JONATHAN CARROLL MELE BIANCHE (White Apples, 2002) A Andrea L. Padinha: Prima studente, poi amico, e per sempre mio eroe...
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JONATHAN CARROLL MELE BIANCHE (White Apples, 2002) A Andrea L. Padinha: Prima studente, poi amico, e per sempre mio eroe e Neil Gaiman E Grazie mille a Niclas Bahn, Boris Kiprov e Chris Rolfe Per avermi mantenuto in pista mentre scrivevo Mele Bianche Love, sleep and death go to the same sweet tune; Hold my hair fast, and kiss me through it soon. A.C. SWINBURNE, In the Orchard Dio ricoperto di cioccolato La Pazienza non vuole mai aprire la porta al Dubbio, poiché è un ospite sciagurato. Usa tutto ciò che è tuo senza fare attenzione a non distruggere quanto hai di più fragile e insostituibile. Se ciò accade, si limita a scrollare le spalle e se ne va. Senza chiedere il permesso, porta spesso con sé amici equivoci: la diffidenza, la gelosia, l'avidità, e tutti insieme si mettono a spadroneggiare e a cambiare la disposizione dei mobili nelle tue stanze come vogliono. Parlano bizzarre lingue misteriose senza preoccuparsi di tradurre quel che dicono. Cucinano strani piatti nel tuo cuore che lasciano strani odori e sapori ancor più strani. Quando finalmente se ne vanno, che ne sarà di te? Ti lasceranno felice o addolorato? Rimane soltanto la Pa-
zienza con la ramazza in mano. A lei piacciono le candele in camera da letto. Per quel che lo riguarda, le candele si accendono in chiesa, sulle torte di compleanno e quando va via la luce. Ma non gliel'ha mai detto, neanche per scherzo. È molto sensibile: prende sul serio tutto quello che lui le dice. Quando l'aveva conosciuta, si era subito reso conto di poterla ferire facilmente, sin troppo facilmente. Una sola parola storta o un commento sarcastico erano abbastanza per demolirla. Gli aveva confessato di avere superato da poco la fase in cui si sentiva in dovere di compiacere il mondo intero. Diceva cose di questo genere. «Mi drogavo anche se mi faceva orrore. Ma volevo essere amata dal mio ragazzo, così mi facevo insieme a lui. Da vera vigliacca». Ammetteva i propri errori. Gli aveva quasi subito rivelato alcuni dei suoi segreti più nascosti, una cosa che l'aveva affascinato e sconcertato al tempo stesso. Ne era un po' innamorato. Passeggiando in città un giorno, era passato davanti al suo negozio. Quando si trattava di una donna, gli occhi di Vincent Ettrich erano più insaziabili di qualunque altra parte del suo corpo. Anche senza che lui ne fosse consapevole, registravano ogni più piccolo dettaglio di una donna: cosa indossava, come fumava, se aveva i piedi grandi o piccoli, il modo in cui si scostava i capelli dal viso, la forma della sua borsetta, il colore delle unghie. Qualche volta doveva passare qualche secondo prima che si rendesse conto di un particolare che la sua mente aveva già provveduto ad annotare: una sfumatura, un suono, un'impalpabile scia di profumo. Allora si voltava a guardare e aveva invariabilmente modo di constatare l'infallibilità dei propri sensori inconsci: il riflesso di un raggio di sole su una camicetta di seta verde tesa su un seno prorompente; una mano posata su un tavolino, imprevedibilmente tozza e ruvida in una signora così chic; o due inconsueti occhi a mandorla dietro un giornale sportivo francese. O semplicemente un sorriso radioso che trasfigurava il viso di una donna qualunque. Il giorno in cui si erano incontrati, Ettrich era passato davanti al suo piccolo negozio. Aveva fatto quella strada chissà quante volte per andare al lavoro, ma non aveva mai guardato dentro. Oppure, se l'aveva fatto, quel che aveva visto non gli era rimasto particolarmente impresso, un elemento qualunque del suo scenario quotidiano, delle quinte della sua vita. Quel giorno guardò ed eccola lì, che lo fissava. Qual era la prima cosa che aveva notato di lei? Più tardi, cercando di ri-
cordare quel momento, non aveva saputo rispondere. La porta di vetro del negozio era chiusa. Lei guardava dritto verso di lui. Piccolina. Forse era quella la prima cosa che l'aveva colpito. Era piccolina e aveva il volto sottile e sensuale di un angioletto. Uno di quei cherubini che si nascondono nell'angolo di un affresco di una chiesetta di campagna in Italia, con un'espressione celestiale dietro cui si cela, però, anche qualcos'altro: un'aria birichina e maliziosa. Il che significava che a fare da modella per quella creatura divina era stata probabilmente l'amante del pittore. Indossava un abitino azzurro estivo appena sopra il ginocchio. Ettrich non era stato rapito dal suo aspetto come talvolta gli capitava, ma rallentò e poi fece una cosa strana. Si fermò e la salutò. Un gesto veloce, con la mano sollevata più o meno all'altezza del petto. E subito si domandò: perché lo sto facendo? Sono impazzito? All'improvviso le sue narici furono colpite da un intenso odore di pizza calda. Si girò e vide un tipo poco lontano con una grossa scatola di cartone bianca e rossa in mano. Quando tornò a voltarsi verso il negozio, la ragazza dietro la porta di vetro gli stava facendo ciao con la mano. Per un istante, un secondo e mezzo, gli venne da chiedersi: perché mai muove la mano così? Mi sta salutando? Era un gesto carino, molto femminile: la mano destra, accostata al petto, si muoveva rapidamente di qua e di là come un tergicristallo. Ne fu affascinato. Gli piacque anche il modo in cui sorrideva: un sorriso caldo, aperto, senza alcuna incertezza. Decise di entrare. «Ciao», esordì deciso, con un tono sereno e allegro. Era nel suo elemento: Vincent Ettrich aveva abbordato talmente tante donne in tutti quegli anni che le inflessioni della sua voce avevano raggiunto un grado di precisione quasi scientifica. Così la salutò in modo vivace e amichevole, che bello vederti! Senza niente di ambiguo, o di macho, o di sexy. Se le cose andavano bene, vi poteva sempre far ricorso più avanti. «Ciao». Era un piccolo ciao, simile a quello di un bambino che vorrebbe venirti incontro a braccia aperte, ma ha un po' paura di farlo. Aveva girato il palmo della mano contro il petto, posandolo sul seno sinistro come se volesse sentirsi il battito del cuore. «È stato così carino. Mi ha fatto piacere che tu l'abbia fatto». Buio totale. «Fatto cosa?». «Che tu mi abbia salutato. Anche se non ci conosciamo. È stato un piccolo regalo da uno sconosciuto». «Non ho potuto resistere». Lei aggrottò la fronte e guardò altrove. Non le era piaciuta quella frase.
Non aveva voglia di sentire un altro uomo che le diceva che era carina e che desiderava conoscerla. Voleva soltanto un saluto inatteso da uno sconosciuto per poi tornare alla propria vita. «Ti avevo visto prima che tu ti accorgessi di me», disse, sempre senza guardarlo. «Passo spesso qui davanti, ma non avevo mai guardato dentro». Ettrich si guardò attorno: sorrise e si mise a ridacchiare. Era in mezzo a una distesa di biancheria femminile. Scatole e scatole di biancheria femminile bianca, color pesca, nera, color malva... Reggiseni e slip, tanga e mutandine color melanzana, camicie da notte trasparenti. Tutto quel che le donne amano indossare e gli uomini sfilar loro di dosso. Ettrich aveva una passione per i negozi di biancheria. Era entrato in chissà quanti e vi aveva comprato un'infinità di cose per tantissime donne. «Una seconda?». «Come, scusa?». Agitò un dito in direzione del torace di Ettrich: «Mi domandavo se porti la seconda di reggiseno». Sorrise: un sorriso splendido, illuminato di humour e malizia. Ettrich si tuffò a pesce su quel lungolinea e glielo rinviò. «In genere le donne che vengono nel tuo negozio sono soddisfatte del proprio seno? Tutte quelle che ho conosciuto io pensano di avere il seno o troppo grosso o troppo piccolo. Sempre meglio non toccare l'argomento seno con una donna». Attese un istante per vedere se lei coglieva l'allusione. L'espressione di furbizia che le illuminò il viso e il modo in cui i suoi occhi si spalancarono per un attimo gli dissero di sì. Incoraggiato, proseguì. «Dev'essere dura lavorare qui». «Perché?». «Perché ogni giorno devi trovare il modo di accontentare clienti insoddisfatti del proprio equipaggiamento». Il suo sorriso questa volta fu lento a comparire. Aveva denti piccoli e un po' storti. «Equipaggiamento?». Ettrich rispose con un affondo. «Già, un equipaggiamento che tu devi dotare delle armi da battaglia più moderne e sofisticate». Il braccio della ragazza disegnò un arco intorno a sé. «È questo che sono, strumenti da battaglia?», gli chiese continuando a sorridere. Lo trovava divertente. Ettrich era riuscito a sfondare. Afferrò un reggiseno di raso color rame sul bancone e lo sollevò come se
fosse un elemento di prova in un processo. «Mettilo su una bella pelle scura e otterrai un'arma doppia». Lo ripose e prese al suo posto un tanga blu pervinca che pesava meno di un soffio. «Questo invece è un missile terraaria. Letale a qualunque distanza». «Con questo metti il tuo ragazzo KO?». Ettrich annuì. «Esatto. E non esiste assolutamente nulla di simile per gli uomini. Te ne rendi conto? Non c'è nulla che un uomo possa indossare che abbia sulle donne lo stesso effetto che queste cose hanno su di noi. Non è giusto». Lo stava squadrando. Quel tipo era un po' troppo impertinente oppure cercava soltanto di essere spiritoso? Era ora di chiudere quella conversazione? Gli sembrò quasi di vedere un punto interrogativo sopra la testa. Erano giunti a una svolta importante: dopo il primo ciao e il primo scambio di battute, era venuto il momento del «E il caso di proseguire oppure no?». Ora la palla era nelle mani di lei ed Ettrich era proprio curioso di vedere cosa avrebbe fatto. «Come ti chiami?». «Vincent. Vincent Ettrich». Lei gli stava per porgere la mano ma poi per qualche misteriosa ragione la ritirò. Lui rimase interdetto per qualche istante finché lei non disse: «Io mi chiamo Coco. Coco Hallis». «No! Davvero ti chiami Coco? Sorprendente!». «Perché?». «Perché è un nome poco comune eppure conosco un'altra ragazza che si chiama così». Era evidente che lei non gli credeva, nonostante fosse la verità. Ettrich sentì che il delicato germoglio che li univa stava per sfiorire, così optò per una mossa a effetto. Estrasse di tasca il cellulare e fece il numero. Lei incrociò le braccia e spostò il peso del corpo sui tacchi: un gesto che chiaramente significava: «Voglio proprio vedere». Si avvicinò il telefono all'orecchio e rimase un istante in attesa, quindi glielo porse rapidamente. «Senti!». Lei lo accettò con una certa titubanza e lo portò all'orecchio appena in tempo per sentire all'altro capo una voce femminile dire con tono deciso e professionale: «Ciao, sono Coco. Sono all'estero per due mesi. Mi puoi chiamare a Stoccolma al...». Coco Due restituì il telefono a Ettrich senza ascoltare la fine del messaggio. «Davvero incredibile. Quante possibilità c'erano che accadesse una
cosa del genere? Cosa fa?». Ettrich s'infilò di nuovo il telefono in tasca. «Esplorazioni petrolifere. Viaggia per il mondo alla ricerca di nuovi giacimenti petroliferi. Ritorna da posti come Baku e il Kirghizistan con delle grandi storie su...». «E tu cosa fai, Vincent?». Eccoli arrivati alla fase numero due. Ettrich aveva spesso successo nei preamboli perché era in grado di indovinare con facilità e prontezza quale sarebbe stata, o avrebbe potuto, o dovuto essere la mossa successiva. Ma un lavoro in un'agenzia di pubblicità non era una cosa che colpiva particolarmente nessuna donna a meno che non fosse anche lei nello stesso campo. No, le donne volevano essere ammaliate da un uomo e dalla sua professione. Non ce n'era una che non si immaginasse tra le braccia di un titano, di un genio o di un avventuriero, o quanto meno di un artista che avrebbe fatto giungere a sublimi vette d'ispirazione. «E tu cosa fai, Vincent?». Quante volte si era sentito rivolgere quella domanda in tutti quegli anni dietro alle donne? Che cosa faceva? Cercava di convincere la gente a comprare assorbenti, ketchup e automobili mediocri. Spalmava in faccia al pubblico colori, desideri e corpi avvenenti per convincerlo a comprare i prodotti dei suoi clienti. Ecco cosa faceva, anche se in realtà col tempo aveva imparato a modificare abilmente la sua risposta. «Consulente creativo» era una delle sue definizioni preferite, malgrado non volesse dire praticamente nulla. Ma aveva imparato da tempo che gli occhi delle donne si illuminavano quando sentivano la parola «creativo», così la usava ogni volta che poteva. «Sono un pilota di mongolfiere professionista», disse a Coco Due. Lei scoppiò in una risata fragorosa mentre allontanava da sé quell'idea ridicola con un gesto d'incredulità. «No, non è vero!». Era esattamente la reazione che aveva desiderato Ettrich. Aveva fatto bene i suoi calcoli. «Non ci credi?», le domandò con un sorriso innocente. «No, che non ci credo. Ti vesti sempre in giacca e cravatta per andare in mongolfiera?». «Non si sa mai chi potrei finire per incontrare», rispose con voce calma e sicura. Malgrado lei gli avesse appena dato del bugiardo, lui non aveva battuto ciglio. «No, sul serio, Vincent, cosa fai?». «L'operatore di gru». «Gru?». «Sì, sai quegli uccelli con le zampe lunghe lunghe...».
Questa volta la risata fu meno prorompente ma altrettanto spontanea. Voleva dire che le sue battute la divertivano. «Dai, dimmi la verità!». «Friggo patatine. Hai presente, no? Le immergo nell'olio, con un gran berretto in testa...». Con alcune donne funzionava a meraviglia. Distraile, falle ridere e continua fino a che non senti la loro risata smorzarsi e non vedi far capolino una lieve irritazione. A quel punto, quando dici loro la verità, la accolgono con gioia, quasi con gratitudine. Ettrich vide l'ilarità scomparire dagli occhi di Coco mentre un gran sorriso illuminava ancora la sua bocca. A quel punto, se lui non cambiava registro, si sarebbe infastidita o avrebbe pensato che era un po' fuori di testa. «Lavoro nella pubblicità». «Ci sai fare?», gli domandò senza esitare. «Come, scusa?». Nessuno gli aveva mai fatto quella domanda. Almeno non dopo averlo conosciuto da meno di dieci minuti. Era seducente o imbarazzante tanta impudenza? Lei sollevò il tanga azzurrino che lui aveva preso in mano qualche momento prima e glielo lanciò. «Vendimi questo. Dimmi come mi convinceresti a comperarlo». Sì, una bella idea, divertente. Coco Due si stava rivelando un incanto di ragazza. Ettrich afferrò quel triangolino di raso e guardandolo iniziò a giocherellarci. La verità era che ci sapeva davvero fare nel suo lavoro e nel giro di pochi secondi gli venne un'idea. «Non lo venderei puntando sul fatto che è sexy, sarebbe troppo scontato. Ti puoi immaginare la scena: la solita bella ragazza sulla spiaggia, di spalle, che guarda il mare, con nient'altro addosso. E un ragazzo altrettanto affascinante dietro di lei, che la guarda. Non se ne parla neanche. Troppo banale, già visto e rivisto. È per la tivù o per una rivista?». Coco incrociò le braccia e alzò le spalle. Si era calata nella parte del cliente da convincere. «Tutt'e due. Allora niente ragazze nude?». «No, niente ragazze nude. L'erotismo si può usare per vendere prodotti noiosi, cose a cui altrimenti non si dedicherebbe un solo pensiero: crema da barba, stufe economiche. Ma nel caso di qualcosa di sexy, si deve cambiare direzione». «Vale a dire?». Ettrich aveva in tasca una cartolina che aveva ricevuto quella mattina da Kitty, la sua ex moglie. Anche se ormai lo detestava, Kitty gli mandava
spesso delle belle cartoline. Era uno dei suoi modi di comunicare con lui senza dovergli parlare. Su questa c'era uno Shar-Pei, uno di quegli strani cani cinesi marroncini con talmente tante rughe sul muso e su tutto il corpo che assomigliano a un mucchietto di caramello fuso. Aveva un gran sombrero messicano in testa e un'aria terribilmente triste. Ettrich posò la cartolina sul bancone, estrasse dall'altra tasca due cartoncini 7x12 e un grosso pennarello nero e tracciò una grossa X sul muso del cane. Coco guardò prima la cartolina, poi Vincent. Lui posò la foto del cane accanto al tanga, poi scrisse «IL MIGLIOR AMICO DELL'UOMO» a caratteri cubitali su entrambi i cartoncini e ne mise uno sopra la foto del cane con la X sopra e l'altro sopra il tanga azzurrino. «Qualcosa del genere, qualcosa che vada in questa direzione». Vincent non alzò immediatamente la testa per osservare la reazione di Coco. Con il mento appoggiato a una mano rimase a fissare il tanga, continuando a riflettere. Malgrado si trovasse nel negozio di Coco, in quel momento era immerso nel proprio mondo. Per quanto ne potesse parlare con leggerezza, il suo lavoro era importante per lui. Qualche settimana dopo la portò da Acumar. Era un posto che a Ettrich non piaceva per niente, ma del quale era un cliente abituale, visto che si trattava del ristorante preferito dei pezzi grossi della sua agenzia. Persino i camerieri indossavano eleganti e costose giacche a doppio petto, con camicia bianca e cravatta. E trattavano cibo e avventori come se temessero che da un momento all'altro ne avrebbero come minimo ricavato una macchia su una manica. Se sei un uomo di successo, esistono dei posti in cui devi andare, e pagare, unicamente per essere umiliato. È scritto che gli esseri umani debbano essere tormentati in un modo o nell'altro nel corso della loro vita. Se sei abbastanza fortunato da aver raggiunto un livello sociale per cui nessuno ti fa questo servizio gratis, allora devi pagare per ottenerlo. I ristoranti alla moda, le boutique esclusive, le concessionarie della Mercedes-Benz o il tuo allenatore personale che ti ripete ogni giorno quanto sei grasso e fuori forma non sono che alcuni esempi. «Perché questo posto si chiama Acumar?». Ettrich stava per mettere in bocca un canapè della grandezza di un ditale con sopra qualcosa che assomigliava straordinariamente alla testa di una sardina posata su un letto di denti di leone. «Credo sia il nome del proprietario».
Coco continuava a guardare dietro di sé e a voltarsi a destra e a sinistra per osservare il ristorante e gli altri clienti. Ettrich avrebbe potuto dirle che non era esattamente il comportamento migliore per un posto elegante come quello se non voleva fare la figura della sempliciotta, ma lo trovava affascinante. Era abituato a donne talmente compite che avrebbero accolto il Secondo Avvento senza battere ciglio. Coco prese dal piatto la losanghina di pane con la testa di sardina e il tarassaco, la scrutò e arricciò il naso. «Non mi piace il pesce. È lo stesso se non la mangio?». «Certo», rispose Ettrich posando anche la sua nel piatto in segno di solidarietà. «Acumar. È buffo... "Da Bill" fa subito venire in mente un posto mediocre. Chiama un ristorante "Acumar" ed ecco che uno si immagina un posto esotico e misterioso». Coco guardò il lungo menù argentato aperto davanti a lei. «Sembrano tutti buoni questi piatti, Vincent. Cosa dici che potrei ordinare? Oh, no, guarda!», esclamò fissando il menù improvvisamente accigliata. «Cosa? Cosa c'è?». «Guarda il nome di questo dessert: "Dio ricoperto al cioccolato". Non mi sembra bello, né divertente. No, non è affatto bello». Ettrich dovette nascondere un sorriso. Era davvero così rigida? «Lo trovi blasfemo?». Coco stava per rispondergli quando scorse un cameriere che passava di lì con aria indaffarata. Alzò una mano come un vigile per bloccarlo. Qualcosa nel suo gesto o nella sua espressione lo fece fermare all'istante. «Non sono il vostro cameriere, ma ve lo mando subito». «Non voglio il nostro cameriere. Voglio che lei risponda a una domanda». «Sono di corsa, davvero...». «Non m'interessa». Sia il cameriere che Ettrich, improvvisamente sull'attenti, a quel punto erano pronti a qualunque domanda. «Cos'è questo Dio ricoperto al cioccolato?». «Scusi?». «Questo dessert sul menù. Qua, vede? "Dio ricoperto al cioccolato". Che cos'è?», domandò Coco tamburellando minacciosamente sul menù con un dito. Smarrito, il cameriere si chinò un poco per vedere meglio. Poi si coprì la
bocca con una mano: «Oh, è un errore di stampa! Dovrebbe essere Dig, digestivo, ricoperto al cioccolato, non Dio! Devo dirlo immediatamente ad Acumar. Dio ricoperto al cioccolato. Be', divertente, no?». Il cameriere corse via ed Ettrich e Coco si guardarono. Nessuno dei due disse nulla finché, avendo l'impressione che quel silenzio fosse durato troppo, Ettrich esclamò allegramente: «A quanto pare hai salvato la serata ad Acumar». Lei scrollò la testa. «Dubito che ritirino tutti i menù per cambiarlo. Però dovevo dire qualcosa. Ti ha sorpreso la mia reazione, eh?». Ettrich sapeva che una bugia l'avrebbe infastidita, così le disse la verità. «Non sono molto religioso. Devo ammettere che anch'io ho trovato quel nome divertente quando l'ho letto sul menù». Non riusciva a interpretare l'espressione di Coco: il suo viso, solitamente così attivo, era come impietrito, mentre il suo sguardo era rivolto a qualcosa alle spalle di Vincent. «Vincent?». Felice della distrazione, Ettrich alzò la testa e vide Bruno Mann in piedi accanto al loro tavolo. Lavoravano per la stessa agenzia, avevano fatto diversi viaggi di lavoro insieme ed erano quasi amici. Bruno lo stava guardando con un'aria sconvolta. «Ehilà, Mannaro! Come ti va la vita?». «Ma... Vincent, sei proprio tu?». «Be', direi di sì. C'è qualcosa che non va?». Era qualche settimana che non si vedevano, ma a giudicare dal tono e dall'espressione di sorpresa di Bruno Mann, si sarebbe detto che Vincent fosse appena tornato da una missione in un'altra galassia. Continuando a fissarlo con gli occhi sbarrati, Bruno si diede un pizzicotto sulla guancia e scosse la testa incredulo. Aveva uno sguardo sbalordito e sgomento. Si volse verso Coco. Lei ricambiò il suo sguardo senza battere ciglio. «Bruno, ti presento Coco Hallis». I due si strinsero la mano con indifferenza assoluta: nessuna particolare cordialità, né un sorriso del tipo «che piacere conoscerti». Come se non fossero affatto interessati a fare la reciproca conoscenza. Il cellulare di Ettrich si mise a squillare: lo tirò fuori dalla tasca e guardò lo schermo per vedere chi lo chiamava. Kitty. La sua ex moglie non gli telefonava mai a meno che non si trattasse di qualcosa di molto importante, che di solito riguardava i bambini. Vincent chiese permesso e si alzò per andare a rispondere fuori. Quando fu in strada, con le spalle al ristorante e una mano su un
orecchio per attutire il rumore del traffico, rispose. «Pronto». «Vincent? Sono io, Kitty». «Ehilà! Che succede? Tutto a posto?». Cercava sempre di essere gentile con lei, gentile e allegro. L'amava ancora sotto diversi punti di vista, ma lei lo detestava con tutta se stessa e non l'avrebbe mai perdonato per quel che le aveva fatto e per aver distrutto il loro matrimonio. «È successa una cosa stranissima, Vincent. Non so perché abbia chiamato me. Si può dire che non lo conoscessi nemmeno. Era amico tuo; non capisco perché abbia telefonato a me». Malgrado desiderasse tornare dentro da Coco, Ettrich sorrise: Kitty parlava troppo, ma a lui non era una cosa che dispiaceva. E poi nel corso dei loro anni di matrimonio aveva imparato a distrarsi e a tornare a sintonizzarsi sulla voce di Kitty senza che lei si accorgesse di nulla dalla sua espressione. Ora, mentre lei continuava a parlare, si voltò e guardò dentro il ristorante attraverso la finestra. Fu sorpreso di vedere che Bruno si era seduto accanto a Coco e che i due stavano parlando. Coco gesticolava e puntava insistentemente il dito contro Bruno Mann come se lo stesse rimproverando. Bruno aveva un'espressione contrita e colpevole. Teneva gli occhi bassi, alzandoli solo di tanto in tanto per guardarla. «...è morto. Così. Non è incredibile? Aveva la tua età!». Ettrich vide accendersi una lucina rossa e riaprì immediatamente le orecchie. «Come? Chi è morto? Non ti sento bene. La linea è disturbata. Chi è che è morto?». «Bruno Mann. Ha avuto un infarto. Mi ha appena chiamato sua moglie. Voleva fartelo sapere, quindi non capisco perché abbia chiamato me. Sa che siamo divorziati...». Ettrich, attonito, perse per qualche istante la facoltà di concentrarsi su un pensiero qualunque. Continuava a sbattere le palpebre come se gli fosse andato qualcosa negli occhi, del tutto dimentico del telefono che aveva ancora accanto all'orecchio. «Vincent?». «Io... Kitty... Sono... Senti, ti richiamo dopo. Non ci capisco niente». Portò l'altra mano alla fronte e chiuse gli occhi. Sentiva il cuore galoppare come un forsennato: stava per schizzargli fuori dal torace. «Stai bene? Non sapevo che gli fossi così vicino», disse lei con voce esi-
tante, preoccupata. «Ti richiamo». Ettrich premette il tasto di interruzione delle telefonate prima che Kitty potesse aggiungere altro. Continuò a fissare il telefonino come per trarne qualche aiuto. Forse poteva chiamare qualcuno e domandargli: e adesso cosa faccio? Che cosa diavolo doveva fare? Rientrare nel ristorante e parlare con un morto? Com'era possibile che Bruno fosse morto e al tempo stesso fosse lì a parlare con Coco? Oppure doveva scappare? No, non voleva scappare. Né voleva guardare dentro di nuovo per vedere cosa stava succedendo, tuttavia lo fece. Bruno Mann se n'era andato. Coco era seduta da sola con il suo calice di vino rosso accanto alle labbra e si guardava intorno. Alla fine incrociò il suo sguardo e sorridendo gli fece cenno di rientrare. Il morto se n'era andato. Ma dove? Ettrich poteva andare da lei e chiederle di cosa avessero parlato. Doveva fare attenzione, però, perché Bruno poteva anche essere poco lontano e chissà cosa poteva capitare se si fosse ripresentato. Ettrich aveva un sacco di difetti ma non era un vigliacco. Con il suo telefono argenteo stretto in mano come un talismano contro gli spiriti del male, si fece forza e spinse la porta di Acumar per entrare. C'era una candela accesa al centro di ogni tavolo. Erano di un colore insolito, uno stupefacente grigio-blu che si intonava alla tinta delle tovaglie. Gliel'aveva fatto notare Coco quando si erano seduti, dicendo che le sarebbe piaciuto avere un vestito così. Mentre attraversava la sala per raggiungerla, Ettrich si ritrovò a fissare la candela sul loro tavolo. La fiamma era alta e diritta nell'aria, eppure immobile. «Vincent?». Per un attimo, una frazione di secondo, un istante brevissimo eppure spaventosamente lungo, credette di aver sentito Bruno Mann che lo chiamava. Ma poi udì di nuovo il suo nome ed era una voce di donna, la voce di Coco a chiamarlo. Poiché la sua materia grigia si era data alla fuga lasciando il suo cervello completamente vuoto, ci volle qualche secondo perché Ettrich riuscisse di nuovo a pensare con una certa lucidità. Nel frattempo Coco lo chiamò di nuovo, con maggiore insistenza: senza punto interrogativo alla fine. Non aveva ancora staccato gli occhi un istante dalla fiamma della candela. Improvvisamente si rese conto che quella che stava guardando non era più la candela blu del ristorante ma una candela gialla. Una candela gialla su un comodino accanto a un letto. Il letto in cui adesso si trovava disteso: sentiva il proprio braccio sotto di sé, lungo il fianco. Era a letto che guar-
dava la fiamma immobile di una candela gialla. L'intera scena si ricompose e si consolidò nella sua mente. Ettrich si sollevò bruscamente e un «Oh!» soffocato gli esplose in gola. Sentì Coco chiedere alle sue spalle: «Cosa? Cosa c'è? Stai bene?». Erano nel letto di Coco. Vedendo il proprio ginocchio scoperto, Ettrich si rese conto di essere nudo. Shock. Percezione della situazione. Sollievo. Tutte queste emozioni sfrecciarono dentro e intorno a lui come uno stormo di uccelli che cala in picchiata e subito si leva di nuovo in volo. Non era da Acumar, ma a letto con Coco Hallis, con lo sguardo fisso sulla sua candela gialla. Coco e le sue candele. Niente Bruno Mann. Ettrich doveva essersi addormentato e aveva avuto uno stramaledetto incubo! Coco gli posò una mano sulla schiena facendola lentamente scivolare giù, lungo la spina dorsale. «Cos'è successo? Che cos'hai?», gli chiese teneramente. «Cristo, ho appena fatto un sogno incredibile! Era dannatamente vivido, sin nel più piccolo dettaglio. Persino il colore delle candele!». Scrollò la testa e si strofinò la faccia con entrambe le mani per farsi ritornare il sangue alle guance. Le dita di lei, giunte in fondo alla schiena, si scostarono da lui. Ettrich la sentì sbadigliare. Ne fu infastidito. Aveva ancora i brividi, dopo quell'incubo che l'aveva squassato come un uragano, e lei sbadigliava. No, era ingiusto a pensare questo. L'aveva fatto lui quel sogno, non lei. Cercò di allontanare la propria irritazione. Avrebbe voluto voltarsi verso di lei, guardarla e accarezzarla per sentire la morbidezza della sua pelle. Quello sì che l'avrebbe rimesso al mondo. Coco era un'amante strepitosa. L'unica che avesse mai conosciuto che rideva come un bambino in estasi ogni volta che raggiungeva l'orgasmo. La prima volta gli aveva chiesto con un certo timore se la cosa lo disturbava. No, gli piaceva moltissimo. Perché mai avrebbe dovuto disturbarlo? Coco gli aveva risposto che alcuni uomini detestavano quella sua risata perché credevano che lei si stesse prendendo gioco di loro e nulla era in grado di convincerli del contrario. Ettrich voleva accarezzarla e fare l'amore. Mentre si stava voltando verso di lei, Coco disse qualcosa che lui non riuscì a capire. Era distesa a pancia sotto, con tutte le curve della schiena e del suo alto sedere rotondo in mostra. Non provava alcun imbarazzo a mostrarsi nuda davanti a lui, anzi gli aveva detto che le piaceva essere guardata. Il viso girato dall'altra parte, le braccia distese sopra la testa, sembrava una nuotatrice a pelo d'acqua. Ettrich le posò una mano sul sedere. Coco non si mosse. Lui fece scivolare
lentamente le dita su per la sua schiena, seguendone con voluttà gli avvallamenti e le elevazioni. La sua pelle era così calda. Era una cosa che lo faceva impazzire: la pelle di Coco era sempre calda. Ettrich salì ancora più su con la mano, fino alla scapola, e poi lungo il suo collo sottile. Coco aveva i capelli corti. Ettrich glieli scostò mentre le accarezzava la nuca. Poi si arrestò bruscamente: nella luce tremolante della candela aveva scorto una macchia scura sul collo di Coco. Aguzzò la vista per capire cosa fosse. Non riuscì a comprendere di cosa si trattasse. Non gli sembrava di ricordare che lei avesse un neo né una voglia né niente del genere sulla nuca. Le sollevò i capelli e si avvicinò per guardare più da vicino. Era un tatuaggio. Non si vedeva bene nella penombra della stanza, ma non c'era alcun dubbio, era proprio un tatuaggio. Una scritta in semplici lettere maiuscole: «BRUNO MANN». Sulla nuca di Coco Hallis era impresso il nome del suo collega morto. Ettrich balzò in piedi come se si fosse scottato. Sì, si era proprio scottato. «Che cos'è? Cos'è quel nome?». Arretrò sino al centro della stanza. Puntò un dito accusatorio contro la sua graziosa giovane amante che non si era mossa di un centimetro. Coco era rimasta immobile, distesa sulla pancia, col volto girato dall'altra parte e le braccia sopra la testa, inerte. «Coco, guardami, per Dio! Che cos'è? Cos'è quel tatuaggio?». Lei non rispose. Continuava a rimanere immobile. Per un attimo Ettrich pensò che fosse morta. Il fatto che lui avesse visto quell'impossibile tatuaggio l'aveva uccisa. No, era una follia. Avrebbe voluto avvicinarsi e toccarla. Ma desiderava anche rivestirsi il più in fretta possibile e andarsene da quel maledetto posto alla velocità della luce. «Coco!». Alla fine lei alzò la testa e si voltò lentamente verso di lui. Aprì gli occhi e lo guardò. «Cosa?». «Cos'è quel tatuaggio? Perché...?». Coco farfugliò qualcosa di incomprensibile. Sembrava quasi che stesse parlando nel sonno. «Cosa? Che cosa hai detto?». Ettrich fece due passi verso di lei. Era necessario. Doveva capire che cosa stava dicendo. A voce più alta, quasi irritata, lei ripeté: «Ho detto che il sogno l'hai fatto tu. Sei tu che conosci Bruno». Portandosi un dito sulla nuca, lo fece scorrere più volte su e giù sopra quel nome. Quel semplice gesto bastò a trasmettere a Ettrich una scarica di brividi in tutto il corpo. «Ma perché... Come fa ad essere finito li? Prima non c'era. Fino a ieri
non ce l'avevi, ne sono certo». Coco si tirò su a sedere e lo guardò. «Proprio così. È nuovo nuovo. Dio ricoperto al cioccolato, Vincent. Ti ricordi quella parte del sogno? La parte in cui hai detto di non essere molto religioso?». Ettrich rimase di sasso. Lei sapeva cosa aveva sognato! Coco si allungò verso il comodino per prendere il suo pacchetto di Marlboro. Ne tirò fuori una e la accese alla fiamma della candela gialla. La luce nella stanza tremolò mentre la fiammella si spostava dal comodino verso la sua mano e poi di nuovo indietro. Lei aspirò una lunga boccata e lasciando cadere la testa all'indietro soffiò un sottile filo di fumo grigio verso il soffitto. «Siediti, Vincent. Vieni qua a fumare con me. Ti piace fumare, no?», gli disse guardandolo con un sorriso. Ettrich obbedì e si sedette ai piedi del letto, in un angolo. Che altro poteva fare? Avrebbe voluto dire così tante cose, ma non gliene veniva in mente neanche una. «Avvicinati. Voglio toccarti», disse Coco allungando verso di lui la mano con la sigaretta. Lui scosse il capo, chiudendo gli occhi. «No, sto bene qui». Lei si distese di nuovo, lentamente, e guardò il soffitto. Inspirò un'altra boccata dalla sigaretta e tentò di fare un anello di fumo, ma non le riuscì. «Da quanto tempo ci conosciamo?». Era estremamente calma. Il mondo di Ettrich era appena imploso e lei gli chiedeva da quanto tempo uscivano insieme, per Dio. «Un mese e mezzo, due mesi. Non so. Ma parlami del tatuaggio, Coco. Per favore». «Lo farò, ma prima mi devi ascoltare con attenzione, Vincent, perché quello che ho da dirti è molto importante. D'accordo?». I suoi grandi occhi si posarono lentamente su di lui con un'espressione che pretendeva tutta la sua attenzione. Lui annuì. «Bene. Ricordi la tua vita prima che ci conoscessimo?». Era una domanda così strana e fuori luogo che Ettrich pensò di non aver capito bene. «Se ricordo la mia vita? Certo, che me la ricordo». La rabbia gli bruciava nel petto come una vampata di fiamma ossidrica. Che cosa cazzo stava dicendo adesso? «Perché non dovrei ricordare la mia vita?». «Allora ricordi anche l'ospedale? Tutto il tempo che ci hai passato dopo esserti ammalato?». Che cosa? Ettrich era sempre stato sano come un pesce. Non si era mai
ammalato. Una volta all'anno, in inverno, gli veniva un lieve raffreddore, starnutiva per tre giorni, poi gli passava tutto. Qualche volta prendeva un'aspirina per un leggero mal di testa. Nient'altro. Figuriamoci, non aveva neanche una carie. Andava dal dentista soltanto per farsi fare la pulizia dei denti. «Quale ospedale? Non sono mai stato in ospedale!». «Non ti ricordi di Tillman Reeves e Michelle Cangrosso?». «Cangrosso? Di cosa stai parlando?». Nel momento stesso in cui Ettrich pronunciò quelle parole, una scena iniziò ad addensarsi nella sua mente come una sorta di liquido che si andasse lentamente riversando in un bicchiere. Era esattamente quella la sensazione, mentre nel suo cervello si andava sedimentando l'immagine di... di un uomo di colore pallido e smunto che lo guardava ridendo. Aveva grossi denti ingialliti. Occhi e guance profondamente incavati. Stava ridendo. Dietro di lui c'era una donna di colore in uniforme da infermiera, grossa come una montagna. Sul suo petto era appuntato un cartellino rosso con su scritto «Michelle Maslow, infermiera specializzata». Aveva anche lei un sorriso sulle labbra, ma severo, come se sorridesse a malincuore. Come un preside che abbia sorpreso dei ragazzi con le mani nel sacco. La sua stazza e il candore della divisa da infermiera contrastavano con l'aspetto emaciato dell'uomo disteso sul letto. Lei emanava salute e vigore, lui sembrava più di là che di qua. Con entrambe le mani sui fianchi possenti, l'infermiera Maslow annunciò: «Adesso so per certo che è stato lei, professore, ad affibbiarmi quel soprannome. Il signor Vincent Ettrich è un gentiluomo, non un criceto ingrato come un certo professor Tillman Reeves». La sua voce era stentorea, magnifica. Avrebbe potuto dominare l'universo con quella voce. Senza distogliere da Ettrich gli occhi traboccanti d'allegria nonostante la devastazione fisica, l'uomo esclamò: «Cangrosso in arrivo!». Con un'espressione esasperata e un tono sdegnato lei rispose: «Continui pure così, professore, e vedremo cosa succede. Un cricetino capace solo di squittire, ecco cos'è. Niente a che vedere con il suo compagno di stanza. Non dovrebbe essere scortese con la sua infermiera solo perché è malato, professore». Il sorriso di Reeves si fece ancora più ampio. Girando un poco il viso verso di lei, sfiorando col mento la spalla gracile, rispose: «Solo perché la chiamo Michelle Cangrosso, non significa che non provi un profondo rispetto per lei, infermiera Maslow. Au contraire. È stata una delle più im-
portanti esperienze della mia vita incontrare Cerbero in persona prima di morire. Mi dispiace soltanto di non aver saputo prima che in realtà si trattava di una cerberessa. Nella sua Teogonia Esiodo parla di un cane con cinquanta teste, ma avendo avuto il piacere della sua inimitabile compagnia per tutte queste settimane, ora so che una testa sola è più che sufficiente, madame». L'infermiera incrociò le braccia. «Cinquanta teste, eh? Be', la sa una cosa? Sono andata a cercare sul dizionario questo cerbero di cui lei parla sempre. Proprio così. E se lei intende dire che sono io il mostro che fa la guardia alle porte dell'inferno, be', faccia attenzione, perché ho delle zanne belle affilate!». «Grrrrrr!». L'infermiera si protese in avanti come se stesse per replicare qualcosa. Il suo viso si schiuse in un gran sorriso. Osservandola meglio, Ettrich si rese conto che non era affatto grassa, ma soltanto molto robusta. Le sue braccia nude erano possenti e muscolose. Ettrich era sicuro che avrebbe potuto sollevarli entrambi senza alcuna fatica. Poi all'improvviso il tendone crollò. Fu questa la sensazione provata da Vincent Ettrich al momento della sua morte. Il suo intero essere parve trasformarsi in un tendone, un grosso tendone da circo che stava crollando perché qualcuno aveva strappato via i paletti che lo sostenevano. La sua vita iniziò a franare mentre Michelle Maslow e Tillman Reeves ridevano. Tutto accadde talmente in fretta che lo sconcerto fu maggiore della paura. Non riusciva più a respirare: bocca, gola, polmoni, di colpo ogni cosa aveva smesso di funzionare. Da un secondo all'altro tutto dentro di lui aveva chiuso i battenti. Neanche un respiro soffocato, un rantolo, un colpo di tosse. Né una mano sollevata a chiedere aiuto. Perché per lui era tutto finito: la vita l'aveva lasciato un istante prima che si rendesse conto di morire. Così, guardando due simpatiche persone che ridevano, Vincent Ettrich morì. Naturalmente tutto si fece nero. E, naturalmente, giunse un vuoto totale, eppure palpabile, tangibile. Vincent aveva la sensazione di essere chiuso in uno sgabuzzino con la luce spenta. Sì, aveva la sensazione. Già, proprio così: da morto Ettrich provava ancora delle sensazioni. E mentre se ne rendeva conto, attonito, un lampo accecante, come una torcia puntata dritta negli occhi, riportò la luce intorno a lui. «Congratulazioni, Vincent. Era ora che cominciassi a ricordare qualcosa.
Questo è un piccolo souvenir. Il primo di una lunga serie, si spera». Era ancora accecato da quella luce, ma sentì che gli avevano messo qualcosa in mano. In mano. Aveva una mano. Poteva toccare. Poteva avere delle sensazioni. Lentamente abbassò lo sguardo e vide quello che aveva sul palmo: un quadrato di carta. Un foglio, una fotografia. Mentre gli ritornava la vista, fu lentamente in grado di decifrare l'immagine che vi era impressa. E allora trasalì come se avesse inspirato dell'ammoniaca. Perché era la fotografia di quanto aveva visto nell'istante in cui era morto: Tillman Reeves e Michelle Cangrosso che lo guardavano ridendo. Ettrich alzò gli occhi dalla foto e si rese conto di essere di nuovo nella camera di Coco, seduto ai piedi del letto, nudo. «Finalmente! Stavo cominciando a perdere ogni speranza!». Coco trasse un gran sospiro e si alzò. Senza degnarlo di un sguardo, attraversò la stanza e scomparve. Qualche istante dopo, Ettrich sentì che stava facendo pipì in bagno. Poi udì il rumore dello sciacquone e un breve scroscio d'acqua nel lavandino. Quando rientrò in camera da letto, si fermò a guardarlo, chiaramente divertita. «Così sarei morto?». Gli costò una fatica immane pronunciare quella parola, con quelle due «o» così profonde, come un abisso. «Sì, Vincent, sei morto». «Sono morto anche adesso?». «No, adesso sei di nuovo vivo. Guardati intorno. È tutto come prima. La vita continua». Ettrich scosse la testa. Il suo cervello ci mise qualche istante a registrare quello che aveva appena sentito. «Perché? Perché sono tornato in vita? Perché non mi ricordo di essere morto?». La sua voce era così sommessa, ma così sommessa, che sembrava provenire da chissà dove. Persino la sua voce lo stava tradendo ora. All'improvviso, tutto quello che aveva saputo sino a quel momento non aveva più alcun senso. In piedi, a pochi metri da lui, Coco scostò le mani dai fianchi nudi e voltò i palmi all'insù come a dire: «Non ne ho idea». «E allora tu chi sei? Dimmi almeno questo». Lei fece dondolare il capo di qua e di là, come in una specie di balletto infantile. «Sono Coco, la ragazza delle mutandine». «Per favore, non scherzare. Chi sei?». «Sono la tua amante. Il tuo tesoro. La tua mappa del tesoro. Con una bella X tracciata sopra. L'hai vista, no?». Gli chiese toccandosi la nuca nel punto in cui era tatuato il nome di Bruno Mann. «Sono qui per far sì che tu
non smarrisca la strada. Sono il tuo angelo custode», canticchiò un verso di Someone to Watch Over Me. «Sono tutto quello che ti ho detto e niente di tutto ciò. Sono qui per aiutarti ad attraversare questo labirinto, Vincent». E con voce delicata, limpida aggiunse: «L'istante in cui mi hai visto per la prima volta nel mio negozio è il momento in cui sei tornato in vita. Per questo ti ho chiesto se ti ricordavi della tua vita prima che ci conoscessimo». Tutto ciò era insostenibile, inimmaginabile e troppo orribile perché Ettrich potesse riuscire a digerirlo. Era sul punto di vomitare. Si nascose il viso tra le mani mentre cercava di aggrapparsi in qualche modo a un residuo di sanità mentale. «Sono morto? Sono morto e sono tornato in vita, la stessa vita di prima?», ripeté, più che altro a se stesso. Aveva bisogno di pronunciare quelle parole ad alta voce per sentire che effetto facevano. Volgendosi di scatto verso quella donna, gridò, a lei e a Dio: «E allora perché non me lo ricordo? Perché non mi ricordo quando sono morto? Né cosa è successo dopo? Com'è possibile?». Coco si accovacciò come un giocatore di baseball pronto a intercettare un lancio. «Sei stato in ospedale un mese con un cancro al fegato. Alla fine ti hanno messo in stanza con Tillman Reeves: anche lui era sul punto di morire. Si era autosoprannominato Tillman il Terminale. Michelle Cangrosso era l'infermiera che si occupava di voi». Ettrich gridò: «Ma io non me lo ricordo! Non ricordo niente! Come può essere? Com'è possibile?». Sentiva che stava per diventare pazzo. «E invece ricordo un sacco di cose che mi sono successe prima di incontrarti. Ricordo di essermi vestito quella mattina...». Lei scosse la testa. «No, stai usando i ricordi della tua vita passata. Quella di prima, Vincent. Quelle migliaia di martedì e di venerdì e di giorni di vacanza o di pioggia quando il tuo cuore batteva ancora. Eri sicuro di avere tutto il tempo del mondo. Ma ora sei terrorizzato, così infili la testa in quel vecchio sacco e vai a ripescare i tuoi antichi ricordi». Fu quella frase, «quando il tuo cuore batteva ancora», a catturare la sua attenzione, proprio mentre stava per esclamare: dimostramelo, dimostrami che quello che stai dicendo è vero, mentre stava per incrociare le braccia, sollevare il mento con aria di sfida e dire: «Voglio proprio vedere». Ma lei lo aveva bloccato con quelle parole: «quando il tuo cuore batteva ancora». Al passato. Il suo braccio sinistro era posato sulla gamba. Girò il palmo all'insù e si portò due dita sul polso, lentamente, mentre Coco continuava a parlare,
sperando che non se ne accorgesse. Niente. Nessuna pulsazione. Premette le dita sul polso con più forza. Niente. Neanche l'ombra di una pulsazione. Si portò le dita sulla gola e aspettò. Niente neanche lì. «Quando il tuo cuore batteva ancora». Il cuore di Vincent aveva smesso di battere. Fu colto da un brivido. Iniziò a tremare come una foglia. Gli battevano i denti con tale violenza da non poter fare nulla per impedirlo. Stava perdendo lucidità. Di quel che un'ora prima era stato Vincent Ettrich, uomo d'affari di successo, gran donnaiolo, padre affettuoso, vegetariano non convinto e così via, non restavano che le briciole. Con il volto tra le mani, le palpebre serrate con forza, i gomiti appoggiati alle ginocchia, Ettrich iniziò a dondolarsi avanti e indietro emettendo, senza rendersene conto, un suono sommesso, una specie di gemito, un mugolio che aveva ben poco di umano e sgorgava dalla bocca dello stomaco per poi salirgli sino alle labbra. Era un aggregato di paura, dolore e disperazione. Persino Coco parve turbata da quel suono così acuto, così sinistro. «Vincent». Lui la ignorò e continuò a gemere. Col volto nascosto tra le mani, si dondolava avanti e indietro come un forsennato ebreo in preghiera. «Smettila di perdere tempo. E ascoltami». Lui la ignorò. Che andasse a 'fanculo! Perdere tempo? Era appena stato somministrato un clistere di proporzioni cosmiche al suo intero essere e lei gli chiedeva di ascoltarlo. All'improvviso udì intorno a sé ansimare, fischiare, ridere, e i rumori della città. Così forti e vicini che fu costretto a guardare cosa stesse succedendo. Nel momento in cui aprì gli occhi, un taxi giallo gli passò davanti schizzandogli addosso l'acqua sporca e oleosa di una pozzanghera. Ettrich balzò in piedi: era seduto sul bordo di un marciapiede a meno di un metro dal traffico frenetico. Completamente nudo. Era piombato nel bel mezzo dell'incubo che tutti abbiamo fatto almeno una volta: quello in cui ci ritroviamo completamente nudi in una strada affollata sotto lo sguardo puntato di tutti, peraltro perfettamente vestiti. E per l'appunto ora aveva gli sguardi di tutti addosso. Un'intera folla di persone lo additava schernendolo. A pochi metri da lui, anche Coco lo fissava con uno sguardo inferocito, malgrado fosse anche lei completamente nuda. Nonostante tutto quello che era appena accaduto, tutto quello che aveva appena saputo, Ettrich si portò le mani all'inguine, imbarazzato, per
coprirsi. Con il solo risultato di provocare ancor più risate e motteggi tra i passanti. Un ragazzo di strada con addosso un giubbotto di pelle scura si avvicinò a Coco con aria insolente e dopo averla squadrata ben bene dalla testa ai piedi, le disse: «Ehi, baby, se sei in vendita, dimmi quanto vuoi che ti compro subito». Ignorandolo, Coco domandò a Ettrich: «Adesso mi vuoi ascoltare?». «Ehi, baby, non essere scortese. Sto parlando con te». Coco si voltò lentamente verso il teppistello e gli disse a bassa voce, in modo da essere sentita soltanto da lui: «Ascoltami tu, Bernie. Hai messo incinte due ragazze senza accettare il fatto di essere il padre dei bambini. Non sei nemmeno mai andato a vederli. Non sei andato al funerale di tua madre e la ragazza con cui stai adesso, Emily Galvin, se la fa con un altro quando tu sei in giro. Vuoi che continui?». Gli occhi di Bernie si spalancarono allarmati, come quelli di un topo in trappola. Arretrando, si allontanò da Coco il più in fretta possibile. «Possiamo andarcene adesso, Vincent? Mi sta venendo freddo qua fuori», gli disse indicando con un ampio gesto la città e la folla sempre più numerosa che si era riunita intorno a loro all'unico scopo di fissarli. «Sì! Andiamo via di qui». Prima ancora che Ettrich avesse finito di pronunciare quelle parole, si ritrovarono di nuovo nella camera da letto di Coco. La stanza era calda, immersa nella penombra e ancora impregnata dell'odore del sesso di poco prima. «Cosa devo fare, Coco? Cosa vuoi che faccia?». Lei lo guardò senza dire niente. Il suo silenzio, per quanto allarmante (soprattutto dopo quello che aveva appena dimostrato di poter fare), non era tuttavia minaccioso. Ettrich sapeva che Coco aspettava che lui trovasse la risposta da solo. Disorientato, si tastò di nuovo il polso: gli pareva intollerabile che sotto la pelle non ci fosse più nulla che dimostrasse che era vivo. Ricordava bene cosa volesse dire avere un cuore funzionante, la violenza con cui lo sentiva pulsare in gola quando era nervoso, nel corso di una riunione di lavoro o quando sferrava il primo attacco serio a una nuova conquista. Se era coricato su un fianco, a letto, sentiva incessante quel duplice battito. Un suono che lo metteva sempre vagamente a disagio. Sappiamo di avere un cuore, sappiamo che pompa il sangue nelle nostre vene; ma sentire quel continuo martellio ci ricorda che non siamo altro che
delle macchine sferraglianti e che c'è ben poco di divino e di immortale nella nostra carrozzeria umana. Adesso che il suo polso taceva, rimase a lungo a guardarsi il braccio come se cercasse di ricordare qualcosa. Dopo di che trasse un respiro profondo, molto profondo e, espirando lentamente, esclamò: «Mannaggia! Mannaggia, mannaggia, mannaggia. ..». Mentre pronunciava quelle parole sentì un campanello suonare in una lontana stanza del suo cervello. Andò mentalmente ad aprire e si ritrovò di fronte, a caratteri cubitali, la scritta, MANNAGGIA, con le prime quattro lettere illuminate. MANN: Bruno Mann. Gli ci volle qualche istante perché la sua mente metabolizzasse quell'informazione. Poi guardò Coco ripetendo ad alta voce il nome di Bruno. Lei rimase impassibile, in attesa di sentire cos'altro aveva da aggiungere. «Se Bruno è morto, e io l'ho visto, vuol dire che è nella mia stessa situazione. E tu al ristorante parlavi con lui. Hai detto che sono tornato in vita l'istante in cui ti ho visto». La fiamma di una delle candele sul cassettone crepitò. Ettrich alzò la testa e si leccò il labbro inferiore mentre il suo cervello prendeva fiato un attimo e passava a formulare il pensiero successivo. «Probabilmente lo stesso vale per tutti quelli cui accade qualcosa di simile: nell'attimo in cui tornano, è possibile incontrarli». Ora stava parlando a se stesso ad alta voce. Anche se aveva Coco davanti, per il momento la cosa importante era riuscire a capirci qualcosa. «Devo trovare Bruno e parlargli». Iniziò a picchiettare un indice contro l'altro. La situazione si andava facendo un poco più chiara, un piano stava prendendo forma. «È evidente che tu non hai intenzione di dirmi altro. Quindi devo trovare lui e farmi raccontare quello che sa. Questo è il mio piano. Non è male, no?». Alzò lo sguardo dalle proprie mani, ma Coco era scomparsa. Ettrich ricordò che gli aveva detto di avere freddo. Pensò che fosse andata a mettersi qualcosa addosso. Rimase lì seduto a compilare mentalmente una lista delle cose da fare. Non poteva certo dire di sentirsi bene, ma stava meglio. Era un uomo pragmatico. Avrebbe voluto fare diverse domande a Coco, ma sapeva che era alquanto difficile che lei acconsentisse a rispondere. Doveva trovare una soluzione da solo. C'era però una cosa che doveva sapere prima di ogni altra e soltanto lei poteva aiutarlo. Ettrich non poteva mettere in atto il suo piano finché non avesse ottenuto una risposta di qualche genere da Coco. Impaziente, si alzò per andare a cercarla.
Per essere un angelo custode o la Nera Signora o uno spirito o chissà quale altro essere, Coco aveva un appartamento ben misero: una camera da letto, un soggiorno che funzionava anche da zona pranzo, bagno e cucina. E basta. Ettrich ci mise due minuti a perlustrarlo e scoprire che era sparita. La cosa non lo sorprese più di tanto. Si limitò a scrollare le spalle. Ma cosa significava? Se n'era andata per sempre oppure sarebbe ricomparsa di nuovo? Nel soggiorno, sotto la finestra, c'era un divano bianco con un piccolo tavolino rotondo davanti. Ettrich vi scorse sopra qualcosa che prima non c'era, ne era certo. A Coco non piaceva che ci fosse nulla su quel tavolino. Gliel'aveva detto lei. Avvicinandosi, Ettrich vide che si trattava di due fotografie: una era quella che aveva già visto, con Michelle Cangrosso e Tillman Reeves che ridevano; l'altra era un primo piano del collo di Coco con il nome di Bruno Mann tatuato sopra. Con una fotografia in una mano e una nell'altra, Vincent si mise a guardare un po' una, un po' l'altra. Un tatuaggio e due persone di colore che ridevano. Due immagini che non sembravano voler dire molto, ma Ettrich sapeva che erano il suo punto di partenza. Mentre tornava in camera da letto per vestirsi, gli venne in mente che se non fosse riuscito a rintracciare Bruno Mann, avrebbe sempre potuto andare a cercare Michelle Maslow. In alto mare Tornato nel suo appartamento, Vincent Ettrich guardò gli oggetti che lo circondavano piegando leggermente la testa da una parte come un cane che senta qualcuno suonare un'armonica a bocca. Sedendosi alla sua scrivania, notò un post-it che aveva scritto e attaccato a una lampada: «Alcune donne sono fatte per essere venerate, altre per essere scopate. Il problema degli uomini è di non saper distinguere le une dalle altre». È possibile definire alcune persone attraverso il lavoro che fanno, o i guai che combinano, i figli che hanno, cosa lasciano in eredità, il modo in cui vedono il mondo oppure il modo in cui lo ingannano mostrandosi diverse da ciò che sono. A Vincent Ettrich non sarebbe dispiaciuto se qualcuno avesse detto che lui poteva essere definito attraverso il numero di donne che aveva conosciuto e a volte amato nella sua vita. Adesso che era morto, o quanto meno lo era stato, e per qualche ragione era tornato in vita, guardando quella citazione pensò che in realtà non era cambiato nulla. I miei sentimenti nei confronti delle donne non sono cambiati. I miei senti-
menti nei confronti della vita non sono cambiati. Se davvero mi sono ammalato e sono morto, e non conservo alcun ricordo di tutto ciò, a cosa è servito? Cosa ho imparato? Oggi desidero esattamente le stesse cose che desideravo ieri: un lavoro interessante, un po' di dollari in tasca e qualche donna con cui passare il mio tempo. Perciò che importanza aveva sapere che il suo cuore non batteva più e tutte quelle altre cose assurde, se tanto non se ne poteva fare niente? Ricordò un articolo sulla reincarnazione che gli era capitato di leggere una volta. A un esperto era stato chiesto: come è possibile che non ricordiamo nulla delle nostre vite passate se la reincarnazione esiste davvero? E quello aveva risposto in maniera talmente azzeccata che Ettrich non aveva potuto evitare di scoppiare a ridere. «Non so neanche dirvi con precisione cosa ho mangiato a pranzo due giorni fa, come faccio a ricordare com'era la vita nell'antico Egitto?». A quel pensiero, Ettrich sorrise, mentre il suo sguardo vagava sulla scrivania. Vide una vecchia lettera che Isabelle gli aveva spedito dall'Austria e mentre allungava una mano per prenderla notò che la lucina della sua segreteria telefonica lampeggiava. Qualcuno l'aveva chiamato mentre era fuori. Si sporse verso l'apparecchio alla sua sinistra e premette il tasto per ascoltare i messaggi. «Vincent, sono Bruno Mann. Dobbiamo parlare: sai perché. Il mio numero è 133-7898. Chiamami appena senti il mio messaggio». Ettrich si drizzò sulla sedia con tale rapidità che il collo ebbe uno scatto doloroso all'indietro. Era senza parole: non solo era stato chiamato dalla persona con cui più desiderava parlare al mondo, ma 133-7898, il numero che gli aveva lasciato Bruno Mann, era il suo numero di telefono. Per qualche strana ragione, da tempo aveva preso l'abitudine di comporre i numeri con il pollice. Una cosa che sollecitava commenti divertiti da parte di quasi tutti quelli che lo vedevano e che invariabilmente le donne trovavano attraente. Ma questa volta la mano di Vincent tremava al punto che il dito finì sul tasto sbagliato. «Merda. Merda. Merda». Così, per la prima volta da anni tornò a usare l'indice per comporre il proprio numero di telefono. Con grande disappunto, lo trovò occupato. «È morto, no? Con chi diavolo starà mai parlando?». Poi pensò a se stesso e fece una smorfia. Ripeté il numero quattro volte in due minuti, ma la linea era costantemente occupata. Sapeva che se andava avanti così sarebbe impazzito. Volgendo lo sguardo intorno a sé in cerca di qualcosa da fare, scorse la lettera di Isabelle. La afferrò e si mise a legger-
la. C'è sempre qualcosa che ho bisogno di dirti con incredibile urgenza, Vincent. Qualcosa di terribilmente importante, sempre. Una sfumatura, un gesto, un rumore, un'opinione, un ricordo, una visione, un'anonima lapide di ferro brunito nel cimitero, uno stormo di uccelli che vola alto nel cielo sopra la Gasthaus di Hansy, quell'uomo con il figlio ritardato che abbiamo visto a pranzo un giorno, l'odore di un bacio, i rumori del sesso, il sudore nel palmo delle tue mani, alcune lacrime sulla mia guancia, l'odore di caffè da AIDA, il chiaro alito grigio che esce dalle labbra in una sera d'inverno. C'è sempre qualcosa che devo dirti con incredibile urgenza. Perché tu sei tutto, perché sei mio, perché mi capisci, perché hai ridato vita alla mia vita. E per un sacco di altre cose. Sono felice che ci sei. Grazie a Dio. Vorrei una cosa da te. Puoi metterci tutto il tempo che vuoi, anche un anno, o due, o più, non importa. Vorrei che mi scrivessi una lettera, a mano, con quella tua calligrafia così bella, in cui mi dici tutto quello che vuoi che io sappia, tutto quello che io sono per te, tutto quello che tu sei per me, tutto quello che siamo noi, io e te, così se un giorno non avrò più dove abbeverarmi, potrò leggere la tua lettera e rinfrescarmi alle sue dolci acque. La grande, sublime Isabelle. Isabelle Neukor. Tre quarti di perfezione e un quarto di pezzi di vetro. Ma lui avrebbe camminato scalzo su e giù per quei pezzi di vetro, se li sarebbe persino mangiati, se fosse servito ad averla. Si erano incontrati a Vienna in occasione del festival del cinema della Viennale. L'agenzia pubblicitaria di Ettrich era stata incaricata della promozione dell'evento e Vincent sapeva parlare in tedesco fluentemente. Era l'unica donna che avesse mai conosciuto con cui credeva onestamente di poter vivere felice e soddisfatto, ma lei non l'aveva mai reso possibile. Aveva cercato di convincerla per anni e qualche volta lei aveva detto sì, sono pronta, dammi la tua vita e io ti darò la mia; ma c'era sempre, dopo un attimo o all'ultimo momento, qualcosa che la spaventava. E a quel punto scompariva, partiva, andava lontano, qualche volta tra le braccia di un altro uomo. E scriveva a Ettrich quanto era felice e quanto gli voleva bene, ma solo come amico, perché... Invariabilmente però poi arrivava una lettera come questa e sempre sempre sempre il cuore di Ettrich saltava di gioia come quello di un bimbo
la mattina di Natale. Una volta Vincent aveva copiato a mano una citazione, nella sua bella calligrafia, e l'aveva data a Isabelle. «Coloro che attraversano il mare cambiano il cielo sopra di sé, ma non le proprie vele». Adesso, pensando a quello che gli aveva detto Coco, gli corse lungo la spina dorsale un brivido raggelante: era tornato in vita l'istante in cui aveva visto Coco. Questo significava che Isabelle non era reale, forse? Il ricordo di lei e di tutte le altre cose nella sua vita non erano altro che una macabra illusione? Ettrich non ebbe tempo di riflettere su quella domanda perché in quel momento squillò il telefono. Agguantò il ricevitore e disse pronto in meno di un soffio. «Vincent? Sono Bruno». «Grazie a Dio». All'altro capo del telefono ci fu qualche istante di silenzio, poi Bruno disse: «Sei proprio sicuro che esista? Ora come ora io non so proprio cosa pensare di Dio». «Così sia, Bruno». «Sei morto, no, Vincent? Io sono venuto al tuo funerale. Ti sei ammalato e sei morto, non è vero? I miei ricordi sono tutti così distorti e confusi. Quando ti ho visto al ristorante stasera, me la sono quasi fatta sotto. Sono venuto al tuo funerale! E se è per questo, sono anche venuto all'ospedale St Julian quando eri ricoverato lì e ti ho portato un mazzo di fiori!». Ettrich prese una penna e scrisse «St Julian» in fondo alla lettera di Isabelle. «Sì, è vero, Bruno, ma anch'io non ricordo niente dell'ospedale. Né di quello che è successo dopo: me l'ha detto lei. E anche allora non ci ho creduto, me l'ha dovuto far vedere. Me l'ha dovuto dimostrare». «Proprio così! Proprio così! Anche a me è successa la stessa cosa. Allora dove possiamo vederci? Cosa possiamo fare? Sto perdendo la testa, Vincent. Non è cambiato niente. Sono morto e sono tornato in vita, e non è cambiato niente! Non mi ricordo nulla eccetto quello che mi ha detto e mi ha mostrato Brandt al ristorante». La fronte di Ettrich si corrugò. Rivide Coco che parlava con Bruno da Acumar. «Brandt? Chi è Brandt?». «L'uomo con cui eri al ristorante: Edward Brandt». «Ero con una donna, Bruno. Vi ho presentati. Si chiama Coco Hallis». Bruno scoppiò a ridere: un breve, isterico scoppio di risa che si arrestò altrettanto bruscamente di quanto fosse incominciato. «Era un uomo, Vin-
cent. C'era un uomo seduto al ristorante con te, Vincent, non una donna. Mi hai presentato Edward Brandt». A entrambi i capi del filo, due volti con due espressioni ugualmente smarrite. Nella mente di entrambi, le stesse parole: Oh, mio Dio. Prima di uscire per andare a incontrare Bruno, Ettrich fece un'altra telefonata. Non che ne avesse una gran voglia, ma sapeva di doverlo fare. Chiamò Kitty. Anche lei non fece salti di gioia: gli chiese immediatamente cosa c'era, sottolineando seccata che era molto tardi e che si sbrigasse. Con il tono più gentile che riuscì a trovare, Ettrich le chiese se avesse avuto altre notizie dalla moglie di Bruno Mann. Ancor più infastidita, Kitty gli chiese perché mai Nancy Mann avrebbe dovuto chiamarla. «Be', ecco, per quello che è successo a Bruno». «Cosa gli è successo?». Senza riuscire a nascondere la propria irritazione, Ettrich rispose: «Kitty, mi hai chiamato prima. Mi hai detto...». «Non ti ho detto proprio niente. Sono stata fuori tutto il giorno, Vincent. Ho avuto un sacco da fare. Perché mai avrei dovuto chiamarti?». E gli sbatté il telefono in faccia. Per lei e per tutto il resto del mondo Bruno Mann non era morto. Mentre si recava all'incontro con Bruno, Vincent Ettrich fece il suo primo miracolo. Abitava nella zona meridionale della città, Bruno invece piuttosto fuori, nella periferia ovest. Avevano deciso di vedersi da Hof, un bar molto chic, specializzato in qualità rare di whiskey. Era un posto che a Ettrich piaceva molto perché gliel'aveva fatto conoscere Isabelle Neukor. Una delle sue tante straordinarie sorprese. Un giorno gli aveva mandato un'e-mail sul lavoro. Isabelle amava ogni tipo di comunicazione scritta e spesso, quando le cose andavano bene tra loro, gli scriveva tre o quattro volte al giorno. Qualche volta quando Ettrich arrivava in ufficio c'era ad aspettarlo sulla sua scrivania una lettera e in più un paio di messaggi nel suo computer, come una pioggia di baci sotto forma di parole. Quella volta Isabelle gli aveva soltanto inviato il nome e l'indirizzo di un bar in città dicendogli di trovarsi lì all'una per una sorpresa. Lui aveva sorriso, pensando che vi avrebbe trovato un bel pranzo, espressamente ordinato per lui da Vienna. Quando era arrivato, aveva trovato Isabelle seduta a un tavolino che chiacchierava con Margaret Hof, la proprietaria del locale. Per quanto non se l'aspettasse, non era rimasto sorpreso più di tanto.
Più tardi, a letto, Isabelle gli aveva chiesto di trovare una parola che potesse descriverla. Era una cosa che Isabelle adorava, gli chiedeva sempre di condensare il mondo in una parola, o in una frase, o in un'immagine per farle comprendere quale fosse il suo modo di percepire la vita. Vincent ci aveva pensato un po' e poi aveva risposto: una sera all'opera. Aveva scosso la testa. «Sono quattro parole». «Non esiste una parola che possa contenerti, Isabelle». «Provaci». Ci pensò su ancora un po' e all'improvviso gli venne in mente la parola giusta: mare. «Il mare?». «Sì, il mare, l'oceano». C'era un bicchiere d'acqua sul comodino, lo prese in mano. «La maggior parte delle donne che ho conosciuto sono come questo bicchiere d'acqua. Tu sei il mare». Gli tornò in mente quel dialogo mentre aspettava un taxi sotto casa. Con sua sorpresa gli si riempirono gli occhi di lacrime, anche se in realtà gli venivano spesso le lacrime agli occhi quando pensava a Isabelle. Era una sera all'opera, era l'oceano. La profondità delle sue emozioni per Isabelle sorprendeva e spaventava spesso lui per primo. Un taxi gli si fermò davanti. Ettrich salì e dette l'indirizzo all'autista mentre ripartivano. Iniziò a riflettere su cosa dire a Bruno, cosa chiedergli. Ma all'improvviso quella storia divenne così assurda, così intollerabile che preferì mettersi a guardare fuori dal finestrino, fissando l'oscurità, per cercare di dimenticare tutto, almeno per un po'. Pensò al tono seccato di Kitty pochi minuti prima. Per la millesima volta da quando si erano separati si rammaricò di averle fatto del male. Kitty era buona e affettuosa, non se lo meritava. Paradossalmente, però, per una volta, la prima volta, Ettrich aveva fatto quello che aveva fatto per amore, soltanto per amore. Per anni, sin dall'inizio del matrimonio, Ettrich era incessantemente, impunemente corso dietro alle donne. Non che si comportasse da mascalzone con loro, anzi conquistava il loro cuore: questo era il problema. Ettrich andava pazzo per le donne, tutte, adorava ogni cosa di loro, e questo a loro non sfuggiva mai. Più di una gli aveva detto di aver perso la testa per lui perché era capace di leggere nel cuore di una donna e di comprendere il suo modo di percepire le cose. Un dono simile era davvero letale in un uomo che non si stancava mai di loro. La migliore amica di Ettrich, Leah Maddox, una sua vecchia amante, diceva senza scherzare che Vincent era
la sua migliore amica. Ettrich era uno di quei rari uomini che sono felici di stare ad ascoltare una donna per ore. Non era uno stratagemma, un modo di abbindolarla e farle credere di essere interessato a lei: la curiosità di Ettrich nei confronti delle donne era autentica, il suo interesse in qualunque cosa dicessero sincero. Il fatto poi che desiderasse anche portarsele a letto, quelle donne cui dedicava tanta attenzione, era un altro paio di maniche. La maggior parte degli uomini che Ettrich conosceva consideravano le donne una sfida, per lui erano una fonte inesauribile di meraviglie. «Scusi?». Allontanò dalla mente quei pensieri con un batter di ciglia e volse lo sguardo allo specchietto retrovisore. Il tassista, un uomo snello con pochi, radi capelli, grandi occhi e un naso minuto, lo stava guardando. «Senta, mi spiace doverglielo chiedere, ma ho un terribile mal di stomaco. È d'accordo se mi fermo in una farmacia a comprare qualcosa? Ci metterò un attimo, e il resto della corsa è a mio carico». «Ma certo, non si preoccupi. Faccia pure». «Splendido! Grazie mille. Ce n'è una proprio qui dietro. Faccio più in fretta che posso». «Non c'è problema». Ettrich sapeva che sarebbe comunque arrivato all'appuntamento molto prima di Bruno. Non c'era davvero nessuna fretta, erano a meno di cinque minuti da Hof ormai. E poi sapeva cosa significava soffrire di mal di stomaco, poiché è uno dei più perfidi effetti collaterali del fatto di lavorare nella pubblicità. Non c'era uno solo dei suoi colleghi che non avesse sempre nella ventiquattr'ore una confezione di Tagamet. Be', adesso che il suo cuore non batteva più, forse non poteva neanche più avere mal di stomaco, né rischiare l'infarto, chissà. «Eccoci», disse il tassista accostando lentamente al marciapiede davanti a un grande magazzino aperto ventiquattro ore su ventiquattro illuminato a giorno. Spense il motore e guardò di nuovo Ettrich nello specchietto retrovisore. «Ha bisogno di qualcosa? Filo interdentale, un rullino, un cono gelato?». Ettrich sorrise e scosse il capo. Il tassista annuì, ma mentre si voltava per aprire la portiera, si arrestò con la mano sinistra a mezz'aria. Sembrava che stesse per esclamare: Un attimo soltanto!, ma dopo un istante la mano cadde giù e il tassista si piegò in due sul volante con un rantolo rauco. Ettrich si sporse in avanti. «Ehi!». Allungò una mano e la posò sulla spalla dell'uomo: i muscoli erano rilassati, nel suo corpo non c'era la minima tensione. Fu in quel momento che accadde: Ettrich fu colto dalla sen-
sazione di affondare lentamente la mano nell'acqua tiepida. Una sorta di liquido caldo gli sali lentamente dal braccio sino alla spalla. All'improvviso fu consapevole che si trattava della vita di quell'uomo che stava fluendo in lui. Quel "liquido" che montava lungo il suo braccio per poi scendere nell'altro era numen, essenza divina, lo spirito sacro che dimora nel corpo e gli dà vita. Un istante prima Ettrich non aveva neanche mai sentito quella parola, né sapeva cosa significasse. Ma non appena la sentì penetrare nel braccio, tutto gli fu chiaro. Quell'uomo stava morendo e il suo numen si stava trasferendo nel corpo di un altro che era già morto. Istintivamente Ettrich comprese che avrebbe riavuto un cuore che batteva e diverse altre cose, tutte quelle cose della vita che aveva perso morendo. Tutte così indispensabili. Ma non poteva accettarlo, non poteva impossessarsi della fiamma che illuminava un'altra esistenza. Sollevò la mano dalla spalla del tassista e fu scosso da un violento brivido, come se una potente connessione elettrica fosse stata improvvisamente interrotta, e gli posò entrambe le mani sulla testa in modo da far rifluire il numen dal proprio corpo al suo. All'inizio gli parve di spingere avanti le mani nell'acqua: un gesto inutile, lentissimo. Ma poi la forza della sua concentrazione diede forma e consistenza a quella sostanza che acconsentì ad essere lentamente sospinta indietro. Quando la sentì a metà strada tra la spalla e il gomito, Ettrich la allontanò da sé con tutta la forza. Più a lungo ne assaporava la presenza nel proprio corpo, più gli riusciva difficile respingerla, perché sentirla palpitare dentro di sé era pura estasi. Infine essa lo abbandonò e anche l'ultima goccia sgorgò rapidamente e ineluttabilmente dalle sue dita. Esausto, Vincent si lasciò andare contro il sedile. Il tassista emise un gemito, un sospiro violentemente sensuale, come se avesse un orgasmo, che si riversò nell'auto come un'immensa ondata. Poi sussultò ed emise un altro gemito, questa volta di dolore. Ettrich cercò a tastoni la maniglia e la tirò verso di sé. La portiera si spalancò ed Ettrich scese sul marciapiede. Le luci del grande magazzino lo costrinsero a socchiudere gli occhi. Vide alcune persone muoversi all'interno, del tutto ignare di quello che era appena accaduto in strada. Con gambe tremanti fece qualche passo, poi si voltò indietro, verso la macchina. Il riflesso delle luci del negozio sul parabrezza gli impedì di vedere dentro, ma sapeva che il tassista si sarebbe ripreso. Ne era certo. Arrivato da Hof fu colto da una forte ansia e quasi da un senso di paura.
Non per quello che era appena accaduto. Era felice di aver fatto la cosa giusta malgrado sapesse di aver rinunciato a qualcosa di inestimabile. No, Ettrich aveva paura di quello che gli avrebbe potuto dire Bruno Mann. Temeva che, scambiandosi le rispettive esperienze, avrebbero scoperto che erano totalmente diverse, che non avevano nulla in comune. A quel punto cosa poteva fare? Il locale era pieno di coppie. In un'altra occasione ne sarebbe stato contento. Gli piaceva starsene seduto da solo a osservare intorno a sé il gioco della conquista, quel balletto che portava uomini e donne a unirsi oppure a concludere che non valeva la pena di andare avanti. Ettrich era particolarmente abile a capire cosa passava in testa alla gente, il che spiegava il suo successo sul lavoro e in amore. Sua madre gli aveva detto che se si sa capire cosa si nasconde in un volto, si può vedere l'anima delle persone, e anche lui ne era convinto. Scorse Margaret Hof dietro al bancone, le fece un cenno di saluto e si sedette a un tavolino davanti alla porta. Margaret gli portò un bicchiere del suo whiskey di malto preferito e posandosi entrambe le mani sui fianchi gli chiese come stava. Lui sorrise e rispose sto bene, abbastanza. «Sai, ho sentito Isabelle. Mi ha mandato una lettera, un paio di giorni fa». Margaret era austriaca ed era amica di Isabelle da anni. Si erano conosciute a Vienna quando lei ancora lavorava al ristorante Silberwirt. Margaret parlava in inglese nel modo bizzarro di chi vive in America da anni ma se ne frega di parlare correttamente. Sapeva tutto dei loro tira-e-molla e qualche volta aveva fatto da arbitro nelle loro schermaglie. Voleva bene a Vincent, ma era sempre impietosamente onesta con lui: diceva francamente quello che pensava e il più delle volte aveva emesso un verdetto a lui contrario. Quando Ettrich aveva lasciato Kitty per Isabelle, per settimane aveva vissuto in un monolocale di Margaret. Ettrich aggrottò la fronte e fissando il suo bicchiere di whiskey disse: «Cosa dici, voglio o non voglio sapere cosa ti ha detto?». Non aveva notizie di Isabelle da due mesi. Pensava a lei almeno mille volte al giorno chiedendosi come stava. «Puoi chiederlo direttamente a lei. Arriva dopodomani». «Cosa? Perché? Perché viene?». «Chiediglielo tu, Vincent. Vuole che tu vada a prenderla all'aeroporto. Stavo per chiamarti per dirtelo. Venerdì sera, alle otto. Austrian Airlines, volo 622». Gli diede una pacca sulla spalla e fece per allontanarsi. «Margaret?».
«Vincent?». «C'è qualcos'altro che non mi hai detto?». Lei esitò. Annuì. Infilò una mano nella tasca dei suoi eleganti pantaloni di seta, tirò fuori un foglietto ripiegato e glielo porse. «Me l'ha mandata la settimana scorsa. Dovevo dartela al momento giusto». Lui afferrò la lettera con ansia, impaziente di vedere cosa dicesse. «Perché non me l'hai dato subito?». «Perché d'ora in poi, qualunque cosa succeda, la tua vita non sarà più la stessa». Ettrich avrebbe voluto chiederle cosa intendeva, ma desiderava ancora di più leggere il messaggio di Isabelle. Si guardarono un istante ancora, poi Margaret si allontanò. Vincent aprì il foglietto e vide che si trattava di una poesia. Era così tanto tempo che non aveva notizie di Isabelle. Tu, su un piede soltanto Una cosa che non riesco a dimenticare, né voglio dimenticare, sei tu, su un piede soltanto. Quasi nudo, con le mutande, una pallottola bianca, accartocciate in mano. Mi guardi, le fai scivolare dalla gamba sollevata. Poi la tua pelle è nuda, non fosse per quella pennellata di bianco spiegazzato in mano. Ti avrei amato ancor di più se avessi traballato un po', e perso l'equilibrio per un attimo, prima di venire a letto. Con un sorriso. Ti ho visto così, su un piede, in molti posti. Ma ricordo soprattutto quella volta da Miriam, perché è lì che ti ho visto la prima volta. In quella sua camera piena zeppa di roba: il bucato steso ad asciugare, gli animali di pezza, e quel letto sempre così scostante.
Come siamo stati felici in quella stanza! Tu hai sollevato la gamba, hai fatto scivolare giù quella pallottola bianca, te la sei sfilata, e io ho pensato: Se esiste un momento così, allora Dio esiste. Sono incinta, Vincent. Del tuo bambino. Del nostro bambino. Non ho ancora deciso cosa fare. Mi farò viva. La sua mente incominciò a turbinare come una mosca intrappolata tra due mani. Isabelle stava per arrivare. Era incinta. Come poteva essere? Perché non gliel'aveva detto? E una volta passata quella prima raffica di domande si presentò l'interrogativo vero. Com'è possibile, se io sono morto? Afferrò il bicchiere di whiskey e lo trangugiò senza neanche sentirne il sapore sulla lingua. Mentre aveva la testa leggermente reclinata all'indietro, il suo sguardo finì verso il bancone, dove c'era Margaret che lo guardava. Ettrich non riuscì a interpretare la sua espressione. Non era il momento. Trasse di tasca il bloc-notes e annotò con cura il numero del volo di Isabelle e l'orario d'arrivo. Inconsapevolmente sollevò di nuovo il bicchiere e se lo portò alle labbra. Era vuoto. Avrebbe voluto un altro whiskey, ma non voleva ordinare un secondo bicchiere perché sarebbe venuta Margaret a portaglielo e lui avrebbe dovuto dirle qualcosa. Ma adesso non poteva dirle niente. Non ancora. Gli era appena stata lanciata una bomba atomica addosso e il fungo stava salendo in aria ed espandendosi nella sua mente. Ettrich fissò quello che si era appuntato sul bloc-notes facendo rotolare la penna su e giù tra le dita. «Vincent? Cazzo, ho fatto tardi, scusa». Bruno scostò una sedia e si sedette di fronte a Ettrich. Sembrava che fosse appena scappato da una casa in fiamme. I capelli, di solito pettinati all'indietro con cura e trasformati in un mare luccicante da un sottile strato di gel, erano dritti e scomposti. Sempre meticolosamente ben vestito, orgoglioso del numero di eleganti abiti di Armani nel suo guardaroba, ora indossava una felpa stropicciata con un rinoceronte stampato sul petto e un paio di logori calzoni da lavoro. Si chinò ad allacciarsi un paio di sudicie scarpe da tennis. Tirò un laccio con troppa violenza e quello gli rimase in
mano. «Che bastardo, cazzo!». Sollevandolo davanti a sé, fissò il laccio spezzato con un'espressione d'odio assoluto. «Calma, Bruno, calma. Che cosa vuoi da bere?». «Niente. Ho bevuto tutto il giorno e non ho ottenuto altro che un dannato mal di testa. Forse da morti non ci si può ubriacare. Che dici, Vincent? Pensi che funzioni tutto in modo diverso per noi adesso?». Sotto quel suo tono distaccato trapelava una profonda inquietudine. Bruno cercava di dare l'impressione di essere un duro, ma invano. «Hai provato a sentirti il polso? Il tuo cuore batte ancora?». «No, non batte più». Bruno si guardava attorno con diffidenza, come se in ogni angolo ci potessero essere appostate delle spie inviate a controllare le loro mosse. Scosse la testa. «Che altro? Cos'altro hai scoperto di diverso da quando hai saputo come stanno le cose?». Bruno era così sconvolto che Ettrich pensò che non era il momento di raccontargli l'esperienza con il tassista. Più avanti. Gliene avrebbe parlato in un momento in cui fosse stato un po' più equilibrato. Gli rispose di no, sentendosi un po' in colpa per l'insincerità. «Neanch'io. Ma in che razza di situazione siamo capitati, Vincent? Che senso ha quello che ci sta succedendo?». «Prima dimmi una cosa: ti ricordi di quando sei morto? E cos'è successo dopo? Ricordi niente?». «No, niente. Assolutamente niente. È una delle cose peggiori di tutta questa storia, da far venire i brividi, cazzo. Come si fa a morire e a non ricordarselo? Io non ricordo un cazzo di niente». Ettrich sospirò e si strofinò una mano sulle labbra. «Neanch'io. Speravo che tu ricordassi qualcosa e che saremmo partiti da lì, ma è chiaro che non è possibile. Senti, ti racconto cos'è successo a me, così possiamo confrontare le nostre esperienze». «Sì, OK. Va bene. Dimmi tutto». Lentamente, nel modo più dettagliato possibile, Ettrich raccontò a Mann il suo incontro con Coco, la loro storia, e cos'era accaduto quella sera. Per tutto il tempo Bruno non disse nulla, limitandosi ad annuire di tanto in tanto, o a chiedere con gli occhi qualche dettaglio in più, oppure un attimo di pausa per digerire quello che Vincent gli andava dicendo. Quando sentì del suo nome tatuato sul collo di Coco, chiuse gli occhi e si succhiò le guance in dentro. Poi scoppiò a ridere, ma non disse nulla. Prese in mano il bicchiere vuoto e iniziò a farlo roteare lentamente.
Quando Ettrich smise di parlare, fatta eccezione per il fatto nel taxi e le novità riguardo a Isabelle, Bruno era ormai al corrente di tutto quello che gli era accaduto. «Ma perché Coco ti ha fatto credere per così tanto tempo che era tutto normale? Per quale motivo?». «Ha detto che ci dovevo arrivare da solo. Aspettava un segnale da me. Il segnale è arrivato quando ti ho visto nonostante tu fossi morto. Ma non so cosa pensare, Bruno, perché poi è scomparsa. A te cos'è successo?». Ettrich si sedette a gambe spalancate, chino in avanti con i gomiti sulle ginocchia. Aveva un'espressione stanca, vinta, come se avesse appena ricevuto delle terribili notizie, o trascorso una giornata particolarmente faticosa al lavoro. Bruno si stropicciò gli occhi con il palmo delle mani minute. Era un uomo attraente. Aveva una certa gravitas che gli dava un'aria solida e affidabile. Una di quelle persone che si desidera avere dalla propria parte nel corso di una discussione. «Sono gay, Vincent. Ci ho messo una vita intera a rendermene conto e ad accettare la cosa. Alla fine è stato come sollevare una pietra dal mio petto. Non mi fraintendere: ho una moglie meravigliosa e siamo stati molto bene insieme. Ma era una menzogna e una parte di me l'ha sempre saputo. Sai cosa mi piace di te, Vincent? Il tuo amore per le donne. Non tanto come ti comporti con loro, perché da quello che ho visto, qualche volta sei un pezzo di merda. Ma non hai mai avuto il minimo dubbio che le donne non siano la cosa più bella che esiste su questo pianeta. Mai, neanche per un attimo. Non hai mai avuto il minimo dubbio riguardo a chi fossi e cosa volessi. Tutto l'opposto di me. Ripensandoci, sono sempre stato il classico omosessuale nascosto. Non entrerò nei dettagli, chi se ne frega, ma è sempre stata lì quella cosa, anche se cercavo di allontanarla come la peste. Ma alla fine si è costretti ad affrontarla. Soprattutto oggi che non è più un crimine desiderare un altro uomo. Poi ho conosciuto Edward Brandt». «Quello che hai detto che ti ho presentato da Acumar?». «Esatto. Abbiamo fatto finta di non esserci mai visti perché c'eri tu, ma ci conosciamo da mesi. E il proprietario della "Strada", quel negozio di abiti da uomo. Ce l'hai presente?». «No». Poi, come se si fosse dato una pacca in fronte, fece una domanda a Bruno. «È il proprietario di un negozio? Quale? Dov'è?».
Bruno fu seccato dall'interruzione. «North Wells Street». Ettrich posò lentamente entrambi i palmi sul tavolo. «North Wells 678, giusto?». «Come fai a saperlo?». «Perché è l'indirizzo del negozio di Coco. I nostri amici lavorano in due negozi diversi allo stesso indirizzo. Interessante, eh?». I due si fissarono finché sul volto di Ettrich si dipinse un lieve sorriso. «Ed entrambi vendono quello che ci piace di più: io vado pazzo per le donne così e Coco vende lingerie. Tu sei appassionato di moda ed Edward Brandt vende abiti da uomo. Sarebbe interessante andare là adesso insieme e vedere cosa c'è. Magari niente. Come vi siete conosciuti?». «Sono andato alla "Strada"». «È lo stesso modo in cui io ho conosciuto Coco. Was vor ein Zufall». «Che hai detto?». «'Ma guarda che coincidenza'. In tedesco». Parlarono un'altra ora senza arrivare a nulla. Confrontarono le loro esperienze alla ricerca di dettagli comuni e pensarono a cosa potevano fare a quel punto, ma senza giungere a nessuna conclusione confortante. Mentre parlavano, Bruno chiese a Vincent se non avesse scoperto di avere qualche strano potere. Ettrich non ebbe un attimo di esitazione. «Oltre a non avere più pulsazioni? No, nient'altro. E tu?». «No, ma vedi, continuo a sperare che ci siano dei vantaggi in tutto questo. Magari domani scopriamo che possiamo volare. Sono stanco, Vincent. Devo andare a casa a dormire un po' oppure rischio di schiattare». Fece una risatina. «Resuscitare porta via un mucchio di energie». Dopo aver chiamato un taxi e aver osservato Bruno che si allontanava, inaspettatamente Ettrich fu colto di nuovo da una terribile tensione. Sapeva che se fosse tornato a casa in quel momento, avrebbe fatto su e giù per il suo appartamento come un'anima in pena, accendendo e spegnendo la tivù come se fosse l'interruttore della luce. In effetti l'ultimo luogo in cui ora voleva andare era a «casa»: un piccolo pied-à-terre nel quartiere più elegante della città, con vista sul fiume e nel frigorifero soltanto una bottiglia di vodka Chopin ancora intatta e una montagna di pizze per il forno a microonde. Decise di andare a piedi al negozio di Coco, a sette isolati da lì, per vedere cosa vi avrebbe trovato. Era piovuto mentre lui e Bruno avevano discusso. Le strade erano lucide
di pioggia. Le auto lasciavano dietro di sé un fischio sexy e sommesso. La notte odorava di pietra bagnata e di metallo. Due donne gli passarono accanto ridendo, regalandogli due dolci scie di profumo. Dalle vetrine si riversavano sui suoi piedi luci colorate che andavano trasformando la tinta delle sue scarpe man mano che camminava. Mentre passava davanti a un bar, la porta si aprì improvvisamente e ne uscirono tre ragazzi corpulenti con un berretto da baseball calato sulla fronte, accompagnati dal ritmo di Another One Bites the Dust dei Queen. Le note del basso gli rimasero in mente per tutto il resto del tempo. Kitty amava la pioggia, Isabelle la neve, Coco le calde giornate di sole. Mentre proseguiva a testa bassa, con la canzone dei Queen che ancora aleggiava alle sue spalle, Ettrich iniziò mentalmente a compilare una lista delle differenze e di ciò che avevano in comune quelle tre donne. Kitty si sforzava di essere vegetariana. Coco sembrava non mangiare altro che porcherie. Isabelle amava la carne, e se era molto pesante e speziata, tanto meglio. Diceva spesso che era una donna della terra e che sarebbe stata perfetta nei Mangiatori di patate di Van Gogh. Una vera sciocchezza: con i suoi capelli biondi da svedese e i suoi grandi occhi blu era più adatta a comparire tra le modelle di una pubblicità di prodotti di bellezza che tra gli scuri contadini di Van Gogh. Mentre camminava, Ettrich si rese conto di una cosa che lo colpì. Ad eccezione di Margaret Hof, non aveva mai parlato a nessuno di Isabelle. Teneva sempre per sé i suoi pensieri riguardo a Isabelle. Persino quando le cose tra loro erano andate male e lui aveva disperatamente desiderato qualcuno con cui confidarsi, non aveva aperto bocca con nessuno. Perché mai? Voltò l'angolo e si trovò su North Wells Street. Il negozio di Coco era in fondo all'isolato. Ettrich si avvicinò più con curiosità che con trepidazione. Era stata una giornata talmente assurda che un'ulteriore follia non l'avrebbe sorpreso più di tanto. Ecco invece, davanti a lui, al suo solito posto, il solito negozio con la porta di vetro e la biancheria intima esposta in vetrina. Della "Strada" nessuna traccia. Con le mani in tasca, Ettrich rimase lì fermo per cinque minuti buoni, ripensando a tutto quello che era successo. Perso nei suoi pensieri non si accorse di un'auto che si fermava alle sue spalle. «Ehi, bellimbusto, cosa ci fai lì?». Voltandosi, vide un poliziotto al finestrino di una volante che lo fissava. Ettrich sorrise. «Sto pensando di comprare delle mutandine». Il poliziotto non parve divertito. «È l'una di notte. Hai intenzione di a-
spettare qui davanti che aprano?». Ettrich vide che l'altro poliziotto, quello alla guida, stava fumando una sigaretta con lo sguardo fisso davanti a sé. «No, signore, stavo facendo una passeggiata e mi sono solo fermato a guardare la vetrina». «Be', allora, è meglio che tu riprenda a camminare». Ettrich stava per rispondere quando vide una cosa. Una cosa che sarebbe accaduta al poliziotto alla guida dopo qualche giorno. Riguardava la sua famiglia. Non una cosa terribile, ma comunque nient'affatto piacevole. L'aveva provocata lui stesso, ma senza sapere quali sarebbero state le vere conseguenze. Ettrich vide che lo aspettavano settimane piene di sofferenza. Vide il futuro di quell'uomo con la stessa facilità con cui vedeva il suo viso avvolto in un velo grigio di fumo. S'allontanò rapidamente. Il mio cuore è un orologio Due sere dopo Ettrich parcheggiò l'auto nello spiazzo semideserto dell'aeroporto proprio mentre un Boeing 747 oscurava il cielo sopra la sua testa e, per alcuni brevi istanti d'elettrizzante fragore, il mondo intero. Gli piaceva andare all'aeroporto ad aspettare qualcuno. Gli piaceva l'atmosfera che vi si respirava: gli arrivi, le partenze, le travolgenti emozioni che si addensano nell'aria come particelle d'ozono, gli addii, i ritorni dopo anni di lontananza, l'immediatezza e la tangibilità di quegli istanti in cui così tante cose importanti finiscono o hanno inizio. Fece qualche passo verso il terminal, esitò, si voltò di nuovo a guardare la sua macchina. L'aveva pulita con l'aspirapolvere e strigliata come un pazzo un'ora prima. Di solito quell'auto aveva un aspetto orribile. Passavano settimane intere, talvolta mesi, prima che la lavasse. Dentro vi proliferava una giungla di fogli, carte di caramelle, riviste, libri, monetine e tutto l'effimero armamentario delle nostre vite che finisce sotto i sedili delle nostre auto. Dietro, sul tappetino, c'era una cassetta con il nastro tutto srotolato e la Barbie di sua figlia senza più la testa (finita in un buco nella carrozzeria con una mentina appiccicata sopra). L'elenco, alquanto stomachevole e non del tutto privo di sorprese, avrebbe potuto andare avanti quasi all'infinito. Ettrich puliva la macchina soltanto quando sapeva che vi doveva salire qualcuno importante, oppure quando la portava a riparare e il meccanico gli offriva un lavaggio gratis. La macchina di Kitty invece era sempre immacolata. Isabelle aveva una vecchia Land Rover incasinata, ma mai
come la sua. Ettrich non aveva mai visto nessuna automobile incasinata come la sua. Un giorno, mentre erano in macchina, Isabelle aveva detto che quell'auto doveva avere commesso delle cose terribili nella sua vita precedente per essere stata condannata a una sorte simile. Cos'avrebbe detto adesso nel vederla così luccicante? Sarebbe rimasta colpita oppure avrebbe accolto quella trasformazione con scetticismo? Ettrich pensò alla cartolina che le aveva spedito dopo la sua ultima fuga. Le aveva scritto: «Andandotene, hai portato via una parte di me. Ma non ti apparteneva. Era mia, Isabelle, non tua, né nostra. Me l'hai rubata. Sei una ladra». Chissà cosa aveva pensato ricevendola. Ettrich non ne aveva idea perché ogni volta che Isabelle scappava, interrompeva ogni genere di comunicazione. E lui, ancor più delle sue fughe, trovava imperdonabile la crudeltà di quei silenzi, che risucchiavano ogni linfa vitale dalla loro storia, da quello che erano riusciti a creare insieme, dall'intimità che avevano raggiunto. Quell'improvviso mutismo era soltanto una dimostrazione di codardia e tradiva la fiducia così profonda e vitale che li univa. Avevano più volte riconosciuto che la cosa più importante e più bella del loro rapporto era la possibilità di parlare liberamente e con franchezza di qualsiasi cosa. Il silenzio di Isabelle metteva bruscamente fine a tutto ciò. Fuggendo, lei si portava via quel loro dialogo per gettarlo in un buco nero senza fondo, senza curarsi del fatto che in realtà gliene appartenesse soltanto una metà. Ettrich si tastò le tasche per sentire se aveva con sé la macchina fotografica. Un'altra mania di Isabelle: insisteva per andare a prendere all'aeroporto o alla stazione chiunque la andasse a trovare. Diceva che era un'usanza che la sua famiglia aveva sempre rispettato. Per lei era una cosa che bisognava fare, che lo si desiderasse o no, per mostrare ai propri ospiti che si era felici della visita. Ettrich la trovava una cosa piuttosto bizzarra, ma gli piaceva quell'attaccamento di Isabelle alle tradizioni di famiglia. Così l'aveva adottata di buon grado, e in qualunque parte del mondo avessero deciso di incontrarsi, lui era lì ad aspettarla. Isabelle invariabilmente portava con sé la macchina fotografica per scattare un'istantanea dei suoi ospiti al momento del loro arrivo. Adorava guardare quelle foto, ne possedeva letteralmente centinaia. Ettrich aveva in tasca la sua bella macchina fotografica digitale, una Leica che gli aveva regalato Isabelle due anni prima per il suo compleanno. Quando aveva aperto il regalo, Isabelle gli aveva chiesto di scattare ogni giorno una fotografia e di mandargliela per e-mail. Non doveva essere
un'immagine particolarmente artistica, semplicemente qualcosa che Vincent desiderava mostrarle. Lui non si sarebbe mai immaginato di appassionarsi così tanto a quella che era presto diventata una piacevole abitudine quotidiana. Adorava inviarle la fotografia di un cagnolino che saltava sopra una pozzanghera, o di tre vagabondi che mangiavano popcorn dentro grossi bicchieroni gialli, o di una bambina di quattro o cinque anni che gli faceva la linguaccia e gli mostrava il pugno con il dito medio sollevato. Gliene aveva mandate così tante. Qualche rara volta lei faceva un commento, ma non sempre, e a volte lui ci rimaneva male perché avrebbe davvero desiderato sentire cosa ne pensava. Ed era stato terribile, quando lei se n'era andata, dover smettere di inviarle quelle fotografie. Però aveva continuato a scattarle e ora aveva moltissime fotografie in memoria su una serie di dischetti. Ma erano per Isabelle, e lei non le avrebbe viste. Quando le guardava, vi percepiva una strana assenza di vita: era come se fossero nate morte. In quei momenti soffriva ancor più atrocemente la sua mancanza e la odiava per la sua crudeltà. Entrando nel terminal dell'aeroporto, si domandò se fosse nervoso. Gli scappava la pipì, il che significava che sì, una parte di lui era in tensione. Ma quale? Sentiva dentro di sé ansia, felicità e, soprattutto, ancora una rabbia bruciante... Ettrich era un fritto misto di emozioni. Ed era morto. Morto, morto, morto. O lo era stato, prima di tornare in vita. Ma nessuno sembrava essersi accorto della differenza, lui compreso, almeno fino a quando Coco non lo aveva illuminato con il suo show fotografico. Isabelle avrebbe notato qualcosa? Era forse ritornato in vita per lei? Che effetto le avrebbe fatto vederlo? Isabelle Neukor avrebbe visto davanti a sé un uomo carico di rabbia, oppure un uomo felice e ottimista, o semplicemente uno sciocco? O, peggio ancora, lei sola avrebbe visto davanti a sé un morto? Che cosa voleva vedere? Il pensiero «Perché è venuta?» attraversò la sua mente come una freccia. Seguito immediatamente da «Perché aspetta un bambino, il tuo bambino, stupido. Ecco perché». Ma i conti non tornavano lo stesso. Perché, per quel che ne sapeva, erano passati quasi tre mesi dall'ultima volta che avevano fatto l'amore. Isabelle aveva mestruazioni molto regolari, il che significava che doveva sapere di essere incinta da almeno sessanta giorni. Perché non si era fatta viva prima? Perché aveva aspettato così tanto? E perché gli aveva fatto sapere le cose in maniera così indiretta, attraverso Margaret Hof? Perché non l'aveva semplicemente chiamato per dire è successo questo, dobbiamo parlarne?
Perché Isabelle era fatta così, e basta. Del resto, questa era la sua frase preferita: «Sono fatta così», diceva sempre. Col tempo era diventata la frase più incantevole ed esasperante che Ettrich avesse mai sentito sulle labbra di una donna. Isabelle la usava per spiegare la sua intelligenza, la sua sensibilità e la sua immensa generosità. All'inizio del loro rapporto l'aveva pregata di dirgli qualcosa di più sul significato di questa frase. Ma la tirava fuori anche per giustificare le sue nevrosi, le sue fughe, l'egoismo dei suoi silenzi. «Sono fatta così». Così come? Ma se lui insisteva, si chiudeva in un mutismo ostile. Ettrich si era presto reso conto di non avere permesso di accesso in quella parte di lei. Quel pomeriggio, oltre ad aver pisciato più di seimila volte, mentre era alla disperata ricerca di un modo di passare il tempo prima di uscire per andare all'aeroporto, aveva visto sulla mensola sopra il caminetto una fotografia di Isabelle. L'aveva presa in mano e aveva letto e riletto le parole che lei aveva scritto sul retro. Come una mano sul tuo viso che avvicina il mio sangue al tuo, così tanto ti voglio. Tu batti nel mio petto. Ogni secondo. Il mio cuore è un orologio. Pur non avendone mai pienamente compreso il significato, quei versi lo toccavano profondamente. Li leggeva spesso. La fotografia era stata scattata nella loro stanza d'albergo a Cracovia, in Polonia. Era l'albergo più vecchio di quella strana città di guglie medievali e lunghe ombre indistinte. Sul portone c'era un'iscrizione: «Che questa dimora possa ergersi sinché una formica non beva l'oceano e una tartaruga non compia il giro del mondo». Ettrich era stato a Londra per lavoro, ma non aveva in programma di raggiungere Isabelle. Lei lo aveva chiamato il giorno prima che lui facesse ritorno in America e gli aveva detto con quella sua voce profonda e sonora: «Ho scoperto una città. Devi venire. Ti prego. Ti rimarrà nel sangue per tutto il resto della vita. È una Venezia senza canali. C'è un ristorante incredibile che si chiama "La tavola del contadino" dove ci si siede a tavoli intagliati a mano ad assaporare borscht calde e piccantissime. Sarà la nostra città. Non abbiamo ancora una città nostra. Ti prego, vieni, per favore». Fu allora che il suo matrimonio aveva iniziato a crollare. Ripensandoci,
gli era assolutamente chiaro che era accaduto proprio allora, in quel preciso momento. Ettrich aveva immediatamente cambiato i suoi progetti e comprato un biglietto aereo per Cracovia. Non era mai stato in Polonia. Ma la sua vita con Isabelle era così: a un suo cenno lui abbandonava tutto e si faceva millecinquecento chilometri in aereo per raggiungerla in una città sconosciuta nel mezzo dell'Europa centrale. Sono tutti e due in piedi davanti al grande specchio nel bagno dell'albergo. Ettrich tiene con una mano la macchina un poco scostata da sé mentre scatta la foto. L'altro braccio è intorno alla vita di Isabelle, che ha posato le sue mani così esili e delicate sulla sua. Ha gli occhi chiusi, il viso rivolto verso di lui con un sorriso estatico sulle labbra, come se fosse nel mezzo di un orgasmo. La figura di Isabelle è perfettamente delineata, mentre il flash trasforma quella di Ettrich in un abito scuro e nel lampo bianco della sua mandibola inferiore. Ma era proprio quella la cosa che gli piaceva di più di quella foto: era come se la radiosità di Isabelle fosse l'unica cosa che il flash avesse voluto mostrare. Non sapendo bene perché, mentre usciva di casa per andare all'aeroporto, Ettrich fece scivolare la fotografia nel taschino del giubbotto. Era venerdì sera e si aspettava di trovare l'aeroporto preso d'assalto. Invece il terminal era semivuoto e i pochi viaggiatori che c'erano gironzolavano senza fretta. Nessuno correva, nessuno strillava ordini o disperate istruzioni dell'ultimo minuto. Chi era in partenza si dirigeva verso il proprio imbarco con l'andatura disinvolta di chi passeggia per negozi. Era una scena piacevole per una volta, ma anche vagamente inquietante. Come al solito Ettrich era arrivato in anticipo, anche troppo. Amava la puntualità, gli piaceva giungere in aeroporto per il check-in, o in albergo, o in qualunque altro posto, con un ampio margine di tempo. Gli piaceva arrivare presto al ristorante ed essere il primo a presentarsi a un appuntamento. Era un'abitudine che alcuni apprezzavano mentre altri trovavano esasperante, perché se arrivavano in ritardo non potevano evitare di leggergli negli occhi un certo fastidio. Ciò nonostante, Ettrich pensava che fosse un necessario segno di rispetto e di educazione: un piccolo gesto che dimostrava il suo interesse. Isabelle in quel senso era esattamente come lui e spesso si divertivano a vedere chi sarebbe arrivato per primo a un incontro. Il giorno del loro primo appuntamento ufficiale a Vienna, lei lo aspettava già da dieci minuti al tavolino del Café Diglas sebbene lui fosse arrivato dieci minuti in anticipo. Ettrich era già innamorato di lei. Non gli era mai successo di perdere la testa così in fretta. Lei indossava un maglione nero
di cachemire e aveva intorno al collo alcune collanine d'oro. Le sue mani candide erano tranquille sul tavolino di marmo grigio. All'aeroporto Ettrich si fermò sotto un grande tabellone digitale con l'elenco dei voli in arrivo e in partenza. Gibuti. Buenos Aires. Dublino. Isabelle stava per arrivare con il loro bambino nella pancia. Dublino. C'era andato con Kitty in luna di miele. Avevano preso una camera allo Shelbourne Hotel e ogni pomeriggio alle quattro scendevano a prendere il tè. Ettrich aveva pensato che non sarebbe mai più stato così felice in vita sua. Mentre fissava il tabellone con tutti quei numeri gialli e quei nomi esotici lampeggianti, si domandò per la centesima volta cosa gli stesse succedendo e perché. Dublino, Kitty, Isabelle, la morte. Il bambino... Con quel vortice in testa gli ci vollero alcuni istanti per rendersi conto che aveva davanti agli occhi il numero del volo di Isabelle — 662 — e che l'aereo era atterrato con mezz'ora d'anticipo. Improvvisamente fu l'unica persona che correva in tutto l'aeroporto. Conosceva a memoria il terminal, ma non aveva la minima idea di dove lei potesse essere in quel momento: alla dogana, ad aspettare le valigie o già fuori che l'aspettava, avvilita e delusa di non vederlo. Mentre si dirigeva a perdifiato verso gli arrivi, continuava a ripetere dentro di sé: «Perfetto. Perfetto. Perfetto». Era la prima volta in cinque anni che arrivava in ritardo e doveva essere proprio questa volta. Davvero perfetto. Mentre correva si sentì chiamare da qualcuno, una voce maschile, ma non si voltò neanche a vedere chi fosse. Un corridoio interminabile, lungo almeno quanto quello che portava al mago di Oz nel film. Perfetto. Di nuovo sentì qualcuno che lo chiamava, un'altra voce maschile. Cos'era, era pieno di suoi amici l'aeroporto quella sera? Distratto da quel pensiero, superò di corsa Isabelle che passava sul nastro scorrevole nella direzione opposta. Lei non lo vide perché aveva la testa bassa, girata dall'altra parte. Una rotella della sua valigia nuova si era bloccata e lei si era chinata per vedere perché. L'unica cosa che lo fece fermare fu il suo giaccone. Isabelle era sempre vestita con grande eleganza. Ci teneva: amava gli abiti che mettevano in mostra il suo corpo aggraziato e le sue lunghe gambe. Indossava spesso pantaloni attillati e giubbotti leggeri. E stivali. Stivali sempre, di pelle morbidissima, molto eleganti, ma nient'affatto pratici. D'inverno aveva sempre freddo, e spesso tremava sino a battere i denti. Una volta, per farle uno scherzo, Ettrich le aveva ordinato un grosso piu-
mino lungo fino ai piedi su un catalogo postale di un emporio di Land's End, in Alaska. Azzurro e giallo. Se lo avesse indossato un operaio in mezzo alla superstrada avrebbe potuto essere sicuro che nessuna auto l'avrebbe travolto, tanto era appariscente. Con sua grande sorpresa, Isabelle lo adorava. Quando non lo indossava lei, permetteva a Soup, la sua cagnolina, di dormirci dentro. Isabelle era già quasi a due metri da lui quando Vincent riuscì a dare voce alla sorpresa ed esclamare: «Ehi, tu!». Il loro modo di salutarsi, con la «u» finale protratta affettuosamente. La testa di Isabelle si sollevò all'istante, ed ecco il suo sorriso. Una volta le aveva chiesto se aveva milioni di denti, tanto il suo sorriso era grande e radioso. Lei aveva portato il mignolo sull'incisivo superiore e aveva cominciato a contare. Lui le aveva preso la mano e l'aveva baciata. Isabelle giunse le mani accostandole al mento. «Pensavo che non saresti venuto, Vincent». Improvvisamente sulla difensiva, lui non trovò nulla da replicare, né di spiritoso né altro. Così rimase in silenzio limitandosi a camminare velocemente all'indietro per non perderla, mentre lei avanzava sul nastro. Meglio così, perché guardandola vide che nonostante il sorriso Isabelle stava piangendo. I suoi begli occhi azzurri erano colmi di lacrime che le rigavano le guance, rendendole umide e luccicanti. «Non c'eri da nessuna parte, proprio da nessuna parte, così ho pensato...». Sopraffatta dalle lacrime, fece un gesto in aria con una mano per completare la frase. Continuava a sorridere ma con una tristezza che Ettrich non le aveva mai visto. Si sarebbe gettato ai suoi piedi dal dispiacere e dal lacerante desiderio di lei. Gli era mancata così tanto. Era l'unica che avesse mai davvero contato per lui. Per mesi Ettrich aveva creduto che questa volta se ne fosse andata per sempre. L'aveva creduto davvero. E adesso eccola di nuovo lì, accanto a lui, che diceva di aver temuto che lui non sarebbe venuto. Come poteva pensare una cosa del genere? Come poteva credere che non sarebbe corso ogni volta che lo avesse chiamato, ovunque lei fosse? Quel che accadde dopo fu imprevedibile. Un uomo corpulento e barbuto con un borsone di tela tutto macchiato sulle spalle arrivò tutto spedito sul nastro scorrevole alle spalle di Isabelle. Quando la raggiunse, la urtò con tanta violenza che lei lanciò un grido di sorpresa e barcollò. Senza neanche degnarla di uno sguardo, l'uomo mugugnò «Stupida troia» e continuò a camminare. Ettrich saltò la barriera che separava il nastro dal corridoio e gli corse
dietro. Quando fu abbastanza vicino calcolò con cura il momento giusto e allungò una gamba verso di lui. Perfetto. Quello fece un volo in avanti e finì per terra battendo la testa e il gomito con un gran tonfo. Ma Ettrich non aveva finito. Non appena lo vide sul pavimento, si chinò su di lui e gli rifilò un pugno in faccia. Uno solo. Era calmissimo, completamente padrone delle sue azioni e della situazione: stava facendo soltanto quello che era necessario. Nessuno poteva permettersi di fare una cosa simile a Isabelle. Specialmente adesso, con il bambino. «Vincenti». Era ancora chino su quell'uomo, ma si voltò immediatamente verso il suo amore. In quello stesso momento, l'altro si riprese e proruppe: «Che cazzo...». Ettrich gli infilò tre dita nella guancia paonazza. «Non ti muovere. Non fiatare. Non pensare», gli disse con un tono di voce che avrebbe raggelato chiunque. Era come se avesse detto: se no ti ammazzo. Quello sgranò gli occhi atterrito. Ettrich si alzò e fece cenno a Isabelle di raggiungerlo. Poi, mentre lui sollevava la valigia sopra quell'omaccione che continuava a fissare il pavimento a meno di un palmo dal suo naso, lei gli camminò sulla schiena ed entrambi si allontanarono rapidamente. L'altro rimase nella stessa posizione fino alla fine del nastro, senza alzare la testa una sola volta per vedere se se n'erano andati. «È davvero la tua macchina? Dove abitava la Barbie senza testa?». Con il sandwich in mano, Isabelle volse lentamente lo sguardo intorno a sé per osservare l'auto di Ettrich tirata a lucido. Poi si girò verso di lui e, mentre un'espressione di felicità le compariva negli occhi per la prima volta, diede un gran morso al suo sandwich ed esclamò: «Mmmm, è squisito, Vincent. Grazie». Era un rito: ogni volta che Isabelle arrivava negli Stati Uniti, lui le faceva trovare un sandwich al pastrami con insalata di cavolo e maionese piccante. Isabelle non mangiava mai in aereo perché diceva che non sopportava il cibo tagliato a quadretti. Quando Ettrich andava a Vienna l'aspettava sempre al suo arrivo un Extrawurst Semmel, il sandwich al salame più buono che avesse mai mangiato. Erano seduti in macchina da quindici minuti ed Ettrich ancora non aveva inserito la chiave nel motore. Era meraviglioso averla lì. Il suo mondo si
era improvvisamente ricostituito e per il momento la vita era perfetta. L'auto era pervasa della fragranza pungente dell'acqua di colonia di Isabelle, Royal Water di Creed. Era la stessa che usava lui. Il giorno del loro primo appuntamento, sentendo quel profumo su di lui, Isabelle gli aveva chiesto che cos'era, dicendogli che voleva comprarlo anche lei e usarlo «per il resto della sua vita». Anche a lui piaceva molto, ma non lo metteva più quando erano insieme perché voleva poterlo associare a Isabelle. Continuando ad ammirare quella sua macchina cooosì pulita, Isabelle si mangiava il grosso sandwich bevendo una bottiglia di cream soda, un'altra sua passione. Non diceva gran che tra un boccone e l'altro, ma per Vincent non era un problema. Se lei era contenta di starsene seduta lì così, lui non aveva certo niente da ridire. Quando ebbe finito, ripiegò con cura la lucida carta oleata in cui era avvolto il sandwich. «Se ci fosse, ne mangerei un altro». Ettrich sorrise: Isabelle diceva sul serio. Non sapeva se esserne felice o costernato del fatto che si era appena finita un sandwich delle dimensioni di un cane bassotto. «Davvero te ne va un altro?». Lei annuì. «Devo mangiare ancora qualcosa, Vincent. In questo periodo ho l'appetito di un lottatore di sumo. Potrei farmi fuori un bue». Si diede qualche colpetto sulla pancia. Il piumino che indossava non aveva permesso a Ettrich di vederla bene. Era più rotonda ora? La pancia si vedeva già? Mentre Isabelle mangiava, le aveva lanciato qualche occhiata alla pancia, ma non era riuscito a scorgere nessuna differenza dal solito. «Per il resto come ti senti? Voglio dire, ti fa male la schiena o hai nausea al mattino oppure...». «I soliti sintomi?». Inaspettatamente lei gli prese la mano e la strinse tra le sue. «Sì, un po', ma la cosa più evidente è l'appetito, e poi ho sempre freddo. Fortuna che ho questo giaccone: praticamente ci vivo dentro. Ma non è niente a confronto di quello che di solito succede alle altre. I primi tre mesi in genere sono i peggiori: io sono stata fortunata. Devo soltanto riempirmi le tasche di barrette di Mars e girare dentro questo igloo blu che mi hai dato tu. Tutto qua. Senti, ma ne dobbiamo parlare ora, oppure possiamo rimandare a tra un po'? Sono ancora rintronata dal volo e vorrei proprio mangiare qualcos'altro. Magari qualcosa di dolce, se non ti dispiace». «Un gelato con sopra una bella salsa di caramello calda?». Isabelle gli strinse forte la mano e rispose: «Magari due». Ettrich allungò il braccio verso il cruscotto e con un sospiro di felicità
girò la chiave d'accensione. Isabelle era lì. Era seduta a mezzo metro da lui e stavano andando a comprare un gelato. Che altro poteva desiderare dalla vita? «L'ho sentito». Lui la guardò. «Che cosa?». «Il tuo sospiro. Era un sospiro di felicità o di tristezza?». Prima di avere la possibilità di rispondere, lei gli fece un'altra domanda che cambiò per sempre il colore della sua vita. «Vincent, com'è essere morti?». Qualcuno li stava seguendo. Se Ettrich avesse prestato un minimo d'attenzione, avrebbe visto nello specchietto retrovisore una Austin-Healey 3000 Mark III del 1969 decappottabile in perfette condizioni uscire dal parcheggio, infilarsi sulla superstrada e mantenersi a tre auto di distanza da loro per tutto il tragitto sino alla tavola calda. Tra l'altro, aveva una marmitta che faceva più rumore di una macchina da corsa. Non era di certo la vettura più adatta per un pedinamento, ma per la ragazza alla guida la cosa non aveva alcuna importanza. Adesso che Vincent Ettrich sapeva come stavano le cose, Coco Hallis avrebbe agito a modo suo. Del resto Ettrich ignorava che quella fosse la macchina di Coco, e lei aveva parcheggiato abbastanza lontano da non essere vista. E poi, comunque, non era un gran problema. Che la vedesse pure: prima o poi doveva sapere che sarebbe passato ancora un po' di tempo prima che lei sparisse dalla sua vita. Mentre aspettava che uscissero dal terminal, Coco si era divertita a pensare in che modo avrebbe potuto presentarsi alla famosa fidanzata di Ettrich. «Ciao, sono Coco, la ragazza con cui è stato Vincent quando tu l'hai lasciato». Dopo di che avrebbe potuto aggiungere con voce suadente: «Vincent mi ha parlato così tanto di te». Ma sarebbe stata una bugia, perché lui non le aveva mai detto nulla di Isabelle. In genere Ettrich non si faceva problemi, parlava liberamente di tutto e di tutti, ma di quella donna no, lei era off-limits. Coco aveva più volte cercato di carpirgli qualche informazione su di lei, ma senza successo. Si accese una sigaretta e mentre fumava si rese conto di essere un po' gelosa di Isabelle Neukor, anzi molto gelosa. Non era ridicolo? Avrebbe voluto farsi una bella risata, ma non è facile ridere quando si è vittima della gelosia. E poi, all'improvviso, eccoli arrivare. Coco si raddrizzò e gettò la siga-
retta fuori dal finestrino. Il mozzicone piroettò nell'oscurità e cadde sollevando un ventaglio di scintille rosseggianti. Li riconobbe da come camminavano prima ancora di vedere che erano loro. Innamorati a dritta! Ettrich trascinava una grossa valigia ballonzolante. Una bionda sottile camminava due passi dietro di lui stringendosi in un lungo piumino come se avesse freddo nonostante l'aria mite di quella serata d'autunno. I loro corpi continuavano a toccarsi come se non riuscissero a stare lontani un solo istante. E Isabelle continuava ad allungare una mano verso Ettrich per sfiorargli il braccio, le dita, la nuca. Coco infilò i suoi grossi occhiali di tartaruga per vedere meglio la signorina Isabelle Neukor. Era bella? Vincent era certo di sì, ma era difficile dirlo alla luce nebbiosa dei lampioni. Era piuttosto alta e aveva lineamenti vivaci. Quando non le nascondeva sotto le ascelle, le sue mani danzavano come quelle di un direttore d'orchestra ogni volta che parlava. Un grande e caldo sorriso che avrebbe deliziato chiunque le illuminava di continuo il viso. Lunghi capelli biondi le coprivano le spalle, ma Coco non avrebbe saputo dire se fossero naturali o tinti perché la luce del parcheggio distorceva ogni cosa. Sì, d'accordo, Isabelle era bella, ma non in maniera esasperante. Il suo non era uno di quei volti che non appena entrano in una stanza risucchiano gli occhi di tutti gli uomini con la forza di un aspirapolvere, facendo sentire in inferiorità tutte le altre. Tristezza. Ecco cos'era: c'era una profonda dose di tristezza sul viso di Isabelle, che smorzava la sua bellezza conferendole allo stesso tempo un estremo fascino. Era il volto di chi ha visto cose grandiose e terribili ed è stato modellato da entrambe. I due innamoratini salirono in macchina. Ma poi per qualche strana ragione rimasero seduti lì per diversi, interminabili minuti prima di partire. Coco vide Ettrich porgere a Isabelle un pacchetto bianco che si rivelò un grosso sandwich. Dopo di che lei si accinse a mangiarlo, un boccone dopo l'altro, mentre lui le stava seduto accanto immobile. Sembrava anche che non dicesse nulla mentre lei mangiava. Tutti qui i fuochi d'artificio della scoppiettante, straziante storia d'amore di Vincent? Si rivedevano dopo tre mesi di lacerante separazione, lui di ritorno dal regno dei morti, lei incinta, e come prima cosa lui le dava un sandwich? Coco non ci si raccapezzava, ma non era quello il punto. Non era lì per studiare il comportamento umano, ma per proteggere Vincent Ettrich da tutto quello che poteva capitargli d'ora in avanti. Era quello il suo compito.
Quel che non rientrava nei suoi programmi era di innamorarsi di quell'uomo, neanche lontanamente. Senza perdere d'occhio un solo istante la sua macchina all'altro capo del parcheggio, Coco si era resa conto di essersi presa una bella cotta per Ettrich e sapeva che non era una bella novità. Le emozioni umane possono causare un sacco di problemi. Accigliata alzò gli occhi al cielo, delusa di se stessa. In quell'istante il suo sguardo si fissò su uno dei lampioni nel piazzale. E Coco vide qualcosa che nessun mortale avrebbe potuto scorgere. Il parcheggio era un grosso piazzale quadrato, ai cui angoli erano posizionati quattro grossi lampioni, più altri tre nel mezzo del piazzale. Gli occhi di Coco si spostarono rapidamente dall'uno all'altro. In tutti e sette stava accadendo la stessa cosa: scendendo verso terra i raggi di luce si addensavano lentamente sino ad assumere fattezze diverse. Ma non era cosa di cui potessero avere percezione gli esseri umani poiché i loro sensi sono estremamente rozzi e poco perspicaci. Era come portare un cane all'opera: avrebbe anche potuto mettersi ad abbaiare eccitato da tanto trambusto, ma alle sue orecchie Mozart sarebbe rimasto né più né meno un rumore come tanti altri. Sebbene fosse più che consapevole di quel che implicava quello spettacolo luminoso, Coco non poté evitare di osservalo rapita. Era indiscutibilmente incantevole. La luce pioveva a terra, poi, lentamente, alcuni raggi si inarcavano e prendevano un'altra direzione oppure, improvvisamente immobili, si frantumavano o rifluivano verso l'alto. Come piombo o cera fusa lasciata colare nell'acqua, la luce si addensava, si arricciava, si spandeva, ricongiungendosi ad altre fasce luminose e dando vita a forme squisite e inenarrabili. Se qualcuno le avesse domandato cosa stava accadendo, Coco avrebbe tranquillamente risposto che si trattava del modellarsi della coscienza. La luce emanata dagli enormi lampioni si scomponeva in un gran numero di raggi che si separavano e correvano in tutte le direzioni per riunirsi infine in mille modi diversi a creare innumerevoli presenze, tutte ugualmente piene di vita. Coco avrebbe potuto dare un nome a ognuna di quelle diverse forme animate, ma non era necessario. Aveva già visto quella scena in passato e la sua reazione ancora una volta era la stessa: attrazione e paura. Del resto non c'era nulla che potesse fare se non starsene a guardare. Simili fenomeni erano opera di esseri ben oltre la sua comprensione e le sue forze. Non poteva far altro che osservarli e, se necessario, agire nei limiti dei propri poteri sugli eventi da loro provocati.
Alcune forme di luce iniziarono a volteggiare più basse. Toccando terra, rotolavano come cumuli di nebbia sull'asfalto. Stavano cercando qualcosa, e lo trovarono in fretta. Si radunarono intorno all'auto di Vincent Ettrich. Coco non aveva avuto dubbi che fosse quello il loro scopo, sin dal momento in cui aveva ravvisato i primi indizi di quel fenomeno incorporeo nell'aria. Sapeva che quelle sagome di luce erano lì per Ettrich e la sua Isabelle. Ignari di quel che stava accadendo, continuavano a rimanere seduti in macchina; Isabelle mangiava il suo sandwich e Vincent guardava davanti a sé con entrambe le mani posate sul volante. La luce scivolò lungo la portiera, dalla parte di Isabelle, fino al finestrino, dove si divise a metà creando due forme che presero opposte direzioni. Quella espressione di vita intelligente stava ora osservando i due esseri umani dentro la macchina. Roteando languidamente intorno all'auto, guardò dentro da ogni possibile angolazione e punto di vista, in modo da raccogliere il maggior numero di informazioni sui due passeggeri: cose che neppure loro sapevano, cose che soltanto la luce poteva comprendere. Per tutta la durata di quell'esame, i due esseri umani nell'auto non ebbero la minima sensazione di quel che stava accadendo intorno a loro. Isabelle ripiegò la carta del sandwich e disse qualcosa a Vincent. Lui accennò un sorriso che subito si smorzò e scomparve. La luce iniziò ad aleggiare sul tetto lucido dell'auto come se volesse ascoltare quello che stavano dicendo. Poi riprese a volteggiare. Non aveva ancora completato la sua indagine, così alla coppia rimaneva un po' di tempo. Ma non molto. Una volta che la luce avesse conquistato piena forza e coscienza sarebbe stata inarrestabile. Coco accese un'altra sigaretta rimpiangendo di non poter chiamare nessuno in suo soccorso. Essere troppo vicina alla luce era estremamente pericoloso anche per lei. Ma doveva proteggere Ettrich, ad ogni costo, quindi doveva restare, anche se per il momento non poteva far altro che deprecare la terribile ingiustizia di tutto ciò. Non era in grado di fare nulla per difendere Vincent contro la luce. E lui ancora meno. Quella sigaretta aveva un sapore disgustoso. Come faceva la gente ad amare il fumo? Lei aveva iniziato a fumare perché lo faceva Ettrich e poi si era ritrovata a continuare più per abitudine che per altro. Abbassò rapidamente il finestrino e gettò fuori la sigaretta. Ma era così nervosa mentre se ne stava a guardare impotente quella scena, che non riusciva a stare ferma. Sfilò l'accendino dal cruscotto e lo addentò. Quello sì che aveva un buon sapore. Un po' più soddisfatta, Coco continuò a rosicchiare quella
spirale metallica tiepida mentre la luce roteava affascinante e minacciosa sopra la macchina di Vincent. Intanto, nel piccolo abitacolo della AustinHealey si sentiva soltanto un rumore di plastica e metallo sgranocchiato. Dopo essersi divorata anche l'ultimo ricciolo dell'accendino, Coco aveva ancora fame. Guardò il cruscotto, poi i suoi occhi scesero lentamente sulla manopola del cambio. Era tozzo e rotondo, di un bellissimo color noce. Non andava matta per il legno, ma ci sono momenti in cui non si può fare tanto gli schizzinosi. Come Isabelle all'altro capo del parcheggio, anche Coco aveva voglia di mangiare ancora qualcosa, e con un guizzo d'energia smisurata iniziò a svitarlo. Senza mai smettere per un solo istante di fissare la macchina di Ettrich. Anjo «Cosa mi consigli di prendere?». L'amata voce di Isabelle si sollevò dal grande menù giallo e nero aperto davanti a lei. Erano uno di fronte all'altro in un séparé accanto alla finestra, in cui potevano sedere comodamente almeno sei persone; ma la tavola calda era semivuota e quindi avevano pensato che non ci sarebbero stati problemi se si fossero seduti lì. Era troppo tardi per mangiare: la maggior parte dei clienti stava sorseggiando un caffè o sbocconcellava un dolce. Ettrich era venuto qui perché si ricordava che a Isabelle piaceva. Era un locale senza pretese, dove però si mangiava bene, con un cartello fuori che annunciava che vi si servivano colazioni ventiquattro ore su ventiquattro, e c'era sempre dentro qualche tipo con un berretto da baseball calato sulla fronte o una donna in tuta e scarpe da jogging con un piatto di carne e di purè di patate davanti. Le cameriere di mezza età avevano nomi anni Cinquanta tipo Elsie o Doris, ed erano gentili e amichevoli. Quando le domandavano: «Ti va un altro caffè, dolcezza?», Isabelle sorrideva e annuiva come una bimba. Da europea, amava la naturale cordialità di tanti americani. Era una grande ammiratrice dell'America. Ettrich l'aveva sentita più di una volta prendere le parti del suo paese quando era capitato che qualche europeo affermasse con aria scettica e compiaciuta di trovare gli Stati Uniti un posto meraviglioso per fare shopping, ma non certo per viverci! «Una banana split». Isabelle chiuse il menù con uno schiocco e fece un gran sorriso a Vincent. «Con doppia Schlagobers». Lui annuì e cercò con gli occhi una cameriera. «Preferisci parlare tedesco o inglese? Non te l'ho mai chiesto».
«È uguale. Non fa differenza. È solo che certe cose si possono esprimere meglio in una lingua piuttosto che nell'altra. Ich liebe dich non suona altrettanto bene di I love you. L'inglese è più dolce, più morbido quando si parla di emozioni», rispose lei mentre si guardava in giro, osservando con cura ogni dettaglio intorno a sé. Ettrich non aveva mai conosciuto nessuno altrettanto attento a tutto ciò che lo circondava. «Come fai a sapere quello che mi è successo, Isabelle?». Gli occhi di lei tornarono lentamente sul viso di Ettrich. Quando vi si posarono, lui vi scorse una profonda calma. «Hai aspettato così tanto a domandarmelo, Vincent». «Avevo paura. Ho paura». Lei annuì e sospirò. «Ricordi l'ultima volta che abbiamo fatto l'amore a Vienna? Quella notte?». «Sì, certo». Comparve una cameriera. «Salve, ragazzi! Cosa posso portarvi?». Ettrich era così preso da quello che stavano dicendo che poté soltanto fissare quella sconosciuta in piedi davanti a lui e domandarsi chi diavolo fosse. Quando ebbe fatto mente locale, dopo qualche secondo, si sforzò di pensare a cosa ordinare. Isabelle disse: «Per me una fetta di torta di pesche con una ballina di gelato alla vaniglia». «Vuoi dire una pallina di gelato?», suggerì la cameriera. «Sì, sì, una pallina». «Mi piace il tuo accento. Da dove vieni, cara, se posso chiedertelo?». «Sono austriaca. Di Vienna». «No, sul serio? Non mi dire che sei venuta sin qui dall'Austria per mangiare la nostra torta di pesche! E tu invece cosa vuoi?». «Una Coca-Cola». «D'accordo. Vi porto tutto in un attimo». La cameriera fece l'occhiolino a Ettrich e si allontanò. Isabelle disse: «Ho visto, sai, che ti ha fatto l'occhiolino», guardandolo un po' di traverso e sorridendo. «Credevo volessi ordinare una banana split». Lei scrollò le spalle. «Mai fidarsi di una donna incinta». Immerse l'indice in uno dei due bicchieri d'acqua che la cameriera aveva posato davanti a loro, poi fece scorrere il dito bagnato sul dorso della mano di Ettrich. «Parla, Isabelle». «Prima raccontami dell'ultima volta che abbiamo fatto l'amore. È impor-
tante. Dimmi tutto quello che ti ricordi». Ettrich si appoggiò allo schienale e si costruì una piramide con le dita sullo stomaco. «Ti ho detto: andiamo a cena nel tuo ristorante preferito. Così siamo andati alla Stella Marina...». «In quale strada è?», gli domandò con tono di sfida. «In Windmuhlgasse. Nel sesto distretto. Cos'è, un esame? Dai, Isabelle, lo sai che ho una memoria perfetta». «Vedremo. Va' avanti». In realtà Ettrich non correva rischi perché aveva davvero una memoria straordinaria. Colpiva tutti. Era sempre stata per lui una buona amica e l'aveva aiutato innumerevoli volte sul lavoro e in amore, permettendogli di ricordare montagne di dati, piccoli fatti, dettagli, poesie, o il secondo nome di una donna cinque anni dopo averla incontrata. «Era una serata bellissima. Non riuscivamo a deciderci se mangiare dentro o se prendere un tavolo all'aperto. Tu alla fine ti sei messa a ridere perché eravamo così indecisi. Poi io ho detto di andare dentro perché così avremmo potuto parlare senza essere disturbati dai rumori della strada. Devo dirti cosa abbiamo mangiato?». Isabelle scosse la testa mentre giocherellava col bicchiere passandoselo da una mano all'altra. L'acqua oscillava su e giù senza traboccare. «Dopo cena abbiamo passeggiato per Mariahilferstrasse e ci siamo presi un gelato. Ti si scioglieva tutto, così continuavo a ripeterti di leccarlo se non volevi che ti colasse addosso». Quel ricordo fece sorridere Ettrich. Che bella serata era stata! Posò le mani sul tavolo e guardandosele si accorse per la prima volta di una macchia scura sul dorso della mano sinistra. «Avevo sempre pensato che sarei diventato vecchio. Non credevo che sarei morto prima di avere lunghi peli bianchi nelle orecchie e mani ricoperte di macchie scure. Ma mi sbagliavo, eh? Ho salutato tutti molto prima di quanto non fosse nei miei piani». I suoi occhi erano colmi di tristezza e di sconforto. «Non ricordo nulla, Isabelle, niente di niente. Né della malattia, né di quando sono stato in ospedale... Non ricordo di essere morto. Com'è possibile? Posso capire che uno non ricordi quello che è successo dopo: dopo la morte si va in un posto completamente diverso. E quando si ritorna in vita non lo si può ricordare perché è inimmaginabile. Ma come si può dimenticare la propria morte? Questa è la cosa che più mi sconvolge. Non ricordo niente di quel periodo, proprio niente». «Ecco qua, a voi. Una torta di pesche à la mode e una Coca».
Troppo presi dall'intensità di quel momento, nessuno dei due guardò la cameriera. Lei stava per aggiungere qualcos'altro quando comprese quello che stava accadendo e si allontanò rapidamente. Con delicatezza, Isabelle incitò ancora una volta Ettrich a continuare a descrivere l'ultima notte che avevano trascorso a Vienna. Lui la guardò esasperato. «Perché? Che senso ha? Serve a qualcosa?». «Sì, Vincent, credimi. Serve. Più di ogni altra cosa». «D'accordo. Abbiamo mangiato il gelato mentre tornavamo a piedi verso il tuo appartamento. Poi ci siamo fermati in cortile per qualche minuto a guardare gli alberi. Mi piace la luce della strada che filtra tra le foglie, tingendole di una sfumatura giallo-verdognola... Ti ho detto che mi faceva pensare a come doveva essere Vienna un secolo fa». Mentre Isabelle si divorava la sua fetta di torta con gelato, i suoi occhi non si staccarono dal viso di Vincent neanche per un istante. Una goccia di vaniglia le cadde sul mento. Inconsciamente, Ettrich allungò una mano, le pulì il mento con il pollice e se lo leccò. Nessuno dei due dedicò particolare attenzione a quel gesto. «Quando hai aperto la porta del tuo appartamento, Soup è impazzita. Ha cominciato a saltare e a roteare in aria come un derviscio. Tu volevi farti una doccia, così io sono andato in soggiorno a giocare con lei...». Isabelle guardò il piatto con aria sognante e fu sorpresa di vedere che la torta era finita. Era stata così presa dal racconto di Vincent che quasi non ricordava il gusto della torta, se non che era molto dolce e piuttosto pesante. Si passò la lingua sul palato alla ricerca di qualche traccia di quel sapore. «Su uno scaffale, accanto ai libri, c'era uno di quegli ossi di cuoio che le piace tanto rosicchiare. L'ho preso e abbiamo cominciato a giocare a chi tirava più forte...». Ettrich stava per proseguire quando vide Isabelle sollevare un dito per fargli cenno di tacere. Come quando si rientra in casa di corsa a prendere le chiavi dimenticate dentro, Vincent fece qualche passo indietro nella memoria per riflettere se avesse tralasciato qualcosa di importante nel racconto di quella notte. No, non aveva dimenticato nulla. Perché gli aveva chiesto di fermarsi? Gli occhi di Isabelle avevano un'espressione indecifrabile. Si era bloccata bruscamente mentre stava facendo una strana smorfia con la bocca, poi le era venuto quello strano sguardo. Che cosa significava? Ettrich studiava sempre con cura il viso di Isabelle perché vi poteva leggere quello che lei stava pensando molto prima che dicesse qualcosa.
Isabelle aprì la bocca e si portò una mano alle labbra. Per un attimo Vincent pensò che avesse un capello sulla lingua o che volesse sputare un pezzo di torta. Invece si infilò la mano in bocca e tirò fuori un oggetto argentato, rotondo, né piccolo né grande: un campanellino. «Per Dio!». Quell'oggetto così inaspettato fece a Ettrich l'effetto di uno schiaffo. Isabelle lo fissò deliziata. Il suo volto dimostrava che non era stupita di essersi trovata un campanellino d'argento in bocca. Lo fece dondolare e un delicato tintinnio risuonò nell'aria. Isabelle guardò Vincent con uno sguardo timido e furbo al tempo stesso. «E qui». Ettrich si chinò verso di lei e le domandò: «Chi?». Isabelle posò il campanellino sul tavolo e con il dorso del dito indice lo spinse poco alla volta verso di lui. «Tuo figlio, nostro figlio. È il suo modo di salutare», rispose spingendo ancora un po' più avanti il campanellino. Vincent Ettrich amava Isabelle Neukor più di ogni altra donna che avesse mai conosciuto. Era senza ombra di dubbio perfetta per lui. Se c'era una persona per cui avrebbe dato la vita, questa era lei. Ma osservando prima quello stupido campanellino poi lei, pensò che fosse diventata pazza. Per la prima volta provò un senso di repulsione nei suoi confronti. Ricordò che quando era piccolo sua madre possedeva un canarino. Lo teneva in cucina, in una gabbia blu. Appeso dentro la gabbia c'era un campanellino identico a quello che Vincent aveva davanti. Anche quando era all'altro capo della casa, talvolta lo sentiva tintinnare quando l'uccellino lo becchettava. Posò una mano sul campanellino sopra il tavolo, come a cancellare la follia di Isabelle. «Ecco come ho saputo che eri morto e tornato in vita, Vincent. Me l'ha detto lui. Mi parla», disse Isabelle posando una mano sopra quella di Ettrich, che dovette lottare per resistere all'impulso di scostarla. «Mi stai dicendo che il bambino che hai nella pancia ti parla?». Il sorriso di Isabelle avrebbe potuto illuminare e riscaldare una città intera. «Sì, Vincent», rispose indicando col mento il campanellino, «e adesso sta parlando anche con te. Questo è il suo modo di salutarti». Buio totale. Vincent non riusciva a pensare una sola cosa da dire o fare per rispondere a Isabelle. Lei continuò a sorridere. «Non mi credi». Ettrich scosse la testa. «Vuoi che te lo dimostri?». Lui annuì.
«L'uccellino di tua mamma, quello a cui stavi pensando un attimo fa, si chiamava Columbus. È morto in una calda giornata d'estate quando avevi sei anni. Tu e tua madre l'avete sepolto in cortile dentro una scatolina. Due giorni dopo, quando lei è uscita a fare compere, tu l'hai tirata fuori per vedere se fosse già volato in cielo». Isabelle sollevò il campanellino e glielo porse. «Puoi chiedere qualsiasi cosa, Vincent. Vuole che tu sia convinto che è la verità». «Cosa c'è sul collo di Coco Hallis?». Non era possibile che Isabelle sapesse chi era Coco. A meno che non avesse ingaggiato un detective privato per farlo pedinare durante gli ultimi tre mesi, ma non era nel suo stile. Lei chiuse gli occhi, piegò lievemente la testa da una parte, poi dopo un istante li riaprì. «Un tatuaggio, con un nome. Bruno Mann». «Come andate, ragazzi? Vi posso portare qualcos'altro?». La voce della cameriera fendette quell'istante come una lama. Ettrich, impassibile, alzò la testa e sorrise. «Vuole vedere una cosa sorprendente?». Presa alla sprovvista, la cameriera rimase interdetta. Cos'è, quel tipo la stava prendendo in giro? Riuscì a malapena a rispondere: «Una cosa sorprendente? Certo. Ma solo se lo è davvero». E fece un gran sorriso per dimostrare che sapeva stare al gioco. Ettrich rispose: «Giudichi lei. Ha figli?». «Sì, certo che ho dei bambini. Perché?». «Un attimo solo». Si voltò verso la graziosa ragazza seduta al tavolo con lui e le domandò: «Come si chiamano?». Isabelle guardò la cameriera, rimase un attimo in silenzio, poi disse: «Ron e Debby. Ron da Ronald Reagan e...». Fece un'altra pausa per pensare. «Debby come sua sorella, Deborah». Il sorriso scomparve dal viso della cameriera. Non aveva mai visto quella ragazza. Come faceva a sapere quei nomi? Prima che potesse chiederglielo, la ragazza aggiunse: «Suo marito, Dean, quegli esami che ha fatto l'altro giorno... È tutto a posto. Non è un cancro». «Come fai a saperlo? Come fai a sapere di quegli esami?». Isabelle non rispose. Cosa poteva dire? Guardò Vincent in cerca di aiuto. «Eh? Come fai a sapere queste cose della mia famiglia?», la cameriera, sconvolta, fece un passo avanti. «Perché è una medium. Desidera sapere qualcos'altro?».
La cameriera era rimasta senza parole. Aveva sentito parlare dei medium e le era capitato di vederne qualche volta uno in tivù, ma non ne aveva mai incontrato nessuno di persona. Quella sconosciuta sapeva di Dean e di quella minacciosa macchia scura nei suoi polmoni. Ma aveva detto che era tutto a posto! Era vero? Era così confusa e distratta da tutti quei pensieri che l'unica cosa che riuscì a fare fu compilare il conto, sbatterlo sul tavolo e andarsene. Arrivata al bancone, avrebbe avuto bisogno di raccontare a qualcuno quello che le era successo. Invece rimase lì ferma a fissare quella coppia. Chi erano quei due? No, non aveva importanza... L'unica cosa che ormai desiderava era che se ne andassero. «Mi credi adesso, Vincent?». «Sì, Fizz, ti credo. Cosa sta succedendo? Cos'è tutta questa storia?». Sentendosi chiamare con quel soprannome per la prima volta da quando era arrivata, il cuore di Isabelle finalmente si liberò della morsa che lo aveva imprigionato fino a quel momento. Era una specie di parola d'ordine segreta tra loro: Fizz. Adesso sì, adesso potevano parlare liberamente. «Si chiama Anjo...». «Il bambino?». «Sì». Incapace di trattenersi, Ettrich sporse la testa in avanti verso la pancia di Isabelle. «Questo bambino che non è ancora nato ti ha detto che si chiama Anjo?». «Sì, Vincent, proprio così». Isabelle sapeva di dover essere paziente. Era fondamentale che Ettrich credesse pienamente a quello che gli stava dicendo. Lui replicò esasperato: «Già, come no? Allora chi sarebbe questo Anjo, oltre ad essere nostro figlio?». Per quanto fosse tentata di rispondergli bruscamente, Isabelle cercò con calma la parole giuste, la formulazione più efficace: doveva rispondergli bene. Era essenziale. «Una settimana dopo che abbiamo fatto l'amore e tu sei tornato in America, ho scoperto di essere incinta. Ne ero assolutamente certa. Volevo chiamarti e dirtelo...». «Perché non l'hai fatto? Dopo quella sera a Londra sei scomparsa di nuovo. È così maledettamente ingiusto quello che hai fatto». Tutte le terribili emozioni di quei mesi senza di lei gli si affollarono di nuovo nella mente e nel cuore: la rabbia, il dolore, il risentimento, così insopportabilmente vivi e presenti. Era come premere un interruttore, gli bastava volge-
re il pensiero per un istante a quel periodo disastroso ed essi riprendevano vita. A quel punto Isabelle fu assalita da un'esplosione di rabbia. Riuscì a malapena a frenarla prima che le scappasse di bocca e si avventasse contro di lui. Per trattenersi, si voltò a guardare fuori dalla finestra. I fari di una macchina le accarezzarono il viso. «Non hai mai saputo cosa volevi da me, Vincent. Se volevi una compagna con cui vivere o soltanto una ragazza part-time da incontrare in Europa e con cui andare in giro per qualche giorno prima di tornare alla tua vita». «Come fai a dire una simile sciocchezza? Ho lasciato mia moglie e la mia famiglia per te, Isabelle. Ho rinunciato alla mia vita per stare con te!». Avrebbe voluto che Isabelle si voltasse verso di lui, ma lei insisteva a tenere lo sguardo fisso fuori dalla finestra. Perché guardava altrove? Se lo avesse guardato in faccia, avrebbe visto ogni cosa nei suoi occhi, vi avrebbe scorto la verità di ogni sua singola parola. Quando Isabelle infine rispose, la sua voce era tranquilla, più calma di quanto Ettrich non si sarebbe aspettato. «Quell'ultima sera insieme, a Londra, hai detto di averlo fatto per me. Era la cosa peggiore che mi potessi dire, Vincent». «Perché? È vero, ho lasciato tutto per stare con te. Cosa c'è che non va in questo?». «Niente. Ma hai detto che hai lasciato la tua famiglia perché lo desideravo io. Come se non fossi stato tu a decidere, come se l'avessi fatto solo per me. Non per te, o per noi: soltanto per me». «Oh, Isabelle, non prendere tutto così alla lettera. Sai esattamente cosa intendevo con quella frase. Cazzo, non puoi essere così pignola!». «No! Perché non erano solo parole, era quello che pensavi. E i tuoi gesti ne erano la dimostrazione: ti ho osservato bene. Non ho mai osservato nessuno con tanta attenzione in tutta la mia vita!». Aveva alzato la voce e parlava sempre più rapidamente. «Capivo il tuo senso di colpa, Vincent. Il sacrificio che stavi facendo. Traboccavo letteralmente di gratitudine: ero ai tuoi piedi. Ma non ho sentito che avevi lasciato la tua famiglia perché nel profondo del tuo cuore eri convinto che fosse la cosa migliore, perché avevi finalmente trovato la tua vera casa, e che dunque ti avvicinavi a me con cuore festoso e anima ardente». Fu quell'«anima ardente» a metterlo KO. L'inglese di Isabelle era perfetto al novantacinque per cento, ma qualche volta superava se stessa, trovava parole più appropriate di quanto avrebbe saputo fare qualunque madrelin-
gua. Che cosa diavolo era un'anima ardente? Eppure Vincent sapeva perfettamente cosa Isabelle intendesse dire. Non poté replicare che un misero: «Ho rinunciato alla mia vita per te». Con sua sorpresa, Isabelle finalmente lo guardò negli occhi e gli afferrò una mano. «Lasciamo perdere questa storia adesso. Perché non la mettiamo da parte e non parliamo di qualcos'altro?». Con lo sguardo fisso sulle loro mani, Vincent rispose: «No, Fizz, ho bisogno di parlarne. Mi hai strappato il cuore, cazzo, quando te ne sei andata. Sei scomparsa così, in un istante. E in quel momento, poi: sei uscita dalla mia vita proprio quando avevo fatto l'unica cosa che era in mio potere per dimostrarti che per me eri più importante di qualunque altra cosa». Isabelle non era affatto d'accordo. «L'hai fatto soltanto perché credevi che altrimenti mi avresti perso». A mascelle serrate Vincent replicò: «No. Non sottovalutare quello che ho fatto. Non si butta all'aria un matrimonio di sedici anni e non si lasciano due figli perché si ha paura di perdere la propria amante». «Lo fanno in molti, Vincent. Non fare l'ingenuo». Come poteva provare tanta rabbia tutto d'un tratto? Avrebbe voluto sbattere un pugno sul tavolo, chiudere gli occhi e dare un taglio a tutta quella storia. La collera che tuonava dentro di lui gli fece perdere le parole di Isabelle. «Cos'hai detto?». «Qualche settimana dopo ho conosciuto un uomo». Non appena la sentì parlare di un altro, la sua rabbia si dissolse. «Racconta». «Siamo andati a cena insieme un paio di volte. Era una persona interessante: mi colpiva quello che diceva. Era chiaro che gli sarebbe piaciuto che succedesse qualcosa tra noi. L'ultima volta che siamo usciti insieme me l'ha detto ed è stato anche molto insistente. Sai cosa gli ho risposto? "Mi dispiace, Bert, ma non ho ancora bisogno di qualcuno che decida al posto mio"». «Ha capito?». «Sì, e si è arrabbiato moltissimo. Voleva picchiarmi». «Cosa?». «Sì, ma non è successo nulla. Anjo l'ha fermato. Mi protegge sempre». «In che senso?». «Mi protegge, Anjo mi protegge». «Raccontami cosa è successo». «Sì, ma forse è meglio che tu lo veda con i tuoi occhi». Inaspettatamente
Isabelle indicò il campanellino sul tavolo, in mezzo a loro. «Cosa vuoi dire?». «Puoi assistere alla scena. Penso sarebbe meglio, Vincent. Prendi il campanellino in mano». Ettrich sollevò il campanellino e in un attimo si ritrovò seduto in un altro ristorante. Ci mise un po' a rendersene conto e ad acclimatarsi. Dopo di che fu assalito da una nuova ondata di collera, perché si rese conto di essere a Vienna, alla Stella Marina. Al tavolo accanto, Isabelle era immersa in una conversazione a due con un tipo che le teneva la mano e la fissava con desiderio, troppo desiderio, cazzo. Ettrich sentì intorno a sé il profumo del pane appena sfornato e dell'olio d'oliva caldo. Udì parlare tedesco e riconobbe la voce di Pavarotti che cantava il Nessun dorma mentre il rumore delle posate dei clienti che stavano gustando i deliziosi manicaretti italiani della Stella Marina riempiva la sala. Ettrich osservò gli sforzi di quel tipo per sedurre Isabelle. Mr Bellimbusto faceva ricorso all'intero spettro delle espressioni facciali sfruttando alla perfezione un'ampia gamma di gesti, con un'aria prima seria, poi sexy, giocosa, allegra, meditabonda. Da parte sua, Isabelle lasciava che lui le tenesse la mano, ma la cosa non lo preoccupava più di tanto perché sapeva bene cosa voleva dire quel suo sorriso divertito. Significava no. Come si chiamava quel tipo? Bert? Da come stavano mettendosi le cose, tutto lasciava pensare che avrebbe presto fatto la figura della bertuccia. La Stella Marina era un piccolo ristorante con una saletta dalla forma bizzarra e un'atmosfera intima e piacevole. Lasciando perdere per un attimo la Strana Coppia, Ettrich dedicò qualche secondo di attenzione agli altri avventori. Soltanto a un secondo giro di ricognizione scorse il cane. Era così imponente che non poté non soffermarsi a guardarlo. Non era sicuro di che razza fosse, ma assomigliava a un Fila Brasileiro ed era senza dubbio un animale magnifico, alto più di un metro e mezzo se si metteva in piedi sulle zampe posteriori. Doveva pesare almeno settanta chili. Se ne stava immobile ai piedi del suo proprietario, il grosso muso posato su una zampa come un'incudine e grandi occhi tristi che osservavano ogni cosa con insolita intensità. Ettrich non aveva mai visto un cane con un'aura così gigantesca: sembrava una creatura della mitologia greca o di un'antica fiaba persiana. Chi potevano essere i proprietari di un simile portento? Una coppia intenta a mangiare con gusto un piatto di pasta. Il cane era disteso accanto alla sedia dell'uomo, un anziano signore piuttosto basso e mingherlino. Co-
me poteva quel vecchietto controllare quel mostro se decideva di partire all'assalto? Ettrich si voltò verso Isabelle. Lei stava guardando dritto verso di lui, impassibile. Non l'aveva riconosciuto? Era mai possibile che non lo vedesse? Quali erano le regole di quel posto? Cosa vedevano gli occhi di Isabelle mentre lo fissavano con quello sguardo tanto indifferente? Più che turbato, Vincent era incuriosito. Dalla sera in cui aveva visto il tatuaggio sul collo di Coco, era stato scaraventato in un nuovo universo, un mondo del tutto inaffidabile. Adesso, per esempio, era stato appena teletrasportato in un ristorante italiano di Vienna in cui l'amore della sua vita lo guardava come se fosse un panino. Cosa poteva fare se non accettare le cose, punto e basta? Non gli restava altro che rimanere a guardare e aspettare di vedere cosa sarebbe successo dopo. «Isabelle?». Il suo nome in bocca a Bert assomigliava a uno stupido «Issa, bella!». Lo sguardo di Isabelle tornò sul suo compagno, ma Ettrich fu felice di notare che i suoi occhi non s'illuminarono quando incontrarono quelli di lui. «Ja?». Bert parlava un Hoch Deutsch magniloquente e suggestivo. Aveva la voce sexy di un DJ della radio. Sorrise e abbassò lo sguardo come se stesse per dire qualcosa di troppo difficile per guardarla negli occhi. «Da quando ci siamo incontrati abbiamo parlato molto, ma non ho ancora avuto il coraggio di dirti quello che avevo nel cuore. Vorrei provarci ora». «Lascia perdere». Isabelle allontanò bruscamente la mano da quella di Bert. Le parole e quel gesto di Isabelle lo spiazzarono. «Perché? Perché devo lasciar perdere?». «Perché non è per questo che sono venuta a cena con te, Bert. Pensavo fossimo d'accordo. Non è affatto nelle mie intenzioni una cosa del genere». «Una cosa di che genere, scusa?». «Ascoltare quello che hai nel cuore. Non voglio sapere cos'è». Il viso di Isabelle si contrasse, a iniziare dalla bocca. Ettrich aveva già visto altre volte quell'espressione. Significava che lei si stava ritirando, che stava chiudendo i battenti. Quel viso teso e quello sguardo scuro stavano avvisando Bert che era entrato in un campo minato. Dal modo in cui questi distese lentamente le dita sul tavolo, Ettrich comprese che era furente. Bert cominciò a tamburellare con un dito sull'unghia del proprio dito indice come se stesse inviando un messaggio
Morse. Quel gesto, nient'affatto innocuo come sarebbe potuto apparire, era un modo di prendere tempo. «Non c'era ragione che te lo dicessi prima, ma è chiaro che ora diventa necessario: sono innamorata di un altro uomo. E sono incinta», gli disse Isabelle con tono fermo, badando solo a riportare esattamente i fatti. «Incinta?». Tamburellando sempre più freneticamente, Bert muoveva lo sguardo dalle sue mani al viso di Isabelle. Poi iniziò ad annuire. Da lontano poteva sembrare un semplice cenno d'assenso a qualcosa che aveva detto la sua compagna, ma la sua testa continuava a fare su e giù senza posa, proprio come il suo dito indice. «Perché non me l'hai detto prima?». «Ti ho appena spiegato perché, Bert: non c'era ragione di farlo. È stato piacevole e interessante passare un po' di tempo con te. Tutto qua». «Tutto qua?», ripeté Bert, continuando a scuotere la testa e a tamburellare, sottolineando con enfasi quel «tutto». «Già», rispose Isabelle senza distogliere un istante gli occhi dal viso di Bert. «Interessante, avevo avuto tutt'altra impressione». «Mi dispiace». «Anche a me dispiace, molto». Bert cercò di fare una risatina, ma parve soltanto che gli si fosse bloccato qualcosa in gola. Ettrich si chiese se avrebbe potuto fare qualcosa per fermarlo se a Bert fosse per caso venuta in mente qualche strana idea. Chissà se aveva qualche possibilità d'intervenire? Isabelle prima aveva guardato verso di lui come se non lo vedesse. Voleva forse dire che Ettrich era, uno, invisibile, e due, privo di qualsiasi possibilità d'azione? «Sono irritato. Sono molto irritato con te». Bert si guardò le mani e strinse il pugno. Allarmato, Ettrich balzò in piedi. In quello stesso istante quel cane gigantesco si sollevò sulle zampe e parve quasi che un altro tavolo si ergesse da terra. Fissando Bert, si mise a ringhiare con tale ferocia che persino un morto si sarebbe messo a sudare freddo. Nessuno nel ristorante si voltò a guardare cosa stesse succedendo. Era sconcertante, perché il cane latrava ora con violenza, con il muso piegato da una parte e la bava alla bocca. Quel mostro stava per lanciarsi contro Bert e nessuno lo degnava di un solo sguardo, senza parlare poi di tentare di impedirlo. Persino i proprietari dell'animale continuarono a mangiare apparentemente ignari di tutto, mentre la signora si portava una gran forchettata di spaghetti verdi alla bocca e
il marito prendeva un lungo sorso di vino. I clienti agli altri tavoli ridevano, masticavano, scuotevano il capo divertiti ascoltando i racconti degli amici. Soltanto Bert, Isabelle ed Ettrich sembravano rendersi conto che di lì a poco uno di loro sarebbe stato sbranato vivo. «Anjo, basta», disse Isabelle a voce bassa rivolta al cane. Quello continuò a ringhiare e a sbavare, ma rimase dov'era. Aveva umide gengive rosso sangue e grossi denti aguzzi. Avrebbe potuto facilmente staccare un braccio con un morso. Dagli altri avventori non uno sguardo. Ettrich comprese infine che per qualche strana ragione non dovevano essere consapevoli di quel che stava accadendo: era qualcosa che riguardava soltanto loro tre e il cane. Perché mai Isabelle aveva chiamato quel cane Anjo se Anjo era il nome del loro bambino? «Mi volevi picchiare, Bert? Se non ci fosse stato quel cane, mi avresti rifilato un pugno? O uno schiaffo? È così che reagisci quando qualcuno ti dice qualcosa che non ti va bene? Non scuotere la testa, ti ho visto, Bert». Lasciandosi andare contro lo schienale della sedia, Isabelle gettò il tovagliolo sul tavolo. Il cane continuava a fissare Bert digrignando i denti. Bert era impietrito. Quello che era successo negli ultimi cinque minuti era davvero troppo per lui: Isabelle gli aveva detto che non era interessata a lui e che era incinta, e la rabbia l'aveva travolto come lava bollente. Ed ecco che adesso compariva quel cane pronto ad attaccarlo. E come se non bastasse, non c'era nessuno che sembrava preoccuparsi minimamente di quello che stava per accadere! Così Bert fece l'unica cosa che poteva, gridò: «Aiuto!». «Lascia perdere, Bert. Non ti può sentire nessuno. Non sanno neanche che siamo ancora qui». Con grande sorpresa sia di Bert che di Ettrich, Isabelle prese il proprio bicchiere e lo versò sulla testa dell'anziana signora seduta accanto a loro. L'acqua iniziò a scorrerle sul viso e a gocciolare sul suo elegante vestito di seta rosso, mentre lei continuava a mangiare come se niente fosse, nonostante l'acqua che le bagnava le guance rovinandole l'abito di seta. Bert riuscì a malapena a sussurrare: «Non capisco». «Non c'è niente da capire. Stavi per picchiarmi perché ti ho detto di no. Ma non davanti ad Anjo». Isabelle si voltò verso il cane. Il modo in cui quello rispose al suo sguardo dimostrò che aveva perfettamente capito le sue parole. «E loro...?», domandò Bert indicando le altre persone nel ristorante. «Non vedono quello che sta succedendo?».
Isabelle guardò il cane e sorrise. Anjo si passò la lingua sul muso e deglutì rumorosamente. Cosa aveva intenzione di fare ora? «Posso andarmene, Isabelle? Posso andare via? Mi dispiace. Ti prometto che non ti darò mai più alcun fastidio. Lasciami andare, adesso, però, per favore». Quando il cane abbaiò tristemente, Bert trasalì spaventato. Anche se lei lo lasciava andare, quel cane sarebbe stato d'accordo? «Ti ricordi di Olga, Bert? Quella donna così dolce di cui eri tanto innamorato? Ti ricordi come la trattavi quando eri arrabbiato?». «Conosci Olga?», domandò Bert attonito. Com'era possibile? Isabelle guardò di nuovo il cane. «Sì, ora sì. Sei un uomo spaventoso. Una persona che fa delle cose simili non è degna di alcun rispetto». «Ma com'è possibile? Come fai a sapere di Olga?». «Anjo. Me ne ha parlato Anjo. Sei un pezzo di merda, Bert. Vattene. Va' via. Non voglio più vedere la tua faccia». Quando il suo compagno fu uscito di corsa dal ristorante, il cane si avvicinò a Isabelle e le posò il muso tra le gambe. Lei iniziò ad accarezzarlo distrattamente. Il cane emise un lungo sospiro di soddisfazione come chi stia infilando i piedi gelati in una bella vasca calda. Ettrich fece qualche passo verso di loro. «Isabelle?». Ignorandolo, lei continuò ad accarezzare quella bestia enorme con lo sguardo perso nel vuoto. Neanche il cane lo degnò di uno sguardo. Ettrich si sedette al posto di Bert. «Fizz, mi senti?». «Che stupida! Guarda che cosa mi sono fatta!». L'anziana signora al tavolo accanto cercò di asciugarsi il viso e la camicetta con il tovagliolo, come se si fosse versata l'acqua addosso da sola. Quando vide dov'era il cane, esclamò: «Anjo! Torna qui. Smettila di dar fastidio alla gente». Isabelle fece un gesto di diniego e disse che le faceva piacere accarezzarlo. L'anziano signore le disse: «Non si rende conto di essere così grosso. Crede di essere un gatto». Il cane aprì gli occhi per un istante, ma vedendo che era tutto in ordine, li richiuse subito. Per ora poteva riposarsi. «L'ha chiamato Anjo. Da dove viene questo nome?». Il proprietario del cane fece per parlare ma si bloccò bruscamente. Guardò la moglie e lei gli restituì lo stesso sguardo di sorpresa. Poi sul viso di entrambi comparve un sorriso confuso. Lui scrollò le spalle e fece cenno alla moglie di dire qualcosa.
«Non lo sappiamo. Si è sempre chiamato così. Non è buffo? Da quel che ricordo aveva già quel nome quando l'abbiamo comperato, da cucciolo, e noi abbiamo soltanto continuato a chiamarlo così. Non è vero?». Il marito annuì. «È sicura che non la disturba? È grande e grosso, ma quando mio marito lo rimprovera diventa docile come un agnellino». «No, è bravissimo. Fa piacere anche a me averlo qui». Ma Isabelle aveva smesso di accarezzarlo e Anjo mugolò per protestare. I due ripresero a mangiare. «Isabelle, mi senti?». No, non lo sentiva. Aveva preso la forchetta in mano e se la stava portando alla bocca, facendo attenzione a sollevare bene il gomito per non disturbare il grosso muso marrone del cane posato sulle sue gambe. Ettrich osservò con attenzione i gesti di Isabelle, il modo in cui sminuzzava il cibo, il lento percorso della forchetta dal piatto alla bocca. Senz'alcun dubbio, Isabelle mangiava più lentamente di chiunque altro Vincent avesse mai conosciuto. Era una cosa di cui ridevano spesso. Lei diceva che sarebbe potuta andare al ristorante mezz'ora prima di lui, ordinare e cominciare a mangiare, e andava a finire che Vincent avrebbe fatto fuori tutto prima di lei lo stesso. Ma quelle ore trascorse insieme a tavola erano state tra le più belle della sua vita. Avevano discusso di così tante cose, avevano riso e si erano raccontati così tanti grandi e piccoli aneddoti della loro vita. Una volta al ristorante della OXO Tower a Londra lei si era alzata in piedi a metà cena, gli si era avvicinata, lo aveva baciato sulle labbra e gli aveva detto con voce sensuale: «E splendido. Non c'è nulla al mondo di più bello». Lui aveva compreso perfettamente cosa intendeva. Al cento per cento. La vista a mezzo metro dal loro tavolo abbracciava tutta Londra, scintillante di luci. Anche Isabelle era come una città: traboccante, vorticosa, esilarante, e qualche volta si trasformava in un grosso, inestricabile ingorgo. Ettrich chiuse gli occhi: gli si stavano riempiendo di lacrime. Bastava così poco quando pensava a Isabelle. Qualche volta gli era sufficiente vederla seduta davanti a sé per sentire le lacrime in gola. Era quello l'amore, quello vero? Quelle lacrime? Un fenomeno così ambiguo come le lacrime che accompagna senza distinzione dolore e felicità, ma che nel caso di Vincent Ettrich soltanto quella donna era capace di innescare? Per quanto tempo era rimasto con gli occhi chiusi? Tre, quattro secondi? Abbastanza per portarsi pollice e indice sulle palpebre e spingere indietro le lacrime. In quei pochi istanti di buio Ettrich udì un suono familiare, un
lieve tintinnio, e quando riaprì gli occhi scoprì di essere di nuovo davanti a Isabelle, nella tavola calda, lontanissimo da Vienna, da Bert e dal cane Anjo. Lei aveva il campanellino in mano e sorrideva. «Hai ordinato spaghetti al pesto?». «Cosa?». Lei lo guardò col sorriso di un monello dispettoso. «Alla Stella Marina. È il tuo piatto preferito. Hai ordinato quelli?». «Sai dov'ero?». «Certo. Stavi osservando la scena tra me e Bert». Lui reclinò la testa, intrecciò le dita dietro la nuca e guardando il soffitto disse: «Mi vuoi spiegare, Fizz?». Non rispose. Lui continuò a guardare in su mentre lei rimaneva in silenzio. Non era un silenzio sgradevole perché entrambi sapevano che si trattava di una specie di intervallo prima del prossimo atto. «Anjo mi ha detto che tu quella sera ti sei sentito male. È stata una delle prime volte che mi ha parlato. Mi ha detto che eri malato di cancro e che stavi per morire. Tu non lo sapevi ancora». «Hai saputo che ero malato prima di me?». Vincent abbassò la testa e la guardò con occhi spenti. Isabelle stava parlando del passato, ma per lui tutto ciò aveva la vivida immediatezza del presente. «Sì, Vincent. Tutto quello che mi ha detto Anjo si è avverato». «Un cane ha letto nel mio futuro». Lei scosse il capo. «Anjo non è un cane. Può diventare qualsiasi cosa, assumere qualsiasi aspetto. Si può manifestare in qualsiasi oggetto, animale o persona». «Chi è?». Lei scosse di nuovo il capo. «È nostro figlio. Non so dirti altro. Non mi ha mai voluto dire altro». Ettrich guardò fuori dalla finestra e poi di nuovo verso di lei. «È lui che mi ha fatto ammalare?». «Oh, no, Vincent! Anjo ti ha riportato in vita!». Una rana ballerina Un quarto d'ora dopo la fuga di Bert, Isabelle uscì dalla Stella Marina avvicinandosi una mano al viso. Prima di uscire aveva tirato fuori della borsetta il flaconcino di acqua di colonia di Creed che portava sempre con sé e se n'era versata qualche goccia sul polso. Dopo quello che era appena
successo, aveva bisogno di sentire il profumo di Vincent. Avrebbe avuto bisogno di sentire l'odore della sua pelle, ma visto che era impossibile, doveva accontentarsi dell'acqua di colonia. In quel momento avrebbe voluto averlo accanto a sé; il suo profumo sarebbe servito a farla sentire un po' meglio: una piccola traccia di lui sarebbe bastata a restituirle un pizzico di tranquillità. Era sempre così, tutte le volte: se ne versava qualche goccia sul polso, chiudeva gli occhi, inspirava, ed ecco accanto a lei... Vincent. Dov'era adesso? Cosa stava facendo? Pensava a lui mille volte al giorno. No, di più. Chissà se la odiava dopo quella sua ennesima fuga? Ne aveva tutto il diritto, specialmente dopo che per lei aveva lasciato la sua famiglia e si era trasferito nell'appartamento di Margaret Hof. Aveva già un aggancio con una ditta di public relations tedesca che aveva un ufficio a Vienna. Avrebbe guadagnato infinitamente meno di quanto prendeva negli Stati Uniti, ma non era quella la cosa più importante per lui. Vincent non era come gli altri uomini, non si era mai tirato indietro quando era stata ora di mantenere una promessa. Le aveva detto solo una volta che non poteva vivere senza di lei e che avrebbe lasciato la sua famiglia quando si sarebbe sentito abbastanza forte e determinato per farlo. Isabelle non aveva mai dubitato neanche per un istante della sincerità della promessa perché Ettrich aveva sempre mantenuto la parola. Ma aveva abbandonato tutto molto prima di quanto si sarebbe aspettata. Era stato uno shock per lei sentire la voce di Vincent al telefono che diceva: «È fatta. Sono un uomo libero». Era senza fiato, come se avesse appena fatto una corsa senza fine. Lei sapeva già di essere incinta, ma non gliel'aveva detto. Voleva vedere la sua faccia quando l'avrebbe saputo. Decisero di vedersi a Londra quel fine settimana. Isabelle gli chiese se una sera potevano andare a cena alla OXO Tower per godere di quella meravigliosa vista sulla città e sul Tamigi: voleva dirglielo lì. A metà cena la bellezza di quel posto, il pensiero che le loro vite stavano convergendo e il segreto che gli avrebbe presto svelato la travolsero e lei fu costretta ad alzarsi, avvicinarsi a Vincent e baciarlo. «È splendido», gli aveva sussurrato a un centimetro dal suo viso deliziato. «Non c'è nulla al mondo di più bello». Mezz'ora dopo, per quel che la riguardava, tra loro era tutto finito. Fino a quel momento l'argomento divorzio era stato lasciato da parte, come un piatto appena sfornato, ancora troppo caldo per essere servito in tavola. Avevano parlato di altre cose, si erano raccontati quello che era successo nelle loro vite da quando si erano visti l'ultima volta, continuando sempre a
guardare quel piatto lasciato da parte a raffreddare, chiedendosi se fosse finalmente arrivato il momento di assaporarlo. Lui lo tirò fuori casualmente, dicendole quanto era strano vivere da solo in un piccolo appartamento dopo tutti quegli anni in una casa grande circondato da una famiglia rumorosa. La discussione ebbe inizio così e in men che non si dica si fissavano irrigiditi, con un'espressione che diceva che quello che vedevano non era per nulla di loro gradimento. Con grande delusione di Isabelle, Vincent aveva detto che aveva lasciato la sua famiglia per lei. Con grande delusione di Vincent, lei lo aveva guardato come se l'avesse appena presa a schiaffi. Era una di quelle conversazioni che si trasformano prima in un litigio, poi in un vero e proprio massacro. Non avrebbero mai dovuto lasciare che accadesse qualcosa del genere. Ognuno aveva equivocato le parole dell'altro e poiché erano arrivati a cena quella sera con due cuori distinti ma altrettanto infervorati, tutto quello che fu detto a partire da quel momento fu distorto, travisato e infine usato come un proiettile. Fu la peggiore discussione che avessero mai avuto. Si alzarono da tavola barcollanti e storditi come due sopravvissuti a un tornado che avesse spazzato via la loro famiglia e la loro casa lasciandoli senza più nulla, eccetto qualche goccia di sangue nelle vene. Quel che è peggio, ritornarono stupidamente insieme nella stanza del bell'albergo a Chelsea che Vincent aveva prenotato per l'occasione, credendo che a letto ogni cosa si sarebbe rimessa a posto. Ma non era andata così, e si erano ritrovati a guardare il soffitto, entrambi decisi a non allungare neanche un dito per primi. Sfinito dal jet lag e da tutti i recenti sommovimenti della sua vita, Vincent non si era svegliato quando Isabelle si era alzata presto la mattina dopo, aveva fatto la valigia e se n'era andata. Non aveva indugiato sulla soglia sperando di sentirsi chiamare, né si era voltata per vedere se Vincent la stava guardando. Voleva soltanto andarsene il prima possibile. Giù nella hall gli aveva lasciato un semplice bigliettino, con l'intenzione di scrivergli qualcosa di più quando la sua mente fosse stata più limpida, libera da quel turbine di emozioni. Consegnò il messaggio alla reception e l'impiegato la guardò con sospetto, come se fosse una prostituta alla fine di una nottata di lavoro. In qualsiasi altro momento quell'equivoco l'avrebbe divertita, facendola scoppiare a ridere. Invece Isabelle si voltò e si diresse in lacrime verso l'ornato portone d'ingresso dell'albergo. Quello che Vincent le aveva detto quella notte le bruciava ancora nel cuore con la corrosiva violenza di un acido. Aveva abbandonato la sua fa-
miglia per lei. Non per se stesso e non perché aveva infine compreso che vivere con lei era l'unica cosa che ormai contasse per lui. Le aveva fatto un "regalo". Sorrise amaramente pensando al veleno contenuto in quel regalo. Chiamò un taxi bordeaux e chiese all'autista di portarla all'aeroporto di Heathrow. Non aveva idea dell'orario del primo volo per Vienna, ma si sarebbe informata una volta lì. La cosa più importante adesso era andarsene, allontanarsi da lui, da quell'albergo e da quella città che soltanto la sera prima, meno di otto ore prima, era stata così carica di promesse. Maledizione! Maledetto Vincent e quel suo «L'ho fatto per te». Isabelle sapeva che scappare non serviva a niente, che ogni sua fuga era soltanto una dimostrazione di immaturità e di viltà, ma Isabelle Neukor era sempre stata vile. E malgrado lo desiderasse con tutta se stessa, non aveva la forza di cambiare. Aveva trentun anni. Non aveva mai dovuto affrontare grosse difficoltà nella vita e questo le aveva dato forza di carattere ma non coraggio né vera forza interiore nei momenti critici. Ne era consapevole, anche se aveva spesso finto il contrario, ingannando più d'una persona nel corso degli anni. Ma quelli che la conoscevano bene sapevano che Isabelle era un leone di paglia. Si divertivano a sentirla ruggire perché sapevano che era soltanto un trucco, una trovata ingegnosa come la miriade di leve e di bottoni che il mago di Oz aziona nascosto dietro la sua tenda. Nascere in una famiglia in cui c'è denaro in abbondanza è come fumare: il problema è che soldi e sigarette sono sempre a portata di mano. Che la tua vita sia perfetta o un disastro, loro sono lì, e a te basta allungare una mano per far sì che essi la rendano migliore, anche soltanto per pochi minuti. Troppo spesso, quando le cose si erano messe male per lei, Isabelle si era precipitata in banca. Adesso, a trentun anni, era fuggita da troppe cose. Soffriva di terribili attacchi di panico che riusciva a placare solo con forti sedativi. Una volta che era agitatissimo Ettrich si era fatto dare metà di una di quelle sue pillole: non aveva mai preso niente di così potente in vita sua ed era stato sul punto di avere un collasso. Gli sembrava impossibile che Isabelle potesse mandarne giù una quasi ogni giorno. Ma tutto questo non aveva alcuna importanza per lui. Ettrich la amava senza riserve. All'università aveva avuto una ragazza italiana che gli diceva sempre: «Ti amo come una pazza». Quella frase gli aveva sempre fatto piacere, per quanto non avesse mai creduto neanche per un istante che corrispondesse alla verità. O meglio, non prima di incontrare Isabelle Neukor e di innamorarsi di lei. Da quel momento aveva compreso cosa significava
amare qualcuno come un pazzo. Meno di quattro giorni dopo il loro primo incontro, Isabelle gli aveva raccontato quasi tutti i segreti della sua vita. Lei per prima ne era rimasta stupefatta ed eccitata. Gli aveva parlato dei sedativi che era costretta a prendere e delle nevrosi che avevano lo scopo di mitigare. Gli aveva parlato delle sue paure e delle sue più intime speranze. Desiderava avere un bambino prima o poi. Non l'aveva mai confessato a nessuno prima di quel giorno, con grande dolore di sua madre. Per quanto non le fossero certo mancati innamorati e amanti, Isabelle sino a quel momento non aveva mai incontrato nessuno con cui avrebbe desiderato avere un bambino. Poi aveva raccontato a Vincent i sentimenti contrastanti che la legavano ai genitori e agli altri parenti: aveva una famiglia interessante, ma difficile. Aveva continuato a parlare a quello sconosciuto di cose che non aveva mai rivelato a nessuno, neanche al ragazzo con cui aveva vissuto per tre anni a New York e che le aveva sempre dimostrato un profondo affetto. E quando aveva scoperto come la faceva sentire bene, aveva proseguito. Durante il loro primo appuntamento ufficiale, dopo soltanto mezz'ora voleva già toccargli le mani per sentire se fossero calde o fredde, invece gli aveva chiesto qual era secondo lui la cosa più importante della vita. Sperava di ricevere una risposta illuminata o quanto meno sorprendente, non i soliti, triti e ritriti l'«amore», o la «libertà», o l'«originalità». Per favore, niente di così mediocre. Desiderava da lui creatività e forza d'immaginazione, una risposta sublime, da ammirare senza riserve. Se lo scopo di Ettrich era quello di giungere ad «amare come un pazzo», quello di Isabelle era, per una volta nella vita, di provare un'ammirazione illimitata per un uomo. Vincent aveva compreso il peso di quella domanda e dopo essersi guardato a lungo le mani aveva risposto: «Essere compreso». Come poteva l'uomo che aveva detto una cosa simile non avere intuito di cosa aveva bisogno o voleva sentire Isabelle in un momento così cruciale per la loro vita? Perché non le aveva detto: «Ho lasciato tutto perché tu sei tutta la mia vita ora»? Oppure: «Solo te, Fizz... e nient'altro». Qualcosa del genere le sarebbe andato bene. Per quanto un po' retoriche, Isabelle poteva ancora riuscire ad accettare quelle frasi. Ma «L'ho fatto per te»? Quelle parole avevano avuto l'effetto della lama di una ghigliottina che calava implacabile su di loro. Con quella frase Vincent aveva giustiziato il loro rapporto, anche se non si poteva certo dire che giustizia fosse stata fatta. Quella mattina, a Londra, guardando dal taxi Hammersmith immersa nel traffico, Isabelle si domandò cosa avrebbe fatto ora della sua vita.
All'improvviso il suo cellulare squillò. Coprì la borsetta con entrambe le mani per non sentire quel trillo così stridulo. Era sicura che fosse Vincent e non voleva essere tentata di rispondergli. Che cosa le voleva dire, ritorna? Cos'è successo? Ritorna e parliamone. Non essere sciocca. Non buttare tutto all'aria per una frase. Non essere infantile, Isabelle. Non essere vile. Per una volta nella vita, fermati e lotta per quello in cui credi. Il telefono continuò a squillare. Sembrava che di secondo in secondo il trillo si facesse sempre più assordante. Isabelle premette con forza le mani sulla borsetta nell'assurdo tentativo di zittirlo. Cos'altro poteva fare per allontanare tutto? Zitto. Sta' zitto. Basta. Lasciami in pace: non torno, Vincent. Per caso i suoi occhi si diressero verso lo specchietto retrovisore. L'autista la stava guardando, chiedendosi perché mai non rispondesse. Merda! Isabelle aprì la borsetta e si mise a rovistare dentro in cerca di quel maledetto telefono. Avrebbe spento il cellulare e l'avrebbe fatta finita. Ring ring. Era in fondo alla borsa. Isabelle lo spinse ancora più giù, premendo con forza sul tasto per spegnerlo. Lo schermo verdolino si oscurò ma per qualche misteriosa ragione il telefono continuò a squillare. Accigliata, Isabelle si domandò come potesse accadere. Come poteva continuare a suonare, se era spento? Ring ring. Isabelle agguantò la batteria e la sfilò dal cellulare. Anche adesso, con la batteria in una mano e il telefono nell'altra, quello continuava a squillare. Il tassista chiese: «Mi scusi, signora, le dispiacerebbe rispondere? Quel telefono mi sta dando alla testa». Spinse con violenza il tasto per spegnerlo: una, due, sei volte. Il telefono continuò a suonare, ma improvvisamente il suono cambiò, trasformandosi nel famoso fraseggio finale del Bel Danubio blu di Strauss. Daa-daa-daadaa-daa, di-di, di-di. Lo schermo si riaccese, illuminato da una lucetta arancione. Era la prima volta che succedeva. Un disegnino di una coppia che danzava iniziò a volteggiare sullo schermo. Poi scomparve e la musica cessò. E al posto dei ballerini apparvero le parole «CHIAMA ANJO». Fissando lo schermo del cellulare, Isabelle cominciò a scuotere lentamente la testa, rifiutandosi di accettare quello che era successo. E disse a voce alta. «Chi è Anjo?». «Grazie». Confusa, guardò lo specchietto retrovisore. «Come?». Sollevando il mento, l'autista rispose: «Grazie per avere risposto al telefono».
Isabelle lo guardò, cercando di mettere a fuoco le parole di quell'uomo: non aveva idea di cosa stesse parlando. Lei teneva ancora il telefono stregato in una mano e la batteria nell'altra; il tassista diceva cose senza senso; e ora doveva anche chiamare Anjo, pur non avendo la minima idea di chi fosse. Isabelle fece una pausa per bere un lungo sorso d'acqua. Guardò Ettrich al di sopra dell'orlo del bicchiere con occhi felici. Aveva parlato a lungo. Lui non l'aveva interrotta neanche una volta, limitandosi a osservare il suo viso, le espressioni che vi si erano susseguite, la sua bocca, così minuta, così bella, e la freccia umida della lingua che articolava una parola dopo l'altra. Mentre Isabelle, seduta davanti a lui, gli raccontava quella storia folle di messaggi telefonici inviati dal loro bambino non ancora nato, Vincent era andato riscoprendo ancora una volta la donna che amava attraverso i propri ricordi. «Così la prima volta che Anjo si è messo in contatto con te è stato quella mattina che ti ha inviato un SMS a Londra?». Il bicchiere emise un lieve tintinnio quando toccò il tavolo. «SMS?». «Sì, un messaggio. Anjo ti ha mandato un messaggio sul cellulare, no?». «Sì, proprio così». Si scambiarono uno sguardo che diceva «È una follia» e «Lo so, ma è la verità». «Il tuo telefono si è messo davvero a suonare Il bel Danubio blu?». «Sì, e da quella mattina non ha più smesso. Non riesco più a cambiare la suoneria. Anche se ti confesso che ci ho provato», disse Isabelle ridendo. «Detesto quel valzer. Sai quante volte l'ho sentito, avendo sempre vissuto a Vienna?». Isabelle guardò alle spalle di Vincent e scorse la cameriera in piedi in un angolo che li squadrava con aria torva. Era chiaramente spaventata e confusa, a causa di quello che lei le aveva detto della sua famiglia. Era probabilmente lo stesso senso di sbigottimento e timore che aveva provato lei quando Anjo le era comparso davanti per la prima volta e aveva cominciato a tormentarla. O più semplicemente a stuzzicarla? Isabelle non sapeva dire se Anjo fosse crudele o semplicemente giocoso, perché una volta era più l'uno, una volta più l'altro. Sempre inatteso e imprevedibile, entrava e usciva dalla sua vita come un inaspettato mazzo di fiori o uno spintone alle spalle. «Quand'è che ti ha parlato per la prima volta?». «In un caffè a Vienna. Vuoi vedere?». «No!». Istintivamente Vincent alzò entrambe le braccia per rifiutare l'in-
vito di Isabelle a "viaggiare" ancora nel passato. «Raccontamelo tu, Fizz». «Non è importante. Quel che importa è ciò che mi ha detto di te e di cosa ti sarebbe successo». «Dimmelo». Ettrich si rese conto che stava iperventilando. Alzò gli occhi al soffitto esasperato. Una cosa che aveva notato di recente era che il suo corpo con il passare degli anni era diventato terribilmente sensibile a ogni genere di emozione. Reagiva alle situazioni in modo fervido e incontrollabile. Cose che in passato Ettrich avrebbe allegramente ignorato con una semplice scrollata di spalle, adesso provocavano in lui intense emozioni. Il mese scorso mentre ascoltava la radio aveva sentito Midnight Without You dei Blue Nile. Grazie al cielo era solo, perché dopo qualche secondo quella bizzarra canzone sulla fine di un amore l'aveva fatto letteralmente sciogliere in lacrime. Se era nervoso, gli capitava di mettersi a respirare in modo strano o di stringere i pugni con tale violenza che dopo un po' le dita iniziavano a dolergli. Oppure era assalito dal bisogno urgente di fare pipì. Era come se il suo corpo stesse clamorosamente regredendo agli anni semplici dell'infanzia, in cui tutto era semplice azione e reazione: se sei triste, piangi; se hai paura, te la fai sotto. Forse invecchiare significava diventare prigionieri dei capricci del proprio corpo. «...a piedi lungo Windmuhlgasse...». «Aspetta, Fizz. Fermati. Mi sono perso la prima parte. Per favore, ricomincia». «Quando sono uscita dalla Stella Marina, mi sono resa conto che dopo quello che era accaduto, se tornavo a casa sarei stata agitatissima. Erano solo le nove, ma non avevo voglia di andare in centro. Così, quando mi sono ricordata che il Café Ritter, a cinque minuti a piedi dal ristorante, è aperto sino a tardi, ho deciso di andare lì. Lo conosci, il Ritter: c'è quella grande sala fumosa in cui si respira ancora un'atmosfera anni Cinquanta, immersa nella penombra persino in pieno giorno. Era quasi vuoto. Entrando ho visto un passeggino accanto a un tavolo. Ho pensato che fosse piuttosto strano, perché mi sembrava un po' tardi per portare in giro un bambino piccolo. Mi sono seduta a un tavolino accanto alla finestra in fondo alla sala e ho ordinato un bicchiere di vino. Cora mi ha chiamato al cellulare. Ho cominciato a parlare guardando fuori della finestra: non ti so dire quanto tempo sia passato. Comunque, a un certo punto qualcosa mi ha toccato il ginocchio. Ho abbassato la testa e ho visto un bambino appoggiato alla mia gamba che mi guardava. Era scu-
ro di pelle, forse turco, oppure iugoslavo, con una gran testa di riccioli neri e grandi occhi scuri». Isabelle si morse il labbro e ridacchiò. «Era anche piuttosto brutto. Lo so che non si dovrebbe dire di un bambino che è brutto, ma era proprio uno di quei bambini che solo una mamma può trovare bello». Ettrich si immaginò uno gnomo, un folletto che abitava sotto un ponticello magico. «Come mai? Era misteriosamente brutto o brutto e basta?». «Brutto e basta: col naso schiacciato e una bocca grande grande e bavosa. Brutto. A guardarlo veniva da pensare: "Magari quando diventa grande migliora", ma era evidente che non sarebbe stato così. È per questo che trovo commovente vedere le mamme che accudiscono con amore bambini brutti. Sono meravigliose, non credi?». Ettrich non riuscì a resistere alla tentazione di punzecchiarla. «Sei proprio una grande snob, Isabelle». Isabelle annuì e sorrise. «Dico solo pane al pane e vino al vino». Le lanciò un bacio e le fece cenno di continuare. «La prima cosa che ho pensato è stata che il passeggino doveva essere per lui. Ho guardato verso i suoi genitori, ma da dov'ero non riuscivo a vederli. Così Mr Bruttezza e io abbiamo continuato a fissarci per un po'. Era un bambino piccolo, ricordatelo. Aveva appena cominciato a camminare. Se gli porgevi un dito, te l'avrebbe stretto nella sua manina. «Dopo esserci scrutati per un po', gli ho fatto un sorriso, ma lui è rimasto serio e mi ha detto a voce bassa ma distinta: "Tirami su e prendimi in braccio". Parlava con la vocetta di un bimbo, Vincent, ma non era un bambino che parlava». «Mio Dio». Ettrich si lasciò andare contro lo schienale della sedia e si strofinò le braccia con tutte e due le mani come per scuotersi di dosso dei pidocchi. «Sì, so cosa provi. Ma devi ricordare che Anjo a volte è un po' dispettoso e a volte ha voglia di scherzare. Dopo un po' ci si abitua». «No, Fizz, mi dispiace. La stessa sera ti si è presentato sotto forma di un cane da guardia di settanta chili e mezz'ora dopo con le fattezze di un bambino? Non riuscirò mai a fare l'abitudine a una cosa del genere». «Se avessi dovuto, come ho dovuto io, ce l'avresti fatta anche tu. L'ho tirato su e me lo sono messo in braccio. Mi ha detto di giocare con lui come se fosse un normale bambino, così chi ci avesse visto non si sarebbe stupito di vedermi parlare con lui». Ettrich continuava a strofinarsi le braccia. «Che gran casino».
«Cosa?». La voce di Ettrich si fece stridula: «Tutto. È tutto maledettamente assurdo. Siamo qui seduti a parlarne in toni misurati, ma è una dannata follia!». Isabelle attese pazientemente che quella tempesta verbale passasse. Vincent sbuffò e soffiò come per prepararsi a continuare con quella sua tirata, ma poi tacque. «Devo continuare?», domandò lei alzando un sopracciglio e un poco anche la voce. «Certo! Raccontami come quel piccolo bruto ti ha detto che sarei morto di lì a poco, te ne prego». «Aspetta un attimo...». «Ha detto "Aspetta un attimo"? Non capisco...». «No, zitto, Vincent. C'è qualcosa che non va». Non fu necessario che glielo dicesse due volte. Tutto il suo essere fu istantaneamente all'erta. Si mise a perlustrare il locale come un agente dei servizi segreti con la missione di proteggere il presidente degli Stati Uniti in mezzo alla folla. Era così preso dal suo sforzo di avvistare il nemico che non si accorse che Isabelle aveva raccolto le sue cose e si stava alzando. «Dobbiamo andarcene». «Perché?». «Anjo dice che dobbiamo andarcene immediatamente». Ettrich gettò una banconota da venti dollari sul tavolo e s'alzò. Isabelle era già uscita dal séparé e si stava dirigendo verso la porta: allungò una mano dietro di sé, lui la strinse e insieme uscirono di corsa. All'ultimo momento Ettrich scorse la cameriera che li osservava andarsene con volto trionfante. Nel parcheggio Isabelle prese la direzione opposta rispetto alla loro macchina. Lui la tirò per il braccio, cercando di trattenerla. «Dove vai? La macchina è di là», le disse indicando l'auto. «Non possiamo prenderla. Dai», rispose lei tirandolo a sua volta. «Perché no? Ci sono anche le tue valigie». «Lascia perdere. Vieni, Vincent, sbrigati!». Isabelle lanciò uno sguardo alle sue spalle, verso il ristorante. I suoi occhi erano così lucidi e spaventati che anche lui istintivamente si voltò. Era tutto esattamente come prima. Si trovavano in quella terra di nessuno che si estende tra una grande città e il suo aeroporto, lungo una di quelle strade in cui le auto sfrecciano di continuo su e giù ma raramente si fermano, specialmente di notte. Una zona di transito, una fermata dell'autobus dove nessuno scende mai, un luogo
a metà strada tra un punto e l'altro della città che si osserva soltanto dal finestrino dell'auto, con negozi e locali sempre vuoti: fast food, dimesse scuole di karatè e centri d'arredamento all'ingrosso con grosse saracinesche di metallo tirate giù davanti alla porta. Di tanto in tanto si scorge qualcuno sul marciapiede, ma ha sempre l'aria di un ubriaco, un malvivente oppure qualcuno che si è appena perso. Isabelle stringeva saldamente la mano di Ettrich e camminava spedita, senza voltarsi indietro. Sembrava che sapesse dove stava andando, ma era già un bel po' che camminavano e non erano ancora arrivati da nessuna parte. Per più di un chilometro Vincent non disse una parola, accontentandosi di camminarle accanto, osservando quello strano posto che fino ad allora aveva soltanto attraversato a tutta velocità per andare all'aeroporto. Di tanto in tanto un autobus illuminato passava loro accanto rumorosamente avvolgendoli in una nuvola di gas insalubri e fumosi. Dopo un po' Ettrich si rese conto che gli unici suoni intorno a loro erano il fischio delle auto e dei camion in corsa, e l'eco dei loro passi sul marciapiede quando non passava nessun veicolo: un silenzio urbano, quello che si sente quando ci si trova a camminare per il centro alle tre di notte perché non si è riusciti a trovare un taxi all'uscita da una festa. «Isabelle, dove stiamo andando?». «Non lo so. Sto aspettando». «Cosa?». «Che Anjo mi dica qualcosa». Ettrich fece una smorfia. «OK, mi puoi dire almeno perché siamo dovuti scappare via così in fretta e furia senza neanche poter prendere la macchina?». Una Jeep Cherokee argentata sfrecciò loro accanto accompagnata dall'assordante clamore di una batteria e di un basso. Un gomito candido sporgeva fuori dal finestrino del passeggero. Isabelle disse qualcosa mentre l'eco della musica si spegneva. «Cosa? Cos'hai detto?». «Ce ne siamo andati perché eri in pericolo, Vincent. È stato Anjo ad avvisarmi. La stessa cosa vale per la macchina. Sarebbe stato troppo rischioso prenderla». Isabelle continuava a camminare a passo spedito verso una meta inesistente. «Fermati». Vincent l'afferrò per il braccio. Isabelle tentò di proseguire, ma lui era deciso a non lasciarla andare questa volta. «Vincent, dobbiamo...».
«No. Adesso mi dici perché ero in pericolo. Com'è possibile?... Sono già morto. O almeno lo sono stato. Cosa possono farmi? Uccidermi di nuovo? Sei tu che sei viva, e incinta». Isabelle guardò di qua e di là come se volesse attraversare la strada e stesse guardando se arrivavano delle macchine. Quando si voltò verso di lui, i suoi occhi erano colmi d'amore e di paura. «È così complicato, Vincent. Ho bisogno di troppo tempo per raccontarti tutto». Ma Ettrich non aveva nessuna intenzione di accontentarsi di così poco. «Allora fammi un riassunto. Adesso. Ho bisogno di sapere qualcosa, Fizz. Dimmi qualcosa». «Non dovresti essere qui, Vincent. Sei morto. Ma Anjo ti ha riportato in vita perché ha bisogno di te. Lo devi aiutare. Ha bisogno di entrambi finché non nascerà». «Perché?». «Non me lo vuole dire». Un enorme camion blu passò rumorosamente seguito da un altro camion, nero e sferragliante. Ettrich aveva almeno una cinquantina di domande da farle, ma sapeva di avere appena il tempo per un paio. «Perché non mi ricordo niente? Di quando mi sono ammalato, quando sono stato in ospedale, quando sono morto... non ricordo niente. Assolutamente niente». «È così che Anjo è riuscito a riportarti qui: cancellando tutti i tuoi ricordi di quei giorni». «Ma non si tratta solo di me, Isabelle. Tutti si comportano come se non fosse successo nulla: Kitty, i miei colleghi, Margaret Hof. Nessuno sa che sono morto. Come può essere?». «È stato Anjo. Ha rimodellato tutto». Ma Ettrich non era ancora soddisfatto. «Se ha tutti questi poteri, se può fare tutte queste cose, perché ha bisogno di me? O di te?». Isabelle sorrise per la prima volta da un'ora. «Ha bisogno di me perché io sono sua madre. Perché ha bisogno di te, oltre al fatto che sei suo padre? Forse perché sa quanto io ho bisogno di te. Andiamo a quella fermata e prendiamo il primo autobus che passa». Si avvicinarono a una piccola pensilina di vetro e metallo a un centinaio di metri di distanza. «C'è un'altra cosa che devi sapere, Vincent. Ora che sai la verità, sei più forte. Puoi fare cose incredibili. Se ancora non te ne sei accorto, te ne renderai conto presto». Accarezzandogli il viso dolcemente con tre dita, Isabelle aggiunse: «Sei un tipo potente, adesso».
Ettrich ricordò come la notte scorsa avesse fatto rifluire il numen nel corpo del tassista, salvandogli la vita. E gli venne in mente anche un'altra cosa. «Ci sono due persone che sanno che sono morto: Coco Hallis e Bruno Mann. Li conosci?». «Ho sentito il nome di Coco prima, da te, ma non li conosco, nessuno dei due». «È cominciato tutto quando ho visto il nome di Bruno tatuato sulla nuca di Coco». «Sulla sua nuca? Cavolo, questo sì che è amore. Non credo che io lo farei, neanche per te. Quanto tempo è che stanno insieme?». «Non stanno insieme. Non si conoscevano neanche prima che li presentassi io poche sere fa». «E lei si è già fatta tatuare il suo nome sul collo?». Isabelle era sinceramente colpita. Ettrich stava per spiegarle come stavano le cose quando un autobus verde della linea urbana si fermò davanti a loro. Le porte si aprirono con un sibilo. Isabelle ed Ettrich entrarono e salirono i due gradini. L'autista lanciò loro un'occhiata per vedere se fossero due tipi pericolosi. Decidendo che poteva fidarsi, premette il tasto di chiusura delle porte. C'erano soltanto altre due persone sedute in fondo all'autobus. L'autista ripartì e Isabelle afferrò il braccio di Ettrich per non perdere l'equilibrio. Con la mano libera, lui cercò in tasca qualche spicciolo per pagare il biglietto. Lei lo fermò: «No, lascia. Faccio io». Ettrich ricordò quanto le piaceva comperare i biglietti, inserire le monetine nelle macchinette, contare gli spiccioli, fare i conti con la calcolatrice. Isabelle tirò fuori dalla borsetta l'elegante borsellino di pelle che le aveva regalato lui un giorno che erano andati insieme da Connolly, durante quel loro ultimo disastroso soggiorno a Londra. Ancora una volta, il ricordo di quel viaggio infausto fece calare una nuvola scura su di lui. Mentre avanzavano nello stretto corridoio dell'autobus, Ettrich domandò: «Dove sei andata quella mattina che mi hai lasciato?». «Come?». L'autobus aveva preso velocità e incontrando una serie di buche si era messo a sobbalzare come se non avesse affatto gli ammortizzatori. Isabelle si fermò e si lasciò cadere in un sedile vuoto accanto al finestrino, facendogli cenno di raggiungerla. Lui le si sedette accanto. «Dove sei andata quella mattina che mi hai lasciato?». La voce di Isabelle cambiò, facendosi più stridula e sconnessa. «Ho pre-
so un taxi. Sono andata all'aeroporto. Ho aspettato tre ore e sono salita sul primo volo per Vienna. E ho pianto. E ti ho odiato». Ettrich sapeva che era meglio non aggiungere una sola parola, per il momento. Isabelle alzava sempre il tono quando era in collera o quando era insicura. E parlava più veloce, come se la rapidità delle sue parole potesse convincere gli altri di quello che diceva, o forse impedire loro di protestare. Se, malgrado tutto, si insisteva a contraddirla, Isabelle si metteva a parlare ancora più velocemente e finiva spesso per dire terribili cattiverie del tutto superflue e inutili. Dopo qualche secondo appena, però, tutto ciò non ebbe più alcuna importanza perché senza alcun preavviso Vincent Ettrich fu colpito da un dolore straziante, tanto intenso da impedirgli persino di chiudere gli occhi o di respirare. Ma quel che è peggio, la sua mente rimase perfettamente lucida e cristallina, ed Ettrich ebbe l'immediata certezza che quello era stato il dolore provato al momento della propria morte, lo stesso dolore che l'aveva stroncato qualche mese prima. Per la prima volta da quando era tornato in vita, ricordava consapevolmente qualcosa di quel giorno. Ma essendo già morto una volta, quel dolore non si sciolse nel sollievo dell'oblio. Quello strazio lancinante che gli consumava le ossa, il cervello e il sangue non trovò alcun genere di sollievo. Era onnipotente. Era Dio. «Combattilo. Sei più forte adesso». Nella terribile agonia di quegli istanti interminabili Ettrich udì, e soprattutto comprese, il significato di quelle parole. E il dolore scomparve. Sparì con la stessa velocità con cui si era presentato, lasciandolo svuotato, come prosciugato. Ettrich si sentì all'improvviso lieve come l'aria, poco più di una nuvola che sorvolava leggera la terra. «Vincent?». Qualcuno lo chiamava. «Vincenti». Senza rendersene conto si voltò, ma ci mise qualche secondo ad accorgersi che stava guardando qualcuno. Una donna: Isabelle Neukor. La cosa non gli fece alcun effetto. Chiuse gli occhi lentamente, come una lucertola che si stia crogiolando al sole su una roccia calda. «Vincent, cosa c'è? Stai bene?». Gli aveva preso una mano. Prima percepì quella mano sulla pelle, poi il suo cervello registrò cosa gli stava accadendo intorno, infine Vincent Ettrich tornò lentamente ad essere presente al mondo. Udì Isabelle, quindi la vide e infine comprese chi era, e ne fu felice. Dopo un po' arrivarono anche gli odori: l'insulto della
densa nuvola dei gas di scarico, una pagnotta di pane fresco di segale chiuso dentro una busta di plastica, alcune arance. Ma non solo. Ettrich adesso sentiva l'odore delle tre monetine di rame ossidate affondate nel taschino destro della camicia dell'autista. Il merluzzo che stava friggendo in padella in un fish-and-chips lungo la strada, il lucidalabbra alla menta che la donna seduta qualche posto dietro di loro si era messa sei ore prima, e infinite altre cose. Sentiva tutto. Era come se fosse stato rimosso dalle sue narici un filtro che sino a quel momento aveva trattenuto gli odori della vita che ora lo sommergevano con tanta intensità. L'autobus rallentò bruscamente per evitare di investire un'auto che gli si era infilata davanti da una traversa. Sentendo la mano di Isabelle sulla propria e percependo l'odore della sua pelle calda sotto il cinturino del grosso Breitling che portava al polso, Ettrich le raccontò con calma quello che gli era successo. Il dolore, la voce misteriosa, il senso di vuoto che era seguito al dolore, gli odori che avevano riempito quel vuoto... Mentre Ettrich descriveva quegli strani eventi, l'autobus s'addentrava nella città. Non ci poteva essere nulla di più terreno: un autobus semivuoto che procedeva veloce attraverso la notte con quattro passeggeri a bordo, due dei quali guardavano fuori dal finestrino con gli occhi vacui e rotondi di animali impagliati. Come un quadro di Edward Hopper. Se non che uno di loro, un uomo sulla quarantina che parlava con una bella ragazza, era morto di recente ed era stato riportato in vita dal bambino che la ragazza portava in grembo. «Era la voce di Anjo, quella che hai sentito. Il fatto stesso di udirla e di comprenderla ti ha salvato. Perché quel dolore era la Morte, Vincent. È tornata a prenderti. Siamo scappati dal ristorante perché ci stava per raggiungere. Ed era già penetrata nella tua auto, per questo non abbiamo potuto prenderla. Pensavo che ce l'avremmo fatta a sfuggirle, ma mi sbagliavo. La cosa meravigliosa è che questa volta sei stato in grado di lottare contro di lei». «Te l'ha detto Anjo?». Isabelle annuì. «Cos'altro ti ha detto?». «La Morte è molto determinata, ma un po' stupida. Ti ha sconfitto una volta con quel dolore, così adesso ci ha riprovato, ma dopo quello che ha fatto Anjo, tu sei più forte e le è andata male. Quando Anjo ti ha parlato in mezzo a quel dolore, ti ha solo ricordato che non sei più la stessa persona di prima. La Morte ti rivuole, Vincent, perché tu le appartieni. Non dovre-
sti essere qui. Cercherà di riprenderti con ogni mezzo. Ma tu...». Isabelle volse lo sguardo altrove. Quando tornò a guardarlo, le luccicavano gli occhi. «Avrei voluto mentirti, ma non ce la faccio. Hai pochissime chance di sconfiggerla. Me l'ha detto Anjo prima di riportarti in vita. La Morte può anche essere stupida ma non molla tanto facilmente. Tornerà alla carica, molto presto forse». «OK, ma cosa può fare a quelli come me? Quelli che le sfuggono. Valgono sempre le stesse regole?». Isabelle scosse la testa. «Non lo so, Vincent. Proprio non lo so». Dopo quelle parole rimasero in silenzio mentre Ettrich riguadagnava lentamente le forze e la lucidità mentale. Isabelle gli posò la testa sulla spalla e chiuse gli occhi. Voleva solo andare a letto con lui e fare l'amore fino allo sfinimento. Un'ora e tre corse d'autobus più tardi giunsero sotto l'appartamento di Ettrich. Non era il genere di posto che potesse piacere a Isabelle, anche se si sarebbe guardata bene dal dirglielo. Troppo nuovo, senz'anima, esattamente il genere di complesso residenziale pseudo-postmoderno dal nome altisonante in cui ci si poteva aspettare di veder traslocare un qualsiasi uomo facoltoso in attesa di far decollare di nuovo la propria vita, dopo aver chiuso con il proprio matrimonio. Salirono in un elegante ascensore di metallo e vetro in cui aleggiava un vago sentore di coriandolo. Ettrich continuava a tenere Isabelle per mano. Al quinto piano il corridoio tinteggiato di uno di quei giallini salmonati che si vedono sempre più spesso nei ristoranti all'ultima moda e nei negozi New Age le fece venire la pelle d'oca. Era un residence per yuppy, personaggi col sospensorio, uomini che viaggiavano solo in Mercedes, miliardari della Microsoft. Gente che aveva in progetto di comprarsi una villa in Costa Rica o su una piccola isola dell'Egeo. Perché mai Vincent aveva scelto un posto simile? La vista. Non appena lui aprì la porta del piccolo appartamento, Isabelle si diresse verso la grande finestra panoramica e appoggiò le mani contro il vetro freddo. Non era un panorama eccezionale, ma senza dubbio molto bello. La torre delle telecomunicazioni all'altro capo della città sembrava un dito argenteo e sfavillante puntato contro il cielo notturno. Isabelle rimase a lungo li davanti a osservare ogni cosa, sentendosi più al sicuro ora, in quel piccolo appartamento sulla città, insieme a Vincent. Lui le si avvicinò e le porse un bicchiere di Chivas Regal con un poco d'acqua: il drink preferito di Isabelle. Ettrich conosceva alla perfezione i suoi gusti. Riguar-
do a molte cose. Mentre Isabelle sorseggiava il suo whiskey, scorse sul davanzale una cosa che la fece sorridere. Era un oggetto di grande importanza emotiva per entrambi. Ettrich ci teneva ad averlo sempre sotto gli occhi. Quell'appartamento era vuoto, arido e deprimente: lo sapeva. L'unica ragione per cui l'aveva affittato era che, spossato dalla separazione, aveva assolutamente bisogno di trovare un posto in cui sentirsi almeno un po' a casa. Lì prendeva respiro, mangiava piatti già pronti, dormiva sonni irrequieti e trascorreva anche troppo tempo a pensare a tutti gli altri luoghi in cui avrebbe voluto essere. Quell'oggetto sul davanzale, per quanto potesse sembrare sciocco, era il suo talismano. Gli dava conforto e fiducia nel futuro. Era stato il primo regalo di Isabelle. Era una ranocchia, alta una trentina di centimetri, verde, di gomma, con un gran tutù bianco, le braccia sollevate ad arco sopra la testa, in equilibrio su una zampa sola, la sua piatta, verde zampotta da ranocchia, in una tipica posa da ballerina classica. Era buffa e accattivante. Isabelle l'aveva comprata più o meno per un dollaro in un mercatino delle pulci, a Vienna, quando aveva ventiquattro anni. Da allora se l'era sempre portata dietro in tutti i suoi viaggi intorno al mondo e una delle prime cose di cui si preoccupava quando disfaceva le valigie era di trovarle un posto. Isabelle giudicava le persone che entravano in casa sua in base alla loro reazione nei confronti della sua ranocchia: se la consideravano una cianfrusaglia adolescenziale, le depennava dalla sua vita senza pensarci due volte. Se rimanevano pensierose, o estatiche, o perplesse, se le avvicinava di più al cuore. La prima volta che Ettrich l'aveva vista, l'aveva immediatamente presa in mano e girandola di qua e di là aveva detto quasi tra sé: «Già, è proprio vero». Incuriosita, Isabelle gli aveva chiesto cosa intendesse e lui l'aveva fatta danzare un po' in mano prima di rispondere. «Questa rana siamo noi, stupide ranocchie in tutù convinte di poter ballare il Lago dei Cigni. È così dolce, e così triste. Ranocchie ballerine come questa ce ne sono migliaia nel mondo. Anzi no, milioni, miliardi!». Qualche giorno più tardi, dopo aver fatto l'amore per la prima volta, Isabelle gliel'aveva regalata sorprendendo per prima se stessa del proprio gesto. Imbarazzata dall'intensità delle emozioni che l'avevano assalita in quell'istante, gli aveva detto con voce tremante: «Vorrei che la tenessi tu». Lui l'aveva presa e se l'era stretta al petto senza dire nulla. «Darti questa ranocchia significa per me molto di più che concederti il mio corpo. Lo capisci, vero?».
Sì, Ettrich l'aveva capito. Lei glielo aveva letto in viso con terrore: non si era sentita così aperta, vulnerabile e felice con nessuno da anni, non parliamo poi di un amante. Era successo tutto così in fretta. Quei ricordi si affastellarono rapidi uno sopra l'altro nella mente di Isabelle mentre se ne stava davanti alla finestra con il whiskey in mano a guardare quella ranocchia appollaiata sul davanzale dell'appartamento di Vincent. Indicandola gli chiese: «Le hai dato un nome?». «No, sarebbe un sacrilegio! È Jederfrosch». Lei ridacchiò al tentativo di battuta di Vincent in tedesco. «Ma la tieni sempre con te?». «Sempre. È la mia spalla. E in questo appartamento l'arredo è affidato a lei sola». Isabelle mosse lentamente la testa di qua e di là. «Me ne sono accorta. Ma a te piacciono le cose belle, perché questo posto è così vuoto? Così... desolato?». Lui fece una smorfia. «Avevo appeso una fotografia su quel. muro, ma mi deprimeva, era così bella. Così l'ho tirata giù. Fizz, questa non è casa mia. La mia casa è a Vienna con te. O almeno, diciamo che lo era prima che morissi». Quella frase lo divertì e lo fece sorridere. «Perché ridi?». «Perché l'ho detto senza pensarci. Come se fosse la cosa più naturale del mondo, niente di speciale: prima che morissi». Isabelle posò il bicchiere sul davanzale accanto alla rana e si avvicinò a Ettrich. «Non so cosa succederà domani, ma adesso sono qui. Siamo di nuovo insieme». Lui le posò le mani sui fianchi. «Grazie a Dio». Lei iniziò a slacciargli il primo bottone della camicia. Lui esitò, poi posò le mani su quelle di lei, così fredde sotto le sue, calde, fermandola. «Pensi sia un problema per Anjo se facciamo l'amore?». Non lo diceva per scherzo. Il suo tono era seriamente preoccupato. Lei gli rivolse un sorriso voluttuoso. Trovava splendido che lui fosse così premuroso. «E davvero carino da parte tua, ma non sono ancora così delicata. Sono solo al terzo mese. Non ti preoccupare, possiamo farlo quanto vogliamo. E poi, se si dovesse sentire troppo stretto, può sempre spostarsi un po' più su nella sua cameretta». E slacciò i bottoni numero due e tre, guardando le proprie dita muoversi con destrezza. «Il tuo appartamento ha bisogno di qualcosa».
«Ma ti ho detto...». Isabelle spinse dolcemente la fronte contro il mento di Ettrich. «Intendo ora, stanotte. Ha bisogno di vita. Mi vengono i brividi solo a pensare che sei stato qua da solo per così tante notti». «Non è poi stato così male», disse lui guardando le dita di Isabelle ormai sull'ultimo bottone. «E orribile». Lei gli sfilò la camicia e posandogli le mani sulle spalle lo indusse a voltarsi. Ettrich sapeva cosa Isabelle stava per fare. Era felice. Quand'era piccolo, sua madre lo raggiungeva in camera sua quasi tutte le sere mentre lui si preparava per andare a letto. Quando si era lavato la faccia e spazzolato i denti, lei lo faceva distendere sul letto a pancia in giù con la casacca del pigiama sollevata. Gli si sedeva accanto e incominciava a passargli le sue lunghe unghie rosse su e giù per la schiena, pian pianino, pian pianino, con un tocco dolce dolce, su e giù, su e giù, per bel po'. Lei lo chiamava "dolcesolletico". Qualche sera parlavano un po', ma il più delle volte si lasciavano avvolgere da un delizioso silenzio e trascorrevano splendidi minuti insieme, ognuno immerso nei propri pensieri, ma uniti da quelle incantevoli dita che scivolavano sulla schiena di Vincent, su e giù, con una carezza delicata e sognante che non mancava mai di calmare, placare e ipnotizzare la pelle irrequieta di quel bambino che pian piano invariabilmente si addormentava. Una volta diventato adulto e a sua volta padre, quello che commuoveva di più Vincent Ettrich al ricordo del dolcesolletico era l'estrema cura con cui alla fine sua madre doveva avergli tirato giù il pigiama e averlo infilato sotto le coperte senza svegliarlo. Ettrich aveva raccontato del dolcesolletico a Isabelle una mattina mentre preparava la colazione. Erano nell'appartamento di lei e Vincent indossava un paio di boxer e una T-shirt. Isabelle adorava le storie della sua infanzia e lo ascoltava rapita ogni volta che gliene veniva in mente una. Ma quella volta mentre lui parlava gli si era pian piano avvicinata da dietro e senza preavviso gli aveva tirato su la maglietta fin sopra la testa. Con la spatola ancora a mezz'aria, lui era rimasto immobile, sotto la T-shirt che gli copriva la testa e il viso a mo' di cappuccio. Isabelle non aveva unghie lunghe come sua madre, ma in compenso aveva un meraviglioso tocco, intenso e vibrante. Partendo dalla nuca, fece scorrere tutte e dieci le dita lungo la sua schiena. La fremente, sensuale lievità di quella carezza gli fece venire la pelle d'oca in tutto il corpo, malgrado fosse incappucciato, bendato, con una spatola gocciolante di uovo in
mano e un braccio in aria come una specie di delirante statua della libertà. «Non vuoi sentire il resto della storia del dolcesolletico?», le domandò da sotto il cappuccio. «No. Perché ora l'aggiorniamo». Le dita di Isabelle correvano lungo la sua spina dorsale come le prime gocce di pioggia sul vetro di una finestra. Un attimo dopo fu la volta della sua lingua. Ettrich trasalì come se avesse preso la scossa. «Ohi, ohi, ohi! Spettacolo vietato agli spettatori inferiori ai diciotto anni. Posso almeno abbassare la spatola?». «No, se ti muovi, smetto». La sua lingua scivolò più giù. Isabelle strinse delicatamente i denti sulla natica di Vincent, poi più forte, mentre a lui si bloccava il respiro in gola e riaffiorava lento in un lungo sibilo. Non aveva idea di cosa gli avrebbe fatto Isabelle: era splendido. Quei morsi erano insieme dolorosi e incantevoli. Gli tirò giù i boxer con una mano, mentre con l'altra gli accarezzava lo stomaco nudo. Lì fermo con la maglietta sulla testa e le mutande tra i piedi, Ettrich era davvero ridicolo. Se Isabelle l'avesse guardato, avrebbe riso per almeno cinque minuti. Ma era troppo occupata. A incominciare dalla caviglia, fece scivolare dolcemente il pollice lungo l'interno della sua gamba destra. «Scommetto che tua madre questo non te l'ha mai fatto». A Ettrich cadde di mano la spatola e finì sul bancone della cucina: nessuno dei due se ne curò. Le braccia gli penzolavano adesso lungo i fianchi, immobili spettatrici. Diversi mesi dopo, in una città molto lontana da Vienna, le dita di Isabelle correvano ancora lungo la schiena di Ettrich. Entrambi guardavano fuori dalla finestra. Diversi aeroplani attraversavano il cielo bassi, nel loro ultimo giro di avvicinamento all'aeroporto. Ettrich ricordò tutte le notti in cui aveva guardato quegli aeroplani pensando a quanto sarebbe stato bello se lei fosse stata a bordo. Per poi arrivare lì, da lui, e bussare alla sua porta del tutto inaspettatamente. Eccomi, Vincent, dovevo venire. Dobbiamo parlare, ti amo. Ma non era mai successo. E anche ora, con lei lì al suo fianco che lo accarezzava, quel ricordo fu così doloroso e carico di solitudine che Ettrich dovette sbattere le palpebre diverse volte per allontanarlo. Dopo un lungo silenzio, lei iniziò a recitare a bassa voce: Amore mio, ci siamo incontrati assetati e abbiamo
bevuto l'acqua e il sangue, ci siamo incontrati affamati e ci siamo divorati con morsi di fuoco che hanno lasciato in noi profonde ferite. Ma aspettami, conserva per me la tua dolcezza, ti darò una rosa, anch'io. Isabelle appoggiò la fronte contro la schiena nuda di Vincent ed entrambi i palmi sulle sue scapole. «Ho letto per la prima volta questa poesia una settimana dopo la mia fuga da Londra. Mi ha distrutto, perché sembrava scritta apposta per noi. E Anjo è la nostra rosa. Così ho deciso di impararla a memoria, per punizione». Ettrich non si voltò. Se la guardava negli occhi non sarebbe riuscito a dirle quello che voleva. «Ti ho odiato, Fizz. Una parte del mio cuore ti odia ancora. Per esserti arresa così facilmente. Non riesco a immaginare cos'avrei fatto se avessi saputo di Anjo. Te ne sei andata senza concedermi neppure una chance. Senza dare una sola possibilità a noi due. Sei sparita e basta. Hai sentito una frase stupida e insensibile, non ti è piaciuta, e hai preso e te ne sei andata. «Sarebbe stato così facile risolvere tutto. Eravamo lì, insieme, e avevamo tutto, tutto. Dannazione!». Lei annuì contro la sua schiena ed entrambi i loro corpi oscillarono. «E poi hai scoperto che stavo morendo e non me l'hai neanche detto?», aggiunse incredulo. «Non puoi ricordarlo, Vincent. Anjo ha cancellato i tuoi ricordi». Come per sottolineare quel che diceva, Isabelle spinse con più forza la testa contro la schiena di lui. Ettrich si irrigidì. «Non importa. Adesso lo so. Adesso so che tu non eri lì al mio fianco». «Non potevo. Te l'ho detto, Anjo me l'ha proibito». «Perché?». Lei rimase in silenzio. Vincent si immaginava che Isabelle non avrebbe risposto a quella domanda. La cosa lo fece infuriare, e questa volta decise
di non mollare. Non aveva intenzione di fargliela passare liscia. «Perché?». Fece per voltarsi ma lei gli afferrò bruscamente le spalle per bloccarlo. Ettrich si succhiò il labbro inferiore. Il veleno che gli andava affiorando in gola era ormai quasi giunto sulla punta della lingua. Dopo qualche altro istante di quel pesante silenzio, Isabelle imprevedibilmente disse, come se stesse afferrando le parole che le passavano davanti in aria: «Perché ero io che dovevo venire a prenderti, non Anjo». «Come? In che senso?». «Ero io che dovevo venire». Ettrich scosse la testa: non capiva. «Quando sei morto, Vincent, sono dovuta venire io a riportarti indietro dalla Morte». Rez Sahara e i venticinque topolini Il mattino seguente Vincent Ettrich si svegliò accanto a una donna che non aveva mai visto. Aprì gli occhi lentamente, con la sensazione di essere drogato, come se la sua testa sul cuscino pesasse centocinquanta chili. Ma aveva dormito, poi? Gli sembrava di essere stato sveglio per giorni e giorni e di essersi addormentato solo cinque minuti prima. Persino sollevare le palpebre e tenerle aperte richiedeva uno sforzo fisico immenso. Aveva sognato? Ricordava vagamente qualcosa che stava però svaporando dalla sua mente come foschia mattutina all'apparire di un caldo sole. Il soffitto lo aiutò. I soffitti possono servire da bussola, possono dirti dove ti trovi. Negli ultimi mesi Ettrich aveva trascorso così tanto tempo disteso a letto a fissare il soffitto che ne conosceva ogni centimetro a menadito. I carcerati e chi ha il cuore spezzato diventano specialisti nello studio dei soffitti. Quasi esattamente sopra la sua testa c'era una piccola macchia marrone dalla forma strana che assomigliava un po' a una patata. Era stata provocata da una perdita d'acqua al piano di sopra e i proprietari, quando gli avevano affittato l'appartamento, gli avevano chiesto se voleva far ritinteggiare il soffitto per eliminarla, ma l'idea di avere gli imbianchini in giro e l'odore della vernice fresca per giorni e giorni in casa lo avevano convinto a dire di no, che quella macchia non era un problema. Da allora, dopo tante ore passate a fissarla, ci si era affezionato. Era diventata l'Isola della Patata, marrone scuro nel mezzo di un noioso soffitto d'acqua blu.
Così, scorgendo sopra di sé l'Isola della Patata, Ettrich comprese di trovarsi nel proprio letto. E doveva essere mattina perché la stanza era più luminosa di quanto non lo fosse negli altri momenti della giornata. Con quei dettagli in mente, piegò lentamente il capo verso destra e vide una bionda molto carina addormentata accanto a sé. Ettrich si irrigidì. Qualche secondo dopo gli apparve sul viso un sorriso malizioso. Non aveva idea di chi fosse quel bocconcino, ma non aveva importanza. Senza muovere le labbra esclamò a voce bassissima, come un ventriloquo, ma distintamente: «Sensazionale!». Colto alla sprovvista, ritornò a guardare in alto, l'Isola della Patata, domandandosi, chi è? Che cosa ho fatto lo scorsa notte, santo cielo? Dove sono andato? Come ci siamo incontrati? Com'è arrivata qui? Ettrich sapeva che probabilmente sarebbe riuscito a sgusciare fuori dal letto senza svegliarla, se avesse voluto, ma per quale motivo avrebbe dovuto farlo? In quel momento il posto migliore in cui trovarsi era proprio lì, a letto, non fuori. Su questo non c'era alcun dubbio. Si voltò di nuovo a guardarla. Era davvero graziosa, decisamente il suo tipo. Quindi gli occhi di Ettrich dal viso della ragazza scesero lungo il suo collo, dove il lenzuolo color limone, però, copriva il resto. A quel che sembrava, Miss Mistero non aveva niente addosso. Per accertarsi della correttezza di tale supposizione, Vincent fece lentamente scivolare una gamba verso di lei, e per quanto possa essere possibile a una gamba esplorare un altro corpo sotto le coperte, si mise al lavoro. Lavoro di gamba. Sì, era proprio nuda. Ce n'erano state tante di prime volte nella vita di Vincent Ettrich, con le donne. Dio solo sa quante. Tantissime avventure in tantissimi posti e situazioni diverse, talvolta meravigliose, altre volte più particolari. Ma questa era davvero unica: la prima volta in cui non ricordava assolutamente nulla della donna accanto alla quale si svegliava al mattino e, ancor meno, di quello che avessero fatto insieme la notte precedente. Come si chiamava? Come si erano incontrati? Da quanto tempo si conoscevano? Com'era lei a letto? Una lista di domande lunga un miglio. OK, quella ragazza era nel suo letto, ma come c'era finita? Come faceva a non ricordarsi nulla di lei? Una spiegazione doveva pur esserci. Ad ogni modo, in quel momento un po' di mistero tutto sommato non guastava. Sporgendosi appena verso di lei, cercò di annusare la sua pelle. Ettrich andava matto per gli odori dei corpi femminili. Al mattino, alla sera, durante il sesso, dopo la doccia, sudate o profumate, adorava le donne e ogni
loro odore. Adesso desiderava più di ogni altra cosa sentire l'odore del corpo di quella ragazza e poi quello del suo respiro. Le si avvicinò un poco, poi un po' di più, finché non fu a portata di naso. Lei aprì gli occhi e lo vide. Sbatté le palpebre un paio di volte ed esclamò: «Ehi, ciao». Aveva una stupenda voce assonnata e sexy. E bei denti: tutti in mostra in un caldo sorriso. Ettrich avrebbe voluto toccarla, ma si trattenne. Non ancora. Doveva prima ottenere da lei qualche informazione. «Ehilà». Lei si girò di schiena e sollevando le braccia sul capo si stirò e sbadigliò sontuosamente. Il lenzuolo scivolò un po' giù fino a scoprirle i seni. «Che ora è?». Ettrich la stava fissando. Sapeva che non avrebbe dovuto, ma non riusciva a staccarle gli occhi di dosso. «Non so. Aspetta». Allungò una mano verso il comodino in cerca dell'orologio. «Le nove». «Non c'è male. Pensavo che avremmo dormito sino a metà pomeriggio. Dopo la scorsa notte». Lo guardò con uno sguardo che diceva: sessosessosesso. Parlava inglese molto bene ma con un accento strano, indefinibile. Automaticamente Ettrich le rivolse un'occhiata del tipo «Già... è stato meraviglioso, no?». Nel corso degli anni aveva imparato a simulare una gamma tale di espressioni che poteva fare concorrenza a una rivista di cinema. La cosa peggiore era che aveva quasi raggiunto la perfezione. Quelle espressioni gli erano penetrate così a fondo che a volte non avrebbe saputo dire neanche lui se fossero reali o fasulle. Cosa sta dicendo la mia faccia in questo momento? La verità o una bugia? Qualche volta la cosa lo metteva a disagio, ma tutto sommato Ettrich era abbastanza tranquillo e non gli pesava rinunciare a un po' di autoconsapevolezza per un focoso tète-à-tète sotto le coperte. Non gli sarebbe dispiaciuto poter riflettere con più calma sull'argomento, disteso al calduccio accanto a quell'enigma senza veli; ma lei all'improvviso disse una frase che cambiò ogni cosa. «Non dimenticarti che oggi è il compleanno di tua madre». In un attimo, un silenzio pesante quanto un ippopotamo gli si piazzò sullo stomaco risucchiandogli tutta l'aria dai polmoni. Alla fine riuscì a dire: «Come lo sai?». «Be', l'anno scorso te ne sei dimenticato e lei si è arrabbiata. Non te lo ricordi?». L'anno scorso? Lui non la conosceva, questa ragazza. Magari la scorsa notte poteva anche averla conosciuta in senso biblico, ma adesso cosa c'en-
trava l'anno scorso? No, non era possibile. «Come si chiama mia madre?». La donna del mistero sorrise senza aprire gli occhi. Il suo volto era rilassato, la pelle bellissima. Aveva un piccolo neo color pelle sotto la mandibola, vicino all'orecchio destro. «Che cos'è, un quiz? Tua madre si chiama Brigitta, suo marito Peter, e ha due figli, Vincent e Judith». A quel punto Ettrich fu travolto da un'ondata di panico, come se fosse circondato da uno stormo di piccioni che si andavano rapidamente sollevando in volo disorientati. «Come fai a saperlo?». Con gli occhi ancora chiusi, lei gli fece la linguaccia. «Come faccio a saperlo? Mah, non è che me l'hai detto tu per caso?». Ettrich allungò una mano verso di lei: avrebbe voluto toccarle una spalla, ma si trattenne. Infine cedette alla tentazione. «Dimmi come ti chiami». «Ah, ah, ah... moooolto divertente». «No, dai. Dimmi il tuo nome, per favore». «Vincent, smettila. È ancora troppo presto per giocare. Aspetta almeno che abbiamo preso il caffè». «Dove ho fatto l'università?». Lei fece una smorfia. «Rhodes. Memphis, Ten-nes-sì. Primo impiego alla Ortpond Agency di San Francisco». Aprì gli occhi per dirgli di smettere, che quella storia stava diventando irritante, ma quando vide l'espressione sul suo viso, esitò. «Cosa c'è?». «Come fai a sapere queste cose? Com'è possibile?». «Adesso basta! Non è più divertente», proruppe lei infastidita. Ettrich scosse la testa. «Chi sei?». «Vincent, smettila!». Il viso di Vincent mostrava solo una tremenda confusione. Isabelle comprese che non stava scherzando, proprio per niente. «Cristo santo!». Scivolò il più lontano possibile da lui, in un angolino del letto. Istintivamente si avvolse nel lenzuolo, terrorizzata dallo sguardo di quell'uomo che si era appena trasformato in un estraneo. «Cos'hai? Isabelle. Sono Isabelle». Lui si limitò a scuotere lentamente la testa. Quel nome non significava nulla per lui. «Oh, mio Dio». Lei fece per alzarsi, ma Ettrich si tuffò e l'afferrò per un braccio. A Isabelle sfuggì un grido. Lui la lasciò andare immediatamente. «No, per favore, non andartene. Non voglio farti del male. Non voglio farti niente. Dimmi qualcosa, però, per favore».
Lei si strinse il lenzuolo intorno al petto, ma rimase seduta sul letto. «Cosa ti devo dire? Che sta succedendo? Davvero non mi riconosci?». «No», rispose Ettrich a voce bassa, quasi tremante. Non aveva idea di cosa stesse succedendo. «Ti ricordi qualcos'altro?». Isabelle si infilò una cocca del lenzuolo tra i seni perché non le scivolasse giù. Grato che non fosse fuggita, Ettrich si strofinò le guance con entrambe le mani. «Qualcos'altro? Be', certo. Sì». «Raccontami». Lui fece un gran gesto in aria con una mano, come se quello che stava per dire fosse risaputo. «Mi chiamo Vincent Ettrich, lavoro in un'agenzia pubblicitaria, ho quarantun anni e due figli, sono divorziato». Isabelle colse la palla al balzo. «Perché hai divorziato da tua moglie?». «Perché?», le domandò guardandola con un'espressione dolente. «Perché non ero un gran marito. Mia moglie è stata sin troppo brava: ha sopportato un sacco di cose, ma alla fine non ce l'ha più fatta e mi ha sbattuto fuori di casa». «Ma perché? Cerca di ricordare perché». Lui la guardò dritto negli occhi e rispose: «Altre donne». «Non una in particolare?». «Troppe in particolare. Dovrei convenirmi all'islamismo, così almeno potrei avere tutte le mogli che voglio. Forse in quel modo le cose andrebbero meglio, chissà». Isabelle stava cominciando a immaginare cosa poteva essere successo a Vincent. Ma voleva esserne sicura. Così continuò a chiedergli altre cose di lui e della sua vita. Ettrich rispose a tutte le domande, sempre più turbato dalla quantità di dettagli che quella bella sconosciuta sembrava conoscere. Quando non le venne più in mente niente da chiedergli, le spalle di Isabelle si curvarono sotto il peso della sconfitta. Ora sapeva di avere ragione: come in una precisissima operazione di neurochirurgia, era stato meticolosamente asportato dal cervello di Vincent ogni ricordo relativo a lei e alla loro relazione. Il resto della sua vita non era stato toccato, soltanto Isabelle ne era stata eliminata. A meno che... quella possibilità la fece bruscamente rizzare a sedere mentre la cocca del lenzuolo si scioglieva. «Ti ricordi di quando ti sei ammalato?». «Ammalato? In che senso?».
Isabelle stava per rispondere, ma poi si fermò. Poi piegò il capo di lato come se stesse ascoltando qualcosa. Il suo viso lentamente si rilassò. Portò una mano sullo stomaco, sopra il lenzuolo, e cominciò a muoverla su e giù. «D'accordo. Ci proverò». Anjo le aveva parlato. Ettrich era confuso. «Come? Cos'è che vuoi provare a fare?». Isabelle non rispose. Il suo volto era sereno. «Vorrei mostrarti alcune cose. Ti va di passare un po' di tempo insieme oggi?». Vincent non sapeva cosa risponderle. Era preoccupato, aveva l'impressione che quella donna gli avrebbe procurato un sacco di guai, proprio un sacco di guai. Nonostante fosse così carina, a quel punto Ettrich avrebbe preferito che si fosse rivestita e se ne fosse andata. Ma era un gentiluomo. Per questo aveva sempre avuto tanto successo con le donne: era garbato, premuroso e mai, mai e poi mai avrebbe permesso che una donna si sentisse usata. «Dai, Vincent... È sabato... sei libero, no? Andiamo a fare colazione: ci mangiamo un bel piatto di uova e bacon e ci beviamo qualche litro di caffè». Era così strano per lei parlargli in quel modo, cercando di essere segretamente seducente, nel tentativo di conquistarlo ma senza giocare a carte troppo scoperte. Come se quell'uomo seduto all'altro capo del letto non fosse l'amore della sua vita e il padre di suo figlio, ma piuttosto un affascinante sconosciuto cui fare timidamente la corte. «Mi scusi un attimo?», domandò lui indicando il bagno. Senza farci caso, uscì dal letto nudo. Aveva già fatto sei o sette passi quando si rese conto che sfilare in costume adamitico davanti a quella donna misteriosa non era esattamente il comportamento più opportuno da adottare. Cos'altro gli restava da fare se non portarsi entrambe le mani all'inguine per coprirsi, scrollare le spalle e proseguire? Lei scoppiò a ridere. Della sua nonchalance, del suo sedere o di tutta la situazione? Isabelle rideva perché quel gesto era così tipico di lui. La pervase un impeto d'amore per quell'uomo e promise a se stessa che avrebbe trovato una soluzione. Ettrich chiuse la porta del bagno dietro di sé e si accostò al lavandino. Rimase a lungo davanti allo specchio a chiedersi: «E adesso cosa fai?». Poi prese un asciugamano da una mensola e se lo avvolse intorno ai fianchi. Che cosa poteva fare con quella ragazza? Colazione, una breve passeggiata e poi un dolce ma deciso bye-bye. Dove abitava? In città, auspicabil-
mente. Ettrich l'avrebbe messa su un taxi e arrivederci. La porta del bagno si spalancò e lei entrò con una delle T-shirt di Vincent addosso. Aveva due fette di torta al cioccolato in mano. Ne addentò una e gli porse l'altra. «Cos'è?». «Sachertorte. La tua colazione preferita». A Ettrich piaceva molto quel dolce tipicamente viennese e l'aveva gustato spesso, ma non riusciva a ricordare di averlo mai mangiato a colazione. Prese la fetta che gli veniva offerta ed entrambi iniziarono a mangiare lì in piedi nel bagno. Ettrich non sapeva se lo fosse anche per lei, ma per lui era piacevole. Dopo un po' Isabelle gli fece cenno di guardare lo specchio. Ettrich si voltò: avevano entrambi il viso sporco di briciole al cioccolato. «Dov'è la tua macchina fotografica? Mi piacerebbe fare una foto di noi due». Ettrich si pulì la bocca con il dorso della mano sinistra. «Quale macchina fotografica?». Isabelle stava per rispondere Quella che ti ho regalato io, ma si fermò in tempo. «Non hai una macchina fotografica digitale?». «No». «Oh... Be', allora... ecco», mentre cercava di fare marcia indietro, le venne un'idea che la fece illuminare. Forse poteva essere utile. «Visto che stiamo mangiando, ti faccio una domanda da un milione di dollari. Ma devi pensarci bene prima di rispondere. Non dire qualcosa giusto per dire. D'accordo? Descrivimi i tre pasti più memorabili della tua vita. Colazione, pranzo e cena». Era la domanda preferita di Vincent. Anzi, in realtà, era una delle sue cinque domande preferite, che un giorno aveva con una certa magniloquenza definito le cinque domande del secolo. Isabelle lo scrutò mentre si mangiava l'ultimo boccone di Sachertorte, nella speranza di scorgere una scintilla di reminiscenza nei suoi occhi, ma invano. Stava solo pensando a cosa rispondere. Una notte a Cracovia non riuscivano ad addormentarsi perché era stata una giornata talmente incantevole che nessuno dei due voleva finisse. Era successo spesso: dopo aver fatto l'amore rimanevano distesi abbracciati per ore a parlare. A un certo punto, chissà come, Vincent se n'era uscito con le sue cinque domande. Erano tornati sull'argomento infinite volte nei giorni successivi, continuando a scavare nella memoria, gustandosi i diversi ricordi, cambiando bruscamente le loro scelte e descrivendole in ogni detta-
glio. Isabelle l'aveva ringraziato chissà quante volte per averle fatto quelle domande, perché erano un gioco meraviglioso. Adesso, nel bagno del suo piccolo appartamento, Ettrich finì di mangiare la sua fetta di torta e si pulì le mani sull'asciugamano avvolto in vita. «Non possono essere tre cene?». «No. Colazione, pranzo e cena». Isabelle conosceva già le risposte di Vincent. O almeno quelle che una volta lo erano state. Come poteva dimenticare il Café Redolfi a Cracovia in quell'assolata domenica mattina? Seduti a un tavolino davanti alla piazza, avevano bevuto una tazza dopo l'altra di un eccellente cappuccino. Erano entrambi eccitatissimi a causa dell'eccesso di caffeina, della mancanza di sonno e del troppo sesso della notte precedente che li aveva lasciati inebriati, esausti ed elettrizzati. Non riuscivano a smettere di guardarsi. Avrebbero voluto tornare in albergo in quel preciso istante, ma allo stesso tempo quel luogo, quelle ore insieme erano altrettanto perfette. Com'era possibile essere così felici? Vincent aveva annunciato la sua prima scelta. «D'accordo, la miglior colazione che ho mai fatto? Ti ricordi a Vienna quella notte d'agosto così calda che siamo stati alzati fino all'alba e poi siamo partiti per Tulln, lungo il Danubio?», Certo che Isabelle se la ricordava, ma aspettò lo stesso che lui le raccontasse tutta la storia. Avevano trovato tutti i negozi chiusi, perché era domenica mattina, nella cattolicissima Austria. L'unico posto aperto era una stazione di servizio in cui avevano potuto comprare un po' di latte. Fortunatamente nel bagagliaio lei aveva della Sachertorte che sua madre le aveva regalato come faceva spesso. Così, seduti sulle grosse pietre lungo il fiume, avevano fatto colazione a base di fette di torta leggermente stantie e latte. Poi una chiatta carica di carbone, che veniva dalla Romania, aveva fischiato per salutarli. Dieci minuti dopo era scivolata sul fiume una maestosa nave da crociera russa in rotta verso il Mar Nero. Poi erano passati due uomini in canoa spinti dal rapido flusso della corrente. Quando ebbe finito di mangiare, Ettrich raccolse un bastoncino e lentamente iniziò a sfilarne la corteccia, mentre ascoltava il rumore dell'acqua. Quando il bastoncino fu tutto pulito, se lo infilò in tasca. Lei lo guardò e alzò un sopracciglio. Lui disse semplicemente: «Un souvenir». Ora, nel bagno del suo piccolo appartamento da scapolo, quel nuovo Vincent si ritrovò incapace di rispondere alla domanda di quella sconosciuta. «Non saprei cosa dirti. A proposito, dove l'hai presa, la torta? Era
ottima». Dove l'aveva presa? A Vienna, all'Hotel Sacher, e se l'era portata fin lì nello zaino, dentro la sua elegante scatola di legno. Alla dogana aveva quasi rischiato che gliela confiscassero, ma aveva fatto di tutto per tenerla perché rappresentava un simbolico gesto di pace. Isabelle aveva programmato tutto, immaginandosi la scena prima ancora di partire: l'avrebbe data a Vincent con una battuta, ma entrambi avrebbero saputo che quel regalo aveva un valore profondo. Come l'aveva rattristata dieci minuti prima aprire la scatola e tirare fuori la torta dalla confezione senza alcuna cerimonia per tagliarne velocemente due fette. Qualcosa attraversò il volto di Ettrich che le passò accanto e uscì in fretta dal bagno. Isabelle guardò lo specchio e disse: «E adesso cosa c'è?», e si accinse a seguirlo. Lo trovò davanti alla porta d'ingresso, fermo con le mani sui fianchi a fissare il suo grosso zaino. Le indicò lo zaino con aria accusatoria. «È tuo?». «Sì». «Ecco da dove viene la torta: l'hai portata tu. Siamo venuti qui ieri sera io, te e quel grosso zaino; siamo andati a letto; e adesso mangiamo questa torta... E io non mi ricordo niente? Niente di niente?». Prima che lei avesse la possibilità di rispondere, squillò il telefono. Ne furono entrambi sollevati perché lei non sapeva cosa rispondergli e lui non voleva più sentire nulla. Ettrich andò al telefono e rispose. «Pronto». «Vincent, sono Coco. Scusa se ti disturbo...». «Chi? Scusa, chi hai detto che sei?». «Coco. Sono Coco, Vincent». Quel nome non gli diceva nulla. Né conosceva la voce di quella donna. «Scusa, ma ci conosciamo noi due?». «Senti, Vincent, lo so che lei è lì e che non sa niente di me, ma dammi solo un minuto, OK?». «Chi è che è qui?», domandò Ettrich voltandosi verso Isabelle. «La tua Isabelle. So che sei andato a prenderla ieri sera...». Questo era davvero troppo, Ettrich scattò come una molla. «Ah, sì? E tu come fai a saperlo? Chi diavolo sei?». «Non fare l'imbecille. Ascoltami soltanto due minuti...». Ettrich le sbatté il telefono in faccia e rimase con la mano sopra l'apparecchio per qualche secondo fissando Isabelle con sguardo ostile. «Com'è
che ci sono delle persone che sanno che sei qui, eh? E com'è che loro sanno chi sei e io no?». «Chi era?», chiese lei il più gentilmente possibile. «Una certa Coco. Sa che sei qui, conosce persino il tuo nome. Ha detto: "Lo so che sei andato a prendere Isabelle ieri sera". Come fa, se non lo so nemmeno io? E chi cazzo è Coco, poi?». Il telefono squillò di nuovo. Ettrich lo sollevò con rabbia. «Sì? Cosa c'è?». Pian piano il suo viso si rasserenò. «Ciao, Kitty. Certo che posso. Non c'è problema. Tra mezz'ora? Va bene? Sì». Dopo essere rimasto in ascolto ancora per qualche istante, Vincent ripose il telefono e rivolse a Isabelle uno sguardo torvo. «Devo portare mio figlio dal dottore. Mi devo vestire». Le voltò le spalle e si allontanò. Isabelle non aveva idea di cosa fare, così si avvicinò alla finestra e si mise a guardare fuori. Era ancora lì quando, diversi minuti dopo, lui uscì di casa senza dirle una parola. Dal momento che gli volgeva la schiena, Isabelle non vide Vincent fermarsi un attimo sulla soglia con la mano sulla maniglia e guardare verso di lei con la faccia scura. Cosa poteva dirle, per favore sparisci? Oppure: aspettami che quando torno proviamo a risolvere questa storia? O magari: potresti dirmi com'è che ci conosciamo prima che vada? Meglio lasciar perdere: ci avrebbe pensato dopo, se la trovava ancora lì al suo ritorno. Nel garage sotterraneo lo attendeva un altro shock: gli avevano rubato la macchina. Lo spazio assegnato alla sua auto era vuoto. Quando se ne rese conto, gli caddero le braccia. Doveva essere a casa di Kitty in venti minuti. Non ci poteva credere, chi poteva aver rubato una macchina come quella? Anche se era nuova, era una semplice Ford Taurus e in più monumentalmente sporca. Una BMW argentata estremamente sexy era parcheggiata nello spazio accanto al suo. Perché non avevano preso quella? Non gli era mai successo che gli rubassero la macchina. Lo fece sentire vulnerabile, ferito, come se la vita non gli fosse più amica. E come se non bastasse, nel suo appartamento c'era quella donna, quella Isabelle. Che cosa diavolo era tutta quella storia? Non ricordava un tubo di quello che era successo tra loro, eppure lei sapeva un sacco di cose di lui, troppe. Confuso e smarrito quanto non gli capitava da moltissimo tempo, risalì in ascensore per tornare al piano terra e chiamò un taxi. Mentre Ettrich si dirigeva verso il quartiere elegante in cui un tempo aveva vissuto con la sua famiglia, Isabelle si tagliò un'altra fetta di torta e
accostò una sedia alla finestra. Voleva mangiarla mentre osservava la città. Diede un morso troppo grande e le cadde sulle gambe un pezzetto di glassa al cioccolato. Mentre la raccoglieva, il suo sguardo si posò inavvertitamente sul davanzale. La rana ballerina era sparita. Si erano presi anche quella, insieme a tutto ciò che aveva a che fare con la sua storia con Vincent. «Dannazione!». Ci doveva pur essere qualche traccia di lei da qualche parte. Oltre al suo corpo davanti alla finestra e allo zaino accanto alla porta, in quella casa ci doveva essere qualche altro segno della sua esistenza nella vita di Vincent Ettrich. Non potevano averne cancellato ogni singola traccia: era impossibile. E poi, comunque, anche se così fosse stato, lei avrebbe trovato il modo di rientrarvi. Si mise a cercare. In passato Isabelle Neukor era stata una ladra provetta. Ma poiché i suoi capelli biondissimi e gli occhi color cobalto ricordavano Campanellino, una fatina o un angioletto, per anni aveva ingannato tutti. Prendeva un po' di tutto: denaro, caramelle, giocattoli. Qualunque cosa desiderasse, finiva nelle sue tasche. E la cosa non la faceva sentire nervosa, né minimamente in colpa, il tallone di Achille di tanti ladri in erba. Quando le capitava di rubare qualcosa in un negozio, il cuore non le batteva più forte di qualche minuto prima, per strada. Non rubava per malvagità o depravazione o per trarne un sordido brivido d'eccitazione: prendeva semplicemente quel che desiderava e la sua anima non vi trovava nulla da ridire. Un buon ladro deve anche saper rovistare, deve essere in grado di immaginare tutti i nascondigli possibili in cui la gente può andare a nascondere denaro, oggetti amati o riviste porno. Isabelle ne aveva imparato l'arte all'età di otto anni e da allora non aveva mai perso la mano. Sarebbe stata un'orologiaia perfetta, perché frugare con successo è come smontare il meccanismo di un complicato orologio. Si procede per strati, facendo attenzione a riporre ogni elemento in un luogo preciso in modo che nulla finisca fuori posto quando si rimonta il tutto. Anche da piccola, quando apriva il cassetto della biancheria intima di sua madre e vi trovava il diaframma, le pastiglie di Dexedrina, e un pacchetto di soldi se la mamma era appena andata in banca, Isabelle per prima cosa studiava a lungo la posizione dei vari oggetti, per memorizzarla. Poi passava al setaccio il cassetto (o l'armadio, il borsellino, la scrivania, la cartella, il portafoglio del babbo...) sollevando e spostando tutto, in cerca di qualcosa di interessante. Ma poi, alla fine, faceva sempre attenzione che
tutto ritornasse esattamente al suo posto. Non era la preoccupazione di essere scoperta, ma semplice buon senso. L'unica volta in cui venne scoperta fu da una compagna di classe, e si beccò un pugno per averle soffiato la penna a sfera rosa. Stringendosi la cintura dell'accappatoio, Isabelle si avviò in camera pronta a dare battaglia a chi voleva cancellare lei e la sua storia d'amore con Vincent dalla sua mente. La stanza da letto è sempre il centro emotivo di una casa. E il luogo della passione fisica. E della più grande serenità o tristezza. Non esiste luogo in cui si è più soli della stanza in cui andiamo a letto in compagnia soltanto dei nostri segreti e delle nostre voci interiori, e che ci sente dare in silenzio la buonanotte, o magari un bell'arrivederci a mai più, alla giornata appena trascorsa. Se Isabelle desiderava studiare la vita di qualcuno, il che accadeva alquanto di rado visto che considerava ben poche persone degne di tale attenzione, la prima tappa era sempre la loro camera da letto. Anche se non aveva più rubato nulla da anni, qualche volta, quando voleva andare sino in fondo a qualcosa, il suo antico talento di ladra le tornava estremamente utile. La camera da letto di Vincent era grande ma, al pari delle altre stanze, scarsamente arredata. C'era un letto matrimoniale, un pesante scrittoio di quercia, la chaise longue di Eames e un tappeto cinese rosa e nero. Non erano oggetti da cui poter trarre particolari informazioni su chi vi viveva, se non che era una persona disposta a spendere un paio di migliaia di dollari per una poltrona. Accanto alla chaise longue, per terra, c'era un libro. Isabelle si avvicinò e leggendo il titolo sorrise e batté le mani: La Certosa di Parma di Stendhal. Vincent aveva una serie di piccole manie, tra cui l'istinto dello studente modello. Diversi anni prima aveva deciso di leggere almeno cinque classici all'anno. Spesso, quando andavano in viaggio da qualche parte insieme, Ettrich si portava dietro un pesante volume in cui era intenzionato a farsi strada come un valoroso esploratore nella giungla armato di machete. Ma quel romanzo era la sua nemesi. Da quando lei lo conosceva, Ettrich aveva provato a leggerlo almeno tre volte senza successo. Dopo un centinaio di pagine, rinunciava. Una volta ne aveva lanciata una copia dal finestrino del treno mentre stavano arrivando alla stazione di Salisburgo. Aveva guardato Isabelle e le aveva detto: «Prima o poi lo leggerò. Ma non adesso». Ed ora eccolo lì di nuovo alle prese con quel libro. Isabelle non riusciva a capire perché Vincent non abbandonasse definitivamente Stendhal per passare a qualcos'altro. Vedere quel libro, però, la incoraggiò perché ne
conosceva la storia nella vita dell'uomo che amava. Così come conosceva l'importanza del proprio ruolo nella vita di Vincent. Non le restava che trovarne qualche prova concreta in quell'appartamento. All'altro capo della città Ettrich e il tassista stavano riflettendo. A mo' di battuta Vincent gli aveva chiesto se era in grado di ricordare i tre pasti più memorabili della sua vita. Così, mentre passavano cinque semafori verdi di fila, l'autista gli descrisse con abbondanza di vividi dettagli la colazione e il pranzo più indimenticabili che avesse mai fatto. Ettrich non avrebbe saputo dire cosa trovasse più sorprendente, se i cinque semafori verdi o la memoria di quell'uomo. «Come sei riuscito a ricordarli così in fretta? A me non ne è venuto in mente neanche uno». Il tassista si accese una sigaretta senza chiedere a Ettrich se gli dava fastidio. «Be', sono comunque accompagnati da un forse. Forse tra un'ora me ne ricorderò altri di migliori, ma non credo. La cena però è un casino: di cene meravigliose ne ho fatte un bel po'». Proseguirono in un silenzio amichevole, pensando ai pasti storici della loro vita. Isabelle era seduta sul letto con una fotografia in mano quando si aprì la porta d'ingresso. Era così immersa nei suoi pensieri che non se ne accorse. Stava guardando la foto di Vincent con la sua ex moglie, Kitty, e i loro due bambini. Erano sulla spiaggia, in costume, tutti abbrustoliti dal sole, sorridenti e stretti stretti l'uno all'altro. La cosa che Isabelle trovava più interessante era la loro disposizione nella foto. Aveva già visto quella fotografia un sacco di volte: Vincent la teneva nel portassegni. Le faceva piacere che avesse sempre una fotografia dei propri figli con sé. Li amava, e loro amavano lui. Era davvero un buon padre. Isabelle aveva trovato quell'istantanea sulla scrivania e malgrado le fosse familiare l'aveva presa in mano per osservarla ancora una volta. E notò una cosa cui non aveva mai fatto caso prima: Kitty era seduta in mezzo ai bambini e Vincent era accovacciato dietro di loro con le mani sulle spalle dei figli senza toccare Kitty. Aveva un particolare significato quella posizione? Isabelle aveva letto diversi articoli in cui si parlava di come gli psicologi facessero ricorso a vecchie foto di gruppo per studiare il linguaggio del corpo e la distribuzione spaziale dei protagonisti per comprendere cosa stesse esattamente accadendo al momento dello scatto. Era un'idea interes-
sante e lei aveva l'impressione che potesse funzionare sotto diversi aspetti. Per questo si domandò se il fatto che Vincent fosse accovacciato dietro la sua famiglia senza toccare la moglie significasse qualcosa. Oppure era lei che stava costruendo un castello in aria? «Oh, salve». Con sua grande sorpresa, alzando la testa, Isabelle vide davanti a sé una ragazza piccolina e graziosa sulla soglia della camera da letto. «Salve. Come sei entrata?». «Con la chiave». La ragazza graziosa sorrise come se avesse detto la cosa più naturale del mondo, ma entrambe sapevano bene che non era affatto così. Quelle tre parole avevano la forza di una vera e propria bomba atomica. Come faceva quella sconosciuta ad avere la chiave dell'appartamento di Ettrich? «Vincent non c'è?». A Isabelle parve all'improvviso di avere un peso di cento chili sul cuore. Anche se non la conosceva affatto, sapeva benissimo chi era quella ragazza. Un'altra bambolina di Vincent. Ed era una bambolina deliziosa, il che non rendeva affatto le cose più facili. Era molto carina, aveva la chiave dell'appartamento e da come parlava era evidente che si sentiva perfettamente in diritto di trovarsi lì. Tutto deponeva a favore dell'ipotesi "bambolina". Dannazione! «L'ha chiamato la moglie per chiedergli di accompagnare suo figlio all'ospedale». A quel punto la bambolina fece una cosa inaspettata: si avvicinò e si sedette sul letto accanto a Isabelle. «Mi chiamo Coco. Coco Hallis», le disse porgendole la mano. «E tu sei Isabelle». Il peso sul cuore di Isabelle adesso era di almeno duecento chili. «Sì». Rimasero per qualche istante in silenzio. Dopo un po' Coco allungò una mano verso la foto di Vincent con la sua famiglia. L'espressione del suo viso non ebbe la minima variazione mentre la guardava. Tutto d'un tratto Isabelle si girò, guardò qualcosa alle sue spalle e balzò in piedi come se l'avesse punta una tarantola: le era venuto in mente che entrambe avevano fatto l'amore con Vincent su quel letto. «Cosa c'è?». «Niente», rispose avviandosi verso la porta. «Ti va un caffè?». «No, per favore, non andartene. Cosa c'è?». Isabelle non conosceva quella ragazza. Cosa poteva risponderle? Coco si posò la foto sulle gambe. «Vuoi che ti dica come faccio a sapere
chi sei?». Isabelle si strinse le braccia sul petto, preparandosi al peggio. «Direi di sì». Poi dopo un istante esclamò: «No, no, non dirmelo! Non voglio sapere niente». «Sì, invece. Perché ti farà sentire meglio. Vieni, siediti». Coco le fece cenno di tornare a sedersi sul letto. Isabelle non aveva nessuna intenzione di muoversi di lì. Alzò una mano come per dire no, sto bene qui, grazie. Coco lasciò perdere. «È stato strano con te stamattina? C'era qualcosa di diverso nel suo modo di comportarsi?». «Non sapeva chi fossi! Non ne aveva la più pallida idea. Si è svegliato e mi ha guardato come se fossi una perfetta sconosciuta. Non sto scherzando, è stato spaventoso». Isabelle descrisse minuziosamente quello che era successo. Parlarne le rese quell'esperienza ancor più intollerabile. Coco rimase in silenzio a succhiarsi il labbro inferiore, come incapace di decidere se dirle o meno ciò che aveva in mente. «E Anjo cos'ha detto di tutta questa storia?». Isabelle rabbrividì. «Cosa?». Coco indicò la pancia di Isabelle. «Anjo cos'ha detto di fare?». «Come fai a sapere di...». «È per questo che sono qui, Isabelle. Per proteggerti. Chiediglielo, chiedi ad Anjo chi sono». Le due donne si guardarono con un misto di curiosità e sospetto. Coco voleva vedere la reazione di Isabelle. Se avesse dato retta al suo istinto Isabelle sarebbe fuggita, ma dove? Sapeva di essere ormai andata troppo avanti e poi dove poteva andare? In soggiorno, forse? A Vienna? All'altro capo del mondo? Facendo ricorso a ogni singola goccia di coraggio nelle sue vene, riuscì a dire: «Adesso vado di là. Per favore, lasciami sola per un po'». «D'accordo. Io rimango qui, ma per favore fa' in fretta perché non abbiamo tanto tempo». «Per fare cosa?». La voce di Coco rimase perfettamente calma. «Per salvarvi, tutti e tre. Hai visto cos'è successo ieri sera. D'ora in poi sarà ancora più dura». Isabelle entrò nel soggiorno tremando e si sedette sul divano. Poche ore prima, lì sopra, lei ed Ettrich si erano baciati e accarezzati per la prima volta da tre mesi. Isabelle guardò il punto in cui i cuscini conservavano ancora la forma del corpo di Vincent. Li toccò cercando di sentire la sua presenza.
«Sono terrorizzata», disse a se stessa, ad Anjo, a Dio. Ma si costrinse a chiudere gli occhi e lentamente il caffè prese forma intorno a lei. Era sempre così, ogni volta ormai, e ci si era abituata. Per prima cosa arrivavano i rumori. I suoni del traffico: le macchine, i clacson, lo stridio dei freni, il fragore di pesanti camion che passavano sferragliando. C'era un gran viavai in strada e quel baccano si sentiva anche dentro. Poi Isabelle percepiva il sedile sotto di sé, qualche volta duro e rigido, altre volte più morbido. Non era lei che decideva dove sedersi, su una semplice sedia di legno senza braccioli oppure in un séparé con un vecchio sedile imbottito di vinilpelle o di soffice velluto. Ma a quel punto sapeva di essere arrivata e di poter aprire gli occhi. Era al Café Ritter, a Vienna, dove aveva incontrato Anjo per la prima volta dopo quella disastrosa serata con Bert. Non sapeva mai sotto quale forma le sarebbe apparso. Più volte aveva preso le sembianze del bambino brutto che le aveva parlato la prima sera. Una volta si era presentata una donna alta, dall'aspetto piuttosto ordinario, con abiti dai colori troppo vistosi e che non smetteva mai di parlare un inglese terribile con un pesante accento tedesco. Un'altra volta le aveva parlato il cameriere, un certo signor Karl. Di tanto in tanto Anjo era già lì seduto che l'aspettava, altrimenti era costretta ad aspettare che decidesse di apparirle. Sul tavolo c'era sempre pronta per lei una spremuta d'arancia, la sua bevanda preferita al Café Ritter. C'erano sempre anche altri clienti intorno, però mai troppi. Giusto perché avesse l'aspetto di un posto normale e non di un set cinematografico. Assetata come ogni mattina, Isabelle portò il bicchiere alle labbra e bevve un lungo sorso di spremuta fissando il soffitto. Quando riabbassò lo sguardo, vide accanto al tavolino Abramo Lincoln con un cappello a cilindro in mano. «Ciao, mamma», le disse sorridendo con aria triste e si sedette. Coco stava rovistando l'armadio di Ettrich quando sentì uno strano scoppio di risa. Perché Isabelle rideva? Si domandò se fosse il caso di andare in soggiorno a vedere se andava tutto bene. Ma forse quella risata era un buon segno. Forse quello che le aveva detto Anjo l'aveva fatta rilassare un po'. Coco prese in mano un altro giubbotto e si mise a rovistare nelle tasche. Se Isabelle aveva ragione, dovevano senza meno trovare qualche prova concreta da mostrare a Vincent per convincerlo che entrambe facevano parte della sua vita. Era vitale. Cancellarle entrambe dalla sua memoria era
stata una mossa astuta. Eppure Coco sapeva di poter riaggiustare le cose con gli strumenti giusti, ma poteva trovarli soltanto lì tra gli oggetti di Vincent. Per quel che riguardava i suoi vestiti, Ettrich comprava solo Calvin Klein: giacche, camicie, jeans... tutto, dalla A alla Z. In realtà ne aveva diverse, di piccole manie come quella. Non gli piaceva usare il coltello quando mangiava, se poteva evitarlo, ma non usciva mai di casa senza un coltello a serramanico, che non usava mai. Gli capitava di parlare spesso da solo quando guidava, come se ci fossero due Vincent al volante che dovevano decidere cosa fare. La sua macchina era sempre inevitabilmente lercia, anche se poi lui si trasformava in Mr Pulizia quando si trattava della sua igiene personale e faceva la doccia due volte al giorno. Faceva collezione di zaini e valigette, ma non le usava quasi mai e andava in giro con le tasche di quei suoi abiti eleganti gonfie e deformate dal telefonino, il palmare, il suo bloc-notes, un romanzo tascabile e l'immancabile coltellino a serramanico che non usava mai. Quelle e altre idiosincrasie facevano di lui un uomo allo stesso tempo bizzarro e interessante. A Coco non avrebbe fatto particolarmente piacere sapere che quindici minuti prima Isabelle aveva pensato le stesse cose su Vincent mentre anche lei rovistava tra le sue cose. Setacciando le tasche di giacche e pantaloni, i pensieri di Coco continuavano a tornare a Isabelle, finché non si rese conto che in quel modo non si stava affatto concentrando sul lavoro che stava facendo. Avrebbe voluto poter parlare con Isabelle per scoprire che tipo di donna era. Il poco che sapeva di lei era basato sui rarissimi commenti di Vincent, invariabilmente e sfacciatamente di parte al riguardo. Purtroppo, proprio in quel momento Coco sentì un foglietto in una tasca e lo tirò fuori per dargli un'occhiata. Vincent ci aveva scritto sopra un nome, Lucy Wallace, e un numero di telefono con la sua stupenda calligrafia. «Stronzo!». Lo accartocciò e stava per buttarlo per terra quando pensò che forse era meglio di no e se lo infilò in tasca tutto appallottolato. Chissà, magari valeva la pena scoprire qualcosa di questa Lucy Wallace, ma non ne era convinta, proprio per niente. Senz'altro la signorina Wallace era una delle sciacquette di Vincent. Ettrich e la sua passione per le donne. Un'altra cosa che incuriosiva Coco era come avesse fatto Isabelle a conquistare il cuore di un uomo così incostante. Qual era il trucco Neukor? Per il momento Coco non aveva visto altro che una bella ragazza seduta in macchina che si mangiava un sandwich, che correva fuori da una tavola calda
con un grosso zaino sulle spalle, e poi la donna di stamattina, dall'aspetto devastato ed esausto. Del resto era il minimo, se era vero quello che Isabelle aveva detto. Se erano davvero stati spazzati via dalla memoria di Vincent tutti i ricordi che riguardavano entrambe, sarebbe stata dura per loro. Coco riprese a ispezionare l'armadio. Quando Isabelle rientrò in camera da letto dieci minuti dopo, la prima cosa che vide fu il sedere di Coco, che spuntava fuori dall'armadio a muro. Si schiarì la gola per catturare l'attenzione di Coco, ma fu inutile. Un secondo tentativo non ebbe maggior fortuna. «Ehi?». Una voce soffocata provenne da dentro l'armadio. «Sì, sì, Isabelle. Un minuto soltanto: c'è una cosa che voglio farti vedere. Pensi di riuscire a trovare una torcia? Sarebbe utile». Felice di avere qualcosa da fare, Isabelle andò a cercare una torcia. Sapeva che a Vincent piacevano i gadget di ogni genere, ma in quell'appartamento di una frugalità monacale non avrebbe saputo dire se ci fossero dei fiammiferi, figuriamoci una torcia. A cosa gli sarebbe dovuta servire una torcia, del resto? A illuminare il soggiorno vuoto? Si ricordò che una volta, a Vienna, Vincent ne aveva trovata una nel vano portaoggetti della sua macchina. L'aveva accesa, se l'era puntata in una narice e le aveva detto: «Guarda un po' qui». Quando si era voltata verso di lui, Isabelle era rimasta per un istante senza respiro. L'interno della narice sinistra di Vincent brillava di un minaccioso arancione cupo. La luce che colpiva soltanto una metà del suo naso rendeva l'intera scena ancora più sinistra. Ma Isabelle era abituata a scherzi del genere, Vincent gliene faceva di continuo. Non perché fosse infantile, però. Era soltanto un uomo intelligente e spiritoso che provava ancora grande piacere per ogni genere di scherzi ed equivoci. In cucina Isabelle aprì diversi mobiletti e la commosse vedervi soltanto due piatti, due forchette, due tazze, circondati da un immenso spazio vuoto. Gli oggetti talvolta hanno la facoltà di trasmetterci una tristezza profonda. Basta uno sguardo e ci fanno comprendere tutto di una persona. Le si strinse il cuore a pensare a Vincent che comperava quelle poche cose in un grande magazzino dopo aver lasciato la sua casa e la sua famiglia. Due cucchiai. Due tovagliette. Tutto a causa di Isabelle. Che era fuggita nel momento in cui lui era finalmente stato pronto a vivere con lei. Un cassetto accanto al lavandino fu per lei ancora più straziante. Vi trovò una distesa di confezioni monouso di salsa di soia e almeno una ventina di bacchette ancora chiuse nella loro busta di carta. Isabelle comprese im-
mediatamente cosa significavano. A entrambi piaceva il cibo orientale, ma Ettrich lo mangiava con la forchetta perché con le bacchette, a differenza di lei, non ci sapeva proprio fare. Il contenuto del cassetto indicava con estrema evidenza che Vincent si era fermato chissà quante volte a comprare qualcosa in un take-away cinese prima di tornare a casa e aveva tenuto le bacchette nella speranza di un suo ritorno. Altrimenti, per quale ragione avrebbe dovuto conservarle? Istintivamente Isabelle infilò una mano nel cassetto per provare l'esatta sensazione di tutti quei pasti solitari. Le bacchette rotolarono e riempirono il silenzio della piccola cucina di uno scricchiolio di carta. Isabelle stava per richiudere il cassetto quando si rese conto di avervi intravisto qualcosa. Lo riaprì e guardò meglio. Sotto le bacchette c'era un foglio coperto per metà della calligrafia di Vincent. Isabelle lo tirò fuori e cominciò a leggere. Dopo tre o quattro righe comprese che cos'era e si coprì la bocca con una mano. Vincent sapeva dipingere molto bene. Aveva studiato pittura all'università e aveva continuato a dipingere, anche se raramente mostrava i suoi quadri a qualcuno al di fuori della sua famiglia. Per Isabelle fu un grande complimento quando lui timidamente le fece vedere le diapositive del suo lavoro. Diversi mesi prima del suo compleanno, il primo anno che stavano assieme, Ettrich le aveva domandato cosa desiderasse per regalo. Lei gli aveva chiesto un suo quadro. Quella richiesta l'aveva preso alla sprovvista e aveva risposto che doveva pensarci. Isabelle aveva compreso che quell'esitazione derivava dal fatto che se Vincent le regalava un quadro voleva che fosse splendido e temeva di non essere in grado di dipingerne uno così. Così lei gli aveva scritto una lettera: Ti ho chiesto un tuo quadro perché volevo vedere un altro pezzo della tua anima, ma in una luce diversa. Volevo che tu dipingessi qualcosa che pensavi si adattasse a me. Volevo vedere cosa mi avresti regalato. Non ha importanza cosa sarà: un cavallo o un vaso di fiori su un davanzale sotto le stelle. Magari quei fiori sono lì che parlano alle stelle della bellezza della distanza e della musica del colore. Una conversazione a cui gli esseri umani non possono partecipare perché i fiori e le stelle sono infiniti e noi ancora non lo siamo. Ma ci fanno dono della loro bellezza e del loro profumo. Perché i fiori e le stelle hanno lo stesso profumo: profumano di speranza. Quel quadro adesso era appeso nel soggiorno di Isabelle, ma lei si era
dimenticata della lettera. Gliene aveva scritte così tante. Non si era mai chiesta che fine facessero. Vedendo ora quella, trascritta da Vincent, se lo immaginò seduto in cucina, da solo, che la copiava, con la pioggia che scendeva fuori dalla finestra e una tazza di tè davanti. Isabelle sapeva esattamente perché l'aveva fatto: in quel momento era l'unico modo che avesse di esserle vicino. Era un pensiero straziante. Posò la lettera bene in vista sul piano di lavoro e si rimise alla ricerca della torcia. Quando ritornò in camera da letto, aveva solo la lettera con sé. «Non l'ho trovata, la torcia». Coco era in bagno che si lavava le mani. «Ho dei fiammiferi. L'armadio è troppo piccolo per tutte e due. Mettiti in ginocchio e infilati. Arrivo tra un attimo». A Isabelle venne in mente che Coco poteva chiuderla a chiave nell'armadio. Sapeva che era un pensiero ridicolo, ma non riuscì a levarselo dalla testa. Che bella sorpresa per Vincent: sarebbe tornato a casa e avrebbe trovato la sconosciuta con cui aveva trascorso la notte chiusa dentro l'armadio che strepitava. Dando poi la colpa di tutto a un'altra sconosciuta. Coco entrò in camera asciugandosi le mani. «Entra nell'armadio e guarda cosa c'è sul muro in basso a sinistra vicino alle scarpe. Non puoi sbagliare». Infilò due dita in tasca e ne trasse un pacchetto di fiammiferi argentato con la scritta «Acumar» in grossi caratteri rossi. «Ridammeli quando hai fatto, per favore. Sono un portafortuna. Ci sei mai andata a mangiare? È proprio un bel posto». Isabelle guardò di nuovo la scatola di fiammiferi e fece cenno di no con la testa. Coco fu sul punto di lasciarsi scappare un sorriso, tirare fuori la lingua e dirle: A me, Vincent mi ci porta, da Acumar, pap-pap-pe-ro! Invece vide negli occhi di Isabelle un'altra cosa che la rese ancora più felice. Diffidenza. «Non vuoi andarci in quell'armadio, eh?». Isabelle si strinse nelle spalle come una bimba di dieci anni. «Hai paura che ti voglia fare uno scherzetto?». «Senti, non so niente di te, eccetto il fatto che sei...». Isabelle si sarebbe rimangiata l'ultima parte della frase in un sol boccone se avesse potuto. Lasciando cadere l'asciugamano per terra, Coco si portò entrambe le mani sui fianchi e la fissò in tralice. «Eccetto il fatto che sono cosa?». «Lascia stare». Coco fece un passo avanti. «No, non lascio stare. Stavi per dire che l'unica cosa che sai di me è che sono una delle sciacquette di Vincent, vero?».
«Sciacquetta?». «Sì, dai, una delle sue ragazze, una scopata». Isabelle non disse nulla, il che diceva tutto. «Be', se per Vincent non sono che un altro orifizio, come faccio a sapere di Anjo?». Isabelle non sapeva rispondere a quella domanda, si era già chiesta invano anche lei la stessa cosa. È vero che Anjo le aveva detto che Coco non era un essere umano e che era lì per aiutarli, tutti e tre, ma le aveva anche confessato che era stata l'amante di Vincent. «Vieni qui. Voglio mostrarti una cosa». Coco si voltò e rientrò in bagno. «Puoi vederla anche qui: non c'è bisogno che entri nell'armadio». «Vedere cosa?». «Potresti venire a guardare, e basta, senza farmi innervosire tanto, per favore?». Isabelle entrò in bagno come se si stesse avventurando in un campo minato. «D'accordo, eccomi. Che c'è?». Tutto d'un tratto Coco allungò una mano e le afferrò il naso. «Non sono venuta qui per convincerti a bere il tuo latte caldo prima di fare la nanna. Se ti dico di venire, non me ne frega proprio niente se hai voglia di farlo o meno: vieni e basta». Coco non sapeva che il naso di Isabelle era intoccabile all'universo mondo. Nessuno aveva mai avuto il permesso di sfiorarlo, né i suoi familiari, né i suoi amanti, né qualche bimbo incuriosito. Non sapeva neanche lei perché, ma era così: la gente è strana. Vincent scoprì quell'eccentricità all'inizio del loro rapporto. Da allora non le aveva più dato tregua. A letto facevano scintille e non c'era fantasia che considerassero troppo audace. Ma spesso, dopo aver fatto sesso appesi al lampadario, sazi e felicemente esausti, lui le sussurrava: «Se mi ami davvero, lasciami toccare il tuo naso». Al che Isabelle invariabilmente replicava: «Non se ne parla neanche». Il gesto di Coco fu così inaspettato e impudente che Isabelle rimase senza fiato. Senza mollare la presa, Coco le si avvicinò tanto da permettere a Isabelle di sentire l'odore del suo alito. Era piacevolmente profumato di menta. Ma era anche freddo. Soltanto molto più tardi Isabelle, ricordando quel dettaglio, ne fu profondamente turbata. «Anjo è in pericolo. Tu sei in pericolo. E stavolta non ti puoi nascondere da nessuna parte, Iz». Isabelle le sferrò un montante allo stomaco, un pugno possente, carico di
rabbia e di violenza, assolutamente inaspettato, da KO. L'unico effetto che ebbe su Coco fu di farla sorridere mentre strizzava con rinnovata energia il naso di Isabelle. «Complimenti, Iz, ma con me non funziona. Posso mostrarti una cosa adesso, per favore?». Isabelle avrebbe voluto annuire, ma non voleva peggiorare la situazione per il suo naso: riuscì a malapena a dire «Zì». Coco la lasciò andare e alzò le braccia come per arrendersi. «Adesso però non mi farai il muso lungo, vero?». Toccandosi il viso per assicurarsi che fosse ancora regolarmente al suo posto, Isabelle disse: «Cos'è che dovrei vedere?». «Apri l'armadietto delle medicine e guarda bene dentro». Isabelle rimase un bel po' davanti all'armadietto a fare esattamente quello che le aveva detto Coco: guardare bene dentro. Ma non vi trovò nulla di interessante. Alla fine lo richiuse e scosse la testa verso il riflesso di Cocco nello specchio. «Non hai visto niente?». «No». «Allora vieni con me». Per nulla scoraggiata, Coco la condusse di nuovo in camera da letto. Erano quasi davanti all'armadio quando Isabelle si fermò bruscamente con lo sguardo fisso a terra come se cercasse di ricordare qualcosa. «Aspetta un momento. Aspetta un momento». Fece dietro-front, tornò in bagno e riaprì l'armadietto dei medicinali. Allungò una mano e prese una piccola boccetta piena di pillole. Svitò il tappo e se ne versò alcune in mano. Erano grandi pastiglie bianche. Su ognuna era stata scritta una parola, qualche volta due, con un inchiostro nero. Quando aveva scrutato dentro l'armadietto, Isabelle aveva visto degli scarabocchi scuri su quelle pillole bianche, ma c'era voluto un po' di tempo perché il suo cervello elaborasse quell'informazione convincendola a tornare indietro. Sulla prima pillola su cui Isabelle focalizzò lo sguardo c'era scritto «Soup». Che era il nome del suo cane. Su un'altra «Cracovia». Su un'altra ancora il nome di sua madre. In una «Café» su un lato e «Diglas» sull'altro: il luogo del loro primo appuntamento. Nell'armadietto dei medicinali di Ettrich non c'era cosa su cui non fosse stata scritta una parola, ovvero un mattoncino della loro storia. Un tubo di crema da barba. Una boccetta di acqua di colonia Royal Creed. Lo spazzolino da denti arancione di Vincent. Ogni singolo oggetto.
«Sapeva che sarebbe successo qualcosa del genere. Sapeva che avrebbero provato a strapparti via da lui. Ecco perché ha scritto tutte queste parole su ogni oggetto». Isabelle guardò lo specchio e vi scorse Coco che la guardava dalla soglia del bagno. «Come? Come è possibile che sapesse che sarebbe successa una cosa simile?». «Non lo so, ma in qualche modo una parte di lui deve averlo saputo. Una parte davvero furba: è riuscito a fregarli per benino. Ha scritto su questi oggetti una serie di parole legate a te che non hanno alcun significato per nessun altro. Io ho indovinato di cosa si trattava perché di alcune di queste cose me ne ha parlato Vincent, di quanto amavate Cracovia, ad esempio, oppure il nome del tuo cane. Vieni con me, ti faccio vedere un'altra cosa». Questa volta Isabelle la seguì docilmente in camera e si infilò nell'armadio senza esitare, quando Coco le disse di entrare e le porse i fiammiferi. In ginocchio nel guardaroba di Vincent, Isabelle accese un fiammifero e domandò a Coco cosa dovesse cercare. «Guarda sul muro a sinistra, giù, vicino alle scarpe. Non puoi sbagliare». Ruotando come poteva in quello spazio angusto, Isabelle avvicinò la fiammella al muro. Passarono due, tre secondi, poi, nell'istante in cui il fiammifero si spegneva, scorse qualcosa. Ne accese subito un altro e si sporse in avanti elettrizzata. Una marea di parole, simboli e numeri coprivano uno spazio di circa quattro metri per quattro proprio sopra le scarpe allineate con cura una accanto all'altra. Un miscuglio caotico di schizzi, lettere e geroglifici indecifrabili che assomigliavano all'opera di un artista invasato o di un antico amanuense o di uno scienziato alla disperata ricerca di qualche oscura formula. Su un muro in un armadio senza luce. Era affascinante e inquietante al tempo stesso persino per Isabelle, ovvero l'unica persona al mondo, oltre a Ettrich, che potesse decifrare quelle iscrizioni. Vedendo quella parete, le vennero in mente i dipinti nella caverna di Lascaux, in Francia, e una fotografia che aveva visto una volta che ritraeva la cella di una prigione in Argentina coperta dal soffitto sino a terra di graffiti lasciati dai prigionieri che vi si erano succeduti negli anni. Isabelle s'immaginò Vincent in ginocchio in quel bugigattolo mentre scriveva la loro storia sul muro, sapendo che presto quella sarebbe forse stata l'unica possibilità per loro di non perdersi. Quando anche il secondo fiammifero si spense, Isabelle non si mosse e rimase al buio facendo scorrere il dorso della mano sulla parete, su quei
simboli e quei disegni: gli schizzi e i ricordi che Vincent aveva scelto di non lasciarsi rubare. Vi fece scivolare la mano sopra con tenerezza, come sul volto di un innamorato. E avrebbe continuato se Coco non le avesse chiesto: «Chi è Rez Sahara e i venticinque topolini?». Anche Isabelle l'aveva visto scritto sul muro. Ma sentire qualcuno pronunciare quel nome ridicolo la fece sorridere nel buio dell'armadio. «Un nome perfetto per un gruppo rock secondo Vincent. Gli piace inventare nomi per immaginarie band: è sciocco, ma è uno dei suoi passatempi preferiti. A me, Rez Sahara mi ha sempre fatto impazzire: così Vincent me l'ha fatto stampare su una maglietta e mi ha detto che potevo essere la loro prima groupie». «Che nome cretino». Coco era gelosa: a lei Vincent non aveva mai detto nessun nome di gruppo rock. «Sì, è un nome cretino. Per questo mi piace». «È un po' buio là dentro, direi. Hai intenzione di rimanerci in pianta stabile?». Isabelle toccò ancora una volta la parete e provò un immenso amore per Vincent. «Sì, penso che non uscirò più». Pepe e matite Mentre riattraversavano la città diretti in ospedale, il taxi si fermò a un semaforo davanti alla stazione. In quel momento Ettrich si disse che il treno della sua vita era deragliato ed era finito in un campo che portava dritto all'inferno. O lì vicino. Tanto per cominciare si era svegliato accanto a una splendida sconosciuta che si comportava come se si conoscessero da anni. Aveva fatto colazione a base di torta al cioccolato (quasi) nudo in bagno. Poi in garage aveva scoperto che gli avevano rubato la macchina. E a casa di Kitty, quella storia folle. Senza contare questo viaggio in ospedale del tutto inutile. Ettrich detestava gli ospedali. «De-ra-glia-to, cazzo!», esclamò tra sé e ripeté quelle parole ad alta voce per sfogarsi un po'. Suo figlio Jack, che aveva otto anni, si voltò lentamente verso di lui e lo osservò. «Cosa hai detto, papà?». «Niente d'importante, Terminator. Come ti senti?». «Ho caldo». Il ragazzino si voltò di nuovo verso il finestrino e appoggiò
il naso e le labbra al vetro. Se Kitty l'avesse visto, le sarebbe venuto un infarto. Gli avrebbe severamente ordinato di togliere subito la faccia da lì. Ettrich invece lo lasciò fare. Un po' perché sapeva com'era piacevole sentire il vetro freddo sul viso accaldato, e un po' perché tutto quello che diceva sua moglie oggi lo esasperava. Anche se non era più la prima volta, suonare il campanello della sua vecchia casa continuava a trasmettergli una sensazione estremamente strana. Come se stesse prendendo in giro se stesso. Quante volte aveva aperto quella porta blu chiedendo: «C'è nessuno in giro?». Poi prendeva la posta sul tavolinetto, annusava gli odori della casa e ne ascoltava i rumori: i bambini che strillavano, Kitty che cantava, la TV o la radio accesa da qualche parte, il cane che si rotolava al sole sul tappetino intrecciato. Sono le cose che non vedi più, quelle che dai per scontate, che fanno di un posto la tua casa. Il gancio d'ottone ossidato a cui appendi le chiavi, la macchia delle gomme delle bici sul muro sotto il portico. Quei dettagli che conosci a memoria, cui non fai più attenzione finché casa tua non diventa il luogo in cui abita la tua ex moglie con i tuoi figli. Una specie di museo di quello che è stato, pieno di nuovi divieti, un posto cui puoi avere accesso soltanto pagando una sorta di biglietto d'entrata e osservando stretti orari di visita. Tappezzato di cartelli, insomma, con su scritto: Non fare questo, non fare quello, e specialmente tu, Vincent Ettrich. Divieto di accesso al personale non autorizzato. Così ogni volta che ne aveva l'occasione, Ettrich si guardava attorno furtivamente per vedere se nella sua vecchia casa c'era qualcosa di diverso, se il drago Kitty aveva cambiato qualcosa oppure no. Suonò il campanello e fece un paio di passi indietro per creare abbastanza spazio tra loro quando Kitty sarebbe venuta ad aprire. La porta si spalancò quasi immediatamente, come se lei lo stesse aspettando dietro. Se fossero stati ancora sposati, Ettrich le avrebbe detto qualcosa, avrebbe fatto una battuta, ma adesso no: ogni possibilità di humour era ormai morta e sepolta tra loro. Ora, quando si vedevano, erano come due pugili che si studiano dai rispettivi angoli del ring in attesa della fine del round. Kitty era in splendida forma. Si era tagliata i capelli e aveva un nuovo rossetto, più scuro, color prugna. Istintivamente Ettrich fu tentato di dirle come stava bene, ma quel genere di complimenti troppo spesso sortiva l'effetto contrario, soprattutto ultimamente. Mentre si domandava ancora se fosse il caso di dirglielo o meno, Kitty esclamò: «È l'orecchio».
Colto di sorpresa dalla rapidità con cui era stata aperta la porta e dal nuovo look di Kitty, gli parve di sentire: «È Loretto». Chi è Loretto?, pensò Ettrich. Che razza di nome! Non gli sembrava di conoscere nessuno che si chiamasse così, né che Kitty avesse nessun amico con quel nome. E poi cosa c'entrava con Jack? «Chi è Loretto?». «Cosa? Di cosa stai parlando?». In un solo istante la voce di Kitty aveva assunto il solito tono, una cosa che Ettrich proprio non sopportava. Era tutta colpa sua, soltanto sua, se il loro matrimonio era finito, è vero, ma ciò non gli impediva di detestare quel tono carico di rancore che Kitty usava da quando avevano divorziato e con cui sembrava volergli ricordare all'infinito che tutto quello che lui era, faceva o diceva era irrimediabilmente stupido o profondamente spregevole. A labbra serrate, Ettrich trasse un lungo respiro dal naso. «Ti ho chiesto chi è Loretto. L'hai detto tu, Kitty. Hai detto: "È Loretto"». Lei sbuffò. «No, Vincent. Ho detto "È l'o-rec-chio". Tuo figlio ha ancora una volta un'infezione all'orecchio e gli è venuta la febbre. Il dottor Capshew è all'ospedale adesso e ha chiesto di portarglielo». «Ciao, papà». Il piccolo Jack aggirò la gamba di sua madre e si fermò in mezzo ai genitori. A Ettrich si spalancò il cuore: voleva un gran bene a quel bambino e inoltre gli piaceva un sacco stare con lui. «Ciao, Spiderman. La mamma dice che non stai bene». «L'orecchio, papà. E ancora quella stupida cosa all'orecchio». Jack Ettrich attirava le malattie come il miele le api. Spesso non faceva in tempo a passargliene una che gliene veniva un'altra: otiti, tonsilliti, orecchioni, varicella, morbillo, rosolia. .. Il povero Jack se le prendeva tutte, ma chissà come riusciva sempre a rimanere un bambino allegro e solare. L'unica cosa un po' strana era che Jack spesso sembrava un vecchietto più che un bambino di otto anni, tranquillo, garbato e riflessivo com'era. «Grazie» e «per favore» erano le sue espressioni preferite. A differenza della maggior parte dei bambini, ci metteva una vita a finire una barretta di Mars, mangiandola a morsi piccolissimi. Se gli si faceva una domanda, rispondeva soltanto dopo aver ponderato a lungo la risposta. Piangeva di rado, ma allora sembrava di assistere alla scena madre di un dramma: ti si spezzava il cuore a vederlo così disperato e avresti fatto qualunque cosa per rimettere a posto le cose. Ettrich una volta aveva letto un articolo che
parlava di una malattia molto rara chiamata progeria che provocava un invecchiamento di dieci anni per ogni anno di vita. Bambini morti di vecchiaia a nove anni. Qualche volta Vincent si domandava se Dio non avesse aggiunto un pizzico di progeria agli ingredienti di Jack prima di metterlo in forno. «Dov'è la tua macchina, papà?», chiese Jack guardando la strada in punta di piedi, con una mano sugli occhi per ripararsi dal sole. «Me l'hanno rubata stamattina». «Wow, papà, te l'hanno portata via davvero?». «È assurdo, Vincent. Chi vuoi che rubi una simile schifezza?». «Non lo so. Qualcuno, immagino, visto che comunque me l'hanno rubata». Kitty incrociò le braccia sul petto. «Non ci credo. L'avrai dimenticata da qualche parte ieri sera perché avevi altre cose per la testa e adesso credi che te l'abbiano rubata». «Kitty...». Ettrich avrebbe voluto risponderle a tono, ma sapeva che sarebbe bastata una pagliuzza a far scatenare la sua ex moglie. Così mandò giù e guardò il figlio. «Vuoi che porti Jack dal dottore?». «Sì, il dottor Capshew è in ospedale fino a mezzogiorno». «Ma non possiamo aspettare e portarlo in ambulatorio? È soltanto a due isolati da qui, mentre l'ospedale è dall'altra parte della città, a più di otto chilometri». «Credo che il babbo abbia ragione, mamma. Non mi piace l'ospedale, ha un odore così strano». Kitty non si degnò nemmeno di rispondere. «Devo portare Carmen a comprare una tuta. Lunedì inizia il corso di danza ed è una settimana che mi chiede di accompagnarla. Come fai ad andare in ospedale senza macchina?». Mentre le indicava il taxi, Ettrich pensò al nome che Kitty aveva appena usato. «Chi è Carmen?». Fu Jack a rispondere con la sua vocetta acuta e con un tono di disapprovazione: «Stella. Non le piace più il suo nome e vuole essere chiamata Carmen». Stella era il nome della figlia maggiore di Vincent e Kitty ed era anche il nome che, nel corso del loro primo appuntamento, entrambi avevano scoperto con grande gioia di voler dare a una bambina, se avessero avuto una figlia. «Carmen, interessante». Ettrich infilò le mani nelle tasche dei pantaloni
e si dondolò sui talloni. «E tu sei d'accordo, Kitty?». «Sì, perché no? È un bel nome». Invece di rispondere, Ettrich fischiettò qualche nota della Carmen. Fischiettare non era il suo forte. Kitty posò una mano sulla spalla di Jack e gli disse di andare a mettersi le scarpe e di prepararsi. Quando il bambino si fu allontanato, disse a Ettrich: «Riportalo subito qui dopo». «OK». Per quanto di solito adorasse stare con i figli, oggi preferiva così anche lui. Doveva informare la polizia del furto della macchina. Doveva andare a casa e decidere che cosa fare con quella sconosciuta con una torta al cioccolato nello zaino... «Non voglio che venga da te, capito? Non voglio che Jack metta piede a casa tua». Dalla sua voce si sarebbe detto che Kitty fosse sul punto di esplodere. «D'accordo, Kitty. Te lo riporto subito a casa. Andiamo e torniamo», rispose con tono tranquillo e condiscendente. «Non mi prendere in giro, Vincent. Non ci provare». Vincent replicò tristemente: «Non avevo nessuna intenzione di prenderti in giro. Ho soltanto detto che te lo riporto subito». «E lo sai perché voglio che lo riporti subito a casa? Perché è arrivata. Vi hanno visti all'aeroporto ieri sera. Sarai contento, Vincent. Ho rovinato la vostra giornatina con la mia telefonata? Scusami, ma si dà il caso che tuo figlio stia male!». «Di cosa diavolo stai parlando? Chi è arrivato? Cosa significa che ci hanno visti ieri sera?». Kitty scosse la testa. No, non si sarebbe più fatta ingannare da tanta falsità. Mai più. «Ci riprovi ancora, eh, Vincent?». Facendogli il verso, Kitty esclamò: «"Cosa dici, Kitty? Non ero con un'altra donna. Te lo giuro. Come puoi pensare una cosa simile?". Sei un bugiardo, Vincent. Sei un gran bugiardo!». «Sei impazzita? Di cosa diavolo stai parlando?». Fortunatamente in quel momento riapparve Jack con ai piedi le scarpe da ginnastica ultimissimo modello che gli aveva portato Vincent la settimana prima da Los Angeles, dov'era stato per lavoro. Jack sollevò un piede e gli mostrò la scarpa saltellando. «Che ne dici, papà? Come mi stanno?». «Wow, alla grande». Jack corse verso di lui e gli saltò addosso gettandogli le braccia al collo.
«Cavolo, stai diventando grande, Jack. Tra un po', se fai così, va a finire che mi stendi». Jack rise e lo strinse ancora più forte. Con la coda dell'occhio Ettrich vide che Kitty si sforzava di non sorridere. Fu colto da una staffilata di rimpianto e di senso di colpa per quello che le aveva fatto buttando all'aria tutto. Si allontanò con Jack in braccio senza guardarla. Come ospedale era splendido. Era aperto da appena tre anni e aveva ottenuto diversi premi perché lo spazio e la luce erano stati utilizzati in tal modo che anche all'interno dell'edificio si aveva l'impressione di essere all'aria aperta. Era dotato delle attrezzature e dei macchinari tecnologicamente più avanzati: sembrava di entrare in una navicella spaziale pronta per fare rotta su Marte. Ogni volta che Ettrich metteva piede lì dentro e vedeva tutti quei congegni si domandava come fosse possibile morire se solo si veniva collegati a una di quelle macchine. Come potevano tutte quelle lucine lampeggianti, quei dispositivi, quegli schermi multipli a cristalli liquidi... perdere un paziente? Quel loro pulsare silenzioso dava una tale impressione di efficienza e affidabilità che non gli sembrava proprio possibile che potessero venir meno alla loro funzione. Una volta che Stella vi era stata ricoverata d'appendicite, Ettrich aveva rivolto quella domanda al dottor Capshew. Il volto del dottore, che era un brav'uomo, si era animato. Sporgendosi verso di lui, gli aveva indicato un apparecchio in fondo alla stanza. «La vede quella macchina là, signor Ettrich? E un ecografo. Invia all'interno del corpo delle onde sonore che rimbalzando sui diversi organi ne mostrano le caratteristiche a un occhio esperto. Costa circa settantamila dollari. Ma le confesserò un grande segreto: alla fin fine anche quello è solo uno strumento. Un martello con la laurea, un arnese che può essere molto utile ma non fa miracoli. A noi medici piace lasciar credere che siamo in grado di compiere prodigi, perché fa bene al nostro ego. Ma la verità è che gran parte del nostro lavoro, come quello dei meccanici di Formula Uno, consiste nel mettere a punto motori molto sensibili e capricciosi, né più, né meno». Ettrich entrò in ospedale tenendo il figlio per mano e si avviò verso uno dei tanti ascensori per salire al sesto piano. Malgrado si muovesse rapidamente con fluide e silenziose accelerazioni, l'ascensore si fermò tre volte prima di arrivare, lasciando entrare e uscire diversi medici in camice bian-
co con lo stetoscopio appeso al collo e cartelle cliniche in mano, con l'aria determinata e sicura di chi non ha il minimo dubbio della correttezza di ciò che sta facendo. Ad essere sincero Ettrich li invidiava: avrebbe desiderato anche lui un lavoro così importante come il loro, invece di dover abbindolare la gente per spingerla a comprare i prodotti dei suoi clienti. Sospirò e inconsciamente strinse un po' più forte la mano di Jack. Il bambino ricambiò la stretta, alzò la testa e sorrise. Lui guardò giù e diede altre due strette alla mano di Jack mentre l'ascensore rallentava ancora una volta apprestandosi a fermarsi. Le porte si aprirono davanti a tre infermiere di colore che chiacchieravano: due salirono, la terza rimase al piano, senza smettere di parlare. Ettrich la notò per ultima perché stava osservando le altre due, entrambe alquanto carine. Ma quando lei disse con voce tonante: «Vi dico solo che questa conversazione non finisce qui», qualcosa in quella voce lo colpì profondamente. «Oh, Michelle, vuoi proprio sempre avere l'ultima parola», disse l'Infermiera Carina numero uno scuotendo il capo. Ettrich rivolse la sua attenzione alla donna fuori dell'ascensore. Era una montagna. Si sarebbe detto che avrebbe potuto sollevare senza fatica un bilanciere di cento chili. I suoi occhi si posarono su di lui per un istante, poi tornarono alle sue amiche. Ettrich la conosceva, l'aveva già vista. Ma dove? Mentre le porte si chiudevano, lesse il nome sulla targhetta che portava appuntata sul petto: Maslow. Michelle Maslow. Istintivamente esclamò: «Ehi!», ma l'ascensore era già ripartito. «Cosa c'è, papà?». «Niente, Jack. Mi era venuta in mente una cosa». Quella domanda cominciò a turbinargli fastidiosamente nel cervello. Ettrich fissò le porte di metallo dell'ascensore strizzando gli occhi. Chi era? Perché era così sicuro di conoscerla? Una grossa infermiera di colore. Michelle Maslow. Chi poteva essere? «Scusate, potreste dirmi in che reparto lavora?», domandò Ettrich alle due infermiere sull'ascensore indicando con un ampio gesto le porte davanti a sé. «La conosci, papà?». «Mi sembra di sì», rispose lui sorridendo. L'Infermiera numero uno guardò Jack e gli fece l'occhiolino. «Ehilà, ometto. Sei venuto a trovarci oggi?». Poi il suo sguardo passò su Ettrich. «Può trovare l'infermiera Maslow al quarto piano, centro assistenza degenti numero quattro». La seconda infermiera aggiunse: «Non può sbagliare», lanciando un'oc-
chiata verso la sua collega che fece un sorrisino e annuì. «Come fai a conoscerla, papà?». «Non lo so. Non ne sono sicuro». L'Infermiera numero due gli chiese: «È mai stato nel reparto malati terminali?». Il tono della sua voce era tale che Ettrich prese la domanda molto seriamente. «Oh, no, no». «Be', di solito è lì che la può trovare». Ma non era ancora finita. Mentre si dirigevano verso l'ufficio di Capshew, Ettrich vide lungo il corridoio una futuristica fontanella a stelo. Era certo di non aver mai bevuto a una di quelle fontanelle, eppure allo stesso tempo sapeva (ed era come se la sua mente giocasse a ping-pong con quei due ricordi) di aver provato a usarne una su un altro piano dell'ospedale. Quando la vide, ricordò di non essere riuscito a capire come farla funzionare e di come si fosse sentito stupido e inetto. Era stato quasi sul punto di lasciarsi andare alle lacrime. E si era appoggiato al muro, sentendosi così stanco... stanco, debole e ammalato. Sì, profondamente ammalato. Era certo di esserlo stato. Ma quando? Un turbine di domande gli mulinava in testa. Era certo che quei ricordi appartenevano alla sua vita. Aveva desiderato un bicchiere d'acqua ma non era neanche stato in grado di far funzionare una dannata fontanella. Ricordava il proprio smarrimento al pensiero di quello che gli stava facendo il suo corpo. In passato gli era sempre stato amico, e lui, da parte sua, lo aveva sempre trattato bene, offrendogli sonno a sufficienza, esercizio fisico e cibi sani. Ricordava che una volta aveva persino esclamato a voce alta: Cosa mi stai facendo? Perché permetti che mi accada tutto questo? Il suo corpo aveva tradito il sacro accordo che lo univa a Ettrich. Aveva smesso di lottare per lui, aveva smesso di proteggerlo: lo stava lasciando morire. Mentre fissava la fontanella, camminando sempre più lentamente, quei pensieri si affollavano e correvano rapidi nella sua mente come un torrente in piena. Ma che ricordi erano? Erano davvero i suoi? Come poteva essere? Da dove venivano? Come erano entrati nella sua vita? «Che numero ha il suo ambulatorio, papà?», la familiare vocetta di Jack lo riportò al presente, ma solo in parte. «E in fondo al corridoio. Ci siamo quasi». «Mi infila sempre quello strano aggeggio nell'orecchio. Non mi piace».
Rowley. C'era un ragazzo, un inserviente (come si chiamano quelli che distribuiscono il cibo e cambiano le lenzuola in ospedale? Inservienti? Assistenti?). Insomma, c'era un ragazzo, un gran bel ragazzo quel Rowley, che lavorava nel loro reparto come inserviente durante il giorno. Era soprannominato Stress. Si chiamava Press e siccome era sempre in tensione, sempre stressatissimo, lo chiamavano tutti Stress. Sorrideva troppo, si mangiava le unghie fino a farle sanguinare. Faceva tutto bene, ma troppo in fretta, sempre di corsa. Era Michelle Maslow che lo chiamava sempre così. Era lei che gli aveva dato quel soprannome. «Stress, mi fai venire l'ansia. Mi sembra che tu abbia sempre un esercito di topi alle calcagna. Appena ti vedo, mi balza il cuore in gola, ma non è la passione, eh, non credere! Mi viene la tachicardia da stress a vederti sempre correre su e giù in questo modo». Rowley si limitava a rivolgerle uno di quei suoi maniacali sorrisi e ripartiva di gran carriera. Michelle Maslow. Stress Rowley. Come faceva lui a sapere queste cose? Arrivarono all'ufficio del dottor Capshew ed entrarono. C'erano diverse persone in sala d'aspetto che avevano tutta l'aria di essere lì già da un po'. Ettrich incominciò a temere che le cose sarebbero andate per le lunghe. Su un tavolino in un angolo c'era una grossa pila di riviste, tra cui alcune per bambini. Ettrich e suo figlio ne scelsero due o tre ciascuno, ma prima che potessero cominciare a sfogliarne una, l'infermiera chiamò Jack. Si rialzarono ed Ettrich seguì suo figlio dentro, estremamente imbarazzato di passare davanti a tutti. Come se non bastasse, dopo due minuti dovette uscire di nuovo. Il dottore aveva deciso di fare qualche esame per accertarsi che quelle ricorrenti infezioni all'orecchio non nascondessero nulla di più serio. Per questo aveva chiesto di vedere il bambino in ospedale. E aveva suggerito a Ettrich di andarsi a bere una tazza di caffè e di tornare dopo tre quarti d'ora. Così Vincent riattraversò la sala d'aspetto con aria colpevole e furtiva, e gli occhi bassi, come se avesse sfilato il portafoglio a qualcuno dei presenti. Il che comunque non bastò a sopire il risentimento delle altre persone in attesa. Se fossero stati serpenti invece che degli esseri umani, Ettrich sarebbe stato assordato dal loro sibilo di rancore. In corridoio provò dosi uguali di sollievo e di disagio. Doveva trovare il modo di far trascorrere mezz'ora, ma allo stesso tempo non voleva allontanarsi troppo perché temeva di avere un'altra visione di un luogo e di un momento di cui preferiva non sapere nulla. Per qualche istante pensò di
scendere al quarto piano in cerca di Michelle Maslow. Ma cosa poteva dirle, cosa poteva chiederle? Ho l'impressione di conoscerla. E lei? L'avrebbe senz'altro guardato come se fosse matto e ne avrebbe avuto tutte le ragioni. E poi? Sarebbe andato dal bel Rowley a fargli la stessa domanda? Ehi, Stress, ti ricordi di me? S'infilò le mani in tasca e pensò che avrebbe voluto andarsene a casa, in quel piccolo, merdoso appartamento che detestava. Casa triste casa. Poi si ricordò chi c'era e si rese conto che anche andare a casa non sarebbe stata una buona idea visto che c'era Miss Sacher Torte ad aspettarlo. Decise di andare al bar a bersi un caffè mentre aspettava Jack. Magari per un po' la terra avrebbe smesso di crollargli sotto i piedi. Chiese a un inserviente dove fosse il bar. Era al piano terra. Meglio, almeno ci avrebbe messo un po' a fare su e giù con l'ascensore. Aveva bisogno di trovare qualcosa da fare per riempire il tempo. Magari poteva uscire a fare due passi. Arrivò all'ascensore, premette il pulsante e si mise ad aspettare con le mani intrecciate dietro la schiena. Kitty diceva che sembrava un vecchio quando faceva così, ma era una posa che Ettrich assumeva inconsciamente. Negli ultimi tempi del loro matrimonio la cosa che mandava Kitty su tutte le furie. Del resto le donne finiscono sempre per essere arrabbiate, infastidite o deluse per qualche cosa. Non c'è verso di evitarlo. Più ti amano, più sei destinato a scontentarle, dando loro troppo o troppo poco. Il colore sbagliato, il momento sbagliato, il gesto sbagliato. A un tuo complimento, se non lo ignorano stizzite, replicano astiose: «Te ne accorgi adesso?». Assorto in questi pensieri, Ettrich osservava i numeri rossi dei piani illuminarsi sopra le porte metalliche dell'ascensore. Quando infine l'ascensore si fermò con un lieve trillo e le porte si aprirono, Vincent si trovò Bruno Mann davanti. «Eccoti!». «Bruno! Che cosa ci fai qui?». Le porte stavano per richiudersi, ma Mann passò una mano davanti alla fotocellula e quelle si riaprirono obbedienti. «Ti stavo cercando, Vincent». «Come facevi a sapere che ero qui?». «Ho chiamato Kitty. Me l'ha detto lei». «Perché non mi hai chiamato al cellulare?». «Non ho il tuo numero». «Hanno i numeri di tutti in ufficio. Perché non hai chiamato lì e non te lo sei fatto dare? È il cellulare dell'agenzia». Mann parve confuso, ma solo per un istante. Quando le porte dell'ascen-
sore fecero per richiudersi, lui le bloccò di nuovo. «Non sono molto lucido in questi giorni, Vincent. Dobbiamo parlare. Possiamo andare da qualche parte?». Fece cenno a Ettrich di salire. Le porte fecero per chiudersi un'altra volta e si riaprirono. Ettrich le vide con la coda dell'occhio perché si era voltato verso l'ufficio del dottor Capshew. «Ho solo quaranta minuti. Poi devo tornare a prendere mio figlio». «Perfetto, OK. Quaranta minuti vanno benissimo. Vieni». Ettrich entrò e questa volta Mann lasciò che le porte si chiudessero. Premette il pulsante del piano terra. Iniziarono a scendere rapidamente ed Ettrich rimase in silenzio, aspettando che Mann dicesse qualcosa, ma questi, con le braccia conserte e lo sguardo fisso sui propri piedi, non disse una parola. Sembrava che stesse fischiettando tra sé. «Allora?». Bruno non rispose. All'improvviso Ettrich trovò in lui un bersaglio buono per tutto quello che gli era successo quella mattina. «Bruno, cerca di dire qualcosa, OK? Mi hai chiesto di venire con te, perché non provi a dirmi cosa c'è?». «Si stanno prendendo gioco di noi, Vincent. È come se fossimo delle lucciole in un bicchiere che ogni tanto scuotono un po' per vedere cosa facciamo». «Di cosa stai parlando? Chi è che si sta prendendo gioco di noi?». Bruno lasciò andare le braccia lungo i fianchi. «Il tuo cuore batte ancora?». «Cosa?». Ettrich a questo punto avrebbe desiderato scendere immediatamente da quell'ascensore, visto che Bruno Mann doveva aver perso la bussola e l'idea di essere intrappolato lì dentro con Mister Lucciola non gli piaceva affatto. «Hai più pisciato da quando hai scoperto la verità? Sei più andato in bagno da allora?». «In bagno? È chiaro che vado in bagno. Non è che ti fai, per caso?». Bruno scosse il capo. «No. Mai drogato in vita mia. E sai qual è la cosa più buffa? Che ci ho messo un sacco di tempo prima di accorgermene. Ci sono talmente tante cose che facciamo inconsciamente, che non dedichiamo loro il minimo pensiero finché non smettiamo di farle». Ettrich non riuscì a resistere alla tentazione: «Non hai più pisciato? E da quanto tempo?», gli chiese cercando di trattenere un sorriso. Bruno se ne accorse e fece una smorfia. «Lo so, è ridicolo. Sarebbe tutto
così ridicolo se non fosse spaventoso». L'ascensore si fermò e le porte si aprirono. Non c'era nessuno al piano. Le porte si richiusero e l'ascensore riprese a scendere. Ettrich aspettò che Bruno proseguisse. «Allora?». «Allora cosa?». «Non sarai venuto sin qui per dirmi che non vai più al cesso, Bruno». Mann rimase in silenzio e anche Ettrich non disse nulla. Poi, come se sentisse qualcosa, Bruno sollevò la testa e aggrottò le ciglia. «Zitto. Shhh», esclamò alzando una mano. Seccato da quel gesto, Ettrich non aprì bocca. «Lo senti anche tu? C'è qualcosa. C'è qualcosa qua dentro». Dietro un'apparente calma, la voce di Bruno nascondeva una profonda tensione. «Credo sia ora che tu faccia di nuovo un salto in farmacia, Bruno. Qualunque cosa tu stia prendendo», rispose Ettrich, senza però riuscire a evitare di raddrizzarsi e di guardarsi intorno spalancando gli occhi. «Quando l'ascensore si è fermato l'ultima volta, non è salito nessuno. Ma le porte si sono aperte. Te ne sei accorto?». «E allora?». Mann fece un gesto intorno a sé e disse: «Be', secondo me è salito qualcosa. È solo che noi non lo vediamo». Ettrich si sentì assalire dal profondo disagio che ti prende quando sei troppo vicino a qualcuno che potrebbe spiccare il volo e volteggiare un po' in aria prima di atterrarti pesantemente sulla testa. Dopo un'eternità l'ascensore giunse finalmente al piano successivo e, grazie al cielo, si arrestò e le porte si aprirono. Ettrich fece per uscire, ma Bruno lo afferrò per un braccio, trattenendolo. Ettrich fissò la mano di Bruno e disse: «Lasciami andare». «Ascolta...». «Se non mi lasci andare, ti do un pugno in faccia». Bruno lo lasciò. «D'accordo, ma scendo anch'io con te». Al piano un uomo anziano di bell'aspetto con indosso un elegante abito verde scuro aspettava che scendessero per salire sull'ascensore. Ma mentre loro discutevano, le porte si richiusero e l'ascensore ripartì. Ettrich guardò l'uomo per scusarsi. Lui ricambiò lo sguardo e sorrise. Quando Ettrich vide i suoi denti, in un istante gli ritornò tutto in mente. Erano grandi e gialli come i tasti di un vecchio pianoforte. La memoria è un intricato groviglio di interconnessioni e di fili attorcigliati come una matassa di lana nella cuccia di un gatto. Se provi a seguire
uno di quei fili ti accorgerai che alla fine, dopo un gran numero di giri, ritorni al punto di partenza. Alla vista di quei denti gialli, Vincent Ettrich perse l'equilibrio, barcollò e fu letteralmente sul punto di cadere. Perché aveva bruscamente ricordato tutto. All'improvviso si era riversato nella sua mente tutto quello che aveva dimenticato quella mattina quando si era svegliato. La ragazza nel suo appartamento era Isabelle Neukor. La ragazza al telefono era Coco Hallis. Questo era l'ospedale in cui era morto. Anche Bruno Mann era morto e come lui era tornato in vita. Quell'uomo che gli stava sorridendo era Tillman Reeves, il suo compagno di stanza durante i suoi ultimi giorni sulla terra. «Ci sei anche tu, Vincent. Che bello rivedere un'altra faccia dei vecchi tempi». I tre morti, seduti al bar dell'ospedale, stavano sorseggiando un cappuccino. Chiacchieravano da una ventina di minuti, ma eccezion fatta per gli apprezzamenti nei riguardi del caffè eccellente, si erano trovati d'accordo su ben poche altre cose. «Così, da quando sei morto sei sempre stato qui dentro? Non puoi uscire?», domandò Bruno, scettico. Tillman si portò due dita sul mento. «Già. E come essere in una commedia di Sartre. A proposito di teatro, ha mai letto Il dottor Faustus di Christopher Marlowe, signor Mann? Un testo fondamentale, una delle mie opere preferite. A un certo punto Faustus chiede a Mefistofele dove si trovi l'inferno. E quella vecchia volpe gli risponde: "Sotto il paradiso"». Le dita di Reeves si allontanarono dal mento disegnando un piccolo cerchio in aria come per includere tutti in quella definizione. Bruno guardò Ettrich in cerca di una spiegazione. Ma l'espressione di Vincent non gli disse nulla, così si rivolse di nuovo a Tillman. «Non capisco». L'anziano signore annuì. «Per qualche ragione, dopo la morte noi tre siamo stati riportati in vita. Non solo, siamo tornati alle nostre vite precedenti per quanto in stati diversi di confusione mentale e con vuoti di memoria più o meno ampi. Non abbiamo idea del perché siamo tornati qui, né di cosa dobbiamo fare. Vi ricordate quanta paura avevamo di morire? Avremmo dato qualunque cosa per rimanere qui, per continuare a vivere. Be', ora che quel desiderio si è avverato, siamo forse felici? L'inferno è sotto il paradiso». Per un po' tutti e tre rifletterono su quelle parole immersi in un cupo si-
lenzio. Poi Reeves disse: «Già ci capivo poco di questa storia prima, ma ora si è aggiunto un mistero in più: non vedo perché voi possiate muovervi come volete, mentre io sono perennemente confinato in questo luogo funesto». Bruno si lasciò andare contro lo schienale della sedia e intrecciò le dita dietro la testa. «Che cosa fa qui tutto il giorno? Voglio dire: cosa c'è da fare in un ospedale?». «Assisto alle operazioni, parlo con i pazienti...». Ettrich lo interruppe. «E come reagiscono alla tua presenza, Tillman? Una come Cangrosso cosa dice a vederti ancora qui? E gli altri che sanno della tua morte, quelli che erano qui prima che tu morissi?». «Cangrosso? Chi è Cangrosso?». «La nostra infermiera, Michelle Maslow». «Mi riconoscono, ma non vedono in me la persona che ero. Immagino che sia la stessa cosa che fanno i vostri colleghi e i vostri amici con voi. È tutto normale, fatto eccezione per alcuni dettagli fondamentali. Mi salutano, facciamo anche due chiacchiere qualche volta, ma niente di più. È come se avessero una zona d'ombra collettiva davanti agli occhi quando si tratta di sapere chi sono e quello che ero. Mi vedono qua ogni giorno, ma non mi chiedono che cosa ci faccio, né perché continuo a gironzolare qui dentro. Mi salutano, fanno una battuta e se ne vanno per la loro strada. Per loro faccio parte di questo posto e non trovano nulla di strano a vedermi qui». Per esperienza Ettrich sapeva che era proprio così. Per sei mesi, finché Coco non gli aveva detto la verità, la sua vita e il comportamento delle persone che conosceva non erano cambiate di una virgola. Effettivamente «una zona d'ombra collettiva» era una definizione calzante. «Allora, cosa facciamo adesso?», il tono di Bruno era quello di un bambino smarrito. «Onestamente, non lo so, signor Mann. Continuo a sperare di avere una rivelazione un giorno o l'altro, ma finora non è accaduto». «Voi due ricordate com'era la morte?». Mann e Reeves si guardarono. «Niente». «No». «Ne ero certo. Non è proprio questa la cosa più strana? Nessuno di noi ricorda niente. Niente, neanche una vaga idea». «Perché ci hanno portato via da lì, Vincent. Non vogliono che ricordia-
mo. Potremmo approfittare di quello che sappiamo». Ettrich guardò l'orologio alla parete. «Devo andare. E ora che vada a prendere mio figlio. Bruno, vieni con me?». «No, voglio parlare ancora un po' con il signor Reeves. Sei a casa più tardi? Posso chiamarti?». «Certo». Reeves si alzò e, con grande sorpresa di Ettrich, lo abbracciò. «Promettimi che ritorni e che staremo un po' insieme, Vincent. Mi mancano le nostre chiacchierate». «Certo che torno, Tillman. Ma tu te le ricordi? Ti ricordi il tempo che abbiamo passato insieme? Io no». «Te lo ricorderai. Più tempo passa da quando sai di essere risorto, più ti tornano in mente i ricordi degli ultimi giorni di vita. È come risvegliarsi da un'anestesia. Di solito non sono ricordi molto piacevoli, ma è rassicurante averli di nuovo. In fondo sono nostri, fanno parte della nostra vita». Bruno ridacchiò. «Strano, eh? Quando si parla della reincarnazione c'è sempre qualcuno che dice: se è vera perché non ricordiamo le nostre vite passate? È proprio quello che succede a noi ora. Questa è un'altra reincarnazione per noi, e non ricordiamo niente della nostra vita passata, che poi è questa». Mentre risaliva al sesto piano, Ettrich pensò a quello che avevano detto Tillman e Bruno. Avevano ragione: in un certo senso quella era una sorta di reincarnazione per tutti e tre. Ma a cosa serviva, se non avevano idea di cosa farsene? A che serve una lezione se non se ne può trarre nessun insegnamento? L'ascensore si fermò al secondo piano. Ancora una volta le porte si aprirono, ma non c'era nessuno ad aspettare. Ettrich era troppo preso dai suoi pensieri per prestarvi più di tanta attenzione. Le porte si richiusero e l'ascensore riprese a salire, ma poco dopo meno di un minuto si arrestò. Ettrich sbatté le palpebre. Confuso da quella fermata, si guardò intorno come se potesse scorgerne la ragione intorno a sé. «Non mi dire che si è bloccato. Non me lo dire». All'improvviso si spense la luce. Un istante dopo Ettrich sentì qualcosa sfiorargli una gamba. Con delicatezza. All'inizio quasi non se n'era accorto, tanto il tocco era stato lieve. Era stato registrato soltanto dalla stoffa dei pantaloni all'altezza della caviglia. Poi quando si fece più indagatore, più deciso, la stoffa fu
sospinta all'interno, contro la gamba di Ettrich. Quindi la stessa cosa accadde sull'altra gamba, ma più in alto, vicino al ginocchio. Prima un fremito del pantalone, e poi la carezza della stoffa sulla gamba. Paralizzato, Ettrich domandò a voce alta nell'oscurità: «Che succede?». La carezza si arrestò, si allontanò, riprese. Per un istante la mente di Ettrich fu abbastanza lucida da ricordare quello che gli aveva detto Bruno prima: non erano soli in ascensore. «C'è qualcuno?», ripeté più piano, quasi sussurrando. Adesso quel tocco si muoveva con maggior sicurezza, su e giù. Viaggiava attraverso il suo corpo: lo esplorava. Sembravano delle dita di fumo, che volteggiavano e fluttuavano su di lui, delicate ed eteree ma innegabilmente tangibili. Le dita si avvicinarono all'inguine e gli toccarono l'uccello. Quindi gli si infilarono tra le natiche e poi scesero giù lungo le gambe. Vincent era pietrificato, atterrito da quel che sarebbe potuto accadere se si fosse mosso. Ora stavano salendo, dallo stomaco verso il collo, e poi su lungo il viso. Dopo aver perlustrato un istante le narici, inarcandosi, si diressero verso la nuca. Come un'amante, pensò Ettrich: sembrano le prime, curiose carezze di un'amante. Difficile dire quanto durò. Visto che non aveva alcuna possibilità di opporre resistenza a quell'ispezione, Ettrich vi si arrese, il che la rese un po' più tollerabile. Quando quel tocco gli sfiorò una seconda volta il viso, Vincent bruscamente comprese cos'era che lo stava accarezzando. Non avrebbe saputo dire come accadde, né lo scoprì mai, ma forse non si trattò altro che di una semplice percezione. Quando si sperimenta una cosa, la si conosce. Anche una cosa incredibile come quella. Vincent aveva compreso che quelle dita che lo toccavano erano le sue: le dita di Ettrich morto che accarezzavano il viso di Ettrich vivo. Poi Ettrich morto parlò. «Sono poche le persone che possono permettersi di tingersi i capelli di blu». Isabelle indicò col mento un uomo grasso con una capigliatura color cobalto che beveva una lattina di Diet Coke. Coco non lo degnò di uno sguardo: stava osservando Isabelle che sezionava il suo sandwich. Erano nel locale di Margaret Hof e avevano ordinato due sandwich al pastrami e due tè freddi. «Mi chiedo perché tutte le persone grasse debbano bere Diet Coke. Chi credono di prendere in giro?».
Coco era troppo presa a guardare come Isabelle mangiava il suo sandwich per rispondere. Prima aveva tolto la fetta superiore di pane, poi aveva estratto due fette di salame. Quindi aveva elegantemente ripiegato in due il resto e aveva dato il primo morso. «Perché mangi così?». Isabelle sorrise. Stava masticando, così alzò un dito per chiederle di aspettare un istante. «Lo faccio sempre. Me lo preparo come piace a me. Ti hanno mai servito un sandwich perfetto? È sempre farcito troppo o troppo poco. Così io lo riaggiusto un po'». Coco aveva assunto l'espressione di chi non vuole dare un giudizio. «Vincent cosa dice?». «Lo trova carino. A te sembra una cosa strana?». «Sì». «Non fa niente. Non mi importa se la gente pensa che sono strana. I miei me lo ripetono da sempre. Vorrei soltanto essere più forte». «Riportare qui Vincent... dalla morte è stato un atto coraggioso, Isabelle. Una persona debole non l'avrebbe mai fatto». Isabelle si toccò la pancia. «L'ho fatto perché c'era Anjo ad aiutarmi. Senza di lui non ne sarei stata capace». «Non è vero. Può anche darsi che lui ti abbia aiutato, ma sei tu che hai deciso di farlo. Non si può costringere nessuno a fare una cosa simile. Com'è stato?». Isabelle la guardò sorpresa. «Non lo sai?». «No. Per ognuno è diverso. Non c'è un solo modo. E poi io non vengo da lì. Te l'ho già detto, no?». «Da dove vieni allora?». Coco sollevò il bicchiere e se lo portò alle labbra. «Rispondi prima tu». Isabelle continuò a mangiare il suo sandwich mentre parlava, raccontando a spizzichi e bocconi. «Almeno una volta nel corso della vita ognuno di noi vede in sogno la propria morte, sin nel più piccolo dettaglio. Ma facciamo venticinquemila sogni nella nostra vita, così non vi prestiamo molta attenzione. E un sogno come tanti altri oppure è un incubo orribile da cui ci svegliamo terrorizzati e l'unica cosa che desideriamo è dimenticare quell'esperienza spaventosa. Così balziamo su dal letto e iniziamo la nostra giornata, e quel ricordo pian piano svanisce». «Come sai queste cose, Isabelle?». «Ho riconosciuto il mio sogno quando l'ho fatto. Immediatamente». «Come? Hai riconosciuto il sogno della tua morte mentre si stava svol-
gendo?». «Sì». Coco fece un lungo fischio e scrollò la mano come per raffreddarla. «Be', è incredibile. Non ho mai sentito nulla di simile e di storie particolari ne ho sentite, te l'assicuro». Isabelle sfilò un'altra fetta di salame dal suo sandwich. «Magari essere strani ha i suoi vantaggi». «È evidente. Me lo racconti il sogno?». «No. Ora sta a me fare le domande». A quel punto Coco fece una cosa inaspettata: prese il bicchiere di tè di Isabelle e lo scolò in un lungo sorso. Dopo di che si asciugò la bocca con il dorso della mano e disse: «Avanti, spara». «Da dove vieni?». «Dal purgatorio». «Esiste davvero, allora?». «Come lo concepiscono gli esseri umani, no. Ma per darti un'idea può andare». «Allora ci sono anche il paradiso e l'inferno?». Coco scosse la testa. «No, ci sono la vita, la morte e il purgatorio. L'uomo ha inventato il paradiso e l'inferno per torturarsi. Hai mai conosciuto una persona sana di mente o veramente buona che ritenga di meritare il paradiso? Sono tutti convinti che con quello che hanno fatto non potranno che finire all'inferno». «E allora come funziona?». A Coco piacque la semplicità di quella domanda. Quattro parole in cerca di Dio. Il volto di Isabelle si contrasse e le si mozzò il fiato, come se le avessero improvvisamente sferrato un pugno nello stomaco. Era stata assalita da un dolore smisurato, straziante. Si lasciò andare contro lo schienale della sedia, incapace di respirare, con la bocca spalancata e la lingua inerte contro i denti. Coco se ne accorse e comprese cosa le stava succedendo. Spinse rapidamente il proprio bicchiere verso di lei. «Bevi. Dai, in fretta». Isabelle la fissò con occhi attoniti ed ebbe appena la forza di obbedire. Mentre quel liquido fresco e dolce le scendeva in gola, il dolore si andò smorzando e scomparve. Con mano tremante Isabelle si accostò il bicchiere alle guance in fiamme. «Continua. Bevilo tutto per sicurezza».
Era così piacevole quel bicchiere fresco sulla guancia. Quel dolore l'aveva riarsa, trasformata in cenere. «Cos'è successo?», mormorò Isabelle con un filo di voce. «È stata colpa mia. Ho bevuto dal tuo bicchiere, ma mi sono dimenticata di chiederti di bere dal mio. Mi dispiace, non ci ho pensato». Isabelle non diede segno di capire, allora Coco aggiunse. «Nel tuo bicchiere c'era qualche goccia della tua saliva che, diventando parte di me, mi ha permesso di spiegarti queste cose con un linguaggio a te comprensibile. Se io parlassi normalmente, nella mia lingua, non riusciresti a capire nulla». «Quale sarebbe la tua lingua?». «Te l'ho detto, vengo dal purgatorio. Anche se sono qui, non faccio parte di questo mondo». Isabelle puntò l'indice verso di lei. «Questa allora non sei tu?». «Questa è soltanto una piccolissima parte di me». Coco indicò il pollice di Isabelle. «Se ti chiedessi se quel dito sei tu, diresti che fa parte di te, no?». «E il resto?». «Anche se te lo mostrassi, Isabelle, non saresti in grado di comprendere. Ma capirai quando la tua vita sarà conclusa. È a questo che serve il purgatorio: a insegnare a comprendere». «Perché sono stata assalita da quel dolore qualche secondo fa?». «La tua anima era stata sovraccaricata di informazioni che non le sono familiari e ha fuso. Ho inserito dei dati che potevi essere in grado di elaborare soltanto con un processore più potente. Adesso, bevendo dal mio bicchiere, il tuo hardware è stato potenziato. Ora sei a posto, possiamo parlare, non corri più alcun rischio». «Allora come funziona?». «Vita, Purgatorio, Morte», rispose Coco contando quelle parole sulle prime tre dita della mano. «La gente crede che alla fine della vita ci sia la morte. Ma non è così. La verità è che prima si deve andare nel purgatorio per imparare cos'è la morte». «Il purgatorio è una scuola?». «In un certo senso, sì». «Quando si muore, si va a scuola?». «Sì, quando si lascia questa terra, diciamo che si va a scuola». Coco ordinò altri due bicchieri di tè a un cameriere che passava. «E io dove sono andata a riprendere Vincent?».
«Nel purgatorio». «Ma io me lo ricordo bene. Era tutto come qui, esattamente uguale». «Già. È per far sentire a proprio agio chi arriva. Ma più si sta lì, più cambia». «E la morte? Cos'è?». «La morte è un mosaico. Un immenso mosaico». Il cameriere portò i due bicchieri di tè. Una profonda delusione si era dipinta sul volto di Isabelle: la risposta di Coco non le aveva detto nulla. «Che genere di mosaico? Cosa intendi?». «Quando si conclude una vita, cosa succede all'essere che l'ha vissuta, alla Isabelle che nel corso di quell'esistenza ha preso forma? Credi che scompaia quando i suoi occhi si chiudono per sempre? Perché tutta l'energia, l'esperienza e la forza d'immaginazione di una vita dovrebbero andare perdute? Settant'anni trascorsi a crescere e a maturare e tutto dovrebbe finire quando il cuore smette di battere?». Coco sorrise. «Dove finiscono l'odore del pepe e il profumo delle matite?». Nonostante la tensione, anche Isabelle sorrise. «Mi piacciono un sacco. Vincent mi prende sempre in giro perché annuso le matite». «E metti sempre troppo pepe su ogni cosa». «Come fai a saperlo?». «Me l'ha detto lui». «Ti ha parlato molto di me?». «No. E mi ha detto soltanto cose bellissime. Non ricordo che mi abbia detto una sola cosa negativa». Coco spostò il proprio bicchiere da sinistra a destra e guardò Isabelle negli occhi. «Era una cosa che non sopportavo». «Parlami della morte». Coco si portò una mano sulla tasca della giacca. «Hai mai visto qualcuno dei mosaici più famosi del mondo?». La bocca di Coco si spostò di qua e di là come se in tasca non stesse trovando quello che cercava. «Sì. Sono stata a Hagia Sofia e nella chiesa di San Vitale a Ravenna». «Perfetto». Coco tirò fuori una manciata di tesserine di legno dello Scarabeo con le lettere scritte sopra e alcuni piccoli tasselli di ceramica dalle forme e dai colori più svariati. Le lanciò sul tavolo e quelle si sparsero dappertutto, fino al bordo, ma senza che ne cadesse neanche una. «Giri sempre con le tessere dello Scarabeo in tasca?». «Soltanto in qualche occasione speciale. Riordinale come vuoi. Tutte, lettere e colori, oppure soltanto le lettere, o soltanto i colori: come preferisci tu», le disse indicando le tessere.
Per qualche istante Isabelle si limitò a osservare quelle lettere e quei tasselli di ceramica sparsi davanti a lei. Poi cominciò ad avvicinare a sé alcune tessere, scegliendole con cura, senza fretta. Malgrado non sapesse perché Coco le avesse chiesto di farlo, aveva intenzione di farlo bene. «Come voglio?», chiese continuando a osservare le tessere sul tavolo. «Sì. Non è un gioco, né un trabocchetto. Come vuoi tu, Isabelle, come se dovessi risistemare un sandwich, diciamo». Isabelle trovò due «p» e una «e», e scrisse «pep». Poi incorniciò la scritta con alcuni tasselli rossi, gialli, blu e neri. Scegliendo e disponendo le diverse tessere, iniziò a comporre un mosaico che continuava a cambiare forma e dimensione man mano che lei procedeva. Una volta soltanto Isabelle alzò la testa per vedere l'espressione di Coco, che però si stava guardando le unghie. Margaret Hof si avvicinò per vedere cosa stesse facendo con quegli strani pezzettini sparsi sul tavolo la sua amica di Vienna. Ma Isabelle la ignorò e Margaret si allontanò sbuffando. Coco continuò a rimanere in silenzio, sorseggiando il suo tè e fumandosi qualche sigaretta. Quando ebbe finito, Isabelle aveva usato quasi tutte le tessere. Stava per mettersi a contarle quando Coco la bloccò risolutamente. «No, non farlo. Non contarle. Non è importante sapere quante ne hai usate». «Volevo solo...». «Ti ho detto di no», ripeté Coco. Contare le tessere non era affatto una buona idea. A Isabelle non piaceva ricevere ordini, tuttavia si fermò e appoggiò le mani sul tavolo. «D'accordo. E ora?». Coco non si mosse. «Togli le mani dal tavolo. Appoggiale sulle gambe». Non accadde nulla di quel che Isabelle si sarebbe aspettata. Non accadde proprio niente. Niente di niente, a parte il solito viavai del locale intorno a loro. Qualcuno si mise a canticchiare un paio di versi di una canzone dei Monkees. Qualcun altro scoppiò a ridere. Isabelle continuò a fissare Coco per vedere cosa aveva intenzione di fare. Niente. Dopo un altro po' Isabelle, spazientita, tornò a guardare il mosaico. Due lettere, la «f» e l'«h», erano troppo distanti dal resto, così Isabelle le avvicinò alle altre. Una tessera verde di ceramica dalla forma a stella le parve improvvisamente fuori posto, così spostò anche quella. Poi ne aggiustò un'altra, e un'altra ancora. Pian piano fu di nuovo tutta presa a ridisporre le tessere, per quanto l'idea stessa di continuare a muoverle di qua e di là le sembrasse una sciocchezza. Così, quando Coco riprese a parlare, non sentì subito le sue parole.
«Nessuno è capace di non mettere più mano al proprio mosaico una volta che ha modificato qualcosa. Capita a tutti così, senza eccezione. Se muovi una tessera, ce ne sarà automaticamente un'altra che ha bisogno di essere risistemata. E poi un'altra ancora. Per tutta la vita non si fa altro che muovere le proprie tessere di qua e di là, cercando ogni volta di creare un mosaico perfetto. Qualche volta ci sembra di avercela fatta, ma poi il tempo passa, oppure qualcosa cambia, e all'improvviso è necessario trovare un nuovo ordine. Ed è sempre così, proprio come stai facendo tu ora». Isabelle osservò un'ultima volta il suo mosaico. Poi, mentre alzava la testa, vide Coco che si metteva in bocca una delle tessere che lei aveva lasciato da parte e la masticava con gusto. Poi ne prese un'altra e si mangiò anche quella. Quando ebbe finito riprese a parlare. «Ci sono due mosaici. Il primo è la vita che tu hai creato e vissuto. Una volta concluso, deve entrare a far parte di un altro mosaico più grande: quello in cui alla fine confluisce ogni cosa». «Anche gli alieni?». Quella domanda stupì per prima Isabelle, anche se nel profondo del cuore voleva davvero conoscere la risposta. «Alieni, amebe, api e aschenaziti. Tutto ciò che comincia con la "a" e tutto ciò che comincia con la "b", tutto quanto ha avuto vita vi giunge in una forma o nell'altra una volta che la sua esistenza si è conclusa. Ogni cosa entra prima o poi a far parte del mosaico». «A cosa serve? Voglio dire, che scopo ha questo mosaico?». «Il suo scopo è la sua esistenza stessa». «Non mi sei di grande aiuto, Coco. Tutta questa storia non mi spiega un bel niente». Coco si mangiò un'altra tessera. Alzò le spalle come per dire: non m'importa se ti è o no d'aiuto, è così e basta. Rimasero sedute a guardarsi in silenzio per un po'. Alla fine Coco domandò a Isabelle: «Lo sai che Vincent tiene quasi sempre in tasca un piccolo cucchiaino rosso di plastica?». «Sì, è il suo talismano. Ero con lui quel pomeriggio. Abbiamo preso un gelato: eravamo a Vienna, era estate e ci siamo avviati verso il canale per andare a mangiarlo davanti al Danubio». Coco si girò un po' sulla sedia per essere perfettamente di fronte a Isabelle. «Te lo ricordi bene quel pomeriggio?». «Sì, certo. Perché?». «Ti ricordi che gelato avevi preso?». «Uva e rum. Häagen-Daz aveva appena aperto una gelateria in centro».
«Perché Vincent porta sempre con sé quel cucchiaino?». Isabelle non riuscì a cancellare una nota d'orgoglio dalla propria voce. «Perché ha detto che è stato uno dei giorni più felici della sua vita». Allungando una mano, Coco prese l'«h» dal centro del mosaico di Isabelle. Gliela porse. «Mangiala». «Come?». «Mangiala, dai». Isabelle prese la letterina di legno e senza indugiare se la mise sulla lingua. A un tratto la sua bocca fu invasa da un sapore intenso, fresco e molto dolce, di gelato. Gelato all'uva e rum. Un sapore così inatteso e delizioso che Isabelle chiuse gli occhi per assaporare meglio quel momento e cercare di trattenerlo. Quando li riaprì, si ritrovò circondata dall'aria mite, dai profumi e dalla morbida luce dorata di una giornata estiva. Era a Vienna, al Graben, con un cono in mano. A mezzo metro da lei c'era Vincent con il suo gelato all'uva e rum in una coppetta, puntava verso di lei il cucchiaino rosso. «Cosa vuoi fare adesso?». Isabelle sapeva cosa stava per dire perché aveva già risposto a quella domanda un anno prima. Ascoltò se stessa con l'interesse di un osservatore. «Facciamo due passi verso il canale. Ci andiamo a sedere vicino all'acqua». In quel momento due diverse Isabelle convivevano nello stesso corpo: quella di allora e quella di adesso. Per una trentina di minuti quelle due Isabelle e Vincent Ettrich passeggiarono per il centro, davanti ai negozi più eleganti di Vienna, ai suonatori di strada, a una valanga di ragazzini sempre di corsa e una miriade di lentissimi turisti giapponesi. Tutti insieme in quel mite pomeriggio viennese. Quando giunsero al canale, si sedettero su una panchina verde a chiacchierare con la gioiosa intimità che è solo degli amanti. Erano estasiati di essere insieme. Si erano trovati ed entrambi sapevano che questo era l'incontro della loro vita. Senza il minimo dubbio. La vita non avrebbe potuto essere più bella. Vincent non aveva mentito quando aveva detto che quella era stata una delle giornate più felici della sua vita. E per Isabelle riviverla adesso, per la seconda volta, fu un'esperienza incomparabilmente più ricca della prima volta. All'eccitazione della novità si era aggiunta la fragranza del passato. Senza che si creasse alcun conflitto tra le due. Era come se la Isabelle di allora stesse viaggiando su una strada a lei nuova e inesplorata mentre l'altra Isabelle, quella che l'aveva già per-
corsa e che da quel viaggio aveva già tratto tanta gioia, le sedeva accanto, godendo dell'entusiasmo della ragazza al volante, mentre osservava tutti i dettagli che le erano sfuggiti la prima volta. Tenendosi per mano, i due innamorati osservarono il Danubio farsi sempre più scuro al calare della sera. Isabelle stava per dire qualcosa a Vincent quando tutto finì. In un batter d'occhio si ritrovò di nuovo davanti a Coco, seduta a quel tavolino ricoperto di tessere. Dopo un attimo di disorientamento provò una terribile, viscerale nostalgia di Vincent e di quel momento insieme. Come quando ci si sveglia dopo un sogno meraviglioso e più di ogni altra cosa si desidera di potervi fare ritorno anche soltanto per qualche istante. Abbastanza a lungo per baciare quell'amante di sogno o assaporare il pasto sontuoso allestito per noi. Desiderio, confusione, delusione: un oscuro magma attanagliò il cuore di Isabelle. «Cos'è stato?». «La prima lezione del purgatorio: imparare a rivivere la propria vita da due prospettive diverse». «Tutta la vita? Si rivive tutta la propria vita? Quanto tempo ci si mette?». Coco sorrise. «Non molto. Esiste una specie di meccanismo di avanzamento veloce». «E tutti i momenti brutti? Non è doloroso rivivere anche quelli?». «Sì, ma è necessario. Prima di far confluire la propria vita nel mosaico, bisogna conoscerla a fondo. Hai appena sperimentato cosa significa imparare a comprendere cos'è stata la nostra vita e come l'abbiamo vissuta». «Coco, esiste il libero arbitrio? Io... io faccio quello che voglio, oppure c'è qualcuno che muove i fili per me? Voglio dire...». Isabelle indicò il soffitto. «Lui». «Vuoi sapere tutto? Oppure vuoi soltanto un assaggio?». Isabelle non ebbe un attimo di esitazione. «Tutto». «Bene. Guarda sul tavolo». Accadde tutto molto rapidamente. Isabelle avrebbe rischiato di perdersi la scena se Coco non l'avesse avvertita. Tutte le tessere che non erano state utilizzate cominciarono a muoversi e scivolarono verso il centro del tavolo, verso il mosaico creato da Isabelle qualche minuto prima. Non c'era niente di arcano o di inquietante in quella scena: soltanto delle tessere che si muovevano sul tavolo mentre Isabelle e Coco le osservavano. Isabelle alzò gli occhi un istante per vedere se anche le altre persone nel locale stavano guardando, ma nessuno sembrava prestare loro alcuna attenzione.
Coco disse: «Mettiamola così: il tuo mosaico è la tua vita sino a questo momento. Hai scelto tu i tasselli e li hai disposti come volevi. Sei tu che l'hai creato. I tasselli che non hai usato corrispondono al tuo futuro». «Davvero? Questa è la mia vita?». «No, ma fa' finta che sia così. È il modo più semplice per illustrarti come stanno le cose. Vedi che tutte le tessere si stanno unendo in un mosaico più grande?». «Sì, eccetto quelle che ti sei mangiata tu». Coco ne prese un'altra e se la mise in bocca. «Ehi!». «Non ti preoccupare. Ho appena divorato gli ultimi cinque anni della tua vita, ma non li perderai». Il nuovo mosaico, più grande e completo, si sollevò lentamente e rimase immobile in aria un istante prima di disporsi verticalmente davanti a Isabelle. «Questa è una tua creazione esclusiva. Progetto e realizzazione di Isabelle Neukor. L'ultimo giorno della tua vita il tuo mosaico sarà così. Gli esseri umani non lo sanno, anzi quasi tutti credono che la propria vita sia una successione di eventi senza alcun nesso né legame tra loro, ma si sbagliano di grosso». Il mosaico rimase appeso in aria come se fosse sostenuto da fili invisibili. Coco e Isabelle continuavano a fissarlo, ma nel bar nessuno sembrava essersi accorto di nulla. «Ma le cose brutte, Coco? Quegli eventi terribili che ti cadono addosso come un fulmine a ciel sereno? Un bambino che viene rapito e torturato. Una donna brava, coraggiosa, che vive in Florida, a cui viene il cancro... cosa mi dici di loro? Non sono stati loro a scegliere di mettere quelle tessere nel loro mosaico. Non mi dire che è così. Non è possibile». «Lascia che finisca di spiegarti, Isabelle, e poi ci arriviamo». Annuì. «Questa è la tua opera compiuta». Coco attese un po' per permettere a Isabelle di osservare il mosaico con attenzione, poi tirò fuori di tasca un coltellino a serramanico e lo aprì con uno scatto sonoro. Si sporse in avanti e pugnalò il mosaico proprio al centro. Ruotando la lama dentro, ne estrasse una tessera nera. Isabelle non disse nulla, aspettandosi una spiegazione per la brutalità di quel gesto. Nel frattempo non riusciva a smettere di fissare il punto in cui qualche attimo prima c'era stata la tessera nera. Era difficile evitarlo, visto
che un potente fiotto di luce bianca sgorgava dal centro del mosaico, come se si trattasse di un buco della serratura. Quando qualcosa di importante viene danneggiato, non ci è possibile distogliere il nostro sguardo (o i nostri pensieri) da quella frattura, quel taglio, quella ferita. Il primo graffio su una macchina nuova, la prima bugia tra innamorati, lo spazio occupato da una tessera nera. Abbiamo sempre saputo che sarebbe successo pur continuando segretamente a sperare che non sarebbe stato così. Qualche volta è possibile riparare il danno, ma anche in tal caso nulla sarà più come prima. Mai più. Coco mostrò a Isabelle la tessera nera sul palmo. «Immagina adesso che questa tessera sia il tuo mosaico rimpicciolito». Quindi indicò il mosaico appeso in aria. «È necessaria per completare il disegno più grande: così da sola sembra piccola e insignificante, ma soltanto finché non vedi il mosaico senza. Mi segui?». Isabelle annuì. «Il mosaico grande non è la morte: è Dio. È composto dalle vite di tutti gli esseri di tutti i tempi. Ogni cosa vi trova il suo posto. Senza anche una sola di esse, Dio è incompleto». Coco porse a Isabelle la tessera nera. «Rimettila a posto». Isabelle allungò la mano e infilò la tessera nel mosaico spingendola nel foro con il pollice. «Così Dio è un mosaico e noi siamo le tessere che lo compongono. E il modo in cui scegliamo di vivere la nostra vita dà alla nostra tessera una certa forma piuttosto che un'altra, giusto?». «Esatto». Isabelle aspettò che Coco aggiungesse qualcos'altro, ma lei non lo fece. «Ed è questa, insomma, la risposta: Dio è un mosaico e noi siamo le tessere? Tutto qua?». «Oh, no, è qui che la cosa si fa interessante. Guarda». Isabelle alzò la testa giusto in tempo per vedere il mosaico scoppiare. Esplose senza il minimo rumore e tutte le tessere che lo componevano lentamente si dispersero nel locale in un ventaglio di direzioni. In un silenzio assoluto. Nessuno prestò alcuna attenzione a quei tasselli neri, rossi, verdi, gialli e alle tessere dello Scarabeo che passavano sopra e sotto di loro, e in alcuni casi persino... attraverso di loro, se qualcuno si trovava per caso sulla loro traiettoria. Isabelle vide una tessera perforare la fronte di un uomo e uscirgli dalla nuca. Lentamente. Mentre lui continuava a mangiarsi un pretzel e a leggere il giornale. Alcune salirono in alto, altre scesero verso terra oppure si mossero sol-
tanto di pochi centimetri. Altre ancora volarono negli angoli più lontani della sala. Quando stava per raggiungere la propria destinazione, ogni tessera iniziava a rallentare e infine si arrestava a mezz'aria. Isabelle le guardò con l'espressione intimorita ed estasiata di un bambino che vede i fuochi d'artificio per la prima volta. Coco le lasciò un po' di tempo, quindi le disse: «Va' a guardarle. Osservale ben bene. Poi tra un attimo ti dirò un'altra cosa». Isabelle si alzò e guardò le tessere, le toccò, le scrutò bene sopra e sotto. Le altre persone nel locale la guardarono soltanto un attimo, come se stesse attraversando la sala per andare in bagno. Dapprincipio Isabelle esitò un po' a toccare le tessere o ad avvicinarsi troppo, ma poi ogni incertezza svanì. E dopo averle osservate un po', le fu chiara una cosa: stavano pian piano cambiando forma e colore. Dopo di che tutte, a partire dalle più distanti, ritornavano al punto di partenza. Isabelle vide uno scacchettino trasparente trasformarsi in una stella marina arancione mentre si muoveva verso il tavolo a cui era rimasta seduta Coco. Una lettera di legno dello Scarabeo si trasformò in un luccicante cerchio argentato di metallo. Le dita blu di una mano aperta si chiusero tramutandosi in una mela bianca. Alcune tessere colorate si trasformarono in una cangiante combinazione di colori. Altri tasselli dalle tinte mutevoli assunsero un colore più preciso. L'unica costante era che tutte le tessere cambiavano forma e colore man mano che si muovevano. Ammaliata, Isabelle si spostava da una all'altra, girando per tutta la sala. Se capitava che tagliasse loro la strada, le tessere continuavano il loro viaggio passando attraverso di lei. Isabelle sollevò una mano e due tessere vi penetrarono come due pesci nelle maglie di una rete. Voltandosi, Isabelle aprì la bocca e una tessera marrone a forma di pigna le si infilò dentro. Non sentendo nulla in gola, si voltò di nuovo e la vide viaggiare nella stessa direzione delle altre: stava trasformandosi in rosa elettrico e assumendo una forma diversa. Coco disse qualcosa e tutte le tessere s'arrestarono. Ma mentre rimanevano sospese in aria la metamorfosi dei colori e delle forme proseguì indisturbata. «Cosa?». «Hai sentito parlare della teoria del Big Bang?». «Certo. Dicono che l'universo è nato da una grande esplosione. Quattordici miliardi di anni fa». Isabelle non riusciva a staccare gli occhi da quell'immota tempesta di colori e forme intorno a sé. Era magnifica.
«Isabelle, siediti. Sai, è proprio così. Il Big Bang non è una teoria scientifica, è la verità. L'umanità sta cominciando a comprendere. Ma non è l'universo che è nato da un'esplosione, bensì Dio. Periodicamente Dio si disintegra come hai visto fare al tuo mosaico: con un'esplosione enoooorme, i suoi pezzi si seminano... be', in tutta la stanza, diciamo. Proprio come è successo ora a questo mosaico». «Ma perché?». Coco prese una tessera sospesa in aria e la mostrò a Isabelle. «Hai notato che cambiano tutte forma e colore quando sono lontane?». Isabelle annuì, attonita. «Allora guarda». In un istante la tempesta si riunì a formare un nuovo mosaico. Del tutto diverso da quello creato qualche istante prima da Isabelle. Era bellissimo e lei si avvicinò per guardarlo meglio. Ma nel frattempo il mosaico esplose di nuovo e innumerevoli frammenti, le tessere che componevano quel nuovo, elaborato disegno, volarono via lontano. Ma questa volta Isabelle non si fermò a guardarle. Si voltò invece verso Coco e le disse esasperata, con un filo di voce: «Non capisco». «Ogni persona aggiunge la propria tessera, la propria vita, al mosaico. E il mosaico è Dio. È il destino di tutto ciò che ha avuto vita nell'universo. È per questo che esiste il purgatorio: per spiegare l'esistenza del mosaico e il posto di ognuno in esso. Quando tutte le tessere si sono riunite in un mosaico completo, vengono scagliate via di nuovo. Così, all'infinito. Si allontanano, poi si fermano e ritornano. Ma mentre ritornano, si trasformano in qualcosa di completamente diverso da prima. Cosicché, quando tutte le tessere si riuniscono di nuovo, il mosaico è completamente diverso, Dio è diverso». «Vuoi dire che in passato vi sono state diverse forme di Dio?». «Molte forme diverse». «Quanto tempo ci vuole?». Coco scosse la testa. «Non è possibile stabilire una durata. Si parla di ere, di un tempo inconcepibile, eterno. Ma alla fine tutte le tessere ritornano. Come la tua vita: trent'anni fa tu sei stata scagliata nel mondo e ora stai ritornando, e quando tornerai indietro sarai una persona diversa. Chi sa dire quanta tempo ti ci vorrà per tornare? Ma la cosa più bella è che ci sarà sempre un posto per te nel disegno complessivo, qualunque cosa tu diventi. C'è e ci sarà sempre uno spazio preciso nel mosaico che appartiene a te e in cui è necessaria la tua presenza, qualunque forma tu abbia acquisito. Hai visto com'era il mosaico senza la tessera nera. Tu sei e sarai sempre
necessaria». «Qualunque vita abbia vissuto?». «Esatto. Proprio così». «Quanto tempo ci vuole perché un mosaico venga completato e un nuovo Dio prenda forma? Se muoio, potrei dover aspettare dieci trilioni di anni prima che il mosaico sia concluso?». «Sì, potrebbe anche darsi, ma una volta che farai parte del mosaico non ti renderai nemmeno conto dell'attesa, perché sarai troppo occupata a sperimentare le vite e le intuizioni di tutte le altre tessere che sono lì con te. E man mano che nuovi tasselli si ricongiungeranno, parteciperai anche delle loro esperienze e delle loro conoscenze». Isabelle aveva le braccia serrate sul petto e un viso privo d'espressione, quindi Coco proseguì. «Immagina di dover andare a una festa in cui non conosci nessuno. In una casa in cui non sei mai stata. Non hai nessuna voglia di andarci, ma quando la porta si apre vieni accolta da profumi meravigliosi e sconosciuti. E tutte le persone che incontri sono brillanti, divertenti, incantevoli, immensamente interessanti: scienziati, artisti, esploratori, uomini e donne di grande ingegno e charme. Dopo neanche mezz'ora ti rendi conto che è il gruppo di persone più notevoli che tu abbia mai incontrato. E non solo, sono tutte estremamente affascinanti, nonché affascinate da te. Un tipo che è appena tornato dalle Mauritius sta scrivendo un articolo sulla tratta delle bianche per il "New York Times". È con una fotografa ed esperta vulcanologa che ha di recente studiato l'attività eruttiva dell'Etna. Tu sei appassionatissima di vulcani e potresti rimanere ad ascoltare a bocca aperta i suoi racconti per l'intera serata. Ma la compagnia di tutti gli altri invitati è altrettanto avvincente. E continuano ad arrivare persone sempre più interessanti. A quel punto viene servita la cena e tu non hai mai mangiato nulla di tanto squisito! Così non sai se mangiare o parlare o ascoltare o corteggiare tutti quegli uomini così attraenti. O soltanto osservare l'appartamento che è arredato con tale...». «Ho capito». Malgrado le braccia ancora conserte, un lieve sorriso era apparso sul volto di Isabelle. «Se andassi a una festa simile, non guarderesti l'orologio per vedere quando arriva il momento di andartene». «Soprattutto se il signore seduto alla tua destra è appena arrivato da Marte».
Un ratto col rossetto Gli ricomparve davanti soltanto quando Ettrich ebbe riportato suo figlio a casa di Kitty e fu risalito in taxi. Era seduto davanti, accanto all'autista ignaro di tutto perché poteva vederlo soltanto Vincent Ettrich: a tutti gli altri era invisibile. Un topone parlante che pesava più di trenta chili. Si chiamava Alan Wales. L'aveva visto per la prima volta in ospedale, sull'ascensore. Era buio pesto da quando l'ascensore si era bloccato ed era andata via la luce. Così Ettrich non si rese conto subito di star conversando con un roditore. Credeva di parlare con se stesso, con Vincent Ettrich morto. Il che era vero, ma in quel momento ancora non sapeva che, quando tornano sulla terra, simili esseri assumono le forme più sorprendenti. Come quella di un topo gigante di nome Alan Wales. Adesso era ricomparso. E domandò a Ettrich: «Cosa fai ora?». Ettrich guardò la nuca del tassista: «Sei sicuro che non ci sente?». Alan Wales sbuffò perché Vincent gliel'aveva già chiesto tre volte. «Sì, sono sicuro. Dal momento che io sono te, è come se la nostra conversazione si svolgesse nella tua mente e non in pubblico». Il ratto si voltò verso di lui appoggiando le zampone sul logoro sedile di vinilpelle. Aveva occhietti neri della dimensione di una ciliegia e lunghi baffi argentati che assomigliavano a raggi di bicicletta. Ettrich diede all'autista l'indirizzo del ristorante davanti al quale aveva lasciato la macchina la sera prima, poi chiese al topone: «Perché ti chiami Alan Wales?». Quello rispose stizzito: «Non fare domande stupide. Sai perfettamente perché». Era vero. Alan Wales era lo pseudonimo che Ettrich usava quando andava in albergo con una donna diversa da sua moglie. Alan Wales e signora. Aveva inventato quel nome diversi anni prima. Era così inglese e splendidamente fittizio, perfetto per uno di quegli attori degli anni Quaranta dal baffetto da sparviero che facevano invariabilmente la parte del babbeo o del donnaiolo. La prima volta che il topone gli aveva parlato Ettrich aveva sentito una voce dire: «Quando torna la luce, non ti piacerà quello che vedrai. Quindi preparati». Ricordando le sinuose dita spettrali che gli avevano accarezzato le gambe qualche istante prima, Ettrich aveva replicato, sforzandosi di conservare
un certo contegno: «Vedrò me stesso, no? E questo che hai detto di essere, no? Io da morto». «Sì, vedrai te stesso. Vedrai te stesso, così come ti senti di essere in questi giorni». Ettrich stava per chiedergli cosa intendesse dire quando le luci si erano riaccese e si era trovato di fronte un enorme ratto color fanghiglia, seduto in un angolo dell'ascensore. Che lo stava guardando. Uno stramaledetto ratto. Il topone gli aveva detto con voce identica alla sua: «Per ritornare qua, le anime sono costrette ad assumere la forma dell'immagine che una data persona ha di sé». Dimenticando lo shock appena subito, Ettrich proruppe: «Io non penso di essere un ratto!». «E vero, quando sono arrivato, poco fa, pensavi di essere un pezzo di merda. Avresti preferito quello? Posso sempre cambiare se vuoi». Ettrich rispose al topone seduto davanti a sé: «Vado a prendere la mia macchina. Quando sono scappato da te ieri sera, l'ho dovuta lasciare in giro. Te lo ricordi?». Alan Wales si limitò a fissarlo. Vincent non sapeva cosa fosse più inquietante, un topone che non apriva bocca oppure uno che parlava con la tua voce. «Continui a scambiarmi con la Morte, Vincent. Io non sono la Morte, io sono te da morto». Ettrich fece un gesto come a dire che non faceva differenza. «Perché sei qui?». «Te l'ho detto... Sono venuto a convincerti a tornare con me. Non è più qui che dovresti essere». Per un po' nessuno dei due disse nulla. E il ratto tornò a guardare davanti. Ettrich osservò la sua testona da dietro e vide i baffi vibrare. Non aveva ragione di dubitare di quel che gli aveva detto. Ormai viveva in un mondo senza più regole. Oppure, se c'erano, lui non le conosceva. La cosa più grottesca era che in genere sembrava tutto normale. Finché non accadevano delle assurdità che fendevano quella "normalità" come una lama facendola a brandelli. «Ti hanno già parlato del mosaico?». Dato che il ratto gli voltava le spalle, Ettrich udì a malapena quella domanda. Si sporse in avanti e chiese: «Cosa? Di cosa dovrebbero avermi
parlato?». Girandosi, il topone ripeté: «Sai qualcosa del mosaico?». «Del mosaico? No, cos'è?». Mentre il taxi si faceva strada nel traffico, Alan Wales gli raccontò parte di quello che Coco aveva detto a Isabelle poco prima. Ma Ettrich era così confuso e frastornato dagli eventi di quella giornata che continuava a interromperlo chiedendo: «Cosa?» e «Eh? Non capisco», oppure: «Cosa vuol dire che siamo tutti delle tessere?». Inoltre Coco aveva potuto contare sulle sue tessere colorate e su una serie di accorgimenti visivi tridimensionali a sostegno della sua spiegazione a Isabelle. Alan Wales, nel taxi, aveva soltanto le sue parole e quelle sue zampone pelose per tracciare in aria immagini e diagrammi se voleva disperdere i dubbi del proprio allievo. E per disegnare un invisibile ritratto di Dio, una zampa non è esattamente lo strumento più adatto. Come se non bastasse, il tassista pachistano si era messo a parlare ed Ettrich doveva simultaneamente decifrare quello che stava dicendo lui e ascoltare il racconto del topone. Cinque minuti più tardi, mentre erano fermi a un semaforo, la portiera di Ettrich si spalancò e una mano lo afferrò per un braccio. «Scendi. Paga il taxi e andiamo». Vincent sentì quelle parole prima ancora di scorgere Coco. Il ratto disse: «Chiudi la portiera!». Il tassista disse: «Che sta succedendo?». Ettrich disse: «Cosa diavolo ci fai qui?». Dietro di loro un clacson si mise a suonare. Il semaforo era diventato verde. Prima di avere il tempo di pensare, Ettrich fu sbalzato con forza tremenda fuori dal taxi. Coco ripeté: «Pagalo e andiamo». Mentre s'infilava una mano in tasca per tirare fuori i soldi, Ettrich vide Coco chinarsi al finestrino, guardare il ratto e poi girarsi di nuovo verso di lui. «Dammi i soldi». Prese i dieci dollari che lui le stava porgendo e passando con il braccio davanti ad Alan Wales li diede all'autista. Il clacson suonò ancora, questa volta accompagnato da altri due. Coco afferrò il ratto per il muso e andandogli a meno di un centimetro di distanza gli parlò in una lingua che non è mai esistita né mai esisterà nella storia degli esseri umani. Poi lo spinse via e disse a Ettrich: «Andiamo». Lui la seguì come un bambino che cammina dietro alla sorella più grande, con il desiderio di tirarla per la giacca di jeans e chiederle: «Aspetta, aspetta... come facevi a sapere che ero qui?». E: «L'hai visto anche tu?
Come hai fatto? Ha detto che potevo vederlo solo io». E: «Cosa gli hai detto? Non ho capito niente». Ma lei non aveva nessuna intenzione di perdere tempo. Si avviò verso una magnifica Austin-Healey decappottabile verde ferma in mezzo alla strada quattro auto più indietro e gli fece cenno di salire. L'uomo alla guida della macchina dietro continuava a suonare il clacson. Tirò fuori la testa dal finestrino e disse con voce lamentosa: «Che cosa diavolo fai, bella?». Coco gli rivolse un gran sorriso e lo salutò come un'attrice che sia appena stata riconosciuta da un ammiratore. S'infilò al volante, indicò a Ettrich di sedersi e gli disse: «Sali, per favore, adesso. Sto bloccando il traffico». Che poteva fare? Vincent si voltò verso il semaforo, ma il suo taxi si era già allontanato portandosi via l'autista pachistano e il ratto invisibile. Salì in macchina e nello stesso istante in cui chiuse la portiera Coco sfrecciò via. «Devo andare a prendere la mia macchina». Lei non rispose. «Ho detto che devo andare a prendere la mia macchina». «Lo so, Vincent. La andremo a prendere, ma prima dobbiamo andare in un altro posto». «L'hai visto, vero, quel ratto?». Coco sbuffò sprezzante. «È questo che hai visto, un ratto?». «Be', sì. Ha detto che si chiama Alan Wales». «Un ratto di nome Alan Wales. E tu ci hai creduto, Vincent? Non ti è neanche passato per la testa che ci potesse essere qualcosa di strano?». Ettrich, ormai sulla difensiva, rispose con voce stridula: «Si è materializzato nell'ascensore, Coco. L'ascensore si era bloccato e all'improvviso mi sono trovato davanti un topo gigante che parlava con la mia voce. E sapeva delle cose su di me che non sa nessuno. Cosa volevi che pensassi? Che fosse uno scherzo? Niente male come scherzo. Ha detto che era me da morto». «Come faceva ad essere te da morto se era un ratto?». Coco guardò Ettrich come se non fosse capace di fare due più due. Passò un istante che pesava almeno cento chili. Poi Ettrich, sorprendendo se stesso per primo, scoppiò in una gran risata. Gli venne in mente che qualcuno aveva detto che quando le cose si mettono davvero male, o si scoppia a ridere, o si diventa pazzi. «Non capisco più niente. Non ci capisco più niente. Da quella sera che ti ho visto quel tatuaggio sul collo, la mia vita è andata in tilt».
«Be', signor Ettrich, ora cercheremo di rimetterla in funzione. Ti mostrerò una cosa che devi assolutamente vedere». Coco scalò una marcia e sterzando si infilò a tutta velocità nella corsia di sorpasso. «E quando la vedrai, ti assicuro che come minimo te la farai sotto». Ettrich chiuse gli occhi. «Grazie. Era proprio quello che desideravo sentire. Proprio quello di cui ho bisogno in questo momento. Dove siamo diretti allora, all'inferno?». «No... allo zoo. C'è Isabelle che ci sta aspettando». Fecero il resto del tragitto in silenzio. Con grande sorpresa di Ettrich, sicuro che Coco volesse sapere qualcosa del suo incontro con Alan Wales, lei non gli chiese nulla. Vincent avrebbe voluto raccontarle che era scomparso non appena l'ascensore aveva raggiunto il piano dell'ambulatorio del medico di Jack e non era più riapparso finché lui non aveva lasciato suo figlio da Kitty. Avrebbe voluto dirle le cose che gli aveva detto il ratto della sua vita, cose che non sapeva nessuno. Avrebbe voluto che Coco ascoltasse tutta quella storia per potergli dire cosa significava. Ma lei non sembrava affatto intenzionata a farlo. Al volante della sua macchina, concentrata sulla strada, gli scostò bruscamente la mano dalla radio quando cercò di accenderla. Vincent posò le mani sulle gambe, intrecciò le dita e si mise a fissare davanti a sé. Strano: la Austin era in perfette condizioni, eppure là dove avrebbe dovuto esserci l'accendino si apriva nel cruscotto un grosso buco. E mancava la manopola del cambio. Si fermarono a un semaforo e lo sguardo di Ettrich si posò su una donna che aspettava di attraversare. Era piccola, bruttina e indossava un vestito informe del colore di un frutto marcio. Scorgendola, la prima cosa che gli venne da pensare fu: «Nessun uomo cercherà mai di farla sorridere», nessun uomo si metterà mai in mostra per lei per cercare di colpirla o convincerla a uscire con lui. Qualche isolato più avanti vide alla fermata dell'autobus una donna affascinante. Si guardarono più o meno contemporaneamente, ma lei distolse subito lo sguardo e non si voltò più verso di lui. Le donne non si girano mai. Se n'era accorto qualche anno prima. Era stata una piccola epifania. Se un uomo incrocia una bella ragazza per strada, è possibile che si fermi e si volti a guardarla. Ma le donne no, una donna non lo fa mai. Coco disse al di sopra del rombo del motore: «Si chiama Alice Hooper». «Alice Cooper?».
«Hooper. La donna che stavi guardando, quella con la giacca nera». Ettrich strofinò un palmo contro l'altro come se avesse freddo. Il motore faceva un tale strepito che quasi non riuscì a sentire lo stropiccio delle sue mani. «Tu sai tutto, vero, Coco? Probabilmente hai la risposta ad ogni mia domanda». «Probabilmente». «Allora perché non mi illumini dicendomi cosa cazzo sta succedendo nella mia vita?». Coco sorrise e ignorò la domanda di Ettrich. «Sai cosa non riesco proprio a comprendere, Vincent? L'amore umano. Appena mi sembra di essermene fatta un'idea, succede qualcosa che fa saltare di nuovo tutto in aria». «Cos'è che non capisci?». Coco stava per rispondere, ma poi scosse la testa. «Lascia perdere. Siamo arrivati». Svoltò a sinistra e all'isolato successivo s'infilò nel parcheggio dello zoo. Ettrich lo conosceva bene perché erano anni che ci portava i suoi figli. Era uno zoo decrepito che avrebbe dovuto essere rimodernato da chissà quanto tempo, se non altro per ragioni umanitarie. Le gabbie erano troppo piccole e la pulizia, quando andava bene, approssimativa. Vi si vedeva qualche visitatore soltanto durante il fine settimana o nei giorni di vacanza. Persino il piccolo Jack una volta aveva domandato: «Com'è che gli animali sembrano tutti così tristi, papà?». Ettrich avrebbe voluto dirgli che chiunque in un posto simile lo sarebbe stato. Coco comprò due biglietti e varcò il grande cancello ad arco. Uno spaventoso ululato d'insofferenza risuonò all'interno dello zoo. Coco si diresse decisa e spedita verso la sua meta. «Mi fa un'impressione così strana essere qui senza i miei figli». «Non vieni mai allo zoo da solo?». A quella domanda Ettrich si arrestò un momento. «No. Non sono un tipo alla "National Geographic". Perché mai dovrei venirci?». «Perché gli zoo sono luoghi sacri, Vincent. Sono sorpresa che tu non lo sappia ancora. Con tutto quello che ti sei portato dietro tornando dalla morte». «Sacri? In che senso?». «Gli animali sono sulla terra per proteggere l'umanità. Un luogo in cui ce ne sono così tanti tutti insieme è un luogo in cui gli uomini possono trovare protezione e sicurezza. Non potrà mai accadere nulla di male in uno zoo».
«Che sciocchezza! Qui un anno fa un leone ha divorato un bambino che si era avvicinato troppo alla sua gabbia». «Perché l'aveva provocato. Non esasperare mai chi ti deve proteggere: regola numero uno. Ti potrei illustrare decine di esempi di bambini finiti dentro una gabbia che sono stati soccorsi dagli animali feroci che ci vivevano». «Non ci credo». «Non ce n'è bisogno. Aspetta e vedrai». Ma a Ettrich era venuta in mente un'altra cosa. «Se gli animali sono qui per proteggerci e questi sono dei luoghi sacri, perché negli zoo gli animali sono sempre così tristi?». «Perché detestano essere tenuti prigionieri. Ma hanno accettato di sacrificare la propria libertà per il bene degli uomini». Raggiunsero infine un vasto spiazzo davanti al recinto degli elefanti. Ettrich c'era già stato diverse volte, ma non si era mai reso conto prima che quella distesa di terra rossa gli ricordava un campo da baseball. Poiché non c'erano sbarre davanti al recinto, da una certa distanza si sarebbe detto che gli animali fossero liberi di uscire. Ma se ci si avvicinava di più, si scorgeva tutt'intorno un ampio e profondo fossato, in cui gli elefanti, se vi fossero caduti dentro, avrebbero potuto perdere la vita o quanto meno rimanere gravemente feriti. Ettrich seguì Coco sino al muretto di pietra che delimitava il recinto. Rimasero ad ascoltare gli strani rumori esotici dello zoo. I versi acuti e stridenti degli uccelli, i ruggiti e gli ululati così normali, e al tempo stesso minacciosi, in uno zoo. «Il tuo amico Alan Ratto ti ha parlato del mosaico?». «Ci ha provato, ma io non ci ho capito praticamente niente». «Non mi sorprende. Cosa ti ha detto?». Ettrich era sul punto di risponderle quando udì l'inconfondibile barrito di un elefante. Uno dei bizzarri piaceri dello zoo: i suoni resi così familiari alle nostre orecchie da tanti documentali e film qui sono reali, per quanto sia quasi impossibile crederci. Vincent alzò la testa appena in tempo per vedere un piccolo elefante uscire di gran carriera dalla costruzione all'interno del recinto, tutto felice, con la proboscide per aria e gli occhietti spalancati... Il piccolino sembrava proprio divertirsi. E mentre correva barrì di nuovo. E dietro di lui uscì di corsa Isabelle, ridendo. Vedendoli, Isabelle si fermò e li salutò con la mano senza smettere di ridere. Dietro di lei aleggiò per un istante un'ombra enorme che dopo qualche secondo si materializzò
in un elefante grande almeno quanto un elicottero. Senza voltarsi, Isabelle allungò una mano dietro di sé e accarezzò la proboscide dell'elicottero. Quello spinse in avanti la testa di scatto dandole una gran spinta. Isabelle rise ancora. Il piccolo si era fermato a meno di un metro di distanza da Coco ed Ettrich per guardarli. «Cosa ci fa Isabelle lì dentro?». «È andata a trovare Fiona e April. Fiona è la mamma». «Ma come ha fatto a entrare nella casa degli elefanti o come diavolo si chiama?». «Lo vedrai. Ci stiamo andando anche noi». «Non mi piacciono gli elefanti, Coco. Schiacciano tutto sotto quelle loro zampe». «Queste due ragazzone sono molto carine. Non vedi come sta ridendo Isabelle? Forza». Mentre giravano intorno al recinto, Ettrich continuò a tenere d'occhio il suo amore, perché aveva paura che uno di quei due pachidermi potesse farla cadere o calpestarla o mangiarsela o qualcos'altro di poco piacevole. Invece Isabelle strinse la proboscide di Fiona e se l'avvicinò al viso. L'elefante non sembrò esserne disturbato. «Non ti sei nemmeno accorto che quel ratto aveva il rossetto?». Ettrich si bloccò appoggiandosi le mani sui fianchi. «Mi hai detto che non avevi visto un ratto. Mi hai detto che avevi visto qualcos'altro». «Sono appena tornata indietro e ho rivissuto la scena con i tuoi occhi. Come hai fatto a non accorgerti che aveva il rossetto? Ti stava prendendo in giro, Vincent. Una cosa che devi sapere e non devi dimenticare è che gli animali non mentono mai. Non mentono, non si travestono e sono sempre fedeli alla propria natura. È per questo che ci si può fidare di loro». «Scusami, Coco, ma io non mi fido dei leoni. Né degli elefanti, né dei serpenti...». «Perché vorresti che fossero come te li sei immaginato da piccolo. I leoni dovrebbero essere animali possenti ma dolcissimi come in un cartone animato di Walt Disney. Ma non sono così, e quando si comportano da leoni, ti disturba che non siano come gli animali immaginari che ha creato la tua fantasia. Gli orsi bianchi non portano cappelli a cilindro e non vanno in giro su ridicoli monocicli. Né dormono nel loro lettuccio accanto a Riccioli d'Oro. È la gente che li obbliga a fare cose stupide nei circhi e nei film e nei libri per bambini. Certo, alcuni sono più mansueti, altri più feroci, ma alla fine saranno sempre degli orsi, sempre! E non bisogna mai voltar loro
le spalle. Né avvicinarsi troppo. Molto semplice. Non sono loro che sono sleali: lo sei tu nella percezione che hai di loro». Ettrich guardò Isabelle preoccupato. «Se quello che dici è vero, non dovrei essere spaventato per lei adesso?». «Sì. Ma diciamo che di solito a Fiona e Aprii piacciono gli esseri umani e quindi non è il caso di esserlo troppo». Si avviarono di nuovo mentre Ettrich domandava: «Così se quel ratto non era me stesso da morto, chi era?». Coco non si fermò. «Te l'ho appena detto: gli animali non mentono, quindi se ti spunta davanti un grosso ratto parlante puoi stare certo che ti sta ingannando». «La prossima volta me lo ricorderò. Ma allora cos'era? Perché mi conosceva, mi ha detto tutte quelle cose...». Coco si succhiò le guance mentre decideva che tipo di risposta dargli. «Era il caos, Vincent. Ti spiegherò tutto tra un minuto, quindi abbi pazienza. Il caos non ti è amico. Sa un mucchio, davvero un mucchio di cose su di te, ma decisamente non ti è amico». Con quel pensiero che gli ronzava nella testa, Ettrich seguì Coco nella casa degli elefanti. La prima cosa che lo colpì fu l'odore: non era né buono né cattivo, ma eccezionalmente insolito, un odore che altrimenti il suo naso non si sarebbe immaginato neanche facendo i salti mortali. Vincent non era sicuro di averlo sentito l'ultima volta che era venuto allo zoo qualche mese prima. Gli elefanti erano tra gli animali preferiti di Jack e voleva venire a vederli ogni volta che lo portava allo zoo. All'interno l'edificio era grande come una palestra. Grosse e fitte sbarre che salivano sino al soffitto separavano i visitatori dagli animali. C'erano ovunque cartelli che avvertivano di fare attenzione a non superare la linea gialla tracciata sul pavimento. Coco si avvicinò alla porta della gabbia e la aprì con una lunga chiave che trasse di tasca. Ettrich la guardò incredulo. «Entriamo?». «Sì, entriamo. Vieni, su, forza». Ed entrò senza guardarsi indietro. Lui la seguì dopo essersi accertato che il cancello rimanesse spalancato nel caso fosse necessario darsela a gambe il più velocemente possibile. Vincent Ettrich era abituato ad assicurarsi delle vie di fuga. Svignarsela, e non solo fisicamente, era del resto una cosa che sapeva far bene. E non poteva essere altrimenti visto il suo ricco passato di relazioni sentimentali. Coco si diresse verso il centro della gabbia. Si voltò a guardare Vincent e riprese a spiegargli il concetto del mosaico. Era uno strano luogo per una
lezione di teologia. La sua voce echeggiava rimbalzando contro le pareti. L'odore di quel luogo e il pensiero di chi vi viveva continuavano a distrarre Ettrich dalle parole di Coco. Nessun altro visitatore entrò nella casa degli elefanti mentre Coco parlava, cosa piuttosto strana visto che durante il fine settimana di solito era piena di gente. Ettrich non disse nulla, però, perché immaginava che fossero stati tenuti lontani da qualche arcano stratagemma. Non riapparvero neppure Isabelle e i due elefanti, mentre Coco si inginocchiava e faceva cadere sul pavimento di cemento una manciata di tessere che aveva tirato fuori di tasca. «Vieni qui, Vincent. Voglio che tu faccia una cosa». Dapprincipio Ettrich continuò a guardarsi attorno nel timore che da un momento all'altro succedesse qualcosa o che entrasse qualcuno a chiedere che cosa diavolo ci facevano lì dentro. Come minimo sarebbero riapparsi gli elefanti pretendendo giustamente di sapere perché mai quegli esseri umani si trovavano nella loro casa, in ginocchio davanti a tante piccole tessere colorate sparse per terra. Ma tutto cambiò quando il mosaico creato da Ettrich si sollevò in aria ed esplose in tutte le direzioni. Vincent ne fu incantato proprio come Isabelle qualche ora prima. E per quanto possa sembrare strano, da quel momento comprese istantaneamente ogni cosa. Persino Coco fu sorpresa di vederlo annuire mentre lei cominciava a spiegare e di sentirlo dire semplicemente: «Lo so. So tutto». Stupita, Coco tentò di protestare. Poi rammentò dove era stato. Il suo viso si rilassò e mormorò: «Certo che lo sai». Concluse in fretta, rispondendo alle domande di Vincent, chiarendogli un dettaglio qua e là. «Sì, d'accordo, questo lo capisco. Ma dimmi perché sono stato riportato indietro. Perché sono qui?». Coco si portò al centro della stanza, nel mezzo di quel mosaico di minuscole tessere multicolori sospese in aria. Volgendosi verso di lui, sollevò entrambe le braccia con i palmi all'insù, guardò a destra e a sinistra, sopra e sotto di sé. Era circondata dai tasselli del mosaico. «Una di queste sei tu, Vincent, lo sai. Una è Isabelle e...». Senza alzare la testa, Coco allungò una mano e strappò una tessera dal mosaico. Se la portò all'altezza del mento e allungò la mano verso di lui. «...una è il caos: diciamo questa tessera bianca. Il caos ha sempre fatto parte del mosaico di Dio e ne farà sempre parte, qualunque forma finisca per assumere e tutte le volte che si riformerà». Ettrich guardò la tessera bianca nel palmo di Coco e pensò che assomigliava a una piccola mela bianca.
«Ma come ogni altro elemento, in ogni nuovo mosaico il caos assume una forma diversa. Questa volta è cosciente». Coco chiuse le dita e la mela scomparve all'interno della mano. «Sino a oggi il caos non era altro che una forza cieca, come la natura. Quando un tornado devastante uccide coloro che vivono sul lato sinistro di una strada, lasciando incolumi quelli che abitano sul lato destro, non è a seguito di una decisione consapevole. È semplicemente successo che in quel momento l'energia si muovesse in quella direzione e non nell'altra. Un tornado non è in grado di pensare, né di provare amore o odio. È un evento atmosferico generato da una forza cieca. Fino a oggi si poteva dire lo stesso del caos. Semplicemente esisteva, come un qualunque altro elemento del mosaico. Ma in questo mosaico ha assunto coscienza e consapevolezza di sé». Coco aprì la mano e Vincent vide che la mela, per quanto ancora bianca, era grande il doppio di prima. «Dopo di che si è reso conto che questa esistenza gli piace, gli piace essere cosciente». Coco richiuse la mano un istante, quindi la riaprì e reinserì la mela, che aveva ora le dimensioni di una pallina da golf, nel mosaico. Dava l'impressione di essere fuori posto in mezzo a tutte le altre tessere più piccole. Coco la guardò. «Il caos vuole che tutto rimanga così com'è. Non vuole che arrivi il momento in cui ci sarà un nuovo mosaico. È da molto tempo che sta facendo di tutto per evitarlo». All'improvviso tutte le tessere eccetto la pallina da golf volarono al loro posto nel mosaico creato da Ettrich e, trasformandosi, diedero vita a un disegno del tutto nuovo. Ma soltanto per un istante, il tempo necessario perché Vincent vedesse quanto fosse diverso dal suo, dopo di che più della metà dei tasselli caddero e si sparpagliarono a terra. Il mosaico aveva ora un aspetto sconnesso e devastato, come un puzzle abbandonato a metà. Coco si accovacciò e si mise a raccogliere le tessere intorno a sé. «La realtà è molto più complessa, ma diciamo che il caos ha trovato un modo di impedire alle tessere di aderire al mosaico quando vi fanno ritorno». Inserì di nuovo nel mosaico una tessera che aveva raccolto per terra. Dopo un attimo quella cadde di nuovo. «Come?». Coco scosse la testa. «Non lo so, Vincent. Io sono una semplice formica operaia. Queste sono cose per cervelli molto più grandi del mio». Sorrise. «Come tuo figlio». Ettrich trasalì. «Jack?». «No. Anjo».
Ettrich guardò Coco senza capire. Quindi indicò fuori, esitante, in direzione di Isabelle. «Esatto, lui. Lui e altri come lui sono stati mandati per cercare di fermare...». «Mandati da chi, Coco?». «Dal mosaico». Ettrich si strofinò il mento. «Non ricordo più com'era». «Perché non ci sei mai stato, nel mosaico. Eri ancora a scuola nel purgatorio, quando Isabelle è venuta a prenderti». «C'è Anjo dietro a tutto?». «No, è stata Isabelle a decidere di venire a prenderti. È stato un gesto di incredibile coraggio. Anche se poi, quando è giunta lì, è stato Anjo ad aiutarla a trovarti». «Perché non ha fatto tutto lui?». «Non era possibile. Dev'essere un'anima ancora in vita a decidere di volerlo fare». «Isabelle sapeva tutto, del mosaico e del caos, quando è venuta a prendermi?». «No, Vincent. È venuta perché ti ama e le era stata offerta la possibilità di riportarti indietro». Ettrich s'infilò le mani in tasca e inconsciamente strinse i pugni. «Vuol dire che vi siete serviti di lei». «No, nient'affatto. Isabelle ha ottenuto quel che voleva. È solo che ora che sei qui, devi fare alcune cose». «Che genere di cose? Perché sono dovuto tornare qui?». «Perché quando nascerà, Anjo non saprà nulla di tutto questo. Solo se sarà educato nel modo giusto potrà arrivare a comprendere chi è e qual è il suo compito. E soprattutto, dovrai insegnargli quello che hai imparato nel purgatorio perché Anjo dovrà servirsene nella vita». «Ma Coco, io non mi ricordo niente di quello che è successo quando ero lì! Ho la mente completamente vuota. Non ricordo niente di niente». «Allora vorrà dire che devi fare un bel tuffo dentro di te e andare a ripescare quei ricordi. E indispensabile». «E se non ce la faccio?» Coco indicò il mosaico. Altri due tasselli caddero a terra. Esasperato, Ettrich ne raccolse uno e lo tirò con tutta la sua forza contro il muro, ma quello cadde molto prima di raggiungere il bersaglio. «È una follia». Quelle parole gli uscirono dalle labbra con la forza di un pugno
sferrato su un tavolo. «Cos'è una follia?». Isabelle era entrata dalla porta degli elefanti senza che Vincent e Coco si accorgessero di lei. Trenta secondi dopo apparve anche il piccolo elefante, che si fermò a meno di un metro da lei, facendo roteare la proboscide in aria. Sembrava stesse aspettando che la sua nuova amica umana facesse qualcos'altro di divertente. «Coco mi ha detto del mosaico e del caos». Isabelle aspettava che Vincent continuasse. Lui aspettava che lei dicesse qualcosa. Si guardarono. L'elefantino agitò la proboscide impaziente mentre si protraeva quel silenzio che non faceva piacere a nessuno, né ai tre esseri umani né al piccolo elefantino. «Ci credi, Fizz? Pensi sia vero quello che mi ha detto?». Altri due tasselli caddero a terra. Isabelle li guardò e disse: «Ho avuto un fidanzato che faceva il pilota nella Marina. Era uno di quei personaggi temerari che decollano e atterrano dalle portaerei. Una volta mi ha detto una cosa che non dimenticherò mai. Tutti i compagni con cui aveva volato prima di andare in missione si sfilavano dal collo la targhetta di riconoscimento e la infilavano in una scarpa. Sai perché?». Ettrich non ne poteva più di sentir parlare dei fidanzati di Isabelle: ecco che ne spuntava fuori un altro. Quando era stata con lui? Non gliene fregava niente di sapere perché i piloti si mettono le targhette nelle scarpe. Voleva piuttosto sapere quando l'aereo di quel tipo era atterrato sul ponte di Isabelle. «Vincent?». «No, non lo so. Perché?». «Perché quando un aereo viene abbattuto, specialmente se precipita in mare, di rado vengono recuperati i corpi dei piloti: l'impatto è troppo devastante. Ma c'è una cosa che pare che venga ritrovata più spesso delle altre: i piedi. I piedi dei piloti. Nessuno sa perché. Comunque loro si mettono la targhetta nelle scarpe, così se precipitano e non è più possibile rinvenire i loro corpi, almeno in questo modo c'è qualche piccola chance che qualcosa di loro possa salvarsi ed essere riconosciuto. Non so se sia ancora così, amore mio. Ma so che ho un bambino dentro di me e so cosa ho fatto per riportarti qui. Per me Anjo è la targhetta nella nostra scarpa. Qualunque cosa ci succeda, se facciamo quel che dobbiamo fare, lui si salverà, e noi attraverso di lui». «Mettiamo anche che sia vero, cos'è che dobbiamo fare, Fizz? Tu ne hai idea?».
La prima bambina comparve prima che Isabelle rispondesse. All'inizio nessuno di loro vi fece caso: indossava scarpe da ginnastica rosse nuove, un paio di jeans e una T-shirt bianca immacolata. Sembrava un po' timida, come tutte le bimbe, e nel tentativo di essere invisibile, entrò, fece qualche passo a sinistra e si fermò con le spalle al muro come se cercasse di occupare il minor spazio possibile. L'elefantino fu il primo a dire qualcosa. La guardò e le rivolse un breve barrito di saluto. I tre adulti non si voltarono. Poi entrò un bambino. Era più piccolo della bimba e aveva un viso largo dalle fattezze ispaniche. Era vestito esattamente come lei. Sembrava quasi che indossassero una divisa scolastica. Pian piano entrarono anche gli altri bambini, tutti vestiti alla stessa maniera. Si fermarono in silenzio fuori delle sbarre che separavano i visitatori dagli animali e rimasero fermi a guardare dentro senza avvicinarsi alla porta della gabbia. Coco, Vincent e Isabelle, pur vedendoli, non si curarono di loro. Erano allo zoo e gli zoo sono pieni di bambini. Ettrich e Isabelle continuarono a discutere. Coco commentava qualcosa di tanto in tanto, ma cercava per lo più di lasciar parlare loro, limitandosi a guardarli. Anche loro si guardavano. Nessuno dei tre invece guardò Aprii che si dirigeva lentamente verso i bambini, i quali a loro volta si erano avvicinati alle sbarre a osservare la scena. Aprii sperava gli dessero qualcosa da mangiare. Aveva già capito qualcosa degli esseri umani e delle sbarre della sua gabbia. Sapeva che quelle sbarre servivano a tenere lontane quelle persone, che da parte loro, però, se volevano, potevano infilare una mano dentro e offrirgli qualcosa di buono da mangiare. Doveva allungare la proboscide il più possibile per raggiungere quelle mani, ma aveva già imparato come fare. Gli piacevano le cose che gli offrivano e si fidava di quelle mani infilate tra le sbarre con qualcosa per lui. Fermandosi a poco più di mezzo metro dalle sbarre osservò i bambini che alzavano le braccia e allungavano le mani, esitanti. Aprii conosceva bene anche le carezze, ma quelle non la interessavano. Voleva qualcosa da mangiare. Vedendo tutte quelle mani protese, pensò che da qualche parte doveva pur esserci qualcosa per lui. Abbassò la sua grossa testa e la mosse lentamente di qua e di là. Gli piaceva far dondolare la testa quando pensava: era una bella sensazione. Gli piaceva anche raccogliere le cose da terra, come il fieno o l'erba o le carote qualche volta, e buttarsele sulla testa. Prima guardò i bambini, poi volse lo sguardo altrove. Fece un passo verso di loro, poi si ritrasse di nuovo. Che cos'avevano in mano? Qualcosa di dolce o di salato? Di morbido o di du-
ro? Le avevano dato di tutto, dal popcorn alle caramelle, persino il tappo di una bottiglia di champagne una volta. Aprii fece di nuovo un passo verso le sbarre e abbassò la testa. Aveva un ciuffetto di peli rosso fuoco proprio in cima alla testa. Alcuni bambini lo indicarono ridendo. Dietro di lei i tre adulti continuavano a parlare con quelle loro voci così curiose. Ma adesso Aprii era deciso a scoprire cos'avevano quei piccoli in mano. Fece un altro passo verso di loro. «Santo cielo, Fizz, devi per forza sapere qualcosa di più. Ci sei stata: sei tu che mi hai riportato qui!». Dalla voce di Ettrich trasparivano in ugual misura disperazione e collera. Volgendo lo sguardo verso Coco in cerca d'aiuto, Isabelle vide qualcosa e si bloccò impietrita. Un grido che non assomigliava a nulla di conosciuto lacerò l'aria: un urlo acuto, disperato, bestiale. Coco ed Ettrich si voltarono a guardare, ma era difficile dire cosa stesse accadendo dall'altra parte della gabbia. L'elefante volgeva loro le spalle, rivolto verso un manipolo di bambini fermi dall'altra parte delle sbarre. Ma stava barrendo. Alla fine compresero perché: i bambini gli avevano afferrato la proboscide e la tiravano con forza. Nonostante le dimensioni e la sua leggendaria potenza, l'elefante sembrava incapace di opporre resistenza. Ettrich fissò la scena e disse con voce incredula: «Non è possibile, cazzo». Era davvero impossibile, assurdo. Come un mulo intestardito, o un cagnolino recalcitrante, l'elefante aveva posato il sedere per terra e stava cercando disperatamente di tirare la proboscide verso di sé mentre i bambini la tiravano dall'altra parte. Continuando a barrire, Aprii scivolava in fretta, troppo in fretta, in avanti, come se il suo grosso corpo non pesasse nulla in quelle piccole mani. Per quanto stentasse a crederci, Coco comprese all'istante cosa stava succedendo. Nel mondo da cui lei proveniva aveva imparato alcune leggi inflessibili tra cui quella che poco prima aveva esposto a Ettrich: gli animali sono sulla terra per proteggere gli uomini. Gli zoo sono rifugi sicuri. Ora non più. Il caos aveva imparato ad avere la meglio. «Corri, Vincenti Porta Isabelle via di qui!». Coco indicò l'enorme porta che dava sul cortile esterno, da dove in quell'istante sentirono giungere un lungo, acuto barrito che assomigliava al verso di un leone. Un attimo dopo apparve la mamma elefante che correva in aiuto del suo piccolo. Ettrich afferrò la mano di Isabelle e la tirò verso la porta. Alle loro spalle echeggiò un grido terrificante, bruscamente interrotto da un drammatico colpo secco
cui seguì uno scroscio lento e denso. Isabelle urlò «No!» e cercò di liberarsi dalla stretta di Ettrich, ma lui non la lasciò andare. Lei si voltò di nuovo verso gli animali tirando con forza. Anche Vincent si volse e rimpianse per tutta la vita di averlo fatto. I bambini avevano fracassato il gigantesco muso di Aprii in mezzo alle sbarre. L'elefantino aveva il cranio sfondato e c'era sangue sparso dappertutto. Le ultime sinapsi, gli ultimi messaggi e le ultime istruzioni inviate alle sue membra dal suo cervello stavano ancora viaggiando verso i centri più periferici infondendo al corpo di Aprii un'illusione di vita. Una parte di lui non sapeva ancora di essere morta e si muoveva, guizzava, protestava e cercava di fuggire la morte che l'aveva già colta. Infine le zampe cedettero e il suo pesante corpo crollò a terra, mentre la testa rimaneva su, schiacciata tra le sbarre rosse e lucide di sangue. La mamma gli si avvicinò e lo spinse una, due, tre volte, cercando di farlo rialzare, di riportarlo in vita. Con la proboscide, con una zampa, con la sua grossa testa scura. Quando vide che non serviva a nulla, iniziò a far oscillare il muso su e giù, su e giù, su e giù. Gli esseri umani non comprendono la morte. Per loro non è altro che privazione, perdita, vuoto. Ma la maggior parte degli animali la comprendono ed è per questo che di fronte a lei si comportano in maniera così diversa da quanto facciano gli uomini. È tale consapevolezza che li spinge ad annusarla, incalzarla, pisciarci sopra e allontanarsi. Sanno che seppure un giorno essa li sconfiggerà, finché avranno vita saranno più forti di lei: ed è per questo che se ne servono o la disprezzano. Incapaci di distogliere lo sguardo da Aprii, nessuno di loro vide entrare il primo bambino nella gabbia. Uno dopo l'altro varcarono la porta senza fretta, in fila indiana, con volti che esprimevano felicità oppure semplice indifferenza. Avevano quasi tutti le mani e le T-shirt imbrattate di sangue: si sarebbe detto che avessero appena combinato qualche marachella, che si fossero tirati addosso della vernice o del cibo mentre la maestra si era assentata un attimo. Il sangue sulle magliette si era già rappreso e scurito, solo quello sulle mani e su alcuni dei loro volti era ancora rosso vivo. Soltanto quando furono entrati tutti nella gabbia si avvicinarono agli adulti. Coco emise un gemito sapendo che ormai era troppo tardi, sia per fuggire, sia per evitare l'inevitabile. «Vincent, cerca di ricordare». Senza distogliere lo sguardo da quei bambini, Ettrich domandò: «Ricordare cosa?».
«La morte. Quello che hai imparato quando eri là». Prima che Vincent potesse rispondere a Coco o anche solo pensare a una risposta, dall'esterno giunse un altro suono, un rumore talmente singolare che li fece arrestare tutti impietriti. Bambini, adulti, e soprattutto l'elefante. Si sarebbe quasi detto un rullo di tamburi, che si tramutò poi in un agitato sbatter d'ali, uno svolazzare confuso, come se fossero improvvisamente usciti allo scoperto migliaia di uccelli che si andavano sollevando in volo. Ettrich era così teso che gli si mozzò il respiro quando si sentì stringere la mano. Guardò Isabelle e le vide negli occhi il suo stesso terrore. «Vincent, che cos'è? Che cos'è questo rumore?». Ettrich volse lo sguardo intorno a sé, guardò a destra e a sinistra, infine sussurrò: «Non lo so». A una ventina di passi da loro, fuori dell'edificio, echeggiava un suono primordiale. A nessuno di loro era mai capitato di udire un fragore simile; del resto, raramente era stato udito nel mondo intero. Gli animali si stavano adunando. Un leone maschio arrivò di corsa all'attacco, seguito da un folto stormo di piccioni che volava raso terra. Tutti si gettarono sui bambini. Senza interrompere la sua corsa, il leone si lanciò sui bambini con un sol balzo. Quattro di loro lo agguantarono a mezz'aria e gli spezzarono il collo possente senza alcuno sforzo. Quando lo lasciarono andare, il tonfo dell'animale sul cemento parve quello di un pesante tappeto sbattuto a terra. Poi fu la volta dei piccioni. Mentre assisteva attonito a quella scena, Ettrich si domandò cosa potessero fare degli uccelli contro simili avversari. Accecarli, ecco cosa potevano fare. Volarono dritti ai volti dei bambini, colpendoli agli occhi con il becco aguzzo. Per qualche istante parve persino che potessero avere successo, che riuscissero a fermare l'assalto del caos. Urlanti, con le dita grondanti di sangue, il proprio questa volta, i bambini si accovacciarono proteggendosi il viso con le mani. In quel momento comparve una famiglia di quattro tassi che a passettini rapidissimi si avventò contro di loro attaccandoli alle gambe: creature da sempre avverse all'uomo e adesso più che mai ansiose di mettere selvaggiamente all'opera zanne e artigli. Gli animali seguitavano ad arrivare. Anche creature insolite, inattese: una zebra, uno struzzo, due formichieri con artigli più lunghi di quelli dei tassi, mandrilli capaci di lottare con brutale rapidità e agilità. Come si poteva resistere a un assalto simile? Ognuno di essi entrò nella gabbia consapevole della propria forza e della missione da compiere, attaccando senza
la minima esitazione. Il caos è ostinato, ma non stupido. Dopo qualche minuto comprese che in quel modo non poteva avere la meglio. I bambini, malgrado la spietata ferocia di cui erano capaci, non potevano tener testa a un intero zoo di belve furibonde. Così il caos infranse un'altra regola esistente sulla terra dalla notte dei tempi. Davanti agli occhi di Ettrich, di Coco e di Isabelle, i bambini si trasformarono negli animali che li stavano aggredendo. I tassi da quattro divennero cinque: ma il quinto era dotato di una forza e una ferocia pari a quella degli altri messi insieme. Così mentre i tassi stavano allegramente sbranando le gambette di un bambino, quello si tramutò in un quinto tasso che si rivoltò contro i suoi assalitori divorando a morsi il muso di quello che gli si trovava più vicino. Gli altri balzarono istintivamente indietro, ma lui in un istante gli fu sopra e facendo ricorso al loro stesso repertorio di mosse e di trucchi si accinse a dilaniare ad artigliate la pancia di uno e a squarciare la gola di un altro. Li massacrò tutti sfruttando lo shock e lo sconcerto che aveva sparso con quella metamorfosi. Tutto questo in pochi, brevissimi secondi. È vero, capita talvolta che gli animali attacchino i propri simili. Quando in una cucciolata nasce un piccolo deforme, la madre istintivamente provvede a eliminarlo. Se necessario, il maschio alpha combatte all'ultimo sangue con i rivali per il dominio del branco o della muta. Come può accadere che in un momento di follia una creatura sia spinta ad assalirne un'altra della stessa razza. Ma non così, non uno contro l'altro indistintamente. Tutti gli animali giunti in difesa degli esseri umani furono massacrati dai propri simili. Una perversità senza precedenti. Quando infine Ettrich la tirò per un braccio, Isabelle non oppose resistenza. Corsero fuori della gabbia insieme, nel cortile, ormai vuoto e tranquillo. I rumori immondi che provenivano dall'interno rendevano il contrasto ancora più intenso. «Dov'è Coco?». «Non lo so... ancora dentro, immagino». «Merda». Ettrich si passò una mano sulla testa. «Resta qui», disse indicando a Isabelle il punto in cui erano, come se lì sarebbe stata al sicuro. Fu quindi la volta di Isabelle di cercare di trattenerlo. «Cosa vuoi fare, Vincent?».
«Voglio andare a tirarla fuori da lì». Non le disse che si era ricordato di una cosa. In mezzo a quel delirio aveva avuto un'illuminazione. Era quasi certo di non sbagliarsi e di poter aiutare Coco. «Santo cielo, guarda!». All'estremità opposta del cortile cinque animali, fermi uno accanto all'altro, li fissavano. Un lama, una gazzella, una pantera, un pinguino di Humboldt e un raro airone saruviano verde. Se si può parlare di espressione degli occhi per descrivere un animale, allora quei cinque avevano tutti lo stesso sguardo triste. Sapevano che dovevano entrare nella gabbia e unirsi alla lotta. Sapevano anche che vi avrebbero trovato la morte. Avevano già sacrificato la propria libertà per vivere in quel luogo falso e orribile. Ora anche quello veniva loro tolto. Avevano trascorso la vita in gabbia anche se avrebbero potuto fuggire in qualunque momento se solo avessero voluto. Per centinaia e centinaia di giornate interminabili erano rimasti accovacciati sul cemento, su vecchi tronchi o sulla terra nuda, senza fare altro che mangiare la stessa quantità di cibo pasto dopo pasto, parlare tra loro e dormire. Perennemente annoiati, erano rimasti vigili malgrado il tedio in attesa di un simile evento. Era quella la loro unica ragione di vita lì dentro. Ma era stato detto loro che avevano qualche possibilità di sopravvivenza. Ora sapevano che non era così. Non avevano scampo: stavano andando incontro alla morte. Ettrich provava la stessa tristezza e lo stesso disperato coraggio di quelle creature. Era una sensazione intollerabile. Liberò la mano dalla stretta di Isabelle e le sfiorò una guancia delicatamente. Non sapeva che Anjo le aveva detto di lasciarlo andare, che doveva farlo. Isabelle tuttavia non poté fare a meno di dirgli: «Ma cosa puoi fare contro di loro? Nessuno può fare nulla». Lui avrebbe voluto dirle qualcosa, ma non gli venne in mente niente perché aveva il cervello attanagliato dal terrore. «Aspettami qui», ripeté e riattraversò il cortile. Man mano che si avvicinava alla porta dell'edificio, vedendo l'orrore di quanto stava accadendo dentro, fu assalito dallo sgomento. Avrebbe voluto fuggire, ma si fece forza e ricorse a ciò che aveva compreso di poter fare poco prima: parlò con se stesso morto. Non un ratto gigante con il rossetto, bensì la seconda metà del proprio essere, quella che era nata nel momento in cui la prima parte di lui era morta in ospedale alcuni mesi prima. Era una delle poche cose che adesso Ettrich sapeva con assoluta certezza: esiste in ognuno di noi un essere vivente e uno morto, e sono entrambi essenziali a guidarci attraverso l'intera
esistenza umana e a ricondurci al mosaico. Così disse ad alta voce: «Cosa posso fare?». La risposta fu immediata. «Nulla. Tu non puoi fare nulla per aiutarla. Ma io sì». Qualcosa gli doveva aver parlato, ma Ettrich non era sicuro di avere davvero sentito quella voce o di essersela immaginata. Poi la udì di nuovo. «Nella morte il caos non esiste, quindi non può avvertire la mia presenza. Tira fuori il tuo coltellino». Senza un attimo di esitazione, Ettrich infilò una mano in tasca e vi trovò il "Lile Lock" che portava con sé da anni. Era un coltellino a serramanico piccolo e solido, con un bel manico di corno intarsiato. Gli piaceva toccarlo quando le sue mani non avevano altro da fare. L'aveva sempre considerato una specie di talismano, malgrado non lo usasse quasi mai se non per aprire una busta o tagliare a metà una mela. «Tu entrerai nel coltello e io prenderò possesso del tuo corpo. In questo modo il caos non ti vedrà rientrare nella gabbia e tu non sarai in pericolo. Io farò tutto quello che posso per salvare Coco, ma noi non dobbiamo separarci neanche un istante, per nessuna ragione. Questo deve avere la precedenza assoluta su qualunque altra cosa. Non lascerò il coltellino neanche un istante». «Come fai? Come fai a... mettermi lì dentro?». Nella gabbia echeggiò un terribile clamore, una selvaggia accozzaglia di suoni strani e violenti. Gli animali fermi all'angolo opposto del cortile si avviarono verso l'edificio. Isabelle gridò a Ettrich: Torna, torna indietro. «Io non farò nulla... tu solo sei in grado di farlo. Devi far fluire il tuo numen nel coltellino. Puoi farlo con qualsiasi oggetto». «Come?». Isabelle non riusciva a capire cosa stesse facendo Vincent lì fermo. Non si era voltato quando l'aveva chiamato e adesso era lì a pochi metri da lei, con qualcosa in mano che non riusciva a vedere. Correndo verso l'edificio, i cinque animali la sfiorarono come se fosse invisibile. Per ultimo il bell'uccello verde, più lento degli altri sulle lunghe zampe nere. Seguiva gli altri con la sua andatura goffa che lo faceva assomigliare alla buffa spalla di un film comico. Quando passò accanto a Ettrich, girò il lungo collo per guardarlo, dopo di che, agitando le ali, si sollevò da terra e volò via con un grido acuto, anche se, per quel che poteva vedere Isabelle, Vincent non aveva fatto nulla per disturbarlo. Non si era neanche mosso. All'improvviso vide che gli cedevano le ginocchia e gli cadeva di mano qualcosa. Ma poi Ettrich allungò il braccio con tale rapidità per riafferrare
quell'oggetto che Isabelle non ebbe modo di vedere cosa fosse. Se lo rimise in tasca e si avviò verso la gabbia. Una volta dentro, il nuovo Ettrich osservò il massacro con distacco. Tutti gli animali veri erano morti o agonizzanti. Gli esseri del caos li stavano abbattendo uno dopo l'altro con fredda determinazione. Poco lontano Coco giaceva col viso a terra accanto al leone. Quello che le era stato fatto era inimmaginabile. Mentre gli animali del caos completavano con zelo il loro lavoro, inconsapevoli della presenza di Ettrich, questi estrasse di tasca il coltellino e lo aprì. Quindi si avvicinò ai cadaveri degli animali e iniziò a toccarli con la punta della lama. Si chinava e sfiorava uno a uno quei corpi dilaniati senza aspettare di vedere cosa accadesse loro. Come aveva detto prima, gli animali del caos, per quanto passasse loro vicino, non percepivano la sua presenza. Mentre lui si aggirava nella gabbia e gli animali esalavano un ultimo gemito e morivano, la stanza si andò acquietando. Dopo aver toccato una trentina di animali si raddrizzò, richiuse con cura il coltellino a serramanico e se lo lasciò cadere in tasca. Non si era neanche avvicinato al corpo di Coco. Si era soltanto voltato un paio di volte verso di lei e aveva sorriso, come rassicurato da qualcosa. Uno a uno gli animali del caos, finito il lavoro, iniziarono a ripulirsi come avrebbe fatto qualsiasi altra creatura dopo aver partecipato a un simile massacro. Il nuovo Ettrich li osservò per qualche istante. Poi alzò la mano destra e, scrutandola con attenzione, la girò di qua e di là, come per studiare ogni dettaglio. Se la portò alle narici, la annusò, e poi fece lo stesso con tutto il braccio, fino al gomito. Il suo naso fu sorpreso da un vago profumo, una delicata fragranza di agrumi... sapone. Quindi si strofinò i palmi e sentì il calore che vi si sviluppava. Erano sensazioni che non aveva mai sperimentato prima. Erano piacevoli. Mentre scostava le mani, vide sollevarsi in aria lo spirito del primo animale che aveva toccato con la lama del coltellino a serramanico. Dalla grossa zampa della mamma elefante si sprigionò un lungo filo bianco che si andò espandendo sino a raggiungere le reali dimensioni dell'animale. Quindi, uno dopo l'altro, affiorarono dai cadaveri anche tutti gli altri. Ne aveva sentito parlare, ma non aveva mai avuto modo di assistere personalmente a una scena del genere. Gli spiriti degli animali emersero da un orecchio, da un'ala spezzata, dall'occhio lucido di un povero tasso, andando
pian piano espandendosi. A pochi centimetri di distanza da loro gli animali del caos non si accorsero di nulla e continuarono a strofinarsi soddisfatti le zampe sul muso, convinti di aver portato a termine la propria missione. Quando il Pemmagast si fu levato dai cadaveri, trascorsero alcuni secondi di silenzio quasi perfetto che il nuovo Ettrich si godette volgendo lo sguardo da un capo all'altro di quella gabbia popolata di esseri che, come lui, non appartenevano alla terra e non avrebbero mai dovuto trovarsi lì: gli spiriti degli animali morti. Quindi si annusò di nuovo la mano, inspirò quell'aroma di limone per qualche istante, poi pronunciò semplicemente un nome: «Pemmagast», e la carneficina ebbe inizio. Attraverso la notte «È morta». «Non può essere morta... è Coco. È...». «Fizz, è morta. Non c'è più, credimi». Isabelle si nascose le mani sotto le ascelle come se avesse molto, molto freddo. «D'accordo, è morta. E adesso cosa facciamo? Chi ci proteggerà?». «Per ora non abbiamo bisogno di protezione». «In che senso per ora non ne abbiamo bisogno? Non mi sembra un'affermazione tanto rassicurante. Come fai a saperlo?». «Siamo al sicuro. Per ora non ne abbiamo bisogno». «Smetti di parlare così. Non fare il misterioso, Vincent. Voglio sapere anch'io quello che sai. Non è giusto che mi tagli fuori, in questa storia ci sono in mezzo anch'io tanto quanto te, e forse anche di più», disse mettendosi una mano sulla pancia. «Hai ragione. C'è il Pemmagast a proteggerci ora: gli spiriti degli animali morti, come ti ho raccontato. Sono loro che ci hanno salvato. È la prima volta che accade una cosa simile. È stato un attacco a sorpresa e il caos non ha potuto difendersi. Ma non so quanto tempo durerà il loro potere. Il caos è intelligente: troverà il modo di cavarsela». Isabelle detestava parlare con voce tremante, ma ora non fu capace di evitarlo. «Questo significa che forse non possono proteggerci. Forse non saranno in grado di fare nulla quando ci riproverà». Ettrich esitò un attimo, poi sospirò. «Forse. Ma è tutto quello che abbiamo finché non troveremo qualcosa di meglio. È intorno ad Anjo che ruota tutto. Il caos lo vuole perché rappresenta una grave minaccia per lui,
ma io ora so una cosa nuova: quando Anjo nascerà, il caos non potrà toccarlo. Sarà protetto e non c'è nessuna possibilità che gli venga fatto alcun male». «Come lo sai?». Ettrich abbassò la voce e disse: «Me l'ha detto lui». Isabelle sapeva che "lui" era l'altro Ettrich. «È la verità, Vincent? Non è che me lo dici solo per tranquillizzarmi?». «È la verità. Ma c'è un'altra cosa altrettanto importante, Fizz. Anche se sarà sempre protetto, non c'è nessuna garanzia che Anjo imparerà a fare quel che è necessario». «Cosa intendi?». «Se non lo educhiamo nel modo giusto, non avrà gli strumenti per portare a termine quel che dovrà fare quando sarà grande». «Chi se ne importa? Che vadano tutti a quel paese! Anjo è nostro figlio, non loro. Se vuole soltanto giocare a baseball e guardare le ragazze quando sarà grande, a me va bene». «No, non è così semplice». Lei sbatté entrambe le mani sul cruscotto. «Oh, sì, per me è così semplice». Erano seduti nella macchina di Ettrich, nel parcheggio della tavola calda in cui avevano mangiato la sera prima. «Isabelle, tu dovresti capirlo meglio di chiunque altro. Il bambino che hai nella pancia ti parla. Mi hanno permesso di ritornare dal regno dei morti. E hai visto cosa sta succedendo da quando sei arrivata. Tutte cose assurde, ma che sono successe. Anjo non è un bambino come gli altri». Entrambi rabbrividirono quando il cellulare di Ettrich si mise a suonare. Vincent lo tirò fuori dalla tasca e guardò lo schermo per vedere chi lo stava chiamando. Era un numero che non conosceva. Premendo il bottone per rispondere, si portò il telefono all'orecchio e disse lentamente: «Pronto?». «Vincent, sono Bruno Mann». Si lasciò andare contro lo schienale. «Ehi, Bruno». «Dove sei?». «Nella mia macchina. Cosa c'è?». «Hai già portato tuo figlio a casa?». Ettrich si raddrizzò di nuovo. No, basta. Per favore, adesso basta. Jack no. Questo no. «Sì, l'ho portato a casa, perché?». «E andato tutto bene? Hai avuto qualche problema quando sei arrivato a casa?».
«No, perché me lo chiedi?». Mann ignorò la domanda di Vincent. «E non hai avuto alcun problema, con nessuno, da quando siamo stati in ospedale? Proprio nessuno?». Era successo quel che era successo allo zoo, ma Ettrich non aveva voglia di parlarne. La sicurezza dei suoi figli aveva la precedenza su tutto il resto. «Niente, Bruno. Che c'è? Ti è successo qualcosa?». «Sì, Vincent... All'improvviso tutti sanno che sono morto. Quando sono arrivato a casa, mia moglie ha perso letteralmente la testa. Quando mi ha visto entrare, ha cominciato a urlare come una pazza, continuava a ripetere: "Ma sei morto, sei morto! ". Cosa potevo dirle: Sì, cara, hai ragione?». «Cosa hai fatto?». «Ho cercato di calmarla. Ma provaci tu a calmare qualcuno che ha appena visto un fantasma. Soprattutto se il fantasma sei tu». «Così adesso dove sei?». «A casa mia: al piano terra, sto cercando di inventarmi qualcosa di convincente da raccontarle. Ma sai cosa significa tutto questo, Vincent? Se è vero, siamo tagliati fuori da ogni cosa: lavoro, amici, famiglia, conto in banca, tutto. Non possiamo più incontrare nessuno. Non possiamo nemmeno rischiare di farci vedere in giro perché è troppo pericoloso, cazzo. Se tutti ci credono morti, significa...». La voce di Ettrich si fece molto tesa. «Ho capito, Bruno. Devo pensarci un attimo. Ti richiamo tra un po'». «Non pensi che dovremmo vederci per parlarne?». «No, finché non ho trovato una soluzione. Ti richiamo io». Ettrich chiuse la comunicazione prima che Bruno potesse aggiungere altro. L'unica cosa che riusciva a pensare era che se quello che Bruno aveva detto era vero, lui non avrebbe più potuto vedere i suoi figli. Avrebbe per sempre perso ogni contatto con loro. Era un pensiero insopportabile. Strinse il telefono con tale forza che si mise a scricchiolare. A quel punto mollò la presa e il cellulare cadde ai suoi piedi, sul tappetino. Isabelle aspettò che il viso di Vincent si rilassasse prima di chiedergli cos'era accaduto. Glielo raccontò con tono scoraggiato, da sconfitto. Isabelle non era convinta. Si chinò, raccolse il cellulare e fece il numero di casa di Vincent. Lui la ignorò, mentre pensava ai figli con lo sguardo perso nel vuoto. «Pronto? Chiamo dal Rhodes College, ufficio ex studenti. Vorrei parlare con Vincent Ettrich, per favore. Oh, mi dispiace. Sì, grazie», disse Isabelle toccando la spalla di Vincent. «Sì, sono pronta. Sì, perfetto. Grazie mille».
Isabelle chiuse il ricevitore e se lo lasciò cadere tra le gambe. «Tua moglie è stata molto gentile e ha detto che non abiti più lì. Poi mi ha dato il tuo nuovo numero di telefono. Al che, direi che per quel che la riguarda sei senz'altro vivo e vegeto». Il viso di Ettrich si rilassò, ma negli occhi gli rimase un'espressione scettica. «Cosa vuol dire? Perché Bruno avrebbe dovuto dirmi una cosa simile, se non era vera?». «Ci sono solo due possibilità: o è successo solo a lui, o ti ha mentito». «Perché avrebbe dovuto mentirmi? Non ha senso». Isabelle aspettò che Vincent se lo immaginasse da solo, ma lui rimase zitto. «Ti fidi di lui? Credi a tutto quello che ti dice?». «Be', sì, immagino di sì. Non lo so. Lavoravamo insieme. Lo conosco da un sacco di tempo». «Questo non significa nulla, Vincent, specialmente ora. Dovresti saperlo anche tu». «Ma c'era il suo nome tatuato sul collo di Coco! È così che è cominciato tutto. Perché mai avrebbe dovuto avere un tatuaggio col suo nome?». «Te l'ha mai detto, Coco?», chiese Isabelle posandogli una mano sul ginocchio e dandogli una strizzatina. Ettrich guardò la mano di Isabelle. I pensieri gli mulinavano in testa a tale velocità che gli sembrava che il cervello gli si fosse trasformato in una centrifuga. «No, ma avevo immaginato che...». La sua voce si spense, poi riprese forza. «E allora in ospedale? Che cos'è stata tutta quella storia con lui e Tillman Reeves?». «Non lo so, ma io farei attenzione prima di fidarmi di qualcuno, se fossi in te». Ettrich si succhiò il labbro inferiore e posò una mano su quella di Isabelle. Dopo un po' la fece scivolare su, verso la sua pancia, dove era il loro bambino. «Sai, mi è venuta in mente una cosa che mi ha detto qualcuno diversi anni fa: la cosa migliore da fare per uscire da un labirinto è passarci sopra». «Mi sembra una buona idea, ma cosa vuol dire esattamente?». «Lo diceva il nonno di Kitty e a giudicare dalla sua vita si direbbe che funzioni. Aveva quasi cent'anni quando è morto. Il più grosso mascalzone che abbia mai conosciuto. Aveva avuto tre mogli e le trattava tutte da cani. Senza contare tutte le donne con cui andava a letto. Aveva debiti con mezzo mondo, ma non ha mai restituito un centesimo a nessuno. È andato in bancarotta non so quante volte, ma è sempre riuscito a uscirne indenne... I
guai gli scivolavano via come se indossasse una tuta antiaderente. Ha vissuto fino a novantasette anni. Ma era affascinante, va detto. Fino all'ultimo giorno della sua vita è stato più affascinante di Clark Gable». Isabelle adorava il modo in cui Ettrich percepiva e parlava della vita. Era una delle cose di lui che gli erano mancate di più in quei lunghi mesi di lontananza. Persino in quel momento, con tutto quel che stava succedendo intorno a loro, era una gioia ascoltarlo parlare di tutto e di niente. «Eri con lui quando è morto?». «No. Ma l'ho visto poco prima. Era molto affezionato a Kitty, così andavamo a trovarlo spesso in ospedale. Pensa, l'ultima volta che l'ho visto, quando siamo entrati nella sua stanza (naturalmente era riuscito a farsi dare una camera singola anche se non aveva i soldi per pagarla), era lì con in testa un berretto da baseball nero di GET SHORTY, un paio di Ray-Ban da sole e una tuta rosso fuoco. Era gennaio: le sette di sera. Ascoltava da una grossa radio portatile sistemata in un angolo un disco con le canzoni più famose degli Abba: ha detto che gli piacevano perché avevano ritmo. Cent'anni, cazzo. L'unica cosa è passarci sopra, al labirinto: è un gran buon consiglio, lo sai?». «Ma cosa credi che significhi?». Ettrich sorrise al ricordo. «Mi ha raccontato da cosa viene quella frase. Un giorno, a Londra, stava passeggiando per Piccadilly. Qualcuno aveva posato un grande labirinto nel mezzo del marciapiede. Assomigliava a un'enorme tovaglia a scacchi bianchi e neri: almeno tre metri per tre. Chissà, magari era un'opera d'arte concettuale. Ha detto che la cosa più interessante era che tutti ci giravano intorno. Non importa se dovevano allungare la strada di un bel po': nessuno voleva passarci sopra, anche se era chiaro che era stato messo lì per essere usato. Gli unici che ci entravano erano alcuni bambini che si divertivano a trovare il centro del labirinto. Una piccola folla si era fermata a guardare. Dopo un po' arrivò una vecchietta. Sai, una di quelle vecchie cariche di borse di plastica che borbottano sempre qualcosa tra sé. Be', lei non voleva storie: doveva andare in un posto e quel posto era dall'altra parte del labirinto. Così passò sopra al labirinto senza pensarci due volte. Il nonno di Kitty ha raccontato che la cosa più bella fu che tutti quelli che si erano fermati a guardare presero come un affronto il fatto che lei ignorasse il labirinto. Glielo si leggeva in faccia. Ma poi si guardarono attorno e iniziarono a sorridere. Come se avessero capito di essere degli sciocchi, e che la vecchietta era stata più furba. Perché non passarci sopra, se si ha fretta?
Devo pensare a come sia possibile farlo, nel nostro caso. Finora abbiamo detto: non possiamo andare a destra, proviamo ad andare a sinistra. Ma questo non è un labirinto ordinario, non è fatto solo di svolte a destra e a sinistra; si va anche in su e in giù, un mosaico, il Pemmagast e chissà quant'altro. È come una di quelle partite a scacchi tridimensionali in cui se vuoi vincere devi giocare contemporaneamente su livelli diversi». «Ma come si fa? Come facciamo a salire per poter guardare giù e vedere quale strada scegliere?». Ettrich le toccò ancora una volta la pancia. «Forse Anjo può aiutarci». Bruno Mann era seccato, ma questa non era una novità. Odiava essere un uomo e odiava gli uomini tutti. Odiava la pesantezza del corpo umano, la lentezza con cui funzionava e si muoveva, il suo odore, i suoi costanti bisogni. Aveva bisogno di aria, di cibo, di calore, di fresco: un elenco senza fine. Un corpo non è mai sazio; è sempre insoddisfatto, scomodo, inappagato e scontento di qualsiasi situazione. Era un essere umano da così tanto tempo che certi giorni Bruno non ricordava neanche più cosa significasse non esserlo. Era un morbo che ti si diffondeva dentro e contagiava il tuo organismo, finché finivi per diventare irreparabilmente umano e non c'era più modo di tornare indietro. Sapeva che c'era anche a chi la cosa stava bene, chi aveva finito per trovarsi bene sulla terra e per essere più che contento di starci. Lui no. Non Bruno Mann. Più tempo passava su quell'isola deserta chiamata Razza Umana, più profonda diventava la sua antipatia nei confronti di quella vita. La goccia che aveva fatto traboccare il vaso era stata quando Vincent Ettrich aveva detto che non voleva vederlo. Era un bel po' che Bruno gli stava dietro e giocava con lui come con un pesce all'amo, dandogli appena quel tanto di filo necessario perché credesse di essere libero, per poi tirarlo di nuovo a sé, senza che lui avesse la minima idea di quel che stesse succedendo. Quando era in ospedale, prima di morire, Bruno era stato uno dei pochi che erano andati a visitarlo ed Ettrich era stato persino commosso da tanta gentilezza. Ma adesso che era risorto non lo voleva incontrare finché non avesse trovato una soluzione. Che stronzata. Vincent non sapeva neanche come trovare il modo di tenere l'uccello nei pantaloni, figuriamoci se era in grado di trovare una soluzione. Ma forse Bruno era seccato solo perché il suo «Sanno che siamo morti!» gli era parso un piano brillante, perfetto per chiudere una volta per tutte la
partita con Ettrich, per isolarlo e confonderlo, tagliargli ogni via di uscita e impedirgli ogni mossa finché non sarebbe rimasto solo con quella squinternata della sua fidanzata. Dopo di che l'avrebbe affrontato e finito. Originariamente i compiti di Bruno erano stati altri, cinque missioni durante le quali era entrato in contatto con Ettrich per pura coincidenza. Peò, man mano che aveva avuto modo di conoscerlo, vedendo la sua promiscuità, aveva compreso che quell'uomo ossessionato dalle donne come un coniglio prima o poi sarebbe potuto tornare utile. Al caos non possono che far piacere cuori spezzati e promesse non mantenute. L'amore ha la forza emotiva di un pugno nello stomaco e soltanto l'imminenza della morte crea pari confusione nell'animo umano. Per combattere la noia, Bruno aveva trasformato Ettrich nell'oggetto di una sistematica osservazione, divertendosi a vederlo irrompere come un uragano nella vita delle donne, spazzando via qualunque forma di orgoglio e autostima. Ma il momento più bello era stato quando Vincent aveva abbandonato moglie e figli per una ragazza che poi all'improvviso aveva deciso di mollarlo e di scomparire dalla sua vita. A quel punto, come se si fosse inaspettatamente pentito, Ettrich aveva contratto una forma tumorale particolarmente maligna che in breve tempo aveva riempito il suo corpo di metastasi devastandolo e uccidendolo in pochi mesi. Bruno non vi aveva avuto alcun ruolo, ma si era ampiamente goduto gli eventi. Così una mattina era stato un vero shock per lui entrare in ufficio e trovarsi davanti Ettrich che flirtava con la segretaria come se non fosse successo nulla, come se non fosse morto da mesi. Che diavolo stava succedendo? Dapprincipio nessuno aveva potuto dirgli nulla perché erano stati presi tutti alla sprovvista. Come poteva accadere una cosa simile? Chi era responsabile del ritorno di Mr Non-me-ne-lascio-scappare-una? C'erano state riunioni e piogge di recriminazioni. Nessuno aveva previsto che potesse accadere una cosa simile, nessuno si era accorto di nulla, nessuno voleva assumersene la responsabilità. Qualcuno aveva fatto ritornare Ettrich in vita in barba ai loro controlli radar, come se fossero una banda di incompetenti. Scattato l'allarme rosso, erano stati mobilitati gruppi per esaminare la situazione e in breve erano stati elaborati e messi in atto piani assolutamente inediti. Questa volta non si sarebbero fatti fregare, poco ma sicuro. Bruno prese una rivista, guardò la copertina e la lasciò cadere sul tavolo. Che cosa doveva fare mentre aspettava che il signor Ettrich «trovasse una
soluzione»? Se si fosse trattato di chiunque altro, sarebbe andato a casa sua, gli avrebbe fatto il culo e buona notte. Ma con quel novello Lazzaro era necessario fare attenzione, perché era difficile sapere di cosa fosse capace. Se poi ci si aggiungeva quel bambino speciale, così maledettamente pericoloso, di Isabelle Neukor, ecco che la situazione diventava un casino. Riprese in mano la rivista e l'aprì a caso. Prima ancora che potesse focalizzare lo sguardo sulla pagina, squillò il telefono. Pensando che fosse Ettrich, esclamò tra sé: «Bravo, bravo», come si dice a un cane che abbia appena riportato il bastone al padrone. E sollevò il ricevitore. Non era Ettrich. Non era un essere umano. Era il suo capo. In quella stessa lingua misteriosa che aveva usato Coco per rimproverare il ratto col rossetto, gli spiegò cos'era successo allo zoo. Mentre blaterava, Bruno si guardava le unghie passandosi la lingua sui denti. Si domandò per l'ennesima volta perché il suo capo insistesse a voler usare il telefono per comunicare con lui. Pensava fosse divertente, o stravagante forse? O peggio, era diventato uno di quegli sciocchi compiacenti a cui piaceva la vita umana ed era soddisfatto di quel modo ridicolo di comunicare? Era davvero caduto così in basso? Una cosa che Bruno sapeva comunque di non dover fare era interromperlo. Così svuotò la mente di ogni pensiero e lasciò che quella voce continuasse il petulante racconto di una serie di eventi che lui, da parte sua, non trovava affatto sorprendenti, per quanto indiscutibilmente singolari. Malgrado il disprezzo per gli esseri umani, Bruno era da sempre convinto che fossero molto più intelligenti di quanto non si credesse. Aveva assistito di persona a ripetute dimostrazioni della rapidità e dell'abilità umana a riconoscere e risolvere un problema. L'aveva peraltro riferito più di una volta ai suoi superiori nel corso dei vari incontri di programmazione, ma era stato invariabilmente tacciato di pessimismo, se non addirittura di sbagliarsi del tutto. Chi si era sbagliato, allora? Quello stupido di Ettrich li aveva fregati tutti e come se non bastasse adesso nessuno sapeva dove fossero sia lui che la sua ragazza. E tutto questo solo perché il Pemmagast che, sino a quel momento almeno, non era mai stato tanto impudente da farsi vedere in giro, aveva deciso di mettersi in mezzo. Bruno si accigliò quando sentì che era stato il Pemmagast a salvarli. Il Pemmagast? Avrebbe voluto registrare quella conversazione, per risentirsela con calma e riascoltare il suo capo che continuava a raccontare con tono gemebondo come quei miseri ectoplasmi del cazzo, quegli zero, quei
nulla erano riusciti ad averla vinta. Era impensabile, assolutamente ridicolo: la dimostrazione di quello che Bruno andava dicendo ai suoi superiori da chissà quanto tempo. Ma era abbastanza cinico da sapere che se glielo avesse fatto presente ora, si sarebbero soltanto infuriati con lui. A nessuno piace sbagliarsi e ancor meno dover riconoscere di aver avuto una possibilità e di essersela lasciata scappare. Finalmente la descrizione della débàcle allo zoo ebbe fine e la voce del capo di Bruno Mann si azzittì per un istante. Bruno si accinse a mangiarsi un'unghia nell'attesa di un'altra valanga di parole, ma si sbagliava, non gli si riversò addosso nessuna valanga. Anzi, nessuna parola. Per diverso tempo all'altro capo del filo non ci fu altro che silenzio, o qualcosa di simile al silenzio, visto che c'è sempre qualche rumore di sottofondo quando al telefono c'è il caos. «C'è qualcosa che posso fare?». Con grande sorpresa di Bruno, il silenzio continuò. Non sapeva se ripetere la domanda o rimanere zitto. «Detesti stare qui, vero, Bruno?». «Sì, signore». Ancora pausa e poi: «Cosa saresti disposto a fare per andartene?». «Qualunque cosa», rispose Bruno. Per Mann quella era una manna. «Quel che è accaduto oggi è quanto mai sconfortante». Adesso Bruno era tutt'orecchie. «Sì, signore». «Gravissimo». Rimase in attesa. Chissà, forse, forse... «Voglio che tu vada dal Re del Parco». Bruno riuscì a malapena a trattenersi dal farsela addosso. Era un ordine così inaspettato, così sconvolgente, che provò a trarre un respiro profondo e scoprì di non farcela. «Bruno, mi hai sentito?». «S-sì, signore. È solo che pensavo...». «O ci vai oppure ti fai altri cinquanta milioni di anni di zuppa di pomodoro sulla terra». Lasciando cadere la testa all'indietro, Bruno chiuse gli occhi stringendo le palpebre con tutta la sua forza. Aveva appena infilato un piede nella montagna di cacca più grossa dell'universo e ormai non c'era più nulla che potesse fare per tirarsene fuori. «Sì, signore, ci vado». Era un negozio di barbiere. Bruno ne aveva spesso sentito palare, ma come tutti quelli che conosceva si era guardato bene dall'avvicinarsi troppo
a quel posto sapendo chi ci lavorava. Neanche per curiosità... e non esisteva nessuno al mondo di cui Bruno desiderasse sapere qualcosa di più del Re del Parco. La sua prima impressione fu di un posto senza niente di speciale. Fuori, un cartello bianco e nero, una porticina stretta, un vecchio palo a righe da barbiere. In un insipido quartiere non particolarmente ricco né elegante, davanti a un piccolo giardino pubblico come se ne vedono in ogni città, pieno di bambini che correvano su praticelli spelacchiati e si arrampicavano su castelli di legno e si dondolavano sull'altalena mentre le mamme li guardavano chiacchierando tra loro. Alcuni bulletti appoggiati a un muro coperto di graffiti fumavano, ridendo sprezzanti di qualunque cosa catturasse la loro attenzione. Quattro vecchi alberi giganteschi incombevano su quel giardinetto facendolo sembrare ancora più piccolo di quanto non fosse. Bruno se lo immaginò traboccante di gente che si godeva il sole o la brezza estiva con una bottiglia di birra fresca dentro un sacchetto di carta, o che ascoltava della musica, nell'evidente tentativo di trasformare quella piccola oasi pidocchiosa in un perfetto angolo di vacanza a cinque minuti dal proprio appartamento. Accanto al barbiere, da una parte c'era un calzolaio, dall'altra una squallida pizzeria. Erano le otto di sera. Il negozio del calzolaio era buio. La pizzeria era illuminata da alcune misere luci che rendevano il posto ancor meno attraente, se possibile. Ovviamente, era vuota. Il barbiere, al contrario, era illuminato a giorno e pieno di gente. Ma chi andava dal barbiere alle otto di sera? In altre circostanze Bruno sarebbe stato curioso di sapere perché un barbiere in un insulso quartiere di città traboccasse di clienti a quell'ora. Ma non quel giorno. Se soltanto avesse avuto la possibilità, sarebbe corso scalzo su trenta chilometri di lava bollente piuttosto di fare quello che stava per fare. Leccandosi nervosamente le labbra, si aggiustò i calzoni e si accinse ad attraversare. In mezzo alla strada si fermò, impietrito dalla paura. Da dov'era, riusciva a vedere le persone dentro al negozio: tutti uomini, dalle facce piuttosto ordinarie, nonostante quello fosse il posto meno ordinario esistente sulla faccia della terra per chi era nel giro. Era lì che stava il Re del Parco. Per la quarta volta in poche ore l'intestino di Bruno rumoreggiò minacciosamente, rammentandogli che se lo costringeva a entrare li dentro non avrebbe risposto delle proprie azioni. Ecco un'altra cosa che Bruno detestava dell'essere uomo: il modo in cui il corpo ti si rivolta contro quando lo obblighi a fare qualcosa che non gli va.
Cercando di farsi coraggio, riprese a camminare anche se nove decimi di lui ripetevano no, no, no, piagnucolando. Questo non rientrava nelle sue regolari mansioni. Molto tempo prima, quando aveva sentito parlare del Re del Parco per la prima volta, aveva reagito come se gli avessero raccontato degli yeti e del drago di Komodo, esseri terrificanti della cui esistenza in fondo non c'è motivo di preoccuparsi se non si ha intenzione di mettere piede sull'Himalaya né in Indonesia per il resto della vita. Invece adesso eccolo lì, a pochi passi dal re degli yeti in persona, per quanto vi fosse giunto per ragioni estranee alla propria volontà. Bruno arrivò davanti al negozio e aprì la porta con un residuo d'esitazione. La musica era alta. Elvis cantava Viva Las Vegas. Alcuni uomini alzarono la testa, registrarono la presenza di Bruno e tornarono a quello che stavano facendo: chiacchierare, leggere una rivista, schiacciare un sonnellino mentre aspettavano il proprio turno. C'erano tre poltrone da barbiere, tutte e tre occupate, più sette sedie allineate lungo la parete per i clienti in attesa, di cui una sola vuota. Un barbiere dai lineamenti turchi o comunque mediorientali, con un paio di baffi simili a una spazzola da scarpe e due mani come due pale per la pizza, fece cenno con la testa a Bruno di sedersi nella sedia vuota. Il barbiere che lavorava accanto a lui gli rivolse un'occhiata, sorrise e riprese a passare il rasoio elettrico sulla testa di un cliente. Era un semplice negozio di barbiere e già questo era difficile da digerire. Lucide pareti verniciate in marrone e giallo, alcune foto con autografo di dimenticate celebrità di provincia che un giorno lontano si erano degnate di entrare nel negozio: un pugile di colore sorridente con i pugni sollevati, un giocatore di baseball con la mazza sulla spalla, un cantante con un gran ciuffo a banana e un microfono anni Cinquanta in mano. Nell'aria aleggiava un forte aroma di caffè tostato e brillantina. Trascorsi alcuni minuti, alla fine della canzone, l'uomo seduto accanto a Bruno si alzò e si avvicinò alla porta per dare un'occhiata alla strada ormai buia. Era lui il famigerato Re del Parco? Indossava pantaloni cachi meticolosamente stirati, una camicia di jeans e un paio di robusti scarponi. Aveva lucidi capelli neri e lunghi basettoni. Non era il tipo che ti saresti girato a guardare se lo avessi incontrato per strada. Ma forse stava proprio lì il segreto: Bruno non aveva mai conosciuto nessuno che avesse visto il Re del Parco. Ne parlavano tutti con timore reverenziale, riferendo storie di seconda o terza mano cui non si sapeva se credere o meno. L'uomo davanti alla porta si voltò e si guardò intorno. Sorrise dondolan-
dosi su e giù sui tacchi, poi, con grande sorpresa di Bruno, si mise a ballare il tip tap. «Oh-oh, eccolo che riprende». «Stasera spettacolo, ragazzi!». «Zitti! Voglio godermi Gary che balla». E altroché se ballava, Gary. I suoi scarponi avevano grosse suole di gomma che, invece di ticchettare, rimbombavano pesantemente sul pavimento di linoleum a scacchi gialli e verdi. Tutti commentarono la scena con una battuta o un complimento. Non una frase beffarda o sprezzante uscì loro di bocca: era chiaro che erano abituati allo spettacolo di Gary e lo trovavano divertente. Gary, il re del tip tap. La bizzarra dolcezza di quella scena sbigottì Bruno più che se gli fosse apparso davanti un ciclope a due teste che sputava fuoco. «Ehi, amico, è arrivato il suo turno». Accorgendosi che il barbiere stava parlando con lui, Bruno si voltò verso gli altri clienti. «Non ti preoccupare di loro. Sono venuti per lo spettacolo», disse il barbiere dando un colpetto al poggiatesta. «Forza, che le taglio i capelli». Bruno si avvicinò e si sedette. Il barbiere gli avvolse intorno al collo un rigido pezzo di carta e gli coprì il torace con un telo. «Come li vuole?», chiese guardando Bruno nello specchio e sforbiciando in aria per indicare che era pronto. «Mah, direi che mi può dare una spuntatina». Gary stava ancora ballando, ma più lentamente ora. Guardandosi i piedi, allargava le braccia piegando di tanto in tanto le ginocchia. Gli altri ritornarono pian piano alle loro conversazioni e alle loro letture. Il barbiere coi baffi mise su un altro CD. Ancora Elvis: Suspicious Minds. «Di nuovo Elvis, cazzo. Non si può venire qui senza doversi sbattere tutto il tempo Elvis?». «Nel mio negozio, la mia musica». A quelle parole Bruno gettò un'occhiata di traverso alla sua sinistra per poter squadrare Mr Baffo. Era lui il Re del Parco? Lo guardò con attenzione, cercando in lui qualche segno che indicasse che non si trattava di un semplice barbiere con due manone gigantesche. Aveva una polo a maniche corte nera e un paio di pantaloni cachi. Pantaloni cachi: come il ballerino. Significava forse qualcosa? Avevano tutti pantaloni cachi quegli uomini? Una rapida occhiata in giro gli disse di no. Ed era l'unico a indossare una polo nera.
«Allora dove sono le paste? Non so voi, ma io sono pronto per la mia ciambellina glassata». «Già, è ora ormai. Chi le ha portate stasera? Dean?». «Eccole qua». Dean allungò una mano sotto la sedia e tirò fuori una grossa scatola con il logo della Krispy Kreme. La aprì e, annusando voluttuosamente, guardò dentro con l'espressione di un santo che stia esalando l'ultimo respiro o che sia stato colto da un'improvvisa beatitudine mistica. «Freschissime, ragazzi. Li ho visti mentre le tiravano fuori dal forno». Si scelse una ciambellina glassata e passò la scatola alla sua destra. Mentre passavano di mano in mano, le paste furono accolte da un lungo coro di «ooh» e «aah». Bruno osservò la scena nervosamente senza smettere un solo istante di pensare: «È una follia. Tutto questo è assurdo. Pazzesco». Il suo sguardo si spostava con apprensione dalla scatola al barbiere baffuto, e viceversa. Stava per succedere qualcosa, ne era certo. Invece non successe nulla. Quegli uomini cominciarono a mangiare le loro paste: alcuni si sporcarono le dita e il mento di zucchero a velo. Persino il suo barbiere interruppe il taglio infilandosi le forbici nel taschino e quando gli arrivò la scatola scelse una girella alla cannella. Bruno volse gli occhi verso di lui e incontrò il suo sguardo. «E lei cosa vuole, signore? Sono rimaste una ciambellina semplice, una francesina e una pasta al cioccolato. Cosa sceglie?». Bruno sollevò involontariamente una mano sotto il telo per puntarsi il pollice al petto. «Io?». «Certo! È una tradizione di questo negozio: ogni sera paste per tutti. Compresi quelli che sono qui insieme a noi». «Deve mangiarne una anche lei», aggiunse uno degli uomini alle sue spalle. «Già», annuì il barbiere. Confuso, Bruno rispose: «Oh, una ciambellina semplice, allora. Quella va benissimo». Il barbiere gli porse la scatola semivuota, gli fece l'occhiolino e attaccò con gusto a mangiare la sua girella. Fece cenno col mento a Bruno di imitarlo. Cos'altro poteva fare? Bruno diede un piccolo morso alla sua ciambellina: era squisita. E lui se ne intendeva: ne mangiava una quasi ogni giorno a colazione. «Buone, no? Le Krispy Kreme sono davvero insuperabili». Se fosse passato qualcuno fuori dal negozio in quel momento e avesse
guardato dentro, avrebbe visto un gruppetto di uomini che mangiavano soddisfatti una scatola di paste. Tutti, nessuno escluso. Una scena bizzarra, ma a suo modo deliziosa. Sembravano un gruppetto di bimbi che facevano merenda con un'espressione felice dipinta sul viso. Aveva quasi finito la sua ciambellina, quando guardò lo specchio e rimase impietrito. Era la prima volta che si guardava da quando il ballerino di tip tap aveva dato il via al suo spettacolo. Quel che vide era così scioccante che non si rese conto che la musica era finita e lo stavano fissando tutti. Sollevando lentamente le mani verso il proprio viso, Bruno lo sfiorò con dita incerte e sgomente. Perché era un volto che non aveva mai visto. Eppure sentiva i polpastrelli sfiorargli la pelle delle guance. «Cos'è successo?», trovò la forza di domandare a se stesso, al barbiere e a tutti gli altri. Nessuno disse nulla. Non era un volto orribile. Non era niente di speciale, in realtà, ma decisamente non era il suo. Eppure Bruno vedeva e sentiva le proprie dita su quella pelle, su quelle guance, su quel naso, su quegli occhi sconosciuti, sulle labbra di quella lunga bocca piatta e poi lungo il mento squadrato che non si accordava gran che alla struttura del resto del viso. «Tra un attimo ho finito». Il barbiere riprese a sforbiciare. Ma i capelli di Bruno ora erano biondo cenere e non più castano scuro come mezz'ora prima. «Cos'è successo?», domandò di nuovo Bruno fissando il barbiere. «Sei venuto a cercare il Re del Parco, no?», gli chiese il barbiere indicando lo specchio in cui era riflesso il viso di quel nuovo Bruno Mann. «Be', ce l'hai davanti». «Sono io?». «Già, proprio così. Siamo qui per aiutare chi viene a cercare il Re del Parco. Li vedi questi uomini?», chiese indicando gli altri con la pasta ancora in mano. «Quando avrò finito io, si metteranno all'opera loro. Ognuno di noi è esperto di qualcosa di diverso. Io, di teste». Toccando delicatamente la tempia di Bruno con le forbici, aggiunse: «E di cervelli». «Sono il Re del Parco? Come può essere?». Il ballerino di tip tap rispose: «Questa volta il Re del Parco sei tu. La prossima volta sarà qualcun altro. Creiamo un re ogni volta che ce n'è bisogno. E poi, non appena finito il proprio lavoro, se ne va». Un dettaglio, quest'ultimo, che Bruno non si lasciò scappare. «Intende dire che può tornare? Andare...?».
«Esatto. La tua vita qui è finita. Noi ti attrezziamo come si deve, tu fai il tuo lavoro e poi te ne torni a casa». Bruno stava cominciando a capirci qualcosa e a sentirsi molto meglio. «Questo vuol dire che non è mai esistito un unico Re del Parco?». «Come un unico Lupo Cattivo? No, è un lavoro troppo grosso per una persona sola. Ce ne sono stati diversi ed è per questo che il Re del Parco ha una reputazione tanto spaventosa. Ognuno porta a termine il proprio compito e poi se ne va. Sarai libero come l'aria, Mr Ciambellina Semplice. È quello che volevi, no?». «Lo potete gridare forte. Cosa devo fare?». «Prima ti attrezziamo ben bene, poi ti diremo tutto quello che devi sapere». L'uomo che uscì dal negozio del barbiere la mattina seguente non assomigliava affatto al tipo biondo che Bruno aveva visto nello specchio qualche ora prima. Era un uomo basso e abbastanza grasso da dondolare di qua e di là come un pinguino mentre camminava. Aveva scarpe di vernice nera nuovissime e una gran testona, ma non abbastanza capelli color carota per coprirla. Per rimediare, i pochi che aveva erano stati tutti pettinati in avanti, verso la fronte. Sembrava un senatore al tempo di Giulio Cesare. Era una pettinatura ridicola, ma anche il suo aspetto in generale, a dire il vero, non era da meno. La dozzinale giacca blu e la rigida camicia bianca che indossava avevano entrambe il riflesso lucido dei tessuti senza una sola fibra naturale. Il disegno cachemire giallo e verde della sua cravatta ricordava vagamente una formazione batterica. Uscito dal negozio, Bruno non poté resistere alla tentazione di provare i suoi nuovi poteri sulla prima persona che incontrò. Era un anziano signore cui era rimasto ben poco nella vita oltre a un portamento elegante, una magra pensione e i bei ricordi degli anni di un lungo matrimonio felice conclusosi sei mesi prima con la morte della moglie. Comprendendo immediatamente tutto ciò, il nuovo Re del Parco, ancor prima che l'altro potesse vederlo, in un batter di ciglio virò tutti i suoi ricordi di qualche grado a destra o a sinistra trasformandoli in una fonte di dolore o di amarezza. Non un cambiamento imponente, perché un paio di gradi comunque sono sufficienti a distruggere la bellezza di un momento o di una vita. Un bacio protratto troppo a lungo, una parola che rovina tutto, una cattiveria al posto di un attimo di silenzio... Con un solo clic, il nuovo Re del Parco avvelenò tutto quanto avesse avuto valore nella vita di quel-
l'uomo. L'unico segno esteriore di tutto ciò fu l'immediata perdita da parte di quell'uomo del proprio portamento elegante, mentre chinava sensibilmente le spalle in avanti, come se qualcuno gli avesse messo sulla schiena un carico da portarsi dietro per il resto della vita. Dal barbiere gli uomini che si erano occupati di Bruno avevano avuto qualche disaccordo a proposito del grado di insignificanza da conferire al suo aspetto. A Bruno non era stata accordata alcuna voce in capitolo. Gli altri avevano discusso di lui come se non fosse neanche stato lì. Ma la cosa non l'aveva disturbato più di tanto, perché gli era bastato sentire quante cose sapevano e la competenza dei loro commenti per capire di essere in buone mani. L'avevano trasformato cinque volte nel corso della notte. Gli avevano permesso di alzarsi dalla sua poltrona soltanto per pisciare e, una volta, per vomitare nel lavandino quando, nella fretta, l'avevano modificato troppo rapidamente e i suoi organi interni si erano ribellati. La cosa più sorprendente era che Bruno non sentiva nulla nel corso di quelle metamorfosi. Da un momento all'altro si ritrovava ad essere un uomo completamente diverso per quel che riguardava altezza, peso e tutto il resto: il tutto senza che lui si accorgesse di nulla, eccetto quella volta in cui l'avevano trasformato troppo in fretta facendolo vomitare. Il che era ancor più sconcertante di guardarsi allo specchio e vedervi riflessa una nuova versione di sé. Era straordinariamente bizzarro. Dopo tutto, lui era l'argilla che loro stavano modellando. Il barbiere si chiamava Franz e alla fine Bruno trovò il coraggio di chiedergli perché non sentisse nulla. Franz si stava lavando le mani. «Perché quelli che ti stiamo provando sono tutti morti. Ti mettiamo addosso il loro corpo come se fosse un vestito e dal momento che loro non sentono più niente, non senti niente neanche tu». «Dove li prendete?». Bruno era un po' schizzinoso riguardo a certe cose. Non gli piaceva l'idea di indossare quei cadaveri appena tirati fuori dalla tomba, a cui era stata data soltanto una spazzolata approssimativa, come a un giubbotto in un negozio dell'usato. «Non ti preoccupare. Li prendiamo mentre muoiono: cadono nella nostra rete come trapezisti del circo». Il barbiere si asciugò le mani su un asciugamano rosso. Gli altri erano riuniti alle spalle di Bruno a discutere. «Il tipo che sei adesso è appena finito in un precipizio lungo la strada di Dubrovnik. Un turista tedesco che guidava troppo velocemente la sua nuova O-
pel. Ti proviamo soltanto cadaveri freschi, Bruno. Ce n'è sempre in abbondanza di gente che muore». Quella spiegazione l'aveva fatto sentire meglio? Non ne era sicuro. Il tipo che aveva portato le paste disse: «Franz, siamo tutti d'accordo su una cosa. Deve avere l'aspetto di uno che si è fatto un bel viaggio attraverso la notte. Capisci cosa intendo, no?». Stavano tutti fissando Bruno adesso. L'uomo che aveva parlato si posò quattro dita sul mento. «Quest'uomo vende telefonicamente abbonamenti a qualche rivista sconosciuta o altre sciocchezze che nessuno vuole. Vive da solo e si prepara i pasti in un forno a microonde da quaranta dollari. Non è ancora del tutto invisibile, ma ci manca poco perché lo diventi». «Perché è importante che io sia invisibile?». Gli rispose il ballerino di tip tap: «Ci sono due categorie di persone invisibili: gli anziani e le non entità come questo Dean che ti abbiamo appena descritto. Sulla terra invecchiare corrisponde a diventare gradualmente invisibili. Non te ne sei mai accorto? L'unica volta in cui la gente nota i vecchi è quando combinano qualche guaio, quando sono intrattabili, o quando muoiono. Altrimenti nessuno li vede, perché non contano nulla. Non possono più contribuire in nessun modo al mondo se non attraverso quello che hanno imparato nella vita, e chi vuoi che abbia voglia di starsene seduto ad ascoltare i loro racconti? La seconda categoria di invisibili è quella dei falliti. Come i vecchi, non hanno alcun tipo di influenza sull'esistenza degli altri, quindi non contano nulla. La loro vita è come una cartaccia che svolazza per strada: te ne accorgi soltanto se attraversa il tuo campo visivo. E un secondo dopo te ne sei già dimenticato. Del resto, perché non dovresti? Noi li chiamiano "sonnambuli" e li usiamo perché nessuno si accorge di loro. Quando muoiono, c'è una cartaccia in meno sul pianeta, tutto qua. Ettrich avrà dei sospetti adesso, dopo quel tuo stupido falso allarme, quando gli hai telefonato per dire che gli altri sapevano che eri morto. È stato un grosso errore. Non hai fatto lavorare il cervello: avresti dovuto pensarci un po' meglio prima di fare quella stupida telefonata, ma eri troppo contento di avere avuto quella gran trovata. Avresti dovuto aspettare e fare quello che dovevi fare, prima. Così, invece, ti sei lasciato fregare dalla sua ragazza che ha telefonato immediatamente alla moglie di Ettrich e ha scoperto in un batter d'occhio come stavano veramente le cose. Adesso basta errori, basta Pemmagast, basta casini. Non c'è più tempo. Ti trasformeremo in un sonnambulo, così puoi fare quello che vuoi perché nessuno ne-
anche si accorgerà della tua presenza». Gli altri annuirono incrociando le braccia come a indicare che la discussione era conclusa. «No». «Cosa? Hai detto no?». «Già, proprio così». Bruno si grattò il naso, o meglio grattò il naso del turista tedesco. «Non mi piace quest'idea. Non sono d'accordo». L'uomo delle paste guardò gli altri e chiese: «Perché, Bruno?». «Perché io Vincent Ettrich lo odio. Quando lo prendo, voglio che sappia che sono stato io a fargli il culo e non un idiota di tedesco che non ha mai visto prima». «Lo odi? E perché mai? Non è altro che uno stupido che sa solo correre dietro alle gonne. Perché dovresti fare la fatica di odiarlo?». Bruno scosse la testa. «No, non è così. La sua ex moglie una volta ha detto che è come uno di quei piccioni che stanno per essere investiti da una macchina mentre gironzolano in mezzo alla strada. Ogni volta, quando mancano solo pochissimi centimetri per finire schiacciato sotto le ruote, riesce a volare via. È un uomo fortunato e io detesto la fortuna. In più, non se la merita. Non si merita di scappare, non si merita di essere di nuovo qui... Com'è potuto diventare il padre di quel bambino? C'è qualcuno che me lo può dire? Come ha fatto un simile babbeo a diventare il padre di quel bambino?». «Lascia perdere, Bruno», disse Franz a bassa voce. «Perché? Non si può neanche fare una domanda?». «Perché anche se non è ancora nato, quel bambino è più pericoloso di te, di noi, del Re del Parco, di chi vuoi. Se nasce e impara a usare i suoi poteri, siamo tutti nella merda sino al collo. Non c'è modo di sapere cosa stia facendo o cosa stia pensando... Potrebbe essere qui ora e noi non lo sapremmo. Quindi ti consiglio seriamente di evitare di parlare di Anjo. Meno dici, meglio è». Bruno si guardò intorno. Era chiaro dalle espressioni di quegli uomini che a nessuno di loro faceva piacere sentirlo nominare. «D'accordo, ma vi devo chiedere un'ultima cosa: se Anjo è così potente, come facciamo a sconfiggerlo?». «Noi non possiamo far niente contro di lui, ma i suoi genitori sì. Li convinceremo a farlo fuori». E Anjo era lì davvero. Era nel pettine verde che Franz aveva usato per li-
sciare la nuova, orribile capigliatura di Bruno. Poi in un pezzo di ciambellina al cioccolato, mentre scendeva in gola a uno di quegli uomini. E si dondolò, fece piroette e giravolte sul nervo ottico di Bruno per controllarne l'elasticità. Non si perse una sola parola di quegli uomini. Sentì che volevano la sua morte. Avrebbe voluto che anche suo padre li ascoltasse per poter capire come stavano le cose, ma gli era impossibile penetrare nella mente di Ettrich. C'erano così tante cose che avrebbe voluto dirgli, ma non era mai riuscito a parlargli. Come mai? Ci aveva provato così tante volte. Con sua madre era stato facile fin dall'inizio. Ma con lui nessun tentativo era andato a buon fine. Anjo era fuori quando gli uomini uscirono dal negozio. Era un piccione marrone e nero fermo in mezzo alla strada che aspettava che arrivasse una macchina. Voleva vedere come ci si sentiva a sollevarsi all'ultimo momento e non lasciarsi schiacciare. Voleva saperlo perché era così che Bruno aveva descritto suo padre. Anjo voleva sapere tutto di Ettrich, anche quello che gli altri dicevano di lui. Ma era l'alba e le strade erano vuote. Passeggiava tutto impettito, muovendo su e giù la sua testolina, tubando e goglottando sommessamente di tanto in tanto. Ah, è così essere un piccione, allora. Gli uomini si erano fermati fuori del negozio a chiacchierare e fumarsi una sigaretta. Quando Franz si schiarì la gola e sputò in mezzo alla strada, lo vide e per alcuni deliziosi secondi il barbiere osservò il piccione. Lo aveva riconosciuto? Sapeva che lui aveva sentito tutto e stava già programmando come infliggere loro una bruciante sconfitta? Becchettando e tubando, l'uccello continuò a muoversi in cerchio senza perdere d'occhio un solo istante l'uomo con il camice bianco a tre metri di distanza da lui. Il rumore di un camion che si avvicinava si fece sempre più distinto. L'uccello lo udì ma continuò a guardare il barbiere. Attese fino all'ultimo secondo, finché l'ombra del camion non lo coprì e non gli rimase che un istante per spiccare il volo. E proprio in quell'istante spiccò il volo e sfuggì alle ruote del camion, ma accadde qualcosa che fece volare per aria anche qualcos'altro. Nel momento esatto in cui il piccione si sollevò da terra, le prime formazioni cellulari del cervello di Anjo raggiunsero quell'istante miracoloso in cui inizia a svilupparsi la struttura cerebrale centrale. Da un secondo all'altro divenne completamente umano e dimenticò ogni cosa. Dimenticò il pettine verde. Dimenticò il cane che aveva protetto Isabelle nel ristorante,
e Abramo Lincoln. Il piccione volò via e Anjo fu di nuovo nella pancia di sua madre, per sempre, un bambino come tanti che aspetta di nascere. Un sandwich d'acqua «Per gli uomini il sesso è come andare in palestra. Per le donne è come andare in chiesa». «Hai davvero scritto una cosa simile, Vincent? Sei un porco». Ma Isabelle stava sorridendo. Era seduta con le spalle alla parete, con le ginocchia piegate contro il petto, alle spalle di Ettrich che, accovacciato dentro all'armadio con una torcia in mano, le leggeva quello che aveva scritto sul muro. Era stata un'idea di Isabelle. Magari potevano trovarvi qualcosa che poteva esser loro d'aiuto. Al momento non era venuto in mente niente di meglio. «Alla fine solo gli sciocchi se la cavano». «Perché mai hai scritto una frase così sul muro? Al buio, nel tuo armadio?». «Perché pensavo fosse meglio scrivere tutto quello che mi veniva in mente, così quando avessi cercato di ritrovare la strada per tornare indietro, qualcosa prima o poi mi avrebbe fatto suonare un campanello in testa». Lei sentì all'improvviso un grosso glump nella pancia. Allarmata, chinò la testa per capire cosa fosse. Non aveva mai sentito niente di simile: come se qualcuno avesse gettato una grossa pietra in uno stagno. Domandò ad Anjo se andava tutto bene, ma non ottenne risposta. Era strano, ma qualche volta non le parlava per giorni e giorni. L'aveva spinta a chiedersi se non sarebbe stato un bambino lunatico. Vincent sgusciò fuori dall'armadio gattonando. «Ti ricordi le mie cinque domande?». «Quelle che mi hai fatto a Cracovia?». «Sì. Te le ricordi?». Isabelle sollevò la testa e chiuse gli occhi. «Quali tre pasti del tuo passato vorresti rifare? Quali due oggetti vorresti possedere ancora? Quale azione vorresti ritirare o cancellare dalla tua vita? Mah, non ricordo le altre due». Ettrich strisciò verso di lei e le si accovacciò accanto nella sua stessa posizione. «Quale persona vorresti rivedere e quale esperienza vorresti poter rifare?». «Giusto. Adoro queste domande. È meraviglioso giocarci. Ti fanno tor-
nare indietro e ripensare alla tua vita, come se facessi le pulizie di Pasqua. Le hai scritte lì dentro?». «No, il che è strano perché sono esattamente il tipo di domande che metterebbero in moto la mia memoria». Gli posò una mano sul ginocchio. «Che vuoi dire?». «Che penso che qualcuno sia stato qui e abbia cancellato alcune cose. Ne sono quasi certo. Come queste domande, ad esempio. Ma soprattutto quando mi sono venute in mente queste domande, mi è venuta in mente un'altra cosa». «Che cosa, Vincent?». Il viso di lui si illuminò come se stesse per raccontarle una storia meravigliosa. «Quando muori, ti insegnano a fare i sandwich d'acqua». «Eh?». «Vuoi vedere?». «Be'... sì. Immagino di sì». «Vieni». Ettrich si alzò e la prese per mano. «Mi è tornato in mente nello stesso istante in cui mi sono ricordato quelle domande». Ettrich condusse Isabelle in cucina e le fece cenno di sedersi a tavola. E a lei venne ancora una volta da pensare a quanto doveva essere stato doloroso per lui starsene seduto lì da solo tutti quei mesi a mangiare piatti comprati in un triste take-away cinese. Ettrich si accostò al lavandino e aprì il rubinetto. Unì le mani a coppa sotto il getto e le sollevò lentamente. Il flusso si spezzò perfettamente a metà formando due trasparenti girandole d'acqua in aria. Abbassò lentamente una mano e chiuse il rubinetto: l'acqua che aveva sollevato continuò a roteare in aria. Isabelle si coprì la bocca con una mano come un bambino e rimase a guardare ipnotizzata. Vincent mise le mani sotto le due girandole d'acqua e iniziò a sagomarle e plasmarle come se fossero d'argilla. In pochi secondi modellò quel che sembrava un grosso sandwich: un sandwich d'acqua, trasparente, cristallino. «Santo cielo, Vincent, come hai fatto?». «Te l'ho detto: te lo insegnano lì. Questa è una delle prime cose che ho fatto. Non è assurdo un sandwich d'acqua? Ma è l'unica cosa che mi è venuta in mente in quel momento». «Quando? Dove?». «Quando ero morto, Fizz. E ora mi sono appena ricordato come si fa».
«È meraviglioso, ma perché sei così eccitato?». «Sono eccitato perché è la prima cosa che mi ricordo di quando ero morto». Isabelle lo guardava con attenzione, ma senza sembrare particolarmente impressionata. «È questo che succede quando si muore, ti insegnano a modellare l'acqua?». Le faceva venire in mente uno di quei corsi per dilettanti in cui una signora di mezza età con un ampio camicione e un basco nero insegna ad altre signore di mezza età i segreti della pittura a olio. «Ma è la morte, Ettrich. Ci deve essere qualcosa di più...». Sentendo lo scetticismo di Isabelle, Ettrich le rispose con fervore: «C'è. Ti insegnano che tutto quello che una volta avevi pensato fosse soltanto così, in realtà è anche così, e così... e così». Spinse il sandwich d'acqua verso di lei. «E adesso guarda». Fece scorrere una mano sopra il sandwich e quello sprigionò una fiamma azzurra. «Si può far bruciare l'acqua. La puoi rendere compatta e resistente come una pietra o soffice come la seta. Quando sei vivo pensi che l'acqua sia solo acqua. Ma non è così. E questa è soltanto una delle cose che si imparano lì. Ho ricordato anche un'altra cosa». «Della morte? Cosa?». «Ecco, tieni». Ettrich si mosse verso di lei con il sandwich in mano, così che quando lei fece per alzarsi e fu sul punto di chiedere: «Come faccio a prenderlo?», glielo gettò in faccia. Quell'acqua le appannò la vista per qualche istante. Isabelle era scioccata. Perché mai Vincent aveva fatto una cosa simile? Ma quando riaprì gli occhi, strofinandoseli per mandare via l'acqua, Isabelle non si trovava più nella cucina di Vincent, con lui. Era in una stanza che riconobbe immediatamente: si trattava di un luogo di grande gioia per lei. Era una camera da letto dalle pareti coperte di quadri. Disteso a letto c'era qualcuno che guardava la televisione: era la nonna di Isabelle, morta cinque anni prima. Aveva vissuto gli ultimi anni della sua vita con la famiglia di Isabelle, aiutando ad allevare i bambini. La adoravano tutti. Una delle cose che piaceva di più a tutti i nipotini era arrampicarsi nel letto della nonna ogni mattina e guardare la televisione con lei. Guardavano i loro programmi preferiti e le si stringevano accanto sotto il pesante piumone che odorava un poco della sua crema per le mani. Di prima mattina non c'era posto migliore di quello in cui infilarsi. «Isabelle, komm zu mir». La vecchia signora sorrise e le fece lentamente
cenno di avvicinarsi con la sua mano delicata: un gesto incredibilmente familiare. Isabelle esitò un attimo, ma anche dopo tanti anni, non poté resistere a quell'invito e le si avvicinò. Si sedette sul bordo del letto e rischiò quasi di svenire quando sentì in televisione la musica tradizionale che in Austria accompagnava le previsioni del tempo. Alla nonna era sempre piaciuto essere aggiornata sulla situazione meteorologica del paese. Non sembrava affatto sorpresa di vedere Isabelle. Si mise a chiacchierare del più e del meno, in quel modo inimitabile che aveva di raccontarle le solite piccole cose, niente di particolare, quelle di cui aveva sempre parlato, che rendeva ancora più cari a Isabelle quei piccoli eventi. Isabelle sentì qualcosa dietro di sé e si voltò. C'era Vincent sulla porta, sorrideva. Lei cercò di rispondere al suo sorriso, ma l'impatto emotivo di quel momento e di quell'esperienza l'avevano lasciata senza parole. Riuscì soltanto a sollevare le mani verso di lui per poi lasciarle cadere pian piano di nuovo sulle ginocchia. Vincent annuì, comprendendo cosa provava. A Cracovia quella sera Isabelle gli aveva detto che la persona che avrebbe voluto rivedere era lei, quella donna che Isabelle amava più di ogni altro al mondo. La nonna si era rimessa a guardare la televisione, come se fosse del tutto ignara della presenza di Ettrich. «È questa l'altra cosa di cui mi sono ricordato, Fizz. Ti va se ti lascio un po' qui?». «Qui? Certo, ma perché, tu dove vai?». «Torno in ospedale. A prima della mia morte. Ci deve essere qualcosa in quel periodo che ci può aiutare», disse guardando la nonna di Isabelle. Anche lei la guardò, poi rivolse lo stesso sguardo d'amore verso di lui. «Non riesco a credere che sei stato capace di fare una cosa simile». «Com'è rivederla?». «Ci sono così tante cose che vorrei raccontarle, Vincent. Posso? Voglio dire...». «Sì che puoi. È come il sandwich d'acqua: noi pensiamo che il tempo sia fatto soltanto di passato, presente e futuro, ma in realtà è molto di più. Le puoi raccontare tutto quello che vuoi e non succederà niente. Appena vuoi tornare, chiamami. Io ti sentirò e ti riporterò indietro in un attimo, OK?». «Sì, a te non succederà niente, vero?». Stava per rispondere: Certo; ma la verità era che non lo sapeva e non voleva mentirle. «Lo spero. Ma ascolta, se qualcosa dovesse andare storto, tu rimarrai qui. Sei tornata a cinque anni e mezzo fa, a Vienna, naturalmente.
L'unica cosa che devi fare è spiegare alla tua Oma perché sei incinta. Mi sono dimenticato, com'è che si dice in tedesco?». «Schwanger. Le dirò che è figlio dell'amore. Ne sarà felice. Diceva sempre a mia madre che era troppo bacchettona». «D'accordo. Se hai bisogno di me, chiamami. Ma qui sei al sicuro: non possono toccare né te né Anjo». «Non sono preoccupata per noi. Anjo mi ha sempre protetto». «Comunque mi fa piacere sapere che sei qui e non là. Torno a prenderti appena posso». Le prese la mano, gliela baciò e se ne andò. La nonna si voltò verso di lei e le disse: «Komm hier, Schatz. Sag mir alles». Isabelle si distese accanto a lei. Dopo un ultimo sguardo alla porta, si voltò verso la nonna e cominciò a raccontare. Lei, com'era suo solito, continuò a guardare la televisione, ma Isabelle sapeva che non si perdeva una parola di quello che le stava dicendo. Ettrich fece un salto nel suo appartamento giusto il tempo di prendere le poche cose di cui aveva bisogno. Quindi tornò nel passato. Mezz'ora dopo qualcuno bussò alla porta. Passato qualche minuto, senza che nessuno avesse risposto, la porta si aprì ed entrò Bruno Mann. O meglio l'uomo che era diventato. Aveva in mano una dozzinale valigetta di finta pelle, come se avesse intenzione di vendere qualcosa. Di solito Bruno non esitava a entrare senza fare tanti complimenti, ma con grande sorpresa di tutti Ettrich si era dimostrato pericoloso e molto più in gamba di quanto non si potesse prevedere. Gli era stato consigliato di fare molta attenzione. «Salve. C'è nessuno in casa?». Era ovvio che se ci fosse stato qualcuno non sarebbe stato tanto felice di vederlo entrare in quel modo. Ma lui avrebbe trovato la maniera di rimettere a posto le cose. Quell'uomo tarchiato con i capelli alla Giulio Cesare sapeva essere convincente. Con una certa sorpresa, non trovò nessuno. Poteva essere una buona cosa, però, perché gli dava la possibilità di dare un'occhiata all'appartamento di Ettrich senza essere disturbato. Non c'era mai stato ed era curioso di vedere come viveva Vincent. Fu sorpreso da quell'appartamento arredato in maniera tanto spartana. Aveva sempre immaginato che Vincent Ettrich, con un'esistenza piena zeppa di donne come la sua, avrebbe avuto una casa altrettanto traboccante di mobili. Ma non era così.
Quando fu certo di essere solo, Bruno ispezionò ogni stanza aprendo a caso armadi e cassetti. Trovò una foto, la prese in mano e si domandò quando fosse stata scattata. Guardò nel guardaroba e sotto il letto. C'era una mela in una ciotola sul banco in cucina. Felice di poter prendere l'ultima rimasta, la addentò con gusto mentre continuava a ispezionare la stanza. In un cassetto scoprì una marea di bacchette cinesi e di pacchettini bianchi di salsa di soya. Su una mensola sopra il lavandino c'erano due vasetti di sottaceti inglesi, Branston Pickles. Bruno era stato in Inghilterra con Vincent. Avevano cenato insieme da Langan's, un bel ristorante di Londra. Era andato tutto bene finché Vincent non aveva messo gli occhi su una donna affascinante seduta davanti a loro. Da un istante all'altro aveva perso ogni interesse per la compagnia del collega. Ferito nel proprio ego, Bruno aveva ricambiato con un maligno scherzetto del tutto gratuito, che più tardi aveva reso la morte di Ettrich un po' più squallida e triste. Bruno preferiva colpire le sue vittime con una lunga, incessante, successione di piccole crudeltà piuttosto che con un unico, grandioso affondo teatrale. Gli piaceva lavorare di cesello, tramite piccoli interventi successivi, finché della sua preda non rimanevano che le briciole. Quando Vincent Ettrich stava morendo di cancro, Bruno si era inventato una fantasiosa gamma di strategie per ricordargli cosa avrebbe presto perso per sempre e con che velocità gli altri si sarebbero dimenticati di lui. Il suo odio per Vincent era costituito in piccola parte di gelosia e di noia, in buona parte di puro disprezzo per la razza umana e, per finire, del semplice fatto che Bruno Mann era una merda totale. Era certo che proprio per quello era caduta su di lui la scelta del nuovo Re del Parco. Esaminò i CD e i libri di Ettrich. Si domandò se ci fosse qualche ragione particolare per cui Vincent possedesse quattro copie della Certosa di Parma di Stendhal. Le aprì una per una alla ricerca di biglietti amorosi incriminatori, conti non pagati, o qualsiasi altra cosetta che prima o poi avrebbe potuto tornargli utile per mettere Vincent nei pasticci. Qualsiasi cosa. Continuò a guardarsi attorno fischiettando tutta una serie di canzoni di Barry Manilow. Oh Mandy era la più ricorrente. Trovò alcune foto dei figli di Vincent, una di Isabelle con addosso delle mutandine bianche di cotone e un paio di stivali da cowboy in mano, una della sua ex moglie avvolta in una vestaglia di seta verde. Accostando le fotografie delle due donne, Bruno le scrutò cercando di decidere quale avrebbe scelto. Rammentò che l'unica volta che aveva incontrato Kitty lei era stata gentile, ma piuttosto distaccata.
In quel momento squillò il telefono. Bruno si avvicinò all'apparecchio e, posandovi sopra una mano, cercò di decidere se rispondere o no. Era in grado di fare un'imitazione perfetta di qualunque voce umana, Ettrich compreso, ma era indeciso se fosse il caso o meno e alla fine scattò la segreteria telefonica. «Ehi, papà, sono Jack, il tuo superfiglio». Bruno ascoltò attentamente Jack che chiacchierava, ripetendone le frasi in modo da allenarsi a imitare la sua voce. Era profondamente irritante sentire quell'uomo di mezza età dire a suo padre quanto gli voleva bene con quella vocetta infantile. Quando la cosa cominciò a diventare monotona, Bruno cercò di pensare come avrebbe potuto usare Jack, sua sorella e sua madre, o tutti e tre insieme, per fare Ettrich a brandelli. Trovò una caramella in fondo alla tasca, la scartò e se la mise in bocca. «Be', direi che è tutto, papà. Ti richiamo dopo». Jack chiuse il telefono e la segretaria amplificò il tu-tu della comunicazione interrotta. Bruno lo imitò con un suono gutturale. Ci doveva pur essere qualcosa in quell'appartamento che non aveva visto o su cui non si era soffermato. Doveva riuscire a trovarlo. C'è sempre un segreto nelle case di ciascuno. Qualcosa di eccitante e, nello stesso tempo, di cui vergognarsi. Qualcosa che non vogliamo che gli altri sappiano che noi possediamo. L'appartamento di Ettrich era spartano, ma Bruno era certo che qualcosa d'importante c'era e che l'avrebbe trovato. La segreteria si spense e in casa tornò a regnare il silenzio, a parte il rumore di Bruno che succhiava la sua caramella. Anche quello si interruppe quando trovò quel che cercava. Appoggiata per terra accanto alla finestra, c'era la scatola di legno che Isabelle aveva portato da Vienna. «Oh-oooh, cos'è che abbiamo qui?». Bruno si faceva un punto d'onore di non masticare mai una caramella. Aveva la pazienza di succhiarla finché non si riduceva a un velo sottilissimo. Ma in quel momento era così contento di aver trovato quella scatola, che contro ogni suo principio inflisse con gioia un vittorioso morso alla sua caramella al butterscotch. Aveva trovato quello di cui aveva bisogno. Ettrich aveva commesso un errore. Era comprensibile del resto, perché gli era tornata in mente una tale montagna di ricordi della morte che l'impatto l'aveva quasi travolto. Era strabiliante come fosse riuscito a riportare Isabelle da sua nonna al primo colpo. In effetti, era stato proprio quello a
trarlo in inganno forse; era stato così semplice che aveva pensato: ehi, non è un problema. Sono capacissimo di fare quello che voglio. Invece non ne era affatto capace, e adesso ne aveva la dimostrazione. Non sapeva dove era finito, sapeva solo di trovarsi in una stanza d'albergo mai vista prima. A giudicare dalla carta da parati ingiallita e dal vecchio lavandino con un bidet in un angolo, doveva essere in Europa, ma non poteva esserne certo. Era sua intenzione tornare all'ospedale, ai giorni che vi aveva trascorso prima di morire, e non in una mediocre stanza d'albergo in Europa, chissà dove. Ma anche se non la riconosceva, quella stanza doveva far parte della sua vita, perché era così che funzionava: dalla morte si può viaggiare su e giù attraverso la propria vita come lungo una linea ferroviaria. Anzi, si veniva incoraggiati a farlo, perché studiare la propria esistenza, quasi fotogramma per fotogramma, era l'unico modo per acquisire una comprensione più profonda dell'esperienza appena conclusa. Quindi quella stanza doveva far parte della sua vita. Ma visto che non la riconosceva, la domanda era: di che parte si trattava? Non dovette aspettare molto per scoprirlo. Non era ancora riuscito a darsi un'occhiata intorno, che la porta si aprì ed echeggiò una risata femminile. Con sua grande sorpresa, era una risata che Ettrich conosceva, insolitamente profonda e sexy, era la risata di sua madre. Ma la ragazza che entrò nella stanza era molto diversa dalla donna che gli aveva preparato almeno cinquecento panini con burro d'arachidi e che riponeva con cura le mutandine di lui nell'apposito cassetto quando era piccolo. Aveva i capelli lunghi pettinati come una star del cinema degli anni Quaranta. Indossava un vestitino estivo leggero senza maniche blu e verde che metteva splendidamente in mostra il seno prosperoso e le lunghe gambe. Il vecchio Vincent Ettrich le avrebbe fatto una corte spietata se l'avesse incontrata a una festa. Comunque aveva visto delle foto di sua madre da giovane e sì, era proprio lei. Ma era anche estremamente diversa, perché questa era la vera Ruth Ettrich ed era davvero radiosa. Quella risata, il fruscio dell'abito attillato e ogni singolo centimetro delle braccia sottili e perfette... era uno schianto. Dietro di lei entrò un giovanotto: Stan, il padre di Vincent, naturalmente. Indossava una polo nera e un paio di vecchi jeans. Era magro e aveva un viso interessante, tanto da apparire bello. E aveva una testa piena di capelli, il che affascinò molto Ettrich, perché l'aveva sempre visto calvo. Erano una coppia magnifica. Dovevano essere vicini alla trentina, ma Vincent
non aveva idea di quanti anni avessero esattamente. Suo padre appoggiò lentamente a terra le due valigie che aveva in mano esalando un sospiro di sollievo. Per la prima volta da anni Ettrich ricordò che il padre si lamentava sempre che la moglie metteva troppa roba in valigia ogni volta che andavano in viaggio da qualche parte. Ruth andò alla finestra e guardò fuori. Fece cenno a Stan di raggiungerla. Lui le si avvicinò, si fermò e le posò entrambe le mani sulle spalle. Come gli era familiare quel gesto! Quante volte Ettrich aveva visto i suoi genitori in quella posizione: suo padre, tanto alto da torreggiare sopra di lei, con le mani sulle sue spalle, e le mani di Ruth su quelle del marito. Ettrich fu colto da una dolorosa fitta d'amore e di rimpianto: gli mancavano così tanto tutti e due! Erano morti entrambi diversi anni prima in un orrendo incendio in un tunnel sulla Autobahn, in Svizzera, lasciandolo disperatamente solo perché, tra le altre cose, erano anche due meravigliosi amici per lui. «Oh, guarda che panorama, Stan. Guarda com'è bello». Ruth strusciò la guancia contro la mano del marito continuando a guardare fuori. Anche Ettrich avrebbe voluto dare un'occhiata a quella vista così bella, ma era talmente felice di essere in quella stanza insieme ai suoi genitori, di nuovo vivi davanti a lui, che non era necessario. Era soltanto buffo che fossero entrambi molto più giovani di lui. «Come si chiama questo posto?». «Recey». Ettrich ebbe un tuffo al cuore sentendo quel nome, perché adesso sapeva esattamente dov'era, cosa sarebbe successo e soprattutto perché si trovava lì. Quella stanza era stata teatro di una delle storie più belle della vita dei genitori. Da piccolo Vincent se l'era fatta raccontare infinite volte. Da suo padre o da sua madre, non faceva differenza, perché entrambi non si stancavano mai di ripeterla. Tre anni dopo essersi sposati, avevano entrambi ottenuto un incarico come insegnanti presso una scuola internazionale di Zurigo. Nessuno dei due era mai stato in Europa, così erano partiti durante l'estate, qualche mese prima che iniziasse la scuola, avevano affittato una macchina e se n'erano andati in giro a esplorare quel nuovo mondo. Una sera, vicino al confine franco-svizzero, si erano fermati in un piccolo paesino francese. Sfiniti dalla lunga giornata in macchina, erano stati indirizzati verso l'unico auberge di Recey. Da fuori non faceva una gran figura, ma vista l'ora, sapendo che non avrebbero trovato nient'altro vicino,
avevano deciso di fermarsi. Erano rimasti incantati nel vedere l'interno del piccolo albergo e la magnifica vista che si godeva dalla finestra della loro stanza: un grande prato e un gregge che stava pascolando. La sala da pranzo dell'albergo sembrava uscita da una fiaba. Chiare ghirlande di aglio e lunghe collane di cipolle rosse erano appese alle grosse travi di legno del soffitto. In un grande camino alto un metro e mezzo scoppiettavano grossi ceppi di pino. Il fuoco riscaldava lo sconnesso pavimento di pietra; Ruth si sfilò i sandali di gomma e iniziò a far strisciare lentamente i piedi sul pavimento. Furono accolti festosamente dal gigantesco levriero irlandese del proprietario dell'auberge che non li lasciò più un solo istante. C'erano soltanto altre due coppie nel ristorante quella sera. Entrambe cenarono in fretta e lasciarono gli Ettrich soli ad assaporarsi un bel piatto di costolette di agnello e di verdure appena colte. Poi avevano bevuto Calvados in grandi bicchieri da brandy, perché fuori si era fatto freddo e poi perché quello era il liquore preferito di SaintExupéry. Nella sua borsa, di sopra, Stan aveva una copia di Vento, sabbia e stelle e ogni sera prima di addormentarsi ne leggeva qualche pagina a Ruth. Una finestra della sala da pranzo era aperta, così che udirono con chiarezza i primi tuoni e l'arrivo di una pioggia fitta fitta che li fece sentire ancora più fortunati di trovarsi lì. Il proprietario, felice di avere per la prima volta degli americani nel suo établissement, aveva insistito che provassero la sua crème brûlée. Nessuno dei due l'aveva mai assaggiata, ma da quella sera divenne il dolce preferito di Ruth. Gli Ettrich fecero l'amore a lungo quella notte e nove mesi dopo nacque Vincent. Entrambi erano sicuri che fosse stato concepito proprio quella notte. Ne avevano anche avuto una magica conferma qualche ora più tardi. Verso le tre del mattino Stan si era svegliato ed era andato alla finestra. Aveva smesso di piovere e il chiaro di luna gettava su ogni cosa un velo d'argento. Era una notte luminosissima. Stan avrebbe voluto svegliare Ruth per farle vedere quel mondo argenteo, ma poi decise di non farlo. Era così bello, però, che voleva godersi quella scena ancora un po'. Senza far rumore, prese la sedia da sotto la scrivania e la accostò alla finestra. Nudo, seduto sulla sedia con i gomiti appoggiati al davanzale, osservò il prato deserto che si stagliava contro il cielo nero. Pensò alle pecore che vi avevano visto pascolare qualche ora prima. Trasalì ai pensiero che l'agnello che avevano mangiato quella sera a cena veniva probabilmente da
quel gregge. Ciò nonostante era stata una serata perfetta e adesso aveva davanti agli occhi un tale spettacolo. Pensò a come avrebbe potuto descriverlo a Ruth la mattina dopo. Amava le parole e amava fare quei racconti a sua moglie e osservarne il viso aperto e pieno d'interesse mentre lo ascoltava senza perdersi una sola parola. Era a quello che stava pensando, alle parole, quando il cane e il cervo erano apparsi in mezzo al prato: il pastore irlandese del ristorante e un cervo poco più grande di lui. Più tardi avevano pensato che dovesse essere un giovane cervo, non ancora intimorito di giocare con un cane più o meno della sua stessa taglia. In seguito, per anni gli Ettrich avevano chiesto a qualcuno più esperto di animali se avessero mai letto da qualche parte o sentito raccontare di un cane e un cervo che giocassero insieme, ma tutti avevano sempre risposto di no. Il che aveva reso quella scena ancora più speciale. Perché quella notte nel prato dietro il loro auberge fu proprio questo che accadde: quei due grossi animali si erano messi a rincorrersi, a saltare, a fare finte e lunghe scivolate; sembravano i migliori amici del mondo. Si arrestavano per un attimo e poi ripartivano in un lampo lanciandosi all'inseguimento, cambiando direzione e ritornando indietro come in uno strano gioco a nascondino, per poi sfrecciare via di nuovo come se avessero alle calcagna una muta di lupi o le fiamme di un incendio. Stan si avvicinò al letto per svegliare Ruth. Lei dormiva sempre molto profondamente e non le piaceva essere svegliata bruscamente. Stava per dirglielo quando vide il suo viso estatico ed eccitato, e il gesto con cui la incitava a seguirlo. Malgrado il pudore che di solito la spingeva a non mostrarsi nuda, Ruth si alzò e seguì il marito alla finestra senza darsi la pena di coprirsi. Era l'immagine dei propri genitori che Vincent aveva sempre amato di più immaginare: così giovani, in piedi davanti alla finestra senza un vestito addosso, a guardare quella danza mistica di un cane e di un cervo nel prato rischiarato dalla luna. Adesso erano a pochi metri da lui e tutto ciò accadeva sotto i suoi occhi. Alla vista dei loro corpi nudi, fermi davanti alla finestra, gli occhi gli si riempirono di lacrime. Poi gli venne un'idea meravigliosa e uscì in fretta dalla stanza senza che i suoi genitori se ne accorgessero, così come prima non si erano accorti della sua presenza. Voleva vederli da fuori. Voleva andare in mezzo al prato, voltarsi verso l'albergo e vederli incorniciati nella finestra della loro stanza. Voleva vedere quelle due persone tanto amate e l'espressione dei loro volti mentre osservavano il girotondo dei due anima-
li. In quella notte magica voleva vederli da ogni angolazione per poterli poi ricordare per sempre. Avendo sentito raccontare quella storia così tante volte, sapeva che gli animali avevano continuato a rincorrersi quasi per un quarto d'ora e che i suoi genitori erano rimasti a guardarli sino alla fine. Quindi non c'era bisogno che corresse, ma Vincent cercò lo stesso di uscire dall'albergo il più in fretta possibile. La scala ripida e scricchiolante, le carte da parati spaiate, i pungenti odori che giungevano alle sue narici: legno vecchio, fumo di pipa, minestra. Continuava a pensare: devo ricordarmi queste cose, devo ricordarmele. Ma un istante contiene così tanti fragilissimi dettagli. È un miracolo se siamo capaci di mantenerne in vita alcuni. Un grosso campanello d'ottone appeso alla porta gli rese alquanto difficile aprirla e richiuderla senza fare rumore. Per qualche breve istante ebbe la buffa sensazione di essere un bambino che sgattaiola fuori di casa all'insaputa dei genitori. Ma in realtà stava sgattaiolando fuori solo per guardarli da un altro punto di vista. Un sentiero ricoperto di ghiaia conduceva alla strada. Poi Ettrich dovette girare intorno all'albergo per raggiungere il prato sul retro. Correndo, cercava di non perdere di vista il prato e allo stesso tempo di osservare ogni cosa intorno a sé. Devi ricordartelo, questo, continuava a pensare. Guarda questo, e anche quello, e non dimenticarlo mai più. Girò intorno all'edificio e vide un muretto di pietra che separava il grande giardino e l'orto dell'albergo dal prato più in basso. Era un orto rigoglioso e mentre alcune piante risplendevano scure sotto quell'arcano chiaro di luna, altre emanavano un bluastro candore. A quel punto Ettrich cominciò a sentire il rumore degli animali. L'eco delle zampe che correvano sul terreno, il loro respiro affannoso mentre gli passavano accanto lungo l'ampio cerchio che disegnavano inseguendosi. Quei suoni gli fecero venire in mente una corsa di cavalli: il clamore degli zoccoli e il respiro accelerato e ansante degli animali al galoppo. Ettrich si fermò un istante con le mani sui fianchi a guardarli. Il cane spiccò un balzo e colpì il cervo sul fianco con una testata. Il cervo mugolò, ma non si voltò, continuò a correre: stava vincendo e non aveva nessuna intenzione di lasciarsi distrarre dai trucchetti del rivale. Era così bello guardarli che Ettrich dimenticò ogni cosa e rimase a fissarli incantato. Quando furono scomparsi, Vincent scavalcò il muretto e attraversò il prato madido di pioggia e di rugiada: dopo pochi passi la stoffa dei pantaloni gli si incollò alle gambe nude. Si riempì le narici del profumo fertile e
naturale di quell'universo bagnato di pioggia. L'autunno arriva spesso di notte ed è per questo che passa tanto spesso inosservato. Basta un mutamento di clima o un acquazzone come quello, ben più freddo di una pioggia estiva, che rinfresca a lungo il terreno anche al sopraggiungere del sole. Le nuvole che l'avevano portato non erano le nubi nere dei temporali d'agosto, ma le scure nuvole viola che più avanti porteranno con sé la neve. Anche se era ancora estate, Ettrich sentì l'autunno nell'aria quella notte ed ebbe la sensazione di essere l'unica persona al mondo ad avere avuto il privilegio di accorgersene. Camminò per una decina di metri in mezzo all'erba, poi si voltò e guardò su in cerca dei genitori. Erano lì, alla finestra. Li vide, giovani, dietro il vetro, che guardavano fuori. Suo padre era in piedi dietro sua madre. A quella distanza il corpo snello di Ruth era del colore dell'avorio. Teneva entrambe le mani premute contro il vetro come se avesse cercato di aprire la finestra per poter essere più vicina ai due animali. Ettrich avrebbe voluto fermare quel momento, quell'immagine dei suoi genitori. Avrebbe voluto baciarli e racchiuderli entrambi dentro di sé, così in profondità da non perderli mai più. Mentre guardava la finestra, sentì il cane abbaiare. Arretrò di qualche passo e inciampò in qualcosa rischiando quasi di cadere. Immaginando che si trattasse di una grossa pietra, guardò a terra e con sua grande sorpresa vide una scatola di legno. Cosa ci faceva lì? Mentre si chinava a raccoglierla, lesse «Hotel Sacher, Vienna». Si bloccò e il suo cervello andò in tilt. Riuscì a malapena a pronunciare un lungo «Cooooosa?», poiché quella era la scatola che Isabelle aveva portato da Vienna. Ne era certo. Lì, in mezzo a quel prato, in Francia, quarant'anni prima, sotto la stanza in cui era appena stato concepito, c'era la scatola che aveva visto quella mattina nel suo appartamento. Non la toccò. Avrebbe voluto prenderla in mano, ma qualcosa dentro gli diceva: Lasciala dov'è, allontanati. L'avevano trovato. Erano lì. Questo significava che avevano trovato anche Isabelle col bambino? Si rialzò un po' troppo in fretta. Perse l'equilibrio e barcollò. Spalancò le braccia per raddrizzarsi di nuovo. Doveva andarsene immediatamente. Il suo primo pensiero fu di raggiungere Isabelle e controllare se fosse al sicuro. Ma se loro non sapevano ancora dov'era, facendo così li avrebbe soltanto condotti dritti dritti da lei. Fece qualche passo a sinistra, si fermò, poi deviò a destra. Smarrito, in preda al panico, istintivamente guardò ancora una volta su. Per un attimo
scorse ancora i suoi genitori alla finestra. Ma non si rese nemmeno conto di chi fossero. Hietzl Bruno era deluso che Vincent non avesse aperto la scatola. Come per un magnifico picnic organizzato da uno chef d'eccezione, ne aveva predisposto il contenuto con la massima cura al fine di ottenere un risultato di grande effetto. Invece quel cretino era corso via senza neanche aprire la sua opera d'arte. Oh, va be'. Si avvicinò e la raccolse. Accostandola all'orecchio, la scosse un po', pensando con tenerezza a quel che conteneva: qualcosa di duro e metallico, che sferragliava. Magari poteva adoperarla più avanti. Sì. Forse sarebbe riuscito a trovare la situazione giusta per riutilizzarla, in un momento in cui Vincent sarebbe stato costretto ad aprirla. Se la mise sottobraccio camminando attraverso il prato, lanciò un'occhiata ai genitori di Ettrich alla finestra. Prima aveva visto i due animali rincorrersi. Conosceva bene tutta la storia e la trovava vagamente interessante, ma niente di più. Se fosse stato per lui, avrebbe cercato di rovinare quel ricordo di famiglia cooosì incantevole. Avrebbe potuto accoltellare uno dei due animali mentre spiccava un salto, oppure dar fuoco all'albergo, o avvelenare i croissant che Ruth e Stan avrebbero mangiato la mattina dopo a colazione. Si sarebbero beccati un'intossicazione alimentare coi fiocchi. Ma Bruno non aveva alcun potere di modificare il passato. Il caos non può toccare né alterare in alcun modo la storia, perché è già scritta. Il presente e il futuro sono facile preda di scompiglio e disordine, ma il passato è ormai determinato. Quel che è stato è, per sempre. No, per raggiungere il suo scopo, Bruno sapeva di dovere in qualche modo attirare Ettrich e Isabelle di nuovo nel presente. Lì sarebbero stati finalmente nelle sue mani. Mentre attraversava il prato bagnato di pioggia, passò mentalmente in rassegna una serie di modi diversi di ridurli in briciole. Presto sarebbe venuto il bello. Per Isabelle era difficile dire che effetto le facesse rivedere la nonna. Da un lato, era per lei una cosa meravigliosa. La nonna era esattamente come se la ricordava e tanti piccoli dettagli che Isabelle amava e aveva sempre ricordato con affetto erano di nuovo vivi davanti a lei. Ma c'era qualcosa che non andava, qualcosa che le impediva di essere
coinvolta al cento per cento in quell'esperienza. Non avrebbe però saputo dire cosa fosse, quale forza ineffabile la trattenesse dal vivere pienamente quell'incontro. «Ti ricordi Peter Jordan?». L'anziana signora era seduta a un tavolino accanto al letto e beveva una camomilla in una delicata tazza di porcellana Augarten. «No, nonna, chi era?». «Era un nostro amico in campagna. Dipingeva animali. Una volta in città era arrivato un circo con un vecchio cammello, molto malato. Poiché erano tutti convinti che stesse per morire, gli avevano chiesto se lo voleva. Lui l'aveva preso e il cammello era rimasto in vita altri cinque anni. La cosa più strana era andare a casa sua e vedere quel cammello accovacciato in cortile. Non faceva mai gran che... probabilmente era anche cieco da un occhio». «Peter Jordan o il cammello?». «Il cammello. Peter morì pochi giorni dopo il mio ottanta-treesimo compleanno. Era venuto alla festa. Ti andrebbe di incontrarlo?». «In che senso?». Isabelle sapeva che alla fine dei suoi giorni la nonna non era stata più tanto lucida e ogni tanto diceva strane cose. «Come in che senso? Ti va di incontrare Peter?». «Ma hai appena detto che è morto, nonna». «Anch'io lo sono, cara. E con questo?». Isabelle si sedette lentamente sull'altra sedia davanti al tavolo. «Tu sai di essere morta?». «Certo. È un uomo molto interessante. Sono sicura che ti piacerebbe». «Nonna, non voglio incontrare Peter Jordan. Voglio che mi spieghi quello che hai appena detto». «Cosa, che sono morta? Cosa c'è da dire? Lo sapevi, no?». Si versò un altro po' di camomilla con mani lievemente tremanti, come sempre. Toccando l'orlo della tazza la teiera tintinnò. Quindi la nonna ripose con cura la teiera sul tavolo. Come al solito strinse subito la tazza tra le mani per goderne il calore. Vide lo sguardo di Isabelle sulle sue mani minute e coperte di macchie scure. «Quando ero giovane non ci sarei mai riuscita. Ero estremamente sensibile sia al caldo che al freddo. Non potevo neanche mangiare il gelato perché era una tortura per i miei denti. Ora, guarda, sono come una di quelle lucertole al sole». Isabelle, che amava la nonna forse più di ogni altra persona al mondo, in quel momento avrebbe voluto scuoterla con violenza. «Nonna, parlami di questa cosa. Lascia perdere le lucertole. Sai di essere morta e da quando
sono arrivata non mi hai detto niente al riguardo». L'anziana signora sorseggiò a lungo la sua camomilla calda prima di rispondere. Vi soffiò dentro e dalla tazza si sollevò una nuvoletta di vapore. Con un'espressione di disappunto disse: «Isabelle, sapevi benissimo che ero morta quando sei venuta qui. Di cosa sei tanto sorpresa adesso?». Isabelle si sentì gelare da un improvviso senso di colpa, come se fino a quel momento avesse preso in giro la nonna non riferendole quello che sapeva. «Ma tu come fai a saperlo?». «Credimi, quando uno è morto lo sa». «Volevo dire...». La nonna annuì. «Lo so che cosa volevi dire. Tutto quello che vedi in questa stanza è un po' strano. Te ne sei accorta? Guardati bene intorno. È perché questa stanza è stata creata dai nostri ricordi. Così, se guardi più attentamente, ti accorgerai che le cose non sono esattamente come dovrebbero essere». Isabelle conosceva quella stanza alla perfezione. Negli ultimi anni della sua vita la nonna era raramente uscita di lì, se non per andare in bagno. Isabelle vi aveva trascorso talmente tante ore che anche senza volerlo ne aveva memorizzato ogni dettaglio. Ma adesso, come se quel luogo così familiare si fosse bruscamente trasformato in un nemico, esaminò atterrita quella stanza che aveva conosciuto così bene per così tanto tempo. La nonna si protese verso di lei e le strinse una mano per tranquillizzarla. «Non c'è niente di cui aver paura. Mi hai visto un minuto fa mentre bevevo la camomilla? Hai visto come ho arricciato il naso? E stato perché la camomilla è diventata all'improvviso cioccolata calda». Isabelle dimenticò il suo spavento e disse: «Bevevamo sempre una tazza di cioccolata calda. Quasi ogni pomeriggio, quando tornavo da scuola. Era un rito». «È vero, ma ora ti posso confidare un segreto. Io detesto la cioccolata calda. Mi sembra che mi si attacchi alla gola come uno strato di muschio». Isabelle scoppiò a ridere. Per anni, tornando da scuola, era corsa nella stanza della nonna per raccontarle tutto della giornata. E lì, seduta al suo tavolino accanto al letto, c'era sempre la nonna ad aspettarla con un bricco di kakao e vaniglia kipferl. Scoppiò ancora a ridere. «Dopo tutti questi anni, la verità». «Già. Ci sono dei vantaggi nell'essere morti. Uno di questi è di non dover più bere kakao. Ma per tornare a quanto stavo dicendo, immaginavo di
avere della camomilla nella tazza, mentre tu pensavi al kakao che avevamo sempre bevuto insieme, e il tuo ricordo, più potente del mio, all'improvviso ha trasformato la mia camomilla in una tazza di kakao». «Se questa non è la tua stanza, nonna, dov'è che siamo?». «Dove? Be', io sono morta e tu mi sei venuta a trovare. Il tuo fidanzato ha chiesto se potevi stare qui un po' mentre lui cercava di mettere a posto le cose». «È questa la morte?». Con una certa riluttanza Isabelle girò lo sguardo intorno a sé. «È un posto a metà strada tra la vita e la morte. Tu sei venuta da una parte, io dall'altra, e ci siamo incontrate». La nonna fece il sorriso che, come Isabelle ricordava bene, le appariva sul viso ogni volta che stava per dire qualcosa di spiritoso. «Siamo a una fermata della Autobahn tra Salisburgo e Vienna. Se hai bisogno di andare in bagno, non aspettare». «Proprio come diceva sempre la mamma prima di andare da qualche parte. Sai dov'è Vincent adesso?». «No, cara». «Puoi fare qualcosa per aiutarlo?». «No, cara. Tutto questo è piuttosto nuovo per me. Ho appena cominciato a capire come osservare gli episodi della mia vita con una certa obiettività. Non ho nessun potere speciale». Isabelle ricordò cosa le aveva detto Coco circa il passaggio in purgatorio prima di raggiungere il mosaico. «Come funziona?». «Potrei anche dirtelo, ma non capiresti. Non per colpa tua, ma perché la vita deve essere conclusa, prima di poter essere vista con chiarezza. Non devi più avere nulla in gioco, nessuna aspettativa, nessun progetto... Se ti raccontassi quello che ho imparato, sarebbe come provare a spiegarti qualcosa nel bel mezzo di un orgasmo». «Nonna!». «È così. È la differenza tra la calma chiarezza alla fine del sesso e il momento dell'orgasmo». Isabelle sorrise maliziosa. «Pensavo che la vita fosse un cabaret. Ora mi dici che è un orgasmo?». Ettrich aprì gli occhi lentamente per paura di quel che avrebbe visto. E aveva ragione di avere timore, perché ciò che vide non era affatto quel che aveva sperato di vedere. Aveva di nuovo provato a tornare in ospedale, ai giorni che avevano preceduto la sua morte, invece era chissà dove, all'a-
perto, di notte. Vide le fiamme di un falò e tra lo scoppiettio e il crepitio del fuoco udì lo sciabordare delle onde sulla riva. Sollevando la testa per guardarsi attorno, scoprì di essere su una spiaggia. C'era un fuoco acceso a una decina di metri. Mentre si domandava dove diavolo fosse finito, sentì una voce di Medusa e si bloccò impietrito. Era un'espressione di Isabelle quella, voce di Medusa, per descrivere la paralisi totale che coglie talvolta nell'udire una voce familiare. Una voce che non si sente più da chissà quanto tempo magari, ma che quando si riascolta e si riconosce, ti trasforma in un blocco di pietra. Quella voce di Medusa era acuta e nasale, con una sola tonalità, una sola modulazione, una sola inflessione piagnucolante. L'unica cosa che era capace di fare era piagnucolare. Che fosse felice, addolorata, in preda alla disperazione o all'apice dell'estasi, qualunque cosa, quella voce assomigliava sempre e comunque a un piagnisteo, un belato, un gemito, un mal di pancia. «Non potresti almeno aspettare che sia buio così non ci vedono?». Era quella frase che l'aveva paralizzato. Non era stata solo colpa della voce, ma anche di quelle parole: era una delle frasi più indimenticabili del suo passato, scolpita nella sua anima a colpi di mazza e scalpello. Lei era distesa sotto di lui, sulla sabbia. Con la coda dell'occhio Ettrich riusciva a vedere i suoi pantaloncini gialli. Non c'era bisogno che la guardasse in faccia per sapere che era Gigi Dardess, la prima ragazza con cui aveva fatto l'amore. Aveva un viso piacevole, un corpo accettabile, una pessima reputazione, e quella voce. Vincent, sedicenne, l'aveva invitata alla festa di fine anno perché voleva a ogni costo perdere la sua verginità e tutto faceva pensare che Gigi fosse la ragazza più adatta allo scopo. Come tutti i ragazzi del pianeta, Vincent aveva sperato e pregato che una delle stelle della scuola, Andrea Schnitzler o Jennifer Holbert, gli dicesse magicamente di sì un giorno. Ma per quelle ragazze era come se Vincent Ettrich fosse invisibile, e nel profondo del cuore le capiva anche. Così, come la maggior parte dei ragazzi del pianeta, fu costretto ad abbassare un po' il tiro, e poi ancora un po', e ancora un po', finché alla fine non si inabissò come un sottomarino. Un giorno, guardando fuori dal boccaporto, vide Gigi Dardess nuotare a cinque leghe di profondità. Non parve sorpresa quando Ettrich la invitò alla festa. Anzi accettò con un sospiro e un semplice «OK» senza neanche guardarlo negli occhi, come se andare alla festa con lui fosse più un dovere che un piacere. Ciò nonostante, eccoli li due settimane dopo, e le cose tra loro avevano
preso il via piuttosto in fretta. Non appena si era fatto buio, le coppiette si erano allontanate dal gruppo in direzioni diverse lungo la spiaggia. Fin dal primo bacio, Gigi aveva lasciato che lui le mettesse le mani dove voleva. Avere carta bianca in quel modo l'aveva eccitato e confuso perché non aveva la minima idea di cosa fare. In passato aveva parlato per ore con i propri amici di cosa sarebbe successo a quel punto, ma essendo tutti totalmente digiuni di tali manovre, le loro discussioni erano state puramente basate su semplici congetture. Aveva anche letto con zelo i consigli di «Playboy» al riguardo, ma cosa possono valere delle misere parole su un foglio di carta quando è ora di toccare con mano un vero corpo femminile, caldo, palpitante e consenziente? Adesso che era arrivato il momento, gli sembrava di essere alla guida di un camion carico di nitroglicerina giù per una stradina di montagna in mezzo a una bufera. Cercando disperatamente di trovare una soluzione a quell'enigma, Vincent infilò una mano nelle mutandine di Gigi per la terza volta. Magari questa volta ce la faceva a localizzare il clitoride. Un istante dopo, quel piagnucoloso: «Non potresti almeno aspettare che sia buio così non ci vedono?» aveva ridotto il suo ego in poltiglia. L'unica cosa interessante nel rivivere quello spaventoso momento di annichilimento era la coesistenza dell'adolescente e dell'adulto. Il giovane Ettrich era un interessante guazzabuglio di emozioni. Da un lato non aveva altro desiderio che quello di scopare. Dall'altro, desiderava fare un po' contenta anche Gigi. Avrebbe voluto che lei gli mostrasse come fare, visto che chiaramente aveva molta più esperienza di lui, e allo stesso tempo avrebbe voluto che alla fine della serata lei pensasse che Vincent Ettrich era uno sballo. Del resto, una cosa almeno era certa: se tutto andava come doveva andare, avrebbe fatto sesso per la prima volta nei suoi sedici anni di vita. In futuro, quando sarebbe diventato un viveur, avrebbe trovato una donna spettacolare e avrebbero fatto hollywoodianamente l'amore fino alla fine dei loro giorni. Ma tutto ciò era ancora lontano anni luce e, come in ogni cosa, prima bisogna fare un po' di pratica. Ma come faceva a imparare senza il minimo aiuto dalla propria compagna? Sì, certo, lei lo lasciava fare, ma che cosa se ne fa uno di un sandwich, se non sa come mangiarlo? Quando pensò di avere aspettato abbastanza, riprese a baciarla. Solo quello, nient'altro, niente toccatine, niente di niente. Solo baci innocenti come un gelato al limone per cercare di mettere in moto le cose. Ma Gigi lo baciava come se stesse leccando dei francobolli postali. Già a
quel tempo Ettrich baciava con sapienza, ma niente sembrava risvegliarla da quel sonno profondo dei sensi. Lui poteva ricorrere quanto voleva a qualsiasi genere di trucchetto e di danza labiale, che tanto lei continuava a leccare il suo francobollo annoiata. La cosa stava andando per le lunghe quando Ettrich, esasperato, disse al giovane Vincent: «Toccale il viso. Accarezzala. Sfiorale con delicatezza le orecchie e il collo. Poi baciala in quegli stessi punti». Ettrich parlò a Vincent giovane spinto dalla frustrazione, non perché pensasse di poter comunicare con lui. Ma era come parlare allo schermo quando si va a vedere un film dell'orrore: «Non aprire quella porta!», «Non andare in cantina!». E immancabilmente gli attori si infilano in cantina e finiscono per essere divorati. Allo stesso modo Ettrich non pensò neanche per un istante che il giovane Vincent potesse sentirlo e dargli ascolto. Si sbagliava. Un istante dopo, nel bel mezzo di un altro bacio sprecato, aprì gli occhi e guardò Gigi come se si fosse accorto solo in quel momento del suo viso, sebbene fosse solo a pochi centimetri dal proprio. Lentamente la sua mano destra si avvicinò alla guancia di Gigi e iniziò a sfiorarla, scendendo sino al mento rotondo. All'improvviso, qualcosa nell'espressione di entrambi mostrò che alla fine una scintilla era scoppiata. Quel che seguì fu una scopata piuttosto deludente, di certo non l'unica della sua vita, ma senz'altro la più memorabile proprio perché la prima. La passione di Gigi ebbe una leggera accelerazione grazie alle inattese carezze del giovane Vincent guidato da Ettrich adulto. In realtà Gigi non sapeva neanche cosa fosse la passione, ma per lo meno in quel modo un poco di calore si diffuse nel suo cuore e sulla sua pelle. Quel che più conta, i consigli di Ettrich al giovane Vincent evitarono che quella serata si trasformasse in una Waterloo, o in una Edsel, o che facesse la fine del Titanic: una di quelle orrende esperienze giovanili che ci segnano per sempre. Ettrich avrebbe ricordato per sempre quella frase terribilmente infelice di Gigi. Avrebbe ricordato per sempre com'è difficile infilare senza un minimo di lubrificazione il preservativo che aveva ottimisticamente portato con sé per così tanto tempo che il suo portafoglio di pelle ne recava ormai lo stampo. Poiché quella era stata la prima volta, Ettrich ricordava un'infinità di dettagli. Ma non quello fondamentale, ovvero che l'esperienza di Ettrich adulto aveva permesso che quella serata, per quanto mediocre, non fosse comunque disastrosa: un ricordo da congedare con una scrollata di spalle, una storiella da raccontare con un sorrisetto amaro, piuttosto che una pe-
renne pugnalata al cuore. Il passato è ormai scritto, è immutabile. Quello che accadde quella sera con Gigi Dardess fu esattamente quello che era accaduto venticinque anni prima: Un pizzico di passione + un minimo di reazione da parte della propria compagna = un ragazzo vergine in meno nel mondo. Tuttavia Ettrich senior adesso credeva di poter entrare e uscire dagli episodi del proprio passato come se fossero le stanze di una casa. Per quanto non potesse cambiarne le dimensioni o gli oggetti che vi si trovavano, poteva spostare i mobili a suo piacimento. Allontanare quell'armadio così ingombrante dalla finestra in modo da far entrare più luce. Oppure spingere quel bel divano al centro della stanza, affinché potesse essere usato piuttosto che solo guardato. Poi ricordò le tessere di Coco e come avesse creato il suo mosaico personale disponendole a proprio gusto. Stava cominciando a vedere le connessioni tra tutte queste cose. Sorse in lui la speranza che se fosse riuscito a collegare con precisione tutti i puntini, forse le cose si sarebbero risolte. Alla fine, Vincent giovane e Vincent adulto rimasero lì, distesi sulla sabbia, a guardare le stelle. Uno era felice di avercela fatta e allo stesso tempo che fosse tutto finito. L'altro osservava le costellazioni cercando di collegare quel trilione di stelle in modo da scorgervi un disegno coerente. «Sei sempre stato ottimista». Era passato un po' di tempo. Ettrich stava ancora guardando le stelle quando udì quella voce che il suo inconscio riconobbe prima del suo cervello inducendolo a esclamare: «Coco?». «Sì, Vincent». Era ferma a un metro da lui, sulla sabbia, con le mani infilate nelle tasche di un paio di jeans nuovi attillati. Indossava una T-shirt nera e sandali di gomma: appena comprati, si sarebbe detto. Il cambiamento più grosso erano i capelli, lunghi ora, fino alle spalle. Era piccolina, ma quella nuova pettinatura la faceva sembrare più alta e più robusta. Ettrich non era sicuro che le donasse. «Cosa ci fai qui?». Avrebbe voluto aggiungere qualcos'altro. Avrebbe voluto dirle: ti ho visto, eri morta. Ho visto come ti avevano ridotto. Ma si trattenne e aspettò di sentire cosa diceva. «Vieni a fare una passeggiata. Lasciamo soli i due piccioncini». «Posso?». Ettrich non aveva idea di come riuscire a separarsi da Vincent giovane e seguire Coco.
«Tutto questo sta accadendo dentro di te, Vincent, non è la realtà. Su, vieni». Senza aggiungere altro, Coco si voltò e cominciò a camminare. Lui uscì da se stesso, così, semplicemente, e la seguì. Si guardò per vedere se il proprio corpo fosse ancora al suo posto: sì, c'era tutto, come al solito. Poi si voltò e diede un'occhiata al giovane Ettrich disteso sulla spiaggia con un braccio sotto la testa. In quel momento Gigi si voltò verso di lui e cominciò a parlare. Qualche minuto dopo Coco si avvicinò a una torretta di salvataggio e ci salì sopra. Ettrich era qualche passo dietro di lei. La raggiunse e si fermò senza salire. «C'è un bel panorama da qui. Non vuoi venire anche tu?». «No, sto bene qui. Dimmi cosa sta succedendo, Coco». «Stai cercando di trovare una scappatoia, Vincent». «In che senso?». Tutti i suoi meccanismi di difesa erano scattati sull'attenti e avevano già il fucile imbracciato. «Non puoi venire nel tuo passato a dare consigli a te stesso. E assurdo. Non hai imparato niente quando eri morto? Il passato è concluso, determinato. Gigi non si è eccitata perché sei stato tu a consigliare a Vincent di baciarla sul collo. È lui che ci ha pensato, il nostro piccolo Vincent Ettrich che a sedici anni sa già come essere sensuale. Prima sei andato in Francia a guardarti un po' in giro, e adesso sei qui. Non ti ha mandato nessuno in questi posti. Sei tu che hai voluto venirci. Adesso vuoi andare nell'ospedale dove sei morto, per vedere se ci trovi qualcosa che ti possa servire. Ti risparmio il viaggio: non c'è niente. Speri di trovare le risposte che cerchi negli episodi cruciali del passato, ma le cose non funzionano così, mi dispiace. E questo perché il passato è immutabile. Ascoltami, è tutto nel presente. Tutto ciò di cui hai bisogno e che devi fare è qui e ora. E non hai più modo di evitarlo. Sai chi ha messo la scatola della torta in mezzo al prato in Francia? Bruno Mann. Se sei così interessato a collegare tutti i puntini, comincia dal tuo amico Bruno. Ti ricordi com'è iniziata tutta questa storia?». Tirandosi su i capelli lunghi con una mano, si indicò la nuca. «Ti ricordi il mio tatuaggio?». Ettrich la guardò. Nel buio Coco non era altro che una gamma indistinta di grigi. Ma non aveva importanza, perché Vincent stava pensando alle sue parole e alla prima volta che le aveva visto quel tatuaggio sul collo. «Perché hai voluto che lo scoprissi in quel modo? Perché hai fatto sì che
tutto cominciasse così? Un modo davvero strano di aprirmi gli occhi». Lei sollevò entrambe le braccia in aria alzando gli occhi al cielo. «Vincent, non sono stata io. Sei stato tu! Sei tu che mi hai fatto quel tatuaggio sul collo. Era una specie di post-it che avevi appiccicato lì perché tu lo vedessi, anche se poi ci hai messo una vita ad accorgertene». «Merda». La verità gli apparve con la forza di una vampata improvvisa. Coco aveva ragione. Certo, era chiaro, aveva proprio ragione. «Sì, mio caro, merda. Bisogna che tu cominci a riconoscere i messaggi che ti sei scritto. Ce ne sono sparsi ovunque nella tua vita. Non nel passato con Gigi Dardess e non in qualche oscuro angolo dell'universo. Qui. Nel bel mezzo del tuo presente. Sapevi di essere morto e di essere resuscitato. E sapevi anche perché. L'hai sempre saputo, sin dall'inizio, anche se non volevi crederci perché tutta questa storia è così difficile e pericolosa». Con una voce giovane e tremolante come quella di un bambino insicuro, Ettrich disse: «Mi terrorizza». Il tono di Coco si addolcì. «Lo so, è naturale». «Coco, quando eravamo allo zoo, ho parlato davvero con il mio io da morto?». «Sì, certo. È proprio questo che sto cercando di dirti. È una delle poche volte che hai consapevolmente usato i tuoi poteri per salvarti. Avresti potuto farlo fin dall'inizio. Ma da quando sei tornato, hai deciso, deciso consapevolmente, di ignorare quello che sai in modo da non dover affrontare quello che sai di dover affrontare». Quelle parole furono seguite da un lungo silenzio, finché Ettrich mormorò con un filo di voce appena percepibile: «Immagino sia più facile lavorare in un ufficio che lottare contro gli dèi». Coco ridacchiò. «O abbordare ragazze nei negozi di biancheria intima». «Be', sì, anche quello». Ettrich si sentiva così sciocco, così debole e così profondamente, ineluttabilmente incapace di affrontare tutta quella situazione. Si accovacciò e raccolse una manciata di sabbia fresca. La lasciò scivolare lentamente tra le dita, mentre osservava il moto dell'oceano, la spuma bianca delle onde che affiorava sull'acqua scura, in eterno. Sentì la risata di una ragazza in fondo alla spiaggia. Era Gigi? Il giovane Ettrich l'aveva fatta ridere quella sera? Sperava di sì, ma non lo ricordava. Sperava che si fossero fatti una bella risata insieme, dopo. Ricordava che, a un certo punto, le aveva preso la mano, si erano messi a correre sulla spiaggia e si erano tuffati in mare con tutti i vestiti addosso. L'acqua era gelata e un
brivido gli aveva stretto le palle; ma era una sensazione piacevole. Sorrise al ricordo e raccolse un'altra un'altra manciata di sabbia. Poco dopo, da quella stessa direzione gli giunsero alcune note. Erano i Beatles che cantavano Get back. Rimase ad ascoltare per un po' senza riuscire a fare a meno di canticchiare qualche parola. Quella canzone così vivace e familiare disperse pian piano la paura che gli aveva inondato la mente e il cuore. Canticchiò ancora un po' e poi si alzò. Si voltò verso la torretta e fece cenno a Coco di scendere. «Cosa c'è?». «Vieni, dai». Lei scese rapidamente pensando che fosse successo qualcosa. Fu sorpresa di vedere Vincent danzare. Era un pessimo ballerino, ma non importava. Sorridendo, Coco gli si accostò e iniziò timidamente a ballare. Anche lei non era un gran che, anzi peggio di Vincent forse, ma continuarono a danzare fino al termine della canzone. Dispiaciuti che fosse finita, ripresero entrambi a ballare non appena Major Lance iniziò a cantare Monkey Time. Tutta presa dalla musica, Coco si muoveva descrivendo piccoli cerchi sulla sabbia e agitando vivacemente le braccia sopra la testa, come una fan entusiasta durante un revival della musica di quegli anni. Ettrich era più riservato, come un piccolo Fred Astaire con le mani nelle tasche e le spalle che si muovevano su e giù a ritmo di musica. «Che bella, mi piace questa canzone. Chi è che la canta?». «Major Lance. È Monkey Time. Penso che sia il suo unico successo». «Ha un bel ritmo. Ma perché stiamo ballando, Vincent?». «Nietzsche ha detto che quando le cose si mettono tanto male si può solo ridere o impazzire. Stasera la terza alternativa è ballare». Entrambi avrebbero voluto aggiungere qualcos'altro, ma non era il momento. Erano già state dette troppe cose. Erano successe troppe cose. Adesso dovevano avere il tempo di sedimentarsi. Era meglio ballare. Un cane scappato da un cortile sfrecciò a tutta velocità sulla spiaggia, per nessun'altra ragione se non quella che era divertente. Non aveva progetti, né meta, né femmine in calore da inseguire. Stava semplicemente correndo. E la spiaggia era perfetta, così piatta e diritta e soffice. Gli piaceva correre sulla spiaggia di notte perché era vuota e di solito anche i pochi che c'erano non si curavano di lui: non gridavano, non cercavano di acchiapparlo. Si limitavano a dargli un'occhiata e a ritornare a quel che stavano facendo. Qualche volta qualcuno gli faceva una carezza mentre passava, niente più. Si era liberi di fare quello che si voleva sulla spiaggia, di
notte. Correndo, il cane passò accanto a due persone che ballavano, poi a un gruppetto di ragazzi seduti intorno alle ultime scintille crepitanti di un falò. Avevano una radio accesa e ascoltavano le note di una melodia vaga e sommessa al confronto della musica di quella notte davanti all'oceano. Il cane aveva sentito quelle note quando era ancora a un chilometro di distanza da loro. Anche la musica corre nella notte. A quell'ora gli unici suoni nell'aria erano quelli delle onde, del vento, delle note di quella canzone e il rumore delle zampe del cane che correva sulla sabbia. Ettrich scorse un cane che correva. Sembrava muoversi a tempo di musica. Vincent giovane, con le spalle al mare, non lo vide. Osservava il falò e pensava: «Ce l'ho fatta. Stavolta ce l'ho fatta davvero». Adesso, però, non aveva idea di come affrontare quella cosa e sarebbe passato molto tempo prima che riuscisse a vederla con obiettività. Dopo aver corso ancora per quasi un chilometro, il cane si fermò, sollevò la testa e parve ascoltare qualcosa nell'aria. Poi cambiò direzione e si lasciò la spiaggia alle spalle. Man mano che l'oceano si allontanava, il silenzio riprendeva possesso del mondo. Si distinguevano appena le case, scure e mute, addossate l'una all'altra. Di quando in quando si vedeva una luce dimenticata accesa. Incorniciata da una finestra, troppo in alto perché il cane potesse vederla, c'era una donna seduta in vestaglia che piangeva. C'era una candela accesa davanti a lei. Mentre il cane passava, la donna allungò una mano per toccare la cera morbida che colava lungo il fianco della candela bianca. Il cane continuò a correre. Attraverso la città, attraverso l'America, attraverso l'oceano Atlantico e gran parte dell'Europa finché non raggiunse Vienna. La mattina seguente, subito dopo il sorgere del sole, si fermò sotto la finestra di un grande edificio nel Diciottesimo Distretto. Ansimava, con la lingua rosea penzolante, ma non era stanco. Vigile e pieno d'energie, fissava una finestra davanti a sé, seduto sulle zampe posteriori. Passarono forse una decina di minuti prima che la tenda si scostasse e qualcuno guardasse fuori sorridendo. Quando qualcuno gli fece un cenno di saluto, il cane non rispose. Rimase lì seduto ad aspettare. «Isabelle, vieni alla finestra. Voglio farti vedere una cosa», disse l'anziana signora con voce abbattuta. Avevano parlato per ore e si erano addormentate una accanto all'altra, sul letto, tenendosi per mano come in passato.
Malgrado avesse dormito poche ore soltanto, la nonna si era svegliata fresca e riposata, pronta per quello che aveva da offrirle la nuova giornata. E avrebbe subito voluto svegliare Isabelle per parlarle ancora. Era così tanto tempo che non stavano un po' insieme. Ma anche addormentata Isabelle sembrava sfinita. Così la nonna si alzò e si mise a riordinare un poco la stanza, accese la teiera elettrica per il tè. Nella credenza c'erano due Topfen Golatsch fresche della Konditorei AIDA, la colazione preferita di Isabelle. Le tirò fuori dal loro sacchettino bianco e rosa e le mise su un piattino al centro della tavola. Girò e rigirò il piattino tre volte prima di essere soddisfatta della disposizione delle paste. Doveva essere tutto perfetto per la loro colazione. L'anziana signora sapeva che avrebbero avuto poco tempo, ma non sapeva esattamente quanto. Ritornare lì dalla morte le aveva permesso di vedere le cose con maggiore chiarezza e adesso riusciva anche ad apprezzarle di più, pur senza sentire nostalgia della vita. La vita è troppo ingiusta, troppo poco chiara e incoerente rispetto a quello che vuole da noi ed è pronta a darci in cambio. Questa era una delle cose più importanti che l'anziana signora aveva imparato nella morte: la vita esige sempre qualcosa da noi. Se non ce l'hai, o non gliela vuoi accordare, allora quella ti mette il broncio e smette di aver cura di te. È lunatica, parziale e per niente corretta. Se si riuscisse a chiederle a bruciapelo qual è il significato dell'esistenza umana, non sarebbe capace di rispondere: perché il significato della vita muta di giorno in giorno e da persona a persona. La nonna voleva dire tutte queste cose a Isabelle. Avrebbe voluto dire alla sua nipotina adorata tutto quello che aveva imparato dopo la morte. Alcune cose poteva dirgliele, di altre le era proibito parlarle. Quando si avvicinò alla finestra per dare un'occhiata al nuovo giorno, c'era già il sole e i suoi raggi si riflettevano su ogni cosa. Un'infinità di cose diverse erano collegate le une alle altre da quei raggi. L'anziana signora volse lo sguardo intorno, soffermandosi sugli alberi, la strada, le poche macchine che passavano e le grigie volute di fumo che uscivano dai comignoli. Infine guardò nel cortile e le si mozzò il fiato quando vide quel cane seduto lì che la guardava. Purtroppo sapeva cosa significava, e trasse un lungo sospiro amaro. Non era giusto. No, non era affatto giusto. Perché non le avevano concesso un po' più di tempo? Non poteva bastare una sola notte. No, in realtà non sarebbe bastata una vita, ma quello era un altro paio di maniche. Così, però, era proprio un'ingiustizia. Avrebbero almeno potuto dirle che aveva a
disposizione soltanto una notte. Avrai la possibilità di dirle tutte le cose che devi assolutamente dirle, e basta. Almeno si sarebbe organizzata meglio. Così, invece, lei e Isabelle avevano passato la maggior parte del tempo a parlare del passato, rievocando persone e ricordi che era incantevole rammentare ma che non avrebbero affatto aiutato la sua nipotina ad affrontare quello che la aspettava. Con un sorriso insincero fece un cenno di saluto al cane, il quale si limitò a fissarla. La nonna sapeva cosa doveva fare, e subito, senza attendere oltre. Lasciò cadere la tenda e si avvicinò al tavolino. Toccò una Golatsch con un dito. Una gioia come quella di sedere a far colazione insieme mentre chiacchieravano le era ormai stata rubata. Le avevano detto che poteva tornare a vedere Isabelle. Le avevano elencato le condizioni e lei aveva accettato senza esitare. L'unica cosa che non le avevano detto era quanto tempo avrebbe potuto trascorrere con lei. La stanza era piccola, ma l'anziana signora trovò ugualmente il modo di passeggiare su e giù. S'infilò le mani nelle tasche della vestaglia, ma soltanto per ritirarle fuori subito con un gesto d'impazienza. Avrebbe voluto scostare la tenda e guardare di nuovo fuori. Le si era affacciata in mente l'assurda speranza che quel cane non ci fosse più. No, in realtà, sapeva che non se ne poteva essere andato. Era in cortile che aspettava, e non c'era nulla, né nella vita né nella morte, che lei potesse fare per evitare di svegliare Isabelle e dirle che se ne doveva andare. «Perché Oma? Sono arrivata soltanto ieri». «Perché il tuo amico è pronto e ha bisogno di te». Ferma alla finestra accanto alla nonna, Isabelle guardava il cane là fuori. «Come si chiama? Ha un nome?». «Hietzl». Izzel? Era un nome così assurdo che Isabelle si permise una breve risatina amara. «Hietzl? Che razza di nome è?». «Non lo so, cara. So solo che si chiama così». Isabelle ripeté quel nome, cercando di capire cosa volesse dire. «È un nome ridicolo». «È vero. Ti senti bene?». Isabelle lasciò andare la tenda e si voltò verso la nonna. Erano una accanto all'altra. «No, Oma. Non mi sento bene, ma cosa importa? Se devo andare, devo andare, mi sembra ovvio». «Sì, è vero. Io non ci posso fare niente. Lo sai che se fosse per me ti avrei tenuta qui finché volevi. È stato così bello avere questa possibilità di
rivederti. Soltanto pensavo che avremmo avuto più tempo». La sua voce era così addolorata che Isabelle per un attimo dimenticò le proprie paure e si sentì in dovere di confortare la sua più antica amica. «Se mi mandano indietro così presto, vuol dire che Vincent ha imparato qualcosa d'importante ed è tutto a posto. Deve avere imparato come combatterli». La nonna si strinse le braccia al petto e guardò giù. «No, significa che devi tornare perché non c'è più tempo. Lui ha bisogno di te perché sei tu che gli dai equilibrio e speranza. Da ieri si sono improvvisamente messe in moto delle cose che devono essere bloccate subito, oppure diventeranno irreversibili». Pensò a come, all'inizio della seconda guerra mondiale, l'esercito polacco aveva eroicamente e donchisciottescamente inviato la cavalleria contro i carrarmati della Wehrmacht per impedire che invadessero il paese. Certo, Vincent Ettrich non sarebbe stato solo nella sua battaglia contro il caos, ma era un povero soldatino a cavallo di fronte a un avversario a bordo delle più raffinate e avanzate macchine da guerra mai concepite. Le piangeva il cuore al pensiero di Isabelle e del suo Vincent, ma non c'era nulla che potesse fare per aiutarli. A meno che... Si avvicinò al mobiletto di cedro con la specchiera e aprì il cassetto in alto. C'era soltanto una cosa dentro, il suo tesoro: una vecchia penna a sfera Faber-Castell argentata. La tirò fuori delicatamente, come se fosse stata fragilissima, di vetro. Ritornò al tavolo e con la stessa cura la posò accanto ai piatti della colazione. «Isabelle, vieni. Ho una cosa da darti». Isabelle non si mosse dalla finestra. Stava ancora guardando il cane. «Non voglio niente». «Vieni qui! Non mi interessa se la vuoi o no». Isabelle si voltò immediatamente, colpita dal tono di voce della nonna. Non aveva mai parlato così. Di certo non a Isabelle che era stata con lei e le voleva bene da quando era nata. «Cos'è, Oma?». «Vieni qui, che te la faccio vedere». Il suo tono era ancora brusco e irritato. La bambina che era in Isabelle rabbrividì. Non voleva far arrabbiare la nonna. Era una cosa impensabile. Si scostò in fretta dalla finestra e corse a sedersi. «Questa penna è la cosa più importante che abbia mai posseduto. È permesso portare con sé una cosa soltanto quando si muore, e io ho scelto
questa. Mi è stata data dall'unica persona che abbia mai amato con tutto il cuore. Ma non chiedermi di raccontarti la storia perché non lo farò». Isabelle avrebbe voluto dire e chiedere una quantità di cose, ma con uno sforzo di volontà riuscì a tenere la bocca chiusa, anche se adesso guardava la nonna a occhi spalancati. «Voglio che la tenga tu. Devi averne grande cura, perché vi è contenuta la mia morte». «In che senso? Non capisco». Isabelle allungò istintivamente una mano per toccarla, ma a pochi centimetri di distanza si arrestò e ritrasse lentamente la mano. «In che senso?». «La mia esperienza della morte, dove sono andata e tutto quanto mi è capitato dopo: tutto ciò è racchiuso in questa penna. Se ti dovessi trovare in pericolo e avessi bisogno di nasconderti, girala così, come per tirare fuori la punta. Entrerai nella mia morte e lì sarai al sicuro». «Vincent ha detto che sarei stata al sicuro anche qui quando mi ci ha portata», commentò Isabelle rassegnata. «Sei al sicuro per ora, ma non per molto. Se entri nella mia morte, potrai rimanervi finché vorrai. È una parte del passato già determinata e per questo non può essere toccata». Questa volta Isabelle allungò la mano e prese la penna con grande prudenza. Volse lo sguardo alla nonna e poi di nuovo alla penna. «Ti ricordi, quando eri piccola, come ti piaceva guardare i film western con tuo padre? Ti spaventavi sempre e correvi a nasconderti nella stanza della biancheria. Be', questa penna sarà per te una specie di nuova stanza della biancheria». «Mi stai nascondendo qualcosa, Oma. C'è qualcosa che non mi hai detto». Guardandola placidamente, la nonna mentì. «No, ti ho detto tutto». «Ma cosa succede a te se lo faccio, se entro nella tua morte?». «Niente, Isabelle. Perché mai dovrebbe succedermi qualcosa?». La sua bugia era lì, sul tavolo, accanto alla penna argentata e alle paste dorate. Nera, lucida come ossidiana. Tagliata come un bellissimo diamante. La donna anziana la vedeva. La donna più giovane no, ma poiché era stata nella morte a riprendere Ettrich, la sentiva, percepiva la sua presenza e le sue dimensioni. Posò persino lo sguardo sul punto in cui era posata e aggrottò la fronte. Vedendo tutto ciò, la nonna allungò con nonchalance un braccio sul tavolo, come per spazzare via delle briciole. Quella levigata pietra nera, la
sua bugia resa manifesta, volò via e rotolò sotto il letto. La verità era questa: nell'istante in cui Isabelle fosse entrata nella sua morte, la nonna sarebbe per sempre rimasta imprigionata in quella stanza. Non avrebbe più ottenuto il permesso di uscirne. Non avrebbe più fatto ritorno nel purgatorio, sacrificando così la sua possibilità di partecipare al mosaico. Di fuori il cane abbaiò. «Devi andare ora. Ti sta chiamando». Era meglio così. La nonna non aveva praticamente mai mentito a Isabelle e sapeva che se lei le avesse fatto troppe domande non sarebbe stata capace di districarsi tanto facilmente. «È soltanto un cane che abbaia, Oma. Come fai a sapere che è lui?». Sopraffatta da un impeto d'amore per quella ragazza, quella donna incinta, con un bambino nella pancia, la nonna si avvicinò a Isabelle e la strinse tra le braccia. «Lo so perché lo so. È ora che tu vada, tesoro. Ma sono così grata di aver potuto passare queste ore con te». Isabelle la strinse ancora più forte. «Cosa succederà a te quando me ne sarò andata?». «Mi siedo qui e prendo il tè. È una bella giornata, una splendida giornata per andare in centro». Isabelle si scostò un poco. «Puoi? Puoi uscire e andare in centro?». «Parlavo di te. È lì che andrai. Vedrai». La nonna lasciò andare Isabelle e si alzò. Prese la penna dal tavolo e la mise con risolutezza in mano alla nipote facendo sì che la stringesse tra le dita. Le sussurrò: «Abbine cura», poiché racchiudeva in sé la propria morte e la salvezza di Isabelle. Se Isabelle ne avesse avuto bisogno, la nonna sperava con tutta se stessa che la usasse. In uno slancio d'amore puro, libero da qualunque desiderio egoistico, l'anziana donna si rese conto che qualsiasi cosa le fosse accaduta ora, sarebbe stata contenta. Sia che dovesse rimanere per sempre in quella stanza o ritornare nei luoghi oltre la morte in cui avrebbe voluto così tanto poter fare ritorno, ora si sentiva... piena. Ricordò un vecchio proverbio: «I cocci vuoti sono i più rumorosi». In quel momento, miracolosamente, il suo cuore e la sua mente non facevano alcun rumore. Non ricordava di essersi mai sentita così piena, così traboccante, né nella sua vita né dopo la morte. Isabelle chiuse il portone dietro di sé senza voltarsi. Non sapeva se avrebbe mai più rivisto quella casa. Non sapeva più nulla adesso, ma doveva seguire quel cane come le aveva ordinato la nonna. Era ancora seduto nello stesso posto, sul prato, che la guardava. Lei gli
si avvicinò e disse: «Salve, Hietzl». Per un attimo quasi si aspettò che le rispondesse: «Salve!». Ma il cane rimase impassibile. Per un attimo Isabelle si chiese se la nonna non si fosse presa gioco di lei dicendole che si chiamava così. Come faceva ad avere un nome simile? «Mi capisce, signor cane? Sprechen Sie Deutsch?». «So che ha sempre desiderato impararlo». Le comparve davanti un uomo di mezza età con le mani nelle tasche di un lungo loden verde. Isabelle non l'aveva mai visto prima. «Ciao, Hietzl». L'uomo fece schioccare le dita e il cane si mise a galoppare felice in cerchio, stracontento di vederlo, saltandogli festosamente addosso. Gli strofinò affettuosamente il muso senza preoccuparsi delle macchie di fango e di erba che il cane gli lasciava sul cappotto elegante. «E buongiorno a lei, signorina Neukor». Aveva il sole alle spalle: Isabelle dovette schermarsi gli occhi per vederlo in viso. «Mi conosce?». «Sì». «E lei come si chiama?». «Chivas. Mi può chiamare Chivas». «Come il whiskey?». «Sì, esattamente. Ha detto che non le piacciono i nomi strani come Hietzl, così direi che possiamo usare il nome del suo whiskey preferito». «È davvero regale da parte sua». Lui sorrise alla battuta di Isabelle mentre continuava ad accarezzare il cane esultante. «Devo venire con lei?». «Se è tanto gentile da acconsentire a seguirmi, sì. La mia macchina è lì». Indicò una grossa Audi verde scuro parcheggiata a pochi metri di distanza. «E Hietzl?». «Lui viene con noi. Sale dietro». «Dove andiamo, signor Chivas?». «La prego, mi chiami soltanto Chivas. In centro, la devo accompagnare al Café Diglas». Sorpresa, Isabelle chiese: «Al Diglas? Perché?». «Perché il signor Ettrich la sta aspettando lì». «Vincent? Al Diglas?». Confusa, si portò una mano alla fronte e strizzò gli occhi come se cercasse di focalizzare la cosa. Il cane si mise a sedere sull'erba e cominciò a grattarsi furiosamente il mento con una delle zampe
posteriori. Intorno a loro non c'era nessun altro rumore. Chivas sorrise e annuì. «È stata una sua idea. Ha detto che è lì che vi siete dati il primo appuntamento, no?». Era vero, ma perché mai Vincent era a Vienna in quel caffè quando invece aveva detto che aveva così tante cose da fare? «D'accordo, andiamo». Come se avesse perfettamente compreso le parole di Isabelle il cane si alzò e trotterellò verso la macchina. Isabelle fissava l'Audi, perché c'era qualcosa che non andava. Cos'era... «Aspetti un momento. Ho capito: è una macchina nuova. Lei ha una macchina nuova. Conosco il modello. Ne ha comprata una uguale la mia amica Cora Vaughan quest'anno. Ma adesso siamo cinque anni indietro». Chivas puntò un dito verso di lei e le fece l'occhiolino. «Complimenti, signorina Neukor. È una buona osservatrice. In macchina ho persino un CD dei Bloodhound Gang. Le piacciono?». «Non ho la minima idea di chi siano. Come fa ad avere un modello di quest'anno se tutte le altre cose intorno a noi risalgono a cinque anni fa?». «Perché Hieztl e io veniamo dal presente. Siamo venuti a prenderla». Accostandosi alla macchina dalla parte del passeggero, infilò la chiave e aprì la portiera per far salire Isabelle. «Mi spieghi». Non aveva intenzione di muoversi finché quell'uomo non le avesse dato una risposta soddisfacente. Altrimenti nulla avrebbe potuto convincerla a salire in macchina con Mister Whiskey e Wonder Dog Hietzl. «Dobbiamo riportarla al presente e questo è il modo più comodo. Quando raggiungeremo il caffè, in centro, saremo arrivati ai giorni nostri». A Isabelle non piacque quella risposta, ma sentì la voce della nonna alle sue spalle. Voltandosi, vide che l'anziana signora aveva aperto la finestra e sporgendosi fuori aveva portato le mani alla bocca a mo' di megafono. «È tutto a posto, cara, puoi fidarti di lui. Ti sta dicendo la verità». Isabelle gridò: «Dice che quando arriveremo nel Primo Distretto, saranno passati cinque anni». «Se lo dice lui, è così. Davvero, ti puoi fidare». Il cane abbaiò due volte, impaziente. «E se io non volessi venire con lei?». Chivas aprì le braccia in un gesto di resa, come a dire che non l'avrebbe certo costretta a farlo. «Sta a lei decidere, ma questo è il modo più veloce. Preferisce un mezzo pubblico? C'è un tram che va da quelle parti?». Isabelle lo fissava per cercare di capire se poteva credere a quell'uomo e
a quello che diceva, quando la nonna la chiamò di nuovo. «Isabelle, vai con lui. Fidati, è tutto a posto». «Sì? Be', ho un'idea migliore: verrò con lei, però guido io. Ha detto che dobbiamo solo andare in centro, no?». L'uomo in loden annuì. «Certo. Per me va bene». Le porse le chiavi dell'Audi. Isabelle le prese, rivolse un ultimo saluto alla nonna e salì in macchina. Chivas girò intorno alla macchina, fece cenno al cane di salire dietro, poi entrò e chiuse la portiera. Allungò il braccio alle sue spalle per afferrare la cintura di sicurezza. Isabelle si limitò a guardarlo perché lei non se la metteva mai. Lui la allacciò e disse: «Le consiglio di mettersela. Non farà bel tempo e non so in che condizione troveremo le strade». Prima di rispondere, Isabelle guardò fuori la magnifica mattina di sole che splendeva festosa intorno a loro. «Di cosa sta parlando? Cosa sta dicendo, signor Chivas?». «Soltanto che credo sarebbe una buona idea se lei si mettesse la cintura. Del resto, ancora una volta, sta a lei decidere». «Una buona idea» era dir poco. Non avevano attraversato un isolato che il tempo mutò completamente. E, cosa ancor più strana, senza alcuna transizione da una stagione all'altra. Un momento prima era A e letteralmente un momento dopo era B. Davanti a casa di Isabelle gli alberi e i fiori erano nel pieno del loro fulgore, illuminati da un benevolo, pallido sole mattutino. Ma non appena la macchina girò l'angolo il cielo si fece di un minaccioso grigio-viola plumbeo: una tinta di fine novembre che diceva che la neve non avrebbe tardato ad arrivare. I fiori erano spariti da tempo. Gli alberi, senza una foglia, erano di un marrone così scuro che da lontano sembravano neri. Parevano non esserci più colori intorno a loro. Da un secondo all'altro, il mondo era passato dal tecnicolor al bianco e nero. Scioccata, Isabelle frenò bruscamente, tanto che il cane sbatté il muso contro il sedile. «Scusa, Hietzl, scusa. Cos'è successo?». Chivas tirò fuori di tasca un pacchetto di Brooklyn e ne scartò una. «Gliel'avevo detto: il tempo cambierà diverse volte prima di arrivare in centro». «Perché? Sarà sempre così?». «Anche peggio, vedrà. Negli ultimi cinque anni ci sono state molte tempeste di neve da queste parti».
Lei piegò la testa di lato e lo guardò scettica. «E noi le attraverseremo tutte in venti minuti?». Lui la guardò come se fosse la domanda più ovvia della terra. «Be', cinque anni corrispondono a venti stagioni. Prima di raggiungere il Primo Distretto, dovremo attraversarle tutte se vogliamo tornare al presente. È per questo che sono venuto con una 4x4». Isabelle guardò le proprie mani sul volante e poi, illogicamente, le mani di Chivas. «Come se la cava alla guida?». «Mi sono piazzato terzo al rally dell'Acropoli e quarto a quello di Montecarlo, quando ero vivo». «D'accordo, allora le passo il volante». Mentre iniziavano a turbinare in aria i primi, immensi fiocchi di neve sferzati dal vento, Isabelle scese dalla macchina e fece salire alla guida l'ex pilota. Seduto dietro, Hietzl osservò quegli strani spostamenti umani con calma indifferenza. Dopo cinque minuti, a Gersthof, videro il primo incidente. C'erano più di dieci centimetri di neve sulla strada. Un camion dei traslochi color argento aveva perso il controllo su una lastra di ghiaccio ed era finito dritto dritto sotto un tram bianco e rosso. Intorno a quei due giganti era tutto bloccato. Diverse persone avvolte in pesanti indumenti invernali erano uscite ad affrontare la neve e il vento per vedere cos'era successo. Appena si era messo al volante, Chivas aveva alzato il riscaldamento al massimo e inserito le quattro ruote motrici. Ma anche così era pericoloso guidare, perché la temperatura fuori era sotto lo zero e le strade erano ghiacciate e coperte di neve. Con la sua T-shirt e il suo sottile maglioncino di cachemire, Isabelle era gelata nonostante il riscaldamento al massimo. Teneva i gomiti stretti al petto, ma senza fare troppa attenzione al freddo, perché quello che stava succedendo fuori della macchina era troppo affascinante. Parlò a voce abbastanza alta perché si udisse al di sopra della ventola del riscaldamento. «Per quanto tempo ancora sarà inverno?». Chivas continuò a guardare dritto davanti a sé con le mani ben strette intorno al volante. «Non ne ho idea. Ne so quanto lei. Ma spero non per molto. Le strade sono una lastra di ghiaccio». Aggirò con maestria quel groviglio di camion e tram, passò sotto una linea ferroviaria sopraelevata e sbucò... in piena primavera. Da una parte del sottopassaggio nevicava, dall'altra il cielo era ancora coperto ma non più minaccioso. Il sole filtrava qua e là tra le nubi, non c'era più un filo di neve sulle strade e i parka erano stati sostituiti da giubbotti di jeans e pullover.
Alcune creature coraggiose avevano persino tirato fuori pantaloni corti e sandali. Un uomo camminava con un bouquet di fiori esotici in mano. Ma un isolato più avanti cominciò a piovere, poi a diluviare. Poco dopo erano nel bel mezzo di un vero e proprio nubifragio. Il cielo si era fatto così scuro che era difficile dire se fosse giorno o notte. Isabelle allungò una mano e spense il riscaldamento. La ventola si quietò, ma il tamtam della pioggia sulla carrozzeria si fece ancora più intenso. Il cielo era rigato da continui lampi, immediatamente seguiti da tuoni di una violenza tale da far rabbrividire dalla testa ai piedi. Il temporale era proprio sopra la loro testa e in breve la pioggia che si andava raccogliendo nella strada si trasformò in un piccolo fiume in piena. «Penso...». La loro macchina, o qualcosa di molto vicino, venne colpita da un fulmine. BANG! Ogni cosa intorno a loro parve esplodere come una bomba. Isabelle lanciò un grido. Chivas disse che era meglio fermarsi qualche minuto e aspettare la fine del temporale. Senza attendere la risposta di Isabelle, sterzò lentamente verso il marciapiede. La macchina dietro di loro li investì in pieno. Sentirono un gran botto e un inquietante fragore metallico. Poi qualcosa di grosso cadde dall'alto e finì sulla strada. «Cristo santo!». Entrambi si voltarono e guardarono l'autista della Suzuki SUV bianca che li aveva investiti sterzare e fuggire via sconsideratamente. «Ehi, quel tipo è un pirata della strada!». Impassibile, Chivas aprì appena il finestrino e sputò fuori la sua gomma da masticare. «Era una donna. Non ha visto che aveva i capelli lunghi e biondi?». «E con ciò? È un pirata lo stesso!». «Abbiamo ben altro di cui preoccuparci ora». Isabelle si irrigidì. «Cioè?». «Ha fatto caso a che macchina aveva?». Isabelle indicò la direzione in cui era fuggita Miss Pirata-della-strada. «Una Suzuki SUV. Perché?». Chivas la fissò senza dire nulla. Sembrava aspettasse che lei si rendesse conto di qualcosa. Il temporale continuava a infuriare. Era ancora proprio sopra di loro. Forse stava ascoltando la loro conversazione e la trovava tanto interessante da non volersene andare. Chivas si aspettava forse che lei decifrasse la sua espressione per riuscire a capirci qualcosa? Per riempire il silenzio, Isabelle aggiunse: «Anch'io avevo la stessa
macchina. Una Suzuki, voglio dire». Chivas continuava a fissarla. Senza bisogno di voltarsi, Isabelle era certa che anche Hietzl la stesse fissando. «Anche la mia era bianca. Guidavo come una pazza a quel tempo. Una volta ho fatto un incidente e sono scappata via senza fermarmi». Guardò Chivas e inarcò le sopracciglia. «Non mi è di grande aiuto, devo dire. C'è qualche indizio che dovrei riuscire a decifrare?». Lui continuò a fissarla. Infine alzò lentamente un dito in direzione della macchina che li aveva investiti. «La devo aiutare? D'accordo, l'aiuterò a fare due più due. Ci pensi un attimo, Isabelle. La macchina che ci è appena venuta contro era una Suzuki SUV bianca. Alla guida c'era una ragazza bionda. Siamo ancora molto lontani dal centro, il che significa che siamo ancora qualche anno indietro. Ha appena detto che qualche anno fa anche lei aveva la stessa macchina...». Isabelle scivolò indietro sul sedile finché la schiena non andò a sbattere contro la portiera. «C'ero io dentro quella macchina? Sono stata io?». Chivas annuì. «Come? Come può essere?». «Perché è stata lei a chiamare la Isabelle di un tempo. L'ha chiamata per fermarci. Non vuole arrivare al nostro appuntamento in centro. La prossima volta evocherà altre versioni di sé per impedirci di tornare al presente. Questo è solo il primo tentativo». «Io sto facendo tutto questo? Perché mai dovrei voler fermare me stessa? Voglio andare da Vincent, più che mai. Non desidero altro». La mano di Chivas si staccò dal volante, fendendo l'aria tra loro come se avesse assestato un colpo di karate. «No, non è vero! Lei ha paura di quello che può accadere quando sarà di nuovo con lui. E l'ha appena dimostrato cercando di sbatterci fuori strada. Ha paura di quel che può accadere al bambino e a lei. Lei è una terribile codarda, Isabelle. Lo è sempre stata, tutta la vita. Fortunatamente la sua famiglia e il suo denaro l'hanno sempre salvata. Ma questo non l'ha resa più forte, anzi. Se solo può, non fa altro che fuggire, sia fisicamente che psicologicamente». Infilò una mano nel taschino e ne trasse un foglietto. «Le ha fatto un tale effetto leggere questo brano, una volta che l'ha trascritto nel suo diario. Perché sapeva che parlava di lei. "L'arma più potente della paura è la sua capacità di abbagliarci tanto da non vedere altro che noi stessi. Quando siamo sue vittime, dimentichiamo che ci sono altre persone da tenere in considerazione, e altre cose da salva-
re oltre alla nostra pelle e ai nostri sentimenti". Se raggiungerà Ettrich ora, sa di dover essere più coraggiosa di quanto non sia mai stata...». Furibonda, Isabelle sferrò un colpo con la mano aperta sul cruscotto. «Non è vero, cazzo! Sono andata nella morte per riprenderlo! Una codarda non l'avrebbe fatto». «Non l'ha fatto lei, Isabelle. L'ha fatto una piccola e remota parte di lei, di cui non conosceva neanche l'esistenza. Una minuscola, sconosciuta isoletta in mezzo all'oceano. Se non fosse stata incinta, non sarebbe mai andata in cerca di quell'isoletta. E senza dubbio non l'avrebbe mai incontrata nei suoi soliti viaggi. È andata a riprendere Ettrich per il bambino. Ha trovato quello straordinario coraggio soltanto per lui. Per nessun'altra ragione». Isabelle sferrò un nuovo colpo al cruscotto. «Non è vero! L'ho fatto per Vincent. L'ho fatto perché lo amo». «No. Se l'avesse amato, non sarebbe mai fuggita quel giorno a Londra. Non menta, Isabelle. Ha mentito a se stessa per tutta la vita. Con l'unico risultato di essere sempre più confusa e spaventata col passare degli anni. È per questo che è sempre fuggita davanti a ogni difficoltà. Fa parte della sua natura ormai. Poi si inventa qualche debole scusa per giustificare la propria viltà. Fino all'arrivo di Anjo non aveva mai lottato per nulla d'importante nella sua vita. Per questo è una codarda. Del resto, non le sto dicendo nulla che nel profondo del cuore lei non sappia già». Isabelle non aveva altra scelta: doveva ingoiare quelle parole e zitta. Mentre Chivas parlava, continuò a fissare fuori dal finestrino per evitare di guardarlo. Stava ancora guardando fuori quando udì il rumore del motore e sentì la macchina ripartire. «È in fondo all'isolato. Sta venendo verso di noi». Isabelle si voltò rapidamente guardando davanti a sé. Vide attraverso la coltre di pioggia la macchina bianca che si avvicinava. Si sforzò di parlare con voce calma, soprattutto dopo tutto quello che quell'uomo aveva appena detto di lei. «Cosa facciamo?». Con tono freddo e sicuro Chivas rispose: «Con lei? Le facciamo paura. Non è lei che mi preoccupa». Continuò a procedere in direzione della Suzuki. Quando fu a una decina di metri di distanza, sterzò, s'infilò nell'altra corsia e accelerò puntando dritto dritto contro la Suzuki. Nonostante i finestrini chiusi, sentirono i freni stridere e il rumore degli pneumatici che sci-
volavano sull'asfalto bagnato. Isabelle non ebbe neppure il tempo di protestare o di avere paura: la manovra di Chivas l'aveva presa completamente alla sprovvista. Era successo tutto nel giro di pochi secondi da quando lei aveva visto la macchina avvicinarsi. Le uscì di bocca soltanto un gemito di sorpresa. Qualche istante prima dell'impatto, la Suzuki sterzò a destra finendo fuori strada, contro la pensilina di una fermata dell'autobus. Fortunatamente non c'era nessuno sotto, perché la macchina abbatté l'esile struttura di metallo finché non andò a sbattere contro un palo della luce. Isabelle vide una testa bionda sollevarsi dal volante. Era stata scaraventata lì dall'impatto, visto che Isabelle non metteva mai la cintura di sicurezza. Isabelle allungò il collo per vedere cos'era successo alla Isabelle di qualche anno prima. Chivas la rassicurò: «Sta bene: ha solo preso una botta in testa. Fortunatamente la macchina è fuori uso, il che significa che non dobbiamo più preoccuparci di lei. Anche se non è lei che mi preoccupa». «Chi è che la preoccupa?». Dovette attendere soltanto qualche minuto per scoprirlo. Si erano fermati a un semaforo rosso davanti alla Gürtel, la circonvallazione interna di Vienna che separa i distretti periferici dal centro. Isabelle era combattuta. Avrebbe voluto rispondere alle accuse crudeli che le aveva rivolto Chivas, e allo stesso tempo non riusciva a staccare gli occhi dalla strada per paura che arrivasse loro addosso un nuovo attacco da un momento all'altro. Chivas sembrava contento di continuare a guidare senza dover riprendere la discussione. Le cose del resto erano già abbastanza difficili così, visto che, come le aveva detto prima, le condizioni del tempo continuavano a mutare costantemente. Qualche volta i cambiamenti erano estremi, altre volte appena percepibili. Gli alberi adesso erano di nuovo in fiore. I davanzali pieni di cassette di fiori estivi. Qualche isolato più avanti le cassette erano state riposte al chiuso perché era ormai troppo freddo fuori. Riprese a piovere e a nevicare, ma niente di così violento come prima. Ma entrambi sapevano che in un batter d'occhio poteva accadere qualsiasi cosa. Ferma al semaforo davanti a loro c'era una BMW nera. Isabelle non se ne intendeva di macchine, quindi non sapeva l'anno di produzione di quel modello. Stava per chiederlo a Chivas quando la prima pietra cadde davanti a loro e atterrò con un tonfo metallico sul tetto della BMW. Era più o meno della grandezza di un pompelmo e così pesante che, invece di rimbalzare e cadere per terra dopo l'impatto, incurvò la carrozzeria della mac-
china e si fermò sul tetto. Nessuno dei due collegò subito questo nuovo shock con quanto era accaduto prima, finché un'altra pietra della stessa grandezza della prima non colpì in pieno il parabrezza della loro Audi e rotolò giù sul cofano. Se non fosse stato un cristallo antiurto, sarebbero stati investiti da una pioggia di frammenti di vetro. Adesso, però, non riuscivano a vedere più nulla fuori, perché il vetro era stato trasformato in una ragnatela di milioni di crepe cristalline. «Merda, merda, merda». Chivas infilò una mano nella tasca della portiera e tirò fuori un martelletto per battere il metallo. «Attenta alla faccia!». E senza aspettare che lei si coprisse, fracassò il vetro col martello, usandone la punta arrotondata. Con il viso girato da una parte e coperto dalle braccia, Isabelle sentì in gola un groppo di paura solido come un pezzo di legno. Senza abbassare le braccia, socchiuse le palpebre per dare un'occhiata al parabrezza. Chivas stava cercando di sfondarlo con il martelletto. A Isabelle venne in mente la pesca sotto un fiume ghiacciato. Le sembrava che stesse scavando un buco nel ghiaccio. Quando il foro fu ampio una trentina di centimetri, Chivas sporse la testa in avanti, al di sopra del volante, e guardò di qua e di là attraverso il foro per vedere cosa stesse succedendo fuori. Un'altra pietra colpì il cofano della macchina. Chivas inserì la retromarcia. Immediatamente investirono un pulmino fermo a pochi metri dietro di loro. Al che Chivas girò il volante a sinistra, poi fece una serie di manovre quasi sul posto finché non riuscì a superare la BMW e ad allontanarsi. Un'altra pietra cadde a poca distanza dalla loro macchina. Piovevano pietre come grandine, tutt'intorno a loro, con un rumore terrificante, spaventoso. Ma da un lato era un bene, perché col traffico paralizzato Chivas poteva proseguire indisturbato. Aveva le mani tutte sporche di frammenti di vetro e di terra. Se le pulì sul loden. «Erano pezzi d'acciottolato. Pesantissimi e vecchi centinaia di anni. Deve averli presi dalla strada. Poi è salita in cima a quell'edificio per buttarceli addosso». «C'ero io lassù, vero? Un'altra versione di me terrorizzata all'idea di ritornare da Vincent?». «Sì, c'era lei». «Faccia inversione e torni indietro», disse Isabelle con voce determinata. Chivas la guardò. «Come, prego?». «Voglio che faccia inversione e torni indietro».
«No, non posso». Chivas alzò una mano dal volante e la portò davanti a sé, come per indicare la strada. «Non ho il permesso di tornare indietro. Posso andare solo avanti». «Sta scherzando?». «No, Isabelle. Davvero non posso tornare indietro. Mi hanno dato istruzioni precise». «Allora mi faccia scendere qui. Vengo al caffè da sola, arriverò appena posso». Erano a due isolati dalla Gürtel. Chivas accostò. Aveva ripreso a piovigginare. «Cosa ha intenzione di fare?». Isabelle alzò gli occhi al cielo e scoppiò in una debole risatina. «Ha detto che sono una codarda. È ora che le cose cambino». Lui annuì senza chiederle cosa avesse in mente. Rimasero entrambi in silenzio per qualche istante, navigando ognuno nei propri pensieri. Alla fine Chivas disse: «L'aspetterò qui». Lei aveva già una mano sulla maniglia. «È gentile da parte sua, ma non so se ce la farò a tornare. So solo che devo farlo». «Porti con sé Hietzl». «Cosa può fare?». «Hietzl? Ogni genere di cose. E poi tiene compagnia». «No, è una cosa che devo fare da sola. Senza nessun aiuto, senza nessuna magia... da sola». «Capisco, Isabelle. L'aspetteremo qui». Lei annuì e aprì la portiera. Scendendo sentì una pioggerellina fitta caderle sul capo e sulle mani. Avrebbe voluto aggiungere qualcosa, ma non sapeva cosa, così s'incamminò senza dire altro. Poi le venne in mente una cosa e fece dietro-front. Quando la vide di nuovo accanto alla portiera, Chivas abbassò il finestrino. Lei si chinò e gli disse: «Grazie per avermi portato sin qui. E grazie per avermi detto la verità». Dieci minuti dopo Isabelle era di nuovo all'incrocio in cui erano stati assaliti dalla pioggia di sassi. Qualcuno aveva rimosso le pietre dalla strada, mettendole tutte in fila lungo il marciapiede. Anche la BMW nera era stata parcheggiata sul marciapiede. Il guidatore stava parlando con due poliziotti e indicava il tetto di un edificio dall'altra parte della strada. Isabelle immaginò che fosse da lì che erano state lanciate le pietre. Non si avvicinò a quegli uomini per evitare di dover rispondere a qualche domanda. Si fermò all'angolo e guardò su mentre la gente continuava a camminarle intorno e le macchine si fermavano al semaforo e ripartivano.
Alla fine i tre uomini smisero di parlare. La BMW con il tetto incurvato scese dal marciapiede e si allontanò. Uno dei due poliziotti mise penna e blocco per gli appunti sottobraccio ed entrambi attraversarono la strada ed entrarono nell'edificio. Non appena furono scomparsi, apparve sul tetto, al quinto piano dell'edificio, una testolina bionda. Isabelle non ne fu sorpresa. Né fu sorpresa quando vide la prima pietra cadere. Finì piuttosto lontano da lei e rotolò via. Portandosi le due mani alla bocca come aveva fatto prima la nonna, Isabelle gridò alla donna sul tetto: «Scendi. Voglio parlarti». Un paio di braccia le scagliarono addosso un'altra pietra. Questa cadde più vicino. Isabelle le si accostò, per darle un'occhiata. Era nera, striata e pareva piuttosto pesante. Ma quando Isabelle le infilò sotto entrambe le mani per cercare di sollevarla, con sua grande sorpresa scoprì che non pesava quasi nulla: come una pallina da tennis o una scatola di cartone o di legno di balsa vuota. Isabelle alzò la testa proprio mentre un'altra pietra cadeva sulla strada con un gran tonfo sordo. Una macchina che stava arrivando non riuscì a evitarla e le passò sopra. La pietra non si mosse. La macchina ballonzolò mentre la gomma le saliva sopra e scendeva dall'altra parte. Vedendo ciò, Isabelle pensò che quella fosse diversa: doveva essere pesante come un macigno. Senza un attimo di esitazione lasciò cadere l'altra e si avvicinò a quella che si trovava adesso in mezzo alla strada. Sfiorandola con il piede, al primo contatto le parve di sentire un peso notevole, ma poi, come se la pietra avesse compreso chi la stava toccando, perse ogni peso e divenne leggera come una piuma. Isabelle la raccolse con una mano e ritornò sul marciapiede. Guardò di nuovo su. Ecco quella testolina bionda che la guardava dall'alto. Che cosa doveva fare adesso? Che cosa poteva fare? Mentre rifletteva, si portò istintivamente la pietra alle narici e la annusò. Immediatamente il suo naso percepì trent'anni di paure, bugie e inganni. Sono cose che hanno un odore preciso. Un odore comune, metallico, non dissimile da quello del sangue. Fresco, ma anche stantio, quasi antico. Lo conoscono tutti, anche se difficilmente ammettono di averlo sentito su di sé chissà quante volte. È orribile, tremendamente imbarazzante. Buone intenzioni, belle speranze, amore. Eravamo sicuri che questa volta avrebbe funzionato; eravamo sicuri che questa fosse la persona giusta, o la situazione ideale, quello che avevamo aspettato per tutta la vita. Ma ci sbaglia-
vamo. E così, mentre le nostre paure, le nostre menzogne e tutti gli altri inganni fanno di nuovo la loro apparizione in scena, quell'odore torna a tormentarci. Questi erano i pensieri di Isabelle, mentre riconosceva il proprio odore sulla pietra che aveva in mano. Non era un pezzo d'acciottolato, era una delle armi che da sempre usava per distruggere se stessa. Eppure adesso sapeva che non appena l'aveva toccata, quella pietra era divenuta inoffensiva. Probabilmente perché era tornata indietro ad affrontare quella donna sul tetto. Tutto ciò la fece infuriare. Infuriare. Sì, infuriare, ma no, non tutto ciò, lei, la donna sul tetto, la Isabelle che a Londra era fuggita da Vincent perché non aveva sentito le parole esatte che voleva udire... Le fece venire voglia di... La pietra era grande come un pompelmo ma non pesava più di una pallina da tennis. Isabelle non riuscì a trovare altro modo di dare sfogo alla sua rabbia se non di tirarla con tutta la propria forza contro quella stupida donna in cima al tetto. Quando si è in collera come lo era Isabelle in quel momento, non è difficile lanciare una pallina da tennis al quinto piano di un edificio. Anzi, può arrivare anche molto più in alto. La pietra volò sul tetto dell'edificio, non molto lontano da quella maledetta testolina bionda che sbucava lassù. E anche se in realtà non era poi arrivata così vicina, la testa si abbassò e scomparve per paura di essere colpita. Una pietra non era abbastanza. In preda alla collera più nera, Isabelle si avvicinò alle altre sul marciapiede. E una dopo l'altra le lanciò tutte sul tetto. Senza preoccuparsi di prendere la mira o altro, si limitava a scagliarle in aria più forte che poteva. Alla fine strizzò gli occhi per vedere se quella testolina fosse ancora sul tetto o fosse scomparsa. Una vecchia donna grassa con due borse di plastica piene di cavoli comperati a poco prezzo al Naschmarkt si era fermata a guardarla. Quando quella ragazza ebbe portato a termine quella sbalorditiva prova atletica, le chiese come avesse fatto. Non voleva sapere perché mai qualcuno da un marciapiede, nel bel mezzo del pomeriggio, si mettesse a tirare su un tetto grosse pietre ottagonali. Voleva solo sapere come avesse fatto. La ragazza si strofinò il naso come se le prudesse spaventosamente. Per un attimo la donna con i cavoli pensò che si stesse preparando a qualche altro gesto violento. Ma Isabelle stava solo cercando di trovare le parole giuste per esprimere quello che voleva dire. Quando le ebbe trovate, puntò un dito
verso la donna e iniziò ad agitarglielo davanti. «Non si può cambiare il passato, ma il passato può tornare a cambiare noi, il nostro presente e il nostro futuro». La donna trovò quella dichiarazione piuttosto interessante. Ma in realtà avrebbe soltanto voluto sapere come aveva fatto quella ragazza mingherlina e dall'aspetto così etereo a tirare delle pietre così pesanti sul tetto di quell'edificio. «Il passato è determinato. Immutabile». Isabelle aveva preso il via ormai, stava pensando ad alta voce, non si sarebbe fermata tanto facilmente. Iniziò a parlare a voce sempre più alta e sempre più rapidamente. In breve la donna con le borse della spesa riuscì a malapena a capire qualche parola. «È morto, ma continua a tornare e a impedirci di andare avanti. Si mette in mezzo e intralcia il nostro presente... e il nostro futuro». Indicò il tetto senza smettere di guardare la donna negli occhi. «Tutte quelle cose che mi ha buttato addosso erano vecchie, tutta roba del mio passato. Ma prima era sempre riuscita a fermarmi». Fece una pausa per riprendere fiato, mentre quelle parole si sedimentavano e le macchine continuavano a passare loro accanto. «Ma come ha fatto a sollevare quelle pietre così grosse?». Isabelle la guardò come se quella donna avesse appena parlato in urdu. «Cosa?». «Quelle pietre... come ha fatto a tirarle fin lassù?». «Mi dispiace, devo proprio andare ora», disse Isabelle e fece per allontanarsi. «Cos'è, uno scherzo? Siamo in televisione?». La donna all'improvviso s'illuminò, pensando che si trattasse di una Candid Camera. Si guardò in giro speranzosa, ma non riuscì a scorgere nessuna telecamera nascosta. Senza smettere di camminare, Isabelle puntò di nuovo il dito verso di lei. «Non lasci che il suo passato le metta paura e le impedisca di fare quello che vuole fare». Sempre arretrando, Isabelle si prese i polsi con le mani. «Prova sempre a legarci le mani e a farci lo sgambetto, glielo impedisca!». Si voltò e s'allontanò rapidamente. La donna con le borse della spesa si diede un'ultima occhiata intorno, con ancora un filo di speranza di veder apparire le telecamere, ma invano. Sospirando, afferrò meglio le proprie borse e ripartì alla volta di casa sua e della zuppa di cavolo che avrebbe preparato per cena. A causa della loro conversazione, nessuna delle due aveva più guardato su e così non si erano accorte che la testolina bionda aveva provato a lan-
ciare giù un'altra pietra, che era stata sollevata in aria come un fazzolettino o una carta di caramella finché una brezza in cerca di qualcosa con cui giocare l'aveva trasportata via nella direzione opposta. Chivas stava dando da mangiare a Hietzl un Debrenizer quando Isabelle bussò sul vetro del suo finestrino con il dorso della mano. Premette un bottone e aprì la portiera alla sua destra. Lei sentì il rumore e fece il giro della macchina. «Wow, già di ritorno? Che velocità!». Lei prese il salsicciotto sul piattino di carta che le stava porgendo Chivas. Pazientemente seduto sul sedile posteriore, Hietzl osservò il cambio di mani del suo pasto. Isabelle spezzò un pezzettino di carne e glielo diede. Il cane masticò lentamente gustandosi il boccone. Prima di dargliene un altro pezzetto, Isabelle guardò quel che rimaneva del salsicciotto. «Forse avrei dovuto dirle: "Non lasci decidere al suo passato con quali spezie condire la sua carne"». Chivas non sapeva di cosa stesse parlando, ma in linea di principio era d'accordo. «È vero. Col tempo i gusti cambiano. Quando ero piccolo mi piaceva il gorgonzola. Adesso mi basta sentirne l'odore per farmi venire voglia di vomitare». Isabelle diede al cane gli ultimi pezzetti di carne mentre Chivas rimetteva in moto e ripartiva. Alla Ringstrasse girò a sinistra invece di proseguire dritto per il centro. «Perché passa di qua? Pensavo che andassimo al Café Diglas». «C'è stato un cambiamento. La devo portare all'aeroporto». «Perché all'aeroporto? Vincent è lì?». «No, Vincent è in America. Deve prendere l'aereo per raggiungerlo». «Ma sono appena andata in America in aereo». «Lo so, ma non c'è altro modo di arrivarci ora. Quando abbiamo attraversato la Gürtel, siamo entrati nel presente. Non ho più alcun potere, a parte questo ultimo tocco magico». Tirò fuori di tasca un biglietto aereo e un passaporto, quello di Isabelle, che lei aveva lasciato nell'appartamento di Vincent. Li prese, per nulla felice di doversi fare altre dodici ore d'aereo. «Come ha fatto a procurarsi il mio passaporto?». «Lo è andato a prendere Hietzl. È appena tornato. Per questo ha tanta fame». Lei girò lo specchietto retrovisore per vederlo. Si stava leccando i testicoli. «Come faceva a sapere che sarei tornata, Chivas? Come faceva...».
«La mia esperienza con lei, per quanto breve, mi ha dimostrato che è diventata una lottatrice. Ha accettato la sfida ed è tornata ad affrontare ciò che le faceva paura». Era bello sentire quelle parole. Era sicura di essere arrossita, ma non le importava. «Grazie. Ma perché Vincent non è al caffè?». «Perché ha avuto un grave incidente stradale. E in coma e non sanno se ce la farà». Il mio iiif Ettrich era sul palco con il pubblico in delirio. Ridevano tanto che doveva fare pause un po' più lunghe del solito tra una battuta e l'altra. A metà del pezzo su Satana e le buste imbottite, la reazione degli spettatori gli aveva dimostrato che era partito alla grande. Si fa presto a dire se un pubblico ti segue o no. È come durante i primi approcci a una donna: se la fai sorridere e il sorriso non si spegne subito, puoi stare tranquillo. Oppure, se piega un poco la testa in avanti per non perdersi una parola di quello che dici, o non ha le braccia incrociate sul petto per tagliarti fuori... sono questi i segni che bisogna cercare di individuare. Sì, è molto simile a quando una donna ti si apre per la prima volta. Era uno dei suoi sogni favoriti. Ogni volta che lo faceva, si svegliava felice e pieno d'energia. Da sveglio sapeva benissimo di non essere tagliato per fare il comico, ma quando dormiva era davvero in gamba, uno dei migliori. «Avete mai notato che alle donne grasse piacciono gli oggetti di pelle? Sapete perché?». Stava arrivando alla ciliegina sulla torta, al cuore del suo numero con le battute migliori, le intuizioni più azzeccate. Anche quando la prima parte dello show qualche volta aveva dei cedimenti, sapeva di avere il pubblico ai suoi piedi da quel momento in poi. Si allontanò di un passo dal microfono e si strofinò le mani. Trasse un lungo respiro perché lo aspettava una tirata un po' lunga e doveva sparare una battuta dopo l'altra a raffica, se voleva che il tutto funzionasse alla perfezione. Quando riafferrò il microfono, qualcuno tra il pubblico si alzò in piedi. Ettrich avrebbe voluto urlare: Siediti! Ti prometto che ti dovrai tenere la pancia dalle risate. Aspetta ancora cinque minuti prima di andare a pisciare. Stammi a sentire... Era un uomo. Un uomo alto. Ettrich non riusciva a vederlo bene perché la sala era buia e lui aveva le luci negli occhi. Ma riuscì a scorgere un uo-
mo alto alzarsi da uno dei primi tavoli e dirigersi verso un lato della sala. Un comico ha due possibilità di reazione di fronte a una situazione del genere: ignorarla o affrontarla di petto. Il pubblico e l'energia in sala quella sera gli davano una tale sicurezza che Ettrich optò per la seconda. «Guardate quel tipo che si alza nel bel mezzo dello show. Vuol dire che o...». Prima di avere la chance di finire la frase, questi, un uomo di colore elegantemente vestito, si avvicinò al palco. Ettrich trasalì quando lo riconobbe. Era Tillman Reeves, il suo compagno di stanza in ospedale quando era morto. «Salve, Vincent». «Till, cosa ci fai qui?». Qualcuno in fondo alla sala gridò: «Più forte, non si sente niente da qui». «Possiamo parlare, Vincent?». «Qui? Adesso?». Sbalordito, Ettrich guardò il pubblico. Non riusciva a credere che Till gli facesse una richiesta così ridicola nel bel mezzo dello spettacolo. «È solo un sogno, Vincent. Puoi fare quello che vuoi in un sogno». «Lo so, ma sto facendo uno spettacolo, Till...». «Stai anche morendo, amico mio, il che è più importante al momento. Non pensi sia il caso di parlarne?». «Più forte! Non sentiamo niente!». Tillman fece cenno a Vincent di precederlo. Nel bel mezzo del suo numero ! Rassegnato, Ettrich scese dal palco e si diresse al tavolo di Reeves. Si sentiva come un bambino fatto uscire di classe per essere accompagnato dal preside. Il pubblico non parve particolarmente deluso. Il presentatore saltò sul palco e incitò gli spettatori a fare un applauso a Vincent Ettrich. La risposta non fu entusiastica, ma Ettrich sapeva che se avesse potuto arrivare alla fine del suo numero, la situazione sarebbe stata diversa. Poiché si trattava di un sogno, fu rimpiazzato sul palco da Richard Kroslak, il suo nemico numero uno, un cretino che raccontava ancora le bambinate e le barzellette oscene che non fanno più ridere nessuno neanche in quinta elementare. Ma il pubblico quella sera sembrava estasiato, ridevano tutti come iene a qualsiasi cosa dicesse. Con profondo rammarico di Ettrich, si sarebbe detto che apprezzassero molto di più il numero di Kroslak del suo. «Sai cosa ti è accaduto, Vincent?». Sebbene fosse seduto accanto a Tillman, Ettrich non riusciva a smettere
di guardare e ascoltare quell'idiota di Kroslak. «Vincent?». Ettrich sbatté le palpebre, poi rivolse il proprio sguardo e la propria attenzione all'amico. «Sì, Till?». «Ti ricordi cosa ti è successo?». «Intendi l'incidente?». Il viso di Reeves si rilassò. «Sì. Te lo ricordi?». Ettrich ci pensò un po' su, poi alla fine disse: «Stavo attraversando un incrocio quando un'altra macchina mi ha coperto la visuale». «Bene! Te lo ricordi allora». «Perché non dovrei? Stavano cercando di farmi fuori». Till scosse la testa. «No, volevano che succedesse esattamente questo. Volevano che tu rimanessi gravemente ferito o finissi in coma». Ettrich rimase impassibile. Intrecciò le dita su un ginocchio. «Non importa. Non si sta male qui». Quando era vivo aveva sempre sentito dire che quando la gente moriva e ripensava alla propria vita la trovava vuota e deludente. Ho lottato con così tanta energia per rimanere lì? Adesso sapeva che era proprio così, vivere era una cosa ben sciocca e vana. Una graziosa cameriera si avvicinò e senza che li avessero ordinati servì a entrambi i loro drink preferiti. Prendendo i bicchieri dal vassoio, li sollevarono in un reciproco brindisi e bevvero un sorso. Perfetto. Tillman posò il proprio bicchiere sul tavolo. «Be', il coma è indiscutibilmente un luogo piacevole. È il posto ideale in cui decidere se vivere o morire». Ettrich continuò a bere. «Si ritrovano tutti in un cabaret quando entrano in coma?». «No, si può scegliere qualsiasi posto: le Maldive, un'amaca in cortile su cui guardare le lucciole di una notte d'estate... Qualsiasi luogo in cui si stia in pace e si possa pensare con chiarezza». Il comico doveva aver fatto una gran battuta perché il pubblico era scoppiato in una risata fragorosa. Ettrich si guardò intorno. «E allora perché diavolo io avrei scelto di venire qui a vedere questa gente che si sganascia dal ridere alle battute di Richard Kroslak?». «Non lo so, Vincent. È a te che devi rivolgere questa domanda. Hai deciso cosa vuoi fare?». «Adesso?». «Hai intenzione di morire di nuovo?». Till girava e rigirava il suo bicchiere sul tavolo con le lunghe dita.
«Non ci ho ancora pensato, in realtà», rispose Vincent, poi gli venne in mente una cosa e guardò Till. «Sono di nuovo in ospedale, vero? Ecco perché sei qui. L'ultima volta che ci siamo visti, hai detto che non potevi uscire. Allora sono di nuovo in ospedale, sul punto di morire, eh?». «E in ospedale che si va, in genere, quando si finisce in coma, Vincent». In quel momento arrivò Coco e si sedette al loro tavolo. Indossava un abito attillato color argento che la faceva assomigliare a un tagliacarte sexy. «Wow, Coco. Stai da Dio». Lei s'illuminò e lo baciò sulla guancia. «Grazie. È l'ultima volta che ci vediamo, Vincent. Pensavo che sarebbe stato carino indossare qualcosa di speciale per l'occasione». Un fragoroso applauso si levò intorno a loro. Kroslak lasciò il palco correndo con le braccia in aria per salutare i fan in delirio. In sala si accesero le luci e il pubblico cominciò a chiacchierare. «Hai nove vite, Coco. In realtà pensavo che non ci saremmo più rivisti quando ti hanno ammazzata allo zoo». «E successo in quella dimensione. Ma adesso siamo in una dimensione diversa e questa è davvero l'ultima volta che ci incontriamo». Si protese verso di lui e gli prese entrambe le mani, le strinse un istante, poi le lasciò andare. Quindi sia Coco che Tillman si misero a fissare Ettrich come se si aspettassero che dicesse qualcosa di significativo o di decisivo. Ma non c'era nulla da dire. Gli piaceva quel sogno e non aveva nessuna voglia di uscirne. Si divertiva a fare il suo numero sul palco e sapeva che con un po' di esperienza in più sarebbe diventato un grande comico. Da qualche parte nella sua mente c'era il pensiero di Isabelle e Anjo, ma erano come città lontane che aveva visitato tempo fa e, pur avendole amate, non aveva desiderio di rivederle. Delusi dal suo silenzio e dall'espressione un po' vacua dei suo viso, Coco decise di giocare il tutto per tutto. «E il mio iiif, Vincent? Te ne sei dimenticato?». Ettrich si irrigidì mentre i suoi occhi emanavano fiamme di fuoco. Scattò in piedi. «Vaffanculo, Coco. Non avevi alcun diritto di farlo». Con grande sorpresa di Reeves, Ettrich s'allontanò dal loro tavolo senza voltarsi indietro. Coco si diede uno schiaffo in fronte ed esclamò: «Merda!». Tillman Reeves non disse nulla, ma era così imbarazzato che non riusciva neanche a guardarla.
«Sono stata una stupida, Till... una vera stupida». Senza aggiungere altro, si alzò anche lei e seguì Ettrich fuori. Sempre senza alzare lo sguardo, Reeves prese il suo drink, ne bevve un sorso, poi ripose delicatamente il bicchiere sul tavolo. Coco conosceva le regole. Ma ne aveva appena infranta una bella grossa. Le decisioni umane devono essere volontarie. Senza alcuna coercizione né inganno, perché altrimenti le cose possono prendere una brutta piega, con risultati spesso vani o disastrasi. Ma era così impaziente di tirar fuori Ettrich da quel suo stupido sogno per riportarlo alla sua vita dove c'era urgentemente bisogno di lui, che aveva fatto quello che non avrebbe mai dovuto fare. Fino a quel momento gli unici a sapere del "mio iiif" erano stati Vincent e Isabelle. Era il loro segreto, il loro tesoro. Nessuno dei due ne aveva mai parlato con nessuno. Quando Coco aveva visto l'indifferenza di Vincent nei confronti della vita, era entrata nella sua mente. E senza esitazione era andata in cerca di quel gioiello per farglielo ciondolare davanti e dire: guarda, ecco perché devi tornare indietro. Ecco il motivo. Ai primi tempi della loro relazione, quando sia Ettrich che Isabelle sapevano già che quello che c'era tra loro era qualcosa di grande, una notte, mentre stavano facendo l'amore, Isabelle era scoppiata a piangere. Le lacrime all'inizio erano sgorgate perché aveva paura dell'intensità dei sentimenti che provava per quell'uomo, poi quel pianto si era trasformato in qualcosa di più profondo. Ettrich non sapeva che fare. Lei lo stringeva a sé piangendo, senza smettere di fare l'amore. Continuava a muoversi su e giù, ad accarezzarlo, mentre le lacrime le scorrevano giù per le guance e cadevano sulla pelle nuda di Vincent. Lacrime sempre più abbondanti e singhiozzi rotti mentre i movimenti di Isabelle si facevano sempre più veloci e frenetici. Ettrich sapeva che non erano lacrime di felicità, ma non aveva idea di cosa significassero. Tristezza? Turbamento? Con l'intensificarsi delle lacrime, anche il desiderio di Isabelle crebbe sino a trasformarsi in un assalto possente che Vincent riusciva a malapena a contenere. Poi anche lui ne fu travolto e fu attirato al centro di quel vortice. Smise di pensare e il suo corpo prese il sopravvento. Fu sopraffatto. Non aveva mai, mai prima d'allora perso il controllo facendo l'amore, ma ora era proprio quello che stava succedendo. Era un'esperienza trascinante, irresistibile. All'improvviso lei iniziò a gridare con voce acuta, stridente. Per qualche
momento a Vincent parve che parlasse una lingua sconosciuta, poi, quando raggiunse l'orgasmo, Isabelle disse: «Il mio iiif». E mentre l'orgasmo continuava, la «i», giunta da quello strano mondo, continuò a echeggiare sulle sue labbra. Sembrava che quell'orgasmo non finisse mai, che si facesse anzi sempre più intenso. Vincent non pensò neanche un istante a raggiungere l'orgasmo, tutto preso dall'intensità di quel momento. Quando infine Isabelle iniziò a scendere pian piano sulla terra, mentre il suo corpo si rilassava e le sue dita smettevano di stringere le braccia di Ettrich, si guardarono negli occhi. Avevano finalmente trovato tutto quanto avessero mai desiderato in una persona. Per qualche secondo, alcuni istanti sacri, entrambi provarono un senso di completezza, accompagnato a un vero e proprio sentimento di trascendenza. Nessuno dei due avrebbe mai più sperimentato nulla di simile. Quando il respiro della vita tornò regolare, Ettrich disse di avere sentito che in quel momento avevano dato vita a un essere che era al tempo stesso un'emanazione di loro due e qualcosa di distinto, dotato di vita propria. Adesso viveva sulla terra e avrebbe continuato a farlo, finché anche loro non fossero scomparsi. Isabelle una volta aveva letto una poesia che diceva più o meno la stessa cosa, ma non glielo aveva detto perché era inebriata da quell'esperienza ed estasiata di sentirgli dire una cosa simile. Ettrich le chiese timidamente cosa significasse quell'«iiif». Lei lo guardò senza capire. Glielo spiegò. «Non so da dove sia venuto, Vincent». Isabelle rimase un attimo in silenzio accarezzandogli il viso. La sua mano era calda e umida. «Forse è il suo nome, il nome di quello che abbiamo creato insieme. È il mio iiif. Il nostro iiif». Forse per imbarazzo, o perché quelle parole erano improvvisamente divenute sacre per entrambi, Isabelle non disse mai più «il mio iiif» facendo l'amore. Ed entrambi ne parlarono ancora soltanto ripensando a quella notte e all'importanza che aveva per loro. Su una cosa erano d'accordo: era stata per entrambi l'unica esperienza del sacro che avessero mai avuto. Aprendo la porta sul retro del locale, Coco fu assalita dall'aspro odore dell'asfalto e dei gas di scarico: due odori che Ettrich amava profondamente. Erano vicino a una superstrada, si sentiva il rumore del traffico e delle macchine che passavano. Coco attraversò il parcheggio cercando di vedere Vincent. Poiché si trattava di un suo sogno, quel mondo rispondeva alle regole dettate da lui. A pochi metri da lì c'erano due ragazzotti con il giub-
botto del loro liceo e un taglio di capelli da Beatles impegnati a picchiare Richard Kroslak di santa ragione. Il poveretto continuava a gemere: «Non lo faccio più. Giuro che non rimetto più piede qui dentro», ma i suoi assalitori continuavano a coprirlo di pugni. Appoggiate a una Chevelle rosso fuoco, due graziose adolescenti fumavano una sigaretta declamando le prestazioni di Vincent Ettrich. Dopo averle ascoltate per qualche istante, Coco si avvicinò e domandò se lo avevano visto. Entrambe indicarono a sinistra e ripresero la loro conversazione. «E la sua lingua! È o non è incredibile il modo in cui sa usare la lingua?!?». Coco doveva ammettere che Vincent baciava in modo splendido. E faceva l'amore in modo splendido. Una volta le aveva detto che la maggior parte delle donne non sa fare l'amore. Ma la cosa più incredibile è che credono tutte di essere uno schianto a letto. Coco non sapeva se era uno schianto o no. Di certo le piaceva fare l'amore. A differenza di Vincent, c'erano diverse cose della vita che le sarebbero mancate adesso che se ne doveva andare, e il sesso era una di quelle. Iniziò a fischiettare tra sé My Favorite Things di The Sound of Music (un'altra cosa che adorava erano i musical) mentre attraversava il parcheggio nella direzione indicata dalle due ragazzine. Cosa poteva dirgli per convincerlo a tornare alla vita? «Niente». Per un istante Coco pensò di avere detto lei «niente» ad alta voce a mo' di risposta, ma non era così. Seduto sul cofano di una delle macchine parcheggiate davanti a lei vide Bruno Mann. Malgrado tutti i consigli che gli avevano dato dal barbiere, il Re del Parco aveva deciso di assumere di nuovo l'aspetto della persona che Ettrich aveva sempre conosciuto. Voleva vedere la sua faccia quando avrebbe scoperto chi era veramente. «Salve, signorinella». Coco si arrestò e lo guardò come se stesse osservando un tornado che puntava dritto verso di lei. «Non dovresti essere qui, Bruno. Sono sicura che Vincent non ti farebbe mai entrare in un suo sogno». Mann aveva appoggiato le mani dietro di sé, sul cofano della macchina. Si lasciò andare all'indietro, perfettamente a suo agio. «È vero, ma è anche vero che tu non avresti dovuto andare a pescare nella sua testa strani iiif o altre cose del genere. Abbiamo fatto i birichini tutti e due. Se non lo dici a nessuno, ti prometto che non lo dico nemmeno io. E poi, non sei colpita di
vedermi qui? Non è tanto facile entrare nel coma di qualcuno senza essere invitati». «Perché sei venuto?». Coco si guardò intorno rapidamente per vedere se ci fosse qualcun altro con lui. «Perché dovrebbe esserci qualcun altro con me? Ho già te, baby», rispose Bruno canticchiando le ultime parole. Era scorretto da parte di Bruno leggerle nel pensiero, ma Coco non poteva far niente per impedirglielo. Tra l'altro Bruno emanava una forza che non gli aveva mai sentito. Era agghiacciante. «Dimmi perché sei qui, Bruno». Con un sorriso trionfante, Mann disse: «Per assistere all'ultimo atto di questa storia, ai risultati del mio lavoro. Hai sentito che mi hanno fatto Re del Parco? Con i poteri che ho adesso, posso fare più o meno qualsiasi cosa. Non c'è male, eh? Ma con Vincent non è neppure necessario che faccia nulla, perché qualsiasi cosa decida ora, si autodistruggerà. Hai sentito cos'ha detto: sta bene qui. Non è incredibile dopo tutto quello che ha passato e sperimentato? È vissuto, è morto, è risorto con ogni genere di poteri straordinari e di ragioni per vivere. Ma tutto ciò non ha alcuna importanza, perché vuole lo stesso stare qui a fare un numero cretino in un cabaret comatoso. Incredibile. Gli esseri umani sono incredibili. Non meritano un posto nel mosaico. Sono così stramaledettamente ciechi». «Non è semplice capire certe cose». Bruno trovò quel commento estremamente divertente. «Oh, certo, proprio così... Smettila di trovare delle scuse. Hai perso, Coco, ammettilo. Guardalo: non ha imparato niente. Guarda che cosa gli passa per la testa adesso: non gli importa niente di vivere, e non gli importa niente della sua ragazza o del loro bambino, o di quello che succederà se lui muore... In un modo o nell'altro, Ettrich ha perso. Se decide di morire ora, non avrà modo di insegnare nulla ad Anjo. Nota bene: se decide di morire. Ma mettiamo che scelga di ritornare alla vita. Allora è in coma profondo e ha bisogno di sangue. Sapevi che lui e la sua ragazza hanno lo stesso gruppo sanguigno rarissimo? L'ospedale in cui è ricoverato è pieno di nostri uomini. Isabelle arriverà e chiederà cosa può fare per lui. I nostri medici le diranno che Vincent ha immediatamente bisogno di una trasfusione per sopravvivere. Il che è vero». Bruno si diede una spinta con le braccia e scivolò con grazia giù dalla macchina.
«Adesso arriva il bello: lei dirà loro che ha lo stesso gruppo sanguigno di Vincent. I medici la guarderanno con espressione grave e solenne e le diranno semplicemente la verità, ovvero che è molto pericoloso per una donna incinta dare il proprio sangue. Perché sono anemiche e perdere sangue può causare seri danni al bambino. Ma poiché lei ora ama Vincent così tanto, ed è sicura del suo amore, rischierà. Sceglierà di barattare la vita di Anjo per quella di Vincent. Perché, donando il suo sangue all'uomo che ama, Isabelle provocherà seri danni a quel loro bambino speciale. Anjo sopravviverà, ma sarà un po' lento. Non come un bambino down, ma abbastanza da non capire le cose che il suo papà proverà a spiegargli quando sarà un po' più grande. Così, qualunque cosa succeda ormai, la decisione è nelle loro mani: sta a loro scegliere come essere sconfitti. Direi che è una conclusione piuttosto brillante, no? Me ne devi dare atto». «Come fai a sapere che quando saprà del pericolo che corre, Isabelle vorrà lo stesso dare il proprio sangue a Vincent?». Coco sapeva di annaspare disperatamente, ma non le veniva in mente niente di meglio per controbattere. «Perché la loro è una vera storia d'amore, tesoro, e il vero amore è sempre caotico. Si perde il controllo. Si perde il senso della prospettiva. Si perde la capacità di proteggere se stessi. Più grande è l'amore, più grande è il caos. E un dato di fatto. E non è un segreto per nessuno. E io mi sono scervellato tanto alla ricerca delle più raffinate astuzie per sbarazzarmi di loro. Finché non ho avuto un'illuminazione: dovevo fare un passo indietro e lasciare che fosse il loro amore a distruggerli. Tutto qua. L'amore funziona da incubatrice per il caos: non c'è bisogno di far altro che metterglielo dentro e aspettare che dia i suoi frutti». Si portò un braccio al petto e distese l'altro di fianco a sé come se avesse tra le braccia una compagna di ballo. Al ritmo di My Favorite Things canticchiò: L'amore è un vi-rus che ti distrugge l'hard disk, L'amore è morte certa per ogni lo-gi-ca... Continuò a danzare, piroettando lentamente. Girava attorno alle macchine parcheggiate, fermandosi per far fare un casqué alla sua invisibile compagna o per farla volteggiare in aria, gustandosi estaticamente quel balletto. Adesso Bruno aveva tutto il tempo del mondo, perché aveva finito il
suo lavoro. E al momento era anche il Re di quel Parcheggio. Coco lo osservò con disgusto, perché sapeva che quello che aveva detto era la verità. Bruno non doveva più preoccuparsi di nulla. Doveva soltanto aspettare che il legame tra Isabelle e Vincent facesse la sua parte, e qualunque direzione prendesse la cosa, Anjo era ormai destinato a fare una brutta fine. Quando, proprio sopra la loro testa, iniziarono a esplodere in cielo grandi fuochi d'artificio che illuminarono i loro visi rivolti all'insù con sfolgoranti fiammate e lunghe stelle filanti colorate, l'uno immaginò che fosse opera dell'altra, e viceversa. Bruno pensò si trattasse di un'inattesa, graziosa ovazione da parte di Coco. Coco pensò che fosse un vistoso plauso di Bruno a se stesso. Era uno spettacolo così bello, così strabiliante che rimasero per qualche istante immobili a osservarlo in silenzio. Raggiante, Bruno pensava: Me lo merito. Coco, invece, diceva a se stessa: Che stronzo, che razza di stronzo arrogante. In cielo continuavano a esplodere fiori, bandiere, missili e coniglietti che illuminavano i loro volti, le macchine, il parcheggio e tutto il resto. Una bianca betulla nascosta nell'oscurità all'improvviso si mise a scintillare. I lapilli e le vampate di luce che deflagravano in cielo rischiararono le strisce bianche del parcheggio. Era una fantasmagoria emozionante, unica, che riportava in vita il bambino traboccante di un purissimo senso di meraviglia che è in noi. Sia Bruno che Coco avrebbero voluto dire qualcosa, ma non riuscivano a staccare gli occhi da quella scena grandiosa. Nel bel mezzo della grancassa, una cascata multicolore da cui si sollevava un ventaglio di spruzzi e zampilli, che sembrava occupare ogni centimetro di cielo, Bruno sentì una voce sussurrargli all'orecchio: «Che ne dici del mio show?». Voltandosi, vide a meno di mezzo metro da sé Vincent Ettrich che lo guardava dritto negli occhi. Il crepitante fragore dei fuochi d'artificio sommerse il primo tentativo di risposta di Bruno. «Sono tuoi?». Ettrich si portò una mano all'orecchio per mostrare che non aveva capito. Bruno gridò: «Sono tuoi questi fuochi?». «Sì, è il mio sogno, così ho deciso di far scoppiare un po' di fuochi d'artificio. Giusto per creare un'atmosfera di festa», urlò Ettrich di rimando. Bruno non disse nulla. Vincent non sembrava minimamente sorpreso di vederlo lì.
«Come stai, Vincent?». Ettrich gli diede una pacca sulla spalla un po' troppo forte. «Dopo che hai provato ad ammazzarmi in macchina? Sto bene, Bruno. Sono felice di vederti». Bruno fu preso alla sprovvista. «Davvero? Non sei arrabbiato che io sia qui?». «Ne sono deliziato». Coco non li sentì. Guardava i fuochi rapita e solo dopo aver visto l'ultima luce spegnersi in cielo, abbassò la testa. Non si aspettava di vedere Vincent. Invece, eccolo lì, con una mano sulla spalla di Bruno, proteso verso di lui come uno che stia raccontando a un amico l'ultima barzelletta sconcia che aveva sentito. Coco disse in un tono dolente e amareggiato: «Vincent, mi dispiace così tanto per quello che ho detto dentro...». Lui scosse la testa: non era più il caso di parlarne. «Allora, Bruno, non mi dici niente dei miei fuochi d'artificio? Non mi vuoi chiedere per quale motivo li ho voluti?». «D'accordo, Vincent. Perché hai voluto i fuochi d'artificio?», ripeté Bruno con voce artefatta e melodrammatica. Per un po' poteva anche stare al suo gioco, se Ettrich proprio lo desiderava. «Per celebrare il mio ritorno. Grazie a te, ho deciso di tornare a vivere un altro po'». Istintivamente Coco applaudì con gioia. Poi rammentò cosa sarebbe successo se Vincent fosse tornato. In tono condiscendente Bruno esclamò: «Che bello, Vincent. Sono proprio felice per te». «Dal tuo tono non si direbbe». Bruno Mann scrollò le spalle. Non c'era più alcuna ragione di fingere. Non gliene fregava niente di Ettrich. Voleva soltanto andarsene. O magari, quando tutto fosse finito, come sfottò finale poteva far scoppiare anche lui qualche fuoco d'artificio. Quello spettacolo era stata una gran bella idea. Peccato non l'avesse avuta lui. «Ho sentito cos'hai detto a Coco prima». Ettrich si voltò verso di lei: sentiva ampie ondate di compassione emanare da lei come vampate di calore. «Be', vedi, Vincent, qualche volta si perde». Ettrich lo afferrò per una spalla. «Bruno, non riesci mai a vedere il quadro d'insieme. È per questo che sei una simile frana. Lo sapevi che in uffi-
cio ti chiamavano tutti l'idiota in giacca e cravatta?». Bruno stava per replicare qualcosa, ma Ettrich gli strinse la spalla con forza per azzittirlo. «L'amore è caos, è vero. Ma non soltanto. Sì, è vero che si perde il controllo, ma soltanto il proprio. Ultima persona singolare». Ettrich sorrise perché avrebbe dimostrato a Bruno che si sbagliava. «Perché quando c'è amore vero, non sei più solo. Non è una lezione tanto facile da imparare: non si è più soli. Si è in due, e insieme si crea qualcosa di nuovo, una terza cosa... Il mio iiif, e alla fine è quello che ti salva...». «Scusate, vi interrompo?», domandò Tillman Reeves avvicinandosi. Nessuno dei tre l'aveva visto uscire dal locale e attraversare il parcheggio. Si sarebbero senz'altro accorti di lui se non fossero stati tutti e tre tanto presi dagli ultimi eventi. Ettrich lo guardò spazientito. Aveva bello chiaro in mente quello che voleva dire sia a se stesso che agli altri, e adesso la voce di Tillman mandava in frantumi quel quadro così nitido. Poi accadde una cosa miracolosa. Quando il suo sguardo si posò ancora su Tillman Reeves, Vincent comprese chi era realmente. Attonito, aprì e richiuse le labbra diverse volte, incapace di pronunciare parola. Alla fine si coprì la bocca con una mano e rimase in silenzio. Gli altri non dissero nulla. Si limitarono a guardarlo. Bruno era convinto che quel comportamento fosse il primo segno che ormai Ettrich si fosse arreso all'inevitabile. «So chi sei!». Ettrich riuscì a sorridere mentre guardava Till come se non vi fosse null'altro da guardare al mondo. Nella sua mente i pensieri sfrecciavano rapidissimi. Era come stare seduto davanti al finestrino di un treno superveloce cercando di osservare il panorama. Ricordò Tillman Reeves nel letto accanto al suo prima di morire. Poi ricordò di averlo incontrato all'ospedale quando era andato ad accompagnare Jack. Infine, qualche minuto prima, sul palco, che gli diceva: «Stai anche morendo, amico mio...». «Adesso so chi sei! Sei il mio iiif». Till non annuì, ma non disse neanche di no. Ettrich si animò. Contò sulle dita le prove di quanto aveva detto. «Eri nella mia stessa stanza quando sono morto. Eri con me all'ospedale quando ho incontrato Bruno. E sei stato la prima persona che ho riconosciuto in questo sogno...». «E adesso sono ancora in quello stesso ospedale a prendermi cura di te,
Vincent». A dispetto di tutti i loro poteri, né Coco, né Bruno sino a quel momento avevano saputo chi fosse davvero Tillman Reeves. Ora i due nemici si scambiarono uno sguardo d'allarme e di genuino smarrimento vista la piega imprevista che stava prendendo la situazione. «Ma cosa significa, Till? Non capisco». Bruno era arcistufo di tutta quella storia. Non gli piaceva per niente che il suo momento di trionfo si fosse tramutato in una lezione d'amore da parte di Ettrich, che adesso si era anche messo a chiacchierare con quel vecchio. «Tempo scaduto, Vincent. Nella vita vera, hai appena avuto un peggioramento. Se vuoi tornare, devi sbrigarti». C'era una nota di petulanza nella sua voce, come a dire che se le cose non andavano subito come dovevano, sarebbero arrivati i guai. Tillman Reeves lo ignorò e disse a Vincent: «Il caos non crea nulla, può solo distruggere. Può essere anche in grado di pensare in questo mosaico, ma non ha nessuna facoltà di costruire nulla, può solo smantellare. È per questo che odia tanto gli esseri umani, perché loro creano di continuo qualcosa, che sia un grande amore o un castello di bottiglie di Coca-Cola. Tu e Isabelle avete creato me e da allora io mi prendo cura di voi». Coco non poté trattenersi dal dire: «Non esistono angeli custodi». «Non sono un angelo. Sono una specie di Frankenstein buono». Indicando Vincent aggiunse: «Mi hanno creato mettendo insieme le loro parti migliori». Ettrich non riusciva a capire, ma grandi lacrime gli salirono agli occhi perché il suo muto, placido cuore comprendeva ogni cosa. Bruno fece un passo indietro e affibbiò un pugno in faccia a Tillman Reeves. Essendo alto, ma molto magro e fragile, Tillman barcollò all'indietro e cadde, atterrando sul coccige. Paralizzato dal dolore, si mise a guaire come un cucciolo. Bruno Mann gli fu sopra in un attimo e iniziò a prenderlo a calci in faccia e in testa. Non un solo colpo andava a vuoto: nel parcheggio echeggiava un atroce clamore di tonfi sordi: non c'era nessun altro rumore, niente più guaiti da parte dell'uomo a terra, né da parte di Bruno risa o insulti sputati in faccia a Tillman. Vincent Ettrich non era un uomo aggressivo. Non lo era mai stato. Le poche volte che aveva visto qualcuno battersi, aveva assistito alla scena con sconcerto o divertimento. E ancora una volta lo sconcerto fu la prima reazione alla vista di Bruno che si gettava addosso al vecchio Tillman. Ma
solo per un istante, dopo di che, senza pensarci un momento, gli balzò addosso per fermarlo. Dietro di sé udì una voce femminile, quella di Coco che gridava: «No! Non toccarlo!». Ma malgrado la sua mente non mancasse di registrare quelle parole, non bastarono a fermarlo. Ettrich afferrò Bruno Mann per il colletto e nel tentativo di allontanarlo strinse le sue braccia intorno al Re del Parco. Un secondo, due, cinque... quanto tempo poteva trattenere Bruno prima di essere scacciato via come una mosca? Non aveva importanza. Durante quei pochi secondi Vincent Ettrich tenne il caos tra le braccia. Non un uomo, non Bruno Mann, non un mortale. Il caos. E il caos penetrò dentro di lui come un'iniezione d'eroina pura che sfreccia dritta al cuore e al cervello alla velocità del dolore. Ettrich era morto una volta ed era stato riportato in vita. Il ritorno da questa seconda morte non fu altrettanto semplice. Perché Ettrich rimaneva in vita mentre tutto quello che lo rendeva umano moriva in quel vortice di caos che roteava intorno a lui, in quello spaventoso turbinio senza fine. Non era cosa da cui Lazzaro potesse resuscitare, poiché non c'era nulla da cui resuscitare. Soltanto movimento perenne, vortice, smantellamento, come aveva giustamente detto Tillman. Era un invisibile tornado, un'arida marea che lo travolgeva distruggendolo, smantellandolo in eterno. Senza neanche preoccuparsi di voltarsi per vedere dove fosse Ettrich, Bruno continuò a pestare il vecchio Tillman, il quale era riuscito in qualche modo a raggomitolarsi e coprirsi la testa con le braccia esili. A ogni calcio messo a segno sul suo corpo, corrispondeva un tonfo raccapricciante. Riportato in sé dallo shock del contatto con il caos, tutto Vincent Ettrich fu presente a se stesso per la prima volta. L'Ettrich che aveva vissuto una vita comoda e vacua e aveva sperimentato una morte straziante, accompagnato soltanto dalle sue paure e da Tillman Reeves. L'Ettrich che aveva visto la Morte, vi era stato e vi aveva imparato cose che avrebbe dovuto insegnare al suo bambino non ancora nato. E l'Ettrich che era stato riportato alla vita da Isabelle e dal suo amore. Si risvegliarono tutti e si levarono in piedi e guardando attraverso il tempo e l'esperienza, la morte e la resurrezione, si videro e si riconobbero. I calci continuavano a piovere con violenza. Bruno era ancora voltato verso Tillman. Perché no? Di cosa doveva avere paura dietro di sé o in qualunque altro luogo di quel mondo disgustoso? Una volta terminata la danza con quel vecchio, avrebbe pareggiato i conti con Vincent.
Rialzandosi da terra, Ettrich si avvicinò a Bruno più lentamente. Coco scorse per un attimo i suoi occhi e le sfuggì un grido. Un urlo così violento e inconsueto che persino Bruno si fermò e alzò la testa. In quel modo espose per qualche secondo il collo a un possibile attacco. Vedendolo, Vincent lo afferrò, lo fece ruotare su se stesso e lo azzannò alla gola, alla giugulare. Ettrich sentì in bocca il sapore del sangue, della carne, del caos. Aveva la bocca grondante di caos. Ogni cellula del suo io umano gridava all'impazzata: «Sputa, sputa, sputa». Ma c'erano altre parti di lui che sapevano di doverlo divorare se volevano avere la meglio su di lui. Così, mentre Bruno si dimenava a terra, con le mani sulla gola squarciata dal morso, Ettrich masticò quello che aveva in bocca. La cosa più sorprendente di tutte era che non aveva un cattivo sapore. Era un boccone amaro, nerissimo se si fosse voluto dargli un colore. Era qualsiasi sapore si trovasse repellente, nauseante, stomachevole. Certo, ovvio. Ma aveva in sé anche qualcosa di delizioso, perché il caos è anche dolce. Lo si sentiva dopo un po', come un retrogusto che sorprende il palato quando si è sputato un boccone disgustoso. Una parte di Ettrich, difficile dire quale, non era ancora soddisfatta e probabilmente si sarebbe presa quel che voleva, se Coco non avesse afferrato Vincent per un braccio costringendolo a guardarla. Coco sapeva cosa voleva fare. Gli occhi forsennati di Vincent glielo lessero in faccia: Coco sapeva cosa desiderava fare. «No, Vincent, basta». Le sue parole lo raggiunsero lentamente. Parte di lui non avrebbe voluto ascoltarla. C'era qualcosa in lui che diceva no, ma alcune parti di sé iniziavano già a sfuggirgli, a scomparire. Avevano ormai fatto il proprio dovere. Ettrich cercò di bloccarle, di trattenerle: aveva bisogno di loro se voleva andare avanti. Ma in quel momento pareva che non potesse far nulla per farsi ascoltare. Fortunatamente Coco non lo lasciò andare. Bruno era disteso ai loro piedi, morto, il viso una maschera di stupore. Tillman Reeves si muoveva appena, ma era vivo. Il caos era in circolo nell'organismo di Vincent e di quando in quando lo faceva rabbrividire toccandolo negli angoli più remoti. Ettrich guardò Coco. Lei disse qualcosa che lui non udì. Un dolore terribile, delle dimensioni della luna, gli lacerò lo stomaco. Il caos era in movimento.
«Vincent?». Aveva appena la forza di stare in piedi e di guardarla. «Ce l'hai fatta». C'erano così tanti apparecchi intorno a Vincent che Isabelle aveva a malapena lo spazio per tenergli la mano. Grossi tubi bianchi trasparenti gli erano stati infilati nel naso e nella bocca, mentre al torace e alle dita gli erano stati collegati innumerevoli cavetti. Sullo schermo nero di un paio di macchine beige accanto al suo letto appariva una linea gialla. Ogni cosa emetteva bip e brevi lampi d'efficienza e professionalità. In quell'angolo del reparto di terapia intensiva erano le apparecchiature mediche a dominare, non le persone, quasi avrebbe voluto dire Isabelle. L'unico paziente non attaccato a una macchina era quello nel letto accanto a Vincent. Era dietro una tenda. Isabelle non vi aveva fatto troppa attenzione. La meravigliosa infermiera del reparto, Michelle, che si muoveva con tranquilla efficienza tra i letti, le disse che era stato picchiato e aveva subito diverse lesioni interne. Kitty Ettrich e i bambini erano venuti a trovare Vincent qualche ora prima. Prima del loro arrivo Isabelle era andata nella sala d'aspetto in fondo al corridoio affinché potessero rimanere soli con lui. Circa mezz'ora dopo, Jack era apparso in sala d'aspetto e le si era avvicinato. Non c'era nessun altro intorno a loro. Il bambino aveva intrecciato le dita dietro la schiena e aveva annunciato: «Sono venuto qui col mio papà qualche giorno fa». Isabelle avrebbe voluto prendergli una mano e baciargliela, e poi baciare quelle sue guanciotte rotonde. Ma si limitò ad annuire con aria di essere seriamente interessata alle informazioni che le stava comunicando. «Il mio papà è un tipo in gamba». Se solo avesse aperto bocca, Isabelle sarebbe scoppiata a piangere. Così abbassò la testa e annuì per nascondere la sua espressione di dolore. Quando aveva rialzato la testa, era sola. Soltanto dopo un po' si era resa conto che Jack non poteva sapere chi fosse: voleva soltanto dire a qualcuno com'era in gamba il suo papà. Quel pensiero le aveva spezzato il cuore. Dopo un po' Isabelle andò nell'area d'assistenza infermieristica e chiese a Michelle se la moglie e i bambini di Ettrich fossero ancora lì. L'infermiera rispose di no, aggiungendo che stava per arrivare il dottore e che desiderava parlarle. Michelle di solito era allegra e loquace, quella sua risposta brusca raggelò Isabelle. Cosa aveva da dirle di nuovo il dottore? Isabelle corse in camera per essere al fianco di Vincent. Stargli vicino la faceva sempre
sentire meglio. Qualche minuto dopo arrivò il medico e le spiegò rapidamente la situazione. Le condizioni di Vincent stavano peggiorando. Aveva bisogno di una trasfusione, altrimenti le cose si sarebbero messe molto male. Il problema era che Vincent aveva un gruppo sanguigno estremamente raro che in quel momento né l'ospedale, né alcuna banca del sangue in città aveva a disposizione. Isabelle si illuminò e gli disse che non era un problema, perché anche lei aveva lo stesso gruppo sanguigno. All'inizio il medico fu sollevato quanto lei, poi le guardò la pancia e si ricordò che era incinta. Le disse che era estremamente pericoloso per una donna incinta donare il sangue, c'erano alte probabilità di provocare dei danni al feto. Isabelle non disse nulla. Il medico le spiegò il perché, ma Isabelle replicò semplicemente: «Non mi interessa. Usate il mio sangue». Al medico parve quasi che lei avesse sempre saputo che sarebbe successo qualcosa del genere e avesse già preso la sua decisione. «Usate il mio sangue»: una frase che avrebbe ricordato a lungo senza sapere se ammirare la sicurezza di quella ragazza o se giudicarla una sciocca. Isabelle Neukor non era una sciocca. Era ritornata dal suo viaggio sentendosi ottimista, persino adesso che si trovava in quel luogo così cupo, circondata da austeri macchinari che di solito concedono poche speranze in un roseo futuro. Se fosse stato ancora vivo, Bruno avrebbe fatto fatica a capirla, perché neanche per un minuto a Isabelle passò per la testa il pensiero di dover scegliere tra Ettrich e Anjo. I suoi pensieri andavano contemporaneamente a entrambi: prima salviamo uno, poi insieme pensiamo ad allevare l'altro. Il caos non ebbe il minimo ruolo nella sua decisione. Aveva pienamente compreso il rischio di donare il sangue nelle sue condizioni, ma aveva ben poca importanza, poiché Isabelle credeva con tutta se stessa che tutto sarebbe finito bene. Quando il dottore si allontanò, Isabelle tirò fuori il suo walkman dalla borsa, si infilò gli auricolari argentati nelle sue piccole orecchie e lo accese. C'era su una cassetta con una compilation che aveva preparato lei a Vienna. Isabelle cominciò a canticchiare sommessamente A Thousand Kisses Deep di Leonard Cohen. Anche a Vincent piaceva quella canzone: stringendogli la mano immobile, Isabelle fece finta che la stessero ascoltando insieme. Dall'altra parte della lunga tenda bianca che separava il suo letto da quello di Ettrich, l'altro paziente aprì gli occhi per la prima volta da quando I-
sabelle era rientrata nella stanza. Aveva ascoltato la sua conversazione con il medico e aveva iniziato a sorridere molto prima che finisse. Tra poco, pochissimo, le avrebbe parlato. Avrebbe detto: Mi scusi, so che non è stato corretto, ma devo confessarle di avere ascoltato quello che le ha detto il dottore. Anch'io ho lo stesso vostro gruppo sanguigno e sarei felice di dare un po' del mio sangue al suo amico, se vi accontentate del sangue di un vecchio. Naturalmente non avrebbe detto che era il loro sangue quello che gli scorreva nelle vene. Richiuse gli occhi e ascoltò con immenso piacere quella bella ragazza che canticchiava all'altro capo di quella stanza che per un po' sarebbe stata la loro casa. FINE