CLARK ASHTON SMITH MALNEANT (1990) INDICE Una notte a Malneant La progenie senza nome L'adoratore del Demonio I cacciato...
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CLARK ASHTON SMITH MALNEANT (1990) INDICE Una notte a Malneant La progenie senza nome L'adoratore del Demonio I cacciatori dell'Aldilà Genius Loci Il Dio della Polvere La droga plutoniana La lettera di Mohaun Los La luce dall'Aldilà Il mondo senza tempo Medio Evo I fantasmi del fuoco UNA NOTTE A MALNEANT Il mio soggiorno a Malneant si verificò durante un periodo della mia vita non meno sbiadito ed incerto di quella città e della nebbiosa regione che la circondava. Non riesco a ricordarmi esattamente dove si trovasse, né come, né quando la visitai. Ne avevo sentito parlare vagamente, e sapevo che si trovava lungo il mio cammino ma, quando giunsi al fiume nebbioso che scorreva sotto le sue mura ed udii il rintocco funebre di molte campane, capii che ero arrivato nei pressi di Malneant. Nel momento in cui incrociai il grande colossale ponte che attraversava il fiume, avrei potuto continuare il mio cammino verso altre città lontane, ma mi parve che Malneant valesse quanto un'altra. Così, guidai i miei passi verso il ponte dagli archi coperti di nebbia, sotto i quali le scure acque scivolavano dividendosi per poi ricongiungersi silenziosamente come lo Stige e L'Acheronte. Come ho detto, quel periodo della mia vita era incerto e strano; può darsi fosse a causa della necessità di dimenticare, o del mio continuo bisogno di ricercare l'oblio. Ciò che tentavo di dimenticare, soprattutto, era la morte di
Lady Mariel, morte che io stesso avevo provocato, esattamente come se l'avessi uccisa con le mie mani. Ella mi aveva amato profondamente con un sentimento più sincero e profondo di quanto io provassi per lei. Il mio carattere mutevole, infatti, ed i miei scatti di crudele indifferenza o di feroce irritazione, avevano spezzato il suo cuore gentile. Fu per questo che si avvelenò. Dopo che giacque per sempre nelle scure cripte dei suoi antenati, diventai un vagabondo, accompagnato e torturato del continuo rimorso che provavo. Per mesi o per anni, non so per quanto tempo, mi trascinai da una città all'altra del vecchio mondo, non facendo caso a dove andavo; cercavo solo l'oblio nel vino ed in altre cose... Fu così che giunsi, nel mio infinito errare, nelle vicinanze nebbiose di Malneant. Il sole (ammesso che splendesse un sole su quella regione) si era perso in un cielo intriso di vapori, ed il giorno era stato chiaro e assolato, dando a queste parole un'accezione tutta particolare. Ma adesso, dall'ispessimento delle ombre e della bruma, capii che la sera si stava avvicinando, e le campane che avevo udito, anche se il loro suono era greve e sepolcrale, mi offrivano la sicurezza di un eventuale rifugio per la notte. Attraversai il lungo ponte ed entrai nel severo e sbadigliante cancello velocemente, anche se non con molta convinzione. L'oscurità si era raccolta sui muri grigi, ma erano rare le luci accese nella città. Si vedevano poche persone che camminavano con un'aria frettolosa e solenne, come se stessero recando un messaggio funebre che non ammetteva ritardi. Le strade erano strette, le case alte avevano i balconi coperti da spesse tende e le finestre sprangate. Dappertutto vi era un profondo silenzio, rotto dai continui rintocchi che sembravano, a volte deboli e lontani, altre volte forti e rimbombanti, come se mi risuonassero sopra la testa. Penetrando fra quelle strade, lungo vie dalle quali usciva un leggero chiarore ad avvilupparmi, mi sembrava ad ogni passo di allontanarmi sempre più dai miei ricordi. Per questo motivo non cercai una locanda, ma fui contento di perdermi fra il grigiore delle case che emergevano sempre più vaghe fra l'oscurità e la nebbia che saliva, come se si dissolvessero nell'oblio. Pensavo che almeno la mia anima doveva essere lasciata in pace, e ciò sarebbe accaduto se non fosse stato per il continuo rintocco delle campane, uguali a tutte quelle che suonano per il riposo dei morti, che mi fecero ri-
cordare quelle che avevano suonato per Mariel. Ma, ogniqualvolta smettevano, i miei pensieri si lasciavano trasportare indietro, alla deriva nel caldo rifugio dell'oblio... Non ho idea di quanto tempo ho camminato per Malneant, ne per quanto ho vagabondato in mezzo a quelle case che era difficile pensare essere abitate se non dal sonno o dalla morte. Ad un certo punto mi accorsi che ero stanco e bisognoso di cibo, di vino e di un rifugio per la notte. Ma, nel mio lungo errare, non avevo notato alcuna insegna di locanda; decisi, perciò, di chiedere al primo passante qualche indicazione. Come ho detto prima, c'era poca gente per le strade e, ora che volevo indirizzarmi a qualcuno, non si vedeva anima viva: girai ancora per molte strade nella mia vana ricerca. Alla fine incontrai due donne col viso coperto da velette e vestite di un grigio freddo e brumoso come i vapori della nebbia. Camminavano frettolose con lo stesso funereo atteggiamento che già avevo notato negli altri abitanti della città. Cercai di accostarmi e chiedere loro l'indirizzo di una locanda. Senza fermarsi e senza volgere il capo, risposero: «Non possiamo dirvelo; siamo sarte ed abbiamo premura, perché dobbiamo preparare il sudario per Lady Mariel». Nell'udire quel nome, sentii un gelo profondo stringermi il cuore, ed un terribile sgomento colpirmi come il soffio di un sepolcro, giacché, fra tanti nomi sulla terra, quello era l'ultimo che mi sarei aspettato di udire. Era strano, infatti, che in quella nebbiosa città, così distante sia nel tempo che nella lontananza da ciò che io fuggivo, ci fosse una donna appena morta con lo stesso nome. Quella coincidenza mi parve sinistra e le strade in cui avevo camminato sino al quel momento, improvvisamente crearono in me una strana paura. Quel nome aveva fatalmente riacceso, ancor più del suono delle campane, tutto ciò che cercavo disperatamente di dimenticare, e i ricordi erano come tizzoni ardenti nel mio cuore. Così continuai la mia ricerca con passi più affrettati, e più febbrili ancora di quelli dei cittadini stessi. Incontrai due uomini vestiti di grigio dalla testa ai piedi e rivolsi loro la stessa domanda che avevo posto alle donne: «Non possiamo dirvelo. Siamo due falegnami ed abbiamo premura perché dobbiamo preparare la bara per Lady Mariel». Quando ebbero finito di parlare ed affrettarono il passo, le campane ripresero a suonare; questa volta molto più vicine e, nel loro plumbei rintoc-
chi, si sentiva una minaccia lugubre e sepolcrale. Tutto intorno a me, le sfocate e alte case, le scure e rare figure simili a spettri, diventarono partecipi della mia oscura confusione, della mia paura, della mia perplessità e della mia ossessione. Le coincidenze in cui mi ero imbattuto, apparivano troppo strane per essere credibili, tanto che fui assalito dalla mostruosa idea che la mia Mariel fosse appena morta e che questa città fosse, in qualche modo, connessa con la sua scomparsa. Questa idea veniva però rigettata dalla mia ragione e continuavo a ripetermi: «La Mariel di cui stanno parlando è un'altra» e m'irritavo con me stesso oltre misura, che un pensiero così enorme nella sua assurdità, potesse nascere nella mia mente quando la logica non poteva far altro che respingerlo. Non incontrai altri a cui chiedere l'informazione che cercavo. Alla fine, quando riuscii a scacciare le mie perplessità e i miei brucianti ricordi, mi accorsi di essermi fermato sotto l'insegna di una locanda, le cui lettere erano corrose dal tempo e dai licheni. La casa era, ovviamente, molto vecchia, come tutte quelle di Malneant. I piani superiori si perdevano nel velo della nebbia, ed alcune luci furtive rischiaravano debolmente il pianoterra. Mentre salivo i gradini e cercavo di aprire l'uscio, sentii un vago odore di muffa e di stantio. La porta era chiusa a chiave o sprangata, per cui cominciai a battere con i pugni, sperando di richiamare l'attenzione di qualcuno. Dopo un lungo momento, la porta venne aperta lentamente e, quasi controvoglia, da un individuo dall'aspetto cadaverico che, quando mi vide, aggrottò le sopracciglia. «Cosa volete?», mi chiese in tono brusco e solenne. «Una camera per la notte e del vino», risposi. «Non possiamo ospitarvi. Tutte le camere sono occupate da gente che è venuta per i funerali di Lady Mariel, e tutto il vino è destinato a loro. Rivolgetevi da un'altra parte». Quindi richiuse velocemente la porta sulle ultime parole. Ripresi la mia ricerca, e il turbamento che prima mi aveva assalito, adesso si era intensificato centinaia di volte. La grigia bruma e le case ancora più grigie erano dei ricordi minacciosi; sembravano infide tombe dalle quali i cadaveri di ere passate uscissero per assalirmi con denti e artigli. Maledii il momento in cui ero entrato in Malneant perché, così facendo, avevo semplicemente completato un sinistro circolo attraverso il tempo, ed
ero ritornato al giorno della morte di Mariel. Il suo ricordo, la sua agonia, la sua sepoltura, avevano assunto la spaventosa realtà di cose presenti. Ma la mia ragione continuava a dirmi che la Mariel che giaceva morta in qualche posto di Malneant, e per la quale si facevano tutti questi preparativi, non era quella che io avevo conosciuto, bensì certamente un'altra. Ripresi a percorrere altre strade, sempre più strette e sempre più buie; giunsi infine ad una seconda locanda, la cui insegna sconfitta dal tempo ed altri particolari, erano del tutto simili alla prima. La porta era chiusa; bussai con trepidazione e non fui affatto sorpreso quando un secondo individuo dalla faccia cadaverica m'informò con sepolcrale gravità: «Non possiamo ospitarvi. Tutte le camere sono occupate da musici e da visitatori venuti per le esequie di Lady Mariel, e il vino è destinato a loro». Ora cominciavo a temere la città con vera paura, poiché l'apparente occupazione degli abitanti consisteva soltanto nei preparativi del funerale di Lady Mariel. Dati questi preparativi, sembrava ovvio che avrei potuto benissimo girare l'intera notte invano senza trovare asilo. Tutto ad un tratto, mi sentii opprimere dalla stanchezza, e da un terrore ed una perplessità da incubo. Non era da molto che mi ero allontanato dalla seconda locanda, quando le campane ripresero il loro lugubre lamento. Per la prima volta mi fu possibile capire da dove proveniva il suono; da una cattedrale proprio di fronte a me che si delineava attraverso la nebbia. Alcune persone stavano entrando nella chiesa e, con un'attenzione che riconobbi come alquanto morbosa e pericolosa, entrai dietro di loro; qui avrei forse potuto finalmente chiarire il mistero che mi tormentava. Tutto era immerso nella penombra, e la luce di varie candele riusciva appena ad illuminare la vasta navata e l'altare. Diverse litanie venivano intonate da preti vestiti di nero di cui potevo appena vedere i visi. Per me, le loro cantilene erano come parole in un sogno: non riuscivo ad udire nulla e, in quel momento, nulla era chiaramente visibile, eccetto una bara posta sopra un ricco catafalco in cui giaceva una figura immobile vestita di bianco. Fiori di tutti i colori erano attorno alla bara e la loro fragranza riempiva l'aria di una languida sonnolenza, come un calmante che mi addormentava il cuore e la mente. Anche sulla bara di Mariel c'erano tanti fiori, e il loro fragrante profumo mi fece perdere momentaneamente i sensi. A malapena m'accorsi da qualcuno era al mio fianco e, sempre con gli occhi fissi sulla bara, chiesi:
«Chi è che giace lì? E per chi sono queste preghiere e questi rintocchi di campane?» «È Lady Mariel, che è morta ieri e che verrà sepolta domani nella tomba dei suoi avi. Se lo desiderate, potete avvicinarvi e guardarla». Così camminai lungo la navata della cattedrale fino al fianco della bara, i cui ricchi paramenti pendevano sul freddo pavimento in pietra. E il viso di quella che giaceva, con un tranquillo sorriso sulle labbra e tenere ombre sulle palpebre chiuse, era il viso della Mariel che io avevo amato e non di un'altra. La marea del tempo si era congelata nel suo fluire; tutto ciò che era o era stato o potrebbe essere, tutto ciò che esisteva del mondo, a parte lei, diventò come un'ombra appassita; ed anche la mia anima come già prima (erano eoni o istanti?) fu rinchiusa nell'inferno di marmo del suo supremo dolore e rimpianto. Non riuscii a muovermi, né a gridare, e neanche a piangere, poiché le mie lacrime si erano tramutate in ghiaccio. E seppi con terribile certezza che quest'altro evento, la morte di Lady Mariel, era stato estirpato da tutti gli altri avvenimenti, ed aveva infranto la sequenza del tempo per trovare un'appropriata sede di oscurità e solennità; e forse aveva anche costruito attorno a sé l'enorme labirinto di quella città spettrale nella quale aspettare il mio predestinato ritorno dalle nebbie di un illusorio oblio. Con un estremo sforzo di volontà riuscii a staccare gli occhi; lasciai la cattedrale con passi veloci seppur pesanti, e cercai di trovare un'uscita dai cupi vicoli di Malneant per giungere al cancello dal quale ero entrato. Ma non fu facile. Penso di aver errato per ore fra vicoli ciechi e soffocanti come tombe, e lungo strade tortuose, prima di incontrare una via familiare e potermi dirigere con più sicurezza. Una luce cupa e senza sole stava calando dietro la foschia, quando attraversai il ponte e raggiunsi la strada che mi avrebbe portato lontano da quella città fatale. Da allora ho girato a lungo e in molti posti; ma mi sono ben guardato dal tornare in quella brumosa e nebbiosa regione del Vecchio Mondo, per paura di ritrovarmi nuovamente in Malneant e vedere che la sua gente è ancora indaffarata per i preparativi del funerale di Lady Mariel. LA PROGENIE SENZA NOME Molti e diversi son gli oscuri orrori della Terra, che ne infestano la vita sin dalle origini. Dormono sotto la mia pietra; sorgono
con l'albero dalle sue radici; abitano nei più segreti recessi; emergono alle prime luci dell'alba dal chiuso sepolcro ricoperto di bronzi preziosi e dalle profonde tombe sigillate con la creta. Alcuni da molto tempo sono conosciuti dall'uomo ed altri, ancora ignoti, attendono gli ultimi, terribili giorni della loro rivelazione. Forse, i più terribili e ripugnanti di tutti, debbono ancora essere annunciati. Ma, fra quelli che si sono rivelati e che hanno manifestato la loro reale presenza, ce n'è uno che non può essere nominato apertamente per la sua enorme abiezione. Si tratta della progenie che il segreto abitante delle cripte, ha generato per i mortali. Dal «Necrocomicon» di Abdul Alhazred. In un certo senso, è una fortuna che la storia che sto per raccontare riguardi, in prevalenza, ombre indefinite, vaghe allusioni e strane illazioni. Del resto, non potrebbe mai essere scritta dalla mano dell'uomo o venir letta da occhio umano. La mia insignificante parte nel terribile dramma, è limitata al suo ultimo atto; e, per me, le sue prime scene sono unicamente una antica e macabra leggenda. Tuttavia, anche così, lo sconclusionato riflusso dei suoi innaturali orrori, va molto oltre la prospettiva dei più straordinari eventi della vita normale, facendoli sembrare niente più che fragili veli tessuti al buio, limiti orrendi di una voragine senza fine, qualche abissale avello, nel quale la più abbietta corruzione della Terra si annida e marcisce. Quella leggenda mi era nota sin dalla fanciullezza, perché l'avevo sentita bisbigliare in famiglia con tentennamenti del capo e perché Sir John Tremoth era stato compagno di scuola di mio padre. Ma non avevo mai incontrato Sir John e non ero mai stato a Tremoth Hall, fino al tempo degli avvenimenti che diedero origine alla tragedia finale. Mio padre mi aveva portato dall'Inghilterra in Canada quando ero ancora piccolo ed aveva fatto fortuna nel Manitoba come apicoltore e, dopo la sua morte, l'allevamento di api mi aveva tenuto troppo occupato per anni, per poter realizzare il sogno lungamente accarezzato, di visitare la mia terra natale ed esplorarne le campagne. Quando finalmente salpai per l'Inghilterra, la leggenda si era già affievolita nella mia memoria; e, quando iniziai un giro in motocicletta delle campagne inglesi, Tremoth Hall non faceva parte del mio itinerario. In ogni caso, non mi sarei diretto in quei paraggi, solo perché spinto dalla
morbosa curiosità che un pauroso racconto può suscitare in altri. La mia visita, infatti, fu puramente accidentale. Avevo dimenticato l'esatta ubicazione del luogo, e non pensavo affatto di trovarmi in quei paraggi. Se lo avessi saputo, credo che avrei girato al largo, nonostante le circostanze che mi costrinsero a cercare rifugio, invece di andarmi ad intromettere nella sofferenza quasi demoniaca del suo proprietario. Quando giunsi a Tremoth Hall, all'inizio dell'autunno, avevo vagato tutto il giorno per una campagna densa di collinette, e solcata da tranquille arterie stradali e da sentieri. La giornata era stata bella, con il cielo di un azzurro pallido al di sopra di parchi sontuosi, sfumati dalla prima ombra e dal cremisi dell'autunno morente. Ma, verso metà pomeriggio, dall'oceano fuori vista, attraverso le basse colline, aveva cominciato a salire una densa foschia che aveva cominciato a circondarmi con il suo irreale cerchio mobile. Chissà come, in quell'infido nebbione smarrii la strada, e confusi la pietra miliare che mi doveva indicare la direzione per la città, dove avevo stabilito di passare la notte. Per un po' avanzai a casaccio, pensando che presto avrei raggiunto un altro crocicchio. La strada che seguivo era poco più di un sentiero approssimativo e stranamente deserto. La nebbia si era fatta più fitta e più scura velando del tutto l'orizzonte ma, da quanto potevo vedere, la campagna era tutta brughiera e roccia, senza alcun segno di coltivazioni. Superai la cima di un dosso e discesi lungo un monotono pendio, mentre la nebbia continuava a infittirsi, con l'avanzare del crepuscolo. Credevo di dirigermi a ovest ma, davanti a me, nella malinconica sera incombente, non vidi neppure il più vago barlume di luce o di colore degli ultimi bagliori del tramonto. Anzi, fui assalito da un umido sentore che sapeva di salmastro, simile al miasma delle paludi marine. D'un tratto, la strada curvò bruscamente, e provai l'impressione di procedere fra dune e paludi. La notte stava scendendo con una rapidità quasi innaturale, come se avesse fretta di raggiungermi, e cominciai a sentire una specie di ansia vaga e di allarme, come se mi fossi perso in regioni sconosciute e non in una contea inglese. Nebbia e crepuscolo sembravano celare un silenzioso paesaggio di mistero, freddo, mortale, ed inquietante. Poi, sulla sinistra e un po' davanti a me, vidi una luce che, in un certo qual modo, richiamava l'immagine di un occhio lugubre e offuscato dalle lacrime. Brillava fra ammassi confusi e incerti, simili ad alberi di una fore-
sta fantasma. Avvicinatomi ad uno di essi, vidi che si trattava di un piccolo padiglione, di quelli che, di solito, stanno all'ingresso di una tenuta. Era buio e apparentemente deserto. Fermandomi a sbirciare, scorsi i contorni di una porta in ferro battuto, circondata da una siepe di tasso incolto ed arruffato. Il tutto aveva un aspetto pauroso e desolante e, nelle ossa, sentivo il freddo che mi era penetrato addosso dalle invisibili paludi, in quella nebbia lugubre che avvolgeva ogni cosa. Ma quella luce rappresentava una promessa di presenza umana fra le dune desolate, e forse avrei potuto anche trovare un rifugio per la notte o, perlomeno, qualcuno che mi avrebbe indirizzato ad una città o ad una locanda. Un po' sorpreso, notai che il cancello non era chiuso a chiave. Girò sui cardini verso l'interno con uno stridore rugginoso, come se non fosse stato aperto da molto tempo; spingendo la motocicletta, proseguii, lungo un viale invaso dalle erbacce, in direzione della luce. Alla fine, la sagoma irregolare di una dimora signorile apparve tra gli alberi e gli arbusti dallo strano aspetto, simili a siepi di tasso frastagliate, stravaganti e grottesche. La nebbia si era trasformata in una fredda acquerugiola. Quasi annaspando nell'oscurità, trovai una porta scura, a poca distanza dalla finestra che emanava quella luce solitaria. In risposta al mio ripetuto bussare, udii alla fine il rumore di passi smorzati, cauti e strascicati. La porta venne aperta con una lentezza che sembrava denotare prudenza o riluttanza, e mi trovai davanti un vecchio che reggeva una candela accesa. Le sue dita tremavano, forse per la debolezza o forse per l'età, e ombre mostruose guizzavano dietro di lui, in un oscuro vestibolo, e sfioravano i suoi lineamenti avvizziti, come le svolazzanti, sinistre ali, di giganteschi pipistrelli. «Cosa desiderate, signore?», domandò. La voce, per quanto tremula ed esitante, era ben lungi dall'essere rozza, e non faceva pensare ad atteggiamenti di sospetto od inospitali, come avevo cominciato a temere. Tuttavia mi diede la sensazione di una specie di irresolutezza e di dubbio e, mentre il vecchio ascoltava il racconto delle circostanze che mi avevano portato a bussare alla sua porta solitaria, continuava a scrutarmi con un'intensità che confermò la mia prima impressione di estrema vecchiaia. «Vedo che non siete pratico di queste parti», commentò quando ebbi finito. «Posso chiedere il vostro nome, signore?» «Sono Herny Chaldane.»
«Il figlio del signor Arthur Chaldane?» Sorpreso e perplesso, risposi affermativamente. «Rassomigliate molto a vostro padre, signore. Il signor Chaldane e Sir John Tremoth erano grandi amici, prima che vostro padre partisse per il Canada. Non volete entrare signore? Questa è Tremoth Hall. Da lungo tempo, Sir John non ha l'abitudine di ricevere ospiti, ma gli dirò chi siete. Può darsi che voglia vedervi.» Un po' confuso e, tutto sommato, non molto contento di sapere dove mi trovavo, seguii il vecchio in uno studio pieno di libri, il cui arredamento recava i segni del lusso e della trascuratezza. Dopo aver acceso una lampada ad olio di foggia antica, con un paralume polveroso e dipinto, il vecchio mi lasciò solo, in compagnia dei libri e di un arredamento ancora più polveroso. Provavo uno strano imbarazzo, un senso di vera e propria intrusione, mentre aspettavo nella scialba e giallastra luce della lampada. Mi tornarono in mente i particolari di quella strana, orribile leggenda quasi dimenticata, che avevo ascoltato da mio padre negli anni della fanciullezza. Lady Agatha Tremoth, moglie di Sir John, durante il primo anno di matrimonio, era stata vittima di attacchi di epilessia. Il terzo di essi, a quanto pareva, ne aveva provocato la morte perché, dopo il solito intervallo, non era più tornata in sé, e mostrava tutti i segni caratteristici del «rigor mortis». Il corpo di Lady Agatha ero stato sistemato nel sepolcro di famiglia, di una antichità e di una dimensione quasi favolosa, scavato nella collina, dietro la casa. Il giorno successivo all'inumazione, Sir John, tormentato da uno strano e insistente dubbio sul referto medico conclusivo, era tornato al sepolcro ed aveva udito un grido selvaggio: Lady Agatha era seduta nella bara. Il coperchio inchiodato giaceva sul pavimento di pietra, e pareva impossibile che fosse stato rimosso dagli sforzi di quella fragile donna. Tuttavia non vi era altra spiegazione possibile, e la stessa Lady Agatha non era in grado di far luce sulle circostanze della sua strana resurrezione. Semi inebetita e quasi in preda al delirio, in uno stato di terrore facilmente comprensibile, fece un racconto incoerente della sua esperienza. Sembrava non ricordare gli sforzi per liberarsi della bara, ma era soprattutto turbata dal ricordo di una orrenda e pallida faccia non-umana intravista nell'oscurità, al momento del risveglio dal suo lungo sonno, così simile alla morte. Era stata quell'apparizione, curva su di lei mentre giaceva nella bara
«chiusa», che l'aveva indotta a gridare così selvaggiamente. La cosa era svanita prima dell'arrivo di Sir John, fuggendo rapidamente verso i sepolcri più profondi, e Lady Agatha aveva potuto avere soltanto una vaga idea del suo aspetto materiale. Pensava tuttavia che fosse grande e bianca e che corresse carponi, come un animale, per quanto avesse membra semiumane. Naturalmente, quel racconto venne considerato come una specie di incubo o un'invenzione del delirio prodotto dal terribile trauma dell'esperienza vissuta, che aveva superato lo stesso orrore. Ma il ricordo dell'orrenda faccia e di quella figura, pareva ossessionarla di continuo e, senza dubbio, la sua mente doveva essere stata quasi sconvolta dalla paura provata. Non si era mai ripresa dal malessere ed era morta nove mesi dopo, sempre con il cervello ed il fisico provati, dando alla luce il suo primo e unico figlio. La sua morte fu provvidenziale; perché il bambino, a quanto pareva, era uno di quegli spaventosi mostri che, a volte, fanno la loro comparsa nella famiglia umana. L'esatta natura dell'anormalità di quella creatura non era nota, sebbene dicerie spaventose e discordi fossero state propalate dal dottore, dalle infermiere, e dai domestici che l'avevano vista. Alcuni di questi ultimi avevano lasciato Tremoth Hall e si erano rifiutati di farvi ritorno, a seguito di una sola occhiata al mostro. Dopo la morte di Lady Agatha, Sir John si era ritirato della vita pubblica e poco o nulla si sapeva della sua attività e del destino di quell'orribile bambino. Si diceva, tuttavia, che il bambino fosse tenuto in una stanza chiusa a chiave, con sbarre di ferro alle finestre e che nessuno, all'infuori dello stesso Sir John, vi fosse mai entrato. La tragedia gli aveva rovinato la vita e lo aveva trasformato in un recluso, ridotto a vivere con un paio di servi fedeli, mentre la proprietà, trascurata, andava penosamente in rovina. Senza dubbio, il vecchio che mi aveva fatto entrare doveva essere uno dei pochi domestici rimasti. Stavo ancora pensando a quell'orribile leggenda e cercavo di ricollegare alcuni particolari quasi dimenticati, quando udii un rumore di passi. Erano così lenti e fiochi che li scambiai per quelli del domestico, di ritorno. Invece mi ero sbagliato: colui che entrò, senza alcun dubbio era Sir John in persona. La figura era alta, leggermente incurvata, e la faccia, che sembrava segnata da qualche acido corrosivo, recava l'impronta di una dignità che sembrava trionfare della duplice rovina causata dalle pene mortali e dalle malattie. Chissà perché, nonostante ne avessi calcolato l'età effettiva, mi aspettavo di vedere un vecchio mentre, al contrario, Sir John aveva ap-
pena superato la mezz'età. Il suo pallore cadaverico e l'incedere leggermente incerto erano tipici di un uomo affetto da un male mortale. I suoi modi, quando mi rivolse la parola, erano impeccabilmente cortesi e benevoli. Ma il suo tono di voce era quello di una persona per la quale le normali relazioni ed i fatti della vita, da molto tempo, erano diventati del tutto insignificanti e meccanici. «Harper mi ha detto che siete il figlio del mio vecchio compagno di scuola, Arthur Chaldane», disse. «Vi dò il benvenuto con questa misera ospitalità che sono in grado di offrire. Sono molti anni che non ricevo ospiti, ed ho paura che troverete Tremoth Hall piuttosto noiosa e deprimente e penserete che non mi curo degli ospiti. Tuttavia dovete restare, almeno per una notte. Harper sta preparando la cena.» «Siete molto gentile», risposi. «Però temo di essere un intruso. Se...» «Niente affatto», ribatté con fermezza, «dovete essere mio ospite. Ci sono molti chilometri fino alla locanda più vicina, e la nebbia è diventata una fitta pioggia. Sono veramente lieto di avervi qui. Durante la cena mi parlerete di vostro padre e di voi stesso. Nel frattempo, se volete seguirmi, vedrò di trovarvi una stanza.» Mi condusse al secondo piano e quindi lungo un corridoio dalle travi e dai pannelli di quercia antica. Passammo davanti a parecchie porte, senza dubbio, di camere da letto. Erano tutte chiuse, e una di esse era addirittura rinforzata con sbarre di ferro massicce e sinistre come quelle di una segreta. Inevitabilmente ne dedussi che doveva trattarsi della stanza nella quale era stato confinato il mostruoso bambino, e mi domandai anche se quell'essere anormale fosse ancora vivo dopo oltre trent'anni. Come abissale e ripugnante doveva essere stata la sua degenerazione dal genere umano per rendere necessario il suo immediato allontanamento dalla vista degli altri! E quali caratteristiche potevano avere reso necessarie le massicce sbarre di ferro a rinforzo di una porta di quercia abbastanza robusta da resistere agli assalti di qualsiasi uomo o animale? Senza dare nemmeno un'occhiata alla porta, il mio ospite proseguì tenendo alta una candela che tremava leggermente. Le mie strane riflessioni, mentre lo seguivo, furono interrotte, con una subitaneità da far saltare i nervi, da un grido acuto che sembrava provenire dalla porta sbarrata. Era un lungo e sempre crescente ululato, che iniziava con note basse simili alla voce smorzata di un demonio in una tomba per innalzarsi man mano a toni abominevoli, fino a diventare un urlo di furia terribile, come se il Demonio stesse risalendo una serie di scale sotterranee, verso la su-
perficie. Non era né umano né bestiale, ma del tutto preternaturale, infernale e macabro. Cominciai ad essere scosso da brividi indescrivibili che non cessarono neppure quando quella voce demoniaca, dopo aver raggiunto il culmine, per gradi inversi, si spense in un profondo silenzio sepolcrale. Apparentemente, Sir John non aveva prestato attenzione a quel grido terribile, ma aveva proseguito, come se niente fosse, con il suo normale incedere traballante. Raggiunto il termine del corridoio, si fermò davanti alla seconda camera, a partire da quella con la porta sbarrata, dicendo: «Desidero che dormiate in questa stanza. È contigua alla mia.» Non si era girato verso di me ed aveva una voce atona ed estremamente impersonale. Con un altro brivido mi resi conto che la sua camera era adiacente a quella dalla quale mi era parso provenisse quello spaventoso ululato. La stanza in cui mi aveva fatto entrare, non era usata da anni. L'aria era fredda, stagnante, malsana, e la muffa ricopriva ogni cosa. Tutto l'antico arredamento era letteralmente sepolto dalla polvere e dalle ragnatele. Sir John cominciò a scusarsi. «Non sapevo delle condizioni della stanza. Dopo cena, manderò Harper a dare una ripulita ed a mettere della biancheria pulita nel letto.» Protestai, piuttosto debolmente, che non aveva bisogno di scusarsi. L'inconcepibile desolazione e la decadenza di quella vecchia casa signorile, i lustri e le decadi di abbandono ed il corrispondente stato del suo proprietario, mi avevano impressionato in modo intraducibile. E non avevo il coraggio di approfondire oltre l'argomento relativo all'orrendo segreto della camera sbarrata e dell'infernale ululato che continuava ad echeggiare nella mia mente scossa. Continuavo ad imprecare contro la singolare fortuità del caso che mi aveva condotto in quel luogo di ombre diaboliche e putrescenti. Provavo un impellente bisogno di andarmene, di continuare il viaggio nonostante la fredda pioggia autunnale e l'oscurità spazzata via dal vento. Non mi restava altro da fare che rimanere. La cena venne servita in un lugubre, ma imponente salone, dal vecchio che Sir John aveva chiamato, una combinazione di valletto, maggiordomo, governante e «chef». Nonostante l'appetito e le attenzioni del mio ospite per farmi sentire a mio agio, la cena si risolse in una cerimonia solenne e quasi funebre. Non riuscivo a dimenticare la storia udita da mio padre ed ancora meno quella
porta sbarrata e lo spaventoso ululato. Di qualunque cosa si trattasse però, quella mostruosità viveva ancora, e non potei fare a meno di provare un complesso miscuglio di ammirazione, pietà ed orrore, nell'osservare la scarna e nobile faccia di Sir John, riflettendo sulla lunga vita d'inferno con la quale aveva sopportato le sue inconcepibili prove. Venne servita una eccellente bottiglia di sherry. La scolammo e rimanemmo seduti per un'ora o più. Sir John parlò a lungo di mio padre, del quale ignorava la morte, e mi invitò a discorrere dei miei affari, con la sottile abilità di un impeccabile uomo di mondo. Disse poco di sé, e non fece mai riferimento alla tragica storia che ho accennato, neppure con accenni o sottintesi. Siccome sono praticamente astemio e non riempii troppe volte il mio bicchiere, la maggior parte di quel vino generoso venne consumato dal mio ospite. Verso la fine, sembrò aprirsi ad una curiosa serie di confidenze e, per la prima volta, parlò delle sue cattive condizioni di salute, così manifeste nel suo stesso aspetto fisico. Venni a sapere che era affetto da angina pectoris, la forma più dolorosa e pericolosa di malattia cardiaca e che, di recente, era stato ricoverato per un attacco di insolita gravità. «La prossima volta mi finirà», disse, «e può succedere in qualsiasi momento, anche stanotte.» Lo annunciò con molta semplicità, come se stesse parlando di una cosa normale o azzardasse una previsione sul tempo. Poi, dopo una breve pausa, proseguì con più enfasi e fermezza nel tono di voce: «Forse mi considererete bizzarro, ma ho una vera e propria fissazione contro il seppellimento in una tomba. Desidero che i miei resti vengano cremati, ed ho lasciato precise disposizioni al riguardo. Harper provvederà a che tutto sia a posto. Il fuoco è il più pulito e il più puro degli elementi, ed elimina tutti i processi che intercorrono fra la morte e la definitiva decomposizione del corpo. Non posso sopportare l'idea di una tomba piena di muffa e di vermi.» Continuò a parlare dell'argomento per un certo tempo in tono calmo e composto, dimostrando che si trattava di un pensiero ricorrente e non di un'ossessione qualunque. Sembrava avere una stima morbosa di se stesso e, mentre parlava, si notava una luce dolorosa nei suoi occhi incavati e tormentati, ed un tocco di isterismo rigidamente contenuto nella sua voce. Ricordai la sepoltura di Lady Agatha, la sua tragica resurrezione e l'oscuro, delirante terrore dei sepolcri che formavano un'inesplicabile ed inquietante parte di quella vicenda. Non era difficile da spiegare l'avversione
di Sir John per l'inumazione; ma ero lungi dal sospettare il folle terrore e il macabro orrore sui quali si fondava la sua ripugnanza. Harper era sparito dopo aver portato lo sherry, e supposi che avesse avuto ordine di riassettare la mia camera. Avevamo vuotato i bicchieri ed il mio ospite aveva finito di parlare. La parlantina che per un po' lo aveva animato, si era smorzata, e Sir John mi sembrò più ammalato ed emaciato che mai. Sentendomi stanco, espressi il desiderio di ritirarmi ed egli, con invariata cerimoniosità, insistette per accompagnarmi in camera ed assicurarsi che mi trovassi a mio agio, prima di andarsene a letto. Nel corridoio, al piano superiore, incontrammo Harper intento a scendere una rampa di scale che doveva portare ad un attico o ad un secondo piano. Recava un massiccio piatto di ferro con pochi rimasugli di carne, dal quale emanava un intenso puzzo di rancido, quasi di vera e propria putrefazione. Mi domandai se fosse andato a portare del cibo a quella sconosciuta mostruosità e se il cibo venisse calato attraverso una qualche botola, nel soffitto della camera sbarrata. La supposizione era abbastanza ragionevole, ma il fetore degli avanzi, tramite tutta una gamma di richiami remoti e leggendari, aveva cominciato a suggerirmi altre congetture, che sembravano oltrepassare i confini del possibile e del razionale. Certi indizi evasivi e incoerenti, all'improvviso, parvero ricollegarsi in un tutto atroce e orribile. Con scarso successo, cercai di convincermi che ciò che avevo immaginato, era scientificamente incredibile, anzi una mera creazione di diaboliche superstizioni. No, non poteva essere... proprio in Inghilterra, vi era il divoratore di cadaveri dei racconti e delle leggende orientali... il «Vampiro». Contrariamente a quanto temevo, mentre passavamo davanti alla stanza misteriosa, il demoniaco ululato non si ripeté più. Ma mi parve di udire un ritmico sgranocchiare, simile a quello di un ingordo animale intento a divorare il proprio pasto. La mia camera, quantunque ancora squallida e tetra, era stata ripulita dalla polvere e dai grovigli di ragnatele. Sir John volle controllarla personalmente, poi mi lasciò e si ritirò nella sua. Ero impressionato dal suo pallore cadaverico e dalla sua debolezza, quando mi augurò la buona notte, e provai come un senso di colpa, nel pensare che lo sforzo di ricevere ed intrattenere un ospite, poteva aver aggravato il terribile male che lo affliggeva. Sotto quella premurosa parvenza di cortesia, avvertivo il dolore e il tormento, e mi domandai se quella com-
pitezza non fosse stata mantenuta ad un prezzo eccessivo. La fatica della lunga giornata di viaggio, assieme al forte vino che avevo bevuto, avrebbero dovuto sprofondarmi subito nel sonno. Però, benché giacessi con gli occhi chiusi nell'oscurità, non riuscivo a fugare le ombre diaboliche, le sinistre e orribili larve che infestavano gli ossari e che si affollavano attorno a me provenienti da tutto quell'antico edificio pieno di fantasmi. Cose insopportabili e repellenti mi assediavano con i loro immondi artigli, e mi sfioravano con le loro spire disgustose, mentre continuavo senza posa a rigirarmi nel letto ed a fissare il grigio riquadro della finestra oscurata dalla tempesta. Lo scrosciare della pioggia, mi portava il mormorio di voci semi articolate tramanti contro la mia pace, che sussurravano frasi abominevoli di segreti sconosciuti, in un linguaggio demoniaco. Finalmente, dopo un lasso di tempo che mi sembrò eterno, la tempesta si placò e non udii più quelle voci ambigue. La finestra sembrava più luminosa sulla parete buia, e i terrori della mia lunga notte insonne in parte svanirono, ma senza arrecarmi il sollievo del sonno. Percepivo un silenzio assoluto, poi, all'improvviso, udii uno strano, lieve rumore inquietante e, per alcuni minuti, non riuscii a localizzarne né la causa né la provenienza. A volte, era smorzato e lontano, a volte vicino, come se si trovasse nella camera accanto. Dava l'impressione di una specie di cigolio, simile al raschiare degli artigli di una belva su un solido pavimento di legno. Seduto sul letto, con le orecchie tese, in preda ad una nuova ondata di terrore, mi resi conto che il rumore proveniva dalla camera sbarrata. Aveva raggiunto una curiosa risonanza, quindi si era smorzato, fino a diventare quasi impercettibile, poi era cessato di colpo, per alcuni minuti. Però, durante quell'intervallo, continuavo ad udire un lamento, come di qualcuno in preda ad un grande tormento o al terrore. Non potevo sbagliarmi: proveniva dalla stanza di Sir John Tremoth e inoltre non ebbi più alcun dubbio sulla natura del raschiare. Il lamento non si ripeté, ma il maledetto rumore artigliante ricominciò e continuò fino all'alba. Poi, come se la creatura che lo aveva prodotto avesse abitudini notturne, il debole, vibrante raschiare, cessò definitivamente. In uno stato di cupa ed ossessionante apprensione, intontito dalla stanchezza e dal bisogno di dormire, lo avevo ascoltato con i sensi tesi fino al limite della sopportazione. Quando finalmente cessò, nell'alba grigia e livida, caddi in un profondo torpore che neppure gli evanescenti ed amorfi rumori della vecchia hall, riuscirono ad impedire.
Fui destato da un concitato bussare alla porta, un bussare che anche i miei sensi offuscati dal sonno, avvertirono come imperioso e pressante. Doveva essere quasi mezzogiorno e, quasi vergognandomi di aver dormito così a lungo, corsi ad aprire la porta. Vedendo il vecchio Harper tutto tremante ed addolorato, compresi subito che doveva essere accaduto qualcosa di terribile. «Sono dolente di dovervi informare, signor Chaldane, che Sir John è morto. Non aveva risposto al mio bussare come al solito; così mi sono preso la libertà di entrare in camera sua. Dev'essere deceduto poco dopo l'alba.» Indicibilmente scosso da quell'annuncio, ricordai il lamento che avevo udito ai primi grigiori dell'alba. Forse il mio ospite stava morendo in quel preciso momento. Mi venne anche in mente quell'orribile e detestante graffiare. E mi domandai se il lamento fosse stato causato non tanto dalla paura, quanto dal male fisico. Lo sforzo e la tensione nell'ascoltare quell'odioso lamento, avevano portato il male di Sir John alla crisi finale? Ma non avevo alcun elemento certo, e non potevo fare altro che congetture. Secondo le futili formalità in uso in simili circostanze, cercai di porgere le mie condoglianze al vecchio domestico e gli offrii tutta l'assistenza possibile per tributare un degno funerale ai resti mortali di Sir John. Siccome la casa era priva di telefono, sarei andato a cercare un dottore che esaminasse il corpo e firmasse il certificato di morte. A quella proposta, il vecchio mi sembrò sollevato e pieno di gratitudine. «Vi ringrazio, signore,» disse con fervore. Poi, come per giustificarsi, aggiunse: «Non voglio abbandonare Sir John. Gli promisi che lo avrei vegliato.» Poi continuò parlando del desiderio di Sir John di essere cremato. A quanto pareva, il Baronetto aveva lasciato chiare disposizioni per la costruzione di una pira di legna, presa dalla corrente del fiume, sulla collina dietro Tremoth Hall, per la cremazione del suo cadavere e lo spargimento delle ceneri sui campi della sua proprietà. Aveva inoltre autorizzato il domestico a provvedere, al più presto possibile, ad eseguire quanto disposto dopo la sua morte. Nessun doveva essere presente alla cerimonia, eccetto Harper e i portatori dei drappi funebri presi a nolo. I parenti più prossimi di Sir John - nessuno dei quali abitava nelle vicinanze - non dovevano essere informati del decesso che a funerale avvenuto. Harper voleva prepararmi la prima colazione, ma io rifiutai, dicendogli che avrei potuto mangiare qualcosa al villaggio più vicino. Il vecchio sembrava stranamente a disagio e mi resi conto, da un miscuglio di sentimenti
e di emozioni intraducibili a parole, che si trattava dell'ansia di dare inizio alla veglia promessa accanto al cadavere di Sir John. Sarebbe inutile e tedioso, riferire i particolari del funereo pomeriggio che seguì. La densa nebbia marina era tornata, e mi mossi a tastoni in un mondo soffice ma irreale. Riuscii a trovare un dottore ed anche a radunare parecchi uomini per la costruzione della pira e per reggere i drappi. Ovunque mi imbattei però in uno strano silenzio, e tutti evitavano di fare commenti sulla morte di Sir John né parlavano dell'oscura leggenda attribuita a Tremoth Hall. Con mia grande meraviglia, Harper propose che la cremazione avesse luogo subito. Ma non fu possibile. Quando tutte le formalità e le disposizioni furono espletate, la nebbia si trasformò in una decisa e monotona pioggia scrosciante, che impedì l'accensione della pira e ci costrinse a rimandare la cerimonia. Avevo promesso a Harper che sarei rimasto fino a che tutto fosse compiuto; e mantenni la parola, trascorrendo una seconda notte sotto quel tetto che copriva tanti maledetti segreti così abbietti. Le tenebre calarono presto. Dopo un ultimo viaggio al villaggio, per comprare alcuni panini che avrebbero costituito la cena per me e per Harper, tornai nella Hall. Incontrai Harper sulle scale, che saliva nella camera mortuaria. Era ancora più agitato, come se fosse stato spaventato da qualche nuovo avvenimento. «Mi stavo domandando se può essere opportuno che mi teniate compagnia questa notte, Signor Chaldane. Sarà una veglia macabra, forse anche pericolosa. Ma Sir John ve ne sarebbe grato. Ne sono certo. Però, se avete un'arma di qualsiasi genere, è bene che la portiate con voi.» Era impossibile rifiutare quella richiesta, e vi aderii senza indugio. Però non avevo armi, e Harper insistette perché prendessi un'antica rivoltella, simile alla sua. «Sentite, Harper,» gli dissi bruscamente mentre percorrevamo il corridoio diretti verso la camera di Sir John, «di che cosa avete paura?» Tentò di eludere la domanda. Poi, dopo un momento, parve rendersi conto che si imponeva una certa franchezza. «Si tratta della «cosa» nella camera sbarrata. Dovreste averne sentito parlare, signore. In questi ventotto anni, Sir John e io ne abbiamo sempre avuto cura, ma avevamo il timore che potesse liberarsi. Non ci ha mai dato molte noie, dato che lo abbiamo sempre nutrito bene. Ma, durante le tre ultime notti, ha continuato a raspare contro la spessa parete di quercia della
stanza di Sir John: ritengo sapesse che stava per morire e che volesse impadronirsi del corpo, dato che quel mostro è affamato di altro cibo oltre quello che gli fornivamo noi, Signor Chaldane. Prego Dio che la parete resista; ma quel mostro continua ad artigliare e graffiare, come un demonio; e non oso pensare a quello che potrebbe accadere, nel caso in cui la parete dovesse dimostrarsi poco resistente.» Impaurito da quella conferma alle mie più ripugnanti supposizioni, non seppi cosa rispondere. Qualsiasi commento sarebbe stato inutile. Dopo l'aperta confessione di Harper, quella anormalità assumeva l'aspetto di un'ombra più oscura e più pericolosa, di una minaccia più potente e terribile. Avrei ritirato volentieri la promessa di partecipare alla veglia ma, naturalmente, ormai era impossibile. Passando davanti alla camera sbarrata, udii nuovamente il diabolico e bestiale graffiare, più forte e frenetico di prima, e mi resi conto del terrore senza nome che aveva costretto il vecchio a chiedere la mia compagnia. Quel rumore era pauroso e snervante in modo indicibile, con la sua sinistra e macabra insistenza ed i sintomi di una bramosia perversa. E continuava monotono, con un'odiosa e straziante vibrazione, che si udiva anche nella camera mortuaria. Mi ero trattenuto dal visitare quella camera per tutto il giorno, senza indulgere alla morbosa curiosità che spinge molta gente a contemplare la morte. Poi diedi una seconda ed ultima occhiata a Sir John. Già vestito e pronto per la pira funebre, giaceva sul letto bianco, con le cortine tutte ricamate, simili ad arazzi, tirate e aperte. La stanza era illuminata da parecchi grossi ceri, sistemati su un tavolino in curiosi candelabri di ottone, ricoperti dalla verde patina del tempo; ma quella luce fioca, non riusciva che a diffondere un incerto e tenue bagliore, nella desolante intensità di quelle ombre funeree. Quando, facendomi coraggio, diedi un'occhiata ai lineamenti mortali di Sir John, fui costretto a distogliere subito lo sguardo. Ero preparato al gelido pallore ed al rigor mortis, ma non a qualcosa di tanto sconvolgente, ai segni del terrore e dell'orrore disumano, che dovevano aver corroso il cuore di quell'uomo durante lunghi anni di sofferenze, e che il gentiluomo, con un autocontrollo quasi sovrumano, era riuscito a dissimulare agli osservatori superficiali. Fu una rivelazione troppo dolorosa e non riuscii a guardarlo una seconda volta. In un certo senso, non sembrava morto, ma ancora intento ad ascoltare con angosciosa attenzione quel terribile rumore che poteva benissimo
aver causato l'ultimo, definitivo attacco, del suo terribile male. C'erano diverse sedie che, come pure il letto, dovevano risalire al Secolo XVII. Harper ed io ci sedemmo davanti al piccolo tavolo, fra il letto di morte e la parete ricoperta di legno scuro, dalla quale proveniva l'incessante raschiare. Nel più totale silenzio, con le rivoltelle cariche, iniziammo la nostra macabra veglia. Durante le lunghe ore di attesa, cominciai a dipingermi un quadro di terrori mostruosi, fatto di immagini deformi o semideformi di incubi orrendi, che si inseguivano senza sosta nella mia mente. Una curiosità perversa ed insolita, mi spingeva a interrogare Harper; ma ne ero impedito da una inibizione ancora più forte. Da parte sua, il vecchio non era propenso a dare informazioni o a fare commenti di sorta, ma continuava a fissare la pareti con gli occhi pieni di paura, occhi che sembravano immensi e immoti in quella testa che ciondolava per lo sfinimento. Sarebbe impossibile riferire la tensione disumana, l'ansia macabra, l'attesa gravida di minaccia, delle ore che seguirono. La parete di legno doveva essere di notevole spessore e robustezza, tale da far fronte agli assalti di qualsiasi creatura normale unicamente munita di artigli e di denti ma, nonostante tali convincenti argomentazioni, per un momento credetti di vederla andare in pezzi. Il rumore raschiante era continuo e, nella mia febbrile fantasia, ad ogni istante si faceva più forte e più vicino. Ad intervalli regolari, mi sembrava di udire un profondo e bramoso guaito, simile a quello di un cane, o di un animale feroce quando si approssima alla tana. Nessuno di noi accennava a quello che avremmo dovuto fare, nel caso in cui il mostro fosse riuscito a raggiungere l'obbiettivo; ma pareva esistesse un tacito accordo. Tuttavia, con un senso di paura dell'ignoto del quale non mi sarei mai creduto capace, cominciai a domandarmi se quel mostro fosse tanto umano, da essere vulnerabile dalle pallottole di una semplice rivoltella. In che modo si sarebbero rivelate le fattezze della sua sconosciuta e diabolica essenza? Cercai di convincermi che si trattava di domande e di perplessità del tutto assurde; ma continuavo a esserne attratto come dal fascino di un abisso proibito. La notte avanzava con la pigrizia di un fiume oscuro, e i grossi ceri funebri non si erano consumati che di pochi centimetri nei loro candelieri corrosi dal verderame. Eppure era la sola cosa che mi desse un'idea del trascorrere del tempo, perché mi sembrava di affogare in una eternità piena di luce, immobile, eccetto quel raschiare gravido di cieco terrore. Mi ero talmente assuefatto al graffiare dietro la parete di legno e quel rumore durava
ormai da tanto, che finii con il considerare la sua sempre crescente violenza e brutalità, come una semplice allucinazione. La nostra veglia, procedeva così senza scosse apparenti. All'improvviso, mentre ero intento a fissare la parete e ad ascoltare con agghiacciante tensione, udii il secco rumore di qualcosa che andava in frantumi, ed uno dei listelli si staccò dal pannello. Poi, prima che riuscissi a riprendermi e ad accettare la terribile testimonianza dei sensi, una grossa porzione semi-circolare della parete crollò in frantumi, sotto l'impatto di qualcosa di molto pesante. Forse fu per grazia di Dio, ma non sono mai stato in grado di ricordare in tutti i particolari, la cosa infernale che fuoriuscì dal pannello. Quella visione traumatizzante proprio a causa dell'enorme orrore, mi ha quasi cancellato i particolari dalla memoria. Tuttavia, mi è rimasta la confusa impressione di un corpo enorme, biancastro, privo di peli, zoomorfo e quadrupede, con dei denti canini in un volto semi-umano, e lunghi artigli da jena all'estremità degli arti, che erano allo stesso tempo zampe e braccia. Quell'apparizione fu preceduta da un fetore di putrefazione, simile al puzzo proveniente dalla tana di un animale carnivoro; poi, con un balzo terrificante, l'orrore fu su di noi. Udii lo sparo della rivoltella di Harper, lacerante ed improvviso nella stanza chiusa; la mia invece non produsse che un soffocato «click». Forse la cartuccia era troppo vecchia; ad ogni modo aveva fatto cilecca. Prima che riuscissi a premere il grilletto una seconda volta, venni gettato a terra con incredibile violenza ed urtai con il capo contro una gamba del tavolino. Una specie di velo nero trapunto di miriadi di fiammelle, si abbatté su di me. E fu il buio. Quando, dopo un po', ripresi coscienza, fui colpito da una fiamma vivida e ondeggiante che pareva farsi sempre più brillante. Poi, i miei sensi offuscati ed intorpiditi, furono bruscamente riportati alla realtà dell'acre odore della stoffa bruciata. I contorni della stanza ripresero forma e mi accorsi di giacere rannicchiato contro il tavolo rovesciato, con lo sguardo fisso sul letto funebre. I ceri erano finiti sul pavimento. Uno stava bruciando lentamente sul tappeto, accanto a me, mentre un altro aveva incendiato le cortine del letto che, bruciando rapidamente, avevano intaccato il grande baldacchino. Enormi brandelli incandescenti di stoffa in fiamme, cadevano sul letto in tutti i punti, intaccando il cadavere di Sir John Tremoth. Mi lanciai con l'intenzione di spegnere il fuoco, ma le fiamme si stavano
propagando rapidamente, sempre più alte, però non così in fretta da riuscire a nascondere al mio sguardo i resti di Sir John Tremoth. Non mi sento in grado di riferire l'orrore che mi sopraffece e vorrei persino averne perduto il ricordo. Troppo tardi il mostro era stato spaventato dalle fiamme... Vi è ben poco d'altro da raccontare. Mentre, con Harper sulle braccia, uscivo barcollando dalla stanza invasa dal fumo, mi voltai indietro e vidi il letto ed il baldacchino trasformarsi in immenso rogo. L'infelice Baronetto, aveva avuto una pira funebre nella sua stessa camera ardente. Quando uscimmo dalla casa condannata, stava per spuntare l'alba, ma il cielo continuava ad essere grigio e pieno di nuvole. L'aria fresca sembrò rianimare il vecchio domestico che si reggeva in piedi a malapena. Fianco a fianco, senza dire una parola, fissavamo le ruggenti lingue di fuoco che si innalzavano dal tetto di Tremoth Hall, diffondendo un cupo bagliore sulle siepi incolte. Nella livida luce dell'alba e di quell'impressionante incendio, scorgemmo d'un tratto delle impronte semi-umane e mostruose, recanti i segni di lunghi artigli, profonde e recenti sul terreno molle di pioggia. Provenivano dalla casa e proseguivano verso la collina ricoperta di alberi. Cominciammo a seguirle in silenzio. Conducevano all'antica tomba di famiglia, alla massiccia porta di ferro che, per ordine di Sir John Tremoth, era rimasta chiusa per un'intera generazione. Il portale aperto stava ancora oscillando, e la catena arrugginita ed il lucchetto, erano stati infranti da una forza superiore a quella di qualsiasi uomo o animale. Le inconfondibili impronte di fango fresco proseguivano inoltrandosi nelle profonde tenebre del sacello. Pur essendo entrambi disarmati, dato che avevamo abbandonato le rivoltelle nella camera mortuaria, non esitammo ugualmente. Harper aveva un'abbondante provvista di fiammiferi e, datomi uno sguardo attorno, trovai un pesante ramo di legno inzuppato d'acqua, che poteva servire come bastone. In un silenzio sinistro, incuranti del pericolo, ci inoltrammo in quei sotterranei quasi interminabili, accendendo un fiammifero dopo l'altro, per far luce in quell'atmosfera mefitica e puzzolente. Le tracce di quelle diaboliche impronte si facevano più vaghe mano a mano che avanzavamo in quegli oscuri recessi; però non riuscimmo a trovare altro che puzzolente umidità, grosse ragnatele ed innumerevoli loculi. La «cosa» che stavamo cercando era svanita nel nulla, come fosse stata inghiottita dalle pareti di quel sotterraneo. Alla fine tornammo nell'entrata. Con gli occhi che si chiudevano alla lu-
ce del giorno e la faccia grigia e spettrale, allora Harper parlò per la prima volta, con voce bassa e tremante. «Molti anni fa, dopo la morte di Lady Agatha, Sir John ed io rovistammo i sotterranei da cima a fondo; ma non riuscimmo a trovare le tracce di questa «cosa». Oggi, come allora, vi dico che è inutile cercare. Vi sono misteri che, con l'aiuto di Dio, non saranno mai rivelati. E qui devono restare.» Nel profondo silenzio, quelle cupe parole continuarono a lungo a risuonare nella mia mente, lugubri ed impenetrabili. L'ADORATORE DEL DEMONIO La casa del vecchio Larcom era un dignitoso palazzo di considerevoli dimensioni, sistemato fra le querce ed i cipressi sulla collina che si trova spalle del Quartiere Cinese di Auburn, in quella che, una volta, era la parte residenziale del villaggio. A quell'epoca, era disabitata da parecchi anni, e cominciava a presentare quei segni di desolazione e di sfacelo che le case lasciate andare assumono tanto alla svelta. Quel luogo aveva una tragica storia e lo si credeva infestato dagli spiriti. Non sono stato in grado di procurarmi notizie di prima mano e precise, sulla presenza dei fantasmi di cui si parlava. Ma, certamente, la casa possedeva tutte le caratteristiche indispensabili ad un luogo infestato. Il primo proprietario, il giudice Peter Larcom, a settant'anni era stato assassinato sotto quel tetto da un cuoco cinese folle, ed una delle figlie era impazzita; altri due membri della famiglia erano deceduti di morte accidentale. Nessuno aveva fatto fortuna: la loro era una storia di dolore e di tragedie. Altri che in seguito avevano acquistato la casa dall'unico figlio sopravvissuto di Peter Larcom, se ne erano andati con una fretta inspiegabile dopo solo pochi mesi, trasferendosi a San Francisco. Non vi avevano fatto ritorno che per rapide visite; e, pur pagando le tasse, non si erano più occupati del posto. Tutti avevano finito per pensarci come ad una specie di rudere storico, quando fu annunciato che era stato venduto ad un tal Jean Averaud, di New Orleans. Il primo incontro con Averaud fu stranamente significativo, perché mi rivelò, come anni di esperienza non avrebbero potuto fare, la peculiare caratteristica della sua mente. Naturalmente avevo già udito delle voci sul suo conto; erano singolari ma sfuggivano alle solite invenzioni e maldi-
cenze tipiche del villaggio. Mi avevano detto che era assai ricco, che era un solitario del tipo più stravagante, e che aveva apportato alcuni cambiamenti molto singolari alle strutture interne della vecchia casa; e da ultimo, ma non meno importante, che viveva con una bellissima mulatta, la quale non parlava mai con nessuno, e che si diceva fosse tanto la sua padrona quanto la sua governante. Lui stesso mi era stato descritto da alcuni come un lunatico fuori del comune ma inoffensivo, e da altri come un Mefistofele. L'avevo già visto parecchie volte prima del nostro primo incontro. Era un creolo olivastro e dal viso triste, con le caratteristiche tipiche della razza, presenti nelle sue guance incavate e negli occhi febbrili. Rimasi colpito dalla sua aria sognante e dalla fissità dello sguardo, lo sguardo di un uomo talmente dominato da un'idea, da escludere tutte le altre. Qualche alchimista medioevale che fosse stato sul punto di raggiungere il suo obbiettivo dopo anni di instancabili ricerche, avrebbe potuto avere uno sguardo come il suo. Un giorno mi trovavo in una biblioteca di Auburn, quando Averaud entrò. Avevo preso un giornale da uno dei tavoli e stavo leggendo i particolari di un atroce crimine: l'assassinio di una donna e dei suoi due figlioletti da parte del marito, il quale li aveva chiusi in un armadio, dopo aver cosparso i loro abiti di petrolio, quindi aveva stretto il laccio del grembiule della donna nella porta chiusa, con un capo che sporgeva fuori, e gli aveva dato fuoco come ad una miccia. Averaud oltrepassò il tavolo dove stavo seduto a leggere. Alzai gli occhi, e lo vidi rivolgere lo sguardo ai titoli del giornale che tenevo in mano. Un momento dopo tornò, e si sedette accanto a me dicendo a bassa voce: «Quello che mi interessa in un delitto del genere, è la presenza di forze sovrumane. Può un uomo, di propria iniziativa, aver concepito e realizzato qualcosa di così diabolico?» «Non lo so», risposi, un po' sorpreso dalla domanda dal mio interlocutore. «Ci sono degli aspetti nella natura umana, più disgustosi di quelli della giungla.» «Sono d'accordo,» rispose Averaud. «Ma in che modo questi impulsi, non presenti nei più brutali antenati dell'uomo, possono essere stati impressi nella sua natura, se non tramite qualche agente nascosto?» «Credete dunque, nella presenza di una forza diabolica o entità, un Satana o un Ahriman?»
«Credo nel Diavolo; e come posso fare diversamente, quando vedo le sue manifestazioni ovunque? Lo considero come una forza che controlla tutto; ma non penso che la sua forza risieda in quella che noi conosciamo come personalità. Penso. No. Quello che penso è una sorta di oscura vibrazione, l'irradiazione di un sole nero, di un centro di maligna eternità, una irradiazione che può penetrare come ogni altro raggio, e forse più profondamente: ma, probabilmente, non riesco a rendere del tutto chiaro il mio pensiero.» Affermai con enfasi di aver capito ma, dopo quella esplosione di comunicativa, sembrava stranamente restìo a continuare la conversazione. Evidentemente doveva essere stato spinto a rivolgersi a me; e, non meno evidentemente, ora gli spiaceva di avermi parlato con tanta libertà. Si alzò: ma, prima di andarsene, disse: «Mi chiamo Jean Averaud: forse avrete sentito parlare di me. Voi siete Philip Hastane, lo scrittore: ho letto i vostri libri e mi piacciono. Venite a trovarmi qualche volta; abbiamo diversi gusti ed idee in comune.» La personalità di Averaud, le idee che aveva espresso, e l'intensità degli interessi e dei valori che lo contraddistinguevano, mi fecero una strana impressione, e non riuscii a dimenticarlo. Per cui quando, pochi giorni dopo, lo incontrai per la strada e mi rinnovò l'invito con una cordialità che era, senza dubbio, sincera, non potei fare a meno di accettare. Ero interessato, sebbene non completamente attratto, dalla sua bizzarra, quasi morbosa individualità, ed ero spinto dal desiderio di conoscere più a fondo quanto lo riguardava. Intuivo un mistero fuori del comune, un mistero intessuto degli elementi dell'anormale e del fantastico. I giardini della residenza del vecchio Larcom, erano esattamente come li ricordavo, sebbene da un po' di tempo non avessi più avuto l'occasione di passare da quelle parti. Erano ridotti ad un vero groviglio di piante di rose Cherokee, corbezzoli, lilla ed edera, ombreggiati in parte da grandi cipressi e scure querce sempreverdi. Era una foresta con un fascino un po' sinistro, un fascino di rigoglio e di rovina. Nulla era stato fatto per mettere ordine in quel luogo, e non c'erano riparazioni apparenti nella casa stessa, dove il colore bianco dei primi anni, era stato lentamente rimpiazzato dal muschio e dai licheni che crescevano all'ombra eterna degli alberi. C'erano i segni dello sfacelo nelle volte e nei pilastri del portico anteriore; ero stupito che il nuovo proprietario, che si diceva forse così ricco, non avesse già effettuato le riparazioni necessarie. Sollevai il battente a forma di grondone e lo lasciai ricadere con un col-
po che risuonò lento e lugubre. La casa rimase silenziosa; stavo per bussare nuovamente, quando la porta si aprì lentamente e, per la prima volta, vidi la mulatta sul conto della quale c'erano state tante chiacchiere al villaggio. La donna era più esotica che bella, con gli occhi profondi e pieni di tristezza, ed i lineamenti bronzei di una tipicità semi-negroide. La sua figura, tuttavia, era veramente perfetta, con le curve di una cetra e la elasticità di un felino. Quando chiesi di Jean Averaud, si limitò a sorridere ed a farmi segno di entrare. Al momento sospettai che fosse muta. Aspettando nell'oscura biblioteca nella quale mi aveva condotto, non potei fare a meno di osservare i volumi che stipavano gli scaffali. Erano un guazzabuglio di libri che trattavano di antropologia, antiche religioni, demonologia, scienze moderne, storia, psicoanalisi ed etica. Mischiati a questi c'erano alcuni romanzi e libri di poesia. La monografia di Beausobre sul Manicheismo stava accanto a Byron e a Poe; e, «Les fleurs du Mal», gomito a gomito con un vecchio trattato di chimica. Averaud entrò dopo parecchi minuti, profondendosi in scuse per il ritardo. Spiegò che era occupato in certi lavori quando ero arrivato; ma non ne specificò la natura. Aveva un aspetto ancor più febbricitante ed allucinato di quando lo avevo visto l'ultima volta. Era veramente contento di vedermi ed impaziente di parlare. «Avete guardato i miei libri?», chiese immediatamente. «Sebbene, ad una prima occhiata, non possiate crederlo, nonostante la loro apparente diversità, li ho selezionati tutti con un unico scopo: lo studio del Demonio in tutti i suoi aspetti, antichi, medioevali e moderni. Ne ho seguito le tracce nelle religioni e nelle demonologie di tutti i popoli e, ancora di più, nella stessa storia umana. L'ho trovato nell'ispirazione dei poeti e dei romanzieri che si sono occupati degli impulsi, delle emozioni e degli atti più oscuri dell'uomo. «I vostri romanzi mi hanno interessato proprio per questo motivo: siete conscio dei perniciosi influssi che ci attorniano, e che così spesso ci influenzano o ci guidano. Ho seguito il lavoro di tali agenti anche nelle relazioni chimiche, nella crescita e nella degenerazione degli alberi, dei fiori, dei minerali. Penso che i processi di decomposizione fisica, come pure i similari processi mentali e morali, siano interamente dovuti ad essi. «In breve, ho pensato ad un Demonio, che è l'origine di tutte le rovine, i deterioramenti, le imperfezioni, i dolori, i dispiaceri, le pazzie e le malat-
tie. Il Demonio, così debolmente contrastato dalle forze del Bene, mi attira ed affascina più di qualsiasi altra cosa. Per molto tempo, il mio lavoro è stato quello di appurarne la vera natura, risalendo alle origini. Sono sicuro che in questa parte dello spazio, vi è il centro dal quale provengono tutti i mali.» Parlava con aria eccitata, con una intensità morbosa e quasi maniacale. La sua ossessione mi convinse che doveva essere un po' squilibrato; ma c'era una certa logica nello sviluppo delle sue idee; e non potevo fare a meno di riconoscergli una certa disordinata acutezza d'ingegno e d'intelletto. Senza che riuscissi a replicare, egli continuò il suo monologo. «Ho imparato che certe località ed edifici, e certe combinazioni di effetti naturali od artificiali, ricevono più facilmente di altre le influenze maligne. Le leggi che determinano il loro grado di ricettività mi sono ancora oscure, ma almeno ho verificato il fatto in se stesso. Come sapete, vi sono cose o luoghi noti per tutta una serie di crimini o disgrazie; esistono anche certi oggetti, ad esempio dei gioielli il cui possesso si accompagna a sciagure. Tali luoghi e cose sono ricettacoli del Demonio... Ho una mia teoria, tuttavia, che più o meno contrasta il flusso diretto delle forze maligne; e ritengo che il Maligno puro e assoluto non si sia ancora manifestato.» «Con l'uso di qualche stratagemma che riesca a creare un particolare campo o specie di stazione ricevente, sarebbe possibile evocare questo Demonio assoluto. A queste condizioni, sono certo che questa oscura vibrazione potrebbe diventare una cosa visibile e tangibile, paragonabile alla luce o all'elettricità.» Mi guardò con uno sguardo allucinato, poi proseguì: «Debbo confessare che ho acquistato questa vecchia casa e i terreni, soprattutto a causa della sua storia tragica. Il luogo è eccezionalmente soggetto agli influssi di cui ho parlato. Al momento sto lavorando ad un sistema per mezzo del quale, quando sarà pronto, spero di far apparire nella loro assoluta purezza le radiazioni della forza maligna.» In quel momento, la mulatta entrò ed attraversò la stanza intenta in qualche attività casalinga. Mi parve che lanciasse ad Averaud uno sguardo di tenerezza materna, di attenzione e di ansia. Lui, da parte sua, sembrò accorgersi appena della sua presenza, tanto era preso da quelle strane idee e dallo strano progetto che andava esponendo. Tuttavia, quando se ne fu andata, osservò: «È Fifine, il solo essere umano che mi sia veramente affezionato. È mu-
ta, ma molto intelligente e di una fedeltà a tutta prova. Tutta la mia famiglia, un vecchio ceppo della Louisiana, se n'è andata da tempo... e mia moglie è doppiamente morta per me.» Uno spasmo di dolore contrasse i suoi lineamenti; poi svanì. Allora riprese il suo monologo, e fece nuovamente riferimento al racconto presumibilmente tragico a cui aveva accennato: un racconto nel quale, a volte ho l'impressione sia nascosto il seme di quella strana perversione mentale che manifestava sempre di più. Mi accomiatai, dopo la promessa che sarei ritornato per un'altra chiacchierata. Certo, adesso consideravo Averaud un pazzo; ma la sua pazzia era della specie più pittoresca e fuori dal comune. Era significativo che mi avesse scelto come confidente. Tutti quelli che lo avevano incontrato, lo avevano trovato privo di comunicativa e taciturno al massimo grado. Suppongo che avesse sentito la solita, umana necessità, di confidarsi con qualcuno; ed aveva scelto me, come la sola persona nei paraggi che potesse comprenderlo. Lo vidi parecchie volte, durante il mese che seguì. In verità, costituiva un interessante studio psicologico; e lo incoraggiavo a parlare senza riserve, sebbene tale incoraggiamento non fosse assolutamente necessario. Erano molte le cose che mi diceva: uno strano miscuglio di scienza e di misticismo. Assentivo garbatamente a tutto quello che diceva, ma gli facevo rilevare i possibili pericoli dei suoi esperimenti evocatori, anche se erano coronati dal successo. Al che, col fervore di un alchimista o di un fanatico religioso, rispose che ciò non costituiva un problema, e che era preparato ad accettare qualsiasi conseguenza. Più di una volta mi fece capire che la sua invenzione stava procedendo alacremente. Poi, un giorno, disse di colpo: «Vi voglio mostrare il mio meccanismo, se lo volete vedere.» Gli dissi che ero impaziente e, immediatamente, mi condusse in una camera nella quale non mi era stato concesso di entrare prima. Era una stanza larga, di forma triangolare, e tappezzata con tende di un nero cupo. Non aveva finestre. Chiaramente, le strutture interne della casa erano state cambiate nel realizzarla; e le strane dicerie del villaggio, provenienti dai carpentieri che erano stati assunti per eseguire i lavori, ora avevano una spiegazione. Esattamente al centro della camera, su un basso tripode di ottone, vi era l'apparecchiatura della quale Averaud aveva parlato così spesso. L'invenzione era veramente fantastica, ed aveva l'aspetto di un qualche nuovo strumento musicale, estremamente complicato. Ricordo che vi era-
no molti fili metallici di diverso spessore, tesi su una serie di tavole armoniche concave, fatte con un metallo scuro e opaco; e, sopra queste, pendevano, da tre sbarre orizzontali, una quantità di gong quadrati, circolari e triangolari. Ognuno di questi, sembrava fatto con differenti materiali; alcuni brillavano come l'oro, o erano translucidi come la giada; altri erano neri od opachi come giaietto. Uno strumento simile ad un piccolo martello, era appeso di fronte ad ogni gong, all'estremità di un filo metallico argenteo. Averaud continuava ad espormi le basi scientifiche del suo meccanismo. Le proprietà vibrazionali dei gong, spiegò, erano destinate a neutralizzare con le loro intensità sonore, sia ogni altra vibrazione cosmica, sia quelle del Demonio. Insistette a lungo sulla sua stravagante teoria, sviluppandola in modo stranamente chiaro. Quindi finì la sua esposizione dicendo: «Mi serve ancora un gong per completare lo strumento; e spero di inventarlo molto presto. La stanza triangolare, drappeggiata in nero e senza finestre, è il luogo ideale per esperimentarlo. Oltre questa camera, non ho osato apportare alcun cambiamento nella casa o nei giardini, per paura di sconvolgere qualche disposizione indovinata.» Pensai più che mai che fosse pazzo. E, sebbene in molte occasioni avesse proclamato di aborrire il Demonio che aveva progettato di evocare, mi parve di percepire un fanatismo alla rovescia nel suo atteggiamento. In un'epoca meno scientifica, avrebbe potuto essere un adoratore del Diavolo, un adepto delle abominevoli Messe Nere, od avrebbe potuto dedicarsi allo studio ed alla pratica della Stregoneria. Era uno spirito religioso che non era riuscito a trovare il Bene nello schema delle cose; e, in sua mancanza, era costretto a fare del Demonio stesso un oggetto di segreta venerazione. «Ho paura che mi crediate pazzo,» osservò in un improvviso sprazzo di lucidità. «Volete assistere ad un esperimento? Sebbene la mia invenzione non sia ancora completa, posso convincervi che i miei intenti non sono affatto la fantasia di un cervello bacato.» Acconsentii, e lui accese le luci nella camera buia. Poi si portò in un angolo della stanza dove schiacciò un interruttore nascosto. I fili metallici ai quali erano appesi i martelletti cominciarono ad oscillare, fino a che ogni martelletto toccò leggermente il gong corrispondente. Il suono prodotto era discordante ed inquietante al massimo grado; una percussione diabolica quale non avevo mai udito, e straziante per i nervi. Mi parve come se un fiume di vetri in frantumi, si riversasse nelle mie orecchie. L'oscillazione dei martelletti aumentò rapidamente ed enormemente; ma,
con mia sorpresa, a questa non corrispose un aumento dell'intensità del suono. Al contrario, il fragore cominciò lentamente a decrescere, fino a che non fu più che un bisbiglio che pareva provenire da una profondità o da una distanza immensa, un bisbiglio pieno di inquietudine e di tormento, simile ai singhiozzi di lontani venti infernali, o al mormorio delle fiamme dell'Averno sopra distese di ghiaccio eterne. Dandomi di gomito, Averaud disse: «Fino ad un certo limite, le note combinate dei gong, nella loro tonalità, sono al di sopra dell'udito dell'uomo. Con l'aggiunta del gong finale, ogni suono - per piccolo che sia - sarà udibile.» Mentre cercavo di assimilare questa difficile nozione, notai una parziale diminuzione della luce sul tripode e dentro la sua strana apparecchiatura. Una colonna verticale d'ombra appena percettibile, circondata da una penombra ancora più impercettibile, si stava formando nell'aria. Lo stesso tripode, i fili metallici, i gong ed i martelletti, erano ora come una cosa indistinta, come se si vedessero attraverso un velo oscuro. La colonna centrale e la penombra sembravano allargarsi e, guardando verso il pavimento, dove la strana ombra, seguendo la linea del soffitto, si spingeva verso la parete, notai che Averaud ed io stesso, ci trovavamo ora al centro di quello spettrale triangolo. Nel medesimo momento, provai una intollerabile depressione, unita ad una moltitudine di sensazioni che dispero di riuscire a tradurre in parole. Il vero senso dello spazio era distorto e deformato, come se qualche sconosciuta dimensione, si fosse fusa in qualche modo con quella a noi familiare. Vi era una sensazione di discesa terribile e smisurata, come se il pavimento sprofondasse sotto di me in qualche profonda voragine; e mi sembrava di attraversare la stanza in un torrente di immagini turbinanti, visibili ed invisibili, intangibili e più terribili della «bufera» delle anime perdute osservata da Dante. Avevo l'impressione di sprofondare sempre più giù, andando incontro alla realtà. Morte, decomposizione, perversione, follia, erano tutte raccolte nell'aria e premevano su di me come un incubo satanico, nell'orrore di quella caduta. Avvertivo migliaia di forme e di volti tutt'attorno a me, evocati dagli abissi della perdizione. E tuttavia non focalizzai nulla all'infuori del pallido volto di Averaud, caratterizzato da un'estasi gelida e abominevole, mentre mi crollava accanto. Simile ad uno che, in un sogno, si sforza di destarsi, prese ad allontanar-
si da me. Mi sembrò di perderlo di vista per un momento in quella nube di orrori senza nome ed immateriali che minacciava di aggiungerne altri ancora. Poi mi accorsi che Averaud aveva chiuso gli interruttori e che i martelletti avevano cessato di percuotere quegli infernali gong. La doppia colonna d'ombra stava svanendo a mezz'aria; l'oppressione causata dal terrore e dallo smarrimento stava abbandonando i miei nervi, e non provai più la diabolica allucinazione del vuoto e della caduta. «Dio mio!», gridai. «Cos'era?» Averaud mi rivolse uno sguardo diabolico e pieno di esultanza. «Avete visto e sentito, vero?», domandò. «Quella è la vaga, imperfetta manifestazione dell'entità demoniaca che esiste in qualche parte del cosmo... La evocherò ancora nella sua interezza per sperimentare l'infinita e strana estasi che accompagna la sua venuta.» Mi ritrassi da lui, con un tremito involontario. Tutte le cose spaventose che avevano turbinato su di me durante il rintronare cacofonico di quei maledetti gong, si fermarono per un istante, ed allora fissai lo sguardo, con un terribile stordimento, nelle bolge della perversità e della corruzione. Mi apparve quindi uno spirito contorto, che desiderava ardentemente le spaventose estasi della perdizione. Però non lo considerai più completamente pazzo: perché mi resi conto di quello che cercava e che aveva ottenuto e ricordai, con un nuovo significato, i versi di una lirica di Baudelaire: «L'inferno nel quale il mio cuore si delizia». Nel suo oscuro entusiasmo, Averaud non si era accorto del mio improvviso cambiamento. Quando mi accinsi ad andarmene, incapace di sopportare più a lungo l'atmosfera blasfema di quella camera ed il senso di spettrale degradazione che emanava dal mio ospite, insistette perché tornassi il più presto possibile, dicendomi in tono esultante: «Penso che fra non molto tutto sarà pronto, e desidero che siate presente nel momento del mio trionfo.» Non so cosa risposi né la scusa che inventai per andarmene. Desideravo con tutte le forze accertarmi che, esisteva ancora un mondo di luce e di aria pura. Uscii, ma un'ombra mi seguì; e dei volti orribili mi scrutavano biecamente muovendosi tra le foglie, mentre lasciavo il giardino di cipressi. In seguito, vissi per giorni e giorni in una condizione che rasentava l'esaurimento nervoso. Nessuno poteva avvicinarsi tanto alla originale essenza del Demonio e rimanere senza conseguenze. Su tutti i miei pensieri aleggiava una sensazione indistinta e disgustosa, una paura indefinibile ed un orrore confuso, che erano celati negli angoli riposti della mia mente, ma
che non si sarebbero mai manifestati completamente. Un abisso invisibile, senza fondo... come le Malebolge, sembrava spalancarsi sotto di me, dovunque andassi. Tuttavia, a tratti, la mia ragione aveva la meglio, e mi chiedevo se le sensazioni provate nella tetra camera triangolare, non fossero dovute alla suggestione o all'auto-ipnosi. Mi domandavo se fosse pensabile che una forza cosmica come quella postulata da Averaud, potesse realmente esistere, o, ammettendone l'esistenza, potesse essere evocata da chiunque per mezzo dell'assurda mediazione di un congegno musicale. Il nevrotico terrore della mia esperienza, a poco a poco svanì e, nonostante il permanere di qualche dubbio, tentai di convincermi che tutto ciò che avevo provato era di origine soggettiva. Cosicché, solo con grande riluttanza e dopo una forte costrizione interiore, tornai a far visita ad Averaud. Per un lasso di tempo ancora più lungo del solito, nessuno rispose al mio bussare. Poi si udirono dei passi affrettati e la porta venne bruscamente aperta da Fifine. Capii immediatamente che qualcosa non andava, perché aveva il viso segnato da una innaturale paura ed aveva gli occhi sbarrati per l'ansietà, con le pupille totalmente inespressive, come se avessero fissato qualcosa di orribile. Cercava di parlare, ma emetteva quegli orribili suoni inarticolati caratteristici dei muti, mentre mi tirava per la manica e mi trascinava lungo il corridoio buio, verso la camera triangolare. La porta era spalancata e, non appena la raggiunsi, udii un basso mormorio, che riconobbi come il suono prodotto dai gong. Era simile alle voci delle anime in un inferno di ghiaccio, emesse con labbra che si stavano lentamente congelando nell'ultima tortura del silenzio. Si andava facendo sempre più profondo, fino a che sembrò uscire da abissi molto al di sotto del nadir. Fifine si arrestò sulla soglia, implorandomi con uno sguardo allucinato, di precederla. Tutte le luci erano accese e Averaud, abbigliato con uno strano costume medioevale - un abito nero con un copricapo simile a quello che avrebbe potuto portare Faust - stava in piedi accanto al meccanismo. I martelletti, si stavano muovendo con una rapidità frenetica, ed il suono, man mano che mi avvicinavo, si faceva più basso e più teso. Averaud non parve accorgersi di me; i suoi occhi, enormemente dilatati e fiammeggianti di bagliori infernali, simili a quelli di un invasato, erano fissi su qualcosa che era sospeso a mezz'aria. Osservando la scena, sentii abbattersi su di me la sensazione di una caduta senza fine, e mentre il mio animo era agghiacciato dall'orrore udii come il suono di migliaia di arpe.
Più grande e più densa di prima, una doppia spirale di ombra si stava materializzando e stava diventando sempre più distinta. Ingrandì, si oscurò ancora di più, poi avvolse l'apparecchiatura e si alzò fino al soffitto. Diventò solida e opaca come l'ebano, e il viso di Averaud, al centro di quella nube enorme, divenne pallido come fosse visto attraverso l'acqua dello Stige. Per un attimo, debbo avere completamente smarrito il senso della ragione. Ricordo soltanto un delirio di cose troppo orribili per poter essere sopportate da una mente sana, che popolava quell'abisso senza fine ed ingannevole generato dall'Inferno, nel quale sprofondavo con la precipitazione senza speranza dei dannati. Provavo una nausea indescrivibile, la sensazione vertiginosa di una caduta senza possibilità di risalita, mentre una canea di macabri fantasmi turbinavano oscillando attorno alla spirale di energia malefica onnipossente che imperava su tutto. Averaud era solo poco più di un fantasma, in quel delirio, quando, con le braccia aperte nella sua perversa adorazione, si diresse verso la parte più interna della spirale e si immerse in essa fino a sparire alla vista. E mi parve un altro fantasma quello che si staccò di corsa da me e raggiunse la parete chiudendo l'interruttore che comandava quegli infernali martelletti. Con la stessa sensazione che si prova tornando alla coscienza da uno svenimento, vidi dissolversi la duplice spirale, fino a che non rimase la minima traccia di quella diabolica radiazione. Averaud era sempre nello stesso punto, accanto alla terribile apparecchiatura che aveva costruito. Stava rigido ed eretto in una strana immobilità, e provai un orrore incredibile, una fredda paura, quando mi avvicinai e lo toccai con mano tremante. Infatti, ciò che vidi e toccai non era più un essere umano, ma una statua di ebano, con il volto, la fronte e le dita neri come la tunica simile a quella di Faust, o come le lugubri tende della camera. Parevano carbonizzati da qualche oscura fiamma o gelati da un freddo senza nome. I lineamenti di Averaud testimoniavano l'estasi eterna e il dolore di Lucifero nel suo abissale inferno di ghiaccio. Per un istante, la suprema entità demoniaca che Averaud aveva adorato nella sua follia e che aveva evocato dagli infiniti spazi celesti, ne aveva fatto tutt'uno con la sua essenza e lo aveva pietrificato. La forma che avevo toccato era più dura del marmo, e capii che sarebbe rimasta tale in eterno a testimonianza dell'infinito potere della Medusa, che è morte, corruzione e tenebre. Finfine si era gettata ai piedi dell'immagine e ne abbracciava le ginocchia insensibili. Con i suoi orribili gemiti nelle orecchie, uscii per l'ultima
volta da quella camera e da quella casa. Inutilmente, per mesi pieni di delirio e anni trascorsi a cavallo della follia ho cercato di cancellare quell'ossessione dalla mia memoria. Ma nel mio cervello esiste un torpore diabolico, come se fosse rimasto carbonizzato ed oscurato in quel momento di contatto con il raggio tenebroso proveniente dagli abissi al di là dell'universo. Nella mia mente, come sul volto di quel nero simulacro che era diventato Jean Averaud, l'impronta di quelle cose terribili e proibite è rimasta impressa come un sigillo eterno. I CACCIATORI DELL'ALDILÀ Raramente riesco a resistere al richiamo di una libreria, soprattutto quando questa è fornita di rare e singolari pubblicazioni. Proprio per questo, entrai da Toleman: per curiosare un po', fra i libri. Ero venuto a San Francisco, per una delle mie brevi visite due volte all'anno e, quella mattina, mi ero alzato presto, poiché avevo un appuntamento con lo scultore Cyprian Sincauld, un mio cugino di secondo o terzo grado, che non vedevo da diversi anni. Lo studio si trovava ad un solo isolato da Toleman e, non mi sembrava il caso di arrivare prima del tempo. Cyprian mi aveva invitato a vedere i suoi ultimi lavori ma, ricordandomi la mediocrità della sua arte, che si estrinsecava in piatti tentativi di creare quello che altro non era se non orrore e grottesco, non desideravo anticipare l'ora o due di visita che mi attendevano. Il negozio era vuoto e, ben conoscendo la mia passione per i libri, dopo alcune parole di saluto, il proprietario ed il suo aiutante mi lasciarono gironzolare fra gli scaffali carichi di curiosità. Scegliendo fra un libro e l'altro, tutti assai interessanti, trovai un'edizione di lusso dei «Proverbi di Goya». Incominciai a sfogliare le pesanti pagine e, ben presto, fui colpito da quel diabolico stile da incubo. Per me rimase sempre incomprensibile, come mai non cacciai un urlo di terrore quando, alzando gli occhi dal libro, vidi una cosa acquattata in un angolo dello scaffale, di fronte a me. Non sarei stato meno stupito, se qualche personaggio raffigurato nelle pagine dallo stesso Goya, fosse improvvisamente diventato di carne ed ossa. Ciò che vidi, fu una minacciosa e grigia figura, piegata in avanti, completamente senza capelli, peli o lanuggine, ma segnata da tenui e stinti co-
lori, come quelli di un serpente vissuto al buio. La testa e la fronte erano quelli di un'ape, la bocca e le mandibole simili al muso di un cane, e le braccia terminavano in mani contorte, con dei lunghi e neri artigli che sfioravano il pavimento. Quella cosa era infinitamente bestiale e macabra nello stesso tempo, poiché la sua pelle incartapecorita era avvizzita, cadaverica e mummificata in modo indescrivibile e, dalle orbite dei suoi occhi, profondi come quelli di un teschio, usciva un pesante raggio giallo e fosforescente, simile a zolfo incandescente. Dalla sua bocca bavosa e semiaperta, spuntavano delle zanne che parevano macchiate di veleno e, nel complesso, aveva l'aspetto di un malvagio mostro pronto a colpire. Sebbene, da anni, io sia uno scrittore professionista di storie che spesso trattano di fenomeni occulti dell'irreale e dell'ultratempo, in quel momento mi trovavo di fronte a una aberrazione assoluta. Non avevo mai visto nulla prima che potesse sia pure lontanamente essere paragonato ad un tale fantasma o ad una tale allucinazione, ed ero ben lontano dal pensare che, in una libreria nel pieno centro di una strada affollata, e nella piena luce di un giorno d'estate, si potesse trovare una cosa simile. Era talmente lontana da qualsiasi forma di questo mondo, così terribile, che poteva appartenere soltanto ad un'illusione. Mentre continuavo a stare davanti al Goya, irrigidito dal terrore e dall'incredulità, l'apparizione si mosse verso di me. Dico si mosse, anche se il suo cambiamento di posizione fu così repentino, senza alcuno sforzo o movimento visibile, che questo verbo è del tutto inadeguato. Mentre prima era lontana quattro o cinque piedi, ora si trovava esattamente sopra il volume che io tenevo tra le mani, e mi guardava con occhi guizzanti e nauseanti, mentre una bava grigio-verdastra, colava dalla sua bocca sulle pagine aperte. Contemporaneamente, sentii un insopportabile fetore di rancido, mescolato all'odore di un cadavere in putrefazione o in decomposizione. Per un lungo e tremendo momento, che forse era solo di un secondo, il mio cuore cessò di battere, mentre osservavo quel muso repellente. Annaspando, lasciai cadere il Goya, che crollò rumorosamente sul pavimento: come cadde, mi accorsi che la visione era scomparsa. Toleman, un nano calvo, dagli occhi rotondi sempre sbarrati, venne a tirare su il libro esclamando: «Cosa c'è Sig. Hastane: non vi sentite bene?» Dall'attenzione con la quale esaminava il libro per vedere se si era rovi-
nato, capii che la sollecitudine era, più che altro, dedicata appunto al libro di Goya. Era chiaro che, né lui né il suo aiutante, avevano assolutamente percepito nulla della visione orrenda, né sentivano il fetore, simile a quello di una tomba scoperchiata, che si alzava nell'aria, né si accorgevano della sbavatura verdognola che macchiava la pagina. Non ricordo quanto impiegai ad uscire dal negozio. La mia mente era un ribollire di orrore e di ribrezzo per quell'alienazione soprannaturale che avevo visto, uniti al pensiero della mia propria salvezza mentale e fisica. Mi ricordo solo che mi ritrovai a camminare per una strada, quasi a velocità febbrile, verso lo studio di mio cugino, e con il libro di Goya sotto il braccio che, forse nel tentativo di scusare la mia goffaggine, dovevo aver acquistato impulsivamente, senza neanche rendermene conto. Ma, quando arrivai all'edificio, feci diverse volte il giro dell'isolato, cercando di ritrovare il mio equilibrio ed il mio autocontrollo; ricordo anche, che cercai faticosamente di rallentare il passo, dato che ormai avevo assunto la veloce andatura di un uomo inseguito da qualcosa d'invisibile. Cercai di ragionare, di convincere la parte raziocinante della mia mente, che l'apparizione non era stata nient'altro che un evanescente artificio della luce e dell'ombra od un temporaneo calo della vista. Ma tutto ciò non riusciva a convincermi, poiché avevo visto, fin troppo distintamente, quell'orrore terribile. Cosa poteva significare? Non avevo mai fatto uso di narcotici od abusato di alcool e, per quanto riuscivo ricordare, i miei nervi erano in perfetto equilibrio. D'altra parte, avevo sofferto di un'allucinazione visiva che stava a segnalare come si trattasse, senza alcun dubbio, dell'inizio di qualche oscuro disordine cerebrale, a meno che non fossi stato oggetto di qualche fenomeno spettrale che si trovava aldilà della realtà e della dimensione umana. In ogni caso, era senz'altro un problema da esporre ad uno psichiatra o ad un oculista. Pur essendo ancora profondamente scosso, cercai di ritrovare me stesso; pensai che, in fondo, i ritratti di scarsa fantasia o i gruppi simbolici di Cyprian Sincaul, sarebbero serviti a calmare i miei nervi agitati. Ed anche le sue opere grottesche mi sarebbero apparse banali e semplici, di fronte alla blasfema nefandezza che mi si era appalesata nel negozio. Entrai nella casa e salii una scala logora, fino al secondo piano, dove abitava Cyprian, in un appartamento che era piuttosto ampio. Mentre salivo i gradini, ebbi la strana impressione di essere seguito, ma non vidi né sentii nulla, e l'ingresso era vuoto e silenzioso esattamente come le scale.
Quando bussai, Cyprian si trovava nel suo atelier e, dopo un intervallo che mi parve interminabilmente lungo, sentii la sua voce rispondermi dicendomi di entrare. Lo trovai che si puliva le mani su un vecchio abito, e supposi che avesse appena finito di modellare. Un enorme lenzuolo di tela grezza era stato tirato su quello che era apparentemente un gruppo di figure che occupava il centro della stanza; attorno c'erano un'infinità di sculture in argilla, in bronzo, in marmo ed anche in terracotta e steatite, materiale quest'ultimo usato per i lavori meno importanti. In fondo alla stanza c'era un grande paravento cinese. Già soltanto ad una prima occhiata, m'accorsi che c'era qualcosa di cambiato sia in Cyprian che nel suo lavoro. Mi ricordavo di lui come di una persona amabile, dall'aspetto di un giovane pacioso, sempre vestito elegantemente e senza dare alcuna impressione di essere un sognatore o un visionario. Ora era difficile riconoscere in lui l'uomo magro e scattante, dotato di una fierezza ed acutezza quasi luciferine. La sua massa di capelli scarmigliati era striata da molti fili bianchi, ed i suoi occhi particolarmente accesi davano una sensazione di strana consapevolezza e nello stesso tempo erano sfuggenti, come se dietro di loro si nascondesse una paura morbosa e macabra. Il cambiamento nella sua scultura non era meno impressionante. L'insulsaggine e la mediocrità erano state sostituite incredibilmente da un tocco che aveva quasi del geniale. Ancor più incredibile, ricordando i suoi lavori banalmente grotteschi dei primi periodi, era la forza artistica che ora avevano acquistato. Tutto attorno a me era pieno di demoni dall'aspetto forsennato, di folli satiri insieme a delle ninfomani, di diavoli necrofagi che sembravano emanare l'odore stesso dei cadaveri, di lamie voluttuosamente avvinte alle loro vittime, e di altri soggetti indescrivibili che appartenevano a regni ultraterreni di maligne superstizioni e di miti diabolici. Il peccato, l'orrore, la blasfemia, la lussuria e la malevolenza, tutto era espresso con un'impeccabile arte realistica. L'ossessionante aspetto di quelle opere, non serviva certamente a placare i miei nervi scossi, per cui provai l'impellente desiderio di scappare dallo studio, di fuggire da quella malefica moltitudine di agghiaccianti diavolerie ed allucinanti chimere. La mia espressione doveva aver lasciato trapelare le sensazioni che provavo, poiché Ciprian mi disse con voce forte e vibrante dalla quale traspariva una nota di orgoglioso trionfo.
«Veramente un lavoro notevole, no? Dalla tua sorpresa, penso che non abbia mai visto alcunché di simile prima d'ora.» «No, certamente: lo ammetto», gli risposi. «Buon Dio! Se continui su questa strada, diventerai il Michelangelo del Diabolico. Dove mai hai potuto avere queste ispirazioni?» Come se volesse evitare la mia domanda mi disse: «Si, certo, sto andando molto lontano, forse anche più di quanto ti immagini. Ma se tu sapessi ciò che io so, se tu avessi visto ciò che io ho visto, riusciresti ad esprimere qualcosa di veramente notevole nel campo letterario del surreale. Sei intelligente e fertile di immaginazione, non posso negarlo, ma manchi completamente di esperienza». Rimasi stupito e meravigliato. «Esperienza!? Cosa vuoi dire?» «Esattamente quello che ho detto. Tu cerchi di descrivere l'Occulto ed il Soprannaturale semplicemente con una conoscenza del tutto rudimentale, in questo campo. Anch'io, anni fa, cercavo di esprimermi nella scultura nello stesso modo, e senza dubbio tu ti ricorderai del mediocre disordine in cui mi dibattevo. Ma da allora ho imparato una cosa o due». «Sembra tu abbia fatto un patto con il Diavolo, o qualcosa del genere», notai con un tono debole e volutamente frivolo. I suoi occhi si strinsero ed assunsero una strana e segreta espressione. «Io so ciò che so, e non ha importanza sapere come o perché. Il mondo in cui viviamo non è l'unico esistente, e gli altri sono molto più vicini di quanto tu immagini; i confini del visibile e dell'invisibile sono qualche volta coincidenti». Ricordando quella sgradevole visione, mi sentii leggermente inquieto, mentre ascoltavo le sue parole; soltanto qualche ora prima le avrei prese come una semplice teoria, mentre ora assumevano un significato terrificante e misterioso. «Cosa ti fa pensare che io non abbia esperienza dell'Occulto?», gli chiesi. «I tuoi scritti lo fanno pensare apertamente; in essi non c'è niente di reale o di personale, sono tutti chiaramente inventati. Se tu avessi parlato con uno spirito o avessi osservato un demone necrofago all'ora del pasto, o avessi combattuto con un incubo, o succhiato un vampiro, allora avresti acquisito un colore ed una genuinità tipici di tale campo». Per motivi che mi parvero ovvi, non intendevo parlare con nessuno dell'incredibile apparizione vista da Toleman, mentre ora mi trovai, improvvisamente, a descrivere la visione del fantasma a Cyprian, con un mi-
sto di emozioni e di profondo terrore, quasi a confutargli la critica che mi aveva sollevato. Ascoltò il mio racconto con sguardo inespressivo, mentre, in apparenza, i suoi pensieri erano occupati da qualcos'altro che non era la mia storia. Quando finii, mi disse: «Sei diventato più psichico di quanto immaginassi. Ciò che hai visto era per caso uno di questi?» E, così dicendo, tolse il lenzuolo dal gruppo di figure presso il quale stavamo fermi. Urlai involontariamente all'improvvisa apparizione, tanto che, tirandomi indietro, mi sentii barcollare. Davanti a me, in un mostruoso semicerchio, erano apparse sette figure, tutte modellate sull'orrendo essere visto da me. Anche se alcuni erano ancora amorfi ed incompleti, Cyprian era riuscito ad infondere in loro, con la sua arte diabolica, una particolare caratteristica di pura bestialità e putrescenza mortuaria. I sette mostri avevano accerchiato una ragazza nuda ed accovacciata, e tutti protendevano i loro immondi artigli da iena su di lei. L'evidente e disperato pazzesco terrore sul viso della fanciulla, e la bavosa voracità dei suoi assalitori, erano resi con insopportabile realismo. Il gruppo, nella sua maestria tecnica, era un pezzo altamente artistico, ma che ispirava più ripugnanza che ammirazione. Mi sembrava di essere uscito dal mio mondo abituale e familiare e di essere precipitato in un mondo oscuramente misterioso sotto l'incombenza di una minaccia innaturale. Attratto da un orrendo fascino, non riuscivo a staccare gli occhi dal pezzo. Alla fine, mi voltai verso Cyprian; mi stava guardando con aria ambigua dalla quale traspariva un piacere maligno. «Ti piace il mio piccolo capolavoro?», mi chiese. «Ho intenzione di chiamarli: «I cacciatori dell'al di là». Prima che potessi rispondere, da dietro il paravento cinese uscì una ragazza nella quale riconobbi la modella del gruppo. Aveva evidentemente finito di vestirsi, perché indossava un tailleur ed un cappellino ed era pronta ad andarsene. Aveva quella tipica bellezza latina bruna, ma la sua bocca era serrata e riluttante, ed i suoi occhi liquidi erano pieni di uno strano timore mentre guardava Cipryan, me, ed il gruppo statuario. Cyprian non mi presentò: parlarono per qualche minuto a bassa voce e non riuscii a capire ciò che si dissero; ma mi parve solo che fissassero un appuntamento per una prossima seduta. La voce della ragazza aveva un tono supplichevole ed impaurito unito ad una preoccupazione quasi materna,
e Cyprian sembrava discutere con lei per cercare di rassicurarla su qualcosa. Alla fine la ragazza uscì lanciandomi un curioso e supplichevole sguardo di cui non riuscii a comprendere il significato. «Quella era Marta», mi spiegò Cyprian. «È una ragazza metà irlandese e metà italiana: una ottima modella, ma sembra che i miei ultimi lavori la rendano un po' nervosa». Rise bruscamente, ma con una nota stonata senza gioia, come il riso di uno Stregone. «In nome di Dio, cosa stai cercando di fare?», sbottai. «Cosa significa tutto ciò? Queste ignominie esistono veramente, sulla Terra o in qualche Inferno». Rise nuovamente con subdola cattiveria e ritornò ad essere elusivo. «Tutto può esistere in un universo sconfinato dalle molteplici dimensioni. Tutto può essere reale o irreale. Chi lo sa? Non sta a me dirlo. Se riesci a pensarci un attimo, pensa a quante ipotesi possono esistere, e forse non solo ipotesi». E con questo cambiò immediatamente argomento. Confuso, con la mente gravemente turbata ed i nervi sempre più scossi dall'oscuro mistero di tutto ciò, smisi di fare domande. Contemporaneamente, mi assalì uno sciocco ed impetuoso panico che mi spinse a precipitarmi giù dalle scale verso la normalità della Ventesima Strada. Mi parve che i raggi che entravano attraverso il lucernario, non fossero quelli del sole, ma provenissero da una sfera scura, che la camera fosse ricoperta da un velo di nebbia, là dove la nebbia non doveva esistere, e che i Satana di pietra, le lamie di bronzo, i satiri di terracotta, ed i mascheroni di argilla, fossero aumentati di numero, e che da un momento all'altro potessero prendere vita. Accorgendomi appena di ciò che dicevo, parlai alcuni minuti con Cyprian e poi, scusandomi per un precedente, ma in realtà inesistente impegno per il pranzo, e promettendogli di ritornare prima della mia partenza, lo ringraziai e mi accomiatai. Con mia grande sorpresa trovai nell'atrio in fondo alle scale, la modella di mio cugino che, dal modo e da ciò che mi disse, mi stava evidentemente aspettando. «Voi siete Philip Hastane, vero?», mi chiese con voce agitata e stridula. «Io sono Marta Fizgerald. Cyprian mi ha parlato molto spesso di voi, e so che nutre nei vostri riguardi una profonda ammirazione». Poi proseguì: «Voi dovete pensare che io sia pazza, ma vi dovevo assolutamente parlare. Non mi piace ciò che sta succedendo qui e, se non fosse perché voglio
molto bene a Cyprian, mi rifiuterei di tornarci. Non so ciò che ha fatto, ma è assai cambiato da prima; i suoi lavori diventano ogni giorno sempre più orridi e spaventosi e non sapete quanto mi terrorizzano. Oh! Quegli orribili mostri grigi e cadaverici del nuovo gruppo: riesco a malapena a rimanere nella stanza con loro! A nessuna persona normale verrebbe in mente di scolpire tali cose. Non trovate che sono spaventosi, Signor Hastane? Fa pensare come se fossero stati liberati dall'Inferno e che questo in realtà non sia molto distante. Il solo immaginarlo è sbagliato e fa male, e vorrei tanto che Cyprian smettesse questo lavoro. Ho paura che, proseguendo, succeda qualcosa alla sua mente, ed io stessa, se continuerò a vedere quei mostri, impazzirò. Mio Dio! nessuno può rimanere sano in quello studio!» Poi s'interruppe e, dopo una certa esitazione, riprese: «Potete fare qualcosa Signor Hastane? Potreste parlargli e dirgli quanto tutto ciò può essere nocivo per la sua salute mentale. Voi dovete avere una certa influenza su di lui: siete cugini vero? Inoltre pensa che voi siate molto intelligente. Non ve lo chiederei se non avessi notato molte cose strane, né vi disturberei se avessi qualcun altro a cui rivolgermi. «Si è rinchiuso dall'anno passato nello studio con i suoi lavori e difficilmente vede qualcuno. Siete la prima e l'unica persona alla quale ha fatto vedere le sue ultime sculture; certo saranno senz'altro una enorme sorpresa per il pubblico e per i critici, quando le esporrà alla prossima mostra. «Gli parlerete vero? Non riesco a fare nulla per fermarlo, e lui sembra gioire dei pazzeschi orrori che crea. Ride di me quando gli faccio presente il pericolo cui va incontro, anche se ho l'impressione che quei soggetti qualche volta lo innervosiscano, tanto che è diventato persino timoroso della sua stessa immaginazione, ma forse vi ascolterà». Se avessi avuto bisogno di qualche cosa che aumentasse ancor di più la mia agitazione, la sua disperata richiesta e le sue oscure e misteriose insinuazioni sarebbero state sufficienti. Capii che amava Cyprian e che doveva essere tremendamente in pena per lui e profondamente terrorizzata, altrimenti non si sarebbe rivolta ad un estraneo rivelandogli quelle cose. «Ma io non ho alcuna influenza su di lui», le risposi, sentendomi un poco imbarazzato, «e poi cosa potrei dirgli? In fondo, sono affari suoi. I suoi nuovi lavori sono magnifici, e non ho mai visto nulla di simile e di così imponente nel suo genere. Come faccio a dirgli di smettere? Non esiste nessuna ragione plausibile, e lui mi getterebbe semplicemente fuori dallo studio. Un artista è nel suo pieno diritto quando sceglie i suoi soggetti dove vuole, fosse anche nelle più profonde fosse del Limbo e dell'Erebo».
La ragazza parlò e discusse con me per diversi minuti nell'atrio deserto e, ascoltandola e cercando di convincerla che mi era impossibile esaudire la sua richiesta, il dialogo suonò alle mie orecchie con la vacuità e la noia di un incubo. Mi rivelò dei particolari che non desidero raccontare, particolari che erano troppo morbosi e sorprendenti per essere credibili, ed erano tutti attinenti l'alterazione mentale di Cyprian, i suoi nuovi soggetti, ed il suo metodo di lavoro. In essi c'erano velati o diretti accenni alla sua crescente perversione e la ragazza, anche in certe rivelazioni terrificanti, sembrava in certi momenti tirarsi indietro e non essere sincera del tutto. Alla fine, con una mezza promessa di parlargli e di rimproverarlo, riuscii a staccarmi da lei e ritornai al mio albergo. Il pomeriggio e la sera che seguirono sembrarono tinti dalle ombre cupe di un brutto sogno. Mi sembrava di aver abbandonato la solida terra per cadere in un baratro fra le ribollenti e minacciose ombre della pazzia, e di aver perso i giusti riferimenti della posizione o della direzione. Era tutto troppo incredibile e irreale. Il cambiamento, in Cyprian stesso, non era meno strabiliante e orripilante dell'esecranda visione della libreria e delle demoniache sculture che denotavano una maestria superba; era come se quell'uomo fosse posseduto da qualche energia o entità satanica. Dappertutto dove andai, non riuscii mai a cancellare in me quella sensazione di essere seguito da qualcosa di invisibile ed intangibile, e perciò spaventoso. Mi sembrò, che ad ogni istante, la grigia faccia da verme con quegli occhi sulfurei, potesse riapparire; che la bocca di quel muso canino, con le sue zanne cancerogene, potesse sbavare sul tavolo dove io mangiavo o sul cuscino del mio letto. Non osai riaprire il libro di Goya nella paura di scoprire che alcune pagine fossero rimaste macchiate di bava. Uscii e passai la serata in caffè, in teatri, e dappertutto dove potevo trovare gente e luci. Era passata mezzanotte, quando mi decisi ad affrontare la solitudine della mia camera d'albergo. Passai diverse ore d'insonnia nervosa e di madida angoscia sotto la lampada che avevo lasciato accesa. Finalmente, senza accorgermene e senza alcun segno premonitore di assopimento, poco prima dell'alba mi addormentai. Non ricordo alcun sogno, soltanto quella oppressione da incubo che persisteva anche nel sonno più profondo e sembrava, nella sua pesante informità, trascinarmi giù dentro abissi al di fuori della luce nell'impenetrabilità di entità organizzate. Era quasi mezzogiorno quando mi svegliai e mi trovai a guardare la fac-
cia mummificata del verme grigio e gli infernali occhi dell'orrenda cosa che avevo trovato nella libreria; era al fondo del letto e, mentre guardavo ipnotizzato, vidi le pareti della camera dapprima tappezzata di fiori, tramutarsi in una infinita apparizione di grigie, brulicanti, forme necrofaghe, che emergevano come mostruose, deformi bolle da un piano melmoso e dall'aria colma di vapori serpentini. Improvvisamente mi trovai in un altro mondo e, mentre guardavo, mi sentii assalito da una profonda vertigine. Mi sembrò che il mio letto si sollevasse e roteasse lentamente vacillando verso l'abisso, che l'esecranda visione di quelle apparizioni nuotasse sotto di me, e che da un momento all'altro sarei caduto e precipitato per sempre in quel mondo di abissale, oscura, mostruosità. In uno stato di profondo allarme, combattei la mia vertigine e la sensazione che un altro volere al di fuori del mio mi stesse guidando; combattei la immonda bestia che mi ipnotizzava con qualche inspiegabile e mesmerica attrazione, quasi un serpente con la sua preda, e mi sembrava di leggere un intento senza nome nei suoi occhi gialli, nel movimento senza suono della sua bocca bavosa, ed il mio animo si rivoltò con nausea e repulsione, quando sentii il suo pestilenziale fetore. Sembrò che la mia semplice ribellione mentale fosse sufficiente. La visione e la faccia retrocessero e scomparvero nel pulviscolo del giorno. Rividi le rose colorate sulle tappezzerie delle pareti, ed il letto tornò ad essere stabilmente orizzontale sotto di me. Il terrore mi aveva gettato in un bagno di sudore, in un mare di supposizioni da incubo, di minacce surreali e di pazzie vorticose, sino a che il suono del telefono non mi richiamò al mondo reale. Mi gettai sull'apparecchio. Era Cyprian, ma stentai a riconoscere la sua voce bassa e disperata dalla quale erano spariti i toni orgogliosi e sicuri del mattino prima. «Devo vederti subito», mi disse. «Puoi venire qui?» Stavo per rifiutare, per dirgli che dovevo tornare subito a casa, che non avevo tempo, e che dovevo correre a prendere il primo treno: insomma, qualsiasi cosa che potesse evitare un'altra visita in quel posto malefico, quando sentii la sua voce aggiungere: «Devi venire Philip. Non posso dirti nulla per telefono, ma è successa una cosa terribile: Marta è scomparsa». Gli dissi che sarei andato da lui subito, non appena mi fossi vestito. L'incubo era ritornato, più profondo ancora appena ebbi sentito le ultime paro-
le ma, ricordando il viso ossessionato della ragazza, la sua paura isterica, le sue frenetiche suppliche e la mia vaga promessa, non potei rifiutarmi di andare. Mi vestii ed uscii, mentre la mia mente era un turbine di sgradevoli congetture, di dubbi atroci e di angoscia, ancor più terribili poiché ero all'oscuro di ciò che era capitato. Cercai di immaginare cosa fosse successo, udendo i timori e gli strani accenni a qualche terrore sconosciuto, con qualcosa di più tangibile e coerente, ma mi trovai avviluppato in un caos di ombre minacciose. Non avevo neanche fatto colazione, anche se ne avevo avuto il tempo; mi recai subito allo studio di Cyprian, che trovai immoto in mezzo alle sue statue orrende. Il suo aspetto era quello di un uomo che aveva appena ricevuto la botta di un'arma contundente od avesse visto il vero volto di Medusa. Accennò vagamente un segno di saluto, con parole grevi ed atone poi, meccanicamente, come se la voce uscisse da un automa piuttosto che da una mente cosciente, incominciò a raccontare l'atroce fatto: «Essi l'hanno presa», disse semplicemente. «Forse tu non lo sapevi o, forse, lo immaginavi, ma tutte le mie ultime sculture le ho prese dal vivo; Marta, questa mattina, più o meno due ore fa, stava posando per me. Sperava di finire la sua parte in modo da non dover più posare per questo particolare gruppo. Questa volta non avevo più chiamato le Cose, poiché capivo che lei ne era sempre più terrorizzata. Temeva più per me che per se stessa; effettivamente io ero piuttosto allarmato dalla baldanza con la quale, qualche volta, si attardavano ad eseguire un mio ordine, quando comandavo loro di andarsene, oppure di apparire quando non le avevo chiamate. «Ero preso dagli ultimi tocchi sul corpo della ragazza, e in quel momento non la stavo guardando, quando improvvisamente mi accorsi che le Cose erano là. «Fu l'odore a farmene accorgere», proseguì, «e tu sai a cosa mi riferisco; alzai gli occhi e trovai che lo studio era pieno di quegli esseri; non ce n'erano mai stati tanti, prima. Avevano circondato Marta e le si accalcavano attorno, giostrando ed allungando i loro artigli verso di lei, tuttavia, in quel momento, non pensai che avrebbero potuto farle del male. Non sono materiali come lo siamo noi e, quindi, non hanno alcun potere fisico fuori dal loro regno. «Tutto ciò che hanno, è una storia di magnetismo animalesco e, con que-
sto, cercano di attirarti e di tirarti giù, nella loro dimensione. Dio salvi chi non è capace di reagire al loro influsso, ed uno può resistere benissimo a meno che sia debole o lo voglia. Sono sempre stato convinto della mia forza di volontà, e non mi è mai passato per la mente che potessero fare qualcosa a Marta. «Rimasi impressionato quando vidi che quel branco animalesco si accalcava, ed ordinai loro di andarsene immediatamente. Ero arrabbiato ed anche spaventato. Ma loro mi schernivano e sbavavano con quei loro lenti contorcimenti delle labbra e quei loro farfugliamenti senza senso e suono; poi circondarono Marta esattamente come io li avevo rappresentati nel gruppo, solo che non erano solamente sette, ma molti di più. «Non so descrivere come successe, ma so solo che, ad un certo momento, la raggiunsero con i loro pazzeschi artigli, la toccarono, poi la tirarono per le mani, per le braccia ed il corpo. «Lei urlò, e pregò Dio di non dover mai più sentire un urlo simile, così pieno di scuro terrore e di agonizzante spavento. Poi vidi che li seguiva, ipnotizzata ma anche terrorizzata; allora capii che la stavano portando via. «Per un attimo lo studio si tramutò in una lunga e grigia distesa melmosa, sotto cieli dove le nebbie dell'Inferno si contorcevano come migliaia di spettri e di draghi contorti. Marta sprofondava in questo fango e le Cose erano tutto attorno a lei; spuntavano a migliaia da ogni angolo, urtandosi l'un l'altra per farsi spazio, scomparendo con lei, come delle tumefatte, storpie, infangate creature, nel limo da cui nasceva. Poi, improvvisamente, tutto scomparve, e mi trovai qui nello studio, solo in mezzo a queste dannate sculture». S'interruppe per un istante, fissando il pavimento con uno sguardo triste e desolato, poi continuò. È tremendo Philip, non riuscirò mai perdonarmi di non aver fatto niente contro quei mostri. Dovevo essere un po' matto, ma ho sempre avuto la tremenda ambizione di riuscire a creare qualche cosa di realmente valido nel campo del macabro, del grottesco e del surreale. Non supponevo neanch'io di avere una certa inclinazione in materia. Volevo diventare nella scultura ciò che Poe, Lovecraft e Baudelaire, sono diventati nel campo letterario, e Rops e Goya nel campo della pittura. «Questo e ciò che mi ha portato all'Occulto, quando mi resi conto della mia limitazione. Capii che dovevo assolutamente conoscere gli abitatori di quei mondi invisibili prima di poterli raffigurare. Dovevo farlo. Avevo sempre desiderato ardentemente riuscire ad avere delle visioni e delle rap-
presentazioni, e così, tutto ad un tratto, scoprii che avevo il potere di evocare l'invisibile... «Non è il bisogno di alcun rituale magico, nel vero senso della parola, come cimeli o formule, né tentacoli o gomme bruciate come insegnano i vecchi libri di Stregoneria. In fondo, io credo che fosse solo il desiderio di voler vedere il satanico, di voler evocare gli esseri maligni e grotteschi che vivono su piani diversi dal nostro e che sono invisibilmente celati fra l'umanità. Tu non hai l'idea di ciò che ho visto, Philip. Le statue che tu vedi qui, i diavoli, i vampiri, le lamie, i satiri, sono tutti tratti dal vero, o perlomeno con l'aiuto della memoria. Gli originali sono quelli che gli occultisti chiamerebbero i dati fondamentali. Ci sono mondi infiniti attigui al nostro o coesistenti, che sono abitati da questi esseri. Tutte le immagini mitiche o fantastiche, tutti gli spiriti evocati dagli Stregoni dimorano in questi mondi. «Diventai il loro padrone, e li comandavo a mio piacere. Poi, da una dimensione leggermente più bassa delle altre, quasi vicino al nadir dell'Inferno, chiamai quegli immondi esseri che hanno posato per questo mio ultimo gruppo. Non sapevo cosa fossero, ma supposi esistessero in gran numero. Escono odiosi come vermi dalla tomba, maligni come le arpie fornite di una voracità velenosa, indescrivibile ed inimmaginabile. Ma io mi resi conto che, al di fuori della loro sfera, non avevano alcun potere, e ridevo di loro quando cercavano di allettarmi, anche se a volte il loro magnetismo da rettile mi faceva accapponare la pelle. Era come se delle invisibili braccia gelatinose mi sprofondassero in paludi senza fondo. «Essi sono cacciatori e precisamente - di questo sono sicuro - cacciatori dell'AL DI LÀ. Dio sa cosa faranno ora a Marta, visto che è in loro potere. Quell'enorme plaga viscida piena di miasmi in cui l'hanno portata è più terribile dell'immaginazione di un diavolo. Può anche darsi che anche là non possano nuocere fisicamente, ma non è il corpo che essi vogliono, e non è per la carne umana che essi brancolano con i loro artigli rapaci e spalancano le loro bocche cancerogene. La mente, l'anima: questo è il loro cibo. Essi sono le creature che si nutrono del cervello dei pazzi, che divorano gli spiriti incorporei che sono caduti da antichi cicli dell'incarnazione e sono andati oltre una possibile rinascita. «Il pensiero che Marta sia tra loro, è peggio dell'Inferno o della pazzia. Marta mi ama, ed anch'io amo lei pur se non glielo dimostravo, preso come'ero dalla mia malefica ambizione e convinto che lei li avesse seguiti volontariamente. Deve aver pensato che mi avrebbero lasciato in pace se
avessero trovato un'altra vittima al mio posto». Cyprian smise di parlare e ricominciò a camminare febbrilmente avanti e indietro. Mi accorsi che i suoi occhi incavati erano accesi dal tormento come se l'aver raccontato quell'orribile evento fosse servito a risvegliare la sua mente annebbiata. Profondamente annichilito ed atterrito dalla sua orrenda rivelazione, non riuscivo neanche a parlare, ma potevo solo stare a guardare la sua faccia torturata e contorta. Improvvisamente, vidi la sua espressione cambiare ed il suo sguardo sorpreso tramutarsi in gioia selvaggia. Girandomi per seguire il suo sguardo, vidi Marta ferma in mezzo alla strada. Era completamente nuda eccettuato uno scialle spagnolo che doveva aver indossato quando posava. Il suo viso era pallido come il marmo di una tomba, ed i suoi occhi bianchi e spalancati erano come svuotati della vita, dei pensieri, della memoria, come se anche l'amore si fosse allontanato da lei. Era il viso di una morta, la maschera senz'anima di un'idiota; e la gioia scomparve dagli occhi di Cyprian nel momento in cui le si avvicinò. La prese tra le braccia, le parlò con amore struggente e tenerezza, e le disse parole dolci e carezzevoli. Ma lei rimaneva immobile e non rispondeva, senza denotare alcun segno di riconoscimento o di consapevolezza, ma guardava oltre di lui con i suoi occhi bianchi nei quali la luce, il buio ed il vuoto, sarebbero stati d'ora innanzi la stessa cosa. Tutti e due capirono in quell'istante che lei non avrebbe mai più risposto ad una voce umana, o all'amore, o al terrore; era come un vuoto sudario con le forme dell'essere al quale i vermi, nel mausoleo, avevano divorato la vita. Lei non ci poteva più dire nulla dell'immonda tomba in cui era stata, di quel regno sconfinato con i suoi fantomatici abitatori. La sua agonia era terminata con lo sprofondare in quel terribile e spaventoso oblio. Come uno che guarda la Gorgone, ero agghiacciato dal suo sguardo bianco e cieco. Poi, dietro di lei, comparve una schiera fremente di diavoli e lamie; la camera parve retrocedere, mentre le pareti ed il pavimento si dissolvevano in un ribollente abisso di pestilenziali vapori. Fra questi, le statue si mescolavano disgustosamente, con le loro facce da predatori e le voraci forme contorte che scivolavano verso di noi dal loro limbo ultrasensoriale simile ad un demoniaco uragano di Malebolge. Stagliandosi contro quel ribollente infinito calderone di malvagi assalitori, Marta rimaneva come l'immagine di una morta, glaciale e silenziosa tra le braccia di Cyprian. Poi, ancora una volta, dopo un attimo, quell'orrenda visione scomparve, e rimasero solo le statue diaboliche.
Capii che ero solo io ad aver visto tutto ciò, mentre lui non aveva visto nient'altro che il morto viso di Marta. Lo teneva stretto a sé continuando a ripetere le sue parole disperate con tenerezza e dolcezza. Poi, repentinamente, la staccò da sé con un singhiozzo di disperazione. Si girò, mentre lei continuava a fissare con gli occhi che non vedevano e, afferrato da un tavolo un pesante mazzuolo da scultore, incominciò a colpire con furia ed a fracassare il gruppo appena modellato di quelle cose mostruose, fino a che tutto non fu distrutto e rimase solo la figura della ragazza impazzita per il terrore, persa fra l'ammasso di frammenti informi ed umidi di argilla. GENIUS LOCI «È un posto molto strano», aveva detto Amberville, «ma non saprei come definire l'impressione che ha prodotto su di me. Tutto sembra così semplice e normale. Non è altro che un prato di larici, circondato per tre lati da un pendio di digradanti pini olivastri. Un insignificante ruscello vi affluisce dal lato libero e lo attraversa per andarsi a perdere in un cul-desac di terreno paludoso. Il rigagnolo, scorrendo sempre più lento, forma uno stagno di una certa dimensione dal quale, alcuni plantani dall'aspetto malaticcio, sembrano tirarsi indietro, come indesiderosi del suo contatto. «Un salice piangente morto si protende sullo stagno, confondendo la sua pallida immagine riflessa con la schiuma verdognola che vena la superficie dell'acqua. Non ci sono merli, usignoli e neppure libellule, come, di solito, si trovano in luoghi del genere. Tutto è silenzioso e desolato. È un luogo funesto... diabolico, ma in un modo che non riesco a descrivere. Mi sono sentito stimolato a farne un disegno, quasi contro la mia volontà, benché una cosa così esagerata sia rara nel mio stile. E, per la verità, di disegni ne ho fatti due e te li farò vedere, se vuoi.» Siccome avevo un'alta opinione delle capacità artistiche di Amberville e l'avevo sempre considerato uno dei più valenti pittori paesaggisti della sua generazione, ero piuttosto ansioso di vedere quei disegni. Comunque non mi diede neppure il tempo di esprimere il mio interesse ed aprì subito la cartella. L'espressione del viso, i movimenti tesi delle mani, mentre prendeva e mi tendeva i due acquarelli, lasciavano chiaramente trasparire uno strano miscuglio di costrizione e di ripugnanza. Però, in nessuno dei due riuscii a riconoscere lo scenario descritto. Certamente doveva trattarsi di qualche sito che doveva essermi sfuggito durante le mie saltuarie escursioni nei collinosi dintorni del piccolo villaggio
di Bowman dove, due anni prima, avevo acquistato una fattoria abbandonata, nella quale mi ero ritirato per avere la solitudine tanto essenziale ad una prolungata attività letteraria. Francis Amberville, durante quei quattordici giorni che passò con me, quando venne a farmi visita, dato il suo intuito sulle potenzialità pittoriche dei paesaggi, finì con il conoscere i dintorni molto meglio di me. Aveva preso l'abitudine di andare in giro, quasi tutte le mattine, con il necessario per i primi schizzi e, in quella maniera, aveva già trovato il tema e l'ispirazione per più di un grazioso dipinto. Le cose andavano bene per tutti e due, perché io, quando lui era fuori, mi mettevo assiduamente al lavoro, con una antiquata Remington, che era più un pezzo da museo che una macchina da scrivere. Esaminai attentamente i disegni. Quantunque fossero stati buttati giù in fretta, erano entrambi veramente pregevoli e possedevano tutte le caratteristiche della grazia e del vigore tipici dello stile di Amberville. Gli elementi della scena erano quelli che mi aveva descritto. In un disegno, lo stagno era seminascosto da un canneto, ed il salice morto si protendeva dalla riva, con un'inclinazione impossibile, come se fosse stato misteriosamente arrestato nella sua caduta verso la acque stagnanti. Sull'altra sponda, gli ontani sembravano tesi nello sforzo titanico di allontanarsi dal laghetto, mettendo a nudo le radici contorte e nodose. Nel secondo disegno, lo stagno occupava la quasi totalità del primo piano, con l'albero scheletrico che si stagliava malinconicamente su una sponda. Sull'altro versante, le canne parevano ondeggiare e bisbigliare tra di loro, nella brezza morente, e la scoscesa barriera dei pini, ai bordi del prato, era rappresentata come una muraglia di verde carico che faceva da sfondo al dipinto, lasciando soltanto un pallido margine di cielo autunnale, sulla sommità. Tutto ciò che aveva detto il pittore, era abbastanza comune. Però provai la sensazione di un profondo orrore che sembrava essere in agguato fra quegli elementi così semplici e che emanava da essi come se non fossero altro che le fattezze distorte di uno spaventoso viso demoniaco. Quella sinistra caratteristica aveva la stessa evidenza in entrambi i bozzetti, come un medesimo viso visto di fronte e di profilo. Non mi sentivo in grado di individuare i singoli particolari che suscitavano quell'impressione, però continuavo ad osservare l'abominazione di un'entità demoniaca sconosciuta, e l'atmosfera di disperazione, malvagità e desolazione che trasparivano sempre più chiaramente e odiosamente.
Lo stagno aveva l'aspetto di una smorfia macabra e satanica. Dava l'impressione che dovesse urlare, che gridasse le imprecazioni di qualche gigantesco demonio o la rauca derisione di migliaia di uccelli del malaugurio. Quella presenza demoniaca era qualcosa di completamente avulso dell'umanità ... più antico dell'uomo. Per quanto fantastico possa sembrare, il prato richiamava l'immagine di un vampiro, carico di anni e di inenarrabili infamie. In modo sottile ed indefinibile, sembrava assetato di ben altre cose che delle acque limacciose del ruscello che lo irrigava. «Dove si trova quel posto?», domandai, dopo aver osservato i disegni per alcuni minuti. Era incredibile che potesse realmente esistere qualcosa del genere... ed altrettanto incredibile che una personalità forte come quella di Amberville si fosse rivelata così sensibile a quelle peculiari caratteristiche. «Appartiene a quella fattoria abbandonata, a circa un chilometro e mezzo lungo la stradina per Bear River. La conosci senz'altro. C'è un piccolo frutteto attorno alla casa, sul pendio più alto, ma la parte più bassa del terreno, che termina appunto in quel prato, è incolta e selvaggia.» Cominciai a visualizzare il posto in questione: «Penso debba trattarsi del podere del vecchio Chapman. Lungo quella stradina non esistono altre fattorie che rispondano alla tua descrizione.» «Insomma, a chiunque, quel prato è parso il luogo più orribile che abbia incontrato. Ho visto altri paesaggi, permeati da qualcosa di sconcertante, ma mai nulla del genere.» «Forse è infestata dagli spettri» dissi, con una punta di ironia. «Da come lo descrivi, deve proprio trattarsi del punto nel quale il vecchio Chapman venne trovato morto dalla figlia più giovane. Accadde pochi mesi dopo la mia venuta, e si pensò che avesse avuto un infarto. Il cadavere era già freddo e, probabilmente, doveva essere rimasto là tutta la notte, perché mancava da casa dall'ora di cena. Lui non lo ricordo molto chiaramente, però ricordo che era reputato un eccentrico. Già qualche tempo prima della sua morte, la gente diceva che stava diventando matto. Ora mi sfuggono i particolari. Comunque, poco dopo il decesso, la moglie e i figli se ne andarono, e da allora nessuno si è più occupato della casa o di coltivare il frutteto. Una delle solite tragedie di campagna.» «Io non sono un fanatico per i fantasmi», osservò Amberville che sembrava aver preso alla lettera la mia battuta sull'infestazione. «Ma, di qualsiasi influsso si tratti, secondo me, mentre schizzavo questi disegni, ho provato l'assurda impressione che qualcuno mi stesse osservando. Strano...
l'avevo quasi dimenticato, e sei stato tu a ricordarmelo, con il tuo accenno alle possibilità di presenze demoniache. Mi pareva di vedere... lo spettatore... con la coda dell'orecchio, appena ai margini del raggio della visuale che stavo dipingendo: un vecchio dall'aspetto di ribaldo consumato, con baffi grigi tutti sudici e lo sguardo torvo e demoniaco. Ed è chiaro che non potrei avere una idea così chiara di lui, se non l'avessi visto per niente. L'ho scambiato per un vagabondo che gironzolasse in fondo al prato. Ma, quando girai gli occhi per vederlo meglio, era scomparso. Come fosse stato inghiottito dal terreno fangoso, dalle canne o dall'erica. «Non è poi una descrizione tanto malvagia di Chapman. Ricordo i suoi baffi... erano bianchi, eccetto le tracce di tabacco. Un vizioso di antico pelo, se ce n'era uno... ed anche piuttosto ributtante. All'ultimo aveva uno sguardo torvo che, senza dubbio, contribuiva ad alimentare la diceria che fosse ammattito. Adesso mi stanno tornando in mente alcune storielle sul suo conto. Si diceva che trascurasse sempre di più il frutteto. Quelli che andavano a fargli visita, lo trovavano invariabilmente nel punto più basso del prato, a fissare con aria assente gli alberi e l'acqua. Probabilmente quella fu una delle ragioni per cui si pensò che stesse perdendo il senno. Ma sono certo di non avere mai sentito dire che ci fosse qualcosa di strano o al di fuori dal normale nel prato, né prima né dopo la morte di Chapman. È un bel posticino e non riesco a immaginare che ci possa essere qualcosa che non va, adesso. «Ci sono capitato proprio per caso. Non è visibile dalla strada, a causa del filare di pini... Ma c'è un'altra stranezza. Stamani sono uscito con il presentimento chiaro e radicato che avrei scoperto qualcosa di non comune interesse. Ho tagliato in linea retta per il prato, come si dice, ed ho dovuto ammettere che quel presentimento era pienamente giustificato. Il posto mi respingeva... e mi affascinava nello stesso tempo. Voglio soltanto risolvere il mistero, ammesso che ci sia una soluzione», concluse Amberville, con un'espressione leggermente sulla difensiva. «Ci torneremo domani, con i colori a olio, per iniziare un vero dipinto.» Conoscendo la predilezione di Amberville per le scene brillanti e le cose gaie, che lo faceva paragonare a Sorolla, non riuscii a nascondere la sorpresa. «Sarà un dipinto di nuovo genere per te. Verrò io stesso a dare uno sguardo di persona, tra non molto. Mi pare uno scenario molto più affine al mio stile che non al tuo. Ci deve essere qualcosa di molto strano, in un modo o nell'altro, se esercita tanta influenza sul tuo disegno e sulla tua de-
scrizione.» Trascorsero diversi giorni. In quel momento ero molto preso dai laboriosi ed intricati problemi che riguardavano i capitoli conclusivi di un nuovo racconto, e rimandai la visita al prato scoperto da Amberville. E il mio amico, da parte sua, sembrava molto assorto nel suo nuovo tema. Usciva ogni mattina, di buon'ora, con il cavalletto e i colori ad olio, e rientrava sempre più tardi, ogni giorno, dimentico perfino dell'ora del pranzo che lo aveva sempre riportato puntualmente da ogni escursione. Il terzo giorno non comparve fino al tramonto. Contrariamente alle sue abitudini, le risposte che mi diede circa i progressi del suo lavoro, in certo qual modo, furono vaghe ed elusive. Per qualche ragione, non aveva piacere di parlare. Sembrava piuttosto restìo sull'argomento del prato e, di fronte alle mie domande, si limitò a ripetere in tono assente e formale, la promessa che mi avrebbe portato a vedere il posto. In una maniera misteriosa, che non riuscivo a definire, il suo atteggiamento sembrava cambiato. E ci furono anche altri cambiamenti. Pareva avesse perduto la solita vivacità. Lo sorpresi più volte a rabbrividire intensamente, e colsi le sfumature di un'ombra piuttosto equivoca nel suo sguardo così franco. Era una tristezza, una morbosità che non avevo mai osservato, durante i cinque anni della nostra amicizia; un nuovo aspetto del suo temperamento. Forse, se non fossi stato così preso dai miei problemi, avrei potuto prestare più attenzione, per scoprire la causa di quell'umor nero, che invece attribuii semplicisticamente all'assillo di qualche problema tecnico. Era sempre meno l'Amberville che conoscevo e, il quarto giorno, quando rientrò, al crepuscolo, lo trovai di una scontrosità affatto aliena al suo carattere. «Che c'è che non va», mi azzardai a domandare. «Ti sei imbattuto in un serpente? Oppure è il prato del vecchio Chapman che agisce sui tuoi nervi con degli influssi spettrali?» Per una volta, parve sforzarsi di scacciare la tristezza, la silenziosità ed il cattivo umore. «Si tratta sempre di quel mistero infernale. Devo proprio risolverlo, in modo o nell'altro. Il prato possiede una propria identità..., una personalità che lo pervade. È presente come l'anima nel corpo, ma non riesco ad afferrarla, a mettermi in contatto con lei. Lo sai che non sono superstizioso... ma, d'altro canto, non sono nemmeno un fanatico materialista, e di fenomeni strani, nella vita, ne ho già incontrati tanti... Forse quel prato è abitato da quello che gli antichi chiamavano «Genius Loci». «Più di una volta, anche prima di adesso, avevo avuto il sospetto che co-
se del genere potessero esistere... risiedere, abitare in qualche luogo particolare. Ma è la prima volta che ho ragione di pensare a qualcosa di attivamente malvagio e di natura ostile. Le altre presenze che avevo percepito in maniera piuttosto vaga, impersonale, erano benigne... o del tutto indifferenti al benessere umano... forse incuranti dell'esistenza umana. Questa, invece, è odiosamente conscia e vigile... Sento che il posto stesso..., o la forza che lo anima... mi stanno osservando di continuo. Quel luogo ha l'aspetto di un vampiro assetato, desideroso di bermi in qualche modo, se lo potesse. È un «cul-de-sac» di ogni male, nel quale uno spirito sprovveduto potrebbe benissimo perdersi ed essere assorbito. Però, ti assicuro, Murray, non riesco a starne lontano.» «Sembra che ti stia assoggettando...» dissi, veramente stupito da quell'insolita dichiarazione e dall'aria di paura e di morbosa convinzione con la quale l'aveva affermata. A quanto pareva, non mi aveva neppure sentito, perché proseguì, senza rispondere alla mia osservazione e con una tensione quasi febbrile, nella voce. «C'è ancora un altro aspetto. Ricordi la mia impressione di un vecchio che sembrava in agguato sullo sfondo e mi guardava torvo, durante la prima visita? Ebbene, l'ho rivisto, molte volte, sempre con la coda dell'occhio e, negli ultimi due giorni, mi è apparso molto più direttamente, sebbene sempre in maniera strana e parziale. «A volte, mentre sto scrutando a fondo ed intensamente il salice morto, vedo il suo viso torvo, con la barba sudicia, come se facesse parte del tronco. Poi ancora, fra i rami spogli, come se l'avessero imprigionato. Altre volte, è una mano nodosa o la manica a brandelli di una giacca, che emergono dallo stagno, attraverso la copertura delle alghe, come se stesse per affiorare il cadavere di un annegato. Poi, un attimo dopo... e anche simultaneamente, qualcosa di lui appare fra le canne o gli arbusti. Le apparizioni sono sempre brevi e, quando tento di scrutarle più a fondo, si confondono come volute di nebbia nel resto dello scenario. «Però, il vecchio vagabondo, chiunque o qualunque cosa sia, è una specie di istituzione. Pur essendo l'elemento più sgradevole, tuttavia sento che non è l'essenza principale di quell'abominio. «Buon Dio! È incontestabile che ha visto qualche cosa! Se permetti, verrò a raggiungerti domani pomeriggio. Il mistero comincia ad attirare anche me.» «Certo che lo permetto. Vieni pure.»
Però, tutto ad un tratto, senza una plausibile ragione, riassunse l'innaturale scontrosità dei quattro giorni precedenti. Mi lanciò un'occhiata piuttosto cupa e quasi ostile. Come se un'oscura barriera, temporaneamente messa da parte, fosse risorta fra di noi. Le ombre del suo strano umore lo avevano visibilmente ripreso e, tutti i miei tentativi di continuare la conversazione, non ottennero che monosillabi, fra lo sgarbato e l'assente. Avvertendo in lui una crescente preoccupazione, più che non l'intenzione di offendere, cominciai a notare, per la prima volta, l'insolito pallore del suo viso e la luce febbrile che gli ardeva nello sguardo. Aveva l'aspetto malaticcio, come se avesse perduto parte della sua esuberante vitalità e fosse posseduto da un'energia aliena, di natura molto meno salutare. Allora rimasi zitto, senza più fare alcun tentativo per distoglierlo dall'umore crepuscolare nel quale si era rinchiuso. Pur senza concludere nulla, tornai a riflettere sulla faccenda, a letto. Comunque, decisi che dovevo visitare il prato di Chapman. Non credevo al soprannaturale, ma sembrava evidente che quel luogo esercitava un'influenza deleteria nei confronti di Amberville. Il mattino dopo, quando mi alzai, il domestico cinese mi informò che il pittore aveva già fatto colazione ed era uscito con i colori ed il cavalletto. Questa ulteriore prova della sua condizione, mi turbò profondamente, però dedicai ugualmente tutta la mattina a scrivere. Subito dopo pranzo, mi misi in macchina, seguendo la strada principale e poi la diramazione della stradina che portava a Bear River. Parcheggiai quindi sulla collina dei pini, a monte del podere del vecchio Chapman. Benché non avessi mai visitato il prato, avevo un'idea molto chiara della sua ubicazione. Senza curarmi della stradina invasa dalle erbe e seminascosta, che si snodava nella parte più alta della proprietà, scesi attraverso il bosco, nella piccola valle senza sbocco, mentre, più di una volta, mi si offriva allo sguardo il frutteto di peri e di meli ormai in abbandono, ed il cadente tugurio, che erano appartenenti ai Chapman. Era una calda giornata di ottobre, e la serena solitudine della foresta unita alla dolcezza autunnale dell'aria e della luce, davano l'idea di qualche cosa, ma assolutamente nulla di malvagio o di sinistro. Quando raggiunsi il fondo ed il prato, ero pronto a ridere delle impressioni di Amberville. A prima vista, il luogo mi sembrava soltanto piuttosto squallido e desolato. Gli elementi dello scenario erano proprio quelli che il pittore aveva descritto con tanta chiarezza, ma non riuscivo assolutamente a percepire la presenza demoniaca che spirava dallo stagno, dal salice piangente, e dagli
ontani del canneto che aveva raffigurato nei suoi disegni. Amberville mi voltava le spalle, e stava seduto su uno sgabello pieghevole, davanti al cavalletto piazzato fra i ciuffi di erica verde cupo della radura, a monte dello stagno. Però, a quanto pareva, non stava lavorando, dato che teneva il pennello negligentemente abbandonato fra le dita. L'erica smorzava il rumore dei miei passi, per cui non si accorse di me. Con molta curiosità sbirciai, al di sopra delle sue spalle, la grande tela che stava dipingendo. Secondo il mio giudizio, il quadro aveva già raggiunto un altissimo grado di perfezione tecnica. Era quasi una riproduzione fotografica dell'acqua schiumosa, dello scheletrico e biancastro salice piangente che si sporgeva dalla sponda, degli ontani mezzo sradicati, e del canneto frusciante. Ma in esso vi era anche il soffio macabro e demoniaco degli schizzi; il prato sembrava in attesa, in agguato, con l'aspetto di un viso distorto e malvagio. Era una visione di male e di disperazione, insolita e indifferente al mondo materiale che lo circondava, un angolo a sé stante di natura maledetta. Osservai meglio il paesaggio,... e mi accorsi che lo stagno era proprio come Amberville lo aveva dipinto. Era la smorfia di un folle vampiro, odioso e in agguato. Nello stesso istante, mi resi conto del silenzio innaturale. Non un uccello, non un insetto, come aveva detto il pittore: pareva che soltanto i venti, potessero penetrare in quel desolato fondovalle. Lo stesso ruscello che andava a perdersi nel terreno paludoso, dava l'idea di un'anima dannata, diretta all'inferno. Anch'esso faceva parte del mistero, perché non ricordavo affatto alcun rigagnolo nella parte più bassa del declivio che potesse giustificare lo sbocco nel prato di un corso sotterraneo. La concentrazione di Amberville, la posizione stessa della spalle e della testa, erano quelli di un uomo ipnotizzato. Stavo per rivolgergli la parola ma, nello stesso istante, ebbi la sensazione di non essere solo, sul prato. Proprio all'angolo della mia visuale, mi parve di scorgere una figura in atteggiamento furtivo, come se ci stesse osservando entrambi. Mi guardai attorno... nessuno! Poi udii il grido strozzato di Amberville. Mi rigirai ed incontrai i suoi occhi sbarrati, pieni di terrore e di sorpresa, come chi non sia ancora riuscito a riprendersi pienamente da uno stato ipnotico. «Dio!», esclamò. «Ti avevo cambiato per il vecchio!» Non potrei affermare se aggiungemmo qualche altra parola o no. Comunque, mi è rimasta l'impressione di un penoso silenzio. Dopo quell'unica esclamazione, Amberville parve ripiombare in una impenetrabile astra-
zione, come se non fosse più conscio della mia presenza, come se, avendomi identificato, si fosse subito dimenticato di me. Da parte mia, avvertivo uno sconcertante e prepotente senso di apprensione. Quello scenario malvagio ed irreale mi deprimeva oltre ogni limite. Mi pareva che il fondo paludoso mi stesse attirando in qualche maniera intangibile. I rami degli sparuti ontani mi stavano invitando. La polla sulla quale pontificava lo scheletrico salice piangente, quasi l'immagine di una morte arborea, mi stava allettando in modo pazzesco, con le sue acque stagnanti. Nel frattempo, oltre alla terrificante atmosfera della scena in se stessa, mi resi dolorosamente conto dell'ulteriore cambiamento di Amberville... un cambiamento che era una vera e propria alienazione. Il suo recente malumore, qualunque cosa fosse, l'aveva letteralmente sconvolto. Era sprofondato sempre di più nel suo morboso crepuscolo, perdendo del tutto la esuberante ed ottimistica personalità che gli conoscevo. Era come se un un'incipiente pazzia si fosse impossessata di lui e quell'eventualità mi terrorizzava. Lentamente, come un sonnambulo, senza neanche darmi una seconda occhiata, cominciò a lavorare alla tela, ed io rimasi a guardarlo per un bel po', senza sapere cosa fare e cosa dire. Ogni tanto si interrompeva a lungo, per fissare con aria sognante qualche particolare paesaggio. Quel fatto mi suggerì una bizzarra idea di crescente affinità, di un misterioso «rapporto» fra Amberville e quel posto. Pareva che, inspiegabilmente, quel luogo avesse portato via qualcosa della sua anima, dandogli, in cambio, qualcosa di suo. Infatti aveva l'aspetto di chi è al corrente di un nefando segreto ed è diventato succube di una intelligenza non umana. Come se la verità mi folgorasse, vidi il paesaggio come un minaccioso vampiro ed Amberville come la vittima consenziente. Non so quanto tempo sia durata la mia meditazione, però, alla fine, mi avvicinai a lui e lo scossi energicamente per le spalle. «Ti stai impegnando troppo nel tuo lavoro. Accetta il mio consiglio e lascialo stare per un giorno o due.» Si voltò verso di me con lo sguardo stupito di chi è profondamente immerso in un'allucinazione da droga. Poi, a poco a poco, assunse un'espressione di collera demoniaca: «Oh, va all'inferno! Non vedi che ho da fare?» Allora mi allontanai, perché mi pareva che, in quel momento, non ci fosse nient'altro da fare. Tutta quella faccenda era così pazzesca da farmi du-
bitare della mia stessa ragione. Tanto il prato quanto Amberville mi davano l'impressione di un orrore così insidioso, quale non avevo mai provato in vita mia ed in piena lucidità mentale. Ai piedi del declivio dei pini olivastri, mi volsi indietro per un ultimo sguardo, con una curiosità che ripugnava a me stesso. Il pittore non si era mosso. Stava ancora contemplando la scena, come un uccello ipnotizzato da un serpente. Reale o irreale che fosse, ebbi l'impressione di una duplice immagine ottica. Non ne sono certo ma, per un istante, mi parve di vedere una pallida, spettrale aura, né luce né nebbia, fluire e spandersi sul prato, senza confondere i contorni del salice, degli ontani, delle canne e dello stagno. Guardinga e furtiva, avanzava in direzione di Amberville, come tante braccia incorporee. Tutta l'immagine era assai tenue e poteva anche essere illusoria, ma mi costrinse a rifugiarmi, rabbrividendo, al riparo dagli alti, amichevoli pini. Per il resto della giornata e durante la sera, il cupo orrore che avevo provato nel prato di Chapman, continuò a perseguitarmi. Credo di aver trascorso la maggior parte del tempo a ragionare con me stesso, nel vano tentativo di convincere la parte razionale del mio io che ciò che avevo visto e sentito era semplicemente assurdo. Ma non giunsi ad alcuna conclusione, tranne la convinzione che l'equilibrio mentale di Amberville era scosso e compromesso da quell'orribile «cosa»: quell'impalpabile terrore, misterioso e attraente, era come una tela di ragno estesa sul mio cervello e che non riuscivo a dissipare, nonostante i reiterati sforzi che facevo. Comunque presi due risoluzioni. La prima fu di scrivere immediatamente alla signorina Avis Olcott, fidanzata di Amberville, invitandola a venire a tenere compagnia al pittore durante il residuo periodo di permanenza di quest'ultimo a Bowman. Pensavo che la sua influenza avrebbe potuto controbilanciare quell'altra che aveva un effetto tanto pernicioso sul mio amico. Siccome la conoscevo abbastanza bene, l'invito non poteva sembrare sconveniente. Decisi anche di non farne parola ad Amberville: speravo che l'elemento sorpresa avrebbe avuto un decisivo ruolo benefico. La seconda risoluzione era che non volevo più rivedere il prato, se potevo evitare di farlo. Non in maniera diretta però, perché sapevo che era una follia cercare di combattere l'ossessione mentale direttamente: dovevo tentare di scoraggiare l'interesse del pittore per quel luogo ed indirizzare la sua attenzione su altri temi. Senza intralciare molto il mio lavoro, si poteva pensare ad escursioni e spettacoli.
Il nebbioso crepuscolo autunnale mi sorprese ancora immerso in quelle meditazioni, ma Amberville non era ancora tornato. E cominciai ad esser assillato da presentimenti orribili per quanto vaghi e senza nome. Cadde la sera, e la cena si raffreddò in tavola. Finalmente, verso le nove, quando stavo per andarlo a cercare, arrivò quasi di corsa. Era pallido, scarmigliato, con il fiato grosso, ed aveva gli occhi pieni di terrore, come se fosse stato spaventato da qualcosa, oltre il limite della sopportazione. Non si scusò per il ritardo e non fece alcun riferimento alla mia visita al prato. A quanto pareva, aveva dimenticato tutto quanto... anche il tono sgarbato nei miei confronti. «Sono stufo!», gridò. «Non tornerò più laggiù... neanche per un ultimo sguardo! Il luogo è ancora più selvaggio di notte che di giorno. Non posso dirti quello che ho visto e provato... Debbo dimenticarlo, se ci riesco. C'è un'emanazione... qualcosa che si manifesta apertamente in assenza del sole, che è latente durante il giorno. Mi ha attirato, ha tentato di convincermi a restare questa sera... e quasi si impadroniva di me... Dio! Non credevo fosse possibile una cosa del genere... quell'abominevole compendio di...» S'interruppe senza terminare la frase. I suoi occhi si dilatarono come per il ricordo di qualcosa di troppo orrendo per essere descritto. In quel momento, mi ricordai degli occhi pieni di astio del vecchio Chapman, che avevo incontrato qualche volta nei dintorni del villaggio. Per la verità, non avevano destato alcun particolare interesse in me, ed anzi lo avevo giudicato un comunissimo tipo di campagnolo, con la tendenza a qualche oscura e spiacevole aberrazione. Ora, scorgendo la stessa espressione nello sguardo di un artista sensibile, cominciai a chiedermi, con un certo brivido, se Chapman fosse stato consapevole dell'entità diabolica che infestava il suo prato. Forse, in qualche modo che andava al di là della comprensione umana, ne era stato vittima... In effetti, era morto sul prato, però la sua morte non era sembrata affatto misteriosa. Ma forse, alla luce di tutto quello che Amberville ed io stesso avevamo percepito, nella faccenda ci doveva essere molto di più di ciò che si credeva. «Dimmi quello che hai» dissi. A quella domanda, fra di noi sembrò calare un velo tanto impalpabile quanto tenebroso. Scosse la testa con aria cupa, ma non rispose. Il terrore tutto umano che aveva causato il suo ritorno all'io conscio e normale e che lo aveva reso quasi comunicativo per un attimo, era già sparito. Un'ombra più buia della paura, un'impenetrabile ombra aliena, gravava nuovamente su di lui, sommergendolo. Provai un brivido improvviso, più nello spirito
che nella carne, ed ancora una volta mi balzò in mente lo strano pensiero che il legame fra il pittore e quel posto infernale si andasse rafforzando. Come se, accanto a lui nella stanza, in quella luce così raccolta, sotto una maschera di umanità, sedesse qualcosa di «nonumano». In attesa... Dei giorni da incubo che seguirono mi limiterò a farne un riassunto. Sarebbe impossibile descrivere il continuo, diabolico orrore che ossessionava ogni nostro atto, la nostra stessa vita. Scrissi immediatamente alla signorina Olcott, sollecitandola a venire subito prima che Amberville se ne andasse e, per avere la certezza della sua accettazione, le accennai velatamente alle mie preoccupazioni per la salute del suo fidanzato ed alla necessità della sua collaborazione. Nel frattempo, in attesa della risposta, cercai di distrarre l'artista, suggerendo passeggiate in svariati punti dei dintorni, molto interessanti dal punto di vista del paesaggio. Ma lui declinò tutto quanto, con rude scontrosità, una scontrosità più gelida ed incomprensibile che non deliberatamente sgarbata. Praticamente ignorava la mia esistenza, ed era sempre più chiaro che desiderava essere lasciato in pace, con i suoi problemi. Perciò, non sapendo che altro fare fino all'arrivo della Olcott, decisi di lasciarlo libero. Usciva di casa prestissimo ogni mattina, come di consueto, con cavalletto e colori, e rientrava al tramonto o poco dopo. Non mi disse mai dove era stato ed io mi astenni dal domandarglielo. La Olcott arrivò nel pomeriggio del terzo giorno dalla partenza della mia lettera. Era giovane, snella, molto attraente, e sinceramente attaccata ad Amberville e forse anche un po' timida nei suoi confronti. Le dissi soltanto quello che credevo opportuno, informandola del morboso cambiamento avvenuto nel suo fidanzato, ed attribuendolo alla tensione nervosa ed al superlavoro. Ritenni meglio non parlare del prato di Chapman e delle sue spaventose influenze; era qualcosa di troppo incredibile e fantastico per una ragazza moderna. Però, vedendo l'espressione di sgomento e di disorientato stupore con la quale mi stava ascoltando, cominciai a desiderare che fosse più decisa e con un carattere più spiccato e meno docile nei confronti di Amberville. Una donna più forte avrebbe potuto salvarlo, ma, anche in quel caso, nutrivo seri dubbi che Avis potesse far qualcosa per combattere il male che lo stava distruggendo. Quando tornò, quella sera, un immenso quarto di luna in fase crescente stava salendo nel cielo, come una enorme corona bicorne che emergesse da un lago di sangue. Con mio immenso sollievo, la presenza di Avis parve
produrre in lui un insperato effetto salutare. Vedendola, Amberville si scosse da quella singolare catatonia che lo obnubilava e che credevo irrimediabile, riprendendo quasi il normale buon umore di sempre. Forse si trattava unicamente di una tattica in vista di secondi fini ma, in quel momento, non potevo sospettarlo. Anzi mi complimentai con me stesso per aver trovato un efficace rimedio. La ragazza, dal canto suo, era molto sollevata, nonostante lo sguardo lievemente preoccupato e sconcertato nei momenti in cui Amberville ricadeva nella sua cupa astrazione, come dimenticandosi temporaneamente di lei. Nel complesso però, si verificò una trasformazione che aveva del magico, considerando il malumore e l'isolamento psichico degli ultimo giorni. Quando lo giudicai opportuno, mi ritirai, lasciandoli soli. Quella notte dormii profondamente, e il mattino dopo mi alzai piuttosto tardi. Avis ed Amberville erano già usciti insieme, portandosi la colazione preparata dal mio cuoco cinese. Evidentemente doveva averla portata a fare una passeggiata nei luoghi di un certo interesse artistico, e mi augurai che la cosa fosse proficua e benefica. Comunque, non mi passò nemmeno per la testa che la portasse al prato. I risvolti oscuri di tutta la faccenda cominciavano a impallidire nella mia mente e tornai a rallegrarmi della parte avuta nel miglioramento di Amberville e, per la prima volta dopo una settimana, più rilassato, potei concentrarmi sul lavoro e finire uno dei miei racconti. Tornarono all'imbrunire e mi accorsi subito di essermi sbagliato su diversi punti. Amberville appariva di nuovo chiuso nel suo sinistro, cupo riserbo. La ragazza, in confronto alla corpulenza ed alle spalle massicce del suo compagno, sembrava ancora più piccola, smarrita: ed era come se fosse frastornata e spaventata. Come se si fosse trovata di fronte a qualche cosa che, in un modo o nell'altro, andava al di là della sua comprensione, e contro la quale si sentiva umanamente impotente a lottare. Parlarono molto poco, sia l'uno che l'altro. Non mi dissero dove erano stati, ma, al riguardo, ogni domanda era superflua. L'umore scontroso e taciturno di Amberville, come al solito, sembrava dovuto alla sua concentrazione su qualche tetra e torva fantasticheria. Ma Avis mi dava invece l'impressione di sottostare ad una duplice costrizione: a quella di uno spaventoso terrore ed alla proibizione di parlare degli avvenimenti e delle esperienze della giornata. Compresi che erano stati in quel maledetto prato, ma non sapevo se Avis avesse affrontato direttamente la strana e paurosa presenza della misteriosa
entità o se fosse solo spaventata dal cambiamento subito dal fidanzato per l'azione di quel dannato influsso. In ogni caso, era ovvio che si sottometteva a lui. Cominciai ad imprecare contro me stesso per aver commesso la stupidaggine di invitarla a Bowman... senza immaginare che il rimorso più amaro doveva ancora venire. Trascorse una settimana, sempre con le solite escursioni giornaliere del pittore in compagnia della fidanzata, con il solito isolamento sconcertante ed assoluto di Amberville, e lo stesso terrore ed il medesimo senso di impotenza, costrizione e sottomissione della ragazza. Non riuscivo proprio ad immaginare come sarebbe andata a finire, ma temevo che, in seguito alla spaventosa alterazione del suo carattere, Amberville si stesse avviando verso qualche forma di alienazione mentale o peggio ancora. Le mie offerte di passeggiate e di spettacoli vennero respinte all'unisono da entrambi, e le domande dirette, rivolte ad Avis, urtarono contro un vero e proprio muro di ostile evasività che mi confermò nella convinzione che Amberville le avesse imposto di tacere... e che forse, con chissà quali subdole sottigliezze, doveva averle dato una falsa idea del mio atteggiamento verso di lei. «Voi non riuscite a comprendere», continuava a ripetermi Avis. «Ha molto temperamento.» Era tutto maledettamente misterioso, ma pareva che la ragazza si invischiasse sempre di più, direttamente o indirettamente, nella diabolica rete che imprigionava l'artista. Sospettavo che Amberville avesse dipinto parecchi nuovi quadri del prato, ma lui non me li fece vedere e non ne parlò. Però, man mano che il tempo passava, l'impressione che avevo ricevuto di quel posto si faceva sempre più vivida, e stava rasentando l'allucinazione. E, contro la mia stessa volontà, andò prendendo corpo l'incredibile idea della presenza di una forza e di un'entità malvagia, forse un vampiro, fino a diventare una inevitabile convinzione. Quel posto mi perseguitava come un fantasma, orribile, ma seducente. Sentivo nascere in me la morbosa, incontenibile curiosità e l'insano desiderio di tornare laggiù e, possibilmente, di venire a capo di quell'enigma. Spesso mi tornavano in mente l'idea di Amberville circa un «Genius Loci» che avesse preso dimora nel prato, e gli sprazzi di apparizione umane in qualche modo legate a quel posto. Inoltre mi domandavo che cosa potesse aver visto l'artista quando si era trattenuto sul prato fino al cadere della notte ed era tornato a casa letteralmente terrorizzato.
Comunque, sembrava che non si sarebbe più azzardato a ripetere l'esperimento, nonostante la palese soggezione a quella sconosciuta attrazione. La conclusione si verificò all'improvviso, senza alcun segno premonitore. Un pomeriggio fui costretto a recarmi in Municipio per alcune pratiche urgenti e non tornai che a sera avanzata. La luna piena era già alta nel cielo, sulla collina dei pini. Mi aspettavo di trovare Avis ed il pittore in salotto, ma non c'erano. Li Sing, il mio factotum, mi disse che erano rientrati per il pranzo. Un'ora dopo, Amberville se n'era andato alla chetichella, approfittando del fatto che la ragazza era salita in camera sua. Scesa alcuni minuti dopo, Avis era rimasta turbata in maniera impressionante per l'assenza del fidanzato e se ne era andata a sua volta, per raggiungerlo, senza lasciare detto a Li Sing dove andava e quando sarebbe tornata. Tutto ciò era accaduto da tre ore e nessuno dei due era ricomparso. Mentre ascoltavo il racconto di Li Sing, mi sentii assalire da un oscuro e pauroso presentimento. Pensai subito che Amberville avesse ceduto alla tentazione di una seconda visita notturna a quel posto maledetto. Chissà come, un'attrazione occulta doveva aver fatto tacere l'orrore della prima esperienza, qualunque fosse stata. Avis, sapendo dov'era, e forse preoccupata per la sua incolumità doveva essere corsa da lui. Si faceva sempre più strada in me l'imperativa convinzione che un pericolo li stava minacciando entrambi, una «cosa» orribile ed innominabile, al potere della quale forse, si erano già sottomessi. Nonostante i dubbi e le perplessità che, fino a quel momento, avevo nutrito al riguardo, ruppi ogni indugio. Saltai in macchina e, in pochi minuti di corsa folle, nel pallido chiarore lunare, raggiunsi il filare di pini che delimitava la proprietà di Chapman. Parcheggiai nello stesso punto della mia prima visita e mi buttai a precipizio lungo il declivio boscoso. Mentre scendevo, dal fondovalle mi giunse un urlo, un grido di terrore subito strozzato. La voce era quella di Avis. Tesi l'orecchio, ma non udii più nulla. Solo un silenzio cupo e gravido di minaccia. Correndo all'impazzata e con la morte nel cuore, raggiunsi il prato: nessuno. A prima vista il luogo sembrava infestato da minacciosi banchi di nebbia serpeggianti in continuo movimento che lasciavano intravedere soltanto il salice morto e l'altra vegetazione. Mi affrettai verso lo stagno melmoso e, quando arrivai vicino, dovetti fermarmi di botto, agghiacciato da un improvviso e duplice orrore. Avis e Amberville galleggiavano sulla superficie della fossa poco pro-
fonda, con i corpi a metà ricoperti da un ammasso di alghe. La ragazza era stretta tra le braccia del pittore, come se quest'ultimo l'avesse trascinata con sé in quell'orrenda morte, contro la sua volontà. Il viso di Avis era ricoperto da quell'odiosa coltre verdastra, e quello di Amberville, appoggiato alle spalle di lei, era altrettanto indescrivibile. Si notavano segni di una colluttazione, ma ora tutto era tranquillo, anche i due corpi, nell'abbandono della morte. Non fu soltanto quel macabro spettacolo comunque a farmi fuggire dal prato, in preda al delirio ed ai brividi, senza fare neppure il minimo tentativo di recuperare i corpi degli annegati. Il vero orrore consisteva nella «cosa» che, ad una certa distanza, avevo scambiato per delle spire di nebbia e vapori, in lento movimento. Non era «foschia», e nemmeno qualcos'altro di cui si potesse ragionevolmente accettare l'esistenza, ma una malvagia, luminescente, pallida emanazione, che riempiva tutto lo scenario dinanzi a me, ingigantendo i propri contorni in un continuo e famelico ondeggiare: era una proiezione spettrale delle canne, dello stagno e delle sue vittime suicide. L'intero paesaggio pareva proiettato in un film tridimensionale, ma andava assumendo sempre più un aspetto reale, man mano che i vapori fuoriuscivano dal terreno, con una terrificante rapidità. Poi parve staccarsi e rendersi indipendente dalla sua stessa fonte. E vidi consolidarsi tre visi umani, sempre della stessa materia, cioè un qualcosa che non era né foschia né nebbia. Uno di essi pareva staccarsi dal tronco del salice, mentre gli altri due guizzavano in alto, emergendo dalle acque ribollenti di quello stagno infernale, trascinando i corpi, ancora informi, fra i rami e le canne. I volti erano quelli del vecchio Chapman, di Francis Amberville, e di Avis Olcott. Al di là di quella tenue, fantastica proiezione di se stesso, il paesaggio continuava ad occhieggiare con lo stesso aspetto diabolico e vampiristico che aveva alla luce del sole. Però non sembrava più immobile... anzi, si protendeva verso di me con le sue acque schiumose, le dita scheletriche degli alberi ed i volti spettrali che aveva vomitato dal suo «pasto» di morte. Un terrore senza nome mi paralizzò. Incapace di reagire, fissavo quella pallida, demoniaca esalazione che si elevava al di sopra del prato. I tre visi umani, a seguito di un ulteriore sconvolgimento delle spire, cominciarono ad avvicinarsi l'uno all'altro. Lentamente, in una maniera che non è possibile descrivere, si fusero in uno solo, che assunse l'aspetto androgino di un
volto né giovane né vecchio, e che andò ad inserirsi sui rami stecchiti del salice, mentre le braccia e le mani dell'albero morto si protendevano per ghermirmi. A questo punto, incapace di assistere oltre a quello spettacolo, fuggii. Mi è rimasto ben poco da dire perché, qualsiasi cosa possa aggiungere alla narrazione, non servirebbe a chiarire, neppure in parte, quell'abominevole mistero. Il prato - o la «cosa» che lo animava - aveva già fatto tre vittime... e, a volte mi chiedo se non ne volesse una quarta. Va detto che io solo, fra tutti gli uomini, conosco il segreto della morte di Chapman e di quella di Avis e di Amberville, e che nessun altro ha percepito la presenza del genio diabolico del prato. Non sono più tornato laggiù, da quel mattino in cui i cadaveri del pittore e della sua fidanzata furono ripescati dallo stagno... e non ho ancora deciso se distruggere o disporre altrimenti dei quadri dipinti a olio e dei due acquerelli di Amberville che ritraggono quel posto... Forse, nonostante tutto me lo sconsigli, un giorno tornerò a rivedere quel luogo maledetto. IL DIO DELLA POLVERE «... I più antichi Stregoni lo conoscevano e lo chiamavano Quachil Uttaus. Si mostrava raramente dato che dimorava molto al di là del Cerchio Estremo, in quell'oscuro limite in cui tempo e spazio non hanno più valore. La formula che lo evocava era spaventosa, per quanto non venisse mai pronunciata ma soltanto pensata. Poiché Quachil Uttaus è l'estrema corruzione, e l'istante della sua apparizione coincide con il trascorrere subitaneo di infiniti evi, e non c'è carne o pietra che possano sottrarsi alla sua azione, ma tutte le cose si sbriciolano dinanzi a lui, atomo dopo atomo. Per questo lo hanno chiamato il Dio della Polvere». Dal Testamento di Carnamagos Fu dopo interminabili conflitti e discussioni con se stesso, e dopo aver tentato di vincere le profonde legioni incorporee della sua paura, che John Sebastian ritornò nella casa dalla quale si era allontanato così frettolosamente. Era stato via solo tre giorni ma, anche un'assenza così breve, era senza
precedenti nella vita di ritiro e di ricerche a cui si era dedicato completamente da quando aveva avuto in eredità la vecchia dimora ed una cospicua rendita. Non avrebbe saputo spiegare esattamente il motivo della sua fuga, ciononostante gli era parsa necessaria. C'era stato qualcosa di terribilmente impellente che lo aveva spinto fuori; ma ora, dopo che aveva deciso di tornare, l'impellenza si era tramutata in un puro fatto casuale da attribuirsi ai nervi sovraffaticati da una troppo intensa e prolungata applicazione ai suoi libri. Aveva travisato certe cose con immaginazioni assurde e senza fondamento. Anche se il fenomeno che lo aveva turbato non era del tutto immaginario, senz'altro ci sarebbe stata qualche spiegazione alla quale in quel momento la sua mente eccitata non aveva pensato. L'improvviso ingiallirsi delle pagine del taccuino appena acquistato, lo sbriciolarsi delle stesse ai bordi, erano senza dubbio da attribuirsi alla cattiva qualità della carta; e il curioso sbiadirsi delle annotazioni, che avevano assunto quello scolorimento tipico degli antichi scritti, era senz'altro causato da uno scadente composto chimico dell'inchiostro. L'aspetto vecchio e tarlato che avevano improvvisamente dimostrato certi mobili, e l'aria decadente che aveva colpito qualche parte della casa, erano semplicemente da attribuirsi all'ordinaria usura del tempo, che lui, assorbito nelle sue ricerche, non aveva notato prima. Ed erano senz'altro i lunghi anni ininterrotti di isolamento e di duro lavoro che lo avevano invecchiato così precocemente, tanto che, nella mattina della fuga, guardandosi allo specchio, si era spaventato e stupito vedere riflessa una mummia incartapecorita. La stessa cosa era successa al suo servitore, Timmers, anche se lui non riusciva a ricordarselo che vecchio; doveva essere stato proprio uno scherzo dei suoi nervi malati a farglielo vedere così decrepito tanto da poter pensare che cadesse da un momento all'altro nella decomposizione di una tomba. Ora, a mente fredda, poteva trovare una giustificazione a tutto ciò che lo aveva scosso, senza fare alcun riferimento alle primitive e remote erudizioni, od ai sistemi ed alle demonologie dimenticate cui si era applicato. Quei passaggi ne Il testamento di Carnamagos, sui quali aveva meditato con profondo sgomento, erano rilevanti solo per gli orrori che folli Stregoni avevano evocato in eoni passati... Sebastian, tranquillizzato dai suoi ragionamenti, tornò a casa al tramonto. Non tremò né esitò quando attraversò velocemente il giardino oscurato
dai pini e s'avviò verso la scalinata d'ingresso. Ebbe l'impressione, ma non ne fu certo, di vedere ulteriori e più recenti segni di rovina negli scalini, e che la casa stessa quasi ondeggiasse come se le fondamenta avessero leggermente ceduto. Ma si disse che dovevano essere delle impressioni dovute soltanto alla luce del crepuscolo. Nessuna luce era accesa, ma non si stupì poiché, lasciando Timmers da solo, sapeva che questi aveva l'abitudine di girare come un vecchio gufo traballante nel buio anche quando era già sopravvenuta l'ora di accendere le luci. Invece Sebastian non poteva soffrire l'oscurità e le ombre profonde, ed ultimamente questa avversione era aumentata, tanto che, appena la luce del sole svaniva, accendeva tutte le luci della casa. Perciò, arrabbiandosi per la negligenza di Timmers, aprì la porta e cercò velocemente di accendere la luce dell'ingresso; ma, senz'altro a seguito della nervosa agitazione che lo aveva assalito nuovamente, tastò per alcuni istanti senza trovare l'interruttore. L'ingresso era stranamente buio, e la luce del crepuscolo che attraverso gli alti pini illuminava l'esterno, sembrava non riuscire a varcare la soglia e a penetrare all'interno. Non vedeva assolutamente nulla: era come se tutto il buio di secoli passati fosse ritornato nell'ingresso e le sue narici, mentre si muoveva a tentoni, fiutarono un odore secco e pungente tipico della polvere, quasi il lezzo di cadaveri e bare ormai diventati cenere nella loro decomposizione. Alla fine trovò l'interruttore, ma la luce che ne scaturì era stranamente fioca ed insufficiente, e gli parve addirittura tremolante, come se l'impianto denunciasse una caduta di tensione. In ogni caso gli fu sufficiente per vedere che la casa, almeno in apparenza, era esattamente come l'aveva lasciata. Forse, inconsciamente, dentro di sé aveva temuto di trovare i rivestimenti di quercia spaccati e sgretolati, il tappeto a brandelli mangiato dalle tarme o il pavimento corroso sprofondante sotto i suoi passi. Si chiese dove fosse andato a finire Timmers; anche a dispetto della sua età avanzata, era sempre pronto ad apparire quando lui entrava. Sebbene non lo avesse sentito, la luce che si era accesa gli doveva aver segnalato il suo arrivo. Ascoltando con tesa attenzione, non sentì giungere il suo familiare ed incerto passo, ma udì solo il silenzio, un silenzio che ricopriva tutto come un funereo e pesante arazzo. Senz'altro, si disse Sebastian, doveva esserci una spiegazione logica a tutto ciò; probabilmente Timmers era andato al vicino villaggio a fare provviste o a vedere se c'era qualche lettera che gli desse notizie del pa-
drone, e lui, venendo dalla stazione verso casa, non lo aveva incontrato. O forse, durante la sua assenza, il vecchio si era ammalato ed ora era a letto senza alcun aiuto o assistenza. Soffermandosi su quest'ultima ipotesi, si affrettò verso la camera da letto di Timmers che si trovava al piano terreno sul retro della casa. Era vuota, ed il letto perfettamente in ordine, stava ad indicare che non era stato occupato dalla sera prima. Con un sospiro di sollievo che parve togliergli un peso dallo stomaco, pensò che le altre ipotesi potevano essere più verosimili. Facendosi coraggio, mentre aspettava l'arrivo del suo domestico, proseguì nel suo giro d'ispezione e si diresse allo studio. Non sapeva neanche lui che cosa temeva di trovare ma, ad una prima occhiata, vide che non c'era nulla di cambiato e che tutto era rimasto come quando lo aveva lasciato pieno di agitazione; le pile disordinate di lettere e di carte, i libri, i suoi blocchi d'appunti sulla scrivania, non mostravano alcun segno di essere stati toccati; come pure la sua libreria, carica di particolari e terrificanti pubblicazioni sulla Necromanzia, sulla Stregoneria, sul grottesco e sulle scienze dell'Occulto, appariva intoccata. Sul vecchio leggio che lui adoperava per i volumi più pesanti, il Il testamento di Carnamagos in cuoio grezzo e dai fermagli in ossa umane, era rimasto aperto con le sue arcane formule. Poi, quando si fermò fra il leggìo ed il tavolo, si accorse per la prima volta della polvere che ricopriva tutto: una fine polvere grigia simile a quella di anni passati. Aveva ricoperto i suoi manoscritti come una spessa pellicola, e si era depositata in un folto strato sulle sedie, sulle lampade, e sui volumi, spegnendo il giallo ed il rosso papavero dei tappeti orientali. Era come se, dal momento della sua partenza, nella camera fossero passati anni di desolazione che l'avessero ricoperta con un velo di abbandono. L'aspetto misterioso di tutto ciò lo agghiacciò poiché, solo tre giorni prima, era pulita, e Timmers, durante la sua assenza, doveva aver senz'altro tolto la polvere con cura meticolosa. Improvvisamente, la polvere si levò in una pallida nuvola turbinante, riempì le sue narici con lo stesso odore di passate decomposizioni che aveva sentito appena era entrato in casa e, nello stesso momento, sentì una fredda corrente d'aria entrare nella stanza. Pensò subito che una delle finestre fosse rimasta aperta ma, girando gli occhi, vide che erano ben chiuse, con le tende tirate, e così anche la porta dietro di lui. Il soffio era leggero come il respiro di un fantasma ma, non
appena terminava, la leggera polvere si alzava, riempiva l'aria e si depositava nuovamente con pesante lentezza. Provò un improvviso senso di allarme, come se un vento venuto da dimensioni sconosciute o dalle crepe di ignoti muri soffiasse su di lui; contemporaneamente, fu assalito da un violento attacco di tosse. Non riuscì a capire da dove provenisse l'aria. Mentre si muoveva con riluttanza, i suoi occhi furono attratti da un lungo e basso cumulo di polvere grigia che fino a quel momento la tavola aveva nascosto. Era vicino alla sedia dove lui solitamente si sedeva per scrivere e, presso il cumulo, c'era il piumino della polvere che Timmers usava per le pulizie quotidiane. Sentì come una rigida e mortale morsa di ghiaccio bloccargli il corpo. Non riuscì più a muoversi per diversi istanti e rimase a guardare con occhi fissi quel mucchio inspiegabile; al centro c'era una depressione come una piccola orma di piede semicancellata dall'aria, che doveva aver sollevato e sparso la polvere per la stanza. Alla fine si chinò meccanicamente a raccogliere il piumino ma, non appena le sue dita lo sfiorarono, il manico e le piume si tramutarono in un mucchietto di polvere, mantenendone solo vagamente i contorni. Si sentì assalire da una improvvisa stanchezza come se, da un minuto all'altro, il fardello dei secoli si fosse ammassato sulle sue spalle. Vide alzarsi intorno alla lampada un vortice di nebbia e capì che, se non si fosse seduto immediatamente, sarebbe svenuto. Allungò la mano dietro di sé per appoggiarsi alla sedia ma, come la toccò, istantaneamente quella si disintegrò in una nuvola di polvere. Poi, e non seppe dire quanto tempo fosse trascorso, si trovò seduto sull'alto sgabello di fronte al leggìo sul quale Il testamento di Carnamagos stava aperto. Profondamente stupito, non riuscì a capire come mai anche questo non si fosse sgretolato sotto il suo peso. Dentro lui nacque, come l'altra volta, la convinzione di essere diventato troppo vecchio, troppo debole per reagire, e che nulla avesse ormai più importanza; neanche il terribile destino che lo aveva colpito. Mentre stava seduto, semiparalizzato dal terrore e dallo stupore, i suoi occhi si posarono sul volume davanti a lui, sullo scritto di quel saggio e malefico veggente Carnamagos, ritrovato migliaia di anni prima in qualche tomba greco-bactriana e trascritto da un monaco apostata, in greco, col sangue di qualche mostro da incubo. In quel volume, c'era la cronistoria dei grandi Stregoni del passato, dei Demoni ultracosmici, e venivano descritte, inoltre, le magie con cui questi
potevano essere evocati e scacciati. Sebastian, che era un profondo studioso in materia, aveva sempre pensato che quel libro fosse il frutto di una fantasiosa leggenda medioevale; perciò, quando lo aveva trovato, negli scaffali di un'antica libreria, ne era rimasto piacevolmente compiaciuto. Si diceva che ne esistessero solo due copie, e che una fosse stata distrutta dagli inquisitori spagnoli, agli inizi del XIII Secolo. La luce guizzò come se ali misteriose l'avessero attraversata, e gli occhi di Sebastian si velarono, quando lesse nuovamente quel sinistro e fatale passaggio che aveva provocato in lui ombrose paure: «Per quanto Quachil Uttaus assumesse forme visibili molto raramente, era stato largamente provato che la sua venuta non corrispondeva sempre all'invocazione, e chi lo evocava mediante la formula riportata, incorreva sicuramente in un grave rischio se apertamente o nascostamente cullava in cuor suo il minimo desiderio di morte o di distruzione. Perché poteva accadere che Quachil Uttaus gli rispondesse riducendo il corpo in polvere eterna e trasformando lo spirito in un vapore destinato a dissolversi. Inoltre, il suo avvento era preceduto da alcune singolari manifestazioni: sulla persona dell'evocatore - e a volte anche su quelle degli astanti - comparivano segni di subitaneo invecchiamento, e la casa dell'evocante, come pure quelle degli altri, subivano un improvviso decadimento come se fossero state antichissime...» Sebastian non si accorse di leggere quelle formule a mezza voce, né di pronunziare il terribile incantesimo che seguiva, a voce alta... I suoi pensieri strisciavano come attraverso un freddo e gelido spazio. Con lenta e terribile certezza, intuì che Timmers non era andato al villaggio. Avrebbe dovuto avvertirlo, prima di partire, e nascondere e chiudere a chiave Il Testamento di Carnamagos poiché anche Timmers, a modo suo, era uno studioso, ed anche lui si interessava, non senza curiosità, agli studi sull'occultismo fatti dal suo padrone. Era abbastanza capace di leggere il greco di Carnamagos... anche quell'atroce e blasfema formula alla quale Quachil Uttaus, Demone tra i più abbietti, avrebbe risposto da spazi lontani. Capì troppo bene l'origine di quella grigia polvere, la ragione di quei misteriosi segni di rovina... Nuovamente provò l'impulso di fuggire, ma il suo corpo era un morto incubo che si rifiutava di obbedirgli. In ogni caso, rifletté, era ormai troppo tardi, poiché i voleri del fato si erano ammassati su di lui, attorno a lui... Dentro di sé, non aveva mai desiderato, neanche lontanamente, appagare quelle misteriose curiosità che circondavano il regno della morte, ed era
sempre stato prudente nel non usare circoli magici od evocazioni che avrebbero risvegliato spiriti del male, dell'ira, della perdizione, della distruzione, e mai, per suo volere, li avrebbe chiamati dai loro abissi ai confini delle tenebre... La sua stanchezza ed il suo stato letargico, aumentavano sempre più: era come se interi lustri e decenni di vecchiaia, gli fossero piombati addosso, nello spazio di un respiro. Il filo dei suoi pensieri s'interrompeva ad intervalli, e riusciva a ritrovarlo solo con molta difficoltà. I ricordi ed anche le paure parevano sull'orlo di essere del tutto dimenticate. Con orecchie ovattate sentì, in qualche parte della casa, il rumore di legni rotti e fracassati e, con gli occhi annebbiati di un vecchio, vide le luci ondeggiare per poi scomparire sotto una nera oscurità. Era come se le tenebre di qualche catacomba sgretolata si fossero rinchiuse su di lui. Sentiva a momenti quel freddo e debole soffio che prima lo aveva così turbato, poi di nuovo la polvere gli salì alle narici. Quindi si accorse che la camera non era completamente buia, poiché riusciva a vedere i vaghi contorni del leggìo, davanti a lui. Il chiarore non veniva certamente dalle finestre chiuse dalle tende, eppure, in qualche modo, c'era della luce. Alzando con enorme fatica gli occhi, notò, per la prima volta, un foro grezzo ed irregolare nella parete esterna della camera, nell'angolo in alto, a nord. Attraverso di esso, un'unica stella brillava nella stanza, fredda e lontana, come l'occhio brillante di un Demone attraverso gli spazi stellari. Dalla stella, o dallo spazio oltre a lei, un livido raggio pallido e glaciale colpì Sebastian come una freccia: immobile, netta, sembrava trafiggere il suo corpo e creare un unico ponte tra lui e mondi di inimmaginabile oscurità. Rimase pietrificato come uno che sia stato colpito dallo sguardo della Gorgone. Poi, attraverso il foro, qualcosa arrivò nella stanza, velocemente, lungo il raggio, verso di lui. Il muro sembrò crollare e l'apertura allargarsi al suo passaggio. Era una figura non più grande di un bambino, ma secca ed avvizzita come una mummia secolare. La sua testa senza capelli, ed il viso senza lineamenti appoggiato su un esile collo di scheletro, erano percorsi da migliaia di rughe reticolate. Il corpo era simile a quello di un mostro appassito ed atrofizzato, che non era mai stato toccato dal soffio della vita. Le sue braccia tubolari terminavano con degli artigli ossei ed erano spinte in avanti come se fossero anchilosate nell'eterna posizione di uno che procede a ten-
toni. Le gambe dai piedi di pigmeo, erano strettamente unite l'una all'altra come se fossero imprigionate in un sepolcro, senza alcuna possibilità di muovere un passo. Eretto e rigido, l'orrore discese lungo il pallido cadaverico raggio verso Sebastian. Ora era su di lui, la testa all'altezza della sua fronte e i piedi sul suo petto. Per un fugace momento sentì che l'orrore lo stava toccando con le sue mani sporgenti, con i suoi piedi rigidi. Gli parve di fondersi in lui, di diventare un'unica cosa. Sentì che le sue vene si riempivano di polvere, che il suo cervello veniva disintegrato cellula per cellula. Poi, non fu più John Sebastian, ma un universo di stelle morte e di mondi che cadevano vorticando nell'oscurità, prima del tremendo soffio di qualche vento ultra-stellare. La cosa che antichi Stregoni avevano chiamato Quachil Uttaus, se ne era andata, e la notte e la luce delle stelle erano ritornate nella camera. Ma non c'era più alcun segno di John Sebastian; soltanto un cumulo di polvere sul pavimento, davanti al leggìo, con una vaga depressione, come l'impronta di un piccolo piede, o di due piedi che avessero premuto contemporaneamente. LA DROGA PLUTONIANA «È notevole» commentava il dottor Manners, «come il campo della nostra farmacologia sia stato ampliato dalle esplorazioni interplanetarie. Negli ultimi trent'anni almeno un centinaio di sostanze, sconosciute fino a quel momento, sono state scoperte sui pianeti degli altri sistemi solari. Sarà interessante vedere ciò che la spedizione di Allan Farquhar porterà dai pianeti di Alpha Centauri... sempre che riesca a raggiungerli ed a tornare. Tuttavia dubito che possa essere scoperto qualcosa di più interessante della Selenina, derivata da un lichene fossile scoperto durante la prima esplorazione del sottosuolo lunare del 1975 e che, praticamente, ha debellato l'antica maledizione del cancro. In soluzione, forma la base di un siero infallibile, sia per la cura che per la prevenzione.» «Temo di non essere rimasto al passo con un mucchio di nuove scoperte», rispose, quasi scusandosi, lo scultore Rupert Balcoth, ospite di Manners. «Certo, tutti conoscono la Selenina. E, di recente, ho sentito parlare di un'acqua minerale proveniente da Ganimede, i cui effetti sono simili a quelli della mitica Fontana della Giovinezza.» «Intende dire il «clithni», come viene chiamato dai Ganimediani. Si trat-
ta di un liquido limpido e smeraldino che sgorga in piccoli geyser, dai crateri di vulcani spenti. Gli studiosi credono che il segreto della quasi favolosa longevità dei Ganimediani, consista nel fatto che bevono il «clithni», e pensano che si possa trovare un elisir simile per l'umanità.» «Però non tutti i prodotti chimici interplanetari si sono rivelati così benefici per il genere umano... Mi pare di aver sentito dire che un veleno marziano ha facilitato di molto la raffinata arte dell'assassinio, per non parlare del «mnophtka», il narcotico venusiano che produce effetti peggiori di qualsiasi alcaloide terrestre.» «Naturalmente» ribatté il dottore, con calma filosofica, «parecchi di questi nuovi agenti chimici si prestano ad usi nefandi. Condividono quelle responsabilità con numerose droghe terrestri. È l'uomo, come sempre, ad avere la scelta fra il bene e il male... Suppongo che il veleno marziano di cui parlate, sia l'«akpaloli», il succo di una comune erba giallo-rossastra che cresce nelle oasi di Marte. È incolore, e soprattutto indolore, ed insapore. Uccide all'istante senza lasciare tracce, imitando quasi alla perfezione i sintomi di un collasso cardiaco. Senza dubbio, molta gente è stata tolta dalla circolazione per mezzo di un po' di «akpaloli», nel cibo o nelle medicine. Ma l'«akpaloli», usato in dosi infinitesimali, è anche un potentissimo stimolante, molto utile in caso di sincope, e spesso serve a rianimare le vittime delle paralisi, in una maniera veramente miracolosa. «Certo,» proseguì «Abbiamo ancora un'infinità di cose da imparare sulla maggior parte di quelle sostanze extraterrestri. Spesso la scoperta della loro efficacia è del tutto fortuita... in alcuni casi, ancora sconosciuta. Prendiamo, per esempio, il «mnophka» che avete ricordato poco fa. Per quanto affine, in un certo senso, ai narcotici terrestri, come l'oppio e l'hascish, trova scarso impiego come anestetico. I suoi effetti principali sono una straordinaria accelerazione del senso del tempo ed un potenziamento più che notevole di tutte le sensazioni sia piacevoli che dolorose. Chi ne fa uso, ha l'impressione di vivere e di muoversi in un vero turbine di tempo... anche se, in realtà, se ne sta tranquillamente sdraiato. La sua esistenza si trasforma in un torrente di impressioni sensoriali e, in pochi minuti, gli pare di accumulare l'esperienza di anni. Il risultato fisiologico e deplorevole: un profondo esaurimento ed un invecchiamento dei tessuti, pari a quello che avrebbe durante il periodo di tempo che il soggetto, invece, ha «vissuto» illusoriamente. Ci sono anche altre droghe, relativamente ancora meno conosciute, che producono effetti anche più strani di quelli del «mnophka». Avete sentito parlare del Plutonio?»
«No», ammise Balcoth. «Ditemene qualcosa voi.» «Posso fare di meglio... posso farvene vedere un campione... per quanto ci sia poco da vedere: solo un po' di polverina bianca.» Il dottor Manners si alzò dalla poltrona a cuscini pneumatici e si avvicinò ad un capace armadio di ebano sintetico, con i piani colmi di fiaschi, bottiglie, tubi e scatole di varia forma e grandezza. Quando si girò, porse a Balcoth una fiala piatta e sottile, piena per due terzi di una sostanza amidacea. «Plutonio, come dice il nome, viene dal dimenticato e gelido Plutone, un pianeta raggiunto da una sola spedizione terrestre... quella comandata dai fratelli Cornell: John e Augustine, partita nel 1990 e che fece ritorno nel 1996, quando quasi tutti la davano per perduta. Come sapete, John morì durante il viaggio di ritorno insieme a metà dell'equipaggio, e gli altri raggiunsero la Terra con un unico serbatoio di ossigeno di riserva. Questa fiala contiene circa un decimo di tutto il Plutonio in nostro possesso. Augustine Cornell, che è un mio vecchio compagno di scuola, me lo regalò tre anni fa, proprio prima di imbarcarsi con la spedizione per Alpha Centauri di Allan Farquhar. Mi ritengo veramente fortunato di possedere una simile rarità. I geologi di Cornell la trovarono quando cominciarono le esplorazioni al di sotto dei gas solidificati che ricoprono la superficie di quel pianeta buio, rischiarato soltanto dalla luce delle stelle, nel tentativo di scoprire qualcosa sulla sua composizione e sulla sua storia. Non poterono far molto, in quell'occasione, dati il tempo ed i mezzi limitati, ma pervennero ugualmente ad alcune curiose scoperte... delle quali, il Plutonio è ben lontano dall'essere la meno importante. Come la Selenina, si tratta di un prodotto derivato dalla fossilizzazione vegetale. Senza dubbio conta milioni di anni, e risale al tempo in cui Plutone possedeva abbastanza calore interno da rendere possibile lo sviluppo di alcune rudimentali specie di piante sulla sua buia superficie. Allora ci doveva essere anche un'atmosfera, quantunque dai Cornell non sia stata trovata traccia di vita animale. Il Plutonio, oltre al carbonio, all'idrogeno, ed all'ossigeno, contiene piccole dosi di parecchi altri elementi inclassificati. È stato scoperto sotto forma di cristalli, ma si ridusse subito nella polverina che vedete, non appena venne esposto all'azione dell'aria all'interno dell'astronave. Si scioglie prontamente nell'acqua, dando luogo ad un colloide permanente, senza la minima traccia di deposito.» «E voi sostenete che è una droga?», domandò Balcoth «E a che cosa serve?»
«Ora cercherò di spiegarvelo, per quanto il suo effetto sia difficile da descrivere. Le sue proprietà sono state scoperte per caso. Durante il viaggio di ritorno da Plutone, un membro dell'equipaggio, quasi in delirio per effetto della Febbre Spaziale, si impadronì della fiala senza indicazioni che lo conteneva, e ne ingoiò una piccola dose, credendolo bromuro di potassio. Per un po' il delirio aumentò, poi gli sorsero alcune nuove e folgoranti idee sullo spazio e sul tempo. Da allora, anche altri lo hanno sperimentato. Gli effetti durano pochissimo (mai più di mezz'ora) e variano considerevolmente da individuo a individuo. Per quanto si è potuto stabilire, non lasciano postumi né nervosi, né mentali o fisici. Ne ho fatto uso io stesso una o due volte, e posso testimoniarlo. È proprio su ciò a cui serve che sono incerto. Forse produce soltanto sconvolgimenti od una metamorfosi delle sensazioni, come l'hashish, oppure riesce a stimolare alcuni organi primitivi, qualche recesso del cervello umano. Ad ogni modo, altera chiaramente la percezione del tempo - del nostro tempo tradizionale - e quella dello spazio. Si vede il passato ed anche il futuro, in relazione al presente: solo gli avvenimenti di qualche ora prima e dopo, ma è pur sempre una strana esperienza, e contribuisce a dare un nuovo indirizzo al mistero del tempo e dello spazio. Ed è anche diverso dalle delusioni del «mnophka». «Sembra davvero molto interessante», ammise Balcoth. «Non ho mai avuto molta familiarità con i narcotici, tuttavia, durante la mia romantica gioventù, ho sperimentato una volta o due la «cannabis indica». Forse stavo leggendo Gautier o Baudelaire, comunque il risultato fu molto deludente.» «Immagino che non abbiate dato tempo al vostro sistema nervoso di assorbire la droga. Così, dal punto di vista degli allucinogeni, gli effetti sono stati trascurabili. Ma con il Plutonio è tutto un altro paio di maniche... si ottiene il massimo risultato, fin dalla prima dose. Credo che potrebbe interessarvi moltissimo, Balcoth, dato che siete uno scultore di professione: vedrete alcune insolite immagini plastiche, non facili da rendere in termini di piani e di angoli euclidei. Sarò felice di darvene un pizzico se l'esperimento vi interessa.» «Siete davvero molto generoso, data la rarità del prodotto...» «Non si tratta affatto di generosità. Da anni sto pensando di scrivere una monografia sui narcotici extraterrestri, e voi potreste fornirmi alcuni dati interessanti. Con un cervello come il vostro, o il vostro sviluppatissimo senso artistico, le visioni prodotte dal Plutonio dovrebbero essere di una chiarezza e di un significato non comuni. Tutto quello che vi chiedo è di
descrivermele meglio che potete.» «D'accordo. Ci proverò subito.» La curiosità di Balcoth era stata stuzzicata, e la sua immaginazione sedotta da ciò che Manners aveva detto su quella notevole droga. Manners tirò fuori un antiquato bicchierino da whisky che riempì fin quasi all'orlo con un liquido rosso-dorato. Sturata la fiala di Plutonio, ne prese un pizzico che lasciò cadere nel liquore, dove si sciolse immediatamente, senza effervescenza. «Il liquido è un vino marziano ricavato da un tubero dolce, conosciuto come «ovvra». È leggero e innocuo, e controbilancerà il sapore amaro del Plutonio. Bevetelo di un fiato e poi rilassatevi sulla poltrona.» Balcoth ebbe un attimo di esitazione, fissando il liquido rosso-dorato. «Siete proprio sicuro che gli effetti cesseranno prontamente come dite? Adesso sono le nove e un quarto e, verso le dieci, ho un appuntamento con un cliente al Club Belvedere. Si tratta del milionario Claud Wishaven che vuole farmi eseguire un bassorilievo in diaspro sintetico per l'ingresso della sua villa di campagna. Desidera qualcosa di nuovo e fantastico. Dobbiamo parlarne stasera... decidere il tema decorativo eccetera... «Avete quarantacinque minuti di tempo, e in trenta, al massimo, il vostro cervello ed i vostri sensi saranno tornati alla normalità. Non ha mai fallito. Vi resterà ancora un quarto d'ora per parlarmi delle vostre sensazioni.» Balcoth vuotò il bicchierino in un sorso e si rilassò sui cuscini pneumatici della poltrona, come aveva consigliato Manners. Provava l'impressione di cadere dolcemente, ma senza fine, in una nebbia grigiastra che sembrava essersi raccolta nella stanza con inesplicabile rapidità e, immerso in quella foschìa, si rese vagamente conto che Manners gli aveva ripreso il bicchierino dalle mani. Il viso del dottore gli appariva molto lontano, al di sopra di lui, piccolo e confuso, come visto da una prospettiva distante, ed ogni movimento dell'altro sembrava avvenire in un mondo diverso. E continuava a cadere ed a fluttuare in quell'eterna caligine, nella quale tutte le cose si dissolvevano come nella nebbia del caos primigenio. Dopo un intervallo incalcolabile, la foschia, che dapprima era apparsa grigiastra ed incolore, assunse una iridescenza crescente, mai la stessa da un attimo all'altro e la sensazione di dolce caduta, mutò in una vertiginosa rivoluzione, come se fosse stato afferrato da un vortice turbinante ad una velocità sempre maggiore. In concomitanza con quel gorgo di splendori prismatici, avvertì un'indescrivibile metamorfosi delle sensazioni. I colori roteanti, dalle tonalità
sfumate e dalle gradazioni instabili, divennero riconoscibili, come forme solide. Emergendo, come per un atto creativo, dal caos infinito, quelle forme si inserivano in prospettive egualmente infinite. L'impressione del movimento, attraverso le spirali discendenti, si risolse in una assoluta immobilità. Balcoth non era più conscio di se stesso a livello corporeo e organico; era un occhio astratto, un centro incorporeo di coscienza visiva, isolato nello spazio, intimamente in relazione con la statica prospettiva sotto il suo sguardo. Senza sorprendersi, scoprì che stava guardando contemporaneamente in due direzioni. Da una parte, ad una distanza che sovvertiva tutte le leggi della prospettiva, si stagliava uno strano paesaggio, attraversato da un ininterrotto fregio o bassorilievo di figure umane che si susseguivano come su una parete senza fine ed in linea retta. Per un po', Balcoth non riuscì a raccapezzarsi fra quelle figure glaciali, sfilanti su uno sfondo di agglomerati che si ripetevano, di angoli, sezioni ed altri bassorilievi che avvicinavano o si allontanavano, spesso di colpo, come se provenissero da un mondo nascosto, al di là dello scenario. Poi la visione parve risolversi e delinearsi, e lo scultore cominciò a capire. Il fregio era composto unicamente dalla sua stessa figura ripetuta eppure distinta, come le onde successive di un torrente, pur possedendo la continuità di un corso di acqua. Dall'altra parte, proprio dirimpetto, ma ad una certa distanza, appariva la stessa figura seduta in poltrona... e la poltrona era soggetta alla stessa ondeggiante ripetizione... Lo sfondo era composto dalla figura di Manners, centuplicata, seduta in un'altra poltrona con, alle sue spalle, le immagini di un gabinetto medico e di una sezione di un armadio di ebano sintetico. Guardando da quella parte che, in mancanza di una definizione più appropriata, poteva essere chiamata «sinistra», Balcoth si vide nell'atto di vuotare l'antiquato bicchierino, mentre Manners, stava in piedi, davanti a lui. Poi, come se il tempo andasse a ritroso, mentre Manners gli presentava la bevanda, preparò la dose di Plutonio, ed andò a prendere la fiala nell'armadio dopo essersi alzato dalla poltrona con i cuscini pneumatici. Dopo i movimenti, ogni atteggiamento suo e del dottore durante la passata conversazione, era rivisto in una specie di ordine inverso che si estendeva a perdita d'occhio, inalterabile, come un susseguirsi di bassorilievi in un fantastico scenario. Non c'erano interruzioni nella continuità della figura ma, a volte, Manners sembrava sparire, come in una quarta dimensione. Come ricordò più tardi, ciò era dovuto alle occasioni nelle quali il dotto-
re era uscito dalla sua visuale. La percezione era soltanto visiva e, sebbene Balcoth vedesse le proprie labbra e quelle di Manners in movimento nell'atto di parlare, non udiva né parole né suoni di sorta. Forse l'aspetto più singolare della visione era la completa assenza di prospettiva. Infatti, per quanto Balcoth avesse l'impressione di osservare ogni cosa da un punto fisso ed inamovibile, lo scenario ed i fregi intersecantisi si presentavano senza rimpicciolire mai, mantenendo la stessa dimensione e la stessa nitidezza anche ad una distanza calcolabile in svariati chilometri. Proseguendo, la visione a sinistra lo inquadrò mentre entrava nell'appartamento di Manners, sull'ascensore che lo aveva portato al nono piano dell'albergo a cento piani nel quale abitava. Poi il bassorilievo ritrasse una via confusa ed una moltitudine di facce e di forme, di veicoli e di edifici: il tutto alla rinfusa, come in un dipinto dell'antico Futurismo. Alcuni particolari erano chiari e ben delineati, mentre altri apparivano confusi, indistinti, ed a malapena riconoscibili. E ogni cosa, in qualsiasi posizione o relazione spaziale si trovasse, era ridimensionata in quel bassorilievo. Balchot ripercorse i tre isolati dall'albergo di Manners al suo studio, rivivendo tutti i movimenti già fatti - per quanto in uno spazio tridimensionale - come una retta nel normale spazio-tempo. Quindi si rivide nello studio, insieme al bassorilievo della sua figura, in una nuova serie che faceva rivivere le ore trascorse fra altri fregi di sculture reali. Ora stava dando gli ultimi ritocchi con lo scalpello ad una statua simbolica scolpita nel pomeriggio, mentre un raggio infuocato del tramonto, filtrando attraverso una finestra, ricadeva sul pallido marmo. Quindi la luminosità cominciò a scemare, mentre il contorno dell'immagine - un corpo femminile al quale aveva dato il nome provvisorio di Oblìo - sbiadiva lentamente. Alla fine, la visione sulla sinistra si fece indistinta svanendo a poco a poco, in una densa foschia. Balcoth aveva visto la propria vita, simile ad un interrotto torrente pietrificato per virtù di incanti che si spingeva nel suo passato per cinque ore. Spostando lo sguardo a destra, si immerse nel futuro: vide la sua figura seduta, sotto l'influsso della droga, di fronte al bassorilievo del dottor Manners, al gabinetto medico, ed all'armadio di ebano sintetico. Dopo un intervallo considerevole, si vide nell'atto di alzarsi dalla poltrona. Come in un vecchio film muto, gli sembrava di parlare al dottore senza muovere la bocca. Salutato Manners con una stretta di mano, lasciava l'appartamento, scendeva con l'ascensore, ed usciva nella via illuminata a giorno dirigen-
dosi al Club Belvedere, dove aveva fissato l'appuntamento con Claude Wishhaven. Il Club distava soltanto tre isolati e si trovava in una via parallela. Il percorso più breve, dopo il primo isolato, era uno stretto vicoletto fra un palazzo adibito ad uffici ed un magazzino. Balcoth intendeva passare di là, ed il bassorilievo rappresentava appunto il suo passaggio su quel selciato liscio, fra porte chiuse e pareti in penombra che si innalzavano vertiginosamente, nascondendo le stelle. Gli pareva di essere solo... non c'era altro che una serie di baluginanti lampade ad arco e di finestre. Si vedeva percorrere quel vicolo, simile ad un ruscello in un profondo canyon. Poi, quando era già a metà strada, la visione si interrompeva bruscamente, senza il graduale sbiadire nella informe foschìa che aveva contraddistinto quella retrospettiva nel passato. Il bassorilievo terminava di colpo in un abisso incommensurabile di buio e nullità. L'ultima ondeggiante duplicazione della sua persona, i vaghi contorni di una porta chiusa, alle sue spalle, il selciato baluginante, sembravano troncati di netto da una spada di tenebre, con un taglio verticale, oltre i quali non c'era che... il nulla. Balcoth provò una sensazione di assoluto distacco da se stesso, un allontanamento dal corso del tempo, dai confini dello spazio, in una dimensione astratta. L'esperienza, nella sua piena realizzazione, poteva essere durata un istante... o un'eternità. Senza meraviglia, senza curiosità o riflessione, come un occhio quadrimensionale, contemplava, alla stessa maniera, l'ineguale posizione del passato e del futuro. Dopo un periodo incalcolabile di percezione completa, iniziò il processo alla rovescia. Quell'occhio onniveggente, solo nell'iperspazio, avvertì un movimento, come se venisse trascinato in basso da qualche sottile attrazione magnetica, in quella prigione spazio-temporale, dalla quale aveva effettuato una temporanea evasione. Gli pareva di seguire il bassorilievo che lo rappresentava seduto, con dei movimenti ritmati, delle sommesse pulsazioni che corrispondevano al riassorbimento della figura duplicata. Con una strana chiarezza, si rese conto che l'unità di tempo, con la quale le duplicazioni si determinavano, era il battito del suo cuore. Adesso, con una accelerazione crescente, la visione di immagini e di spazi pietrificati si stava ridimensionando in una vorticosa spirale di tutti i colori, che lo trascinava in alto. Quindi tornò nel proprio io, ritrovandosi seduto nella poltrona pneumatica davanti al dottor Manners. Gli pareva che la stanza continuasse ad ondeggiare leggermente, come
se in casa ristagnasse il tocco di un incantesimo e ragnatele di fantastici arcobaleni continuassero a danzargli negli occhi. Ma, a parte quello, l'effetto della droga era cessato del tutto, lasciandogli però un ricordo singolarmente vivido e chiaro di un'esperienza quasi ineffabile. Il dottor Manners cominciò subito ad interrogarlo, e Balcoth descrisse ogni cosa nel modo più chiaro e completo. «C'è una cosa che non capisco», disse alla fine Manners, con aria preoccupata. «Secondo quello che affermate, avete visto cinque o sei ore del passato, seguendo una specie di linea retta, uno scenario ininterrotto, ma la visione del futuro si è interrotta bruscamente, dopo un periodo corrispondente a circa tre quarti d'ora: le vedute del passato e del futuro hanno sempre avuto quasi la stessa durata, per gli altri che hanno fatto uso del Plutonio.» «Comunque», osservò Balcoth, «la vera meraviglia consiste nel fatto che abbia potuto spingere lo sguardo nel futuro. In qualche modo, mi spiego la visione del passato. Chiaramente si compone di ricordi fisici: tutti i miei movimenti più recenti e lo scenario, sono formati da tutte le impressioni che i nervi ottici hanno ricevuto in quello spazio di tempo. Ma come ho fatto a vedere qualcosa che non è ancora accaduto? «Senza dubbio è un mistero», convenne Manner. «Io penso ci sia una sola spiegazione intellegibile per le nostre menti limitate. E cioè, che tutti gli avvenimenti che compongono il corso del tempo, anche se si sono già verificati, continuino e continueranno ad accadere, per sempre. Nello stato di coscienza ordinario, tramite le sensazioni fisiche, percepiamo soltanto quel momento che chiamiamo presente. Sotto l'azione del Plutonio, voi siete stato in grado di estendere il momento della cognizione presente in entrambe le direzioni e di percepirne una certa porzione che, di norma, supera i limiti consueti. Perciò compare la visione di voi stesso come un corpo immobile e ripetentesi che si estende nel tempo.» Balcoth, intanto, si era alzato per andarsene. «Debbo andare, o farò tardi all'appuntamento.» «Non intendo trattenervi oltre», disse Manners e, dopo una breve esitazione, soggiunse: «Non riesco ancora a spiegarmi l'improvvisa interruzione della vostra prospettiva nel futuro. Il vicolo nel quale pareva terminare, si chiama Falman; la strada più breve per il vostro Club, immagino. Al vostro posto, prenderei un'altra strada, anche se richiede qualche minuto in più.» «State facendo l'uccello del malaugurio?», rise Balcoth. «Pensate debba
accadermi qualcosa nel vicolo Falman?» «Spero di no... ma non posso garantirvi il contrario» Il tono di voce di Manners era stranamente secco e serio. «Fareste meglio a seguire il mio suggerimento.» Balcoth ebbe l'impressione di avvertire il contatto di qualcosa di oscuro e sinistro mentre lasciava l'albergo... un presentimento, rapido e chiaro, come il passaggio di un silenzioso uccello notturno. Che cosa poteva significare... quell'abisso di tenebre senza fine, nel quale il bassorilievo che rappresentava il suo futuro, sembrava travolgerlo come una valanga pietrificata? C'era qualche minaccia in agguato per lui, in un dato posto ed in un dato momento? Per la strada, provava un bizzarro senso di ripetizione, come se stesse facendo qualcosa che aveva già fatto. Imboccando il vicolo Falman, guardò l'orologio. Camminando in fretta per quella scorciatoia sarebbe giunto puntuale al Club Belvedere. Ma, se avesse fatto tutto il giro dell'isolato, sarebbe stato un po' in ritardo. Balcoth sapeva che il suo auspicato mecenate, Claude Wishhaven, era quasi un fanatico della puntualità. E così proseguì per il vicolo. Sembrava completamente deserto, come nella visione. Circa verso la metà, Balcoth giunse alla porta intravista solo a mezzo - un'entrata posteriore dell'immenso magazzino - che segnava anche il termine del prospetto temporale. Quella porta fu l'ultima cosa che vide perché, in quel momento, qualcosa lo colpì al capo e perse conoscenza, precipitando in un buio profondo così come gli era stato preannunciato. Era stato colpito, con una botta in testa, da un rapinatore del XXI Secolo. Il colpo gli fu fatale e il tempo, per quanto concerneva Balcoth, giunse al termine ultimo. LA LETTERA DA MOHAUN LOS Chi è solito leggere questo tipo di narrativa, senza dubbio ricorderà la sparizione dell'eccentrico milionario Domiziano Malgraff e del suo domestico cinese Li Wong, riportata dai giornali del 1940, con vistosi titoli a caratteri cubitali e parecchie colonne di commenti e supposizioni. Sul caso furono versati fiumi d'inchiostro ma, spogliato degli abbellimenti giornalistici, quello che fu detto, non può certo costituire una storia. Non c'era nessun motivo controllabile, né circostanze atte a fornire una giustificazione, o tracce o indizi di sorta. Da un'ora all'altra, i due uomini
erano spariti dall'umanità, come se fossero evaporati, al pari degli strani prodotti degli esperimenti chimici che Malgraff stava conducendo nel suo laboratorio privato. Nessuno sapeva a che cosa servissero, e nessuno sapeva che cosa fosse successo a Malgraff e Li Wong. E forse pochi accetteranno che l'unica credibile soluzione del problema, oggi, sia possibile mediante la pubblicazione del manoscritto ricevuto da Sylvia Talbot un anno fa, verso la fine del 1941. Sylvia Talbot era stata fidanzata con Malgraff, ma aveva rotto l'impegno tre mesi prima che lo studioso sparisse. Era innamorata di lui, ma la naturale inclinazione dell'uomo per le fantasticherie, ed il suo scarso senso pratico, dal suo punto di vista avevano finito con il costruire un insormontabile ostacolo. In quanto a lui, pareva che avesse preso la cosa alla leggera e, da quel momento, si era immerso nelle ricerche scientifiche, delle quali non aveva mai confidato a nessuno né la natura né l'oggetto. Però, né allora né in seguito, aveva mai dimostrato il minimo interesse per incrementare l'enorme fortuna ereditata dal padre. Riguardo alla sua sparizione, Sylvia Talbot brancolava più al buio degli altri. Dopo la rottura del fidanzamento, aveva continuato a tenersi in contatto epistolare con lui di tanto in tanto, ma le lettere di Malgraff si erano andate diradando sempre più, per la concentrazione in quegli studi e in quegli esperimenti senza nome. E quindi, alla notizia della sparizione, era rimasta sorpresa e traumatizzata. Parenti ed avvocati avevano esteso le ricerche in tutto il mondo ma senza risultato. Poi, sul finire dell'estate del 1941, lo strano recipiente che conteneva il manoscritto summenzionato, venne pescato sulla superficie del Mar di Banda, fra le Celebes e le Isole delle Spezie, da un battello olandese di pescatori di perle. Si trattava di una sfera di un'ignota sostanza cristallina, con i poli appiattiti. Misurava circa venti centimetri di diametro e possedeva un meccanismo interno di dinamo in miniatura e di bobine di induzione, tutte dello stesso materiale, con una clessidra riempita a metà di polvere grigiastra. La superficie esterna era cosparsa di piccole maniglie. Al centro di quella sfera, in un piccolo compartimento cilindrico, c'era uno spesso rotolo di carta giallo-verdastra, con il nome e l'indirizzo di Sylvia Talbot, chiaramente leggibili anche attraverso i diversi strati della sfera. La scrittura doveva essere stata eseguita con un pannello o con un pennino molto grande intinto in una rara specie di porpora. Due mesi dopo veniva recapitato alla Talbot, sgomenta e stupita nel ri-
conoscere la calligrafia di Domiziano Malgraff. Dopo molti tentativi, per mezzo di una delle maniglie esterne, il contenitore si aprì, dividendosi in due emisferi. Sylvia Talbot scoprì che il rotolo conteneva una voluminosa lettera di Malgraff, scritta su fogli della lunghezza di un metro. E adesso, quella lettera, salvo alcuni paragrafi intimi e frasi personali, viene resa nota al pubblico, in osservanza al desiderio dello scrivente. L'incredibile racconto di Malgraff è di un tenore tale da poter essere facilmente spiegato come una invenzione fantastica. E, secondo l'opinione di coloro che lo conobbero, una cosa del genere sarebbe tutt'altro che incompatibile con il suo carattere. Anzi, proprio per il suo comportamento capriccioso e fantastico, è stato definito un burlone. Comunque sono state intraprese nuove ricerche, nella supposizione che possa trovarsi in qualche punto dell'oriente, e tutte le isole adiacenti al Mar di Banda, verranno esplorate. Tuttavia, alcuni particolari collaterali rimangono misteriosi ed inquietanti. Il materiale ed il meccanismo della sfera sono sconosciuti agli scienziati che non sono ancora riusciti a spiegarli e, tanto la carta sulla quale è stata scritta la lettera, quanto la penna usata, sono ancora un mistero. La carta, nella composizione chimica, sembra presentare affinità sia con il vello che con il papiro, e la penna non trova analogie con quelle terrestri. I - La lettera Cara Silvia, mi hai sempre considerato un povero sognatore, ed io sono l'ultima persona che cercherebbe di contestare la tua affermazione. Però dovrei aggiungere che sono uno di quei sognatori che non hanno saputo accontentarsi del sogno. È un dato di fatto che persone del genere sono sfortunate e infelici dato che, di regola, ben poche riescono a realizzare o sia pure ad avvicinarsi soltanto, alle loro visionarie concezioni. Nel mio caso, la tentata realizzazione ha portato ad un risultato del tutto particolare. Sto scrivendo questa lettera da un mondo che si trova molto lontano, nel doppio labirinto del tempo e dello spazio, un mondo che è lontano milioni di anni da quello in cui tu vivi e sul quale sono nato. Sai bene che non mi sono mai curato molto delle cose materiali della Terra. Sono sempre stato tediato dall'era presente e sono sempre stato divorato da una specie di nostalgia per altri tempi ed altri posti. Mi sembrava
così strano e così arbitrario che dovessi essere «qui» e non «altrove», nell'infinita ed eterna gamma dell'essere, che mi sono domandato a lungo se non fosse possibile ottenere il controllo delle leggi che determinano la nostra situazione cosmica e. temporale e transitare, a piacere, da mondo a mondo e da ciclo a ciclo. È stato dopo la rottura del nostro fidanzamento che le mie ricerche in quel campo hanno cominciato ad assumere un senso concreto. Tu dicevi che i miei sogni erano tutti impossibili e senza utilità pratica. Forse, tra le altre cose, desidero dimostrare che non erano impossibili. La loro utilità ed inutilità è un problema che non mi riguarda, e non c'è nessuno che possa decidere in merito. Non intendo tediarti con un resoconto diluito del mio lavoro e delle mie ricerche. Studiavo per realizzare una macchina con cui poter viaggiare nel tempo, e spostarmi nel passato e nel futuro. Sono partito dalla teoria che il movimento, nella dimensione tempo, poteva essere controllato, accelerato o invertito, mediante l'azione di qualche forza particolare. Grazie ad una evoluzione del genere, ci si potrebbe spostare avanti ed indietro lungo gli eoni. Mi limito a dire che sono riuscito a risolvere la teoretica forza-tempo, per quanto non ne conosca l'origine e l'intima essenza. Si tratta di un'energia che pervade ogni cosa con una gamma d'onda più corta di quella dei raggi cosmici. Poi ho inventato una lega metallica perfettamente trasparente e di grande resistenza, particolarmente adatta alla conduzione ed alla concentrazione della forza. E, con quel nuovo metallo, ho costruito la mia macchina e l'ho munita di una dinamo in grado di sviluppare una potenza illimitata. L'inversione della forza, che comporta uno spostamento a ritroso nel tempo, si può ottenere facendo passare la corrente attraverso un raro composto chimico in polvere finissima, contenuto in una specie di grossa clessidra. Dopo molti mesi di assidua applicazione, il meccanismo era pronto al pianterreno del mio laboratorio di Chicago. L'aspetto esterno era più o meno sferico, con i poli schiacciati, come un'arancia cinese. Poteva essere sigillata ermeticamente, e il macchinario includeva un generatore di ossigeno. Inoltre, tra le grandi dinamo tubolari, c'era un'ampia stanza per tre persone, il pannello dei dispositivi cronometrici e quello delle leve di comando e degli interruttori. Tutte le pareti, essendo fatte dello stesso materiale, erano trasparenti come il vetro. Benché non mi siano mai piaciuti i macchinari, lo osservavo con un cer-
to orgoglio. E c'era un che di piacevolmente ironico nel pensiero che, servendomi di quel superprodotto della tecnica, ero in grado di sfuggire all'era imperversante delle macchine, nella quale ero nato. La mia prima intenzione fu di esplorare il futuro. Spingendomi abbastanza avanti nei secoli a venire, mi aspettavo di trovare che gli uomini avessero finalmente imparato a fare a meno dei loro ingombranti e complicati macchinari o che fossero stati distrutti dai medesimi, dando luogo a qualche altra specie più sensibile, nel corso dell'evoluzione. Comunque, se il futuro dell'umanità non mi avesse riservato una di quelle due fasi, mi sarebbe bastato invertire la forza del campo per tornare indietro, negli anni precedenti la mia epoca. In essi, perlomeno, storia e favola sarebbero state una cosa sola, ed avrei trovato condizioni di vita più congeniali ai miei gusti. Ma la mia curiosità più intensa riguardava gli sconosciuti e problematici anni a venire. Avevo portato avanti tutto da solo, senza altro aiuto tranne quello di Li Wong, il cinese che mi faceva da cuoco, da valletto e da governante. Anzi, all'inizio, non confidai lo scopo della macchina neppure a lui, per quanto sapessi che è il più discreto ed il più intelligente dei mortali. La gente qualunque, se avesse saputo quello che stavo cercando di fare, avrebbe riso di me. Senza tener conto dei cugini e del resto del parentado, tutti in impaziente attesa della mia eredità... e di un vicinato pieno di sputasentenze, di psichiatri e di manicomi. Io ho sempre avuto la reputazione di essere un eccentrico, e non volevo fornire ai cari parenti l'opportunità di avere un cavillo legale sufficiente per farmi interdire e rinchiudere. Ero del tutto intenzionato a fare il viaggio nel tempo, da solo. Ma, quando terminai di mettere a punto la macchina e tutto fu pronto per la partenza, compresi che era impossibile senza il mio factotum Li Wong. A parte la sua utilità e la sua affidabilità, il piccolo cinese era anche una buona compagnia. Una specie di sapiente, e non apparteneva alla categoria dei servi. Benché la sua padronanza dell'inglese fosse molto imperfetta e la mia conoscenza del Cinese altrettanto rudimentale, avevamo discusso spesso di filosofia orientale e di argomenti meno eruditi. Li Wong accolse l'annuncio del progetto, con la stessa indifferenza e disinvoltura che avrebbe dimostrato se gli avessi detto che stavamo per andare nello stato vicino. «Io fale bagagli!», mi disse. «Voi volete molte camicie?». I nostri preparativi furono presto fatti. A parte i cambi di vestiario suggeriti da Li Wong, prendemmo una provvista d'acqua e di cibo per dieci
giorni, un armadio di medicinali ed una bottiglia di brandy; tutto quello che poteva essere contenuto in un ripostiglio che avevo creato allo scopo. Non sapendo ciò che avremmo potuto trovare o ciò che poteva succedere durante il viaggio, era meglio prepararsi per le emergenze. Ora tutto era pronto. Dopo essermi chiuso nella sfera con Li Wong, mi sedetti davanti al quadro dei comandi. Provavo il brivido di un nuovo Colombo o di un Magellano, quando prendevano il mare verso i continenti da scoprire. Ma, a confronto della mia, tutte le esplorazioni umane sarebbero state come passi da formica o da tartaruga. Anche nell'esaltazione del momento, per quanto ogni cosa fosse stata calcolata con precisione matematica fino ai più alti gradi dell'algebra, ammisi tuttavia l'esistenza dell'incertezza e del pericolo. Gli effetti del viaggio nel tempo sulla costituzione umana, per esempio, erano incerti. Poteva anche darsi che né io né il cinese saremmo riusciti a sopravvivere al processo di accelerazione, nel quale i lustri, le decadi ed i secoli, sarebbero stati ridotti a semplici secondi. Feci presente tutto quanto a Li Wong, dicendogli: «Forse, tutto considerato, faresti meglio a restare.» Ma lui scosse la testa, con un sorriso. «Voi andate, io andale...» Prendendo mentalmente nota dell'ora, del giorno e del minuto della nostra partenza, girai una leva, puntandola sulla forza di accelerazione. Non sapevo proprio che cosa pensare circa le reazioni e le sensazioni fisiche. Tra le altre cose, mi era venuto in mente che potessi diventare parzialmente o totalmente inconscio, e mi ero legato al sedile per evitare di cadere. Invece, i veri effetti furono molto strani ed imprevisti. La mia prima sensazione fu quella di un'improvvisa leggerezza corporea e di immaterialità. Allo stesso tempo pareva che la macchina fosse diventata più grande: le pareti, le dinamo, e tutte le altre parti, non erano che una macchia confusa e luminescente, e si ripetevano in una serie senza fine di successive immagini momentanee. La mia stessa persona e quella di Li Wong erano moltiplicate in eguale maniera. Eppure ero conscio di me stesso come di un'ombra baluginante, dalla quale si proiettavano infinite altre. Tentai di parlare, e le parole si protrassero in un'eco ripetuta in modo indefinibile. Per un breve intervallo, la sfera parve sospesa in un mare di luce. Poi, incomprensibilmente, cominciò a farsi più scura. Una grande oscurità l'avvolgeva dall'esterno, però i contorni, sia della sfera che di tutti gli altri oggetti, erano visibili, a causa di una specie di luminosità che emanava da es-
si, come una debole fosforescenza. Ero perplesso di fronte a quei fenomeni e, in particolare, alle tenebre esterne. Ma non sapevo spiegarmeli. In teoria, i giorni e le notti che stavo attraversando a quella estrema velocità, avrebbero dovuto presentarsi come una specie di grigiore. Secoli, eoni di tempo, stavano trascorrendo in una strana notte. Poi, misterioso come le tenebre, si manifestò un improvviso bagliore di luce, di un'intensità che non avevo ancora conosciuto, che investì la sfera e passò come un fulmine. A breve distanza, fu seguito da due altri lampi, più brevi e meno intensi: poi tornarono le tenebre. Alzai una mano che si moltiplicò in cento e, sia pure a fatica, riuscii ad accendere la luce degli strumenti di bordo ed il quadrante dei cronometri, uno dei quali doveva appunto registrare il mio progredire nel tempo. Era molto facile distinguere la mano vera ed i veri quadranti, nel turbinìo indistinto che mi sommergeva ma, in un modo o nell'altro, con notevole sforzo, riuscii a constatare che mi ero spostato nel futuro per non meno di ventimila anni! E poteva bastare... almeno per lo stadio iniziale del mio volo. Afferrai la leva e spensi l'acceleratore. All'istante, le mie sensazioni visive tornarono ad essere quelle di un normale essere tridimensionale, nello spazio e nel tempo che conoscevo. Però, l'impressione di leggerezza e di immaterialità continuavano a persistere. Mi pareva che, se non fosse stato per i fermagli di metallo che mi legavano al sedile, avrei dovuto librarmi nell'aria e fluttuare come una piuma. E udii la voce di Li Wong, del quale mi ero praticamente dimenticato. E veniva dall'alto! In preda al più vivo stupore, vidi il cinese svolazzare con le ampie maniche, fluttuare comicamente nell'aria, e cercare invano, dondolando, di riprendere l'equilibrio e di rimettere i piedi a terra. «Volate come un gabbiano...», ridacchiò, all'apparenza più divertito che spaventato dalla nuova situazione. Che cosa diavolo era successo? Nel mondo del futuro non esisteva più la forza di gravità? Lanciai un'occhiata fuori, attraverso le pareti trasparenti, cercando di determinare la configurazione geografica del terreno sul quale ci eravamo posati. Doveva essere notte, perché tutto era buio, in un cielo di milioni di stelle fredde ed ammiccanti. Ma perché le stelle ci circondavano da tutte le parti? Anche se ci fossimo trovati sul picco di una montagna, avremmo dovuto,
perlomeno, intravedere le sagome indistinte di un remoto orizzonte notturno. Ma non c'era traccia di orizzonte... solo il brulicante scintillìo di ignote costellazioni. Con crescente sgomento, abbassai lo sguardo sul pavimento di cristallo, e fu come se lo avessi fissato in uno spaventoso abisso, pieno dei freddi bagliori di sconosciute galassie! E provai un vero trauma mentale nel constatare che eravamo sospesi nello spazio. Il mio primo pensiero fu che la Terra ed il Sistema Solare fossero stati annientati. Forse, durante il decorso di ventimila anni, si era verificato un cataclisma cosmico, ed io e Li Wong, spostandoci a velocità inconcepibile nell'astratta dimensione del tempo, chissà come, eravamo riusciti ad evitarlo. II - Un mondo bizzarro Poi, come una saetta, la verità mi folgorò la mente: la sfera si era spostata soltanto nel tempo e, nel mentre, la Terra ed il Sole avevano continuato a «viaggiare» attraverso le stelle e corpi celesti. Durante tutti i miei calcoli, non mi ero neppure sognato di prendere in considerazione una contingenza del genere, pensando che la legge di gravitazione universale ci avrebbe portato automaticamente nella stessa posizione relativa alla Terra, dalla quale eravamo partiti. Ma, evidentemente, quella legge non era valida nella dimensione ultraspaziale conosciuta come «tempo». Eravamo rimasti fermi nello spazio ordinario e ci trovammo separati dalla Terra da ventimila anni di deriva nel cosmo. Concepita come macchina-tempo, la mia invenzione si era rivelata un veicolo del tutto inadatto ai viaggi interstellari. Dire che ero sbalordito, servirebbe soltanto a provare l'inadeguatezza del linguaggio umano. La sensazione che mi soffocava era di panico, al grado più superlativo e più agghiacciante che avessi mai provato. Quello che potrebbe sperimentare un esploratore senza bussola fra i ghiacciai eterni e privi di orizzonte di un deserto polare, al confronto sarebbe qualcosa di infantile e di insignificante. Fino a quel momento, non mi ero mai veramente reso conto della spaventosità dell'abisso delle distanze intersiderali, del vuoto nel quale non esistono limitazioni o direzioni. Mi pareva di ruotare come uno sperduto granellino di polvere trascinato da venti senza nome in un caos inconcepibile, in una vertigine del corpo e dello spirito. Alzai una mano verso la leva di comando che avrebbe invertito l'energia-tempo e rimandato la sfera al punto di partenza. Poi,pur nell'annebbia-
mento dovuto al panico e nella mia confusione, provai una certa riluttanza a tornare indietro. Persino nel freddo abisso che spalancava le fauci senza confini, fra le stelle, non provavo alcuna attrazione verso il sudicio e monotono mondo che avevo lasciato. Poi cominciai a riprendere un po' di stabilità e di equilibrio mentale. Mi ricordai degli sprazzi di luce che mi avevano reso perplesso. E compresi che si era trattato degli indizi del passaggio di un sole alieno e di un sistema planetario, le cui orbite coincidevano con la precedente posizione della Terra nello spazio. Se avessi continuato a viaggiare nel tempo astratto, senza dubbio altri corpi avrebbero occupato la stessa posizione, nell'interrotto spostamento dell'universo. Rallentando la velocità della sfera, poteva essere possibile sbarcare su uno di essi. Indubbiamente, per te, la chiara follia e la stupidità di un progetto del genere, risulteranno più che ovvie. E forse, per la verità, dovevo essere veramente un po' fuori di cervello a causa del trauma fisico e psicologico delle mie esperienze senza uguali. Altrimenti le difficoltà del tentativo che mi stavo proponendo con tanta freddezza... per non parlare del pericolo... mi sarebbero subito saltate all'occhio. Ridussi quindi a metà la velocità-tempo, calcolando che ciò mi avrebbe permesso di vedere l'avvicinarsi di un orbita, in tempo per prepararmi allo sbarco. Per un intervallo corrispondente a parecchi eoni, le tenebre tutto attorno a noi continuavano a restare tali e quali. Mi parve che trascorresse un'eternità prima di scorgere la luce di un sole che si andava avvicinando. Ci passò molto vicino, riempiendo metà del cielo, per un istante. All'apparenza, non aveva pianeti... o, perlomeno, non se ne vedevano. Tornammo decisamente nel tempo normale e, alla fine, smisi di tenere gli occhi fissi sul quadrante con le sue cabalistiche cifre misteriose. Ero come rapito in un sogno spettrale di una durata indefinibile. Però, dopo un po', riuscii a rendermi conto che la sfera doveva aver viaggiato per un milione di anni. Poi, all'improvviso, un altro sistema solare si parò al nostro sguardo, mentre la sfera veniva circondata, per un tempo brevissimo, da un bagliore incandescente che sembrava volerla distruggere con il suo intollerabile fiammeggiare. E venimmo, di nuovo, riassorbiti dal buio, nello spazio infinito, mentre un corpo celeste più piccolo e baluginante stava venendo verso di noi. Ebbi la certezza che si trattava di un pianeta. E rallentai ancora la sfera,
in modo da poterlo esaminare. Quel mondo misterioso si andava delineando al di sopra di noi, in una massa confusa di immagini. Pensavo di riuscire a distinguere mari, continenti, isole e montagne. Si avvicinò ancora di più e sembrò volerci sommergere in meandri e meandri di qualcosa che dava l'impressione di enormi foreste. Io tenevo la mano appoggiata alla leva del dispositivo che ci avrebbe riportato automaticamente allo stesso punto che occupavo sulla Terra, al momento della partenza. Mentre scendevamo a precipizio nell'intricata giungla, fermai la macchina di colpo, rischiando una distruzione istantanea. Si verificò uno schianto violento e la navicella rullò e rotolò, come in una sarabanda. Poi parve raddrizzarsi, e rimase immobile. Io penzolavo tutto da un lato e Li Wong era lungo e disteso sul pavimento, in una posizione strana ma, nonostante ciò, eravamo atterrati. Per quanto ancora stordito, cercai di riprendere l'equilibrio, guardando attraverso le pareti trasparenti, e vidi una sconcertante ed esuberante giungla di confuse forme vegetali. La macchina del tempo era incastrata fra dei turgidi rami color rosso cupo, a circa un metro e mezzo dal suolo roseo e paludoso, dal quale si elevavano le sommità a forma di cono porporamarrone di cespugli sconosciuti. Sulle nostre teste, troneggiavano enormi, flaccide foglie pallide, venate di violetto, nelle quali mi sembrava di scorgere un limo fangoso pulsante. Quelle foglie emergevano dal bulbo di ciascuna pianta, come una rosa di braccia appiattite che spuntassero da un tronco senza testa. E c'erano anche altre forme vegetali, tutte attorcigliate ed aggrovigliate in maniera grottesca, in quell'atmosfera verde e piena di vapori, di una tale densità da conferire allo strano scenario l'impressione di un giardino sottomarino. Da ogni parte si protendevano dei rami simili a pitoni, di fronde coralline e bianche che rassomigliavano a turgidi baccelli ed a gruppi di fungoidi vermigli, grossi come quartaroli. E, dall'alto della giungla, una luminosità verde-oliva lasciava indovinare, attraverso la spessa atmosfera, i raggi di un sole sbiadito. La prima sensazione che provai fu di stupore: la scena che mi si presentava era tale da dare le vertigini agli occhi ed al cervello. Poi, quando cominciai a distinguere nuovi particolari, in quel miscuglio di sagome torreggianti e senza fine, mi sentii afferrare da una soverchiante emozione di orrore e di crudo disgusto. Ad intervalli, si scorgevano alcuni immensi fiori a boccia, eretti su uno stelo, con i petali ispidi, di una bizzarra forma a tripode e dall'orrenda co-
lorazione verde e porporina della carne in putrefazione. In quelle corolle, si distinguevano le sagome rigonfie di insetti giganteschi - o piuttosto che io credevo tali fino a quel momento - che stavano accovacciati in una diabolica immobilità, con delle strane antenne ed altri organi e zampe abbarbicate al bordo dei calici. Quei mostri sembravano imitare la tinta cadaverica dei fiori. Erano repellenti al massimo grado e non mi cimenterò a descriverli nei minimi particolari. Dirò soltanto che possedevano tre antenne a corona terminanti in un occhio rosso, con le quali sorvegliavano la giungla circostante, con aria minacciosa. Ai piedi di ognuno di quei fiori a tripode, giacevano le carcasse di bizzarri animali, disposte in cerchio ed in diversi stadi di decomposizione. Da parecchie di quelle carogne, stavano germogliando nuove piante dello stesso tipo, con dei boccioli scuri simili a vampiri non ancora formati completamente. Mentre stavo osservando quelle piante ed i loro guardiani con crescente repulsione, una creatura a sei gambe spuntò dalla giungla, sorpassando la sfera di qualche metro. Si avvicinò ad uno di quei fiori, annusando i triplici steli pelosi con una proboscide prensile. Allora, con mio grande orrore, gli «insetti» a bombice dei calici, si precipitarono in avanti con la rapidità del lampo, saettando sul dorso del malcapitato animale, e trafiggendo quel corpo grottesco con i loro pungiglioni simili a coltelli. La vittima ebbe un debole sussulto, poi cadde stupidamente: gli assalitori agitavano su di lei un organo che rassomigliava all'ovopositore dell'icneumone volante. Tutto l'insieme era ributtante, ma ancor più repulsiva fu la scoperta che quegli insetti, in verità erano parte degli stessi fiori sui quali riposavano! Dipendevano da un pallido peduncolo serpentino, una specie di cordone ombelicale, fissato al centro della corolla inclinata e, quando l'orrendo compito sulla vittima fu terminato, il peduncolo cominciò ad accorciarsi, riportando i mostri al posto primitivo, in agguato come prima, con gli occhi rosso-rubino. Era fin troppo chiaro che la pianta apparteneva ad un genere a mezza via fra la flora e la fauna, e che deponeva i semi (o le uova) nelle carcasse degli animali. Mi voltai verso Li Wong che stava osservando la scena, con manifesta disapprovazione negli occhi a mandorla. «A me non piacele.» E scuoteva gravemente la testa. «Non posso certo dire di esserne entusiasta», risposi a mia volta. «Come punto di appoggio, questo pianeta lascia molto a desiderare. Temo che
siamo andati a cercare la fortuna un po' troppo in là... qualche milione o trilione di anni...» Diedi uno sguardo tutto attorno, domandandomi se le altre specie di piante possedessero tutte la sgradevole abilità di quei fiori a tripode. E non mi tranquillizzò affatto la circostanza che alcuni peduncoli stessero ondeggiando e strisciando verso la sfera, tastando con i sottili tentacoli che terminavano a ventosa. Ed ecco apparire fra le spire di vapori e l'intrico dei vegetali, un essere stranissimo che correva in direzione della macchina del tempo, schivando a malapena uno dei mostruosi peduncoli sospesi che si slanciava su di lui da uno dei fiori a tripode. Quella specie di serpe mancò la preda di pochi centimetri e sferzò l'aria con un terribile fendente, come uno spirito maligno, prima di essere ritirato dal «cordone» elastico. L'essere anzidetto aveva circa la statura di un uomo medio. Era bipede, ma munito di quattro braccia, due che spuntavano ai lati del collo allungato e taurino, e due circa alla metà del torace simile a quello di una vespa. I tratti del viso avevano la delicatezza degli elfi e, dalla larga testa senza capelli, si elevava una cresta di avorio a forma di pettine. Il naso o, perlomeno, ciò che sembrava essere un naso, era munito di antenne mobili che pendevano ai lati della piccola bocca, come i baffi dei cinesi e le orecchie a disco: queste ultime erano fornite di diafane membrane fluttuanti come fogli di pergamena, con degli strani geroglifici. I piccoli occhi, brillanti come zaffiri, erano disposti proprio al di sotto di un semicerchio color ebano che sembrava pigmentato sulla sua epidermide perlacea. Una cortissima tunica di chissà quale tessuto lanoso gli ricopriva la parte superiore del corpo, e, eccetto quello, non indossava altro di artificiale. Destreggiandosi abilmente nell'evitare le innumerevoli piante mostruose che si protendevano bramosamente verso di lui, si avvicinò alla sfera. Senza dubbio ci aveva visti, e mi sembrava che quegli occhi di zaffiro implorassero da noi aiuto e rifugio. Pigiai il pulsante che azionava l'apertura della porta della sfera e, all'istante, io e Li Wong fummo assaliti da innumerevoli odori extra-terrestri, molti dei quali tutt'altro che piacevoli. Respirammo un'ondata d'aria carica di ossigeno e di vapori di elementi chimici sconosciuti. Con un lungo salto, quasi volando, quella curiosa entità raggiunse il portello aperto. Io afferrai le tre dita di un braccio inferiore e lo trassi in salvo. Poi richiusi la porta, proprio mentre uno dei mostruosi peduncoli vegetali
si abbatteva su di essa, spezzando l'aculeo duro come l'acciaio e chiazzando il cristallo con un siero giallo-ambra. «Benvenuto straniero.» Il nostro ospite stava respirando affannosamente e le sue antenne facciali tremavano e fremevano con la palpitazione delle sottili narici membranose. Sembrava che gli mancasse il fiato per poter rispondere, ma eseguì tutta una serie di inchini, con la testa crestata, gesticolando con le dita sottili, in segno di ossequio e di gratitudine. Quando riuscì a riprendere fiato e si fu ricomposto un pochino, cominciò a parlare con una voce di intensità non terrestre, con brusche note che, lentamente, si facevano acute, e che potevano essere paragonate soltanto al canto di uccelli tropicali. Però, né io né Li Wong eravamo in grado di capirne il significato, perché, per quanto chiari, quei suoni erano totalmente diversi da qualsiasi lingua o dialetto umano. Tuttavia ritenemmo che ci stesse ringraziando e che intendesse spiegarci da quali pericoli lo avevamo salvato. Avevamo l'impressione che raccontasse una lunga storia, accompagnando la narrazione con gesti drammatici, strani, ma eloquenti. Da alcuni di essi, riuscimmo a desumere che la sua presenza in quella diabolica giungla era del tutto involontaria, e che vi era stato abbandonato da nemici, nella speranza che non sarebbe riuscito a fuggire alla ferocia delle piante mostruose. A gesti, ci fece capire che quella foresta era enorme e piena di vegetazione ben più mortifera dei fiori a tripode. In seguito, quando imparammo a capire il suo linguaggio, scoprimmo che avevamo visto giusto, ma il racconto, nel suo insieme, era anche più fantastico di quanto avessimo immaginato. Mentre stavo ascoltando il nostro ospite, o meglio, stavo seguendo i gesti delle sue quattro mani, mi accorsi che su di noi era calata un'ombra, più intensa della verde luminosità del cielo caliginoso e simile ad un abisso marino. Alzando lo sguardo, vidi una piccola astronave a forma di disco, circondata da eliche ruotanti e da alettoni aguzzi che giravano come le pale di un mulino a vento, in discesa verso di noi. Anche il nostro ospite l'aveva vista, ed aveva troncato immediatamente il suo racconto. Appariva agitato ed allarmato al massimo. Ne dedussi che quell'astronave, forse, doveva appartenere ai suoi nemici; gli esseri che lo avevano condannato ad una sorte tanto crudele, in quella landa spaventosa. Senza dubbio, erano tornati per avere la certezza della sua fine, oppure la loro attenzione era stata attratta dall'apparizione della sfera temporale.
Adesso, l'astronave a disco stava sfiorando le cime degli alberi giganteschi, fra i rami dei quali la sfera era rimasta impigliata nell'atterraggio. Al di là dei riflessi argentei delle pale e delle eliche ruotanti, scorsi il viso di parecchie entità molto rassomiglianti al nostro ospite e che, chiaramente, appartenevano alla sua stessa razza. Una di esse stava maneggiando uno strumento con molte bocche che avevano una lontana rassomiglianza con una mitragliatrice, puntandolo direttamente contro di noi. Il nostro passeggero si lasciò sfuggire un grido di angoscia, afferrandomi il braccio con due mani e puntando le altre verso l'astronave. Non ci fu bisogno di interprete né di un lungo ragionamento per capire che versavamo in grave pericolo. Perciò abbassai la leva che ci avrebbe spedito avanti nel tempo, alla massima velocità di cui disponeva la sfera. III - Il viaggio attraverso il tempo Proprio mentre abbassavo la leva, dall'astronave partì un bagliore freddo e violaceo che parve avvolgere la macchina del tempo. Poi l'universo intero sembrò dissolversi in immagini uniformi, evanescenti e, tutto attorno a noi, dopo un brevissimo intervallo, ci furono di nuovo le tenebre dello spazio interstellare. E la navicella tornò a essere piena di quelle fantastiche immagini, alle quali si era aggiunta quella del passeggero. E così pure i quadranti, le dinamo e le leve, tornarono a moltiplicarsi in un fioco e fosforescente baluginare. In seguito appresi che il nostro improvviso scatto in avanti attraverso gli eoni, ci aveva salvato dalla completa distruzione soltanto per una frazione di secondo. Se avessimo indugiato un attimo, l'energia emessa dalla «mitragliatrice» dell'astronave, avrebbe trasformato la sfera in una nuvoletta di vapore. Come Dio volle, riuscii a rimettermi al posto di guida ed a riprendere il controllo degli strumenti e delle cifre che registravano il nostro progredire nel tempo universale. Cinquantamila anni... centomila... un milione, e continuavamo a volare attraverso lo spaventoso abisso del buio cosmico, senza fine. Se, in quel frattempo, qualche sole o qualche pianeta ci passò vicino, ciò avvenne ad una distanza che li rendeva invisibili. Li Wong ed il passeggero si erano aggrappati alle maniglie della porta della dispensa per non fluttuare a mezz'aria, e sentivo il mormorio delle loro voci, mentre i toni e le sillabe si moltiplicavano in milioni di echi. Sentii piombarmi addosso una strana debolezza, ed una allucinante sen-
sazione di irrealtà e di irrazionalità cominciarono a permeare tutte le mie facoltà e le mie idee. Mi sembrava di essere andato al di là di tutto ciò che era comprensibile e concepibile e di aver oltrepassato gli stessi confini della creazione. Il bio-caos nel quale stavo vagando, era al di là della vita stessa e del ricordo della vita; e la mia coscienza sembrava barcollare e perdersi nella oscura immensità di un nulla impenetrabile. E trascorsero altri evi, lasciando la Terra come qualsiasi altro pianeta le cui civiltà si erano evolute ed erano state dimenticate insieme ad innumerevoli epoche storiche ed ere geologiche. Lune, mondi, ed anche soli immensi erano andati distrutti. E, pur nelle loro immutabili orbite, persino le costellazioni si erano spostate, nell'infinito. Ma si trattava di pensieri inconcepibili, e il mio intelletto era sopraffatto dallo sforzo di visualizzare e di comprendere tutta quella spaventosa realtà. Ma, più sconvolgente di tutto, era il pensiero che il mondo che avevo conosciuto si fosse perduto non soltanto nell'immensità siderea, ma anche nella notte senza fine di un remotissimo passato! Con la stessa ansietà di un naufrago alla deriva per mari non riportati sulle carte, andavo sempre di più cercando di risentire sotto i miei piedi la cosiddetta «terra ferma»... non importava dove e quale. Avevamo già effettuato uno sbarco nel vertiginoso labirinto del tempo e dello spazio e, fra gli coni che stavano percorrendo, un altro corpo cosmico poteva trovarsi dinanzi a noi, intersecando la nostra rotta spaziale o la nostra posizione nel tempo astratto. Poi, come avevo già fatto per lo sbarco precedente, rallentai la velocità, in modo da avere un'accurata visione di qualsiasi sole o pianeta ci fosse occorso di avvicinare. Trascorse un lungo intervallo, durante il quale ebbi l'impressione che l'universo intero, con tutti i suoi sistemi e le sue galassie, si fosse ritirato e ci avesse lasciati soli nel vuoto al di là della materia ordinata. Poi percepii una luminosità crescente e feci rallentare ancora di più la sfera. Scorsi un pianeta che si andava avvicinando e, oltre al pianeta, due corpi immensi che giudicai un doppio sistema solare. Era la nostra opportunità, e decisi di esplorarlo. Il nostro pianeta ruotava al di sopra di noi, mentre ancora stavamo viaggiando nel tempo ad una velocità nella quale i giorni si riducevano a minuti. Ancora un attimo, e si presentò dinanzi a noi come una palla gigantesca, una bolla che ci circondava da ogni parte con prospettive quasi irriconoscibili. Vidi ciclopici picchi montani, attraverso i quali avevamo l'impres-
sione di passare, e mari e deserti sui quali ristagnava una persistente coltre di nubi, interrotta in più punti. Poi fummo al di sopra di una sorta di costruzioni o di qualcosa che presumevo simile, e quindi riguadagnammo lo spazio aperto. Colsi al volo un confuso baluginare di piccole luci e di sagome raccolte poi, di colpo, fermai la sfera. Come ho già detto, era molto pericoloso arrestarla così, in prossimità o sulla superficie di un pianeta in movimento. Poteva verificarsi una collisione, tale da distruggere la macchina del tempo, o potevamo andare a cozzare contro elevazioni del terreno o montagne. Per la verità, i pericoli erano infiniti, e c'è soltanto da meravigliarsi se siamo riusciti a sfuggire alla distruzione. Comunque ci eravamo fermati a mezz'aria, a circa sei metri dal suolo. E risentimmo immediatamente della forza di gravità del nuovo pianeta. Adesso che, con la cessazione del volo attraverso il tempo, mi erano tornate le impressioni sensoriali, udii il terribile fracasso dell'urto della sfera contro il terreno, mentre continuava a rotolare andandosi a fermare inclinata in un punto che risultava di fianco rispetto alla mia posizione all'interno. Io fui sbalzato dal sedile e Li Wong e il nostro passeggero caddero a terra accanto a me. Io e lo straniero, quantunque dolorosamente escoriati, riuscimmo a mantenerci coscienti: Li Wong, invece, era svenuto. Per quanto stordito e confuso, cercai di raddrizzarmi e, chissà come, ci riuscii. Il mio primo pensiero fu per Li Wong che giaceva inerte, fra le dinamo capovolte. Dopo un sommario esame, mi sembrò che non fosse ferito. Il secondo pensiero fu per la macchina del tempo, ma il metallo resistente di cui era composta non rivelava alcun danno serio. Poi, inevitabilmente, il mondo sul quale eravamo caduti in una maniera tanto precipitosa, attirò la mia attenzione. Eravamo finiti proprio nel bel mezzo di quello che pareva un campo di battaglia, in piena attività. Tutto attorno a noi, vi era un formidabile schieramento di veicoli simili a cocchi, con ruote e sponde altissime, trainati da strani mostri che richiamavano i draghi araldici e guidati da esseri di una razza extraterrestre, più piccoli dei pigmei. C'erano anche molti soldati a piedi, tutti con delle armi mai usate nella storia umana: lance che terminavano a curva, sciabole a sega con l'impugnatura nel mezzo, e palle irte di punte all'estremità di una lunga correggia di cuoio, e che venivano lanciate contro il nemico e poi ritirate. Inoltre, tutti i cocchi erano muniti di catapulte che proiettavano palle similari. Però, in quel momento, tutti si erano fermati nel bel mezzo di quella che,
senza dubbio, doveva essere una accanita battaglia, e fissavano la macchina del tempo. Mi accorsi che alcuni di essi erano stati schiacciati dalla sfera, quando questa era piombata giù. Gli altri si erano tirati indietro e la guardavano attoniti. E, mentre osservavo quella scena con uno stupore che non mi permetteva di afferrarne tutti i particolari, la battaglia interrotta venne ripresa. I cocchi trainati dai mostri si spostavano avanti e indietro, e l'aria era piena di proiettili volanti, alcuni dei quali colpirono anche le pareti della sfera. Pareva che la nostra presenza stesse producendo un certo effetto sul morale di quei fantastici guerrieri. Parecchi di quelli più vicini alla sfera cominciarono a ritirarsi sotto la pressione degli altri e, per la prima volta, potei distinguere i membri delle due fazioni che, indubbiamente, appartenevano a razze diverse. Quelli a piedi, armati di lance e di spade ricurve, ricalcavano suppergiù il tipo barbarico, ed erano in numero soverchiante. I loro paurosi e rozzi lineamenti sembravano maschere scolpite, piene di ferocia e di cattiveria, e combattevano con selvaggia disperazione. Gli avversari, che comprendevano tutti i piloti dei cocchi e un modesto corpo di fanteria, sembravano più raffinati e civilizzati, con un'anatomia più snella. Maneggiavano le catapulte con molta abilità e pareva che la battaglia stesse volgendo a loro favore. Quando mi resi conto che tutti quelli che erano stati schiacciati dalla sfera appartenevano al tipo più barbaro, pensai che forse la nostra apparizione doveva essere stata interpretata come favorevole ad una fazione e sfavorevole all'altra. Quelli con le catapulte stavano acquistando coraggio, mentre gli armati di lance e di palle erano visibilmente demoralizzati. La battaglia si trasformò in una rotta sempre più rovinosa. I cocchi si radunarono in una falange d'urto, attorno alla sfera, e respinsero il nemico, mentre una vera pioggia di quelle armi singolari continuava a colpire le nostre pareti di cristallo. Nonostante l'aspetto feroce, i draghi non prendevano parte alla battaglia e, chiaramente, si trattava solo di animali da traino o da soma. Ma la carneficina era terrificante: i corpi dei feriti e degli schiacciati, giacevano un po’ dovunque. Il ruolo di «deus ex machina» che, a quanto pareva, stavo giocando in quella esotica battaglia, non era affatto di mio gusto, e perciò decisi che sarebbe stato meglio progredire ancora un poco nel tempo universale. Abbassai la leva ma, con mio grande stupore, senza risultato. I congegni
dovevano aver subìto qualche avarìa per la violenza dell'impatto, quantunque, lì per lì, non fossi in grado di localizzarlo. Poi scoprii che si erano spezzati i collegamenti fra il quadro comandi e le dinamo, rendendo l'energia inoperante. Li Wong era rinvenuto. Si era seduto, sfregandosi la testa, e sembrava ponderare la nostra «riuscita» con tutta la gravità di un orientale. Il nostro passeggero stava osservando quel mondo, non meno estraneo per lui di quanto lo fosse per me e per Li Wong, con i suoi brillanti occhi di zaffiro, addirittura con un vero e proprio interesse scientifico. La fazione più civilizzata, stava ora inseguendo gli altri e facendo strage. Però, le pareti a prova di suono della sfera, ci impedivano di udire il cozzo delle armi e le urla dei guerrieri. Siccome, per il momento, non potevamo far nulla per riparare il nostro macchinario, per quanto a malincuore, mi rassegnai ad un indefinito soggiorno in quel mondo. La battaglia terminò entro una decina di minuti. I barbari superstiti erano in fuga precipitosa, e i vincitori che ci avevano sorpassato come un torrente in piena, stavano tornando e raggruppandosi attorno alla sfera, ad una certa distanza. Parecchi di essi che, all'apparenza, dovevano essere degli ufficiali, scesero dai carri e si avvicinarono. Poi si prostrarono davanti alla sfera, con gesto di venerazione. E, per la prima volta, riuscii a formarmi un concetto esatto della loro conformazione. I più alti raggiungevano a malapena il metro e venti, ed avevano una corporatura più snella degli elfi e degli gnomi. Si muovevano con grazia e rapidità ed erano muniti di un paio di piccole ali o membrane estensibili che spuntavano loro dalle spalle. I loro volti erano caratterizzati da un elaborato sviluppo delle narici e degli occhi mentre, al contrario, le orecchie e le bocche sembravano più piccole. L'apparato olfattivo ricordava quello di alcuni pipistrelli, con valve mobili a coccarda ed un'appendice inferiore che richiamava le orchidee. Erano provvisti di ciglia verticali che possedevano la facoltà di ruotare, di protendere all'infuori e di ritirare nelle orbite profonde. Ciò, come venni a sapere più tardi, permetteva loro di ingrandire o rimpicciolire qualsiasi immagine a piacere, o di alterare e mutare la prospettiva. Indossavano armature di metallo rosso, a scaglie ovoidali. Le braccia e le gambe, di un bruno lucido, erano nude. Nell'insieme, il loro aspetto era aggraziato e poco marziale, e mi meravigliai della prodezza e della bravura
che avevano dimostrato in battaglia. Continuavano a fare grandi gesti di sottomissione dinanzi alla macchina del tempo, prostrandosi e alzandosi, con genuflessioni ieratiche. Mi venne in mente che considerassero la sfera come un'entità intelligente e forse superiore, e che noi stessi fossimo ritenuti parte integrante di essa. Io e Li Wong cominciammo a discutere l'opportunità di aprire il portello e di rivelare la nostra natura a quei fanatici. Sfortunatamente però, non avevo pensato a dotare la sfera di un dispositivo atto a determinare la composizione chimica di un'atmosfera aliena, e non ero affatto sicuro che l'aria di quel pianeta fosse respirabile, per noi. Era quella considerazione più che non il timore di quei piccoli, bizzarri guerrieri, a rendermi titubante. Decisi di rimandare la nostra epifania e stavo concludendo la revisione dei danni subiti, quando notai un certo movimento fra i soldati ammassati attorno a noi. La loro falange si divise, con una rapida conversione, lasciando uno spazio libero, nel quale stava avanzando un pesante veicolo. Si trattava di una specie di piattaforma, montata su tozze e basse ruote, e trascinata da una dozzina di quei dragoni divisi in traini di quattro. Era di forma rettangolare, e le ruote la elevavano a poco di più di trenta centimetri dal suolo. Non ero in grado di determinare il materiale con cui era stata costruita, di color rame, e che suggeriva più l'idea di una pietra metallica che un metallo vero e proprio. Non aveva soprastrutture ad eccezione di un basso parapetto sul davanti, dietro il quale c'erano tre cocchieri, ciascuno dei quali reggeva le briglie di una quadriglia di mostri. Sul retro, vi era un curioso braccio ricurvo, forse una gru, fatta di un lucido materiale nero, che terminava in un disco robusto, sollevato in aria. Accanto a quella gru, c'era uno degli elfi. Con provetta ed ammirevole abilità, i conducenti guidavano quel pesante e poco maneggevole veicolo, avanzando nello spazio libero fra la macchina del tempo e l'esercito ammassato all'intorno. Gli adoratori della sfera si fecero da parte e il veicolo, trainato dai mostri, passò accanto e fece una conversione, venendo a fermarsi con la parte posteriore a ridosso della sfera, mentre il braccio della gru abbassava su di noi il pesante disco orizzontale. L'elfo che lo manovrava cominciò a maneggiare una strana leva (che evidentemente doveva servire al controllo). Osservandolo con curiosità, mi resi conto di un improvviso bagliore sulle nostre teste e, guardando in su, vidi che il disco veniva scoperto con l'apertura di qualcosa che assomigliava ad una palpebra e che mandava una luce abbagliante.
Nel contempo provai una sensazione di leggerezza corporea e di crescente assenza di peso. Barcollai, in preda alle vertigini, e mi appoggiai contro la parete per non cadere, anzi levitai pur rimanendo sospeso a mezz'aria. Anche Li Wong ed il passeggero stavano subendo la stessa sorte. Preoccupato per quel fenomeno di antigravitazione, sulle prime non mi accorsi che anche la sfera stava levitando. Allora mi rigirai, sempre in aria, e vidi che la nostra macchina si era alzata e che, adesso, si trovava a livello della piattaforma. Capii così che dal disco di luce sulle nostre teste si stava sprigionando una ignota forza magnetica. Me ne ero appena reso conto, che il braccio della gru cominciò a ruotare portandosi al di sopra del veicolo, e la macchina del tempo, come sospesa a delle catene invisibili, ruotò alla stessa maniera, mantenendo una posizione verticale al di sotto del disco. In un attimo fummo depositati gentilmente sul carro. Poi, come una luce che si spegne, il disco abbagliante venne ricoperto dalla sacra «palpebra» e, tanto io quanto i miei compagni, riprendemmo il peso normale. IV - La Grande Battaglia Tutto il processo di trasporto della sfera sulla piattaforma era stato compiuto con notevole celerità ed efficienza. Non appena terminato, i tre cocchieri, con perfetta sincronia di movimenti, fecero descrivere agli animali un lungo semicerchio, riprendendo la strada donde erano venuti. A velocità abbastanza sostenuta, percorremmo facilmente lo spazio lasciato sgombro dalle truppe. Poi, la fila di cocchi e di fanti si ricompose alle nostre spalle, subito dopo il nostro passaggio e, guardando indietro, vidi che, adesso, tutto l'esercito ci seguiva a passo marziale, attraverso una bassa pianura. Non potei fare a meno di essere colpito dalla sorridente discrepanza fra il preterumano controllo che quel popolo bizzarro possedeva sulla gravitazione ed i sistemi piuttosto primitivi di guerra e di locomozione. Giudicando secondo la logica terrestre, non riuscivo a conciliare le due cose, e la vera spiegazione era troppo strana e fantastica, perché potessi anche soltanto immaginarla o prevederla. Stavamo andando verso una destinazione ignota, con quei draghi che trottavano a passo svelto e che percorrevano più strada di quanto ci si sarebbe aspettato. Allora cominciai ad osservare il paesaggio, prendendo nota di molte cose che, fino a quel momento, mi erano sfuggite.
Quella pianura era priva di alberi, con delle basse collinette e terrapieni mammellari, interamente ricoperti da striminziti cespugli di qualcosa che rassomigliava ai licheni che formavano una specie di prateria giallo-verde. Uno dei soli era quasi allo zenith, mentre l'altro stava forse sorgendo o tramontando, dato che si trovava sulla linea dell'orizzonte, delimitato da colline dorate. Il cielo era verde carico, e compresi che quel colore era dovuto alla combinazione delle luci dei soli, uno dei quali era quasi turchino e l'altro tendente all'ambra. Quando già avevamo percorso parecchi chilometri e sorpassato una fila di collinette, scorsi una strana città poco distante, con basse cupole a forma di fungo e peristilii di colonne massicce che brillavano come marmo rosa alla luce del sole, fra macchie di vegetazione arancio, indaco e violetto. Quella fu la nostra meta. La gente gremiva le strade, e noi passammo fra due ali di folla, sulla piattaforma trainata dai draghi, come trofei di un trionfo. I palazzi erano spaziosi e ben distanziati, caratterizzati da grandi porticati con tozze colonne a bulbo. In seguito, venimmo a sapere che il materiale usato per quelle costruzioni era una specie di legno pietrificato appartenente ad un genere preistorico di piante, e tagliato in blocchi enormi. Dopo aver percorso molte vie, ci avvicinammo a quello che doveva essere il centro della città, un enorme edificio circolare formato da un'unica cupola sorretta da un colonnato immenso con un ingresso alto al punto da permettere facilmente il passaggio della piattaforma e della macchina del tempo. Lì facemmo il nostro ingresso. L'interno era illuminato dai raggi del sole al tramonto che, attraverso i massicci pilastri, disegnava strani ricami sul pavimento. La mia prima impressione fu di uno spazio enorme, di aria e di luce rosa-dorata. Al centro si elevava un palco sul quale troneggiava uno stranissimo macchinario, un congegno di metallo, in parte colorato, come un idolo in un tempio pagano. Anche quel palco era circolare, e si alzava a circa un metro dal pavimento, Aveva pressappoco un diametro di diciotto metri ed era contornato da parecchi gradini adeguati ai pigmei che li dovevano salire. Tutto attorno, a semicerchio, molto distanti l'uno dall'altro, c'erano parecchi tavoli sorretti da cubi scolpiti e panchine. Quei tavoli erano ingombri di numerosi vasi neri, alcuni profondi, altri meno, e di forme svariatissime, nei quali crescevano fiori color arancio carico, insieme ad altri di un bianco delicato, rosa pallido e verde argentato. Tutti particolari che potei osservare in fretta e confusamente, mentre la
piattaforma veniva verso il centro, senza recar danno ai tavolini. Una frotta di persone, all'apparenza dei domestici, stava accorrendo, recando nuovi vasi di fiori e riassettando quelli già esistenti. Molti guerrieri elfi, smontati dai cocchi, ci avevano seguito attraverso i grandi portali. Adesso il massiccio carro si trovava accanto al palco. Mediante lo stesso braccio nero della gru ed il disco magnetico, la macchina del tempo venne sollevata dalla piattaforma e posata sul palco, lontano dal macchinario di metallo multicolore. Poi, facendo il giro del palco, la piattaforma fu portata via dai draghi e sparì oltre il portone. Non riuscivo a decidere se quel luogo fosse un tempio o una sala pubblica. Mi pareva tutto un sogno, e il mistero non si risolse neppure quando centinaia di elfi si sedettero ai tavoli, annusando i fiori, con contrazioni ed espansioni delle narici, come se stessero inalando deliziosi profumi. Ad aumentare ancora di più la mia confusione, contribuì il fatto che sui tavoli non c'era nulla che richiamasse il cibo o le bevande, come ci si poteva attendere dai desideri di quegli accaniti guerrieri, dopo una furiosa battaglia. Lasciando momentaneamente da parte quello sconcertante enigma, rivolsi l'attenzione all'ordigno che occupava il palco insieme alla macchina del tempo. Ma, anche a quel riguardo, non sapevo che pesci pigliare, perché non riuscivo a capirne la natura e lo scopo. Non avevo mai visto nulla di simile, neppure fra le più ingegnose invenzioni dei tecnici terrestri. Era qualcosa di gigantesco, spaventosamente irto di bielle e pistoni. Aveva lunghe bande a spirale, gomiti bruschi, e bordi angolosi, dietro i quali si intravvedeva un tozzo corpo cilindrico, montato su almeno sette od otto gambe poderose che terminavano con dei piedoni enormi, come quelli di un ippopotamo. A di sopra di quel complicato ammasso, troneggiava una specie di triplice testa o superstruttura a tre globi, disposti uno sull'altro, con un lungo collo metallico. Quelle teste erano munite di una serie di sfaccettature simili a occhi, freddi e lucenti, come diamanti e numerose antenne... o bizzarri, indefinibili peduncoli, alcuni dei quali di grande lunghezza. Nell'insieme, dava l'impressione di qualche misteriosa entità vivente... una super macchina dotata di sensibilità ed intelletto, e le teste sovrapposte, con i loro occhi di ghiaccio, sembravano guardare maligne e imperscrutabili come degli Argo di metallo. Era un miracolo di ingegneria che mandava riflessi di tutti i colori, dall'oro, all'acciaio, al rame, alla malachite, all'argento, all'azzurro, e al cinabro. Però, su di me, produceva l'impressione sempre crescente di una
diabolica intelligenza in agguato come un'arma sinistra e nemica. Quella mostruosità era immobile... ma intelligente. E, ad un tratto, mentre continuavo la mia ispezione, notai un movimento delle «zampe» anteriori, e mi accorsi che la macchina si stava avvicinando pigramente a noi. Si fermò a circa un metro e mezzo ed allungò uno dei flessibili tentacoli a più giunture che contornavano la testa più alta. Quindi, usandolo come una frusta, colpì duramente, a più riprese, la curva parete della sfera. Ero allarmato e incuriosito nello stesso tempo, in quanto si trattava di un atto indubbiamente ostile. I colpi del tentacolo erano come una sfida... l'equivalente del classico schiaffo. E i cauti movimenti della macchina mentre si tirava indietro, in attesa, dopo averci colpito, erano stranamente simili a quelli di un lottatore che si prepara al combattimento: pareva quasi che si accucciasse sulle sue «zampe» elefantine di metallo e, in tutto il suo insieme, aveva un'aria di oscura minaccia. Ma, in quel momento, si verificò una curiosa interruzione che aveva tutto il significato di un avvertimento di morte per noi e di distruzione per la sfera. Quattro elfi salirono la scaletta del palco e si avvicinarono a noi, recando un grande vassoio a forma di coppa, pieno fino all'orlo di un viscido liquido incolore che sembrava olio minerale. Seguivano altri quattro elfi con un carico identico. I due gruppetti, avanzando simultaneamente, posarono i recipienti nello stesso istante e, con una generale genuflessione, li posero uno dinanzi a noi ed uno ai piedi della macchina sconosciuta. Poi si ritirarono. Tutto ciò aveva l'aria di un rito religioso... di un'offerta sacrificale, intesa a placare divinità paurose e colleriche. Con una punta di divertimento, non potei fare a meno di domandarmi come pensavano avrebbe utilizzato quel liquido la sfera del tempo. Molto probabilmente noi eravamo stati scambiati per un'unica macchina complessa, attiva ed intelligente, forse della stessa specie di quell'altro curioso robot. Il quale, comunque, era chiaramente molto avvezzo ad offerte del genere, perché, senza esitazioni o cerimonie, affondò subito alcune delle sue «proboscidi» di metallo in quella sostanza oleosa. Infatti, l'olio del recipiente stava calando rapidamente di livello, come se venisse risucchiato. Quando l'altezza del liquido fu ridotta alla metà, il mostro ritirò la proboscide e, spostandosi e rigirandosi in tutte le direzioni, con grande abilità cominciò ad oliare le giunture e le bielle del suo intricato meccanismo. Però, svariate volte, sospese quel processo fissandoci minacciosamente, co-
me per guardarsi da un gesto ostile da parte nostra. Tutta quella scena era inconcepibile, grottesca e comica... o sinistra. Adesso l'immensa sala era letteralmente gremita di guerrieri elfi, seduti attorno ai tavoli carichi di fiori, ed intenti ad inalare i profumi, come se li inghiottissero. E mi passò per la mente l'idea che si stessero concedendo un banchetto di profumi, e che forse non avevano bisogno di altro nutrimento. Ma non mi soffermai troppo ad osservare gli elfi, perché mi accorsi che il mostro di metallo, a quanto pareva, aveva terminato la lubrificazione e si stava disponendo alla lotta. Si notava un furtivo ruotare di congegni semi nascosti, un pulsare contenuto di pistoni ben oleati, ed alcuni tentacoli tesi in alto, come armi alzate. Non so immaginare che cosa sarebbe successo se fossimo rimasti su quel palco... forse saremmo stati annientati in un batter d'occhio. Ma, ancora una volta, per un caso veramente provvidenziale, la sfera ci salvò da quel feroce e strano antagonista. All'improvviso si verificò un'esplosione di luce accecante, come se fosse scoppiato un fulmine fra il palco e la sommità della cupola, seguito da un rombo pauroso che riuscì a penetrare perfino le nostre pareti a prova di suono: tutto ciò che ci circondava, prese a vibrare come per le convulsioni di un violento terremoto. Fummo letteralmente sbattuti sulle dinamo e, per un attimo, credetti che la sfera fosse caduta dal palco. Quando mi ripresi, vidi che sulla pedana si era materializzata una terza macchina, totalmente diversa sia dal robot che dalla nostra. Si trattava di una specie di immenso poliedro con lati e facce innumerevoli, alternativamente trasparenti od opache. Attraverso alcune di esse, più terse del cristallo, scorsi con orrore e meraviglia delle entità similari o forse identiche a quelle che avevamo minacciato dall'astronave, nel lontanissimo mondo nel quale avevamo raccolto il nostro insolito passeggero. C'era una sola spiegazione possibile: dovevamo essere stati seguiti attraverso il tempo-cosmo da quelle ostinate e vendicative creature. Indubbiamente, dovevano essere in possesso di strumenti di una sensibilità unica per poterci scoprire e seguire nel labirinto degli abissi stellari e dei millenni! Mi voltai versi il nostro ospite e, dalla sua espressione e dai suoi gesti di sconforto, compresi che aveva riconosciuto gli inseguitori. Siccome non avevo ancora riparato i nostri guasti, la posizione in cui ci trovavamo rappresentava un serio dilemma. E, in quel momento, il mio unico desiderio
era quello che avrei dovuto pensare a stipare la sfera con tutto l'arsenale tipico di un bandito americano. Comunque, non era il momento per le recriminazioni e per la paura. Gli avvenimenti stavano prendendo un corso imprevedibile. Il formidabile robot, all'apparire del nuovo venuto, aveva subito abbandonato i suoi progetti di guerra contro di noi, volgendosi a fronteggiare il poliedro con tutti i tentacoli alzati, in gesto di minaccia. Gli occupanti del poliedro, dal canto loro, sembravano ignorare il robot. Parecchie facce opache cominciarono ad apparire dai portelli, mettendo in mostra delle armi tubolari, tutte puntate contro di noi. Pareva che l'unico loro intento, dopo averci seguito per eoni spinti da un fanatico spirito di vendetta, fosse quello di distruggerci. Il robot, interpretò forse quei movimenti come un gesto di ostilità verso di lui, o forse non voleva cedere la preda, cioè noi, ad un'altra macchina. Ad ogni modo, si slanciò in avanti, percuotendo l'aria con tutti i tentacoli e le proboscidi, ed avanzò pesantemente sulla pedana fino a portarsi ad una distanza dalla quale poteva afferrare il poliedro. Dalle valve del suo corpo cilindrico e dalla gola a tubo, cominciarono a fuoruscire spirali di vapore grigiastro e, alzata una proboscide, sparò un getto improvviso di fuoco purpureo... una breve fiamma che colpì una delle facce superiori del poliedro, che si liquefece come per effetto di una fiamma ossidrica. A quel punto, gli occupanti del poliedro rivolsero le loro armi a tubo contro il robot. Una fiamma violetta, a ventaglio, troncò di netto uno dei tentacoli del mostro. Di fronte a quel gesto, la macchina inferocita parve impazzire, e si gettò sul poliedro come un enorme ragno di metallo, emettendo getti di fuoco scarlatto dagli organi a forma di tronco. E, a seguito di quell'incessante martellare, gli squarci sulle facce del poliedro non si contarono più. Senza lasciarsi cogliere dal panico, gli occupanti del poliedro concentrarono le loro fiammate violette sul robot, infliggendogli danni terribili. La più alta delle tre teste globulari fu parzialmente spazzata via, lasciando penzolare dei filamenti metallici, come una foresta divorata dal fuoco. Bielle, ingranaggi, pistoni, stavano cadendo sulla pedana, come una pioggia di metallo fuso. Due «zampe» anteriori erano già state ridotte ad un'informe rovina, ma il mostro continuava a combattere e, sotto l'azione di quel fuoco continuo, il poliedro si trasformò in un relitto contorto. Parecchi getti violacei erano cessati, e i loro tiratori si erano dissolti in
ceneri e vapori. Ma i restanti persistevano ancora e, uno di essi, colpì il cilindro centrale del robot, dopo aver demolito le sovrastrutture, riducendolo ad una torcia fiammeggiante. Quel colpo doveva aver raggiunto qualche parte vitale perché, all'improvviso, si verificò un'esplosione apocalittica. La cupola immensa parve traballare sulle colonne oscillanti, e lo stesso palco sobbalzò come un mare in tempesta. Poi, dalla nube che si era formata, cominciarono a piovere frammenti metallici che si sparpagliarono sulla pedana e tutto attorno. Esplodendo, il mostro aveva investito in pieno il poliedro facendolo a pezzi, e dei nostri inseguitori non restava altro che un po' di cenere nerastra. Da quella reciproca ed altamente provvidenziale distruzione delle due mostruose entità nemiche, l'edificio non aveva subito seri danni. Però era rimasto deserto... gli elfi avevano disertato il loro banchetto di profumi e si erano ritirati con discrezione. E la sfera che non aveva preso parte alla lotta, per un caso ironico e singolare era rimasta l'unica padrona del campo. Ritenni allora di poter impunemente ed ulteriormente tentare la fortuna che si era dimostrata tanto ben disposta verso di noi. Perciò aprii il portello e constatai che l'atmosfera di quel mondo era perfettamente respirabile, per quanto ancora appesantita da uno strano miscuglio di vapori metallici prodotti dell'esplosione, ed impregnata dei penetranti e stordenti profumi dei fiori. V - Il Mondo di Mohaun Los Scesi dal palco assieme a Li Wong ed al nostro passeggero. Il sole giallo era tramontato, e la cupola era inondata dalla luce azzurra, quasi mistica, del suo sosia che stava sparendo. Eravamo intenti ad esaminare i rottami sparsi della macchina aliena, quando una nutrita delegazione di guerrieri elfi rientrò nell'edificio, avvicinandosi a noi. Non ero in grado di indovinare i loro pensieri e le loro emozioni, ma mi sembrava che le genuflessioni ed i gesti di profonda riverenza e gratitudine fossero molto più espressivi e sentiti di quelli che la sfera aveva ricevuto dopo la fuga dell'esercito barbarico. Però provavo quasi l'impressione telepatica che ci stessero ringraziando per un creduto gesto liberatorio del quale, invece, eravamo stati soltanto spettatori. E quell'impressione ricevette piena conferma. Il mostruoso robot, come noi, era giunto dal cosmo e si era insediato in mezzo a quel popolo che si nutriva di profumi. Gli elfi lo avevano trattato con tutto il dovuto rispetto,
lo avevano collocato nel palazzo delle assemblee e lo avevano generosamente nutrito con i lubrificanti minerali che richiedeva. La macchina, in cambio, si era degnata di istruirli circa alcuni modesti segreti scientifici e meccanici, come la degravitazione della forza magnetica, ma gli elfi, poco amanti della meccanica per natura, avevano fatto scarso uso delle nozioni ricevute dal robot. Con il tempo, il mostro di metallo si era fatto sgradevolmente esoso e tirannico, rifiutandosi però, in modo categorico, di aiutare gli elfi nelle guerre con altri popoli. Quindi erano felici di essersene liberati, come pure dell'altro invasore. Adesso toccava a noi non deluderli. Al presente sono già trascorsi sette mesi terrestri dal momento in cui siamo usciti dalla sfera. Tanto io quanto i miei compagni viviamo in compagnia di quei mangiatori di profumi e non abbiamo alcun motivo di lamentarci di loro o di rimpiangere il mondo che ci siamo lasciati alle spalle, cioè lontano nello spazio e nel tempo. Intanto abbiamo appreso molte cose e, adesso, siamo in grado di conversare con i nostri ospiti, dopo aver preso graduale familiarità con la particolare fonetica del loro linguaggio. Il nome di questo pianeta, così come posso tradurlo in suoni umani, è Mohaun Los. Essendo soggetto all'attrazione di due corpi solari, segue un'orbita strana e pluriennale. Tuttavia il clima è buono e salubre, per quanto contraddistinto da fenomeni meteorologici sconosciuti alla Terra. Gli Elfi si autodefiniscono Psounas. Sono una razza raffinata e stimabile, quantunque così diversa dal tipo terrestre, come le mitiche tribù descritte da Erodoto. Governano il pianeta e sono più progrediti di quanto facciano capire i loro metodi di fare la guerra e le loro armi primitive. In particolare, hanno sviluppato l'astronomia e la matematica ad un grado molto superiore a quello degli scienziati terrestri. Loro unico cibo sono i profumi e, all'inizio, fu piuttosto difficile convincerli che noi avevamo necessità di un nutrimento più consistente. Comunque, non appena se ne resero conto, cominciarono a rifornirci abbondantemente dei frutti commestibili che abbondano a Mohaun Los, e non sembrano affatto scandalizzati delle nostre preferenze... anche se i frutti ed altre cose non atomizzabili, vengono mangiati unicamente dagli animali e dalle razze più primitive. Debbo invece dare atto che gli Psounas hanno sempre dimostrato verso di noi uno spirito di tolleranza e di «laissez faire». È una razza pacifica che, durante l'intero corso della sua Storia, ha avuto
poche necessità di dedicarsi alle arti marziali. Ma la recente evoluzione di una tribù selvaggia, i Gholopos, che ha imparato e a fabbricare armi, ha costretto gli Psounas all'autodifesa. La discesa della nostra sfera, che cadde addosso ai loro nemici durante una battaglia cruciale, rappresentò un avvenimento particolarmente fortunato, in quanto i Gholopos selvaggi e ignoranti, considerandola una manifestazione di qualche entità divina o demoniaca in lega con gli Psounas, abbandonarono il campo, dandosi ad una fuga precipitosa. A quanto sembra, fin dall'inizio, gli Psounas erano propensi ad una origine naturale della sfera. La loro lunga familiarità con lo stesso robot ultrastellare deve averli aiutati a non dar credito all'ipotesi di soprannaturalità in quei semplici meccanismi. Non ho avuto alcuna difficoltà a spiegare ed illustrare il viaggio compiuto attraverso gli eoni. Però, tutti i miei tentativi di far loro comprendere qualcosa del mio mondo, dei suoi abitanti e delle sue abitudini, non hanno mai ottenuto altro risultato che una educata incredulità ed una cortese incomprensione. Dicono che un mondo simile è assolutamente inconcepibile e, se non fossero cortesi come sono, forse mi direbbero anche che non è neppure immaginabile da parte di qualsiasi essere ragionevole. Tanto io e Li Wong quanto gli Psounas, abbiamo imparato a comunicare con la curiosa entità salvata dai diabolici fiori viventi. Si chiama Tuoquan, ed è uno scienziato molto erudito. Le sue idee e le sue scoperte che, in qualche modo, si discostavano da quelle prevalenti nel suo mondo, gli avevano procurato il sospetto e l'odio dei colleghi e, come avevo supposto, era stato processato ed abbandonato ad una sorte crudele nella giungla. La macchina del tempo, con la quale i suoi compatrioti ci avevano seguiti fino a Mohaun Los, forse era l'unica inventata dal suo popolo. Lo zelo e la fanatica devozione alle leggi ed all'autorità costituita li avrebbe spinti a seguirci al di là dei confini dell'universo... Fortunatamente c'erano ben poche possibilità che riuscissero a spedire un'altra macchina del tempo sulle nostre tracce, perché le perduranti vibrazioni dell'etere che li avevano messi in grado di inseguirci, così come il cane insegue l'odore della selvaggina, si sarebbero dileguate molto prima che riuscissero a costruire un duplicato del poliedro perduto. Con l'aiuto degli Psounas che mi hanno fornito i necessari elementi meccanici, ho riparato i collegamenti danneggiati della sfera. Ho anche riprodotto, in miniatura, una copia esatta della stessa sfera, nella quale sto pensando di includere questa lettera e di rimandarla indietro nel tempo,
nella fantastica speranza che possa, in qualche modo, raggiungere la Terra ed essere ricevuta da te. Gli astronomi Psounas mi hanno aiutato a fare tutti i calcoli necessari che, per la verità, vanno molto al di là delle mie capacità e delle nostre conoscenze matematiche. Combinando quei calcoli e le registrazioni cronometriche dei quadranti indicatori della sfera con le effemeridi di Mohaun Los nei sette mesi trascorsi, e tenendo conto delle fermate e dei cambiamenti di velocità avvenuti durante il nostro viaggio, è stato possibile tracciare un diorama del «percorso» che il meccanismo dovrà seguire nello spazio e nel tempo. Se i calcoli sono esatti e se tutto funzionerà, la sfera verrà a trovarsi nello stesso posto e nello stesso momento in cui ho lasciato la Terra, nel passato. Ma sarà già un miracolo se riuscirà a raggiungere la Terra. Gli Psounas mi hanno indicato una stella di nona grandezza che essi pensano possa essere il sistema solare nel quale sono nato. Però anche se la lettera dovesse arrivare fino a te, non ho motivo di pensare che tu vorrai credere al mio racconto. Tuttavia ti chiedo ugualmente di renderla pubblica anche se il mondo la considererà come la fantasia di un mentecatto o uno scherzo qualunque. Mi produce una sensazione di amara ironia il sapere che la verità sarà divulgata proprio fra coloro che la considereranno una fantastica menzogna. Ma forse si tratta veramente di qualcosa che va molto al di là della stessa fantascienza, e che non ha precedenti. Come ti ho già detto, sono abbastanza soddisfatto della mia vita su Mohaun Los. Mi dicono che anche la morte, su questo pianeta, è qualcosa di piacevole. Infatti gli Psounas, quando diventano vecchi o invalidi, si recano in una valle nascosta, nella quale vengono sopraffatti dal letale e voluttuoso profumo di fiori narcotizzanti. Può anche darsi che mi riprenda il desiderio di tempi nuovi e di nuovi pianeti e che sia spinto a proseguire il mio viaggio nei cicli futuri. Non occorre dire che Li Wong mi sarà compagno in ogni caso, per quanto, al momento, sia molto impegnato nel tradurre le Odi di Confucio ed altri classici cinesi a vantaggio del popolo di Mohaun Los (e debbo confessare che quella poesia sta avendo più successo dei miei resoconti sulla civiltà occidentale). Tuoquan, che sta insegnando agli Psounas a fabbricare le spaventose armi del suo mondo, potrebbe anche decidersi a venire con noi, in quanto è pieno di curiosità. Forse seguiremo il grande occhio del tempo, fino a che
gli eoni torneranno a essere gli stessi ed il futuro ripeterà il passato. Tuo, per sempre, Domiziano Malgraff Pur accettando per vero il racconto di Domiziano Malgraff e ammettendo che questa lettera sia venuta da un mondo del futuro, rimangono ancora parecchi grandi problemi da risolvere. Nessuno sa per quanto tempo la sfera che la conteneva sia rimasta in balìa delle onde del Mar di Banda ma, attraverso l'inimmaginabile labirinto dello spazio e del tempo, deve aver raggiunto la Terra molto dopo la partenza della sfera dal labirinto di Malgraff. Come dice Malgraff stesso nella sua lettera, se i calcoli fossero stati esatti, avrebbe dovuto giungere in quel laboratorio nello stesso momento in cui lo scienziato e Li Wong iniziavano il loro viaggio. LA LUCE DELL'ALDILÀ I. Tutti coloro che sono dediti a questo genere di narrativa, diranno che io sono sempre stato un pazzoide e che anche prima dei fenomeni che riferirò, esisteva già in me un'allucinazione sensitiva che preludeva a qualche grave disordine mentale. È possibile che, adesso, io sia matto: tutte le volte che le ondate dei ricordi mi trascinano lontano, quando torno a perdermi negli spazi di luce, spaventose entità si spalancano davanti al mio sguardo, dopo l'ultima fase della mia esperienza. Ma, all'inizio, ero savio, e sono ancora abbastanza sano di mente per scrivere un serio e lucido resoconto di tutto quanto è accaduto. Il mio tenore di vita solitario e la mia reputazione di eccentricità e di stravaganza, saranno senza dubbio citati a mio sfavore per avvalorare la tesi del mio squilibrio mentale. Coloro che saranno abbastanza anticonvenzionali da credere alla mia sanità di mente, sorrideranno del mio racconto e penseranno che abbia abbandonato il campo della mia bizzarra arte pittorica (nel quale avevo raggiunto una certa fama) per dedicarmi alla fantascienza. Comunque, se lo volessi, potrei portare una prova molto convincente circa quelle strane visite. Alcuni dei fenomeni erano stati notati da altre persone, in quella località che io, allora, non conoscevo, chiuso com'ero
nel mio isolamento. Qualche breve commento apparve sui giornali cittadini, con Una vaga spiegazione di meteoriti, e venne riportato ancora più brevemente ed oscuramente sui bollettini scientifici. Non perderò tempo a citarli, dato che erano più o meno dubbi e inconcludenti. Io sono Dorian Wiermoth. Le mie serie di dipinti illustrativi, basati sui racconti di Poe, forse sono noti a qualcuno dei miei lettori. Per un sacco di motivi che non è il caso di precisare, avevo deciso di trascorrere un anno intero nelle Sierras. Sulle rive di un laghetto di pallido zaffiro, in una valle cosparsa di cicuta e di blocchi di granito, mi ero fabbricato una baracca, riempiendola di provviste, libri e di tutto quanto era necessario alla mia arte. Per un certo tempo sarei stato indipendente da un mondo i cui richiami e allettamenti, tanto per non dire di più, non mi erano poi irresistibili. Comunque, la regione possedeva anche altre attrattive, oltre a quella della solitudine. L'aspra montagna era tutto un susseguirsi di massicci e di pinnacoli, di declivi popolati di ginepri, di pietre modellate dai ghiacciai: un miscuglio di grandioso e di grottesco che si confaceva pienamente alla mia immaginazione. Per quanto i miei disegni ed i miei dipinti, sotto ogni aspetto, non fossero mai una trascrizione letterale della natura ed anzi, spesso, fossero chiaramente fantastici, mi ero sempre dedicato ad uno studio accurato delle forme naturali. Mi ero reso conto che, anche la più sfrenata evocazione dell'ignoto, in fondo era soltanto una ricomposizione di forme e di colori familiari, e che anche i mondi più strani sono frutto della combinazione di elementi comuni alla chimica terrestre. Tuttavia, in quello scenario, trovavo qualcosa di molto di suggestivo, sia da poter intessere con gli arabeschi di disegni fantastici, sia da ritrarre come puro paesaggio, in uno stile semigiapponese che stavo appunto sperimentando. Il posto che avevo scelto era lontano dall'autostrada, dalla statale e perfino dalle rotte degli aerei. I miei compagni erano i corvi di montagna, le ghiandaie e le tamie. A volte, durante le mie escursioni, incontravo un pescatore o un cacciatore, ma la regione era miracolosamente libera dai turisti. Mi dedicai quindi ad una vita serena di studio e di lavoro, del tutto indisturbata. Ciò che fece interrompere quel mio soggiorno prima del tempo, sono sicuro che provenisse da una sfera non segnata sulle carte del cielo, e sconosciuta agli astronomi.
Senza che nulla lo lasciasse prevedere, il mistero cominciò in una tranquilla sera di luglio, quando la luna a scimitarra era già alta nel cielo, al di sopra delle distese di cicuta. Io me ne stavo seduto nella mia baracca, leggendo un giallo di cui non ricordo il titolo, per distendermi i nervi. Quel giorno aveva fatto molto caldo, non c'era un filo di vento nella valle incassata, e la lampada a petrolio ardeva con una fiamma immobile, fra la porta semiaperta e le finestre spalancate. Poi, nell'aria tranquilla, all'improvviso si diffuse un profumo penetrante che riempì la baracca come un'ondata. Non si trattava del resinoso aroma delle conifere, ma di qualcosa di molto più intenso, completamente nuovo per quella regione... forse alieno alla Terra. Mi richiamava alla mente la mirra, il sandalo, e l'incenso e, tuttavia, non era nessuno di essi, ma qualcosa di molto più strano, puro e soprannaturale, come i profumi che si dice accompagnino l'apparizione del Santo Graal. Mentre lo inalavo stupito, chiedendomi se non fossi vittima di un'allucinazione, udii una musica sommessa che sembrava connessa a quell'aroma, anzi inseparabile dallo stesso. Quel suono, simile al respiro di flauti fatali e dolcissimi, sconvolgente e accarezzante, mi giungeva da ogni parte della stanza, e mi pareva di percepirlo direttamente con il cervello, come si ode l'ansito del mare nell'incavo di una conchiglia. Corsi alla porta, la spalancai, ed uscii nel verde-azzurro della sera. Quel profumo era dovunque: si alzava davanti a me, come l'incenso di velati altari, dal laghetto e dalla cicuta, e pareva scendere dalle stelle immobili e lucenti, al di sopra degli alberi e delle pareti di granito. Poi, voltandomi ad oriente, scorsi la luce misteriosa che palpitava e ruotava su se stessa, in un alone di foschia, sulla collina. Più che brillante, era smorzata, e capii subito che non poteva trattarsi né di un'aurora boreale né delle segnalazioni luminose di un aereo. Era incolore... e tuttavia pareva includere centinaia di colori che fuoruscivano dallo spettro della luce. I raggi sembravano quelli di una ruota seminascosta che girava sempre più lentamente, senza spostarsi. Il centro - o il perno - era alle spalle della collina. Ad un tratto si fermò, pur continuando a tremolare leggermente. E vidi stagliarsi sul suo sfondo parecchi cespugli di ginepro. Devo essere rimasto a lungo a fissarla, con la bocca aperta, come un campagnolo di fronte ad una meraviglia che sorpassa la sua comprensione. Continuavo a percepire il profumo ultraterreno, ma la musica si era affievolita, con l'arresto della ruota di luce, e si era ridotta ad un sospiro appena udibile... quasi il mormorio lontanissimo di un mondo sconosciuto.
Implicitamente, per quanto forse illogicamente, collegai suono e profumo con quella misteriosa luminescenza. Non ero in grado di decidere se la ruota si trovasse appena al di là del ginepro, sull'altura rocciosa, o a bilioni di chilometri nello spazio astronomico, e non mi passò neppure per la mente che avrei potuto scalare la collina per accertarmene. L'emozione predominante in me era una sorta di quasi mistica meraviglia, una attonita curiosità che mi impediva di agire. E rimasi così, in stupita attesa, non consapevole dello scorrere del tempo, fino a che i raggi della ruota ripresero a girare lentamente. Poi acquistarono velocità, e non fui più in grado di distinguerli. Adesso aveva assunto l'aspetto di un disco ruotante, come una luce confusa pur mantenendo la stessa posizione rispetto alle rocce ed ai ginepri. Poi, senza alcun motivo apparente, impallidì e scomparve nelle tenebre di zaffiro. Non udii più il sussurro di flauti lontani ed anche il profumo defluì dalla valle, come un'onda che bacia la rena della spiaggia e torna all'abbraccio marino, lasciando vaghe vestigia del suo sconcertante aroma. Il senso di meraviglia si acutizzò al verificarsi di quei fenomeni, ma non riuscii a trarre alcuna conclusione sulle loro origini. La mia conoscenza delle scienze naturali, d'altronde poco profonda, non era in grado di offrirmi una spiegazione plausibile. Provavo una sensazione elettrizzante, ma ciò cui avevo assistito, non era reperibile nei cataloghi compilati dagli scienziati umani. Quella visita, di qualunque cosa si trattasse, mi aveva lasciato in uno stato di profonda eccitazione nervosa. Quando riuscii a prendere sonno, non feci che sognare, ancora e ancora, luci misteriose ed intermittenti, con una singolare vividezza, come se si fossero impresse nel mio cervello con una forza superiore a quella delle normali impressioni sensoriali. Mi svegliai alle prime luci dell'alba, con il fermo proposito di andare subito ad esplorare la collina orientale per vedere se fosse stato lasciato qualche segno tangibile dell'azione dei raggi della ruota. Dopo una frettolosa mezza colazione, iniziai l'ascesa, armato soltanto di una matita e del blocco da disegno. Si trattava di un breve declivio ricoperto da rami fronzuti, salici rigogliosi e querce nane, che sembravano quasi cespugli. La sommità dell'altura comprendeva un'area di diverse centinaia di metri, vagamente ellittica. Degradava dolcemente a levante e sugli altri lati, in dirupi a perpendicolo e scarpate vertiginose. C'erano delle radure fra gli enormi massi di granito che spuntavano dal suolo, ma si trattava di spazi deserti, fatta eccezione per pochi salici e ginepri che, di preferenza, affon-
davano le radici nel terreno più solido. Fin dall'inizio era stato uno dei miei rifugi favoriti. Avevo disegnato molti schizzi di quegli intricati ginepri, alcuni dei quali, secondo me, dovevano esser molto più antichi delle famose sequoie e dei cedri del Libano. Scrutando a fondo il paesaggio nella limpida luce mattutina, a tutta prima non distinsi nulla di strano. Come al solito, sul suolo friabile c'erano delle impronte di cervo ma, eccetto quelle e le mie di prima, non si vedeva nessun segno di altri visitatori. Alquanto deluso, cominciai a pensare che quella luminosa ruota in movimento fosse stata molto al di là della collina, lontana, nello spazio. Poi, gironzolando lungo i punti più bassi del crestaie, in una macchia riparata trovai ciò che prima non avevo potuto vedere, in quanto nascosto degli alberi e dagli arbusti. Era un mucchietto di frammenti di granito... ma come non ne avevo mai veduti durante tutte le mie esplorazioni montane. Inconfondibilmente disposto a forma di stella a cinque punte, ad angolo ottuso, si ergeva, all'altezza della ciotola, al centro di una piccola radura di sabbia e di argilla circondata da alcune ginestre. Su un lato, vi erano i resti bruciacchiati di un albero colpito dal fulmine pochi anni prima. Sugli altri due lati, ad angolo retto, si ergeva un'alta barriera di ginepri intricati come le scaglie di drago, abbarbicati od incassati nelle fenditure della roccia. Alla sommità dello strano mucchietto, proprio al centro, c'era una pietra dai riflessi pallidi e freddi, anch'essa a stella, che duplicava, in miniatura, le cinque punte dall'altra. Quella pietra, senz'altro, era stata sagomata artificialmente. Pur non riconoscendone la natura fisica, ero certo che si trattasse di un materiale non appartenente alla regione. Mi sentivo in preda alla stessa eccitazione di uno scopritore, pensando di essermi imbattuto nella prova di qualche mistero extraterrestre. Quel mucchietto, qualunque cosa volesse significare e chiunque lo avesse sagomato, era stato eretto nella notte, perché avevo visitato quello stesso posto il pomeriggio precedente, poco prima del tramonto e, se ci fosse già stato, sicuramente lo avrei visto. Comunque, esclusi subito l'idea che fosse opera umana. Anzi, mi venne in mente il bizzarro pensiero che esseri extraterrestri si fossero fermati su quella collina, lasciando quell'enigmatica prova della loro visita. In quella maniera gli strani fenomeni notturni trovavano una giustificazione, per quanto non del tutto chiara. Meditando su quel mistero, mi ero fermato sul limitare della radura, ad
una distanza di cinque o sei metri dal mucchietto. Fu allora che mi avvicinai per osservarlo meglio, con la testa in fiamme, piena delle più fantastiche ipotesi. Ma fui addirittura sbalordito nel constatare che sembrava arretrare dinanzi a me, mantenendosi sempre alla stessa distanza, man mano che avanzavo. Continuavo a fare un passo dopo l'altro, ma il terreno fluiva verso di me, come un tappeto trasportatore, poi i miei piedi cominciarono a ricalcare le orme precedenti e non mi riuscì di fare il minimo progresso verso quell'obbiettivo che sembrava addirittura a portata di mano. Non che i miei movimenti fossero impediti, ma provavo un crescente stordimento che, in pochi minuti, si trasformò in nausea. È più facile immaginare che descrivere il mio sconcerto. Pareva che io o la natura fossimo diventati matti. Si trattava di qualcosa di assurdo, di impossibile... che contraddiceva le più elementari leggi della dimensione. Chissà come, nello spazio che circondava il mucchietto, doveva essere stata introdotta qualche nuova ed oscura proprietà. Per provare la presenza di quell'ipotetica forza, lasciai perdere ogni tentativo di approccio diretto, e cominciai a girare attorno alla radura per cimentarmi da un'altra angolazione. Ma il mucchietto era praticamente inavvicinabile da tutti i lati. A circa quattro metri, quando tentavo di percorrerlo, il suolo cominciava a scivolare verso di me. A tutti gli effetti, quel mucchietto era come se si trovasse ad un milione di chilometri, nel vuoto fra i mondi! Dopo un po', smisi i miei inutili ed inconcludenti tentativi, e mi sedetti all'ombra di un ginepro. Quel mistero mi faceva impazzire, producendomi una specie di vertigine mentale. Però, d'altro canto, introduceva un nuovo e forse soprannaturale elemento nell'ordine consueto delle cose. Parlava di sfuggenti immensità che avevo cercato invano di esplorare, e stimolava la mia fantasia febbrile ad incontrollabili voli. Riprendendomi da quelle congetture, esaminai a fondo il mucchietto a stella ed il terreno circostante. Senza dubbio dovevano esserci le impronte di coloro che l'avevano edificato. Ed invece niente: e nulla nemmeno risultava dalla disposizione delle pietre che erano state ammonticchiate in modo impeccabile in perfetta simmetria. Continuavo ad essere disorientato da quella stella a cinque punte, perché non riuscivo a ricordare alcun minerale terrestre che gli rassomigliasse. Era troppo opaco per essere ortoclasio o cristallo, e troppo lucido e brillante per essere alabastro. Stavo sempre rimuginando quei pensieri, quando percepii una nuova,
evanescente ondata dello stesso penetrante profumo che aveva invaso la baracca la notte precedente. Andava e veniva come un fantasma, e non ero assolutamente certo della sua presenza. Alla fine, mi alzai, ispezionando ulteriormente la sommità dell'altura, per vedere se fosse stata lasciata qualche altra traccia dagli enigmatici visitatori. Su uno dei lembi sabbiosi, quasi sul bordo settentrionale, scoprii una curiosa intaccatura, simile alla tenue impronta a tre dita di qualche impossibile, gigantesco uccello; si trovava proprio accanto al piccolo incavo dal quale mancava un frammento di roccia che, senza dubbio, era stato rimosso per essere impiegato nella costruzione del monticello. Si trattava di un'impronta appena percettibile, come se chi l'aveva prodotta si fosse posato con area leggerezza. Però, eccetto quella incerta traccia, tutte le mie ricerche rimasero senza risultato. II - Il mistero si infittisce Durante le settimane che seguirono, per me, quell'enigma diventò un'ossessione. Forse, se ci fosse stato qualcuno con cui poter discutere, qualcuno in grado di esaminarlo con calma alla luce delle fredde nozioni tecniche, avrei potuto liberarmi da quella specie di mania. Ma ero completamente solo, e inoltre, per tutto quel tempo, nei pressi del mucchietto non capitò neanche un'anima. Tentai di avvicinarmi a diverse riprese, ma nello spazio tutto attorno continuava a essere presente quell'incredibile manifestazione di «estensione» occulta e di «flusso» del terreno, come a proteggere quei sassi da qualsiasi intrusione. Di fronte a quel superamento della geometria conosciuta, provai il delirante orrore di chi all'improvviso, fra le cose familiari, vede spalancarsi gli abissi vorticosi dell'infinito. Feci un disegno a matita dell'impronta, prima che venisse cancellata dai venti della Sierra e, alla guisa dei paleontologi che ricostruiscono un mostro antidiluviano da un singolo osso, cercai di immaginare l'essere che l'aveva lasciata. Anche il mucchietto fu il tema di numerosi schizzi, e pensai di aver formulato e discusso, una dopo l'altra, quasi tutte le ipotesi possibili sulla sua identità e su quella dei suoi costruttori. Si trattava del monumento funebre di qualche cosmonauta in viaggio da Algol ad Aldebaran? Era stato lasciato come il segno di qualche Cristoforo Colombo di Achernar, sbarcato sul nostro pianeta? Indicava qualche misterioso nascondiglio, al quale i suoi costruttori sarebbero tornati in futuro?
Era un punto di riferimento fra le varie dimensioni? Un geroglifico che fungeva da pietra miliare? Un segnale per altri cosmonauti, in viaggio tra i mondi, da abisso a abisso? Tutte le congetture erano ugualmente valide e... prive di senso. Di fronte a quello sconcertante mistero, la mia ignoranza umana mi spingeva in un vero e proprio delirio. Trascorsero una quindicina di giorni, e già luglio si stava avvicinando alla fine, quando notai alcuni nuovi fenomeni. Credo di aver detto che c'erano alcuni cespugli di ginestre compresi nel cerchio dello spazio alterato da quella forza occulta. Un giorno, con stupore, notai uno straordinario mutamento nei petali dei fiorellini giallo pallido. Erano raddoppiati di numero, più grandi e più pesanti, ed apparivano come tinti di porpora e di rubino carico. Forse il cambiamento era avvenuto durante un certo lasso di tempo, senza che me ne accorgessi, o poteva essersi verificato nello spazio di una notte. Ad ogni modo, quegli umili fiorellini avevano assunto lo splendore degli asfodeli della mitica Terra! Come protetti da ogni insidia mortale, fiammeggiavano in quell'area incantata, circondati da un'inimmaginabile immensità. Tornai ad osservarli tutti i giorni, in preda al sacro timore di chi è testimone di un miracolo, e li vidi sempre più grandi, più rigogliosi e smaglianti, come se fossero nutriti da elementi diversi dall'aria e dalla terra. Poi notai una corrispondente metamorfosi anche nelle bacche del ramo di un grande ginepro che sconfinava nel cerchio. I piccoli pallini azzurro pallido si erano ingrossati enormemente, assumendo una colorazione scarlatta, come le mele splendenti di qualche esotico paradiso. Nello stesso tempo, le foglie del ramo brillavano di un verde tropicale. Però sulla maggior parte dell'albero esclusa dal cerchio misterioso, le foglie e le bacche erano rimaste inalterate. Era come se qualcosa di un altro mondo si fosse inserito nel nostro... E cominciai a convincermi sempre più che la stella di pietra lucente e senza nome, alla sommità del mucchietto, doveva essere in qualche maniera la sorgente e la chiave di quegli insoliti fenomeni. Ma non potevo provare nulla. Non ne capivo niente. Solo di una cosa ero certo: stavo assistendo all'azione di forze che, fino a quel momento, non si erano mai offerte all'osservazione umana. Si trattava di forze che obbedivano alle loro leggi... le quali, a quanto pareva, non avevano uguali fra quelle che l'uomo, nella sua presunzione, ha stabilito sul comportamento della natura. Il significato di tutto ciò era un segreto espresso in qualche cifrario alieno, senza
chiave. Ho dimenticato la data esatta di quegli ultimi avvenimenti perché, a causa loro, avevo perduto la nozione del tempo e dello spazio. Anzi mi sembrava impossibile poterli datare in termini cronologici terrestri. A volte ero convinto che appartenessero soltanto ai cicli di un altro mondo, a volte che non si fossero mai verificati, a volte invece che stessero ancora accadendo... o addirittura che dovessero accadere. Tuttavia ricordo che quella sera fatale c'era una mezzaluna che risplendeva al di sopra dei picchi e degli alberi. L'aria si era fatta frizzante, con un annunzio di incipiente autunno, ed avevo chiuso porta e finestre ed acceso un fuoco di sterpi di ginepro che stavano profumando la baracca con il loro tenuissimo incenso. Il vento, con un gemito sommesso, sfiorava gli steli della cicuta, ed io me ne stavo seduto al tavolo a riguardare gli schizzi più recenti del mucchietto e dei dintorni, domandandomi, forse per la milionesima volta, se io o qualche altro sarebbe mai riuscito a risolvere quel rebus extraterrestre. Questa volta cominciai a udire la fioca, eterea melodia, come se si sprigionasse dal mio stesso cervello, prima ancora di percepire il mistico profumo. Lì per lì era solo come l'eco di un cantico, ma pareva crescere, fluire, riversarsi «all'esterno», lentamente, tortuosamente, circondandomi e richiudendomi in un vero labirinto di mormorii. La baracca... il mondo intero... i cieli stessi, erano permeati, pieni del sommesso risuonare di corni e flauti che raccontavano i sogni e le meraviglie inenarrabili di un perduto Paese degli Elfi. Poi, vincendo l'aroma del ginepro che si consumava in un fuoco senza fumo, mi giunse anche il profumo, intenso e sottilissimo insieme, e non meno penetrante della volta precedente. Pareva che la porta e le finestre non costituissero ostacoli sufficienti a trattenerlo, come se fosse trasportato da un mezzo diverso dall'aria, per una via diversa dallo spazio in cui ci muoviamo e viviamo. In preda ad una esaltante meraviglia ed alla curiosità, spalancai la porta ed uscii per tuffarmi in quel mare di fragranza extraterrestre e di melodia che inondava il mondo. E, come pensavo, sulla collina o oriente, la ruota di luce stava girando lentamente, in un punto ben determinato, oltre la macchia di ginepri. I raggi erano sottili e incolori come prima, ma neppure la luce lunare riusciva a vincerne lo splendore. Questa volta provai l'imperativo desiderio di risolvere l'enigma delle visite; un desiderio che mi trascinava, facendomi correre, inciampando nelle
rocce affioranti e nei cespugli più bassi. E, man mano che mi avvicinavo all'altura, la musica si affievoliva fino a ridursi ad un fioco sussurro, e la ruota girava più lentamente. Un residuo di quella prudenza che l'umanità ha sempre avuto in presenza dell'ignoto, mi costrinse a rallentare il passo. Comunque, fra me e quella sorgente di luce tremolante, si interponevano ancora parecchi alberi giganteschi e massi di roccia sporgenti. Mi sporsi in avanti, scorgendo con un brivido, quasi come in una mistica conferma, che la luce emanava dal mucchietto stelliforme. Dovevo assolutamente scalare il crinale roccioso e raggiungere un punto più alto, dal quale poter osservare direttamente l'area misteriosa. Strisciando carponi, e tenendomi al coperto dei ginepri più sporgenti, raggiunsi la meta e potei sbirciare da dietro un grosso cespuglio abbarbicato all'orlo del burrone. La radura argillosa nella quale era stato eretto il mucchietto, si trovava proprio al di sotto di me. A mezz'aria, immobile, un po' di lato, incombeva una strana macchina volante che potevo soltanto paragonare ad un grande barcone scoperto con la prua e la poppa ricurve all'insù. Al centro, al di sopra del parapetto, si ergeva un corto albero maestro od una snella colonna che reggeva un disco fiammeggiante che abbagliava, dal quale, come dal perno di una ruota, si dipartivano i raggi di luce, sia verticalmente che orizzontalmente. Quella specie di astronave era fatta di qualche materiale assai trasparente, perché potevo benissimo vedere il paesaggio al di là di essa ed i rami che si piegavano verso terra, attraverso il suo corpo, con scarsa diminuzione di splendore. Il disco, per quanto riuscivo a scorgere dalla mia posizione, sembrava essere l'unica parvenza di congegno meccanico. Pareva che una mezzaluna di lattiginoso cristallo fosse scesa ad inondare quell'ombroso recesso, con una luce aliena. E la prora di quella luna bicorne si trovava a meno di due metri dal masso di granito sul quale ero salito! Quattro esseri che non posso paragonare ad alcuna creatura terrestre, stavano volteggiando a mezz'aria attorno al mucchietto, senza ali od altro palpabile sostegno, come se, al pari dell'astronave, fossero insensibili alla forza di gravità; per quanto poco più bassi della statura di un uomo, sembravano leggeri e senza peso, come possono esserlo gli uccelli o gli insetti. Il loro plasma corporeo era quasi diafano, con le nervature e le vene appena visibili, come la trama iridescente delle cuciture in un tessuto di garza perlacea o rosa pallido.
Uno di essi, che si era librato verso il basso, dinanzi alla ruota a raggi, con il capo nascosto alla mia vista, teneva fra le lunghe mani diafane, la stella fredda e lucente che copriva il mucchietto. Gli altri, abbassandosi con grazia, stavano alzando e disperdendo i sassi ammonticchiati con tanta impeccabile simmetria. I visi di due erano celati, ma il terzo presentava uno strano profilo che richiamava lievemente il becco e l'occhio di un gufo, sotto un cranio senza orecchie che recava una cresta pretenziosa con dei fiocchi ondulati come il ciuffetto di una quaglia. Sgretolavano il mucchietto con una destrezza ed una celerità per cui, le braccia tubolari di quelle creature, davano l'idea di essere molto più forti di quanto si potesse immaginare. Durante il processo di demolizione, continuarono ad abbassarsi sempre di più, fluttuando quasi orizzontalmente a livello del suolo. In pochi minuti, tutti i frammenti furono rimossi, ma quelle entità continuavano a scavare con le dita il terreno. Trattenendo il respiro, e pieno di stupore per ciò che stavo vedendo, mi sporsi dal nascondiglio, domandandomi quale inconcepibile tesoro, quale mistero stessero dissotterrando quegli esploratori extraterrestri. Alla fine, dalla buca scavata nel terreno argilloso, uno di quegli esseri ritrasse la mano, alzando un piccolo oggetto incolore. A quanto pareva, doveva essere ciò che stavano cercando, perché lasciarono tutto e si avviarono verso il vascello, fluttuando nell'aria, come trasportati da ali invisibili. Due si sistemarono nella parte posteriore, alle spalle di quella specie di albero maestro con la ruota a raggi. Quello che recava la pietra a stella, e l'altro con lo strano oggetto sconosciuto, presero posto a prua, più o meno a due metri dal punto in cui mi trovavo. E, per la prima volta, vidi le loro facce, con gli occhi oro pallido, lucenti ed imperscrutabili, fissi su di me. Non so se mi vedessero o meno; parevano spingere lo sguardo attraverso di me, oltre di me... illimitatamente oltre... negli abissi irraggiungibili, su mondi preclusi alla vista umana. Adesso vedevo più chiaramente, fra le dita dell'essere più vicino, l'oggetto indefinibile riesumato dal mucchietto di uova. Se non fosse stato per le peculiari circostanze, avrebbe potuto essere scambiato per un comunissimo ciottolo, con una crepa nella parte più grande, dalla quale fuoriuscivano parecchi corti filamenti luminosi. In certo qual modo, mi ricordava un seme spaccato, con delle radici che spuntavano. Dimentico del pericolo, mi ero alzato in piedi sgranando gli occhi, come rapito, sul vascello e sui suoi occupanti. Dopo pochi minuti, mi accorsi che
la ruota a raggi aveva ripreso a girare gradatamente, come obbedendo ad un meccanismo invisibile. Nello stesso tempo, mi giunsero all'orecchio le dolcissime note sussurrate di milioni di flauti, ed il profumo penetrante di aromi da Paradiso Terestre. I raggi vorticavano sempre più in fretta, spazzando l'aria ed il terreno con il loro movimento rutilante, al punto che scorgevo soltanto una luna che sembrava tagliare nettamente in due parti il vascello e la terra e le rocce. Anche i miei sensi turbinavano insieme a quei raggi vorticosi, sopraffatti dalla musica e dal profumo. Tutto il mio essere venne assalito da un incredibile malessere, e perfino il solido granito sembrava girare e barcollarmi sotto i piedi, come un mondo ubriaco: e i ginepri poi, così saldamente radicati, si scuotevano tutto attorno a me e sullo sfondo del cielo sconvolto. Poi, ad incredibile velocità, la ruota, la navicella ed i suoi occupanti, svanirono completamente, senza alcuna apparente diminuzione di prospettiva, come se recedessero in qualche spazio ultrageometrico. I loro contorni erano ancora dinanzi a me... e tuttavia erano già inconcepibilmente lontani. Nello stesso momento avvertii un terribile risucchio, ed una corrente d'aria più impetuosa di una cascata, mi afferrò, trascinandomi oltre i cespugli sussultanti. Ma non caddi a terra... perché il suolo non c'era più. Con la sensazione di essere trasportato lontano, fra le rovine del mondo tornato allo stadio di caos, piombai nello spazio gelido e grigio che non comprendeva né aria, né cielo, né stelle: era un abisso di vuoto assoluto, attraverso il quale la spettrale mezzaluna dell'astronave si allontanava come un fantasma che si dileguava. Per quanto posso ricordare, non persi mai completamente coscienza durante la caduta ma, verso la fine, provai una crescente confusione mentale, una vera tempesta di dubbi, e la vaga percezione di un enorme arabesco di colori, sorti all'improvviso dinanzi a me come se si fossero materializzati dal grigio nulla. Tutto era nebbioso e bidimensionale, come se quel nuovo mondo, creatosi di colpo, non avesse ancora acquisito l'attributo della profondità, e mi parve di sorvolare, orizzontalmente, dei labirinti dipinti. Alla fine, dai nembi azzurri e opachi, passai in una area elicoidale rosata e mi fermai. L'intontimento cessò dando luogo ad un doloroso formicolìo simile a punture di ghiaccio, accompagnato dalla ripresa di tutti i miei sensi. Avvertii una presa decisa alle spalle e mi resi conto di essere emerso da quella nebbia rosata.
III - Il Mondo Infinito Per un istante, provai l'impressione di essere trascinato in posizione orizzontale da una specie di lenta cateratta di un elemento sconosciuto, né aria né fuoco, ma in certa maniera, analogo ad entrambi. Era più tangibile dell'aria, ma senza indizi di umidità, e fluiva con l'elegante sinuosità del fuoco, ma senza bruciare. Due di quegli elfi eterei mi stavano portando su per un luminoso declivio dorato, dal quale una vegetazione quasi impalpabile, di tutti i colori dell'arcobaleno prodotti dagli zampilli da una fontana, proiettava i suoi cespugli in un abisso verde-oro. Il vascello con la sua ruota a raggi, adesso era fermo accanto a me, e semicapovolto. A grande distanza, oltre gli alberi, vidi le sporgenze di torri altissime. A grandi intervalli, cinque soli sfavillavano nel cielo. Mi domandavo a quale pazzesca inversione di gravità fosse dovuta quella posizione, ma poi, con la normalizzazione dell'equilibrio, mi accorsi che quell'immenso burrone, per la verità, era una pianura, e la cateratta un tranquillo ruscello. Adesso ero in piedi, sul terreno, con gli astronauti attorno a me. E non mi reggevano più con le loro diafane, ma forti braccia. Non potevo supporre quale fosse il loro atteggiamento nei miei confronti, ed il mio cervello fu percorso come da una potente scarica elettrica, di fronte al terrore ancestrale ed all'incredibile stranezza di quella parte del cosmo conosciuto! Infatti il suolo sobbalzava e fremeva, scosso da energie più affini alla forza pura che alla comune materia. Gli alberi erano simili a cascate pirotecniche, fermate e consolidate a mezz'aria. Le costruzioni che si innalzavano a grandi intervalli, risplendevano della luminescenza mattutina. Respiravo un'aria inebriante simile a quella delle altitudini montane. E, proveniente da tutto quello scorcio di meraviglie, vidi raccogliersi una vera moltitudine di creature simili alle entità che mi stavano accanto. Spuntavano fra gli alberi, dallo scenario baluginante, come obbedendo ad un magico richiamo. Svelti e silenziosi come fantasmi sguscianti, pareva che camminassero più in aria che per terra. Non percepivo neppure un sussurro, ma i loro toni erano troppo alti per l'orecchio umano. E i loro occhi oro pallido mi guardavano con imperscrutabile intensità. Notai le bocche leggermente incurvate che parevano esprimere una tristezza aliena, ma forse non era affatto tristezza. Provavo una strana confusio-
ne, seguita però quasi subito da qualcosa che posso soltanto descrivere come una illuminazione interiore. Ma non si trattava di telepatia: era solo come se la mia mente avesse acquisito una certa concomitanza con quella nuova forma di vita in mezzo alla quale era finita, un affinamento delle facoltà intellettive, impossibile nello stadio normale. Qualcosa che traevo da quel suolo, dall'aria, dalla presenza stessa della folla. Però, anche così, mi rendevo conto che la mia conoscenza era abbastanza parziale e che molte cose mi sfuggivano a causa di alcune impercettibili limitazioni del mio io pensante. Quegli esseri parevano ben disposti, ma non sapevano come comportarsi con me. Senza accorgermene, in una maniera senza precedenti, ero trasmigrato in un altro cosmo. Afferrato in qualche vortice transdimensionale prodotto dall'astronave lunare, durante la sua partenza della Terra, ero stato trascinato in un altro mondo contiguo al nostro, nello spazio trascendentale. Questo, almeno, riuscivo a comprenderlo, ma la meccanica del trasferimento, continuava a essere un mistero. A quanto pareva, il fatto di essere caduto nel torrente dalle acque rosa-pallido, era stato provvidenziale, perché l'elemento liquido mi aveva fatto riprendere il pieno autocontrollo e forse mi aveva evitato il congelamento inevitabile, durante il volo nello spazio. Adesso lo scopo del mucchietto di sassi e delle visite dei loro costruttori, sulla Terra, mi era abbastanza chiaro, per quanto in modo molto approssimativo. Sotto quel piccolo tumulo era stato inumato qualcosa, per un lasso di tempo prestabilito, in modo che assorbisse, dagli strati più compatti del terreno, alcuni elementi e poteri che mancavano in quel mondo etereo. Tutto il processo era basato sulle scoperte di una scienza arcana. La pietra lucente in cima al mucchietto, in un modo che sfuggiva alla mia comprensione, aveva prodotto quel cerchio inaccessibile agli esseri umani. Le stesse metamorfosi extraterrestri della vegetazione compresa nella zona, erano dovute a delle ignote emanazioni da parte del sasso o «seme». La natura di quel seme era un rebus, per me, ma capivo che doveva essere di vitale importanza. Ed era venuto il momento di trapiantarlo nell'altro mondo. Fissai lo sguardo sulle mani dell'entità che lo reggeva e vidi che il seme si era visibilmente ingrossato e che le radici fosforescenti si erano allungate di molto. La ressa si infittiva di continuo, affollando le rive del torrente e gli spazi di quell'eterea boscaglia, in silenzio. Alcuni erano magri, scheletrici e de-
periti come spettri, ed il loro plasma corporeo, come incupito dalla malattia, era oscurato, opaco, e punteggiato da zone scure che risaltavano su quella semiluminescenza che, chiaramente, costituiva un attributo normale. In una radura, accanto all'astronave sospesa in aria, era stata scavata una buca profonda che, nel mio stupore, non avevo ancora notato. Adesso era al centro dell'attenzione generale: infatti, colui che l'aveva recato, vi stava depositando il seme, e lo ricopriva servendosi di una strana spada ovale, di un metallo fatto di un miscuglio di ambra e di porpora simile all'alone di un sole al tramonto. La folla si tirò indietro, lasciando uno spazio vuoto attorno al punto in cui era stato piantato il seme. Nelle mia mente passavano immagini scialbe, sublimi, inafferrabili come soli non ancora nati, ed ero scosso da fremiti, come per l'approssimarsi di qualche tremenda taumaturgia. Ma il vero significato di tutto andava oltre la mia comprensione. Percepivo vagamente l'ansia di quella folla aliena - in me e nelle cose stesse che mi circondavano - una necessità, un desiderio cui non sapevo dare un nome. Avevo l'impressione che trascorressero mesi e stagioni, che i cinque soli passassero su di noi in ellittiche alterate, durante quella interminabile attesa... Ma, forse, anche il fluire del tempo obbediva a leggi sconosciute, e non si trattava delle stesse ore e delle stesse stagioni terrestri. Poi, alla fine, il sospirato miracolo si compì, e dal suolo dorato spuntò un pallido germoglio. Quindi cominciò a crescere a vista d'occhio come se si nutrisse con la linfa degli anni. Da quel germoglio proliferarono delle gemme iridate. Pareva di assistere all'improvviso zampillare di una fontana, in un tripudio di colori che andavano dallo smeraldo all'opale e che stava assumendo la forma di un albero. Gli stadi di crescita erano incredibili, come il frutto di un incantesimo divino. Attimo per attimo i rami si moltiplicavano, allungandosi come fiamme alimentate dal vento. Il fogliame risplendeva come un cascata di gemme. L'albero crebbe in modo colossale, troneggiando su un tronco a colonna, e le sue foglie oscuravano i cinque soli, ricadendo sul torrente, sull'astronave, sulla folla e sulla vegetazione più bassa. E la pianta continuava a crescere, con i rami ad arco ed a festoni, cosparsa di fiori a forma di stelle. E i volti della gente attorno a me, adesso erano in ombra, come sommersi in un'ambrosia paradisiaca. Poi notai i frutti: erano piccoli globi che parevano formati di sangue e di luce, prodotti all'istante dal rapido avvizzire dei fiori a stella e, altrettanto rapidamente, si
gonfiavano, assumendo la forma di pere, mentre i rami si curvavano mettendoli alla mia portata... ed a quella della folla. Allora sembrò che la crescita meravigliosa fosse giunta al culmine, e si arrestò. Adesso eravamo sormontati da una sorta di favoloso Albero della Vita, scaturito dall'accoppiamento delle energie della Terra e di quel mondo celestiale. Di colpo, mi fu chiaro lo scopo di tutto; non appena vidi chi staccava e divorava quei frutti. Erano in molti a non farlo e, comunque, mi resi conto che soltanto gli ammalati ed i languenti si nutrivano di quelle pere color sangue. A quanto pareva, quei frutti rappresentavano un rimedio sovrano contro la malattia perché, mentre se ne cibavano, i loro corpi riacquistavano lucentezza, le macchie d'ombra sparivano, e tornavano ad assumere l'aspetto normale degli altri. Osservando quella scena, cominciai a provare un desiderio dello stesso genere; una profonda e mistica bramosia, insieme al confuso turbinare dei pensieri di chi si trova sperduto in un mondo troppo lontano e troppo alto per la comprensione umana. Ero travagliato da alcuni dubbi, ma non vi badavo più. C'erano anche parecchie mani alzate, come per dissuadermi; ma le ignorai. Una di quelle allettanti e splendenti pere pendeva proprio davanti a me... ed allora la colsi. Però le mie dita furono percosse da una forte scarica elettrica, seguita da un senso di gelo paragonabile alla neve in piena estate. Quel frutto era di una materia completamente sconosciuta... tuttavia, al tatto, era consistente e turgido e, sotto i miei denti, si dissolse in un succo vinoso ed una polpa di ambrosia. Lo divorai con avidità e mi sentii pervadere le fibre da una potente, divina euforia, simile ad un fulmine d'oro. Ho scordato buona parte del delirio che seguì (ammesso che fosse delirio)... ci sono delle cose che superano le possibilità della mente. E, molto di ciò che ricordo, potrebbe essere ripetuto soltanto nel linguaggio dell'Olimpo. Rammento comunque la colossale espansione di tutti i miei sensi, lo spaziare della mente tra stelle e mondi, come se il mio io cosciente fosse uscito dai suoi confini mortali per l'azione taumaturgica dell'Albero. Mi pareva che la vita di quello strano popolo fosse diventata di mio dominio, di conoscere i misteri della loro scienza e la gamma superumana delle loro estasi e dei loro stadi di abbattimento, dei loro trionfi e delle loro sconfitte. Arricchito di tutto questo, mi innalzai sino alle sfere superne. Gli spazi infiniti si dispiegavano davanti a me, ed io li percorrevo come si percorre
una rotta inesplorata. Contemplavo i cieli, i paradisi e gli inferni contigui, ed assistevo al processo sempiterno della loro trasformazione e del loro interscambio. Possedevo milioni di occhi e di orecchi; i miei sensi penetravano gli abissi infiniti oltre i soli dell'universo. Avevo la strana sensazione di dover supervisionare il sorgere ed il fermarsi di stelle spente e di pianeti senza luce. Vedevo e capivo tutto con l'esaltazione di un ebbro demiurgo, e mi era familiare come se lo avessi già visto in altri cicli. Poi, improvviso e terribile, si manifestò il senso di dualità, la percezione che una parte del mio io non appartenesse più a quel dominio di immensità e di gloria cosmica. Quel delirio scoppiò come un palloncino, e mi parve di staccarmi e di lasciarmi alle spalle quel colossale, misterioso idolo, che continuava ad incombere al di sopra delle stelle. Ero di nuovo sotto l'Albero con la folla transdimensionale attorno a me ed i frutti rossastri che continuavano a brillare sui rami curvi sotto il loro peso, come archi di fogliame. Però quell'inesorabile destino continuava a perseguitarmi. Non ero più uno, ma «due». Vedevo distintamente me stesso, il mio corpo, le mie fattezze impregnate della stessa radiazione propria degli esseri nativi di quel mondo, ma ero «io» che contemplavo quell'«alter ego» ed ero conscio dell'oscura gravità che mi inchiodava al suolo. Mi pareva che quel terreno dorato si stesse spalancando sotto i miei piedi come un pavimento di nuvole irradiato dal tramonto, ed io precipitai in un abisso senza fine, mentre l'altro me stesso era ancora sotto l'Albero. Mi risvegliai con l'afa opprimente del sole di mezzogiorno sul viso. Il terreno argilloso sul quale giacevo disteso, i frammenti sparpagliati del mucchietto, le rocce ed i ginepri, erano irriconoscibili, come se appartenessero ad un altro pianeta. Però tutto ciò che ho descritto mi tornò in mente molto più tardi, in una sequenza frammentaria e discontinua. Come sia tornato sulla Terra rimane un mistero. A volte penso che quel popolo superiore mi abbia riportato con la lucente astronave, il cui funzionamento non avevo mai capito. A volte, quando mi sembra di vaneggiare, penso che io... o parte di me stesso... sia precipitato per avere mangiato il frutto. Le energie alle quali mi ero esposto con quell'atto erano incalcolabili. Forse, per effetto delle leggi di una chimica tridimensionale, si era verificata una parziale inversione delle vibrazioni ed una separazione degli ele-
menti del mio corpo, per cui mi sono sdoppiato in due persone, in due mondi differenti. Senza dubbio, gli scienziati rideranno ad un'idea del genere... Non ho riportato malesseri fisici dalla mia esperienza, tranne una lievissima traccia di congelamento ed un curioso prurito dell'epidermide piuttosto blando e simile ad un bruciore, che potrebbe essere stato provocato dalla temporanea esposizione a materie radioattive. Ma, in tutti gli altri sensi, sono semplicemente un rudere del mio io precedente... Tra le altre cose, scoprii quasi subito di aver perso l'estro artistico, che non mi è ancora tornato dopo parecchi mesi. A quanto pare, qualche sublime essenza deve averlo annientato e per sempre. Sono diventato quello che era logico: un idiota. Ma, spesso, le sfere infinite, col loro terrore e le loro meraviglie, scendono fino a questo idiota. Ho lasciato le Sierras solitarie ed ho cercato rifugio nel contatto umano. Ma le vie affollate si sono perse in abissi insondabili e, Forze insospettate dagli altri, si muovono al mio posto, fra la gente. A volte, non sono più in questo mondo, tra i miei simili, ma in compagnia degli Elfi, sotto l'Albero, in quel mistico Paradiso Terrestre. IL MONDO SENZA TEMPO Cristopher Chandon si affacciò alla finestra del laboratorio per un'ultima occhiata alla solitudine montana che lo circondava e che, molto probabilmente, non avrebbe più rivisto. Senza alcun dubbio sulla decisione presa e tuttavia senza rimpianto, lasciò vagare lo sguardo sulle arcate gotiche e le cicute attraversate dall'argento mormorante di un minuscolo ruscello. Guardò i pendii, a strati, di granito, che si perdevano lontano, e i due picchi più vicini alle Sierras, con l'azzurrino-ardesia già macchiettato dalla prima neve autunnale, e il passo che si inerpicava lassù e che, grosso modo, corrispondeva al suo progettato tragitto attraverso il continuum spaziotempo. Poi si rivolse di nuovo al complesso e strano apparecchio che era costato tanti anni di lavoro e di esperimenti. Sopra una piattaforma rialzata, al centro della stanza, c'era un grande cilindro, non molto diverso da una campana di immersione. Le spesse pareti e la base erano di metallo, e la parte superiore di un vetro indistruttibile. All'interno, da una parete all'altra, con un'inclinazione di quaranta gradi, era appesa una specie di amaca. In essa, Chandon poteva distendersi e ri-
lassarsi in tutta tranquillità, perché poteva proteggerlo contro qualsiasi effetto nocivo della ignota velocità del suo volo. Attraverso il vetro trasparente, avrebbe potuto osservare, con tutto comodo, qualsiasi fenomeno avesse incontrato nel viaggio. Il cilindro era stato posto proprio dirimpetto ad un enorme disco di circa tre metri di diametro, con un centinaio di buchi nella superficie di acciaio. A tergo di quel disco, era stata sistemata tutta una serie di dinamo, concepita per sviluppare un'ignota energia che Chandon, tanto per darle un nome, aveva battezzato forza-tempo-negativa. Era riuscito ad isolarla dall'energia positiva del tempo - la gravità quadridimensionale che provoca e controlla la rotazione degli avvenimenti - superando infinite difficoltà. La potenza negativa, amplificata un migliaio di volte dalle dinamo, avrebbe rimosso una qualunque cosa si fosse venuta a trovare sul suo cammino. Non avrebbe permesso di viaggiare nel passato o nel futuro, ma avrebbe provocato una proiezione istantanea attraverso il flusso temporale che abbraccia tutto l'universo in uno scorrere senza fine. Sfortunatamente, Chandon non era riuscito a costruire una macchina mobile nella quale poter viaggiare come in un razzo e forse tornare al punto di partenza. Era obbligato a gettarsi temerariamente nell'ignoto. Però aveva fornito il cilindro, di bombole di ossigeno, di illuminazione e riscaldamento elettrici, oltre a provviste di cibo ed acqua per un mese. Anche se il volo fosse terminato nello spazio vuoto o su qualche pianeta dalle condizioni impossibili per la sopravvivenza umana, avrebbe almeno potuto vivere tanto a lungo da poter compiere una soddisfacente osservazione dell'ambiente. Comunque aveva una teoria, secondo la quale il suo viaggio non sarebbe terminato nell'etere: i corpi cosmici erano nuclei di gravità-tempo e l'assenza di forza propellente avrebbe permesso al cilindro di raggiungerne uno. I rischi della sua avventura erano imprevedibili, e tuttavia li preferiva alla tranquilla, monotona certezza dell'esistenza terrestre. Si era sempre sentito oppresso da un senso di limitazione, ed aveva anelato unicamente agli spazi inesplorati. Non sopportava il pensiero di un orizzonte che non fosse quello mai superato. Con una strana emozione nel cuore, distolse lo sguardo dal passaggio montano ed andò a sistemarsi nel cilindro. Aveva già installato un sincronizzatore a tempo, che avrebbe avviato automaticamente le dinamo ad un'ora stabilita.
Si stese sull'amaca, sorretto da delle cinghie agganciate alla cintola, alle anche ed alle spalle, poi rimase in attesa. Infatti mancavano ancora un minuto o due all'accensione dei propulsori. In quegli attimi, per la prima volta, si sentì assalire da un'ondata di terrore per la pericolosità dell'esperimentoto, e fu quasi tentato di slacciarsi le cinture e di scendere dal cilindro prima che fosse troppo tardi. Provava la stessa sensazione di chi sta per essere sparato da una bocca di cannone. Come sospeso in un silenzio innaturale, reso assoluto dalle pareti a intercapedine, si rassegnò all'ignoto ed alle contrastanti supposizioni su quello a cui sarebbe andato incontro. Poteva o non poteva sopravvivere al passaggio attraverso dimensioni sconosciute ad una velocità, al cui confronto quella della luce non era che lentezza. Ma, se fosse riuscito a sopravvivere, poteva raggiungere le più lontane galassie, in un baleno. I timori e le supposizioni furono stornate da qualcosa che giunse all'improvviso, come il sonno... o la morte. Tutto parve dissolversi e sparire in una fiammata accecante e, prima di perdere i sensi, gli sfilarono dinanzi agli occhi frammenti di panorama, una babele di impressioni ineffabili, varie e moltiplicate, e gli sembrò di possedere mille occhi, mediante i quali, in un solo istante, assisteva al fluire di infiniti eoni, al passaggio di mondi senza numero. Era come se il cilindro non esistesse più e tuttavia non si muovesse. Ma il tempo stesso non era più nulla per lui, e percepiva i ritagli ed i frammenti di milioni di scenari: oggetti, visi forme, angolazioni e colori, che avrebbero ricordato più tardi, come si richiamano le visioni distorte e amplificate in maniera delirante da certe droghe. Vide le gigantesche foreste sempreverdi di licheni, ed i continenti di erba e sargassi di pianeti più remoti della Costellazione di Ercole. Gli sfilarono dinanzi, come in una ricostruzione architettonica, le città e gli edifici che superavano i millecinquecento metri di altezza, inondati dalla sfarzosa fantasmagoria di rosa, smeraldo e porpora di Tiro, prodotta dai raggi di tre soli. Contemplò innumerevoli cose in sfere che gli astronomi non conoscevano neppure. E venne addirittura sommerso dalla spaventosa evoluzione senza limiti della vita interstellare e dalla visione delle sovrabbondanti morfologie. Aveva l'impressione che i limiti del suo cervello si fossero dilatati fino ad includere la totalità del flusso cosmico, che il suo stesso pensiero - come la rete di qualche inimmaginabile e divino aracnide, - l'avesse portato da mondo a mondo, da galassia a galassia, oltre gli spaventosi abissi
dell'infinito continuum. Poi, con la stessa subitaneità con la quale aveva avuto inizio, la visione terminò, e venne sostituita da qualcosa di natura completamente diversa. Fu soltanto molto dopo che Chandon riuscì a rendersi conto di quello che era successo ed a configurare la natura e le leggi del nuovo ambiente nel quale era stato proiettato. In quel momento (ammesso che si possa usare una parola tanto inadeguata come un'espressione temporale), era completamente incapace di qualsiasi cosa, all'infuori del contemplare visualmente lo strano mondo che si presentava al suo sguardo attraverso le trasparenti pareti del cilindro: un mondo che pareva scaturito dalla mente malata di un Pitagora impazzito o di un Euclide fuori di senno. Era una specie di ghiaccio planetario, con la superficie ordinata in forme grottesche, illuminate da una luce bianco-opaca con delle leggi di prospettiva complementare diverse da quelle del nostro pianeta. Le distanze che gli si aprivano davanti erano praticamente indeterminabili: non esisteva un orizzonte, e tuttavia sembrava che nulla si rimpicciolisse, a qualunque distanza si trovasse. Una delle prime impressioni di Chandon fu che quel mondo si arcuasse su se stesso, come la superficie interna di una sfera vuota, e che le pallide visioni tornassero a formarsi dopo essere sparite alla vista. Molto più vicino a lui di qualsiasi altro oggetto dello scenario, anzi, alla stessa distanza che aveva nel laboratorio, vide una larga regione circolare di un ruvido tavolato: la porzione della parete, abbattuta dal raggio negativo, galleggiava immobile nell'aria, come se fosse tenuta sospesa da un campo di ghiaccio invisibile. In primo piano, al di là del tavolato, si affollava una interminabile sfilata di oggetti che richiamavano tanto l'idea di statue, quanto di formazioni cristalline. Pallido come il marmo o l'alabastro, ciascuno di essi presentava un miscuglio di curve semplici e di angoli simmetrici che, in modo impensabile, sembravano includere la possibilità di infiniti sviluppi geometrici. Erano giganteschi, con una rudimentale suddivisione in testa, arti e corpo, come esseri viventi. Alle loro spalle, a distanze infinite, si intravvedevano altre forme che potevano essere i germogli chiusi o i calici congelati di fiori sconosciuti. Chandon, mentre osservava la scena dal cilindro, aveva perduto la nozione del trascorrere del tempo. Non riusciva né a ricordare né ad immaginare altro. Non aveva neppure coscienza del proprio corpo, eccetto una pallida e confusa visuale di se stesso, al limite dell'occhio.
In certo qual modo, in quella strana, glaciale impressione, avvertiva l'inerte dinamismo delle forze che lo attorniavano, il tuono silenzioso, e le saette senza lampi di divinità in letargo; il colore e la fiamma di atomi paralizzati, come un sole spento, sembravano in agguato dinanzi a lui, imperscrutabili, come se avessero fatto così dall'eternità, e dovessero continuare a farlo per sempre. In quel mondo, ogni cambiamento, ogni avvenimento, era impensabile; tutte le cose dovevano conservare lo stesso aspetto e la stessa funzione. Come si rese conto più tardi, anche i suoi tentativi di cambiare posizione, nel corso del tempo, si erano risolti in un risultato imprevedibile. Aveva proiettato se stesso «al di là del tempo», in un altro cosmo, nel quale l'etere forse era un non-conduttore della forza-tempo e nel quale, comunque, i fenomeni di sequenza temporale erano impossibili. La velocità pura del volo lo aveva portato ai limiti di quell'eternità, così come può accadere agli esploratori dell'artico di incappare in un ghiaccio eterno. E, secondo le leggi dell'assenza del tempo, la vita, nel significato della parola che noi conosciamo, era impossibile e tuttavia... siccome la morte avrebbe coinvolto una sequenza-tempo, anche la morte, per lui, era altrettanto impossibile. Doveva rimanere nella posizione nella quale era atterrato, ed avrebbe dovuto interrompere il respiro nel momento dell'impatto con l'eterno. Era irrigidito in una catalessi dei sensi, in uno scintillante Nirvana di contemplazione. Secondo la logica, quella situazione sembrava senza via di uscita. Comunque, adesso, debbo riferire la cosa più strana di tutte, una cosa che sembrava inesplicabile, che sfidava le leggi della sfera senza tempo. Nel campo visuale di Chandon, nella sfilata senza fine delle immutabili forme di ghiaccio, si era delineato un intruso, una «cosa» che sembrava andare alla deriva fra gli eoni, e che continuava a crescere con la stessa lentezza di una scogliera millenaria in un mare di cristallo. Anche alla prima occhiata, l'oggetto si rivelava subito come alieno allo scenario e, ovviamente, come il cilindro di Chandon e la sezione della parete del laboratorio, non era di origine eterna. Era nera e lucida, anzi più nera dello spazio interstellare e dei metalli situati al centro dei pianeti, là dove non giunge la luce. Si offriva alla vista con una solidità ultramateriale, e tuttavia sembrava rifiutare la cristallina luce del giorno ed isolarsi dallo splendore immutabile. La «cosa» si rivelò come un acuto e grosso doppio cuneo drizzato nell'etere purissimo, provocando con il suo violento atto di repulsione della lu-
ce, una nuova visuale agli occhi di Chandon, fissi come se fossero paralizzati. Nonostante le leggi di assoluta immobilità che regolavano tutto ciò che lo circondava, gli causò l'insorgere di un'idea di resistenza e di movimento. Vista nel suo insieme, la «cosa» aveva l'aspetto di un'affusolata nave spaziale che faceva sfigurare il cilindro di Chandon come una barchetta di fronte ad un transatlantico. Galleggiava sola ed isolata... una massa compatta e senza giunture, di ebano, che si allargava nel mezzo ed era affusolata alle due estremità, la forma sembrava calcolata appositamente per perforare qualcosa di resistente. Il materiale con cui era stata fatta e a che cosa dovesse servire, erano un mistero per Chandon, un mistero destinato a restare tale. Forse veniva guidata da qualche tremenda concentrazione di quella stessa forza-tempo con la quale Chandon si era gingillato con tanta ignoranza ed inettitudine. Il vascello intruso, completamente immobile, si stagliava nel suo campo di visuale. In un tempo lunghissimo, con dei movimenti quasi impercettibili, parve che si aprisse una enorme porta circolare verso la base e, dall'apertura, spuntò una gru, simile ad un braccio umano, dello stesso materiale del vascello. Il braccio terminava in numerose bacchette che, in qualche modo, richiamavano l'idea di dita flessibili. Scese sulla sommità di una di quelle strane immagini geometriche, ed una vera miriade di bacchette flessibili, curvandosi e piegandosi lentamente, ma con una fluidità praticamente senza limiti, si avvolsero come le maglie di una catena attorno al corpo cristalloide. Poi, quel solido geometrico, con uno sforzo erculeo, venne strappato dal suo posto e, alla fine, sparì con il braccio retrattile all'interno dell'astronave. Quindi il braccio riemerse e catturò un altro di quegli enigmatici oggetti dalla sua eterna postazione. Poi, ancora una volta, ed una terza entità fu divelta e portata via - come il simulacro marmoreo di un dio - dal suo piedistallo. Tutto avveniva in profondo silenzio. Infatti, l'incommensurabile lentezza dei movimenti era resa sorda dall'etere, e non produceva nulla che potesse giungere alle orecchie di Chandon con la parvenza di un suono. Sparito per la terza volta con il suo strano bottino, il braccio tornò, spingendosi diagonalmente per un raggio di molto superiore ai precedenti, fino a che le «dita» nere raggiunsero il cilindro di Chandon, richiudendosi su di esso con la loro irresistibile stretta. Chandon avvertiva appena il movimento, ma aveva l'impressione che la
sfilata delle bianche figure che costituivano l'orizzonte, si abbassasse lentamente, come un mondo che sprofondasse, senza rimpicciolirsi secondo le leggi della prospettiva. Inquadrò la massa scura della grande astronave, verso la quale veniva trascinato dal braccio retrattile e che, a poco a poco, riempì tutto il suo campo visivo. Poi il cilindro venne sollevato nell'apertura più buia della notte e dalla quale la luce pareva preclusa, come se non riuscisse a penetrarla. Chandon non riusciva a vedere nulla: non era in grado di percepire altro all'infuori delle solide tenebre che avvolgevano il cilindro, così come prima era stato sommerso dalla luce bianca e acromatica di quel mondo senza tempo. Avvertì la sensazione di una lunga, tremenda vibrazione, che pareva emanata in onde circolari da qualche centro dinamico, per passare su di lui e perdersi oltre, come il cuore di un Titano che sfidasse, con i suoi battiti, l'eternità circostante. Nello stesso istante, si rese conto che anche il suo cuore aveva ripreso a battere, sincronizzandosi con quelle pulsazioni di origine ignota, e che inspirava ed espirava nuovamente, in sintonia con quella vibrazione ciclica. Ed anche nel suo cervello intorpidito si concretizzò un'idea di meraviglia, il primissimo inizio di una naturale sequenza di pensiero. Quindi, mente e cuore avevano ripreso a funzionare sotto l'influenza di quella forza che si era rivelata tanto potente da imporsi all'universo senza tempo sottraendolo all'etere pietrificante. La vibrazione cominciò ad intensificarsi, diffondendosi in potenti increspature. Adesso era udibile, come un battito ciclopico, e Chandon, senza sapere bene perché, si formò l'idea di un gigantesco macchinario in moto nelle viscere di un pianeta. Pareva che l'astronave stesse avanzando con difficoltà, ma con forza irresistibile, attraverso una barriera materiale. Senza dubbio si stava liberando della dimensione eterna e si stava aprendo la via del ritorno nel tempo. Le tenebre persistevano, più come una positiva radiazione che non per come assenza di luce. Poi, a poco a poco, si diradarono, lasciando il posto ad un'illuminazione nascosta, sufficiente per lasciare intravvedere ogni cosa. Nello stesso tempo, l'assordante rumore di macchine in moto si trasformò in un sordo pulsare. Forse il buio era in qualche modo connesso con il pieno sviluppo di quella strana forza che aveva messo l'astronave in grado di muoversi e di funzionare in quell'universo extra-temporale. Con il ritorno della dimensione temporale e la diminuzione della forza, era sparito.
Le facoltà di pensiero, sensazioni, conoscenze e movimento, erano tornate a Chandon nella loro dimensione normale, come la ripresa del deflusso di acque trattenute da una diga. Era nuovamente in grado di collegare gli avvenimenti e di comprendere il significato della sua esperienza, veramente unica. Con crescente stupore ed apprensione, cercò di esaminare la scena che poteva scorgere dalla sua posizione sull'amaca. Il cilindro e le figure cristalloidi si trovavano in una sala enorme, probabilmente la stiva principale dell'astronave. L'interno dell'ambiente era curvo come una sfera e tutto attorno, ed anche in alto, erano disposti macchinari sconosciuti. Non molto lontano c'era il braccio della gru. A quanto pareva, la forza di gravità si esercitava indifferentemente in ogni punto della superficie interna, perché alcuni oggetti passavano fluttuando davanti agli occhi di Chandon, andando a raggiungere le pareti e pendendo addirittura dal soffitto, come fossero farfalle. Forse quegli «oggetti» erano una dozzina, per lo meno a quanto poteva vedere. Nei loro confronti non si poteva nemmeno immaginare qualche caratteristica biologica terrestre. Ciascuno di essi possedeva un corpo pressappoco globulare, con l'emisfero superiore leggermente ingrossato al polo e all'equatore, a formare due protuberanze o teste coniche, senza collo. L'emisfero inferiore terminava in molti arti o appendici, alcune delle quali venivano usate per «camminare» e le altre per lo più come organi prensili. Le teste non avevano una conformazione ben determinata, ma una membrana simile ad una tela di ragno, sospesa fra l'una e l'altra e che tremolava continuamente. Alcune appendici ondeggiavano come tentacoli, e terminavano in organi che potevano fungere da occhi, orecchi, narici e bocche. Quelle creature risplendevano di una luce argentea e parevano quasi trasparenti. Al centro delle «teste» coniche si gonfiava e rimpiccioliva una macchia violetta, come di carbone acceso, pulsando con regolarità, ed i corpi sferici si illuminavano e si oscuravano con il ritmico interscambio di zone d'ombra e di luce, disposte a maglia sulla loro superficie. Chandon ebbe l'impressione che fossero formati da qualche sostanza non plasmatica, forse da un minerale che si era tramutato in cellule viventi. I loro movimenti erano svelti e decisi, con un equilibrio non umano, e sembravano in grado di seguire molteplici direzioni, con perfetta simultaneità. Da tutte quelle stranezze, il terrestre si sentì spronato a riprendere l'immobilità più assoluta. Con vane, fantastiche supposizioni, tentava di scandagliare il mistero. Chi erano quelle creature, e quali erano stati i loro propositi nel penetrare nella dimensione eterna? Perché avevano catturato al-
cuni dei suoi abitanti, compreso lui stesso? Dov'era diretta l'astronave? Stava tornando nel tempo e nello spazio, al pianeta dal quale era partita per quel viaggio fantastico? Non poteva essere certo di nulla, ma sapeva di essere caduto nelle mani di esseri intelligentissimi, esperti navigatori dello spazio-tempo. Erano stati capaci di costruire una astronave che lui avrebbe potuto sognare, e forse avevano già esplorato e riportato su carte geografiche tutti gli abissi più remoti, e deliberatamente concepito e portato a termine l'incursione su quel mondo ghiacciato. Se non fosse stato per loro, Chandon non sarebbe mai riuscito a sfuggire al dominio di quell'assenza di tempo, nella quale era stato scaraventato dal suo maldestro tentativo di cercare di varcare il flusso dei secoli. Così meditando, rivolse l'attenzione alle «cose» gigantesche, che erano sue compagne di «prigionia». In quella luminosità rossastra, riusciva a malapena a distinguerle: i loro piani ed i loro angoli sembravano leggermente mutati, e la luce ne traeva dei riflessi sanguigni, conferendo loro una strana sensazione di calore e di vita in risveglio. Ora più che mai, davano l'impressione di un potere latente, di un dinamismo paralizzato. Poi, all'improvviso, scorse un inconfondibile movimento da parte di una di quelle entità statuarie, e capì che la «cosa» aveva cominciato ad alterare la propria forma! La fredda sostanza marmorea pareva animarsi e comportarsi come argento vivo. La testa rudimentale stava assumendo una forma molto decisa e ben delineata, come se appartenesse a qualche semidio di un mondo dimenticato. Il resto del corpo fiammeggiò di riflessi, e spuntarono delle nuove membra adatte ad usi indeterminati. Le curve e gli angoli così decisi, si moltiplicarono con una misteriosa complessità. Sul viso comparve un occhio dalla forma di diamante, che brillava di un fuoco azzurro: presto se ne aggiunsero degli altri. In pochi istanti, la «cosa» parve riprendere tutto un processo evolutivo interrotto e sospeso per lungo tempo. Chandon notò che anche le altre figure si stavano evolvendo in singolari alterazioni: sebbene, in quel caso, gli sviluppi seguissero uno schema prettamente individuale. Le sfaccettature geometriche cominciarono a gonfiarsi come boccioli ed a sbocciare in disegni di grandiosità e bellezza celestiali. Il pallore boreale era soffuso di iridescenze stranissime, con dei toni opalini che si allungavano tremolanti nei vivi disegni, formando arabeschi circolari e geroglifici di arcobaleno. Lo spettatore umano, in quegli esseri stranissimi percepì l'insorgere di
uno slancio vitale senza limiti, di un'intelligenza superstellare. Fu percorso da un brivido di terrore, elettrizzante, soprannaturale. I fenomeni ai quali stava assistendo erano troppo imprevedibili, troppo tremendi. Chi o che cosa poteva limitare o controllare le attività che si sprigionavano da quelle Entità Eterne ridestate dal loro letargo? Senza dubbio, si trovava in presenza di esseri affini agli dei, ai demoni, o ai geni del mito. Stava assistendo a qualcosa che poteva essere paragonato all'apertura delle giare del tesoro di Salomone, recuperate dal mare. E notò che la stupenda trasformazione veniva seguita attentamente dagli occupanti della nave spaziale. Infatti, affluendo da tutte le parti, cominciarono ad affollarsi attorno alle Entità Eterne. I loro movimenti meccanici e sussultanti, l'alzarsi ed il puntare alcuni tentacoli che terminavano in organi simili ad occhi, tradivano una curiosità ed un'eccitazione extra-umana. Pareva seguissero la trasfigurazione di quelle forme geometriche con l'atteggiamento di dotti biologi che si attendessero un avvenimento del genere, e fossero soddisfatti della sua realizzazione. E le Entità Eterne, a quanto pareva, erano altrettanto curiose nei confronti dei loro catturatori. I loro occhi fiammeggianti, a foggia di corno, sulla parte più alta, cominciarono a vibrare come se stessero ispezionando l'ambiente per scoprire l'origine di sensazioni di natura sconosciuta. Poi, all'improvviso, da ciascuno dei tronchi spuntò un unico «braccio», senza giunture che, a mezz'aria, emise sette lunghi raggi a ventaglio, di luce purpurea, che davano l'idea di una mano. Indubbiamente, quei raggi erano in grado di ricevere e di trasmettere sensazioni tattili. Lentamente e deliberatamente, quelle dita annaspanti si alzarono e si stesero e, curvandosi con flessuosità dove incontravano una superficie sferica, cominciarono a pulsare ritmicamente con luminosità purpurea in direzione della più vicina creatura a due teste. Queste ultime, allarmate e contrariate, si tirarono indietro per sottrarsi a quei «vegetali» animati. Ma le «dita» di porpora continuarono ad allungarsi, le circondarono, imprigionandole inesorabilmente e, si spostarono in su e in giù lungo i loro corpi come per studiarne la completa anatomia. Ed ora, dalle due teste ai dischi a tampone che fungevano da piedi, quelle creature erano fasciate da anelli fluttuanti e nastri di luce. Altri membri dell'equipaggio della nave spaziale, esclusi da quel curioso esame, si erano tirati indietro, ad una distanza più sicura. Anzi, uno di essi alzò qualche tentacolo, gesticolando freneticamente. Chandon poté vedere che quella creatura non aveva toccato alcun macchinario dell'astronave.
Ma, come obbedendo ai suoi gesti, un enorme dispositivo meccanico di foggia sferica e troneggiante come un immenso specchio, cominciò a ruotare su se stesso, sui dei perni massicci. Tutto quel dispositivo sembrava fatto di una pallida, lucida sostanza né vetrosa né metallica. Interrompendo la rotazione, come se avesse raggiunto l'effetto voluto, la lente emise un'irradiazione di luce incolore che, in un certo qual modo, ricordava a Chandon la fredda, raggelante radiazione del pianeta senza tempo. Quella radiazione, cadendo sulle Entità Eterne, si rivelò come una forza indiscutibilmente repressiva. Di colpo, i raggi-dita interruppero la ricerca e rientrarono nel braccio senza giunture che, a sua volta, si ritirò. Gli occhi si chiusero come zaffiri ed ametiste nascoste, le protuberanze ridivennero fredde e ottuse, e gli strani esseri semi-divini persero i loro complessi angoli per riprendere l'antica forma statica di cristalli ben determinati. Tuttavia, in qualche modo, erano ancora vivi, perché gli embrioni del contorno di effluorescenza naturale non scomparvero del tutto. Stupito e scosso davanti a quella scena sconcertante, Chandon, con gesti assolutamente meccanici ed incontrollati, si era liberato dalle cinghie di cuoio e si era alzato dall'amaca, premendo il viso contro la parete trasparente del cilindro. Il cambiamento di posizione fu notato dall'equipaggio dell'astronave e gli occhi tentacolati si alzarono e si puntarono su di lui, lasciando da parte il processo involutivo delle Entità Eterne. Poi, obbedendo ad un altro enigmatico gesto di uno di essi, la lente gigante ruotò di qualche grado, e l'irradiazione glaciale allargò il campo di azione scendendo sul cilindro, senza escludere le Entità. Il terrestre ebbe la sensazione di essere immerso nell'immoto fluire di qualcosa di indicibilmente spesso e viscido. Il suo corpo parve congelarsi e gli stessi pensieri filtravano con incredibile lentezza, attraverso qualcosa che gli stava ricoprendo il cervello. Però non era un arresto completo del processo vitale che aveva subito in seguito all'impatto con quel mondo senza tempo. Era piuttosto una decelerazione dello stesso processo, l'assoggettamento ad un inconcepibile ritmo rallentato del tempo e della logica del pensiero. Tra un pulsare e l'altro delle tempie di Chandon, parve trascorressero anni interi. Per piegare il mignolo gli sarebbero occorsi due lustri. E, anche attraverso quel tedioso prolungamento del tempo, il cervello riuscì, dopo innumerevoli sforzi, a formulare un pensiero: il sospetto che i catturatori si fossero allarmati per quel suo cambiamento di posizione, ed avessero per-
cepito qualche pericolosa dimostrazione di forza sia da parte sua come dalle Entità Eterne. Poi, dopo decenni e decenni, concepì un altro pensiero: che anche lui fosse stato ritenuto uno di quei semidei da parte dei viaggiatori extratrerrestri del tempo. Infatti lo avevano trovato sul pianeta senza tempo, fra la sfilata senza fine delle figure geometriche, e come potevano sapere che invece lui, come loro stessi, veniva da un mondo compreso nella sfera del tempo? Con quella sensazione alterata del trascorrere delle ore, dei giorni e degli anni, il terrestre non era in grado di farsi un concetto della durata del viaggio nello spazio-tempo. Gli parve quasi di essere immerso in un'altra eternità, punteggiata da intervalli di lustri, e scandita dalle ronzanti vibrazioni delle macchine. In quella rallentata percezione visiva, l'equipaggio del vascello dava l'impressione di muoversi con incredibile sforzo, attraverso impercettibili gradazioni. Tanto lui, quanto i suoi stessi compagni, erano stati richiusi nel gelo, in una specie di prigione costituita dalla lentezza del tempo, mentre la nave spaziale precipitava attraverso fantastiche dimensioni di infinità secolari e cosmiche. Alla fine, il viaggio ebbe termine. Chandon percepì l'insorgere graduale di una luce che pervadeva ogni cosa, sommergendo la luminosità rossastra della nave spaziale in un biancore incandescente. Attraverso tutta un'infinita gamma di gradazioni, le pareti si fecero perfettamente trasparenti, come pure il macchinario, e capì che la luce proveniva dal mondo esterno. Immagini immense, multiformi ed intricate, cominciarono a stagliarsi in quel bianco splendore con la lentezza della creazione stessa. Poi, senza dubbio per poter permettere il trasporto dei prigionieri, il raggio ritardante venne spento, e Chandon riprese le sue normali facoltà di conoscenza e di movimento. Ebbe allora una stranissima visione attraverso la trasparenza delle pareti; una trasparenza dovuta forse allo spegnimento dell'apparato motore della nave spaziale. Vide che l'astronave si era posata su un'area che pareva fatta di diamante, circondata da un ammasso di edifici di un'imponenza e di una grandezza tale, che sembravano pesare sui suoi sensi fino a schiacciarlo. Più lontano, sullo sfondo di un cielo arancio carico, come in un miraggio, vide ciclopici pilastri a bulbo che reggevano delle piattaforme, così come il mitico Atlante reggeva il mondo: era una moltitudine di strane torri cuneiformi e stupende, di irreali e meravigliose cupole, come piramidi
rovesciate. E pinnacoli a spirale che sembravano sorreggere un'incredibile quantità di terrazze, oltre a mura degradanti come ondate gigantesche pietrificate e trasformate in fianchi di montagne per virtù d'incanti, che formavano la base di impensabili agglomerati. Il tutto in una pietra lucida e nera come la notte, quasi un masso ricavato da un Erebo cosmico. E quelle masse pesanti, ciclopiche e dall'aspetto malvagio, si interponevano fra Chandon ed il fiammeggiare di un sole nascosto, incomparabilmente più splendente del nostro. Abbagliato dallo splendore, stordito dalle dimensioni di quegli agglomerati mastodontici, e conscio di uno strano senso di pesantezza diffuso in tutto il corpo, senza dubbio dovuto ad una maggiore forza di gravità, il terrestre concentrò l'attenzione nelle sue immediate vicinanze. L'area di carbonio allo stato diamantifero era affollata di creature simili all'equipaggio dell'astronave. Come insetti giganteschi, argentei e dal corpo globulare, accorrevano da tutte le direzioni sulla pista nereggiante. Disposti ad anello tutto attorno all'astronave, c'erano degli specchi, colossali, dello stesso tipo di quello che aveva emesso il raggio ritardante. La «gente» accorsa si era fermata ad una certa distanza, lasciando sgombro lo spazio fra le macchine dei raggi e l'astronave, come per permettere lo sbarco dell'equipaggio e dei prigionieri. Allora, per l'azione di un congegno nascosto, nella parete compatta si aprì una enorme porta circolare. La gru cominciò a entrare in azione, afferrando una delle creature di quel mondo senza tempo, con la sua rete di tentacoli. E la misteriosa entità non oppose resistenza ma, attraverso l'apertura, venne depositata sul terreno, al di fuori. Il braccio della gru ripeté la stessa operazione con la seconda creatura, la quale, nel frattempo, doveva essersi resa conto della cessazione del raggio ritardante, perché appariva meno tranquilla e remissiva di prima. Oppose una timida resistenza e cominciò a dibattersi quando i tentacoli della gru la afferrarono, poi mise fuori delle membra dall'aspetto di piume, e raggi-dita che tentavano debolmente gli artigli della gru. Comunque, in pochi istanti, andò a raggiungere l'altra, all'esterno. Nello stesso tempo, aveva cominciato a manifestarsi un incipiente cambiamento nella terza creatura. Chandon aveva l'impressione di assistere all'epifania, alla rivelazione di una divinità latente e nascosta per eoni, che stava assumendo il suo vero aspetto, emergendo dalla crisalide di materia come una fredda stalagmite germogliante in migliaia di palloni di fuoco e
vapore. In una sequenza apocalittica, la «cosa» parve espandersi, erompere al di fuori di sé, mutando tutta la sua sostanza, sviluppando organi ed attributi che potevano appartenere soltanto ad una evoluzione super-materiale. Eoni di vita stellare, di cicli planetari, di lenta alchimia di atomi, si compendiarono in quell'istante. Chandon non riuscì nemmeno a formarsi un'idea chiara di quello che stava accadendo. La metamorfosi andava troppo oltre le possibilità interpretative dei sensi umani. Vide qualcosa di enorme torreggiare su di lui, riempire la nave spaziale fino al soffitto e premere terribilmente contro le pareti a cono e trasparenti. Poi, con una violenza senza nome, la stessa nave spaziale si frantumò in migliaia di frammenti che brillavano come cocci di vetro, e che sibilavano nell'aria con una nota lamentosa, mentre venivano scagliati e cadevano in tutte le direzioni. Gli parve di essere sollevato di colpo ad un'altezza difficile da calcolare, in assenza di paragoni e di dimensioni familiari, poi il cilindro si immobilizzò sulle spalle, che sembravano costituite di vapori, dell'Entità Eterna, e si stabilizzò con la stessa sicurezza come se fosse stato depositato sulla superficie di qualche lontanissimo mondo, separato dal resto e solo nello spazio. E, al di là della paura, della sorpresa e dello stupore, come in un incubo, si rassegnò al rapidissimo svolgersi del miracolo. Cercò soltanto di spingere lo sguardo verso l'alto e vide troneggiare su di lui, simile ad un cumulo di nubi, con soli corruschi e squassati da tempeste cosmiche per occhi, la testa mostruosa dell'essere che aveva mandato in briciole l'astronave extraterrestre dei viaggi nel tempo, ed era balzato fuori da quelle rovine come un genio sfrenato e ribelle. Come dalla sommità di una torre altissima, vide la pista color diamante dalla quale stava sciamando la moltitudine degli esseri color argento. Poi, da terra, si levò verso il cielo qualcosa che sembrava una colonna di fumo di una mostruosa esplosione, e scorse le sagome delle altre Entità Eterne che si stavano lanciando verso l'alto, in una crescita rapidissima. Tumultuando paurosamente, con l'impeto di un ciclope, si drizzarono accanto alla prima, per completare quella inaudita trinità. Però, per quanto avessero raggiunto una statura incredibile, i piloni che le circondavano erano ancora e sempre più alti, ed i pinnacoli e le terrazze pensili, le piramidi capovolte e le torri cuneiformi, si stagliavano ancora molto al di sopra di quelle creature diaboliche, sullo sfondo dell'orizzonte diamantino, come gli
oscuri, colossali custodi di un Inferno. Chandon era letteralmente travolto da migliaia di sensazioni. Percepiva la divina ed illuminata energia risvegliata da un sonno eterno che si stava dispiegando con quella dinamica violenza, nella dimensione tempo. E, nello stesso istante, le potenti e vibranti radiazioni di quel nuovo mondo, in lotta contro di esse, nello sforzo di sottometterle e di imbrigliarle con una forza concentrata e insidiosa. Quelle radiazioni luminose erano agguerrite e prepotenti nel loro impetuoso assalto, e le ombre proiettate dalle cupole e dai peristilii davano l'idea della rovinosa caduta di migliaia e migliaia di massi silenziosamente vomitati da uno spaventoso, crudele, e tacito Averno. Dalla pista, le lenti si concentrarono verso l'alto, come gli occhi di Ciclopi boreali, rivolgendo i loro raggi agghiaccianti sui giganti circonfusi di nubi e vapori. A intervalli, il cielo stesso lampeggiava di folgori incandescenti, simili al riflesso di un milione di lontane fornaci: e Chandon udì il sordo e cupo brontolìo echeggiante, come di campane lontane o di tamburi, o di terra battuta, che si elevava verso di lui da tutte le parti, nell'area pulsante. Tutti gli edifici circostanti parvero farsi più scuri, come se avessero raccolto in se stessi un più intimo e diabolico nero ebano, e lo stessero irradiando per incantare e tramortire i sensi. Ma, al di là di tutto questo, al di là delle stesse percezioni fisiche, Chandon avvertiva l'oscuro magnetismo che affluiva in onde continue, ininterrotte, che ribolliva davanti alla barriera della sua volontà, e che cercava di annientare la sua mente per distogliere i suoi pensieri e ridurli ad una specie di mostruosa schiavitù. Senza parole, ma concentrate in tumultuose immagini terribilmente strane, ebbe coscienza di un veleno disumano, di un odio extra-stellare. Persino le pietre di quei ciclopici edifici agivano di concerto con i cervelli di quel popolo alieno, nello sforzo di assumere il controllo di Chandon e delle tre Entità Eterne! Il terrestre si rendeva oscuramente conto che non soltanto avrebbe dovuto sottomettersi agli esseri color argento, ma che avrebbe dovuto eseguire la loro volontà in tutto. Tanto lui quanto i suoi compagni erano stati trasportati dall'eternità per un fine ben determinato... aiutare i loro catturatori in qualche strana guerra contro un popolo rivale, sul loro stesso pianeta. Come l'umanità impiega nei conflitti degli esplosivi di titanica potenza, così le creature color argento desideravano impiegare le energie non soggette al tempo delle Entità Eterne, contro un nemico fatto a loro immagine
e somiglianza! Avevano scoperto la rotta fra le dimensioni segrete del tempo e quelle dell'eternità. Con una temerarietà quasi demoniaca, avevano progettato e portato a termine il loro fantastico piano e, nel contempo, avevano scambiato Chandon per una delle Entità Eterne, dotato di un latente e prodigioso slancio di vitalità e poteri semi-divini. Le onde del diabolico magnetismo si facevano sempre più intense. Chandon se ne sentì inondato, sopraffatto. Come in una sequenza televisiva, nella sua mente si formò un'immagine del nemico contro il quale veniva quasi «scongiurato» di combattere. Vide le abbaglianti prospettive di paesaggi lontani, che nulla avevano di terrestre, ed i brulicanti agglomerati di città umane, sotto la vampa di un sole incandescente, infinitamente più grande di Antares. Per un attimo, si sentì pervadere dall'odio per quelle terre e quelle città, dettato dal freddo, impersonale rancore di una psicologia extraterrestre. Poi, come se il gigante sulle spalle del quale si reggeva, lo avesse innalzato al di sopra della portata del magnetismo, Chandon si rese conto che il nero mare di quelle onde non lo raggiungeva più. Era libero da quell'artigliante mesmerismo e non doveva più percepire quelle emanazioni e quelle rappresentazioni aliene che, fino a pochi istanti prima, gli avevano invaso la mente. Si sentì avvolgere da una quiete miracolosa e da un senso di sublime sicurezza. Era il centro di una sfera di una forza resistente ed elastica, che nulla era in grado di sottomettere o di scompigliare. Come assiso su un trono di montagne, osservò la triade demiurgica delle Entità Eterne, incurante e sprezzante dei pigmei sottostanti, che aveva ripreso a crescere a velocità incredibile e si stava lanciando verso l'altro, raggiungendo e sorpassando la sommità degli edifici più elevati. Infatti, un attimo dopo, poteva affacciarsi sulla babelica sfilata di strade cupe, affollate di abitanti color argento e sulle grandi arterie extra-urbane di una megalopoli tentacolare e scorgere i lontani e incerti orizzonti del pianeta senza nome. Gli pareva di conoscere i pensieri di quelle Entità Eterne, mentre stavano contemplando quel mondo, in cui empi abitanti avevano concepito il folle proposito di asservire la loro incontenibile assenza. Sapeva che quelle Entità avevano visto e capito tutto ciò, in un solo istante. Ebbe coscienza della loro momentanea perplessità dovuta alla curiosità, e dell'improvvisa, violentissima collera, nonché della irrevocabile decisione che ne seguì. Poi, ancora un po' incerti, ma deliberatamente, come se stessero sperimentando la loro potenza mai collaudata, cominciarono a distruggere la
città. Dal capo della bianca, soprannaturale Entità che reggeva Chandon, si sprigionò un cerchio di fiamme rossastre che iniziò a ruotare mentre si proiettava verso il basso per andarsi a fermare su uno degli agglomerati più alti. Al di sotto di quella corona rovente, le cupole dalla stranissima foggia e le piramidi rovesciate, cominciarono a tremare e parvero espandersi come una oscura nube di vapori. Persero i loro nitidi contorni, riverberarono le fiamme come se bruciassero, assunsero l'aspetto di sabbia scossa, sobbalzarono verso il cielo e, in una sequenza di cerchi iridati di buio e di morte, impallidirono e sparirono risucchiate da quell'insopportabile bagliore. Dalle Entità Eterne continuavano ad emanare gli agenti visibili ed invisibili della distruzione; dapprima lentamente, poi con un'accelerazione ciclonica, come se la loro furia stesse aumentando e si immedesimassero sempre di più nel terribile ruolo di semidei. Dai loro corpi non umani, come da rupi scoscese, scaturivano ruscelli roventi e rabbiose cateratte di energia; scendevano saette, sfere, ellissi, ruote di fuoco bianco o di vario colore, per cadere sulla città condannata, come una pioggia di meteore infernali. Gli agglomerati di edifici si dissolsero in scorie liquide, e le colonne e le terrazze pensili svanirono in sbuffi e spire di vapore e di fumo, sotto l'azione di quella tempesta di fuoco. La città si trasformò in torrenti di lava, in cumuli e trombe di polvere spettrale, in fiammate nereggianti che si slanciavano verso il cielo, come spaventose aurore boreali. E su quelle rovine avanzarono le Entità Eterne, aprendosi il cammino. Alle loro spalle, sulla scia completamente rasa che seguiva il loro passaggio, apparivano fuoco e distruzione, e persino il terreno e le pietre si dissolvevano in immensi vortici roteanti che intaccavano la superficie del pianeta, penetrando fino al nucleo. E, come se avessero assorbito le molecole e gli elettroni di tutto ciò che stavano distruggendo, le Entità Eterne continuavano a crescere in altezza ed in mole. Chandon assisteva a tutto quanto da quella specie di nido d'aquila, con distacco, come davanti ad una cosa remota. Da una postazione mobile e inattaccabile, osservava la pioggia ardente che consumava quella Sodoma ultragalattica: i cerchi della devastazione che si allargavano a velocità spaventosa in tutte le direzioni e si affacciavano da un punto sempre più alto su vasti orizzonti che sembravano ritirarsi tremolanti dinanzi a giganti senza tempo. E quelle Entità scagliavano i loro cerchi di fuoco ed i loro raggi con un
ritmo sempre crescente. E prolificavano a vista d'occhio, dando origine ad infiniti altri giganti che spuntavano da tutte le parti, disseminati come i denti del dragone della favola, per tutte le longitudini del grande pianeta, fino ai poli. Ben presto si lasciarono alle spalle la città incenerita, varcando mari e deserti mostruosi, pianure sconfinate ed alte catene di montagne, dove brillavano altre città, tanto più in basso di Chandon da sembrare pietruzze che riflettessero la luce del sole. E si scatenarono ondate di fuoco atomico che spazzarono le prodigiose montagne, furiosi globi fiammeggianti che fecero evaporare i mari all'istante e che mutarono i deserti in oceani tempestosi. Archi, cerchi, quadrilateri di distruzione che continuavano l'opera di annientamento, penetrando nel più profondo del suolo. La stessa intensa luminosità del mezzogiorno era smorzata da un caotico cielo di tenebre. Il potentissimo sole ora sembrava un Ciclope sanguinante, un Laocoonte in lotta contro le spire dei serpenti fatte di nuvole e di ombra, sbalordito e disorientato, e che stesse correndo di qua e di là, come il pianeta sussultante sotto quell'intollerabile calpestamento di macrocosmici Titani. Tutte le terre sottostanti erano ricoperte da nubi mefitiche che si squarciavano soltanto a tratti, lasciando intravvedere i continenti che si gonfiavano, si sollevavano, e fondevano. E, a tutto quel caos apocalittico, gli elementi del mondo condannato andavano aggiungendo le loro energie scatenate. Nuvole nere alte come l'Himalaya, intersecate da nembi di fuoco ruggente, seguivano il passaggio dei distruttori. Il suolo si frantumava liberando il magma incandescente in geysers vulcanici che balzavano verso il cielo, con la furia di una cateratta. I mari si ritiravano, scoprendo tetre giogaie di picchi e rovine sommerse da millenni e, rombando negli abissi più profondi, erano risucchiati da enormi fenditure della crosta del pianeta per andare ad alimentare i ribollenti vulcani che ne costituivano il nucleo. L'aria era tutta una ridda di tuoni, come se Tifone fosse riuscito a liberarsi dal suo carcere sotterraneo, insieme al ruggire di lingue di fuoco che si sprigionavano dai roventi abissi di un inferno sbriciolato, con qualcosa che rassomigliava al lamento, al pianto di geni intrappolati dal crollo delle montagne, ed all'urlo di spaventosi demoni, risorti dai sepolcri primordiali. E Chandon, al di sopra di tutto quel tumulto, continuava, guardando in basso dalla calma altitudine dell'etere e da una posizione che uguagliava quella del sole e gliene forniva tutti i vantaggi, a contemplare quel mondo sconvolto ed in dissolvimento che man mano si andava avvicinando al sole
enorme. Il fragore del cataclisma ed il rombo dei tuoni sembrava essersi affievolito. I mari di quella catastrofica rovina turbinavano ai piedi delle Entità Eterne, come una risacca morente. I furiosi vortici di acqua e le trombe di vento che inghiottivano tutto, si erano ridotti ad effimeri sbuffi di polvere, sollevati dai passi degli Esseri. Poi, al di sotto di lui, non ci fu più che la nebulosa distruzione di un mondo. L'Entità, sulle spalle della quale si trovava nella stessa condizione di un atomo su qualche parapetto planetario, stava sfrecciando attraverso il vuoto cosmico e, respinto dal contraccolpo dello slancio dell'Entità verso lo spazio, il pianeta sconvolto venne spinto alla deriva, allontanandosi negli abissi infiniti e staccandosi da quel sole attorno al quale aveva ruotato con tutti i suoi misteri, la sua vita e la sua civiltà, ora scomparse per sempre. Il terrestre riusciva solo vagamente ad avere coscienza dell'inconcepibile immensità raggiunta dagli Esseri Eterni. Percepiva i loro contorni baluginanti e l'incerta forma delle loro figure, con le spalle visibili come attraverso la coda luminosa di una cometa. Si trovava in bilico su un «essere» nebuloso, enorme come l'orbita dei sistemi solari, che si spostava ad una velocità superiore a quella della luce, sfrecciando attraverso galassie senza nome ed insospettate dimensioni di spazio e di tempo. Percepì l'incalcolabile vorticare dell'etere, vide la labirintica disposizione delle stelle che si formavano, si dissolvevano e venivano sostituite dall'agglomerarsi di altri frammenti di altri ammassi stellari. Nella fantastica sicurezza della sua sfera, come in un sogno, Chandon veniva trascinato senza sapere né dove né perché e, come il protagonista di un incubo, non era in grado di porsi domande del genere. Dopo aver contemplato un'infinità di soli sfuggenti, di spazi vuoti, di vortici galattici, di cieli, di buio, e di sistemi solari, ebbe la sensazione di una certa calma. Per un attimo, dallo spazio, contemplò un piccolo sole contornato da nove pianeti, e gli parve che avesse qualcosa di familiare. Poi, con un'ineffabile lucidità e logicità di pensiero, ebbe l'impressione di cadere verso uno dei pianeti più vicini. Le masse confuse di continenti e di mari gli stavano venendo incontro, e gli parve di precipitare come un meteorite, in una regione di ardue montagne frastagliate, con le vette incappucciate di neve che si elevavano da nereggianti spire di pinete. E, come se fosse stato delicatamente depositato da una mano gigantesca, il cilindro si fermò, e Chandon, con lo stesso stupore di chi si risveglia da
un sogno, rivide attorno a sé, le pareti del suo laboratorio nella Sierra! Le Entità Eterne, onniscienti o, per un capriccio, benevole, lo avevano riportato nel suo luogo di origine, nel suo spazio e nel suo tempo, e poi se n'erano andate, forse alla conquista di qualche altro universo, o forse a ritrovare il bianco mondo senza tempo da cui provenivano, per immergersi nuovamente nel loro pallido Nirvana di statica ed immutabile contemplazione. MEDIOEVO Il laboratorio era simile ad una cittadella. Si trovava su un'alta collina, superata soltanto dalle montagne più alte, e spaziava su numerose vallate ricche di abeti e fitte catene montuose. La luce del mattino lo raggiungeva attraverso picchi e nevi perenni; i tramonti ardevano su una pianura percorsa da fiumi, dove una foresta di alberelli si era impadronita del campo di battaglia dell'anno precedente, e selvaggi coperti di pelli cacciavano fra i cumuli di rovine delle città sibaritiche. Coloro che avevano costruito il laboratorio, negli anni in cui il più alto grado di civiltà raggiunto dalla Terra si stava rapidamente sgretolando, lo avevano destinato a fortezza della scienza, nella quale alcuni studiosi avrebbero dovuto essere protetti dalla lenta caduta verso la barbarie. Le pareti erano costruite con blocchi squadrati, provenienti da una morena glaciale; i rivestimenti in legno erano di cedro, simili a quelli del tempio del Re Salomone. Al di sopra dell'edificio principale, svettava una torre d'osservazione, dalla quale i cieli e le terre circostanti potevano essere facilmente controllate. La cima della collina era stata disboscata. Dietro l'edificio, pendii scoscesi impedivano di avvicinarsi; e, tutt'attorno, una barriera difensiva, che all'occorrenza poteva diventare fatale, era prodotta da macchinari che captavano l'energia solare per trasformarla in elettricità. Gli abitanti del laboratorio vegliavano su di essi come sacerdoti di un santuario. Si soprannominavano i Guardiani. All'inizio erano formati da coppie, uomini e donne di grande cultura e abilità, specializzati nelle maggiori scienze, che si erano relegati in quel luogo appartato, fuggendo la rovina mondiale causata dalla guerra universale, dalla carestia e dalle malattie, per le quali tutti gli altri scienziati e tecnici erano morti. La regione nella quale sorgeva il laboratorio, era allora spopolata; e l'edificio, costruito in grande segretezza, era sfuggito alle distruzioni della
guerra che avevano spazzato via intere città e coperto i grandi imperi di basse nuvole stagnanti di morte. Più tardi, sulle colline e nelle valli sotto il laboratorio, giunsero, provenienti dalla pianura, i superstiti, miseri abitanti della città. Con questa gente, brutalizzata dalle sofferenze e dai disagi, il piccolo gruppo di scienziati stabilì un piccolo commercio. Nel corso di una generazione, i Guardiani, pur contraendo matrimoni, a causa della sterilità diminuivano gradatamente di numero, mentre gli altri fuggiaschi si moltiplicavano, scivolando sempre più verso la barbarie, e ricordando solo come leggende, i ricordi della civiltà dalla quale erano fuggiti. Vivendo in caverne sulle montagne o in rozze baracche, cacciando gli animali delle foreste con lance ed archi rozzamente costruiti, dimenticarono ogni traccia della conoscenza e del dominio sulla natura posseduta dai loro antenati. Ben presto dimenticarono le macchine che, nelle città distrutte, si stavano coprendo di ruggine. In preda ad un atavico animismo, presero ad idolatrare gli elementi che i loro padri avevano sottomesso e controllato. Dapprima cercarono di assalire il laboratorio, spinti da una selvaggia bramosia di bottino e di sangue; ma, respinti con terribili perdite dalla zona dell'energia mortale, ben presto abbandonarono i loro propositi. Allora presero a considerare i Guardiani come semidei che esercitavano misteriosi e terribili poteri, e compivano strani miracoli. Ben pochi di essi ora osavano avvicinarsi al laboratorio, a seguire i cinghiali ed i cervi nelle boscose vallate attorno ad esso. Per molti anni, nessuno dei Guardiani fu visto dalla gente delle colline. A volte, di giorno si scorgevano strani vapori salire verso le nuvole dell'osservatorio; e, di notte, le finestre ardevano come stelle scese sulle colline. Si pensava che i Guardiani forgiassero le loro saette in una segretezza divina. Poi, un mattino, dalla paurosa casa sulla collina, scese un solo Guardiano. Non portava armi, ma una bracciata di grossi libri. Avvicinandosi ad un piccolo villaggio di indigeni, alzò la mano destra nel gesto universale di pace. Molti dei più timidi fuggirono di fronte a lui, nascondendosi nelle buie capanne o nella fitta foresta; gli altri abitanti del villaggio lo ricevettero con paura superstiziosa e con sospetto. Con un linguaggio che essi potevano a malapena comprendere, il Guardiano disse che era venuto per vivere fra di loro. Si chiamava Atullos.
Gradatamente si conquistò la loro fiducia; e, successivamente, si unì in matrimonio con una donna della tribù. Come Prometeo, portatore del fuoco agli antichi, cercò di civilizzare quei selvaggi; e iniziò a riprodurre, a loro beneficio, alcune delle invenzioni conservate nel laboratorio. Non comunicò loro nessuna delle ragioni che lo avevano spinto ad abbandonare gli altri Guardiani, coi quali non aveva più avuto rapporti da quando si era unito agli abitanti della collina. Atullos, non aveva portato con sé alcun bagaglio all'infuori di quei pochi libri. Per la mancanza anche della maggior parte degli attrezzi più rudimentali e dei materiali, i suoi lavori scientifici erano oberati da immense difficoltà. I selvaggi, nel loro decadimento, avevano anche perso la conoscenza dei metalli. Le loro armi erano quelle dell'Età della Pietra; i loro aratri erano bastoni ricurvi di legno indurito dal fuoco. Atullos dovette passare anni ad estrarre e forgiare i minerali che gli servivano per costruire gli attrezzi ed i macchinari; fu anche costretto a compiere lunghi e pericolosi viaggi per rifornirsi di materiali che mancavano nella zona. Da uno di questi viaggi non tornò; si pensò che fosse stato trucidato da una tribù ostile, sul cui territorio si fosse spinto durante le sue ricerche. Lasciò dietro di sé un bambino di nome Tarquane, già orfano di madre poco dopo la nascita. Inoltre, in eredità alla tribù, lasciò pochi strumenti di rame e di ferro, alla cui fabbricazione aveva istruito alcuni dei più intelligenti. I macchinari, ai quali aveva lavorato con tanta fatica e pazienza, erano solo completati a metà e, dopo la sua scomparsa, più nessuno fu in grado di completarli. Erano destinati alla produzione di energia elettrica e per il controllo e l'uso di certe radiazioni cosmiche, ma coloro che avevano assistito Atullos, non sapevano nulla dell'uso a cui quei macchinari erano destinati. Atullos aveva avuto l'intenzione di istruire il figlio Torquane alla scienza dei Guardiani; così, le conoscenze più antiche conservate gelosamente da poche persone, sarebbero tornate di nuovo di proprietà di tutto il genere umano. Quando Atullos scomparve, Torquane aveva quattro anni e non aveva imparato che l'alfabeto e poche semplici regole matematiche. A causa della mancanza della guida paterna, quelle poche nozioni gli erano di scarso aiuto e, sebbene fosse precoce e brillante per la sua età, non poteva continuare da sé quell'educazione che suo padre aveva iniziato. Nell'animo di Torquane, tuttavia, mentre si stava facendo uomo in mezzo ai suoi compagni, bruciava una fiamma di irrequietezza, una bramosia
ereditaria di sapere, che lo distingueva dagli altri. Come gli altri bambini rimasti orfani in così tenera età, seppe dai suoi amici che Atullos era stato uno dei Guardiani, e che era considerato dalla tribù come un essere dotato di poteri ed attributi divini. Era opinione comune che i Guardiani avessero cacciato Atullos a causa del suo desiderio di aiutare ed istruire la gente della collina. A poco a poco, crescendo, Torquane venne a conoscenza degli scopi altruisti del padre, che aveva sognato di riportare le antiche scienze in un mondo piombato nelle tenebre. Torquane viveva la dura esistenza degli uomini della tribù, cacciando le lepri, i cinghiali ed i cervi, arrampicandosi per colli scoscesi e per montagne. Primeggiando in tutti gli sport barbari, divenne molto robusto e coraggioso. Apparentemente, differiva poco dagli altri ragazzi, eccetto per la pelle più chiara ed i lineamenti più marcati, ed una certa aria sognante che a volte appariva nei suoi limpidi occhi. Non appena raggiunse il pieno sviluppo, divenne il capo fra i giovani, e fu considerato con un rispetto del tutto particolare, come il figlio di quell'Atullos che era divenuto una specie di dio tutelare, dopo la sua morte. Spesso il ragazzo visitava la profonda e deserta caverna che il padre aveva usato come laboratorio. Là dentro erano conservati gli attrezzi, le macchine semi costruite, i prodotti chimici, i libri ed i manoscritti di Atullos. Torquane li esaminava tutti con un grande e crescente desiderio, cercando, senza riuscirvi, di conoscere i segreti delle macchine, e sillabando con difficoltà, lettera per lettera, le parole dei polverosi volumi, il cui significato non riusciva a comprendere. Come chi si trova in un luogo buio desidera ardentemente la luce del sole, si sentiva sulla soglia di un mondo luminoso; ma la luce gli era negata, e tutti i suoi sforzi finivano in una confusione ancora maggiore. Spesso, crescendo, i suoi pensieri andavano ai misteri dell'altra e ben difesa cittadella, dalla quale un giorno suo padre era venuto per unirsi agli uomini della tribù. Da certi punti favorevoli sulle colline più alte, riusciva a distinguere le torri sullo sfondo dell'intero complesso. I suoi amici, come i loro antenati, evitavano i dintorni considerandoli un luogo di pericoli soprannaturali, dove i fulmini dei Guardiani si sarebbero abbattuti sugli intrusi. Da molti anni nessuno aveva visto i Guardiani né avevano udito le loro voci che, a quanto si diceva, in passato erano simili ai tuoni della montagna ed attiravano l'intera regione, ma nessuno desiderava penetrare nella loro cittadella. Tuttavia, Torquane, al corrente della sua affinità con i Guardiani, avreb-
be desiderato moltissimo conoscerli. Una strana curiosità lo attirava continuamente verso le colline sotto il laboratorio. Da tale posizione, però, non riusciva a vedere nulla degli occupanti o delle loro attività. Tutto era tranquillo e silenzioso, e questa calma, gradatamente, incoraggiava il ragazzo e lo avvicinava maggiormente alla casa tanto temuta. Usando tutte le sue segrete conoscenze della foresta, e procedendo con estrema cura per paura che un foglia od un ramoscello potessero scricchiolare sotto i suoi piedi, un giorno si arrampicò su per il ripido pendio ricco di vegetazione in direzione del laboratorio. Ansante ed impaurito, alla fine sbirciò da dietro al tronco nodoso di un pino sul limitare del terreno del laboratorio. Grifagne ed inespugnabili come una fortezza, le mura rettilinee e le torri quadrate, troneggiavano su di lui sullo sfondo di un cielo senza nuvole. Le finestre erano buie e nascondevano i loro segreti. Nella parte frontale dell'edificio, al di là di una porta ad arco, Torquane distinse i bagliori argentei di fontane zampillanti in un cortile inondato di sole. Il pianoro su cui sorgeva l'edificio, cominciava ad essere invaso da abeti e da pini. Alcuni di essi raggiungevano già l'altezza della spalla di un uomo, mentre altri, invece, arrivavano si e no alla cintola o al ginocchio, costituendo un debole ostacolo. In mezzo a questo boschetto, Torquane udì un forte ronzio, che pareva provocato da un invisibile sciame di api, Il suono proveniva sempre dallo stesso luogo ed aveva sempre la stessa intensità. Osservando più attentamente, scorse una zona spoglia di vegetazione, con il terreno nudo, dell'ampiezza di un metro, che si estendeva come un sentiero fra le giovani conifere e che, a quanto pareva, seguiva la stessa direzione del suono. Comprese immediatamente che quel sentiero costituiva la barriera oltre la quale non si poteva passare; il ronzio era il rumore prodotto dalla letale forza che respingeva. Buona parte dell'area fra gli alberi ed il laboratorio era coperta con siepi di cespugli, e vi era pure un piccolo giardino fiorito. Il luogo era stato accuratamente pulito ed innaffiato di recente: ma, in quel momento, non vi si trovava anima viva. Come Torquane poté osservare ed ascoltare, cominciava ad udirsi un pulsante rumore metallico proveniente dall'edificio la cui origine non conosceva, né poteva immaginare. Spaventato dal crescente rumore, che sembrava pieno di misteriose minacce, Torquane fuggì lungo la scarpata boscosa e, per molti giorni, non si arrischiò più a tornare. La curiosità, ed una emozione ancora maggiore di cui non riusciva a de-
finire la natura e l'origine, lo stimolavano a tornare in quel luogo nonostante la sua vasta, quasi superstiziosa paura, ed una sensazione di pericolo. Come in precedenza, facendo capolino dal riparo dai vecchi pini, per la prima volta scorse uno degli abitanti del laboratorio. A non più di venti yarde di distanza dal suo nascondiglio, una ragazza era china sulle violette e sulle viole del pensiero, nel giardino fiorito. Torquane pensò di aver visto una dea: fra tutte le ragazze del villaggio, non ve n'era una che avesse metà della grazia, e della amabilità di quell'essere incredibile. Vestita con abito di un verde brillante, con i capelli biondi come una luminosa cascata fluente sulle spalle, pareva gettare raggi di luce suoi fiori, mentre si muoveva fra di loro. Attratto da uno strano fascino mai provato prima, il ragazzo si sporse dal riparo del pino, dimentico delle sue paure e senza rendersi conto che si stava esponendo alla vista. Solo quando la ragazza volse lo sguardo verso di lui e lanciò un piccolo grido di spavento non appena lo vide, si rese conto dell'imprudenza con la quale si era tradito. Torquane era combattuto fra l'impulso di fuggire ed una forte, irragionevole attrazione che gli impediva di farlo. Capì che la ragazza era una dei Guardiani, e che i Guardiani erano semidei che non desideravano avere rapporti con gli uomini. Tuttavia, per mezzo di suo padre, poteva rivendicare diritti di parentela con quei nobili esseri. La ragazza era così bella, ed i suoi occhi, mentre lo osservava fra i fiori, così benevoli e gentili malgrado la sorpresa, che il ragazzo smise di pensare alle gravi conseguenze che la sua audacia avrebbe potuto causare. Sicuramente, se egli fosse rimasto ed avesse parlato con lei, la ragazza avrebbe impedito che la terribile punizione dei Guardiani si rivolgesse contro di lui. Sollevando le mani in un gesto di pace, si incamminò attraverso le conifere, fermandosi solo quando raggiunse lo sgradevole ronzio della barriera. La ragazza lo osservava con viva sorpresa, gli occhi sbarrati ed il viso pallido che poi arrossì quando notò la bellezza di Torquane e l'ardore del suo sguardo. Per un momento parve che la ragazza dovesse voltarsi e lasciare il giardino. Ma, come se avesse vinto la sua esitazione, si avvicinò un po' alla barriera. «Devi andartene», disse, con parole che differivano alquanto dal dialetto familiare a Torquane. Ma il ragazzo capì ugualmente, e la stranezza di quel linguaggio gli sembrò divina. «Vattene immediatamente», replicò la ragazza, con voce tagliente. «Non
è concesso ai barbari venire qui.» «Ma io non sono un barbaro», rispose con orgoglio Torquane. «Io sono il figlio di Atullos, il Giardiniere. Il mio nome è Torquane. Non possiamo essere amici?» La ragazza era visibilmente sorpresa e turbata. A sentire il nome di Atullos, un'ombra oscurò i suoi occhi; subito dopo sembrò pervasa da un oscuro terrore. «No, no», insistette. «È impossibile. Non devi più tornare qui... Se mio padre lo venisse a sapere...» Il quel momento il ronzio della barriera si fece più intenso e più forte, simile al rumore prodotto da milioni di vespe, come si può sentire durante un violento temporale. Tutto in una volta l'aria fu percorsa da scintille e da vivide linee infuocate, e percorsa da ardenti ondate di calore. Davanti a Torquane i piccoli pini e gli abeti cominciarono ad avvizzire rapidamente, ed alcuni di essi vennero avvolti dalle fiamme. «Fuggi! fuggi!», udì gridare la ragazza, mentre si stava ritraendo dalla barriera. Lei fuggì verso il laboratorio voltandosi di tanto in tanto a guardare dietro le spalle. Torquane, semiaccecato dalla cortina di fuoco, vide che un uomo era comparso sul portale, e che si stava dirigendo verso di lei. Era anziano, con una gran barba bianca, ed il suo volto severo era come quello di un dio irato. Torquane notò che l'uomo si era accorto di lui. Se indugiava ancora, la sua sorte sarebbe stata uguale a quella dei piccoli alberi. Nuovamente invaso dal terrore, fuggì precipitosamente nell'intrico dell'antica foresta. Prima di allora, Torquane aveva conosciuto solo gli oscuri istinti dell'adolescenza. Si era curato poco delle fanciulle del popolo delle colline, che erano piuttosto selvagge benché spesso molto belle. Senza dubbio, a suo tempo, avrebbe scelto una di esse ma, avendo visto la bionda figlia del Guardiano, pensava solo a lei, ed aveva il cuore sconvolto dal turbinare di una passione irragionevole sia per la temeraria audacia quanto per l'apparente inutilità. Orgoglioso e reticente per natura, teneva nascosto il suo umore agli amici, che si meravigliavano alquanto per il suo cattivo umore ed i suoi momenti di accidia alternati ad una attività frenetica sia nel lavoro che nel gioco. A volte si rinchiudeva per giorni e giorni in profonda meditazione, contemplando le macchine ed i libri di Atullos; altre volte guidava i più giovani alla caccia di animali feroci, rischiando la propria vita con un disprez-
zo mai posto in essere prima. E spesso si assentava per solitarie spedizioni delle quali non forniva alcuna spiegazione. Quei vagabondaggi avvenivano sempre nei pressi del laboratorio. Per l'ardore ed il coraggio giovanile di Torquane, il pericolo di tali visite, anziché un freno, costituiva uno stimolo. Tuttavia, fece sempre attenzione a non farsi vedere, e si tenne sempre a rispettosa distanza dalla barriera ronzante. Spesso vedeva la ragazza muoversi nel giardino, intenta a curare i fiori e le piante; e poneva tutto il suo disperato desiderio in quegli sguardi, sognando di rapirla con la forza, o di diventare il padrone del laboratorio. Sagacemente sospettava che i Guardiani fossero pochi, dal momento che aveva visto solo la ragazza ed il vecchio, che probabilmente doveva essere suo padre. Ma non gli passò neppure per la mente che quei due potessero essere i soli abitanti di quella imponente cittadella. E inoltre aveva l'impressione, dovuta alla logica dell'innamorato, di non essere piaciuto alla ragazza. Gli aveva ordinato di andarsene, lo aveva chiamato barbaro. Cionondimeno, era sicuro che la ragazza non era rimasta offesa dalla sua presunzione quando le si era avvicinato. Era certo che avrebbe ottenuto il suo amore se ne avesse avuto l'opportunità. Sposando la figlia di un Guardiano, avrebbe avuto accesso a quel mondo di splendore e di sapienza dal quale era venuto via suo padre; quel mondo che aveva a lungo stuzzicato i suoi sogni. Instancabilmente faceva piani, per cercare di trovare il modo di forzare la barriera, o per poter comunicare con la ragazza senza attirare su di sé l'ira del Guardiano. Una volta, al chiaro di luna, cercò di scalare i dirupi alle spalle del laboratorio, avanzando rischiosamente palmo a palmo. Rinunciò al tentativo solo quando giunse ad una parete rocciosa che si ergeva alta, levigata come il metallo. Ed infine, un giorno, mentre Torquane si stava aggirando nuovamente fra gli alberi che si spingevano fino al limitare del giardino del laboratorio, si rese conto di un silenzio irreale che pesava in modo opprimente su tutte le cose. Per alcuni istanti restò confuso, non riuscendo a comprendere la causa. Poi comprese: il silenzio era dovuto alla cessazione del ronzio che segnalava la presenza della barriera. Tutta la zona era deserta, e, per la prima volta, i pesanti portali di legno di cedro erano chiusi. Da nessuna parte non un suono o segno di attività. Per un momento Torquane rimase sospettoso, temendo una trappola con l'istinto di un selvaggio. Non conoscendo nulla del macchinario, non si re-
se conto che la forza repulsiva era venuta a mancare a causa di un guasto dei suoi generatori segreti. Perplesso e stupito, rimase in attesa per ore nella speranza di poter intravedere la ragazza. Ma il giardino rimase deserto, e nessuno aprì il portale. All'erta e vigile, il ragazzo rimase in attesa. Le ombre della sera cominciavano ad estendersi sulla foresta, invadendo il terreno del laboratorio. Starnazzando a gran voce, una ghiandaia blu di montagna fuggì via da un pino sopra Torquane, e volò indenne attraverso l'area che la barriera mortale aveva completamente preclusa ad ogni creatura vivente. Uno scoiattolo indiscreto passò di corsa attraverso gli alberi, attraversò il vuoto sentiero della barriera, e squittì impudentemente in un appezzamento di grano e di fagioli. Un po' incredulo, Torquane capì che la barriera non esisteva più; ma, ancora una volta, la prudenza prevalse, ed egli tornò indietro. «Varia, non possiamo riparare i generatori», disse il vecchio Phabar, alla figlia. «Il lavoro è al disopra delle nostre forze. Inoltre, i metalli che ci occorrono non possiamo più lavorarli a lungo con i delicati trasformatori atomici. O, presto o tardi, i selvaggi capiranno che la barriera non esiste più. Attaccheranno il laboratorio e troveranno solo un vecchio e una ragazza ad opporre resistenza. «La fine si avvicina perché, in ogni caso, non mi rimane molto da vivere. Ahimè! Ci fosse qualche giovanotto che mi fosse d'aiuto nei miei lavori, che difendesse il laboratorio, qualche giovane degno e ben educato a cui affidarti, ed a cui possa lasciare il mio patrimonio di sapere! Ma io sono l'ultimo dei Guardiani e, presto, l'ignoranza nella quale l'uomo è destinato a cadere sarà completa, e nessuno ricorderà più l'antico sapere.» «E quel ragazzo che dice d'essere il figlio di Atullos?», chiese timidamente Varia. «Sono sicura che è intelligente e che potrà imparare rapidamente se tu lo riceverai nel laboratorio.» «Mai!», gridò Phabar, con la voce tremante, resa forte e profonda dalla rabbia. «È solo un selvaggio, simile a tutto il resto del genere umano; piuttosto preferisco ricevere un animale selvaggio che la progenie del falso Atullos, quell'Atullos che io ho cacciato dal laboratorio, a causa della perversa passione per tua madre. Una volta ho pensato che tu fossi innamorata di quel giovane lupo della foresta. Non parlarmi più di lui.» Il vecchio scrutò sospettosamente la ragazza, con il rancore di una ostilità non sopita e la gelosia verso l'ardente Atullos negli occhi incavati, poi tornò con le dita tremanti per la paralisi, alle provette ed alle storte fra le
quali era ancora occupato in piccoli esperimenti. Tornando il giorno dopo, Torquane scoprì la scomparsa della barriera. Ora poteva avvicinarsi all'edificio come desiderava, senza il pericolo di giocarsi la vita al primo passo. Coraggiosamente si inoltrò nei giardini e seguì un piccolo sentiero che conduceva alle porte sbarrate. Giunto in vista delle finestre, depose l'arco e le frecce per terra per dimostrare i suoi intenti pacifici. Quando si avvicinò alla porta, un uomo apparve su una delle torri e diresse verso il basso un lungo tubo metallico, facendolo ruotare su un perno. Era il vecchio che aveva visto prima. Dalla bocca del tubo, uscirono in rapida successione un gran numero di piccole e silenziose frecce fiammeggianti che caddero tutto attorno a Torquane annerendo il terreno ed i fiori. La mira di Phabar era stata incerta, a causa della vista debole e delle mani tremanti, cosicché nessuna delle frecce raggiunse il bersaglio. Torquane si allontanò concludendo che il suo approccio non era ancora gradito dai Guardiani. Appena entrò nel bosco, fu spaventato da una figura umana che furtivamente si ritrasse nell'ombra. Era la prima volta che vedeva qualcuno nascosto in quella località evitata da secoli. In quella fugace apparizione, Torquane riconobbe in lui uno straniero. Non indossava abiti eccetto una pelle di lupo, ed aveva come arma solo una rozza lancia con la punta di selce. Le sue fattezze erano brutali e degenerate, e sulla fronte aveva striature fatte con terra rossa e gialla. Era facile identificare in lui un membro di quella tribù che si credeva avesse trucidato il padre di Torquane. Torquane lo chiamò, ma non ebbe altra risposta che uno scricchiolio di ramoscelli spezzati e lo scalpiccio di passi in corsa. Scagliò una freccia contro l'intruso, e lo perse di vista fra gli alberi prima di poterne incoccare una seconda. Con la sensazione che l'uomo non appartenesse né ai Guardiani né alla sua stessa gente, lo seguì per un tratto, tenendosi con una certa facilità sulle sue tracce senza riuscire tuttavia a raggiungerlo. Turbato ed inquieto, fece ritorno al villaggio. Dopodiché, giorno e notte tenne d'occhio le colline attorno al laboratorio, scorgendo più di una volta lo strano selvaggio in compagnia di altri primitivi della stessa tribù. Quei selvaggi erano molto guardinghi e, nonostante la sua conoscenza dei boschi, evitarono ogni incontro con Torquane. Divenne chiaro che il laboratorio era il centro dei loro interessi sin da quando notò che si celavano sempre nelle sue vicinanze. Di giorno in giorno aumentavano di numero, e Torquane non tardò a rendersi conto che
stavano progettando un attacco contro di esso. Da quel momento, il tormento per il suo amore contrastato si mescolò all'apprensione per la sicurezza della ragazza. Aveva tenuto nascosto ai suoi compagni questo amore, i suoi viaggi e le veglie segrete. Ora, riuniti i giovani ed i ragazzi che lo consideravano loro capo, li mise al corrente delle sue esperienze e di quanto aveva osservato. Alcuni, venuti a sapere che la barriera non esisteva più, insistevano per un assalto immediato al laboratorio, promettendo a Torquane il loro aiuto nel catturare la ragazza. Torquane, tuttavia, scuotendo la testa, disse: «Sarebbe una cattiva azione da parte del figlio di Atullos. Non voglio prendere alcuna donna contro la sua volontà. Piuttosto vorrei avere il vostro aiuto per proteggere i Guardiani, ora che sono pochi e deboli, dalle scorrerie di questa tribù straniera.» I compagni di Torquane, erano non meno desiderosi di combattere gli intrusi che di assalire il laboratorio. Infatti, gli appartenenti a questa tribù erano considerati come loro nemici naturali; e l'assassinio di Atullos non era stato dimenticato. Quando tutti seppero che si nascondevano attorno al laboratorio, molti dei pazienti guerrieri della tribù si impegnarono ad aiutare Torquane nel respingerli; e così il giovane si trovò a capo di un piccolo esercito. Vennero mandati degli esploratori ad osservare da vicino gli stranieri, che ogni giorno diventavano più audaci con nuovi rinforzi. A mezzanotte, alcuni esploratori comunicarono che si stavano ammassando sui pendii sottostanti il laboratorio. Non era facile determinarne l'esatto numero a causa della fitta foresta. Alcuni di essi erano stati visti far rotolare un pino al quale erano stati tagliati i rami con asce di pietra; era evidente che l'attacco era imminente, e che il pino sarebbe stato usato come un ariete per sfondare la porta. Torquane schierò immediatamente le sue forze, che ammontavano ad un centinaio di uomini e ragazzi. Erano armati con coltelli di rame, con lance fatte di robusto legno di quercia e con archi di corniolo, e con faretre ricolme di frecce con le punte di rame. In aggiunta all'arco ed al coltello, Torquane portava un grande orcio di polvere grigia, che aveva preso nel laboratorio di Atullos. Anni prima, durante la sua fanciullezza, spinto da un immaturo senso di sperimentazione, aveva lasciato cadere un pizzico di quella polvere sopra un po' di carbone, ed era stato scosso dalla fragorosa esplosione che ne era seguita. Dopodiché, accorgendosi di essere completamente all'oscuro di
quelle cose, aveva avuto paura di fare esperimenti con gli altri prodotti chimici preparati e messi da parte da suo padre. Ora, ricordando le proprietà della polvere, gli venne in mente che avrebbe potuto farne uso, nella battaglia contro gli invasori. Marciando il più rapidamente possibile, il piccolo esercito raggiunse l'altura illuminata dalla stelle, sulla quale sorgeva il buio laboratorio. Il pendio boscoso, apparentemente era sgombro dai selvaggi stranieri, che vi si erano arrampicati nelle prime ore della notte; Torquane cominciò a temere che avessero già assalito e conquistato l'edificio. Tuttavia, quando Torquane ed i suoi uomini sbucarono dalla foresta sul limitare del giardino, videro che l'attacco era appena iniziato. Il terreno era brulicante di figure che furtivamente e silenziosamente, a malapena visibili, si muovevano di concerto verso il buio e quieto edificio. Pareva un esercito d'ombre che assediasse una fortezza fantasma. Quindi, quella calma innaturale venne squarciata da un enorme fracasso unito ad un urlo orribile e feroce da parte dei selvaggi. Torquane ed i suoi compagni, slanciandosi in avanti, videro il centro della schiera indietreggiare un po', e che l'attacco era riuscito a sfondare le porte di cedro al primo colpo, e veniva ripetuto un secondo tentativo. Torquane, alla testa dei suoi uomini, diede fuoco con un tizzone di pino impregnato di pece, alla miccia di fibre vegetali infiammabili che aveva preparato per l'orcio di terracotta. La miccia bruciò pericolosamente vicino al contenuto dell'orcio prima che fosse giunto alla distanza di lancio. Udì un altro e più forte fracasso, seguito da selvagge grida di trionfo, come se la porta fosse stata spazzata via. Poi l'orcio, lanciato con tutte le sue forze, esplose con un grande bagliore che illuminò tutto lo scenario con una detonazione assordante come un tuono fra le montagne. Torquane, che era preparato a qualche violento risultato, venne gettato a terra da una forza terribile; i suoi compagni si fermarono atterriti, credendo d'essere stati testimoni della caduta di una saetta infuocata lanciata da qualche Guardiano nascosto. Una simile credenza, a quanto pareva, si era impressa ancor di più nella mente degli assedianti: per questo erano fuggiti in tutte le direzioni con grande disordine. Alcuni vennero trafitti con le lance nell'oscurità dagli uomini di Torquane, e gli altri si sparpagliarono fra i pini urlando di spavento. Così, per la prima volta dall'inizio dell'Evo Oscuro, la polvere da sparo fu usata in battaglia.
Torquane, rialzatosi in piedi, vide che la battaglia era già terminata. Avanzò cautamente, e raggiunse i corpi smembrati di parecchi invasori che giacevano sparsi su una parte del giardino devastata e profondamente butterata dall'esplosione. Tutti gli altri, a quanto pareva, o erano fuggiti, o erano stati catturati dai suoi guerrieri. Vi erano poche probabilità che i selvaggi potessero ripetere presto il loro assalto al laboratorio. Tuttavia, per il resto di quella notte, Torquane ed il resto della compagnia restarono di guardia attorno all'edificio. Temendo che i suoi abitanti li scambiassero per nemici, si avvicinò più volte alle porte, gridando ad alta voce le sue intenzioni pacifiche. Aveva sperato in qualche segnale da parte della ragazza ma, nel cortile oltre la porta fracassata, non vi era nulla all'infuori dello spettrale zampillare delle fontane. Tutte le finestre erano buie, ed un silenzio di tomba pesava sull'edificio. Alle prime luci dell'alba, Torquane, in compagnia di due o tre dei suoi guerrieri, si arrischiò ad entrare nel cortile. In un angolo sul lato opposto, raggiunsero una porta aperta che immetteva in un lungo corridoio deserto, fiocamente illuminato da una sola lampada che emanava una misteriosa luce blu. Continuarono ad avanzare, e Torquane lanciò un richiamo ad alta voce, ma gli rispose solo l'eco profondo. Un po' timorosi, e chiedendosi se quel silenzio potesse far presagire qualche trappola, raggiunsero la fine del corridoio e si fermarono sulla soglia di una immensa camera. Il luogo era pieno di macchinari sconosciuti e complicati. Alte dinamo torreggiavano sino al lucernario del soffitto; e dappertutto, su panche di legno, su scaffali, o su tavoli coperti di pietra, vi erano vassoi enormi e di forma bizzarra, con sopra fiale e contenitori pieni di liquidi incolori o colorati. Scintillanti e silenziosi motori erano ammassati negli angoli. Congegni di un centinaio di tipi, il cui uso il giovane barbaro non riusciva ad immaginare, erano sparpagliati sul pavimento od accatastati lungo le pareti. In mezzo a tutto quel parapiglia, un vecchio sedeva davanti ad un tavolo pieno di fiale, su una sedia di legno di cedro. La luce del mattino senza sole, livida e spettrale, si mescolava con l'alone della lampada blu sui suoi lineamenti incavati. Accanto a lui, la ragazza teneva gli occhi sbarrati sugli intrusi. «Noi veniamo come amici», gridò Torquane, posando l'arco sul pavimento. Il vecchio Guardiano, guardandolo torvo con rabbia senile, cercò di alzarsi dalla sedia, ma ricadde come se lo sforzo fosse stato superiore alle
sue forze. Parlò debolmente, e fece segno con le dita tremanti verso la ragazza, la quale, prendendo dal tavolo un bicchiere pieno di un liquido limpido come l'acqua, glielo porse con un gesto fermo. Il vecchio bevve una parte di quel liquido e poi, dopo un tremito convulso, si abbatté sulla sedia, la testa ciondoloni sul petto ed il corpo scosso da fremiti sotto la tunica. Per un istante, con gli occhi dilatati e pallida in volto, la ragazza guardò nuovamente verso Torquane. Sembrava titubante. Poi, facendo gocciolare il resto del liquido incolore dal bicchiere nelle mani, cadde a terra come una statua. Torquane ed i suoi compagni, confusi e disorientati, si fecero avanti. Un po' incerti per la strana atmosfera che li circondava, si arrischiarono a osservare meglio la ragazza distesa a terra ed il vecchio seduto. Era chiaro che entrambi erano morti; si resero conto che quel liquido limpido come l'acqua doveva essere stata una pozione più rapida e violenta di qualsiasi altra da loro conosciuta; un veleno che faceva parte della scienza dei Guardiani. Torquane, osservando il volto immobile ed impenetrabile di Varia, si sentì pervadere da una oscura sensazione di dolore e frustrazione. Non era così che aveva sognato di entrare nella cittadella e di conquistare la figlia del Guardiano. Non avrebbe più potuto ripristinare il misterioso sapere dei Guardiani, né capire i loro macchinari, o leggere le loro formule cifrate. Non sarebbe toccato a lui portare a termine i tentativi di Atullos, e illuminare nuovamente il mondo con la scienza. Tutte queste cose, con Varia come moglie ed insegnante, sarebbero state possibili. Ma, ora, sarebbero dovuti passare molti secoli, prima che la notte della barbarie potesse diradarsi, ed altre mani, non quelle di Torquane o dei suoi figli, avrebbero riacceso la fiaccola della scienza antica. Tuttavia, sebbene nel suo dolore e nella sua frustrazione non lo sapesse, c'erano ancora altre cose: le pure, dolci labbra della semplice ragazza delle colline che avrebbe generato i suoi figli: la selvaggia, libera vita dell'uomo, in lotta da pari a pari con la natura, osservandone con rispetto le sue leggi; il sole e le stelle non più offuscate da nubi prodotte dall'uomo; ed infine l'aria non più contaminata dalle sue città in continuo fermento. I FANTASMI DEL FUOCO
L'estate stava volgendo al termine, e la strada per Georgetown era ricoperta di uno spesso strato di polvere che si era anche depositato, come un drappo funebre, sulle siepi e sui pini che la fiancheggiavano. Siccome aveva camminato a piedi da Auburn, senza trovare un passaggio in auto, l'uomo che la stava percorrendo, con il bruciante sole pomeridiano che gli picchiava sulla schiena, non era meno impolverato degli alberi. Ogni tanto si fermava per tergersi il sudore dal viso con un fazzoletto stinto, o per gesticolare alle rare automobili che sfrecciavano via, senza concedergli un passaggio. I vestiti che indossava, benché non proprio a brandelli, avevano l'inconfondibile aspetto sciatto degli abiti nei quali si è dormito. Era magro, con le spalle curve e l'aria scoraggiata; nell'insieme, aveva l'aspetto del vagabondo di professione, e la gente di campagna è piuttosto sospettosa nei confronti dei vagabondi. «Mah! penso che dovrò farmela a piedi fino alla fine», si disse con una punta di autocommiserazione. «Però non mi rimane più molto, adesso... Accidenti, che caldo... e come è tutto secco.» Girò lo sguardo sul familiare paesaggio di erbe inaridite e di fiori ingialliti, con occhio da intenditore. «Mi stupisco che non siano ancora scoppiati altri incendi... è sempre in questo periodo dell'anno che si verificano.» Quell'uomo era Jonas Mc Gillicuddy, e stava tornando a casa dopo una lunga assenza. Nessuno sapeva del suo ritorno, che doveva essere insospettato per la moglie e i tre figli, come lo era stata la sua partenza. Stanco di dover quasi estorcere i mezzi di sostentamento da una piccola vigna e da una modesta piantagione di pere, sul suolo pietroso dell'Eldorado, e stufo delle continue lamentele della moglie nevrastenica e profondamente delusa, Jonas, tre anni prima, dopo una lite più amara e più accesa del solito, si era allontanato di casa, insalutato ospite. Da quel momento non aveva più saputo nulla della famiglia, per la semplice e valida ragione che non aveva mai cercato di comunicare con essa. I vari tentativi per procacciarsi i mezzi di sussistenza non erano approdati a risultati più consistenti di quelli del frutteto, e lo avevano costretto a vagare senza scopo e senza successo, da un posto all'altro, da una sistemazione all'altra... sempre più desolato e meno fiducioso in se stesso. Per un uomo del suo temperamento, così incostante ed instabile, quando si sentì deluso e stanco di combattere una battaglia senza speranza, non fu affatto innaturale pensare di tornare. Il tempo aveva mitigato il ricordo del carattere impossibile della moglie, dei suoi scatti bisbetici, ma non aveva cancellato dalla memoria i suoi modi materni quando era di umore trattabi-
le, e l'eccellente modo di cucinare. E adesso, con le tasche vuote, poiché gli ultimi soldi gli erano appena bastati per il treno fino a Sacramento, Jonas era giunto nelle vicinanze della sua fattoria, circondata dalla foresta, oltre Georgetown. Il territorio che stava attraversando era scarsamente popolato, con un susseguirsi quasi ininterrotto di colline che declinavano dolcemente e di valli mai coltivate. Le poche fattorie sorgevano nell'isolamento più assoluto. Sullo sfondo, nell'azzurro sfumato dell'orizzonte lontano, apparivano le nevi vaghe e spettrali delle Sierras. «Accidenti, come mi andrebbe una delle torte di pere di Matilda!», pensò il vagabondo. Si sentiva venire l'acquolina in bocca. Infatti non era abbastanza riflessivo da chiedersi quale accoglienza avrebbe avuto, e non era andato più in là dall'immaginare una terribile scenata da parte di Matilda, per la sua assenza: «Dopotutto, la vecchia sarà molto contenta di rivedermi», si consolò. Poi cercò di immaginarsi i figli: il ragazzino di cinque anni e le due bambine di tre e di due, quando li aveva visti l'ultima volta. «Forse si saranno dimenticati di avere un papà». Il pomeriggio, fino a quel momento, era stato tranquillo e afoso, senza un filo d'aria, immerso in un silenzio quasi imbronciato. Adesso, da nordest, lungo la strada che stava percorrendo, spirava un alito di vento, e gli giunse alle nari l'inconfondibile ed acre odore di alberi e di erbe bruciate. «Per l'Inferno, un incendio c'è stato, dunque!», mormorò Jonas, con un sobbalzo si preoccupazione. Spinse ansiosamente lo sguardo in avanti, ma sulle colline grigioverde non c'era traccia di fumo. Ad ogni modo doveva già essere tutto finito. Raggiunse la sommità della salitella e vide l'area bruciata, ai due lati della strada, per una estensione indeterminabile. Dovunque il fogliame annerito delle querce avvizzite dalla vampa, i tronchi scheletrici dei pini, ed i neri rami delle macchie. Alcuni tronchi abbattuti e dei vecchi ceppi stavano ancora bruciando lentamente qua e là, come accadeva di solito per giorni e giorni, quando già l'incendio si era esaurito. Era uno scenario di completa e indescrivibile desolazione. Jonas si mise a correre, con una crescente sensazione di panico, perché ormai si trovava a meno di due chilometri dalla sua proprietà. Pensava agli alti pini olivastri così vicini alla sua baracca; quei pini che avrebbe voluto abbattere e che aveva risparmiato cedendo alle insistenze di Matilda che amava la natura selvaggia. «Sono così belli, Jonas», aveva supplicato, «che non potrei sopportare di
non vederli più.» «Speriamo che il fuoco non li abbia raggiunti», pensava adesso Jonas. «Per l'inferno, avrei dovuto abbatterli quando mi era saltato il ticchio di farlo. La baracca sarebbe stata molto più al sicuro ed avrei anche avuto i soldi del legname». La strada, in alcuni punti, era cosparsa di foglie incenerite e di rimasugli di tizzoni anneriti, e parecchi alberi erano caduti su di essa, ma ora erano stati rimossi per permettere lo scorrere del traffico. Faceva un caldo impossibile, in quella desolazione carbonizzata e fulminante, per il fatto che anche quel leggero soffio di brezza era cessato. La polvere sulle guance di Jonas si mischiava ai rivoletti di sudore che si asciugava di continuo. Per quanto irresponsabile, quel buono a nulla si sentiva oppresso da un sempre crescente senso di disgrazia che non riusciva a scacciare. Alla fine giunse alla stradicciola che dalla statale per Georgetown portava alla sua casetta. E per poco non si sentì mancare. Il fuoco era passato lasciandosi alle spalle una devastazione unica. Nonostante la stanchezza, si mise quasi a correre con lunghe falcate barcollanti e, ad una curva del viottolo, vide che il fuoco si era fermato proprio ai confini della sua proprietà. Il frutteto di peri nani lungo il pendio della collina, e lo sparpagliato vigneto di Moscato, erano proprio come li ricordava. E di là, nella macchia di pini olivastri, poteva scorgere la spirale di fumo che si alzava dal comignolo di casa sua. Ancora tutto ansante, si fermò con un senso di sollievo a ringraziare Iddio con tutto l'ardore di cui era ancora capace il suo cuore inebetito. Il sole era quasi al tramonto, quando scese il tortuoso sentiero che attraversava il frutteto, e penetrò nella macchia dei pini. Sprazzi di luce striata di sfumature dorate, si stagliavano nettamente fra le ombre allungate. Anche nell'ottuso, insensibile Jonas, la bellezza di quel paesaggio boschivo, la magìa del tramonto, la solennità degli alti pini verde carico, non poteva non destare meraviglia. Respirò a pieni polmoni, inalando i puri e balsamici aromi che il sole caldo traeva dalla foresta, provando un indicibile piacere. Adesso vedeva anche la casupola, una lunga costruzione ad un piano, che comprendeva quattro camere, con le pareti di legno grezzo, annerito dalle intemperie. Sulla soglia c'era una donna con un vestito di cotone stampato. Accanto a lei due ragazzine, e Jonas si domandò dove potesse essere il maschietto che era sempre stato piuttosto gracile, sempre malaticcio ed irrequieto. «Il mio Bill dev'essere di nuovo ammalato.» Si sentiva
felice di essere a casa, ma era ancora un po' incerto, dubbioso ed agitato da un lieve tremito, al pensiero dell'accoglienza che gli avrebbe fatto Matilda. Al suo avvicinarsi, la donna alzò lo sguardo, proteggendosi gli occhi con la mano dagli ultimi raggi del sole che filtravano orizzontalmente attraverso gli alberi. Ora poteva anche distinguere il grembiule pulitissimo, come sempre, per quanto logoro e sbiadito per le troppe lavature, come tutti i vestiti di Matilda. Lei però non sembrava accorgersi di lui, intenta invece a fissare con grande intensità qualcosa fra gli alberi. Anche le bambine fissavano quel punto, stringendosi alla madre ed aggrappandosi alla sua gonna. Jonas tentò di gridare: «Ohé, Matilde!», ma aveva la gola troppo riarsa e piena di polvere, ed il suo fu soltanto un rauco sussurro. Fece per rischiararsi la gola, ma non ci riuscì perché, in quel preciso istante, tutto ciò che gli stava dinanzi, gli alberi, la baracca, la donna e le bambine, venne travolto da una vampata ruggente di fiamme rossastre che sembravano avventarsi da tutte le parti e cancellare il mondo intero e persino il cielo, divampando altissime, in quella che non poteva essere più della frazione di un secondo. Un'esplosione di insopportabile calore, simile all'alito di mille fornaci, colpì Jonas in faccia scaraventandolo all'indietro con la forza di un uragano. Il rombo del fuoco gli si abbatté nelle orecchie come quello del mare, frammischiato ad urla umane, e fu l'ultima cosa che udì prima di perdere i sensi. Quando si risvegliò era giorno alto, ma si sentiva ancora troppo confuso per rendersi conto, in pochi minuti, che la luce ora filtrava dalle cime degli alberi da un'altra direzione, e che c'era qualcosa al di fuori del normale nella foresta sempreverde. Quando riacquistò la lucidità sufficiente per comprendere che era mattino, cominciò a notare altre cose, ugualmente singolari. Ad esempio: giaceva supino tra gli aghi anneriti degli alberi consunti dal fuoco, ed i miseri resti dei rami carbonizzati. A poco a poco, confusamente, in una specie di intontimento, cominciò a ricordare gli avvenimenti del giorno avanti: il suo ritorno alla baracca nell'ora del tramonto, la visione di Matilde e delle due bambine, e tutta quella ruggente marea di fiamme. Si guardò istintivamente i vestiti, aspettandosi di trovarli tutti bruciacchiati, ma non recavano alcuna traccia del fuoco, e anche gli aghi di pino attorno a lui erano freddi. Appoggiandosi ad un gomito, e guardandosi attorno a lui erano freddi. Appoggiandosi ad un gomito e guardandosi attor-
no, vide che non c'era il minimo filo di fumo ad indicare un incendio recente. Si alzò e si avviò verso il punto in cui sorgeva la casetta. Vide un mucchio di cenere dal quale spuntavano le teste delle travi carbonizzate. «Mio Dio!», mormorò Jonas. Era completamente stordito, e i pensieri si rifiutavano di configurarsi in modo intellegibile. Alle parole di Jonas, spuntò un uomo che, chino fra i rottami della casetta, ora cercava furtivamente di nascondere un oggetto che teneva in mano. Vedendo Jonas, uscì di corsa. Era magrissimo, indossava un soprabito impolverato e, nell'insieme, aveva un aspetto che lo faceva rassomigliare ad una vecchia poiana spelacchiata. Jonas ricordò che era Samuel Slocum, uno dei suoi vicini di casa. «Salve Jonas McGillicuddy! Così sei tornato!», esclamò in tono di autentica sorpresa: «Sei arrivato un po' troppo tardi, però», proseguì, senza lasciare all'altro il tempo di rispondere. «È bruciato tutto, quattro giorni fa.» «Ma la casetta c'era ancora, ieri sera», balbettò Jonas. «Ho attraversato il bosco al tramonto ed ho visto Matilda e le ragazzine sulla soglia, proprio come vedo te. Poi tutto è sparito in un mare di fiamme e non ho più capito nulla, fino a che mi sono risvegliato, un momento fa.» «Tu sei pazzo, Jonas!» sbottò il vicino. «Ieri sera non c'era proprio nulla: né la casetta, né Matilde, né le bambine. Sono bruciate con tutto il resto. Abbiamo udito tua moglie e le bambine invocare aiuto, ma il fuoco aveva già attaccato tutto, prima che potessi chiamare Jack Robinson: gli alberi in fiamme cadevano sulla nostra strada. Nessuno è potuto entrare in quel cerchio di fiamme e nessuno ne è potuto uscire. Te l'avevo detto, Jonas, di buttar giù quei pini...» «E i miei sono bruciati tutti?», balbettò Jonas. «Purtroppo. Però tuo figlio è morto un anno fa, e così a bruciare sono state soltanto Matilda e le due ragazzine.» FINE