncia continua. È il nuovo business nazionale. Prima cercano di derubarti, violentarti o ucciderti, e magari ci riescono anche. Poi, come se non bastasse, denunciano te o i tuoi eredi.» «Non voglio farti arrabbiare né spaventarti né metterti in una situazione compromettente.» Posa le bacchette e il tovagliolo sul piatto vuoto. «Sì, invece.» «Tu pensi che io stia bluffando.» «Non ho detto questo.» «Quando quelli dell’FBI sono venuti a casa mia, Kay, mi hanno chiesto se avevo mai notato in te segni di instabilità emotiva, comportamenti violenti o altri atteggiamenti preoccupanti. Menti? Bevi troppo? Fai uso di sostanze? Ti sei mai vantata di poter commettere un omicidio perfetto e passarla liscia?» «Io? Certo che no. Fra l’altro, quello che è successo nel mio garage è stato tutt’altro che perfetto.» «Allora ammetti che hai cercato di ucciderla.» «Se avessi pensato di poter essere aggredita, mi sarei armata di qualcosa di più della torcia che tengo nel cassetto della cucina. Non sarebbe successo niente se io fossi stata un po’ meno stanca e distratta.»
«Quelli dell’FBI mi hanno chiesto se sapevo che rapporti c’erano fra te e Jack» mi dice. «Se eravate mai stati amanti, se eri possessiva o eccessivamente attaccata a lui, se ti sentivi trascurata, se andavi soggetta a crisi di gelosia.» Beve un altro sorso di whisky. Sono tentata di alzarmi e versarmene un po’ anch’io. Meglio di no. Non posso rischiare di ritrovarmi ancora più vulnerabile di quanto già sia o di avere il cervello annebbiato domani. «Sono stati loro a dirti della legittima difesa?» chiedo. «No. Non sono così generosi. Sono bravissimi a carpire informazioni, ma molto poco propensi a ricambiare il favore. Non mi hanno voluto dire nemmeno perché mi facevano tutte quelle domande su di te.» «Questo non è un do ut des» dico di nuovo. «Mi sembra giusto aiutare una persona che sta per essere condannata a morte per un delitto che non ha commesso» ribatte Jaime. «Vista la situazione in cui ti trovi, dovresti renderti conto di cosa significa essere accusati ingiustamente di omicidio, o di tentato omicidio» aggiunge con enfasi. «Non ho bisogno di essere accusata ingiustamente di un reato per discernere il bene dal male» rispondo. «Lola farà una morte orribile» dice. «Non gliela renderanno indolore né pietosa. Il dottor Clarence Jordan faceva parte della ricca borghesia di Savannah. Era un buon cristiano, un uomo retto, fin troppo generoso. Era uno che curava gratis i bisognosi e faceva volontariato al pronto soccorso, alla mensa dei poveri, al banco alimentare il giorno del Ringraziamento e la vigilia di Natale. Un santo, secondo alcuni.» Immagino sia possibile che un uomo di grande fede, un santo, non si curi di inserire l’impianto di allarme della villa in cui vive. Mi domando se lo aveva fatto installare lui o il proprietario precedente. «Che cosa sai dell’impianto di allarme nella casa dei Jordan?» chiedo. «Pare che la notte della strage non fosse inserito.» «Non ti sembra strano?» «Mi incuriosisce molto. Perché non era inserito?» «Lola non ha dato spiegazioni?» «Non è stata lei a introdursi nella casa» mi ricorda Jaime. «Non riesco a darmi una spiegazione.» «Qualcuno ha provato a capire se i Jordan avevano l’abitudine di non attivare l’allarme?» «Non ci sono superstiti in grado di dirci quali abitudini avevano o non avevano» risponde Jaime. «Ma ho incaricato Marino di controllare anche questo, tra le altre cose.» «Se l’allarme era attivo e collegato telefonicamente a una ditta responsabile della sorveglianza, dovrebbe risultare da qualche parte se veniva inserito e disinserito abitualmente» rib-
atto. «Così come dovrebbero risultare eventuali falsi allarmi, problemi alla linea telefonica. Insomma, si dovrebbe capire se la famiglia Jordan lo usava, se pagava il canone tutti i mesi.» «Ottima osservazione. I documenti che ho consultato non dicono molto al riguardo» risponde Jaime. «E nemmeno gli interrogatori.» «Hai parlato con l’investigatore?» «L’agente speciale Billy Long, del Georgia Bureau of Investigation, è andato in pensione cinque anni fa. Dice che i suoi verbali e i rapporti sono più che eloquenti.» «Gli hai parlato?» «Gli ha parlato Marino. Secondo Long, l’allarme quella sera non era in funzione e da questo si deduceva che i Jordan erano tranquilli, non badavano molto alla sicurezza ed erano stufi dei falsi allarmi» spiega Jaime. «Così avevano smesso di inserirlo? Anche di notte? Mi sembra un po’ eccessivo.» «Poco prudente, ma comprensibile» ribatte. «Con due bambini di cinque anni, puoi immaginare cosa succede. Aprono le porte e scatta l’allarme. Dopo due o tre volte che arriva la polizia, ti stufi e abbassi la guardia. Hai una serratura di sicurezza che si apre con la chiave anche dall’interno, e più che dei ladri hai paura che i bambini restino chiusi dentro casa se scoppia un incendio. Così prendi la brutta abitudine di lasciare la chiave nella serratura, cosa che permette a un malintenzionato di rompere il vetro, infilare dentro la mano e aprire la porta dall’interno.» «E queste deduzioni sulla presunta negligenza dei Jordan su cosa si basavano?» chiedo. «Sono supposizioni elaborate dall’agente speciale Long all’epoca dei fatti» risponde Jaime, mentre io mi addentro in un caso da cui invece dovrei tenermi lontana. Perché sono stata raggirata. Jaime Berger mi ha manovrato per farmi venire in questo salotto a parlare con lei di queste cose. «Purtroppo è facile fare illazioni quando si è convinti che il caso sia già risolto» dico. «Sì. Avevano il DNA dei Jordan sui vestiti sporchi di sangue che Lola Daggette fu sorpresa a lavare nel bagno della comunità» concorda Jaime. «Capisco perché il Georgia Bureau of In-vestigation e la procura non si siano preoccupati troppo dei dettagli riguardanti l’impianto di allarme» osservo. «Sarei curiosa di sapere perché invece tu te ne preoccupi tanto.» Prende il bicchiere. «Perché sapere se l’assassino era al corrente del fatto che l’allarme era disinserito ci fa capire qualcosa di più sul suo conto.» Mi sto appassionando al caso, come Jaime aveva previsto. «Sai se il tastierino era visibile dall’esterno? Un malintenzionato potrebbe aver guardato attraverso il vetro della porta e aver visto se l’allarme era inserito o no?»
«Dalle foto non è facile capirlo, ma credo fosse possibile vedere se la spia dell’allarme era verde o rossa, e quindi se l’impianto era inserito oppure no.» «Sono dettagli importanti» dichiaro. «Gettano luce sulle modalità degli omicidi. La casa dei Jordan fu scelta a caso? L’assassino spaccò il vetro della porta della cucina e provò ad aprirla con l’intenzione di darsela a gambe nel caso fosse scattato l’allarme? Oppure vide che l’allarme non era inserito o sapeva già, per qualche motivo, che era molto probabile che non lo fosse? Immagino che la casa dei Jordan esista ancora.» «La cucina è stata ristrutturata. Il resto della casa non so, ma sicuramente sul retro c’è una piccola costruzione che all’epoca non c’era. La porta della cucina è stata sostituita con una più robusta. La ditta di sorveglianza di cui si serve l’attuale proprietario è la Southern Alarm. Ci sono cartelli in tutta la proprietà e adesivi alle finestre.» «Lo credo bene.» «Invece non abbiamo trovato niente sul sistema di allarme dei Jordan, tranne che la ditta si chiamava Southern Cross Security.» «Mai sentita nominare.» «Era una piccola ditta di qui, specializzata in impianti per edifici storici dove la priorità è non rovinare le parti in legno originali e cose del genere.» Jaime beve un altro sorso di whisky. «È fallita parecchi anni fa, quando c’è stata la crisi, il mercato immobiliare è crollato e le grandi case d’epoca sono state trasformate quasi tutte in condomini o uffici.» «E questo l’ha scoperto Marino.» «Che importanza ha sapere chi l’ha scoperto?» «Te lo domando perché Marino è un bravo investigatore, esperto e scrupoloso. Le informazioni che raccoglie sono sempre affidabili.» Jaime mi squadra come se avesse la sensazione che la stia prendendo in giro. Vuole capire se sono gelosa. Si aspetta che io non sia contenta del fatto che Marino è qui per lei e ha deciso di rinunciare al suo lavoro a tempo pieno al CFC. Forse è segretamente soddisfatta di avermelo portato via, ma io non sono gelosa. Mi disturba che lei lo influenzi così, ma non per le ragioni che immagina: ho paura che lo strumentalizzi. Perché Jaime tende a strumentalizzare tutti. «Hai chiesto a Colin Dengate se sapeva qualcosa del sistema di allarme?» le domando. «Gli hai chiesto se per caso ha sentito parlare del motivo per cui non era inserito?» «Non mi mette a parte dei risultati delle indagini» risponde. «Mi rimanda sistematicamente alla fonte, il che è corretto, ma poco costruttivo. Colin non è molto collaborativo, a essere sinceri. Potrebbe parlare e dire quello che pensa, ma con me preferisce non sbottonarsi.» «Con Marino parla?»
«Non voglio che Marino si metta direttamente in contatto con lui. Non mi sembra opportuno. Colin dovrebbe parlare con me. O con te.» “Ti sbagli” penso. Marino è proprio il tipo di poliziotto burbero e con i piedi per terra con cui Colin si sentirebbe a proprio agio. «Che tipo di medico era Clarence Jordan?» chiedo, come se il caso fosse di mia competenza. «Aveva uno studio di medicina generale molto ben avviato in Washington Avenue. Non si uccide uno come Clarence Jordan e non si uccide sua moglie.» Jaime continua a fissarmi mentre parla e beve. «E di certo non si uccidono i suoi due bei bambini. Per l’opinione pubblica l’idea che Lola sia innocente è inaccettabile. Da queste parti è considerata alla stregua di Jack lo Squartatore.» «Il modo in cui mi hai coinvolto è quanto meno insolito per me» dico infine. «Sono in ballo molte cose. Farti venire qui è stato vantaggioso sia per me sia per te.» «Non capisco. Ma mi rendo conto che sei stata molto brava a lavorarti Marino. Anzi, per la precisione, lo sei ancora» le faccio notare. «Sei coinvolta in un’inchiesta federale, Kay. Se fossi in te, non lo sottovaluterei.» «Solo formalmente, lo sai benissimo» ribatto. «Dato il lavoro che faccio, e soprattutto dato che dipendo dal dipartimento della Difesa, qualsiasi accusa a mio carico va approfondita. Se venissi accusata di essere Babbo Natale, dovrebbero aprire un’inchiesta.» «Non vorrai che finisca sui giornali che sei stata accusata di aver aggredito una persona e di averla menomata. Non sarebbe piacevole svegliarsi una mattina e leggere una notizia del genere.» «Spero che tu non mi stia minacciando. Perché questa mi suona come una frase da avvocato difensore» ribatto. «Santiddio, no. Perché dovrei minacciarti?» «Mi sembra che il motivo sia ovvio.» «Non ti sto affatto minacciando. Anzi, sono nella posizione giusta per aiutarti» ribatte. «Potrei essere l’unica in grado di farlo.» Non so di cosa stia parlando. Non capisco come Jaime Berger mi possa aiutare, ma non faccio domande. «Molta gente potrebbe simpatizzare per Dawn Kincaid» dice. «A mio avviso, sarebbe meglio per te se il processo per tentato omicidio nei tuoi confronti non si celebrasse.» «Lasciandogliela passare liscia? Non ne vedo l’utilità.» «Purché venga punita, ha importanza per quale capo di imputazione verrà condannata?» «Verrà processata anche per altri reati, oltre al tentato omicidio ai danni miei. Per omicidio. Anzi, per quattro omicidi.» Immagino che alluda a questo.
«Peccato che per i cosiddetti “Delitti Mensa” possa usare Jack Fielding come capro espiatorio.» Guarda pensierosa quel che resta del suo whisky. «Cercherà di far ricadere la colpa su un morto, culturista, anatomopatologo, psicologicamente instabile e aggressivo, coinvolto in innumerevoli attività che susciteranno la disapprovazione del giurato medio.» Resto in silenzio. «Se ci riuscisse, ti troveresti in brache di tela. Se Dawn Kincaid verrà assolta per quegli omicidi, a te non resterà nessun argomento. Questa è la mia opinione professionale» dice Jaime, e ora è il procuratore che parla. «Se i giurati crederanno che l’assassino sia Jack, tu diventerai la pazza che ha aggredito una donna innocente venuta a casa tua solo per riprendersi il cane. Come minimo, verrai denunciata e avrai un sacco di noie e di spese.» È tornata nei panni dell’avvocato difensore. «Se i Delitti Mensa venissero davvero attribuiti a Jack, la situazione si farebbe spinosa» ammetto. «Ti ci vorrebbe un miracolo, non trovi?» Mi sorride, come se la nostra fosse una piacevole conversazione. «Be’, si spera sempre in un miracolo. Ma non credo che esistano.» «Invece possono succedere» dice Jaime. «A noi è successo.» 019_chapter13
13 Soddisfatta e sicura di sé, mi comunica che i risultati del test del DNA, ripetuto recentemente sui reperti degli omicidi Jordan, chiamano in causa Dawn Kincaid. «È stata trovata una corrispondenza con alcuni tamponi e campioni prelevati all’epoca degli omicidi nella casa dei Jordan e finora non identificati, compreso del sangue sul manico di un coltello» spiega Jaime, mentre controllo se ci sono nuovi messaggi sull’iPhone e non la degno dell’attenzione che vorrebbe. Gratitudine. Sollievo. Che posso fare per ringraziarti, Jaime? Chiedimi qualsiasi cosa. Sono pronta. «È accertato che Dawn Kincaid si trovava lì» afferma Jaime, come se la cosa fosse fuori da ogni dubbio. «Era nella casa dei Jordan la notte della strage. Ha lasciato peli pubici e urina nel gabinetto. Ha lasciato cellule epidermiche e sangue sotto le unghie della bambina, Brenda, che evidentemente si è difesa come una tigre.» Mi concede qualche istante per capire tutta l’importanza di quello che ha detto, facendo una pausa a effetto mentre io invece penso a tutt’altro. “Stai bene? Dove sei?” dice l’SMS che mi ha appena inviato Benton. “Chi o cosa diavolo è Anna Copper LLC?” «Credo di capire perché ti interessa Kathleen Lawler» dico a Jaime mentre rispondo a Benton con un punto interrogativo. Non capisco cosa voglia dirmi. Non ho mai sentito nominare Anna Copper LLC. «Sono sicura che Kathleen spera di ottenere dei vantaggi collaborando con te» continuo. «Magari riesci a procurarle una riduzione o una commutazione della pena.» «Collabora molto» risponde Jaime. «In effetti sì, vuole riavere la sua vita. È praticamente disposta a fare qualsiasi cosa.» «È al corrente dei risultati degli esami sul DNA? Sa che i nuovi test accusano la figlia biologica?» «No.» «Come fai a esserne sicura? Ho la sensazione che al GPFW siano oltremodo interessati a tutto ciò che viene detto e fatto all’interno del carcere.» «Sono stata molto cauta.» «Lola Daggette era ferita quando la polizia l’arrestò poco dopo gli omicidi?» chiedo. «Aveva riportato lesioni, abrasioni, graffi o contusioni? Venne visitata dal medico legale?» «Che io sappia no. Ma non presentava lesioni evidenti, e ciò avrebbe dovuto destare sospetti» dice giustamente Jaime. «Brenda ha lottato con il suo aggressore, graffiandolo a sangue. La polizia si sarebbe dovuta chiedere come mai Lola non aveva neanche un graffio.»
«L’assenza di ferite avrebbe dovuto insospettirli» concordo. «E anche la non corrispondenza del DNA dei reperti biologici prelevati sotto le unghie di Brenda con quello di Lola. Mi pare un secondo indizio molto importante, che pone un problema altrettanto importante.» «Sicuramente, visto che indica che non era stata lei a commettere il delitto.» «Oppure che non lo commise da sola.» «È quel che si dice foderarsi gli occhi di prosciutto» dice Jaime. «La gente voleva che si trovasse il colpevole. Erano in gioco la tranquillità e la sicurezza di tutti, occorreva ristabilire l’ordine nella loro amena cittadina.» «Purtroppo sono cose che succedono. Specie nei casi che destano scalpore e sono molto pubblicizzati.» «Fu Dawn a uccidere i Jordan, a prendersi i graffi e le unghiate, a mangiare un tramezzino e a usare il bagno a pianterreno» riassume Jaime. «Paradossalmente, devo le mie certezze a quello che ti è successo nel Massachusetts. Il profilo del DNA di Dawn è stato inserito nella banca dati dopo il suo arresto. Così, quando ho chiesto di ripetere il test sul DNA prelevato sulla scena del crimine dei Jordan e di inserirlo nel CODIS, è saltata fuori una corrispondenza. È uno choc, lo so. È sbalorditivo.» «Magari non proprio uno choc.» Non voglio dargliela vinta. «Kathleen Lawler mi ha detto che forse Dawn si trovava a Savannah nel gennaio del 2002, ovvero quando i Jordan furono assassinati. Me l’ha detto oggi durante il colloquio. In teoria, le due si sarebbero incontrate per la prima volta proprio allora. Pensi che Kathleen possa avere idea di che cosa ha fatto la figlia?» «Non saprei. Perché Dawn avrebbe confessato una cosa del genere, a meno che non volesse farsi arrestare? È accertato che Dawn Kincaid era qui a Savannah. C’era per forza. Anche se continuerà a mentire su quello che è successo a casa tua il 10 febbraio, non ha importanza. Sta per perdere la poca credibilità che aveva.» «Per questo dovrei sentirmi doppiamente motivata ad aiutarti a perorare la tua causa» dico. «È una questione di giustizia, Kay. Su più di un fronte.» «Quando hai avuto i risultati del DNA?» «Circa un mese fa.» «Non ci sono novità per quel che riguarda il mio caso, altrimenti sarei venuta a saperlo» commento. «Non ne ho più saputo nulla. Ma questo non esclude che altre persone ne siano informate.» «Né Dawn né il suo avvocato sanno della corrispondenza fra il suo DNA e quello prelevato in casa Jordan nove anni fa» afferma Jaime con una sicurezza che non condivido.
«A che laboratorio ti sei rivolta?» chiedo. «A due diversi laboratori indipendenti, uno di Atlanta e l’altro di Fairfield, nell’Ohio.» «E nessuno sa niente» dico con scetticismo. «Nemmeno l’FBI? Presumo che la ripetizione del test sia stata autorizzata dal procuratore generale della Georgia.» «Sì.» «E tu pensi che il procuratore generale non conosca i risultati?» «Sia lui sia gli altri personaggi chiave coinvolti nella vicenda sanno quanto è importante non lasciar trapelare alcuna informazione finché il caso non è stato istruito. E io sto appena facendo i primi passi.» «La fuga di notizie è uno dei pericoli più gravi per qualsiasi indagine.» Le ricordo un dato di fatto che fino a poco tempo fa sarebbe stato per lei più che ovvio. È troppo piena di sé. O forse è disperata. «In questo caso particolare, poi, mi sembra che il rischio di una fuga di notizie sia molto elevato» aggiungo. «Straordinariamente elevato, direi. Sono molti ad avere un interesse personale nel caso Jordan, compresi alcuni esponenti del governo della Georgia, i quali potrebbero non gradire che un avvocato di New York arrivi quaggiù e scopra che uno dei casi di omicidio più clamorosi è stato gestito nel modo sbagliato e un’adolescente è stata condannata a morte per un crimine che non ha commesso.» «Guarda che non sono nata ieri.» «No, ma forse sei esageratamente idealista. Capisco che tu sia presa dall’entusiasmo, ma non ti sarei di grande aiuto se non ti facessi notare che è molto improbabile che la tua iniziativa sia passata inosservata o che resti per sempre sotto silenzio.» Sto pensando a Tara Grimm: mi chiedo se è al corrente del risultato dei test. Sa che ne è stata richiesta la ripetizione. “Chi glielo ha detto?” «Allora sei disposta ad aiutarmi. Sono felice di sentirtelo dire» afferma Jaime, ma non sembra affatto felice. Ha l’aria stanca e tormentata, le si chiudono gli occhi, più opachi di una volta. Sembra a disagio, cambia continuamente posizione sul divano: prima raccoglie i piedi sotto di sé e poi li allunga di nuovo sul pavimento. È irrequieta e agitata, e sta bevendo troppo. «Ti sto già aiutando: ti dico che altri potrebbero essere al corrente del risultato dei nuovi test del DNA e potrebbero cercare di interferire, se non lo stanno già facendo» ripeto. «I campioni di DNA che hai fatto esaminare sono stati inseriti nel CODIS, il database dei profili del DNA, ed è emerso che corrispondono al profilo di Dawn Kincaid. Non puoi avere la certezza che l’FBI non sappia che Dawn Kincaid, attualmente oggetto di indagine, potrebbe essere collegata con alcuni omicidi commessi a Savannah nove anni fa. Se il procuratore generale ne è al corrente, è possibile che lo sia anche il governatore, il quale sembra determinato a pro-
cedere con l’esecuzione di Lola Daggette. Quando ho parlato con Tara Grimm, ho capito che sapeva dei nuovi test e che temeva l’imminente scarcerazione di diverse detenute.» «Là dentro registrano tutto» replica Jaime in tono spiccio e realistico, come se ciò che ho appena detto non la preoccupasse per nulla. «Me lo immaginavo che registrassero tutto quello che viene detto nella sala per i colloqui del Blocco B. Per questo ho scritto sul mio taccuino, quando era fondamentale che le mie comunicazioni rimanessero riservate. Kathleen è motivata e sta attenta a quello che dice, ma Lola è un disastro: ha un’intelligenza molto limitata, scarso controllo degli impulsi, tende all’esibizionismo e all’ostentazione, fa di tutto per farsi notare. Sa che abbiamo fatto ripetere i test, ma non le ho comunicato il risultato.» «Mi domando se non lo sappia già. Questo potrebbe spiegare la sua ostilità nei confronti di Kathleen, la madre della persona che ha commesso i crimini per i quali lei sta pagando da nove anni» ipotizzo. «La mia preoccupazione più grande è che queste notizie arrivino ai media prima che io sia pronta» dice Jaime. «Non mi sembra che la tua preoccupazione più grande sia questa. Ho visto che hai installato una videocamera di sorveglianza e un sistema d’allarme.» Non aggiungo che ho il sospetto che giri armata. «Sei preoccupata per la tua sicurezza professionale e personale» aggiungo. «Se lavorassi quaggiù, anche tu installeresti un sistema di sicurezza e telesorveglianza. O te lo faresti installare da qualcuno» aggiunge, e io mi chiedo se sia un’allusione a Lucy. «Non appena avrò finito di raccogliere il materiale necessario e sarò matematicamente certa di avere prove sufficienti, presenterò un’istanza di annullamento della sentenza di Lola. Basta pregiudizi: ci vogliono fatti. Non si può condannare il primo che passa, a dispetto delle prove scientifiche. E spero che tu mi darai una mano.» Fa una pausa, come aspettando la mia conferma, ma io non gliela do. «Non c’è mai stata una sola prova che collegasse Lola a quei crimini, a parte i vestiti insanguinati che evidentemente Dawn Kincaid le ha ordinato di distruggere o di lavare e che con ogni probabilità le ha messo in camera per incastrarla» dice Jaime. «Ma mi servono più elementi. Non intendo farmi cogliere impreparata.» «In che modo si sono conosciute Lola e Dawn? E sappiamo per certo che si conoscono?» chiedo, mentre ricevo un altro messaggio da Benton. “Dove sei? Non sei in camera.” “Sto bene” rispondo. “Chiama quando puoi. (Anna Copper ha una pessima reputazione.)” Di nuovo gli rispondo con un punto interrogativo, mentre Jaime dice: «Tengo a precisare che non sto violando il segreto professionale. Lola mi ha dato il permesso di parlare con te».
«Per quale motivo? A parte il fatto che probabilmente ti direbbe di sì qualunque cosa le chiedessi.» «Il tuo parere avrebbe il suo peso in tribunale» risponde Jaime. «Quel che ci manca è un esperto in materia, un perito affermato e rispettato, disposto a rischiare in prima persona.» Intende dire che Colin Dengate non ha intenzione di esporsi. O, almeno, così crede lei. «Non è una presa di posizione comoda, data l’indignazione che il caso continua a suscitare» aggiunge. «Nonostante siano trascorsi tutti questi anni, il clima è ancora virulento. Ma dimostrare che è stata Dawn Kincaid a uccidere i Jordan torna utile anche a te» insiste. Sta cercando di corrompermi per convincermi a fare una cosa giusta, e forse è questo che mi offende di più. «Se ha massacrato un’intera famiglia nel sonno, certamente Dawn Kincaid è capace di aver ucciso anche nel Massachusetts, e nessuno crederà più a una sola parola di quello che dirà su di te» dichiara Jaime, concludendo un ragionamento le cui implicazioni non sono né necessarie né lusinghiere. «Lola ha mai fatto il nome di Dawn Kincaid? Ha mai ammesso o insinuato che Dawn sia la misteriosa complice che lei chiama Vendetta?» chiedo. «No.» Jaime tiene il bicchiere con due mani e mi guarda dall’angolo del divano, sempre più irrequieta e alticcia. «Dice che non ha idea di chi sia. Sostiene che la mattina del 6 gennaio si è svegliata nella sua stanza nella comunità di recupero e ha trovato per terra alcuni suoi indumenti, zuppi di sangue. Terrorizzata al pensiero di finire nei guai, ha cercato di lavarli.» «E tu ci credi?» «Lola ha paura: questo credo. Ha una paura folle di questa persona, che continua a chiamare Vendetta.» «Ma ha una paura folle di una persona in carne e ossa oppure del diavolo, di un mostro? “Vendetta” non potrebbe essere una figura immaginaria?» «Ritengo sia possibile che Lola abbia incontrato Dawn per strada e si sia lasciata abbindolare dalla prospettiva di farsi dare dei soldi o della droga. È possibile che Lola non sappia nemmeno come si chiamava la persona che l’ha mandata in galera.» «Quando Dawn Kincaid è arrivata a Savannah e sono stati commessi gli omicidi, Lola era in una comunità di recupero per tossicodipendenti.» Le ricordo che i tossicodipendenti in comunità non possono andare in giro impunemente. «Una comunità senza obbligo di permanenza» puntualizza Jaime. «Previa autorizzazione, i residenti potevano uscire, e Lola usciva spesso, ufficialmente per cercare lavoro e per andare a trovare la nonna malata in una casa di riposo. È possibilissimo che in una di queste occasioni abbia incontrato Dawn Kincaid, che probabilmente si è presentata con un nome
falso, o addirittura con il soprannome di Vendetta. Lola potrebbe benissimo averla conosciuta così: è ragionevole che Dawn Kincaid nascondesse la propria identità, date le sue intenzioni. Ma tutto questo è irrilevante. Il DNA non mente. Il DNA va oltre i nomi falsi.» «Hai chiesto a Lola se ha mai sentito nominare Dawn Kincaid e se ha taciuto per paura?» «Non me l’ha voluto dire, ammesso che se lo ricordi. Le ho chiesto se il nome Dawn Kincaid le diceva qualcosa, ma mi ha detto di no. Sono stata molto cauta. Non ho parlato del risultato dei test del DNA» ripete Jaime. «Ha ancora così paura di questa Vendetta dopo nove anni?» «Dice che sente la sua voce» risponde Jaime. «Che sente Vendetta descriverle le cose tremende che le farebbe, nel caso dovesse contrariarla. Non ci deve assolutamente parlare di lei o dirci chi è» spiega, e non posso fare a meno di chiedermi se questa fantomatica Vendetta non sia tutta un’invenzione. Potrebbe essere il frutto della fantasia malata di una giovane donna emotivamente instabile, con un quoziente intellettivo di settanta punti, chiusa nel braccio della morte in attesa dell’esecuzione programmata per il giorno di Halloween. «L’unica voce a cui dobbiamo dare ascolto è quella del DNA» dichiara Jaime. «Peraltro, Dawn Kincaid è in cella e lì rimarrà.» «Ma Lola sa che Dawn Kincaid è in prigione e che prima o poi sarà processata?» Voglio esserne sicura. «Sa che Dawn è accusata di diversi omicidi in Massachusetts» conferma Jaime. «Ne hanno parlato i telegiornali e gliel’ho detto io. Al GPFW non è un segreto che la figlia di Kathleen Lawler è al Butler State Hospital, in attesa del processo.» «Sono certa che hai parlato di Dawn con Kathleen.» «Come ti ho detto, l’ho interrogata e naturalmente abbiamo parlato anche di sua figlia.» «Quindi Lola continua ad avere paura di parlare anche se Dawn è in carcere.» Non mi torna, nonostante le spiegazioni di Jaime. Se Lola è nel braccio della morte da quasi dieci anni per crimini che non ha commesso e se la vera colpevole è Dawn Kincaid, che è rinchiusa nel Massachusetts, per quale motivo Lola continua ad avere così paura di lei? E perché Kathleen Lawler ha paura di Lola? C’è qualcosa che non quadra. «La paura è un’emozione potente» replica Jaime in tono sicuro, ma con la voce impastata. «Lola ha avuto paura per molto tempo di questa persona, Dawn, che era a piede libero, viva e vegeta, e incredibilmente crudele. Hai visto anche tu di che cosa è capace. Aveva ventitré anni quando ha massacrato i Jordan nel loro letto. Per il gusto di farlo, per sport, per divertimento. Li ha ammazzati e poi si è preparata un tramezzino, ha bevuto qualche birra e ha fatto in modo che la colpa ricadesse su una diciottenne disturbata e ritardata.»
«Potevi semplicemente chiedermelo, Jaime» le dico. «Non era il caso che organizzassi tutto questo. Non c’era bisogno di manipolarmi, di attirarmi qui in questo modo. Anzi, il fatto che tu abbia pensato di dovermi corrompere mi preoccupa. Sono in grado di difendermi dall’FBI o da chiunque altro, e penso che dopo tutto quello che abbiamo passato avresti dovuto sapere che ti avrei aiutato, se me lo avessi chiesto.» «Davvero saresti venuta a Savannah per farmi da perito nel caso di Lola Daggette?» Guarda il bicchiere come se stesse pensando di riempirlo di nuovo. «Avresti contestato quel reazionario del tuo collega, che mi ha risposto a monosillabi senza collaborare in alcun modo? Ti saresti messa contro Colin Dengate?» «Colin non è un reazionario» rispondo. «È solo profondamente convinto delle sue opinioni.» «Non sapevo come avresti reagito» risponde, ma non si riferisce alla mia contestazione delle conclusioni cui è giunto Colin Dengate. Jaime sta pensando al fatto che siamo “quasi parenti”. Si sta chiedendo se quello che c’è stato tra lei e Lucy possa indurmi a non aiutarla, a sbatterle la porta in faccia. «Sembra che Lucy non sappia che sei qui» dico, rispondendo alla domanda che avrebbe dovuto farmi. «Oggi pomeriggio si è agitata quando l’ho chiamata dopo che Kathleen mi ha dato il tuo numero di cellulare. Le ho chiesto se ti aveva detto che sarei venuta a Savannah, se eri venuta a saperlo da lei. Mi ha risposto di no. Mi ha detto che non vi parlate.» «Non ci parliamo da sei mesi» dice Jaime fissando un punto oltre le mie spalle, la voce tesa e nervosa. «Non pretendo che tu mi racconti cos’è successo.» «Le ho detto che non la volevo vedere mai più, e di non contattarmi per nessun motivo» dice freddamente. «Non pretendo che tu mi dia spiegazioni» ripeto. «Ovviamente non ti ha detto perché.» «Si è trasferita a Boston e non ti abbiamo più visto né sentito nominare. Non ha spiegato niente a nessuno» rispondo. «Be’, non sto dicendo che l’ha fatto apposta, anche se le conseguenze erano prevedibilissime: bastava pensarci su un attimo.» Jaime si alza per andare in cucina, dov’è la bottiglia. «Sono sicura che non avesse la minima intenzione di farmi del male. Ciò non toglie però che sia riuscita a distruggere tutto quello che avevo costruito, e senza rendersi conto dei danni che ha causato. Peggio di Greg.» Greg è l’ex marito di Jaime. «Lui almeno capiva le esigenze della mia carriera» continua Jaime dalla cucina, versandosi un altro whisky. «Essendo un avvocato e un essere umano maturo e ragionevole, sa
come vanno le cose e sa che ci sono regole e realtà dalle quali non si può prescindere illudendosi che non ci riguardino. Greg, se non altro, è sempre stato discreto, elegante, persino professionale, se mi passi l’uso di questo termine nel contesto di una relazione sentimentale.» Ritorna sul divano, sistemandosi di nuovo nel suo angolo. «E non è mai stato tanto sconsiderato da fare una cosa che avrebbe garantito la mia rovina, sia pur in buona fede.» «Non sei obbligata a dirmi che cosa ti ha fatto Lucy, o credi che ti abbia fatto» replico con pacatezza, con cautela, in modo da nascondere ciò che provo realmente. «Come faccio, secondo te, a sapere che Farbman manipola i dati delle statistiche?» Gli occhi di Jaime incontrano i miei, e sono come due ferite aperte. Ha le pupille dilatate. «Come faccio, secondo te, a saperlo con certezza e non semplicemente a sospettarlo perché i dati suonano poco verosimili?» Non rispondo, perché immagino già che cosa sta per dire. «In qualche modo Lucy è riuscita a entrare in non so quale server, mainframe o banca dati del Real Time Crime Center.» La voce di Jaime si spezza. Per un attimo intravedo tutto il suo dolore per una perdita che rifiuta di ammettere. «Per quanto io possa capire che ce l’avesse con Farbman, visto che a porte chiuse, nella riservatezza della nostra intimità, mi ha sentito lamentarmi fino alla nausea, non mi aspettavo certo che si prendesse la briga di introdursi nel sistema informatico del dipartimento di polizia di New York per aiutarmi a dimostrare le mie ipotesi.» «E tu hai l’assoluta certezza che lo abbia fatto.» «Suppongo che sia tutta colpa mia.» Fissa di nuovo un punto oltre le mie spalle. «Ho commesso il fatale errore di assecondare la sua tendenza a farsi giustizia da sé, la sua completa mancanza di limiti e, diciamocelo, la sua sociopatia. Proprio io, che pure la conosco. Voglio dire, la conosciamo entrambe. I pasticci da cui l’ho dovuta tirar fuori, che poi sono il motivo per cui mi sono inguaiata con lei...» «Inguaiata?» «Sì, perché tu mi hai chiesto di aiutarla.» Sorseggia il drink. «La Polonia, e quello che ha combinato laggiù. Gesù santo. Come si fa a stare con una persona di cui non puoi sapere tutto? Una persona che... Be’, non voglio dirlo a voce alta.» «Che ha ucciso?» «So più di quanto vorrei. Ho sempre saputo più di quanto avrei voluto.» Mi chiedo che cosa è stato a farla cambiare tanto. Prima non era così egocentrica, così pronta a scaricare le colpe sugli altri. «Sai quante volte le ho detto: “Non me lo dire, non lo voglio sapere”? Lavoro nella Giustizia, no? Come ho fatto a essere così stupida?» Parla con difficoltà, come se non riuscisse a muovere la lingua. «Forse per via del mio odio verso Farbman. Erano anni che voleva
sbarazzarsi di me, ma non mi sono mai resa conto che non era l’unico. Quando Lucy mi ha passato quelle informazioni e sono venuta a sapere esattamente quali dati Farbman aveva falsificato, sono andata dal commissario e lui, logicamente, mi ha chiesto le prove.» «Ma tu non potevi dargliele.» «Non pensavo che me le avrebbe chieste.» «Perché no?» «L’emozione. Mi sono lasciata sopraffare e ho commesso un errore imperdonabile. Mi sono trovata sotto accusa io. Di colpo quella compromessa ero io. Nessuno ha detto nulla apertamente. Non ce n’era bisogno. È bastato che alcune persone tirassero fuori il nome di Lucy al momento giusto. Lo sapevano. Un’esperta di informatica forense notoriamente sopra le righe, che in passato era stata licenziata dall’FBI e dall’ATF. Tutti sanno di che cosa è capace Lucy. Senti, non posso sapere cosa le dici o non le dici, ma ti consiglio di non...» «Ti prego di non darmi consigli riguardo a mia nipote» la interrompo. «Non pretendo certo che tu sia d’accordo con...» «Non spetta a me essere d’accordo o in disaccordo» la interrompo di nuovo, alzandomi dal divano e iniziando a raccogliere i piatti. «I tuoi rapporti con Lucy non mi riguardano. Il mio è diverso, lo è sempre stato e sempre lo sarà. Se quello che mi hai appena raccontato è vero, Lucy ha commesso un tremendo errore di valutazione e ha fatto una cosa scandalosamente stupida e autodistruttiva.» Porto i piatti in cucina. «Sarà meglio che ti lasci andare a riposare. Sembri stanca.» «Interessante che tu la metta in questo modo.» Con fare maldestro, appoggia i bicchieri e la bottiglia vuota accanto al lavello. «“Autodistruttiva.” E pensare che credevo di essere io quella che ne è uscita distrutta.» Apro il rubinetto dell’acqua calda e trovo un flacone quasi vuoto di detersivo per stoviglie sotto il lavello. Cerco una spugnetta e Jaime, appoggiandosi alla penisola, dice che ha dimenticato di comprarle e mi guarda rigovernare dopo un pasto che non le ha richiesto altro impegno se non una telefonata e quattro passi fino al ristorante, all’unico scopo di non farsi trovare in casa al mio arrivo. Voleva che Marino le preparasse il terreno, voleva fare un’entrata eclatante e continuare la sceneggiata. «Purtroppo non sono brava a tagliare i ponti con le persone» osservo mentre lavo i piatti. «Solo alla fine, dopo che sono morte, a volte mi concedo di provare sollievo perché non ne potevo più. E forse non è neanche vero, non lo penso sul serio. Forse sono proprio un po’ carente da questo punto di vista. Se trovi uno strofinaccio in questo posto disabitato che hai preso in affitto, potresti aiutarmi ad asciugare.» «Devo comprarli.» Prende un rotolo di carta da cucina.
«Be’, lasciamoli sullo scolapiatti» decido. Infilo i contenitori del take-away in un sacco della spazzatura. Copro la pasta al gratin dall’odore pungente e la metto nel frigorifero vuoto, decidendo che Marino ha ragione riguardo ai tartufi. Neanche a me sono mai piaciuti. «Non sapevo che altro fare.» Jaime non sta parlando di rigovernare dopo cena, né del suo pied-à-terre nel Lowcountry. Sta parlando di Lucy. «Come si fa ad amare una persona che te ne combina di tutti i colori?» «Con chi stai parlando?» «Tu sei sua zia. Non è la stessa cosa. Ho paura che avrò un mal di testa tremendo domattina. Non mi sento tanto bene.» «Certo che non è la stessa cosa. Io le voglio bene comunque, anche quando non mi fa comodo o non aiuta la mia immagine.» Vado a prendere la borsa sul divano. Sono talmente arrabbiata che ho paura di cosa potrei fare. «Comunque, chi può dire di non aver mai fatto del male alle persone che ama?» «È come amare un cavallo meraviglioso che un giorno ti farà rompere l’osso del collo.» «E chi l’ha spronato? Chi l’ha incitato a correre?» Torno in cucina. «Non penserai che le abbia chiesto io di fare una cosa del genere.» Mi guarda, assonnata. «Certo che no.» Digito il numero di Marino sul cellulare. «Sono sicura che non le hai mai chiesto di entrare nei computer del dipartimento di polizia di New York. Proprio come non hai mai chiesto a me di venire a Savannah.» 020_chapter14
14 Sento gli scoppiettii e gli sbuffi del furgone di Marino da parecchi isolati di distanza, più o meno dalla direzione dove il fiume scorre nel buio, ed emergo dall’ombra della quercia dove lo stavo aspettando perché non ce la facevo più a sopportare la compagnia di Jaime Berger, neanche per un secondo. «Ora ti devo salutare.» Finora, parlando con mia nipote, sono riuscita a mantenere un tono di voce privo di rabbia e a non dare giudizi. «Ti richiamo quando arrivo in albergo, tra un’oretta. Prima voglio fermarmi in un posto.» «Posso chiamarti io in albergo, se non vuoi usare il cellulare» propone Lucy. «Lo sto usando. L’ho già usato.» Non aggiungo altro su ciò che penso di Jaime e delle sue fisime su telefoni pubblici e intercettazioni dell’FBI. «Secondo me, non dovresti preoccuparti» dice Lucy. «Non ti riguarda. Non è un problema tuo. D’altronde, neanch’io lo considero più un mio problema.» «Non è una cosa che si può superare facendo finta di niente» rispondo guardando nella direzione da cui sta arrivando il furgone di Marino. Non può che essere lui. A giudicare dal rumore, non è riuscito a farlo riparare. Nella piazza alberata dall’altra parte della strada vedo stagliarsi nella notte la OwensThomas House con la sua facciata chiara e le colonne bianche del portico tondeggiante. Le sagome dei grandi alberi ondeggiano, illuminate dai lampioni in ferro, e per un istante mi sembra di vedere qualcosa che si muove, ma guardo meglio e non noto niente. Devo essermelo immaginato. Sono stanca e stressata. Ho i nervi a fior di pelle. «È vero che mi preoccupo ancora di chi ne è al corrente o potrebbe scoprirlo. Su questo hai ragione» dice Lucy mentre faccio qualche passo verso la strada, guardando a destra e a sinistra e poi nella piazza, senza scorgere nessuno. «Quando ho saputo dell’ordinanza emessa nei confronti del CFC, ho pensato fosse per questo. Che mi sospettassero di pirateria informatica. Sono stata prudente. Probabilmente non vedono l’ora di mettermi nei guai per via di quelle vecchie stronzate con l’FBI e con l’ATF.» «Nessuno ce l’ha con te, Lucy. È ora che te lo tolga dalla testa.» «Dipende da cosa ha detto Jaime a certe persone, da cosa continua a dire e da come distorce i fatti. Non è andata proprio come ti ha raccontato lei. Ne ha fatto una questione molto più grave di quella che è stata» spiega. «È come se volesse a tutti i costi trasformarmi nel cattivo della situazione per giustificare il suo comportamento. Perché si sappia come mai ha voluto troncare.» «Sì, direi che è proprio così.» Sento avvicinarsi il furgone da Abercorn Street e allungo il collo, ma non riesco ancora a vederlo. Cerco di trattenere l’estremo disprezzo che provo per la donna che forse mia nipote ama ancora.
«Che è la vera ragione per cui me ne sono andata da New York. Sapevo che giravano voci su una presunta violazione di cui peraltro nessuno mi ha mai accusato apertamente. Non potevo continuare a lavorare nell’informatica forense.» «Più di tutto ti ha ferito il modo in cui ti ha trattato, e questa è la ragione per cui te ne sei andata da New York abbandonando tutto ciò che avevi costruito» obietto in tono calmo e tranquillo. «Non credo che tu abbia ricominciato da zero a Boston solo per qualche voce di corridoio. Non ci credo minimamente.» Mi volto verso la casa di Jaime e guardo le sue finestre illuminate. La vedo muoversi in controluce dietro le tende di quella che presumo sia la camera da letto. «Mi dispiace che tu non me l’abbia detto. Non riesco a capire come mai non me ne hai parlato» aggiungo. «Pensavo che non mi avresti voluto al CFC, che non mi avresti voluto come consulente informatica. Che avresti preferito non avermi intorno.» «Che avrei rotto i ponti con te come ha fatto lei?» chiedo, incapace di trattenermi. «Jaime ti ha chiesto di fare una cosa illegale approfittando dell’ascendente che aveva su di te... Scusa, non volevo esprimermi in questi termini.» Lucy non dice nulla e io osservo la silhouette di Jaime Berger che va avanti e indietro, incorniciata dalla finestra. Mi viene in mente che forse ha in camera da letto un monitor dell’impianto di sorveglianza e mi sta controllando. Oppure è preoccupata perché le ho detto quello che pensavo e me ne sono andata con l’aria di non voler tornare mai più. Penso al vecchio detto secondo cui le persone non cambiano mai. Jaime invece è cambiata. È andata a ripescare un’annata di se stessa inacidita come vino mal conservato. È tornata a vivere nella menzogna, solo che adesso è diventata insopportabile. La trovo estremamente sgradevole. «Almeno ora lo so» dico a Lucy. «E questo non cambia assolutamente le cose tra noi due.» «Però è importante che tu creda che non è andata come dice lei.» «Non mi interessa.» In questo momento, non mi importa davvero. «Ho soltanto verificato le cifre, andando a spulciare le denunce archiviate e il modo in cui erano state codificate. Non avrei dovuto.» È vero, mia nipote non avrebbe dovuto fare quello che ha fatto, ma Jaime si è comportata ancora peggio. È stata fredda e calcolatrice, si è comportata in maniera inaccettabile. Ha abusato del potere che aveva su Lucy e l’ha tradita. Mentre chiudo la conversazione, mi chiedo chi sarà il prossimo a venire manipolato e compromesso da Jaime. Lucy e Marino, e immagino di dover mettere anche il mio nome sulla lista. Sono a Savannah, coinvolta in un caso di cui fino a poche ore fa non sapevo praticamente nulla. Guardo di nuovo verso la
finestra illuminata di Jaime e la sua silhouette che si muove avanti e indietro. Sembra irrequieta. È quasi l’una di notte e alla luce incerta dei lampioni il furgone avanza biancastro come un fantasma, venendo rumorosamente verso di me. Sembra una macchina posseduta dal demonio in un film dell’orrore: rallenta, accelera, sbanda e sobbalza. È evidente che Marino non ha trovato nessun meccanico, dopo essersene andato da casa di Jaime parecchie ore fa, e a questo punto sono convinta che ci abbia lasciate sole deliberatamente, per ragioni che non hanno nulla a che vedere con i miei desideri e le mie esigenze. Rallenta facendo stridere i freni e si ferma davanti al palazzo. Apro la portiera, che cigola. La luce di cortesia rimane spenta perché Marino ha l’abitudine di disattivarla per non essere “un bersaglio troppo facile”. Noto alcuni sacchetti pieni sul sedile posteriore. «Hai fatto la spesa?» chiedo, accorgendomi di avere un tono molto teso. «Ho preso dell’acqua e due o tre cose da tenere in camera. Cos’è successo?» «Niente di buono. Perché mi hai lasciata sola con lei? Ti ha chiesto lei di andare via?» «Mi sembrava di averti detto che ti avrei chiamato quando stavo per arrivare» mi ricorda. «Da quant’è che mi aspetti?» Allaccio la cintura e la portiera cigola di nuovo mentre la chiudo. «Avevo bisogno di una boccata d’aria. Questo trabiccolo fa dei rumori terribili. Sembrano i rantoli agonici di un moribondo dopo infinite torture. Dio santo.» «Mi sembrava di averti detto che non devi andare in giro da sola. Specialmente a quest’ora di notte.» «Come vedi, non mi sono allontanata molto.» «Voleva parlarti a tu per tu. Pensavo che facesse piacere anche a te.» «Per favore, evita di pensare al posto mio» rispondo. «Vorrei fare una deviazione fino alla casa dei Jordan, ammesso che questo catorcio riesca ad arrivare fin lì senza esalare l’ultimo respiro. Non credo che siano le candele bagnate.» «Sono quasi sicuro che sia l’alternatore» dice. «Magari si sono anche allentati i cavi delle candele. Oppure si è sporcata la calotta dello spinterogeno. Ho trovato un meccanico che me l’aggiusta.» Guardo di nuovo verso l’appartamento di Jaime, che è tornata in salotto dove le tende sono aperte. La vedo chiaramente, in piedi davanti alla finestra, che ci guarda andare via; si è cambiata e indossa qualcosa di bordeaux, forse una vestaglia. «È un po’ sinistro, vero?» dice Marino mentre ci dirigiamo verso sud. Alberi e cespugli si agitano nel vento caldo. «Ho chiesto a Jaime se ha scelto quell’appartamento perché era vicino al luogo del delitto. Dice di no, ma ciò non toglie che sia a meno di due minuti da qui.»
«Quel caso la ossessiona» commento. «Solo che non ho capito bene se ha più a cuore la strage di Savannah o la sua carriera.» Passiamo rombando davanti a vecchie case imponenti con finestre e giardini illuminati, una diversa dall’altra: stile classico, coloniale, federale, intonacate, in mattoni, legno e pietra. Poi, sulla destra, la strada si allarga e noto una specie di piccolo parco circondato da una recinzione in ferro battuto. A mano a mano che ci avviciniamo, distinguo lapidi e tombe separate da un intreccio di sentieri bianchi debolmente illuminati da lampadine a incandescenza. Su East Perry Lane, lungo il lato meridionale del cimitero, si affacciano grandi dimore storiche costruite su vasti appezzamenti alberati. Riconosco la villa in stile federale di cui oggi ho visto le foto su Internet, quando nel parcheggio davanti all’armeria ho cercato notizie su Lola Daggette. L’aria calda della notte diffonde il dolce profumo degli oleandri mentre osservo la villa a tre piani nei tipici mattoni grigi di Savannah, con le finestre a saliscendi disposte simmetricamente e un maestoso portico centrale fiancheggiato da alte colonne bianche. Sul tetto in tegole rosse torreggiano tre grandi camini e a lato dell’edificio c’è il garage, coperto da una tettoia sorretta da arcate in pietra chiuse da vetrate. Ci fermiamo davanti alla proprietà. Per quanto sia bella, non ci abiterei per tutto l’oro del mondo: non vorrei mai andare a stare in una casa in cui sono stati commessi degli omicidi. «Non voglio fermarmi troppo, perché i vicini si insospettiscono subito se vedono persone o auto sconosciute, com’è comprensibile» dice Marino. «Ma se guardi a destra, in fondo, c’è la porta della cucina da cui è entrato l’assassino, proprio dietro il garage. Da qui non si vede, ma è lì. E la villa a destra è quella del vicino che uscì con il cane la notte fra il 5 e il 6 gennaio e notò che il vetro della porta della cucina dei Jordan era rotto e che, nonostante fosse molto presto, c’erano un sacco di luci accese. Per quanto sono riuscito a ricostruire, il vicino, che si chiama Lenny Casper, si era svegliato intorno alle quattro perché il suo barboncino aveva iniziato ad abbaiare. Siccome il cane era molto agitato e non c’era verso di calmarlo, Casper pensò che avesse bisogno di uscire.» «Gli hai parlato di persona?» «Al telefono. All’epoca rilasciò qualche intervista, e la versione che mi ha dato adesso corrisponde alle dichiarazioni che uscirono sui giornali.» Marino si volta verso di me per fissare la casa in stile classico al di là del mio finestrino aperto. «Alle quattro e mezzo circa, il barboncino stava facendo i suoi bisogni laggiù, in mezzo a quei cespugli dove ci sono le palme.» Indica il giardino illuminato, con palme, oleandri e gelsomino giallo sulla recinzione che lo separa dalla proprietà adiacente. «Fu così che Casper si accorse del vetro rotto nella porta della cucina dei Jordan» spiega Marino. «Mi ha detto che erano accese le luci sia in cucina sia al piano di sopra, e che il suo
primo pensiero fu che fossero entrati i ladri e che il cane si fosse svegliato per quello. Tornò a casa e provò a chiamare i Jordan, che però non risposero al telefono. Allora chiamò la polizia, che arrivò intorno alle cinque e trovò la porta della cucina aperta, l’allarme disattivato e il corpo della bambina in fondo alle scale, vicino all’ingresso.» Osservo la villa dei Jordan, circondata da circa mezzo ettaro di parco alberato, illuminato da lampioncini montati su pali che gettano lunghe ombre scure. Il vialetto carrabile è di ghiaia e mattoni, e alcune lastre di ardesia disposte a passi perduti conducono oltre il garage alla porta della cucina, per vedere la quale dovrei scendere dal furgone e violare il divieto di accesso nella proprietà privata. «Casper si trasferì a Memphis poco tempo dopo» aggiunge Marino. «I vicini su entrambi i lati traslocarono, e sembra che gli omicidi abbiano fatto perdere parecchio valore alle case. Il problema è che, nel raggio di parecchi isolati, non è rimasto quasi nessuno di quelli che vivevano qui all’epoca. A quanto ho capito, la casa dei Jordan è una delle tappe più frequentate dei “ghost tour”, anche perché si trova proprio di fronte al cimitero più famoso di Savannah, dove hanno inizio e termine molti di questi giri turistici, tra Abercorn Street e Oglethorpe Avenue. Siamo passati davanti all’entrata un momento fa.» Marino allunga la mano sul sedile posteriore e sento che fruga nei sacchetti di carta. Prende due bottigliette d’acqua e me ne porge una. «Tieni. È tutto il giorno che sudo. Sono giri a piedi, sai.» Riprende a parlare delle macabre attrazioni di Savannah e di quanta gente partecipa a quelle visite guidate. «Certi li fanno di notte, a lume di candela, e puoi immaginare che seccatura per chi vive qui, in questa casa o nelle vicinanze, vedersi fuori dalla porta i turisti che ascoltano a bocca aperta una guida che racconta la vicenda della famiglia massacrata. Non oso pensare al boom che ci sarà ora che è stata fissata la nuova data dell’esecuzione di Lola Daggette. Ne parlano di nuovo tutti.» «Ci sei stato anche di giorno?» chiedo. «Non dentro.» Beve un sorso di acqua, deglutendo rumorosamente. «Non so se, entrando, si potrebbe ancora scoprire qualcosa di utile. In fondo sono passati nove anni e la casa è stata comprata e rivenduta diverse volte, ci ha vissuto altra gente e probabilmente è molto cambiata. E comunque la dinamica dei fatti mi sembra chiara: Dawn Kincaid ha sfondato il vetro della porta sul retro, ha infilato la mano e l’ha aperta. Immagino che Jaime ti abbia detto che la chiave era nella serratura. Una delle cose più stupide che si possano fare: installi una serratura di sicurezza vicino a un vetro o a una finestra e poi ci lasci dentro la chiave? Bisogna scegliere: o rischi di rimanere intrappolato se scoppia un incendio oppure rendi la vita facile a ladri e assassini.» «Jaime mi ha detto che hai fatto delle ricerche per capire come mai l’allarme non era in funzione. Chi l’aveva installato? Di solito i Jordan lo inserivano? Dicono che avevano smesso
di attivarlo per via dei falsi allarmi.» «Così pare.» «Be’, da qui dove siamo, sulla strada, la porta della cucina non si vede» aggiungo. «Passando a piedi o in macchina, a prima vista non ti accorgi che sul lato destro della casa c’è una porta. È nascosta dal garage.» «Però si vedono le lastre di pietra sulla destra e si può dedurre che c’è un altro ingresso» mi fa notare Marino. «Ma le lastre di ardesia potrebbero condurre solo nel giardino sul retro. Per averne la certezza, devi andare a vedere.» Svito il tappo della bottiglietta d’acqua. «È importante che la porta della cucina non sia visibile dalla strada; mi fa pensare che l’assassino sapesse che c’era un’entrata di servizio sul retro, con un vetro e una serratura in cui spesso veniva lasciata la chiave. Doveva aver preso informazioni in precedenza.» «Dawn Kincaid è tipo da prendere informazioni» dice Marino. «Probabilmente sapeva che qui viveva un medico pieno di soldi. Magari ha fatto un sopralluogo, prima.» «Dici che trovare la chiave nella serratura e l’allarme disattivato è stato un colpo di fortuna?» «Possibile.» «Sappiamo dove abitava lei, quando stava a Savannah nove anni fa, e per quanto tempo si è fermata in questa zona?» «Solo che quell’anno le lezioni a Berkeley sono finite il 7 dicembre e il secondo semestre è iniziato il 15 gennaio» risponde Marino. «Sappiamo con certezza che aveva finito il primo semestre e che si era iscritta ai corsi della primavera successiva.» «Dunque potrebbe essere venuta a passare le vacanze qui» deduco. «Potrebbe essere rimasta qui alcune settimane prima di andare a trovare sua madre per la prima volta.» «E in quel periodo potrebbe aver conosciuto Lola Daggette» suggerisce Marino. «O averne sentito parlare» preciso. «Non sono del tutto convinta che si conoscessero. Forse Lola adesso sa chi è Dawn Kincaid per via degli omicidi del Massachusetts e di quello che le ha detto Jaime o chi per lei. Magari sa anche che è coinvolta nella strage dei Jordan, perché non sono per niente d’accordo con Jaime: non possiamo escludere che sia trapelato qualcosa riguardo all’esito dei nuovi test del DNA. In ogni modo, indipendentemente da quello che Lola sa in questo momento, non è detto che sia in grado di collegare Dawn Kincaid con la persona che ha conosciuto o sentito nominare nove anni fa, quando i Jordan furono assassinati. Sai che tipo di corsi frequentava Dawn in quel periodo?» «So soltanto che c’entravano le nanotecnologie.» «Al dipartimento di scienza e ingegneria dei materiali, molto probabilmente.» Guardo la villa dove quattro persone sono state assassinate nel sonno e continuo a essere perplessa.
“Perché non hanno attivato l’allarme? Perché hanno lasciato la chiave nella serratura, specialmente durante le feste, quando si sa che furti ed effrazioni aumentano?” «I Jordan erano noti per la loro sbadataggine? Erano troppo sicuri di sé?» chiedo. «Erano irrimediabilmente idealisti e ingenui? Di solito chi abita in una casa antica, in un quartiere di dimore storiche, sta molto attento a proteggere proprietà e privacy, non si dimentica di chiudere i cancelli o di attivare l’impianto d’allarme. Se non altro perché non ha voglia di trovarsi turisti che curiosano in giardino o sulla veranda.» «Lo so. Non torna neanche a me» dice Marino. Nell’abitacolo semibuio, si sporge verso di me per guardare fuori e osservare la villa. Non sembrerebbe un luogo inquietante, se uno non sapesse che cosa vi è successo nove anni fa all’incirca a quest’ora. Dopo mezzanotte. Probabilmente tra l’una e le quattro del mattino. «Dal 2002 a oggi l’attenzione alla sicurezza è molto aumentata. Specialmente qui a Savannah» continua Marino. «Ti assicuro che anche quelli che tenevano l’allarme disinserito o lasciavano la chiave nella serratura hanno cambiato abitudini. Sono tutti molto più preoccupati per la criminalità, sapendo che un’intera famiglia è stata massacrata nel sonno in una villa che valeva milioni di dollari. È vero che la gente fa cose stupide, ne vediamo tutti i giorni, però mi sorprende tanta trascuratezza da parte di Clarence Jordan, che era ricco di famiglia e usciva spesso per le sue innumerevoli attività di volontariato, specialmente nei periodi di festa. Il giorno del Ringraziamento, Natale, Capodanno, era sempre impegnatissimo a dare una mano negli ambulatori, al pronto soccorso, nei dormitori per i senzatetto, alle mense dei poveri. Ti verrebbe da pensare che avrebbe dovuto preoccuparsi almeno un po’ per la sicurezza della moglie e dei figli.» «Non lo sappiamo: magari si preoccupava.» «Però quella notte andò a dormire senza inserire l’allarme.» Marino sottolinea un dettaglio che mi lascia perplessa. «Cosa dicono i registri della ditta che ha installato l’allarme?» «La Southern Cross Security ha chiuso i battenti nell’autunno del 2008.» Al primo piano della casa che era stata dei Jordan si accende una luce. «Ho parlato con l’ex proprietario, Darryl Simons» dice Marino. «Sostiene di non avere più nessun materiale d’archivio. Dice che tutta la documentazione era sui computer, che sono stati dati in beneficenza quando l’impresa ha chiuso. In altri termini, i registri sono stati cancellati o buttati via tre anni fa.» «Qualsiasi imprenditore degno di questo nome conserva i documenti per almeno sette anni, se non altro per un eventuale accertamento fiscale» rispondo. «Non teneva una copia di backup?»
«Beccati» dice Marino quando si accendono le luci nel portico. Ci allontaniamo, mentre il portone di casa si apre e un uomo muscoloso con i pantaloni del pigiama si affaccia a guardare. «È comprensibile che questo Darryl Simons non gradisca che la gente gli telefoni facendogli domande sull’impianto d’allarme dei Jordan» dice Marino, mentre il furgone procede sobbalzando. «Se fosse stato inserito e funzionante, non sarebbero morti.» «Ma perché non era inserito e funzionante?» chiedo. «Ti ha detto se lo aveva fatto installare il dottor Jordan o il proprietario precedente?» «Non se lo ricordava.» «Come fai a non ricordarti una cosa del genere, quando muoiono quattro persone?» «Non se lo vuole ricordare» replica Marino. «Un po’ come il tizio che ha costruito il Titanic. Chi se ne vuole prendere il merito? Meglio farsi venire un’amnesia e sbarazzarsi di tutti i documenti. Non era molto contento quando gli ho telefonato.» «Dobbiamo scoprire dove sono finiti i computer della ditta, a chi sono stati regalati. Magari sono ancora in uso da qualche parte, oppure lui ha tenuto i dischetti in cassaforte» suggerisco. «Potrebbe essere utile vedere i suoi registri, la sua documentazione. Ma è probabile che la polizia abbia già controllato all’epoca. Cosa ti ha riferito esattamente l’investigatore Long? Jaime mi ha detto che gli hai parlato.» «Ti ha detto anche che è vecchio come il cucco e nel frattempo ha pure avuto un ictus?» Il furgone ha un ritorno di fiamma. Sembra una mitragliatrice mentre passiamo davanti a cinema, bar, gelaterie, paninoteche e negozi di biciclette vicino al College of Art and Design. «Dal 2002 a oggi non è passata un’eternità» faccio notare a Marino. «Secondo me, non lo possiamo nemmeno considerare un cold case. Non stiamo parlando di un omicidio irrisolto di cinquant’anni fa. In un caso clamoroso come questo dovrebbero esserci ancora un sacco di documenti e un sacco di persone che se lo ricordano bene.» «L’investigatore Long dice che è tutto nei suoi rapporti» replica Marino. «Quando gli ho fatto notare che non aveva scritto niente riguardo all’antifurto, mi ha spiegato che i Jordan avevano smesso di inserirlo per i falsi allarmi.» «Se ti ha detto così, vuol dire che aveva parlato con l’impresa installatrice» osservo mentre facciamo il giro di Reynolds Square immersa nell’oscurità, con gli alberi, le panchine e una statua di John Wesley intento a predicare vicino a un vecchio edificio che una volta era un ospedale per i malati di malaria. «Sì, ma non se lo ricorda.» «La gente dimentica. Si fa venire un ictus. E non ha nessun interesse a riaprire un’indagine, con il rischio che salti fuori che aveva sbagliato tutto.»
«Sono d’accordo. Dobbiamo ritrovare quel registro» dichiara Marino. «La Southern Cross Security avrà ben installato impianti di allarme ad altra gente in questa zona. Che ne è stato di tutti quei clienti?» «Sarà subentrata qualche altra ditta.» «Che potrebbe avere anche i registri originali. Magari addirittura un disco fisso, o dei backup» suggerisco. «Buona idea.» «Lucy potrebbe darti una mano. È piuttosto brava a trovare documenti elettronici che sembrano essersi volatilizzati.» «Solo che Jaime non vorrà farsi aiutare da lei.» «Non stavo dicendo che Lucy deve aiutare Jaime. Dico che potrebbe aiutare noi. Anche Benton potrebbe avere qualche idea interessante. Penso che dovremmo consultare tutti gli esperti che conosciamo, visto che le prove sembrano puntare in direzioni diverse. Per fortuna siamo quasi arrivati, perché mi sa che questo catorcio sta per mollarci per strada, sempre che non salti per aria» aggiungo mentre il furgone procede scoppiettando verso il fiume, in direzione nord. La maggior parte dei ristoranti e delle birrerie sono chiusi e i marciapiedi sono deserti. Improvvisamente, sulla nostra destra, ci appare lo Hyatt, che illumina l’intero isolato. «Ho la sensazione che qualcuno stia facendo dell’ostruzionismo» osserva Marino. «Tutte queste persone con la memoria labile, tutti questi documenti scomparsi...» «Jaime ha cominciato a lavorare a Savannah soltanto di recente, mentre la ditta di antifurti ha chiuso tre anni fa e presumibilmente si è sbarazzata dei documenti subito dopo» replico. «Non penso che si tratti di ostruzionismo, almeno su questo fronte.» «Sicuramente, però, c’è qualcosa in cui non si vuole che ficchiamo il naso.» «Nemmeno di questo possiamo essere sicuri» ribatto. «È normale che chi è stato coinvolto in un’indagine per omicidio, con tanto di processo e relativa pubblicità, voglia essere lasciato in pace. Specialmente in un caso raccapricciante come questo.» «Immagino che la soluzione più facile sia lasciare che Lola Daggette si becchi l’iniezione letale e non se ne parli più» dice Marino. «Per alcuni sarebbe certamente più semplice e tranquillizzante.» Poi gli chiedo: «Chi è Anna Copper?». «Non capisco proprio perché Jaime te ne abbia parlato» risponde Marino, mentre ci fermiamo con un botto davanti all’hotel. «Vorrei sapere chi è Anna Copper e che cos’è la Anna Copper LLC» ripeto. «Una società a responsabilità limitata che Jaime ha incominciato a usare di recente, quando non vuole che compaia il suo nome.»
«Tipo per affittare l’appartamento qui a Savannah.» «Mi stupisce che te ne abbia parlato. Pensavo immaginasse che saresti stata l’ultima persona al mondo ad approvare» continua Marino. Il posteggiatore dell’hotel si avvicina con cautela al finestrino, come se non sapesse bene come comportarsi con il furgone sbuffante e scoppiettante e non fosse sicuro di volerlo guidare. «Sarà meglio che lo parcheggi io» gli dice Marino. «Mi dispiace, signore, ma ai clienti non è permesso entrare nel garage. L’accesso al parcheggio sotterraneo è riservato esclusivamente al personale autorizzato.» «Be’, non glielo consiglio. Che ne dice se lo metto laggiù, vicino a quella palma, e lo sposto domattina presto per portarlo a riparare?» «Lei alloggia qui?» «Certo. Sono un VIP. Ho lasciato a casa la Bugatti. Non ci stavano i bagagli.» «Veramente non dovremmo...» «Senta, quest’aggeggio sta per esalare l’ultimo respiro. Vuole davvero rischiare?» Il furgone tossicchia, poi riparte con uno scossone e Marino lo parcheggia lungo il viale. «Anna Copper è una SRL che Lucy ha fondato circa un anno fa» mi spiega. «È stata un’idea sua, e non le è venuta per nobili motivi. È stato dopo un litigio con Jaime, in un periodo in cui bisticciavano parecchio.» «Ma la società è di Lucy o di Jaime?» chiedo. Marino spegne il motore e rimaniamo seduti in silenzio, al buio. Per essere quasi le due del mattino, l’aria che entra dai finestrini aperti è ancora molto calda. «Di Jaime. Praticamente Lucy ha creato una società di comodo dietro la quale potesse nascondersi Jaime. Doveva essere una specie di scherzo, un po’ maligno. È andata in uno di quei siti che ci sono su Internet, niente di illegale, e l’ha registrata. Quando le sono arrivati per posta i documenti, li ha messi in una bella scatola colorata con tanto di fiocco e l’ha data a Jaime.» «Questa è la versione di Jaime? Oppure te lo ha detto Lucy?» «Me lo ha raccontato Lucy parecchio tempo fa, più o meno quando si è trasferita a Boston. Per questo mi sono stupito quando ho visto che Jaime la usa davvero.» «E come hai fatto a scoprirlo?» «Dalla corrispondenza, dall’indirizzo che dà per le fatture. Quando l’ho aiutata a installare l’impianto di sicurezza, mi ha dovuto mettere al corrente di alcune cose» mi spiega Marino mentre scendiamo. «Usa la Anna Copper LLC per tutto quello che fa qui, e ammetto che è un po’ strano. Almeno, a me lo sembra. È laureata in legge, no? Ci mette meno di cinque minuti per costituire un’altra società. Perché usa quella di Lucy, legata a tanti ricordi? Perché non dimentica il passato e va avanti?»
«Perché non ci riesce.» Jaime non riesce a staccarsi da Lucy, o almeno dalla sua idea di Lucy, e mi chiedo se anche Benton la pensa come me. Chissà se, quando mi ha mandato l’SMS in cui diceva che Anna Copper ha una “pessima reputazione”, si riferiva a Jaime. Se è così, deve aver cercato a chi sono intestati gli appartamenti nel palazzo di Jaime e poi aver controllato chi sono i proprietari, scoprendo chi sta dietro alla Anna Copper LLC. Evidentemente gli sembrava impossibile che Jaime fosse ricomparsa nelle nostre vite per caso. Forse sapeva anche per quale motivo se n’era andata da New York. Attraversiamo la hall illuminata a giorno dell’albergo. A quest’ora c’è soltanto un impiegato alla reception e poca gente al bar. Quando arriviamo all’ascensore, che è trasparente, Marino preme più volte il pulsante, come se così facendo le porte si aprissero più in fretta. «Merda» impreca. «Ho dimenticato la stramaledetta spesa sul furgone.» «Lucy ti ha detto che cosa significa Anna Copper? Da dove ha preso questo nome?» «Ricordo solo che aveva qualcosa a che fare con Groucho Marx» dice. «Vuoi che faccia un salto da te a portarti dell’acqua?» «No, grazie.» Voglio farmi un bagno. Voglio fare delle telefonate. Non ho nessuna voglia che Marino passi in camera mia. Entro nell’ascensore e gli do appuntamento a domani mattina. 021_chapter15
15 Ha fatto molto caldo tutta la notte e ora che sono le otto del mattino, vestita con tuta tattica nera e anfibi neri, sono già tutta sudata. Seduta su una panchina davanti all’albergo, sorseggio un caffè freddo con ghiaccio che ho comprato in uno Starbucks qui vicino. La campana del municipio annuncia il primo giorno di luglio con rintocchi profondi e melodiosi. Osservo un tassista che a sua volta mi sta osservando. Ossuto e rugoso, i pantaloni con la vita molto alta e la barba arruffata come la tillandsia che pende dalle querce, mi ricorda certi personaggi che si vedono nelle fotografie della Guerra civile. Immagino che non si sia allontanato molto dalla terra dei suoi avi e che abbia ancora alcuni tratti in comune con loro, come ho notato spesso nelle città e nei paesi isolati dal resto del mondo. Mi torna in mente quello che mi ha detto Kathleen Lawler riguardo alla genetica, e cioè che siamo plasmati dalle forze della biologia a prescindere da quello che cerchiamo di diventare nella vita. È una spiegazione fatalistica, ma non del tutto sbagliata. Mentre ripenso alle sue considerazioni sulla predeterminazione e sul DNA, ho la sensazione che non stesse parlando soltanto di se stessa. Alludeva anche a sua figlia. Kathleen Lawler mi stava avvertendo, o forse addirittura minacciando. Sostiene di non avere alcun contatto con Dawn Kincaid, ma secondo diverse fonti non è vero. Kathleen Lawler sa più di quanto voglia ammettere e custodisce segreti probabilmente collegati con la ragione per cui Tara Grimm l’ha messa in isolamento proprio quando io sono stata attirata quaggiù. Jaime Berger ha combinato proprio un bel casino. Lei non si rende conto di ciò che deve affrontare, perché è spinta da motivazioni meno razionali di quanto pensi e non è abbastanza introspettiva. Magari i suoi ragionamenti egoistici sono stati davvero scatenati dalle divergenze con la polizia e con i politici di New York, ma ciò non toglie che la maggior parte delle sue motivazioni siano legate al rapporto con mia nipote, e ci abbiano messo tutti in una posizione brutta e pericolosa. Benton, Marino, Lucy, io e soprattutto Jaime, anche se forse non se ne rende conto. Probabilmente non ci crederebbe nemmeno se glielo facessi notare. Ha completamente travisato la realtà, coinvolgendo anche me, e ripenso alle parole di un inserviente dell’Istituto di medicina legale a Richmond: “Devi vivere nel luogo in cui ti svegli al mattino, anche se è stato il sogno di qualcun altro a portarti lì”. Svegliandomi stamattina, dopo aver dormito ben poco, ho capito di non potermi permettere alcuna esitazione. La posta in gioco è troppo alta e non mi fido delle analisi di Jaime, né del suo approccio alla situazione, ma cercherò di fare quello che posso. Non mi sono offerta io di dare una mano, sono stata coinvolta contro la mia volontà, al limite del sequestro di persona, ma non importa. La mia sensazione di urgenza non riguarda Lola Daggette, né Dawn Kincaid o sua madre, Kathleen Lawler.
Non riguarda la strage di nove anni fa, né le più recenti morti nel Massachusetts, anche se sia questi omicidi sia coloro che vi sono implicati hanno un’importanza cruciale, e cercherò di venirne a capo svolgendo le mie indagini il meglio possibile. A prevalere su tutto questo è il fatto che Jaime si è intromessa negli affari delle persone a me più care. Ho la sensazione che abbia messo in pericolo Lucy, Marino e Benton. Ha minacciato i nostri rapporti, che sono sempre stati intricati e complessi, tenuti insieme da fili molto fragili. La rete che ci unisce rimane salda soltanto se rimaniamo saldi noi. Jaime sta giocando con la mia famiglia, la mia unica famiglia. Mi dispiace confessarlo, ma mia madre e mia sorella non vi sono incluse. Non posso contare su di loro e francamente non mi verrebbe mai in mente di affidarmi alle loro cure, neanche nei loro giorni migliori, quei pochi che hanno. C’è stato un periodo in cui ero felice di estendere la mia cerchia più intima fino a includere Jaime, ma non ho intenzione di permetterle di interferire dall’esterno, scalzandoci dai nostri ormeggi o cambiando i rapporti tra di noi. Jaime ha abbandonato Lucy in maniera fredda e sleale e adesso sembra decisa a ridefinire la carriera di Marino, la sua stessa identit. In poco tempo è riuscita a rinfocolare la sua gelosia nei riguardi di Benton e a insinuare che mio marito mi abbia tradito e sia indifferente alla mia sicurezza e felicità. Anche se non ci fosse alcun legame fra la strage di Savannah e gli omicidi del Massachusetts, ora come ora non me ne andrei di qua. Ho prolungato il mio soggiorno in albergo e prenotato una stanza per Lucy, che è partita all’alba in elicottero con Benton. Li ho avvertiti che ho bisogno di aiuto. Ho detto loro che di solito non chiedo nulla, ma che questa volta desidero che mi raggiungano. Il catorcio bianco di Marino svolta nel vialetto in mattoni dell’hotel, sempre con gran fragore ma senza scossoni, e io mi alzo dalla panchina. Mi dirigo verso il tassista con la barba sfatta e gli sorrido, mentre getto via il bicchiere di Starbucks. «Buongiorno» lo saluto, mentre continua a fissarmi. «Le spiace se le chiedo con chi lavora?» Mi scruta attentamente, appoggiato al taxi blu che ha parcheggiato accanto alla palma, nello stesso posto dove Marino aveva lasciato il furgone scassato circa sette ore fa. «Ricerca medica militare.» Offro al tassista la stessa risposta vaga che ho già dato questa mattina a tutti quelli che si sono chiesti come mai indosso pantaloni militari neri, una camicia tattica nera a maniche lunghe con lo stemma del CFC ricamato in oro e gli anfibi. La borsa di vestiti di ricambio che ho trovato in camera la scorsa notte poco prima delle due conteneva tutto l’essenziale per lavorare sul campo, ma nulla che fosse adatto al mondo civile, meno che mai in un clima subtropicale. Riconosco lo stile di Marino. In effetti non ho alcun dubbio che l’abbia preparata personalmente, prendendo le cose dal mio armadio e dal bagno dell’ufficio e dallo stipetto nello spogliatoio dell’obitorio. Mi sono ricordata quante volte sono rimasta interdetta per l’apparente scomparsa di diversi oggetti, specialmente nelle due
settimane dopo la sua partenza. Pensavo di avere un maggior numero di camicie da lavoro, ero sicura di avere degli altri pantaloni militari e avrei giurato di avere due paia di anfibi, non uno solo. In base al contenuto della borsa, deduco che Marino dev’essere convinto che io trascorrerò tutto il mio tempo qui in Georgia in laboratorio o nell’ufficio del medico legale o, più esattamente, insieme con lui. Se fosse stato Bryce a prepararmi i bagagli, come avviene di solito quando devo partire per un’emergenza o quando rimango bloccata in qualche posto, avrei ricevuto anche una borsa portabiti con giacche, camicette e pantaloni, imbottiti con cura e poi avvolti in carta velina affinché non si sgualcissero. Bryce avrebbe scelto per me scarpe, calze, indumenti per la palestra e articoli da toeletta, con stile e delicatezza, meglio di come avrei fatto io stessa, e molto probabilmente sarebbe passato anche da casa mia. Bryce non ci pensa due volte a prendere tutto quello che immagina mi possa servire, biancheria inclusa, per la quale non ha il minimo interesse personale a parte sporadici commenti sulle varie marche, sui tessuti e sui suoi detergenti e ammorbidenti preferiti. Certo è che non mi avrebbe mai spedito in Georgia d’estate con tre cambi di abiti da lavoro invernali, tre paia di calze bianche da uomo, un giubbotto antiproiettile, anfibi, un flacone di deodorante e uno di repellente per insetti. «Non sapevo se avessi già fatto colazione» dice Marino mentre apro la portiera, accorgendomi subito che l’interno del furgone è molto più pulito dell’ultima volta che ci sono salita. Riconosco odore di deodorante agli agrumi, di burro, carne fritta e uova. «C’è un Bojangles a un paio di chilometri da qui, vicino alla base dell’aviazione militare Hunter, così ho avuto anche una scusa per fare un giro di prova. Il furgone è come nuovo.» «A parte il trascurabile dettaglio dell’aria condizionata.» Allaccio la cintura e abbasso completamente il finestrino. Noto un voluminoso sacchetto posato per terra fra i sedili anteriori. «Per quella dovrei comprare un compressore nuovo, ma chi se ne frega. Voglio dire, non hai idea di quanto poco l’ho pagato, questo coso, e dopo un po’ ci si abitua a non avere il condizionatore. Come ai vecchi tempi. Quando ero giovane, non ce l’aveva quasi nessuno.» «Se è per questo, non avevano nemmeno cinture di sicurezza, airbag, ABS e navigatore» rispondo. «Ti ho preso una frittella semplice, ma se hai fame ce ne sono anche di farcite con carne, uova e formaggio» dice. «E ho messo dell’acqua nella borsa frigo.» Indica il sedile posteriore. «Da Bojangles non usano olio d’oliva, ti dovrai accontentare. So cosa pensi del burro.» «Adoro il burro. È proprio per questo che me ne tengo alla larga.» «Gesù, non capisco da dove diavolo venga questa voglia irrefrenabile di grassi. Comunque adesso ho deciso di assecondarla. Sto imparando a lasciar perdere, con certe cose. Se eviti di combatterle, loro non si vendicano.»
«Il burro si vendica quando cerco di abbottonarmi i pantaloni. Devi aver passato la notte in bianco. Quando hai trovato il tempo di far riparare questo trabiccolo e dargli una lavata?» chiedo. «Te l’ho detto, ho trovato su Internet il numero di casa di un meccanico e l’ho chiamato. Ci siamo visti in officina stamani alle cinque. Abbiamo cambiato l’alternatore, bilanciato le gomme, pulito i parafanghi, stretto i cavi delle candele e già che c’eravamo ho sostituito le spazzole del tergicristallo e gli ho dato una pulita» dice mentre procediamo lungo West Bay, un viale costeggiato da querce sempreverdi, magnolie e lagerstroemie, oltrepassando ristoranti e rivenditori di materiali edili. Marino è in tenuta da lavoro, ma per sé ha fatto scelte più sensate: indossa l’uniforme estiva del CFC, cioè pantaloni cachi con i tasconi, polo beige in misto cotone e scarpe da ginnastica scamosciate con inserti in rete, non anfibi. Un cappellino da baseball gli protegge la pelata e la punta del naso ustionate, ha gli occhiali scuri e si è messo una protezione solare che, con il sudore, forma rivoletti biancastri nelle profonde pieghe del collo. «Ti ringrazio di avermi portato gli abiti da lavoro» gli dico. «Ma mi domando: quando hai preparato la valigia?» «Prima di partire.» «Fin qui c’ero arrivata anch’io.» «Avrei dovuto portarti roba estiva. Starai morendo di caldo. Non so cosa avevo in testa.» «Probabilmente hai preso quello che hai trovato rovistando in giro, e nel Massachusetts la temperatura è ancora un po’ troppo bassa per mettere le uniformi estive, vista la primavera insolitamente fredda che abbiamo avuto. La mia roba estiva è in un armadio a casa mia. Se avessi chiesto a Bryce...» «Sì, lo so, ma non volevo coinvolgerlo. Più lo coinvolgi, più quello chiacchiera. E poi tende sempre a strafare. Avrebbe scelto vestiti degni di una sfilata di moda e mi sarei dovuto trascinare dietro un baule.» «Hai preparato il mio bagaglio prima di partire» ripeto. «Posso sapere esattamente quando?» «Ho messo insieme qualcosina l’ultima volta che sono venuto in ufficio. Non so, poteva essere il 14, il 15 giugno. Non sapevo bene che cosa sarebbe successo, una volta arrivato quaggiù.» Prende la Route 17 in direzione sud. L’aria che entra dai finestrini aperti è rovente, quasi venisse da un forno. «Invece io penso che tu lo sapessi benissimo» ribatto. «Perché non ci diciamo la verità?» Apro il vano portaoggetti e prendo qualche tovagliolo di carta che mi metto in grembo prima di tirare fuori la colazione dal sacchetto posato tra i sedili.
«Mi piacerebbe che ammettessi che, quando hai deciso di punto in bianco di prenderti una vacanza, sapevi già che saresti venuto qui ad aiutare Jaime» gli dico. «E anche che io vi avrei raggiunto entro breve e che sarei arrivata con i vestiti che avevo indosso e basta, senza avere l’onore di sapere per quale motivo ero qui.» «Mi sembra di averti già spiegato perché non è stato possibile dirtelo prima.» «Sì, certo, ci hai provato, e sono sicura che sei convinto dei tuoi ragionamenti, ma io non li condivido. A dire il vero, non sono nemmeno ragionamenti tuoi, ma di Jaime.» «Non capisco come mai non ti scomponi al pensiero che l’FBI ti sta spiando.» «Non ci credo. E comunque, se anche mi spiassero, si annoierebbero. Allora, quale di queste ti apro?» Sto esaminando le frittelle tiepide avvolte in carta gialla unta di burro. «Sono tutte uguali, a parte la tua.» «Okay, penso di aver indovinato qual è la mia, visto che pesa la metà delle altre.» Apro dei tovaglioli e li stendo sulla coscia di Marino. «Gradirei un po’ più di chiarezza. E non sto parlando dell’FBI, ma di te.» «Non incazzarti di nuovo.» «Voglio solo fare chiarezza: non ho intenzione di discutere né di litigare. Avevi già affittato l’appartamento a Charleston quando Jaime ti ha telefonato al CFC, due mesi fa, e hai preso il treno per incontrarla di nascosto a New York?» «Ci stavo pensando.» «Questo non risponde alla mia domanda.» Tolgo dall’involucro una frittella farcita con pollo, uova e formaggio, e lui la afferra con la mano enorme, ingoiandone un terzo con il primo morso. Le briciole burrose ricadono come neve sui tovaglioli che gli ho messo in grembo. «Avevo fatto qualche ricerca» mi risponde, parlando con la bocca piena. «Era un po’ che guardavo le case in affitto nella zona di Charleston, ma era solo un sogno, un progetto campato in aria. Poi ho parlato con Jaime, lei mi ha spiegato che stava lavorando sul caso di Lola Daggette e che le avrebbe fatto comodo il mio aiuto, e a me è sembrata una coincidenza straordinaria, un segno del destino. Proprio nella stessa zona dove stavo cercando una casa in affitto! Ma a ben guardare i posti più adatti per pescare e girare in moto in genere sono quelli in cui è in vigore la pena di morte. Comunque sia, ho deciso che Jaime aveva ragione. Poteva essere una buona idea diventare un consulente privato.» «Te lo ha suggerito lei. Ovviamente.» «Be’, è una donna intelligente. E l’idea mi allettava. In questo modo posso scegliere i miei orari di lavoro, decidere se accettare un incarico oppure no e magari guadagnare qualche soldo in più.» Dà un altro morso alla frittella. «Mi sono detto: “O adesso o mai più. Questa è la tua grande occasione. Se non ti butti e cerchi di fare quello che vuoi ora che ti è possibile,
può darsi che non ti capiti una seconda opportunità”.» «Jaime ti ha raccontato qualche dettaglio su quello che le è successo a New York? Sul motivo per cui se ne è andata?» chiedo. «Immagino che ti abbia detto cos’ha fatto Lucy.» «Mi pareva mi avessi detto che non ti aveva parlato di Lucy.» Apro il pacchetto con la mia frittella e, anche se di solito evito i fast-food e non condivido la passione di Marino per il fritto, mi rendo improvvisamente conto di avere una fame da lupi. «No, in effetti non mi ha raccontato molto» puntualizza Marino mentre procediamo sulla Veterans Parkway ad andatura sostenuta e attraversiamo lunghi tratti di bosco sotto un grande cielo di quell’azzurro pallido che preannuncia le giornate torride. «Mi ha soltanto parlato del Real Time Crime Center, dell’intrusione nel database e del fatto che avevano dato la colpa a lei. Non l’hanno accusata ufficialmente, ma lei ha sentito un certo numero di commenti sulla strana coincidenza fra l’attacco informatico e le sue insinuazioni riguardo a presunte manipolazioni delle statistiche sulla criminalità da parte del dipartimento di polizia di New York, tenuto conto del fatto che lei aveva una relazione con una famosa hacker.» «Lucy mi ha dato una versione diversa» rispondo. «Dice che non è entrata nel Real Time Crime Center, ma solo nei computer di un distretto di polizia dove sembra che reati tipo i furti di oggetti di grande valore venissero registrati come infrazioni minori e i furti con scasso come atti vandalici.» «È grave comunque.» «Non so esattamente dove sia entrata né come, ma hai ragione, è grave. Mi dispiace che Lucy venga descritta come una famosa hacker. Mi dispiace se è questa l’opinione che la gente ha di lei.» «Be’, capo, devi ammettere che il vizio ce l’ha» osserva Marino. «Se ha la possibilità di entrare da qualche parte, è garantito che lo fa, e sono pochi i posti dove non riesce a intrufolarsi. Lo sai anche tu, no? Perché ti illudi che smetta? Se fossi come lei, probabilmente anch’io farei lo stesso e mi prenderei quello che mi serve. Per lei le leggi sono come i dossi per uno sciatore che viene giù da una pista nera: che li superi o che li aggiri, più sono numerosi e difficili più lei si diverte.» Guardo fuori dal finestrino aperto e osservo le paludi rossastre e i meandri del fiume; l’aria è calda e odora di uova marce. «Tanto Lucy se ne frega di quello che pensano gli altri.» Marino appallottola la carta in cui era avvolta la frittella. «Fa finta di fregarsene, ma in realtà ci tiene. Molto più di quanto tu possa immaginare. Così come tiene a Jaime.» Do un morso alla mia frittella. «So che me ne pentirò, ma è proprio buona.»
«Meglio che me ne mangi un’altra, caso mai dovessimo saltare il pranzo.» «Sembri dimagrito, ma non capisco come tu possa esserci riuscito.» «Mangio soltanto quando il mio corpo ha fame, non quando ce l’ho io» risponde. «Mi ci è voluta metà della vita per riuscire a capirlo. Voglio dire, aspetto finché ho fame a livello cellulare, non so se mi spiego.» «Veramente no. Non capisco di cosa stai parlando.» Gli porgo un’altra frittella. «Funziona davvero. Non è una cazzata. L’obiettivo è non pensarci. Quando hai bisogno di mangiare, le tue cellule te lo fanno capire, e tu prendi provvedimenti. Ho smesso di pensare al cibo.» Parla con la bocca piena. «Non pianifico di mangiare o non mangiare questo o quello, né di mangiare per forza a una data ora. Lascio che me lo dicano le mie cellule, mi affido a loro. Ho perso quasi sette chili in cinque settimane, e sto contemplando l’idea di scriverci un libro. Non pensare che sei grasso: mangia. È un gioco di parole. Non voglio dire alla gente di convincersi che non è grassa, ma che non deve pensarci e stop. Secondo me avrebbe successo. Probabilmente lo potrei dettare e poi farlo trascrivere da qualcuno.» «Ho paura che tu abbia ripreso a fumare.» «Non so perché diavolo continui a ripetermelo.» «Qualcuno ha fumato nel tuo furgone.» «A me sembra che ci sia un buon odore qui dentro.» «Ieri sicuramente no.» «Un paio di miei amici con cui vado a pesca. Si va in giro con i finestrini aperti per il caldo e viene voglia di accenderne una.» «Si può essere più evasivi?» «Perché mi tormenti con ’sta storia delle sigarette? Neanche tu fossi della squadra antifumo.» «Ti ricordi quanto ha sofferto Rose?» Gli rammento la penosa morte della mia segretaria Rose, che aveva un tumore ai polmoni. «Rose non ha mai fumato una sigaretta in vita sua. Non aveva vizi e si è beccata il cancro lo stesso, anzi, magari proprio per quello. Ho deciso che, se ti sforzi troppo, diventa tutto più difficile. E poi che senso ha fare tanti sacrifici per morire prematuramente in buona salute? Vorrei che Rose ci fosse ancora. Non è più la stessa cosa senza di lei. Mi secca sentire così la sua mancanza: ogni volta che entro nel tuo ufficio, mi aspetto di trovarla lì, con la sua vecchia macchina per scrivere IBM e quel suo modo di fare severo. Certe persone non dovrebbero morire, e quelli che dovrebbero togliersi dai piedi invece non muoiono mai.» «Ti hanno diagnosticato un carcinoma basocellulare, ti hanno asportato varie lesioni: ricominciare a fumare è l’ultima cosa che dovresti fare.»
«Il fumo non ti fa venire il cancro della pelle» risponde. «Triplica il rischio.» «Va bene, una volta ogni tanto scrocco una sigaretta quando qualcun altro fuma. Non mi sembra la fine del mondo.» «Smettete di comprare le sigarette: scroccatele. Potrebbe essere il titolo di un altro libro. Probabilmente avrebbe successo anche questo.» «Lucy si preoccupa di stronzate che non verranno mai dimostrate.» Ritorna al discorso di prima perché non ha voglia di sorbirsi la predica. «Non è stato accusato nessuno, né mai lo sarà. Jaime se n’è andata definitivamente dalla procura, come volevano Farbman e compagnia bella: fine della storia. Farbman dev’essere contento come se avesse vinto alla lotteria.» «Jaime invece non lo è per niente, checché ne dica.» «A me sembra abbastanza contenta di quel che fa.» «A me no.» «È solo che non le è piaciuto il modo, si è sentita costretta. Come ti sentiresti se qualcuno ti costringesse a cambiare lavoro dopo tutto quello che hai fatto per arrivare dove sei?» «Mi piace pensare che non spingerei mai il mio compagno a fare qualcosa di distruttivo per poter troncare con lui» rispondo. «Sì, ma la rottura con Lucy non c’entra niente con il fatto che Jaime è stata costretta ad andarsene dalla procura.» «Sì, invece. Jaime ha deciso di autodistruggersi» rispondo. «Non le piaceva più la persona che era diventata e ha deciso di smontarla, di farla a pezzi per poter ricominciare da zero. Ma non funziona così. È impossibile. Non si può ricostruire se stessi sulla base di una bugia. Tu le hai dato una mano con l’allarme e il sistema di videosorveglianza. Ha anche una pistola?» «Le ho dato un paio di lezioni di tiro in un poligono coperto qui vicino.» «Di chi è stata l’idea?» «Sua.» «I newyorkesi non girano armati, di solito. Non fa parte della loro cultura. Le armi non sono un’appendice naturale per loro. Perché improvvisamente Jaime pensa di aver bisogno di una pistola?» «Forse perché qua si sente fuori dal suo territorio. E poi, diciamocelo, tutto ciò che ha a che fare con Dawn Kincaid fa venire la pelle d’oca. Penso che questo caso la spaventi e si sia abituata alle pistole stando con Lucy, che gira sempre armata e probabilmente si porta la Glock anche sotto la doccia. Forse, a furia di convivere con le armi, Jaime ci si è assuefatta.»
«Così come si è assuefatta ad avere una società a responsabilità limitata denominata Anna Copper, creata per scherzo da Lucy dopo un litigio? Groucho Marx, eh? Pare avesse investito molto nella Anaconda Copper, un’industria mineraria che fallì durante la Grande depressione e venne accusata di inquinare l’ambiente. Non capisci?» «Non lo so. Forse sì.» «Investi in qualcosa che ti sembra validissimo, ma che poi si rivela tossico, e perdi tutto. Quasi ci rimetti le penne.» «Ti è mai capitato di ascoltare quel vecchio programma radiofonico di Groucho Marx? Un quiz che si chiamava You Bet Your Life. Con domande tipo: “Di che colore è la Casa Bianca?”, oppure “Chi è sepolto nella tomba di Grant?”. Era divertentissimo. Non dovresti preoccuparti tanto delle stronzate di Jaime.» «Invece me ne preoccupo. E dovresti preoccupartene anche tu. Un conto è offrirsi di aiutarla in un caso, ben altro è lasciarsi trascinare in un piano, specie se organizzato per vendetta e per motivazioni molto personali e maniacali. Jaime vuole rifarsi un’immagine in maniera forte e per questo ha bisogno di qualcosa di grosso. E poi ci sono anche altri fattori. Credo che tu sappia di cosa sto parlando.» Marino fruga nel sacchetto di Bojangles per tirare fuori altri tovaglioli, con un gran fruscio di carta, mentre attraversiamo il ponte sul fiume Little Ogeechee. «Spero solo che tu stia attento» continuo riprendendo la mia predica. «Non è mia intenzione interferire, se decidi di lavorare per qualcun altro o se vuoi cambiare il tipo di rapporto professionale che hai con il CFC, però ti consiglio di essere molto prudente con Jaime. Ti rendi conto del motivo per cui potrebbe essere difficile per te giudicarla obiettivamente?» Si pulisce la bocca e le dita mentre attraversiamo il ponte sul fiume Forest, dove sono ormeggiate le barche per la pesca dei gamberi e i gabbiani si affollano su un lungo pontile di legno. «Quando sono spinte da potenti motivazioni di cui non sono consapevoli, le persone diventano pericolose. Non occorre che io aggiunga altro.» Non mi aspetto che Marino capisca o che cambi idea. Jaime riesce a blandire il suo ego meglio di me, perché io mi rifiuto di manipolarlo. Io non ricorro alle lusinghe o alla seduzione per convincerlo a fare ciò che voglio. Sono schietta e sincera, e questo per lo più gli fa venire il nervoso. «Guarda che non sono stupido» ribatte. «So che ha altra carne al fuoco e che Lucy ha complicato le cose. È così sfacciata! Ricordo di averla vista entrare in procura comportandosi come se quel che c’era fra loro non solo non dovesse essere un segreto, ma fosse addirittura qualcosa di cui vantarsi.» Poco più avanti c’è il Savannah Mall, il centro commerciale dove ho mangiato pesce insieme a Colin Dengate l’ultima volta che sono venuta qui. Cerco di ricordarmi quando è suc-
cesso: deve essere stato tre anni fa, quando lavoravo ancora a Charleston e lui era alle prese con una serie di crimini razziali commessi sulla costa della Georgia. «Non dovrebbe esserci bisogno di tenerlo segreto» replico. «Quando due persone si amano, è giusto andarne fieri.» «Dài, siamo sinceri» ribatte Marino. «Non tutti la pensano come te. Stavano insieme, ma non erano esattamente una coppia da favola. Non erano come il principe William e Kate. Non è che fossero tutti pronti a festeggiare l’unione tra Jaime e Lucy. È soltanto la mia opinione, ma secondo me Jaime ha voluto troncare perché la cosa cominciava a crearle problemi. La roba che era uscita su Internet, come se improvvisamente l’avessero esclusa da un reality show: “la procura saffica”, “la giustizia lesbica”. Era davvero pesante... Lei si è spaventata e se ne è tirata fuori. Adesso però le dispiace, anche se non vuole ammetterlo.» «Perché pensi che le dispiaccia?» Siamo in Middle Ground Drive, una strada stretta a due corsie che serpeggia nella campagna, fra cespugli e pini, senza traccia di insediamenti umani. Il Georgia Bureau of Investigation ha i suoi buoni motivi per tenere l’Istituto di medicina legale e i laboratori annessi il più isolati possibile. «Merda, credi che le piaccia la vita che si è scelta?» dice Marino. «La vita privata, intendo.» «Vorrei sapere che cosa ne pensi tu.» «Dopo che si sono lasciate, Jaime ha iniziato a uscire con degli uomini, tra cui quel tipo della NBC, Baker Thomas.» «Te lo ha detto lei?» «Ho ancora degli amici al dipartimento di polizia di New York. Quando sono andato a trovarla due mesi fa, ne ho visto alcuni e ho sentito dei pettegolezzi. Insomma, era il caso di essere così spudorata? Uscire con un corrispondente della TV che è considerato uno degli scapoli d’oro di New York. Anche se io ho una teoria sul suo conto. Non è un caso che non si sia mai sposato. Lucy lo vedeva spesso al Village in locali che piacerebbero molto a Bryce.» Il Coastal Regional Crime Laboratory si trova in mezzo al bosco, circondato da un’alta recinzione sormontata da punte antintrusione. C’è un cancello di metallo all’ingresso e sopra il citofono, a sinistra, è installata una videocamera. «A che ora abbiamo appuntamento con Jaime?» chiedo. «Ha pensato che fosse meglio darti il tempo di esaminare i casi, prima.» «L’hai già sentita oggi?» «Non ancora, ma eravamo d’accordo così.» «Capisco. Prima io esamino il materiale, poi lei si farà viva quando le fa comodo, ammesso che si degni.»
«Dipende da quello che trovi. Devo chiamarla io. Maledizione, questo posto è blindato quasi quanto il nostro.» «Per via degli atti di intolleranza» spiego. «Si verificano continuamente, da quando è stato costruito. Colin se ne è sempre lamentato. Un caso in particolare è stato su tutti i giornali quando noi eravamo a Charleston. Magari te lo ricordi.» Marino rallenta e ferma il furgone all’altezza del citofono. «Contea di Lanier, in Georgia. Un afroamericano che si chiamava Roger Mosbly, un maestro di scuola in pensione, aveva una relazione con una donna bianca» continuo. «Una notte rientrò molto tardi e appena fermò la macchina davanti a casa si trovò di fronte due uomini bianchi.» Marino allunga il braccio fuori dal finestrino e preme il pulsante del citofono, che emette un forte ronzio. «Lo ammazzarono di botte con delle bottiglie e una mazza da baseball, ma Colin subì forti pressioni perché sostenesse la tesi della difesa, ovvero che si era trattato di una lotta ad armi pari» racconto. «Una lite tra automobilisti. Iniziata da Mosbly, anche se gli imputati non avevano riportato alcuna lesione, mentre lui era pieno di ferite e contusioni da cui si capiva che avevano cercato di trascinarlo fuori dalla macchina senza slacciare la cintura di sicurezza.» «Neonazisti di merda, fautori della supremazia della razza ariana» commenta Marino. «Colin disse la verità e ricevette delle minacce. Una notte, poco prima del processo, qualcuno sparò contro le finestre del laboratorio. La recinzione venne costruita qualche tempo dopo.» «Non mi sembra uno che fa condannare a morte un innocente.» Marino preme di nuovo il pulsante del citofono. «Se lo fosse, non avrebbe bisogno di misure di sicurezza come queste.» Non aggiungo che Jaime Berger si è fatta un’idea sbagliata di Colin Dengate, che l’ha giudicato male. Evito di ribadire che la persona con cui Marino è tanto contento di poter lavorare è mossa da interessi personali e non è né sincera né in buona fede. Dall’altoparlante esce una voce femminile. «Desidera?» «Dottoressa Scarpetta e investigatore Marino, abbiamo appuntamento con il dottor Dengate» annuncia lui, mentre io controllo se ho ricevuto nuovi messaggi sull’iPhone. Benton e Lucy sono appena atterrati a Millville, nel New Jersey, per fare rifornimento di carburante, mi ha scritto Lucy undici minuti fa. Sono in ritardo sulla tabella di marcia per via delle forti raffiche di vento contrario, da sudovest. C’è anche un messaggio inquietante da parte di Benton: “D.K. non più al Butler. Ti spiego appena posso. Raccomando cautela”.
Il cancello si apre lentamente con un forte ronzio, scorrendo su binari annegati nell’asfalto. Vedo il laboratorio, parte in mattoni e parte intonacato, a un solo piano ma molto grande. Nello spiazzo antistante sono parcheggiati alcuni SUV bianchi con lo stemma blu e oro del Georgia Bureau of In-vestigation sulle portiere e la Land Rover bianca con il tettuccio di tela verde militare che Colin ha da quando lo conosco. «Hai intenzione di informare Dengate del risultato dei nuovi test del DNA?» chiede Marino, mentre io rimugino sul messaggio che ho appena ricevuto da Benton. Non riesco a pensare ad altro. Le bandiere penzolano dai pennoni: non c’è un filo di vento. Il sentiero è delimitato da cespugli di callistemon a fiore rosso, i preferiti dei colibrì; gli ugelli dell’impianto di irrigazione li stanno spruzzando dal bordo del prato. Parcheggiamo nello spazio destinato ai visitatori, davanti alle finestre a specchio, antiproiettile e antisfondamento, fatte per resistere a un attacco terroristico. L’unica cosa a cui riesco a pensare è che Dawn Kincaid è scappata dal Butler State Hospital, che è un ospedale psichiatrico giudiziario. Se è vero, presto morirà qualcun altro. Magari più di una persona. Ne sono certa. Dawn Kincaid è di un’intelligenza sbalorditiva. È una sadica, e nella sua vita sciagurata è sempre riuscita a ottenere tutto ciò che voleva senza che nessuno potesse fermarla. Nessuno, nemmeno io. L’ho rallentata, ma sicuramente non l’ho fermata, e l’unica ragione per cui sono ancora viva è che ho avuto fortuna. Mi arriva in faccia qualche spruzzo dagli irrigatori, e mi torna in mente il sangue che mi ha investito come una pioggerellina sottile quando lei ha cercato di uccidermi. Ricordo il sapore salato e ferroso che mi ha lasciato in bocca, sui denti, sulla lingua. Avevo schizzi di sangue sulla faccia, sugli occhi, sui capelli, come se me l’avessero spruzzato addosso con uno spray. Tara Grimm ha accennato all’eventualità che Kathleen Lawler possa uscire di prigione prima del previsto. Mi viene il dubbio che Dawn Kincaid abbia intenzione di venire qui. «Ehi, tutto bene? Sembra che tu abbia visto un fantasma.» Mi accorgo che Marino mi sta parlando. «Scusa» rispondo, mentre faccio scorrere la portiera laterale del furgone per aprirla. «Hai intenzione di dirgli del DNA?» mi chiede di nuovo. «No, assolutamente no. Non spetta a me comunicarglielo. Preferisco riesaminare i casi come se non sapessi nulla. Ho intenzione di non lasciarmi influenzare da pregiudizi.» Prendo dalla borsa frigo due bottigliette di acqua completamente bagnate. «Quando è stata l’ultima volta che ci hai messo dentro del ghiaccio?» chiedo. «Volendo, possiamo farci un tè.» «Almeno sono bagnate.» Mi prende dalle mani una bottiglietta. «Ti raggiungo subito. Devo fare una telefonata.» Mi sposto all’ombra di un albero, dove fa caldo lo stesso, e chiamo Benton sperando che lui e Lucy non siano già decollati. «Meno
male che siete ancora lì» gli dico con trasporto appena mi risponde. «Mi dispiace per il vento. Mi dispiace di avervi chiesto di venire e che il viaggio sia così difficile.» «Il vento è l’ultimo dei miei pensieri. Ci tocca andare piano, tutto qui. Stai bene?» «Non ho vestiti adatti a questo clima.» «Sto bevendo un caffè mentre Lucy paga il carburante. Cristo, fa un caldo pazzesco anche qui nel New Jersey.» «Cos’è successo?» «Non ho informazioni ufficiali e non dovrei metterti in agitazione quando magari la situazione è sotto controllo. Ma la conosco e so di che cosa è capace. E tu anche. È riuscita a convincere le guardie e il personale del Butler che doveva andare all’ospedale, al pronto soccorso.» «Per quale motivo?» «Ha l’asma.» «Ma se non ne ha mai sofferto!» esclamo in un impeto di rabbia. «Jack ne soffriva e l’asma può essere ereditaria.» «Fa finta! È una grande manipolatrice.» Non ho voglia di essere obiettiva. «L’hanno portata via in ambulanza questa mattina verso le sette. Un mio contatto al Butler, che però non si occupa di lei e non ha informazioni di prima mano, è venuto a saperlo e mi ha lasciato un messaggio circa mezz’ora fa. Sono felice che tu sia a mille miglia di distanza, ma ti consiglio di stare attenta. Questa storia non mi piace. Ho paura che ci sia sotto qualcosa.» «Sono d’accordo, visto il soggetto.» Sento il sudore che mi gocciola sul petto e lungo la schiena. L’aria è stagnante e densa come vapore. «È ancora piantonata, vero?» «Presumo di sì, ma non conosco i dettagli.» «Presumi?» «Kay, so soltanto che l’hanno trasferita al Massachusetts General Hospital e che è successo da poco. Non è che possiamo precipitarci a interrogarla, se ha una crisi d’asma. Ha i suoi diritti.» «Certo. Ha più diritti di tutti noi.» «Sapendo quanto è manipolatrice, ovviamente temo che sia una trappola, uno stratagemma» dice Benton. «Non hanno la minima idea di cosa gli è capitato tra capo e collo.» Mi riferisco ai medici del Massachusetts General Hospital. «Potrebbe anche essere un espediente dei suoi avvocati per impietosire l’opinione pubblica o per insinuare che è stata maltrattata, oppure per ingigantire la palla sui danni che hai causato alla sua salute mentale e fisica. L’asma peggiora con lo stress.»
«I danni che ho causato io?» Mi torna in mente quello che ha detto Jaime ieri sera. «È chiaro che la sua linea di difesa sarà questa.» «Non sapevo che tu conoscessi la sua linea di difesa.» «Immagino che se la stia costruendo. Non so se abbia una linea di difesa, o quale sia. Mi sembri un po’ nervosa.» «Se sapevi che stava inventando delle accuse contro di me, mi avrebbe fatto piacere che me l’avessi detto» ribatto. Mi viene male se ripenso a quel che mi ha detto Marino riguardo al fatto che Benton sa che l’FBI sta indagando su di me. Si è indignato che non mi abbia detto niente, nonostante viviamo sotto lo stesso tetto. Trova inconcepibile che mio marito mi abbia lasciato uscire da sola quella notte, come se non gli importasse niente di me, come se non significassi nulla per lui. Come se non mi amasse. “Marino è geloso” mi ripeto. «Ne riparliamo appena arrivo» dice Benton. «Ma sei l’unica a cui non è venuto in mente che avrebbe cercato di difendersi dando la colpa a te. Lucy sta tornando verso l’elicottero: devo andare. Ti richiamo al prossimo scalo.» Mi dice che mi ama, poi chiudiamo la comunicazione. Il caldo è come un muro luccicante che si innalza tremulo dall’asfalto sotto gli spruzzi degli irrigatori, che muovono le foglie dei cespugli. Vado verso l’ingresso ed entro in un atrio con poltrone e divani dall’aspetto comodo, rivestiti di tessuto azzurro, e un tappeto persiano Serapi a disegni beige e rosa, con palme in vaso e stampe di pioppi e giardini appese alle pareti bianco avorio. Una signora attempata è seduta da sola in un angolo di questo luogo arredato con gusto dove nessuno vorrebbe mai trovarsi, con lo sguardo inespressivo rivolto verso la finestra. Provo a chiamare Jaime Berger. Al diavolo i telefoni pubblici. Perché dobbiamo far finta di non esserci parlate? Non mi importa se ho il telefono sotto controllo, e comunque non le credo. Il suo cellulare squilla, poi parte la segreteria. «Jaime, sono Kay» lascio detto. «C’è stato uno sviluppo su al Nord, di cui non posso fare a meno di sospettare che tu sia al corrente.» Mi accorgo di avere un tono accusatorio, come se in qualche modo quel che è successo fosse colpa sua. Magari è così. Dawn Kincaid sta tramando qualcosa perché ha saputo dei nuovi test del DNA, ne sono sicura, e Jaime fa l’ingenua o nega l’evidenza se dice di non saperlo. Forse lo sanno anche altre persone capaci di creare problemi. Non credo che il risultato dei test del DNA sia rimasto segreto, come pensa lei. Jaime ha messo in moto un meccanismo tremendamente pericoloso. «Chiamami appena senti il messaggio» le dico in tono grave. «Se non rispondo, telefona all’Istituto di medicina legale e chiedi a qualcuno di venirmi a cercare.»
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16 Colin Dengate ha i capelli rossi un po’ ingrigiti tagliati a spazzola e baffetti che sembrano una macchia di ruggine sopra il labbro. È slanciato, senza un filo di grasso e, come molti anatomopatologi, ha un senso dell’umorismo che a volte rasenta la stupidità. Mentre mi fa strada nel suo istituto, passiamo davanti a uno scheletro vestito da carnevale sotto una giostrina appesa al soffitto con ossa, pipistrelli, ragni e fantasmi che ruotano lentamente rabbrividendo, spinti dall’aria fresca che esce dalle bocchette di ventilazione. Sento la suoneria del suo cellulare, un motivetto inquietante con la sghignazzata di una strega: è sua moglie, che lo chiama per dirgli che non trova le chiavi del lucchetto della bici della figlia. Colin le suggerisce di usare un tronchese. Arrivati in fondo a un corridoio, gli squilla di nuovo il cellulare, questa volta con un trillo da tricorder di Star Trek: è la suoneria riservata a Sammy Chang, agente del Georgia Bureau of Investigation, il quale gli comunica che ha terminato il sopralluogo sulla scena di un incidente sulla Harry Truman Parkway e che il morto sta per arrivare in istituto. «E quando ti telefono io?» Mi domando quale suoneria mi abbia assegnato. «Tu non mi telefoni mai» risponde. «Ma fammi pensare. Forse i Grateful Dead. Never Trust a Woman, per esempio. Ho visto un paio di loro concerti in gioventù. La musica non è più come una volta. Neanche le persone sono più come una volta.» Ho lasciato Marino in una saletta a prendere un caffè e flirtare con una tossicologa di nome Suze, che ha un teschio alato e sorridente tatuato sul bicipite. Colin vuole parlarmi in separata sede. Finora è stato cordiale, nonostante il motivo per cui sono qui. «Posso offrirti un caffè, un’acqua vitaminizzata?» Entriamo nel suo studio, una stanza d’angolo che dà sull’area di carico e scarico dietro l’edificio, dove è appena arrivato un grosso furgone. «Con questo caldo il latte di cocco fa bene. È ricco di potassio. Ne ho una scorta nel mio frigo privato. Alcune acque minerali contengono elettroliti che sono molto utili con queste temperature. Cosa preferisci?» Ha l’accento della Georgia, ma meno strascicato di tanti. Per essere di queste parti, Colin parla veloce e con grande energia. Bevo dalla bottiglietta di acqua tiepida che ho preso dal frigo di Marino. Forse è uno scherzo della fantasia, ma sento di nuovo odore di pesce morto. «È passato un bel po’ di tempo dall’ultima volta che sono stata in Florida o a Charleston d’estate» dico. «E il furgone di Marino non ha il climatizzatore.» «Non capisco perché ti sei vestita così. Vuoi farti venire un colpo di calore?» Osserva il mio abbigliamento nero. «Di solito io mi metto solo il camice.» Come quello che indossa in questo momento, di cotone color latte e menta. «È comodo e fresco. Non porto mai niente di nero in questa stagione, a meno che non sia di cattivo umore.»
«È una lunga storia e dubito che tu abbia tempo di ascoltarla. In effetti, un po’ d’acqua fresca mi farebbe piacere.» «Vuoi sapere una cosa sorprendente sui climatizzatori?» Apre un piccolo frigo dietro la sua sedia ergonomica, prende due bottigliette d’acqua e me ne porge una. «Da queste parti non tutti ce l’hanno. La mia Land Rover, per esempio, è un modello del 1983 che ho completamente rimesso a nuovo dall’ultima volta che ci siamo visti.» Si siede dietro la scrivania ingombra, in uno studio pieno di cimeli. «Nuovo fondo in alluminio, nuovi sedili, nuova leva del cambio e nuovo parabrezza. Ho sverniciato il tetto e l’ho ridipinto di nero. Ho rifatto tutto, ma non ci ho messo il climatizzatore. Quando la guido, mi sento come quando ero appena uscito dalla facoltà di medicina: finestrini abbassati e sudo lo stesso.» «Almeno sei sicuro che nessuno venga in macchina con te.» «Infatti.» Avvicino la sedia e ci ritroviamo separati dalla grande scrivania di legno d’acero ingombra di barattoli pieni di bossoli, alcuni di grosso calibro in ottone ossidato che sembrano razzi, un portacenere del Secret Service pieno di palle Minié e di bottoni della divisa della Confederazione del Sud, piccoli dinosauri, astronavi in miniatura, ossa di animali che temo siano state confuse con ossa umane, un modellino del sottomarino H.L. Hunley, scomparso al largo del porto di Charleston durante la Guerra civile e ritrovato e riportato in superficie circa dieci anni fa. Non saprei da che parte cominciare, se dovessi catalogare o spiegare tutti i bizzarri cimeli che ingombrano scrivania, scaffali e pareti, ma sono sicura che ogni pezzo ha una sua storia e un suo significato. Credo che alcuni siano giocattoli di quando i suoi figli erano piccoli. «Quella è una menzione speciale della CIA.» Si è accorto che mi sto guardando intorno e mi indica una bella cornice con una medaglia d’oro appesa alla parete alla mia sinistra. Il certificato che l’accompagna parla di un contributo significativo al lavoro di intelligence della CIA, ma non specifica né il nome del destinatario né la data. «Circa cinque anni fa ho partecipato alle indagini su un incidente aereo avvenuto in una palude qui nei dintorni. A bordo c’erano degli agenti segreti, ma io non lo sapevo finché non sono arrivati quelli della CIA e alcuni tuoi colleghi dell’AFME» mi spiega. «Aveva a che fare con la base per sottomarini nucleari di Kings Bay, ed è tutto quello che posso dirti. Se anche tu ne sei al corrente, sono sicuro che nemmeno tu puoi dire altro. In ogni caso, è stato un lavoraccio, roba di spionaggio. Dopo un po’ mi hanno convocato a Langley per la cerimonia di premiazione. Devo dire che è stato davvero bizzarro. Non conoscevo nessuno e nessuno ha detto per chi fosse la medaglia o che cosa diavolo avessi fatto per meritarmela, a parte cercare di non dare fastidio a nessuno e tenere la bocca chiusa.» I suoi occhi verde-nocciola mi scrutano attenti mentre bevo un altro sorso di acqua fresca.
«Non capisco come mai tu ti sia lasciata coinvolgere nel caso Jordan, Kay.» Alla fine è arrivato al punto, al motivo per cui sono seduta davanti a lui. «L’altro giorno ho ricevuto una telefonata dalla tua amica Berger che mi informava che saresti venuta a visionare i referti. La prima cosa che ho pensato...» apre un cassetto della scrivania «... è per quale motivo non mi avessi chiamato tu.» Mi porge una scatoletta di pasticche per la tosse a base di corteccia di olmo rosso. «Le hai mai provate?» Ne prendo una perché ho la bocca e la gola secche. «Ottime quando devi tenere un discorso o testimoniare. Le usano anche i cantanti professionisti. È così che le ho scoperte.» Riprende la scatoletta e si mette in bocca una pastiglia. «Non ti ho chiamato, Colin, perché fino a ieri sera non sapevo di avere un appuntamento con te.» Parlo con la pastiglia in bocca, che è ruvida e ha un piacevole sapore di acero. Colin si acciglia come se avessi appena detto un’assurdità. Si appoggia all’indietro facendo scricchiolare la sedia. Continua a fissarmi, con la pastiglia che gli forma un piccolo rigonfiamento nella guancia. «Sono venuta a Savannah perché avevo un appuntamento al carcere femminile della Georgia per parlare con una delle detenute, Kathleen Lawler» comincio, pensando a come andare avanti. Colin annuisce. «Sì, Jaime Berger me l’ha detto» ribatte. «Mi ha detto che venivi qui per parlare con una detenuta del GPFW. Ragione di più per chiamarmi, no? Anche solo per salutarmi, magari pranzare insieme...» «Jaime ti ha detto che sarei venuta.» Mi domando cos’altro abbia detto, a lui e agli altri, e quanto ci abbia messo di suo. «Scusa se non ti ho chiamato per invitarti a pranzo, ma davvero ero convinta di fermarmi solo poche ore.» «Mi ha chiamato un sacco di volte» dice, riferendosi a Jaime. «Ormai quelli delle relazioni esterne la conoscono.» Sposta la pasticca per la gola da una guancia all’altra. «Buone, eh? Sono anche emollienti. Ne ho provate molte altre che in teoria dovrebbero essere emollienti, ma non lo sono. Queste invece funzionano, ammorbidiscono davvero le mucose. Senza sale, senza glutine e senza conservanti. Soprattutto, senza mentolo. Perché tutti pensano che il mentolo faccia bene contro il mal di gola e invece provoca soltanto una momentanea perdita di sensibilità alle corde vocali.» Assapora la pasticca e guarda il soffitto come un sommelier alle prese con un grand cru particolarmente complesso. «Canto in un quartetto maschile» aggiunge, come se questa fosse la spiegazione di tutto. «Per riassumere, dovevo trattenermi a Savannah pochissimo, e per un’altra ragione. Solo ieri sera ho saputo che mi avevano fissato un appuntamento con te. Mi sembra di aver capito che sei stato meno collaborativo di quanto lei si aspettasse» gli confido. «Le ho detto che sei un po’ testardo, ma non un reazionario.»
«Be’, un po’ lo sono» ribatte Colin. «Comunque ho capito perché non mi hai chiamato e ciò mi consola, perché ammetto che mi ero un po’ offeso. Sarà anche una cosa stupida, ma è la verità. Mi è sembrato stranissimo ricevere una telefonata di punto in bianco da lei e non da te. A parte le considerazioni personali, mi sono fatto un’idea di cosa sta succedendo più precisa di quanto immagini. Nel teatrino di Jaime Berger ci sta che io sia un anatomopatologo reazionario e intollerante che le mette i bastoni tra le ruote perché vuole che Lola Daggette venga giustiziata. Hai presente lo stereotipo del sudista giustiziere, favorevole alla pena di morte, e che sia Dio poi a decidere chi era innocente e chi no? La pensano tutti così a sud della linea Mason-Dixon. E anche a ovest.» «Jaime dice che non ti sei neanche alzato dalla scrivania per salutarla, quando è venuta. Che l’hai ignorata.» «È vero: stavo parlando al telefono con una povera donna che non voleva sentirsi dire che il marito si era suicidato.» Strizza gli occhi e alza il tono di voce, indignato. «Era convinta che gli fosse partito accidentalmente un colpo dalla pistola dopo che era uscito a bere una birra e a riparare le nasse per i granchi. Il fatto che prima di andarsene le avesse dato un bacio, le avesse detto che l’amava e le fosse sembrato di buonumore purtroppo non significava che non avesse intenzione di suicidarsi. Le stavo dicendo che mi dispiaceva molto che lei non potesse incassare l’assicurazione sulla vita per via di quello che avevo scritto sul referto e sul certificato di morte. Ecco, era questa la telefonata che stavo facendo quando si è presentata Jaime Berger vestita da Wall Street e si è piantata sulla soglia del mio ufficio. Quella poveretta al telefono piangeva e si disperava e io non potevo tagliare corto per accogliere con tutti gli onori un avvocato rompiballe di New York.» «Vedo che non ti è molto simpatica» osservo. «Ti ho preparato i dossier dei Jordan, comprese le foto della scena del crimine, che credo ti saranno utili. Guardali con calma e fattene un’idea. Poi sarò lieto di discutere con te di quello che vuoi.» «Sembra che tu sia convinto che sia stata Lola Daggette e che abbia agito da sola. Se ricordo bene, durante la tua presentazione del caso al congresso della NAME a Los Angeles sembravi sicurissimo.» «Io sto dalla parte della verità, Kay. Come te.» «Devo ammettere che mi pare strano che il DNA presumibilmente proveniente dal sangue e dalle cellule epiteliali prelevati sotto le unghie di Brenda Jordan non corrispondesse né a quello di Lola Daggette né a nessuno dei suoi familiari. Che fosse un DNA sconosciuto, in altre parole.» «“Presumibilmente” è la parola chiave.»
«La presenza di questo DNA di provenienza sconosciuta mi fa pensare che potesse esserci un altro aggressore» aggiungo. «Non interpreto i risultati di laboratorio né decido cosa significhino.» «Sono solo curiosa di sapere come la pensi, Colin.» «Le mani di Brenda Jordan erano completamente sporche di sangue» spiega. «E, sì, sotto le unghie aveva un DNA sconosciuto, ma non so cosa significhi. Magari proveniva da una fonte non correlata. Sotto le unghie aveva anche sangue suo, e anche del fratello.» «Aveva sangue del fratello sotto le unghie?» «Dormivano in due letti vicini e penso che a sporcarla del sangue del fratello sia stato l’assassino, aggredendola dopo aver ucciso Josh. O forse prima ha pugnalato Brenda, ha pensato che fosse morta e si è accanito sul fratellino, ma Brenda era ancora viva e ha cercato di fuggire. Non so come siano andate le cose e con ogni probabilità non lo saprò mai. Come ho detto, non interpreto i risultati di laboratorio né decido cosa significhino.» «Continuo a pensare che la presenza di un DNA sconosciuto sulla scena del crimine avrebbe dovuto spingere la polizia a prendere in considerazione la possibilità che gli assassini fossero più di uno.» «In primo luogo, la scena del crimine non fu preservata come si deve e in casa entrarono troppe persone.» «E queste persone toccarono i cadaveri?» «No, questo no, grazie a Dio. Quelli della polizia sanno che non devono lasciare avvicinare nessuno ai miei cadaveri, altrimenti mi sentono. Comunque venne esclusa la possibilità che fosse coinvolto qualcun altro oltre a Lola Daggette.» «Perché?» «La ragazza era in una comunità di recupero perché aveva problemi di droga e di aggressivit. Poche ore dopo la strage, venne sorpresa a lavare indumenti zuppi di sangue, sangue dei Jordan. E poi era di qui, e si pensò che potesse aver letto o sentito parlare del dottor Jordan e aver dato per scontato che fosse molto ricco, essendo un medico famoso, di un’antica famiglia di coltivatori di cotone. La villa era poco lontano dalla comunità dove lei stava da più di un mese, tempo sufficiente per raccogliere informazioni e magari capire anche che i Jordan non sempre si prendevano la briga di inserire l’allarme.» «Perché avevano avuto diversi falsi allarmi.» «I bambini» dice. «Un grosso problema con gli impianti di allarme è che spesso i bambini li fanno scattare senza volere.» «Mi sembrano tutte congetture» gli faccio notare. «Peraltro si è anche detto che il movente non fosse la rapina.»
«Non ci sono prove, ma chi lo sa? Sono morti tutti: chi poteva dire se mancava qualcosa?» «La casa era sottosopra?» «No. Ma, ripeto, quando non ci sono superstiti, chi può dire se è stato toccato o spostato qualcosa?» «Quindi i risultati del DNA all’epoca non ti lasciarono perplesso. Scusa se insisto, ma io li trovo inquietanti.» «Insisti pure: io faccio solo il mio lavoro, non ci guadagno niente» ribatte. «Il DNA era tutto mescolato. Come tu ben sai, non sempre è facile capire da dove proviene. Da dove veniva il DNA sconosciuto? Sangue? Cellule epiteliali? Qualcos’altro? E quando era stato lasciato? Poteva essere di qualcuno che non c’entrava niente, tipo un ospite che era stato recentemente dai Jordan, o qualcuno con cui Brenda aveva avuto contatti quello stesso giorno. Sai anche tu che non si risolvono i casi solo con le analisi di laboratorio: il DNA non significa niente, se non sai come mai è lì e da quando. La mia teoria è che più i test diventeranno sensibili, meno significato avranno. Solo perché una persona ha respirato in una stanza non significa che abbia ucciso qualcuno. Be’, meglio che stia zitto. Non sei venuta qui per sentire le mie elucubrazioni da luddista.» «Però nessuno dei profili di DNA trovati sulla scena del crimine o sui corpi delle vittime apparteneva a Lola Daggette.» «È vero. Ma non spetta a me decidere chi è colpevole e chi no. Non mi deve interessare. Io riporto le mie conclusioni, il resto è compito dei giudici e delle giurie» dice. «Perché non dai un’occhiata a quello che ti ho preparato? Poi ne parliamo.» «So che Jaime ti ha parlato anche del caso Barrie Lou Rivers. Mi chiedevo se non potrei dare un’occhiata anche a quello, già che ci sono.» «Jaime Berger ha copia di tutto. Ha fatto domanda due mesi fa per avere tutta la documentazione.» «Se non è troppo disturbo, preferisco sempre lavorare sugli originali, quando è possibile.» «Di quel caso non c’è niente di cartaceo perché è recente. Sai com’è, il Georgia Bureau of Investigation adesso è diventato “paperless”. Posso farti stampare i file, se non vuoi guardarli sul computer.» «Sul computer va benissimo. È la cosa più semplice.» «Una strana vicenda, bisogna ammetterlo» dice. «Ma non chiedermi di sostenere che è stato “eccesso di punizione”. Io ho capito dove vuole arrivare Jaime Berger, il quadro che sta mettendo insieme un poco alla volta. Per niente bello, te lo dico io. Anzi, disgustoso. Sembra che stia già facendo le prove per la conferenza stampa, cercando gli argomenti che scioccheranno di più l’opinione pubblica quando lei denuncerà come vengono trattati i condannati a
morte in Georgia.» «Però è strano che una detenuta muoia improvvisamente nel braccio della morte poche ore prima di essere giustiziata» gli ricordo. «Soprattutto visto che avrebbe dovuto essere sotto sorveglianza ventiquattr’ore su ventiquattro.» «Probabilmente non lo era, Kay. Non costantemente, almeno» ribatte. «Secondo me, si è sentita male subito dopo pranzo e lì per lì tutti hanno pensato che fosse un problema di digestione. Invece si trattava dei classici sintomi di un infarto. Ma, quando le guardie si sono finalmente decise a chiamare un medico, era troppo tardi.» «Tutto questo è successo poco prima che andassero a prenderla per accompagnarla nella camera della morte e prepararla all’esecuzione» osservo. «C’erano per forza dei sanitari: il medico incaricato di assistere all’esecuzione, per esempio. In teoria nelle vicinanze avrebbe dovuto esserci un medico, o per lo meno qualcuno della squadra della morte in grado di praticare la rianimazione.» «Sarebbe stato il colmo che un membro della squadra della morte, o il boia stesso, la rianimasse quel tanto che bastava per poi ucciderla.» Colin si alza dalla scrivania e mi offre la scatoletta di pasticche per la gola. «Se ne vuoi ancora. Le compro in quantità industriale.» «Immagino che vada bene se assiste anche Marino.» «Lavora con te e tu ti fidi di lui. Per me non c’è problema. Con voi ci sarà sempre uno dei miei assistenti.» Colin deve fare in modo che ci sia sempre qualcuno nella stanza con me per tutelare se stesso, e anche me. Deve poter dichiarare sotto giuramento che non ho introdotto documenti nei dossier e non mi sono portata via niente. «Mi interessano anche gli indumenti, se tu e il GBI li avete ancora» aggiungo mentre mi accompagna in corridoio. Oltrepassiamo studi, il laboratorio di antropologia forense e di istologia, una saletta e i bagni ed entriamo nella sala riunioni. «Ti riferisci ai vestiti che Lola Daggette fu sorpresa a lavare nel bagno della comunità o a quelli che indossavano le vittime quando sono state uccise?» «A tutti» rispondo. «Compresi quelli presentati come materiale probatorio al processo.» «Tutto.» «Posso portarti anche a vedere la casa, se vuoi.» «Dall’esterno l’ho già vista.» «Forse ci possiamo organizzare per fartela vedere anche dentro. Non so chi ci abiti adesso e dubito che saranno entusiasti, però...» «Al momento non è necessario. Ti farò sapere dopo aver esaminato i dossier.»
«Posso procurarti un microscopio, se vuoi vedere i vetrini originali. Anzi, ci penserà Mandy, Mandy O’Toole, che starà nella stanza con voi. Oppure possiamo farne un secondo set perché, naturalmente, abbiamo ancora i campioni di tessuto. Così facendo, però, creeremmo nuovo materiale probatorio. L’importante, comunque, è che tu trovi una risposta ai tuoi dubbi.» «Prima fammi vedere che cosa avete.» «I vestiti sono conservati in posti diversi, ma la maggior parte è nei nostri laboratori. Cerco di tenere sempre tutto sotto controllo.» «Non ne dubito.» «Non so se vi conoscete già» dice. In quel momento vedo una donna con pantaloni e camice azzurri sulla soglia della sala riunioni. Mandy O’Toole si fa avanti e mi stringe la mano. Ha più o meno quarant’anni, direi, è alta, ha gambe slanciate come un puledro e lunghi capelli neri raccolti sulla nuca. È di una bellezza non convenzionale, con lineamenti asimmetrici e occhi color cobalto che le conferiscono un’espressione scostante, ma al tempo stesso attraente. Colin mi fa il saluto militare con l’indice e mi lascia sola con lei dentro una stanza non molto grande, con un tavolo in ciliegio circondato da otto sedie di pelle nera trapuntate. Le finestre con il telaio in alluminio hanno vetri eccezionalmente spessi e danno sul parcheggio, chiuso da un’alta recinzione di rete metallica oltre la quale una foresta di pini verde scuro si stende senza fine verso il cielo pallido. 023_chapter17
17 «Jaime Berger non c’è?» Mandy O’Toole va a sedersi in fondo al tavolo, dove ci sono una bottiglia di acqua vitaminizzata e un BlackBerry con gli auricolari. «Credo che arriverà più tardi» rispondo. «È una che non si ferma mai, ma nel suo campo è giusto così. Tutti contro tutti, no?» Parla di Jaime come se glielo avessi chiesto io. «Quando è stata qui un paio di settimane fa l’ho incontrata alla toilette e, mentre mi lavavo le mani, mi ha fatto un sacco di domande sul livello di adrenalina di Barrie Lou Rivers. Mi ha chiesto se avevo notato qualcosa nei risultati istologici che facesse pensare a un picco di adrenalina dovuto a stress e panico. Voleva capire se prima dell’esecuzione avesse subito abusi o maltrattamenti. Le ho risposto che dall’istologia non può risultare nulla del genere, perché l’adrenalina non si vede al microscopio. Ci vorrebbero test biochimici appositi.» «Che probabilmente sono stati richiesti, conoscendo Colin» commento. «Infatti. Non si lascia sfuggire nulla. Sangue, umor vitreo, liquido cerebrospinale... Penso che siano questi gli esami di laboratorio che ha visto Jaime Berger. Barrie Lou Rivers aveva un livello moderatamente elevato di adrenalina. Ma spesso si traggono conclusioni affrettate da risultati del genere, non le pare?» «Spesso si traggono conclusioni affrettate da qualsiasi risultato, a prescindere dal suo effettivo significato» concordo. «Be’, se a uno viene un infarto, o se soffoca perché gli va di traverso un boccone, è molto probabile che sia preso dal panico e liberi un sacco di adrenalina prima di morire» dice Mandy, fissandomi con i suoi occhi azzurri. «Insomma, se stessi per morire soffocata, sono sicura che mi salirebbe l’adrenalina. Non c’è nulla di più spaventoso che non riuscire a respirare. Dio, mi vengono i brividi solo a pensarci.» «Sì, è vero.» Mi domando di nuovo che cosa abbia raccontato Jaime Berger sul mio conto. Ha detto a Colin che ieri sarei andata a trovare Kathleen Lawler al GPFW. Che cos’altro avrà detto? Perché Mandy O’Toole mi fissa in quel modo? «La guardavo sempre quando faceva quella trasmissione alla CNN» mi dice, e capisco quale potrebbe essere la ragione di tanto interesse da parte sua. «Mi spiace che abbia smesso, perché era proprio stimolante. Finalmente qualcuno che dice cose sensate sui metodi di indagine scientifica, senza tutto il sensazionalismo e l’emotività di certi programmi. Dev’essere bello avere una trasmissione. Se le capitasse mai di farne un’altra e avesse bisogno di qualcuno che parli di istologia...» «La ringrazio, ma quello che faccio al momento non è compatibile con la conduzione di un programma televisivo.»
«Be’, io mi ci butterei a pesce se me lo chiedessero. Ma vedere come si esaminano i tessuti non interessa a nessuno. Forse il prelievo dei campioni dal cadavere un po’ di più. Anche se la parte più esaltante è la ricerca del fissativo adatto a seconda delle esigenze.» «Da quanto tempo lavora con Colin?» «Dal 2003. Lo stesso anno in cui il Georgia Bureau of Investigation è diventato “paperless”. Non so se sia una fortuna o una sfortuna, nel caso dei Jordan, dipende da come la si vede. Ora è tutto elettronico, ma nel gennaio del 2002 non era così. Non so a lei, ma a me la carta piace ancora. C’è sempre qualcosa che non viene scansionato, tranne quando si lavora con Colin. Lui è un ossessivo-compulsivo, al limite del patologico. Fosse pure un tovagliolo di carta finito per sbaglio in mezzo ai documenti, lui lo scansiona comunque. Ripete sempre: “Melius abundare quam deficere”.» «E ha ragione» dico. «Mi sarebbe piaciuto fare un lavoro investigativo. Gli chiedo sempre di mandarmi a fare un corso di specializzazione, magari all’OCME di New York, dove insegnava anche lei, ma il problema sono i soldi. Non ce ne sono.» Prende il BlackBerry e gli auricolari. «Ora la lascio lavorare. Se ha bisogno di qualcosa, me lo dica.» Prendo la prima cartellina da una pila di quattro posate sull’estremità del tavolo più vicina alla porta e mi basta un’occhiata per vedere che c’è molto più di quanto speravo di trovare. Colin non mi ha soltanto trattato con cortesia professionale e con il rispetto che si deve a un collega, ha fatto molto di più: per legge, è tenuto a mettere a disposizione solo i documenti che ha firmato personalmente, come il rapporto di inizio indagini, il referto autoptico preliminare e quello definitivo, le foto scattate durante l’autopsia e i risultati degli esami di laboratorio e di eventuali test particolari. Volendo, avrebbe potuto essere molto meno generoso e non darmi i suoi appunti personali e i fogli di servizio. Avrebbe potuto decidere di non consegnarmi quasi niente, costringendomi a richiedere i vari documenti e magari facendomeli sospirare. Avrebbe potuto trattarmi come una giornalista, o come una persona qualsiasi, e costringermi a presentare una richiesta ufficiale, aspettare che venisse approvata e venisse emessa regolare fattura da saldare prima della spedizione dei documenti. E prima che tutta questa trafila fosse completata, sarebbe stata a dir poco la metà di luglio e io sarei già tornata a Cambridge. «Suze ha fatto il tossicologico su Barrie Lou Rivers» dice il vocione di Marino, che entra nella sala e si ferma a fissare Mandy O’Toole seduta in fondo al tavolo. «Credevo fossi sola» aggiunge, e mi accorgo sempre quando qualcuno gli piace. Lei si toglie gli auricolari e dice: «Salve, sono Mandy». «Ah, sì? E cosa fa?»
«Il tecnico patologo, e non solo.» «Piacere, Pete Marino.» Si siede accanto a me. «Diamoci pure del tu. Io faccio l’investigatore, e non solo. Immagino che tu sia qui a fare la guardia.» «Non fate caso a me. Ascolto musica e scrivo e-mail.» Si rimette gli auricolari. «Potete dire quello che volete. Fate conto che io sia la tappezzeria.» «Vatti a fidare della tappezzeria» ribatte Marino. «Non hai idea di quanti casi vanno a ramengo perché la tappezzeria ha la lingua lunga.» Li ascolto distrattamente mentre passo in rassegna il materiale che mi ha messo a disposizione Colin Dengate. Sono soddisfatta e sollevata. Sono tentata di andare a cercarlo per ringraziarlo, forse anche per reazione al modo in cui mi ha trattato Jaime Berger, che mi ha ingannato e bistrattato, offendendomi e umiliandomi. Colin avrebbe potuto benissimo mettermi i bastoni fra le ruote o addirittura impedirmi di consultare questo materiale, invece non l’ha fatto. Sarà anche convinto della colpevolezza di Lola Daggette, ma non vuole imporre agli altri la sua opinione. Anzi, a giudicare dalla quantità di documenti che mi ha messo a disposizione, sta facendo esattamente l’opposto. Mi sembra che non abbia fatto alcuna cernita: mi sta lasciando esaminare persino documenti che in teoria sarebbero riservati. Questa considerazione mi porta a farne altre. Colin non può essere stato così generoso senza l’approvazione del procuratore distrettuale della contea di Chatham, Tucker Ridley, dal quale non mi aspettavo che facesse nulla più di quanto richiesto dalla legge della Georgia sul segreto d’ufficio. Avrebbero potuto farmi leggere soltanto i referti anatomopatologici, quando quello che più mi interessa è tutto il resto. Rapporti di polizia, mandati di arresto, precedenti penali, anamnesi, dichiarazioni giurate di testimoni: tutti i documenti, di qualsiasi natura, che possono finire nel dossier dell’anatomopatologo che ne ha ricevuto copia dagli investigatori e che, se è come me, ha conservato tutto. Ho sottomano documenti che non immaginavo di poter consultare. Quando Colin mi ha accompagnato qui, mi aspettavo di trovare molto poco da esaminare e di dover tornare nel suo ufficio nel giro di un’ora perché mi aiutasse a colmare le lacune, sempre che ne avesse voglia. «Comunque sia, sono al corrente di tutto ciò che succede qui.» Mandy si è tolta di nuovo gli auricolari. «Ah, sì?» Marino la corteggia sfacciatamente. «Cosa sai di Barrie Lou Rivers? Ti sei occupata tu del caso? Ne hai sentito parlare?» «Ho fatto gli esami istologici e sono andata e venuta dalla sala dove Colin le stava facendo l’autopsia per prendere i campioni di tessuto.»
«Avrai fatto gli straordinari» replica Marino, come se per qualche ragione stesse investigando su di lei. «Però non sei nella lista dei testimoni ufficiali. Ci sono una guardia carceraria di nome Macon e un paio di altre persone, ma non ricordo di aver visto il tuo nome.» «Perché non ero una testimone ufficiale.» Sposto la sedia in modo da guardare verso la finestra. Vedo le poiane che volano alte sopra la pineta come aquiloni neri e decido che la spiegazione di tanta generosità potrebbe anche essere un’altra: la condanna di Lola Daggette per la strage dei Jordan è ormai definitiva e il procuratore distrettuale non ha motivo di mettermi i bastoni tra le ruote. Il caso è chiuso e la documentazione relativa può essere resa di dominio pubblico. Concludo che per Tucker Ridley il caso è definitivamente archiviato. Nonostante Jaime abbia fatto riesaminare parte del materiale probatorio, per Ridley e forse anche per Colin Dengate la vicenda si è conclusa quando la condanna a morte di Lola Daggette è stata confermata e il governatore si è rifiutato di commutarla in ergastolo. «È sempre così scorbutico?» Mi rendo conto che Mandy sta parlando con me. Di Marino. «Soltanto con le persone che gli piacciono» rispondo. Penso alle ripercussioni sull’opinione pubblica. Anche solo per questo, al procuratore distrettuale non conviene ostacolare una persona con il mio grado e la mia reputazione; perciò deve aver deciso di aprire gli archivi e invitarmi a consultare tutto quello che desidero. Perché? Perché intanto non ha più alcuna importanza. Per Tucker Ridley, Lola Daggette ha un appuntamento con la morte la sera di Halloween e non c’è motivo di temere che non si presenti. Poi mi viene in mente che potrebbe essere il contrario. Forse sono trapelati i risultati dei nuovi test del DNA, e mi stanno lasciando consultare tutto quello che voglio perché presto la condanna di Lola verrà annullata. E forse è legittima anche l’altra mia paura: Dawn Kincaid sa che sta per essere accusata di omicidio anche in Georgia dove, al contrario del Massachusetts, rischia la pena di morte. Perciò sta architettando qualcosa, molto probabilmente una fuga da un ospedale di Boston che non garantisce lo stesso livello di sicurezza di un ospedale psichiatrico giudiziario come il Butler State Hospital. «Sto solo cercando di capire chi c’era quando è arrivato il cadavere» insiste Marino rivolgendosi a Mandy O’Toole. «Perché questo caso non mi convince. C’è qualcosa che non quadra. È strano che un istologo lavori alle nove di sera: anche questo non mi convince.» «La sera in cui morì Barrie Lou Rivers, ero in laboratorio perché dovevo finire di scrivere un articolo sui vari tipi di fissativi» risponde. «Pensavo che i fissativi fossero quelli che usano i vecchi per tener ferma la dentiera.»
«I vantaggi della glutaraldeide nella microscopia elettronica e il problema dei mercuriali.» «Gran problema. Nemmeno a me piacciono i tipi mercuriali.» «È problematico lo smaltimento dei tessuti, perché il mercurio è un metallo pesante.» Mandy sta al gioco. «Se cerchi i dettagli citologici, è meglio usare la soluzione di Bouin. Ovviamente, quando lavoro con la soluzione di Bouin, mi rimangono le dita gialle se mi dimentico e tocco qualcosa senza guanti.» «E poi vallo a spiegare al tuo uomo...» «Quando telefonarono dalla prigione, ero ancora qui.» Mandy torna all’argomento di partenza. «Così dissi a Colin che sarei rimasta, gli avrei preparato il tavolo e lo avrei aiutato per qualsiasi cosa. Ma non sono stata considerata una testimone.» «Avrai ben sentito qualcosa» insiste Marino. «Cosa dicevano che le era successo?» «In origine si pensò che le fosse andato un boccone di traverso e fosse soffocata. Ma non c’erano segni di asfissia. Poi non mi pare di averne più sentito parlare finché non se ne è interessata Jaime Berger. Vi offrirei dell’acqua, o un caffè, ma non posso lasciare la stanza. Se vuole qualcosa, dottoressa, me lo dica e glielo faccio portare.» Poi, sorridendo a Marino e rimettendosi gli auricolari, aggiunge: «Se vuoi qualcosa tu, vattelo a prendere». «Suze ha accennato a una cosa abbastanza interessante sulla concentrazione di monossido di carbonio nel sangue di Barrie Lou Rivers» mi dice Marino, continuando a voltarsi verso Mandy. «Era circa l’otto per cento. Dice che il livello normale è al massimo sei.» «Non so se sia interessante o no» ribatto mentre rileggo il verbale dell’udienza in cui Lola Daggette ha chiesto clemenza al governatore. Fra i testimoni c’erano anche Colin Dengate e Billy Long del Georgia Bureau of Investigation. «Dovrei guardare il referto. Non è un livello insolito per un fumatore.» «In prigione è vietato fumare. In tutte le prigioni, che io sappia. Da anni.» «Già. E non sono ammessi nemmeno droga, alcol, soldi, cellulari e armi» rispondo senza alzare lo sguardo dal resoconto dei fatti successi nella notte fra il 5 e il 6 gennaio 2002. «Le guardie potrebbero averle offerto una sigaretta. Le regole si possono infrangere, a seconda di chi ha il potere.» «E il fumo potrebbe spiegare la concentrazione di monossido di carbonio. Ma perché qualcuno le avrebbe offerto una sigaretta?» «Non possiamo sapere con certezza se qualcuno le ha offerto una sigaretta. È vero però che il monossido di carbonio e la nicotina affaticano il cuore, e questo effetto è accentuato dalla stenosi arteriosa dovuta alle malattie cardiache, motivo per cui continuo a ripeterti di non fumare.» Passo i fogli a Marino a mano a mano che finisco di leggerli. «Il cuore di Barrie Lou Rivers era già sotto sforzo per via dello stress. Aggiungici il fumo, e avrà fatto ancora più fatica a pompare il sangue.»
«Forse è per questo che le è venuto un infarto» insiste lui. «Potrebbe essere uno dei fattori scatenanti, se qualcuno le ha dato una o più sigarette prima dell’esecuzione» commento mentre leggo della Liberty House, una comunità di recupero per tossicodipendenti senza obbligo di residenza, gestita da una ONLUS e situata in East Liberty Street, a pochi isolati di distanza dal Colonial Park Cemetery, molto vicino alla casa dei Jordan, più o meno un quarto d’ora a piedi, direi. Alle sei e quarantacinque circa del 6 gennaio, una volontaria della comunità iniziò il giro di raccolta dei campioni di urina per uno screening tossicologico a sorpresa. Arrivata alla stanza di Lola Daggette, bussò alla porta senza ricevere risposta. La volontaria entrò e sentì scorrere l’acqua. La porta del bagno era chiusa e, dopo aver bussato e chiamato Lola invano, la volontaria si preoccupò ed entrò. Lola era nuda nella cabina della doccia, con l’acqua calda che scorreva. Era spaventata e molto agitata e cercava di lavare con lo shampoo alcuni capi di vestiario che sembravano zuppi di sangue. La volontaria le domandò se si era fatta male e la ragazza le rispose di no e chiese di essere lasciata in pace. Spiegò che stava lavando la sua roba nella doccia perché non aveva accesso a una lavatrice e poi disse: “Lascia quella cazzo di provetta vicino al lavabo che ci piscio dentro tra un minuto”. A quel punto, secondo il verbale, la volontaria chiuse il rubinetto e ordinò a Lola di uscire. “Nella cabina c’erano un paio di pantaloni di velluto marrone taglia 38, una maglia con il collo alto azzurra, anch’essa taglia 38, e una giacca a vento bordeaux degli Atlanta Braves, taglia media, tutti sporchi di sangue, e l’acqua in fondo alla doccia era rossastra” è la dichiarazione della volontaria. Interrogata sulla provenienza degli indumenti, Lola Daggette rispose che erano quelli che aveva addosso quando era entrata nella comunità cinque settimane prima e le era stata consegnata la divisa. “Erano i vestiti che portavo fuori e da allora sono rimasti nel mio armadietto” spiegò Lola alla volontaria. Quando le venne chiesto come mai erano sporchi di sangue, lì per lì Lola rispose che non lo sapeva, poi disse che “aveva le sue cose” e si era sporcata mentre dormiva. La volontaria dichiarava: “Ho avuto la netta sensazione che si stesse inventando tutto sul momento, ma Lola era famosa per spararle grosse. Era capace di dire qualsiasi cosa per impressionare il prossimo o per togliersi dai guai. Diceva e faceva di tutto per attirare l’attenzione, per difendersi o per ottenere un trattamento di favore, senza rendersi conto dell’effetto che questo aveva sugli altri e senza badare alle conseguenze”. “Nella comunità Lola aveva fama di essere bugiarda, ma era più che ovvio che tutto quel sangue non poteva essere suo” dichiarava la volontaria sotto giuramento. “Non era credibile che si fosse sporcata le gambe, le ginocchia e il risvolto dei pantaloni, il davanti e le maniche della maglia e anche la giacca a vento per colpa delle mestruazioni. C’era ancora tantissimo
sangue che non era riuscita a lavare via e il mio primo pensiero è stato che chi l’aveva perso doveva aver avuto un’emorragia fortissima, sempre che si trattasse di sangue umano. E comunque non era chiaro perché Lola avrebbe dovuto dormire con i vestiti che aveva quando era entrata nella comunità e che non era autorizzata a portare durante la sua permanenza lì.” La testimonianza della volontaria diventava via via più incriminante. “Se li tolgono quando arrivano e se li rimettono quando vengono dimesse. Il resto del tempo indossano la divisa. Non si capiva perché Lola avrebbe dovuto dormire vestita. Mi sembrava tutto assurdo e incredibile, e quando gliel’ho fatto notare ha cambiato versione e ha detto di aver trovato i vestiti insanguinati in un sacco di plastica nel bagno. Le ho chiesto di mostrarmi il sacco e allora lei ha cambiato di nuovo versione, dicendo che non c’era nessun sacco, che si era alzata per andare in bagno e aveva visto i vestiti per terra, vicino alla porta. Le ho chiesto se le macchie di sangue erano umide o secche e lei ha detto che in certi punti il sangue era appiccicoso e in altri secco. Ha dichiarato di non sapere come fossero arrivati lì quei vestiti insanguinati, ma che nel vederli si era spaventata e aveva cercato di lavarli perché non voleva essere incolpata di qualcosa.” La volontaria le fece presente che, se le cose erano andate davvero così, significava che qualcuno doveva aver preso i vestiti dal suo armadietto e averglieli riportati zuppi di sangue, rientrando in camera sua mentre lei dormiva per lasciarglieli nel bagno. Chi poteva aver fatto una cosa del genere? Come mai Lola non si era svegliata? La risposta di Lola fu che a fare questo “era stato il diavolo, silenzioso come un fantasma”. Disse: “È una vendetta per qualcosa che ho fatto prima di finire qui. Forse è qualcuno da cui compravo la droga. Non so”. Poi si arrabbiò e si mise a urlare. “Non devi dirlo a nessuno! Puoi anche buttarli via, ma non devi dirlo a nessuno! Non voglio finire in prigione! Giuro che non ho fatto niente, lo giuro su Dio!” gridò. Leggendo la dichiarazione resa dalla volontaria, capisco perché all’epoca nessuno prese in considerazione altri sospetti oltre a Lola Daggette. 024_chapter18
18 Marino dà a malapena un’occhiata ai documenti che gli passo, sfogliandoli con una disinvoltura e una mancanza di curiosità che mi fa sospettare che li abbia già visti. «Hai già letto questo verbale?» gli chiedo. «È fra i documenti che ha raccolto Jaime. Ma non l’ha avuto da lui.» Lui è Colin Dengate. «È normale che non gliel’abbia dato lui, visto che non è stato lui a elaborarlo. Lo avrà avuto dal tribunale di seconda istanza della contea di Chatham.» «Jaime sapeva che lui ti avrebbe lasciato guardare tutto.» «Be’, aveva ragione. Ma quello che ho letto finora non avalla la sua tesi.» «No» concorda Marino. «Lola Daggette non potrebbe sembrare più colpevole. Non c’è da stupirsi che sia stata condannata. Si capisce benissimo perché è finita così.» «Però non mi convince la faccenda della divisa» aggiungo. «Jaime mi ha detto che Lola entrava e usciva dalla comunità per cercare lavoro e per andare a trovare sua nonna in una casa di riposo. Poteva andare e venire liberamente, purché chiedesse il permesso e rientrasse entro una certa ora la sera. Che cosa si metteva per uscire?» «Da quel che ho capito io, la divisa consisteva in vestiti normali, tipo pantaloni e camicia di jeans. Era quello che le residenti... le chiamavano così, residenti... indossavano sempre.» «Parli al passato.» Bevo un sorso d’acqua dalla bottiglia che mi ha dato Colin. Ho i vestiti umidi di sudore e l’aria condizionata mi fa venire i brividi. «Lola Daggette non è stata un buon affare per la Liberty House, che dipendeva dalle donazioni di privati cittadini» spiega Marino. «Dopo che fu condannata per la strage della famiglia Jordan, i ricchi di Savannah persero la voglia di staccare assegni per la comunità. Tanto più che Clarence Jordan era molto conosciuto, faceva volontariato nei dormitori per i senzatetto e negli ambulatori e aiutava le persone in difficoltà, i poveri che non potevano permettersi di andare dal medico.» «Aveva mai fatto volontariato alla Liberty House?» Mi alzo per regolare la temperatura nella stanza. «Che io sappia, no.» «Quindi la Liberty House non esiste più, immagino. Se avete troppo caldo, ditemelo.» Torno a sedermi e noto che Mandy O’Toole ci ignora, o finge di ignorarci completamente. «Adesso è un dormitorio per donne senzatetto gestito dall’Esercito della Salvezza. Non è rimasto nessuno di quelli che ci lavoravano allora. È cambiato tutto» mi spiega Marino. «Leggendo quella roba ti convinci che Lola Daggette non era abbastanza furba da uccidere qualcuno e farla franca.» «Non l’ha fatta franca. Ma non siamo sicuri che abbia davvero ucciso qualcuno.»
«Il diavolo si è messo i suoi vestiti e, dopo aver commesso il fatto, glieli ha lasciati in bagno» dice Marino. «E lei non vuole dire a nessuno chi è questo diavolo, tranne che si chiama Vendetta.» «Ha cominciato a parlare di “vendetta” quando è stata sorpresa a lavare i vestiti insanguinati sotto la doccia» gli faccio notare sistemando alcuni fogli davanti a me. «Qualcuno voleva vendicarsi per qualcosa che lei aveva fatto quando si drogava. Pare che fosse convinta di essere stata incastrata da qualcuno, che ha cominciato a chiamare Vendetta.» «Pensi davvero che Lola non c’entri, ma non sappia chi è il colpevole?» «Non so cosa pensare. Non ho idee precise, per il momento.» «Be’, io invece un’idea ce l’ho» ribatte Marino. «Mi sembra tutto assurdo adesso come allora. E vedrai, quando ci arrivi, che il DNA era di tutta la famiglia. Sui vestiti di Lola c’era il sangue di tutti i Jordan, e fin dall’inizio ho detto a Jaime che non capisco come si possa spiegare questo fatto.» «Jaime lo spiega nello stesso modo in cui lo spiegarono gli avvocati difensori di Lola. Con il fatto che non c’era traccia di DNA di Lola né nella casa dei Jordan, né sui cadaveri, né sui vestiti che indossavano quando sono stati uccisi» rispondo, e intanto arrivo a una parte del verbale in cui ci sono anche delle foto. «Il suo DNA era solo ed esclusivamente sui vestiti che stava lavando nella doccia. Solo sui pantaloni di velluto, sulla maglia e sulla giacca a vento, dove però c’era anche il DNA delle vittime, e questo per una giuria è un fatto altamente incriminante. Ma dal punto di vista scientifico suscita degli interrogativi.» Non specifico quali. Non davanti a Mandy O’Toole, che non dà segno di sentire quello che diciamo o di essere interessata e continua a scrivere sul BlackBerry con gli auricolari infilati, presumibilmente per ascoltare musica. «Era nuda mentre lavava i vestiti nella doccia» dice Marino. «Potrebbe averci lasciato il suo DNA anche solo perché li ha toccati. A parte che il suo DNA ci sarà già stato, visto che li aveva indosso quando è arrivata alla Liberty House.» «Esatto. Quindi, qualunque fosse la provenienza di quei vestiti, il suo DNA c’era sicuramente già quando le è stato ordinato di uscire dalla doccia» concordo. «Il fatto che sui vestiti sia stato trovato il suo DNA non vuol dire nulla. Se oltre al suo ci fosse stato anche il DNA di un’altra persona, invece, sarebbe tutta un’altra storia» aggiungo. Sto pensando a Dawn Kincaid, ma non la voglio nominare. «E se un’altra persona si fosse messa i suoi vestiti e avesse lasciato il proprio DNA sui pantaloni, sulla maglia e sulla giacca a vento?» Soppeso con cura le parole, sperando di ottenere informazioni. Non voglio che Mandy O’Toole senta la benché minima allusione ai nuovi risultati dei test del DNA. Secondo Jaime, Colin Dengate non ne è al corrente e non lo sa quasi nessuno. Non capisco come faccia a esserne così sicura, ma forse sta cercando di convincersene lei stessa
e ha finito per prendere per realtà ciò che è solo un suo desiderio. Secondo me, avrebbe dovuto presentare un’istanza di annullamento della condanna di Lola diverse settimane fa, in modo che la verità venisse resa nota ufficialmente e non ci fosse pericolo di fughe di notizie. Sarebbe stata la soluzione migliore ai fini della causa, ma non per Jaime, che non sarebbe riuscita ad attirarmi qui a Savannah con l’inganno. Aveva ragione quando ieri sera ha detto che non sarei stata disposta a collaborare e a farle da perito se mi avesse dato il tempo di riflettere, se fosse stata onesta e sincera. Per questo ha mentito e mi ha manovrato per trascinarmi dove mi trovo adesso. Più ci penso, più sono sicura che avrei detto di no. Le avrei consigliato di rivolgersi a qualcun altro, e non per paura che Colin si risentisse perché volevo riesaminare i suoi referti o metterli in discussione. È della reazione di Lucy che avrei avuto paura. Qualsiasi cosa avessi deciso di fare con Jaime sarebbe stata guastata da sgradevoli ricordi. Una collaborazione con lei mi sarebbe sembrata una pessima idea, per mille motivi. «Be’, se l’assassino ha sottratto i vestiti di Lola per compiere la strage, come mai il suo DNA non c’era?» chiede Marino per confermarmi che sui pantaloni, sulla maglia e sulla giacca a vento di Lola non è stato trovato il DNA di Dawn Kincaid né di nessun altro. «Un lavaggio con acqua calda e sapone potrebbe aver eliminato le tracce, se parliamo di sudore o di cellule cutanee. Forse questo non vale per il sangue, ma dipende dalla quantità. Se ce n’era poco, per esempio quello perso per i graffi di una bambina, anche quello potrebbe essere stato lavato via» rifletto ad alta voce. «Tanto più che nel 2002 i test erano meno sensibili di oggi. Qualcuno ha esaminato le scarpe di Lola Daggette?» «Quali scarpe?» «Avrà pur avuto delle scarpe. La divisa della comunità comprendeva anche le scarpe?» «Non credo che dessero anche le scarpe. Solo pantaloni e camicia di jeans. Comunque non lo so con certezza» risponde Marino senza staccare gli occhi da Mandy O’Toole, che non lo guarda. «Nessuno ha mai nominato le scarpe, a quanto mi risulta.» «Avrebbero dovuto controllare se c’erano tracce di sangue sulle scarpe. Non ho letto da nessuna parte che Lola abbia lavato anche le scarpe, sotto la doccia. Nessun accenno nemmeno alla biancheria intima, se è per questo. Se hai i vestiti zuppi di sangue, non puoi non averne anche su mutande, canottiera, reggiseno, calze. Ma Lola è stata sorpresa a lavare soltanto i pantaloni, la maglia e la giacca.» «Tu e la tua mania delle scarpe» commenta Marino. «Le scarpe sono molto importanti.» Le scarpe mi parlano, mi dicono dove si trovavano i piedi dei loro proprietari durante un evento criminoso. Sulla scena di un crimine, per esempio. Sul pedale del freno o dell’acceleratore. Su un davanzale polveroso o su un terrazzo prima che la persona si but-
tasse di sotto, o venisse spinta, o cadesse. Addosso a una vittima presa a calci e calpestata, oppure nel cemento fresco, come in un caso in cui l’assassino era scappato passando per un cantiere. Scarpe, stivali, sandali, tutti i tipi di calzature hanno suole caratteristiche e imperfezioni uniche che lasciano impronte, possono depositare tracce sul terreno oppure raccoglierle e portarle con sé. «L’autore della strage avrà avuto certamente sangue sulle scarpe» ribadisco. «Piccolissime tracce, magari, ma qualcosa doveva esserci per forza.» «Come ti dicevo, non ho sentito parlare di scarpe.» «Se Colin non le ha conservate insieme alle altre prove in laboratorio, ormai è troppo tardi» replico guardando le foto allegate alla richiesta di grazia presentata da Lola Daggette l’autunno scorso. Sono ritratti e istantanee delle vittime, inseriti apposta per far indignare il governatore della Georgia, Zebulon Manfred, che infatti ha respinto l’istanza. Allegata al documento c’è la fotocopia di un articolo di giornale in cui il governatore afferma che le prove su cui l’istanza si basa sono quelle già presentate e respinte al processo di primo grado e a quello di secondo grado. “Possiamo scervellarci in eterno su questo delitto efferato” ha dichiarato pubblicamente “ma alla fine si torna sempre a Lola Daggette, che nella notte fra il 5 e il 6 gennaio 2002 massacrò un’intera famiglia senza alcun motivo plausibile, solo per il gusto di farlo.” Posso immaginare lo sdegno del governatore quando ha visto la foto della famiglia Jordan durante le ultime festività natalizie della loro vita, scattata nello studio di un fotografo un paio di settimane prima della morte. Clarence Jordan, con il sorriso timido e un’espressione benevola negli occhi grigi, vestito a festa, in completo verdone con gilet scozzese. La moglie Gloria, seduta accanto a lui, non bellissima, capelli castani con la riga in mezzo e vestito castigato, di velluto verde con i volant. Ai lati dei genitori, i due gemelli di cinque anni, biondi, guance rosa e grandi occhi azzurri: Josh è vestito come il padre e Brenda come la madre. Ci sono anche altre foto che accompagnano il lettore sempre più addentro alla tragedia che comincia a pagina diciassette del verbale. Il braccio insanguinato di un bambino penzola da un letto zuppo di sangue. La tappezzeria è di Winnie the Pooh e le lenzuola hanno un motivo western, con lazo, cappelli da cowboy e cactus. Sono piene di macchie di sangue: schizzi oblunghi, gocce più piccole, grandi chiazze scure e striature rossastre che deve aver lasciato l’assassino asciugandosi le mani. Senza volerlo penso a Dawn Kincaid, la immagino dentro la cameretta buia che interrompe la sua frenesia omicida per pulirsi le mani e asciugare l’arma nelle lenzuola e nel copriletto. Mi sembra di sentire la sua furia, la sua rabbia, il suo respiro affannoso mentre con il cuore che batte all’impazzata infierisce sulle vittime, e mi chiedo perché abbia massacrato due bambini di cinque anni.
Due gemelli, un maschio e una femmina, che a quell’età si somigliavano moltissimo, due bei biondini dagli occhi azzurri. Li conosceva? Li aveva già visti, magari mentre raccoglieva informazioni sulla casa e sulle abitudini dei Jordan? Come faceva a sapere dell’esistenza di Josh e Brenda e in quale stanza si trovavano? Oppure non lo sapeva? Che cosa la spinse ad accanirsi così contro di loro? Chi pensava di uccidere quando li sorprese nel sonno? Non era necessario. Non era giustificato dalla fretta o da un motivo preciso, come per esempio un furto. Forse poteva esserlo nel caso dei genitori, ma non di due bambini così piccoli, che non erano in grado di difendersi né, con ogni probabilità, di riconoscere il colpevole. Non vedo alcun movente sensato, se non una spinta di natura personale, e mi sembra di sentire tutto l’odio di Dawn Kincaid: il sangue delle vittime mi parla della furia in preda alla quale ha agito. Non credo che li abbia scelti a caso o cedendo a un impulso, come non credo che la sua aggressione nei miei confronti sia stata un capriccio. Era tutto pianificato. Dawn Kincaid ha deliberatamente sterminato la famiglia Jordan, bambini compresi. “Perché?” “Per togliere loro ciò che lei non aveva mai avuto” mi viene in mente. Per privarli della loro bella casa sicura, dei genitori che li coccolavano e si prendevano cura di loro anziché abbandonarli. Cerco di non collocare nella scena che sto immaginando la figura della donna che, nove anni più tardi, ha aggredito me. Il sangue sul pavimento della camera dei Jordan diventa il sangue nel mio garage e sento uno spruzzo di goccioline calde sulla faccia. Sento l’odore ferroso del sangue. Sento in bocca quel sapore di ferro e di sale e con uno sforzo di volontà respingo il ricordo. Scaccio Dawn Kincaid dalla mia mente, la allontano dai miei pensieri, mentre seguo le tracce di sangue nel corridoio. Impronte parziali di piedi, gocce, strisciate e sbavature sul parquet di abete. Impronte di piccole mani e macchie che sembrano pennellate lasciate da indumenti e capelli insanguinati nella parte bassa dei muri bianchi, all’altezza della balaustra, poi una costellazione di puntini rossi, come se la vittima fosse stata colpita lì, e altre macchie più estese, schizzi di sangue arterioso, una ferita mortale a cui la bambina non può essere sopravvissuta più di qualche minuto. La carotide è stata recisa, del tutto o in parte, con ogni probabilità da dietro, perché l’assassino inseguiva la vittima. Poi gli spruzzi di sangue arterioso spariscono, come se fossero evaporati. Altre gocce e una serie di macchie confuse sulle scale, fino a una pozza più ampia che comincia a coagularsi sotto un cadaverino rannicchiato in posizione fetale vicino alla porta di casa. Capelli biondi arruffati, un pigiama rosa di SpongeBob. Il pavimento della cucina è di piastrelle bianche e nere disposte a scacchiera, con alcune impronte parziali lasciate da scarpe sporche di sangue, e nel lavello bianco ci sono un residuo di sangue e due strofinacci insanguinati appallottolati. Sul bancone c’è un piatto di porcellana con gli avanzi di un sandwich, macchie e strisciate di sangue da tutte le parti e, lì vicino, un pezzo di formaggio giallo e un pacchetto di prosciutto cotto aperto. In un ingrandi-
mento dell’impugnatura di un coltello si notano altre macchie di sangue. Mi accorgo che Marino si sta alzando. Sento un trillo, acuto e pulsante. Pane bianco, barattoli di senape e maionese lasciati in giro, due bottiglie vuote di birra Sam Adams. Nel bagno degli ospiti, gocce di sangue e impronte di scarpe sul marmo grigio. Asciugamani di lino color pesca insanguinati e ammucchiati vicino al lavabo, un flacone di sapone liquido alla lavanda rovesciato, coperto di ditate rossastre. C’è un portasapone a forma di conchiglia pieno d’acqua mista a sangue con una saponetta dentro, e poi il WC, dove non è stato tirato lo sciacquone. Continuo a sfogliare i documenti, cercando i risultati delle analisi dattiloscopiche. “Dove sono i referti delle analisi di laboratorio? Colin me li ha dati?” Li trovo. L’esame delle impronte digitali è stato eseguito dal Georgia Bureau of Investigation. Le impronte sul flacone di sapone liquido e sul coltello da cucina sono della stessa persona, che non è stata identificata. Non c’erano riscontri nel database dello IAFIS ed è strano che non ci siano stati neppure nove anni dopo, nel febbraio scorso, quando sono state prese le impronte a Dawn Kincaid al momento dell’arresto. Le impronte non identificate sul flacone del sapone e sul manico del coltello di casa Jordan dovrebbero essere ancora nel database dello IAFIS. Perché non è emersa la corrispondenza quando sono state immesse nel sistema le impronte di Dawn Kincaid? Come mai i test del DNA effettuati da due diversi laboratori la incriminano, ma le impronte non corrispondono? «C’è qualcosa che non quadra» borbotto sfogliando altre pagine e guardando altre foto. Una scala stretta sul retro della casa, il pavimento di cotto della veranda chiusa, altre gocce di sangue e un righello di plastica bianca posato accanto alle macchie scure per misurarle. Sette primi piani di gocce sparse sul pavimento color mattone. Sono rotonde, con i margini leggermente frastagliati e il diametro di un millimetro o poco più. Sono cadute con un’angolazione di circa novanta gradi da qualcosa che si muoveva a velocità medio-bassa. Ogni gocciolina è circondata da altre più piccole, schizzate tutto intorno quando la goccia ha impattato sul pavimento, che è liscio, piatto e duro. Seguo le tracce di sangue fino all’esterno, in un giardino cresciuto sulle fondamenta di quella che doveva essere una vecchia dépendance, con resti di muri in pietra incorporati nel paesaggio e un avvallamento centrale pieno di piante che penso corrisponda a una vecchia cantina sotterranea. Statue grigie, con parti verdi di muffa: un Apollo, un angelo che regge un mazzo di fiori, un bambino con una lanterna e una bambina con un uccellino. Gocce di sangue secco sull’erba e sulle foglie di camelie, osmanto odoroso e bosso. Poi ci sono altre macchie scure, più vicine tra loro, sui sassi di quello che forse in primavera era un giardino roccioso pieno di fiori. Sto attenta a non trarre conclusioni affrettate, a non trovare a tutti i costi una spiegazione.
Non bastano poche gocce per capire, ma non credo che questo sangue sia gocciolato da un oggetto o sia stato proiettato da qualcosa che veniva spostato avanti o indietro. Non proviene da scarpe sporche di sangue e non credo sia colato dai vestiti o dall’arma del delitto. È troppo per essere il risultato dei graffi di una bambina. Le sette gocce sul pavimento di cotto sono tonde, a quarantacinque centimetri l’una dall’altra; una è sbavata, come se qualcuno ci avesse messo sopra un piede. Immagino una persona, uomo o donna, che sanguina mentre attraversa la veranda per andare verso la porta di servizio e uscire in giardino, o che invece va nella direzione opposta. Forse questa persona che sanguinava è andata verso la casa, è entrata e non uscita. Nei documenti che ho visto finora non si fa riferimento a questo elemento importante. Jaime non me ne ha parlato, ieri sera, e neanche Marino. All’improvviso sento delle voci. Alzo gli occhi e mi concentro su dove mi trovo. Marino è in piedi sulla soglia con Mandy O’Toole. Dietro di loro Colin Dengate, con un’espressione strana in viso, si tiene il cellulare premuto sull’orecchio. «... Ti stanno ascoltando? Perché non voglio che continui a chiamarmi. Non intendo ripetermi. Digli da parte mia che me ne frego di cosa vogliono fare. Non devono toccare assolutamente niente... Sì, pronto? Esatto. Non sai se per caso uno di loro... se magari una delle guardie ha... Dobbiamo sempre tenerne conto, a parte il fatto che non capiscono un accidente di come si lavora sulla scena di un crimine» sta dicendo Colin. Sicuramente sta parlando con Sammy Chang, l’investigatore del GBI alle cui chiamate ha abbinato la suoneria con il tricorder di Star Trek. Ho sentito il trillo poco fa. «D’accordo, va bene... Sì, certo. Entro un’ora... Sì, me lo ha detto.» Colin mi guarda come se si stesse riferendo a me. «Capisco. Glielo chiederò... E no. Te lo ripeto per la terza volta, la direttrice non deve metterci piede.» Mi alzo dalla sedia. Colin chiude la telefonata e mi dice: «Kathleen Lawler. Credo che dovresti venire con me. Dal momento che ci sei appena stata, potresti essermi d’aiuto». «Dov’è che sono appena stata?» Ma ho capito. Colin si rivolge a Mandy O’Toole. «Prendi le mie cose e vedi se il dottor Gillan può occuparsi della vittima dell’incidente stradale. Dovrebbe arrivare a momenti. Potresti dargli una mano tu. Se puoi, dai anche un’occhiata alla madre della vittima. È tutta la mattina che aspetta in sala d’attesa, poveraccia. Volevo farlo io, ma ora non posso. Offrile qualcosa da bere, un po’ d’acqua, una bibita, non so. Quel cretino della stradale le ha detto di venire qui per identificarlo, ma a quanto ho capito non possiamo farglielo vedere così.» 025_chapter19
19 Colin Dengate, al volante della sua vecchia Land Rover, mette la quarta e il motore ruggisce come un leone affamato. Viaggiamo a velocità sostenuta su una striscia di asfalto nascosta in mezzo a un bosco impenetrabile; la strada curva bruscamente fra i pini, poi prosegue diritta fino a sbucare in un tratto aperto, pianeggiante, con tanti palazzi sotto il sole cocente: il Coastal Regional Crime Laboratory è nascosto e lontano dalla civiltà come la Batcaverna. Mentre il vento caldo fa sbatacchiare rumorosamente il tettuccio di tela verde, Colin ci dà una serie di informazioni molto dettagliate. Ciò mi sorprende, visto che Kathleen Lawler era sola nelle ultime ore della sua vita. Le altre detenute possono averla sentita, ma non l’hanno vista quando è morta nella sua cella, probabilmente per un attacco di cuore. Così ha riferito l’agente M.P. Macon all’investigatore Sammy Chang, prima ancora che questi arrivasse sul posto. Quando l’hanno chiamato, al GPFW avevano già stabilito che la morte di Kathleen era uno di quei tristi eventi attribuibili, con ogni probabilità, alla temperatura estiva del Lowcountry. Un colpo di calore. Un infarto. Il colesterolo troppo alto. Kathleen si era sempre trascurata, hanno detto a Chang. Secondo l’agente Macon, Kathleen non aveva dato segni di sofferenza né aveva riferito nulla di insolito. Non stava male né era di cattivo umore quando le era stato passato attraverso lo sportello nella porta della sua cella, alle cinque e quaranta del mattino, il vassoio della prima colazione con uova, semolino di mais, pane bianco tostato, un’arancia e un quarto di litro di latte. Anzi, era sembrata allegra e loquace, aveva riferito l’agente di custodia che le aveva consegnato il pasto e che più tardi era stato interrogato da Macon. «Pare che Kathleen abbia chiesto cosa bisognava fare per avere un’omelette con peperoni e crocchette di patate. Era in vena di scherzare» dice Colin. «Sembra che negli ultimi tempi pensasse sempre a mangiare, ancor più del solito. Sammy ha avuto l’impressione, da quello che gli è stato riferito, che fosse convinta di non dover rimanere ancora a lungo al GPFW. Forse fantasticava sui suoi piatti preferiti perché immaginava già di poter mangiare tutto ciò che desiderava. È una sindrome che mi è già capitato di osservare. Rimuovi tutto ciò che ti è vietato finché non ti convinci che sia ormai a portata di mano e a quel punto cominci a non pensare ad altro. Cibo. Sesso. Alcol. Droga.» «Probabilmente tutte queste cose insieme, nel suo caso» sentenzia Marino con il suo vocione dal sedile posteriore. «Credo che Kathleen sperasse in un condono imminente, visto che era molto collaborativa» dico a Colin mentre scrivo un SMS a Benton. «Si aspettava una riduzione della pena, pensava di tornare in libertà.» Spiego a Benton che forse non riuscirà a mettersi in contatto con noi quando arriverà a Savannah con Lucy, perché sto andando sulla scena di un crimine. Gli dico anche chi ri-
guarda. Gli chiedo di farmi sapere al più presto se ci sono novità su Dawn Kincaid e sul suo presunto attacco d’asma. «Qualcuno ha avvertito Jaime Berger che non riuscirà a smuovere i procuratori e i giudici di qui?» Colin guarda nello specchietto retrovisore, rivolgendosi a Marino. «Non sento bene in questa galleria del vento» risponde Marino ad alta voce. «Be’, non credo che vorrai chiudere i finestrini» gli urla Colin. «A parte quel che può fare lei personalmente, non sottovaluterei il potere delle proteste organizzate, soprattutto di questi tempi, con Internet.» Ricordo a Colin quanti danni può fare Jaime Berger. «È capacissima di lanciare una campagna di sensibilizzazione sociale e politica, tipo quella che c’è stata ultimamente in Mississippi, quando gruppi di attivisti per i diritti umani e civili sono riusciti a far sospendere la sentenza alle due sorelle condannate all’ergastolo per rapina.» «È ridicolo» commenta Colin disgustato. «Chi si becca l’ergastolo per rapina?» «Non sento un accidente qui dietro.» Marino, dal sedile posteriore, si sporge in avanti tutto sudato. «Mettiti la cintura» gli dico mentre il vento caldo entra dai finestrini aperti e il motore romba come se la Land Rover, stufa di viaggiare su una strada asfaltata, avesse voglia di attraversare un deserto o arrampicarsi su per uno sterrato. Procediamo veloci, siamo già sulla 204 East e stiamo passando davanti al Savannah Mall, diretti verso il fiume Forest e il Little Ogeechee, una zona di paludi e di sterminate boscaglie. Il sole è esattamente sopra le nostre teste, la luce è abbagliante come quella di un flash e il riverbero sul muso squadrato della Land Rover bianca e sui parabrezza delle altre macchine ci acceca. «Quello che voglio dire è che Jaime è capacissima di aizzare i media e far passare la Georgia per una roccaforte di barbari intolleranti» spiego a Colin. «Ci sguazzerebbe, penso. E dubito che a Tucker Ridley o al governatore Manfred farebbe piacere.» «Ormai non ha più importanza» ribatte Colin. «È irrilevante.» Ha ragione, è irrilevante, per lo meno nel caso specifico: Kathleen Lawler non otterrà la sospensione della pena e nemmeno una riduzione. Non assaggerà mai più il cibo del mondo libero. «Stamattina alle otto è stata accompagnata in cortile per l’ora d’aria» dice Colin. Poi mi spiega che durante l’estate l’ora destinata all’attività fisica viene concessa al mattino presto. Sembra che Kathleen camminasse più lentamente del solito, fermandosi spesso a prendere fiato e lamentandosi del caldo. Era stanca e con quell’afa faceva fatica a respirare; quando è stata riaccompagnata in cella pochi minuti dopo le nove, si è lamentata con le altre detenute che il caldo l’aveva sfinita e che avrebbe fatto meglio a non uscire. Nelle due ore
successive, ha continuato a lamentarsi che non si sentiva bene, era esausta, faceva fatica a muoversi e aveva l’affanno. Temeva di non aver digerito la colazione e diceva che non avrebbe dovuto camminare con quel caldo e quell’umidità che “sarebbero bastati per ammazzare un cavallo”. Verso mezzogiorno ha lamentato dolori al petto e ha espresso il timore che si trattasse di un infarto. Poi ha smesso di parlare e le detenute delle celle vicine hanno cominciato a urlare e a chiedere aiuto. Quando la cella è stata aperta, alle dodici e un quarto circa, Kathleen era riversa sul letto. Non sono riusciti a rianimarla. «Sono d’accordo che quello che ti ha detto è strano» osserva Colin destreggiandosi nel traffico come se dovessimo correre da qualcuno a cui possiamo ancora salvare la vita. «Ma è impossibile che una detenuta nel braccio della morte abbia potuto farle qualcosa.» Si riferisce al fatto che Kathleen Lawler sosteneva di essere stata trasferita nel Blocco B a causa di Lola Daggette e mi ha confidato di avere paura di lei. «Mi limito a riferire quello che mi ha detto ieri» ribatto. «Sul momento non l’ho presa sul serio. Non capivo come potesse Lola Daggette mettere in pratica le sue minacce, sempre che sia vero che la minacciava, ma Kathleen sembrava convinta che Lola intendesse farle del male.» «La tempistica è bizzarra, ma non è la prima volta che vedo succedere una cosa del genere» dice Colin. «Il defunto ha una premonizione, un presagio che tutti trovavano assurdo e poi, all’improvviso, muore veramente.» Anche a me è capitato di sentirmi raccontare dai familiari che il caro estinto aveva fatto un sogno o aveva avuto un presentimento di morte: una premonizione che li avvertiva di non prendere l’aereo o la macchina, non imboccare una certa uscita, non andare a caccia proprio quel giorno, o addirittura a fare una passeggiata o una corsa. Succede di sentire storie di questo tipo, oppure che la vittima aveva dato raccomandazioni e istruzioni in previsione di una fine violenta, indicando persino il colpevole. Tuttavia non riesco a togliermi dalla testa i discorsi di Kathleen Lawler né a liberarmi dal sospetto di non essere l’unica a cui li ha fatti. Se la nostra conversazione è stata registrata di nascosto, non sono l’unica al corrente delle sue lamentele riguardo l’inammissibile ingiustizia di un trasferimento in un reparto dove il pericolo incombeva su di lei come una spada di Damocle, come mi ha detto meno di ventiquattro ore fa. «Mi ha parlato anche del fatto che il Blocco B è isolato e, se le guardie le avessero fatto del male, nessuno avrebbe potuto testimoniare» dico a Colin. «Si sentiva più vulnerabile dopo il trasferimento in quel reparto di massima sicurezza. Sembrava sincera, non necessariamente razionale, ma convinta di quello che diceva. Insomma, non ho avuto la sensazione che lo dicesse per impressionarmi.»
«È questo il problema con le detenute, soprattutto quelle che hanno passato quasi tutta la vita in carcere. Sono credibili. Sono talmente manipolatrici che non si tratta nemmeno più di manipolazione, almeno dal loro punto di vista» replica Colin. «Sostengono che qualcuno ce l’ha con loro, vuole abusare di loro, fare loro del male, ucciderle. E, ovviamente, che non sono colpevoli e non meritano di stare in galera.» Quando lasciamo Dean Forest Road e svoltiamo, passando davanti allo stesso gruppo di negozi dove mi sono fermata ieri a telefonare, chiedo chiarimenti sulle gocce di sangue nelle foto che stavo esaminando quando ha chiamato Sammy Chang. Colin e Marino sono al corrente della presenza di macchie di sangue nella veranda e nel giardino dei Jordan? Qualcuno aveva perso sangue mentre si allontanava dalla casa, uscendo dalla proprietà attraverso il giardino verso East Liberty Street. O forse si era ferito in giardino e aveva lasciato quelle gocce per terra rientrando in casa. Siccome non erano state rimosse, mi viene da pensare che quel sangue fosse finito lì durante la strage. «Una serie di gocce a distanza regolare» spiego. «Lasciate da qualcuno che perdeva sangue in posizione eretta e che si muoveva, forse entrando o uscendo dalla casa. Come quando ci si ferisce a una mano e la si tiene in alto per fermare l’emorragia. Oppure una ferita alla testa, o un’epistassi.» «Strano che tu abbia accennato a una ferita alla mano» dice Colin. «Io non ne so niente.» La voce di Marino mi rimbomba forte nell’orecchio. «Immagino che da queste macchie sia stato prelevato il DNA» riprendo. «Io non so niente di macchie di sangue nella veranda o in giardino» insiste Marino. «Non credo che Jaime abbia quelle foto.» «Che resti tra noi, perché devi ancora leggere i risultati ufficiali dei test sul DNA» dice Colin mentre ripercorriamo la stessa strada che ho fatto ieri. Ormai siamo a pochi minuti dal GPFW. «Si pensa che quelle macchie non abbiano nulla a che vedere con la strage. Stai facendo lo stesso errore che ho fatto anch’io all’epoca: mi sono lasciato fuorviare da un indizio che alla fine non significava niente.» «Le foto sono state scattate durante i sopralluoghi sulla scena del crimine, suppongo.» «Sì, dall’investigatore Long, e fanno parte del dossier, ma non furono presentate come prove al processo» risponde Colin. «Venne stabilito che non erano pertinenti. Non so se hai visto le foto di Gloria Jordan.» «Non ancora.» «Quando le vedrai, noterai che ha un taglio sul pollice della mano sinistra, sulla falange distale. Un taglio recente, che sembra una ferita da difesa. All’inizio mi lasciò perplesso, perché non ce n’erano altre. Venne pugnalata ventisette volte al collo, al petto e alla schiena e le tagliarono la gola. Fu uccisa mentre era a letto e niente indicava che avesse opposto res-
istenza o che si fosse resa conto di quello che stava accadendo. Dall’esame del DNA è risultato che il sangue nella veranda era di Gloria Jordan. Quando lo scoprii, conclusi che si fosse tagliata il pollice in precedenza, e che quel sangue non avesse nulla a che fare con l’omicidio. Succede spesso, ultimamente: trovi sangue, sudore, saliva che non hanno niente a che vedere con il crimine, che risalgono a prima. Sui vestiti, dentro le macchine, in bagno, sulle scale, nel viale di accesso, sulla tastiera del computer.» «La ferita sul pollice era ancora insanguinata quando hai esaminato il cadavere?» chiede Marino mentre passiamo davanti al cimitero di macchine con i suoi cumuli di vetture e camion distrutti. «Cristo, c’era sangue ovunque!» risponde Colin. «Aveva le mani messe così.» Lascia andare il volante e si infila le mani nel colletto. «Forse istintivamente si è portata le mani alla gola dopo che gliel’avevano tagliata, oppure voleva raggomitolarsi in posizione fetale. O forse l’ha messa così l’assassino, che secondo me ha passato un bel po’ di tempo a sistemare i corpi in posizioni umilianti. Fatto sta che aveva le mani completamente coperte di sangue.» «C’era qualcosa in bagno che ti ha fatto pensare che si fosse tagliata in precedenza?» chiede Marino. «No. Ma un vicino dichiarò che il pomeriggio prima della strage la signora Jordan era in giardino, probabilmente a potare le piante» continua Colin, mentre io penso al giardino spoglio dietro la casa dei Jordan e ai rami secchi, ai succhioni e polloni che ho notato poco fa nelle foto. Gloria Jordan non era una brava giardiniera, oppure aveva appena cominciato a potare quando si tagliò il pollice e fu costretta a smettere. «Lo stesso del barboncino?» chiede Marino. «Lenny Casper, il vicino di casa che chiamò la polizia la mattina della strage dopo aver notato che il vetro della porta della cucina era rotto?» «Sì, credo che fosse lui. Se ricordo bene, dalle finestre di casa sua vedeva il giardino dietro la villa e aveva notato che la signora Jordan stava lavorando in giardino il pomeriggio del 5. L’ipotesi più verosimile è che si sia tagliata potando le piante e abbia perso quelle gocce rientrando in casa con il pollice ferito. Penso che tenesse la mano sollevata e che da questo dipenda la configurazione delle macchie che si vedono nelle foto. Il sangue gocciolò sul pavimento della veranda e ne vennero ritrovate tracce anche in corridoio, davanti al bagno degli ospiti.» «È possibile» replico dubbiosa. «La ferita era chiaramente precedente alla morte» aggiunge. «Si vede dalle foto e lo dimostra l’esame istologico. Quando se l’è fatta, c’erano ancora pressione sanguigna e reazione tissutale.»
«Capisco» rispondo, ma ho i miei dubbi. «Perché non si mise un cerotto, una benda, una fasciatura, però?» «Non lo so. Anche a me sembrò strano. Ma la gente fa un sacco di cose strane.» «Forse voleva che la ferita prendesse aria» grida Marino. «C’è gente che fa così.» «Era sposata con un medico, che avrà ben saputo che le infezioni sono la complicanza più comune di una ferita aperta» rispondo. «Anzi, se non aveva fatto l’antitetanica da poco e si era tagliata con un attrezzo da giardino, avrebbe dovuto pensare anche a questo.» «Non c’è altra spiegazione logica per quelle macchie in veranda e in giardino» dice Colin. «Era sangue di Gloria Jordan. Quindi deve essere successo qualcosa che l’ha fatta sanguinare prima dell’omicidio, che è avvenuto con ogni probabilità mentre dormiva. Sia lei sia il marito avevano in corpo un ansiolitico, un sedativo. Clonazepam, che viene prescritto contro l’ansia e le crisi di panico, oppure come miorilassante. C’è chi lo prende per dormire» spiega, a beneficio di Marino. «La speranza è che i Jordan non si siano accorti di niente.» «La tua teoria è che il marito fu ucciso per primo, vero?» chiedo. «Non c’è modo di stabilire in che ordine furono uccisi, ma la logica vorrebbe che l’assassino abbia ucciso prima lui, poi lei e per ultimi i bambini.» «Il marito viene pugnalato a morte e lei, che è a fianco, non si sveglia? Dovevano averne preso parecchio, di clonazepam» commento. «Immagino sia accaduto tutto molto in fretta. Un attacco fulmineo» dice Colin. «E le scarpe? Se quel pomeriggio era entrata in casa con un dito che sanguinava, è probabile che le fosse gocciolato del sangue sulle scarpe che portava. Qualcuno ha pensato a controllare se c’erano scarpe sporche di sangue?» «Sei veramente fissata con le scarpe» dice Marino, dietro di me. «Dato che aveva indosso solo la camicia da notte ed era scalza quando è stata uccisa, non credo che qualcuno si sia interessato alle scarpe» replica Colin. «Il pomeriggio prima della strage sporcò di sangue il pavimento della veranda e del corridoio e lo lasciò lì? In tutta la serata nessuno pensò a pulirlo?» chiedo, mentre passiamo davanti alla serra con piante e alberelli nei vasi. «È probabile che non usassero molto la veranda durante l’inverno. Il pavimento era di cotto, rosso scuro, e quello del corridoio era di legno scuro. Forse non se ne accorse, oppure si dimenticò» dice. «Quel che so per certo è che il DNA era suo. Il sangue era di Gloria Jordan» continua Colin. «Sei d’accordo che non può aver perso sangue al pianterreno e in giardino durante la notte, quando è avvenuta la strage? Tutto indica che non si alzò nemmeno dal letto.» «Sono d’accordo che sarebbe insolito se avesse sanguinato nella veranda e in giardino e poi fosse tornata a letto a farsi accoltellare da uno sconosciuto che si era introdotto in casa e
stava uccidendo tutta la famiglia» replico, e intanto penso ai rischi che si corrono quando si chiude un’indagine ancora prima di averla aperta perché si è convinti di aver già preso l’assassino. Quando Lola Daggette fu sorpresa a lavare indumenti insanguinati nella doccia della comunità di recupero, fu fin troppo facile concludere che era stata lei. Che senso avrebbe avuto dubitarne? Il sangue sul pavimento della veranda, il taglio sul pollice di Gloria Jordan, l’allarme non inserito e le impronte sconosciute persero importanza. La versione di Lola era inverosimile, il suo alibi campato in aria: il caso fu chiuso, venne celebrato il processo e l’assassina venne condannata a morte. Inutile porsi altre domande quando si hanno già tutte le risposte. 026_chapter20
20 Prendiamo dalla Land Rover le valigette e gli indumenti protettivi e ci incamminiamo lungo il viale di cemento fra aiuole e cespugli fioriti inondati di luce. Al posto di guardia nella palazzina che ospita gli uffici e la direzione, troviamo ad aspettarci Tara Grimm e l’agente Macon. «Brutto momento» dice la direttrice, cupa e sconsolata. Non sorride. Tiene le labbra serrate e mi rivolge un’occhiata ostile. Se ieri indossava un elegante abito nero, oggi è sciatta: tailleur azzurro, camicia a fiori annodata sul collo e sandali bassi. «Ha accompagnato il dottor Dengate» mi dice in un tono che mi sembra deluso. «Credevo fosse tornata a Boston.» Aveva dato per scontato che fossi ripartita e le leggo negli occhi che sta rivalutando la situazione, come se la mia presenza qui oggi cambiasse qualcosa di importante. «Il mio investigatore capo» dico presentandole Marino. «Come mai a Savannah?» Tara Grimm non cerca neppure di essere educata. «Sono venuto a pescare.» «Pescare cosa?» «Besughi, principalmente.» Se la direttrice coglie la battuta, non lo dà a vedere. «Be’, vi siamo molto grati dell’attenzione e del tempo che ci state dedicando» dice a Colin, mentre Macon e due suoi colleghi ispezionano valigette e attrezzature. Quando arrivano agli indumenti protettivi, Colin li interrompe. «Quelli non li potete toccare» dice. «A meno che non vogliate che il vostro DNA finisca ovunque e presumo che non sia il caso, visto che non sappiamo per certo come sia morta questa signora.» «Lasciateli passare» ordina la direttrice, in un tono da comandante militare. «Lei venga con me» dice poi a Macon. «Li accompagniamo nel Blocco B.» «Dovrebbe già esserci anche Sammy Chang del Georgia Bureau of Investigation» dice Colin. «Sì, c’è un agente che sta già controllando la cella. Mi pare si chiami così. Come volete procedere?» chiede a Colin, cambiando completamente tono, come se fossimo in visita di piacere, e ignorandomi del tutto. «In che senso?» La prima porta si apre e si richiude con un clangore metallico. Poi si apre anche la seconda. Macon ci precede, parlando via radio con quelli del controllo centrale. «Possiamo provvedere noi al trasporto fino alle vostre strutture» propone Tara Grimm. «Preferisco che lo facciamo noi. Per semplicità» replica Colin. «Sta venendo qui un mezzo.»
Percorriamo un corridoio che sembra un labirinto, perché specchi convessi montati in alto sui muri riflettono ogni angolo, ogni porta chiusa, ogni incrocio con un altro corridoio, rimandando un paesaggio di cemento grigio e metallo verde. Usciamo nel calore soffocante del pomeriggio e vediamo donne vestite di grigio che si muovono a gruppetti nel cortile, come ombre silenziose. Alcune strappano le erbacce dalle aiuole, sotto alcuni alberi di mimosa. Noto tre levrieri accucciati nell’erba con la lingua di fuori. Le detenute ci guardano con la faccia scura e io penso che ormai la voce che Kathleen Lawler è morta deve essersi sparsa in tutti i bracci. Era molto conosciuta al GPFW ed è morta solo due settimane dopo un trasferimento nel reparto di massima sicurezza, che si diceva motivato dal pericolo che qualcuna di loro le facesse del male. «Non restano fuori tanto» mi dice Tara Grimm, mentre Macon apre il cancello del Blocco B. Capisco solo dopo un po’ che sta parlando dei cani. «Con questo caldo, è meglio che stiano dentro. Li portiamo fuori solo quando devono fare i loro bisogni.» Penso a quanto possa essere problematico in un carcere portare fuori un cane che dà segni di dover uscire. «Naturalmente reggono abbastanza bene il caldo, avendo il muso lungo ed essendo di corporatura snella. Non hanno sottopelo e possiamo immaginare il caldo alle corse. Insomma, se la cavano piuttosto bene, ma bisogna stare attenti» continua, come se l’avessi accusata di trattare male i levrieri. Le chiavi appese a una lunga catena al cinturone di Macon tintinnano quando apre la porta del Blocco B. Entriamo in quel triste reparto tutto grigio e quando passiamo davanti al posto di guardia al primo piano, protetto da specchi, sento che l’atmosfera è carica di tensione e immagino le guardie che ci osservano non viste. Invece di girare a sinistra, verso la saletta per le visite in cui sono andata ieri, andiamo a destra, superiamo la cucina di acciaio inossidabile, deserta, e poi la lavanderia, con file e file di grandi macchine industriali. Superata un’altra pesante porta di metallo, entriamo in una sala vuota, con tavoli e sgabelli inchiavardati al pavimento di cemento. Al piano rialzato, accessibili da una passerella di metallo, ci sono le celle di massima sicurezza, con porte verdi dotate di un’apertura. Dietro ognuna c’è una faccia che osserva. Le detenute ci guardano curiose e a un certo punto, come se si fossero messe d’accordo, cominciano a prendere a calci le porte, facendo un baccano tremendo. Per un attimo mi pare che siano i cancelli dell’inferno. «Porca merda» impreca Marino. Tara Grimm rimane immobile e alza la testa, spostando gli occhi lungo la passerella fino alla porta direttamente sopra l’ingresso che abbiamo appena varcato. Il volto dietro le sbarre è pallido e da dove sono io, al piano di sotto, non riesco a vederlo bene. Noto che la detenuta ha lunghi capelli castani, lo sguardo spiritato, la bocca piegata all’ingiù. Poi dalla finestrella
spunta una mano e mostra il dito medio alla direttrice. «Lola» dice Tara Grimm, reggendo lo sguardo di Lola Daggette, mentre i colpi contro le porte di metallo continuano. «Cara, dolce Lola, ingiustamente detenuta» aggiunge, aspra. «Così vi conoscete. Lola, la povera innocente che alcuni ritengono dovrebbe tornare nel mondo civile.» Passiamo davanti a una porta con la finestrella oscurata, poi vicino a un carrello di libri della biblioteca fermo accanto a un tavolo di metallo su cui è disposto un puzzle di Las Vegas non ancora finito, con i pezzi ordinatamente impilati. Macon apre un’altra porta facendo tintinnare le chiavi e appena la varchiamo il clamore si placa e torna il silenzio. Ci sono sei porte per ogni lato, separate dal resto del reparto. Dai lucchetti di acciaio lucido penzolano sacchetti di plastica bianchi e le facce dietro le sbarre sono più o meno giovani, ma tutte cariche di una tensione che mi fa pensare ad animali pronti ad attaccare di fronte a un pericolo che li terrorizza. Quelle detenute vogliono uscire. Vogliono sapere che cosa è successo. Sento la loro rabbia, la loro paura. Mi sembra quasi di sentirne l’odore. Macon ci fa strada verso una cella in fondo, l’unica dietro la cui finestrella non c’è nessuno, l’unica con la porta socchiusa. Marino comincia a distribuire gli indumenti protettivi e noi iniziamo a preparare le attrezzature e le macchine fotografiche. Dentro la cella di Kathleen Lawler, più piccola di un box per cavalli, l’investigatore Sammy Chang del Georgia Bureau of Investigation sta studiando un bloc-notes che deve aver preso fra i libri e i quaderni sistemati su due scaffali di metallo verniciati di grigio. Lo sfoglia con le mani protette dai guanti. È coperto di Tyvek bianco dalla testa ai piedi, con quella che Marino chiama “la tenuta da astronauta” perché lui, quando ha cominciato, usava solo i guanti e una ditata di Vicks sotto il naso. Gli occhi scuri di Chang si posano prima su Marino, poi su di me e quindi su Colin Dengate. «Ho fotografato quasi tutto» dice. «Non so cosa possiamo fare di più, realisticamente, visto il viavai.» Si riferisce al fatto che nella cella di Kathleen sono passate guardie e altri dipendenti del carcere e che prima di lei vi sono state rinchiuse innumerevoli altre detenute, pertanto prelevare impronte ed effettuare altri controlli di routine non servirà a granché. La scena del crimine è stata contaminata. Le morti in carcere sono simili a quelle in casa: se l’assassino aveva regolarmente accesso al luogo in cui si è consumato il delitto, impronte e DNA hanno un significato relativo. Chang sta attento a quello che dice, perché non vuole esprimere apertamente il sospetto che, se dietro la morte di Kathleen Lawler c’è qualcuno che lavora al GPFW, difficilmente riusciremo a identificarlo dagli indizi che raccoglieremo durante il sopralluogo. Non vuole dire davanti a Macon e a Tara Grimm che la sua presenza qui è più che altro finalizzata a evitare
che qualcuno distrugga o occulti eventuali prove. Naturalmente potrebbe essere arrivato troppo tardi: non sappiamo quanto tempo sia passato fra la morte di Kathleen Lawler e la telefonata al GBI e all’Istituto di medicina legale. «Non ho toccato il corpo» dice Chang a Colin. «Quando sono arrivato qui, alle tredici, era così. Mi è stato detto che era morta da un’ora circa, ma la tempistica che mi è stata fornita non è del tutto chiara.» Kathleen Lawler è stesa sopra le lenzuola grigie e spiegazzate, sulla branda di acciaio attaccata al muro come uno scaffale, sotto una stretta finestrella protetta da una rete metallica. Mezza sulla schiena e mezza sul fianco, ha gli occhi socchiusi, la bocca aperta e le gambe oltre il bordo del materasso sottile. Ha i calzoni dell’uniforme da carcerata sopra le ginocchia e la camicia bianca sopra il seno. Forse l’hanno svestita i soccorritori che hanno cercato inutilmente di rianimarla, o forse si è ridotta così prima di morire, dibattendosi in cerca di una posizione in cui il dolore si placasse. «Le è stato fatto il massaggio cardiaco?» chiedo a Tara Grimm. «Certamente! Abbiamo provato tutto il possibile. Ma non c’era più nulla da fare. È morta in pochissimo tempo.» Mentre io, Marino e Colin ci infiliamo la tuta bianca, noto che la detenuta della cella di fronte ci guarda. Ha un faccione imponente, la bocca piccola e una gran testa di capelli ricci e grigi. Appena la guardo, comincia a parlare da dietro la porta chiusa. «Col cazzo che ci ha messo pochissimo tempo!» esclama. «Ho dovuto gridare per mezz’ora prima che si facesse vedere qualcuno. Mezz’ora! Insomma, era lì che non riusciva a respirare, io la sentivo, gridavo, e nessuno veniva. Rantolava e diceva: “Non respiro, non respiro, vedo tutto nero! Aiuto! Aiuto!”. Trenta minuti d’orologio! Poi basta. Zitta, non mi risponde più. E io urlo con tutta la voce che ho per chiamare qualcuno...» Con tre passi veloci, Tara Grimm si para davanti alla porta della cella e batte le nocche sul vetro. «Calmati, Ellenora, per cortesia.» Dal modo in cui glielo dice, deduco che Ellenora fino a quel momento non aveva ancora detto niente. Tara Grimm sembra sinceramente sorpresa e arrabbiata. «Lascia fare il loro lavoro a queste persone. Quando te lo chiederanno, dirai tutto quello che hai visto» dice alla detenuta. «Mezz’ora minimo! Come mai ci hanno messo tutto quel tempo? Sanno che una sta morendo? Peggio per lei. C’è un incendio, un allagamento, mi va un osso di pollo per traverso? Peggio per me» mi dice Ellenora. «Per favore, smettila, Ellenora. Quando verremo da te, ci dirai tutto quello che hai visto.» «Quello che ho visto? Niente di niente ho visto. Mica la potevo vedere! Gliel’ho già detto, a lei e a quegli altri: io non ho visto un fico secco.»
«Va bene, va bene» replica Tara Grimm con condiscendenza. «Hai già dichiarato di non aver visto niente. Hai cambiato idea, adesso?» «Non ho visto niente perché non potevo vedere niente! Non è che stava in piedi e guardava dalla finestra. Non riuscivo a vederla ed era ancora peggio, perché la sentivo che stava male, che rantolava e chiedeva aiuto. Faceva certi versi da far accapponare la pelle! Una muore e non viene nessuno. Non è che abbiamo un pulsante da suonare se ci capita qualcosa. No, ci lasciano morire nelle nostre celle» continua, sempre rivolta a me. «Ci lasciano crepare!» Mi guarda con gli occhi sbarrati. «Dovremo trasferirti in un’altra cella se non la smetti» la avverte Tara Grimm. Mi rendo conto che non sa cosa fare. Non si aspettava una scenata del genere. Penso che Ellenora sia stata un po’ infida, com’è la maggior parte dei detenuti. La prima volta che l’hanno interrogata, si è comportata bene apposta per aspettare che ci fossimo noi e fare esattamente quello che sta facendo. Se si fosse messa a strepitare prima, Tara Grimm l’avrebbe già trasferita altrove, magari in una delle celle destinate alle pazienti psichiatriche. Vedo Colin che entra nella cella strisciando i copriscarpe per terra. Marino apre le valigette sul pavimento di cemento e controlla le macchine fotografiche. Mi appoggio al muro per calzare i copriscarpe sugli anfibi neri con la suola pesante. Mi infilo i guanti, sentendomi osservata da Ellenora. Dev’essere spaventata, al limite dell’isteria. Tara Grimm le bussa di nuovo sul vetro, per zittirla prima che si metta di nuovo a parlare. Ellenora fa una smorfia spaventata nel vedere avvicinarsi la mano della direttrice. «Perché dici che non riusciva a respirare?» domanda Tara Grimm a voce alta, a beneficio nostro. «Lo dico perché è vero. Me l’ha detto lei» risponde la detenuta da dentro la cella. «Aveva male dappertutto, si sentiva debole. Talmente debole che non riusciva più a muoversi. E rantolava. Gridava: “Non riesco a respirare. Non capisco cosa mi sta succedendo”.» «In genere, se uno non riesce a respirare non parla. Non è che hai capito male? Come si fa a gridare se non si riesce a respirare? Tanto più che le porte sono pesanti, di metallo. Per gridare bisogna avere i polmoni pieni d’aria» spiega Tara Grimm, in maniera che io la senta. «Diceva che non riusciva a parlare! Che faceva fatica a parlare! Che si sentiva la gola gonfia!» replica Ellenora. «Be’, mi sembra una contraddizione: se non riesci a parlare, non parli.» «L’ha detto! Lo giuro su Dio!» «Dire che non si riesce a parlare è come correre a chiedere aiuto perché non si riesce a stare in piedi.»
«Lo giuro su Dio! Su Gesù Cristo! Ha detto così.» «Non ha senso» insiste Tara Grimm. «Adesso cerca di calmarti, Ellenora. Smettila di gridare, per favore. Se ti faccio una domanda, mi devi rispondere senza fare scene e senza alzare la voce.» «Sto dicendo la verità. Mi dispiace se è terribile!» Ellenora è sempre più agitata. «Chiedeva aiuto. È la cosa più tremenda che mi è mai capitata in vita mia. “Non vedo più niente! Non riesco a parlare. Sto morendo! Oh, cazzo, non ce la faccio più!”» «Basta così, Ellenora.» «Ha detto esattamente così. Rantolava e chiedeva aiuto. “Aiutatemi, per favore!” Terrore. Terrore allo stato puro. Implorava aiuto. “Oddio, cosa cazzo mi succede? Per favore, qualcuno mi aiuti!”» Tara Grimm batte di nuovo sul vetro. «Basta parolacce, per cortesia.» «L’ha detto lei, mica io. Io non ho detto niente. Diceva: “Aiutatemi, cazzo! Devo essermi beccata qualcosa!”.» «Mi chiedo se non avesse qualche allergia, magari alimentare, o alle punture di insetto» mi dice la direttrice. «Vespe, api. Allergie che non ci ha comunicato di avere. Potrebbe averla punta un insetto durante l’ora d’aria. Non so, mi è venuto in mente adesso. Con questo tempo caldo e umido, nel periodo della fioritura, ci sono parecchie vespe da queste parti.» «Le crisi anafilattiche per una puntura di insetto o per l’assunzione di alimenti come crostacei e arachidi in genere sono immediate» replico. «Invece mi sembra che qui non sia stata questione di minuti.» «È stata male almeno un’ora e mezza!» grida Ellenora. «Com’è che ci avete messo tutto ’sto tempo ad arrivare?» «L’ha sentita vomitare?» Guardo Ellenora attraverso il vetro spesso. «Pensa che abbia vomitato o avuto scariche di diarrea?» «Non le so dire se ha vomitato o no, ma diceva che le faceva male lo stomaco. Io non l’ho sentita vomitare e nemmeno tirare l’acqua. Gridava che l’avevano avvelenata!» «Adesso sarebbe stata avvelenata» dice Tara Grimm, lanciandomi un’occhiata come a dire che la fonte di questa informazione è totalmente inaffidabile. Ellenora è agitata, strabuzza gli occhi. «L’ha proprio detto: “Mi hanno avvelenato! È stata Lola! È stata Lola! È la merda che ho mangiato!”.» «Adesso, per favore, smettila davvero» ordina Tara Grimm. Io entro nella cella di Kathleen Lawler. «Non voglio più sentire parolacce» sento che dice la direttrice alle mie spalle. «C’è gente.» 027_chapter21
21 Nello specchio di acciaio di cui Kathleen Lawler si lamentava ieri durante il nostro colloquio, vedo muoversi il riflesso dell’investigatore Sammy Chang. Si ferma sulla soglia della cella. «Sto qua fuori, così ti lascio lo spazio per muoverti» mi dice. Gabinetto e lavabo sono compresi in un’unica unità di acciaio inossidabile senza parti mobili, tranne i comandi dello sciacquone e del rubinetto. Non vedo niente che indichi che Kathleen Lawler abbia vomitato prima di morire e non sento odori, tranne una lievissima puzza di filo elettrico bruciato. «Senti un odore strano?» chiedo a Chang. «Non mi pare.» «Come un filo elettrico bruciato, ma non proprio uguale. Un odore insolito e sgradevole.» «No. Non ho sentito niente mentre controllavo in giro. Sarà il televisore?» Indica l’apparecchio chiuso in un involucro di plastica trasparente su una mensola. «Non credo» rispondo. Noto nel lavabo di acciaio alcune macchie di calcare e un residuo simile a gesso. Mi avvicino e l’odore si fa più intenso. «Acre, come quando si surriscalda il phon.» Cerco in tutti i modi di descriverglielo. «O come di pile.» «Pile?» Chang aggrotta le sopracciglia. «Non ne ho visto. E neanche asciugacapelli.» Si avvicina al lavabo e si china ad annusare. «Sì, ho capito» dice. «Lo sento vagamente. Non ho un gran senso dell’olfatto.» «Penso che ci convenga prelevare un campione di questa roba nel lavabo» dico. «Avete un microscopio elettronico a scansione tipo SEM-EDX, in laboratorio? Bisognerà controllarne la morfologia a forte ingrandimento per vedere se è un particolato che si trovava in una soluzione e cercare di capire cos’è. Metallo o qualche altro materiale. Se è una sostanza chimica, un principio attivo, qualcosa che non si vede con la spettroscopia a raggi X. Non so quali altri rivelatori abbia il microscopio elettronico a scansione del GBI, ma se fosse possibile, chiederei un EDX e un FTIR per ottenere l’impronta molecolare.» «Stavamo pensando di dotarci di uno spettrofotometro FTIR portatile. Hai presente? Tipo quelli che si usano per i materiali pericolosi.» «Mi sembra un’ottima idea, visto che ormai si ha sempre più a che fare con esplosivi, armi di distruzione di massa, agenti nervini e vescicanti, polveri bianche. Sarebbe utile se riuscissi a convincere i tuoi tecnici a procedere subito con le analisi. Se le facessero prima di tutte le altre, potremmo avere i risultati fra qualche ora. Non mi piacciono i sintomi che ci sono stati descritti.»
Parlo sottovoce e scelgo con cura le parole perché non ho idea di chi ci stia ascoltando, ma sono certa che qualcuno lo sta facendo. «So essere piuttosto convincente.» Chang è basso e magro, ha i capelli neri tagliati corti, la faccia impassibile e lo sguardo cordiale. «Bene» replico. «Sarebbe utile.» «Credi che abbia vomitato qui dentro?» «Non sento odore di vomito» rispondo. «Ma questo non significa che non avesse nausea. La vicina di cella dice che aveva mal di stomaco.» La diagnosi più ovvia sembra essere quella che è già stata suggerita da persone poco qualificate e non obiettive, e cioè che Kathleen Lawler abbia avuto un attacco cardiaco dopo aver fatto esercizio fisico in condizioni rischiose per una donna della sua età che non si era mai presa cura della propria salute. Indossava una divisa di tessuto sintetico, con pantaloni lunghi e camicia a maniche lunghe, e la temperatura oggi sfiora i quaranta gradi con un’umidità dell’ordine del sessanta per cento. Inoltre lo stress peggiora la situazione e Kathleen era certamente stressata e agitata per il recente trasferimento nel Blocco B. Non mi sorprenderei se scoprissimo che soffriva di cuore, dopo aver seguito una dieta sbagliata e aver abusato di alcol e droghe per tutta la vita. «Abbiamo controllato la spazzatura?» chiedo a Chang. «Ho visto che ad alcune porte sono appesi sacchetti di rifiuti, ma qui non ce ne sono né pieni né vuoti.» «Ottima osservazione.» Mi guarda negli occhi: ci capiamo al volo. Se c’era spazzatura nella cella di Kathleen Lawler, è stata portata via prima del nostro arrivo. «Ti spiace se do un’occhiata?» gli domando. «Non tocco niente senza prima chiederti il permesso.» «Io ho finito, a meno che non vogliate che prelevi qualcos’altro. Fa’ pure.» Con le mani protette dai guanti, apre gli involucri di plastica di alcuni applicatori sterili e si avvicina al lavabo. «Se vedo qualcosa, te lo dico» gli comunico, perché il responsabile del sopralluogo è lui. Colin Dengate è responsabile solo del cadavere e degli indizi materiali o biologici a esso correlati e io sono solo un’ospite, un perito esterno che non può prendere iniziative. A meno che il caso non sia di competenza dell’AFME, ovvero del dipartimento della Difesa, io non ho autorità alcuna fuori dal Massachusetts. Prima di fare qualsiasi cosa, chiederò il permesso. Sulla parete di fronte al gabinetto ci sono due mensole di metallo grigio con libri, quaderni e un assortimento di contenitori di plastica trasparente, fatti apposta per impedire l’occultamento di oggetti proibiti. Li apro e sento odore di burro di cacao, Noxzema, shampoo, dentifricio e collutorio alla menta. Nel portasapone di plastica c’è una saponetta bianca e
spessa, marca Ivory, in un tubetto di plastica c’è uno spazzolino da denti e in un flacone una gelatina che mi pare gel per i capelli. Noto anche un pettinino di plastica, una spazzola senza manico e alcuni bigodini piuttosto grandi, di gommapiuma, che forse risalgono ai tempi in cui Kathleen Lawler portava i capelli lunghi. Ci sono libri di auto-aiuto e di poesia, romanzi e contenitori di plastica pieni di lettere, blocnotes e quaderni. Non vedo nulla che mi faccia pensare che la cella sia stata perquisita, ma lo prevedevo: se qualcuno ha frugato tra le cose di Kathleen Lawler prima dell’arrivo di Sammy Chang, non lo ha certamente fatto per controllare che non ci fossero marijuana, coltelli improvvisati o altri oggetti proibiti nelle prigioni, ma per togliere di mezzo qualcos’altro. In questo momento, non saprei dire cosa. Che cosa potrebbero aver cercato quelli del GPFW? Non lo so, ma so che non avrebbero dovuto portare via la spazzatura prima dell’arrivo del GBI. Ho un bruttissimo presentimento. «Se non hai nulla in contrario, controllerei qui dentro.» Indico i contenitori di plastica. Voglio informare Chang di ogni mio movimento. «Fa’ pure.» Raccoglie con un tampone i residui nel lavabo. «Hai ragione, sento anch’io un odore strano. Qualsiasi cosa sia ’sta roba, è di un grigio lattiginoso.» Infila i campioni in un apposito tubo di plastica e scrive con un pennarello sul tappo a vite azzurro. I bloc-notes sono a righe, con i fogli incollati all’estremità superiore e un supporto posteriore di cartone. Probabilmente sono stati acquistati allo spaccio della prigione, dove non sono in vendita blocchi a spirale perché il filo metallico potrebbe essere utilizzato per fabbricare armi improprie. Contengono poesie e scritti in prosa, scarabocchi e disegni, ma soprattutto annotazioni giornaliere. Kathleen Lawler teneva un diario, scriveva molto e con regolarità. Mi colpisce subito l’assenza di annotazioni recenti. Controllo i bloc-notes e vedo che ha scritto tutti i giorni per parecchio tempo, a cominciare da tre anni fa, quando tornò al GPFW dopo aver investito il ragazzo in motorino, ma i suoi diari finiscono il 3 giugno di quest’anno. Sull’ultima pagina ha scritto, con la sua caratteristica grafia: Venerdì 3 giugno La pioggia tempesta il mondo che ho perduto e ieri sera, quando il vento sferzava contro la rete metallica della mia finestra, faceva un rumore di sega. Stonato e stridulo come la vibrazione di cavi di acciaio tesi all’inverosimile. Come una bestia mostruosa fatta di metallo. Come un avvertimento. Sono rimasta lì ad ascoltare quel gemito metallico e le sue vibrazioni e pensavo: “Sta per succedere qualcosa”. In mensa a cena, qualche ora fa, l’ho sentito chiaramente. Non so descriverlo. Niente di tangibile come uno sguardo o un commento, ma io l’ho percepito nettamente. Si sta covando qualcosa.
Mangiavano tutte lo stufato a base di carne misteriosa senza guardarmi, come se non ci fossi, come se custodissero un segreto. Io non ho parlato con nessuno. Non le ho viste nemmeno. So quando conviene far finta di niente e loro sanno che io so. Tutti sanno tutto, qui dentro. Continuo a pensare che sia legato al cibo e all’attenzione. La gente uccide per un po’ di cibo, anche cattivo, e anche per un minimo di riconoscimento, per quanto immeritato e stupido. Ho pubblicato quelle ricette su Inklings senza riconoscimenti per nessuno perché nessuno se lo meritava e comunque non stava a me la scelta. Non sono io a decidere e non mi interessa se danno la colpa a me. Una piccola colpa diventa enorme, qui dentro. Non so cos’altro pensare. Esce la rivista e di colpo l’atmosfera cambia. Un forno a microonde per tutta l’unità, sessanta persone, e facciamo tutte le stesse cose nella “Mama’s Test Kitchen”, come le altre detenute chiamano me e la mia creatività culinaria. “Chiamavano”, dovrei dire. Forse adesso non più, anche se le prelibatezze sono un’idea mia. È sempre stata un’idea mia, frutto della mia grande fantasia. A chi altro verrebbe mai in mente, visto che non c’è niente con cui lavorare, a parte merda su merda? Merda allo spaccio, merda alla mensa. Bastoncini di carne e formaggio, tortilla e panetti di burro: gli ho insegnato io a farli diventare polpette fantasia. Biscotti glassati e alla vaniglia e frappè in polvere alla fragola magicamente trasformati in torta alla fragola. Sì, lo fanno tutte, appena possono, ora che l’ho inventato io. Non mi interessa chi ha presentato cosa. Quelle ricette sono mie! Ricreare e reinventare, quante volte l’ho detto? A chi è venuto in mente di prendere la farcitura dei biscotti alla vaniglia, mescolarla con il frappè alla fragola e trasformarla in glassa rosa? A chi è venuta l’idea di sciogliere i biscotti glassati nell’acqua, impastarli per benino e poi cuocerli nel microonde? Alla Julia Child della prigione, ecco a chi. A me, NON A VOI! Ho fatto tutto io, perché ho più anni di galera io di quanti ne avete voi di vita e le mie ricette sono talmente leggendarie che sono diventate come le citazioni e i proverbi, dalle origini remote e dimenticate ma continuamente sulla bocca degli sciocchi ignoranti. “Un brav’uomo è difficile da trovare” non se l’è inventato Flannery O’Connor: era il titolo di una canzone. E a dire “ogni regno discorde cade in rovina” non è stato Lincoln, ma Gesù. La gente non sa da dove viene la roba e se la piglia. Tutti ladri. Ho fatto quello che mi è stato detto e ho pubblicato le ricette – le mie ricette – senza riconoscimenti per nessuno, ma anche senza attribuirmene il merito. Quella che è rimasta fregata sono io. Voi fate il broncio, vi immusonite e mangiate senza rivolgermi la parola perché pensate che vi sia stato fatto un torto. Quando arrivo al vostro tavolo, non c’è posto per me: è riservato a qualcun altro.
Non pensate che non sappia chi c’è dietro. Pecore che seguono il gregge. Fra cinque minuti spengono le luci. Torna l’oscurità. Consapevole degli occhi e delle orecchie in agguato oltre la porta della cella, non dico niente su ciò che ho appena letto. Non faccio commenti riguardo al fatto che manca almeno un bloc-notes – un diario, forse più di uno – dal 3 giugno a oggi. Da quando Kathleen Lawler è stata trasferita al Blocco B. Non credo che abbia improvvisamente smesso di scrivere, soprattutto dopo essere stata rinchiusa in isolamento. Nelle ultime due settimane deve aver scritto ancora di più, non avendo altro da fare per ventitré ore al giorno, seduta nella sua minuscola cella senza vista, con un televisore dalla ricezione pessima, isolata dalle altre detenute, senza poter lavorare in biblioteca, senza più accesso alla posta elettronica né riviste da leggere. Che cosa può aver scritto che non vogliono farci leggere? Però non pongo domande né accenno alla metafora delle pecore, che pure mi ha colpito molto. Chi sono le pecore che seguono il gregge? Le altre detenute? E chi le guida? Ripenso a quando Lola Daggette ha fatto quel gestaccio a Tara Grimm pochi minuti fa e rifletto che potrebbe essere stata lei a istigare le altre detenute a prendere a calci le porte. È aggressiva, rabbiosa, priva di autocontrollo e poco intelligente. Inoltre, Kathleen Lawler aveva paura di lei. Ma non credo sia a causa di Lola che Kathleen è morta. Non credo sia per Lola che Kathleen veniva emarginata dalle detenute in mensa. Cosa potevano saperne loro delle antipatie di Lola Daggette, di quello che diceva o pensava? Lola Daggette è nel braccio della morte, isolata e confinata nella sua cella al piano di sopra, com’era Kathleen nella propria. Ho il sospetto che Kathleen si riferisse a qualcun altro, e mi tornano in mente le parole della direttrice, secondo cui Kathleen è stata trasferita nel reparto di massima sicurezza perché è trapelato che aveva subito una condanna per molestie su un minore. Ma cos’è trapelato esattamente? La direttrice ha detto che qualcuno all’interno del carcere ne ha sentito parlare in televisione, però non mi ha saputo dire chi. Io non le ho creduto e continuo a non crederle nemmeno adesso. Penso di sapere chi è stato a mettere Kathleen Lawler in cattiva luce, a infiammare gli animi contro di lei per inezie come i riconoscimenti sulla rivista. È Tara Grimm ad avere l’ultima parola riguardo ai testi pubblicati su “Inklings”, a decidere se i testi e le ricette possono essere firmati oppure no. Poi le detenute si arrabbiano e da un’inezia montano su un dramma. Così alla fine Kathleen è stata trasferita. Forse nel suo stato di agitazione e paranoia ha ritenuto che dietro quella perdita di libertà che viveva come una punizione ingiusta ci fosse Lola Daggette, oppure è stato qualcuno a metterle la pulce nell’orecchio. Potrebbero averle detto qualcosa Macon o le altre guardie, per tormentarla, per convincerla che Lola la stava minacciando. Forse è anche vero che Lola le era ostile, ma non ha importanza: non è stata lei a uc-
ciderla. Marino mi passa accanto, facendo frusciare la tuta protettiva, per posare ai piedi della branda un termometro digitale con cui misurare la temperatura ambiente. Non gli faccio capire che c’è qualcosa che non mi convince. Vedo che porge a Colin un altro termometro perché misuri la temperatura del cadavere. Nonostante i testimoni asseriscano che la morte è avvenuta a mezzogiorno e un quarto, dobbiamo calcolare l’ora del decesso sulla base di riscontri scientifici. La gente sbaglia, specie se è sotto choc, traumatizzata. La gente può anche mentire. Forse qui al GPFW mentono tutti. Mi guardo di nuovo intorno nel caso spunti fuori il diario di giugno. Controllo le pareti grigie su cui Kathleen ha attaccato con lo scotch poesie e brani in prosa scritti a mano. Sono testi di cui mi ha parlato nelle sue e-mail. C’è anche Destino, la poesia che mi ha spedito. È sopra la scrivania, una lastra di acciaio fissata al muro come gli scaffali. Vicino allo sgabello inchiavardato al pavimento c’è un altro contenitore di plastica trasparente, piuttosto grande, con dentro biancheria, una divisa accuratamente piegata, una confezione di spaghetti giapponesi e due merendine al miele che Kathleen deve aver comprato allo spaccio. Mi ha detto che non aveva più soldi, ora che non poteva più lavorare in biblioteca, ma evidentemente deve aver fatto alcuni acquisti. Forse li aveva fatti già da un po’ di tempo. Rifletto che era nel Blocco B da due settimane soltanto. Tocco le merendine, che non mi paiono dure. In fondo al contenitore di plastica ci sono decine e decine di numeri di “Inklings”, compreso quello di giugno di cui Kathleen parlava nel diario che ho appena letto. Sulla copertina ci sono i ritratti delle autrici dei testi pubblicati all’interno, in stile Andy Warhol. Chi scrive su “Inklings” diventa famoso per un mese e viene letto dalle detenute del GPFW e da tutti quelli che hanno accesso alla rivista. Sul retro leggo i nomi dei componenti della redazione: art director, grafica e, naturalmente, la responsabile, Kathleen Lawler. La direttrice Tara Grimm viene ringraziata per il sostegno, oltre che per “la sua umanità e ampiezza di vedute”. «È ancora abbastanza calda.» Colin è accucciato vicino alla branda, con il termometro in mano. «Trentaquattro e sette.» «In cella ci sono ventidue gradi» dice Marino, prendendo il termometro dalla branda con la grossa mano coperta dal guanto. Guarda l’ora. «Alle quattordici e diciannove.» «Si presume che sia morta da due ore e la temperatura è scesa di circa due gradi» osservo. «Un calo abbastanza rapido, ma nella norma.» Non posso dire altro. «Be’, è vestita e fa abbastanza caldo qui dentro» concorda Colin. «Sarà per forza un calcolo approssimativo.» Vuole dire che, se Kathleen Lawler è morta mezz’ora o anche un’ora prima di quello che hanno voluto farci credere, non lo scopriremo dalla sua temperatura o dal rigor mortis.
«Le dita stanno cominciando a irrigidirsi adesso.» Colin palpa la mano sinistra della morta. «Non vedo ancora macchie ipostatiche.» «Mi chiedo se non abbia preso un colpo di caldo mentre era fuori» dice Marino guardando gli scritti appesi alle pareti e osservando ogni particolare. «Ti può venire un colpo di calore, no? Rientri in casa, ma è già troppo tardi.» «Se fosse morta per ipertermia, la temperatura interna sarebbe più alta» spiega Colin. «Resterebbe sopra la norma per ore, il rigor mortis sarebbe accelerato e sproporzionato rispetto al livor. Inoltre i sintomi che ci sono stati riferiti dalla detenuta della cella di fronte non sono coerenti con quelli del colpo di calore. L’arresto cardiaco, sì, è possibile. E certamente intensa attività fisica e temperature elevate lo favoriscono.» «Ha soltanto camminato nel cortile, fermandosi ogni due o tre giri» replica Marino riferendo quello che gli è stato detto. «Il concetto di “intensa attività fisica” varia da persona a persona» ribatte Colin. «Un detenuto che conduce una vita molto sedentaria esce in un cortile caldo e umido e perde molti liquidi, la volemia diminuisce e il cuore ne risente.» «Ha bevuto acqua mentre era fuori» puntualizza Marino. «Ma ne ha bevuta abbastanza? Beveva a sufficienza quando era in cella? Ne dubito. In una giornata media una persona normale perde l’equivalente di due litri e mezzo di acqua. In condizioni di particolare umidità e calura, sudando, se ne perdono anche dieci o dodici litri» dice Colin. Esce dalla cella e io chiedo a Sammy Chang se posso continuare a controllare quello che c’è sulla scrivania e sulle mensole. Mi fa cenno che non ha obiezioni. Prendo un contenitore di plastica trasparente pieno di posta e mi tornano in mente le lettere che Kathleen Lawler mi ha detto di aver ricevuto da Jack Fielding, in cui io venivo descritta come una persona difficile, con cui era impossibile lavorare. Cerco lettere di Jack o di Dawn Kincaid, ma non ne trovo. Non trovo nulla di interessante, a parte una lettera che sembra scritta da me. Guardo sbigottita l’indirizzo del mittente, il logo del CFC stampato su una busta bianca 17,6x25, di un tipo che Bryce ordina cinquemila copie alla volta. COL. DOTT.SSA KAY SCARPETTA MEDICO LEGALE E DIRETTRICE CAMBRIDGE FORENSIC CENTER L’aletta autoadesiva è stata aperta con un tagliacarte, probabilmente dal personale del carcere addetto al controllo della corrispondenza in arrivo. La busta contiene un foglio della mia carta intestata, scritto a macchina e firmato in inchiostro nero: 26 giugno
Cara Kathleen, grazie delle e-mail che mi ha inviato a proposito di Jack. Immagino il suo dolore e lo sciock dell’isolamento a cui è costretta dopo il suo trasferimento. Sono lieta di poterla incontrare il 30 giugno per parlare di un uomo molto speciale che tutte e due abbiamo amato. Jack ha influenzato grandemente le nostre vite e mi preme che lei sappia che io volevo il suo bene e non gli avrei mai fatto intenzionalmente del male. Mi fa piacere poterla finalmente incontrare dopo tanti anni, così come mi fanno piacere le sue lettere. Come sempre, la prego di farmi sapere se c’è qualcosa di cui ha bisogno. A presto, Kay 028_chapter22
22 Sento la presenza di Marino, mi volto e me lo trovo accanto. Sta guardando la lettera che tengo fra le mani protette da guanti viola di nitrile. La legge, mi guarda negli occhi e io gli faccio no con la testa. «Cosa diavolo...?» borbotta a voce bassa. Gli rispondo indicando la parola “sciock”. Io non scriverei mai una bestialità del genere. Marino non capisce, ma in questo momento non ho nessuna voglia di fargli una lezione di ortografia. Non scriverei mai nemmeno “A presto, Kay” a Kathleen Lawler: non siamo amiche. E perché specificare che non avrei mai fatto “intenzionalmente” del male a Jack Fielding, quasi dando per scontato che gliene ho fatto, ma non apposta? Ripenso a quello che diceva Jaime Berger ieri sera a proposito del fatto che la figlia di Kathleen Lawler, Dawn Kincaid, mi sta dipingendo come una persona violenta e instabile. Ma non può essere stata Dawn Kincaid a scrivere questa lettera. Non può averla spedita dal Butler State Hospital, dov’era rinchiusa fino a poche ore fa. Alzo il foglio per esaminarlo controluce e faccio notare a Marino che non c’è il logo del CFC in filigrana e che quindi la lettera è un falso. Poi la poso sulla scrivania e faccio una cosa che Marino non mi ha mai visto fare. Mi tolgo i guanti, me li infilo nella tasca della tuta bianca e scatto alcune foto con il mio cellulare. «Vuoi la Nikon?» mi chiede, perplesso. «Un righello?» «No» rispondo, secca. Non voglio la macchina fotografica 35 mm, né lenti addizionali, cavalletto o illuminazioni speciali. E non voglio neanche un righello con le tacche di riferimento. I motivi per cui sto scattando queste foto sono diversi. A Marino non dico niente, ma mi sento in dovere di dire qualcosa a Chang, che mi guarda dalla porta. «Immagino abbiate un laboratorio per analizzare documenti contraffatti.» Mi avvicino. «Sì.» Mi guarda mentre scrivo un SMS a Bryce, il mio assistente. «Se vi faccio spedire alcuni fogli di carta da lettere del CFC via corriere, con consegna entro le ventiquattr’ore, a chi devo indirizzare il plico?» «A me, direi.» «Okay. Sammy Chang, divisione investigativa del Georgia Bureau of Investigation» scrivo. «Troverete differenze significative tra questo foglio e la carta intestata del CFC» dichiaro indicandogli la lettera sulla scrivania. «Per esempio, manca il logo in filigrana. Sto scrivendo al mio assistente di mandarvi la nostra carta intestata e le nostre buste, in maniera che possiate confrontarle e accertarlo in maniera assoluta e incontestabile.» «Il logo in filigrana?»
«Qui non c’è. Forse è diversa anche la carta e ve ne accorgerete esaminandola al microscopio o facendo un’analisi chimica. È possibile che anche il font sia leggermente diverso. Non lo so. Ah, ecco, perfetto: non c’è segnale. Be’, riprovo fra un po’.» Salvo come bozza il messaggio e le foto allegate. Alzo lo sguardo e vedo che non c’è più nessuno alla finestra della cella di fronte: Ellenora non ci guarda più e ha smesso di parlare. «Di sicuro il personale del carcere controlla tutta la posta in arrivo» dico a Chang. «Quindi hanno controllato anche questa; hanno aperto la busta davanti a Kathleen Lawler, magari l’hanno scansionata, non so cosa preveda il protocollo. Possiamo cercare di capire se nella busta c’era qualcos’altro, oltre alla lettera? Il francobollo è da un dollaro e settantasei centesimi: più di quanto sarebbe necessario per un foglio di carta e una busta in Tyvek. Sospetto che dentro ci fosse qualcos’altro. Naturalmente non possiamo escludere che il mittente abbia pagato un’affrancatura superiore.» «Allora non l’hai...» comincia a dire. Poi si volta a guardarsi alle spalle. «Assolutamente no.» Scuoto la testa. Non ho scritto io questa lettera né spedito questa busta, qualsiasi cosa contenesse. «Dove sono andati?» «L’hanno portata in un posto tranquillo in cui Dengate possa farle qualche domanda e lasciare che racconti cos’ha visto e sentito. Peccato che ogni volta la sua storia diventi sempre più elaborata.» Sta parlando di Ellenora. «C’è l’agente Macon, se hai bisogno.» Lo dice a voce abbastanza alta perché Macon senta. «Chiedigli se negli ultimi giorni Kathleen Lawler ha ricevuto posta.» Evito di dirgli di non fidarsi della risposta né di qualsiasi cosa veda o senta in questo posto. Mi infilo un nuovo paio di guanti, prendo la lettera che sembra scritta sulla carta intestata del CFC e la alzo per guardarla di nuovo controluce. Mi conforta l’assenza del logo in filigrana. Noto che la persona che si è finta me evidentemente ignora che il CFC usa carta poco costosa, riciclata, con il venticinque per cento soltanto di stracci, con un marchio in filigrana che serve proprio per prevenire truffe di questo genere. Se imitare la mia intestazione è relativamente facile, contraffare il marchio dell’istituto è impossibile: per farla franca, uno dovrebbe procurarsi vera carta intestata del CFC. Ma chi ha scritto questa lettera evidentemente non si è preoccupato di riuscire a ingannare polizia, tecnici o me. Il suo scopo doveva essere ingannare Kathleen Lawler, punto e basta. Ripiego la lettera in due, così come l’ho trovata, e la infilo nuovamente nella busta. Mi sconcertano le sue dimensioni: ho la netta sensazione che contenesse qualcos’altro. Ma che cosa avrei potuto mandare io a Kathleen Lawler? Che cosa avrà ricevuto in quella busta pensando che arrivasse da me? Chi si è fatto passare per me e a quale scopo? Ricordo che Tara Grimm ha accennato alla mia disponibilità e Kathleen Lawler mi ha detto che ero generosa. Queste loro dichiarazioni mi hanno lasciata perplessa e adesso cerco di ricordare esat-
tamente che cosa ha detto Kathleen. Ha detto di essere grata a chi, come me, trova un attimo da dedicare a quelli come lei; lì per lì, ho pensato che si riferisse al fatto che ero andata a trovarla. Invece stava alludendo alla mia lettera e forse a quello che vi aveva trovato accluso. Dunque deve averla ricevuta prima del nostro incontro di ieri. Il timbro è del 26 giugno, ore 16.45, codice postale 31401, probabilmente un ufficio postale di Savannah. Cinque giorni fa, domenica. Io ero a casa. Sono uscita con Benton e Lucy, che ci ha portato in un bar dove va spesso, il Lolita Cocina. Sono sicura che il personale è in grado di testimoniare che ero lì. E, se alle sette di sera ero a cena a Boston, alle cinque meno un quarto non potevo essere mille miglia più a sud, a Savannah. «Vado in bagno e a prendere due o tre cose.» Marino mi passa davanti. «La accompagno» dice la voce di Macon. Mi viene in mente che potrebbero dire che l’ho fatta spedire a Marino. Lui era a Savannah il 26 giugno, o per lo meno era qui nei dintorni, nel South Carolina. Guardo Chang, che mi fissa dalla soglia con i suoi occhi scuri. «Se non ti spiace, controllo ancora due o tre cosette. Poi chiudo e ti faccio vedere cosa vorrei che prelevaste» gli dico. Lui controlla l’ora, poi si gira a guardare Macon che accompagna Marino al bagno degli uomini. «È già arrivato il furgone per trasportare il cadavere?» domando. «Sì. Siamo pronti. Aspettiamo solo te.» «E Colin?» «Credo che stia aspettando che tu finisca. Penso che per ora abbia concluso. Poi esaminer il corpo in istituto.» «Bene. Le chiudo le mani nei sacchetti e la fotografo, se non hai niente in contrario.» «Ho già fatto parecchie foto.» «Lo so. Ma, come avrai notato, tendo ad abbondare.» «Non vuoi la macchina fotografica? A proposito di abbondare, c’è anche lo stipetto.» «Lo stipetto?» Mi guardo intorno per capire a cosa si riferisca. «In fondo al letto.» Me lo indica. «Nascosto sotto le coperte.» «Adesso guardo.» «Prego.» «Faccio in fretta, così puoi entrare a prendere le ultime cose da mandare in laboratorio. Sono sicura che non vedi l’ora di andare via.» «Figurati: adoro le prigioni. Mi ricordano il mio primo matrimonio.»
Riprendo a controllare la roba sulla scrivania: una pila sottile di carta bianca, da poco prezzo, alcune buste bianche, una penna Bic trasparente, un foglio di francobolli autoadesivi e un taccuino che mi pare una rubrica. Lo sfoglio, senza riconoscere nessun nome, cercando quelli di Dawn Kincaid e di Jack Fielding. Non ci sono. Trovo per lo più indirizzi della Georgia. Trovo Triple Q Ranch, appena fuori Atlanta, e mi rendo conto di quanto sia datata questa rubrica. Il Triple Q Ranch era il centro per minori problematici in cui lavorava Kathleen nella seconda metà degli anni Settanta, quando conobbe Jack. Quel taccuino ha più di trent’anni, calcolo, continuando a sfogliarlo. Difficile che contenga indirizzi recenti. Se Kathleen aveva un’altra rubrica, più nuova, è sparita. «Prendiamo anche questa» dico a Chang. «Sì. L’avevo notata anch’io.» «È vecchia.» «Infatti.» Ci siamo capiti. «Naturalmente è possibile che non avesse più nessuno a cui scrivere o telefonare.» «Mi risulta che le piacesse molto scrivere lettere.» Controllo il foglio di francobolli da venti e vedo che ne mancano sei. «Lavorava in biblioteca per guadagnare qualche soldo e ogni tanto riceveva qualcosa dai suoi familiari.» Da Dawn Kincaid, per la precisione. «Dalla famiglia non ha ricevuto niente negli ultimi cinque mesi. E dopo che è stata trasferita qui, nel reparto di massima sicurezza, non ha più potuto guadagnare.» «Già.» Sono d’accordo: da quando era nel Blocco B, Kathleen non poteva più lavorare e Dawn Kincaid non poteva mandarle soldi dal Butler o, prima, dal carcere di Cambridge. «Sarebbe utile vedere quanti soldi ha ancora sul conto e cosa ha comprato ultimamente» dico. «Buona idea.» Noto un dizionario tascabile e uno enciclopedico. Ci sono anche due libri di poesia, Wordsworth e Keats. Mi avvicino al letto, mi accuccio e scosto le lenzuola, attenta a non spostare le gambe del cadavere. Sfioro il fianco della morta con la spalla e sento che è tiepida, ma non ha il calore dei vivi. Si sta raffreddando. Apro lo stipetto, che è di metallo e contiene vari effetti personali, disegni, poesie, fotografie. Vedo alcuni ritratti di una bambina bionda, molto graziosa. Crescendo diventa ancora più bella e affascinante, truccatissima, con un corpo voluttuoso e occhi da seduttrice. Trovo la foto che le ho dato ieri, insieme ad altre di Jack. Alcune lo ritraggono da giovane, forse spedite da lui nei primi tempi. Sono logore, piegate sui margini, come se fossero state accarezzate e toccate molte volte. Non trovo altri diari, ma un foglio di francobolli da quindici centesimi e carta da lettere con palloncini e cappellini da festa. Mi sembra una strana scelta per una rinchiusa in carcere:
forse sono fogli avanzati da una festa di compleanno o qualche altra ricorrenza. Non credo vendano carta da lettere di questo genere allo spaccio della prigione. Può darsi che Kathleen l’abbia conservata dai tempi in cui era libera, prima di venire condannata per la morte del ragazzo in motorino. Lo stesso vale per i francobolli da quindici centesimi, con una spiaggia bianchissima, un ombrellone rosso e giallo e un gabbiano che vola nel cielo azzurro. L’ultima volta che ho pagato un francobollo quindici centesimi risale a vent’anni fa, quindi Kathleen li conservava per qualche motivo particolare. Magari glieli aveva mandati qualcuno. Mi ricordo che mi ha parlato della difficoltà di procurarsi francobolli. È un foglio da venti e mancano i primi dieci. Prendo dalla scrivania la pila sottile di fogli bianchi e ne sollevo uno verso la luce per controllare se ci sono solchi lasciati scrivendo sul foglio soprastante. Non ne vedo. Controllo la carta da lettere con i palloncini; sposto il foglio in controluce per cercare di decifrare i solchi, abbastanza nitidi. Riconosco la data, il 27 giugno, e l’inizio: “Cara figlia”. «... Sì, perché vorrei sapere esattamente cos’ha fatto» sento che dice Colin a Tara Grimm, oltre la porta aperta della cella. «A lei è stato detto che ha passeggiato nella gabbia per un’ora. Tutta l’ora che aveva a disposizione. Okay, capisco. Però, come dicevo, vorrei sentirmelo dire dalla guardia che era presente. Ha bevuto acqua? Quanta? Ogni quanto si fermava? Ha lamentato vertigini, capogiri, debolezza muscolare, mal di testa, nausea? Ha detto che non stava bene?» «Ho già chiesto io e le ho riferito tutto quanto, parola per parola» risponde Tara Grimm con voce calma e melodiosa. «Mi spiace, ma non basta. Occorre che lei chiami la guardia che era presente e la faccia venire qui. Possiamo anche andare noi da lei, se necessario. Ma le devo parlare di persona. E vorrei vedere anche la gabbia dell’ora d’aria. Sarebbe meglio se lo facessimo subito, così poi torno in istituto e non perdo troppo tempo...» Identifico qualche parola, ma non tutte: non riesco a vedere tutto quello che Kathleen ha scritto nella lettera sulla carta con i palloncini. Bisognerà esaminarla in condizioni più favorevoli, con una luce migliore di quella che passa attraverso la rete alla finestra e viene emanata da un lampadario che probabilmente è controllato da remoto, per evitare che le detenute spengano la luce e tendano un agguato alla guardia che entra in cella. Vedo solo l’ombra di una grafia che ormai conosco: Lo so ... uno scherzo, vero? ... così pensavo di dirtelo ... da PNG ... quadra con tutto il resto ... cercando di corrompermi, di piegarmi ... Come stai...? PNG starà forse per persona non grata, locuzione latina usata in ambito diplomatico per indicare una persona sgradita in un determinato paese? Mi chiedo a chi si riferisse Kathleen Lawler. Sento che Marino sta tornando dentro la cella, con la tuta che fruscia. Posa una valigetta Pelican vicino al letto.
«Sono sicuro che c’è una lente d’ingrandimento» borbotta facendo scattare la serratura. «Magari 10x, con LED. C’è una luce schifosa, qua dentro.» La trova, io la accendo e la passo lentamente sopra le mani bianche di Kathleen Lawler, sui palmi lisci, sulle dita, sui polpastrelli, sulle pieghe della pelle e sulle vene azzurrine. Con la lente d’ingrandimento luminosa, vedo tutto dieci volte più grande. Le unghie, senza smalto, sono pulite e lievemente ruvide; sotto ci sono alcune fibre bianche che potrebbero provenire dalla divisa o dalle lenzuola. Sotto l’unghia del pollice destro c’è un minuscolo residuo arancione. «Mi prenderesti le pinzette e uno stub, per favore? Se non lo ha Colin, Chang ce l’ha di sicuro» dico a Marino, sollevando la mano destra per la seconda falange del pollice. Il cadavere si sta raffreddando, ma non è ancora rigido. Marino fruga nella valigetta e dice: «Trovati». Come un ferrista, mi mette sul palmo della mano coperta dal guanto di nitrile un paio di pinzette e mi porge un cilindro metallico con un dischetto adesivo per prelevare eventuali residui di polvere da sparo dal palmo e dal dorso della mano. Gli dico dove tenermi la lente luminosa e raccolgo da sotto l’unghia del pollice le fibre bianche con le pinzette e minuscole scagliette di una pasta friabile arancione con lo stub, che poi infilo in un sacchetto di plastica. Lo etichetto e metto una sigla. Sempre accucciata vicino al letto, controllo le gambe e i piedi nudi, concentrandomi su una zona del piede sinistro dove ci sono alcune macchioline rosse. «L’avrà punta qualcosa?» dice Marino. «A me sembra piuttosto che le sia caduto sul piede un liquido caldo» replico. «Sono ustioni di primo grado. Probabilmente le è gocciolato sul piede qualcosa di bollente.» «Qui dentro non poteva scaldare niente.» Si china a guardare. «Potrebbe essersele fatte con l’acqua del rubinetto?» «Falla scorrere e controlla quanto è calda. Ne dubito, però.» «Posso farla scorrere?» «Ho già fatto i tamponi» dice Chang dalla porta aperta. «Se volete far scorrere l’acqua per vedere quanto è calda, fate pure. Magari aveva qualcosa di elettrico» suggerisce. «E se fosse morta folgorata?» «In questo momento non possiamo escludere nessuna ipotesi» rispondo. «Asciugacapelli, arricciacapelli» continua a ipotizzare Chang. «Potrebbero avergliene portato uno da fuori, anche se è proibito... Spiegherebbe l’odore che sentivamo.» «E dove avrebbe attaccato la spina?» chiedo, perché non ho visto prese di corrente, a parte quella fissa del televisore.
«Magari era a pile ed è esploso.» Marino apre l’acqua del rubinetto. «Se si surriscalda, anche un apparecchio a pile può esplodere. Ma in tal caso avrebbe ben più di quelle macchiette sul piede. Siamo sicuri che non siano punture di insetto?» Mette la mano sotto il getto dell’acqua e aspetta. «Avrebbe un senso, visto che è stata all’aperto e poi si è sentita male. Può succedere che ti entri una vespa nella scarpa o addirittura dentro la calza e ti punga ripetutamente finché non muore. Una volta sulla Harley sono finito dritto dentro un nugolo di api. Vi assicuro che sentirsi pungere dentro il casco non è una bella esperienza.» «Lieve edema, gonfiore minimo. A me sembrano ustioni recenti, limitate all’epidermide, di primo o di secondo grado, superficiali. Dolorose» dico. «Escludiamo l’acqua del rubinetto» dice Marino, chiudendola. «Non è abbastanza calda. Anzi, è tiepida.» «Potresti chiedere se è possibile che si sia bruciata un piede in qualche modo.» Marino esce, passando accanto a Chang. «Il capo vuol sapere se può essersi ustionata in qualche modo» sento che dice. «Chi?» chiede Colin. «Kathleen Lawler. Potrebbero averle dato una tazza di caffè bollente che le si è rovesciata su un piede, per esempio?» «Perché?» «Impossibile» interviene Tara Grimm. «Le detenute in isolamento non possono accedere ai forni a microonde. Non ci sono microonde nel Blocco B, a parte in cucina, dove lei sicuramente non è entrata. Non può essere venuta a contatto con niente di abbastanza caldo da ustionarla.» «Perché lo domandi?» Colin appare sulla porta. Non ha più la tuta di Tyvek bianca, è sudato e ha l’aria insoddisfatta. «Ha delle ustioni sul piede sinistro» rispondo. «Come se le fosse schizzato o caduto addosso qualcosa di caldo.» «Appena arrivati in istituto controlliamo.» Si allontana di nuovo. «Aveva calze o scarpe quando è stata ritrovata?» chiedo. Tara Grimm compare sulla soglia della cella. «No di certo» risponde. «Non le avremmo tolte. Se le sarà tolte lei quando è rientrata dopo l’ora d’aria. Noi non abbiamo spostato niente.» «Calza e scarpa su quelle ustioni devono averle fatto male» osservo. «Zoppicava durante l’ora d’aria? Si lamentava di sentire dolore?» «Si è lamentata che faceva caldo e che era stanca.» «Mi domando se non si sia ustionata dopo che è tornata in cella. Ha fatto la doccia dopo l’ora d’aria?»
«Le ripeto che non è possibile» dichiara la direttrice lentamente, con evidente ostilità. «Non aveva niente con cui potesse ustionarsi.» «Può essere che stamattina abbia avuto accesso a qualche elettrodomestico?» «No. Non ci sono prese elettriche accessibili nelle celle del Blocco B. Non può essersi ustionata. Può chiedermelo cinquanta volte, le darò cinquanta volte la medesima risposta.» «Be’, ha delle ustioni al piede sinistro» ribatto. «Io non ne so niente. Non è possibile. Si sbaglia, dottoressa.» Mi guarda male. «Non c’è nulla con cui si possa essere bruciata» ribadisce. «Saranno punture di zanzara. O di qualche altro insetto.» «Non sono punture di insetto.» Palpo la testa della morta, passando le dita protette dai guanti sul cranio e sul collo alla ricerca di eventuali lesioni o ferite, fratture o rigonfiamenti che potrebbero indicare un’emorragia nascosta dai capelli. È ancora tiepida e la testa si muove docile sotto le mie mani. Ha le labbra socchiuse, come se dormisse e da un momento all’altro potesse aprire gli occhi e dire qualcosa. Non trovo nulla di anomalo e chiedo a Marino di passarmi la macchina fotografica e il righello trasparente da quindici centimetri. Scatto ancora alcune foto, concentrandomi sulla mano da cui ho prelevato il residuo arancione e le fibre bianche. Fotografo le ustioni sul piede sinistro e poi lo infilo in un sacchetto. Ripeto l’operazione sull’altro piede e sulle mani, sigillando i sacchetti intorno alle caviglie e ai polsi con elastici di gomma, per impedire che entri o esca qualcosa durante il trasporto. Tara Grimm osserva ogni mio movimento, senza più cercare di darsi un contegno. È sulla porta, con le mani sui fianchi, e mi fissa mentre scatto le ultime foto. Non mi servono, perché ne ho già fatte abbastanza, ma più mi arrabbio e più mi attardo. 029_chapter23
23 Colin apre la porta di servizio del Coastal Regional Crime Laboratory e usciamo nella calura e nel sole abbagliante. Tuona e si stanno avvicinando grossi nuvoloni. Sono le quattro appena passate e il vento soffia a trenta nodi da sudovest, spingendo indietro l’elicottero di Lucy. Le sto parlando al telefono. «Siamo dovuti atterrare a Lumberton a fare rifornimento per la terza volta, dopo che a Rocky Mount abbiamo dovuto aspettare che smettesse di piovere, dato che non si vedeva un accidente» mi comunica. «Che noia! Pinete e maiali: non c’è altro. E un fumo terribile perché in tutte le fattorie bruciano sterpi. La prossima volta Benton prende il pullman, così arriva prima.» «Marino è partito per l’aeroporto pochi minuti fa. Sta per scoppiare un temporale» dico a mia nipote mentre accompagno Colin nello spazio asfaltato dove parcheggiano i dipendenti e vengono scaricati i camion. L’umidità è tale che mi sembra quasi di vederla. «Non c’è problema» risponde Lucy. «Voliamo a vista e saremo lì fra un’ora, un’ora e un quarto, a meno che non mi tocchi cambiare rotta al Gamecock Charlie e proseguire lungo la costa da Myrtle Beach. È un bel percorso panoramico, ma è molto più lungo.» Gamecock Charlie è uno spazio aereo militare utilizzato per operazioni di addestramento e manovra che non vengono pubblicizzate e da cui è meglio stare alla larga, se non se ne fa parte o se si è un velivolo civile. Se è in corso un’operazione militare, è meglio non avvicinarsi. «Come dico sempre, meglio non correre incontro ai problemi» le faccio notare. «Be’, a quanto ho captato da Milcom, dev’essere in corso qualche manovra» continua Lucy. “Milcom” sta per Military Communications, comunicazioni militari. «Non ho molta voglia di finire in mezzo a manovre acrobatiche o tattiche a bassa quota, intercettazioni aeree o quant’altro.» «Sono d’accordo.» «Per non parlare poi dei droni teleguidati comandati da un computer in California. Hai notato quante basi militari e zone vietate ci sono da queste parti? E anche casotti per la caccia ai cervi. Presumo tu non sappia ancora cosa le è successo.» Si riferisce a Kathleen Lawler. «Mi sembri un po’ giù.» «Stiamo per scoprirlo, spero.» «Normalmente sei più positiva.» «Questo caso è tutto fuorché normale. Al GPFW ci mettono i bastoni fra le ruote. Ti sembro giù perché lo sono.» Penso alla faccia di Tara Grimm quando si è piantata davanti alla porta a osservare ogni mia mossa e poi alla discussione con la guardia presente durante l’ora d’aria di Kathleen Lawler.
Secondo l’agente Slater, un donnone con l’aria strafottente e lo sguardo astioso, non è successo niente di strano stamattina fra le otto e le nove, quando Kathleen Lawler è stata scortata nel cortile “come sempre” da quando si trovava nel Blocco B. Le abbiamo parlato lì, nella gabbia, poco prima di andarcene. Io le ho chiesto se le era parso che Kathleen stesse poco bene o avesse male da qualche parte. Lamentava per esempio stanchezza, giramenti di testa, difficoltà di respirazione? Potrebbe essere stata punta da un insetto? Zoppicava? Sembrava dolorante? Ha detto qualcosa riguardo al suo stato di salute? L’agente Slater mi ha risposto che Kathleen si è lamentata solo del gran caldo, ribadendo quello che ci era già stato detto e ripetuto infinite volte. Kathleen ha camminato lungo il perimetro del cortile, appoggiandosi regolarmente alla recinzione per prendere fiato. Si è chinata diverse volte ad allacciarsi una scarpa da ginnastica, ci ha spiegato l’agente Slater, forse perché le faceva male un piede, ma non ha accennato a una ustione. Inutilmente sulle difensive, l’agente Slater ha precisato che non era possibile che si fosse bruciata nel Blocco B. Sembrava ripetesse a pappagallo le parole di Tara Grimm. “Non so come le è venuto in mente” ha detto, rivolgendosi a me ma guardando la direttrice. Nel Blocco B i forni a microonde sono vietati e l’acqua dei rubinetti non è abbastanza calda da provocare ustioni. Durante l’ora d’aria Kathleen Lawler ha chiesto più volte da bere, diceva di avere la gola secca, forse a causa dei pollini o della polvere, o forse “covava qualcosa”. Potrebbe addirittura aver detto che aveva “un po’ di sonnolenza”. “Che cosa intendeva, secondo lei, con ‘sonnolenza’?” ho chiesto all’agente Slater, la quale mi ha risposto risentita: “Che aveva sonno”. Sembrava quasi pentita di avermelo detto. Non è la stessa cosa provare sonnolenza e sentirsi affaticati, ho spiegato. L’attività fisica, come certe malattie, fa sentire affaticati, ma la sonnolenza significa che uno non riesce a tenere gli occhi aperti. Una possibile causa è la mancanza di riposo, ma anche una crisi ipoglicemica, per esempio. L’agente Slater per tutta risposta ha guardato la direttrice, poi ha riferito a me e Colin che Kathleen aveva detto di aver fatto male a mangiare subito prima di uscire con quell’afa. Forse aveva fatto indigestione, o magari aveva un po’ di acidità di stomaco, non lo sapeva, ma di certo si lamentava sempre del cibo che servivano al GPFW. Kathleen Lawler “si lagnava” sempre per il mangiare, sia alla mensa sia al Blocco B, dove i pasti vengono serviti in cella. Parlava costantemente di cibo e di solito si lamentava che era cattivo o in quantità scarsa. “Insomma, c’era sempre qualcosa che non andava” ha rimarcato l’agente Slater. Il suo tono e il modo in cui spostava lo sguardo mi hanno fatto venire in mente il colloquio di ieri con Kathleen Lawler: anche lei stava attenta soprattutto a quello che avrebbe pensato la direttrice.
«Cosa fa Benton?» domando a Lucy. «Parla con la sede di Boston.» «Ci sono aggiornamenti?» Voglio sapere se si sa qualcosa di Dawn Kincaid. «Che io sappia, no. Ma non ha una bella faccia. Si è allontanato, come suo solito, per non farsi sentire mentre telefona. Vuoi parlargli?» «Non ti voglio trattenere. Ne parliamo quando arrivate. Non so chi ci sarà, qui.» Sto cercando di dirle che potrebbe imbattersi in Jaime Berger, che non si è ancora premurata di richiamarmi. «Problema suo» risponde Lucy. «Preferirei non fosse un problema per nessuno. Non vorrei che fosse un incontro sgradevole.» «Devo andare a pagare.» Sento odore di creosoto e di spazzatura nei cassonetti sotto il sole. Io e Colin raggiungiamo l’obitorio, un edificio di cemento giallino, senza finestre, con una centrale termica e un generatore da una parte e uno spiazzo dall’altra. Oltre la recinzione sul retro ci sono alcuni pini che ondeggiano nel vento e fra le nuvole nere all’orizzonte vedo brillare un lampo. A sudovest piove. È la perturbazione che viene dalla Florida e si preannuncia piuttosto intensa. La saracinesca si apre ed entriamo in una sorta di garage di cemento. C’è una porta chiusa a chiave e Colin la apre. «In un anno in media facciamo per loro due autopsie e cinque o sei constatazioni.» Colin riprende il discorso che abbiamo interrotto quando ha chiamato Lucy. Mi sta dicendo quanto lavoro dà all’istituto il GPFW e di che genere. «Fossi in te, riprenderei in mano tutti i casi da quando è direttrice Tara Grimm» gli suggerisco. «Per lo più si tratta di tumori, broncopneumopatie croniche ostruttive, epatopatie, insufficienze cardiache» spiega Colin. «La Georgia non è famosa per liberare i malati terminali detenuti. Ci manca solo questo: delinquenti condannati che escono di prigione prima del tempo perché malati di cancro e magari rapinano una banca o ammazzano qualcuno.» «Io li rivedrei tutti, a parte i casi più lampanti, quando le detenute sono morte nell’hospice» ribadisco. «Ci sto pensando.» «Tutti i casi che ti hanno suscitato qualche dubbio. Io li rivedrei.» «All’epoca non mi hanno suscitato nessun dubbio, dico la verità. Ma con il senno di poi, mi fai riflettere. Shania Plames, per esempio» dice. «Una storia tristissima. Aveva problemi psichiatrici post-partum, tipo depressione e delirio, e ammazzò i figli. Tutti e tre. Li impiccò alla ringhiera del balcone. Il marito aveva una fabbrica di laterizi a Ludowici ed era fuori città. Era
andato a pescare. Ti immagini quando è tornato a casa?» Controlla il registro nero nell’atrio, dove ci sono una pesa a bilico, una cella frigorifera e un piccolo ufficio. «Bene: è arrivata.» Si riferisce a Kathleen Lawler. «Shania Plames morì improvvisamente al GPFW, suppongo» dico. «Nel braccio della morte» risponde Colin. «Quattro anni fa, più o meno. Si asfissiò dopo l’ora d’aria, una mattina. Usò un paio di brache della divisa. Se ne legò una gamba intorno al collo, l’altra intorno alle caviglie e si incaprettò, per così dire. Fu trovata prona sul letto, le gambe oltre il bordo. Il peso delle gambe fu sufficiente a far premere il cappio sulla giugulare impedendo l’afflusso di ossigeno al cervello.» Seguiamo un corridoio piastrellato di bianco, su cui si affacciano spogliatoi, bagni e magazzini vari. Oltrepassiamo la sala settoria riservata ai cadaveri in avanzato stato di decomposizione, con un unico tavolo e cella frigorifera, e Colin mi parla di quel suicidio insolitamente creativo commesso in un ambiente virtualmente a prova di suicidio, dei dubbi che nutrì da subito sul fatto che ci si potesse davvero asfissiare con un paio di brache e mi dice che, ovviamente, non provò a vedere se il metodo funzionava. Mi riferisce tutti i particolari che ricorda, poi passa a un altro caso, quello di Rea Abernathy, che l’anno scorso venne ritrovata con la testa dentro la tazza del gabinetto, il copriwater di acciaio che le premeva sul collo, morta anche lei per asfissia posturale. «Non aveva solchi cutanei sul collo, ma si spiega con il fatto che usò un tessuto relativamente morbido per strangolarsi» mi dice. «Nessuna lesione alle strutture interne del collo, ma non è insolito nelle impiccagioni per sospensione parziale o nelle asfissie posturali. Neanche sul cadavere di Rea Abernathy trovai lesioni o indizi che mi facessero dubitare del suicidio.» Come nel caso di Barrie Lou Rivers, Colin arrivò a una diagnosi per esclusione. «Non è questo il modo migliore di fare il medico legale» commenta, cupo, entrando in un’anticamera con profondi lavandini di acciaio, bidoni rossi per i rifiuti biologici, ceste e indumenti protettivi usa e getta disposti su scaffali. «Anzi, lo trovo molto frustrante.» «Per quale motivo era in carcere Rea Abernathy?» domando. «Pagò uno perché le ammazzasse il marito annegandolo in piscina. Sperava che passasse per un incidente, ma il poveretto aveva una contusione piuttosto estesa sulla nuca e un ematoma intracranico altrettanto importante, da cui si dedusse che era già morto prima che lo buttassero in acqua. Inoltre la Abernathy aveva una storia d’amore con il killer.» «E lei? È da escludersi che morì annegata nel water?» «Non sarebbe stato possibile. I gabinetti della prigione hanno forma allungata e sono poco profondi: l’acqua è sotto il livello della tazza, proprio per impedire i suicidi. Per annegare o soffocare devi tenere la faccia completamente sommersa e non ce la puoi fare a meno che
non ti tenga giù la testa qualcuno. Ma lei non presentava lesioni, come ti ho già detto. Pare sia andata così: la Abernathy aveva nausea o forse si sforzava di vomitare, perché dicono avesse disturbi del comportamento alimentare, quando svenne oppure ebbe un’aritmia.» «Ammesso che fosse ancora viva quando finì in quella posizione.» «Non sta a me fare certe supposizioni» replica Colin, sconfortato. «Non c’era niente di sospetto, il tossicologico era negativo... Un’altra diagnosi per esclusione.» «È il simbolismo a lasciarmi perplessa» osservo. «Il marito muore “annegato” e lei muore con la testa dentro il gabinetto, apparentemente annegata. Shania Plames impicca i figli e muore impiccata.» Mi viene in mente quello che ha detto Tara Grimm a proposito del fatto che chi fa del male a un bambino o a un animale è imperdonabile e che la vita è un dono che può essere dato come tolto. «Barrie Lou Rivers ammazza con tramezzini al tonno e arsenico e mangia un tramezzino al tonno prima di venire giustiziata» aggiungo. Ci mettiamo manicotti antispruzzo e grembiuli impermeabili, copriscarpe, mascherine e cuffie. «Preferivo ai vecchi tempi, quando non c’era bisogno di bardarsi a questo modo» dice Colin. Mi sembra arrabbiato. «Non è che non ce ne fosse bisogno.» Mi copro naso e bocca con la mascherina. «Solo che non lo sapevamo.» Inforco gli occhiali protettivi. «Be’, adesso ci sono un sacco di cose di cui avere paura» replica lui. Mi rendo conto che è veramente scoraggiato. «Mi aspetto sempre qualche flagello nuovo, inaudito. Armi chimiche, virus... Non me ne frega niente di quello che sostengono tutti: non siamo preparati a un numero elevato di cadaveri contaminati o infettivi.» «La tecnologia non può sanare quello che distrugge e, se dovesse mai succedere il peggio, non saremmo in grado di gestirne le conseguenze» ammetto. «Se lo dici tu, con tutte le risorse che hai! Il fatto è che non c’è cura per la natura umana» sentenzia Colin. «Non è possibile rimettere il genio nella lampada, una volta che è uscito. Se penso alle stronzate che fa certa gente al giorno d’oggi...» «Il genio non è mai stato chiuso nella lampada, Colin.» Oltrepassiamo la sala radiografie e dalla porta aperta vedo un fluoroscopio con braccio a C che io non uso più. Ma le tecnologie avanzate tipo tomografia computerizzata e risonanza magnetica con software 3D non ci servirebbero a risolvere questo caso. Non credo che ciò che ha ucciso Kathleen Lawler si vedrebbe con una TAC, una risonanza o altri tipi di imaging. Spero che Sammy Chang stia portando documenti e tamponi ai laboratori. Nella sala autopsie c’è un uomo muscoloso, con il camice sporco e il grembiule di plastica tutto insanguinato, che sutura il corpo di quello che presumo essere la vittima dell’incidente stradale di cui parlavano prima. Ha la testa deformata, come una lattina accartocciata, e il
volto sfigurato, irriconoscibile. La carne sanguinolenta contrasta in maniera macabra con il metallo lucente, freddo e sterile, e con l’assenza di colori tipica degli obitori. Non so dargli un’età, ma vedo che ha i capelli neri e il fisico asciutto e prestante. Probabilmente andava regolarmente in palestra. Sento l’odore del sangue e dei tessuti che iniziano a decomporsi, della biologia che si arrende al degrado, e guardo il lungo ago chirurgico che brilla alla luce della plafoniera. Nei lavandini di acciaio gocciola acqua. In fondo alla sala c’è Kathleen Lawler stesa su una barella dentro un sacco mortuario bianco. «Come mai gli abbiamo dovuto fare l’autopsia?» chiede Colin all’assistente, che ha i capelli rasati e un tatuaggio del bulldog dei marine sul collo. «Non ha più la faccia, manco gli avessero sparato da distanza ravvicinata! Non vedo cosa l’abbiamo dovuto aprire a fare: cosa c’era di sospetto in questa morte per incidente da gravare sulle tasche dei contribuenti della Georgia?» «Poteva essere finito nella corsia opposta durante l’ora di punta in seguito a un malore al volante» replica il giovanotto, ricucendo l’incisione a Y dallo sterno al pube. «Soffriva di cuore e la settimana scorsa era stato in ospedale per dolori toracici.» «E cos’abbiamo deciso, alla fine?» «Io non decido niente. Non sono pagato abbastanza per decidere.» «Nessuno qui dentro è pagato abbastanza» replica Colin. «L’impatto contro il camion l’ha spappolato ed è morto per arresto cardiaco.» «Non arresto respiratorio? George, non so se conosci la dottoressa Kay Scarpetta.» Colin è cupo. «Be’, che ha smesso di respirare è garantito. Piacere. Lo sto solo prendendo un po’ in giro, non si preoccupi. Ogni tanto qualcuno lo deve fare.» Mi fa l’occhiolino, continuando a ricucire il morto. «Quante volte alla settimana predichi agli studenti che passano di qui che arresto cardiaco e respiratorio non sono cause di morte?» Fa il verso al suo capo: «Se ti sparano dieci colpi di pistola, tu smetti di respirare e il tuo cuore smette di battere, ma non è per questo che muori». Nonostante la presa in giro, Colin non ride. Non sorride neanche. «Ho quasi finito» dice George, più serio. «Hai bisogno di me per la prossima autopsia?» Recide il filo di sutura con la punta curva e affilata dell’ago, poi lo pianta in un blocco di polistirolo. «Altrimenti vado a mettere via il materiale che è arrivato stamattina e pulisco come si deve l’area di carico e scarico. Uno di questi giorni dobbiamo decidere cosa fare dei barattoli. Mi spiace dirtelo in continuazione, ma non vorrei che ci crollassero gli scaffali e che campioni e formalina finissero da tutte le parti. Non abbiamo spazio e non abbiamo soldi. Sempre la stessa musica» dice poi, rivolgendosi a me.
«Sai che sono uno che non butta via niente. Aspetta qui, almeno un po’. Noi iniziamo e vediamo come va.» Colin ha un’espressione dura e gli leggo negli occhi cosa pensa. Si sta chiedendo se non si sia lasciato sfuggire qualcosa. È un pensiero che disturba tutti noi che ci prendiamo cura dei morti. Se sbagliamo una diagnosi, possono morire altre persone. Capendo se una morte è dovuta ad avvelenamento da monossido di carbonio o a un omicidio, possiamo prevenirne altre. È raro che noi salviamo qualcuno, ma dobbiamo occuparci di ogni caso come se fosse possibile farlo. «Hai ancora i campioni relativi a quei vecchi casi?» domando a Colin, pensando a Barrie Lou Rivers, Shania Plames e Rea Abernathy. «Il contenuto dello stomaco no, maledizione. Avrei dovuto congelarlo.» «Come facevi a sapere che si sarebbe rivelato importante?» «Non lo sapevo, infatti. Non potevo saperlo. Ma mi dispiace lo stesso non averlo conservato.» «È sempre così, nel nostro lavoro.» Tento di consolarlo. «Certe analisi sono possibili sui reperti conservati in formalina. Dipende da quello che cerchi.» «Il problema è proprio questo. Cosa cerchiamo?» Il pavimento è rivestito di resina epossidica, con tre tavoli montati su colonnine e completi di lavandino, sotto cappe aspiranti illuminate. Accanto a ogni postazione di lavoro c’è un carrello con gli strumenti chirurgici, provette e contenitori per i reperti, un tagliere, una sega elettrica oscillante collegabile a una bobina avvolgicavo e contenitori color rosso fuoco per lame e bisturi. Alle pareti sono montati armadietti, diafanoscopi e purificatori d’aria a raggi ultravioletti; ci sono forni per l’essiccazione dei campioni, piani di lavoro e seggiole pieghevoli di metallo per compilare diagrammi e moduli. «Il capo sei tu, ma io per prima cosa controllerei con che cosa può essere venuta in contatto» suggerisco a Colin. «Quel residuo grigio gessoso che odorava di filo elettrico bruciato. Sarebbe utile analizzarlo subito e capire cos’era. Probabilmente arrivava da fuori. Non voglio dirti cosa fare o non fare, Colin, ma se puoi mettergli un po’ di fretta è meglio.» «Gliela metterà già Sammy, te l’assicuro. E quelli del laboratorio si appassionano quando capita un caso come questo. Ormai non si fa altro che DNA, ma mica si possono risolvere tutti i casi a colpi di DNA. Prova a dirlo a polizia e pubblici ministeri, però. Scommetto che al laboratorio prove materiali si metteranno subito al lavoro. Io l’odore non l’ho sentito, ma ti credo. E mi fa piacere che tu mi suggerisca come procedere. Così su due piedi non mi viene in mente nessun veleno che possa puzzare di filo bruciato.» «Cosa pensi che sia?» chiedo. «Che cosa si è procurata e come? Era in isolamento, non poteva certo andare in giro per le aree comuni e farsi passare sottobanco dalle altre detenute cose proibite.»
«Ovviamente dobbiamo concentrarci su quelli che avevano accesso alla sua cella. Lo faccio sempre quando muore un detenuto, anche se le circostanze sembrano normalissime. E qui di normale non c’è niente. Non più.» 030_chapter24
24 Sul bancone ci sono varie scatole di guanti di diverse misure. Ne prendo due paia per me e due per Colin, che abbassa la cerniera del sacco, facendo frusciare la plastica. Lo aiuto a spostare il corpo di Kathleen Lawler sul tavolo di acciaio, poi Colin va a prendere una serie di moduli e diagrammi da riempire e li fissa a una cartellina rigida. Intanto io tolgo gli elastici ai polsi e alle caviglie e levo i sacchetti in cui le ho infilato mani e piedi prima del trasporto, li piego e li preparo perché vengano portati al laboratorio che effettuerà le analisi. Strappo un grosso pezzo di carta bianca “da macellaio” da un apposito distributore e copro il tavolo accanto al nostro. Il corpo è notevolmente più freddo, ora, ma non è rigido ed è facile da svestire. Posiamo gli indumenti sul tavolo che ho appena coperto di carta: la camicia bianca della divisa con la scritta blu DETENUTO sulla schiena, i calzoni bianchi con la patta abbottonata e le iniziali GPFW in blu lungo la gamba, reggiseno e mutandine. Prendo una lente di ingrandimento dal carrello, accendo la lampada e scopro una macchia che sembra una ditata, arancione, appena accennata, come se Kathleen si fosse pulita le mani sulla gamba destra dei pantaloni. Prendo la macchina fotografica da uno scaffale, appoggio un righello vicino alla macchia e sistemo la luce. «Non so dove fai analizzare gli alimenti» dico a Colin. «A me questo sembra formaggio, ma dobbiamo accertarlo. Non voglio prelevare tamponi io: lascio che lo facciano i tecnici del laboratorio. Aveva qualcosa di arancione anche sotto l’unghia del pollice destro. Dev’essere la stessa cosa, che ha toccato o mangiato poco prima di morire.» «Il Georgia Bureau of Investigation si rivolge a un laboratorio privato di Atlanta per le analisi di alimenti, cosmetici, prodotti di consumo e quant’altro» mi risponde Colin. «Mi chiedo se lo spaccio vende formaggio a pezzi o da spalmare.» «Il colore è quello del cheddar. Io non ho visto formaggio nella cella, né a pezzi né da spalmare, ma potrebbe esserci stato fino a poco prima. Certo, se non avessero portato via la spazzatura ne sapremmo di più. La Plames aveva petecchie negli occhi o sul viso?» Torno a parlare di Shania Plames avvicinandomi di nuovo al cadavere di Kathleen Lawler. «No. Ma non è detto che ci siano nei suicidi per asfissia con occlusione vascolare totale.» «A quanto mi hai detto, se si è legata i calzoni intorno al collo e alle gambe, non credo che l’occlusione vascolare sia stata totale, come nei casi di sospensione completa o nello strangolamento con un laccio intorno al collo.» «Era una cosa strana» concorda solennemente Colin. «Potrebbe essere stata una messinscena?» «All’epoca non ci pensai minimamente.»
«Capisco benissimo. Penso che non sarebbero venuti sospetti neanche a me.» «Non posso escludere che sia stata messa in quella posizione da qualcuno» continua. «Ma ci sarebbero stati segni di colluttazione, lesioni lasciate da qualche oggetto contundente usato per metterla fuori combattimento. Invece non aveva nemmeno un livido.» «Forse era già morta quando è stata legata e messa nella posizione in cui è stata poi ritrovata.» «Mi stanno venendo un sacco di dubbi» mi confessa, sconfortato. Misuro un tatuaggio sull’addome, in basso a destra, che raffigura una fatina simile a Campanellino. Da ala a ala misura 16,5 cm e dal modo in cui l’immagine risulta tesa deduco che è stato fatto quando Kathleen Lawler era più magra. «Se era già morta quando l’hanno incaprettata prona sul letto, sarebbe interessante sapere com’era morta» aggiungo. «Non c’era niente che facesse pensare a qualcosa di sospetto o fuori dall’ordinario.» Colin si alza la mascherina, coprendosi naso e bocca. «Qualcosa che all’autopsia non si vede e non risulta all’esame tossicologico.» «Ci sono innumerevoli veleni che non risultano a un normale test tossicologico» osservo mentre giriamo il cadavere sul fianco per esaminare la schiena. «Ad azione rapida, con sintomi in gran parte non riportati perché la vittima è sola o perché i testimoni sono inaffidabili.» Misuro un altro tatuaggio, questa volta a forma di unicorno. «E, soprattutto, letale in maniera che la vittima non possa dire niente. Non risultano tentativi di avvelenamento non andati a buon fine, mi pare.» «Che io sappia, no» concorda Colin. «Ma come facciamo a saperlo? Se una detenuta si sente molto male ma non muore, a noi la notizia non arriva. Non è che ci avvertono, se uno rischia di morire ma poi si riprende.» Preme le dita su un braccio e su una gamba e prende nota del moderato livor mortis. Solleva le palpebre e misura le pupille servendosi di un righello di plastica. «Egualmente dilatate. Sei millimetri» dichiara. «In teoria con gli oppiacei si osserva la contrazione delle pupille anche post mortem. Io, però, non l’ho mai vista. Altre sostanze provocano dilatazione, ma le pupille dei morti sono sempre dilatate.» Pratica una rapida incisione da una clavicola all’altra e quindi scende lungo lo sterno fino al pube. «Le facciamo anche un tampone vaginale per accertarci che non abbia subito violenza. Non voglio tralasciare nulla.» Comincia a ripiegare i tessuti, guidando il bisturi con l’indice della destra e aiutandosi con il pollice, mentre tiene la pinza nella sinistra. «In quale armadietto li tieni?» domando. Colin me lo indica con il dito insanguinato. Trovo il kit e prelevo un tampone in ogni orifizio. Poi fotografo ed etichetto tutto.
«Già che c’ero, ho prelevato un tampone anche nel naso e nella bocca, per l’esame tossicologico» dico a Colin. «E farei anche l’analisi del capello.» Colin estrae la parte anteriore della cassa toracica e la infila in un sacco di plastica ai suoi piedi. In quel momento entra George, il suo assistente, con alcune lastre. Le posa sopra i diafanoscopi e io mi avvicino a dare un’occhiata. «Vecchia frattura alla tibia destra. Nulla di recente. Tipiche alterazioni artrosiche.» Passo da un diafanoscopio all’altro, controllando le ossa bianche e le ombre che corrispondono agli organi interni. «Lo stomaco è abbastanza pieno. Non me lo sarei aspettato, visto che risulta che abbia mangiato alle cinque e mezzo del mattino e sia morta a mezzogiorno, oltre sei ore dopo. Eppure lo stomaco non si è svuotato.» Torno al tavolo dell’autopsia e prendo un bisturi. «Dunque è qualcosa che arresta la digestione. Neanche Barrie Lou Rivers aveva digerito il suo ultimo pasto. E le altre due?» Intendo Shania Plames e Rea Abernathy. «Non ricordo bene, ma sì, mi sembra che avessero lo stomaco pieno anche loro» mi risponde Colin. «Di Barrie Lou Rivers sono certo e ricordo di aver pensato che fosse stato lo stress. È abbastanza normale, prima dell’esecuzione. Il condannato consuma il suo ultimo pasto ma non lo digerisce per l’ansia, il panico. Eppure mangiano tutti, prima di andare a morire. Io penso che non mangerei. Mi farei portare una bottiglia di bourbon e una scatola di sigari cubani.» Pratico un’incisione nello stomaco e lo svuoto dentro un contenitore. «Be’, certamente non ha mangiato quello che ci hanno detto di averle servito in cella stamattina.» «Non uova e mais?» Colin lancia uno sguardo e intanto solleva il fegato dal piatto d’acciaio della bilancia elettronica, usando tutt’e due le mani. Poi prende un coltello da autopsia con il manico lungo e la lama larga. «Duecentottanta millilitri, con pezzetti di pollo e pasta, a occhio. Oltre alla sostanza arancio.» «No, non penso sia frutta» rispondo. «Il colore è simile, ma mi sembra piuttosto formaggio. Dev’essere la stessa cosa che ho trovato sotto l’unghia del pollice e sui calzoni della divisa. Dove può essersi procurata pasta con pollo e formaggio, stamattina?» «Modesta infiltrazione grassa del fegato, ma niente di grave, tutto considerato. Un fegato su tre è normale, fra gli alcolisti» dice Colin, cominciando a dedicarsi ai polmoni. «Sai come si definisce un alcolista? Uno che beve più del proprio medico curante. Quindi hanno mentito, riguardo a quello che ha mangiato a colazione. Pasta e pollo? Non capisco...» Solleva un polmone dalla bilancia e si pulisce le mani protette dai guanti con un asciugamano. «Se l’hanno ammazzata loro, come mai non hanno pensato che sarebbe finita qui dentro e che noi avremmo capito cosa aveva mangiato?» Annota i vari pesi su un foglio.
«La gente non pensa. Soprattutto se davvero Kathleen Lawler ha mangiato fra le cinque e mezzo e le sei di stamattina, quando servono la colazione nel Blocco B.» Scrivo un’etichetta e la applico al contenitore, per l’esame tossicologico. «Avranno pensato che digerisse tutto prima di morire. In circostanze normali, lo stomaco a quel punto sarebbe stato vuoto.» «Congestione. Lieve edema.» Colin affetta un polmone. «Capillari alveolari edematosi, liquido rossastro e schiumoso negli spazi alveolari. Tipico dell’insufficienza respiratoria acuta.» «E dell’insufficienza cardiaca. Il cuore era in condizioni sorprendentemente buone.» Comincio a sezionarlo su un grosso tagliere. «Sembra un po’ troppo chiaro. Nessuna cicatrice. Vasi pervi. Valvole, corde tendinee e muscoli papillari nella norma» detto continuando a sezionare. «Spessore della parete ventricolare e diametro delle camere nella norma. Aorta e arteria polmonare pervie. Assenza di lesioni miocardiche.» «Non l’avrei detto.» Colin si pulisce di nuovo le mani e scrive. «Niente che faccia pensare all’infarto, dunque. Punta tutto verso la tossicologia.» «Non vedo assolutamente niente che indichi l’infarto. Puoi fare un esame istologico: in teoria i cardiomiociti si dividono dopo un infarto. In generale, se non vedo evidenze anatomiche, io sono scettica. E qui non ne vedo. Arteriosclerosi minima nell’aorta.» Alzo gli occhi perché sento aprire le porte della sala. «Nulla che indichi un decesso legato a problemi cardiaci, a mio parere.» Sento voci familiari e vedo che George è rientrato. Riconosco la voce calma e baritonale di Benton e nel vederlo provo un moto di sollievo. Ha un paio di pantaloni beige stropicciati e una polo verde. È snello, bellissimo. Ha i capelli grigi pettinati all’indietro, forse perché ha sudato a bordo del furgone senza climatizzatore. Non mi importa più essere in una sala autopsie che odora di morte, con il cadavere di Kathleen Lawler aperto sul tavolo e i suoi organi sezionati in un secchio per terra. Non mi importa se sono tutta sporca di sangue. Sono felice di vedere Benton. Non voglio che si avvicini, però, e non perché stiamo effettuando un’autopsia. Vedo Lucy, magra e minacciosa nella tuta da volo nera, i capelli castani sciolti sulle spalle, con qualche ciocca più chiara. Restano dove sono, in fondo alla sala. «Restate lì» dico lo stesso. Mi rendo conto dal modo in cui Benton mi guarda che è successo qualcosa. «Non sappiamo con cosa sia venuta in contatto, ma riteniamo che sia morta per avvelenamento. Dov’è Marino?» «Non è voluto entrare. Probabilmente per lo stesso motivo per cui tu non vuoi che ci avviciniamo» mi risponde Benton. Dev’essere successo qualcosa. Glielo leggo negli occhi, nella tensione della postura, nell’imperturbabilità del volto. Mi guarda negli occhi e mi accorgo che è agitato ma cerca di mantenere la calma: fa così quando è molto preoccupato.
«Dawn Kincaid è in coma» annuncia. Mi suona un allarme nella testa. «Ho ricevuto l’ultimo aggiornamento quando siamo atterrati. Parlano di possibile morte cerebrale, ma non è ancora ufficiale.» Indirizza la voce in maniera che io e Colin lo sentiamo. «Sapete com’è: non si può mai stabilire con assoluta certezza. Qualsiasi sia la causa, è alquanto sospetta» continua. Mi torna in mente la faccia di Jaime Berger ieri sera, quando sono andata via da casa sua. Le si chiudevano gli occhi e aveva le pupille dilatate. «Sembra che al cervello sia mancato l’ossigeno per troppo tempo» dice Benton. Jaime parlava con difficoltà e sembrava avesse la bocca impastata, prima che io uscissi verso l’una. «Quando sono andati a prenderla in cella non respirava più. L’hanno ripresa per un soffio, ma non si sa in che condizioni.» Mi torna in mente il sacchetto con il sushi che ho portato io in casa sua, dopo che me lo aveva consegnato una sconosciuta. L’ho preso senza pensare. «Credevo stesse bene» comincio a dire. «Che avesse semplicemente un attacco d’asma...» «Avevamo poche informazioni in quel momento. Hanno voluto tenere la cosa sotto silenzio» mi interrompe Benton. «In un primo tempo si è pensato a un attacco d’asma, ma i sintomi sono peggiorati rapidamente. Le è stata somministrata una dose di epinefrina dai medici del Butler State Hospital, che pensavano a una crisi anafilattica, ma non ha avuto miglioramenti. Non riusciva più a parlare, né a respirare. Si teme che sia stata avvelenata.» Ripenso alla donna con il casco da ciclista con la lampadina, che appoggiava la bici al lampione. «Non si capisce come sia potuta venire a contatto con un veleno al Butler» continua Benton, dall’altra parte della sala. La donna mi ha consegnato un sacchetto con il sushi e io ho avuto per un attimo la sensazione che ci fosse qualcosa che non andava, ma non ci ho badato particolarmente perché era tutto il giorno che avevo quella sensazione. Era da quando Benton mi aveva accompagnato all’aeroporto di Boston che avevo la sensazione che qualcosa non andasse. Ripenso all’arrivo di Jaime, quando io e Marino la aspettavamo già da un’ora. Non sembrava sapesse del sushi, ma io non ci ho dato peso. Poso il bisturi. «Qualcuno ha parlato con Jaime oggi? Perché io non l’ho sentita e qui non ha chiamato.» Nessuno risponde. «Eravamo d’accordo che avrebbe fatto un salto qui. Le ho lasciato un messaggio, ma non mi ha richiamato.» Mi tolgo la cuffia e il grembiule. «E Marino? Sappiamo se Marino le ha par-
lato? Mi ha detto che le avrebbe telefonato.» «Ci ha provato per strada, ma non gli ha risposto» dice Lucy. Dal suo sguardo intuisco che ha capito perché sto facendo quelle domande. Getto gli indumenti protettivi nel bidone dei rifiuti e mi sfilo i guanti. «Chiama il 911 e vedi se riesci a contattare Sammy Chang. Digli di raggiungerci» mormoro a Colin. «E digli di mandare un’ambulanza.» Gli do l’indirizzo. 031_chapter25
25 Di fronte al palazzo ci sono due auto della polizia e il SUV bianco di Sammy Chang, senza luci d’emergenza e senza lampeggiatori a segnalare tragedie o disastri. Non sento sirene vicine o in lontananza, ma solo il baccano del motore del furgone e il rumore dei tergicristalli nuovi sul parabrezza. Abbiamo i finestrini chiusi e l’aria è viziata e soffocante; dalle bocchette di ventilazione entra aria calda e umida. La pioggia scroscia così violenta che sembra di essere in un autolavaggio. C’è un fragore di tuoni e la città vecchia è avvolta nella nebbia. Per ripararsi, Sammy Chang e due agenti di polizia di Savannah-Chatham si sono rifugiati sotto il portone che ieri sera mi è stato aperto proprio quando la donna in bicicletta è apparsa dal nulla al mio fianco, come un fantasma. Insieme a Lucy, Benton e Marino scendo dal furgone sotto la pioggia battente e mi guardo di nuovo intorno alla ricerca dell’ambulanza, che non vedo. Non sento neanche sirene, e mi irrito. Voglio una squadra di soccorso, per precauzione. Per risparmiare tempo, ammesso che ce ne sia ancora. Lo scroscio della pioggia sul marciapiede di mattoni sembra un battimani. «Polizia. C’è qualcuno? Polizia!» urla un agente, suonando il citofono. «Non risponde.» Fa un passo indietro e si guarda intorno mentre la pioggia cade sempre più forte. «Dobbiamo trovare un altro modo per entrare. Piove tutti i santi giorni, maledizione.» Alza lo sguardo verso il cielo scuro. «E, come al solito, ho lasciato l’impermeabile in macchina.» «Non dura. Quando usciamo avrà già smesso» replica l’altro poliziotto. «Speriamo che non grandini. Mi si è già rovinata una macchina per colpa della grandine: sembrava che ci fossero saltellati sopra con i tacchi a spillo.» «Che cosa ci fa qui a Savannah un procuratore di New York? È in vacanza? Ci sono un sacco di residenti in questo palazzo che d’estate se ne vanno e alcuni affittano a settimana. Quanto tempo si trattiene, lo sapete?» «Qualcuno di voi ha chiamato un’ambulanza?» chiedo a voce alta. Il vento muove le grandi querce e fa ondeggiare la tillandsia: sembra che ai rami siano appesi stracci sporchi e laceri. «Sarebbe meglio se ci fosse un’ambulanza» spiego. Chang e i due poliziotti ci vedono arrivare di corsa sotto l’acqua che scroscia furiosamente. «Chissà se nel condominio c’è un amministratore che ha le chiavi di tutti gli appartamenti» dice uno degli agenti. «Non mi pare.» «Negli stabili vecchi di solito non c’è» conferma Chang. «Potremmo tentare con qualche vicino, forse...» Arriva Marino con le chiavi in mano e si fa largo, quasi spintonando gli agenti per passare.
«Calma, calma. Chi è lei?» Ascolto distrattamente Sammy Chang che spiega ai due agenti chi siamo e perché siamo qui. Intanto Marino apre il portone. Ho i vestiti e gli anfibi fradici. Mi passo le dita fra i capelli gocciolanti e sento dire “FBI”, “Boston” e “medico legale che lavora con Dengate” mentre ci dirigiamo all’ascensore. Lucy è dietro di me e mi posa una mano sulla schiena, spingendomi e al tempo stesso appoggiandosi a me: comprendo il significato di quel gesto e percepisco la sua disperazione. Non lo faceva da tanto, da quando era piccola e si sentiva protettiva o spaventata, o aveva paura di perdermi nella folla o che io la abbandonassi. Le ho detto di non preoccuparsi, che ci sarà di certo una spiegazione logica, ma in cuor mio non ci credo. Non nel senso che vorrei. Le ho detto che non sappiamo niente, ma dentro di me non ho speranze. Prevedo il peggio. Jaime non risponde al cellulare, né al telefono di casa, né alle e-mail e agli SMS. Non la sentiamo da quando io e Marino l’abbiamo salutata verso l’una di ieri sera, ma a Lucy ho detto che potrebbe esserci una spiegazione logica. L’ho rassicurata ripetutamente che vogliamo intraprendere tutte le azioni possibili, ma che questo non significa che diamo per scontato il peggio. Io, però, sono pessimista. Quello che sto provando è dolorosamente familiare, un vecchio amico triste e sinistro, un deprimente leitmotiv della mia vita. Anche la mia reazione è un sentimento che conosco bene, un profondo abbattimento, una sensazione di indurimento, come se qualcosa dentro di me stesse sedimentando, si stesse assestando pesantemente in una profonda oscurità, uno spazio senza fondo e senza luce, sempre più irraggiungibile. È quello che provo ogni volta che entro in un luogo dove la morte mi attende silenziosa e puntuale affinch mi occupi di lei come solo io sono in grado di fare. Ignoro quello che sta passando per la testa di Lucy. Credo che non stia provando niente di analogo, bensì qualcosa di confuso, contraddittorio e impalpabile. Durante i venti minuti che ci sono voluti per arrivare qui, mia nipote è stata ragionevole e si è data un contegno, ma ora è pallidissima e sembra terrorizzata e arrabbiata. Vedo le sue emozioni rispecchiarsi come luci e ombre nei suoi intensi occhi verdi e ho percepito la sua confusione nei commenti che ha fatto durante il viaggio. Ha detto che l’ultima volta che ha parlato con Jaime è stato sei mesi fa, quando l’ha accusata di essersi buttata in questa cosa per la ragione sbagliata. “Quale cosa?” le ho chiesto. “Difendere certa gente, salvarla anche a costo di trasformare la menzogna in verità. Lo fa anche con se stessa. La fa sentire meglio” mi ha risposto Lucy. “È come se Jaime fosse riuscita a scalare una montagna per raggiungere la verità e poi fosse caduta dall’altra parte” mi ha detto sul furgone, dove faceva caldissimo e c’era un baccano tremendo, mentre cominciava a piovere. Aveva la voce piena di paura e rabbia. “L’ho avvertita, perché l’ho capito
molto chiaramente” ha aggiunto. “Le ho spiegato per filo e per segno cosa stava facendo e lei l’ha fatto lo stesso.” «Vai avanti tu» sta dicendo Benton a Marino. “Si è esposta a livelli molto pericolosi” mi ha detto Lucy in macchina, sotto il diluvio, e le tremava la voce, come se le mancasse il fiato. “Perché l’ha fatto? Perché?” «Aveva dei problemi?» chiede uno dei poliziotti a Marino. «Personali, economici o di altro genere?» «No.» «Sarà andata da qualche parte senza dire niente a nessuno, magari a fare un giro turistico.» «Non è da lei» risponde Lucy. «Per un cazzo.» «Potrebbe aver dimenticato il cellulare, o avere la batteria scarica. Avete idea di quanto spesso capita?» «Non è andata a fare nessun giro turistico» ribadisce Lucy dietro la mia schiena. Marino si asciuga la faccia nella manica, guardandosi furtivamente attorno, come fa quando vuole nascondersi dietro una maschera di rude impenetrabilità. Le porte dell’ascensore si aprono ed entriamo tutti, tranne Benton e Lucy. I poliziotti elencano varie possibilità, cercando di distrarci, di toglierci un po’ di ansia. Ma non hanno argomenti. «Probabilmente sta benone. È sempre così: viene qualcuno a trovarli, non si fanno sentire e gli altri si preoccupano.» Sono agenti di pattuglia e per loro questa è una semplice richiesta di assistenza, forse un po’ più drammatica del solito, con personaggi un po’ più ufficiali, ma pur sempre una richiesta d’assistenza. Per loro è routine, specialmente in questo periodo dell’anno, il periodo di punta della stagione turistica, tempo di vacanze, quando le scuole sono chiuse. Le persone chiamano il 911 e insistono perché la polizia vada a controllare come sta un amico o un parente che non risponde al telefono e che non sentono da un po’. In novantanove casi su cento, non è niente e, anche in caso contrario, non è mai una tragedia. È rarissimo che la persona sia morta. «Vengo con te» mi dice Lucy. «Voglio entrare per prima.» «Voglio venire con te.» «No. Aspetta.» «Devo» insiste Lucy, e Benton la abbraccia stretta, non solo per consolarla, ma anche per impedirle di salire le scale ed entrare in casa. «Ti chiamo appena sono dentro» le prometto mentre le porte dell’ascensore si chiudono. Mia nipote sparisce alla vista e io provo un dolore talmente intenso che non riesco a
descriverlo. Il vecchio ascensore di legno e ottone lucido sale sobbalzando. Spiego agli agenti che nessuno ha sentito Jaime Berger e lei non è venuta a Savannah per turismo. Non è qui in vacanza. È probabile che non le sia successo niente e certamente spero che sia così, ma non è da lei sparire, tanto più che aveva detto che sarebbe passata dal dottor Dengate oggi e invece non si è presentata, né ha telefonato. Mi sembra che ci vorrebbe un’ambulanza, sarebbe meglio chiamarne una, e mentre lo dico mi rendo conto che mi sto ripetendo, sto continuando a dire la stessa cosa. Gli agenti, tutti e due giovani, si sono fatti una loro idea della situazione. Danno per scontato che Marino viva con la signora di New York che non sta rispondendo al telefono e non ha più contattato nessuno. Altrimenti perché avrebbe le chiavi di casa? Pensano che ci siano sotto rapporti complicati, di cui nessuno vuole parlare. Ribadisco che Jaime è un noto sostituto procuratore di New York – anzi, lo era – e abbiamo motivo di temere per la sua incolumità. «Quando è stata l’ultima volta che l’ha vista?» chiede a Marino uno degli agenti. «Ieri sera.» «E non è successo niente di anomalo?» «No.» «Andavate d’accordo?» «Sì.» «Non avete avuto discussioni?» «No.» «Neanche un piccolo bisticcio?» «No.» «Lievi divergenze di opinione?» «Per piacere, smettetela con queste domande del cazzo.» «È una situazione delicata» interviene Sammy Chang mentre l’ascensore si ferma al piano, ma né Chang né nessuno di noi approfondisce. Non parliamo di Kathleen Lawler e del fatto che potrebbe essere stata avvelenata. Non ho nessuna intenzione di dare volontariamente informazioni riguardo a Lola Daggette, ai Delitti Mensa o a Dawn Kincaid, che era rinchiusa in un ospedale psichiatrico giudiziario e adesso è in coma e forse è stata avvelenata. Evito di parlare della donna in bicicletta che ieri sera mi ha consegnato del sushi che probabilmente Jaime non aveva ordinato. Non voglio parlare, spiegare, fare congetture, immaginare. Sono in ansia e al tempo stesso so già cosa ci aspetta, o lo temo fortemente. Usciamo dall’ascensore e ci precipitiamo in fondo al corridoio. Marino apre la porta.
«Jaime?» la chiama entrando in casa. Noto subito che l’allarme non è inserito. «Cazzo!» borbotta Marino: l’ha notato anche lui. Avvampa, sudato. «Lo inserisce sempre. Perfino quando è in casa. Ciao! Jaime sei in casa? Merda.» La cucina è esattamente come ieri sera quando me ne sono andata, a parte una boccetta di pasticche contro l’acidità di stomaco sul bancone. Non c’era quando ho lavato i piatti e messo via gli avanzi. La grande borsa marrone che Jaime ha appeso allo schienale dello sgabello quando è entrata con la cena acquistata da Broughton and Bull adesso è sul divano in pelle nel soggiorno e il suo contenuto è sparso sul tavolino. Non ci soffermiamo a controllare quello che potrebbe mancare, quello che forse Jaime cercava. Io e Chang seguiamo Marino lungo il corridoio, verso la camera da letto. Dalla porta aperta vedo un letto basso e Jaime, in vestaglia bordeaux slacciata e sgualcita, stesa su un groviglio di lenzuola verdi e marroni. È a faccia in giù, girata su un fianco, le braccia e la testa penzoloni dal materasso, in una posizione non dissimile da quella di Kathleen Lawler, come se entrambe avessero lottato fino all’ultimo istante di agonia. L’abat-jour sul comodino è acceso e le tende sono tirate. «Merda» impreca Marino. «Gesù!» mormora poi. Mi avvicino e sento odore di torba e di frutta. È l’odore dello scotch: ce n’è un po’ rovesciato sul comodino, dove vedo anche un bicchiere su un fianco e la base vuota di un cordless. Le tasto il collo alla ricerca di una pulsazione, ma Jaime è fredda e già rigida. Guardo Sammy Chang e poi uno degli agenti, che sta entrando nella stanza. «Vado e torno» dice Sammy Chang. «Ho bisogno di prendere alcune cose che ho giù in macchina» aggiunge andandosene. L’agente guarda fisso il corpo sul lato destro del letto. Si avvicina e sfila la radio dalla cintura. «Resta indietro e non toccare niente» dice Marino brusco, guardandolo male. «Stia calmo.» «Non capisci un cazzo» esplode Marino. «Non c’entri un cazzo e non capisci un cazzo, perciò vattene.» «Si calmi, signore.» «Signore? Guarda che sono entrato in polizia ben prima di te!» «Calmati, Marino» intervengo. «Per piacere.» «Dannazione. Non ci posso credere. Cristo Santo, cos’è successo?» «È meglio tenersi il più possibile a distanza» dico all’agente. «Non sappiamo come sia morta» spiego, e lui indietreggia fino alla porta mentre Marino fissa il cadavere e poi distoglie lo sguardo con il viso in fiamme.
«Dice che potrebbe essere qualcosa di contagioso?» chiede l’agente. «Non lo so, ma è meglio non avvicinarsi e non toccare niente.» Esamino ogni parte visibile del cadavere senza notare particolari illuminanti. Ma l’assenza di indizi in realtà mi dice qualcosa. «Lucy e Benton non devono entrare» dico a Marino. «Lucy non la deve vedere. Non così.» «Oh, cazzo! Oh, Gesù!» «Puoi scendere e assicurarti che non cerchi di venire su? Accertati che la porta dell’appartamento sia chiusa a chiave.» «Gesù. Cosa le è successo, secondo te?» Gli trema la voce e ha gli occhi rossi e lucidi. «Per piacere, controlla che la porta sia chiusa a chiave» gli ripeto. Poi mi rivolgo all’agente, che ha i capelli rossi, corti, e gli occhi azzurri. «Dica al suo collega di restare fuori e non lasciar passare nessuno. Per il momento non possiamo fare altro e non dobbiamo toccare niente. Abbiamo una morte sospetta e dobbiamo considerare questa casa la scena di un crimine. Temo un avvelenamento. Non dobbiamo spostare nulla. Preferirei che non stesse qui, visto che non sappiamo con che cosa abbiamo a che fare, ma è indispensabile che non mi lasci sola neanche un secondo» dico all’agente con i capelli rossi, mentre Marino esce con passo pesante. «Perché la dobbiamo considerare la scena di un crimine?» L’agente si guarda intorno, ma non si muove dalla porta: non ha nessuna voglia di avvicinarsi dopo quello che gli ho detto. Preferisce tenersi a distanza. «Per la borsa di là? Ma se ha fatto entrare qualcuno che poi l’ha derubata, lo doveva comunque conoscere. Altrimenti dal portone non entrava.» «Non sappiamo se ha fatto entrare qualcuno.» «Dunque in casa potrebbe esserci qualcosa di velenoso.» «Sì.» «Però potrebbe anche essere morta di overdose da farmaci. Magari nella borsa cercava le pillole.» L’agente non si muove dalla sua posizione sulla porta. «Forse dovrei controllare il bagno.» Guarda la porta socchiusa a sinistra del letto, ma non si muove. «Meglio di no. Deve restare con me.» Cerco sul telefonino il numero di Benton. «L’anno scorso sono intervenuto a casa di una che si era fatta un’overdose di ossicodone, e la scena era molto simile a questa. Niente fuori posto, a parte che aveva cercato affannosamente le pasticche nei cassetti e nella borsa. Era morta sul letto, sopra le coperte, di traverso, non sotto. Giovane, bella, voleva fare la ballerina ma era dipendente dagli oppioidi.» Premo il tasto di chiamata e guardo il bagno senza avvicinarmi. La luce filtra attraverso la porta socchiusa. Sia l’abat-jour sul comodino sia la luce del bagno sono accesi. Jaime non è andata a letto ieri sera o, se c’è andata, a un certo punto si è alzata.
«Hanno detto che era stato un incidente, ma per me si è suicidata. L’aveva appena lasciata il fidanzato, aveva un sacco di problemi» sta dicendo l’agente, e sembra che parli a se stesso. «Lucy non deve entrare» dico a Benton appena mi risponde al telefono, e lui capisce al volo. Non dice niente. «Non so cosa suggerirti» aggiungo, perché non so cosa sia meglio dire a Lucy in questo momento. Capirà presto, se non ha già capito. Le possibilità sono due: o Jaime è morta o non lo è. Lucy lo sa, lo sta capendo in questo stesso momento osservando Benton che ascolta quello che gli dico al telefono, la descrizione di quello che vedo, e lui non fa niente per dissipare le paure di Lucy. Basterebbe uno sguardo, un sorriso, un gesto, una parola; invece lui non fa nulla. Lo immagino che guarda dritto davanti a sé mentre mi ascolta. Lucy si sta rendendo conto di cosa è successo e io non so cosa fare, ma so che ora non posso uscire e dedicarmi a lei. Devo occuparmi di quello che è accaduto qui. Devo occuparmi di Jaime. Devo pensare a quello che potrebbe accadere adesso. Guardo il cadavere sul letto, la vestaglia aperta raccolta sui fianchi. Jaime non ha altro addosso e non posso sopportare l’idea che l’agente dai capelli rossi sulla porta o chiunque altro la veda in queste condizioni. Ma non devo toccarla. Non posso toccare niente. Sto vicino alla finestra, non giro per la stanza, non mi avvicino. «Per piacere, resta con Lucy. Ti richiamo appena possibile» dico a Benton al telefono. «Se riesci a portarla in albergo, sarebbe la cosa migliore. Io vi raggiungo dopo. Se resta qui è peggio e tu per ora non puoi fare niente.» Non mi interessa se Benton è dell’FBI, o che poteri ha. «Non qui, comunque. Per piacere, stalle vicino.» «Certamente.» «Ci vediamo in albergo.» «Okay.» Gli dico che dobbiamo cambiare stanza, che dobbiamo prendere una suite, possibilmente con uso cucina. Voglio camere comunicanti, perché prevedo quello che accadrà e ho un’idea abbastanza chiara di quello che dobbiamo fare. Soprattutto, dobbiamo restare vicini. «Cercherò» promette Benton. «Tutti insieme» gli dico. «Non si discute. Potresti anche noleggiare un’auto o fartene dare una dal Bureau. Abbiamo bisogno di un mezzo, non possiamo andare in giro con il furgone di Marino. Non so quanto dovremo trattenerci qui.» «Speriamo bene per Marino.» Lo dice con calma; dal suo tono di voce non trapela nulla ma mi sta dicendo che, se Jaime è stata uccisa, Marino potrebbe avere problemi con la polizia. Potrebbero sospettare di lui: ha le chiavi di casa, probabilmente conosce il codice dell’allarme e aveva un legame molto stretto con lei. Gli agenti della polizia di Savannah han-
no già chiesto se ieri sera avevano avuto una discussione, se avevano litigato. Danno per scontato che stessero insieme. «Ovviamente non ho la certezza di quello che è successo» dico a Benton. «Ma ho un forte sospetto e mi comporterò di conseguenza. Nei limiti del possibile.» Sto cercando di dirgli che a parer mio Jaime è stata assassinata. «Speriamo bene anche per me.» Gli sto dicendo che anch’io avrò dei problemi. Marino non sarà l’unico a essere sospettato. Sono stata io a portare il sushi a Jaime, ieri sera. Potrei averle recapitato la morte dentro un sacchetto di carta bianca. «Sono qui» aggiungo. «E farò tutto quello che posso.» «Okay» si limita a dire Benton, perché Lucy è con lui e non può dire di più. Chiudo la telefonata, sola con il cadavere di Jaime e l’agente T.J. Harley. È questo il nome sulla targhetta. È rimasto sulla porta a osservare il cadavere e a guardarsi intorno senza sapere cosa cercare, incerto se rimanere con me come gli ho chiesto o se tornare dal collega e chiamare qualcuno della Omicidi. Gli leggo negli occhi che è confuso. «Che cosa c’è di sospetto, oltre al fatto che le hanno frugato nella borsa?» chiede. «Non sappiamo se è stato qualcun altro a svuotarla» gli faccio notare. «Potrebbe averci frugato lei.» «Per cercare cosa, se non pillole?» «Non sappiamo se è morta di overdose.» «Girava con molti contanti, abitualmente?» «Non ho idea di quanto abbia nel portafoglio o con quanti soldi girasse di solito» rispondo. «Potrebbe essere un buon movente.» «Non sappiamo se è stato rubato qualcosa.» «È possibile che sia stata strangolata o soffocata?» «Non vedo segni sul collo o emorragie petecchiali» rispondo. «Non c’è nulla che me lo faccia pensare, da quello che vedo. Ma occorre fare esami più approfonditi. È necessaria un’autopsia. Fino a questo momento non sappiamo quale sia la causa del decesso.» «In che rapporti era con il suo amico?» Intende Marino. «Lavoravano insieme quando lui era nel dipartimento di polizia di New York, e ultimamente svolgeva indagini per lei. È comprensibilmente sconvolto.» «Nel dipartimento di polizia di New York?» «È un investigatore. Si occupava di reati a sfondo sessuale, come lei.» «Forse quindi fra loro c’era qualcosa di più» deduce. «Ci converrebbe capire se ieri sera la signora ha ordinato del sushi» replico. «Invece di fare supposizioni banali, tipo che è stato qualcuno che lei conosceva bene e con cui c’era qualcosa.»
«Di solito è così.» «Di solito? Spesso, forse, ma non sempre. Non “di solito”.» «Davvero. Prima di tutto bisogna guardare nella cerchia delle persone più vicine.» È sicuro di sé. «Bisogna guardare nella direzione indicata dalle prove e dagli indizi» rispondo. «Scherzava a proposito del sushi, vero?» «No.» «Pensavo che volesse dare la colpa al pesce crudo. Io non lo mangio. Ora meno che mai, con l’acqua radioattiva e piena di petrolio. Potrei smettere di mangiarlo anche cotto.» «Nella spazzatura ci saranno vaschette di alluminio, un sacchetto e uno scontrino. E nel frigorifero gli avanzi» lo informo. «Per favore, state attenti a non toccare niente, né lei né il suo collega. Vi consiglio di non entrare in cucina e di lasciare che se ne occupino l’investigatore Chang e il dottor Dengate. O i tecnici da loro incaricati.» «Sì, l’esperto è Sammy, non io. Non voglio interferire in nessun modo. Non che non sarei in grado di fare un sopralluogo. Anzi, prima o poi ho intenzione di mettermici, perché penso di essere portato. Bisogna essere scrupolosi, fare attenzione ai dettagli e io sono un tipo molto pignolo. Ho già lavorato con Sammy Chang. Nell’overdose di cui le parlavo prima.» L’agente Harley prende la radio e avverte: «Possibile contaminazione. Non toccate niente in cucina, nella spazzatura o da nessuna parte». «Che cosa?» La voce del suo collega risuona in camera da letto. «Non toccare niente. Niente, mi raccomando.» «Ricevuto.» Decido di non dire altro sul sushi o sui miei sospetti, né su come ho trascorso la serata di ieri con Jaime. Lo dirò a Sammy Chang e a Colin Dengate, o a chi per loro. Io e Marino dovremo testimoniare separatamente, con ogni probabilità a un ispettore della Omicidi di Savannah, ma non all’agente T.J. Harley, che è abbastanza simpatico ma è ingenuo e troppo preso dal desiderio di giocare a guardie e ladri. Sammy Chang si accerterà che ad ascoltare me e Marino siano le persone giuste, in un’inchiesta congiunta di competenza del Georgia Bureau of Investigation e della polizia locale, e in seguito anche dell’FBI. Se la morte di Jaime è legata ai fatti del Massachusetts – e, in particolare, al presunto avvelenamento di Dawn Kincaid –, diventerà un caso di competenza federale e l’FBI aprirà un’inchiesta su quello che sta accadendo a Savannah. Scosto la tenda e guardo Chang che sta scaricando dal SUV l’occorrente per il sopralluogo. La pioggia batte sul tetto facendo un rumore come di ghiaia e dietro il basso skyline di ville, alberi e palazzi storici si succedono lampi e tuoni, come tamburi distanti o un fuoco di artiglieria in lontananza. So che cosa farei se Cambridge non fosse a mille miglia da qui.
Mi farei mandare l’unità mobile del CFC. Ma la distanza fra Cambridge e Savannah lo rende impraticabile, se non impossibile. Colin Dengate non aspetterà certo due giorni per fare l’autopsia, com’è giusto. Non si può aspettare. Non si deve. Abbiamo bisogno di esaminare siero, tessuti e contenuto gastrico. Ad Atlanta, molto più vicino a qui, c’è il CDC, il Centro di controllo e prevenzione delle malattie, ma Colin probabilmente non vorrà aspettare neppure la loro unità mobile. Siamo stati esposti a un veleno, ma stiamo bene. Un certo numero di persone è venuto a contatto con un agente misterioso, ma sembra stare bene. Io sono stata dentro la cella di Kathleen Lawler, l’ho toccata, ho respirato l’aria e annusato quello che c’era nel lavabo, ho avuto in mano il suo sangue e il contenuto del suo stomaco, e mi sento bene. Così Marino, Colin e Chang. Nulla indica che siamo a rischio. Qualunque cosa abbia ucciso Kathleen Lawler e Jaime Berger e avvelenato Dawn Kincaid, presumendo che sia stata per tutte la stessa tossina, sembra agire abbastanza velocemente. Blocca prima la digestione e poi il respiro, causando una paralisi progressiva. È qualcosa che hanno mangiato o bevuto. Ripenso a com’era Jaime quando me ne sono andata ieri sera verso l’una: aveva le palpebre pesanti, la bocca impastata e faceva fatica a parlare. Aveva le pupille dilatate. Pensavo che fosse ubriaca, che avesse sonno, ma la boccetta di pastiglie in cucina indica che aveva acidità di stomaco. Anche Kathleen aveva mal di stomaco, se la sua vicina di cella ci ha detto la verità. «Fanno loro i sopralluoghi, dopo l’addestramento all’accademia forense di Knoxville, dove c’è la Fabbrica dei Corpi...» dice l’agente Harley. Lo ascolto e continuo a guardare fuori gli alberi scossi dal vento e dalla pioggia nel tardo pomeriggio e le luci che illuminano Abercorn Street. Vedo arrivare una Land Rover. «Gli agenti del Georgia Bureau of Investigation fanno l’addestramento là, tutti quanti, e ciò significa che probabilmente abbiamo i migliori tecnici degli Stati Uniti» si vanta l’agente Harley, come se il cadavere sul letto non gli suscitasse nessuna emozione, come se non ci fosse niente di straordinariamente mostruoso in quello che è successo in questa stanza. L’agente T.J. Harley non conosceva Jaime Berger. Non sa chi è, chi siamo noi, che cosa siamo l’uno per l’altro. Sento che qualcosa dentro di me sta cambiando. Colin posteggia e spegne i fari. Sento una calma piatta, un distacco tipico di quando mi succede qualcosa di insopportabile ma la situazione mi impone di reagire, di funzionare ai massimi livelli. Ne sono consapevole: sarei pazza, se non lo fossi. Mi infilo le mani nelle tasche dei pantaloni e ripenso alla silhouette di Jaime dietro le tende di questa stanza, ieri sera. Io e Marino eravamo seduti in macchina e la sua ombra si muoveva avanti e indietro, inquieta. Poi Jaime si è spogliata. I suoi vestiti sono sulla sedia vicino al comò, come se ce li avesse buttati malamente, come si fa quando si è ubriachi, sconvolti, o in preda a un forte malessere. Si è infilata la vestaglia bordeaux con cui poi è morta e ci ha guardato dalla fines-
tra del soggiorno mentre ci allontanavamo. Non sapevo, non avevo la minima idea di quello che le stava succedendo e del ruolo che avevo avuto io in quella storia. 032_chapter26
26 Distolgo lo sguardo dalla finestra e Jaime Berger è sempre nella stessa posizione rigida e innaturale, penzolante dal bordo del letto come una figura in un quadro di Dalí. La sua esistenza biologica è cessata, e la carne e il sangue hanno cominciato a scomporsi come le scene di uno spettacolo all’ultima replica. Se n’è andata e non tornerà mai più. Ora bisogna occuparsi di tutto il resto, e sarebbe il mio mestiere, ma temo ci siano grosse complicazioni. «Ho intenzione di non toccare nulla e non fare niente, se non su precise istruzioni di qualcuno» dico all’agente Harley. «Il dottor Dengate è arrivato, ma ho bisogno che lei resti qui e mi segua ovunque vado» gli ricordo di nuovo. «È necessario che lei o l’investigatore Chang mi accompagniate dappertutto e poi lo dichiariate sotto giuramento.» «Sissignora.» Mi guarda fisso, come se si chiedesse cosa sarei mai capace di fare. «Ieri sera ero qui. Non in questa stanza, ma in questa casa. Sono venuta a cena e probabilmente sono l’ultima persona che l’ha vista viva.» «È questo il problema nel nostro lavoro.» Harley si appoggia allo stipite della porta, facendo grattare il cinturone contro il legno. «Non si sa mai chi o cosa ti troverai davanti. Anche a me è capitato di arrivare sulla scena di un crimine e scoprire che conoscevo la vittima. È successo non tanto tempo fa: era morto uno in moto e poi ho capito che era un mio compagno del liceo. Mi ha fatto effetto.» Avrei voglia di spostare il cadavere, di coprirlo, di metterlo in una posizione più normale, non con le braccia e la testa che ciondolano oltre il bordo del letto. Il viso e il collo sono di un rosso scuro, violaceo, perché il sangue quando smette di circolare si accumula nei punti più bassi; le labbra sono socchiuse, i denti superiori scoperti, gli occhi uno aperto e uno chiuso. La morte si è presa gioco della bellezza perfetta di Jaime Berger, sfigurandola in maniera oscena e grottesca, e non voglio che Lucy la veda così, nemmeno in fotografia. Osservo di nuovo il bicchiere rovesciato e la base del cordless. Mi inginocchio sul pavimento e scopro che il telefono si trova sotto il letto, a una certa distanza dal comodino, come se Jaime avesse cercato di afferrarlo alla cieca e lo avesse fatto cadere. Non lo raccolgo. Non tocco niente. «Sono stata qui dalle nove di ieri sera fin quasi all’una, nel soggiorno e in cucina» dico all’agente Harley. «Sono anche andata nel bagno degli ospiti una volta, poco prima di andarmene. Ho toccato un sacco di cose: documenti e vari oggetti in cucina. Lo dirò a Chang.» «Era venuta da Boston apposta per incontrarla?» «No. Sono venuta a Savannah per un altro motivo e Jaime Berger mi ha chiesto di vederci, già che ero qui.» Non ho intenzione di fornire ulteriori spiegazioni, di certo non a un agente di polizia che è intervenuto sul posto, ma non parteciperà alle indagini. «È una storia lunga e piuttosto complicata, che racconterò a chi di dovere quando sarà il momento. Nel frat-
tempo, le chiedo di starmi vicino in modo da poter testimoniare tutto ciò che faccio o non faccio qui dentro.» «Sicuro. O, se preferisce, può aspettare fuori...» «Visto che sono qui, vorrei dare una mano, se posso» replico con fermezza. In circostanze normali me ne sarei già andata, ma mi rifiuto di mettere in atto quella che si potrebbe definire una strategia di autotutela. Non do retta a quella parte di me che mi dice di andarmene subito e non compromettermi ulteriormente. Nessun medico legale vorrebbe trovarsi nella mia posizione, ma se posso contribuire a scoprire cosa è successo, mi sento moralmente tenuta a farlo. È mio dovere. Non lo faccio solo per Jaime, che ormai non posso più salvare: sono preoccupata per gli altri. Gli omicidi per avvelenamento sono rari e molto temuti, perché non sempre c’è una vittima designata, e anche quando c’è può non essere lei a morire. A Barrie Lou Rivers non interessava chi avrebbe mangiato i suoi tramezzini al tonno e arsenico. Qualsiasi fosse lo scopo che perseguiva con crudeltà e freddezza, non riguardava necessariamente individui specifici: chiunque avrebbe potuto mangiare i suoi tramezzini avvelenati. Il veleno non lascia impronte né DNA, non ha dimensioni o forme definite, al contrario di proiettili e lame, e raramente lascia tracce misurabili, come sono invece le ferite. Nella mia carriera ho lavorato su pochi casi di avvelenamento e sono stati tutti frustranti e terrificanti. Ogni volta fermare il responsabile è stata una corsa contro il tempo. Chang è tornato. Posa per terra la sua valigetta e mi porge i guanti, come se lavorassimo insieme. Me ne infilo due paia, uno sopra l’altro. Metto le mani in tasca e sento dei passi nel corridoio. «Il telefono è sotto il letto.» Indico il punto preciso. Arriva Colin, in camicia a quadri e pantaloni grigio chiaro, con la giacca a vento blu del Georgia Bureau of Investigation e gli occhiali bagnati di pioggia. Ha la stessa valigetta rigida che aveva stamattina in carcere. La appoggia per terra e mi dice: «Cosa abbiamo?». «Nessuna ferita evidente, ma non l’ho esaminata, né ritengo di doverlo fare. Sembra abbia cercato il telefono alla cieca, forse rovesciando il bicchiere» rispondo. «Scotch, penso. Lo stava bevendo quando me ne sono andata stanotte all’una. Il telefono è sotto il letto» ripeto. «Se lo è versata da sola?» Chang si china e solleva le lenzuola con la mano guantata. «Sì. E anche il vino.» «Solo per sapere di chi potrebbero essere impronte e DNA.» «Non è necessario che rimaniate» dice Colin all’agente Harley. «Grazie di tutto. Meno persone stanno qui meglio è, capito? Non mangiate né bevete nulla qui dentro, ovviamente, e state attenti a quello che toccate. Sono già morte diverse persone, presumibilmente a causa
di una tossina che non abbiamo ancora identificato.» «Allora non pensate che abbia preso troppi farmaci?» dice l’agente Harley. «Non ho notato boccette di medicinali in giro, ma non ho aperto le ante o i cassetti. Non ho controllato perché sono stato qui con lei tutto il tempo.» Sta dicendo che mi ha tenuta d’occhio. «Posso controllare in bagno, se volete. Nell’armadietto delle medicine, per esempio.» «Come ho già detto, non so come sia morta» risponde Colin. «Potrebbero essere stati i medicinali o qualcos’altro. Potrebbe essere una stramaledetta pallottola di ghiaccio.» «Non esistono...» «Davvero non sappiamo che cosa stiamo cercando.» Colin si guarda intorno. «Meno gente c’è, meglio è.» «I proiettili di ghiaccio non esistono...» «Non con questo caldo» ribatte Colin. «Grazie di tutto» interviene Chang rivolgendosi all’agente. «Sarebbe utile se uno o due di voi restassero di guardia qui fuori, per mettere in sicurezza il perimetro. Non deve entrare nessuno. Non sappiamo se qualcun altro ha le chiavi, per esempio.» «Io e Marino abbiamo cenato con lei, ieri sera, e ci hanno consegnato del sushi» inizio a raccontare a Colin e a Chang, mettendomi vicino alla finestra per non intralciare Chang, che scatta fotografie, e Colin, che sta aprendo la sua valigetta. «Sarebbe utile controllare al Savannah Sushi Fusion. Se preferite che me ne vada...» Io vorrei restare, ma sono pronta ad andarmene. «Il motivo è lampante: ero con Kathleen Lawler ieri pomeriggio e stamattina è morta. Ieri sera ero con Jaime e ora è morta anche lei.» «Be’, a meno che tu non stia per confessare, non mi passa neanche per l’anticamera del cervello che possa essere colpa tua. Mi rallegro che tu stia bene» dice Colin infilandosi i guanti. «E così Sammy, Marino e io. In circostanze normali, dal momento che la conoscevi ed eri con lei ieri sera, sarebbe meglio che tu non restassi qui, ma visto che ci sei... Potresti notare qualcosa di utile. Se però preferisci andartene...» «Più di tutto mi preoccupa che ci siano altre vittime» rispondo. «Specialmente se si tratta di avvelenamento, e credo che tu abbia capito che il mio timore è proprio questo.» «Anche il mio.» «Potresti essere l’unica persona in grado di dirci se c’è qualcosa fuori posto» mi dice Chang. «Vieni con me a dare un’occhiata in giro.» Fotografa il telefono sotto il letto, usando il flash. In realtà Sammy Chang ha in mente qualcos’altro, e io lo capisco. Riconosco il tipo di approccio e penso che sia quello giusto. Ho visto come lavora e lo rispetto, perciò non sottovaluto il suo atteggiamento e i suoi timori. Non lo biasimo. Anzi, per certi versi era prevedibile che facesse così. È un investigatore scaltro, brillante, acuto e competente, il suo mestiere gli im-
pone di essere obiettivo e implacabile, indipendentemente dall’idea che si è fatto di me. Sarebbe sciocco da parte sua non cercare di estorcermi tutte le informazioni possibili. Sarebbe negligente se non mi osservasse con estrema attenzione e non fosse sospettoso, anche se interagisce con me con grande professionalità, senza lasciar trapelare nulla. «Finora non ho notato niente che indichi che sia venuto qualcuno dopo che io e Marino ce ne siamo andati» incomincio. «C’è qualcosa fra loro?» chiede Chang. «Oltre al lavoro? Che io sappia no, e mi riesce difficile immaginarlo. Lui si è preso due settimane di ferie dal CFC per venire qui ad aiutarla sul caso Jordan. Da quel che ho capito, lavoravano da casa.» «E negli anni passati? Hanno mai avuto un rapporto diverso da quello professionale?» «Mi riesce difficile immaginarlo» ripeto. Colin appoggia un termometro digitale sul comodino. Poi muove il braccio destro del cadavere irrigidito, finché non riesce a piegarlo e a infilare un altro termometro sotto l’ascella. «Perché ti riesce difficile immaginarlo?» chiede Chang. L’interrogatorio è cominciato. Potrei interromperlo, dirgli che non voglio parlare se non in presenza del mio legale, Leonard Brazzo, ma non lo farò. «Non ho mai notato niente che indicasse l’esistenza di un rapporto diverso da quello professionale tra loro» rispondo. «E soprattutto non mi viene in mente nessun motivo per cui lui avrebbe voluto farle del male.» «Sì, ma tu lo conosci ed è difficile essere obiettivi con le persone che si conoscono. Fai fatica a pensare male di lui.» Chang si mette dalla mia parte. Il solito gioco del poliziotto buono e di quello cattivo, vecchio come il mondo. «Se ci fosse motivo di pensare male di lui, lo direi» rispondo. «Tu però non sai che cosa facessero in privato.» Sta osservando il telefono che ha recuperato da sotto il letto, tenendolo tra due dita guantate, attento a toccarlo il meno possibile. «Non servirà, visto che quasi certamente lei è stata l’unica a toccarlo» dichiara «ma per sicurezza forse è meglio farlo analizzare. Sei d’accordo? Tu cosa faresti?» Mi guarda. «Io farei controllare eventuali impronte e DNA. Prenderei anche qualche tampone per eventuali analisi chimiche, se dovessero servire in seguito.» «Pensi che potrebbero averle avvelenato il telefono?» chiede, restando impassibile. «Mi hai chiesto che cosa farei al tuo posto. L’assunzione di veleni chimici e biologici può avvenire anche per via transdermica, attraverso le mucose, attraverso la pelle. Anche se dubito che sia questo il caso, perché se così fosse ci sarebbero altre vittime. Noi compresi.» «Sei sicura di non aver usato questo telefono?» Con il dito guantato preme il pulsante del menu.
«Non sono entrata in questa stanza, ieri sera.» «Un numero che inizia con nove-uno-sette, all’una e trentadue.» Chang controlla l’ultimo numero chiamato da Jaime. «New York» rispondo, e di nuovo il profumo fruttato e torbato del whisky mi scatena un’ondata di commozione. «Sembra sia l’ultima chiamata che ha effettuato, almeno da questo telefono» dice Chang, e recita ad alta voce le cifre rimanenti prendendo nota su un taccuino. Il numero mi suona familiare, ma impiego qualche secondo a riconoscerlo. «Lucy. Mia nipote. Era il suo numero di cellulare quando stava a New York» spiego, nascondendo quello che provo. «Dopo un po’ che si è trasferita a Boston, lo ha cambiato. All’inizio di quest’anno, forse in gennaio. Non sono sicura, comunque quel numero non è più suo.» Jaime evidentemente non sapeva che Lucy aveva cambiato numero. Le aveva detto che non voleva avere mai più contatti con lei e si è comportata di conseguenza. Fino a ieri sera. «Come mai ha cercato di chiamarla all’una e trentadue, secondo te?» «Avevamo parlato di lei» rispondo. «Avevamo parlato del loro rapporto e dei motivi per cui era finito. Forse ha avuto un attacco di nostalgia. Non so.» «Che tipo di rapporto era?» «Sono state insieme per qualche anno.» «Insieme in che senso?» «Vivevano insieme. Erano una coppia di fatto.» Chang mette il telefono in un sacchetto per le prove. «A che ora sei andata via?» «L’ho salutata intorno all’una.» «E lei mezz’ora dopo ha chiamato Lucy al vecchio numero, ha cercato di rimettere il telefono sulla base e l’ha fatto cadere sotto il letto.» «Non lo so.» «Potrebbe voler dire che a quel punto stava davvero molto male. Oppure che era molto ubriaca.» «Non lo so» ripeto. «Quando hai detto che eri stata qui l’ultima volta, prima di ieri sera?» «Ho detto che non ero mai stata in quest’appartamento prima di ieri sera» gli ricordo. «E non sei mai stata qui dentro prima di adesso. Non sei mai entrata in questa camera da letto. Ieri sera non ci sei venuta. Neanche all’una, prima di congedarti, magari per andare nel bagno o per fare una telefonata.» «No.»
«E Marino?» Chang è accucciato accanto al letto e mi guarda da sotto in su, quasi volesse farmi sentire illusoriamente superiore. «Non credo che sia mai venuto qui ieri sera» rispondo. «Però non sono rimasta con lui per tutto il tempo e quando sono arrivata era già in casa.» «Interessante che abbia le chiavi.» Chang si rialza ed etichetta il sacchetto con il telefono. «Forse perché lavoravano da casa, la usavano come ufficio. Ma dovresti chiedere a lui.» Mi sento come se da un momento all’altro dovesse scortarmi fuori e leggermi i miei diritti. «Mi sembra un tantino insolito. Tu gli daresti le chiavi di casa tua?» chiede. «Se ce ne fosse bisogno, mi fiderei a lasciargli le chiavi. Ma capisco che le mie opinioni non hanno importanza, quindi mi atterrò ai fatti» aggiungo poi, per rispondere all’insinuazione sulla mia mancanza di obiettività riguardo a Marino. «E i fatti sono che, a parte il sushi, è stata Jaime a portare da mangiare. Ci ha servito lei, sia da mangiare sia da bere, in soggiorno. Dopo, dovevano essere le dieci e mezzo o forse le undici meno un quarto, Marino ci ha lasciate sole per un po’ ed è tornato a prendermi davanti al portone all’una circa. A quell’ora Jaime sembrava star bene, a parte che era un po’ ubriaca. Aveva bevuto vino e whisky e faceva fatica a parlare. Con il senno di poi, può darsi che fossero i primi sintomi, non l’alcol. Aveva le pupille dilatate e le palpebre pesanti. Crescente difficoltà ad articolare le parole. Questo due ore e mezza, forse tre, dopo aver mangiato il sushi.» «Gli oppioidi non causano la dilatazione delle pupille, ma molti altri farmaci sì.» Colin fa pressione con le dita guantate su un braccio e su una gamba e prende nota del livor mortis. «Anfetamine, cocaina, sedativi. E alcol, naturalmente. Hai mica fatto caso se ha preso qualcosa mentre eri con lei?» «Non l’ho vista prendere nulla e non ho motivo di pensare che lo abbia fatto. Ha bevuto, però: parecchi bicchieri di vino e parecchi di whisky.» «Cos’è successo dopo che sei andata via? Cos’hai fatto? Dove sei andata?» chiede Chang. Non sono tenuta a rispondere. Dovrei dirgli che sono disponibile a collaborare, ma a determinate condizioni, per esempio in presenza del mio legale. Non lo farò. Non ho niente da nascondere. So che Marino non ha fatto nulla di male e che siamo tutti dalla stessa parte. Spiego che siamo andati in macchina fino alla casa dove abitavano i Jordan parlando del caso e siamo rientrati in albergo intorno alle due del mattino. «L’hai visto entrare nella sua stanza?» «Aveva dimenticato delle cose nel furgone ed è tornato a prenderle. Sono salita in camera mia da sola.» «Be’, questo è un po’ strano. Che ti abbia accompagnato dentro e poi sia tornato in macchina.»
«C’era un posteggiatore in servizio: dovrebbe ricordarsi se Marino ha fatto quel che ha detto, cioè recuperare la spesa dal sedile posteriore, oppure se ha ripreso il furgone e se ne è andato» rispondo piccata. «Peraltro, aveva problemi meccanici abbastanza seri, tant’è che stamattina l’ha portato a riparare.» «Potrebbe essere andato a piedi. L’albergo è a una ventina di minuti a piedi da qui.» «Chiediglielo.» «La temperatura ambiente è ventun gradi, quella del cadavere ventidue e otto» dice Colin, cercando di sollevare il cadavere. Le braccia e la testa fanno resistenza ed è costretto a forzarle. Non riesco quasi a guardare. Ho spezzato il rigor migliaia di volte e di solito non mi fa nessuna impressione costringere i morti ad abbandonare le posizioni irragionevoli che insistono testardamente a mantenere. Invece adesso faccio fatica a guardare. Penso al sacchetto del sushi che mi sono offerta di portare su e mi sento in colpa. Mi sento responsabile. “Perché non ho chiesto spiegazioni alla donna che si è materializzata dal nulla nella strada buia ieri sera? Perché non mi sono preoccupata quando ho capito che Jaime non aveva ordinato nessun sushi?” «Ti viene in mente qualcos’altro di importante?» Chang continua a farmi domande che hanno poco a che fare con quello che gli interessa veramente. «Il bicchiere rovesciato. E farei un tampone del liquido sul comodino, che a me sembra whisky. Ma forse è meglio che aspetti finché non analizziamo gli avanzi della cena e le cose gettate nella spazzatura. Bisogna trattare tutto nello stesso modo. Qualunque cosa Jaime possa aver mangiato o bevuto.» Tengo le mani in tasca mentre iniziamo il nostro giro. Dico a Sammy Chang le stesse cose che gli ho detto poco fa al GPFW. Ho intenzione di osservare ed esaminare oggetti solo se lui è d’accordo, e di non toccare nulla senza il suo permesso. Iniziamo dal bagno padronale. 033_chapter27
27 Le ante a specchio degli armadietti dei medicinali sono spalancate e il loro contenuto è sparpagliato dappertutto, sulle mensole e sul piano in granito, nel lavabo e per terra, come se fosse passato un ciclone o se un intruso avesse saccheggiato il bagno. Disseminati ovunque ci sono forbici da manicure, pinzette, lime da unghie, collirio, dentifricio, filo interdentale, strisce sbiancanti per i denti, creme solari, antidolorifici da banco, esfolianti per il corpo e detergenti per il viso. Ci sono anche farmaci prescritti dal medico, tra cui zolpidem tartrato o Ambien, e lorazepam, meglio conosciuto come Ativan. Jaime dormiva male e soffriva di ansia. Forse non accettava di invecchiare. Ma nulla di ciò che aveva a portata di mano per alleviare i suoi normali disturbi e malesseri è riuscito a sconfiggere il nemico che l’ha assalita nelle ore e nei minuti finali della sua vita. Un nemico violento, sadico, potente e invisibile. Cerco di interpretare la sua morte in base allo stato del cadavere e al disordine della casa, e capisco che durante la notte, a un certo punto, Jaime deve essersi sentita talmente male da andare a cercare qualcosa che le alleviasse il panico e la sofferenza, qualunque cosa. La sua disperazione dev’essere stata tale che ora sembra che qualcuno sia entrato nel suo appartamento, l’abbia saccheggiato e poi l’abbia ammazzata. Invece non è entrato nessuno: in casa c’era solo lei. Me la immagino mentre rovescia il contenuto della borsa in cerca di un farmaco per alleviare il dolore. Me la immagino mentre corre in bagno sperando di trovare una medicina adatta, mentre rovista freneticamente e fa cadere tutto dagli scaffali, in preda a crampi atroci. Jaime non è stata ammazzata, non direttamente. Credo che a ucciderla sia stato un veleno potente, una sostanza che ha trasformato il suo corpo nel suo peggior nemico. E io non c’ero. Non ero voluta rimanere. Ero andata via, talmente ansiosa di uscire da aspettare Marino fuori, al buio. Non riesco a smettere di pensare che, se non mi fossi offesa e arrabbiata, avrei notato qualche segno premonitore, mi sarei accorta che Jaime non era soltanto ubriaca. Ho preso le difese di Lucy, il mio punto debole da sempre, e adesso una persona che lei ama, forse l’amore della sua vita, è morta. «Se non ti dispiace.» Faccio capire a Chang che vorrei guardare e toccare alcuni oggetti mentre lui scatta fotografie. Se fossi stata qui quando Jaime si è sentita male, l’avrei potuta salvare. I segni e i sintomi c’erano tutti, ma io li ho ignorati, e non so come farò a spiegarlo a mia nipote. «Certo, fai pure» mi risponde lui. «Hai motivo di sospettare che in casa ci fosse qualcosa che qualcuno voleva prendere? Ho notato che in soggiorno ci sono diversi computer, faldoni e altri documenti riservati. Avrà avuto dati sensibili nei suoi computer?» «Non ho la minima idea di che cosa avesse nei computer. Non so nemmeno se sono i suoi.»
Avrei potuto chiamare un’ambulanza. Avrei potuto rianimarla, farle la respirazione bocca a bocca in attesa che i soccorritori la ventilassero con il pallone ambu e la portassero al pronto soccorso. Adesso sarebbe in un ospedale, attaccata a un respiratore. Sarebbe ancora viva. Non sarebbe rigida e fredda sul letto, e io non sarei qui a dover dire a Lucy che non ho fatto quello che potevo né per Jaime né per lei. Non so se Lucy mi perdonerà. Non posso biasimarla se non lo farà. Quante volte me l’ha detto? Quante volte mi ha rimproverato di ripetere sempre gli stessi errori? “Non combattere le mie battaglie. Non immedesimarti nei miei sentimenti. Non cercare di salvare il mondo, perché peggiori la situazione.” Ho peggiorato la situazione. Non avrei potuto fare peggio. «Penso che tu sia al corrente di che cosa stava facendo Jaime a Savannah» dico a Chang. «Quindi sai di che genere di documenti si tratta. Per rispondere alla tua domanda, non so se avesse in casa qualcosa che potesse interessare a qualcuno. Non ho idea di cosa ci sia nei computer in soggiorno.» «Parlando con lei, hai avuto l’impressione che temesse che qualcuno volesse farle del male?» «Ho notato solo che era molto attenta alla sua sicurezza» rispondo. «Ma non ha detto niente di specifico, non mi ha detto di aver paura di qualcosa o di qualcuno.» «Non so che gioielli o valori si fosse portata da New York, ma l’orologio è ancora lì.» Chang indica un Cartier d’oro con il cinturino di cuoio nero sul piano di granito accanto a un bicchiere con un po’ d’acqua dentro. «Poteva valere la pena di portarlo via, direi. Mi chiedo se era ubriaca quando ha iniziato a rovistare in cerca di medicine o altro.» Raccolgo dal lavabo una confezione di Benadryl, un antistaminico, e noto che la scatola è strappata, come se chi l’ha aperta avesse una fretta terribile. Sul pavimento c’è un blister argentato da cui mancano due compresse rosa. «Non sono più tanto sicura che fosse ubriaca. O, almeno, non quanto sembrava.» Guardo l’adesivo con il prezzo sulla confezione del Benadryl. «Monck’s Pharmacy. A meno che non ce ne sia più di una con lo stesso nome, dev’essere la farmacia vicino al GPFW, dove c’è l’armeria.» «L’ha comprato qui a Savannah, forse mentre tornava dalla prigione. Evidentemente soffriva di allergia» dice Chang. «Tu sai quando è arrivata a Savannah e ha preso in affitto questa casa?» «A quanto ho capito, diversi mesi fa.» «Sarà stato aprile o maggio. Questa primavera ci sono stati livelli altissimi di polline. C’era uno strato verde giallastro ovunque, come se l’avessero spruzzato dappertutto. Per un po’ non sono potuto andare a correre né in bici. Con tutto quel polline, mi si gonfiavano gli occhi e mi si chiudeva la gola.» Sta facendo conversazione, si comporta da amico, da bravo poliziotto in vena di fare quattro chiacchiere con una collega.
Il suo è un gioco che conosco bene: sono un amico, con me puoi parlare, lasciarti andare, confidarti. Ho intenzione di trattarlo da amico anch’io, perché non sono sua nemica e non ho niente da nascondere. Sono disposta a sottopormi alla macchina della verità, a deporre sotto giuramento. Non mi importa se non mi ha letto i miei diritti, può chiedermi quello che vuole. Ammetterò che mi sento in colpa, perché è vero. Ma non è colpa mia se Jaime Berger è morta. La mia unica colpa è non averle salvato la vita. «Immagino che abbia preso il Benadryl ieri sera, per via della confezione strappata e del blister sul pavimento» gli faccio notare. «Se ne ha preso due compresse, doveva stare molto male, e forse faceva fatica a respirare. Ma finché non arriverà l’esito del tossicologico, non possiamo sapere se ha in corpo difenidramina.» «Forse ha avuto una grave reazione allergica a qualcosa che ha mangiato. Magari al sushi. Era allergica ai crostacei?» «Oppure ha pensato di avere una grave reazione allergica perché aveva difficoltà a respirare, a deglutire o a tenere gli occhi aperti» replico, mentre raccolgo creme e detergenti per vedere dove sono stati acquistati. «Come sai, anche Kathleen Lawler faceva fatica a respirare quando è rientrata dall’ora d’aria. A quanto pare, aveva anche difficoltà a parlare e sonnolenza. Tutti sintomi che potrebbero essere associati con la paralisi flaccida.» «E cioè...?» «I nervi non comandano più i muscoli, di solito a partire dalla testa: le palpebre si abbassano, la vista si annebbia oppure ci si vede doppio, si ha difficoltà a parlare e a deglutire. Poi la paralisi procede verso il basso e la respirazione diventa affannosa fino a cessare del tutto.» «Ma qual è la causa? Cosa potrebbe aver causato i sintomi che descrivi?» «Una neurotossina, direi.» Gli parlo di Dawn Kincaid. Gli spiego che la figlia di Kathleen Lawler, accusata di una serie di omicidi in Massachusetts e di tentato omicidio nei miei confronti, stamattina ha avuto una crisi respiratoria nella sua cella al Butler State Hospital e ora è in coma. Sembra che abbia l’elettroencefalogramma piatto e si teme che sia stata avvelenata. «Non mi risulta che Jaime fosse allergica ai crostacei, a meno che non lo sia diventata di recente» continuo. «Però è vero che una crisi anafilattica può causare paralisi flaccida e morte. Lo stesso vale per altri tipi di avvelenamento. Sembra che Jaime si servisse spesso alla Monck’s Pharmacy. Sarebbe utile esaminare attentamente tutti i farmaci che ha comprato lì, da banco e non, compresi quelli che conserva da qualche altra parte in casa. Per escludere il suicidio e la manomissione.» «Vuoi dire che qualcuno potrebbe aver manomesso i prodotti sugli scaffali della farmacia?»
«Dobbiamo prendere in considerazione tutte le ipotesi possibili e dobbiamo fare un inventario accurato di tutto quello che aveva in casa» ribadisco. «Non vorrei che ci sfuggisse un potenziale veleno che potrebbe uccidere altre persone.» «Pensi che possa essere un suicidio.» «No, non lo penso.» «O che possa aver preso qualcosa per sbaglio.» «Sai benissimo cosa penso» replico. «Secondo me è stata avvelenata deliberatamente e con premeditazione. Mi chiedo con quale sostanza.» «Supponendo che le abbiano messo qualcosa in quel che ha mangiato, cosa provoca i sintomi che hai descritto?» mi domanda Chang. «Che cosa le metteresti nel piatto per farla morire nel giro di poche ore per paralisi flaccida?» «Io, niente.» «Non intendevo dire tu personalmente.» Continua a fotografare tutti gli oggetti che si trovano in bagno, prodotti per l’igiene personale, cosmetici e persino le saponette, e prende appunti. Io però so benissimo cosa sta facendo. Sta prendendo tempo e raccogliendo informazioni, metodicamente, minuziosamente e pazientemente. Più ci attardiamo, più io parlo. Non sono un’ingenua, e lui lo sa: il gioco va avanti perché io decido di non fermarlo. «Che neurotossina potrebbe essere? Fammi qualche esempio.» Mi sonda, sperando che io gli dica qualcosa da cui si capisca che ho ucciso io Jaime Berger e gli altri, o che so chi è stato. «Qualsiasi tossina che distrugga i tessuti nervosi» rispondo. «L’elenco è lungo. Benzene, acetone, glicole etilenico, fosfato di codeina, arsenico.» Ma nessuna di queste sostanze mi preoccupa. Non credo che Jaime abbia ingerito benzene o liquido antigelo, o che le sia stato messo nel sushi un prodotto per uso domestico come il solvente per lo smalto da unghie o un pesticida, né che si sia bevuta tre flaconi di sciroppo per la tosse. Questi tipi di avvelenamento di solito sono accidentali, o frutto di atti irrazionali. Non sono scenari da incubo. A farmi paura sono cose ben peggiori: agenti chimici e biologici usati da terroristi, armi di distruzione di massa a base di acqua, polveri e gas, capaci di ucciderci attraverso ciò che beviamo, tocchiamo e respiriamo o di avvelenare i nostri alimenti. Cito sassitossina, ricina, pesce palla, ciguatossina. Suggerisco a Sammy Chang che dovremmo pensare alla tossina botulinica, il veleno naturale più potente che esista. «Il botulismo si può prendere dal sushi, no?» Apre la porta della cabina doccia. «Il Clostridium botulinum, il batterio anaerobio che produce la neurotossina, si può trovare ovunque. Nella terra e nei sedimenti dei laghi e degli stagni. Il rischio di contaminazione esiste praticamente per qualsiasi alimento solido o liquido. Se Jaime ha ingerito questo batterio,
il decorso è stato insolitamente veloce. Di solito ci vogliono almeno sei ore perché si manifestino i sintomi, e spesso anche dodici o trentasei.» «Il botulino è quello delle conserve. Quando le scatolette si gonfiano, ti dicono di non mangiarle assolutamente» commenta Chang. «Il botulismo di origine alimentare è spesso dovuto al consumo di conserve andate a male, di olio aromatizzato con aglio o erbe conservato fuori dal frigorifero o di verdure crude lavate male, patate cotte nell’alluminio e lasciate raffreddare prima di servirle. Si può prendere in molti modi.» «Merda, mi hai appena rovinato il piacere di mangiare un sacco di cose. Quindi, se vuoi uccidere qualcuno...» «Io non voglio uccidere nessuno.» «Facciamo finta di sì: per far morire la vittima di botulismo dovresti coltivare questi batteri in qualche modo e poi metterglieli in quello che mangia, giusto?» chiede Chang. «Non so come abbiano fatto. Ammesso che si tratti davvero di tossina botulinica.» «Ma tu pensi che lo sia.» «È una possibilità da prendere in considerazione. In seria considerazione.» «Viene usata spesso negli omicidi per avvelenamento?» «No» rispondo. «Anzi, che a me risulti, mai. Ma la tossina botulinica è molto difficile da individuare, se non si hanno altri elementi o motivi per sospettarla.» «Senti, se non riusciva a respirare e aveva tutti i sintomi tremendi che mi hai descritto, come mai non ha chiamato un’ambulanza?» Fotografa i sali da bagno e le candele sul bordo della vasca: lavanda e vaniglia, eucalipto e aromi balsamici. «Non hai idea di quante volte succede» rispondo, chiedendogli con un gesto il permesso di esaminare i farmaci prescritti dal medico. Sammy Chang mi fa cenno di procedere: non gli importa quello che faccio, purché continui a seguirlo sulla strada su cui mi vuole portare. «Pensi che poi passa, ti arrangi con rimedi casalinghi e quando ti decidi a chiamare l’ambulanza è troppo tardi» aggiungo. Apro il flacone di Ambien. La dicitura sull’etichetta mi informa che è stato venduto dieci giorni fa, dietro presentazione di ricetta medica, dalla stessa farmacia vicino al GPFW dove mi sono fermata ieri per chiamare dal telefono pubblico. Trenta pillole da dieci milligrammi. Le conto. «Ne sono rimaste ventuno.» Rimetto le pillole nel flacone e controllo l’Ativan. «Comprato lo stesso giorno nella stessa farmacia, dove sembra che Jaime abbia acquistato la maggior parte delle cose che sono qui, la Monck’s Pharmacy. Il farmacista si chiama Herb Monck.» Forse è il proprietario. Mi viene in mente l’uomo con il camice che mi ha venduto l’Advil ieri. Una farmacia che fa consegne a domicilio, ricordo. “In giornata a casa tua” dicevano al-
cuni cartelli esposti all’interno. Mi chiedo se Jaime, oltre al sushi, ordinasse altre cose. «Sono rimaste diciotto pillole da un milligrammo» informo Chang. «Carl Diego è il medico che ha prescritto entrambi i farmaci.» «Di solito chi si suicida prende tutto il flacone.» Chang si toglie i guanti e infila una mano in una tasca dei pantaloni. «Vediamo chi è questo dottor Diego.» Estrae il BlackBerry. «Non c’è nulla che faccia pensare a un’overdose» sottolineo. Apro cassetti e armadietti e trovo campioni di profumi e cosmetici che Jaime deve aver ricevuto in omaggio in qualche grande magazzino o, più probabilmente, facendo acquisti online. Consegna a domicilio. Una vita recapitata a casa e una morte consegnata nel sacchetto di un take-away. Consegnata a me. «Non conviene fissarsi sul suicidio quando c’è in giro qualcuno che potrebbe colpire di nuovo» dico a Chang. «Ci sono già stati diversi morti. Non ne vogliamo altri.» Gli sto consigliando in modo abbastanza diretto di non commettere l’errore di fissarsi su Marino o su di me. Se si concentra troppo su di noi, finirà per non vedere altro. «È un medico di New York, East 81st Street. Forse è il suo medico curante.» Chang controlla su Internet, ma in realtà mi sta lasciando spazio perché io mi tradisca. «Se le avessero avvelenato deliberatamente qualcosa da mangiare, avrebbe dovuto essere inodore e insapore, non credi? Soprattutto se era sushi.» «Sì» concordo. «Per quanto ne possiamo sapere noi, dev’essere insapore.» «Cosa intendi dire?» «Chi mai ha assaggiato un veleno ed è sopravvissuto per raccontare che sapore aveva?» «Esempi di veleni molto potenti che sono inodori e insapori?» Come se io nascondessi una terribile verità e lui sperasse di estorcermela a furia di insistere. «Dimmi cosa useresti tu, se fossi un killer.» Non demorde. «Niente, perché non sono un killer e non voglio avvelenare nessuno, anche se sapessi come si fa.» Lo guardo negli occhi. «Né aiuterei qualcun altro a farlo. Nemmeno se pensassi di non venire scoperta.» «Non intendevo letteralmente. Ti sto soltanto chiedendo che tossina potrebbe essere stata usata, secondo te, che non ha odore né sapore e si può mettere nel sushi. A parte il batterio che provoca il botulismo, cos’altro potrebbe essere?» Rimette in tasca il BlackBerry e si infila un paio di guanti puliti, riponendo quelli usati in un sacchetto per le prove che poi sigilla, in modo che possano essere smaltiti in sicurezza. «Non saprei da che parte cominciare. Di questi tempi è difficile anche solo sapere che cosa c’è in giro» gli rispondo. «Agenti chimici e biologici spaventosi, creati in laboratorio e trasformati in armi dalle nostre stesse forze armate.»
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28 Torniamo in camera da letto, dove Colin passeggia su e giù parlando al cellulare per dare istruzioni agli addetti al trasporto. Ha coperto il cadavere di Jaime con un telo monouso, un gesto di cortesia e rispetto che non era tenuto a fare, e di cui mi colpisce l’ironia: Colin ha avuto per Jaime molto più riguardo di quanto ne abbia mai mostrato lei nei suoi confronti. «Mi raccomando, mettetela in due sacchi uno dentro l’altro, come minimo» sta dicendo al telefono mentre passeggia davanti alle finestre con le tende ancora chiuse. Non si capisce che ora sia, e mi rendo conto che continua a piovere forte. Sento le gocce che tamburellano sul tetto e schizzano sui vetri. «Sì, esatto. Adottate le precauzioni riservate ai casi contagiosi. Non possiamo escludere che lo sia, e comunque trattiamo sempre tutti come potenzialmente infettivi, no?» «Fentanyl e Roipnol, che fa parte delle cosiddette “droghe da stupro”, gas nervini tipo tabun e Sarin, oksilidin o BZ, antrace» continuo a elencare sostanze a Chang. «Ma alcune di queste agiscono molto rapidamente. Se qualcuno le avesse messo del Roipnol o del fentanyl nel piatto, per esempio, non sarebbe sopravvissuta alla cena. Penso che la prima cosa da fare sia cercare il Clostridium botulinum.» «Botulismo. Accidenti, è inquietante. Che cosa ti fa pensare che si tratti proprio di questo?» Appoggia il sacchetto con i guanti contaminati ai piedi del letto. «I sintomi.» «È un po’ strano pensare di avvelenare qualcuno con un batterio.» «Non con il batterio, ma con la tossina che lui produce» puntualizzo. «Sarebbe il sistema migliore, ed è a questo che stanno pensando i militari: usare come arma non il batterio, ma la sua tossina, che sembra essere inodore e insapore. Inoltre, essendo una tossina relativamente diffusa, è difficile risalire alla fonte dell’avvelenamento.» Contribuisco ad aumentare i suoi sospetti su di me. «Non abbiamo tempo per provarla su una cavia. A parte il fatto che non sarebbe una bella cosa iniettargli il siero e aspettare qualche giorno per vedere se muore, povero topolino.» Colin copre il telefono con la mano e mi chiede: «Perché parli di botulino?». Gli dico che secondo me conviene fare il test del botulino. «Dove lo faresti?» Gli dico che ho un’idea in proposito. Colin annuisce e riprende a parlare con i trasportatori. «Esatto. Procediamo come al solito, con barella e sacchi a tenuta stagna. Siccome però a tenuta stagna in realtà non sono, mettetene due o tre e dopo sterilizzateli in autoclave o bruciateli nell’inceneritore insieme a tutti gli indumenti protettivi che avete indosso, ai guanti e a tutto il materiale contaminato. La stessa procedura che seguite quando c’è il rischio di epatite, HIV, meningite, setticemia. Per
l’amor del cielo, non riutilizzate i sacchi, mi raccomando, e lavate tutto, disinfettate tutto il meglio possibile. Con l’ipoclorito di sodio... Sì. Direi di sì.» «Quale idea?» mi chiede Chang. «Dev’essere stato qualcosa di molto tossico. Ad azione rapidissima» rispondo. «Bisogna fare uno screening di tutte le tossine immaginabili, a cominciare dal botulino, di tutti i sierotipi. E bisogna farlo il prima possibile. Immediatamente, cioè. Sono morte due persone nel giro di ventiquattr’ore e una terza è in terapia intensiva. Non possiamo permetterci di aspettare giorni per avere l’esito di test obsoleti quando esistono metodi più moderni e più veloci. Gli anticorpi monoclonali o l’elettrochemiluminescenza, per esempio. So che la fanno all’USAMRIID di Fort Detrick, l’Istituto di ricerca sulle malattie infettive delle forze armate. Se volete, li contatto e vedo se possono darci una mano. Ma penso che sarebbe più pratico e veloce rivolgersi al CDC di Atlanta. Mi sembra la soluzione migliore. C’è meno burocrazia, e sono sicura che hanno un analizzatore in grado di rivelare agenti biologici come le neurotossine botuliniche, l’enterotossina stafilococcica, la ricina, l’antrace.» «L’USAMRIID?» chiede Colin, terminando la telefonata. «Perché pensiamo di rivolgerci ai militari? E cosa diavolo è questa storia del Clostridium botulinum? Sbaglio o hai nominato l’antrace?» «Sto semplicemente enumerando una serie di ipotesi, non solo sulla base di questo caso ma anche degli altri» rispondo. «I sintomi descritti sono simili, per non dire identici, in tutti e tre i casi.» «Ritieni che sia un’emergenza di questa portata? Perché, se non si tratta di sicurezza nazionale o terrorismo, l’USAMRIID ci risponderà picche. Be’, certo, tu probabilmente hai degli agganci.» «In questo momento non sappiamo di cosa si tratta» rispondo. «Ma penso agli altri casi di cui mi hai parlato, Barrie Lou Rivers e le altre detenute morte improvvisamente e in modo sospetto al GPFW. Si sentono male e, dopo un po’, smettono di respirare. All’autopsia o ai test tossicologici di routine non risulta niente. Presumo che tu non abbia mai fatto cercare la tossina botulinica.» «Non mi è venuto in mente. Non è venuto in mente a nessuno. Non c’era motivo» risponde Colin. «Invece adesso c’è: io penso che abbiamo a che fare con un avvelenatore seriale. Sono la prima a sperare di sbagliarmi» aggiungo, e spiego che ieri sera, proprio quando stavo per entrare nel portone, è arrivata una donna in bicicletta per consegnare del sushi. Racconto che ho avuto l’impressione che Jaime non l’avesse ordinato e che la donna mi ha spiegato che il ristorante aveva il numero della carta di credito di Jaime memorizzato nel computer e che Jaime ordinava regolarmente sushi da loro.
«Ripensandoci, mi ha dato un sacco di informazioni» aggiungo. «Troppe. Ricordo di aver avuto una brutta sensazione: c’era qualcosa che non mi quadrava.» «Forse voleva farsi passare per una del ristorante quando in realtà non lo era» riflette Colin. «Ha ordinato il sushi, è andata a ritirarlo, l’ha avvelenato e si è spacciata per un’addetta alle consegne.» «Se era una dipendente del ristorante, la identificheremo subito» osserva Chang. «Sarebbe stata stupida a correre un rischio simile, però.» «Temo che non si tratti di una dipendente del ristorante e che sarà molto difficile identificarla» dice Colin. «Se non è la prima volta che lo fa, è tutt’altro che stupida.» «Certamente conosceva bene le abitudini della vittima.» Chang guarda il cadavere sul letto, coperto dal lenzuolo. «Sapeva dove ordinava da mangiare, cosa le piaceva, dove abitava e tutto il resto. Sappiamo se Jaime Berger aveva colleghi o amici nei dintorni? Marino ha detto qualcosa?» Rispondo di no e insisto sul fatto che il sushi non sembrava far parte del menu previsto per ieri sera. Tutto sembrava indicare che Jaime non avesse intenzione di mangiare sushi né di offrircelo, anche perché sapeva che non piace né a Marino né a me. Racconto che quando sono arrivata Jaime non c’era, era andata a prendere da mangiare in un ristorante vicino ed è tornata con cibo più che sufficiente per tutti e tre. Nonostante ciò, quando le abbiamo detto che c’era del sushi ha dichiarato scherzosamente che il sushi per lei era una droga, che lo ordinava almeno tre volte alla settimana, ed è stata l’unica di noi tre a mangiarlo. «Anche Kathleen Lawler aveva mangiato qualcosa che non era sul menu» ricordo. «A giudicare dal contenuto gastrico, aveva mangiato pollo, pasta e forse formaggio, mentre alle altre detenute era stata servita la consueta colazione a base di uova e semolino di mais.» «Allo spaccio non aveva acquistato pasta con il pollo» aggiunge Chang. «E la sua immondizia è scomparsa. Inoltre c’era qualcosa di strano nel lavandino. Forse era veleno, ma non era né incolore né inodore.» «A meno che non fosse stata accompagnata fuori dalla cella per un pasto speciale, è evidente che qualcuno deve averle portato la pasta con il pollo e forse del formaggio spalmabile» dico. «Avrete notato che Jaime aveva fatto installare delle telecamere di sorveglianza sia davanti al portone sia fuori della porta. Si tratta di capire se erano in funzione, ma Marino lo saprà senz’altro. Penso che l’abbia aiutata lui a installarle o le abbia dato qualche consiglio. O forse, se aveva un videoregistratore digitale, lo troveremo.» «Le telecamere sono sue? Anche quella del portone? Non è del condominio?» chiede Colin. «No, sono tutte e due sue.»
«Bene» dice Chang. «Ti ricordi com’era la donna che ha consegnato il sushi?» «Era buio, ed è stata questione di un attimo» rispondo. «Aveva un casco con una lampadina, una bici e una borsa o uno zaino da cui ha tirato fuori il sacchetto con il sushi. Era una donna bianca, abbastanza giovane. Pantaloni neri e camicia chiara. Mi ha consegnato il sacchetto elencando quello che era stato ordinato e io le ho dato dieci dollari di mancia. Poi sono entrata nel portone e ho preso l’ascensore per salire qui da Jaime.» «Il sacchetto aveva qualcosa di particolare?» chiede Colin. «Era un sacchetto bianco con il nome del ristorante stampato sopra. Chiuso con punti metallici che tenevano anche lo scontrino. Marino l’ha aperto e ha messo il sushi in frigo; Jaime poi lo ha preso e lo ha mangiato quasi tutto. Diversi involtini e insalata di alghe. Dovrebbe esserne avanzata un po’: l’ho messa in frigo quando l’ho aiutata a sparecchiare ieri sera. Dopo mezzanotte, intorno alle dodici e mezzo, l’una meno un quarto. Dobbiamo recuperare le vaschette dalla spazzatura, raccogliere tutti gli avanzi.» «Compresi il sacchetto e lo scontrino» dice Chang. «Vanno mandati subito in laboratorio per controllare se ci sono impronte digitali o DNA.» «Secondo me è morta da almeno dodici ore.» Colin finisce di riporre gli oggetti nella sua valigetta. «Stamattina presto, quindi. L’ora esatta non ve la so dire. Una stima prudente potrebbe essere tra le quattro e le cinque. Per quel che ho visto finora, è difficile ricostruire la dinamica dei fatti. Se poi anche gli altri due casi fossero avvelenamenti...» Si riferisce a Kathleen Lawler e Dawn Kincaid. «Mi chiedo come sia possibile. Come ha fatto ad ammazzare due detenute in carcere a mille miglia di distanza e lei?» Si riferisce a Jaime. «La buona notizia, se proprio vogliamo vedere un lato buono in tutto questo, è che il farmaco o la tossina sono stati probabilmente assunti o somministrati per ingestione e non per via intradermica o per inalazione. Quindi noi altri dovremmo poter stare tranquilli.» «Meno male, visto che abbiamo perquisito a fondo la cella di una delle vittime e stiamo per rovistare nella spazzatura di un’altra» commenta Chang. Mi sposto in soggiorno, dove sul tavolino basso regna la stessa confusione che c’era in bagno: ci sono oggetti disseminati un po’ dappertutto, come se Jaime avesse rovesciato la borsa sparpagliandone il contenuto. Un flacone di antidolorifico da banco. Rossetti. Un portacipria. Una spazzola. Una boccetta di profumo. Mentine per l’alito. Fazzoletti di carta. Diversi blister vuoti, di ranitidina e Sudafed. Chang apre il portafoglio in coccodrillo, trova carte di credito e contanti e commenta che non vi è alcun segno evidente di furto. Gli suggerisco di controllare se c’è un’arma nascosta. La pistola che estrae da uno scomparto laterale della grande borsa di cuoio marrone è una Smith & Wesson calibro .38 a canna corta. La punta verso il soffitto, sgancia il caricatore ed estrae sei proiettili che raccoglie nel cavo della mano.
«Speer Plus-P Gold Dot» dice. «Faceva sul serio. Purtroppo è stata fregata da qualcosa a cui non credo avrebbe potuto sparare.» «Vorrei cominciare con la spazzatura.» Vado in cucina. «Posso mettere le vaschette ognuna in un sacco separato. Ieri sera, quando l’ho aiutata a rimettere a posto, ho notato una scatola di sacchetti per la spazzatura. Più resistenti sono, meglio è. Sono da cento litri. Dovrebbero andare più che bene.» Apro lo sportello sotto il lavandino e comincio a preparare i sacchi neri per impacchettare separatamente ognuna delle vaschette del sushi. Mentre io mi occupo del secchio dell’immondizia in cucina, Chang apre il frigorifero e ne osserva il contenuto senza toccare nulla. «Hai del nastro adesivo impermeabile, vero?» gli chiedo, mentre dal secchio di metallo si alza una zaffata di rancido e di pesce marcio. «Accidenti, se puzza!» brontola. «Non ha portato giù la spazzatura ieri sera e io non mi sono offerta di farlo per lei, per fortuna. Ringrazio Dio di non averlo fatto. Dobbiamo sigillare tutto il meglio possibile» annuncio. «Vorrei evitare perdite di qualsiasi tipo, specialmente se pensi di trasportare i reperti sulla tua auto.» «Forse ho di meglio.» Chang prende dalla valigetta alcuni rotoli di nastro per la raccolta delle prove materiali e li posa sul bancone. Indossa una mascherina e ne porge una anche a me. «Non dovremmo chiamare la squadra HazMat?» «Se ci volesse la squadra materiali pericolosi, a quest’ora non sarei più qui a darti una mano.» Copro il bancone con alcuni sacchi di plastica e non mi metto la mascherina. Il naso può darmi utili informazioni, anche se l’odore che sento non mi piace. «Ho già toccato tutto quando l’ho aiutata a riordinare, senza guanti e senza immaginare di correre alcun rischio» continuo. «Sono sicura che Colin ha dei contatti al CDC. Se non li ha lui, li ho io. Secondo me, dobbiamo chiamarli e far decidere a loro come organizzare il trasporto, per esempio. Sarà sicuramente regolamentato, visto che abbiamo potenziali agenti patogeni o tossine nel cadavere, ma anche negli alimenti, nei contenitori e chissà dove. La prima cosa da fare, comunque, è imballare tutto il più accuratamente possibile, usando tre sacchi uno dentro l’altro, e contrassegnando ogni campione. Non so se tu o Colin avete etichette speciali per segnalare il rischio biologico o infettivo, o se utilizzate recipienti a tenuta stagna. E appena questa roba arriva in laboratorio, va immediatamente refrigerata.» «Di solito non abbiamo a che fare con sostanze di questo genere, per fortuna. Non ho contenitori o recipienti speciali per il rischio biologico.»
«Ci arrangeremo. Così.» Tiro fuori dal frigorifero l’insalata di alghe avanzata ieri sera e mi assicuro che la vaschetta sia ben chiusa. «La metto in un sacco, lo ripiego e lo chiudo con il nastro adesivo in modo da ottenere un pacchettino ben sigillato. Poi ripeto l’operazione con un secondo sacco e infine con un terzo» spiego. «Probabilmente passerebbe il test di caduta da un metro, ma sarà meglio non sfidare la sorte. Posso farlo da sola, oppure mi puoi aiutare, se vuoi. Altrimenti stai pure a guardare. Se preferisci, può farlo Colin.» «Che cosa dovrei fare?» chiede Colin arrivando dall’ingresso. «Come facciamo a portare questa roba in laboratorio?» gli domanda Chang. «Lei dice che andrebbe refrigerata.» «E tu mi stai dicendo che non vuoi trasportare rifiuti potenzialmente velenosi sul tuo SUV da fighetto climatizzato.» «Preferirei di no.» «Porto tutto io con la Land Rover» dice Colin. «Un po’ d’aria, una lavata con la manichetta, e poi le darò una bella disinfettata. Sai quante volte l’ho già fatto? L’unico inconveniente è che non posso usare ipoclorito di sodio sui miei bei rivestimenti interni.» Chang appoggia la valigetta sulla scrivania, accanto alle pile di classificatori contrassegnati da etichette di colori diversi, e inizia a occuparsi dei due computer portatili. Preleva tamponi dalle tastiere e dai touchpad, per non doversi pentire in seguito di non averlo fatto, se venisse fuori che qualcuno ha cercato di entrare nei computer di Jaime. «Ho intenzione di portare via anche questi» dice. «Ma prima voglio dare un’occhiata a tutto ciò che non è protetto da pass-word.» Fa scorrere un dito guantato sul touchpad. «Eureka» esclama. «Se la donna del sushi esiste veramente, stiamo per vederla. Questo giocattolino ha una scheda DVR che dev’essere collegata alla telecamera del portone e a quella fuori dalla porta.» Apro altri sacchi di plastica e, aiutata da Colin, imballo una alla volta le vaschette che ho gettato nella spazzatura ieri sera. «E c’è pure l’audio» ci informa Chang. «Accipicchia se è sofisticata la telecamera esterna! Cominciamo da quella e vediamo chi si presenta. È a lungo raggio, con visione panoramica e rotazione a trecentosessanta gradi. Ed è a infrarossi, quindi funziona anche in caso di buio totale, nebbia, fumo e foschia. A che ora hai detto che sei arrivata ieri sera?» «Intorno alle nove.» Recupero dall’immondizia le bacchette che Jaime ha usato per mangiare il sushi. «Sarà meglio impacchettare anche il bicchiere del whisky» decide Colin. «E fare un tampone del liquido sul comodino, come dicevi tu. Cerchiamo di non dimenticarcene.» «Lo scotch è lì.» Indico un armadietto. «Ma dubito che sia stato quello, visto che ha aperto la bottiglia ieri sera. E qui c’è la bottiglia del vino.» La ripesco dalla spazzatura e la appoggio
su un sacco di plastica. Il ricordo del pinot nero bevuto ieri sera sul divano mi fa venire una stretta allo stomaco. Quasi mi manca il respiro. «Nulla di peggio del pesce del giorno prima.» Colin fa una smorfia. «Zuppa di gamberi. Capesante.» «Preferisco l’odore dei morti annegati. Dio, che schifo.» Imballa una vaschetta vuota. «Oh, questo sì che è proprio strano» dice Chang, seduto alla scrivania. «Cosa diavolo è successo? Mai vista una cosa del genere. Merda, che sfiga!» Ci togliamo i guanti sporchi e andiamo a vedere. «Aspettate che torno al momento in cui la telecamera inizia a riprenderla.» Le dita di Chang sfiorano il touchpad. Le immagini sono ad alta risoluzione e molto nitide, in varie sfumature di bianco e grigio. Si vedono il portone del palazzo, la balaustra in ferro della scaletta davanti all’ingresso, il vialetto pedonale e gli alberi. Si sente una macchina che passa, si vede la luce dei fari, poi viene inquadrata una figura sulla strada, lontano. Chang mette in pausa. «Okay. È sulla sinistra, proprio qui davanti.» Indica la strada che passa qui sotto, davanti allo stabile. «Si intravede appena, con la bicicletta.» Punta il dito verso il quadrante in alto a sinistra dello schermo. «Ecco, questa sei tu che suoni al citofono, e questa è lei che arriva da laggiù. Però non è sulla bici. La spinge a mano e attraversa la strada» osserva Colin. «Un po’ strano.» «E non ha acceso le luci» commento, osservando lo schermo. «Come se non volesse farsi notare.» «Sì, immagino l’abbia fatto per quello» concorda Colin. «Il bello deve ancora venire.» Chang tocca il touchpad e il filmato riparte. «Anzi, no, il brutto.» La figura riprende a muoversi nella strada buia. Ne intravedo la sagoma, ma non riesco a distinguere il viso: è un’ombra grigia su uno sfondo grigio che si avvicina spingendo un oggetto a forma di bicicletta. A un certo punto solleva la mano destra e di colpo compare una specie di macchia sovraesposta, un bagliore chiaro accecante, una palla di fuoco bianco che le nasconde completamente la testa. «Il casco» ipotizzo. «Ha acceso la luce di sicurezza del casco.» «Per quale motivo, visto che non è sulla bici?» chiede Colin. «Perché la accende solo adesso che è arrivata a destinazione?» «Già, non ha senso» risponde Chang. «Deve averla accesa per un altro motivo.» 035_chapter29
29 Sono quasi le nove di sera quando io e Marino arriviamo in albergo con il furgone carico di provviste e generi di prima necessità, compresi cestelli di acqua minerale, un set di pentole, padelle e utensili da cucina, un fornetto elettrico e un fornello a butano. Dopo che mi è venuto a prendere davanti a casa di Jaime, mentre Chang e Colin mettevano i sigilli all’appartamento, gli ho chiesto di accompagnarmi a fare una serie di commissioni. Per prima cosa siamo andati in un Walmart a comprare tutto il necessario per accamparci, come amo dire in questi casi. Poi siamo andati a fare la spesa al Fresh Market e quindi in una bottiglieria. Infine ci siamo fermati al supermercato di Drayton Street che Jaime ieri sera raccomandava per il vasto assortimento di birre analcoliche, e in quel momento mi sono accorta di quella che alcuni definirebbero una straordinaria coincidenza geografica e altri una pura casualità del tutto priva di significato. Conosco la teoria preferita dei fisici, secondo cui l’universo è nato da quel fortunato tiro di dadi che è stato il Big Bang e pertanto la vita è governata dal caos, ma non la condivido. Onestamente, non ci credo. La natura ha le sue simmetrie e le sue leggi, anche se sfuggono alla nostra comprensione, e nulla avviene per caso; quando parliamo di “accidenti”, si tratta soltanto di etichette e definizioni che usiamo di fronte a determinati eventi che, specialmente se atroci, non riusciamo a spiegarci altrimenti. Il supermercato di Drayton Street si trova a pochi isolati dalla casa di Jaime e dalla villa dove vivevano i Jordan, e dietro l’angolo rispetto alla ex comunità di recupero di East Liberty Street dove viveva Lola Daggette quando venne arrestata per la strage. Invece il Savannah Sushi Fusion è a oltre venti chilometri di distanza, molto più vicino al GPFW che al centro storico di Savannah. «Le distanze significano qualcosa. C’è un motivo, c’è dietro un messaggio» dico a Pete mentre scendiamo dal furgone nella notte afosa. L’acqua che cade dalle grondaie e gocciola dagli alberi forma grandi pozzanghere nelle strade al livello del mare. «Jaime si era sistemata proprio al centro di una sorta di matrice del male. Solo il ristorante del sushi è lontano da tutto, fuori città, sulla strada che porta a nordovest, dalle parti dell’aeroporto e del carcere. Forse Jaime ne ha scoperto l’esistenza per questo. Ma perché non si è trovata un take-away più vicino a casa se ordinava sushi diverse volte alla settimana?» «Perché è il migliore di Savannah» dice Marino. «Così mi ha detto lei una volta che l’aveva ordinato. Le ho chiesto come faceva a mangiare quelle schifezze e lei mi ha risposto che era considerato il migliore della città, anche se non era all’altezza di quello che era abituata a mangiare a New York. Comunque, buono il sushi non lo è mai. Le esche crude restano esche crude, e i vermi sono pur sempre vermi.»
«Com’è possibile che facciano le consegne in bicicletta da così lontano? Ci sono addirittura dei tratti di autostrada. Per non parlare della fatica, con questo clima.» «Ehi, ci servono un paio di carrelli» grida Pete a uno dei fattorini dell’albergo. «Non voglio che ci porti su la roba un estraneo» mi spiega. «Se lo stiamo facendo per motivi di sicurezza, non dobbiamo perdere di vista niente, ti sembra? Penso che tu abbia fatto bene, ma sono sicuro che tutti quelli che ci vedono pensano che siamo matti da legare. Sembriamo la famiglia Brady in vacanza, che non può permettersi di andare a mangiare un hamburger o di ordinare una pizza.» Diffido di tutto. Non berrò una tazza di caffè né una bottiglia d’acqua se non l’ho comprata io personalmente. Finché non avremo capito meglio cosa sta succedendo, rimarremo qui a Savannah senza farci portare da bere o da mangiare da nessun ristorante né dal servizio in camera, senza toccare alimenti preconfezionati né andare a mangiare fuori. Ho chiesto persino che nessuno venga a fare le pulizie nelle nostre camere. A parte noi, non ci potrà entrare nessuno, a meno che non si tratti di un agente di polizia o di una persona fidata, e almeno uno di noi dovrà restare sempre in albergo per controllare che non entri nessuno e che nessuno tocchi nulla, visto che non sappiamo chi o che cosa abbiamo contro. Ci faremo il letto da soli, svuoteremo i cestini della spazzatura e faremo le pulizie personalmente; ci prepareremo da mangiare con le nostre mani, come se fossimo in quarantena. Marino avvicina due carrelli portabagagli al furgone e cominciamo a scaricare pentolame e attrezzature varie, acqua, birra analcolica e bottiglie di vino, e poi caffè, verdura e frutta fresca, carne, formaggio, pasta, spezie varie e cibi in scatola. Sembriamo le Giovani Marmotte. «Mi sembra impossibile che sia una coincidenza.» Continuo a riflettere sulla disposizione geografica dei luoghi. «Voglio procurarmi una mappa, una ripresa dall’alto. Magari Lucy ci può visualizzare una mappa satellitare sul televisore, così possiamo studiarla per bene. Sono convinta che significhi qualcosa.» Spingiamo i carrelli stracarichi nella hall, passando davanti al bancone della reception e al bar affollato, e la gente ci osserva: un uomo e una donna in divisa da investigatori che sembrano volersi trasferire in albergo, o stabilirvi un avamposto. In effetti, è quello che stiamo facendo. «Ma Jaime non stava da queste parti all’epoca dei fatti» dice Marino mentre procediamo verso l’ascensore trasparente. «Non abitava in quell’appartamento al centro della matrice del male, o nelle immediate vicinanze. Non era qui nel 2002, quando furono assassinati i Jordan.» Preme parecchie volte il pulsante dell’ascensore. «Quindi, qualsiasi cosa potesse voler dire la disposizione dei luoghi a quel tempo, adesso non avrà più lo stesso significato. È come sommare le mele con le pere. Esageri. Anche se forse riguardo al ristorante di sushi e alla bici no.»
«Non è come sommare le mele con le pere.» «Certo, volendo avvelenarla, il fatto che lei fosse cliente abituale di un posto e si facesse portare spesso la cena a casa ti semplifica le cose» dice. «È l’unico collegamento che vedo. Un ristorante dove lei si serviva abitualmente. Non importa se è lontano.» «E come fai a sapere dove si serve abitualmente e che il ristorante ha il numero della sua carta di credito memorizzato se non la tieni d’occhio? Se non le stai vicino? Se non frequenti in qualche modo lo stesso ambiente?» «Come fanno a venirti tutte queste idee? Io non ce la faccio più nemmeno a pensare. E muoio dalla voglia di fumare, lo ammetto. Visto? Ho smesso di essere evasivo. Non ho comprato sigarette durante la nostra maratona di shopping, ma ora ti dico che ho un bisogno disperato di accendermene una, e che potrei bermi due cestelli di Buckler.» «Mi dai un grande dispiacere» replico. Le porte dell’ascensore si aprono e noi spingiamo dentro le provviste, con i sacchetti di plastica appesi ai carrelli. «Ho anche una fame da lupo. È una di quelle volte in cui so già che non c’è niente che può farmi stare meglio» dice, sempre più di malumore. È sul punto di esplodere. «Preparo un piatto di spaghetti veloce e un’insalata mista.» «Magari invece mi faccio portare su un cheeseburger con pancetta e patatine fritte.» Preme nervosamente il pulsante del nostro piano, più di una volta, poi anche quello per chiudere le porte. «Ci metto poco. Tu intanto ti bevi tutta la Buckler che vuoi e ti fai una doccia calda. Ti sentirai meglio.» «Ho voglia di fumare, cazzo» insiste, mentre l’ascensore trasparente sale lento di piano in piano, come un elicottero pigro, e io osservo le piante rampicanti che crescono lungo le balaustre. «Smettila di dirmi che mi sentirò meglio. È per questo che uno va all’Alcolisti Anonimi. Perché sta di merda e ammazzerebbe tutti quelli che gli dicono che poi si sentirà meglio.» «Se hai bisogno di andare agli Alcolisti Anonimi, sono certa che hanno una sede anche qui.» «Non ci penso nemmeno.» «Tornare alle cattive abitudini non serve a niente» sentenzio. «Non farmi la predica. In questo momento non ne ho proprio voglia.» «Non voglio farti la predica. Ti chiedo per favore di non fumare.» «Andrò a scroccarne una al bar. Non vuoi che io sia evasivo, giusto? Allora te lo dico. Ho voglia di una sigaretta, cazzo.» «In questo caso ti accompagno. Oppure può venire Benton.» «Santo cielo, no. Ne ho già abbastanza di lui, per oggi.»
«Hai tutti i diritti di essere sconvolto e deluso» replico a bassa voce. «Non c’entra niente la delusione» ribatte lui. «Sì, invece.» «Cazzate. Non venirmi a dire che cosa provo o non provo.» Riusciamo a malapena a vederci in faccia oltre la montagna di sacchetti della spesa e scatoloni, mentre discutiamo di che cosa prova o non prova. Sono convinta che all’origine della sua rabbia ci sia una grandissima sofferenza. Credo di intuire che cosa provasse per Jaime, anche se non saprò mai quanto fosse profondo il loro rapporto, se Marino fosse attratto o innamorato di lei, ma so di sicuro che aveva legato il proprio futuro al suo. Aveva intenzione di aiutarla e sperava di poterlo fare in questa parte degli Stati Uniti, dove stile di vita e clima gli sono più congeniali. Adesso tutto questo non sarà più possibile. «Senti» mi dice mentre l’ascensore si ferma all’ultimo piano. «Certe volte non c’è niente che ti fa stare meglio. Non mi do pace che sia finita così, capisci? Mi sembra di impazzire se penso che eravamo con lei, che abbiamo cenato insieme, a casa sua, senza il minimo presentimento. Gesù. Ha mangiato cibo avvelenato sotto i nostri occhi, stava per morire, e noi non ci siamo accorti di niente e ce ne siamo andati, prima io e poi tu. Porca miseria, è rimasta sola a soffrire come un cane. Perché diavolo non ha chiamato il 911?» Si pone la stessa domanda di Sammy Chang, la domanda che farebbe chiunque. Spingiamo i carrelli lungo il ballatoio che si affaccia sulla hall dell’albergo e arriviamo alle camere dove ci accamperemo, una suite per Benton e me, comunicante con due stanze, una di qua e una di là, per Lucy e per Marino. «Aveva bevuto, e questo certamente l’ha resa meno lucida» rispondo. «Ma è nella natura umana rimandare cose urgenti come chiamare l’ambulanza. Stranamente, è più facile che la gente chiami la polizia piuttosto che il 911 o i vigili del fuoco, perché tutti tendiamo a vergognarci e a sentirci in imbarazzo se ci facciamo male o diamo fuoco alla casa senza volere. Ci riesce più facile denunciare qualcun altro alla polizia.» «Già. Ti ricordi quella volta che mi si è incendiata la canna fumaria nella casa del Southside? Non ho voluto chiamare nessuno e mi sono arrampicato sul tetto con la manichetta dell’acqua. Che idiota!» «Si aspetta, si rimanda» continuo, spingendo il carrello, e i rampicanti che pendono dai ballatoi mi ricordano Tara Grimm e la selva di edera del diavolo che lascia crescere nel suo ufficio per dare una lezione di vita al prossimo. Attenzione a ciò che mette radici, perché un giorno non resterà altro. Qualcosa ha messo radici dentro di lei, e l’unica cosa che è rimasta è la malvagità. «Continuiamo a sperare che passi, o di poter risolvere il problema da soli, finché non arriviamo al punto di non ritorno» riprendo. «Come quella signora con il secchio. Te la ricordi?
Uccisa dal monossido di carbonio mentre cercava di spegnere un incendio da sola, con un secchio. La casa è bruciata completamente e i vigili del fuoco hanno trovato il corpo carbonizzato accanto al secchio. Per noi che lavoriamo nel settore è ancora più difficile: tu, Jaime, Benton, Lucy, io saremmo ancora più restii a chiamare la polizia o il 911. Sappiamo troppe cose. Siamo pazienti difficili e di solito siamo i primi a infrangere le nostre stesse regole.» «Non so. Se non riuscissi a respirare, penso che chiamerei» dice Marino. «O forse prenderesti un Benadryl o un Sudafed, ti metteresti a cercare un inalatore o dell’adrenalina autoiniettabile e, prima di capire che non fanno effetto, non saresti più in condizione di chiamare nessuno.» Benton deve averci sentito arrivare, perché la porta della suite si spalanca e lui esce tenendocela aperta. Ha i capelli umidi e si è cambiato. Ha fatto la doccia e si è rinfrescato, ma ha lo sguardo preoccupato per quello che è successo e soprattutto per Lucy, immagino. Non le ho più parlato da quando sono salita in ascensore a casa di Jaime, poco prima di scoprire una realtà che farei qualsiasi cosa per poter cambiare. «Com’è la situazione?» È il mio modo di chiedergli come sta mia nipote. «Stiamo bene. Hai l’aria esausta.» «Sono più che esausta. Mi sento come se mi fosse passato sopra un TIR» rispondo. Benton ci aiuta a portare dentro i carrelli e io mi fermo per togliermi gli anfibi. «Mi darò una ripulita tra un attimo, ma prima voglio sistemare la roba e mettere su la cena. Vi giuro che non sono contaminata. Ho viaggiato tutto il giorno su macchine senza aria condizionata, ho preso un acquazzone, sono stravolta e puzzo, ma non c’è nulla da temere.» Come se non mi avessero mai visto di ritorno da una scena del crimine o dall’obitorio. «Mi dispiace, ma non mi sono potuta cambiare.» Non smetto di parlare e di scusarmi perché non c’è traccia di Lucy, e questo non è un buon segno. Sono sicura che ci ha sentito arrivare, ma non ci è venuta incontro, cosa che interpreto come un segnale di pericolo. «Siamo quasi certi che sia stato qualcosa che ha ingerito» spiego. «Ho il sospetto che ci fosse della tossina botulinica nel sushi che ha mangiato Jaime. Forse è successo lo stesso anche a Kathleen Lawler. Bisognerebbe che al Massachusetts General Hospital facessero il test del botulino anche a Dawn Kincaid, ma è probabile che ci abbiano già pensato. Sono sicura che sono attrezzati per i test di fluorescenza, che sono molto sensibili e veloci. Magari è il caso che ne parli a qualcuno dei tuoi. A uno degli agenti che si occupa del caso Kincaid» ripeto a Benton. «Sembra che non avesse ancora mangiato nulla quando ha avuto i primi sintomi» dice. «Non credo che pensino a un avvelenamento da cibo, comunque ho riferito i tuoi sospetti ri-
guardo alla possibilità che si tratti di botulismo.» «Forse è qualcosa che ha bevuto» rispondo. «Può essere.» «È possibile procurarsi un inventario dettagliato del contenuto della sua cella, delle cose con cui potrebbe essere venuta in contatto?» «È poco probabile che tu sia autorizzata ad avere queste informazioni» risponde Benton. «Probabilmente non le daranno nemmeno a me, per ovvie ragioni. Considerando di cosa ti ha accusato Dawn Kincaid.» «Il tuo errore è stato non colpirla più forte con quella cazzo di torcia» interviene Marino. «Be’, certamente non possono ritenermi responsabile di quello che le è successo ora» ribatto. «E sul take-away di sushi abbiamo scoperto qualcosa di più?» «Kay, a me non dice niente nessuno» mi risponde pazientemente Benton. «Sì, fanno tutti i misteriosi, quando io voglio soltanto impedire che questa persona uccida ancora.» «Vogliamo tutti la stessa cosa» replica lui. «Ma i tuoi rapporti con Dawn Kincaid, con Kathleen Lawler e con Jaime diventano un problema non da poco quando si tratta di condividere le informazioni. Non puoi occuparti di questi casi, Kay. Non puoi.» «Non c’è pericolo che io trasmetta una neurotossina come il botulino con i vestiti o le scarpe che ho addosso, ma adesso me li tolgo comunque» annuncio. «Purtroppo questo albergo non ha stanze con lavatrice e asciugatrice, quindi non c’è niente da fare. Potresti cercarmi i sacchi per la spazzatura che ho appena comprato?» dico a Benton. «Così ci metto la camicia e i pantaloni e poi li mando in lavanderia. Anzi, li butto via. Potrei buttare anche gli anfibi. Forse butterò via tutto, non so. Vedi se mi trovi un accappatoio, per piacere.» «Credo che andrò a darmi una lavata.» Marino prende due birre analcoliche, anche se non sono fredde, e attraversa il soggiorno per andare nella sua stanza comunicante. Trovo le salviettine disinfettanti nella borsa a tracolla e me le passo sul viso, sul collo, sulle mani, come ho già fatto molte volte durante la giornata. Benton mi porta un accappatoio e apre un sacco da rifiuti. Mi tolgo i pantaloni e la camicia neri che ho indosso da stamattina all’alba e che Marino mi ha messo da parte qualche settimana fa, all’inizio di un piano che poi si è rivelato molto diverso dal previsto. Jaime ci ha ingannato tutti quanti. Non conosco nei particolari i suoi maneggi e le sue motivazioni, né so cosa volesse ottenere. Non si è comportata in modo giusto né leale, è stata anche molto sgarbata, ma non meritava di morire, e in modo così crudele. Nel cucinino ci sono armadietti con piatti e posate, un frigorifero e un forno a microonde. Sistemo il fornello a butano e il fornetto elettrico, poi iniziamo a mettere a posto il cibo e le provviste. Non c’è traccia di Lucy. La sua stanza è vicino alla zona pranzo, a destra del sog-
giorno, e la porta è chiusa. «L’unica cosa che non sono riuscita a fare è passare da una farmacia.» Tiro fuori dalle confezioni le pentole e tolgo le etichette dagli utensili che ho comprato. «Una ben fornita, che avesse i presidi medico-chirurgici che dovremmo tenere sempre a portata di mano. Non ce n’era una aperta dopo le sei che avesse quello che mi serviva. Darò una lista a Marino, così magari domani mattina riesce a prendere quello che ci manca.» «Mi sembra che tu abbia preso tutto il necessario» dice Benton con una calma che mi rende ancora più nervosa, come se preannunciasse una tempesta. «Un pallone ambu. Almeno uno bisognerebbe averlo. È uno strumento semplicissimo, ma può fare la differenza tra la vita e la morte. Un tempo ne tenevo sempre uno in macchina. Non so perché ho perso l’abitudine. Mai abbassare la guardia.» «Lucy è rimasta in camera a lavorare sui computer» dice Benton, visto che non ho chiesto esplicitamente di lei e lui sa perché. «È uscita a correre e poi siamo andati insieme nella palestra. Penso che stia facendo la doccia, o almeno era in bagno fino a pochi minuti fa.» Lavo un tagliere e due pentole nuovi. «Kay, dovrai affrontarla un po’ meglio di così» dice Benton mettendo alcune bottiglie di acqua in frigorifero. «Lei o quello che è successo a Jaime? Cos’è che devo affrontare meglio, visto che nessuno vuole che io mi occupi di niente?» «Non inalberarti così, ti prego.» Prende un cavatappi in un cassetto. «Non mi inalbero.» Sbuccio una cipolla e lavo alcuni peperoni verdi, mentre Benton si decide per una bottiglia di chianti. «Sto solo cercando di essere responsabile, di fare quello che mi sembra giusto e prudente.» Comincio a tagliare a dadini la verdura. «Cerco di fare quello che posso. Ammetto che mi sento in colpa per avervi trascinato in questo pasticcio, e non so come farmi perdonare.» «Non ci hai trascinato da nessuna parte.» «Però adesso siete qui, giusto? Asserragliati in un albergo di Savannah, in Georgia, insieme a una persona che ritiene prudente gettare via i suoi vestiti. A mille miglia da casa, con la paura di bere persino l’acqua del rubinetto.» Benton stappa la bottiglia di vino, e sembra che stiamo per ripetere il copione dell’ultima sera che abbiamo passato insieme a Cambridge, prima che io partissi per Savannah contro la sua volontà. Siamo in cucina, intenti a preparare la cena e a tagliare verdure, a bere vino e a discutere animatamente, al punto di dimenticarci di mangiare. «Non ho parlato con Lucy in tutto il giorno, visto dove mi trovavo e cosa stavo facendo» dico, e lui mi guarda in silenzio, aspettando che esprima i miei sentimenti. «E poi pensavo che fosse meglio parlarle di persona» aggiungo. «Non al telefono dal furgone di Pete, con
tutto il rumore che fa.» Benton mi porge un bicchiere di vino, ma non sono dell’umore giusto per assaporarlo a piccoli sorsi. Avrei voglia di scolarmelo tutto, di buttar giù il bicchiere d’un fiato. Bevo un sorso e l’effetto è istantaneo. «Non so proprio cosa dirle.» Improvvisamente mi ritrovo in lacrime, talmente stanca che mi reggo a malapena in piedi. «Cosa penserà di me, Benton? Cosa sa di quel che è successo? Le hanno detto che ieri sera Jaime faceva fatica a parlare e a tenere gli occhi aperti, e io me ne sono andata lo stesso? Che ero furibonda e disgustata quando l’ho piantata in asso?» Inizio a versare acqua minerale nella pentola. Benton mi ferma, mi prende di mano la bottiglia, l’appoggia e va a mettere la pentola sotto il rubinetto del lavello. «Basta così» dice. «Dubito che l’acqua del rubinetto sia avvelenata, e se per caso lo fosse non potremmo fare niente per salvare noi stessi né nessun altro, ti pare?» Riempie la pentola, la mette sul fornello e accende il gas. «Sai perché sei così agitata? Ti rendi conto che, sebbene in gran parte giustificata, per certi versi la tua preoccupazione è eccessiva? Sei cosciente di quello che ti sta succedendo? Perché a me sembra abbastanza evidente.» «Avrei potuto fare di più.» «Il tuo problema è che ti senti sempre inadeguata, in qualsiasi situazione, e sai anche perché. Non voglio scavare nel passato, parlare della tua infanzia e delle conseguenze di determinati eventi. In questo momento sarebbe semplicistico e capisco che tu sia stufa di sentirmelo ripetere.» Metto il sale nell’acqua che bolle e apro le scatole di polpa pronta. «Hai assistito un genitore molto malato e non sei riuscita a salvarlo nonostante ti sia impegnata per anni, per la maggior parte della tua infanzia.» Benton mi ripete cose che mi ha già detto altre volte. «I bambini prendono a cuore tutto molto più degli adulti. Subiscono un imprinting. E così tu, quando succede qualcosa di brutto e non riesci a impedirlo, pensi che sia colpa tua.» Aggiungo al pomodoro origano e basilico fresco, con le mani che mi tremano. Il dolore mi invade a ondate, ma soprattutto ce l’ho con me stessa perché avrei sicuramente potuto fare di più. Indipendentemente da quello che sta dicendo Benton, ho peccato di negligenza. Al diavolo la mia infanzia. Non posso usarla per giustificarmi. Non ho scuse. «Avrei dovuto chiamare Lucy» dico a Benton. «Non ho scusanti. Solo che non me la sono sentita. Non ce l’ho fatta. È tutto il pomeriggio che la evito.» «È comprensibile.» «Ma non per questo è giusto. Andrò di là e la affronterò, a meno che lei non si rifiuti di parlarmi. Non potrei biasimarla.»
«Nemmeno lei ti biasima» dice. «Ce l’ha con me, ma con te no. Le ho parlato a più riprese, e adesso tocca a te.» «Mi sento in colpa.» «Devi smetterla.» «Benton, ieri sera ero esasperata. Me ne sono andata via come una furia.» «Devi smetterla, Kay, sul serio.» «Sono quasi arrivata a odiarla per quello che ha fatto a Lucy.» «Avresti più ragione di odiarla per quello che ha fatto a te» mi fa notare. «Quello che ha fatto a Lucy è grave, ma tu non sai il resto.» «Il resto è quello che abbiamo trovato oggi nel suo appartamento. È morta.» «Il resto è cominciato a Chinatown. E non due mesi fa, come ha fatto credere a te e come aveva fatto credere a Marino, quando poi lui ha preso il treno ed è andato a trovarla a New York. È cominciato a marzo. In altre parole, risale a poco tempo dopo che Dawn Kincaid ha cercato di ucciderti.» «A Chinatown?» Non ho la più pallida idea di che cosa stia parlando. «Ha fatto mille maneggi per fare in modo che tu venissi a Savannah a darle una mano, ha manipolato l’FBI e Marino, sicuro come l’oro» dice Benton. «Da Forlini’s. Sono certo che te lo ricordi, perché ci sei stata un sacco di volte con Jaime.» Forlini’s è un ristorante italiano molto frequentato da avvocati, giudici, funzionari del dipartimento di polizia di New York e dell’FBI, dove le sale sono intitolate a dirigenti di polizia e vigili del fuoco, politicanti come quelli da cui Jaime sosteneva di essere stata costretta a rinunciare al lavoro. «Ovviamente non so cosa ti abbia raccontato ieri sera» continua Benton «ma quello che mi hai riferito al telefono mi è bastato per fare qualche domanda e approfondire alcuni aspetti, non ultimo i nomi dei due colleghi che sarebbero andati a casa sua a interrogarla su di te. Sono entrambi della sede di New York e non sono mai stati a casa di Jaime. Jaime ha parlato con loro da Forlini’s una sera all’inizio di marzo e ha intorbidato le acque, cosa nella quale era certamente maestra.» «Ha intorbidato le acque dando informazioni su di me? È questo che stai cercando di dire?» Decido che tipo di pasta buttare. «In modo da indebolire la mia posizione e dimostrarmi quanto avevo bisogno del suo aiuto?» «Mi sembra che tu stia cominciando a capire.» Benton ha un’espressione dura, ma anche triste. Vedo che è deluso da come si ingobbisce e dalle ombre sul suo viso. Stimava molto Jaime, ai vecchi tempi, e so che cosa deve pensare adesso di lei. «Un’azione decisamente spregevole» rispondo. «È andata a raccontare all’FBI che ci potrebbero essere elementi a favore di Dawn Kincaid, che io sono instabile, potenzialmente viol-
enta o magari gelosa? Dio solo sa che cosa gli avrà raccontato. Ma perché l’ha fatto? Come ha potuto?» «Era sempre più disperata e infelice. Era convinta che ce l’avessero tutti con lei, che fossero invidiosi, competitivi e meno meritevoli di lei, quando invece era il contrario» dice Benton. «Potremmo analizzarla per il resto dei nostri giorni senza arrivare a capirla fino in fondo. Comunque, ha fatto una cosa bruttissima, imperdonabile. Ha cercato di metterti nei guai, in pericolo, per convincerti a fare quello che voleva lei. E non sei l’unica persona che ha diffamato di recente. Ho parlato con un paio di agenti che le sono stati abbastanza vicini, e ho sentito dell’altro.» «Hai qualche idea su chi potrebbe averla uccisa? Chi c’è dietro? Che cosa sa l’FBI?» «Sarò sincero, Kay: non ci capiamo un cazzo.» Schiaccio dell’aglio fresco, aggiungo al sugo un po’ di olio d’oliva e cerco il sacchetto con il parmigiano reggiano grattugiato. È in uno dei cassetti del frigo, dove lo ha messo Marino. Ogni volta che cerco qualcosa, ingredienti o spezie che mi servono, scopro che è nel posto sbagliato. Mi sembra di girare in tondo, di non riuscire a pensare con lucidità. «Potresti aiutarmi ad apparecchiare» suggerisco a Benton. In quel momento la porta a destra della zona pranzo si apre e io rimango impietrita. Lucy ha i capelli bagnati e pettinati all’indietro. È scalza, con i pantaloni del pigiama e una maglietta grigia dell’FBI che possiede dai tempi dell’accademia. Vorrei dirle qualcosa, ma non ci riesco. «Devi venire a vedere una cosa. E a sentirla» mi dice, come se niente fosse. Ma mi accorgo che ha gli occhi gonfi e riconosco la piega della bocca. So che ha pianto. «Mi sono collegata alla videocamera di sorveglianza» spiega, e io lancio un’occhiata a Benton. È imperturbabile, ma immagino che cosa ne pensa. Non vuole averci niente a che fare. Infatti inizia a mescolare il sugo di pomodoro, voltandoci le spalle. «Finisco di preparare io» dice. «Penso di ricordarmi come si cuoce la pasta. Vi chiamo quando è pronto. Voi due parlate pure.» «Marino ti ha dato la password?» chiedo a Lucy, seguendola in camera sua. «Meglio che non sappia niente di quello che ho fatto» mi risponde lei. 036_chapter30
30 Due rimorchiatori verniciati di rosso, con parabordi di pneumatici neri, spingono lungo il fiume una chiatta carica di container multicolori, impilati l’uno sull’altro come mattoni. Nel vederla mi torna alla mente quanto devo portare io; assai più di quel che sono in grado di reggere. “Non sono certa di farcela e ti prego di darmi la forza” penso. “Buon Dio” avevo l’abitudine di invocare l’Onnipotente da bambina, ma ultimamente non l’ho più fatto... da parecchi anni, devo ammettere, non sapendo chi o cosa sia in realtà Dio, visto che Lui o Lei è definito in modo diverso a seconda della persona a cui lo domando. Un Potere Superiore o una maestosa entità su un trono dorato? Un uomo semplice che porta un bastone da guardiano di greggi e s’allontana lungo una strada polverosa o che cammina sulle acque, si rivolge con gentilezza alla donna del pozzo e invita chi è senza peccato a scagliare la prima pietra? Oppure uno spirito femminile che permea di sé la natura o la coscienza collettiva dell’universo. Non saprei dire. Non possiedo una chiara definizione di ciò in cui credo, a parte che esiste e che è al di fuori di me. Ma parlo a me stessa quando dico: “Aiutami, ti prego”. Non mi sento affatto forte. Non sono certa di avere ragione e ho perso la fiducia in me stessa. Potrei morire all’istante se Lucy mi sollevasse controluce e mi studiasse, come si fa con un cristallo o una pietra preziosa, indicando tutti i difetti che non s’aspettava di trovare in me. E io lo scorgerò nei suoi occhi: un avvolgibile che scende a chiudere una finestra o l’esitazione di una persona che vuole licenziarti o sostituirti con qualcun altro e non ti rispetta più, non prova più nessun affetto per te. La morte di Jaime Berger è sempre davanti ai miei occhi ed è uno specchio da cui vorrei fuggire via, a qualsiasi costo. Non sono come mi ha sempre creduta Lucy. Le luci sono accese lungo la riva, sono apparse le stelle e la luna splende quando mi avvicino all’unica sedia libera nella stanza di Lucy, con i braccioli e il sedile azzurri. La prendo da sotto la finestra affacciata sul fiume e la trascino sul tappeto fino al tavolo dove lei ha allestito la sua postazione di lavoro – o, come la chiamo io, la cabina di pilotaggio – con tutti i collegamenti wireless sicuri. Adesso Lucy può entrare da hacker dovunque desideri, e gli altri non possono fare a lei quello che lei fa a loro. «Non ti arrabbiare» mi dice mentre mi siedo. «Curioso, che sia proprio tu a dirmelo» osservo. «Dobbiamo parlare di ieri sera. Ho bisogno di spiegarmi.» «Non ho chiesto la password a Marino perché non volevo metterlo nella posizione di darmela, e del resto non ho bisogno di niente da lui» continua, come se non avesse colto il riferimento a Jaime e al fatto che l’ho abbandonata perché ero in collera, e ora lei è morta. «E Benton dovrà essere cieco e sordo e farsi venire l’amnesia. Una cosa a cui non è abituato.» «Dobbiamo fare...» Vorrei dire che dobbiamo fare tutto secondo le regole, ma non riesco a tirar fuori le parole. Non ho fatto niente di regolare, la scorsa notte, e non posso dare sug-
gerimenti a Lucy. Né a chiunque altro. «Benton non vuole che ti metta nei guai» aggiungo, e la frase mi sembra ridicola. «Era impossibile che non vedessi le riprese della sorveglianza. Dovrebbe piantarla di essere così maledettamente FBI.» «Allora hai già visto tutto.» «Dovrei starmene qui seduta ad aspettare, a giocare secondo le regole, mentre quel gran pezzo di merda vuole incastrarti?» commenta Lucy fissando lo schermo di un computer. «Lei è là fuori, libera come un uccellino, e noi siamo qui, tappati in albergo, con la paura di assaggiare il cibo e di bere l’acqua. Ucciderà qualcun altro, chissà quanti, sempre che non li abbia già uccisi. Non c’è bisogno di essere un profiler o un analista di psicologia criminale per dirtelo. Non c’è bisogno di essere Benton.» È arrabbiata con lui, e io ne so la ragione. «Quale pezzo di merda? Chi è?» chiedo io. «Non lo so ancora. Ma lo scoprirò» promette. «Benton ha idea di chi possa essere? Mi ha detto di no. L’FBI non ne ha idea.» «Intendo scoprire chi è quella donna e intendo prenderla.» Lucy preme sul touchpad di un MacBook e digita una password che non riesco a vedere. «Non puoi prendere in mano la situazione da sola.» Ma è inutile dirglielo; lei lo già fatto e io non ho alcun diritto di proibirglielo. Io stessa ho già preso in mano la situazione quando sono arrivata a Savannah, e così pure la notte scorsa e anche oggi. Ho fatto ciò che mi sembrava la cosa migliore o, semplicemente, ciò che volevo, e Jaime è morta e si potrebbe dire che ho compromesso le indagini; di certo ho inquinato la scena del delitto. Tutto perché ero decisa a liberarmi del dolore e del senso di colpa, a riparare in qualche modo quel che non può più essere riparato. Ma Jack Fielding è morto e quel che ha fatto resta qualcosa di terribile, e inoltre adesso mi sento colpevole per tutte le altre persone che sono morte. «Benton ha scelto la soluzione che gli sembrava migliore per te» dico a Lucy. «So che adesso sei arrabbiata con lui perché non ti ha fatto entrare nell’appartamento.» «Non è un caso che tu fossi davanti al palazzo quando è arrivata lei con il sacchetto del ristorante» mi risponde, mentre una stampante comincia a ronzare. È chiaro che non vuole parlare di Jaime e di Benton. Non vuole permettermi di confessare di essere stata negligente, di avere tradito il mio giuramento. Con la mia inazione ho fatto dei danni. «Voleva consegnarlo a te» continua. «Voleva che tu lo portassi dentro, in modo che ci rimanessero le tue impronte, il tuo DNA. Ti si vede nella ripresa, chiaro come il sole, mentre entri nel palazzo con il sacchetto di sushi della tua ordinazione.»
«La mia ordinazione?» Mi ritorna in mente la lettera a Kathleen Lawler, falsa e firmata con il mio nome. «Ho chiamato il Savannah Sushi Fusion prima di chiunque altro.» «Probabilmente non è stata la migliore delle idee.» «Marino mi aveva detto della consegna e io ho telefonato per chiedere informazioni. Sì, la dottoressa Scarpetta ha fatto l’ordine pochi minuti dopo le sette di ieri sera. Sessantatré dollari e quarantasette cent. Hai detto che passavi tu a ritirarlo.» «Non gli ho mai telefonato.» «Ed è stato ritirato verso le sette e quarantacinque.» «Non da me.» «Certo che non sei stata tu. Non hanno pagato con la carta di credito, ma in contanti. Anche se la sua carta di credito era già registrata.» Si riferisce alla carta di Jaime. «E la persona che ha consegnato il sacchetto sapeva che era registrata. Me lo ha detto.» «Lo so» risponde Lucy. «È nella registrazione della sorveglianza. I contanti non lasciano tracce. Non arriva la telefonata per avvertirti, non si fanno domande, non occorre spiegare perché una persona che si chiama Scarpetta voglia addebitare un acquisto sulla carta di credito di un’altra. È un piccolo ristorante familiare, non ha molti tavoli e la maggior parte del lavoro è costituito da vendite al banco. La persona con cui ho parlato non ricorda granché dell’individuo che si è presentato a ritirare il tuo ordine.» «Era in bicicletta?» «Non lo ricorda, e alla bicicletta arriverò tra un attimo. Donna giovane. Razza bianca. Statura media. Parlava inglese.» «Corrisponde alla descrizione della persona che ho incontrato all’esterno della casa di Jaime, per quello che vale.» «Penseresti che sia stata Dawn Kincaid ad architettare tutto questo, ma ha il piccolo problema di trovarsi a Boston, in una condizione clinica chiamata morte cerebrale.» «Come poteva sapere quella persona» chiedo io «che dovevo vedere Jaime, e saperlo già nell’esatto momento in cui aprivo la porta del suo palazzo, se io stessa non l’ho saputo fino all’ultimo minuto?» Mi pare impossibile. «Ti sorvegliava. Aspettava. Il vecchio edificio e la piazza, dall’altra parte della strada, occupano l’intero isolato. La Owens-Thomas House ora è un museo, chiuso la notte, e nella piazza l’attività è scarsa. Molti alberi alti e cespugli, parecchi punti in ombra che permettono di nascondersi per sorvegliare qualcuno» mi dice. Ricordo che ieri sera tardi, mentre ero ferma davanti al portone di Jaime in attesa che Marino arrivasse a prendermi, mi è parso di vedere qualcosa che si muoveva in mezzo alle ombre, dall’altra parte della strada.
Lucy prende i fogli dalla stampante e li batte sul tavolo in modo che formino una pila bene ordinata. Il primo è un fotogramma ripreso dalla telecamera della sorveglianza. Un ingrandimento digitale, in sfumature di grigio. Una persona che cammina spingendo una bicicletta e, dietro di lei, il vecchio edificio: una sagoma massiccia sullo sfondo della notte. «Se non mi ha seguito fin dall’albergo» suggerisco io. «Non credo. Troppo rischioso. Meglio ritirare il sacchetto, fermarsi dall’altra parte della strada e aspettare.» «Non capisco come potesse sapere che sarei andata lì.» «È l’anello mancante» risponde Lucy. «Qual è il comun denominatore?» «Non ho una risposta ragionevole.» «Adesso te lo faccio vedere. Così posso far onore alla mia reputazione» aggiunge. «A quanto pare, io non devo avere fatto onore alla mia» rispondo, ma è come se lei non sentisse. «L’agente incontrollabile e “sopra le righe”. L’hacker.» Lucy ripete quanto Jaime mi ha detto la notte scorsa e io le ho riferito. «Quando ho dovuto ascoltare quelle parole, me la sono presa» vado avanti a confessare, e Lucy continua a ignorare le mie parole. «Mi sono davvero arrabbiata, e non avrei dovuto farlo.» Lei clicca sui menu del MacBook. In due altri computer portatili, sul piano del tavolo, girano programmi che effettuano ricerche, a quanto sembra, ma non riesco a capire nulla di quello che vedo. C’è un BlackBerry con l’alimentatore inserito nella presa, particolare che mi è del tutto oscuro. Lucy non usa più il BlackBerry. Da parecchio tempo. «Cosa stiamo cercando?» Guardo i dati che scorrono velocemente sui due portatili. Parole, nomi, numeri, simboli che cambiano troppo in fretta perché li si possa leggere. «Il mio solito data mining.» «Posso chiedere quali?» «Hai un’idea di quante informazioni siano disponibili tutt’intorno a noi, se soltanto troviamo il modo di rintracciarle?» Lucy è felice di parlare di computer, di telecamere di sorveglianza e di ricerca di dati, di qualsiasi argomento che non includa la mia serata con Jaime e il mio bisogno di essere assolta della sua morte agli occhi di una nipote che amo come una figlia. «Sono certa che non riuscirei neppure a immaginarlo» rispondo. «Ma a giudicare da WikiLeaks e da tutto il resto, non sembra che sopravvivano molti segreti. Anzi, pare che niente sia al sicuro.» «Statistiche» spiega lei. «Dati raccolti per potervi cercare uno schema e fare previsioni. Valutazioni sui vari tipi di crimine, per esempio, per far sapere al governo che sarebbe meglio aumentare gli stanziamenti per tenere lontano dalla strada tutta quella brutta gente. O
tendenze di mercato che ti aiutano a vendere un prodotto o magari un servizio, come fanno le agenzie di sorveglianza. Creare un database di centomila o di cento milioni di dati sui consumatori e confezionare diagrammi a barre da mostrare alla prossima persona o alla prossima ditta che vuoi avere come cliente. Nome, età, reddito, patrimonio, residenza, previsioni. E rapine, furti con scasso, vandalismo, molestie, aggressioni, omicidi, altre previsioni. Ti trasferisci in una casa molto costosa di Malibu per aprirci il tuo studio cinematografico personale e io ti dimostro che, se sottoscrivi un contratto con la mia agenzia e io ti installo i più aggiornati strumenti di sorveglianza, è statisticamente improbabile che rubino nella tua villa o nel tuo palazzo, che rapinino i tuoi dipendenti nel parcheggio o violentino qualche segretaria nel sottoscala, sempre che tu ti ricordi di tenere acceso l’impianto di sicurezza.» «I Jordan.» Probabilmente, cercava le informazioni dell’agenzia di sorveglianza a cui erano abbonati. «I dati sui consumatori sono oro e li si vende tutti i momenti, e alla velocità della luce» commenta Lucy. «È quello che vogliono tutti. Pubblicitari, ricercatori di mercato, la Sicurezza nazionale, le Forze speciali che hanno scovato Bin Laden. Ogni particolare delle tue ricerche sul web, i siti che visiti, chi chiami al telefono o contatti per e-mail, quali ricette ti prescrive il tuo medico, quali vaccinazioni hai fatto fare ai tuoi figli, i numeri della tua carta di credito e della tua tessera sanitaria... persino le tue impronte digitali e la scansione delle tue iridi, perché hai dato queste informazioni personali a un servizio di sicurezza privato che effettua i controlli in alcuni aeroporti e, per un abbonamento mensile, ti permette di evitare le lunghe code in cui tutti rimangono bloccati. Se poi desideri vendere la tua azienda, chi si presenta per acquistarla vuole avere i dati sulla clientela; in molti casi gli interessano solo quelli e, una volta che glieli hai trasmessi, l’affare va a monte. Chi sei e come spendi i tuoi soldi? Vieni a spenderli da noi. E il primo acquirente dei tuoi dati li cede poi a un altro che li vende a un terzo. E così via.» «Ma immagino che ci siano protezioni. Firewall.» Preferisco ignorare se si è aperta la strada scassinando i loro sistemi di sicurezza, da hacker. «Non c’è alcuna certezza che le informazioni riservate e sicure non finiscano a disposizione del pubblico» continua Lucy. Se quello che sta facendo è illegale, non me lo dirà mai. «Specialmente quando una ditta vende i suoi beni e i dati che possiede finiscono in mani diverse.» «A quanto mi risulta, la Southern Cross Security non è stata venduta. È fallita» osservo io. «No, ti sbagli. Ha cessato l’attività e si è tolta dal mercato tre anni fa» risponde Lucy. «Ma il vecchio proprietario, Darryl Simons, non ha chiesto il fallimento. Ha venduto il database della Southern Cross Security a una ditta internazionale che fornisce servizi nel settore protezione e sicurezza ai privati, una compagnia che copre l’intero campo, dalla a alla zeta. Offre
servizi di guardia del corpo, controlla l’installazione dei sistemi di sorveglianza, ti fa l’analisi delle minacce se qualcuno ti molesta, tutto quello che vuoi. A sua volta, questa compagnia internazionale avrà venduto il database dei clienti e via di seguito. Così, faccio il percorso al contrario, come se smontassi una complicata torta nuziale. Prima trovo la torta nella pasticceria del cyberspazio, poi devo cercare i dati originali, i gruppi di dati che sono stati minati quando hanno voluto estrarre dagli archivi le configurazioni di interesse per loro.» «Questo comprenderà anche i dati sulla fatturazione. O i particolari sui falsi allarmi» osservo. «Tutto quello che c’era nel server della Southern Cross Security, e certo quel “tutto” comprende i falsi allarmi, i guasti sulle linee, la risposta della polizia, tutti i rapporti. Queste informazioni sono state cucinate dentro le analisi statistiche. Perciò i dati dei Jordan sono da qualche parte là dentro. Una cucchiaiata di farina che devo tirare fuori dalla torta. In fin dei conti, quello che cerco è solo il link interno tra la Southern Cross Security e i suoi file archiviati. In altre parole, un sito inattivo che contiene tutte le informazioni sulla fatturazione dei singoli clienti. Purtroppo il procedimento è lento.» «Quando hai iniziato la ricerca?» «Appena adesso. Ma ho dovuto scrivere gli algoritmi, prima di poterli lanciare. Ora va in automatico. Ed è quello che vedi nei due schermi.» «Potrebbe essere una buona idea quella di includere Gloria Jordan» suggerisco io. «Non sappiamo con che nome è stato registrato l’abbonamento. Poteva essere una società a responsabilit limitata.» «Non c’è nessun bisogno di mettere il suo nome e non mi preoccupano le società. I suoi dati saranno collegati a quelli del marito e dei figli, delle ditte e delle dichiarazioni dei redditi, a tutto quel che c’è nei media, nei blog e negli schedari giudiziari. Immaginalo come un albero di decisione. Non ti ha detto niente, la scorsa notte, sulla sua preoccupazione di essere seguita, sorvegliata, magari da una persona che si è presentata a casa sua?» «Jaime.» Suppongo che parli di lei. «Nessun accenno, magari a qualcuno che l’ha insospettita? O qualcuno che si comportava in modo eccessivamente amichevole?» «Non mi è venuto in mente di chiederlo.» «Cosa ti fa pensare che avresti dovuto chiederglielo?» Lo sguardo di Lucy resta fisso sui dati che scorrono velocemente. «Il sistema di sorveglianza e la telecamera» rispondo. «E aveva una pistola. Una Smith & Wesson .38, con proiettili a testa cava e carica rinforzata.» Lei non dice nulla e continua a guardare i dati che scorrono.
«Un suggerimento tuo?» chiedo a Lucy. «Non sapevo che avesse una pistola» risponde lei. «Non le avrei mai raccomandato di armarsi. Non le ho mai, mai procurato una pistola e non le ho mai dato lezioni di tiro. Era un pessimo candidato.» «Non so se fosse semplicemente paura perché nel profondo Sud si sentiva fuori dal suo elemento. Avrei dovuto chiederle se si sentiva spaventata, minacciata, instabile, irrazionale o semplicemente infelice, e perché. Ma non l’ho fatto.» È un sollievo poterlo finalmente dire, ma provo un senso di vergogna mentre aspetto che Lucy si giri verso di me per biasimarmi. «E non mi sono preoccupata di chiederle se stesse bene quando me ne sono andata via la scorsa notte. Ricordi cosa ti dicevo sempre quando eri piccola?» Lucy tace. «Ricordi? “Non uscire di casa arrabbiata.”» Lei continua a non rispondere. «E anche: “Non lasciare che il sole tramonti sulla tua collera”» concludo. «Quelli che chiamavo i tuoi “discorsi dei morti”. Tutti i precetti sulla possibilità che qualcuno muoia o qualcosa ti esponga a un potenziale rischio di morte» risponde senza guardarmi. «Rendere tutto sicuro per i bambini, anche quando sono ormai vecchi e decrepiti. I pericoli domestici: le corde delle veneziane e le scale, i balconi con la ringhiera bassa o le caramelle troppo dure che potrebbero soffocarti. Non camminare con in mano le forbici o una matita appuntita. Non parlare al telefono mentre guidi. Non uscire a fare jogging se vedi che arriva il temporale. Guarda sempre a destra e a sinistra quando attraversi, anche se è una strada a senso unico.» Lucy fissa i dati che scorrono e non alza gli occhi verso di me. «Non andare mai via dopo avere litigato. L’altra persona potrebbe morire in un incidente o essere colpita dal fulmine, oppure le potrebbe scoppiare un aneurisma.» «Devo essere una vera seccatrice.» «Lo sei quando credi di essere esentata dal provare quel che provano gli altri. Sì, la scorsa notte tu, cito le tue parole, sei “andata via arrabbiata”. So che lo eri, perché hai continuato a parlarne al telefono fino alle tre del mattino, ricordi? E avevi tutte le ragioni di essere in collera. Era giusto esserlo, lo sarei stata anch’io, se i panni fossero stati invertiti e lei mi avesse detto le stesse cose su di te. Se ti avesse fatto la stessa cosa.» «Avrei dovuto fermarmi per chiarire tutto con lei» rispondo. «Se l’avessi fatto, forse avrei prestato maggiore attenzione a quello che le succedeva fisicamente. Forse mi sarei accorta che i sintomi non erano collegati all’alcol.» «Mi chiedo se esista una associazione degli Hacker Anonimi, sul tipo della Alcolisti Anonimi, per toglierti il vizio» riflette Lucy, come se non avessi detto niente di importante. «Con la sigla “HA”, naturalmente. Ma mi fa ridere la pretesa che una persona come me non si intro-
duca nei posti più riservati, se appena è in grado di entrarvi. Non puoi aggiustare un piatto scheggiato, puoi solo tenertelo e accontentarti, oppure buttarlo nella spazzatura.» «Tu non sei un piatto scheggiato.» «Per l’esattezza, il nome che lei mi dava era “tazza sbreccata”.» «Non sei neppure quello, e non è stato carino dirtelo. È una cattiveria.» «È la verità. Ecco la prova vivente.» Indica i computer sul tavolo. «Sai quant’è stato facile entrare nelle sue registrazioni digitali? Per prima cosa, non prestava alcuna attenzione alle password. Usava sempre le stesse, per non correre il rischio di scordarsele e di non poter più entrare. Trovare l’indirizzo IP è stato un gioco da bambini. Mi è bastato mandare con il mio iPhone un’e-mail a me stessa mentre ero ferma sotto la telecamera di sorveglianza e questo mi ha fornito l’indirizzo IP statico di quel collegamento.» «E l’hai fatto mentre ero nel suo appartamento?» «Io e Benton eravamo fuori sotto la pioggia, al riparo della tettoia.» Non so se debba stupirmi o inorridire. «Mi teneva per un braccio, ma io mi sono comportata con educazione, in modo del tutto civile. È stato fortunato a trovarmi così ben disposta, però stavo quasi per scoppiare. Ha una fortuna pazzesca.» «Cercava solo di...» «Dovevo fare qualcosa» mi interrompe Lucy. «Ho visto una telecamera esterna miniaturizzata che sembrava nuova, quindi installata da poco, un sistema del tutto okay, con l’obiettivo zoom... il tipo di apparecchiatura che sceglierebbe Marino, ma non avevo intenzione di chiedergli nulla e infatti così è stato» sottolinea di nuovo quel particolare. «Ho pensato che da qualche parte ci dovesse essere un registratore digitale e a quel punto non c’è più stato modo di fermarmi. Chi diavolo ha voglia di passare la vita ad aspettare una fottuta autorizzazione? I bastardi mica la aspettano. E neppure i pezzi di merda che sono all’origine dei tuoi guai. Ha ragione lei: sono incorreggibile. Ma forse sono io che non ho voglia di essere corretta. Maledizione, no.» «Non c’è niente da correggere, in te.» Sono di nuovo in collera. «Primum non nocere. Anch’io ho fatto delle promesse. Le manteniamo come meglio possiamo. Mi dispiace di averti deluso.» Le parole suonano piuttosto fiacche sulle mie labbra. «Non hai fatto del male a nessuno. È stata lei stessa a farselo.» «Non è vero. Non so cosa ti abbiano detto, ma...» «È stata lei stessa a farsi del male, molto tempo fa.» Lucy clicca il touchpad e l’immagine in pausa del palazzo di Jaime e della strada davanti si materializza sullo schermo del MacBook. «Ha preparato quel piano di volo quando ha deciso di mentire e ha finito per schiantarsi lo stesso, anche se al momento dell’incidente c’era un altro ai comandi. Ma adesso so che è
stata davvero assassinata e il mio punto di vista filosofico è irrilevante.» «L’omicidio è un’ipotesi, ma non è stata ancora dimostrata» le ricordo. «Non lo sapremo finché il CDC non avrà finito le analisi. O forse prima scopriremo la verità su Dawn Kincaid, supponendo che si tratti di avvelenamenti seriali con la stessa neurotossina.» «No, ormai lo sappiamo con certezza» ribatte lei seccamente. «È stato qualcuno che pensa di essere più furbo di noi. Il collegamento, il denominatore comune, è la prigione. Non può essere altrimenti. Tutti avete in comune quel luogo. Anche Dawn Kincaid, perché sua madre è rinchiusa là. O meglio era. E si scrivevano, vero? Sono collegate a causa del GPFW.» Mi tornano in mente la carta da lettere con i palloncini e i francobolli da quindici cent. Arrivati a Kathleen dall’esterno. E forse anche lei ha mandato qualcosa a Dawn. Rivedo le parole che si leggevano sul foglio sottostante, i frammenti spettrali nella caratteristica grafia di Kathleen. Il riferimento a una persona indesiderata e a un tentativo di corruzione. «Ti prenderò» dice Lucy rivolta all’immagine del palazzo di Jaime sullo schermo del computer. «Non hai idea di chi ti sei messa contro. Non sarebbe cambiato nulla se tu fossi rimasta con lei» adesso si rivolge a me, ma non gira gli occhi dalla mia parte. Non mi ha guardato neppure una volta da quando mi sono seduta e la cosa mi dà fastidio e mi irrita, anche se so bene che Lucy, dopo che ha pianto, non vuole guardare nessuno in faccia. «Parlava da ubriaca» dice, come se fosse stata presente al mio incontro con Jaime. «Ma sembrava semplicemente ubriaca fradicia, come le altre volte che ha chiamato.» «Quando eravate ancora insieme o dopo?» chiedo. Il mio sguardo torna al BlackBerry sul tavolo: comincio a capire cosa sia successo. «Mi hai detto che era ubriaca o, più esattamente, che pensavi che lo fosse» osserva Lucy mentre scrive. «Non hai detto di avere avuto l’impressione che potesse essere ammalata o qualcosa del genere. Perciò non puoi incolpare te stessa, anche se è inevitabile che tu lo faccia. Avresti dovuto permettermi di entrare nell’appartamento.» «Conosci la ragione che mi impediva di farlo.» «Perché mi proteggi come se avessi dieci anni?» «Non si trattava di proteggerti» rispondo, mentre sento la mia onestà volare via sulla dolce brezza delle mie buone intenzioni. Una menzogna mascherata come un atto affettuoso e gentile. «Be’, in effetti era più che altro per quello.» Decido di essere sincera. «Non volevo che vedessi quello che ho visto io. Volevo che il tuo ultimo ricordo fosse...» «Fosse cosa?» mi interrompe Lucy. «La mia compagna che si comporta come l’avvocato dell’accusa e mi diffida dall’avere più contatti con lei? Non le bastava rompere i rapporti, ha dovuto farlo sembrare un ordine restrittivo. “Sei corrotta. Mi spaventi perché distruggi tutto.
Sei pazza. Vattene.”» «Per legge, non potevi trovarti nell’appartamento, Lucy.» «Neanche tu potevi trovarti là dentro, zia Kay.» «Io c’ero già stata, ma hai ragione: la mia presenza creerà dei problemi. Però non è il caso che le tue impronte o il tuo DNA siano trovati a casa sua. Meglio non dare alla polizia qualche motivo per interessarsi a te.» Le dico cose che sa già. «È stata ingiusta a parlarti in quel modo. È stata disonesta a trasformare te nel problema, invece di affrontare ciò che le risultava insopportabile di se stessa. Ma io, prima di andarmene, avrei dovuto assicurarmi che non avesse niente. Avrei dovuto essere più attenta.» «In realtà intendi dire che avresti potuto essere più premurosa.» «Ero molto in collera e non m’importava di lei. Mi dispiace...» «Perché dovevi occupartene tu? Per quale motivo toccava a te sbatterti?» Cerco la risposta vera, perché quella giusta è falsa. Avrei dovuto occuparmi di lei perché dobbiamo sempre occuparci degli altri esseri umani: questa è la cosa giusta da fare. Ma io non mi sono comportata così. Onestamente, la scorsa notte non m’importava nulla di Jaime. «La cosa assurda è che, in ogni caso, lei era finita» dice Lucy. «Non sta a noi deciderlo di nessuna persona. Poteva non esserlo affatto: preferisco credere che avrebbe capito i propri errori, prima o poi. La gente riesce a cambiare. Non è giusto che qualcuno le abbia tolto quella possibilità.» Scelgo con attenzione le parole, come se cercassi la strada lungo un cammino impervio che potrebbe farmi inciampare e spezzare le ossa. «Mi dispiace che il mio ultimo incontro con lei sia stato così sgradevole, perché tanti altri incontri non erano andati così. C’è stato un periodo in cui era...» «Io non ho intenzione di perdonarla.» «È più facile arrabbiarsi che compatire» rispondo. «Io non intendo perdonare né dimenticare. Mi ha ingannato e mi ha mentito. Ha ingannato anche te, e ti ha mentito. Si è messa a raccontare così tante bugie che non le è rimasto più nessun aggancio con la verità, quindi ha finito per credere alle sue stesse stronzate.» Lucy porta il cursore su “play” e clicca sul touchpad; la registrazione digitale comincia a scorrere. Mattoni, scalini e ringhiere in varie sfumature di grigio, e il rumore delle auto che passano davanti al palazzo di Jaime, con i fari che si avvicinano e scompaiono. Lucy apre un’altra finestra e clicca su un altro file quando una figura compare in lontananza nella strada buia, una sagoma sottile che si avvicina a piedi: la stessa giovane donna, suppongo, ma non ha la bicicletta e il vestito è diverso da quello della sera prima. Comincia ad attraversare la strada, poi le si accende intorno alla testa un alone bianco che impedisce di distinguerne i lineamenti, come se lei fosse un alieno o una divinità. Arriva all’ingresso dell’edificio, calma e tranquilla, con la testa avvolta da un’aureola luminosa.
«Non era vestita così» dico a Lucy. «Sta studiando la zona» mi risponde. «In avanscoperta. Finora ho trovato cinque sue visite nelle due settimane passate.» «La scorsa notte aveva una camicia chiara. Quindi la registrazione che ho appena visto risale a...?» faccio per chiedere la data, ma mi blocco nell’udire la voce di Jaime Berger. «... Mi rendo conto che ancora una volta ho infranto la regola da me stessa fissata, di non avere contatti.» La voce ben riconoscibile esce da un altoparlante e Lucy aumenta il volume mentre la figura della registrazione video scompare lungo la strada buia, davanti alla casa di Jaime. «Suppongo che tu ormai sappia che Kay è qui e che mi aiuterà in un mio caso criminale. Abbiamo appena cenato insieme e temo che sia irritata con me. La solita leonessa quando si parla di te, e questo non ha granché favorito l’incontro. Gesuddio, non li ha mai favoriti. Uno sgradevole triangolo, per usare un eufemismo. In qualche modo ho sempre avuto l’impressione che fosse presente nella stanza, ovunque fossimo. Si spengono le luci e: “Zietta Kay, ci sei anche tu, vero?”. Oh, diamine, ne abbiamo parlato fino alla nausea...» «Fermala» dico a Lucy, e lei arresta tutt’e due i file. «Ti ha telefonato sul nuovo numero? Quando ti ha chiamato?» Ma ho l’impressione di saperlo già. La voce di Jaime è esitante; quasi farfuglia. È molto simile alla voce con cui mi parlava la notte scorsa, ma più blesa e incattivita. Io lancio un’occhiata al BlackBerry con l’alimentatore inserito, sul tavolo. «Il tuo vecchio telefono» dico a Lucy. «Non hai cambiato numero. Semplicemente, te ne sei fatta dare un altro quando sei passata all’iPhone.» «Non aveva il mio nuovo numero. Io non gliel’ho mai dato e lei non me l’ha mai chiesto» mi dice Lucy. «Non lo uso più.» Indica il BlackBerry. «L’hai tenuto perché lei continuava a chiamare.» «Non è la sola ragione, in realtà. Ma lei chiamava a quel numero. Non molto spesso. Soprattutto la sera tardi, quando aveva bevuto troppo. Io ho registrato tutti i messaggi e li ho archiviati come file audio.» «E li ascolti sul tuo computer.» «Posso ascoltarli ovunque. Ma non è questo il punto. Lo faccio per salvarli; per assicurarmi che non vadano persi. Sono tutti pressoché identici. Uguali a questo. Non mi chiede nulla. Non dice che vuole essere richiamata da me. Si limita a parlare per un paio di minuti e all’improvviso interrompe la comunicazione senza neppure un cenno di saluto. Un po’ come ha dato un taglio alla nostra storia. Lei che fa affermazioni e mi parla dall’alto in basso, senza ascoltare, e poi chiude.» «Le conservi perché senti la sua mancanza. Perché le vuoi ancora bene.»
«Le ho salvate per ricordare a me stessa perché non devo sentire la sua mancanza. Né amarla.» La voce di Lucy trema e sento chiari il dolore, la frustrazione e la collera. «Quel che sto cercando di dirti è che non mi sembrava ammalata o fisicamente in difficoltà.» Si schiarisce la gola. «Sembra semplicemente che abbia bevuto, e la telefonata risale a mezz’ora dopo la tua partenza. Perciò è probabile che non stesse molto peggio di quando c’eri ancora tu.» «Non ha detto di stare male o di sentirsi strana. Non ha detto nulla del genere.» Lucy scuote la testa. «Posso farti ascoltare tutta la registrazione, se vuoi. Non dice niente in proposito.» Mi raffiguro Jaime nella sua vestaglia bordeaux, che passeggia da una stanza all’altra del suo appartamento, sorseggiando scotch di marca e guardando dalla finestra il furgone di Marino che si allontana. Non so l’ora esatta in cui ce ne siamo andati, ma Jaime, mezz’ora più tardi, ha chiamato Lucy al suo vecchio numero e ha lasciato il messaggio. Chiaramente i suoi sintomi si sono aggravati solo più tardi, e mi tornano in mente il comodino con il liquore rovesciato e la base del cordless vuota, il telefono sotto il letto e quanto ho visto nel bagno padronale, medicine e articoli da toilette sparsi dappertutto. Sospetto che Jaime si sia addormentata e si sia svegliata bruscamente verso le due o le tre del mattino, senza fiato e a malapena in grado di inghiottire e di parlare. È stato forse in quel momento che ha cercato freneticamente qualcosa che potesse alleviare i sintomi terribili che l’avevano colpita. Sintomi, mi viene in mente, stranamente simili a quelli che Jaime mi ha descritto quando parlavamo di Barrie Lou Rivers e di quel che può esserci in serbo per Lola Daggette se verrà giustiziata il giorno di Halloween. Un supplizio crudele e inconsueto, un orribile modo per morire e, stando a quanto ha detto Jaime, volutamente crudele. Avevo pensato che calcasse su una storia drammatica per tirare acqua al suo mulino, ma forse non era così. Forse in quel che diceva c’era più verità di quanto lei fosse a conoscenza. Non era spaventata a morte, ma spaventata dalla morte. «La tua mente è sveglia ma non sei in grado di parlare. Non puoi muoverti né compiere il minimo gesto e hai gli occhi chiusi. A guardarti, sembri priva di conoscenza. I muscoli del tuo diaframma sono paralizzati, però sei perfettamente cosciente mentre patisci il dolore e il panico del soffocamento. Ti senti morire e i tuoi sistemi vitali sono accelerati al massimo. Dolore e panico. Non solo per la morte, ma per quella sadica punizione» riferisco quello che diceva Jaime della morte somministrata con un’iniezione letale e quel che succede quando l’anestesia non ha effetto. Penso a un assassino che somministra alla vittima un veleno che arresta la respirazione e la rende incapace di parlare e di chiedere aiuto. Soprattutto se la vittima designata è in carcere.
«Perché qualcuno dovrebbe mandare a un detenuto dei francobolli vecchi di una ventina di anni?» Mi alzo dalla sedia. «Perché non venderli?» chiedo. «Non dovrebbero avere un certo valore per un collezionista? O forse vengono proprio da una collezione, forse li hanno acquistati recentemente da un collezionista o in un negozio di francobolli. Nessun filo, né sporco o unto, niente appiccicato alla colla, nessuna delle pieghe o stropicciature che ci si potrebbe aspettare, come se fossero stati in un cassetto per decenni. In apparenza spediti da me, dentro una falsa busta del CFC che includeva una falsa comunicazione su un’imitazione della mia carta da lettere. Era qualcosa di plausibile, per quel che ne sapeva lei. Pareva convinta che le avessi voluto fare un regalo, mentre invece non ero stata io. Una grossa busta, in apparenza inviata da me, affrancata in eccesso, e qualcosa al suo interno, forse francobolli.» Lucy si decide infine a guardarmi e vedo cosa ha negli occhi. Sono di un verde più profondo, infinitamente tristi, e luccicano di collera. «Mi dispiace» le dico, perché è orribile immaginare la morte di Jaime nel modo in cui gliel’ho descritta. «Che francobolli?» mi chiede. «Dimmi esattamente che aspetto avevano.» Le dico quello che ho trovato nella cella di Kathleen Lawler, chiuso in un cassetto sotto il suo letto d’acciaio, un singolo foglio di dieci francobolli da quindici centesimi, emessi in tempi in cui la colla sul retro dei francobolli e sull’aletta della busta doveva essere leccata o inumidita con una spugnetta. Descrivo a Lucy la “mia” lettera a Kathleen, che in realtà non ho mai scritto, e la strana carta da lettere con i palloncini che lei non avrebbe potuto acquistare allo spaccio. Qualcuno le ha mandato la carta e i francobolli e potevo benissimo essere stata io, o, più precisamente, era stato qualcuno che recitava la mia parte. Un attimo dopo il francobollo è sullo schermo del computer. Un’ampia spiaggia bianca con ciuffi d’erba e un ombrellone a spicchi rossi e gialli sullo sfondo di una duna, e un gabbiano che vola nel cielo senza nuvole, sopra l’acqua luminosamente azzurra. 037_chapter31
31 È mezzanotte e stiamo mangiucchiando una pasta che Benton è riuscito a rendere stracotta e molle, ma in questo momento nessuno è granché schizzinoso, né si preoccupa del cibo, almeno non in senso positivo. Ora come ora potrei giurare che non mangerò mai più nulla, dato che tutto quello che vedo potrebbe essere una potenziale fonte di danno fisico e di morte. Pasta al ragù, insalata, condimento, persino il vino, e penso a come la pacifica e salutare coesistenza su questo pianeta sia fragile in modo allarmante. Basta poco per causare una catastrofe. Lo spostamento delle zolle tettoniche nella crosta terrestre crea uno tsunami, uno scontro di masse umide di diversa temperatura scatena uragani e trombe d’aria, ma peggio di tutto è quello che riescono a fare gli umani. Colin Dengate mi ha mandato per e-mail, circa un’ora fa, informazioni che probabilmente non aveva il permesso di darmi, ma lui è fatto così, è un po’ intollerante, come ammette di essere: una testa calda. “Armato e pericoloso”, ama definirsi, e gira su una vecchia Land Rover anche sotto il sole cocente. Non ha paura di nulla, compresi i burocrati, o “burosauri”, termine che affibbia a coloro che permettono alla tattica, alla politica e alle fobie di distoglierli dal loro dovere, e non intende escludermi dalle indagini, soprattutto ora che i tentativi di incastrarmi sono talmente evidenti da seppellire ogni ragionevole dubbio che io sia colei che va in giro ad avvelenare la gente. Colin mi ha fatto sapere che Jaime era in buona salute quando è morta, esattamente come Kathleen Lawler. I primi esami non hanno rivelato la causa del decesso, ma il contenuto del suo stomaco non era stato digerito e comprendeva compresse o pillole rosa, rosse e bianche che tanto per lui quanto per me dovrebbero essere di ranitidina, Sudafed e Benadryl. Ha spiegato che Sammy Chang gli ha passato esami di laboratorio che probabilmente non hanno alcun significato, a meno che Kathleen non sia morta per avvelenamento da metalli pesanti, ipotesi che Colin esclude categoricamente, e infatti ha ragione: non è morta così. Nello specifico, voleva sapere se tracce di magnesio, ferro e sodio possedevano qualche significato particolare per me. «Questo lo capisco.» Benton cammina su e giù davanti alle finestre che danno sul fiume Savannah. Sulla riva opposta si scorge uno spolverio di luci dove le gru del porto si stagliano debolmente sullo sfondo scuro del cielo. «Ma tu devi capire questo: potrebbero essere mortalmente velenosi» sta dicendo all’agente speciale Douglas Burke dell’FBI, sede di Boston. Intuisco da quel che sento che Douglas Burke, membro della task force che lavora sui Delitti Mensa, è reticente a rispondere alle domande di Benton e si limita a confermare il comunicato stampa del Massachusetts General Hospital: Dawn Kincaid è stata vittima di un avvelenamento da botulino. È in rianimazione e il suo cervello è clinicamente morto. Benton ha chiesto senza preamboli se nella sua cella, al Butler, hanno trovato dei francobolli raffigur-
anti un ombrellone da spiaggia. «Ha preso la tossina da qualche parte» insiste. «In altre parole, è stata avvelenata, a meno che non l’abbia presa dal cibo del Butler, cosa di cui dubito seriamente. Al Butler ci sono altri casi di botulismo?... Ecco. La colla dei francobolli potrebbe essere all’origine dell’avvelenamento.» «Tutto buonissimo, ma, senza offesa per Benton, dovrebbe tenersi lontano dalla cucina.» Marino spinge via il piatto con gli avanzi del ragù senza tagliatelle, che erano risultate stracotte e immangiabili. «La vera Dieta al Botulino. Basta pensare al rischio che il vostro cibo contenga la tossina e perderete peso. Doris metteva sotto vetro i cibi personalmente» aggiunge, riferendosi alla ex moglie. «Adesso mi vengono i brividi se ci penso. Potete prenderlo anche dal miele, sapete?» «È un rischio soprattutto per i neonati» rispondo distrattamente mentre ascolto la conversazione di Benton. «Non hanno ancora il sistema immunitario degli adulti. Penso che tu non corra nessun rischio a mangiare il miele.» «No. Evito lo zucchero, i dolcificanti e di sicuro non voglio il miele e le marmellate fatte in casa. Evito anche i pasti a buffet, tanto per dire.» «Puoi comprare quella roba dalla Cina per una ventina di dollari la confezione.» Lucy ha posato il MacBook sul tavolo della sala da pranzo e batte con una mano sulla tastiera mentre con l’altra si porta alla bocca un pezzo di pane. «Un nome falso, una casella e-mail falsa e non hai bisogno di essere un dottore o di lavorare in un laboratorio. Ordini quello che vuoi nella privacy della tua casa. Potrei ordinarla in questo preciso istante. Mi stupisce che qualcosa del genere non sia mai successo prima.» «Grazie a Dio.» Comincio a sparecchiare mentre mi chiedo se chiamare il generale Briggs. «Il più potente veleno del pianeta... non dovrebbe essere così facile procurarselo» dice Lucy. «Una volta non lo era» osservo. «Ma la tossina del botulino di tipo A si è ormai diffusa dappertutto, da quando la usano per curare alcune affezioni mediche. Non solo per gli usi cosmetici, ma anche per l’emicrania, i tic facciali e altri tipi di spasmo, l’ipersalivazione... quando si “sbava”, in altre parole... lo strabismo, le contrazioni muscolari involontarie, i palmi sudati.» «E quanto dovresti usarne, visto che puoi ordinarne le dosi su Internet?» Con un acciottolio di vetri, Marino getta nel sacchetto della differenziata le bottiglie vuote, nel cucinino dove mi ha seguito. «Te la vendono in forma cristallina, una polvere bianca liofilizzata. Clostridium botulinum di tipo A, che tu poi ricostituisci.» Apro il rubinetto dell’acqua e aspetto che si scaldi.
«E a quel punto la inietti in un pacchetto di alimentari, per esempio» dice Marino. «O in una vaschetta da asporto.» «Molto semplice. Spaventosamente semplice.» «Così, se ne hai a disposizione abbastanza, puoi spazzare via migliaia di persone.» Marino prende uno strofinaccio e asciuga i piatti mentre io li lavo. «Se avveleni qualche prodotto, come cibi precotti o bevande, che non vengono riscaldati a sufficienza per distruggere la tossina, certo» rispondo, ed è questo a spaventarmi. «Allora penso che dovresti chiamare Briggs.» Prende il piatto da me sciacquato. «So che lo pensi» rispondo io. «Ma non è tanto semplice.» «È semplice. Componi il suo maledetto numero e lo informi di quello che sta succedendo.» «Finiremmo per dare l’avvio a una serie di provvedimenti urgenti prima di disporre dei risultati di laboratorio.» Gli passo un bicchiere perché lo asciughi. «Dawn Kincaid ha il botulismo. Ecco un risultato di laboratorio.» Apre gli sportelli e comincia a mettere via i piatti. «Se vuoi il mio parere, è la sola conferma che ti occorre quando pensi a tutto il resto che abbiamo trovato e cominci a mettere insieme i pezzi. Come quella schifezza nel lavandino di Kathleen Lawler che corrisponde alle bruciature sul suo piede.» «Che potrebbe corrispondere. Sono ipotesi mie.» «La persona con cui dovresti scambiare ipotesi è lui.» Parla del generale Briggs, il capo dell’Istituto di medicina legale delle forze armate, mio comandante e amico di vecchia data, dei tempi in cui ho iniziato la carriera all’ospedale militare Walter Reed. Marino vuole che riferisca a Briggs che il contenuto dello stomaco di Kathleen Lawler consiste in pollo, pasta e formaggio non digeriti, che probabilmente sono stati avvelenati con la tossina del botulino, e che le analisi al microscopio elettronico a scansione e con il rivelatore di dispersione di energia – l’EDX –, effettuate sul residuo dallo strano odore recuperato dal suo lavandino, hanno rivelato tracce di magnesio, ferro e sodio. La risposta alla domanda di Colin Dengate se la presenza di quegli elementi nel residuo gessoso ha qualche significato per me è sì: purtroppo ha un significato. Quando si aggiunge acqua a ferro, magnesio, sodio o sale purificati, si ha come risultato una reazione esotermica che produce subito molto calore. La temperatura può arrivare a cento gradi, e questa tecnologia sta alla base dei riscaldatori senza fiamma usati per cuocere il cibo dei soldati sul campo. Questi pasti pronti per il consumo offrono decine di menu diversi, compresi pollo e pasta e in molti sacchetti di plastica resistente in cui sono confezionati sono incluse razioni addizionali come il formaggio spalmabile. Ogni pasto completo comprende un riscaldatore senza fiamma, attivato dall’acqua, contenuto in un sacchetto di plastica, una trovata ingegnosa che richiede al soldato di non fare altro che tagliare la punta, aggiungere
acqua e poi collocare il sacchetto sotto la razione, appoggiandoli a “una roccia o qualcosa di simile”, per dirla con le istruzioni. So bene che ci possono essere altre spiegazioni della ragione per cui la sostanza trovata nel lavandino di Kathleen mostra tracce di ferro, magnesio e sodio, ma la sintesi di tutti gli indizi offre una possibile risposta da incubo che non può essere facilmente contraddetta. Lo sgradevole odore, che mi ricordava un asciugacapelli bruciato o un isolante surriscaldato, mi pare in accordo con una reazione chimica che produce calore, e Kathleen aveva ustioni sul piede sinistro che, secondo i funzionari della prigione, non poteva essersi procurata mentre era incarcerata nel Blocco B. Penso che accidentalmente le sia caduto sulla pelle un liquido caldo, che poteva essere l’acqua bollente del riscaldatore senza fiamma per razioni. Le ustioni di primo grado erano recenti, e non riesco a scordare la sua ossessione per il cibo né alcuni commenti che mi aveva rivolto, e mi chiedo se un diario scomparso – o più di uno – forse conteneva accenni a quel che Kathleen aveva fatto, pensato e magari anche mangiato da quando era stata trasferita al Blocco B. Tara Grimm si prendeva cura di lei, era gentile, e Kathleen era lieta di fare esperimenti di cucina. Nella sua cella aveva panini dolci e pacchi di tagliatelle e sapeva come trasformare la farcitura dei biscotti in torta alla fragola, immaginando di essere “la Julia Child della prigione”. Forse Tara Grimm faceva in modo di procurare a Kathleen qualche scorpacciata in cambio della collaborazione o di altri favori, e quella mattina il regalo era stato un piatto pronto, pieno di veleno. «Inoltre, c’è la faccenda della telecamera.» Marino continua a spiegarmi quello che devo fare. «Sconfiggere l’infrarosso con l’infrarosso, una striscia di minuscoli LED all’infrarosso sul suo casco da ciclista, ammesso che Lucy abbia ragione. Qualunque cosa abbia fatto quella persona, la telecamera è stata messa KO con qualche trovata, e infatti la sua testa risulta completamente offuscata quando si è avvicinata a sufficienza perché la sua faccia fosse riconoscibile. Lucy dice che la registrazione non può più essere corretta. Come quando quei maledetti cinesi accecano con i laser i nostri satelliti spia. Dovresti telefonargli.» «Farebbe risuonare un allarme che rischierebbe di arrivare fino allo Studio Ovale» ribadisco. «Il generale Briggs dovrà passare l’informazione ai superiori fino al Pentagono e alla Casa Bianca, se c’è una sia pur minima possibilità che il bersaglio finale siano i nostri soldati, e cioè che si tratti dei preliminari se non addirittura dell’inizio di un complotto terroristico» gli spiego, e in quel momento ricompare Benton. «Non lo ammette apertamente.» Mi riferisce della sua conversazione con l’agente speciale Douglas Burke. «Ma, leggendo tra le righe, la risposta è affermativa. Sono stati trovati nella cella di Dawn Kincaid francobolli da quindici centesimi corrispondenti alla nostra descrizione. Un foglio di dieci, tre dei quali sono su una lettera che lei non è riuscita a spedire. Una lettera a uno dei suoi avvocati.»
«La domanda è: dove può essersi procurata i francobolli?» «Dawn ha ricevuto una lettera ieri pomeriggio da Kathleen Lawler» dice Benton. «Douglas non conferma che contenesse i francobolli, ma il fatto che me ne abbia parlato sembrerebbe avallare questa ipotesi.» «Era una carta da lettere con dei palloncini?» chiedo io. «Non me lo ha detto.» «E accennava a una persona indesiderata e a una donazione per corromperla? In altre parole, c’erano commenti per deridere qualcuno, probabilmente me?» «Douglas non si è spinta fino a quel genere di particolari.» L’agente speciale Douglas Burke è una donna. «Sono brani della lettera che ho potuto leggere scavati nel blocchetto di fogli che ho trovato nella cella di Kathleen. Mi sembravano commenti sarcastici, e comprensibilmente, se era convinta che le avessi mandato la carta da lettere e i francobolli, che doveva avere giudicato dei rimasugli senza valore, qualcosa che non m’interessava più» spiego, mentre ricordo le battute ironiche di Kathleen sulla gente che manda ai detenuti i suoi scarti, le cose avanzate e scadute che non servono più. «Pensava che cercassi di addolcirla o di corromperla con un regalo di così scarso valore» continuo. «La lettera falsa che probabilmente accompagnava carta e francobolli è stata spedita da Savannah il 26 giugno e di conseguenza Kathleen ha avuto tutto il tempo di inviare un foglio di quei francobolli a Dawn.» «Pare proprio che li abbia inviati, ma Douglas non è scesa nei dettagli e non ha fatto riferimenti a te» precisa Benton. «Anche se le ho parlato di documenti chiaramente contraffatti ma del tutto plausibili, facenti parte di una strategia, messa in atto da uno o più individui, per incastrarti.» «Un incidente» dico. «La madre incarcerata manda alla figlia incarcerata alcuni francobolli, in modo che possano scambiarsi lettere dal carcere, e questo senza avere idea che la colla dei francobolli è stata manipolata. Ma Kathleen era troppo avara per mandarle quelli buoni.» «Quelli buoni?» chiede Marino aggrottando la fronte. «In cella aveva francobolli correnti, da quarantaquattro centesimi, ma non ha mandato quelli. Solo gli altri, quelli che erano, per dirlo con le sue parole, la “merda” che la gente non voleva più. Quelli che provenivano, come credeva lei, da una persona indesiderata. Da me.» «A questo ti porta l’avarizia. Prima dà via la figlia e ventitré anni più tardi le manda la tossina botulinica» osserva Marino, mentre Benton svuota nella pattumiera la ciotola della pasta, che precipita sotto forma di una massa compatta. «Mi dispiace» dice mio marito, che in cucina è assolutamente negato. «E neanche l’idea di lavare la lattuga nell’acqua bollente era molto astuta.»
«Occorre far bollire la lattuga per dieci minuti buoni se vuoi distruggere la tossina del botulino, che è piuttosto resistente al calore» lo informo. «Così, l’hai rovinata inutilmente.» Marino è lieto di farlo sapere a Benton. «Se Dawn non era la vittima designata, allora possiamo trarne una deduzione» osserva Benton. «Non sono stati i francobolli ad avvelenare Kathleen. Non sembra che li abbia mai toccati, e anche questo ci rivela qualcosa» dice Marino quando torniamo in sala da pranzo, dove Lucy – che lavora ancora al computer – sta ora consumando il solo atto che lei stessa consideri un crimine. La copia cartacea. Non crede nelle stampate, ma ci sono troppe informazioni tra cui scegliere, troppe cose da leggere e da collegare. Immagini, fatture delle agenzie di sorveglianza e allegati, alberi di decisioni, blocchi di dati, e la sua ricerca continua ancora. Per rispetto verso noialtri, fa del suo meglio per facilitarci il lavoro, inviando i file alla stampante nell’altra stanza. «Pare che sia stata uccisa da qualcosa che ha mangiato, vero? Forse pollo, pasta e formaggio da spalmare, ma non dai francobolli.» Marino prende una sedia e si accomoda. «Questo è davvero importante. Forse è stata per lei una fortuna non essere vissuta a sufficienza per sapere che sua figlia ha leccato tre di quei francobolli per spedire la lettera al suo avvocato. Quanta tossina puoi mettere in tre francobolli?» «Circa trecentocinquanta grammi di tossina del botulino sono sufficienti a uccidere ogni persona del pianeta.» «Oh, merda.» «Perciò non occorre metterne molta dietro i francobolli per avere un potente veleno che porta alla rapida comparsa dei sintomi» commento io. «La mia supposizione è che dopo alcune ore Dawn Kincaid si sia sentita davvero male. Se Kathleen avesse usato i francobolli non appena li ha ricevuti, non sarei stata in grado di interrogarla perché sarebbe già stata uccisa dal veleno.» «Forse era quella l’intenzione» dice Benton. «Non permettere che venisse interrogata.» «Non lo so» rispondo. «Ma c’è da chiederselo.» «Eppure non sono stati i francobolli a ucciderla, e questo è strano.» Lucy ci porta tutto quello che ha stampato finora. «Qualcuno le manda francobolli spruzzati di tossina botulinica, ma non aspetta che lei li usi e la uccide in un altro modo. Perché tanta fretta? Mi pare che prima o poi li avrebbe usati, e in quel momento sarebbe morta.» «Potrebbe suggerire che chiunque li ha mandati non lavora nella prigione» commenta Benton. «Se non aveva accesso a Kathleen o a quello che c’era nella sua cella, e non controllava la posta da lei inviata, poteva pensare che i francobolli erano inefficaci come mezzo
per avvelenarla, non sapendo che semplicemente non li aveva usati. È per questo che la persona che ha avvelenato i francobolli ha deciso di provare in un altro modo.» «Di certo quei francobolli non sono inefficaci» commenta Marino. «Ma come può sapere l’avvelenatore quel che è efficace?» osserva Benton. «Su chi provi i tuoi veleni per essere sicura che funzionino? Non certo su te stesso.» Puoi provare i veleni sui detenuti – possibilità che ho continuato a esaminare per tutta la sera – e una direttrice potrebbe permettertelo, in certi casi, se è spinta dal desiderio di punire e di controllare come mi pare lo sia Tara Grimm. Quando ero nel suo ufficio, ieri, ho notato lo sguardo duro dei suoi occhi, che il suo fascino del Sud non riusciva a nascondere, e l’ovvio fastidio al pensiero che una donna condannata per errore e che presto doveva essere giustiziata potesse tornare in libertà o che si stesse arrivando a un accordo che avrebbe potuto far rilasciare Kathleen Lawler prima del fine pena. Non c’era dubbio che a Tara seccasse l’interesse di Jaime Berger per la vita delle prigioniere e il suo modo di non curarsi dei desideri della rispettabile e stimata direttrice, figlia di un altro eminente direttore, il fondatore dell’istituto che lei considera suo di diritto. Ormai mi sembra impossibile che Tara Grimm non fosse al corrente del bigliettino che Kathleen mi ha passato di nascosto. Probabilmente lei sapeva del mio incontro con Jaime e forse non solo non la preoccupava, ma lo considerava persino un dono, l’occasione ideale per mandarle qualcuno con un sacchetto di sushi che conteneva una forte dose di tossina botulinica, iniettata nel pesce o nei frutti di mare. Tara sapeva da un paio di settimane che sarei passata nel suo istituto e in qualche modo la donna del sacchetto di sushi sapeva che ero diretta a casa di Jaime e forse, come Lucy ha suggerito, ha aspettato nel buio che passassi, poi è rimasta lì per tutta la notte e le prime ore del mattino, osservando la sagoma della sua vittima muoversi dietro la finestra, nell’attesa che le luci si spegnessero e poi si riaccendessero, aspettando la morte. Persone osservate e pedinate, persone spiate e manipolate come burattini da una persona astuta e meticolosa, un avvelenatore paziente e preciso, gelido come il ghiaccio secco, e non riesco a pensare a una popolazione più vulnerabile dei carcerati, imprigionati come i ratti di un laboratorio, soprattutto se qualcuno che lavora all’istituto correzionale è in collusione con colui che orchestra quelle sinistre ricerche. Scopri la dose che funziona e quella che non funziona, mentre prepari un attacco molto più grande, aspetti che passi il tempo, affini i tuoi piani per mesi e per anni. Barrie Lou Rivers è morta all’improvviso mentre attendeva l’esecuzione. Rea Abernathy è stata trovata morta all’interno della sua cella, piegata sulla toilette, e la morte di Shania Plames si presentava come suicidio per asfissia, commesso incaprettandosi con i calzoni dell’uniforme della prigione. Poi ci sono state Kathleen Lawler e Dawn Kincaid, e adesso
Jaime Berger, tutte colpite dagli stessi sintomi terribili. L’autopsia non ha rivelato nulla, le diagnosi sono negative. Non c’era alcun motivo, almeno non nei casi precedenti, per sospettare un avvelenamento omicida che sfuggisse agli esami tossicologici di routine. Sono quasi le due del mattino e non ricordo l’ultima volta che ho chiamato il generale John Briggs a un’ora simile. Ogni volta che l’ho disturbato come sto per fare adesso, avevo un motivo inoppugnabile, avevo tutte le prove. Lucy aggiunge altri fogli alla mia pila di stampate e li prendo con me, torno in camera da letto e chiudo la porta, immaginando Briggs che, nel luogo dove dorme o lavora, afferra il cellulare. Potrebbe essere la base dell’Aeronautica militare a Dover, nel Delaware, quartier generale dell’Istituto di medicina legale delle forze armate e del suo obitorio, dove i nostri caduti militari sono portati in volo, ricevono dignitose ricomposizioni e vengono sottoposti a sofisticati esami di medicina forense, comprese TAC 3D e ricerca di tracce di esplosivi militari. Potrebbe essere in Pakistan o in Afghanistan o in Africa, anche se magari non proprio nella stazione spaziale MIR, come a volte ci chiediamo un po’ per scherzo e un po’ sul serio, perché gli anatomopatologi dell’AFME possono finire dovunque ci sia qualche morto che ricade sotto la giurisdizione del governo federale. L’ultima cosa che serve a Briggs è qualche altro motivo per preoccuparsi inutilmente; non ha certo bisogno di me e delle mie intuizioni. «John Briggs» risponde con la sua voce profonda, dal mio auricolare senza fili. «Sono Kay» e gli spiego perché l’ho chiamato. «Su cosa ti basi?» mi chiede, come sapevo che avrebbe fatto. «Devo dare la risposta breve o quella più complessa?» Faccio una pila di cuscini dietro di me e continuo a esaminare le immagini che Lucy mi ha stampato. «Sto per prendere un aereo a Kabul, ma ho qualche minuto. Poi non riuscirai a contattarmi per circa venticinque ore. Le risposte brevi sono le mie preferite, ma va’ avanti.» Gli espongo i vari casi, a iniziare dalle morti sospette al GPFW di cui mi ha parlato Colin, e da esse passo a quel che è successo nelle ultime ventiquattr’ore. Sottolineo l’ovvia preoccupazione perché l’unico avvelenamento confermato da tossina botulinica di tipo A, quello di Dawn Kincaid, suggerisce un complesso sistema di somministrazione che non abbiamo mai visto in precedenza. «Anche se è teoricamente possibile che morte o grave infermità dovute alla tossina botulinica possano insorgere in un tempo molto breve, che può anche ridursi a un periodo tra le due e le sei ore» spiego «di solito ne passano da dodici a ventiquattro e a volte può occorrere più di una settimana.» «Perché i casi che siamo abituati a vedere sono causati dal cibo» risponde Briggs, mentre io osservo le stampate di Lucy e studio l’immagine ricostruita – nella ripresa effettuata dalla telecamera della sorveglianza – della donna che la scorsa sera ha consegnato il sacchetto
del sushi. Una sadica, un’avvelenatrice, sono convinta. «Non si vedono mai casi di esposizione alla tossina pura» continua Briggs. «Non ne ricordo neppure uno.» Testa e collo della donna restano completamente bianchi, ma Lucy ha ottenuto immagini ben definite e ingrandite del resto, compresa la bicicletta color argento che la donna ha spinto attraverso la strada e appoggiato al lampione. Porta pantaloni scuri, scarpe da ginnastica e calzini, non ha la cintura, e indossa una camicetta di colore chiaro con le maniche corte, infilata nei calzoni. L’unica pelle esposta è quella degli avambracci e delle mani. Un ingrandimento dell’anulare destro mostra un brillante a baguette, quadrato, su una semplice fascetta che potrebbe essere d’oro bianco o giallo o di platino, impossibile dirlo. Le immagini sono all’infrarosso e sono stampate in gradazioni di grigio. «Nei casi abituali, è il cibo contaminato dalle spore del Clostridium botulinum a produrre la tossina» sta dicendo Briggs «e il veleno deve farsi strada attraverso il tratto digestivo, per essere infine assorbito all’interno della circolazione sanguigna, prima di poter iniziare ad attaccare le placche neuromuscolari, in sostanza aggredendo il cervello e impedendo il rilascio di neurotrasmettitori.» La donna ripresa dalla telecamera di sorveglianza ha anche un orologio che dagli ingrandimenti di Lucy risulta un Marathon da polso con il quadrante nero e con cassa in fibra di carbonio ad alta resistenza all’impatto, impermeabile e antipolvere, fabbricato espressamente per il personale militare in base a un accordo con i governi di Stati Uniti e Canada. «E se la tossina pura ed estremamente potente viene a contatto con la membrana mucosa?» chiedo io, mentre mi domando quali rapporti con i militari possa avere il killer. Potrebbe essere qualcuno con accesso al personale militare, che forse è il suo vero bersaglio. «Penso a coloro che assumono droghe per via orale, vaginale o rettale» aggiungo. «Nel caso della cocaina, per esempio, sappiamo cosa succede; immagina un veleno come la tossina del botulino.» «Un problema davvero grosso» dice Briggs. «Non c’è mai stato un caso che sia giunto alla mia attenzione, non ci sono precedenti, niente con cui confrontarlo, in altre parole. Ma non potrebbe che essere assai peggio dei casi che incontriamo normalmente.» «E nel caso della tossina pura sulla mucosa della bocca...» ripeto. «Un assorbimento molto più veloce rispetto all’ingerimento del batterio stesso, il Clostridium botulinum e le sue spore, che sono quanto si trova effettivamente nel cibo contaminato.» Briggs riflette. «I batteri devono crescere e produrre la tossina; questo richiede ore, anche giorni, prima che la paralisi inizi dalla faccia e si estenda all’ingiù.»
«Non è andata in questo modo nel tratto digestivo, John. Pare che le vittime abbiano avuto un tipo di esposizione che ha portato alla paralisi gastrica» rispondo, mentre capisco cosa Lucy vuole mostrarmi a proposito della bicicletta. Deve essere un modello superleggero, con ruote molto piccole, e Lucy vi ha accluso una descrizione trovata su Internet. Una bicicletta ripiegabile. Qualcuno collegato ai militari e con una bicicletta ripiegabile. «Quella paralisi potrebbe essere indotta anche da un forte stress» dice Briggs. «Scatta la sindrome “lotta o fuggi” e la digestione si blocca. Ma sarebbe vero soltanto se la comparsa dei sintomi fosse rapida. Anche qui, nessun caso con cui fare un paragone. Dopo un colpo così diretto alla circolazione sanguigna, tutti i sistemi vitali cominciano a bloccarsi, secondo me. Occhi, bocca, digestione, polmoni.» Una bicicletta a sette rapporti con un telaio di alluminio che ha le cerniere a sblocco rapido e si piega fino a formare un pacchetto di 30x60x70 centimetri; in una serie di immagini zoomate e corrette, Lucy mi mostra la donna che si toglie dalle spalle uno zaino, lo apre e ne estrae il sacchetto del Savannah Sushi Fusion. Il foglio successivo viene da un sito per sportivi ed escursionisti dove si può ordinare uno zainetto identico per ventinove dollari e novantanove centesimi. Non un contenitore isolante per consegnare alimentari, ma una borsa per biciclette ripiegabili, in grado di contenere la bicicletta quando non la si usa. «Ma in realtà non sappiamo nulla di quel che possa fare una dose molto potente di tossina del botulino fabbricata in laboratorio» continua Briggs, mentre ascolto con attenzione e scorro i fogli che ho portato con me. I miei pensieri si muovono rapidamente in varie direzioni, che in qualche modo portano allo stesso punto. “Ma chi, che cosa e perché?” «Non sono al corrente di nessuna morte per quella causa, di nessun omicidio, come ho detto» aggiunge. «Neppure uno.» Una bicicletta ripiegabile che è solo uno specchio per le allodole, una finzione, una giustificazione per il casco che acceca le telecamere di sorveglianza, intende dirmi Lucy. Desterebbe sospetti portare un casco da ciclista con le luci di sicurezza se non avessi con te una bicicletta, e sembrerebbe altrettanto strano se portassi un berretto illuminato o una fascia sulla testa. Per questo la donna spingeva la bicicletta lungo la strada quando è comparsa davanti alla casa di Jaime, pressappoco nello stesso momento in cui arrivavo io. Capisco. La donna con la baguette al dito e l’orologio militare non aveva viaggiato in bicicletta e probabilmente aveva parcheggiato un’auto nei dintorni. «L’importante è il dosaggio» continua Briggs. «Quasi ogni sostanza può diventare velenosa se ne assumi troppa, compresa l’acqua. Puoi rimanere avvelenato dalla tua carta da parati, se contiene troppo arseniuro di rame. È quello che è successo a Clara Boothe Luce: fram-
menti di vernice che cadevano dal soffitto della sua camera da letto quando era ambasciatrice in Italia.» «Mi chiedo se non ci sia qualcosa di nuovo nei tentativi per trasformare in arma la tossina botulinica» gli dico. «Qualche tecnologia di cui possa essersi impadronito uno psicopatico violento. Un militare criminale, per esempio. Come quello scienziato dell’esercito che stava lavorando su un più efficiente vaccino per l’antrace e ha effettuato attentati con l’antrace che hanno portato alla morte di almeno cinque persone.» «Tu devi sempre parlar male dei militari» commenta Briggs, che non potrebbe essere più militare di così. «È stato gentile con noi, ha avuto il buon gusto di uccidersi prima che l’FBI potesse arrestarlo.» «Nessun altro scienziato che sia stato allontanato dai laboratori dove si svolgono ricerche di quel genere?» chiedo. «In particolare qualcuno con legami con i militari?» «Se divenisse necessario fare una ricerca, potremmo farla» risponde Briggs. «Secondo me è necessario.» «So benissimo che secondo te è necessario, altrimenti non saresti sveglia a quest’ora della notte e non mi telefoneresti in Afghanistan.» «Nessuna nuova tecnologia che possa essere a conoscenza dei militari?» chiedo nuovamente. «Qualcosa di segreto? Non c’è bisogno che io conosca i particolari. Solo, dobbiamo prendere in considerazione la possibilità.» «No, grazie a Dio. Nessuna che conosca. Un grammo di tossina pura in forma cristallina potrebbe uccidere un milione di persone, se venisse respirata, e per trasformarla in arma devi trovare il modo di produrre una grande nube di aerosol. Fortunatamente non c’è ancora nessun metodo efficace per ottenerla.» «E un piccolo aerosol distribuito a molte persone?» chiedo. «In altre parole, un approccio diverso, più faticoso. O una distribuzione di piccole quantità di veleno in produzioni di massa come le razioni autoriscaldanti.» «Mi incuriosisce che tu parli specificamente di quelle razioni.» Gli racconto di Kathleen Lawler, delle bruciature sul piede e delle tracce trovate nel lavandino, e del suo contenuto gastrico simile a una razione di pollo e pasta con formaggio da spalmare. «Come può una donna in carcere procurarsi una razione per militari?» mi chiede. «Esatto» rispondo. «Quasi tutti i cibi possono essere avvelenati. Dunque, perché usare una di quelle razioni? A meno che qualcuno non facesse le prove per poi passare a un bersaglio più grande.» «Sarebbe maledettamente orribile e dovrebbe avere un approccio sistematico, altamente organizzato. Qualcuno che lavora in una fabbrica dove si producono e si confezionano le
razioni, altrimenti occorrono moltissime fiale di tossina e altrettante siringhe ipodermiche e vari sequestri dei camion della consegna.» «Non ti occorre un approccio sistematico se lo scopo è il terrore» rispondo io. «Sì, penso che questo sia vero» riflette. «Cento o trecento o mille casi tutti insieme, sul campo o in una base o in un’area operativa, e l’effetto sarebbe destabilizzante. Sarebbe disastroso per il morale, rafforzerebbe il nemico e rovinerebbe ulteriormente l’economia degli Stati Uniti.» «Dunque non è qualche esperimento che stiamo facendo noi o su cui stiamo lavorando» mi voglio sincerare. «Non sono ricerche in cui potrebbe essere coinvolto il nostro governo per danneggiare il morale e rovinare l’economia del nemico. Per terrorizzare.» «Non è un progetto pratico» mi risponde. «La Russia ha rinunciato a cercare di produrre un’arma con la tossina del botulino e come lei gli Stati Uniti, cosa di cui sono lieto. È un’idea terribile e mi auguro che nessuno inventi mai la tecnologia giusta, ma si tratta solo della mia opinione. Rilasciando l’aerosol da una sorgente puntiforme, il dieci per cento della popolazione sottovento, fino a cinquecento metri di distanza, verrebbe ucciso o incapacitato. Dio non voglia che finisca su una scuola o un centro commerciale. Una cosa che dobbiamo scoprire è perché alcune persone siano morte mentre altre non lo sono o non sono state bersagli intenzionali.» «Non crediamo che Dawn Kincaid sia stata una vittima intenzionale.» «Ma pensi che lo sia stata sua madre, e anche il procuratore.» «Certo.» «E, sulla base di quello che mi hai detto, pensi che il responsabile volesse davvero uccidere il procuratore.» «Jaime Berger e Kathleen Lawler, sì, credo che il responsabile, chiunque sia, le volesse davvero morte.» «Allora, se i tuoi sospetti sono giusti, non ha senso fare una ricerca, indagando per esempio sui decessi fra le carcerate; non si tratta di un progetto sistematico. Non che io voglia banalizzare la morte di chiunque sia stato ucciso con la tossina del botulino. Un modo infernale di morire, diamine.» «Ho l’impressione che qualcosa sia cambiato all’improvviso» gli rispondo. «Ho l’impressione che la responsabile, chiunque sia, avesse un piano preciso, ma poi sia comparso qualcosa che lei non si aspettava. Forse la causa è Jaime. A qualcuno non piace quello che stava facendo.» «Tu credi che quella persona sia una donna.» «È stata una donna a consegnare il sushi la scorsa notte.»
«Be’, se sarà confermato.» «Sospetto che lo sarà. E poi?» gli chiedo. «Tre casi mortali di avvelenamento con la tossina del botulino, comprendenti l’uso di una razione militare avvelenata? Scoppierà un inferno, Kay» mi dice. «E tu devi starne lontana. Un milione di miglia lontana.» 038_chapter32
32 Il sole è alto nel solito cielo slavato, l’ondata di calore stringe con tenacia nella sua morsa il Lowcountry e le pretese di Colin Dengate sono palesemente false. Non tutti possono fare a meno dell’aria condizionata, in un clima del genere, anche se Benton è stato abbastanza previdente da portarmi dei vestiti estivi color kaki per non farmi arrostire dentro un completo nero. È il 2 luglio, sabato, e sono quasi le dieci del mattino. Il team di Colin non lavora, a parte chi è di turno, e lui, per farmi avere quello che mi occorre, mi spiega, ha dovuto promettere di restituire il favore. Poi è dovuto passare all’hotel a prendermi, perché non ho un mezzo di trasporto. Marino è via con un elenco di materiale medico che mi serve e ha lasciato Lucy al locale negozio della Harley-Davidson. Lei vuole usare come mezzo di trasporto, finché è quaggiù, una motocicletta e io non voglio togliere a Benton l’auto che ha noleggiato, anche se al momento non ha intenzione di allontanarsi dall’albergo. Quando l’ho lasciato, era occupato a telefonare; gli agenti dell’FBI sono già partiti per Savannah dalla sede di Atlanta per essere aggiornati da lui mentre aspettiamo che le informazioni provenienti dal CDC facciano il loro effetto. Tossina botulinica di tipo A è stata confermata nel contenuto gastrico di Kathleen Lawler e di Jaime Berger. La tossina è stata rintracciata nel contenitore vuoto di insalata di mare e anche nel resto del sushi proveniente dal sacchetto che un avvelenatore seriale ha consegnato giovedì sera in casa di Jaime. Non ho trasmesso quest’ultima informazione a Briggs, che è in volo su un aereo militare proveniente dal Medio Oriente, ma non ho bisogno che mi ripeta quel che si aspetta da me, ossia che io non faccia niente. Non voglio sentirglielo ripetere e sono lieta di non doverlo ascoltare, perché non intendo obbedire al suo ordine, o, almeno, non fino in fondo. L’indagine è bloccata e mi è stata tolta in previsione di quello che secondo noi sarà un rapido e decisivo passaggio di giurisdizione alla Sicurezza nazionale, all’FBI o a chi altro decider il governo federale, e io so quando è il caso di tenermi fuori dai piedi e di usare quella che chiamo la regola dei tre metri di distanza. Non avvicinarsi a quei casi di avvelenamento, e se Briggs o chiunque altri dovesse chiedermi qualcosa, gli risponderei che a rigor di termini non me ne sto occupando. Infatti l’uccisione di un’intera famiglia di Savannah, un delitto vecchio di nove anni, e la donna mentalmente ritardata che è stata condannata per quei crimini non rivestono alcun interesse per l’FBI, il dipartimento della Difesa, il Pentagono, la Casa Bianca o chiunque altro in questo momento. Il caso non è mai stato riaperto e Lola Daggette è ancora in lista per l’esecuzione perché Jaime non ha trasmesso l’istanza per sospendere la condanna alla pena capitale. I risultati dei nuovi esami del DNA languono in un laboratorio privato, in attesa che un avvocato
difensore si faccia avanti per finire quello che Jaime ha iniziato. Fino a quel momento, l’omicidio dei Jordan resta qualcosa di vecchio e irrilevante, mentre l’attenzione si concentra su un avvelenatore seriale, il quale potrebbe essere un terrorista che ha in programma un omicidio di massa. Dopo avere esaminato tutto quello che è successo, continuo a chiedermi il movente di quegli omicidi. Ma se il movente è un piano terroristico per uccidere o mandare in coma civili innocenti o personale militare non è un problema mio. Purtroppo, al mondo c’è una lunga fila di persone mentalmente disturbate che afferrerebbero al volo la possibilità di causare una simile catastrofe. La mia attenzione va a qualcosa d’altro. Se le precedenti morti al GPFW erano omicidi per vendetta che servivano anche come test a un avvelenatore che meditava un attacco su grande scala, allora come potevano rientrare nel suo modus operandi e nel suo scopo finale gli omicidi di Kathleen Lawler e di Jaime Berger? Il fatto che Jaime riaprisse il caso Jordan non avrebbe dovuto rivestire alcuna importanza per un avvelenatore che progettasse azioni terroristiche, a meno che Jaime non fosse entrata in contatto con qualche elemento che aveva allarmato quella persona a sufficienza per farle correre il rischio di eliminare la stessa Jaime: infatti, uccidendo lei e Kathleen e avvelenando involontariamente Dawn Kincaid, l’assassina aveva richiamato l’attenzione su di sé, mentre fino a quel momento era passata inosservata. Un pugno di avvelenamenti mortali per mezzo della tossina del botulino, che potrebbero implicare la contaminazione di razioni militari, e l’intero governo degli Stati Uniti piomberà sulla testa dell’assassina. Alla fine non riuscirà a uscirne indenne, e la decisione di correre un simile rischio, dopo tanti anni di tranquillit e di estenuante premeditazione, non può essere attribuita a una perdita di controllo o a un desiderio irrefrenabile di torturare e uccidere. Deve essere successo qualcosa di inatteso. I patologi – e questa certo è la mia inclinazione naturale – si concentrano più sulla causa che sull’effetto. M’interessano meno gli schizzi di sangue e materia cerebrale sparsi dappertutto che non l’angolo d’ingresso del proiettile, il quale potrebbe suggerire che non è stata la vittima a tirare il grilletto, e non m’importa del dramma dei sintomi, a parte la sofferenza che causano, perché il mio metodo consiste nello scoprire la malattia, nell’escludere i fattori marginali e nel dissezionare fino all’osso, se occorre... o, nel caso dei Jordan, nel riesaminare la scena del crimine come meglio posso. Intendo studiare le fotografie e tutte le prove come se non fossero mai state esaminate in precedenza, potrei persino andare a cercare nella casa dei Jordan se pensassi che vi rimane qualcosa di importante. «La documentazione che guardavi ieri» mi dice Colin mentre camminiamo nel corridoio deserto, con sculture mobili di pipistrelli e di ossa che ruotano lentamente, appese al soffitto del suo laboratorio vuoto. «Il coltello recuperato dalla cucina. Abiti, altri elementi che ho raccolto sulla scena a quell’epoca e che ho mandato via con i corpi. Tutto esibito come prova al processo, a meno che il procuratore non lo considerasse irrilevante. La mia tecnica patologa
Mandy sarà nella stanza con te. È stata gentile a venire, dato che non possiamo permetterci di pagare straordinari. Comunque, tutto come la scorsa volta. E io rimarrò nel mio ufficio, perché so maledettamente bene che preferisci esaminare le prove anziché ascoltare opinioni, e mi riferisco alle mie. Potrai interpretare le prove come ho fatto io, e non sarò presente a soffiarti sul collo.» Mandy O’Toole, con il camice e i guanti da chirurgo, sta disponendo un paio di pigiami da bambino sulla carta da macellaio bianca che copre il tavolo della sala conferenze, mentre i documenti che avevo cominciato a guardare ieri sono lontano dal tavolo, impilati su una sedia. «Quella che mi è davvero difficile guardare è la roba dei bambini» dice, mentre riconosco gli oggetti che ieri ho visto nelle fotografie. Ordinatamente distesi sulla carta bianca ci sono due pigiami per bambini, il primo con un’immagine del cartone di SpongeBob, l’altro con lo stemma della squadra di football dei Georgia Bulldogs. Un paio di boxer e una T-shirt erano probabilmente quelli indossati da Clarence Jordan quando è stato pugnalato a morte nel letto, e una camicia da notte azzurra a fiori e con guarnizioni di pizzo, ovviamente, era quella portata dalla moglie. Gli indumenti hanno macchie marrone scuro di sangue vecchio e sono costellati di strappi e di tagli prodotti da almeno uno strumento appuntito, inoltre ci sono molti piccoli fori identici dove sono stati prelevati campioni di tessuto per l’analisi del DNA. Estraggo dei guanti da una scatola sul tavolo e li infilo, poi prendo uno dei corpi del reato con l’etichetta della polizia e il sigillo della corte: un coltello, che però lascio dentro il suo sacchetto e lo esamino attraverso la plastica. La lama è lunga quindici centimetri, il manico di legno è sporco di sangue vecchio. Alcune impronte parziali e una completa, bianche e quasi trasparenti, sono fissate permanentemente sotto la vernice protettiva che ricopre la superficie liscia e non assorbente dell’acciaio e del legno laccato; questo coltello, anche se può essere stato usato dall’assassino per tagliarsi un sandwich in cucina, non credo abbia ucciso nessuno. È un coltello da cucina con la lama “a uncino”, chiamato anche “il coltello della nonna”, usato per esempio per togliere gli occhi delle patate o pelare frutta e verdura; come suggerisce il termine “uncino”, un’area della lama, dalla parte del dorso, viene tranciata via dal fabbricante per alleggerirla – da metà della lunghezza e fino alla punta – lasciando un tratto non tagliente su cui si può appoggiare il pollice. Un coltello con la punta curva e un solo filo penetra meno facilmente di uno dal doppio filo e perciò è poco adatto come arma per pugnalare. Inoltre la lama, nel punto di massima larghezza, è quasi cinque centimetri, e questo contraddice quanto ho letto nelle rilevazioni dell’autopsia. Raggiungo l’altro lato del tavolo e controllo tra gli spessi dossier posati sulla sedia, finché trovo quello che ricordo di avere visto ieri, con i
diagrammi delle ferite. In tutti e quattro i casi, la morte è stata causata da ferite multiple inferte con forza usando uno strumento appuntito. Mi interessano in particolare le pugnalate al petto e al collo, perché sono aree del corpo dove lo spessore dei tessuti e gli spazi cavi possono dare una buona indicazione della lunghezza della lama. Sulla parte laterale sinistra del petto di Clarence Jordan, la ferita è larga due centimetri e mezzo e giunge a una profondità di sette centimetri, penetrando nel sacco del pericardio e nel cuore. Sul lato sinistro del collo, la ferita va dalla direzione anteriore a quella dorsale e dall’alto al basso, penetra per sette centimetri e taglia l’arteria carotidea. Tutte le misurazioni eseguite sulle ferite delle altre vittime suggeriscono che la lama aveva una lunghezza massima di sette centimetri ed era larga due e mezzo, con una sorta di guardia tra lama e manico che lasciava quattro leggere abrasioni, parallele ma irregolari, a distanza di tre millimetri. Questo tipo di ferite non poteva essere stato inflitto dal coltello “della nonna” o da qualsiasi altro coltello da cucina che mi venisse in mente, e all’epoca Colin aveva concluso che l’arma del delitto era ignota e non corrispondeva a nulla che si trovasse sulla scena. A quanto pareva, l’assassino aveva portato con sé un inconsueto strumento da taglio e in seguito si era allontanato con esso. Clarence Jordan non ha lesioni – né colpi diretti né ferite difensive – sulle braccia e sulle mani, e questo indica che non si è difeso e che forse era addormentato al momento dell’aggressione. Il fatto che i tossicologi abbiano trovato nel suo sangue una concentrazione di alcol di 0,04 e quello che si potrebbe considerare un livello terapeutico di clonazepam fa pensare che abbia bevuto un bicchiere o due e che abbia assunto una modesta dose, forse un milligrammo, di benzodiazepina per tranquillizzarsi o per dormire. Questo pensiero mi porta subito dall’altro lato del tavolo, dove un sacchetto di plastica per le prove raccolte sul luogo, che però non è etichettato per la corte, contiene una mezza dozzina di boccette di medicinali su ricetta, solo una delle quali porta il nome di Clarence Jordan, un beta-bloccante, il propranol. Le altre appartenevano alla moglie, compresi gli antibiotici, un antidepressivo e il clonazepam. Anche se non è raro che una persona prenda i medicinali di un’altra, mi sorprende che lo facesse Clarence Jordan, il quale era un medico che poteva avere facilmente campioni di qualunque medicinale desiderasse, ed è illegale dare ad altre persone i medicinali della propria ricetta. Questo non significa che non abbia preso il clonazepam della moglie, la notte del 5 gennaio, quando verso l’ora di cena è tornato dal suo lavoro di volontariato presso un locale servizio di accoglienza. Non esclude neppure la possibilità che non abbia preso volontariamente il sedativo. È facile schiacciare le pillole e versarle nel bicchiere di una persona, e continuo a pensare alle registrazioni del servizio di sorveglianza che ho letto.
Secondo i dati provenienti dagli archivi della ditta di sorveglianza, i Jordan avevano attivato e disattivato parecchie volte il sistema d’allarme per tutto il novembre del 2001, ma a dicembre era cambiato qualcosa, quando sembra che i falsi allarmi, presumibilmente causati dai bambini, cominciassero a diventare un problema. L’ultimo mese di vita dei Jordan, c’erano stati cinque guasti che avevano fatto partire l’allarme, tutti provenienti dalla stessa zona, la porta della cucina. La polizia non aveva risposto e gli allarmi erano stati annullati perché l’abbonato, quando era stato contattato dal servizio, aveva detto che si trattava di falsi allarmi. L’attivazione del sistema d’allarme era divenuta sempre più inattendibile per tutto il periodo delle feste, secondo quanto ho letto nelle registrazioni, ma era stato inserito quasi tutte le notti, motivo per cui trovo un po’ strani i dati di sabato 5 gennaio. Quel giorno rimase sempre spento, fin quasi alle otto di sera, poi venne disattivato poco prima delle undici e mai più riacceso, e questo sembra contrario a quel che è stato supposto dai giornalisti e dalla polizia nel corso degli anni. Risulta infatti che il dottor Jordan ha inserito l’allarme quando è tornato a casa dal suo lavoro di volontariato, poi, tre ore più tardi, qualcuno l’ha spento e questo particolare, oltre al fatto che il medico aveva nell’organismo un sedativo che non gli era stato prescritto, mi disturba. Allargo davanti a me le fotografie del cruento massacro nella camera dei Jordan e osservo le immagini dei due corpi nel letto, con le coperte sollevate fino al collo, e anche questo mi sembra strano. Le persone non sono manichini quando vengono uccise, e non si trovano mai le coperte ben distese sui loro cadaveri, a meno che l’assassino o qualcun altro non lo faccia per ragioni psicologiche, per mettere ordine o per nascondere il delitto. Colin ha commentato che i corpi potevano essere stati messi in posa per irridere le vittime, e io osservo le altre foto scattate dopo che aveva tolto la coperta per poter esaminare in situ il dottor Jordan e la moglie. Lui è disteso supino, con la testa sul cuscino, e fissa il soffitto; ha la bocca aperta e le braccia lungo i fianchi, i genitali che sporgono dall’apertura dei boxer e dubito che fosse la posizione al momento della morte. Qualcuno lo ha messo in posa; più guardo le foto, più capisco l’odio che la polizia, il procuratore e tanti altri devono avere provato nei confronti di Lola Daggette immaginandola all’interno di quella stanza a divertirsi dopo avere ucciso tutti, dando così prova di degradazione e disprezzo offensivi. La T-shirt e la cintura dei boxer bianchi del dottor Jordan sono completamente impregnati di sangue; il sangue ha imbevuto il lenzuolo sotto di lui, estendendosi in una macchia che si allarga fino al bordo del materasso e sotto il corpo della moglie. È stato pugnalato per un totale di nove volte al petto e al collo, e non ci sono indicazioni che abbia lottato o tentato di proteggersi dalla maligna aggressione con un coltello dalla guardia inconsueta, che lasciava contusioni parallele sulla pelle. La moglie è distesa sul fianco destro, ha le mani piegate sotto
il mento e, dando la schiena al marito, guarda in direzione della finestra che si affaccia sulla strada davanti alla casa e sul vecchio cimitero dall’altra parte della carreggiata; io certamente non credo che si trovasse in quella posizione quando è morta. Il suo corpo è stato spostato, messo in posa in modo da assumere un atteggiamento quasi pio, come se pregasse, ma la camicia da notte è sollevata fino alla vita e i seni sono fuori dalla scollatura. Prendo in mano la camicia da notte di flanella a maniche lunghe, abbottonata fino al collo e con il colletto di pizzo che pare accordarsi perfettamente con la donna dall’aspetto serio e riservato delle foto natalizie, scattate meno di un mese prima che venisse fotografata di nuovo, questa volta in una posizione oscena sul letto impregnato di sangue. Minuscole scaglie di sangue scuro e secco cadono sulla carta bianca che copre il tavolo mentre studio ogni strappo e ogni foro praticato da una lama che l’ha colpita, per un totale di ventisette volte, alla faccia, alla testa, al petto, alla schiena, al collo, alla gola, che per buona misura le è stata anche tagliata. La camicia da notte è macchiata davanti e dietro, così satura di sangue che solo qualche zona delle maniche e l’orlo inferiore rivelano la flanella azzurra e il motivo a fiorellini. Noto che Mandy O’Toole ha preso una sedia e l’ha portata accanto a una finestra per lasciarmi maggiore libertà. Mi osserva con attenzione, incuriosita, mentre poso sulla carta la camicia da notte, rimettendola come l’avevo trovata; il sangue secco ha reso alcune zone del tessuto dure come una crinolina inamidata. Mandy non dice una parola e non interferisce, e io non le rivelo i miei pensieri, che di momento in momento diventano più cupi e più brutti. Controllo di nuovo il dossier di Gloria Jordan. Studio i diagrammi delle ferite e rileggo i rapporti del laboratorio sui campioni di sangue prelevati dalla camicia da notte, che confermano la presenza del suo DNA, come ci si aspetta, ma anche di quello del marito e della figlia di cinque anni. Perché il sangue di quest’ultima, la piccola Brenda? Dalle misure e dalle descrizioni di Colin noto come la ferita sul collo di Gloria cominci dietro l’orecchio sinistro e prosegua verso il basso, sotto il mento, con una singola incisione ben netta fin sotto il lobo dell’orecchio destro, coerentemente con il fatto che la gola le è stata tagliata da dietro. Se non si è accorta dell’aggressione e le è stata recisa la carotide, è comprensibile l’assenza sulle braccia di ferite da difesa, come aveva detto Colin, ma questo solleva più domande che risposte. Successivamente noto un’altra foto del suo cadavere nella posizione in cui è stato trovato, un primo piano scattato dal fondo del letto. Sui piedi della donna si scorgono macchie di sangue e anche le piante sono insanguinate, il che non sembra possibile se era distesa sul letto quando le è stata tagliata la gola ed è stata pugnalata. Ma è difficile accertarlo. C’era troppo sangue dappertutto; cerco di immaginare un assalitore che taglia la gola della signora Jordan da dietro, mentre lei giace sul letto profondamente addormentata e intontita dal
clonazepam. Seguo il sangue che è stato sparso e spalmato, si è raccolto in piccole pozze, è stato calpestato, è schizzato sulle scale. E poi gli spruzzi di sangue arterioso causato da un fendente del coltello, probabilmente una ferita al collo, forse il collo di Gloria Jordan, con gli schizzi che formano degli archi al ritmo del battito del cuore che sta per fermarsi. Ma il cuore di chi, e in che direzione si muoveva la persona, saliva o scendeva, entrava o usciva? Per coloro che svolgono le indagini sulla scena del delitto, anche quelli bravi come Sammy Chang, non è possibile raccogliere ogni goccia di sangue da ogni striscia, ogni macchia e ogni pozza di una scena, né i laboratori potrebbero analizzarle tutte. Osservo le scale fino al pavimento dove termina la rampa e mi soffermo sull’area accanto all’ingresso e alla porta principale, dove è caduta Brenda, e cerco di capire come il suo sangue possa essere finito sulla camicia da notte di sua madre, che si presume sia morta nel letto. Cerco qualche prova che si sia tentato di pulire il sangue nell’atrio, sulle scale, nel corridoio o in qualunque altro punto della casa, ma non vedo nulla che possa indicarlo e non c’è niente che lo suggerisca in nessuno dei rapporti che ho visto. Continuo a tornare alla zona dell’ingresso e al corpo di Brenda, una visione che deve avere inorridito la polizia quando è arrivata in casa dopo che il vicino aveva scorto il vetro rotto della porta della cucina e aveva chiamato il 911. Nessuna persona normale ama vedere i bambini morti, e si ha sempre la tentazione di non guardarli attentamente. Il pavimento nella zona dell’ingresso è un caos di gocce e di schizzi venuti da un’arma, e di strisciate, di macchie, di pozzette e di impronte lasciate da scarpe e anche di segni che sembrano di piedi nudi. E le impronte delle dita dei piedi e del tallone sono troppo grandi per appartenere a un bambino. Vado di nuovo a vedere il pigiama di SpongeBob. Le gambe dei pantaloni terminano a calza. I segni dei piedi nudi, quindi, non possono essere stati lasciati da Brenda che fuggiva al piano di sotto, verso la porta d’ingresso, e mi trovo di nuovo con lo stesso dubbio: il taglio, piuttosto profondo, sulla mano della madre. Colin suppone che la signora Jordan si sia lacerata il pollice mentre tagliava i rami secchi del giardino, e io seguo il filo della teoria di Colin lungo le fotografie, tornando al porticato e al giardino. Osservo le gocce tonde di sangue secco, ciascuna a mezzo metro dall’altra, sulle mattonelle di terracotta, sulle lastre di pietra e sulle foglie, il sangue della signora Jordan, ritenuto non inerente al caso ed escluso dalle prove al processo. Se quello che Colin suggerisce è giusto – ma io dubito che lo sia –, deve essersi ferita quasi immediatamente dopo avere iniziato a potare. Ma non c’è nessun attrezzo in nessuna foto che passo in rassegna, nessun ramo potato, né virgulto o propaggine: il giardino è spoglio e ha bisogno di una pulitura invernale che nessuno poté terminare.
Quando Marino ha interrogato Lenny Casper, il vicino che aveva visto la signora Jordan in giardino il pomeriggio di sabato 5 gennaio, Casper non ha detto che si era ferita. Forse non se n’era accorto, ma alla maggior parte della gente che porta fuori il cane o guarda dalla finestra non sfugge il fatto che qualcuno torni in casa di corsa perché perde sangue. Un’osservazione casuale da parte di un vicino e qualche goccia del sangue di Gloria Jordan che non aveva senso nel contesto di quattro omicidi così cruenti hanno portato alla conclusione che si era tagliata il pollice qualche ora prima. Era rientrata in casa, si era scordata di pulire il porticato e il corridoio vicino al bagno degli ospiti e non si era bendata la ferita né l’aveva fatta curare dal marito medico, quando era tornato a casa dal suo lavoro di volontariato. Io non ci credo. Secondo il rapporto del tossicologo, la signora Jordan, quando era morta, aveva nel sangue alcol e clonazepam, in percentuali superiori a quelle del marito, e aveva assunto sertralina, un antidepressivo. Dopo l’omicidio questi medicinali erano stati prelevati nel bagno padronale, in quello che sembrava lo scaffale della moglie, di fianco al lavandino, e quando li guardo nel sacchetto per le prove noto un particolare che mi era sfuggito. «Ha voglia di aiutarmi un attimo?» chiedo a Mandy, che osserva con il suo sguardo blu cobalto tutto quello che faccio. «Ma certo.» In un istante è già in piedi. «Il dossier Barrie Lou Rivers? Credo che sia elettronico e non cartaceo, perché è morta dopo che l’ufficio ha abolito la carta.» «Vuole che glielo stampi?» mi chiede. «Non necessariamente. Ma mi interessa un documento, se riesce a trovarlo nel file.» «Se aspetta un minuto, vado a prendere il portatile.» «Io, intanto, rimango in corridoio» le rispondo, ed esco dalla sala riunioni. 039_chapter33
33 Mandy O’Toole fa ritorno dal laboratorio di istologia con un portatile e inizia ad aprire il file di Barrie Lou Rivers mentre io cerco ancora tra i vestiti di Lola Daggette qualcosa che possa essere passato inosservato. Esamino la giacca a vento, la maglia azzurra a collo alto e i calzoni di velluto a coste marrone che stava lavando nella doccia, un’azione compromettente che era stata l’unico presupposto per giudicarla colpevole di omicidio plurimo premeditato e condannarla a morte. Gran parte del sangue è stato lavato via, restano solo le tracce delle macchie, aree di colore più scuro sulle cosce dei calzoni, e gocce e strisce sui polsini, sulle maniche e sul petto della giacca a vento. Lola avrebbe dovuto avere del sangue anche sotto le suole e i miei pensieri continuano a fare ritorno a questo particolare. «Ho trovato il file. Il referto di tossicologia e di altri laboratori, i dati dell’autopsia» mi dice Mandy, seduta sulla sedia accanto alla finestra, con il computer sulle ginocchia. «Che cosa cerca, esattamente?» «Un documento che aveva Jaime Berger, ma che forse a voi manca. Un foglio inserito nel dossier dell’autopsia e dei referti tossicologici» rispondo. «Un modulo di tracciabilità con l’intestazione del GPFW e riguardante i farmaci per l’esecuzione. L’ordine di acquisto è stato evaso, ma i farmaci non sono mai stati usati perché Barrie Lou Rivers è morta prima che potessero giustiziarla. È solo un foglio spaiato che non ha relazione con i dati dell’autopsia, ma che in qualche modo è finito nel dossier.» «Giusto i miei preferiti» commenta lei. «Dettagli che non dovrebbero trovarsi in mezzo agli altri, ma che ci sono finiti per caso.» Mentre continuo a osservare i vestiti di Lola Daggette, penso a cosa indossavano le vittime quando sono morte e a quanto sangue c’era, alla incomprensibile fila di impronte di scarpe sulle piastrelle a scacchi bianchi e neri della cucina e sul parquet in legno d’abete: indica che l’assassino ha sparso sangue per tutta la casa; se non lui, qualcun altro, o magari più di uno. Non tutte le tracce di sangue hanno lo stesso aspetto. C’è stata contaminazione da parte di qualcuno che ha inquinato la scena del delitto dopo l’arrivo della polizia oppure Dawn Kincaid aveva dei complici nei suoi odiosi delitti? Non Lola, però. Se in quelle ore della notte avesse girato per la casa dei Jordan, le sue scarpe si sarebbero sporcate di sangue, eppure non lavava scarpe nella doccia quando era entrata l’assistente sociale volontaria. E non lavava né biancheria né calze. Non l’avevano visitata per accertare la presenza di piccole ferite, per esempio graffi, e non erano suoi il DNA e le impronte trovati sui corpi delle vittime o sulla scena del delitto, ed è tragico che nessuno abbia prestato attenzione a questi particolari. Il DNA era di Dawn Kincaid, ma le impronte non corrispondevano, e ricordo quello che ha detto Kathleen Lawler: di avere abbandonato “i figli”,
al plurale. Come se ne avesse avuto più di uno. «La polvere della vendetta» commenta Mandy e mi fa tornare in mente “Vendetta”. Un mostro che tutti ritengono inventato da Lola. «Sì, proprio quello che stavo cercando» rispondo leggendo il modulo sullo schermo, una ricetta per dei farmaci letali, preparati da una farmacista chiamata Roberta Price e consegnati alla prigione, con la firma di Tara Grimm per ricevuta. L’ora è mezzogiorno e la data è quella dell’esecuzione di Barrie Lou Rivers, il 1° marzo di due anni fa. Sul modulo ci sono caselle segnate con una crocetta e spazi bianchi in cui è annotato che il tiopental sodico e il pancuronio bromuro sono stati conservati nell’ufficio della direttrice e poi passati nella camera delle esecuzioni alle cinque del pomeriggio, ma non sono stati usati. «Ha qualche importanza? Dalla sua espressione si direbbe che sta pensando a qualcosa.» Mandy non riesce a resistere alla curiosità quando le riconsegno il portatile. «Per quel che ne sa lei, questi sono gli unici abiti che appartengono a Lola Daggette?» Rispondo alla sua domanda con un’altra domanda, mentre prendo il sacchetto contenente i medicinali esibiti come prove e controllo le etichette dei contenitori di plastica color arancione scuro. «In altre parole, niente scarpe.» «Se è tutto quello che Colin le ha dato dei reperti ancora conservati al Georgia Bureau of Investigation, allora non c’era altro, ne sono certa» mi risponde. «Con tutto il sangue che era schizzato sull’assassino, è impossibile credere che le scarpe non fossero macchiate» commento. «Perché lavare nella doccia i vestiti ma non le scarpe?» «Una volta Colin ha grattato via la gomma da masticare sotto una scarpa dal tacco alto arrivata con un cadavere e ha recuperato un capello e poi il DNA dell’assassino. Ci siamo fatti fare delle T-shirt con la scritta “Colin Dengate, l’uomo del chewing-gum”.» «Le dispiace andare a chiamarlo? Gli dica che lo aspetto fuori, vorrei fare un giro. Una visita retrospettiva, se possibile.» Lola Daggette non aveva lavato le scarpe nella doccia perché i vestiti sporchi di sangue che le avevano piazzato nella stanza allo scopo di incriminarla non comprendevano le scarpe. Non aveva ucciso nessuno e non era stata nella casa ottocentesca dei Jordan, né la notte dell’omicidio né in altri momenti. Sospetto che quell’adolescente disturbata non avesse mai avuto alcun motivo di incontrare i ricchi e distinti Clarence e Gloria Jordan, o i loro bellissimi gemelli biondi, e probabilmente non sapeva neppure chi fossero finché non fu interrogata sulla loro uccisione e accusata dell’omicidio. Sospetto inoltre che Lola non avesse alcuna idea di chi potesse essere il responsabile, una o più persone con un movente più forte della droga o di qualche spicciolo o del brivido di dare la morte: un mostro o un paio di mostri con un grandioso progetto che una ragazza mentalmente ritardata, ospitata in una comunità di recupero, non aveva alcuna ragione di cono-
scere. E, se l’avesse avuta, sarebbe già stata uccisa, come Kathleen Lawler e Jaime. Sospetto la presenza di un piano ben congegnato che comprendeva la falsa accusa per incastrare Lola, esattamente come si cerca adesso di fare con me, e non credo che questi raggiri siano opera solo di Dawn Kincaid. Cerco il telefono nella borsa e chiamo Benton mentre esco dall’edificio del laboratorio; mi fermo vicino ad alcuni cespugli di callistemon con boccioli rosso vivo e mi trovo faccia a faccia con un colibrì. Il sole cocente è un sollievo. Sono gelata, mi si sono raffreddate persino le ossa con l’aria condizionata della sala riunioni, in mezzo a corpi del reato così ovvi da dare l’impressione di gridare i loro grotteschi segreti, e io non so chi risponderà alle loro invocazioni. Posso contare su Colin e, naturalmente, Marino e Lucy mi presteranno attenzione. Ho mandato a entrambi un messaggio in cui chiedevo se il nome Roberta Price dicesse loro qualcosa e li invitavo a cercare tutto quel che è possibile scoprire su Gloria Jordan. C’era ben poco sulla signora Jordan negli articoli che ho letto, alcuni dettagli personali e niente che suggerisca l’esistenza di problemi, ma sono certa che ce n’erano, anche se il momento per fare quelle ricerche non potrebbe essere peggiore. Se Benton non fosse mio marito, non ho dubbi che non darebbe retta a quella che sembra una storia dell’orrore, una cosa inventata, un racconto sensazionale. Il mio sospetto – un sospetto molto forte – su quanto è accaduto nove anni fa in questo momento non suscita l’interesse dell’FBI o della Sicurezza nazionale, e io capisco perché, ma in ogni caso intendo trovare qualcuno che mi ascolti e che agisca. «Pare che siano arrivati i tuoi amici di Atlanta» dico a Benton quando risponde al telefono e sento i rumori in sottofondo: voci forti, con lui ci sono parecchie persone. So di mettere alla prova la sua pazienza, sento crescere l’irritazione. «Cominciamo adesso. Cosa succede?» Il tono è distratto e teso; mentre risponde, si muove all’interno di una stanza dove tutti parlano insieme. «Forse tu e i tuoi colleghi potreste cercare una cosa.» «Che cosa?» «I registri delle adozioni, e ti chiedo di fare attenzione» rispondo. «So che il caso Jordan non è una priorità in questo momento, ma penso che dovrebbe esserlo.» «Io faccio sempre attenzione, Kay.» Il tono della voce non è seccato, ma lui lo è. «Mi serve sapere tutto quello che riguarda Kathleen Lawler e Dawn Kincaid, anche se non era il suo nome alla nascita e non ho idea del nome della prima famiglia che l’ha adottata. Dawn ha girato varie case d’accoglienza e diverse famiglie prima di arrivare in California, presso una coppia che è deceduta di morte naturale. Si presume. Tutto quel che puoi trovare e che l’FBI non abbia già trovato, soprattutto riguardo agli incontri fra Dawn e altre persone.
Nel 2001 o 2002 deve avere contattato qualcuno, forse un’agenzia investigativa di qui, quando ha deciso di conoscere l’identità dei suoi genitori biologici. Deve avere fatto la stessa trafila che fanno tutti.» «Non siamo sicuri che quanto ti ha detto Kathleen Lawler sia vero. Forse sarebbe meglio riparlarne più tardi.» «Sappiamo che Dawn Kincaid era a Savannah all’inizio del 2002 e dobbiamo parlarne adesso» rispondo mentre ripenso a Kathleen Lawler che, nella sala dei colloqui, mi racconta di essere stata “rinchiusa come un animale” e costretta a “dare via i figli”. Del resto cosa doveva fare, “darli” a un dodicenne, a Jack Fielding? «Anche questo non è stato dimostrato» dice Benton. Quando ha fretta e non vuole discutere, sostiene sempre il contrario di quello che gli si dice. «I nuovi test del DNA indicano la sua presenza nella casa dei Jordan nel 2002» rispondo. «Ma dovrai richiedere altre analisi e arrivo al punto: Dawn Kincaid ha fatto tutta quella strada dalla California per incontrare la madre biologica, o aveva anche un altro scopo?» «So che è importante per te» risponde Benton, e quello che intende dire è che a lui, invece, della presunta visita di Dawn Kincaid a Savannah nel 2002 non importa niente. L’FBI e il governo statunitense, e magari lo stesso presidente, sono preoccupati dei potenziali terroristi. «Quel che suggerisco è la possibilità che volesse incontrare qualcun altro, oltre alla madre» continuo, senza badare alle sue rimostranze. «Forse c’è qualche documento che nessuno ha pensato di controllare. Ma è una cosa importante. Te lo prometto.» Continua a girare per la stanza e una voce in sottofondo dice qualcosa a proposito del caffè e Benton risponde “grazie” e poi torna a me: «Cosa stai pensando?». «Com’è possibile lasciare impronte digitali insanguinate su un manico di coltello e su un contenitore di sapone alla lavanda sulla scena di un plurimo omicidio se non hai niente a che fare con i delitti stessi?» «E di chi è il DNA di quelle impronte digitali insanguinate?» «Appartiene sia alle vittime sia a un donatore sconosciuto, un profilo che oggi sappiamo essere quello di Dawn Kincaid. Ma le impronte non sono sue» rispondo. «Il DNA è dei Jordan e di Dawn, si presume. Ma le impronte sono di un’altra persona.» «Si presume?» ripete. «Un trasferimento di sangue da qualcuno che aveva le mani insanguinate e ha toccato il coltello e il contenitore, ma non sono le impronte di Dawn Kincaid. Non sono mai state identificate, si presume che siano dovute a contaminazione. Sulla scena c’erano molte persone, giornalisti compresi, che magari pestavano il sangue e toccavano le prove, raccogliendole da terra, e anche poliziotti, tecnici della Scientifica. A quanto pare, la scena del delitto non è
stata isolata in modo efficace. Questa è la spiegazione che mi è stata data.» «È possibile, se le persone che hanno toccato gli oggetti non hanno precedentemente depositato le loro impronte a scopo di esclusione. Ma adesso devo andare, Kay.» Ignoro l’ultima frase. «Certo, è possibile, soprattutto quando tutti coloro che si occupano del caso sono ansiosi di accettare una simile spiegazione perché hanno trovato Lola Daggette e non cercano nessun altro. Questo sembra il problema generale: trascurare qualche elemento, non porsi domande, non scavare abbastanza a fondo. Il caso è risolto, il colpevole è stato visto mentre lavava gli abiti sporchi di sangue e ha raccontato un mucchio di fandonie che confinano con l’assurdo.» «Riferitele che la richiamo tra un minuto» dice Benton a qualcun altro. Vedo Colin uscire dall’edificio. Quando si accorge che sono al telefono, mi fa segno che mi aspetterà sulla Land Rover. «Tu e i tuoi colleghi agenti cercate di scoprire il possibile su Roberta Price» ripeto a Benton, che non dice nulla. «La farmacista che ha fornito le medicine a Gloria Jordan nove anni fa. Voglio sapere chi è e se è collegata a Dawn Kincaid.» «Ricorda che se una persona è il farmacista titolare, il suo nome compare su tutti i flaconi dei medicinali venduti dietro presentazione di una ricetta, anche se non è lui a evadere fisicamente l’ordine.» «Probabilmente no, se l’ordine viene dal medico della prigione o da qualcuno che somministra le iniezioni letali» rispondo. «Se sei il titolare e non hai voluto preparare il tiopental sodico e il pancuronio bromuro, non vuoi il nome sulla bolla di consegna. Non lo vuoi su nessun documento che sia pur lontanamente collegato con un’esecuzione.» «Non capisco dove vuoi arrivare.» «Due anni fa, una farmacista di nome Roberta Price, presumibilmente la stessa persona che forniva le medicine alla signora Jordan, ha evaso la richiesta per il tiopental sodico e il pancuronio bromuro che dovevano essere usati per l’iniezione letale a Barrie Lou Rivers, se non fosse misteriosamente morta prima. I farmaci sono stati consegnati al GPFW e sono stati ritirati da Tara Grimm. È difficile immaginare che lei e Roberta Price non si conoscano.» «Una farmacista della Monck’s Pharmacy. Una piccola farmacia di proprietà di Herbert Monck.» Benton deve avere cercato il nome di Roberta Price mentre mi ascoltava. «Dove si serviva anche Jaime, ma il nome di Roberta Price non compare sulle boccette di Jaime. Mi chiedo perché» rispondo. «Perché? Scusa, ma non capisco.» Benton sembra piuttosto assente. «Solo un’impressione: che quando Jaime è andata nella farmacia del dottor Monck, Roberta Price si sia tenuta lontano» aggiungo, pensando all’uomo in camice da laboratorio che mi ha venduto l’Advil e ha fatto il nome di “Robbi”, la persona che si trovava al banco un
momento prima e che era improvvisamente scomparsa. «Non credo che tu possa dirmi che tipo di auto possiede, e se per caso è una Mercedes station wagon nera» dico a Benton. Dopo una lunga pausa mi risponde: «Nessun’auto registrata a suo nome, almeno non come Roberta Price. Potrebbe averla registrata con un nome diverso. Gloria Jordan acquistava le medicine dalla stessa farmacia?». «Da una farmacia vicino a casa sua. Una del gruppo commerciale Rexall, che in seguito è passata a un altro gruppo, il CVS.» «Perciò in un momento da determinare, dopo gli omicidi, forse Roberta Price ha cambiato posto di lavoro ed è finita in una farmacia più piccola, ma assai più vicina al GPFW» mi dice Benton, mentre assicura a qualcun altro che arriva subito. «Non c’è nessuna ragione plausibile di dare la caccia a una farmacista soltanto perché ha fornito medicinali a Gloria Jordan, al GPFW e probabilmente a decine di migliaia di altre persone di questa regione, Kay. Non sto dicendo che non faremo indagini.» «Una farmacista che non ha problemi a collaborare alle esecuzioni nel carcere femminile, e magari anche a quelle nel carcere maschile. È raro» gli faccio notare. «Molti farmacisti si considerano controllori della terapia farmacologica, con la responsabilità di agire nel migliore interesse del paziente. Questo in genere non comprende la sua uccisione.» «Ne deduciamo che Roberta Price non ha problemi etici di questo genere o che semplicemente bada solo a fare il proprio lavoro.» «O che trae piacere dal farlo, specialmente se l’anestesia perde efficacia o qualcos’altro non funziona. C’è stato un caso del genere qui in Georgia non molto tempo fa. Per uccidere il prigioniero condannato c’è voluto un tempo almeno doppio del normale, e ha sofferto. Mi chiedo chi abbia preparato quelle dosi letali.» «Lo scopriremo» mi promette Benton, ma non lo farà certamente in questo preciso istante. «E qualcuno deve mettersi in contatto con il laboratorio del DNA a cui si appoggiava Jaime» continuo, senza badare al fatto che Benton non la considera certamente una priorità, mentre mi avvio verso la Land Rover di Colin, con il motore che già brontola. «Ma sospetto che non siano all’altezza delle nuove tecniche veloci usate dai militari.» Mi riferisco all’AFDIL, il Laboratorio di identificazione genetica delle forze armate, con sede presso la base dell’Aeronautica di Dover, dove la tecnologia del DNA ha raggiunto un nuovo livello di sofisticazione e di precisione a causa delle sfide poste dai nostri caduti in guerra. Che cosa succede quando due gemelli identici finiscono in prima linea e uno di loro viene ucciso o – Dio non voglia – muoiono tutt’e due? I test standard del DNA non sono sufficienti per distinguerli e, se è vero che le loro impronte digitali non sono uguali, può capitare il caso che non esistano più le dita da cui rilevarle.
«Con gli ordigni esplosivi improvvisati e le loro ferite devastanti, che in alcuni casi arrivano all’annientamento quasi completo» aggiungo «identificare un corpo diventa una vera sfida, quando resta solo una spruzzata di sangue contaminato su un frammento di tela o un pezzo di osso bruciacchiato. So che l’AFDIL ha una tecnica in grado di analizzare i fenomeni epigenetici, usando la metilazione e l’acetilazione degli istoni per effettuare confronti del DNA impossibili con altri tipi di analisi.» «E perché mai dovremmo fare qualcosa del genere in questo caso?» «Perché i gemelli identici possono iniziare la vita con un DNA identico, ma in quelli più anziani ci sono significative differenze nell’espressione dei geni, riscontrabili con le tecnologie più avanzate. Maggiore è il tempo che i gemelli passano separati tra loro, maggiori diventano queste differenze. Il tuo DNA determina chi sei e alla fine chi sei determina il tuo DNA» gli spiego, mentre apro la portiera dell’auto e vengo colpita dall’aria surriscaldata del ventilatore. 040_chapter34
34 L’uomo che viene ad aprire la porta è sudato; sui suoi enormi bicipiti abbronzati le vene sembrano corde, come se stesse facendo ginnastica quando ci siamo presentati da lui senza essere annunciati. È visibilmente seccato di trovare due estranei sotto il suo porticato, uno dei due in pantaloni tattici e la polo del Georgia Bureau of Investigation, l’altra in uniforme estiva color kaki. Due visitatori scesi da una vecchia Land Rover parcheggiata all’ombra di una grande quercia, vicino alle siepi di gelsomino che separano la sua proprietà da quella dei vicini. «Mi spiace disturbarla.» Colin apre il portafogli e gli mostra il distintivo degli anatomopatologi. «Ma ci farebbe un vero piacere se ci potesse dedicare alcuni minuti del suo tempo.» «Di cosa si tratta?» «Lei è Gabe Mullery?» «È successo qualcosa?» «Non siamo qui in veste ufficiale e non è successo nulla di cui preoccuparsi. La nostra è una visita informale e andremo via se lei ce lo chiederà. Ma le sarei molto grato se mi concedesse un minuto per spiegare di cosa si tratta» continua Colin. «Lei è Gabe Mullery, il proprietario della casa?» «In persona.» Non accenna a volerci stringere la mano. «La casa è mia. Mia moglie sta bene? È tutto a posto?» «Per quel che ne so io, sì. Mi dispiace di averla spaventata.» «Io non mi spavento di niente. Che cosa volete?» Gabe Mullery è un bell’uomo, con i capelli neri, gli occhi grigi e la mascella robusta. Porta calzoncini corti e una T-shirt bianca con la scritta “Marina Nucleare degli Stati Uniti – Se mi vedi correre, è già troppo tardi”. Blocca l’ingresso con il suo corpo muscoloso; chiaramente non è una persona che si rallegra quando gli estranei gli piombano in casa senza avvertire, qualunque ne sia la ragione. Ma all’uomo che abita nella casa appartenuta ai Jordan non vogliamo dare la possibilità di dire di no. Ho bisogno di vedere il giardino per capire cosa facesse laggiù, il pomeriggio del 5 gennaio, Gloria Jordan. Non credo che la donna abbia potato gli alberi e voglio sapere perché è tornata in giardino nel cuore della notte. Forse per andare nella vecchia cantina sotterranea, probabilmente perché qualcuno l’aveva costretta a recarsi laggiù a notte fonda, appena prima che lei e i suoi familiari venissero uccisi. Mi sono fatta una ricostruzione personale dell’accaduto, basata sulla mia interpretazione delle prove; le informazioni che Lucy mi ha inviato per e-mail mentre raggiungevamo la casa rafforzano la mia conclusione che la signora Jordan non era una vittima innocente, e questo per dirlo con un eufemismo.
Sospetto che la notte del 5 gennaio abbia drogato il liquore del marito sciogliendovi il clonazepam, per assicurarsi che dormisse di un sonno profondo. Poi, verso le undici, è scesa al pianterreno e ha disinserito l’allarme, lasciando la casa e la famiglia in balia di un’intrusione che certo, nelle sue previsioni, non doveva finire in quel modo. Ma quel che forse aveva in mente lei non corrispondeva alla realtà e soprattutto era un’idiozia, non molto diverso da altri piani concepiti da persone scontente che vogliono lasciare il coniuge e vengono indotte a credere di avere il diritto di prendere quello che pensano spetti loro. Probabilmente la signora Jordan non prevedeva che potesse succedere qualcosa di male ai figli, e certo non a lei stessa, e magari neppure al marito, che secondo me era arrivata a trovare insopportabile, se non addirittura a odiare. Forse era decisa a lasciarlo, ma probabilmente quel che voleva era una fonte segreta di denaro per sé, e non necessariamente la morte del marito. Un piano molto semplice, una banale effrazione in una notte di gennaio, dopo una giornata che aveva visto una successione di temporali e di venti forti e gelidi. Lucy mi ha riferito com’era il tempo, quel giorno. Una persona non decide di lavorare in giardino con un tempo del genere, oltre al fatto che non c’è alcuna prova che la signora Jordan abbia potato un solo rametto o un solo rampicante, il pomeriggio che precedette la sua morte. Che cosa faceva accanto ai muri in rovina e all’avvallamento nel terreno che, nelle fotografie, mi parevano i resti di una vecchia cantina sotterranea, appartenente a un secolo passato? Forse cercava di battere in astuzia la sua complice o le sue complici, e qui l’aspetto più cupo e ironico dell’intera situazione è che non sarebbe sopravvissuta neppure se avesse mantenuto gli accordi. Non aveva riconosciuto il diavolo che aveva accolto come amica e di cui era giunta a fidarsi, e doveva avere pensato che le sarebbe stato perdonato tutto se la fortuna in oro che, secondo me, aveva promesso di dividere fosse risultata introvabile perché lei aveva deciso di tenerla per sé e l’aveva nascosta. «Senta, non potrei biasimarla se non volesse permetterci di seccarla ancora con questa storia» dice Colin, sotto il sole che batte tra le alte colonne bianche del porticato, dal quale si vede l’antico cimitero che risale alla Rivoluzione americana. Le folate di vento caldo portano fino a noi il profumo di erba appena tagliata. «Non sarà per quel maledetto delitto» brontola Gabe Mullery. «Voi e i giornalisti, e i peggiori di tutti sono i turisti. Gente che suona il campanello e vuole fare il giro dei locali.» «Non siamo turisti e non ci interessa quel tipo di visita.» Colin mi presenta e aggiunge che tra un paio di giorni devo tornare a Boston e che vorrei dare un’occhiata al giardino sul retro. «Non voglio sembrare maleducato, ma a che diavolo le serve?» chiede Mullery. Dietro di lui, attraverso la porta aperta, vedo la scala di abete e il pianerottolo nell’atrio dove è stato trovato il corpo di Brenda Jordan.
«Ha tutti i diritti di essere maleducato» gli rispondo «e non è obbligato a lasciarmi guardare.» «È una zona di mia moglie, che l’ha rifatta da cima a fondo. C’è il suo studio, laggiù. Perciò, qualunque cosa lei cerchi, probabilmente non esiste più. Non ne capisco l’utilità.» «Se non ha niente in contrario, darei lo stesso una rapida occhiata» rispondo. «Stavo riesaminando alcune informazioni...» «Sul delitto.» Sbuffa per l’esasperazione. «Sapevo che era un errore comprare questa casa e adesso, con l’esecuzione di quella donna, che per di più è fissata proprio il maledetto giorno di Halloween, ci sarà la fila dei ficcanaso. Come se potessimo rimanere qui a sopportarlo. Sprangherei questo maledetto posto e farei venire la Guardia nazionale, se solo potessi, e me ne andrei alle Hawaii finché non fosse tutto finito, non so se mi spiego. D’accordo.» Si sposta per lasciarci passare. «Tutta questa conversazione è ridicola» continua, con la voce irritata. «Soprattutto fatta qui fuori, al caldo e dove tutti ci guardano. Non avrei dovuto comprare questa maledetta casa. Gesù Cristo. Non avrei dovuto dare retta a mia moglie. Le ho detto che saremmo finiti nei circuiti del turismo locale e che non era una buona idea, ma è lei che sta qui per la maggior parte del tempo. Io sono quasi sempre in viaggio, e lei deve vivere dove le piace, è giusto così. Sapete, mi dispiace che qui sia morta della gente, ma i morti sono morti e quello che odio sono le persone che violano la nostra privacy.» «Capisco perfettamente» gli assicura Colin. Entriamo nel grande atrio di una casa che mi pare familiare come se ci fossi già stata. Immagino Gloria Jordan sulle scale, a piedi nudi e con la camicia da notte a fiori azzurri, diretta in cucina, dove aspettò che arrivassero le sue complici e che il piano entrasse in azione. O forse era in qualche altra parte della casa quando il vetro della porta fu infranto e una mano si infilò ad aprire la serratura dall’interno, girando la chiave che era nella toppa e non avrebbe dovuto trovarsi lì. Non so dove fosse Gloria quando il marito venne ucciso, ma non certo a letto. Non era là quando fu pugnalata ventisette volte e le venne tagliata la gola, in un eccesso di violenza omicida, che io associo all’ira e alla cupidigia di uccidere. Probabilmente l’aggressione era avvenuta nell’atrio dove lei, a piedi nudi, aveva calpestato il proprio sangue e quello della figlia. «Forse avrete capito che non sono di qui» dice Mullery. Io, in un primo momento, avevo pensato che fosse inglese, ma adesso mi sembra australiano. «Sydney, Londra e poi North Carolina per specializzarmi in medicina iperbarica alla Duke. Sono finito a Savannah parecchio tempo dopo i delitti e la storia di questa casa non aveva molto significato per me, altrimenti, sicuro come l’oro, non sarei mai venuto a vederla quando l’hanno messa in vendita
qualche anno fa. Ma siamo venuti a fare una visita alla casa e per Robbi è stato amore a prima vista.» “Non era quel matrimonio idilliaco che sembrava essere” mi ha scritto Lucy per e-mail, e ha allegato le informazioni da lei trovate, che tracciano il ritratto di una donna infelice con un passato autodistruttivo, che sposò Clarence Jordan nel 1997 e immediatamente mise al mondo i gemelli, un maschio e una femmina di nome Josh e Brenda. A coloro che la conoscevano, deve essere sembrata una storia tipo Cenerentola: all’età di vent’anni era stata assunta dal dottor Jordan come segretaria del suo studio, e a quanto pare fu così che si conobbero. Forse lui pensava di riuscire a farle mettere la testa a posto, e per qualche tempo Gloria parve essersi stabilizzata, rispetto alla sua vita precedente: un’esistenza caotica e piena di guai, passata spacciando assegni falsi e sfuggendo alle agenzie di recupero crediti, ubriacandosi in pubblico e traslocando continuamente da uno squallido appartamento a un altro. «Kings Bay?» Colin pensa che Gabe Mullery sia in forza presso la sede della Flotta atlantica dove sono stanziati i sottomarini Trident II armati di bombe nucleari, a meno di duecento chilometri da Savannah. «Ufficiale medico subacqueo nella riserva» spiega. «Ma lavoro all’ospedale regionale. Medicina d’urgenza.» Un altro medico in quella casa, penso, e mi auguro che sia più felice di Clarence Jordan, il quale voleva tenere sotto controllo la moglie e cercava di farlo con discrezione, probabilmente affidandosi alla sua nota amicizia con il presidente dell’agenzia di stampa che all’epoca possedeva vari giornali, stazioni televisive e radiofoniche locali, una persona che il dottor Jordan frequentava presso i comitati di assistenza e le fondazioni benefiche e che era in grado di fermare le notizie che rischiavano di arrivare alla stampa. I giornali non avevano fatto parola del ripetersi di trasgressioni da parte della signora Jordan, una serie di episodi tristi e umilianti iniziata nel gennaio 2001 quando venne arrestata per furto in un negozio perché aveva nascosto sotto i vestiti un abito costoso e non aveva tolto la targhetta dell’allarme. Forse un grido d’aiuto per richiamare l’attenzione del marito, ma forse qualcosa di più maligno, ho pensato leggendo la documentazione di Lucy. La signora Jordan sembrava comportarsi in modo da punire un marito che la trascurava e che nutriva rigide aspettative sul ruolo della moglie e sul comportamento che doveva tenere; lei rispondeva demolendo il suo orgoglio, la sua immagine, i suoi standard impossibilmente alti. Neppure due mesi dopo l’episodio del taccheggio al centro commerciale Oglethorpe, finì con l’auto contro un albero e fu accusata di guida in stato di ebbrezza; quattro mesi più tardi, in luglio, telefonò alla polizia e – sotto l’effetto dell’alcol e in toni bellicosi – denunciò che la casa era stata svaligiata. Le passarono un investigatore e nella deposizione lei dichiarò che la cameriera aveva rubato una collezione di monete d’oro che valeva almeno duecentomila dol-
lari e che era nascosta in soffitta, dietro l’isolamento del tetto. La cameriera non venne indagata e l’accusa venne archiviata quando il dottor Jordan informò la polizia di avere da poco nascosto l’oro in un altro posto, riferendo che si trattava di un investimento risalente a vari anni prima. Era al sicuro all’interno della casa e non era sparito nulla. E dov’era finito quell’oro tra il mese di luglio e il 6 gennaio? Suppongo che il dottor Jordan potrebbe averlo venduto, anche se per tutto il 2001 il prezzo dell’oro era ai minimi assoluti ed era quotato a meno di trecento dollari l’oncia. Così commentava Lucy, e anche a me pare strano che Jordan non aspettasse che la quotazione risalisse, soprattutto se aveva quell’oro da parecchio tempo. Non c’è alcuna indicazione che avesse bisogno di denaro. La sua dichiarazione del 2001 indicava guadagni e redditi da investimento per un ammontare superiore al milione di dollari. Qualunque cosa sia successa all’oro, pare chiaro che si sia dileguato come gli assassini. Non c’è alcun riferimento a beni rubati e i rapporti degli investigatori indicano che i gioielli e l’argenteria non erano stati toccati. Senza dubbio non fu Gloria Jordan ad allontanarsi con quella piccola fortuna in oro, magari dopo che era stata lei a nasconderlo l’ultima volta, probabilmente il pomeriggio prima di essere uccisa. Anche se nessuno saprà mai cosa sia esattamente successo, ho una mia teoria basata sui fatti che sono venuti a mia conoscenza poco fa. Penso che Gloria Jordan avesse inscenato un furto con scasso per spiegare la scomparsa di quello che lei stessa intendeva rubare, poi avesse deciso di non dividere il bottino con i complici, o col complice, dicendo loro di non essere riuscita a trovarlo: il marito doveva averlo nascosto di nuovo e lei era terribilmente dispiaciuta, ma non era colpa sua. Posso solo immaginare cos’abbia detto all’arrivo della sua complice, o più probabilmente delle sue due complici, ma credo che la signora Jordan si sia scontrata con una forza del male assai più intelligente e crudele di quel che poteva evocare nei suoi peggiori incubi. Scommetto che nelle prime ore del mattino del 6 gennaio sia stata costretta a rivelare il nascondiglio dell’oro e, mentre era in giardino accanto alla vecchia cantina sotterranea, abbia ricevuto la prima coltellata. Forse come avvertimento. O forse era l’inizio dell’aggressione. Lei è corsa a rifugiarsi in casa, dove è stata uccisa. Il suo corpo è stato poi trasportato al piano di sopra, per essere collocato in una posa oscena accanto al marito ucciso. «Così ci siamo guardati attorno e, lo ammetto, sono rimasto impressionato da questa casa fantastica» ci sta raccontando Gabe Mullery. «A un prezzo straordinariamente buono. Poi l’impiegato dell’agenzia immobiliare ci ha raccontato nei particolari quello che è successo qui nel 2002 e non mi sono più stupito che l’acquisto fosse un vero affare. Ammetto che non mi entusiasmava affatto quella storia di un vecchio delitto, il karma della casa o come si voglia chiamarlo, ma non sono superstizioso. Non credo ai fantasmi: la sola cosa che sono arrivato a temere sono i turisti, gli idioti che hanno l’intelligenza e l’educazione di un piccione.
Non voglio un’atmosfera da luna park in casa mia, adesso che si torna a parlare della sua esecuzione.» Non ci sarà nessuna esecuzione, me ne assicurerò io. «È proprio una vergogna che non sia andata come previsto, che il giudice l’abbia rinviata. Vorremmo che fosse tutto finito, che potessimo tornare nell’anonimato ed essere dimenticati. Per fortuna, prima o poi la gente la smetterà di voler visitare la casa.» Farò tutto il possibile per assicurarmi che Lola Daggette non finisca mai nella camera della morte e forse verrà il momento in cui non avrà più nulla da temere. Né Tara Grimm né le punizioni del carcere né “Vendetta”, a cui pagare il suo prezzo, e magari quel prezzo si chiama Roberta. Qualsiasi sostanza può diventare velenosa se ne assumi troppa, compresa l’acqua, diceva il generale Briggs, e chi potrebbe conoscere le medicine e i batteri e le loro potenzialità letali meglio di una farmacista, un’alchimista del male che trasforma un medicinale prodotto per guarire in una pozione di sofferenza e di morte? «Mi spieghi cosa vuole vedere» mi dice Gabe Mullery. «Non so se potrò aiutarla. Prima di noi, qui abitava un’altra famiglia e non so assolutamente come fosse la casa quando sono state uccise quelle persone.» La cucina è irriconoscibile, completamente rifatta, con armadietti nuovi, elettrodomestici in acciaio inossidabile e il pavimento di lastre in granito nero. La porta che dà sul giardino è solida, senza vetri, proprio come ha detto Jaime, e mi chiedo come lo sapesse, ma posso fare un paio di ipotesi. Non avrebbe esitato a venire qui e a farsi aprire, magari fingendosi una turista che s’era persa da queste parti, ma di certo sarebbe stata anche capace di dare la propria identità e di spiegare che cosa volesse. Noto il computer portatile in un punto della cucina dove non c’è posto a sedere per lavorarci. Sul tavolo c’è una tastiera wireless e vedo sensori a tutte le finestre, un aggiornato impianto d’allarme che potrebbe anche includere qualche telecamera. «Fate bene ad avere un buon antifurto» osservo, rivolta a Gabe Mullery. «Considerando la curiosità della gente verso questo luogo.» «Certo, e si chiama Browning calibro 9. Ecco il mio antifurto.» Sorride. «L’impianto d’allarme è roba di mia moglie, sensori di rottura dei vetri, radar volumetrici, videocamere, tutta quella roba da smanettatori di computer. Teme sempre che la gente pensi di trovare droghe in casa nostra.» «Sono due leggende metropolitane» dice Colin. «Che i medici abbiano in casa le droghe e che guadagnino milioni.» «Be’, io sono sempre via e lei, con il suo lavoro, qualche droga deve maneggiarla.» Ci apre la porta. «Un’altra leggenda metropolitana, che i farmacisti ne tengano in casa una scorta» dice mentre scendiamo gli scalini fino a un vialetto di lastre di pietra ed erba e sento
una musica venire dalla veranda, che è attrezzata come palestra ed è probabilmente il luogo dove Gabe Mullery si trovava al nostro arrivo. Ancor prima, probabilmente aveva tagliato l’erba. Riconosco dietro i vetri della veranda la pavimentazione di piastrelle rosse di terracotta, con una panca e alcune rastrelliere di pesi a manubrio, da culturismo. Appoggiate alla facciata posteriore della casa ci sono due biciclette con ruote piccole e telaio di alluminio ripiegabile: una rossa, con il sellino e il manubrio al massimo dell’altezza, l’altra color argento per una persona di statura inferiore. Accanto alle biciclette ci sono un tosaerba, un rastrello e sacchetti pieni di erba tagliata. «Credo sia meglio lasciare che giriate voi nel giardino» dice Mullery e vedo dal suo comportamento che non ha alcun timore di noi, né sospetta che farebbe meglio ad averlo. «Il giardinaggio non è compito mio. Quello è il regno di Robbi» continua, come se non avesse alcun interesse per quel che c’è in giardino. Del resto, non è rimasto nulla di quello che c’era all’epoca. L’osmanto odoroso, i cespugli originali, le statue, le pietre, i muri diroccati sono stati sostituiti da un terrazzo di pietra calcarea costruito direttamente sopra quella che immagino essere stata una cantina sotterranea. In fondo al terrazzo c’è un piccolo edificio dipinto di giallo, con il tetto inclinato coperto di tegole e una presa d’aria che sembra di tipo industriale; sotto il cornicione ci sono telecamere in miniatura. Finora ne ho contate tre e, dietro le siepi di bosso, ci sono un condizionatore estate-inverno e un generatore d’emergenza; le finestre hanno imposte massicce, come se la moglie di Gabe Mullery si aspettasse uragani e interruzioni di corrente, e temesse che qualcuno ne approfittasse per venire a spiare. L’edificio è bloccato su tre lati da schermi antintrusione, reticoli dipinti di bianco su cui si arrampicano Vitis coignetiae rosse e pyracantha. «E che lavoro fa, Robbi, in questo suo studio in giardino?» chiedo al marito, rivolgendogli quella che in circostanze normali sarebbe stata una domanda normale. «Prepara il dottorato in chimica farmacologica. Un corso online, adesso sta scrivendo la tesi.» Non ci rivelerebbe mai tutto questo se non fosse un grosso e forte guerriero innocente, che ignora di vivere con il nemico. «Caro? Chi c’è con te?» Una voce femminile ci giunge da dietro la casa; poi la donna compare: cammina senza fretta ma decisa, non si dirige verso il marito ma verso di me. Porta calzoni di lino color avorio e una camicetta fucsia, ha i capelli tirati indietro e non è Dawn Kincaid, ma potrebbe esserlo se Dawn non si trovasse in coma a Boston e se fosse più muscolosa, più in forma. Noto l’anello con la baguette e il grosso orologio nero, e soprattutto noto la sua faccia. Vedo Jack Fielding nei suoi occhi e nel suo naso, nella forma delle labbra. «Ciao» dice al marito, mentre fissa me. «Non mi hai detto che avevamo ospiti.»
«Sono medici legali e volevano controllare in giardino per quei vecchi omicidi» dice il bel marito, che è un dottore molto occupato, appartiene alla riserva della Marina e sta via un mucchio di tempo, lasciandola sola a fare tutto quello che le pare. «Come mai a casa così presto?» «È arrivato un poliziotto grosso e cattivo» risponde a lui mentre guarda me. «Ha fatto un mucchio di domande strane.» «A te?» «Su di me. Io ero nel retro, ma ho sentito tutto e mi sono seccata.» Mi guarda con gli occhi di Jack Fielding. «È venuto a comprare un pallone ambu e voleva sapere se avevamo un defibrillatore. Ha tempestato di chiacchiere il povero Herb, poi tutt’e due sono usciti a fumare. A quel punto ho deciso di andarmene.» «Herb è un imbecille.» «C’è ancora un mucchio di erba tagliata, per terra» si lamenta con lui, ma non si guarda attorno. Guarda me. «Sai come la odio. Per favore, assicurati di rastrellare via il resto. E non mi interessa se è un buon fertilizzante.» «Non ho ancora finito. Non mi aspettavo che tornassi a casa così presto. Penso che sarebbe ora di prendere un giardiniere.» «Perché non ci porti un po’ d’acqua e qualcuno di quei biscotti che ho preparato? Intanto faccio fare un giro ai nostri ospiti.» «Colin, mentre io do un’occhiata al giardino, o almeno quanto ne resta, forse potresti passare a Benton un mio messaggio» gli dico, ma non distolgo lo sguardo da lei e, ne sono certa, Colin ha già capito che c’è qualcosa che non va. Gli do il numero di cellulare di Benton. «Forse potresti dirgli che lui e i suoi colleghi dovrebbero proprio vedere quel che Robbi ha fatto in giardino, convertendo la vecchia cantina sotterranea in uno studio straordinariamente funzionale. Mai visto niente di simile. Robbi da Roberta, suppongo» gli dico ancora mentre continuo a guardare lei, e sento che Colin è già in comunicazione. «Sì, siamo nel giardino dietro la casa» dice tranquillamente, ma non dà l’indirizzo di dove siamo, e sospetto che Benton sia già per strada. «È esattamente quello che vorrei fare a casa mia, uno studio in cortile che sia sicuro come Fort Knox, un’area dove forse una volta tenevano l’oro prima che fosse rubato» dico davanti a Roberta Price. «Con un generatore d’emergenza e un impianto di condizionamento, un sacco di privacy e di telecamere di sorveglianza, che posso controllare dalla mia scrivania. O, ancora meglio, da lontano. Tenendo d’occhio chi viene e chi va. Se non le dà fastidio che mio marito e i suoi colleghi facciano un salto qui da lei» dico a Roberta mentre la porta della cucina si chiude.
Mi chiedo se Colin sia armato. «Price o Mullery?» chiedo a lei. «Ma probabilmente ha preso il nome di suo marito, Mullery. Il dottor Mullery e signora, che abitano in un’incantevole residenza storica che deve contenere ricordi molto speciali per la signora» le dico, in tono duro come una pietra, e mentre parlo sento in lontananza il rombo di un motore molto potente. Lei si avvicina a me, poi si ferma. Vedo ribollire la sua collera perché è spacciata e sa di esserlo, e mi chiedo nuovamente se Colin sia armato; mi chiedo anche se lo sia lei. Mentre mi pongo tutte queste domande, sono preoccupata per il marito, che potrebbe uscire di casa infuriato impugnando la calibro 9. Se Colin puntasse una pistola contro Roberta o la gettasse a terra, potrebbe finire ucciso a pugni o a pistolettate, e non voglio neppure che Colin sia costretto a sparare a Gabe Mullery. «Quando suo marito uscirà di casa» le dico mentre Colin si avvicina «lo avverta che sta arrivando la polizia. L’FBI è già per strada mentre noi parliamo. Non vorrà che suo marito si faccia male, e se ne farà se lei opporrà resistenza. Non corra. Non faccia niente, altrimenti lui si metterà in mezzo. Non capirà.» «Lei non l’avrà vinta.» Infila la mano nella borsetta; i suoi occhi sono vitrei. Respira a fatica, come se fosse estremamente agitata o stesse per assalirmi, e il rumore della grossa cilindrata è vicino, una motocicletta, mentre il marito spunta da dietro l’angolo della casa, portando con sé un vassoio e alcune bottiglie. «Sfili la mano dalla borsa. Lentamente» le dico, mentre il motore ruggisce forte e si ferma bruscamente. «Non faccia nulla che ci costringa ad agire.» «Pare che arrivino nuovi ospiti.» Il marito attraversa a lunghe falcate il prato ancora pieno di fili d’erba tagliati, e bottiglie e vassoio gli sfuggono di mano quando Roberta Price tira fuori dalla borsetta la mano che stringe una bomboletta bianca, a forma di stivale, e da un punto vicino alla casa echeggia un colpo di pistola. Roberta fa un passo avanti e scivola a terra, con il sangue che le sgorga dalla testa. Sull’erba, accanto a lei, c’è un inalatore per asmatici. Lucy corre sul prato stringendo con entrambe le mani la pistola e grida a Gabe Mullery di non muoversi. «Seduto, da bravo, e lentamente.» Lucy continua a tenerlo di mira mentre lui è immobile nel suo giardino, traumatizzato. «Devo aiutarla» grida lui. «Per l’amor di Dio, lasciate che l’aiuti!» «Seduto!» grida Lucy, mentre sento sbattere le portiere delle auto. «E tieni le mani dove posso vederle!» 041_backmatter1 DUE GIORNI PIÙ TARDI
La campana della torre del municipio rintocca lentamente, con colpi pesanti sotto la sua cupola dorata, per celebrare un Giorno dell’indipendenza velato dall’afa, che per alcuni di noi non includerà i fuochi d’artificio alla fine dei festeggiamenti. È lunedì e, mentre avevamo intenzione di partire presto per il lungo volo di ritorno a casa, ormai è quasi mezzogiorno e siamo ancora a Savannah. Prima che si arrivi alla base dell’Aeronautica militare di Hanscom, a ovest di Boston, saranno già le otto se non le nove di sera, e il nostro ritardo non è dovuto al tempo, ma ai venti dell’umore di Marino, che soffiano a raffiche e cambiano spesso direzione. Ha insistito per riportare il furgone a Charleston, dove vuole che facciamo una tappa nel caso decidesse di proseguire il viaggio con noi, perché ha detto di non essere ancora sicuro di quello che vuole fare. Potrebbe rimanere qui nel Lowcountry e passare un po’ di tempo a pescare o a pensare, o potrebbe cercare un barcone di seconda mano e decidere di prendersi un anno sabbatico, come lo chiama lui. Difficile capire se voglia tornare nel Massachusetts, e per tutta la mattina, mentre rifletteva su cosa fare di se stesso, continuava a scoprire nuovi modi per perdere tempo. Doveva andare a prendere il caffè. Doveva andare ad assaggiare un’ultima volta i toast alla Bismarck che su al Nord non sanno fare. Doveva andare in palestra. Doveva riportare al salone della Harley la motocicletta noleggiata da Lucy, per risparmiarle la fatica di portarla personalmente. Lucy s’era già dovuta sopportare gli interrogatori della polizia e dell’FBI, tutta la burocrazia, per dirla con le sue parole, che viene dopo una sparatoria, e non è una bella esperienza quando uccidi una persona e poi scopri che non cercava di prendere una pistola, ma il portafogli, la patente o magari un inalatore. Anche se il delinquente se lo meritava, finisci per pentirti della tua precipitazione, perché qualcuno metterà sempre in dubbio il tuo giudizio e non si lascerà mai convincere del contrario, ed è questo – se vogliamo essere sinceri – a stressarti più di tutto, assai più della morte della persona che hai ucciso. Marino non voleva che Lucy salisse su una moto nelle condizioni in cui era, e si preoccupava soprattutto della sua capacità di volare, in quello che giudicava il suo stato mentale stressato. Ma Lucy è perfettamente a posto. È Marino a non esserlo. Ha continuato a voler fare una commissione dopo l’altra e quando alla fine era pronto a partire per il viaggio di due ore fino a Charleston, ha deciso di prendere con sé tutte le provviste che avevo acquistato a Savannah: non potevo portarle con me sull’elicottero, ha osservato. Non che io pensassi di portarmi a casa – dalla Georgia al New England – pentole, padelle, cibi in scatola e un bruciatore a due becchi con la sua bombola, ma lui ha insistito per farseli dare. Non ha ancora avuto la possibilit di arredare la sua nuova casa di Charleston, ha spiegato mentre infilava, in scatole di cartone che si era fatto dare da un negozio di liquori, tutto quel che trovava, compresa una scatola di muesli già iniziata, vaschette usate, confezioni di detersivo per i piatti e per lavare a
mano, persino un asciugacapelli da viaggio che non poteva certo servirgli per la sua testa calva e un ferro da stiro con relativa asse che non potrà mai usare sui suoi vestiti sintetici. Ha preso tutto: spezie e vasetti quasi vuoti di olive, sottaceti, antipasti e frutta sciroppata, una banana, condimenti, cracker, tovaglioli di carta, posate di plastica, un rotolo di alluminio, una pila di sacchetti della spesa ripiegati; poi è andato da una camera all’altra e ha raccolto gli articoli da toilette dell’albergo, come se gli fosse improvvisamente venuto il vizio di accumulare. «Come quegli accattoni o come diavolo li chiama la TV» dico. «Quelli che vanno a vedere nei bidoni se c’è qualcosa che si possa ancora utilizzare, lo portano a casa e non buttano mai via niente. È una sorta di coazione, una nevrosi.» «Paura» stabilisce Benton, che ha un computer portatile sulle ginocchia e il telefono appoggiato sul tavolo, a portata di mano. «Ha paura di buttar via qualcosa, o di scordarsi dove l’ha messa, e poi di averne assolutamente bisogno.» «Okay, gli mando un altro messaggio. Niente scuse, torna a casa con noi. Non voglio lasciarlo qui da solo, non ragiona in modo lucido e si è fatto prendere dalla nuova passione dell’accumulo. Qualunque cosa dica, noi atterriamo a Charleston e, se dovesse essere il caso, andrò nel suo appartamento e lo trascinerò via a forza.» «Non gli restano molte passioni tra cui scegliere» commenta Benton, mentre scorre in fretta i suoi file. «Niente liquori e niente sigarette. Non vuole ingrassare e perciò non ha neppure il mangiare, e allora comincia ad accumulare oggetti. Sarebbe preferibile il sesso, come passione. Relativamente economica e non richiede spazio di stoccaggio.» Apre una e-mail che, da dove siedo, mi sembra dell’FBI, forse dell’agente chiamato Phil che ha telefonato a Benton poco fa. È stata una mattinata frenetica nel soggiorno della nostra suite all’hotel, nel nostro accampamento con una spettacolare vista sul fiume e sul porto. Da quando si è levato il sole, io e Benton ci siamo preparati per il ritorno al Nord, mentre esaminavamo le informazioni che continuavano ad arrivare a quella che sembrava la velocità della luce. Non sono abituata a un’indagine che viene condotta come una guerra, con molteplici attacchi su molteplici fronti, effettuati dai diversi rami dell’organizzazione militare e giudiziaria, il tutto svolto con una forza e una velocità da far girare la testa. Ma la maggior parte dei miei casi non sono una minaccia per la sicurezza nazionale e non vengono portati all’attenzione del presidente, e di solito i laboratori e i team investigativi non viaggiano a pieno regime, per usare le parole di Lucy. Finora la notizia è stata tenuta segreta ai giornali, mentre l’FBI e la Sicurezza nazionale proseguono senza soste le ricerche per assicurarsi che nessun cibo o oggetto che Roberta Price ha avvelenato sia riuscito ad arrivare a una base di trasferimento per i militari, una portaerei o un trasporto aereo pieno di soldati, un sottomarino armato di missili atomici, o sia
finito in mano a soldati impegnati a combattere su qualsiasi fronte. Le analisi e i confronti del DNA e delle impronte digitali sono stati confermati e ormai è certo che Roberta Price e Dawn Kincaid sono due diverse facce dello stesso male, gemelle identiche o cloni, come alcuni investigatori chiamano le gemelle cresciute separatamente e poi riunitesi a dare una sinergia da cui sono venute orribili tecnologie e un numero indeterminato di morti. «È la paura di quanto è successo» dico io. «È quella che porta Marino a correre avanti e indietro e a uscire dalla città. Vede tutti i giorni la morte, ma quando sono soltanto casi su cui lavori ti illudi di poterla controllare. Pensi che se arrivi a conoscerla bene, non potrà mai toccare a te.» «Fumare quella sigaretta che veniva dalla farmacia del dottor Monck è stato un rischio che ora giudica inaccettabile» risponde Benton, mentre il suo cellulare suona. «Dopo quello che ha visto nella cantina sotterranea? Lo penso anch’io» confermo. «Si rende certamente conto di quello che poteva succedergli.» «Posso suggerirti un modo di affrontare la cosa» dice Benton alla persona che lo ha chiamato. «Basato sul fatto che si tratta di una persona che si sente perfettamente giustificata. Lei ha fatto un favore al mondo, liberandolo da un mucchio di delinquenti.» Capisco che parla di Tara Grimm, che è stata arrestata ma non è ancora accusata di nessun reato. L’FBI cerca di arrivare a un accordo, è disposta a negoziare con lei in cambio di informazioni sul resto del personale del GPFW, come l’agente Macon, che potrebbe averla aiutata a somministrare la punizione che, secondo lei, spettava ad alcune recluse, uccise con la complicità di un’avvelenatrice diabolicamente astuta, desiderosa di fare pratica. «Devi insistere su quella che per lei è la verità» continua Benton al telefono. «Quella donna è convinta di non avere fatto niente di male. Dando a Barrie Lou Rivers un’ultima sigaretta con il filtro impregnato di... Certo, devi dirglielo senza mezzi termini, ma premettendo che comprendi bene come le sembrasse la cosa giusta da farsi... Sì, ottimo modo per dirglielo. Stava per essere giustiziata, doveva morire in qualsiasi caso ed era una fine assai misericordiosa rispetto a quello che lei faceva alle sue vittime, avvelenate in modo cronico con l’arsenico. In realtà non c’è niente di misericordioso nel far fumare una sigaretta impregnata di tossina botulinica, è una morte orrenda, ma questa parte lasciala perdere.» Benton finisce di bere il caffè mentre ascolta. Fissa il fiume e infine dice: «Insisti sul modo in cui lei giudica se stessa. Certo, dille che neanche tu sopporti i delinquenti e che puoi capire la tentazione di farsi giustizia da sé... Sì, la teoria è quella. E forse Tara Grimm, che devi ricordarti di chiamare direttrice Grimm, per riconoscere la sua autorità... certo, si tratta sempre di autorità, di potere, capisci. Forse, dicevo, sarà lei stessa a rivelare se è stata una sigaretta o l’ultimo pasto, ma lei non ha fatto altro che assicurarsi che Barrie Lou Rivers e le altre avessero quello che si meritavano, ha
fatto a loro quello che facevano alle vittime, magari rincarando la dose. Rigirando la lama nella ferita, per maggiore sicurezza». «Non so come farlo ragionare» riprendo io quando Benton chiude la telefonata, perché, anche se è scosso da quel che è successo a Jaime, è nella natura di Marino essere ancora più scosso da quello che poteva succedere a lui. «Non è molto forte quando si tratta di comprensione intuitiva» risponde Benton. «Ha corso uno stupido rischio. Come bere e poi salire in auto e prendere una strada dove si verificano molti incidenti. Spero che Phil faccia come gli ho detto» aggiunge cambiando discorso. Phil è uno degli agenti che ho conosciuto negli ultimi due giorni. «Quando trovi una persona del genere, devi fare leva sulla sua convinzione di avere agito per il meglio. Alimentare il suo narcisismo. Dirle che ha fatto un favore al mondo.» «Sì, alle persone che ne sono convinte. Hitler, per esempio.» «A parte che Tara Grimm non lo mostra in modo così evidente» risponde Benton. «Si presenta come la grande umanitaria che gestisce una prigione esemplare considerata un modello. Ha offerte di lavoro, colleghi che vengono a visitare il suo istituto.» «Sì, ho visto le onorificenze sulla parete.» «Il giorno che sei andata da lei» mi racconta «un gruppo che veniva da un carcere maschile della California aveva fatto il giro turistico completo e parlava di assumerla. Sarebbe stata la prima donna a dirigere quella prigione.» «Una bella beffa se finisse anche lei al Blocco B. Magari nella cella finora occupata da Lola Daggette» rispondo. «Proverò a dirlo» risponde Benton, asciutto. «Insieme al suggerimento di Lucy di chiedere a Gabe Mullery, come parente più prossimo, di autorizzare i medici a staccare la spina a Dawn Kincaid.» «Non so come andrà a finire» rispondo, anche se non sarà Gabe Mullery ad autorizzare la sospensione delle terapie che la tengono in vita. A quanto pare, Gabe non ha mai sentito parlare di lei, a parte un vago ricordo di quel nome, o di un nome simile, perché era apparsa la notizia che aveva commesso dei delitti nel Massachusetts. Sapeva che la moglie, Roberta Price, era cresciuta presso una famiglia di Atlanta: di tanto in tanto s’incontravano nelle festività, ma non sapeva nulla di una sorella. «Penso che sarà trasferita in qualche altro istituto» dico. «Nel reparto di sicurezza di qualche ospedale, dove verrà tenuta in vita da un respiratore finché non sarà giudicata clinicamente morta.» «Un rispetto assai superiore a quello mostrato per le sue vittime» commenta Benton. «È sempre così. Mi dispiace di non avere dato retta a Marino quando mi ha fatto notare gli alti livelli di adrenalina e di monossido di carbonio. Visto che nelle carceri è vietato fumare,
come si spiegavano quei livelli in Barrie Lou Rivers? Io non gli ho dato retta perché al momento non mi interessava. Pensavo a tutt’altro. Forse, se lo dirò anche a lui, eviterà di prendersela così tanto con se stesso per essere stato incauto quando è passato alla farmacia e si è lasciato offrire una sigaretta.» «E forse neanche tu te la prenderai così tanto con me per lo stesso motivo.» Benton alza la testa e mi fissa negli occhi, perché ci siamo scambiati qualche frase in tono d’accusa su quell’argomento. «Mi hai detto una cosa importante ma io pensavo ad altro. Comprensibilmente.» «Posso preparare dell’altro caffè» dico. «Buona idea. Quello di prima è stato come non berlo. Mi dispiace di non essere stato più gentile.» «L’hai detto tu.» Mi alzo mentre passa davanti alla finestra una nave, carica di un’altissima pila di container e spinta dai rimorchiatori. «Non hai bisogno di essere gentile quando si tratta di lavoro. Mi basta essere presa sul serio. Non chiedo altro.» «Io ti prendo sempre sul serio. Semplicemente, in quel momento prendevo ancora più sul serio qualcosa d’altro.» «Jaime, e poi accettare una sigaretta che poteva ucciderlo: certo che è traumatizzato» dico, perché non voglio più discutere le scuse di Benton e la cucina mi sembra improvvisamente spoglia e abbandonata, come se avessimo già lasciato l’appartamento. «E dovrà farsene una ragione, altrimenti commetterà di nuovo qualcosa di stupido, come bere o lasciare il lavoro e passare il resto della vita a pescare con quel suo amico che noleggia la barca.» Infilo una cialda di caffè nella caffettiera dell’hotel perché Marino ha portato via la macchinetta del caffè espresso che avevo comprato. «Fumare davanti al negozio dove lavora un’avvelenatrice» continuo. «Anche se in quel momento non ne avevamo ancora la certezza, ma lui era là per raccogliere informazioni. Non era un rischio che potesse ignorare.» «Che cosa gli avevi raccomandato? Di non mangiare e bere nulla, a meno che non ne fosse maledettamente sicuro» commenta Benton, mentre gli porto il caffè. «Come l’allarme per il Tylenol. Quando cominci a pensare a tutti i pericoli possibili, scopri di non fidarti più di niente. O così o negare il rischio. Dopo quello che ho visto, probabilmente sceglierò la negazione.» Ritorno nel cucinino; i miei pensieri corrono alla vecchia cantina sotterranea dietro la bella casa antica dove Roberta Price aveva collaborato ad assassinare un’intera famiglia quando aveva solo ventitré anni. «Altrimenti non potrò mai più bere o mangiare nulla, o comprare qualcosa al supermercato» aggiungo.
Mi chiedo se abbia mai usato l’arma che abbiamo trovato, un coltello a serramanico con la lama di acciaio inossidabile lunga sette centimetri e la guardia a forma di aquila dalle ali aperte, che corrisponde alla dimensione delle ferite e alle strane abrasioni lineari degli omicidi Jordan. Immagino invece che pugnalare a morte le vittime fosse la specialità di sua sorella Dawn, mentre Roberta preferiva uccidere indirettamente e a distanza. Sospetto che abbia conservato il coltello come souvenir o come icona, tenendolo per tanti anni in una scatola di bois-de-rose, in un vano sotterraneo costruito in modo assai sofisticato, con il controllo della temperatura e dell’umidità e il condizionamento indipendente. All’interno della cantina convertita, accessibile da una botola nel pavimento dello studio, nascosta sotto un tappeto, c’era una straordinaria collezione di sigarette di tutti i tipi e di pasti pronti, di iniettori e altri prodotti che Roberta Price riempiva con le regolari ordinazioni di tossina botulinica di tipo A che effettuava presso alcune compagnie cinesi che spediscono il prodotto senza fare domande o quasi. La squadra HatMaz per il recupero dei materiali pericolosi ha trovato, oltre a quelle cose orribili, anche vecchie buste e vecchi francobolli con la colla da inumidire; non solo carta da lettere con i palloncini e francobolli con la spiaggia e l’ombrellone, ma una grande varietà di vecchia carta da lettere e vecchi francobolli ordinati su Internet. Gran parte di quel materiale era destinato ai detenuti, penso, perché francobolli e carta da lettere, di qualsiasi tipo, risultano assai graditi alle persone incarcerate e ansiose di comunicare con l’esterno. Probabilmente non sapremo mai quante persone ha ucciso, scegliendo una morte atroce dai sintomi simili a quelli dei forti attacchi d’asma di cui soffriva non solo lei, ma anche la gemella a lei sconosciuta, tutt’e due nate il 18 aprile 1979 al Savannah Community Hospital, a pochi chilometri dal GPFW. Separate da piccole, nessuna delle due aveva saputo dell’esistenza dell’altra, almeno fino a qualche mese dopo l’11 settembre, quando Dawn decise di scoprire l’identità dei suoi genitori biologici, giungendo così alla scoperta di avere una gemella identica. Nel dicembre del 2001 si incontrarono per la prima volta a Savannah, tutt’e due afflitte da quelli che Benton chiama gravi disturbi della personalità. Sociopatiche, sadiche, violente e incredibilmente intelligenti, entrambe avevano fatto scelte stranamente simili. Dawn Kincaid aveva discusso con un reclutatore dell’esercito la possibilità di arruolarsi dopo il college ed era interessata alla sicurezza informatica e all’ingegneria medica; a migliaia di chilometri da lei, sulla Costa Orientale, Roberta si era informata sulla possibilità di ricevere un insegnamento scientifico entrando in Marina. Separatamente e indipendentemente, sulle sponde opposte del paese, Roberta e Dawn erano state rifiutate a causa della loro asma e si erano iscritte a programmi per neolaureati. Dawn aveva studiato scienza dei materiali a Berkeley, mentre Roberta si era iscritta alla fa-
colt di farmacia di Athens, in Georgia, e nel 2001 aveva iniziato a lavorare al negozio della catena Rexall vicino alla casa dei Jordan. Nei fine settimana e durante le feste distribuiva metadone presso la comunità Liberty House, dove aveva conosciuto Lola Daggette, una ex eroinomane in terapia di disintossicazione. Le ultime affermazioni fatte da Lola agli investigatori concordano con quello che aveva detto a Jaime. Lola non aveva alcuna conoscenza diretta di quel che era successo nelle prime ore del mattino del 6 gennaio, una domenica, quando Roberta era di turno per distribuire il metadone nell’ambulatorio, che si trovava sullo stesso piano della stanza di Lola, che non aveva serratura. Una tossicodipendente con significativi limiti intellettivi e problemi a controllare la collera costituiva il facile bersaglio di una falsa accusa. Anche se non è possibile ricostruire esattamente l’accaduto, pensiamo che Roberta sia entrata in camera di Lola, in un momento indeterminato del sabato, e abbia preso dal suo armadio un paio di calzoni, una maglia e un giubbotto, e che lei o Dawn li abbia indossati mentre commettevano i crimini. In seguito Roberta è entrata nella camera di Lola mentre lei dormiva, ha lasciato sul pavimento del bagno i vestiti insanguinati e, alle otto del mattino, ha aperto l’ambulatorio per distribuire il metadone. «La morte è una faccenda profondamente personale e solitaria e nessuno è realmente preparato ad accoglierla, per quanto ci si ripeta di esserlo» dico a Benton mentre mi siedo con il mio caffè. «Per Marino è più facile pensare ai problemi di Lucy. O ossessionarsi per fare in modo che la sua dispensa sia piena.» «È nella fase dello scambio simbolico.» «Lo penso anch’io. Se ha la cucina ben piena, se ha tutto il cibo e le attrezzature per cucinarlo, non rischia di morire di fame» rispondo. «Se faccio A e B, allora C non può succedere. Ha avuto un tumore alla pelle, e all’improvviso decide di divenire imprenditore e fondamentalmente di smettere di lavorare per me. Forse è anche quello uno scambio. Se avviene un grosso cambiamento nella tua vita, significa che hai ancora un futuro.» «Credo che il fattore principale sia stato Jaime.» Mentre parla, Benton controlla la posta. «Non il tumore. Lei riusciva sempre a intortarlo, a fargli credere che il meglio doveva ancora venire. “Presto ti succederà qualcosa di magico.” Stare con lei legittimava la sua illusione di non avere bisogno di te, Kay. Di non avere passato metà della sua vita correndo con te da un posto all’altro.» «Brutta cosa se non riuscirò a intortarlo un po’ anch’io» commento, mentre suona il campanello. «E, peggio ancora, se pensa di avere sprecato con me metà della sua vita.» «Non ho detto che l’abbia sprecata. Io so di non avere sprecato niente.» Benton mi bacia. Ci baciamo di nuovo e ci abbracciamo, poi andiamo alla porta. Colin è in corridoio con un carrello per i bagagli di cui non abbiamo bisogno, perché Lucy ha già portato i nostri fino
all’elicottero. «Non lo sapevo» risponde Colin, spingendo verso l’ascensore il carrello vuoto. Poi commenta: «Mi ero abituato ad avervi qui in giro». «La prossima volta speriamo di portare in città qualcosa di meglio» dico io. «Con voi del Nord non succede mai. Trasformate in cannoni le campane delle nostre chiese, bruciate le nostre fattorie, fate saltare in aria i nostri treni. C’è un piccolo cambiamento di programma: andiamo all’ospedale invece che all’aeroporto. Non perché sia molto più vicino, ma perché Lucy non vuole essere costretta a badare alla torre di controllo e a tutta quella gente che va in giro vestita da cetriolo, espressione che non credo si debba intendere alla lettera.» «Militari» spiega Benton. «Ah, tute di volo, quelle verdi, suppongo. Mi chiedevo di chi parlasse, mentre chiacchierava di loro a duecento all’ora, e immaginavo persone mascherate da ortaggio» continua Colin, e non sono certa che scherzi. «Comunque, penso che i controlli siano molto stretti, sia lì sia all’aeroporto militare di Hunter. A quanto ho capito, fanno i controlli sull’idoneità dei piloti e lei ne ha già fatto uno e non ne vuole più sapere. Mi ha detto di avvertirla quando siamo vicino all’ospedale. Non vuole attendere sulla pista e doversi allontanare se arriva un’eliambulanza. In quell’ospedale è poco probabile, ma preferisce non correre rischi.» Entriamo nell’ascensore e la cabina di vetro comincia a scendere, passando sotto balconi coperti di rampicanti, e per un momento immagino le carcerate che lavorano nel cortile della prigione e portano i cani al guinzaglio, come spettri delle loro precedenti personalità, seviziatrici e seviziate, e poi rinchiuse in un luogo dove è in corso una segreta ricerca di morte. Immagino Kathleen Lawler e Jack Fielding la prima volta che si sono visti in quel ranch per giovani disadattati, un rapporto da cui ha preso le mosse una serie di avvenimenti che hanno cambiato molte vite e ne hanno distrutto per sempre molte altre, comprese le loro. «Se trovate dei biglietti per i Bruins o, meglio ancora, per i Red Sox, potrei anche venire a farvi visita, una volta o l’altra» dice Colin. «Be’, se mai ti venisse voglia di lasciare il Georgia Bureau.» Passiamo nell’atrio, diretti verso l’afa che regna all’esterno e una corsa surriscaldata e piena di vento. «Veramente non stavo pensando di cambiare lavoro» dice mentre saliamo sulla Land Rover. «Hai un invito permanente a Cambridge» gli rispondo. «Abbiamo dei buoni quartetti vocali, da noi, e questa macchina non manca di riscaldamento» aggiungo mentre lui aziona il ventilatore. «Probabilmente se la cava altrettanto bene con le valanghe, le tormente e le tempeste di neve.»
Chiamo Marino al telefono e, dal rumore, capisco che è ancora nel furgone diretto a Charleston, o da qualche altra parte. Non ho idea di cosa abbia in mente. «Dove ti trovi?» gli chiedo. «Trenta minuti a sud» risponde con aria sconfitta, forse triste. «Dovremmo arrivare a Charleston verso le due e ho bisogno di trovarti laggiù» rispondo. «Non so se...» «Be’, lo so io, Marino. Ceneremo tardi, festeggeremo il Quattro Luglio con qualcosa di buono da mangiare, andremo tutti insieme a riprendere i cani» gli dico, mentre cominciamo a intravedere il vecchio ospedale. Inaugurato poco dopo la Guerra civile, il Savannah Community Hospital, dove Kathleen Lawler partorì le gemelle trentadue anni fa, è di mattoni rossi con le finestre bianche e fornisce servizi di medicina generale, ma non di pronto soccorso. Ormai è raro che arrivino le eliambulanze, spiega Colin. L’eliporto è una piccola area erbosa con una manica a vento arancione un po’ sfilacciata, circondato da alberi che si agitano e perdono le foglie quando il nero 407 scende rumorosamente e si posa con leggerezza sul retro dei pattini. Gridiamo arrivederci a Colin in mezzo al rumore dell’elica e io salgo sul sedile anteriore di destra e Benton si siede dietro, agganciamo le cinture di sicurezza e infiliamo i caschi. «Una pista molto piccola, questa» dico a Lucy, che, vestita di nero, controlla i suoi strumenti e fa quello che le piace di più, sfidare la gravità ed evitare gli ostacoli. «Una pista così vecchia che si dimenticano di potare gli alberi» sento la sua voce dall’auricolare, mentre l’elicottero si stacca da terra, poi s’innalza lasciando l’ospedale sotto di noi. Colin diventa sempre più piccolo e agita le braccia mentre noi saliamo verticalmente, sempre più in alto, al di sopra degli alberi. Poi procediamo in orizzontale e viriamo verso gli edifici e i tetti della città vecchia. Oltre quella c’è il fiume e noi lo seguiamo fino al mare, dirigendoci a nordest verso Charleston e poi verso casa. 042_copyright Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche.
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