JAMES CRUMLEY L'ULTIMO VERO BACIO (The Last Good Kiss, 1978) a Dick Hugo, vecchio indagatore dell'animo umano Magari vie...
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JAMES CRUMLEY L'ULTIMO VERO BACIO (The Last Good Kiss, 1978) a Dick Hugo, vecchio indagatore dell'animo umano Magari vieni qui, domenica, così per toglierti lo sfizio. Metti che la tua vita sia andata a gambe all'aria. Che l'ultimo vero bacio Che ti hanno dato sia roba di anni e anni fa. T'addentri per le strade Tracciate da dementi, passi davanti ad alberghi Chiusi da chissà quanto, a bar che invece Ce l'hanno fatta, ai turpi tentativi della gente del posto Di dare all'esistenza un colpo d'acceleratore. Di ben tenuto ci son solo le chiese. Settant'anni Ha compiuto quest'anno la galera. L'unico prigioniero È sempre dentro, e non sa più cos'ha fatto... Richard Hugo, Sfumature di grigio a Philìpsburg 1 Alla fine lo beccai, Abraham Trahearne: lo beccai che beveva birra in compagnia di un bulldog alcolizzato, tale Fireball Roberts, in una sgangherata bettola appena fuori Sonoma, California, intento a spremere anche le ultime gocce di un bel pomeriggio di primavera. Erano quasi tre settimane che Trahearne vagabondava in pieno delirio alcolico; un omaccione in uno stazzonato abito di tela cachi, simile a un vecchio soldato reduce da una lunga campagna e tutto preso a centellinare una birra dopo l'altra, come a volersi togliere di bocca il sapore della morte. Il cane si era sbracato sullo sgabello lì accanto, a mo' di piccolo e sfinito commilitone, e di quando in quando rialzava la testa per bere una sorsata di birra da un lercio portacenere piazzato sul bancone. Nessuno dei due mi degnò di un solo sguardo, mentre mi infilavo sullo sgabello che separava il bulldog dagli altri due avventori, due loschi e sfaccendati meccanici che ragionavano di sussidi di disoccupazione mai
arrivati, dei loro più recenti arresti per guida in stato d'ubriachezza, di luoghi in cui poter ancora recuperare la catena di trasmissione di una Chevrolet del 1957. Quei volti bitorzoluti e quegli accenti nasali uscivano dritti da altri luoghi, da altre epoche. Dalle tempeste di polvere degli anni Trenta, da una vecchia carretta fatta in casa, un camioncino Model T avviato a scomparire nel tramonto. Quando mi sedetti, mi lanciarono il tipico sguardo della gente di campagna, gli occhi stretti come fessure, e mi esaminarono ben bene, neanche fossi chissà che rottame pronto a fornir loro qualche pezzo di ricambio. Li salutai con un allegro cenno del capo, per annunciare che sì, l'aria di un relitto umano ce la potevo pure avere, ma mica ero ancora pronto per la demolizione. Ricambiarono il mio tacito saluto, chinando la testa con espressione vacua e pensosa, come a voler insinuare che, sì, va bene, ma a mettere in piedi un bell'incidente non ci voleva nulla. Già sbatacchiato da fin troppi chilometri su strade sbagliate, li lasciai al corso dei loro pensieri. Ordinai una birra alla donna dietro il bancone, una tipa di mezza età che si scosse dalle sue fantasticherie per accennare un sorriso assonnato. Non appena udì stappare la bottiglia, il bulldog si scosse dal suo torpore alcolico, ruttò come un drago e tirò su le strette natiche, per poi ondeggiare su tre traballanti sgabelli - tra i fumi di birra rancida e di fiatate canine - col chiaro obiettivo di propormi un affare: un bacio umido e bavoso in cambio di una sorsata di birra. Non abboccai, e lui decise di alzare la posta sbavandomi sul gomito mezzo ustionato dal sole. Trahearne abbaiò un secco ordine e schizzò una piccola quantità di birra nel portacenere. Il bulldog mi rifilò un'occhiata dolente e un sospiro, e trotterellò verso quel magro ma sicuro bottino. Nel togliermi dal braccio la saliva del cane, con un cencio bagnato che avevo trovato sul bancone e che era stato usato chissà quante altre volte allo stesso scopo, chiesi alla barista se c'era un telefono pubblico. Lei indicò in silenzio i meandri polverosi e grigiastri che si aprivano dietro il tavolo da biliardo, là dove un telefono di colore nero spuntava a mezz'aria da ombre cineree. Quando gli passai davanti, Trahearne aveva messo un robusto braccio attorno al collo tutto pieghe del bulldog, e gli recitava una serie di versi nell'orecchio mozzo. «Davanti a una scogliera ci troviamo, quasi infranta oramai. .. davanti a questo forte vento del Pacifico... questo... fetore salato di balena... ah, cristo... ma che testoni siamo stati, amico mio, ma come ci siamo ridotti... pure noi finiremo nella merda...» Poi sfoderò una risatina senza senso, come
un vecchio che brancola alla ricerca degli occhiali. Parlava da solo? Non poteva fregarmene di meno. Anch'io parlavo da solo, e da un bel pezzo. Era proprio quel che facevo, in effetti, il pomeriggio in cui l'ex moglie di Trahearne mi aveva chiamato; cazzeggiavo nel mio ufficetto di Meriwether, Montana, che vantava una splendida vista sul cassonetto traboccante, dall'altra parte del vicolo, giusto dietro il discount, e cercavo di convincermi che l'aver poco lavoro non era un grosso problema, anzi mi andava quasi a genio. Poi era squillato il telefono. L'ex moglie di Trahearne era una che andava dritta al sodo. In meno di un minuto era riuscita a spiegarmi che la salute del suo ex marito era pessima, così come le sue abitudini di bevitore, e che intendeva assumermi per rintracciarlo prima che l'ennesima fuga alcolica lo condannasse a una morte prematura. Le avevo suggerito di incontrarci, per discutere della sua offerta di lavoro, ma secondo lei avrei dovuto gettarmi immediatamente sulle tracce di Trahearne, senza perder tempo a farmi tre ore di macchina fino a Cauldron Springs. Anzi, per accelerare le procedure, aveva già fatto levare in volo un aerotaxi da Kalispell, che in quel preciso istante era diretto a sud, verso Meriwether, per recapitarmi un anticipo sotto forma di assegno circolare, un elenco dei bar preferiti di Trahearne, là all'Ovest - quei bar, in particolar modo, che gli erano serviti da fonte d'ispirazione nel corso di altre sbronze giganti - e una fotografia tratta dalla sovraccoperta del suo ultimo romanzo. «Metta che questo lavoro non m'interessi,» dissi io. «Aspetti di aver visto l'assegno, e vedrà se non le interessa,» rispose lei gelida, e riagganciò. Quando ricevetti la grossa busta gialla, all'aeroporto di Meriwether, mi bastò dare un'occhiata all'assegno per decidere che sì, quel lavoro m'interessava, ancor prima di scrutare la fotografia. Trahearne pareva grande e grosso, una sorta di scaricatore di porto in pensione, appoggiato com'era a un pilastro della veranda del Cauldron Springs Hotel, il bicchiere pieno in una mano, il sigaro acceso nell'altra. Gli anni che aveva li dimostrava tutti, anche con quel sorrisetto da ragazzino, ma si capiva benissimo che non era andato a Cauldron Springs a passare le acque. Alle sue spalle, due fantasmi artritici in accappatoio a quadri attraversavano ciabattando l'ampio e semibuio androne per raggiungere la luce del sole. Sembravano quasi sorridere, con quei volti antichi, già pregustando il momento in cui avrebbero immerso le loro fragili ossa nelle calde acque termali.
In tutti gli anni che avevo perso alla ricerca di persone scomparse - mariti, mogli, bambini - mi ero ben presto tolto dalla testa l'idea di poter guardare la foto di qualcuno e subito cogliere la vera personalità di chi vi era ritratto, ma quel bestione sembrava proprio il tipo d'uomo che dovunque passa si apre un varco, e lascia dietro di sé una facile pista. Anche troppo facile, tanto per cominciare. Tornato in ufficio, chiamai cinque o sei di quei bar e scovai il vecchiardo a Ovando, Montana, in un piccolo grande localino da pescatori chiamato Trixi's Antler Bar. Ma nel tempo che impiegai a coprire i centotrenta chilometri di distanza Trahearne se n'era già andato, annunciando al barista di essere diretto a Two Dot per dare un'occhiata alla collezione di lattine di birra di uno dei due bar della cittadina. Lo inseguii per tutto il Montana, ma quando raggiunsi Two Dot Trahearne aveva già imboccato la 666 in direzione Miles City. Da lì, si era poi diretto a sud verso Buffalo, Wyoming, con l'intenzione di scrivere un poema epico sulla Johnson County War. Così, almeno, aveva raccontato alla barista. In realtà, scoprii ben presto che Trahearne non muoveva un solo dito senza prima discuterne con tutti gli avventori del bar. Cosa che lo rendeva facile da seguire, ma impossibile da acciuffare. Battemmo l'intero West, facendo il giro dei bar e vedendo tutto quel che c'era da vedere. Il Chugwater Hotel nel Wyoming, il Mayflower a Cheyenne, lo Stockman's a Rawlins, la collezione di filo spinato nel bar del Sacajawea Hotel a Three Forks, Montana, le rocce di Fossil, Oregon, i mormoni alcolizzati sparsi in tutto lo Utah settentrionale e l'Idaho meridionale: in cerchi concentrici, in vagabondaggi senza meta. Due volte mi toccò noleggiare aerei privati nel tentativo di anticipare le mosse del vecchiardo, e due volte lui mi fregò facendosi vedere solo dopo la mia partenza. Apprezzavo il suo gusto in fatto di bar, ma mi stava costringendo a visitarne così tanti che dopo un po' avevano cominciato tutti quanti ad assomigliare a un unico, gigantesco locale. A metà della seconda settimana, la mia nota spese stava cominciando a provocarmi un qualche imbarazzo, così mi decisi a chiamare l'ex signora Trahearne per chiederle quanti altri quattrini avesse intenzione di gettare in quel pozzo senza fondo. «Tutti quelli che servono,» era stata la risposta della donna, infastidita da una domanda così assurda. Così mi sistemai alla meglio sullo strapuntino del mio pickup, un fichissimo El Camino, rassegnato a un lungo e movimentato assedio, e ripresi a seguire Trahearne da un bar all'altro, su ogni nuova strada che via via gli saltava in mente, coprendo il territorio come un cucciolo redbone sovraec-
citato, all'unico scopo di non perderlo di vista, inseguendolo nel suo peregrinare, la coda sollevata a cogliere chissà qual vento del nord che solo lui poteva sentire, l'orecchio teso a cogliere l'eco di chissà quale lontana canzone che solo lui era in grado di udire. A metà della seconda settimana, anch'io sentivo fischiarmi nel petto lo stesso, identico richiamo solitario, e se quei quattrini non mi avessero fatto così tanto comodo avrei fanculato il buon vecchio Abraham Trahearne, infilato nel mangianastri una cassetta di Willie Nelson e cercato di annegare nel mio personale fiume di whisky. Ricominciare a muovere le chiappe, insomma. Ma è per ritrovare la gente che mi pagano, non per perdere me stesso; quindi continuai a stargli alle calcagna come un vecchio segugio sulle tracce dell'ultimo procione della sua carriera. E finii per diventare ancora più matto di Trahearne. Mi ritrovai a dare la caccia ai fantasmi su grigi passi di montagna, per poi discendere in rigogliose valli ancora crivellate dalle nevi di inizio primavera. Presi a dormire negli stessi suoi motel, negli stessi suoi letti addirittura, nel tentativo di sognare le sue mosse; presi a ubriacarmi negli stessi bar che aveva già razziato lui, nella speranza che il whisky mi suscitasse chissà quali visioni. Visioni che non mancarono di arrivare, altro che, così come quegli squallidi sogni da motel, ma era tutta roba che spuntava dritta dal mio personale passato di vagabondo. Di Trahearne, non avevo la benché minima idea. Una volta, in un assembramento di roulotte ai margini del deserto del Nevada, mi scopai pure la stessa sfigata puttana, una ragazzina tutta pelle e ossa che da Cincinnati era venuta a trasportare all'ovest la sua presunta miniera d'oro, nella speranza che potesse dar frutti più copiosi; ma il pozzo di quella miniera era ormai crollato, i filoni ormai esauriti, e i solchi su quelle braccia smagrite avevano tutta l'aria di essere stati tracciati con piccozze rugginose. Quando ebbi sfogato, tra le sue ossa, fin troppe nottate di assurdo arrapamento da bar, tornai a chiederle di Trahearne. Dapprima lei non rispose, e se ne restò sdraiata a fumarsi una canna sulle lenzuola appallottolate, con lo sguardo che trapassava il soffitto d'alluminio della roulotte per perdersi nella fredda notte del deserto. «Ma secondo te ci sono andati davvero sulla luna?» mi chiese compunta. «Che ne so,» ammisi. «A chi lo dici,» bisbigliò nel fumo. Mi abbottonai i Levi's e me la filai nel deserto, in un paesaggio disseccato dalla luna e dalle ombre. Poi, a Reno, di Trahearne persi le tracce, e mi toccò aggirarmi per la cit-
tà in cerchi sempre più ampi, abbordando baristi e inservienti di stazioni di servizio, fin quando non scovai un pompista di Truckee che ancora si ricordava di un omaccione, a bordo di una Cadillac decappottabile, che chiedeva informazioni sui fanghi termali di Calistoga. I fanghi erano ancora caldi, quando arrivai io, ma la pista era già fredda, proprio come gli occhi di tutti quei vecchi che se n'erano andati a morire lassù, alle terme. Quando telefonai all'ex moglie di Trahearne per dichiararmi sconfitto, lei mi disse di aver appena ricevuto una sua cartolina, con una foto del Golden Gate e una quartina di enigmatica decifrazione. Sarà anche vero che il cane È il miglior amico dell'uomo, Ma ha calzoni senza tasche, E una sete senza fondo. «Trahearne ha questa strana attrazione per i cani da bar,» mi disse la donna, «e in particolare per quelli che non solo trincano, ma sanno anche fare qualche giochetto. Una volta ha passato tre settimane a Frenchtown, Montana, a sbevazzare in compagnia di un bastardino che aveva in testa un microberretto da capitano di lungo corso, occhiali da sole e una pipa di granturco. Poi mi ha detto che non avevano fatto altro che parlare della campagna del Pacifico, a colpi di distillato di frutti di bosco». Le dissi che i quattrini erano suoi, e che se voleva che perlustrassi l'intera Baia a caccia di un cane da bar con la passione dell'alcol, avrei senz'altro ubbidito. Era proprio quel che voleva, difatti; così riagganciai e partii per San Francisco, un ganzissimo detective sulla pista di un cane da bar alcolizzato, impresa inutile quant'altre mai. Avrei dovuto aspettarmelo, che la City of Lights sarebbe stata piena zeppa di cani da bar - cani ballerini e cani canterini, persino segugi in preda ad allucinazioni - e quindi fu solo tre giorni più tardi, mentre tracannavo bicchierini assieme a un barboncino rosa a Sausalito, che venni a sapere del bulldog di Sonoma e della sua passione per la birra. La sgangherata baracca di legno era a una cinquantina di metri di distanza dalla strada di Petaluma, e la rossa Cadillac decappottabile di Trahearne vi era parcheggiata proprio davanti. Un tempo, quella vecchia autostrada era stata nuova, ben prima che a qualcuno venisse in mente di ricostruirla con criteri di maggiore efficienza, e quella bettola vi fungeva da stazione di servizio. Il vago fantasma di un roano volante ancora ne infestava le pa-
reti, massacrate dalla furia degli elementi. Un piccolo gregge di auto abbandonate, un'ampia gamma che andava da una Henry J color ruggine a una Dodge Charger nera, abbastanza recente ma semidistrutta, spuntava tra le erbacce polverose, con le ormai vuote cavità dei fari ancora in preda a sogni di gloria, dall'illusione di credersi Pegaso a chissà quali volate sull'asfalto. Quel posto neanche ce l'aveva, un nome, ma solo un'insegna mezza stinta che ancora prometteva birra nel suo dondolare dal cantone del portico. Le vecchie pompe di benzina, con la sommità in vetro, erano da tempo sparite - a Sausalito, magari, a far la guardia a qualche negozio d'antiquariato - ma i rugginosi ancoraggi delle loro basi ancora si dipartivano dal piano stradale, simili alle dita di uno scheletro che spuntano da una tomba poco profonda. Parcheggiai di fianco alla Cadillac di Trahearne e scesi per scrollarmi dalle gambe tutti quei chilometri, poi me ne uscii dal sole di primavera per infilarmi nell'ombra polverosa della bettola, coi tacchi degli stivali che ondeggiavano appena sulle assi malconce del pavimento e un sospiro di sollievo nella penombra. Era proprio il posto giusto, quello che anch'io avrei scelto per rifugiarmi durante una ciucca vagabonda, dove sarei andato ad acquattarmi come una biglia in una fessura tra due assi, un porto sicuro per emigranti dall'Oklahoma e texani in esilio, una casa per gente di campagna senza più terra, gente dallo sguardo così privo di speranza da rimandare l'immagine di pianure ribollenti e spazzate dal vento, di scarni, quasi biblici e smisurati orizzonti, interrotti soltanto dallo schienale di una solitaria sedia a dondolo; e, al di là di tutto questo, intorbidite dalla rabbia, le immagini riflesse di aranceti e di manici d'ascia. Poteva essere pure il mio, di posto, un luogo in cui era possibile affogare la noia nell'alcol e pentirsi delle passate violenze, per poi comprare l'assoluzione al solo costo di una birra. Dopo averci ben riflettuto, tornai a infilarmi la moneta in tasca e mi riaccostai al bancone per un'altra birra. Lungo la strada, non avevo fatto altro che trovare ritagli e frattaglie di Trahearne, e mi pareva ormai di essere un suo vecchio amico. Era quasi un peccato non godersi la sua compagnia, non spartirsi con lui un paio di birre prima di chiamare la sua ex moglie e mettere fine alla festa. Ho sempre sospettato di meritarmi ben altro che danaro, a ricompensa del mio lavoro. Era questo il momento peggiore di una caccia: la silenziosa attesa di genitori traboccanti scuse o di mogli infuriate, o ancora della legge. Come ciclo produttivo andava bene, ma il prodotto finito era sempre sgradevole. Nel mio ramo d'affari è necessaria una
saldezza morale che io non mi sono mai neanche sognato di millantare, e ogni volta che portavo a termine un inseguimento il mio unico desiderio era tagliare la corda. Ma non questa volta, non ancora. Mi appoggiai al bancone e ordinai un'altra bottiglia di birra. Quando la barista me la piazzò davanti, un grosso gattone maschio veleggiò giù per il bancone per annusarne la schiuma che ne spuntava dal collo. «Anche il gatto beve birra?» chiesi alla barista. «No, lui ha smesso,» rispose lei con un sorriso, e lo colpì sul culo con lo straccio bagnato. La bestia le mollò un'occhiataccia laida e proseguì lungo il bancone, passando davanti al bulldog e a Trahearne, sfregando con la coda il volto imperturbabile del vecchiardo. «Quel figlio di troia beveva come un pesce, ma ne ha fatti tanti, di quei casini. Proprio come il vecchio Lester, laggiù,» disse la donna, indicando col capo il più fornito di denti tra i due loschi meccanici. «Non si controlla. È capace di ridursi in una tale condizione, volgare, zozzo, infoiato, che finisce per lasciarsi andare sempre nei posti sbagliati.» La barista rifilò al vecchio Lester lo sguardo di chi la sa lunga, poi si lasciò scappare un allegro cachinno. Nel tentativo di ricambiare il sorriso, il vecchio Lester mi consentì di fare la conoscenza del resto dei suoi denti. Non che fossero più carini di quelli che già avevo visto. «Una sera quello sporco e pazzo figlio di puttana si è messo a montare tutto quel che si trovava davanti, dal tavolo da biliardo alle stecche, per finire con le gambe della gente, tutto ciò che se ne stava fermo un istante di troppo, insomma, e poi ha combinto una vera schifezza sui calzoni di una signora, qui, e qualcuno è scoppiato a ridere, e guarda un po' se non è scoppiata la rissa più incredibile nella storia di questo locale. Chi non è finito in ospedale è finito in galera, e a me mi hanno sospeso la licenza per sei settimane». Scoppiò a ridere. «Così gliel'ho fatto tagliare, a quel furbacchione. Proprio alla radice. Da allora, non ha più bevuto un goccio.» «Parla di Lester o del gatto?» chiesi. La barista scoppiò in un'altra risatina allegra, il secondo meccanico si mise a ragliare, ma il vecchio Lester rimase immobile, con una faccia da mal di denti. «Naa,» rispose lei, quando ebbe finito di ridere. «Il vecchio Lester, laggiù, non è uno che combina guai. Gli basta vedere il mio bulldog, per farsela sotto.» «Eppure mi sembra proprio un vecchio bulldog,» dissi io, e mi misi co-
modo in attesa del resto della storia. «Proprio,» gracchiò Lester. «Proprio stronzo. Ma stronzo sul serio. Cazzo, signor mio, una mattina sono arrivato qui, la scorsa estate, bello tranquillo a farmi gli affaracci miei, e ho fatto lo sbaglio di pestargli un piede, a quel vero figlio d'un cane, proprio il giorno che sentiva ancora gli effetti di una sbronza. Per la miseria, guardi come mi ha mandato fuori sesto la gamba». Lester si chinò in avanti per tirarsi su i calzoni e mostrare un assortimento di cicatrici «morsi di cane» che sembravano il prodotto degli unghioni di un pollo. «Cinquantasette punti, ci sono voluti,» dichiarò con orgoglio. «Il vecchio Oney, qui, ha dovuto finirgli una stecca da biliardo sul groppone, per fargli mollare la presa.» «L'ho rotta in due, quell'accidente di stecca,» aggiunse subito Oney. «Proprio un vecchio bulldog, col cazzo,» disse Lester. «Quel figlio di troia è più stronzo di un serpente. Diglielo tu, Rosie.» «Ascolti, signor mio,» disse la barista sporgendosi sul bancone, «sapesse le volte che ho visto quel vecchio farabutto di Fireball Roberts svegliarsi da ciucche colossali e da doposbronza terrificanti per strappare il fondo dei calzoni a non so più quanti ubriaconi che pensavano di rompere le palle a una povera donna tutta sola al mondo». Nel dire tutta sola, Rosie si piazzò un dito sotto il mento e mi lanciò un sorriso civettuolo. Mi vidi costretto a gettare un occhio alle sue spalle, in quello specchio malconcio, per vedere se nel mentre i capelli mi fossero diventati grigi. Una sorta di vecchio fantasma, nero di chioma, mi rimbalzò un ghigno da coyote. «E non li fa solo volare dalla seggiola, signor mio,» aggiunse Rosie, «ma li prende per le trombe del culo e li trascina fuori. E vedesse come sono contenti di levare le tende.» «Mi pigliasse un colpo,» dissi io, adeguatamente impressionato, e lanciai un'occhiata al bulldog, che se la dormiva della grossa raggomitolato sullo sgabello. Trahearne incrociò il mio sguardo con fare truce, come se avessi soltanto pensato di mettere in dubbio il coraggio dell'animale, ma i suoi occhi persero subito la loro carica di rimprovero e parvero vagare per ogni dove, l'uno indipendente dall'altro. «Certo, comunque, se Fireball non ce la fa a tenere tutti quanti a bada da solo,» proseguì Lester con voce stridula ed eccitata, «la vecchia Rosie, qui, mica è una pivellina. Gliela faccia girare storta, signor mio, e non ci mette neanche un secondo a piantarle due palle negli occhi.» Annuii. Rosie arrossì con dolcezza. «Fagli un po' vedere quel pistolone,» pretese Lester.
Rosie aggiunse al suo rossore un pizzico di pudica riluttanza, e per un istante - sotto quella pelle grinzosa - comparve il volto di una donna più giovane, più graziosa. Poi si accomodò i riccioli grigi, allungò una mano sotto il bancone e riemerse con un'automatica calibro .38 di fabbricazione spagnola, un ordigno così decrepito e malconcio la cui nichelatura era già saltata via, peggio di una mano di vernice scadente. «Non sembra chissà che,» ammise giocoso Lester, «ma Rosie gli ha limato il dente del cane fino a ridurlo a una capocchia di spillo, e adesso quella belva è capace di sparare nove colpi tutti assieme». Si voltò dalla parte opposta del bancone, per indicare un grappolo di fori di proiettile, mai richiusi, che avevano trapanato la parete tra due finestre, appena al di sopra di un malandato separé. «Le è bastato sfiorarlo una volta sola, quel grilletto, signor mio, ma le posso giurare che quando Rosie infila una mano sotto il bancone le cose, da queste parti, diventano molto ma molto tranquille.» «Come in chiesa,» dissi. «Più come in un cimitero,» precisò Lester. «Nessuno, qui, che si mette a cantare, ma tutti quanti attaccano a pregare in silenzio». Poi scoppiò a ridere come un matto, e io levai un brindisi alla sua allegria. Rosie continuò a tenersi ancora per un attimo la pistola tra le mani, poi la ripose sotto il bancone con un tonfo sordo. «Chiaro che io ce l'ho quel che si dice una pistola, a casa,» disse compiaciuto Lester. «Una Luger tedesca,» dissi io senza starci a pensare. «Come fa a saperlo?» chiese lui sospettoso. La verità era che avevo passato la vita nei bar ad ascoltare storie di guerra e puttanate assortite, ma decisi di mentire e dissi a Lester che mio padre, un vecchio reduce, ne aveva riportata una a casa. «Io la mia l'ho fregata a un capitano crucco a Omaha Beach,» disse lui, il naso all'insù come se mio padre la sua l'avesse vinta giocando a dadi. «Sbarco in Normandia,» aggiunse. «Doveva essere parecchio giovane,» gli dissi, ma me ne pentii subito. Ai tipi come Lester, ogni tanto, scappava detta una qualche stronzata, ma solo uno stupido si sarebbe preso la briga di farglielo notare. Lester mi fissò a lungo, per vedere se per caso intendessi dargli del bugiardo. «Ho mentito sulla mia età,» disse poi con ben esercitata nonchalance. «Lei l'ha fatto il militare?» «Nossignore,» mentii a mia volta. «Piedi piatti.»
«4-F, eh?» disse, cercando di non prendere un tono di eccessiva superiorità. «Anche Oney, qui, è stato riformato col 4-F, ma non per via dei piedi. Per via della testa.» «Col cazzo che ci vado nell'Esercito,» disse serio Oney per poi guardarsi attorno, neanche avesse ancora alle calcagna la commissione di leva. «Manco c'è più, la leva obbligatoria,» disse Lester, salutando con un grugnito l'ignoranza di Oney. «Già,» disse sconsolato Oney. «Dio sa se farebbero meglio a fiondarsi a San Francisco e arruolare qualche decina di migliaia di capelloni, di quei maledetti hippy.» «Parola di Dio,» fece Lester, e si girò verso di me. «Dico bene?» Erano tre giorni che non mi radevo, e mi scrutò a occhi stretti come se avessi intenzione di lasciarmi crescere la barba. Una volta tanto, tenni la bocca chiusa e annuii. Ma non abbastanza da convincere Lester, che fece per aggiungere qualcosa. Lo interruppi, mi scusai e mi diressi verso Trahearne. Alle mie spalle, Lester borbottò qualcosa, «pieni di grana, quei maledetti hippy, e neanche hanno fatto il militare», ma io feci finta di non aver sentito. Allungai un braccio per toccare Trahearne su una spalla, e quel capoccione pelato ruotò lentamente su se stesso come se l'avessero zavorrato col piombo. Poi il vecchiardo sollevò un sopracciglio, ingranò un garbato sorrisetto, fece spallucce e volò dallo sgabello a gambe all'aria. Riuscii ad afferrarlo per la camicia, ma non certo a rallentarne la caduta. Piombò dritto sulla schiena, come un ballino di cemento da un quintale e passa. Tra finestre e travi del tetto fu tutto un tremare, con la polvere dei secoli che sprizzava dagli interstizi del pavimento e le palle del biliardo che danzavano allegre sul panno malridotto. Mentre me ne stavo lì come un fesso, una manciata di lercia stoffa cachi nella mano destra, Lester saltò giù dal suo sgabello e si mise a gridare. «Perché cazzo ha fatto una cosa del genere?» «Fatto cosa?» «Ha picchiato quel povero vecchio,» disse lui, il pomo d'Adamo che gli schizzava su e giù per quella gola rinsecchita come un topo in trappola. «Certo che ci vuole proprio un bel coraggio.» «Neanche l'ho toccato.» «La miseria, amico, l'ho vista io.» «Spiacente, ma deve essersi sbagliato,» dissi, cercando di mantenermi calmo e ragionevole, un comportamento quasi sempre errato in siffatti frangenti.
«Mi sta dando del bugiardo?» disse Lester, già serrando i pugni. «No davvero,» dissi io, e feci subito un altro errore, nel tornare al bancone per prendere la mia birra: mi misi a dare spiegazioni. «Stia a sentire, sono un investigatore privato, e l'ex moglie di questo signore, qui, mi ha assunto per...» «Com'è la faccenda,» mi schernì Lester, «è indietro con la solita stronzata degli alimenti, eh? Li conosco, quelli come lei, amico. Già un altro schifoso e viscido figlio di troia della sua fatta mi ha rincorso fino a Barstow, a casa di mia madre, perché ero indietro di qualche mese a mandare i soldi a quella puttana che avevo sposato. L'ho preso a calci in culo allora, se lo lasci dire, e adesso mi è quasi venuta voglia di pigliare a calci in culo anche lei.» «Vediamo di darci una calmata, eh?» dissi io. «Ora vi offro una birra, a tutti e due, e vi racconto ogni cosa. Va bene?» «Lei non mi racconta proprio un beato cazzo, amico,» disse Lester. «Io non bevo con la feccia come lei,» aggiunse poi, per rincarare la dose. «Non voglio guai, qua dentro,» disse Rosie in fretta. «Nessun guaio,» dissi io. Certo, Lester e Oney potevano pure avere facce da cartoni animati, un accento ridicolo e una pessima dentatura, ma avevano anche dei polsi massicci come pali da staccionata e delle mani noccolute e indurite dal lavoro, piene di bitorzoli come calzini riempiti di sassi, oltre a una vita intera passata a ingoiare rabbia e risentimento. La sapevo abbastanza lunga per non andare a cercar rogne con tipi del genere. «Nessun guaio, davvero,» dissi. «Me ne vado, e la cosa finisce qui.» «Manco per sogno,» grugnì Lester, e fece due passi verso di me nel tentativo di allungarmi una sconclusionata sventola sul muso. Mi chinai, poi gli mollai un rovescio dritto in testa con la bottiglia di birra mezza piena. Il suo orecchio destro scomparve in uno scroscio di schiuma sanguinolenta. Lester andò giù da un lato a far mucchio sul pavimento, le mani a coppa sull'orecchio, in un tumulto di male parole. Oney balzò in piedi, ma tornò subito a sedersi non appena vide la bottiglia di birra che ancora reggevo in mano. «Così va meglio?» chiesi. Oney acconsentì con un cenno del capo, un po' preoccupato, mentre Lester si era appena deciso a guardare nel palmo della mano, scoprendovi le briciole del suo orecchio. «Maledetta la miseria, Oney,» berciò con voce stridula, «prendi la pistola!»
Alle mie spalle, udii Trahearne che si alzava e, mezzo addormentato, chiedeva cosa diamine fosse successo. Nessuno gli rispose. Io, Oney e Rosie eravamo intenti a una silenziosa guerra di sguardi. Infine, e contemporaneamente, facemmo ciascuno la propria mossa. Rosie si fiondò sotto il bancone del bar a caccia dell'automatica, mentre Oney tentava di scavalcarlo con gran turbinio di mani e piedi. Io gettai un'occhiata al bulldog, che ancora dormiva come un sasso, poi tentai di filarmela in aperta campagna. E ce l'avrei anche fatta, se il buon vecchio Lester non fosse rotolato su se stesso per piantarmi una spalla nel ginocchio sinistro. Andammo entrambi a gambe all'aria. Proprio sul suo orecchio semidistrutto. Lui gemette, ma tenne duro. Anche dopo che mi fui rialzato e l'ebbi preso per una ciocca di quei capelli sudici. Dietro il bancone, Rosie e Oney stavano ancora lottando per impadronirsi della pistola. Trahearne aveva riacquistato lucidità sufficiente a cogliere la scena ma, nel darsela a gambe, andò a schiantarsi contro il tavolo da biliardo per poi rifugiarvisi sotto alla meno peggio, proprio mentre Oney strappava la pistola dalle mani di Rosie e spingeva via la donna. «Fireball!» berciò lei nel cadere. Io mi dichiarai sconfitto, mani in alto, e mi rassegnai a un pomeriggio di frizzi e lazzi a risarcimento dell'orecchio di Lester. Ma non appena Oney sollevò il pistolone e fece per togliere la sicura col pollice, Fireball emerse dal letargo e fece piazza pulita in una sola mossa, come un poderoso lampo di luce grigiastra. Sospeso a mezz'aria, piantò le sue tozze zanne giallastre nella schiena di Oney, proprio là dove finisce la cassa toracica, giusto sopra il rene: un punto morbido quant'altri mai. Oney grugnì come se l'avessero randellato con una mazza da baseball, abbassò le braccia e sbiancò con tale vigore che vetusti segni d'acne tornarono a brillargli in volto come carboni ardenti. Grugnì di nuovo, mollò un breve singhiozzo e infine premette il grilletto. Il primo colpo gli spazzò via una significativa porzione del piede destro; il secondo provocò uno schiumoso sbrego nel refrigeratore; il terzo trapassò l'inconsistente impiallacciatura del bancone per infilarsi con forza nel celeberrimo culo del signor Abraham Trahearne. Il quarto ridusse in briciole la palla numero quattordici, il quinto fulminò il vetro di una finestra, i restanti colpi andarono a far prendere aria al tetto. Quando il caricatore si fu finalmente svuotato, Oney sprofondò lentamente dietro il bancone, l'automatica ancora ben stretta nella mano sollevata e Fireball ancora aggrappato alla schiena come una sanguisuga gigante. Durante la sparatoria, il gatto era apparso dal nulla per filarsela dalla
porta principale alla velocità del fulmine, mentre Lester mi abbrancava le ginocchia come un bambino spaventato. O come un uomo le cui storie di guerra si erano una buona volta avverate. «Porca puttana, Lester,» dissi quando l'eco ebbe smesso di rimbalzare su quel decrepito soffitto, «mi stai imbrattando di sangue tutti i calzoni.» «Mi spiace,» fece lui, con l'aria di fare sul serio, e poi mi lasciò andare. Mentre porgevo a Lester il mio fazzoletto, perché si tamponasse l'orecchio, Fireball arrivò trotterellando da dietro l'estremità del bancone, le guance cadenti bordate di sangue. Si arrampicò sulla sbarra poggiapiedi, su uno sgabello e infine sul bancone stesso. Lo percorse per intero, rovesciando bottiglie per afferrarle col muso e prosciugarle fino all'ultima goccia. Poi svuotò il suo portacenere e ruttò, per zompare infine sul pavimento così come era salito sullo sgabello. Con andatura ondeggiante ed esausta sembrava sospirare a ogni passo - si trascinò fino alla porta per poi spaparanzarsi a un raggio di sole. Prima ancora di toccar terra già dormiva. Il movimento dell'aria prodotto dal suo lieve, delicato russare increspava i granelli di polvere che gli stavano attorno. «Non credo di aver mai visto niente del genere,» dissi a Lester. «Maledetto figlio di puttana d'un cane,» ringhiò Lester nell'andarsi a scaraventare in un separé. Girai dietro il bancone per controllare lo stato di Oney e Rosie. Lui era svenuto, e lei giaceva sulla passerella di legno come un cadavere. Solo che si teneva le mani sulle orecchie, invece di averle incrociate sul petto. «È morto qualcuno?» chiese senza aprire gli occhi. «Qualche ferito,» dissi, «ma morti no.» «Mi farebbe una cortesia se aspetta che mi riprenda un po', prima di chiamare la polizia,» disse. «Bisogna che ci inventiamo qualcosa per spiegare tutto questo casino.» «Giusto,» acconsentii. «Ce l'ha del whisky?» Col capo, la donna indicò una vetrinetta, in cui trovai una bottiglia mezza vuota di Old Crow. Curai alla bell'e meglio il piede di Oney, vale a dire gli tolsi la scarpa e la calza di cotone e versai un po' di whisky sui moncherini che fino a poco prima erano il suo secondo e il terzo dito, poi gli avvolsi il tutto in uno straccio pulito. Infine lavai il morso del cane con un pezzo di sapone, e andai a dare una mano a Lester a togliersi le schegge di vetro dalla testa e dall'orecchio maciullato. «Mi sa che le donne non ce l'infileranno più, la lingua, qua dentro,» dissi scherzoso.
«Per quanto me n'è fregato, finora,» disse lui sostenuto. «Come sta il vecchio Oney?» «S'è fatto saltar via un paio di dita del piede,» dissi. «Grosse o piccole?» «Medie,» risposi. «Che vuoi che sia,» disse Lester, toccandosi con delicatezza l'orecchio. «E Rosie?» «Sta facendo un sonnellino, mi sembra.» «Anche il ciccione, direi,» disse Lester con un cenno del capo. Non mi parve carino fargli notare che il povero vecchio era chissà come diventato il ciccione, così andai di persona ad accertarmi del perché Trahearne se ne stesse ancora raggomitolato sotto il tavolo da biliardo. «Tutto a posto, signor Trahearne?» chiesi, nell'inginocchiarmi a sbirciare là sotto. «In realtà, ho il sospetto di essermi beccato una pallottola,» rispose lui calmo. Non vedevo tracce di sangue, quindi gli domandai dove. «Dritto nel culo, amico mio,» disse, «dritto nel culo». Poi aprì gli occhi, scorse la bottiglia e me la tolse di mano. «Com'è che beve questa broda da maiali?» Non era mia abitudine, in effetti, o quanto meno non l'avevo ancora fatto, ma lui non fece alcuno sforzo nell'avvitare la bocca al collo della bottiglia. Non quanti toccò farne a me nel tentativo di calargli i calzoni - e un paio di boxer delle dimensioni di una vela di nave - quel tanto che bastava per scovare la ferita. Il foro d'entrata del proiettile, uno di quelli rivestiti, era netto e bluastro, contrassegnato da un acquoso rivolo di sangue proprio sotto la natica sinistra. Non ero in grado di scoprire se la pallottola avesse colpito un osso o un'arteria, ma il colorito e le pulsazioni di Trahearne erano buoni, e riuscivo a distinguere il pezzetto di piombo, appena sottopelle, piantato come un minuscolo stronzetto blu nel lardoso maniglione dell'amore che gli pendeva sul fianco destro. «Che gliene sembra?» mi chiese tra un sorso e l'altro. «Mi sembra proprio il suo culo, vecchio mio.» «Sapevo che mi sarebbe toccata una morte ridicola,» disse con aria solenne. «Non certo oggi, vecchio mio. È solo una ferita superficiale.» «Facile a dirsi, per lei, figliolo. Mica è la sua, di ciccia.» «Tempo qualche giorno, e non le resteranno altro che un culo indolenzi-
to e un pessimo ricordo.» «La ringrazio,» disse, «ma queste doti già le posseggo». Tacque e tracannò l'ennesimo sorso di whisky. «Com'è che conosce il mio nome, giovanotto?» «Perbacco, signor Trahearne, lei è una celebrità.» «Non fino a questo punto, purtroppo.» «Be', sì, diciamo che la sua ex moglie era preoccupata per la sua salute,» dissi. «E quindi l'ha assunto per spararmi nel culo,» disse, «così da non farmi più sedere sullo sgabello di un bar.» «Mica le ho sparato io,» dissi. «Forse no,» disse lui, «ma tanto la colpa se la prenderà lo stesso.» Poi si attaccò al bourbon fino ad accucciarsi sulla bottiglia, per poi unire il suo rauco russare al placido ronzio di Fireball. 2 Nell'uscire dal parcheggio di Rosie in una nuvola di polvere, le due ambulanze e la macchina del vicesceriffo accesero contemporaneamente le sirene e si allontanarono ululando. Da dove ci eravamo seduti io e Rosie, sui gradini dell'entrata, sembrava l'inizio della fine del mondo. «Certo che gli piacciono proprio, le sirene, a quei ragazzi,» disse tranquilla Rosie. «Se no che altro spasso gli resta, nella vita?» dissi io. «Parla per esperienza diretta?» mi chiese lei a occhi socchiusi. «Ho viaggiato su un bel po' di auto della polizia,» feci. «E sempre sul sedile posteriore». Lei annuì, con l'aria di sapere di cosa stavo parlando. Nel dare una ripulita al gran marasma del bar, spostare all'esterno i feriti e inventare un'assai improbabile ma del tutto fortuita versione della sparatoria, io e Rosie eravamo diventati amici. Adesso ci legavano anche le balle che assieme avevamo raccontato alle forze dell'ordine. Lester e Oney avrebbero mentito pure gratis, tanto per continuare a fare i rompiballe, ma io avevo elargito loro una cospicua somma di danaro per contribuire alle spese mediche. Lester aveva intascato i quattrini, per poi rivelarmi che lui e Oney, grazie ai loro frequenti soggiorni nei reparti per alcolizzati, godevano di completa assistenza medica a carico dello stato della California. Il vicesceriffo di mezza età che ci aveva interrogato aveva anche l'aria di sapere che lo stavamo prendendo per il culo, ma non sembrava dolersene più
di tanto. Era più interessato a sbeffeggiare Oney per essersi sparato nel piede. Nell'andarsene, comunque, mi aveva detto che l'indomani mattina avrei dovuto fare un salto al palazzo di giustizia per firmare una dichiarazione. Entrambi, io e lui, sapevamo benissimo il significato di quelle parole. «E se ci facessimo una birra?» disse Rosie non appena le sirene furono svanite. «Whisky,» dissi io, e andai a prendere la fiaschetta che tenevo nel vano portaoggetti del pickup. Al mio ritorno, scoprii che Rosie aveva scovato due bottiglie di birra ancora piene, per accompagnare il whisky. «Mi spiace per tutto quel casino,» le dissi dopo un po'. «Mica è colpa sua,» rispose lei, agitando una mano stanca. «È quel maledetto buono a nulla di Lester. La verità è che quando quell'investigatore l'ha beccato giù a Barstow, Lester ha cercato di rimbecillirlo di chiacchiere, e allora quel tipo l'ha riempito di botte proprio nel giardino di sua madre, l'ha preso a sberle fin quando Lester l'ha implorato di lasciargli pagare gli arretrati degli alimenti.» «Avevo il vago sospetto che fosse andata più o meno così,» dissi. «Com'è che lei stava dietro a quel bestione?» mi chiese Rosie. «Non che siano fatti miei,» aggiunse in fretta. «Libero di non rispondermi.» «Dovevo rintracciarlo prima che finisse in ospedale a forza di bere,» dissi. «O con un piede nella fossa.» «Impresa disperata,» disse Rosie con una certa autorità. «Dovevo solo rintracciarlo,» dissi, «mica levargli la bottiglia di bocca.» «È questo che fa per campare?» mi chiese lei. «Trovare la gente?» «A volte,» risposi. «Altre volte resto solo a guardare.» «E se la cava?» «In maniera passabile,» ammisi, «ma non è una cosa regolare. Per metà del tempo mi tocca fare il barista.» «E come mai?» «Sempre meglio che starsene fuori dai magazzini Monkey Ward a caccia di taccheggiatrici sedicenni.» «Immagino di sì,» disse, poi scoppiò a ridere e si attaccò al whisky. «Da quant'è che ci stava dietro, al bestione?» «Tre settimane precise.» «E la pagano a giornata, eh?» «Di solito.» «Questo lavoro dovrebbe renderle bene, allora,» disse lei.
«Spero di sì,» risposi. «Ma potrebbero anche mostrarsi poco soddisfatti, visto che il vecchiardo si è preso una pistolettata, e decidere che sono costato fin troppo e non ho reso quanto dovevo.» «Gli faccia causa.» «Mai provato a far causa a dei ricchi?» le chiesi. «Cazzo, figliolo, non ne conosco neanche uno, di ricco,» rispose, e poi tacque per guardare fisso in terra. «Secondo lei da che stava scappando, il vecchio?» «Forse voleva solo starsene un po' da solo,» dissi, «o aveva voglia di una ciucca ambulante. Che ne so». Così era, difatti. Di solito, dopo che avevo rincorso qualcuno per qualche giorno, mi facevo una certa idea di quel che gli passava per la testa. Ma non con Trahearne. In alcuni degli attimi di più scarsa lucidità, avevo avuto la netta impressione che il vecchiardo stesse scappando proprio da me, per cercare di farsi rincorrere. «Magari voleva solo vedere cosa c'era dietro la collina,» aggiunsi. «Allora dev'essersi stufato di guardare,» disse tranquilla Rosie, «perché ha finito col rintanarsi qui come a voler affrettare la resa dei conti.» «Be', se è stanco solo la metà del sottoscritto, è davvero a brandelli,» dissi, «perché io mi reggo in piedi per scommessa. Potrei dormire per una settimana di fila.» «Ma non lo farà. O sbaglio?» «Probabilmente no.» «E che farà, allora?» mi chiese, con aria troppo noncurante per i miei gusti. «Mi piazzerò nei paraggi dell'ospedale fin quando non lo dimetteranno,» feci. «E quanto ci vorrà?» «Una settimana, all'incirca,» dissi. «Dipende.» Restammo in silenzio un altro po', a guardare il garbato sole di primavera che inondava di fiamme verdastre le colline, col lontano ronzio del traffico a farci da sottofondo. «Ehi,» disse lei d'un tratto, come se ci avesse pensato proprio in quell'istante. «Potrei anche proporle un lavoretto, nel mentre che è qui che aspetta. Così, per non restare con le mani in mano.» «Di solito seguo un caso alla volta,» risposi subito. «È l'unico vantaggio che ho sulle agenzie più grosse». La donna non rispose. «Cos'è che ha per le mani?» le chiesi allora. «Assegni a vuoto?» «Ne ho quanto basta per tappezzarci una parete,» fece Rosie, «ma non è
quello il problema». Non le chiesi qual era il problema, e si decise quindi a continuare. «È la mia bambina. È scappata di casa, e pensavo che magari lei potesse perdere qualche giorno... insomma, il suo tempo libero... a dare un'occhiata in giro.» «Be', non saprei.» «Lo so che questo posto non sembra chissà cosa,» mi interruppe, «ma non ha debiti né ipoteche, e ogni tanto ci tiro su anche qualche dollaro.» «Non c'entra,» la interruppi a mia volta. «È che ho bisogno di darmi una calmata per un po'.» «Aspetti qui,» disse come se non mi avesse nemmeno udito, e si precipitò nel bar. Mentre aspettavo, quella che fino a pochi istanti prima mi era parsa una piacevole foschia primaverile si trasformò nel tipico smog della Baia. Mi ricordai subito che quella non era certo una bettola nella campagna texana, e non eravamo in un pomeriggio di primavera degli anni Cinquanta. Dall'altra parte della baia si stendevano i labirinti di San Francisco, uno dei rifugi prediletti per la gente in fuga; gli anni Sessanta erano ormai morti e sepolti, certo, ma un sacco di ragazzine ancora andavano a nascondersi da quelle parti. Era l'unica cosa a non essere cambiata. I figli dei fiori si erano ormai inaciditi, per entrare a pieno titolo nel mercato o nella classe media, e anche il nemico aveva gettato la spugna, autoconfinandosi in esilio a San Clemente. Non avevo voglia di sentire il racconto di Rosie, e tanto meno mettermi a guardare la foto dell'ennesima figlia scomparsa. Non si può entrare due volte nello stesso fiume, dicevano i greci, e l'autore di questa frase aveva ragione da vendere, anche se si era scordato di segnalare che, nove volte su dieci, si finisce pur sempre per bagnarsi i piedi. L'unica regola è il cambiamento. Non si può tornare a casa, anche se a casa si è rimasti, e oggi che tutto il mondo è paese dov'è che ci si può andare a nascondere? Ma c'è sempre qualcuno che continua a provarci. Anche Rosie. «Ecco,» mi disse nel sedersi e nel porgermi una fotografia. «Guardi qui.» La scrutai abbastanza a lungo per identificarla come il tesserino scolastico di una ragazza abbastanza carina. Poi ne sbirciai il verso e lessi le date: 1964-65. «Mica male,» dissi, tentando di restituire la foto a Rosie. «E furba come una volpe,» aggiunse lei, le mani tra le ginocchia. Mi toccò darci un'altra occhiata, a quella foto. Non era tanto diversa da quelle che scattavano al liceo ai miei tempi, negli anni Cinquanta. La ra-
gazza era gradevole e poco altro, anche se sotto i lineamenti ancora un po' gonfi, infantili, si riuscivano a scorgere dei tratti già ben definiti. La bocca era ampia ma tirata, quasi imbronciata, e la gran massa di capelli biondi aveva un'aria posticcia. Naso dritto, ma un po' troppo a patata per essere davvero carino. L'unica cosa notevole erano gli occhi, scuri e traboccanti astio e risentimento, una rabbia da gente di campagna e che meglio si sarebbe adattata a un volto più scarno. A giudicare dalla foto, la ragazza indossava una camicetta di pizzo vecchio stile, con un nastro nero infilato nel collo alto e chiuso sulla gola da un piccolo cammeo. Quella camicetta, a guardar bene, aveva in sé un qualcosa di provocante, e conferiva al volto della ragazza l'aria non tanto di chi rifiuta le prese di giro, quanto di chi è gravato da un'immensa tristezza. La conoscevo bene, quella storia. Una ragazza quasi graziosa, ma senza i soldi per comprarsi i vestiti giusti o le cure del dentista o la fiducia in se stessa: quel tipo di ragazza che sgomitava ai margini delle sue compagne più ricche e più benvolute - e finiva quindi per essere considerata invadente - oppure che sceglieva di starsene da sola, fuori dal giro delle compagnie del liceo, e finiva per essere considerata arrogante e presuntuosa, piena di sé senza averne il motivo. Ah, le meschine congiure del liceo. Nel guardare la foto, provai per l'ennesima volta un senso di compiacimento. Ero riuscito a scansare gran parte di quei casini. All'epoca, abitavo in campagna, e già lavoravo; malgrado le mie intenzioni non fossero proprio quelle, mi ero arruolato nell'esercito tre settimane prima degli esami di maturità. Non so come, ma il titolo di studio equivalente che avevo ottenuto sotto le armi mi sembrava più limpido di un diploma di maturità. Meno squallido, a ogni modo. «Da quant'è che ha tagliato la corda?» domandai a Rosie, con la foto che mi ciondolava dalle dita come un pezzo di pelle ormai morta. «Dieci anni a maggio,» rispose lei, bella tranquilla, come se avesse detto domenica prossima sarà una settimana. «E da allora non ha più avuto notizie?» «Neanche una parola.» «Dieci anni sono troppi,» dissi, cercando di non sembrare troppo impressionato. «Anche un solo anno è già abbastanza, di solito, ma dieci sono un'eternità.» Ma ancora una volta Rosie tirò dritto, come se non mi avesse udito. «Un sabato pomeriggio se n'è andata a San Francisco col suo ragazzo, e a sentir lui è semplicemente scesa dalla macchina a un semaforo rosso e se n'è an-
data via senza dire una parola. Sparita. Così ha detto lui.» «Potrebbe aver mentito?» «Non c'è motivo,» disse Rosie. «Lo conosco da quando è nato. Sono amica di sua madre, che da vent'anni mi sistema i capelli una volta la settimana. Anzi, il povero Albert l'ha presa malissimo. Ha continuato a cercare Betty Sue per anni, anche dopo che ho smesso io. Dice sua madre che ogni volta che si vedono lui le chiede sempre se ci sono novità.» «Avete sporto denuncia?» chiesi. «Ma certo,» rispose Rosie con rabbia, gli occhi grinzosi che ritrovavano vecchi bagliori. «Che razza di madre sarei, se non l'avessi fatto? Lei pensa che avrei lasciato una ragazzina di diciassette anni andarsene in giro per quella cazzo di città piena di negri e di tossici e di finocchi? Certo che sono andata alla polizia. Una buona mezza dozzina di volte». Prese un tono più garbato. «Non che abbiano combinato chissà cosa. Ho finito per andarci io, in quella città, venti, trenta volte. Su e giù per quelle colline, ho consumato non so più quante paia di scarpe, ho fatto vedere quella foto non so quante migliaia di volte. Ma non ho mai trovato nessuno che l'avesse vista. Neanche un cane». Tacque per qualche istante. «La odio, quella maledetta città. Magari arrivasse un altro terremoto e la trascinasse dritta in mare. La odio e basta. Sono cresciuta nella Church of Christ, e so bene che non spetta a me giudicare, visto che mando avanti una bettola come questa, ma sarei pronta a giurare che se esiste una nuova Sodoma e Gomorra, in questo perfido mondo di peccatori, è quel maledetto posto dall'altra parte della baia,» disse, e puntò un dito sulle colline a mo' di maledizione. Quando mi lesse in volto un sorrisetto divertito, si bloccò per lanciarmi un'occhiataccia, dritta dalla punta di quel naso affilato. «E magari a lei piace pure, non è vero? Magari lei pensa che vanno benissimo, eh, tutte le schifezze che ci sono laggiù?» «Guardi che non deve prendersela con me,» le dissi. «Mi scusi,» fece lei subito, e guardò altrove. «Nessun problema.» «Altro che nessun problema, per la miseria. Sono qui a chiederle un favore e finisco per sbraitarle sul viso. Mi scusi.» «Tutto a posto,» dissi. «La capisco benissimo.» «Lei ne ha, di figli?» «No,» risposi. «E neanche mai stato sposato.» «Allora non può capire. Neanche un po'.» «Va bene.»
«E la smetta di fingere,» disse poi, battendomi sulle ginocchia con le nocche arrossate. «Va bene.» «E mi scusi, maledizione.» «Okay.» «Okay un cazzo,» si lagnò, per poi alzarsi e sfregare le palme delle mani sui calzoni impolverati. «Fanculo a tutto quanto,» borbottò, e si girò per affibbiare al dormiente Fireball un poderoso calcio nel culo, che lo fece volare giù dai gradini dritto nella polvere della strada. «Maledetto buono a nulla di un cane,» disse. «Levati dai coglioni.» Fireball doveva essere abituato agli scatti d'ira di Rosie. Difatti se la svignò senza neanche voltare la testa, non proprio di corsa ma nemmeno a proprio comodo. Raggiunto l'angolo della bettola, andò a inciampare sul gatto nero, che se la dormiva acciambellato nell'erba alta, sotto il cornicione, dando così origine a un breve ma decisivo e fors'anche familiare scambio d'opinioni; dopo di che, entrambe le bestie andarono ognuna per la sua strada. Il gatto s'infilò nelle cantine, mentre Fireball tornò a raggomitolarsi al sole che scaldava i gradini. Nello sdraiarsi, squadrò ben bene Rosie, poi chiuse gli occhi con un sospiro analogo a quello di un marito di una certa età, afflitto da una moglie fuori di testa. Ma Rosie si era messa a guardare, da lontano, i prati piegati dalla brezza. «Che ne dice di un'altra birra?» le chiesi. «Dico che è un'ottima idea,» rispose senza voltarsi. Un velo di tristezza le ammorbidiva quell'accento nasale, un accento che come la gramigna era partito dalle valli e dalle colline degli Appalachi per spargersi sulle pianure del sud e sui deserti del sudovest, e per insinuarsi infine tra le ubertose colline della California. Ma lungo il tragitto Rosie aveva preso anche un accento un po' meno greve, un tono di voce più fragrante e più adatto a sussurrare, roco, parole romantiche come glicine o turgide come caprifoglio, un tono di voce riservato agli avventori di una certa classe. «Un'ottima idea,» ripeté. Anche le ragazze dell'Oklahoma, per quanto lontane da casa, crescono col desiderio di farsi portar via da un vento ben più dolce di quello - torrido, tagliente, polveroso - che ha divelto il raccolto dei loro padri per trascinarlo all'inferno e ritorno. Andai a prenderle una birra, ma avrei voluto offrirle qualcosa di meglio. «Mai visto un casino del genere,» disse al mio ritorno. «Quando sono andata fin laggiù a cercare Betty Sue, intendo». Rosie stava ancora in pie-
di, i polsi poggiati sui fianchi, ancora con lo sguardo fisso in direzione sudovest, a tagliare le dolci, morbide colline e puntare dritto sulle fredde e nebbiose acque della Baia. «Non avevo la minima idea che ci fosse tutta quella gente a caccia di figli. Ne avrò visti più di un centinaio, tutti a salire e scendere quelle strade e a mostrare fotografie a ogni sudicio hippy disposto a dare un'occhiata. E certa di quella gente era proprio per bene, persone anche di un certo livello. Ma sa com'è, nessuno aveva la minima idea del perché i loro figli fossero scappati di casa. Neanche uno. E anche quei ragazzi che riuscivamo a trovare, quando gli chiedevamo il perché, non avevano la minima idea. Certo, avevano la cazzata sempre pronta, ma a me facevano l'effetto dei discorsi che si sentono alla tv. Mai visto un casino simile, sa.» «Lo so,» risposi. E, a modo mio, lo sapevo, anche se non avevo figli da far scappare. Alla fine degli anni Sessanta, quando ero rientrato dal Vietnam con le manette ai polsi, pur di non finire in galera a Leavenworth avevo accettato di passare gli ultimi due anni di ferma a fare la spia dell'esercito, infiltrandomi nei meeting radicali che si tenevano a Boulder, Colorado; dopo di che, al termine di un breve ingaggio come giornalista sportivo, mi ero diretto a San Francisco per farmi qualche canna e spassarmela con comodo. Ma ormai ero in grave ritardo; poca voglia di emigrare, poca voglia di lavorare, troppo vecchio e incattivito per trasformarmi in un figlio dei fiori. M'inventai comunque un mestiere: rintracciare persone scomparse. Per qualche anno, Haight-Ashbury si rivelò una miniera d'oro, fin quando non mi capitò un caso intollerabile. Un ragazzino di quattordici anni, in stato di decomposizione sul pavimento di uno scannatoio dalle parti di Castro Street, con quarantasette coltellate su volto, mani e torace. Quelli della tv arrivarono sul posto prima della polizia, e la faccenda non fu per niente allegra. Da lì in avanti, le cose non furono più le stesse. Lo sapevo. Avevo già visto Rosie, nel suo vestito buono e con un paio di scarpe comode, arrancare per i saliscendi di San Francisco, pronta a scrutare ogni muso sudicio che incontrava a ogni angolo di strada per poi metterlo a confronto con la foto che teneva tra le mani, tanto per accertarsi che non fosse la sua bambina, quella che si nascondeva dietro un cesto di capelli incolti, qualche collanina, una bocca livida e un paio d'occhi sconfitti. «È passato un sacco di tempo,» dissi a Rosie. «Ma proprio tanto. Perché ricominciare proprio adesso?» «Non ho altro che lei, figliolo,» mi rispose piano. «L'unica superstite,
l'unico dei miei figli che non ho visto in una bara. Lonnie è saltato in aria in Vietnam, poco dopo che Betty Sue è scappata, mentre Buddy è stato investito da una dune buggy giù a Pismo Beach, l'estate scorsa. Non m'è rimasto altro che lei, capisce.» «E il padre, dov'è?» le chiesi, ma me ne pentii subito. «Il padre? Il loro magnifico, splendido, superdotato padre?» rispose lei, mollandomi l'ennesimo sguardo accusatore. «Le ultime notizie me lo davano a Bakersfield che faceva il piazzista di pentolame in alluminio a spose e vedove assortite». Dopo un istante di tregua, rincarò la dose. «L'ho sbattuto fuori di casa, quell'incapace figlio di puttana, quando Betty Sue era al primo anno di liceo.» «Le secca se le chiedo il perché?» «Perché pensava di essere Johnny Cash,» disse, come se questo spiegasse ogni cosa. «Razza di idiota.» «Mi sa che non ho capito bene.» «Un anno sì e uno no, si prendeva una ciucca cosmica e ripuliva il conto in banca. Poi se la filava a Nashville, per vedere se per caso era la volta buona per sfondare come cantante. L'unica cosa che è riuscito a scoprire, quell'imbecille, è quanto gli bastavano i miei quattrini. Quando li aveva finiti, trascinava il culo fino a casa, ridacchiando come un cane col mal di denti. L'ultima volta che si è rifatto vivo, si è trovato un bel divorzio sul groppone, ed è finito pure in galera per non aver pagato gli alimenti. Mai più visto, da allora,» disse sghignazzando. «Sicuro, era un tipo di bell'aspetto, ma come mi disse mio padre il giorno del matrimonio, non valeva una cicca, proprio come un verro con le tette.» «E neanche lui ha avuto più notizie di Betty Sue?» «Non che io sappia,» disse Rosie. «Betty Sue aveva un debole per suo padre, ma Jimmy Joe aveva un debole solo per se stesso, e coi ragazzi non se l'era mai detta tanto. Non so se Betty Sue gliel'ha mai perdonata, ma penso che lui me l'avrebbe detto se fosse venuto a sapere qualcosa. Lo sa che l'ho cercata tanto, e ha una paura cane che io gli possa chiedere tutti gli alimenti che non mi ha mai passato, quindi credo che me l'avrebbe detto». Tacque, e mi guardò fisso. «Allora, che ne pensa?» «Vuol sapere la verità?» «Neanche per sogno, figliolo. Voglio solo che tu perda qualche giorno in cerca della mia bambina,» rispose, e mi porse un mucchietto di banconote che per tutto il tempo aveva tenuto strette in pugno. «Fin quando il bestione non esce dall'ospedale, ecco tutto.»
«È una perdita di tempo,» dissi, tentando di rifilarle indietro quei soldi umidicci, «e di danaro. Il tempo è mio, ma il danaro è suo.» «È mio sì,» fece baldanzosa. «Non le sembra abbastanza buono per comprare un po' di quel suo tempo?» «Metta che sua figlia non voglia farsi trovare.» «Perché, quel bestione le ha forse chiesto di essere rintracciato?» chiese. Aveva ragione, ma feci finta di nulla. «Potrebbe anche essere morta,» dissi. «Ci ha pensato?» «Non passa un solo giorno che non ci pensi, figliolo,» rispose. «Ma sono pur sempre sua madre, e in fondo al cuore so benissimo che è ancora viva.» Non avendo mai trovato gli argomenti giusti per intavolare una discussione con i misteri del ventre materno, scossi il capo e andai a prendere taccuino e blocco delle ricevute, tutta roba che tenevo sull'El Camino, portandomi dietro il mucchietto di banconote con l'attenzione che si riserva a una bomba. Poi, al ritorno, le feci le domande di rito, presi i doverosi appunti e contai il danaro. Ottantasette dollari. Rosie mi fornì il nome del ragazzo di Betty Sue, che adesso faceva l'avvocato a Petaluma, del suo insegnante prediletto ai tempi del liceo, che ancora insegnava arte drammatica a Sonoma, e della sua amica del cuore, che aveva sposato un tipo di Santa Rosa, un certo Whitfield, aveva divorziato per sposare un tizio di Los Gatos, di religione ebraica, tale Greenburg o Goldstein - non si ricordava mica bene, Rosie - e aveva divorziato anche da lui per iscriversi a un corso di specializzazione a Stanford. Dettagli, dettagli, dettagli. Infine le chiesi di accennarmi al carattere di Betty Sue. «Lo capirà subito,» mi rispose enigmatica, «non appena parlerà con tutta questa gente. Glielo lascio scoprire da solo.» «Mi sembra giusto,» dissi. «Perché è scappata di casa?» Rosie ci pensò su. «Per molto tempo ho creduto che fosse per causa mia,» disse, «ma adesso sono convinta che non è andata così.» «Ovvero?» «Vivo in una roulotte qua dietro,» mi disse, «e una volta, dopo il divorzio da Jimmy Joe, Betty Sue mi ha trovato a letto con un uomo. L'ha presa parecchio male, ma non penso che sia stato quello il motivo della fuga. Certe volte, poi, pensavo che fosse scappata perché si considerava troppo in gamba per passare la vita nel parcheggio di una bettola.» «Non è che avete litigato, voi due, prima della fuga?» «Mai litigato, io e Betty Sue,» disse Rosie orgogliosa. «Non ce n'era mo-
tivo. Betty Sue ha sempre fatto i suoi comodi, fin da piccola, e io l'ho sempre lasciata fare proprio perché era così in gamba.» «Può darsi che fosse rimasta incinta?» «Può darsi. Ma non credo che sarebbe scappata per questo,» disse Rosie. «Comunque non lo so». Poi prese un tono quasi di vergogna. «Non siamo mai state vicine. Non quanto io lo sono stata con mia madre. Dovevo mandare avanti io questo posto, perché il più delle volte Jimmy Joe non ne era in grado, e quando ci si metteva finiva sempre per offrire più birre di quante se ne facesse pagare. Qualcuno doveva pur portare a casa la pagnotta». Tacque di nuovo. «Forse, sì, qualche volta penso che sia stata colpa mia, ma adesso non saprei proprio il perché. E forse penso che anche mia figlia ci abbia messo del suo. Ha sempre desiderato più di quanto potessimo darle. Senza dire mai niente, eh - era troppo dolce per arrivare a tanto - ma io lo capivo benissimo, che desiderava di più. Magari stavolta Betty Sue vorrà dirmelo, ammesso che lei la ritrovi.» «Ammesso che la ritrovi, appunto,» dissi, e le porsi una ricevuta per gli ottantasette dollari. «Bastano?» mi chiese Rosie. «Non ho neanche fatto in tempo a contarli.» «Anche troppi.» «Se ha altre spese, mi mandi pure il conto,» ordinò. «Sono già troppi, le ho detto. Andrò a Petaluma a parlare con questo Albert Griffith, e poi col signor Gleeson, quello di Sonoma, poi vedrò di mettermi in contatto con Peggy Bain. Stia sicura che le porto anche il resto. Ma glielo dico in anticipo, questo è buttar via i soldi.» «Grazie per il consiglio,» disse, e tornò a dare un'occhiata alla ricevuta. «Com'è che fa di nome? Sughrue?» «Esatto.» «Mia madre aveva dei cugini, in Oklahoma, dalle parti di Altus, mi sembra, che di nome facevano Sughrue,» disse. «Non è che ha dei parenti, laggiù?» «Ho parenti sparsi per tutto il Texas, l'Oklahoma e l'Arkansas,» confessai. «Cazzo, allora forse siamo cugini,» disse, e mi porse una mano salda e cordiale. «Può darsi,» feci io, e gliela strinsi. «A nessuno frega più niente dei legami di parentela,» disse. «Il mondo è troppo grande, per star dietro a queste cose,» dissi. «Mi sa
che è meglio se vado giù in città a vedere se il mio altro cliente è ancora vivo e vegeto.» «Le va un'ultima birra?» «Sicuro,» dissi, e andai al cesso per accogliere nel migliore dei modi la birra in questione. Al mio ritorno, la trovai che si sporgeva da dietro il bancone per porgermi la bottiglia. «Anche lei gliene dà secche, col bere.» «Non più come ai bei tempi.» «Come mai?» «A Elko, Nevada, una mattina mi sono svegliato che vuotavo portacenere e ripulivo cessi.» «Ma non le è bastato per smettere,» disse. «Ho deciso io di rallentare, prima che fossi obbligato a darci un taglio netto,» dissi. «Adesso cerco di mantenere due bicchieri di vantaggio sul mondo reale e tre di svantaggio su ogni ubriacone che incontro».Lei sorrise con l'aria di chi la sa lunga, come se fosse perfettamente a conoscenza che la sola idea di smettere di bere mi aveva a tal punto spaventato da non poterci nemmeno pensare. «Non è che potrebbe tenermi d'occhio la Cadillac del signor Trahearne?» le chiesi. «Tolga un po' la calotta dello spinterogeno,» mi disse. «Poi, quando chiudo il locale, ci faccio dormire Fireball, in macchina». Quando ebbi tolto la calotta e richiuso il cofano, Rosie indicò col capo la mia targa del Montana. «Ma non fa freddo, lassù?» mi chiese. «In quel caso, me la filo più a sud.» «Dev'essere bello.» «Cosa?» «Poter andare dove si vuole,» disse sottovoce. «Il massimo che mi sono allontanata da questo cazzo di posto è una quindicina di chilometri. È stato quando sono andata a Fresno al funerale di mia madre, undici anni fa.» «Non che essere liberi come fringuelli è sempre il massimo della vita,» confessai. «Ma neanche starsene sempre a casa,» disse lei. Poi sorrise: le rughe che aveva scolpite in viso parvero allentarsi, rilassarsi, e la fatica di tutti quegli anni quasi scivolar via, simile a lacrime di gioia. «Stia attento, mi raccomando.» «Anche lei,» risposi. «Ci vediamo all'inizio della prossima settimana.» Mentre salivo sull'El Camino, una camionata di operai di qualche impresa edile, caschetti gialli di protezione e tute sporchissime, arrivò di gran
carriera e posteggiò con gran fracasso di ingranaggi accanto al mio pickup. Saltarono fuori in fretta e furia, con sghignazzi e grida all'indirizzo di Rosie, prendendosi l'un l'altro a pacche sul culo e già entusiasti davanti alla prospettiva delle prime birre del dopo lavoro. Filarono dritti tra le braccia spalancate della barista come un branco di pulcini. Era gente tremenda, lo sapevo; gente che fischiava dietro alle ragazze, trattava le mogli neanche fossero serve, e votava per Nixon a ogni piè sospinto. Ma, lasciatevelo dire, sempre mille volte meglio di una Volvo stracarica di liberals. Lavoravano più sodo e si divertivano di più. 3 Quando arrivai in ospedale, Trahearne era stato ridotto al silenzio da una robusta dose di sonniferi, e sarebbe stato un vero delitto risvegliarlo da quel sonno profondo e rombante. Mi recai al pronto soccorso e scovai il medico che l'aveva preso in cura, che mi annunciò che Trahearne sarebbe sopravvissuto, malgrado i suoi sforzi. Di Oney e Lester, tuttavia, non era tanto sicuro. Non appena erano state suturate loro le ferite, i due avevano tagliato la corda per tornarsene da Rosie a spararsi qualche altra birra. Mentre il medico si avviava giù per il corridoio, scuotendo il capo, usai finalmente il mio diecino per telefonare alla ex signora Trahearne, a carico del ricevente. Come al solito, la signora si mostrò fredda e riluttante ad accettare la chiamata. «Be',» le dissi con maggiore entusiasmo di quello che avevo pensato di mostrare (colpa del whisky, immagino), «finalmente sono riuscito a mettergli il sale sulla coda, a quel satanasso.» «Era ora,» disse lei gelida. «A San Francisco?» «No, signora,» dissi. «In un fantastico localino appena fuori Sonoma.» «Molto pittoresco,» borbottò lei. «In che condizioni l'ha trovato?» «Sbronzo,» dissi, senza specificare se io o lui. «Me l'ero immaginato, signor Sughrue,» disse secca. «E quali sono le sue condizioni attuali?» «Ottime.» «Lei dice?» «Certo, signora,» feci evasivo. «Sta bene, anzi benissimo, e dovrebbe uscire dall'ospedale fra tre o quattro giorni, come nuovo.» «Potrà sembrarle presuntuosa, da parte mia, questa domanda,» disse lei soave, «ma se è in questa forma smagliante, come mai è finito in ospeda-
le?» «È una storia lunga,» dissi. «Niente di nuovo, quindi,» rispose. «Sì, signora.» «Lei sta facendo il finto tonto in maniera del tutto ingiustificata, signor Sughrue,» disse. Aveva un tono di voce forbito e raffinato, ma ben avvezzo a impartire ordini. «Sì, signora.» «Quindi?» «Be', ha avuto un piccolo incidente.» «Sì?» «È caduto dallo sgabello di un bar e si è fatto uno strappo alla schiena,» dissi in fretta. «Davvero un'autentica meraviglia,» disse lei. «Forse gli servirà di lezione, e dio sa se ce n'era bisogno». Poi scoppiò a ridere, una risata profonda e di classe, come il pastoso fruscio di una pelliccia di visone che scivola senza parere giù per una scalinata di marmo. «Niente di troppo grave, voglio sperare.» «Robetta,» dissi. «Mi fa piacere. Vorrei che restasse al suo fianco fin quando non l'avranno dimesso dall'ospedale, e poi gli tenesse compagnia durante la sua sbronza di resurrezione.» «Come dice, signora?» «Le violazioni corporali richiedono sacrifici umani,» disse. «Soprattutto nel caso di Trahearne.» «Come dice, scusi?» «Vedrà se cinque minuti dopo che è stato dimesso dall'ospedale non pretenderà di imbarcarsi in una ciucca itinerante. Vino, donne e canto, sa com'è, ovvero whisky di marca, puttane di classe e, per finire, vecchie e tristi canzoni nostalgiche. Voglio che si prenda cura di lui, in quei pochi giorni.» «Farò del mio meglio,» dissi. «Ne sono sicura. E quando sarà pronto per tornare a casa a leccarsi le ferite, voglio che lo riporti fin qui sano e salvo.» «Sì, signora,» dissi, nella speranza che Trahearne intendesse leccarsi le ferite solo in senso figurato. «Magari, se lei vorrà informarlo che la sua diletta Melinda è di nuovo tornata all'ovile, e passa le nottate a tirare vasellame e quant'altro contro il
muro, forse avrà la compiacenza di tagliare corto, con la sua ciucca.» «Sì, signora,» risposi, senza peraltro avere la minima idea di chi o di cosa stesse parlando. Così come non avevo la minima idea di cosa avrebbe pensato lo stesso Trahearne nel trovarmisi ancora tra i piedi dopo il suo incidente. O il mio incidente. L'incidente, insomma. «Inoltre, mi aspetto anche un rapporto completo da parte sua, appena arriverà qui,» disse. «Grazie e buonasera.» «Un rapporto su cosa?» le chiesi. Ma aveva già riagganciato. «Solo un matto è disposto a lavorare per dei matti,» dissi nel telefono muto, e un'affannata infermiera che passava in fretta da quelle parti si dichiarò d'accordo con un veloce cenno del capo. Visto che i quattrini che spendevo non erano miei, e visto che sapevo anche dove avrei con ogni probabilità trascorso la notte seguente, scesi nel migliore motel di Sonoma e ordinai una bistecca gigante e un po' di quel whisky di marca di cui la signora Trahearne aveva fatto menzione. Poi montai in macchina e me ne tornai da Rosie, presi una sbronza di un certo livello in compagnia di Lester e Oney, e finii per andare a dormire sul tavolo da biliardo. «Ma dove cazzo si era cacciato?» ringhiò Trahearne quando due giorni più tardi entrai nella sua stanza d'ospedale, alle dieci del mattino. «Ospite della contea,» dissi. «Eh?» «Gattabuia.» «E come mai?» «Ieri lo sceriffo ha raccolto la mia deposizione, e poi mi ha trattenuto come testimone oculare. Così, tanto per vedere se una notte in cella mi faceva spuntar fuori un'altra versione della sparatoria.» «Hanno di questi diritti?» «No,» dissi. «Ma se mi fossi incazzato, o avessi chiamato un avvocato, si sarebbero inventati qualche piccola stronzata da sbattermi addosso.» «Figli di puttana.» «Nessun problema. Ero già stato in galera.» Le prigioni sono tutte uguali, e non c'è mai molto da dire quando ne esci. «Be', ora che è arrivato,» disse lui, «può anche sbrigarmi qualche commissione». Dalla tasca dei calzoni feci saltar fuori una bottiglietta di vodka da un quarto. «Oh, mio dio,» sussurrò lui nel togliermela di mano. «Lei è un santo, amico mio, un santo vero e proprio». Ma prima che potesse rom-
perne il sigillo, un'infermiera - alta e formosa - entrò a passo di carica. «Non è proprio cosa,» disse nello sfilare la bottiglia dalle manone tremanti del vecchiardo. «Questa le sarà restituita quando verrà dimesso.» «Ha visto, signor Trahearne,» feci io in fretta e furia. «Gliel'avevo detto, che in ospedale non era consentito bere». Poi mi rivolsi all'infermiera. «Sono proprio mortificato, signora. Non avrei dovuto, e lui lo sapeva, ma sa come vanno le cose con noi salariati». Il viso di Trahearne si fece paonazzo, quasi unto e bisunto dal sudore, e il suo torace parve gonfiarsi di mezzo metro. Sembrava pronto a commettere un omicidio. «Basta che non succeda più,» disse l'infermiera. «Glielo garantisco, signora,» dissi, sfiorandole il braccio. «E se le crea qualche fastidio, non esiti a chiamarmi. Mi trova al Sonoma Lodge». Lei sorrise, annuì e mi ringraziò di nuovo, per poi trasportare i suoi ben modellati fianchi fuori dalla porta con passo svelto ed efficiente. «Quando vuole,» le dissi mentre usciva. «Figliolo, che lei cerchi di imbroccare non mi disturba certo, ma non in un orario di lavoro pagato da me,» brontolò Trahearne. Estrassi una seconda bottiglietta di vodka dalla tasca della giacca a vento e gliela porsi. «Lei non è un santo, ragazzo mio, è solo ben attrezzato per le emergenze,» bisbigliò, ingollando un breve sorso. «Mio dio, è pure ghiacciata,» disse, e se ne concesse subito un altro. «Ci sta che lei valga davvero tutti i quattrini che mi costa.» «Avevo l'impressione che il mio datore di lavoro fosse la sua ex moglie.» «Escono tutti dalla stessa tasca, quei soldi, ragazzo,» disse, fissando la trasparenza del liquore. «Una al giorno?» «Due.» «Sissignore.» «Di sicuro lei non somiglia a tutti quegli altri,» disse scrutandomi ben bene. «Gli altri?» «Avevano tutti l'aria di papponi falliti,» disse. «Abiti sportivi color pastello e anelli da mignolo con zircone. Lei sembra un cowboy girovago.» «Vedo che ha già avuto a che fare con altri esponenti della mia professione,» dissi. «Lei è il primo che mi ha trovato prima che decidessi io di farmi trovare,» disse lui. «Com'è che ha fatto?»
«Segreti del mestiere.» «Quella cazzo di cartolina, eh?» «Lei non ha la minima idea di quanti cani passano le giornate nei bar,» gli dissi, e lui sghignazzò. «Le secca se le faccio una domanda personale?» «Perché un bravo ragazzo come me si è cacciato in un mestiere come questo?» «Più o meno,» disse. «Sono un gran rompicoglioni,» dissi. «Pure io,» fece lui, e sghignazzò di nuovo. «Mi sa che andremo d'accordo.» «Guardi che dovrei tenerla d'occhio, signor Trahearne, non certo essere il suo fedele servitore indiano,» dissi. «Merda di cavallo.» «O corpo di mille spingarde, che ne dice?» «Può andare.» «Come va il culo?» «Sempre meglio,» rispose. «Ne ho passate di peggio. Certo, all'epoca ero più giovane. Ma nei Marines non ti portavano la vodka a domicilio.» «Lieto di esserle d'aiuto.» «È la noia, che è dura da sconfiggere,» disse. «Ho bisogno di un paio di cortesie.» «Ai suoi ordini.» «Preferisco chiamarle cortesie.» «Faccia lei,» dissi. «Mi procuri qualcosa da leggere,» disse. «Qualche chilo di tascabili e di rivistacce - la divoro, quella roba, come un ragazzino con un sacchetto di patatine - e non stia neanche a guardare cosa, tanto mi vanno bene tutti. Sarebbe anche fantastico se riuscisse a farmi portare i pasti da fuori. Va bene anche la roba dei McDonald's, purché non sia questa sbobba d'ospedale.» «Okay,» dissi io. «Che ne dice di qualche ballerina e di una banda musicale?» «Mi piacciono gli uomini che sanno come ci si diverte,» disse. «Se mi toccasse restare qui ancora per molto, magari potrebbe procurarmi una specialista del piacere orale. Ma niente bande musicali, no. Forse un quartetto d'archi.» «Mi darò da fare,» dissi, «ma non posso prometterle nulla. Sono lontano
dai miei territori di caccia.» «Se non riesce a concludere nulla, con quella manfrina da campagnolo tontolone che ha fatto prima,» disse, «posso fornirle parecchi numeri di telefono di un certo interesse, giù a San Francisco.» «Va bene,» risposi. «Ho un favore da chiederle.» Smise di sorridere. «Che non entra in conflitto con le commissioni che devo sbrigarle.» «Che razza di favore?» mi chiese sottovoce. «Sembra che Rosie abbia una figlia scappata di casa,» dissi, «e le ho detto in questi giorni avrei provato a dare un'occhiata in giro, se per lei non è un problema.» «Nessun problema,» disse dopo un istante. «Mi piacciono i giovanotti che cercano di farsi strada nella vita.» «Mica sono tanto sicuro di essere ancora un giovanotto,» dissi, «e di farmi strada nella vita non mi frega un beato cazzo. È che la vecchia mi sta simpatica, e le ho promesso di darle una mano. Sempre se a lei non secca.» «Non mi secca,» rispose lui. «Anche se mi sa che è uno spreco di tempo e danaro,» dissi. «Quanto danaro?» «Ottantasette dollari,» risposi, e lui sghignazzò di nuovo. «Cazzo, e quanto tempo potrà mai sprecare, con ottantasette dollari?» «Tutto il tempo che ci metto sarà comunque sprecato,» dissi. «E come mai?» «Sua figlia è scappata dieci anni fa, ed è passato ormai troppo...» «Perdio, ho il vago ricordo che in qualche mia sbronza Rosie abbia tirato fuori qualcosa del genere,» disse subito Trahearne. «Mi sa che è colpa mia.» «Sarebbe a dire?» «Temo di averle detto che non appena un qualche occhio privato fosse venuto a fiutare la mia pista ormai fredda,» fece lui, e si attaccò di nuovo alla bottiglia, «avrebbe fatto bene ad assumerlo. Mi pareva un buon stratagemma per far perdere qualche giorno a chiunque Catherine avesse spedito sulle mie tracce». Rise. «Come posso farmi perdonare? Da che parte le affronta, queste storie di persone scomparse?» «Dipende da chi è scomparso, e da quanto tempo,» dissi, «ma per lo più mi muovo alla cieca.» «Mica mi sembra tutto questo gran metodo.» «Se quel che vuole è il metodo, farà bene a rivolgersi a un'agenzia di quelle grosse,» dissi. «Col metodo quelli sono dei fenomeni. La gente
normale mica lo sa, come si fa a scomparire ben bene, mentre i farabutti non possono farlo perché gli toccherebbe mischiarsi a persone della loro risma.» «E lei com'è che c'entra?» «Io costo di meno,» dissi, «e di solito ai miei clienti piace ancora l'idea della piccola agenzia, dell'investigatore indipendente. Di solito è gente romantica.» «Mi sa che lei non fa altro che lavorare,» disse Trahearne con una risatina chioccia. «Difatti ogni anno mi tocca passare sempre più tempo a fare il barista,» dissi. «Perdio, figliolo, l'avevo capito subito che mi piaceva, lei,» fece Trahearne. «A chi non piacciono i baristi?» dissi. «A proposito, la sua ex moglie mi ha chiesto di dirle che Melinda è tornata a casa e non fa altro che lanciare non so cosa contro il muro.» «Vasellame.» «Cosa?» «Mia moglie,» spiegò. «Fa la ceramista.» «Oh.» «Glielo leggo in volto, ragazzo mio, che lei non è al corrente della mia situazione,» disse tetro. Non lo ero, difatti, e quindi non aprii bocca. «Viviamo tutti assieme - più o meno assieme, insomma - io, mia madre, la mia ex moglie e la mia attuale moglie, in un piccolo ranch appena fuori Cauldron Springs». Trahearne prese a fissare il muro, tinteggiato nel classico beige d'ordinanza, come se fosse una finestra spalancata su un panorama di montagna, e come se riuscisse a scorgersi nel bel mezzo della cartolina illustrata di quello stesso panorama. «Una piccola famiglia felice,» disse tranquillo. Sapevo che prima o poi mi sarebbe toccato sorbirmi la storia della sua vita, ma sempre meglio poi che prima, quindi chiesi il permesso di prendere congedo. Mentre mi voltavo per andarmene, vidi la sua manona abbrancare la bottiglietta di vodka, neanche fosse la sua unica ancora di salvezza. Lo stolto più stolto di tutti è quello che è convinto di poterti menare per il naso. Nell'uscire, mi fermai nella stanza delle infermiere per salutare di nuovo la mia amica stangona. Le chiesi se fosse possibile far portare i pasti a Trahearne da fuori, e lei mi promise di chiederlo al primario, anche se non mi sembrava molto entusiasta della cosa.
«E stasera per cena cosa fa?» le chiesi. «La preparo,» disse, mostrandomi la fede al dito. «Ma io no,» esclamò alle mie spalle una voce disinvolta. Prima di abboccare all'amo, mi girai per vedere chi avesse gettato la lenza. Era più bassa dell'altra, ma più rotondetta, con un naso a patata e un viso sbarazzino contornato da un cesto di riccioli biondi, e un fisico muscoloso, ben piazzato. Aveva le gambe in dentro, ma chi cazzo se ne frega. Ce l'ho pure io. «Sarebbe un appuntamento?» le chiesi. «Solo se lo vuole lei,» rispose subito, un gran sorriso in quegli occhi azzurri. «Le va bene alle otto precise,» dissi, «nel bar del Sonoma Lodge?» Mica sono un mostro, ma ho la pancia da birra e il naso rotto, e le belle sconosciute non vanno a scegliere certo me, pur di avere un appuntamento. Va be', a caval donato e tutta questa specie di cose. Tra l'altro, quella tipa aveva pure una boccuccia mica male, e l'approccio chiaro e semplice di una che a letto ci sa fare. «Fantastico,» disse, e mi tese una mano squadrata, priva di fronzoli. «Bea Rolands,» aggiunse. «Anche lei è uno scrittore? Come il signor Trahearne?» «Non proprio come Trahearne,» ammisi, aggrappato a quella mano via via che mi si chiarivano le idee. L'unico scrittore nei paraggi era fuori combattimento, e nei miei pallosi pomeriggi nelle palestre dell'esercito avevo letto tanti di quei libri da potermi spacciare come tale con una certa disinvoltura, e magari approfittare del periodo di bassa del vecchiardo. «Ogni tanto, comunque, faccio ricerche per suo conto, e mi prendo cura dei suoi affari,» dissi con un sorrisetto lascivo. «Non trova anche lei che sia un grande scrittore?» tracimò lei. «Sapesse quanto mi piacciono, i suoi libri. Ce li ho tutti, sa. E in edizione rilegata. Anche quelli di poesia. E ho visto tutti i film, tre o quattro volte, e sapesse quanto mi piacciono anche quelli. Secondo lei, sarebbe un problema se gli chiedessi di firmarmeli?» «Be', non saprei,» dissi. «È molto timido, sa com'è, e queste sono proprio le cose che lo mettono in imbarazzo. Comunque, perché non se li porta dietro, stasera, così domani glielo chiedo.» «Oh, la ringrazio,» gorgogliò, dondolando sui tacchi. Aveva un paio di tette piccole e sode, che rimbalzavano con una certa elasticità nel sottile reggiseno che indossava sotto l'uniforme.
«Ci vediamo alle otto,» dissi, restituendole finalmente la mano. «E grazie per avermi salvato da una cena solitaria.» «Il piacere è tutto mio,» rispose lei, ridacchiando. Uscendo dall'ospedale, stabilii che Trahearne era un tipo a posto. Almeno non era noioso. Dalle sue parti, succedeva sempre qualcosa: sangue, sparatorie, una notte in guardina, e adesso una devota fan con le ginocchia in dentro (ma sexy). Mi scoprii a sperare che scappasse di nuovo. Presto. E spesso. Una volta ogni cinque o sei mesi. Magari lungo la strada poteva passarmi a prendere, così non avremmo dovuto perdere tutti quei giorni di baldoria mentre mi spaccavo il culo per scoprire dov'era andato a finire. 4 Al supermercato, chiesi alla cassiera una ricevuta per i sette chili di riviste e tascabili che avevo arraffato, poi le sventolai sotto il naso un tesserino da vicesceriffo della Boulder County, Colorado, che mi ero procurato in circostanze parecchio sospette. Dissi alla donna che stavo svolgendo indagini su tutto quel materiale per scovarne nascosti intenti pornografici. Nella sua acconciatura, arruffata ad arte, non un solo capello dette segno di squilibrio. È questo che mi piace della California, tra le altre cose; la gente è così fuori di melone che per farti notare da qualcuno devi combinarle davvero grosse. Quando andai a scaricare il malloppo nella stanza di Trahearne, lui se la dormiva come un grizzly in pieno letargo invernale, raggomitolato sul fianco illeso, e sputazzava delle russate che avevano più l'aria di vere e proprie maledizioni, giganteschi ruggiti soffocati dal catarro, affogati nel whisky e affumicati dai sigari, e così feroci da far tremare i vetri. Mi chiesi come facesse a dormire in tutto quel casino, e soprattutto come facessero le sue mogli, passate e presenti. Nascosi la sua razione pomeridiana di vodka tra un ordigno intitolato The Towers of Gallisfrìed e un romanzetto western, tale Stalkahole, e me la filai in punta di piedi, nel tentativo di non destare il mostro. Al primo telefono pubblico, trovai nell'elenco il numero dell'insegnante di arte drammatica di Betty Sue, il signor Gleeson. Quando lo chiamai, spiegandogli perché volessi fare due chiacchiere con lui, mi parve all'incirca più divertito che sorpreso. E comunque non dovette frugarsi più di tanto nella memoria per identificare il nome della ragazza, il che era un buon segno. Si dichiarò disponibile a ricevermi anche subito, malgrado non potes-
se concedermi molto tempo, perché a pomeriggio inoltrato doveva incontrare un suo studente. Poi mi rifilò una serie di indicazioni così confuse che mi ci volle una buona mezz'ora per coprire i quindici chilometri di strada fino a casa sua, ai piedi dell'Oakville Grade. E quando riuscii infine a trovarla, avevo già dovuto frenare un paio di volte l'impulso di scollinare nella vicina Napa Valley e imbrancarmi in un tour vitivinicolo. Charles Gleeson abitava in un cottage nel bel mezzo di una radura di quercioli, un posticino che aveva tutta l'aria di essere stato a suo tempo una casa per le vacanze, dal tetto in legno e dalle pareti non trattate, che il tempo aveva artisticamente fatto diventare di un bel colore grigio argento. La veranda era sormontata da chissà che sorta di gigantesco rampicante, che si era poi espanso fin sul tetto, forse nel tentativo di evitare l'abbraccio mortale degli enormi cespugli in fiore che già affogavano il giardino. Prima che riuscissi a bussare, Gleeson era già comparso dietro la porta a zanzariera, un ometto che faceva una fatica d'inferno a mantenere un portamento eretto, con una testa di cospicue dimensioni e una voce a tal punto teatrale, profonda e sonora, da farlo sembrare l'imitazione malriuscita di un Richard Burton ubriaco e intento a massacrare Shakespeare. Purtroppo per lui, la sua nobile capoccia era liscia come il culo di un neonato, fatto salvo un lungo e ben studiato riporto che gli foderava la nuca da un orecchio all'altro. Doveva essersi appena passato una robusta dose di dopobarba, e indossava dei calzoni bianchi di tela olona, una maglietta polo e due o tre chili di gioielleria assortita in argento e turchese. «Lei dev'essere il signore che ha telefonato a riguardo di Betty Sue Flowers,» proruppe nell'aprire la porta. Una mosca che transitava in zona, e che ronzava volteggiando a mo' di falco in miniatura, mi virò proprio davanti e filò dritta in cucina. Gleeson tentò di colpirla col vano gesto di una mano esangue, e borbottò una fiacca imprecazione. «Mi scusi il ritardo,» dissi. «Le indicazioni, eh? Sono io a dovermi scusare, ma la mia concezione dei rapporti di spazio è drasticamente limitata. Eccetto che sul palcoscenico, beninteso. Mio dio, sono in grado di buttar giù un perfetto schema mentale di un bestione come Il lutto si addice a Elettra, ma sembro incapace di spiegare a chicchessia come fare a raggiungere il mio piccolo cottage tra i boschi,» ciabattò, tormentandosi il pesante braccialetto che aveva al polso. Indi ci stringemmo la mano, lui mi batté un colpetto affettuoso sull'avambraccio e mi fece strada nel soggiorno, un misto di Danish Modem e Neo-Navajo. «È una gran bella giornata,» suggerì ciancicandosi la
collana di piccoli fiori di zucca in argento, tipico monile navajo. «Perché non andiamo a sederci nel patio? Qua dentro è peggio di una zona di guerra... Sono scapolo, sa com'è, e l'arte del governo della casa sembra volermi sfuggire». Agitò la mano nella vaga direzione di chissà quale invisibile disordine. Ci si poteva mangiare, sul pavimento di quercia tirato a cera, o anche eseguire un'appendicectomia sul tavolino da caffè in legno rustico. Ma uscirmene di lì non mi sembrava vero. Quel tipo di casa mi spingeva sempre a guardarmi sotto gli stivali, nel dubbio di aver pestato una merda. Purtroppo, stavolta mi era andata male. Il patio, costruito con le stesse assi grigio argento delle pareti esterne, e minacciato dallo stesso rampicante, era chiuso da intelaiature in ferro battuto e da tela di un vivace color arancione. Almeno, eravamo all'aria aperta. Con un profondo e palpitante sospiro Gleeson si lasciò cadere su una sedia da regista, e con gesto signorile mi invitò ad accomodarmi sulla sedia di fronte a lui. «Per me è un po' presto, ma a lei andrebbe una cerveza?» disse, facendo ruotare con pigro movimento del polso i cubetti di ghiaccio nel bicchiere messicano in vetro soffiato, che aveva appena preso dal lindo tavolinetto in tinta e stile con la sua sedia da regista. «Una birra?» aggiunse, qualora non avessi capito. «Giusto,» ruggii. «Per me non è mai troppo presto». Poi mi lasciai scappare una risatina chioccia, tipo Aldo Ray. Se proprio dovevo sopportare questa sceneggiata da homme du monde, a lui in cambio toccava beccarsi la mia interpretazione dell'investigatore col pelo sullo stomaco e alcolizzato. «Ma certo,» sussurrò, per poi mettersi a rovistare nel piccolo frigobar sull'altro lato della sedia e riemergere con una lattina di Tecate, la giusta quantità di sale naturale, e una fetta di lime già piazzata in cima alla lattina. Si era già preparato, quel satanasso. «Le piace, la birra messicana?» «Mi piace la birra,» dissi, «proprio come dice Tom T. Hall.» «Vedo,» disse, tentando di celare un sorrisetto di superiorità sotto uno sdegnoso aggrottar di fronte. «La birra messicana è invero superba. Forse, la migliore al mondo. Anch'io ne vado matto. L'estate, tutti gli anni, vado a villeggiare in Messico, sa, a San Miguel de Allende. È per librarmi via dalle banalità quotidiane della scuola,» disse nel porgermi la lattina. «Dev'essere proprio uno spasso,» dissi io, sospettando che la sua estate consistesse nell'infilarsi in testa un parrucchino da trecento dollari simile al cadavere di un opossum, e andare a gonfiare i coglioni a ogni essere viven-
te nel raggio di una settantina di chilometri. «Davvero uno splendido paese,» sospirò, nel tentativo di sembrare allo stesso tempo meditabondo e malinconico, oltre che ormai rassegnato a una vita non certo degna dei suoi molteplici talenti. Poi alzò gli occhi. «Un pizzico di sale sulla lingua, poi una sorsata di birra, e infine un morso al lime.» «Giusto,» dissi. Poi trangugiai il sale, ingollai in un colpo solo la birra, buttai giù la fetta di lime, scorza compresa, e gettai la lattina vuota sul prato. Gleeson fu lì lì per scoppiare in lacrime, e quando mi sentì ruttare ebbe un sussulto. «Che ce l'ha 'naltra di codeste brodazze messicane?» dissi tutto allegro. «Non faceva poi tutto questo schifo.» «Ma certo,» disse, ancora nella parte del perfetto padrone di casa, per poi elemosinarmi un'altra lattina, come se fossero razionate. Prima di essere costretto a demolire anche quella, fui salvato dal gong. O dal cinguettio. Il telefono di Gleeson, difatti, cinguettava come un uccellino. «Oh, cribbio,» disse. «Voglia scusarmi.» Quando fu rientrato in casa, mi alzai in piedi per buttar giù quel malloppo di birra. Seguendo il vecchio istinto del ficcanaso, andai ad annusare il bicchiere di Gleeson. Succo di mirtillo e una tonnellata di vodka. O era uno sbevazzone in incognito, o un bugiardo patentato, oppure la mia visita l'aveva innervosito più di quanto fosse disposto ad ammettere. Mi accostai furtivo alla finestra di cucina, ma non riuscii a sentire niente, se non il lontano sobbalzare della sua voce e il folle ronzio di una mosca frustrata. Aprii la porta posteriore per far uscire quella povera bestia, poi tornai a sedermi per guardare un colibrì che suggeva acqua zuccherata dalla vaschetta del trespolo. Non riuscivo a credere che quel piccolo figlio di puttana fosse venuto apposta dal Sud America. O che mi fossi sparato tutta quella strada per discorrere di una ragazza che era scappata di casa dieci anni prima. Gleeson fu di ritorno blaterando con garbo a proposito delle fissazioni dei suoi studenti, ma che carini, ma proprio così carini. «Ecco,» disse, appoggiandosi allo schienale della sua sedia e congiungendo le mani sul ginocchio con un lieve tintinnio di anelli d'argento. «Che posso fare per lei?» «Betty Sue Flowers.» «Invero». Aggrottò appena la fronte, là dove essa andava a incontrare la profumata e scintillante distesa della sua crapa pelata. «Betty Sue Flowers,» sospirò, per poi scuotere il capo e sfoggiare un lamentevole sorriso. «Erano anni che non pensavo più a lei.»
«E che le è venuto in mente?» «Un nome così goffo, per una ragazzina così dolce, così dotata,» disse. «Non appena il suo talento d'attrice ebbe modo di iniziare a rifulgere - un talento ben superiore a quello di una brava dilettante qualsiasi - mi sentii obbligato a consigliarle di cambiare quel nome all'istante, di gettarlo via al pari di analoghi orpelli d'infanzia.» «Quasi mi piace, quel nome,» dissi. Non sopportavo le donne che si cambiavano il nome. O gli uomini che s'ingioiellavano prima del tramonto. «Invero,» disse. «Ma cos'è che voleva sapere, di preciso? L'ultima volta che la vidi fu il venerdì prima della sua fuga. Da allora, più non ebbi sue notizie. Quanto tempo è passato? Sei, sette anni?» «Dieci.» «Ma come vola il tempo,» bisbigliò con sognante cantilena, declamando quel luogo comune come se ne conoscesse benissimo il significato, lui. «Invero,» dissi io. Gleeson alzò lo sguardo e serrò gli occhi, neanche mi vedesse per la prima volta. «Non è segno di buona educazione fare il verso alla gente, sa,» mi suggerì con garbo. Però sembrava quasi compiaciuto che mi fossi preso il disturbo. «Mi scusi,» dissi. «È una mia cattiva abitudine. Di cosa avete parlato, quel giorno?» «Temo di non averne più la minima idea,» disse, per poi sollevare un dito. «Aspetti. Mi par di ricordare che fosse passata dal mio ufficio a riferirmi di essersi procurata i biglietti per la ACT, la sera successiva». Iniziò a spiegarmi l'acronimo, poi s'interruppe. «Temo di non ricordarmi più cosa stessero rappresentando. È passato un bel po' di tempo, lei mi capisce.» «Fin troppo,» ammisi per l'ennesima volta. «Le spiace se prendo conoscenza dei motivi che la spingono a interessarsi di questa faccenda?» «Sua madre mi ha chiesto di cercarla,» dissi. «E lei fa questo, di mestiere? Oppure è un membro della famiglia?» «Entrambe le cose,» dissi. «Sono un cugino della madre, e un investigatore privato con tanto di licenza.» «Lo prenderebbe come un insulto, se le chiedessi di esibire un documento d'identificazione?» «Naa,» dissi, ed estrassi la fotocopia della licenza. «Ipotizzavo, dal suo accento,» disse nel restituirmela, «che lei appartenesse al ramo texano della famiglia. O a quello dell'Oklahoma.»
«Texas,» dissi. «Ma ultimamente ci hanno concesso di andare ad abitare dove cazzo vogliamo.» «Vedo,» disse. «È per caso sopraggiunta qualche nuova informazione, riguardo Betty Sue, che può aver spinto sua madre ad assumerla?» «Naa,» dissi. «Ero lì a portata di mano, impegnato in un altro caso. Visto che entrambi i suoi figli maschi sono morti, la signora Flowers ha manifestato il desiderio di poter rivedere la sua bambina.» «Non penso che, oramai, sia più una bambina,» disse, sorridendo alla sua stessa battuta. «Ma, se fossi in lei, cercherei di mettermi in contatto col padre. Per motivi che non saprei spiegare - forse perché lui non le ha mai manifestato il suo affetto - Betty Sue ha sempre mostrato una malsana fissazione nei suoi confronti. È mia opinione che possa aver tentato di mettersi in contatto con lui. Sì, mi metterei in cerca del padre, se fossi in lei». Tornò ad adagiarsi sullo schienale, sorseggiò il suo drink e mollò un robusto sospiro, come un detective che ha appena risolto un caso di quelli tosti, una squallida vicenda di corruzione in uno di quei film che indagano il significato stesso dell'esistenza. A me, il cattivo carattere e la lingua lunga mi hanno sempre ficcato nei guai. Oltre a impedirmi, di quando in quando, di ottenere le informazioni di cui avevo bisogno. Avevo una gran voglia di dire a Gleeson dove poteva ficcarsi il suo consiglio idiota, oltre che la sua analisi psicologica da rotocalco, oltre che spiegargli il vero significato di fissazione ma, invece di mettermi a ridire su questo e quello, riuscii a tenere la bocca chiusa e a non perdere la trebisonda. «Non ho mai avuto l'opportunità di conoscere Betty Sue, da giovane,» dissi, cambiando strategia. «Che tipo di persona era?» «Un pezzo unico,» rispose lui in fretta ma sottovoce, poi tacque di colpo come se si fosse lasciato scappare chissà che ammissione. Adesso sì che sapevo d'averlo in pugno. «Come mai?» «Come mai?» sussurrò. «La prima volta in cui la vidi, era impegnata in una recita scolastica. Cenerentola. Fui costretto ad assistervi per una serie di motivi che adesso mi rifiuto persino di richiamare alla mente. Un allestimento direi terrificante, anche per una scuola elementare, e Betty Sue era proprio sprecata, nella parte della madrina delle fate; ma, se lo lasci dire, amico mio, quando quella bambinetta, anche a quella tenera età, faceva il suo ingresso in palcoscenico, tutti i suoi coetanei sembravano appartenere a una razza inferiore. Non ho mai visto nessuno possedere di natura il
senso del palcoscenico come Betty Sue. Fuori dal palco non era niente di speciale, una bambina di bell'aspetto e niente più, ma bastava che salisse sul palco ed ecco che prendeva in pugno la situazione. Che presenza scenica. Che capacità di entrare nella parte». Tacque, e si lasciò scappare una risatina. «La madrina delle fate, nelle sue mani, diventava una regina, che magnanima elargiva i suoi doni agli esseri inferiori. E, anche allora, era in possesso di una carica sessuale quasi imbarazzante. Si percepiva benissimo la libidine di tutti quegli spettatori di mezza età, che sembravano quasi implorare la possibilità di saltarle addosso.» «Al termine dello spettacolo, andai a parlarle in camerino,» proseguì Gleeson, «e la trovai che fissava con tale desiderio la ragazzina che aveva interpretato Cenerentola che mi sentii in dovere di propinarle un sermoncino, su due piedi, per renderla edotta di quanto fosse stata brava. Temo di aver perso, in quel frangente, un certo qual autocontrollo. Al termine del mio discorsetto, lei mi guardò. "Aveva solo un vestito più carino del mio, ecco tutto. Mica avrei voluto farla, Cenerentola. Neanche per sogno". E aveva nove anni, amico mio, soltanto nove anni.» «Dopo di che, com'è ovvio, la presi sotto la mia ala protettrice, e ogni volta che mi fu possibile cercai di incentrare su di lei i miei allestimenti, sia scolastici sia del Little Theatre. Tentai anche di convincere l'orrida madre di Betty Sue a iscriverla a un corso di recitazione giù in città, addirittura offrendomi di pagare di tasca mia tutte le spese. E crede che quella non rifiutò? "Un mucchio di fesserie", mi sembra di ricordare fossero le sue testuali parole». Tacque di nuovo, e intrecciò le mani. «Quell'accidente di madre mi metteva i bastoni tra le ruote a ogni passo. Presumo che ai suoi tempi avesse la fama di donna piacente, anche se ciò adesso mi resta difficile da credere, e che di conseguenza provasse risentimento nei confronti di Betty Sue. Il che era quasi comprensibile, sepolta viva com'era in quella terrificante roulotte, dietro quella ripugnante bettola. Una volta - Betty Sue aveva quindici anni - commissionai a un mio amico fotografo un book, una serie di ritratti della ragazza. Con eccellenti risultati. In seguito, quando chiesi a Betty Sue cosa ne avesse fatto, lei mi disse che era andato smarrito, ma sono ancora convinto che sia stata sua madre a farlo sparire.» «Che tristezza,» proseguì, sorseggiando il suo drink, e riprese il racconto. «A quindici anni interpretò Antigone nella riscrittura di Anouilh, e a sedici Madre Coraggio. Non lo credevo possibile.» «Roba tosta per un liceo,» dissi. «Allestimenti del Little Theatre,» fece lui. «All'epoca avevamo un'ottima
compagnia. Anche i giornali di San Francisco erano larghi di elogi per i nostri spettacoli. E lei era una vera meraviglia». Sembrava uno che rievoca gli atti eroici di una guerra ormai dimenticata. «Con un pizzico di fortuna, avrebbe potuto sfondare a Broadway o a Hollywood. Con un pizzico di fortuna,» ripeté, col tono di chi non ne ha avuta neanche un po'. «La fortuna è essenziale quasi come il talento, sa». Poi si mise a scrutare nel suo bicchiere ormai vuoto. Feci irruzione nelle sue reminiscenze. «Quanti anni aveva, Betty Sue, quando lei l'ha sedotta?» Gleeson scoppiò a ridere, una risata sommessa ma priva d'esitazioni, con i denti incapsulati che rifulgevano alla luce del sole. Il colibrì attraversò ronzando il patio, simile a una lieve chiazza azzurra, soffermandosi a valutare il profumo di Gleeson. Ma schizzò via non appena capì che non si trattava di un fiore. Gleeson fece tintinnare i cubetti di ghiaccio e si alzò in piedi. «Penso che sia giunto il momento di quel drink,» disse amabile. «Gradisce un'altra Tecate?» «Gradirei piuttosto una risposta alla mia domanda.» «Mio caro signore,» disse versandosi da bere, «lei è caduto vittima di squallide dicerie e maligni pettegolezzi.» «Guardi che il suo nome me l'ha dato la signora Flowers,» feci, «e questo è quanto. Anche se adesso capisco perché, a pronunciarlo, digrignava i denti. Oltre a ciò, le uniche cose che so di lei sono quelle che mi ha appena detto.» «Oppure le congetture che ha appena fatto.» «Ipotesi.» «Lei lo fa molto bene, lo zoticone, amico mio,» disse nel porgermi un'altra birra. «Ma si è tradito, nel non chiedermi di spiegare il significato di ACT, e di certo non ha appreso chi fossero Brecht e Anouilh alla scuola di polizia, né in un corso a dispense per investigatore privato.» «Sbaglio, o sono io il detective?» «Ed è una parte che interpreta molto bene,» disse, «e ho il sospetto che prolungare questa conversazione non faccia proprio i miei interessi.» «Non abito da queste parti,» risposi, «e non può fregarmene di meno, di quanti imeni di ragazzina ha appeso nella sua stanza dei trofei. Meglio qui con lei, tra buon vino e lume di candela, piuttosto che con qualche teppistello brufoloso, sul sedile posteriore di una macchina con una confezione da sei di Coors.» «Non creda di potermi lusingare con così poco,» disse, ma vedevo be-
nissimo come, sotto, sotto, gli brillassero gli occhi. «Comunque, di tanto in tanto mi concedo qualche svago,» aggiunse, con un sorriso bavoso. «Quasi tutti i sempliciotti del paese mi ritengono un finocchio, e io lascio che lo credano. Non le sembra uno scudo protettivo di un certo livello?» Annuii. «Ma con Betty Sue non ho mai avuto una siffatta relazione. La tentazione l'ho avuta, e forte, badi bene - si ricorda cosa ho detto a proposito della sua carica sessuale? - e credo che anche lei sarebbe stata disponibile. Certo, avessi saputo come andava a finire, cioè che Betty Sue non avrebbe intrapreso la carriera teatrale, l'avrei agguantata in un istante. Ma temevo che una relazione di carattere sessuale potesse interferire con i nostri rapporti professionali.» «Professionali?» «Sicuro,» disse. «Sarò anche un semplice insegnante di arte drammatica nei licei, ma ai miei tempi ho lavorato off-Broadway e alla TV, e ho tenuto corsi di livello universitario. Conosco l'ambiente. Betty Sue aveva tutti i numeri per sfondare. E le confesso che, in questo caso, era mia intenzione sfruttarne le doti». Tornò a sospirare. «I coach di atletica leggera fanno spesso carriera sulla scorta dei loro migliori allievi, e non vedo perché anche a me non potesse capitare altrimenti. Di conseguenza, il sesso era fuori questione. Betty Sue, come capita spesso alle ragazzine, non ci avrebbe messo nulla a stancarsi di avere sempre attorno un uomo ben più grande di lei, per poi confondere il sesso con il lavoro. E così, amico mio, non l'ho mai sfiorata neanche con un dito,» disse, con la giusta miscela di orgoglio e rimpianto. «Mi spiace,» dissi, cercando di scorgere il suo vero volto, sotto quella maschera malinconica. «Ma le sarà pure rimasta qualche conoscenza, nell'ambiente teatrale,» dissi, «e non posso credere che in tutti questi anni lei non abbia mai cercato di sapere che fine avesse fatto Betty Sue.» «Così spesso, guardi, che ho finito per diventare una sorta di macchietta,» disse mesto. «Ma nessuno ne ha mai saputo più niente. È un vicolo cieco, temo.» «Poteva essere rimasta incinta?» «Poteva, certo,» disse. «Ho il sospetto che, dopo il quattordicesimo compleanno, la sua verginità non fosse altro che un ricordo. Ma non avevo certo modo di controllare.» «Sa una cosa,» dissi, ancora insospettito dalla balla che mi aveva raccontato sul suo drink, «certe volte la gente lascia scappare una piccola confessione - tipo le sue intenzioni egoistiche riguardo la carriera di Betty Sue -
per nascondere cose ben più grosse.» «E cosa potrei mai voler nascondere?» disse lui soave. «Che ne so,» risposi. Poi mi sporsi in avanti, quasi a toccargli le mani con le mie. «Sono un po' istruito,» dissi, «ma non poi così sofisticato.» «È rimasto un ragazzo di campagna, in fondo all'animo?» mi interruppe. «Proprio così. Mentre lei è un professionista» l'ha appena detto «e ha una grande esperienza nel recitare e nel mentire, oltre che nell'indossare maschere,» dissi, «e se scopro che mi ha preso per il culo, vecchio mio, può star sicuro che tornerò a far due chiacchiere con lei». Schiacciai la lattina nel pugno. Era una lattina massiccia, vecchio stile. Gleeson si lasciò scappare una risatina nervosa. «Lei è scadente anche come impostore,» disse con tutta la disinvoltura che riuscì a recuperare. «Non riuscirebbe a ingannare neanche un bambino, con questa finzione.» «A differenza sua, vecchio mio,» dissi, «la mia non è finzione». Poi gli abbrancai il polso e gli strinsi il braccialetto d'argento fino a farglielo penetrare nella pelle. «Le schermaglie intellettuali sono una gran bella cosa, amico, ma nel mio ramo d'affari si ragiona di violenza e dolore fisico.» «Mio dio,» gracchiò dimenandosi, «finirà per rompermi il braccio.» «E questo è solo l'inizio, amico,» dissi. «Tenga presente che ci provo gusto, a fare di queste cose, e che lei non mi piace proprio un beato cazzo.» «La prego,» uggiolò, col sudore che già gli punteggiava la pelata. «Sentiamo anche il resto,» sussurrai. «Non c'è altro, lo giuro... La prego... mi sta spezzando...» «Stia a sentire, amico bello,» dissi amabile, «l'esercito degli Stati Uniti ha investito un sacco di soldi su di me per farmi diventare un esperto di interrogatori, e mi ha riempito la testa di ogni sorta di puttanate psicologiche, ma quando sono arrivato nel 'Nam, col cazzo che ci siamo messi a fare della psicologia. Laggiù, quel che serviva era attaccarli per i capezzoli e la punta dell'uccello alle manovelle dei telefoni da campo, quei microbi figli di puttana, con tanto di mollette, e il bello è che quegli stronzetti erano cento volte più tosti di lei, ma vedesse come si sbrigavano a rispondere, quando squillava il telefono.» «Va bene,» gemette, «va bene». Gli lasciai andare il polso. «Non riesce mica a togliermelo?» grugnì, nel tentativo di sfilarsi il braccialetto tutto deformato. «Sicuro,» dissi, e raddrizzai la fascia d'argento. Il volto di Gleeson si coprì di rughe, e le palpebre gli presero a sbattere. Attaccò a sfregarsi il pol-
so, mentre io gli preparavo un drink. «Doveva dirmi qualcosa.» «Sì, giusto. Una volta, qualche tempo fa,» balbettò, «ho l'impressione di averla vista in un film porno, giù in città. Si trattava di una ragazza grassa e mostruosa, un vero suino, ma poteva benissimo essere lei, o perlomeno sembrava lei, perché la pellicola del film era di qualità scadente, tutta sgranata, e la luce ancora peggio, ma sembrava proprio lei, eccetto per questa cicatrice, questa brutta cicatrice proprio sulla pancia». Quando smise di parlare, la sua bocca contorta continuò a muoversi come un animaletto in preda agli spasmi dell'agonia. «E perché mentire su un fatto del genere?» gli chiesi, con sincero stupore. «Mi vergognavo... mi vergogno tuttora del mio interesse in cose... in cose simili,» disse, per poi precipitarsi sul bicchiere. «Ed era uno spettacolo così squallido, quella terribile cicciona e tutti quei vecchiacci...» «Mica si ricorda il titolo?» «Desiderio... no, forse Passione animale, roba così. Non me lo ricordo, ma era così tremendo,» disse lamentoso, e cominciò a frignare. «E così arrapante,» feci. Lui annuì. «È tutto quel che ha da dirmi?» chiesi, e lui annuì di nuovo. Non mi suonava giusta, ma non avrei saputo dire il perché. Quel che sapevo era che con lui avevo ormai raggiunto il limite. Mica avevo lo stomaco, per queste cose. L'unico interrogatorio cui avevo assistito, in Vietnam, mi aveva fatto venire il voltastomaco, ma non ricordo se avevo vomitato per via delle sofferenze del piccolo Vietcong, della soddisfazione del capitano dei Ranger vietnamiti, oppure per il mio stesso sfinimento. Avevo passato ventitré giorni nella boscaglia, e riuscivo a dormire anche in piedi, a occhi aperti; ottima soluzione, perché di dormire sdraiato e con gli occhi chiusi proprio non se ne parlava. Qualche giorno più tardi, commisi l'errore destinato a farmi lasciare dapprima il Vietnam e, due anni dopo, l'esercito. Quei tempi mi sembravano così lontani, di solito, ma ad ascoltare i discorsi di Gleeson pareva storia di ieri. «Ehi,» dissi, «mica volevo farle del male.» «Oh, capisco,» balbettò. «Quella terribile guerra vi ha sconvolto proprio in tanti, a voi ragazzi.» «Sono venuto via dal Vietnam nove anni fa,» dissi, «e non sono certo quel che si dice un ragazzo. Quindi non stia a cercarmi delle scuse.» «Ma certo,» disse con la massima sincerità possibile, «ma certo». Poi si tolse le mani dal viso e si asciugò le lacrime. «Mi farebbe un piccolo pia-
cere?» «Ovvero?» «Se riesce a ritrovarla, può farmelo sapere? La prego. La pagherò bene, fissi lei il prezzo. La prego.» «Doveva pensarci dieci anni fa.» «Ah,» disse, sfregandosi gli occhi. «Dieci anni fa non avevo ancora quarant'anni, mentre adesso ne ho quasi cinquanta, e non avevo certo idea che sarei rimasto qui dieci anni ancora, non avevo certo idea che il punto più alto della mia carriera l'avrei raggiunto con una piccola attrice di liceo. Non avevo la minima idea. E allora non sapevo cosa significasse Betty Sue per me. Adesso lo so. Vorrei solo rivederla, parlarle ancora una volta. La prego.» «Non penso di trovarla,» dissi. «Ma se le riuscisse...» «Glielo farò sapere gratis,» dissi. «Mi spiace per il polso, e grazie per le birre.» «Ma le pare,» rispose, con un lieve sorriso sulle labbra, per poi abbandonare di nuovo la testa tra le mani. Lo lasciai lì sul patio, con quel capoccione sulle braccia, simile a quello di chissà che bizzarra creatura. Nell'uscire dalla porta principale incocciai una ragazzina in top e jeans tagliati al sedere, che non aspettava altro per iniziare a spingere su per il vialetto la sua bici a dieci marce. Stavo quasi per dirle che Gleeson non era in casa, ma lei mi salutò e mi sorrise con lo stupore delle persone timide e beneducate, le cosce snelle e abbronzate e madide di sudore. «Salve,» mi fece. «Proprio una bella giornata.» «Col vino sostienimi, di grazia,» dissi, «e con la frutta confortami, perché malato sono d'amore.» «Che roba è?» mi chiese, un po' sconcertata. «Poesia, mi sembra.» Invece di prenderla tra le braccia per proteggerla, invece di rispedirla a casa con una bella ramanzina, le passai davanti diretto al mio El Camino. La gioventù resiste a tutto, ai re e alle poesie e all'amore. A tutto, ma non al tempo. 5 Visto che stava arrivando il sabato pomeriggio, e che non avevo alcuna
voglia di fungere da agnello sacrificale per puro spirito di carità cristiana, mi augurai che Albert Griffith non rispondesse al telefono. Troppa grazia. Quando gli ebbi spiegato cosa volevo, lui acconsentì a ricevermi presso il suo ufficio alle cinque. Mi parve addirittura ansioso di incontrarmi. Me ne andai a Petaluma e scovai l'insignificante bar di un motel, la cui TV trasmetteva un funereo match dei Giants col quale speravo di ammazzare il tempo fino alle cinque. Dopo che mi fui sparato un paio di mortali inning e qualche birra tirata più in lungo possibile, il barista prese ad aggirarsi dalle mie parti. Così gli chiesi un drink. «Transenna la mia sete con dighe di CC, o mio sodale, perché mi sarei già rotto i coglioni.» «Ehi, compare, vedi di darti una calmata,» disse lui, e si allontanò subito. «Volevo un Canadian Club con acqua, razza di stronzo,» gli berciai alle spalle. «Ma andrò a prendermelo da qualche altra parte.» «Non mi par vero, amico,» fece lui. Per mancia, gli lasciai i resti di una birra ormai stantia. Quando anche i baristi perdono il loro romanticismo, è davvero giunto il tempo di cambiare il mondo. O, almeno, di cambiare bar. Così me ne andai in cerca del giornale locale e del bar più vicino. Le romanticherie di Albert Griffith, peraltro, erano sufficienti a far venire la nausea anche a Doris Day. Il suo ufficio si trovava in una palazzina d'epoca vittoriana, restaurata, in una tranquilla stradina laterale appena fuori dal centro, condivisa con un altro studio legale e un paio di strizzacervelli. E si era pure messo in tiro per l'occasione. Un completo blu scuro a righine, con tanto di panciotto e cravatta di seta, roba di lusso. Mi fece entrare nel suo ufficio e mi offrì una sedia con braccioli, in broccato color oro, e un bicchiere di whisky scozzese ad alta gradazione. Accettai entrambe le cose. Nel mio settore, è bene abboccare alle manfrine di chicchessia. Per non più di cinque minuti. Gli avvocati, di solito, sono troppo contorti per andarmi a genio. Sembrano convinti che la giustizia non è altro che un gioco dalle regole complesse, che le aule di tribunale non sono altro che palcoscenici in miniatura, che i clienti non sono che un pretesto per mettere in scena i loro numeri da leguleio. Hanno anche la sgradevole abitudine di farsi eleggere a cariche pubbliche, o nominare membri di commissioni governative, per poi stendere testi di legge per la cui decifra-
zione è necessario assumere un altro avvocato. Ma Albert Griffith prese a comportarsi come se fosse il mio migliore amico. Per un solo istante. Non appena mi fui messo comodo, andò ad appoggiarsi col culo alla parte frontale della scrivania, un oggetto imponente, e si mise a torreggiarmi sopra a braccia conserte, con un sorriso amichevole filtrato da uno sguardo sardonico. Il tempo di assaggiare quello splendido whisky, che si lanciò subito nella sua scenetta. «Allora, signor Sughrue,» disse, «mettiamo subito le cose in chiaro. Ignoro come sia riuscito a convincere la signora Flowers ad assumerla per questa sorta di impresa disperata, e quanto sia riuscito a spillarle, a quella povera donna, ma sappia che si tratta di un'intima amica di mia madre, e intendo dare un taglio secco a questo suo sporco giochetto.» «Ah, quindi vorrebbe un pezzo della torta,» dissi. «Okay. Ce n'è a sufficienza per tutti.» «Come?» Mentre cercava di riprendere le fila del discorso, mi alzai per girare attorno alla scrivania, presi un sigaro da una nodosa scatola in noce, lo accesi, mi sedetti nella poltrona di pelle e piantai gli stivali sullo scrittoio. «Che diavolo sta combinando?» chiese lui. «Faccio come a casa mia, compare,» dissi, e gli soffiai il fumo in faccia. «Si tolga di lì,» sputacchiò. Mi fossi seduto sul viso di sua moglie, si sarebbe incazzato di meno. «Ascolti, Mimmo Mammolo,» dissi, arraffando una manciata di sigari per infilarmeli in tasca, «vedo che qui si è sistemato proprio bene, ma so che in realtà lei non è altro che l'ennesimo imbroglioncello di seconda categoria. Suo padre, le volte che riesce a tenersi saldo sulle gambe, va a piazzare i segnali di lavori in corso per la Società Autostrade, e sua madre è riuscita a farle studiare legge solo grazie alle mance raccattate in un istituto di bellezza. È suo suocero che ha pagato per questo allestimento da bordello vittoriano, per questa truffa da pseudolegale, e lei, signor Griffith, non solo è un disastro umano, ma è anche la barzelletta dei tribunali. Quindi eviti di rompermi i coglioni con queste stronzate da pezzo grosso.» «Se non esce dal mio ufficio in questo preciso istante, chiamo la polizia,» disse, con voce già incrinata dal pianto. «Prima si scusa,» dissi, «e prima potremo ripartire da capo.» Ma in quel preciso istante Griffith non aveva proprio niente da dire. Lo osservai cambiar colore almeno quattro volte, ed ebbi modo di esaminare a fondo l'abborracciato lavoro dentistico di cui erano caduti vittima i suoi
molari inferiori. Al bar nei pressi del giornale avevo scovato un corrispondente della Associated Press che, al costo di un cocktail 7&7, mi aveva raccontato la storia della vita del suddetto Albert Griffith. «Se può farle cambiare atteggiamento,» dissi, «dia un colpo di telefono a Rosie. In questa faccenda ha investito ottantasette dollari, due birre e un sorriso, e potrei farmi offrire ancora un paio di quelle birre, oltre a rimetterci di tasca mia un centinaio di dollari. Lei, comunque, non dovrà più tirar fuori un centesimo. Quindi la chiami, mentre io mi faccio un altro bicchierino di questo whisky da signori.» Andai a riempirmi il bicchiere, e lui telefonò a Rosie, per un minuto circa di conversazione a bassa voce. Poi riagganciò, si allentò la cravatta e si versò un drink di quelli tosti. Non avevo ancora capito un accidente di che tipo di donna fosse Betty Sue Flowers, ma la semplice menzione del suo nome sembrava spingere uomini ormai adulti ad attaccarsi alla bottiglia. «Perché non ci sediamo sul divano?» disse Albert, e così facemmo, alle estremità opposte di una lunga distesa di cuoio. «Voglia accettare le mie scuse,» disse. «Sono certo che lei è nel mestiere da quanto basta, per sapere che la maggior parte degli investigatori privati sono delle teste di cazzo. Quelli che lavorano in proprio, intendo. Già le grosse agenzie fanno abbastanza schifo, sotto quella facciata rispettabile che cercano di mantenere.» «La ringrazio.» «Per cosa?» «Per non avermi attribuito una facciata rispettabile.» «Ma le pare,» disse, occhieggiando i miei Levi's stinti e la camicia a quadri ormai logora, e scoppiando poi a ridere. Un po' troppo a lungo, per andarmi a genio. «Rosie mi ha spiegato ogni cosa, signor Sughrue. Sono spiacente per aver agito in maniera così impulsiva.» «Nessun problema,» dissi. «Ci sono avvezzo.» «Be', comunque mi spiace,» ripeté. Poteva anche darci un taglio, a questo punto. «Rosie mi ha anche detto che è stato proprio lei a insistere sulla perdita di tempo e danaro,» fece, e sfoderò un lieve sorriso. «Posso confermarle che si tratta davvero di una causa persa.» «Come mai?» «Quando Betty Sue è fuggita, io studiavo ancora a Berkeley,» disse, «e per due anni ho speso ogni mio momento libero a cercarla giù in città. E stia sicuro che i risultati si sono visti subito. Ce l'ho fatta giusto per un pelo, a superare gli esami di ammissione a legge,» disse con tono drammati-
co, senza tuttavia impressionarmi. «Non ho trascurato la più piccola traccia. Neanche una. Era come se fosse svanita dalla faccia della terra. Ho persino chiesto a un mio compagno d'università, che adesso sta a Washington, di controllare i versamenti della previdenza sociale di Betty Sue. Non ce ne sono mai stati. L'ultimo è ancora quello di un lavoretto part-time che aveva preso l'estate precedente alla sua fuga». Aspirò il whisky con un risucchio. La mano gli tremava così forte da fargli sbattere l'orlo del bicchiere sui denti. «Posso solo presumere, a questo punto, che non voglia più essere trovata, oppure che sia morta. Però, in quest'ultimo caso, non è successo né a San Francisco né in altre località della Baia. Quanto meno, non nei primi cinque anni dalla sua scomparsa.» «E come fa a saperlo?» «Per tutto quel tempo ho continuato ad andare negli obitori della contea a controllare ogni cadavere femminile non identificato,» disse sottovoce, come se il solo ricordo lo lasciasse sfinito. «Se l'è presa parecchio a cuore.» «Ne ero molto innamorato,» disse, «e Betty Sue era una ragazza davvero speciale.» «Così dicono,» feci, e me ne pentii subito. «Chi lo dice?» chiese lui, con voce che si sforzava di suonare disinvolta. «Tutti quanti.» «Tutti quanti chi?» «Il suo insegnante d'arte drammatica, per esempio,» dissi. «Gleeson,» grugnì. «Quel finocchio di merda. Sapeva un cazzo lui, di Betty Sue, e un cazzo gliene fregava. La incoraggiava a diventare un'attrice solo per farsi considerare chissà che pezzo grosso, ecco cosa. Lei era brava, certo, ma non che ci morisse dalla voglia. "Mi guardano e basta, Albert", mi diceva sempre, "mica mi vedono".» «Non l'ha detta Marilyn Monroe, questa?» «Eh? Boh, forse sì,» disse lui. «Sono certo che si tratta di un sentimento abbastanza comune tra le attrici. Betty Sue era molto sensibile al proprio aspetto fisico. Certe volte, durante una lite, scoppiava a piangere. "Fossi stata brutta o storpia", mi diceva, "mica mi avresti amato".» «E aveva ragione?» gli chiesi senza davvero volerlo. «Porca puttana, amico,» rispose lui imbestialito. «Non la vedo da dieci anni e... insomma, ne sono ancora mezzo innamorato.» «E sua moglie che ne dice?» «Con mia moglie non ne parliamo, di questa cosa,» disse sospirando.
«Metta che Betty Sue morisse così tanto dalla voglia di fare l'attrice, da scappare a Hollywood o a New York.» «Fanno ancora di queste cose, le ragazze?» chiese, lanciandomi un'occhiata. «La gente fa ancora le stesse cose di un tempo,» dissi. «E Betty Sue?» «Penso di no,» rispose, e mi chiese se volevo ancora un goccio di whisky. Alla mia risposta negativa, si alzò e si riempì di nuovo il bicchiere. «A lei piaceva quel che veniva prima, le prove e così via, ma il salire sul palco non era il suo momento cruciale». Tornò a sedersi. «I suoi entusiasmi erano passeggeri, sa com'è,» disse, come se a lui fosse stata risparmiata quella sorta di malattia. «Un mese toccava al teatro, e il recitare per lei era solo un momento di passaggio per arrivare a diventare autrice e regista, mentre il mese dopo era la volta della facoltà di medicina, con l'obiettivo di partire come medico nelle missioni. Poi era il turno della pittura, o di qualche altra forma d'arte figurativa. E il lato peggiore della faccenda era che le bastava incaponirsi su una cosa, che le riusciva farla alla perfezione. Per esempio, io come tennista valevo davvero poco - anche se sono quasi riuscito a entrare nella selezione universitaria - e ogni volta che andavo a giocare con Betty Sue, lei mi faceva vedere i sorci verdi, mi dia retta». Tacque per guardare cosa gli fosse rimasto nel bicchiere, poi decise di ingollarne metà in un colpo solo. «E comunque, poteva farne di tutti i colori, ma non ho mai visto una persona tanto sola come lei. Era questo il suo più grosso problema, questa solitudine. E io che potevo farci? Certe volte i miei tentativi sembravano peggiorare le cose. Non c'era verso di farle cambiare atteggiamento.» «Neanche a letto?» «Lei è proprio un volgare ficcanaso, non è vero?» disse tranquillo. «Deformazione professionale.» «Be', la verità è che non l'ho mai sfiorata neanche con un dito,» disse con adeguata malinconia. «Magari l'avessi fatto. A quest'ora non porterei questo peso sul groppone.» «E chi può essere stato, a sfiorarla?» «Ho sempre avuto il sospetto che non fosse vergine,» disse con un sorrisetto. «Ma lei non ne voleva parlare.» «Vi è capitato di litigare, per questo?» «Ci ho provato, a discutere, ma da parte sua nessuna reazione,» disse. «Se ne restava seduta, come all'interno di chissà che guscio, e piangeva. Oppure si faceva riaccompagnare a casa.»
«E il giorno della sua scomparsa, avevate litigato?» «No,» sussurrò Griffith, scuotendo il capo. «Era un giorno come tanti. Ce n'eravamo andati a San Francisco, con l'idea di mangiare qualcosa e poi infilarci in un cinema, ma lungo la strada lei aveva deciso che voleva passare da Haight-Ashbury a vedere gli hippy. Poi siamo rimasti imbottigliati nel traffico, lei ha aperto la portiera della macchina, è scesa e se n'è andata. Senza più guardarsi indietro. Senza una sola parola,» disse lentamente, come se avesse continuato a ripetersi in testa quella battuta chissà quante volte. «E non le è andato dietro?» «E come facevo?» strillò. «Mica lo sapevo che voleva scappare, e mica potevo lasciare la macchina nel bel mezzo della strada.» «Mi sembrava d'aver capito che avevate i biglietti per il teatro,» dissi. «Diamine, e chi se lo ricorda,» disse lui. «Sono passati dieci anni, dieci maledetti anni.» «Giusto.» «Un altro drink,» disse (o chiese?). Quando si alzò, gli porsi il mio bicchiere, ma lui si mise a girare per l'ufficio tenendolo in mano. «Può dirmi qualcos'altro di lei?» feci. Griffith si fermò e si mise a guardarmi come se fossi impazzito, poi riprese le sue peregrinazioni, col passo cauto dell'ubriaco. Ma la bocca e le mani gli si muovevano ormai da sole; prese ad agitare le braccia, a gridare quasi. «Dirle di lei? Mio dio, amico, potrei dirle di lei per giornate intere, e ancora non riuscire a farle un ritratto preciso. E dirle cosa? Che l'ho amata fin dall'infanzia, e che non è stata la sua fuga a uccidere il mio amore? Ho provato a smettere di amarla, oh se ho provato».Tacque per qualche istante. «Sembra tutto così stupido, adesso, non crede?» «Cosa?» «Che la scomparsa di una maledetta liceale, che non ho mai nemmeno toccato, sia ancora l'esperienza più traumatica di tutta la mia vita,» disse. «E sappia che di traumi ho una certa pratica, visto il padre alcolizzato che mi sono trovato attorno. Insomma, cos'è che vuole sapere?» «Ogni cosa. Qualsiasi cosa.» «Che ho sposato una donna tranquilla e noiosa, che ho avuto due figli tranquilli e noiosi che non riesco né a guardare in faccia né a piantare in asso né ad amare, per paura che anche loro taglino la corda?» «Ehi, amico,» dissi. «Queste stronzate vada a dirle agli strizzacervelli del piano di sopra. Non a me. Le ho chiesto di Betty Sue, non di Albert
Griffith.» «Sono già due anni che ci vado,» disse, con quella miscela d'orgoglio e di vergogna che è spesso tipica della gente in analisi. «E funziona, malgrado tutte le storielle che si raccontano. Avrei voluto frequentare medicina, sa com'è, ma tutte quelle visite all'obitorio, tutte quelle facce anonime sotto i teli cerati erano davvero troppo». Si avvicinò al mobile bar per spruzzare alla cieca un po' di whisky nei bicchieri, quindi continuò a tenersi il mio tra le mani. «L'ha appena detto lei, come avvocato sono la barzelletta dei tribunali. Ma mi sono appena iscritto all'università, alla Davis, al prossimo corso di laurea in medicina. Grazie a Betty Sue, ci sono voluti dieci anni in più per decidermi a cominciare, ma questa è proprio la volta buona.» «Buona fortuna,» gli dissi. «Grazie,» rispose, senza cogliere l'ironia. «C'è altro?» «Un'ultima domanda,» feci, «che davvero non mi va di fare, ma la cui risposta mi sarebbe davvero utile.» «Vale a dire?» chiese, e si accorse infine di avere ancora i due bicchieri in mano. Ma ancora non mi porse il mio. «E perché non le va di farla?» «Girano voci che Betty Sue sia stata coinvolta in qualche film porno a San Francisco.» «È una cosa talmente assurda che non mi sembra neanche degna di risposta,» disse, e mi porse finalmente il bicchiere. «Lei non ne sa nulla, eh?» gli chiesi, alzandomi per andare a mettere del ghiaccio in quel whisky troppo caldo per i miei gusti. «Non sia ridicolo,» disse, fronteggiandomi dalla parte opposta di un vasto tappeto persiano. «Okay,» risposi. «Si ricorda di una ragazza, una certa Peggy Bain?» «Ma certo. Era l'amica del cuore di Betty Sue. L'unica amica che aveva, a quanto ne so.» «Non è che sa anche dove abita?» «Forse sì,» disse. «Ho seguito la sua pratica di divorzio, qualche anno fa, e ogni tanto lei mi spedisce gli auguri di Natale». Si avvicinò alla scrivania e fece ruotare il Rolodex, poi prese una piccola penna d'oro e trascrisse su un biglietto da visita un indirizzo e un numero di telefono. Fu sufficiente questo semplice gesto a fargli recuperare parte della sua facciata, ma quando strinse la mano sul bicchiere le nocche erano ancora bianche. «Due anni fa viveva ancora a questo indirizzo di Palo Alto. Se la vede, le porga i miei saluti.» «Grazie,» risposi. «Non mancherò.»
«Senta,» disse a voce troppo alta. «Perché non ci sediamo a farci un paio di bicchierini? Così, per semplice piacere, invece che per lavoro.» «No, grazie,» gli dissi, poggiando sul tavolino il bicchiere ancora mezzo pieno. «Ho un appuntamento.» «Anch'io,» rispose acido consultando l'orologio. «Con mia moglie». Nell'accompagnarmi alla porta, Griffith mi strinse la mano e la tenne tra le sue. «Mi farebbe una cortesia?» «Dica.» «Se per caso, a seguito di non so che assurde circostanze, dovesse riuscire a rintracciare Betty Sue, me lo farebbe sapere?» «Ma neanche per sogno,» risposi, e recuperai il mio arto. «E perché mai?» chiese, lui, interdetto e quasi piangente. «Adesso le racconto una storia,» dissi, e la sua confusione parve aumentare. «Quando avevo dodici anni, mio padre lavorava in un ranch nel Wyoming, a ovest di uno sputo di paese chiamato Chugwater. Quell'estate la passai assieme a lui - lui e mia madre mica vivevano assieme, capisce e mio padre era a tal punto fuori di testa che così dal nulla si era convinto di avere una parte di sangue indiano. Pensi un po' che aveva preso a farsi le trecce ai capelli e vivere in un teepee, oltre che a farsi passare per un comanche Kwahadi. Visto che ero figlio suo, ero diventato comanche pure io. Fatto sta che quell'estate, avevo dodici anni, mi spedì a caccia di visioni. Tre giorni e tre notti seduto nel deserto senza muovermi, senza mangiare né dormire. E la sa una cosa? Successe davvero.» «Non sono mica tanto sicuro di capire quel che mi sta dicendo,» fece lui serio. «Be', le cose stanno così,» dissi. «Riuscii ad avere una visione. E da allora continuo ad averne.» «Allora?» «Sa com'è, quando lei si è messo a raccontarmi di cadaveri di donne non identificate, di quei teli cerati all'obitorio, ho avuto un'altra visione,» dissi. «E sarebbe?» «Ho visto la delusione che le si dipingeva in viso ogni volta che sotto quei teli cerati non c'era la persona che lei stava cercando,» dissi, e capì all'istante. Dopo due anni sul divanetto dell'analista, anche lui aveva iniziato ad avere visioni per proprio conto. «So che lei è una brava persona eccetera, e che non è davvero così che la pensa, ma questo è quanto, e se casomai dovessi trovare Betty Sue non le dirò proprio un bel niente.» «Perché deve comportarsi in questo modo?» gridò, ma io gli avevo già
chiuso la porta in faccia. Non avevo ancora una visione adeguata a rispondere a quest'ultima domanda. Nell'aprire il portone, mi toccò far passare una donna magra e di bell'aspetto, dai lineamenti delicati e dal sorriso nervoso, che mi ringraziò con una voce a tal punto sull'orlo della crisi di nervi che dovetti farmi forza per non saltare di corsa sull'El Camino. Per lei, niente visioni né poesia. Per me, come viatico, solo una birra. Rimasi per qualche tempo a cullare la lattina - che avevo preso dal piccolo frigobar portatile che tenevo sul sedile del passeggero - neanche fosse chissà che esserino venuto dallo spazio, a pensare a quel mezzo matto di mio padre e a quei giorni e notti che mi costringeva a passare seduto a gambe incrociate su uno spuntone di roccia gessosa che sovrastava il Sybille Creek, fermo e immobile come uno stupido animale o una pietra tombale a guardia di una fossa senza nome. Ne avevo sì, di visioni. Dapprima erano visioni di morte per fame, o di tale e tanta noia sufficiente essa stessa a farmi crepare, poi visioni in cui morivo di freddo sotto le stelle o finivo per ritrovarmi storpio a vita, bloccato per sempre in quella posizione a gambe incrociate come un cazzo di freak in pieno trip. Ma alla fine arrivarono anche le visioni autentiche: una pietra volante, una stella che parlava con l'eloquenza di un professore di Oxford, Virginia Mayo ai miei piedi. Non che pensassi di essere davvero un bravo comanche, eh; ne avevo visti fin troppi, di film, e poi quel matto di mio padre si era inventato l'intero ambaradam da capo a fondo. Ma, perdio, le visioni ce le avevo eccome. E nessuna droga o miscela di droghe che avevo assunto da adulto era mai riuscita a procurarmi effetti simili. Però è anche vero che non avevo mai più risalito il Sybille Creek fino a quello spuntone di roccia. E non l'avrei più fatto. 6 Nel tornare a Sonoma, continuai a chiedermi cosa avessero fatto Gleeson e il povero Albert per suscitarmi tutta quella cattiveria. Con Gleeson mi ero comportato da prepotente senza pietà, mentre Albert l'avevo aperto da parte a parte come una piaga rognosa, e poi li avevo piantati entrambi in asso, a parlare a un bicchiere ormai vuoto. Forse un simile accesso di cattiveria era un tratto di natura. Era proprio la stessa cosa che mi aveva detto l'ultima donna di cui mi ero innamorato, nel rifiutarsi di sposarmi. Già aveva due figli da tirar su, mi aveva detto, e non voleva che da me imparassero a comportarsi da stronzi. Oltre a qualche altra cosetta, beninteso. Ci
avrei anche provato a compatire Gleeson e il povero Albert, se questa faccenda non mi avesse fatto diventare così iena. E magari a compatire anche quella tipa che non mi aveva voluto sposare. Ma lei me l'ero tolta di dosso grazie a quella ciucca che era terminata tra i cessi e i portacenere di Elko. Poi me n'ero tornato a casa e mi ero rimesso così bene a lucido che la sola idea di correre dietro a Trahearne nel suo sconsiderato delirio alcolico mi aveva fatto saltare come un grillo. Non avevo certo trovato indulgenza e perdono, ma almeno un lavoro sì. Ero anche riuscito a scovare Trahearne, anche se sapevo benissimo di non avere la minima possibilità di rintracciare Betty Sue Flowers. Non una su un milione. Così finii la birra e riportai l'El Camino in strada. È questo che so fare. E lo faccio da anni. Le manfrine di Trahearne, tuttavia, continuavano a saltar fuori come una moneta fasulla o un assicuratore troppo insistente. Quando entrai nella mia stanza, al motel, la carcassa del vecchiardo era arenata sull'altro letto matrimoniale come un relitto sulla spiaggia. Sul comodino tra i due letti giaceva una sorta di tinozza da due litri, piena di vodka, ghiaccio e acqua tonica, mentre sul mio cuscino spiccava un biglietto scarabocchiato. Fermatemi, prima che uccida di nuovo. In un angolo della stanza, si levava una pila eterogenea e silente di riviste mai aperte e tascabili ancora intonsi. Lo presi per la spalla e gli chiesi che cazzo ci faceva, in camera mia, ma lui si limitò a sorridere, tra una russata e l'altra, come un angioletto ripugnante. Ripulii alla meno peggio, mi infilai i miei unici jeans decenti, e lo lasciai lì a dormire, senza neanche lasciargli scritta una battuta simpatica. Nella mia giornata, fino a quel momento, non c'era proprio niente da ridere. Bea Rolands era cresciuta a Sacramento, non aveva mai sentito nominare Betty Sue Flowers, e quando scoprì che ero un millantatore era ormai troppo tardi per far cambiare piega alla serata. Ce la spassammo, giù in città, per quel che c'era da fare, perlustrammo la vita notturna a colpi di risate e di stronzate, conditi da un po' della sua erba di produzione casalinga e da un po' del mio whisky. Poi tornammo barcollanti al motel, per la cazzata più cazzata di tutte. Trascinammo fino in camera mia anche un bel malloppo di libri di Trahearne, anche se il grand'uomo non poteva certo autografarli nel sonno. «Possiamo sempre aspettare fino a domattina,» suggerii io, puntando
dritto al letto. «Oh, non contare su di me,» ridacchiò Bea. «Devo essere a Sacramento prima dell'una di pomeriggio. E poi non posso certo fare di queste cose con lui che se la dorme nel letto accanto.» «Vuoi che lo svegli?» «No di certo, stupido,» fece lei. «Proprio di questo ho paura.» «Non preoccuparti, tesoro,» le sussurrai in un orecchio resosi improvvisamente disponibile. «Il giovanotto, qui, dorme come un sasso. E c'è un altro fatto...» «Quale?» «Be', non so se posso dirtelo.» «Prova.» «Insomma, al vecchiardo non gli si rizza più,» dissi con fare serio. «Colpa del whisky e dei traumi della guerra, tu mi capisci. Ma se c'è una cosa che gli piace, è dormirsela della grossa proprio accanto a qualcuno che ci dà dentro.» «Vorrai scherzare.» «Proprio no,» dissi. «Secondo lui, è proprio la potenza emanata dal rapporto sessuale a suscitargli i sogni più incredibili. Dice che in pratica è l'ultimo piacere che gli resta, in questa vita.» «No,» fece lei, scuotendo la testa (però mi stava ancora addosso). «E invece sì,» le bisbigliai in quell'orecchiuccio morbido. «Va' a saperlo, magari stanotte gli scappa chissà che sogno, e domattina ci scrive sopra un'intera poesia. Così poi gliela faccio dedicare a te». Ciò detto, mi toccò inscenare un attacco di tosse per coprire le malcelate risatine di Trahearne. «Pensi che lo farebbe davvero?» mi chiese lei, pudica. «Penso di poter sistemare le cose.» Bea fece un passo indietro e sorrise. «Ma ti tocca spesso di fargli da mezzano in questo modo?» «Neanche la metà di quanto vorrei.» «Affare fatto,» sussurrò, per poi gettarsi di nuovo tra le mie braccia, «però devi spegnere la luce.» «Ma così non potrò vederti le lentiggini.» «Puoi sempre sentirne il sapore, scemo.» L'indomani mattina ci scoprì tutti e tre a far colazione a letto: fragole di serra e vera panna montata, crèpes di tacchino e tre bottiglie di champagne californiano. Trahearne mollò un sospiro gigante e terminò di firmare l'ul-
timo dei volumi di Bea. «Mia cara,» le disse infine, «sono certo che al mio fedele servitore indiano sia scappata qualche indiscrezione di troppo, la scorsa notte, e che le abbia riferito faccende di estrema riservatezza, cose troppo personali perché possano mai vedere la luce del giorno, questioni di cui le chiederei come favore del tutto personale di non discutere con anima viva. Se iniziassero a girare di queste voci, potrei ritrovarmi in situazioni davvero imbarazzanti, sa com'è.» «Oh, signor Trahearne, preferirei morire prima di farmi scappare una sola parola,» tubò Bea, per poi infilarsi una fragola in quella splendida bocca. «Mi chiami Abraham, la prego,» disse Trahearne con tono formale. «Mi ritengo suo debitore.» «E io vorrei essere chiamato Isacco,» blaterai con la bocca piena di tacchino. «E io, invece, come dovrei essere chiamata?» chiese leggiadra Bea. «Rose of Sharon, il giglio della valle; non certo nero, purtuttavia magnifico d'aspetto,» disse serio Trahearne. «Che ne dici della Puttana di Babilonia?» suggerii io. «Non fare lo stronzo,» disse amabile lei, per poi rifilarmi una tremenda gomitata nelle costole mentre dava un'occhiata all'orologio. «Chiamatemi come vi pare,» disse, «ma se per l'una non riesco a essere a Sacramento da mia madre, il mio nome sarà comunque trascinato nel fango». Poi, come se fosse la cosa più naturale del mondo, scivolò da sotto le coperte, nuda come un baco, raccolse i suoi vestiti (ben piegati, peraltro) e si avviò lenta e priva di vergogna verso il bagno. Il sole del mattino si rifletteva sui sussulti delle sue tette non abbronzate, così come su quei fianchi ondeggianti. «Un'autentica meraviglia,» borbottò Trahearne, non appena Bea richiuse la porta. «E che numero il tuo, Sughrue. Credevo di averle ormai sentite tutte, ma la potenza emanata dal rapporto sessuale, e i sogni erotici del povero vecchio impotente! Com'è che ti è venuta in mente questa roba?» «Erba,» dissi. «Mica penserà che si è davvero bevuta tutte queste stronzate, eh?» «Le donne amano questo genere di bugie,» disse, «così come amano mostrarsi servizievoli. È da qui che traggono il potere che su di noi esercitano, ragazzo mio, la vittoria nell'apparente sconfitta, l'influenza nell'apparente sottomissione.» «Devo prendere appunti?» «Mai che tu smetta di giocare all'investigatore col pelo sullo stomaco,
eh?» disse. «Che ne pensi della mia sceneggiata da vecchio trombone di mondo?» «Se il culo di un maiale è pur sempre carne di porco, vecchio, com'è che si ostinano a chiamarlo prosciutto?» «L'invidia, mio giovine amico, è un sentimento sì misero e meschino,» disse. «Mi hai sentito forse invidiare l'ispirata performance della tua amichetta, la scorsa notte?» «L'ho sentita ansimare, vecchio mio, eccome. Conta qualcosa?» Trahearne scoppiò a ridere, e io versai lo champagne. «Lasci che le dica grazie, mia cara,» fece Trahearne non appena Bea uscì dal bagno, «per questa magnifica esibizione. Che ha infuso, come si dice, un gran calore nel mio cuore...» «C'è mica verso,» dissi io, «di infondere un po' di calore nelle sue frasi fatte?» «... e mi ha fatto tornare la fiducia nella natura umana. Lei è stata fin troppo gentile nei confronti di un uomo vecchio e malandato.» «Ma le pare, signor Trahearne. Non ne parliamo nemmeno,» rispose lei, e si chinò a baciargli la guancia paffuta. La manona del vecchiardo risalì la coscia della ragazza per fermarsi ad accarezzarle il culo. «Inoltre, lei è proprio un vecchio imbroglione,» disse Bea, e fiondò sotto le coperte la sua robusta mano da infermiera per affibbiare a Trahearne una violenta strizzata di palle. «Beccato,» ridacchiò poi. Lui diventò tutto rosso, e cominciò a sputazzare tutt'attorno nel tentativo di recuperare un briciolo di dignità. Lei si spostò dalla mia parte e mi rifilò un bacio che, nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto convertirmi alle virtù del focolare domestico e farmi buttare alle ortiche la mia vita di vagabondo, almeno per qualche giorno. « Non ho mai incontrato un bugiardo più ridicolo di te, C. W.,» fece poi, «con tutte quelle puttanate sulla potenza che emana il rapporto sessuale eccetera. Ma sei un tesoro. Chiamami pure quando vuoi». Ciò detto, volò fuori dalla stanza, i libri sottobraccio, spargendo risate come monetine e lasciando nell'aria un lieve e libidinoso sentore di donna. «Perdio, che ragazza eccezionale,» tromboneggiò Trahearne. «Voi vecchiardi v'impressionate con poco.» «Ah-ha! Sono forse tracce del vero amore, quelle che odo celarsi sotto il morso di un logoro cinismo?» «Vero amore col cazzo,» dissi beffardo. «È la rivoluzione sessuale, il matrimonio aperto, il crescere assieme e allo stesso tempo distanti. Adesso lei sta andando dal suo amichetto, il medico, a casa di sua madre. Lui, in-
vece, ha passato la notte a inchiavardare la sua seconda ex moglie, la sorella di lei, il ragazzo di sua sorella e un can pastore bisessuale.» «Che squallore, se così è.» «Non credo di sbagliare di molto,» dissi. «Proprio un vero squallore, quindi,» fece lui. «Ancora me lo ricordo, il vero amore.» «Intende i vecchi tempi in cui bisognava fidanzarsi prima di far vedere agli amici il culo della propria ragazza?» «Tutto questo cinismo mica ti si addice,» disse lui allegro. «Mi spiace. Sarà lo champagne.» «Che strano,» disse. «A me, fa diventare romantico.» «'sti cazzi.» «Ma dove accidenti ti ha scovato, Catherine, ragazzo mio?» mi chiese. «Non certo sulle Pagine Gialle o roba del genere.» «Nell'elenco ci sono,» risposi, «ma ha sentito parlare di me in un bar.» «Figuriamoci,» disse lui, alzando un sopracciglio delle dimensioni di un verme peloso. «Dove?» «Allo Sportsman, a Cauldron Springs,» dissi. «Il proprietario è un mio vecchio commilitone.» «Bob Dawson?» «Proprio lui. È venuta a chiedere di lei, se qualcuno l'aveva mai vista, e Bob le ha detto che un suo amico era esperto nel cercare oggetti smarriti, tipo ex mariti. Una cosa tira l'altra.» «Ci avrei scommesso,» rispose lui, chissà perché irritato; ma poi capii. «È la sua ex moglie, o no?» dissi. «Quindi, che cazzo gliene frega?» «A me, proprio nulla,» fece Trahearne. «È solo che mia madre ne prova imbarazzo.» «Sua madre?» «Catherine abita con mia madre. Nella casa di mia madre, peraltro,» disse, «che un po' s'incazza quando la mia ex moglie va puttaneggiando per tutto lo stato.» «Anche lei abita con sua madre?» «Casa mia è a un tiro di schioppo.» «Non mi sembra molto contento della situazione,» dissi. «Certe volte no.» «Cambi casa.» «Mica è così semplice,» disse. «È anziana e disfatta dall'artrite, e le ho promesso che avrei continuato ad abitare al ranch fino alla sua morte. Al-
meno questo glielo devo, mi capisci. E poi, un posto vale l'altro.» «Ma la gente è diversa,» dissi. Lui mi ignorò, bevve una lunga sorsata di champagne direttamente dalla bottiglia fin quasi a soffocarsi, e infine mi sorrise a occhi lucidi. «Se solo avessi saputo quanto ce la saremmo spassata, Sughrue,» disse, «mi sarei fatto acchiappare prima.» «È un divertimento costoso,» dissi io. «Ma vale fino all'ultimo centesimo,» rispose, lasciando cadere sulla moquette la bottiglia vuota. «Avrei speso fino all'ultimo quattrino, solo per vedere quella ragazza che attraversava la stanza». Si tirò su, appoggiandosi alla natica sana. «Perdio, se mi piacciono le ragazze nude,» fece. «E sì che ne avrò viste a battaglioni, in vita mia, ma non ci ho mai fatto l'abitudine». Scosse il capo, sghignazzò. «Fa' saltare il tappo a quell'altra bottiglia,» mi disse, «e beviamo alla salute delle donne nude.» Il tappo finì per rimbalzare sul soffitto e svolazzare poi sulla moquette come un animaletto in preda alle convulsioni. Riempii i bicchieri: Trahearne sollevò il suo contro un morbido raggio di sole che era riuscito a filtrare tra gli eucalipti, e restò a guardare le bollicine che salivano in superficie, simili a gemme galleggianti. «Che buffo,» disse. «Cosa?» Allora si mise a parlarmi di donne nude e di raggi di sole. E della sua stronzaggine. Sua madre era stata messa incinta dal proprietario di un ranch a Cauldron Springs, il paesino in cui era insegnante elementare. Lui era sposato, ma lei no, e quindi la direzione scolastica l'aveva costretta ad andarsene. Si era trasferita a Seattle, per il parto, e là era rimasta dopo la nascita del bambino, accettando i lavori più umili pur di riuscire a mantenere entrambi. Quando Trahearne aveva cominciato ad andare a scuola, sua madre si era messa a scrivere, pubblicando racconti su riviste di storie western e collaborando a qualche giornale e rivista della zona. Grazie a questo, avevano potuto trasferirsi in un condominio popolare ai margini di Capitol Hill. Dopo la scuola Trahearne se ne tornava a casa passando da quei vicoli, così da parlare con i protagonisti dei racconti di sua madre, taglialegna e marinai disoccupati, gente ormai anziana che aveva conosciuto tempi ben più violenti, luoghi lontani e romantici. Certe volte, nei suoi vagabondaggi, scorgeva una donna nuda dietro una
finestra sul retro, a un primo piano. Ma solo quando pioveva, come se la pioggia grigiastra che batteva su quella finestra buia avesse il potere di renderla invisibile, quella donna. Il ragazzo, però, riusciva a vederla, immagine tenue ma dai contorni netti, dietro il riflesso delle finestre e delle scale d'emergenza dalla parte opposta del vicolo. Sotto l'acqua, alla finestra, la donna a volte si sfiorava gli scuri capezzoli, a volte teneva tra le mani i pallidi seni, ma sempre con gli occhi persi tra la pioggia. Mai col sole, sempre con la pioggia. E a volte chinava il viso lentamente, verso il basso, per poi sorridere, gli occhi grigi fissi da dietro la finestra in quelli del ragazzo, e sollevava i seni quasi a valutarne la pesantezza, come se fossero pietre da scagliargli contro. E rideva, a volte, e lui sentiva la pioggia scorrergli sul volto infuocato, simile a lacrime di ghiaccio. La notte lui sognava il sole, in quel vicolo, e si svegliava all'insistente e morbido scrosciare della pioggia. Anche al termine del liceo, per tutto il primo anno di college alla University of Washington - in cui era rimasto ad abitare con la madre continuò a vedere la donna. E anche in seguito, quando si fu trasferito più vicino al campus, nei giorni di cattivo tempo continuò a tornare nel suo vecchio quartiere, per battere il selciato di quello squallido vicolo di mattoni rossi che la pioggia faceva brillare. Solo quando si fu laureato, e l'impossibilità di trovare lavoro a Seattle lo costrinse a spostarsi nell'Idaho a fare il boscaiolo, a legare assieme i tronchi appena tagliati, solo allora smise di tornare in quel vicolo a spiare e attendere le apparizioni della donna. Certo, vi furono delle ragazze, in quei giorni, ma non era la stessa cosa, sia in una casupola da turisti sia su una coperta sotto le stelle e tra gli alberi. Be', una volta, una ragazza sì, quasi. Un'indiana grassottella con cui aveva fatto il bagno in un lago, una mattina all'alba, entrambi senza costume; un lago che aveva inondato un'antica foresta acquitrinosa, pieno zeppo di minuscole e scure particelle di legno che vi navigavano come in sospensione; lei era nuda, vicina ma allo stesso tempo distante, come una pattinatrice che piroetta in una tempesta di neve. Una sì, una volta, quasi. Poi scoppiò la guerra. Trahearne si arruolò nei Marines nel gennaio 1942, e dopo il corso ufficiali - con i gradi dorati e scintillanti - scelse di passare la sua ultima licenza a San Francisco invece di tornarsene a Seattle per rivedere sua madre, prima di essere spedito sul fronte del Pacifico. Proprio a metà del Golden Gate incontrò una giovane vedova neanche ventenne, il cui marito era stato guardiamarina sull'Arizona, a Pearl Harbor. Dapprima, nel vedere quel vestito nero e quel giovane, pallido viso già di-
strutto dalle lacrime, lui pensò di trovarsi davanti a un'imminente suicida, ma gli bastò rivolgerle la parola per capire che così non era. Era andata fin laggiù per gettare la sua fede nuziale nella baia. Una cosa tira l'altra, disse con tono dolente Trahearne, e i due finirono per innamorarsi, il giovane sottotenente ansioso di partire per la guerra a caccia di gloria, e la vedova ragazzina che in quella guerra aveva già perduto un uomo, con un improvviso scoppio di violenza pari a quello della prima goccia di sangue che aveva marchiato la fine della sua infanzia, appena pochi anni prima. Il loro amore, disse lui, aveva fin dall'inizio il dolciastro odore della morte; e ogni volta che si accoppiavano era per entrambi come se fosse l'ultima. L'ultimo giorno di licenza lui la portò di nuovo sul ponte. Laggiù, in un rumoroso pomeriggio di primavera, col vento che sorgeva freddo dalla verde superficie del mare, carico di profumi come una giungla, e che spingeva il sole nelle travate come un'eco di lontani colpi d'artiglieria, Trahearne raccontò al suo nuovo amore di quella donna nuda e della pioggia. Ma prima che potesse finire, lei iniziò a sbottonarsi la camicetta e, dimentica della gente che stava loro attorno, espose i suoi piccoli seni al sole del pomeriggio, per poi mandarlo a morire. «Fino a quel momento,» mi disse Trahearne, «non mi era ancora capitato nulla di così eccitante. E, forse, neanche dopo. Che ne so». Poi tacque. «Mai stato così colpito,» aggiunse infine, con voce tonante. «Un gesto così commovente.» «Che fine ha fatto?» «Sempre con queste domande del cazzo, eh?» disse, e mi rifilò una lunga occhiataccia. «Che fine hanno fatto tutti quanti, allora. C'è stata la guerra, ecco cosa. Ma quanto potrai ricordartene, tu.» «Ricordo che mio padre è partito, poi è tornato, e infine se n'è andato per sempre,» dissi. «Caduto?» «No,» feci. «Dopo aver visto il Nord Africa, l'Italia e il sud della Francia, il Texas meridionale non gli faceva più chissà che grande effetto. Se n'è venuto all'ovest, mentre io e mia madre siamo rimasti a casa. Secondo lei, per mio padre la guerra è stata solo una scusa per diventare finalmente inetto e inconcludente come aveva sempre desiderato.» «Così sono le donne, ragazzo,» filosofeggiò. «Non la capiscono, questa necessità di muoversi. Da' loro una caverna riscaldata e trippe d'antilope a pranzo e cena, e chi le muove più di casa?»
«Forse che sì, forse che no,» risposi. «Ma che fine ha fatto la donna?» «Quale donna?» chiese lui, in apparenza sorpreso e irritato. «Quella con le tette.» «Certo, mio giovane amico, avrai anche un pizzico d'immaginazione, però sei proprio linguacciuto e senza cuore.» «Gliel'ho detto che sono un gran rompicoglioni.» «Ci credo,» disse. «Per cosa stanno quelle iniziali, C e W?» «Nulla,» mentii. «Insomma, che fine ha fatto?» «Cazzo, figliolo, non lo so,» borbottò lui. «Avrà sposato un 4-F o un tipo con le pezze al culo, oppure un altro ufficiale che aveva più giorni di licenza di me. Che differenza fa? È la storia, che conta.» «Solo quando saprò come va a finire.» «Le storie sono come istantanee, figliolo, immagini che immobilizzano il tempo, dai margini nitidi e ben definiti. Ma questa era vita vera, e la vita comincia e finisce in una sporca pozza di sangue, dal ventre materno alla tomba, un unico grande casino, un barattolo di vermi lasciati al sole.» «Giusto.» «E a proposito di casini,» disse, sorridendo, «cos'è che hai intenzione di fare, adesso?» «Riportarla a casa, mi sa.» «E la figlia scomparsa di Rosie?» «È uno spreco di tempo,» feci. «Se avessi un anno da perdere potrei anche trovarla, o quanto meno scoprire cosa le è successo. Ma non certo in un paio di giorni. Dirò a Rosie che lei è stato dimesso dall'ospedale prima del previsto». Ma non era quel che avevo intenzione di dire. «Ascolta, figliolo. Io, a casa, non ho proprio un beato cazzo da fare,» disse spremendo nei bicchieri le ultime gocce di champagne, «e credo di essermi pur guadagnato qualche giorno di sollazzo. Porca puttana, mi hanno sparato di nuovo, e sono ancora vivo... Quindi, perché non ci perdi un altro paio di giorni, dietro a questa storia?» «Be', certo, se non le secca...» «Seccarmi, figliolo? Cazzo, sono io che insisto,» disse pomposo. «Fantastico.» «Ma ho un piccolo favore da chiederti,» disse nel sedersi cauto sull'orlo del letto. «Sarebbe?» «Portami con te,» fece timido, borbottando chissà cosa e sfregando i piedi sulla moquette.
«Come?» «Fammi venire con te,» disse. Mi scappò da ridere, e lui sollevò la testa di scatto. «Non ti starò tra i piedi, è una promessa.» «Prometta di restare relativamente sobrio,» dissi, «e sarà il benvenuto a bordo.» «Sobrio quanto?» «Almeno quanto me.» «Allora non è un problema,» gracchiò. «Sicuro che non ti dispiace?» «Il culo è suo, vecchio,» dissi. «Cerca di non rammentarmelo, ti prego,» mormorò, e si tirò su dal letto con una certa rigidità, ma con un gran sorriso. «È una gran giornata, figliolo. Fermiamoci a prendere la mia bagnarola, tiriamo giù la capote per far entrare sole e aria pulita, facciamo spazzare via dal vento questo tanfo d'ospedale e, magari, anche quel non so che di sfrenata passione che ancora ci soffia nel naso. Perdio, sono disposto a pagarli di tasca mia, benzina e whisky.» «E come faccio con le spese?» gli chiesi, mentre barcollava verso il bagno, ma lui mi congedò con un cenno della mano, come a dire «Al diavolo le spese». Mentre rimettevo al suo posto la calotta dello spinterogeno e traslocavo le nostre carabattole sulla decappottabile di Trahearne, il vecchiardo cercò di convincere Fireball, ancora intontito dai postumi di una sbronza, a scendere dal sedile posteriore, ma il bulldog aveva la ferma intenzione - con ogni evidenza - di difendere le sue posizioni fino alla morte. O almeno fino a quando Trahearne non si decise a versare una birra ghiacciata nel rugginoso coprimozzo di una Hudson. Fireball immerse subito il muso nella sua birra mattutina, e noi potemmo finalmente saltare in macchina e abbassare la capote, ma quando ci mettemmo in marcia il cane gettò una veloce occhiata alle porte sbarrate del bar di Rosie, poi si mise a inseguirci lungo la strada con un cazzo di passo ondeggiante e ben determinato, come se sapesse alla perfezione che eravamo noi gli spacciatori delle uniche birre ghiacciate doposbronza in circolazione per tutta la California del nord in quella domenica mattina, e come se avesse tutta la voglia di addentare la Cadillac a una gomma posteriore e scuoterla fino a farle cadere, quelle birre. Rallentai per tenerlo d'occhio. «Prima o poi dovrà mollare, quello stupido figlio di puttana,» disse Trahearne dopo quasi un paio di chilometri di strada.
Forse è proprio questa l'esatta definizione di stupido figlio di puttana: uno che non molla mai. Dopo un altro paio di centinaia di metri, fermai la macchina per aspettare il bulldog. Lui ci raggiunse, assetato e rompicoglioni. Trahearne aprì la portiera, lo fece salire e gli rifilò una birra. Fireball storse il naso e si arrampicò sul sedile posteriore, dove si accomodò con esorbitante dignità e rimase in attesa, come uno spocchioso miliardario che aspetta l'aiuto di qualche salariato per ripartire. Così feci io. Lo spostamento d'aria gli fece vibrare le guance cadenti; con ogni apparenza Fireball sembrava proprio apprezzare il sole mattutino e quella scarrozzata domenicale. «Gli manca soltanto un sigaro,» grugnì Trahearne. Gli porsi quelli che avevo fregato al povero Albert, ma lui li tenne per sé. «Che comica,» si mise a berciare, immerso nella nebbia del sigaro appena acceso, e si mise comodo per godersi la corsa. «Che cazzo di comica!» Ancora fuori da San Rafael, mi toccò tirare una consistente frenata per scansare un furgoncino allegrotto che tentava di tagliare tre corsie per infilare un'uscita. Trahearne trasalì, poi si tirò più in alto sul cuscino che avevamo sgraffignato al motel. «Perdio,» disse, «se solo fossi più giovane... o se solo fossi tutto intero, che cazzo... potremmo fargliele imparare noi un po' di buone maniere, a quei disgraziati.» «Sicuro che è proprio quel che le va di fare, vecchio?» gli chiesi. «Figliolo, non ho mai voluto far altro che questo,» disse lui, ancora sogghignante per combattere il dolore. «In strada e via, no? Forza, muoversi. Ed eccomi qui, difatti, in giro per l'America con un bulldog alcolizzato, un detective scalcagnato e un litrozzo già aperto di Wild Turkey.» Allungò la mano nel vano portaoggetti, si sparò una sorsata e mi passò la bottiglia. «Ma non chiamarmi vecchio. Non chiedo altro.» «E lei non mi chiami detective scalcagnato.» «È una giornata troppo bella per essere volgari,» disse. «E se me lo allunghi, quello scacciaguai, invece di tenerlo tutto per te, cercherò di farmi passare il dolore». Quando gli porsi la bottiglia, le mollò una robusta gozzata. «No, grazie,» gli dissi quando me la offrì di nuovo. «Le secca se le faccio una domanda personale?» «Sbaglio, o in questa faccenda ci siamo dentro tutti e due?» «Ma lei che ci faceva, in giro?» gli chiesi. «Era a caccia di sua moglie?»
«Mica era scappata,» rispose. «Ogni tanto Melinda ha bisogno di cambiare ambiente, come gran parte degli artisti: nuove prospettive, nuovi panorami eccetera. Restarsene da soli, nell'anonimato, vedere il mondo con occhio non inquinato dall'eccessiva compagnia. Dio, se la capisco. E se non posso capirla io, chi altri può farlo? Per fortuna, nel nostro matrimonio c'è spazio a sufficienza per questo tipo di libertà; stavolta, a differenza del mio precedente matrimonio, io e mia moglie non dipendiamo l'uno dall'altro al cento per cento». Infine tacque, per un po'. «Quell'accidente di Catherine. Abbiamo divorziato, ma sembra che non riesco a togliermela dai piedi. Deve aver avuto non so che folle idea su quest'assurda fuga di Melinda - sono sicuro che ci ha provato un sacco di gusto - e che io mi ero messo a cercarla con intenzioni omicide. O qualcosa di altrettanto melodrammatico. Avrà pensato di potermi salvare, spedendo te a cercarmi. Roba del genere, insomma. Per la miseria, ci sono stato sposato per più di vent'anni con quella donna, o meglio mi ha zavorrato per tutto questo tempo, e ancora non ho la minima idea di cosa le passa per la testa. Non mi stupirebbe scoprire che sei stato assunto proprio per spararmi nel culo.» «Mica male, allora, come avrei gestito la faccenda. No?» «Non c'è tanto da scherzare, con Catherine,» disse lui ridacchiando. «È un genio, nell'architettare cose del genere». Mi stava dicendo più di quanto gli avessi chiesto, ma non avevo idea cosa fosse. «Non sei sposato, o sbaglio?» «Mai stato.» «Pensavo anch'io,» disse. «Non sei abbastanza complicato per sopravvivere.» «È quel che ho sempre detto.» Dopo una lunga pausa si mise a guardare i complessi residenziali, fragili monumenti che ci scorrevano davanti agli occhi. «E a te secca, se ti faccio io una domanda?» «No di certo.» «Dove cazzo stiamo andando?» disse, poi scoppiò a ridere come un pazzo. Quando infine smise, gli raccontai quel che avevo scoperto su Betty Sue Flowers, quel che avevo intenzione di fare, e dove pensavo di andare a guardare; il tutto cercando di sovrastare il rombo della strada, fin quando non c'immettemmo negli spazi azzurri e battuti dal vento del Golden Gate. Io parlavo, Trahearne beveva e a un certo punto, nell'attraversare il ponte, smise di ascoltare pensando - ma questo lo immaginavo io - a quella giovane vedova. Guardò fisso la bottiglia, salda tra le mani come una granata,
poi aggrottò la fronte. La voglia di cazzeggiare gli era già passata. Sul sedile posteriore, il bulldog se ne stava accovacciato come un idolo pagano, una sorta di rospo dai poteri magici con un rubino incassato nel cranio, grande quanto un pugno chiuso, e che mandava bagliori da quegli occhi a dir poco stoici con un imperscrutabile sorrisetto mistico sotto i baffi. 7 Sugli stolti e sugli ubriaconi, così si dice, vegliano gli dèi in persona. Di sicuro io e Trahearne rientravamo nella casistica; e il fatto che gli dèi, chiunque essi siano, abbiano quasi sempre ragione, non mi consola neanche un po'. Una volta arrivati in centro, ci fermammo in un barettino tranquillo, e io feci il giro telefonico delle mie conoscenze: spacciatori, agenti di polizia, vecchie fiamme. Riuscii a ricavarne qualche nome e numero di telefono, inutili tutti quanti, dal primo all'ultimo. Come facevo a sapere che tutti i boss e gli zar del porno passavano le domeniche pomeriggio immersi in esercizi spirituali, sedute di autocoscienza o seminari di est? Annoiato come un topo morto, e nella speranza di rimanere sobrio, mi misi a battere i bar e i teatri nella zona di Broadway per scovare infine un altrettanto annoiato universitario che si arrabattava a fare la maschera. Tra le sue conoscenze c'era un professore di sociologia che ne sapeva più lui, sui film porno, della mafia in persona o di qualunque comitato per la difesa del buon costume. Il professore, come ogni cittadino rispettabile, passava la domenica pomeriggio in casa; solo che lui si stava guardando un vecchio film muto porno - in cui si parlava di un giovanotto al quale due ragazze, sulla spiaggia, riescono a far inchiappettare una capra da un buco di una staccionata. Parecchi mesi più tardi, poi, le stesse ragazze lo fregano di nuovo - tutti i quattrini, stavolta - perché una di loro si infila un cuscino sotto il costume da bagno, di quelli antichi, e accusa il giovanotto di essere il padre della creatura. «Mi pigliasse un colpo,» sussurrò Trahearne, dimenandosi sulla dura seggiolina metallica pieghevole. «Fa quasi ridere.» «Quasi?» disse il professor Richter, lanciandogli un'occhiataccia. «Quasi?» ripeté, con aria compiaciuta, neanche quel film l'avesse scritto diretto e interpretato lui. E in effetti, al protagonista un po' ci somigliava. «Fa
schiantare!» gracchiò. «Ed è proprio questo il limite della pornografia moderna: si prende troppo sul serio. Con qualche piccola eccezione, ovvio. Di solito, al giorno d'oggi, quando un film porno si pone obiettivi umoristici punta a essere più triviale possibile; e quando riesce nel suo intento, anche se a malapena, come nel caso di Gola profonda, ecco già pronto un successo di portata nazionale». Il tutto, spiattellato con assoluta serietà. «In ogni settore dell'arte succede la stessa cosa. Limiti e definizioni tendono a scomparire, poi l'arte stessa è obbligata a mettere se stessa alla berlina con serietà financo eccessiva: così che le arti visive diventano letteratura. Questo, amici miei, è il primo segno di degenerazione della cultura.» Poi batté con scarsa energia le mani secche e polverose, e sollevò gli angoli della bocca. «Non siete d'accordo anche voi?» aggiunse. Aveva l'occhio scintillante e il sorriso sofferente del vero fanatico, il volto equino privo di qualunque emozione, e io e Trahearne ci affrettammo ad annuire. Non era di tratti sgradevoli, ma soltanto impersonali, in maniera direi isterica. Forse quella esclusiva dieta di film porno gli aveva ammorbidito i lineamenti, ma non riuscivo nemmeno a considerare cosa potesse essere capitato ai suoi vestiti. Forse ci aveva dormito dentro, in quell'abito tutto nero e tutto lustro. Più e più volte. Sonni agitati. Di sicuro ci aveva mangiato. Dentro, oppure sopra. Un'infiorescenza di salsa di pomodoro corredata da un funghetto secco gli era servita da boutonnière, e la cravatta - sottile e anch'essa nera, con un nodo delle dimensioni di un pisello - da tovagliolo. «Che posso fare per voi, signori?» chiese, non appena gli saltò agli occhi che non eravamo venuti per discutere dello stato attuale dell'arte. Gli mostrai la mia licenza e gli spiegai cos'ero venuto a fare. Non mi lascio neanche terminare, si diresse a un raccoglitore 13x20, vi frugò dentro, e ne emerse con le mani piene di schede, che agitò poi verso le pareti del suo piccolo appartamento, tappezzate di classificatori, scaffali e cataste di pizze cinematografiche. «Passione animale,» disse, allungando la mano destra. «Desiderio animale,» disse, allungando la sinistra. «A voi la scelta, signori. Non si tratta di un titolo particolarmente fantasioso, in nessuno dei casi, e però parecchio diffuso». Gli parve una bella battuta, tanto da sfoderare un sorriso affettato. «Basso, bassissimo budget,» dissi io, «con tanto di ammucchiata finale.» «Come tutti, insomma,» fece lui con una risatina moscia. «È in grado di fornirmi una data di massima?»
«Fine anni Sessanta, forse.» «La protagonista femminile è bionda o bruna?» «Bionda.» «Bene,» disse, e tornò a riporre le schede nel raccoglitore, per poi passarle di nuovo in rassegna. «Forse ci siamo,» disse nel leggerne una e sillabare un lungo numero di codice con labbra sottili ed esangui. Si fiondò su una catasta di pizze e ne sfilò una dal centro della pila, con tale velocità che le pizze sovrastanti riempirono lo spazio vuoto con un tonfo sonoro. «Se mi ricordo bene, è immondizia pura e semplice,» disse, «senza un solo particolare significativo. Vi andrebbe di vederlo?» «Le secca?» chiesi a Trahearne. «E perché mai?» fece lui, con aria assai confusa. «Per via delle sue illusioni romantiche,» dissi io, e scoppiai a ridere. «Ah,» disse. «Ah, sì. Quelle». Parve essersi chiarito le idee. Lui, non io. «Forza,» disse baldanzoso, e Richter caricò la pellicola. Per essere all'osso, era davvero all'osso; anzi, faceva pure un po' pena. E c'era anche Betty Sue Flowers. Avevo pur voglia di guardare altrove; quando riportavo gli occhi sullo schermo, eccola lì. Aveva messo su ciccia a sufficienza da potersi definire un tipo alla Rubens, e se non si fosse saputa muovere con una certa grazia sarebbe parsa davvero grottesca e comica, una giovane e grassoccia donna di casa con addosso solo un grembiulino a gale, la folta capigliatura bionda raccolta in due codine di porco che le incorniciavano quel viso da luna piena. Almeno, di trama ce n'era poca. Dapprima, robetta di riscaldamento con una coppia di stupefatti cagnolini da compagnia; poi si passava all'azione vera e propria, con la collaborazione dell'intero vicinato: postino, lattaio, due lettori di contatore, commesso di drogheria con trippe ben imbottite di dolciumi. Tra tutti quei cinque, c'era una tale abbondanza di pance da birra, ginocchia nodose, tatuaggi scoloriti, piedi sudici e uccelli storti da poter allestire un bello spettacolino di mostri. Nel gran finale, in cui tutti quanti si radunavano attorno al tavolo di cucina in un'ammucchiata di una certa quale organizzazione, la loro espressione era ancor più stupefatta di quella dei barboncini, e i volti aggricciati dallo sforzo, nel tentativo di venire tutti assieme, visto che Betty Sue se li stava appunto lavorando tutti assieme. Quasi si sentivano i loro sospiri di soddisfazione, nell'accorgersi che l'operatore era rimasto senza pellicola. L'intera faccenda raggiungeva livelli di eccitazione equivalenti allo spararsi una sega in un vecchio calzino puzzolente.
Ma Betty Sue, a dispetto della ciccia e degli occhi, vacui come due sassi bagnati, possedeva un qualcosa che non aveva niente a che fare con l'aspetto fisico. Sembrava volersi tuffare dritta in quell'abbrutimento, senza gioia ma con l'imperturbabile risolutezza di chi intende fare un buon lavoro. E io, pur senza volerlo, la trovavo eccitante, cosa che mi faceva cagliare il whisky nello stomaco. Cercai di farmi salire una sorta di giusta collera, ma riuscii solo a procurarmi una placida malinconia e un nauseante arrapamento. Capii perché Gleeson non aveva voluto dire niente, su quel film; la stessa cosa stava capitando a me. Proprio come non avevo certo voglia di guardare la vasta e orrida cicatrice che spaccava in due l'addome ben pasciuto della ragazza. «Questo, invece, non faceva ridere un bel niente,» ringhiò Trahearne mentre gli ultimi metri di pellicola uscivano dal supporto e sbattevano come ombre sconnesse. «Mica è colpa mia,» disse Richter nell'iniziare a riavvolgere il film. «Vado a prendermi una boccata d'aria e un litrozzo di whisky,» disse Trahearne, cercando di estirpare la sua mole dalla sedia. Quando fu uscito, domandai a Richter se conosceva i nomi degli attori. «Vorrà scherzare,» disse. «In questo settore, solo la crème de la crème ha diritto a un nome, e di solito è falso. Comunque, ho riconosciuto il tipo che faceva il lattaio. L'ho visto in altre situazioni, è chiaro.» «Che razza di situazioni?» «Tempo fa aveva una libreria porno, giù in centro,» disse, «e credo che si chiamasse Randall qualcosa... Randall Jackson.» «Vive ancora in città?» «No, se n'è andato subito dopo questo film,» disse, «che è stata la sua unica comparsa nel ramo. Mi sembra di aver sentito dire che faceva il rappresentante di tascabili. A Denver, mi sembra.» Gli chiesi se conoscesse qualcun altro, o sapesse qualcosa di più di quel film, ma la ragazza non gli era mai più capitato di vederla. Di sicuro, quindi, aveva abbandonato la carriera. Lo ringraziai e mi alzai per prendere congedo. «Posso farle una domanda?» dissi. «Ma certo,» disse amabile. «Che se ne fa, di tutti questi film?» «Li catalogo, li classifico, li indicizzo. È tutto lavoro preparatorio per uno studio accademico sul declino del film porno negli Stati Uniti.» «Non è un'attività parecchio costosa?»
«Mi hanno concesso una borsa di studio,» disse Richter tutto contento. Non gli chiesi chi fosse stato. Non lo volevo sapere. Uscii che stava già ricaricando il proiettore e fischiettava. Trovai Trahearne e Fireball seduti sul sedile posteriore, che se la bevevano e guardavano il traffico domenicale di Folsom Street: due taxi, un ciarliero strafattone, pieno di anfetamine fino agli occhi, e un orientale alcolizzato. Saltai in macchina. Mi sarebbe piaciuto avere qualche droga in più. O meno fortuna cieca. «Era quella, la ragazza che stai cercando?» mi chiese Trahearne. «No,» mentii. «Un po' le somigliava, ma in realtà è una certa Wilhelmina Fairchild.» «Potrebbe essere un nome d'arte,» suggerì lui. «No,» dissi. «Richter la conosce di persona. Lavora in un salone di massaggi a Richmond. Quindi, a meno che non abbia messo su un accento tedesco, da quando è scappata di casa, non si tratta della figlia di Rosie». Non capivo bene perché avessi deciso di non dire la verità a Trahearne. Forse perché mi sentivo in imbarazzo per Rosie. O per me stesso. A ogni modo, non volevo che venisse a sapere che quella sullo schermo era proprio Betty Sue, che svolazzava tra tutte quelle manacce. «Sono contento per Rosie,» disse Trahearne. «Mi sono fermato nel suo locale per puro caso, e ci sono rimasto a bere per un paio di giorni, sia perché quel posto mi piaceva, sia per il bulldog. Non abbiamo parlato molto, io e lei, ma ho apprezzato il suo modo di servire da bere e di mandare avanti il bar. Quindi sono contento che sua figlia non sia finita in quel modo. O ancora peggio.» «Pure io,» dissi. «E ora dove si va?» «Palo Alto.» «A che fare?» «A parlare all'amica del cuore di Betty Sue, una sua compagna di liceo,» risposi. «Metti che non la troviamo in casa,» disse. «Magari dovresti chiamare, prima. Magari dovremmo farci un giro qui in città, stasera. Farci qualche drink, sai com'è, rilassarci e prendercela un po' comoda.» «I cattivi non riposano mai,» dissi, per poi infilare la Cadillac tra un taxi e un autocarro, lasciando sull'asfalto un paio di dollari delle gomme di Trahearne. «È una bella giornata, e sarà un bel viaggetto,» dissi non appe-
na il camionista si staccò dal clacson. «Se mai ne caviamo le gambe,» fece lui. «Vuol guidarla lei, questa cazzo di bagnarola?» gli chiesi furibondo, irritato per la mia menzogna e per il film. «Guidala come accidenti ti pare, figliolo,» disse Trahearne, alzando le mani. «Basta che non te la prendi con me. Non sono io a tenere le redini del mondo.» «Certe volte non riesco a capire se sono io a essere pazzo, oppure il mondo è diventato una fogna,» dissi. «Sono vere entrambe le cose,» disse lui, «però il tuo più grosso problema è che sei un moralista. Ma non devi preoccuparti.» «Perché?» «Il tempo fa miracoli,» rispose. «A proposito di pazzi. Che ci faceva, quel tipo, con tutti quei film?» «Glielo dicessi, non ci crederebbe.» In parte avevo ragione. Fu un bel viaggetto. Esclusa una mezza rissa che Fireball mise in piedi con un grosso barboncino grigio che intendeva annusargli il culo in una piazzola di sosta, ed esclusa la ricca signora con la Mercedes, che viaggiava assieme al cane e che allungò un ceffone a Trahearne quando lui le suggerì che con quel cazzo di schifoso bastardino di merda ci facesse qualcosa di impossibile e osceno; a parte questo, fu proprio un bel viaggetto. Ma Trahearne l'aveva vista lunga, a suggerirmi di chiamare Peggy Bain in anticipo. La ragazza che abitava all'indirizzo che mi aveva fornito Albert non sapeva dove trovare Peggy Bain, ma conosceva qualcuno che ne era al corrente. Passammo l'intero pomeriggio a rimbalzare da un appartamento a un bar e viceversa, parlando con un gran numero di persone che sapevano dove potesse essere. Infine, proprio nell'ultimo luogo possibile, un party all'aperto a La Honda, con tanto di barbecue, il sole s'infilò dritto dietro le colline della costa, e Trahearne attaccò a lagnarsi come un bambino alticcio. Aveva già scordato la promessa di restare sobrio almeno quanto me. Lui e Fireball erano sbronzi come maiali ballerini. Almeno, il bulldog aveva avuto il buon gusto di addormentarsi sul sedile posteriore. Mentre cercavo un parcheggio nella lunga fila di macchine lungo Skyline Drive, Trahearne annusò l'aria, borbottò festa, e smise subito di uggiolare. «Magari è meglio se resta in macchina,» gli suggerii. «Sciocchezze,» disse lui, e fece saltar fuori da sotto il sedile una nuova
bottiglia di Wild Turkey. «Se la mia manfrina dello scrittore famoso non funziona, gli farò vedere il mio biglietto d'invito,» aggiunse, agitando il whisky. «Sono sempre il benvenuto, alle feste,» disse, barcollando giù dalla macchina. Figuriamoci se non aveva ragione lui, quel vecchio stronzone. Il giovanotto barbuto che venne ad aprire la porta aveva già incontrato Trahearne, qualche anno prima, a una serata di poesia a Seattle, anche se il vecchio di lui non si ricordava, e ci invitò a entrare, presentando il vecchiardo ai suoi amici neanche fosse arrivato l'ospite d'onore. Tempo qualche minuto, ci aveva già procurato bicchieri, ghiaccio e Peggy Bain, seduta a un tavolino da picnic. Trahearne piantò in asso il padrone di casa e i suoi ammiratori, si sistemò accanto a Peggy Bain e le piazzò un robusto braccio attorno alle spalle. «Tesoro», già l'apostrofava. Lei era un tipo gioviale, dal faccione di luna piena che spuntava da un poncho di lana pesante. Quando Trahearne le spiegò cosa volevamo, lei gli lanciò un'occhiata, poi piantò gli occhi su di me, e infine ebbe un accesso così violento di risa istupidite che dovette togliersi gli occhiali senza montatura e appoggiarli sul tavolino, in mezzo ai piatti sporchi. «Ma voi scherzate,» continuava a ripetere, fermandosi solo per ridacchiare ancora. Poi cercò di darsi una calmata e si asciugò le lacrime. «Non la vedo dai tempi del liceo, ragazzi,» disse. Infine si fece scivolare giù dalla manica una pipetta da hashish, la accese e la offrì a Trahearne. Lui tirò una boccata avida, per poi trattenere il respiro e borbottare «Questa roba è dinamite!» come un ragazzino. Quando la donna la offrì anche a me, rifiutai, nel tentativo di restare lucido ancora per qualche minuto. «Qualche anno fa ho incontrato suo padre a Bakersfield, e lui mi ha detto che Betty Sue era finita a vivere in una comune nell'Oregon, ma poi se n'era andata anche di lì.» «Si ricorda il nome di questo posto?» dissi. «Ma come si fa a ricordarseli, quei nomi,» fece lei. «Girasole, o Raggio Di Sole Stella Splendente Nei Sogni o Spassarsela Al Sole o Tutta-RobaDa-Hippy-Del-Cazzo-Che-C'entra-Col-Sole.» Quando ebbe smesso di gongolare alle sue spiritosaggini. «Al di là del nome,» disse, «stava dalle parti del Grants Pass, mi sembra.» «E quand'è che ha parlato con suo padre?» le chiesi, e Trahearne si lasciò scappare un bello yeah nell'accarezzarle la spalla robusta da sopra quella lana ruvida. Peggy si indurì in volto, tornò a infilarsi gli occhiali con un sospiro e al-
zò le mani. Scommetti che adesso mi chiede chi accidenti sono io per venire a farle tutte queste domande su Betty Sue, pensai, ma lei si voltò verso Trahearne. «Ehi, amico, a me non me ne frega un cazzo di scoparmi le celebrità, va bene? La vedi quella tipa laggiù, vicino alla porta? Quella con la bandana sulla testa e tutta quella ferramenta che le pende dal collo? Se vuoi del movimento, è lì che lo devi cercare, caro mio». Poi si tolse la manona di Trahearne dalla spalla, tenendola con due dita come se fosse il cadavere di un granchio, e gliela ributtò in grembo. «Scusami,» borbottò lui senza la minima traccia di sincerità, sbirciando contemporaneamente la mano e la donna sulla porta. «Non te la prendere, amico,» disse Peggy. «Nessun problema,» disse Trahearne, e si avviò zoppicando verso la casa. «Che problemi ha?» mi chiese lei. «Un temperamento da artista,» risposi. «È convinto che la gente faccia a gara per scoparsi gli scrittori famosi.» «Non intendevo quello, stupido,» disse lei. «Com'è che la gamba non gli funziona?» «Vecchia ferita di guerra,» dissi. «Che guerra?» «Scegli tu,» dissi. «Una vale l'altra». Avevo goduto di un ottimo addestramento nel settore Buone Risposte di Area Radicale, grazie a un sottotenente di prima nomina dotato di un libro di testo con, appunto, le buone risposte di area radicale. «Troppo giusto, amico» fece lei come da copione. «Torniamo a Betty Sue,» proseguii. «Quand'è che ha parlato con suo padre?» «Almeno sei anni fa,» disse. «Lo so, perché ero ancora sposata con quel cazzaro di buzzurro di Santa Rosa. Ce n'eravamo andati a Bakersfield per via di non so che festa dell'Associazione dei Coltivatori Diretti, e avevo visto il nome del padre di Betty Sue sul giornale. Suonava in un posto chiamato The Kicker, che secondo me era l'abbreviazione di Shitkicker, così ci siamo fumati ben bene e siamo andati a tastare il polso ai tamarri del luogo. Chiaro che ci siamo portati dietro due dei più grossi hippy del mondo, due tipi che facevano i taglialegna dalle parti di Weed. L'intenzione era di farci un'idea su come se la sfangava il resto del pianeta.» «E che avete scoperto?» «Nulla che già non sapevamo, amico. Tutta gente che se la spassava alla
grande anche a Bakersfield,» rispose con un gran sorriso. «Ma il vecchio Flowers, lui sì che era proprio un ganzo.» «Vale a dire?» «Faceva il cantante nella band, poi faceva anche il barista e infine si faceva come un dannato. Roba da naso.» «Cocaina?» «E che altro c'è che ti fa star così bene?» rispose lei. «Dapprima pensavamo che facesse lo splendido solo per far colpo sugli hippy, un po' come la gente normale, con tutti quei discorsi sul vendere la coca a quelli che venivano a suonare dalle parti di Bakersfield; ma dopo il secondo set ci portò nel suo ufficio, tirammo su non ricordo più quanto e finimmo per comprargliene cinque grammi. Roba di qualità, e anche a buon prezzo.» «E avete parlato di Betty Sue,» dissi, cercando di strapparla ai suoi ricordi di cocainomane. E anche ai miei. «Proprio così. Io gli chiesi se avesse più avuto sue notizie, e lui mi disse che una volta Betty Sue l'aveva chiamato, uno, forse due anni prima, perché aveva bisogno di soldi per filarsela da quella comune. Di sicuro era una di quelle tipiche situazioni fasciste da hippy, sa com'è, amico.» «Ma il nome di quel posto non se lo ricorda.» «Gliel'ho detto, amico. Sole-Qualche-Cosa,» disse, e tacque per guardarmi fisso. «Ma la cerca perché si è messa nei guai?» «No, non per quello,» dissi, per accorgermi subito che dopo aver visto il film non avevo più idea del perché stessi ancora cercando Betty Sue. «Ho incontrato per caso sua madre, e lei mi ha assunto per cercarla. Roba di pochi giorni,» dissi. «Mi spiace di non poterla aiutare.» «Nessun problema,» dissi io, «tanto è sparita da fin troppo tempo.» «Solo il minimo indispensabile,» sussurrò Peggy, a occhi bassi. La voglia di ridere le era passata. Alle sue spalle, le ultime striature scarlatte delle nuvole si erano trasformate in un morbido e uniforme grigio. Un sempreverde, alto e solitario, si stagliava oscillando contro il cielo sempre più scuro. Alle mie spalle, i rumori della festa iniziarono ad assomigliare a rombi di tuono. Peggy riaccese la pipetta di hashish, e questa volta accettai la sua offerta. Ci dividemmo il fumo, mentre il vento della sera iniziava a levarsi freddo dal mare, risaliva le creste boscose e spediva gli ospiti dentro casa, gente che borbottava flebili lamentele come bambini distolti dai loro giochi e costretti ad andare a letto presto e ritrovarsi all'interno di sogni confusi. I finestroni sul retro
della casa riflettevano le ultime tracce del tramonto; dietro di essi, come immagini sovrapposte, la festa andava avanti con pesantezza e in silenzio, tra bocche che si aprivano, simili a ferite prive di suono, e gesti senza significato. Di fianco a una porta, addossato alla parete opposta, Trahearne fissava malinconico il tramonto. «Che altro posso dirle, amico?» mi chiese Peggy quando la pipetta si fu spenta. «E che ne so,» risposi, per poi girare attorno al tavolo per sedermi al suo fianco, vicino ma non troppo, le dita intrecciate sulla nuca. Poi mi appoggiai a quel tavolino ingombro di trabiccoli. «Non ne ho proprio idea,» dissi cercando di scorgere le onde dell'oceano e la foschia della sera, schiacciate dalla vastità e dalla vacuità del cielo, e sopraffatte dalla crescente oscurità. «Mi parli di lei, e basta,» le dissi. «Mi dica tutto quel che sa.» «Mi sembra davvero troppo,» disse lei. «Solo un po'.» «Tipo?» «Oh, non saprei,» dissi. «Mi dica che aspetto aveva al primo anno di scuola media, codine di porco, gomiti e ginocchia eccetera, oppure...» «Che mi prenda un colpo,» m'interruppe lei. «Ma proprio un colpo.» «Che c'è?» «Non l'ha mai conosciuta, vero?» «Vero. Perché?» «Lo capisco da come parla,» disse, «che ha una bella fissa per lei.» «Sono i rischi del mestiere,» dissi, cercando una via d'uscita. «Per tutti quelli che cerco di ritrovare, mi prendo una bella fissa. Smettono tutti di essere fotografie o discorsi, e diventano gente in carne e ossa, ecco.» Bevvi un sorso del mio drink per alleviare il morso secco dell'hashish. «Certe volte la gente che credo di cercare si rivela tutta diversa da quella che poi finisco per trovare,» balbettai. «O roba del genere.» «Basta con le cazzate, amico,» disse lei. «Si è preso una bella sbandata. Come tutti quelli che ho conosciuto. Porca puttana, erano tante le cose che sapeva far bene, ma nessuna come questa.» «Ovvero?» «Far cadere gli uomini come pere cotte. Era la sua specialità. Arrivavano da chilometri di distanza, per mettersi ai piedi della regina, soltanto per sfiorarle l'orlo della... oh, cazzo, non è giusto.» «Cosa?» «Non è mai riuscita a trovare nessuno al suo livello,» disse Peggy, e pre-
se un bicchiere di vino con le dita tozze. «Era la donna più bella del mondo, ed era solo una ragazzina... proprio come me, amico, solo una liceale di Sonoma, ma era così bella, così bella e sola, sola perché non esisteva nessuno alla sua altezza.» «Invidia?» «Neanche per sogno. Altrimenti, perché sarei stata sua amica? Ascolti, amico, ho passato la mia intera carriera scolastica a vedere ragazze carine che cercavano di diventare mie amiche, solo perché viste assieme a me avrebbero fatto bella figura. Però a Betty tutto questo non interessava. Lei era davvero amica mia, e molto più bella di tutte le altre messe assieme, più sveglia e più simpatica. Insomma, l'intero campionario.» «Allora ha avuto l'occasione di pensare a lei.» «Non passa giorno, amico, che non lo faccia.» «Capisco.» «Lei non capisce un cazzo,» mi disse tranquilla. «L'amavo, sa, l'amavo davvero. Non l'ho scoperto fino a quando non sono riuscita a liberarmi da due matrimoni da incubo, ma è stato allora che l'ho scoperto. L'amavo. Quando è scappata, mi sono consumata gli occhi a forza di piangere, amico. Fino a quel momento, pensavo che si trattasse di una frase fatta, ma quando se n'è andata mi sono proprio consumata gli occhi.» «Mi spiace,» dissi. «E l'odiavo pure,» confessò, «ma è stata colpa mia. Mi sono messa in fila con tutti quei suoi corteggiatori, quegli innamorati cotti, ma per anni e anni non ho saputo cosa stavo facendo. E stia sicuro, cazzo, che se Betty Sue fosse qui stasera io e lei, amico, le ronzeremmo attorno a lingua fuori». Poi cercò di buttarla sul ridere, mollandomi una botta sul braccio. «Tutti in fila in attesa del nostro turno.» «Mai stato in fila per niente e nessuno,» dissi disinvolto. «Pur di mettersi in fila per quella lì, anche lei sarebbe stato disposto ad ammazzare qualcuno,» disse lei con un sorriso malinconico. «Cose così. Non sembra molto logico, tutto questo, non le pare?» «Capisco cosa intende,» dissi. «Grazie per il disturbo.» «Nessun disturbo, amico,» rispose. «È sempre così, di questi tempi. Mi lasci diventare avvocato, e poi vedrà come la pagheranno tutti quanti.» Visto che era la prima cosa allegra che le sentivo dire, le augurai buona fortuna e la ringraziai ancora una volta. Poi vagabondai in fondo al giardino, alla caccia di un cespuglio da annaffiare. Betty Sue Flowers. Avevo parlato con tre persone, ma non avevo sco-
perto un bel nulla, se non che chiunque l'avesse conosciuta non riusciva ancora a levarsela dalla testa. E magari anch'io. Magari non avevo più voce in capitolo nella faccenda, ma dovevo prendere comunque una decisione. Suo padre viveva a Bakersfield, forse Randall Jackson stava ancora a Denver, e per trovare il resto della comune bisognava andare nel sud dell'Oregon: tre lunghi viaggi in tre direzioni diverse, e nessuno di essi sulla strada del ritorno in Montana. Gli ottantasette dollari di Rosie si stavano beccando una bella strizzata, e io non avevo fatto un passo in avanti che fosse uno, ma questo già lo sapevo fin dal primo momento. Così me ne sbattei il cazzo, e tornai a riunirmi alla compagnia festante. Quando attraversai la cucina, vidi Trahearne addossato alla parete, accanto alla tipa piena di catenacci, e le stava offrendo il proiettile che gli avevano estratto dal fianco. «Tenga, mio fascinoso diavoletto, vorrei che fosse lei ad avere questo mio portafortuna». E poi le fece il solletico sotto il mento. «Ma perché non le dà una leccatina sul braccio,» gli dissi. Entrambi mi ignorarono. Lei ridacchiò, accettando il gentile omaggio del vecchiardo, e Trahearne si portò la sua mano alla bocca. Tentai di darmela a gambe, ma lui mi abbrancò per la collottola con una mano lardosa e mi trasse a sé. Aveva il volto gommoso, reso paonazzo dal whisky, che torreggiava sul mio come un qualcosa di sanguinolento spuntato fuori da un incubo. «Che ti ha detto quella lesbicuzza?» mi chiese. «Niente che già non sapessi,» feci io. «Leviamoci dai coglioni.» «Ma se il bello della festa ha ancora da venire». Guardò lascivo la tipa delle catene, mi spruzzò del whisky nel bicchiere e mi batté sulla spalla. «Fatti un giro,» disse, sistemandosi sottobraccio la donna dagli eleganti tintinnii per poi guidarla nella notte stellata. «Cerchi di divertirsi,» gli dissi. «E che cazzo.» «Devi imparare a rilassarti,» mi suggerì senza voltarsi. «A saperti divertire.» Ma certo, divertirsi, come no. Le feste che durano in eterno, le bottiglie di whisky che sembrano non avere fondo, le droghe ricreative. Strane tipe vestite di denim e di satin, ornate d'argento e oro sbalzato. Ma certo, la bella vita, come no, senza il fardello della famiglia o dell'orario d'ufficio o delle responsabilità. Libertà significa solo non aver niente da perdere, proprio così, e la notte è piccola per noi, troppo piccolina. Divertirsi significa spararsi il quinto drink in una città sconosciuta, o togliersi di dosso i po-
stumi di una sbronza con una doccia bollente nella stanza di un motel e una birra fredda, ma fredda sul serio; oppure il gusto salato e stradaiolo delle tette di una pollastra che fa l'autostop, io e lei ficcati nell'aria pesante del suo sacco a pelo. Troppo giusto. Divertirsi è proprio una gran faticaccia, ma io un'altra vita non la so fare. La mattina dopo mi svegliai sul sedile posteriore della decappottabile di Trahearne, la faccia inondata dal sole, fradicio d'umidità, di saliva di cane e di un consistente giramento di palle. Quando mi tirai su per guardarmi attorno, mi parve d'essere in California, e poi un ragazzo che consegnava i giornali mi rivelò trattarsi di Cupertino. Ne sapevo quanto prima. Due porte più avanti, un tipo riccioluto se ne stava sul vialetto di casa a ciucciare gli avanzi di un boccale di birra e a tentare di schivare il fitto lancio di attrezzi da cucina che solcavano l'aria e brillavano alla luce del mattino, scagliati da una mano invisibile all'interno della casa stessa. Scansò un grosso cucchiaio e un pesante mestolo, ridacchiando come in una sorta di balletto, ma fu infine beccato da uno schiacciapatate proprio sul labbro inferiore, che esplose in un improvviso getto di sangue. Bastò che attaccasse a frignare, che una bionda in vestaglia uscì fuori di corsa per riportarlo in casa. Scossi il capo, spartii con Fireball l'ultima birra ghiacciata e lo condussi a irrigare il prato di non so chi. Appena ebbe terminato, mi attaccai al clacson di Trahearne fin quando il vecchiardo non spuntò barcollante dalla casa di fronte, la camicia in una mano e le scarpe nell'altra, l'uccello nascosto tra le gambe. «Ma che cazzo di svalvolata,» attaccò subito a lagnarsi mentre accendevo il motore. «Come facevo a sapere che voleva tenerselo anche a letto, tutto quell'ammasso di ferraglia? È stato come scopare nel bel mezzo di un frontale.» «Sempre meglio che dormire in macchina,» borbottai. «Cazzo c'entro io,» grugnì allacciandosi la scarpa. «Sei stato tu che non sei voluto venire in casa.» «Almeno poteva tirarmi su la capote.» «Guarda che l'ho fatto,» disse. «Due volte. Ma ti sei messo a insistere che la volevi abbassata, e poi hai rifilato al mondo intero quaranta minuti di sermone sul fatto che dormire sotto le stelle ti serve a ripulire l'organismo. Così ti ho lasciato stare.» «Buona idea,» dissi. «Da ubriaco sei un vero rompicoglioni, Sughrue.» «Anche da sobrio.»
«Che è successo alla donna?» mi chiese. «Che donna?» «Quella che era con te.» «Che è successo non lo so,» risposi. «Ma di sicuro me la sono spassata. Che tipa era?» «Un vero batuffolo,» disse lui. «Sicuro che non c'è il suo cadavere nel bagagliaio, o roba del genere?» «Non ne ho la minima idea,» dissi, «e neanche intendo andare a vedere, se prima non ho bevuto qualcosa.» «Allora non prendiamoci per il culo con la scusa di far colazione,» disse lui sghignazzante, «e fermiamoci al primo bar.» «Poi subito a Bakersfield,» dissi. «Oh, mio dio,» gemette lui. 8 Tra sbronze e relative conseguenze ci mettemmo due giorni, io e Trahearne, ad arrivare a Bakersfield, ma la volta che ci spostammo dal motel per andare al locale del padre di Betty Sue eravamo entrambi sobri e non particolarmente sgangherati, il che si rivelò un gran bene, perché per varcare la soglia di quella sorta di bar/sala da ballo era meglio essere il più possibile padroni di sé. Il cartellone all'esterno prometteva danze tutte le sere sulla musica fornita da Jimmy Joe Flowers e i Pickers, mentre il bar, una specie di bunker cubico di cemento piazzato nel bel mezzo di un parcheggio, sembrava promettere guai a volontà. Però era ancora presto, e ci ritrovammo assieme alla clientela dell'ora di pranzo: due saldatori e un commesso viaggiatore che volevano birra e stuzzichini Slim Jim. Il barista mi disse che di solito il signor Flowers si faceva vivo verso l'una e mezza, e difatti alle due spaccate i suoi stivali in pelle di struzzo varcarono fragorosi la soglia. Lo struzzo fornisce una buona qualità di pelle da stivali - ammesso che vi piaccia una pelle che dà l'impressione che l'animale che vi abitava dentro sia morto per un tremendo attacco di acne - che si intonava bene con l'abito indossato da Flowers, un completo color vinaccia in taglio western a punto doppio, così come il suddetto abito si accoppiava a meraviglia con la donna che di Flowers era in compagnia. Il padre di Betty Sue fu tutto sorrisi e strette di mano, fin quando non gli mostrai la mia licenza e gli dissi quel che volevo. Allora si incupì e guidò la sua segretaria nello sgabuzzino che spacciava per ufficio. Quando si ac-
corse che non gli ero andato dietro, riemerse dal bugigattolo e frettoloso mi fece cenno di seguirlo. Aveva qualcosa da dirmi, mi fece. E bello chiaro. «Piccola ingrata puttanella,» sbottò, per battere poi una manata su una scrivania ben poco solida. «Non avrei mai pensato che mia figlia sarebbe diventata una hippy, sa, neanche per un istante. E che cazzo, mi va benissimo se i ragazzi se la spassano, ma devono guadagnarselo, e io un figlio l'ho già perso in Vietnam, e ne avrei perso anche un altro se non fosse stato per quel ginocchio ballerino. Poi mi giro un attimo e scopro che per figlia ho una hippy. Insomma, capisce, prima vengo a sapere che è scappata senza neanche finire la scuola, e lei m'insegna quanto è importante una buona istruzione ai nostri giorni, e io sono pur sempre suo padre, ma da lei non sento neanche una parola per quattro o cinque anni, e poi una notte mi chiama - a carico mio, badi bene - che me la stavo dormendo della grossa». Si fermò per dare un'occhiata alla sua segretaria. «Te lo ricordi, no, tesoro?» le disse, e lei allungò una mano per sfiorargli la guancia rasata di fresco, come se lo sforzo di quel risveglio fosse stata un'autentica impresa per le esigue forze di Flowers. «E lo sa cosa voleva?» mi chiese all'improvviso, senza darmi tempo di rispondere. «Soldi voleva, perdio, per poter lasciare quella cazzo di fetente comune dove era andata a rifugiarsi come un animale nella tana». Tacque e scrollò il capo. «E lo sa cos'è che le ho detto?» Non battei ciglio. «Le ho detto che già non le avevo dato un centesimo per mandarla a ficcarsi nei guai, e figuriamoci se gliel'avrei dato adesso per tirarcela fuori. Ma neanche per sogno, no davvero. Non so se mi spiego.» Anche se avesse saputo qualcos'altro, il padre di Betty Sue non mi avrebbe detto un bel niente, quindi potevo smetterla di fare il carino. «Vuol dire che quei sudici di hippy non facevano magari altro che ficcarsi della droga su per il naso,» dissi. «Lei ha proprio una lingua lunga, amico mio,» disse, gli occhi spenti come una birra vecchia di un giorno. Poi sorrise, ma solo con la bocca. «Ma mi sta pure bene, perché per venire fin qui a dirmi queste cose lei deve anche avere una bella testa sulle spalle.» «Me l'ha detto Peggy Bain,» feci, per evitare di essere considerato troppo sveglio. Flowers mollò un pesante sospiro, come se quella conversazione fosse la cosa più impegnativa che avesse fatto da parecchi anni in qua. La segretaria gli batté di nuovo sulla spalla. «Ricordati del cuore, tesoro,» sussurrò.
Anche lei si era vestita per la circostanza, ma la sua interpretazione di una gattina sexy sembrava più rassomigliare a un qualcosa che il gatto stesso aveva trascinato in casa. «Quasi tutte le droghe ti rimbecilliscono,» mi istruì, «ma la cocaina è proprio quella giusta, per l'uomo in gamba. Devi essere in gamba per sapertela godere, e ricco per potertela permettere.» «Nel mio lavoro è opportuno restare lucidi,» dissi, «e quindi io di droghe non so un bel niente.» «Già, lo vedo,» disse a presa di culo. «Quanto la paga, Rosie, per questa caccia assurda?» «Non abbastanza,» dissi io, con l'intenzione di offenderlo. «È sempre stata di manica stretta,» fece, ignorando il mio tono. «Vecchiaccia malefica.» «Be', il locale di Rosie non va certo bene come questo,» dissi. «Le deve essere andata di lusso, con le pentole in alluminio.» «Pensavo di metterle quella boccaccia sull'altro lato della testa, amico. Che ne pensa?» disse tranquillo. «Oppure spezzarle una gamba all'altezza della rotula.» «Le servirà aiuto,» dissi come uno stupido. «Non ho che da schioccare le dita,» rispose, alzando la mano. «Capisce?» «Ha gli agganci giusti, o sbaglio?» «Può dirlo forte.» «E che ci fa un bravo ragazzo come lei con agganci di questo genere?» gli chiesi amabile. «Sbarca il lunario,» rispose. «Okay,» dissi io. «Mi spiace.» «Occhio alla porta, quando esce. Cerchi di non sbattersela nel culo.» «Porga i miei saluti alla famiglia,» conclusi, e uscii. Magari bluffava, ma non avevo intenzione di fargli scoprire le carte. Me la filai alla svelta, cosa che rese Trahearne molto contento. «Questo posto mi mette i brividi,» disse mentre ce la squagliavamo. «A chi lo dice,» risposi, e nel raggiungere la macchina gli raccontai il perché. Visto che mi serviva un po' di tempo per riflettere su Betty Sue Flowers, e visto che Trahearne esigeva qualche giorno di vita lussuosa per rimettersi in sesto, ci dirigemmo senza perdere tempo a San Francisco, e lui volle su-
bito scendere in una suite al St. Francis. Qualche giorno per riflettere e rimettersi in sesto. Sigarette, whisky e donne fuori di testa. Una di quelle da noleggio passò tutto il tempo a blaterarmi nell'orecchio a proposito del suo strizzacervelli, così che mi toccò fingere un bell'orgasmo e nascondermi nella doccia fin quando non se ne andò per i fatti suoi. Poi fu la volta di una poetessa, vecchia amica di Trahearne, una tipa così svalvolata da farmi scappare a gambe levate. Questa volta, nascondermi nella doccia non servì a niente. Mi scovò subito, e mi ammannì una interminabile conferenza sulle mie responsabilità nei confronti delle donne in generale e di lei in particolare. A un certo punto della sua perenne sbronza, Trahearne saltò giù dal terrazzino del bar nella lobby e andò a finire a capofitto in un albero della gomma, tra le facce costernate della direzione dell'hotel. E, non so come, a me capitò di andare a sbattere in retromarcia, a bordo della sua decappottabile, dritto in un tram. Nessuno si fece male, ma mi beccai autentiche sventagliate di insulti per aver tentato di distruggere un monumento nazionale. L'autista e i passeggeri reagirono come se avessi investito una suora. Ma la cosa peggiore di tutte fu che Fireball prese a indossare un collare di Strass e a bere birra giapponese. Infine, un pomeriggio, andò tutto a rotoli. Fireball stava bevendo acqua dalla tazza del cesso, una bionda nuda - ma con un paio di stivali rossi - se la dormiva sul divano in posizione assai compromettente, e l'intera suite puzzava come una locanda del Tenderloin. «Non è questo il modo di vivere della gente adulta,» annunciò Trahearne nello svegliarmi. «Andiamocene a casa.» «Casa è dove si cerca di farsi passare la sbronza,» dissi. «Vediamo di darci una mossa, amico, e basta con queste omelie da buzzurro cacacazzo,» grugnì lui, reggendosi la testa con estrema cautela. Ormai Trahearne aveva deciso che era arrivata l'ora di tornare a casa, e non era certo disposto ad aspettare niente e nessuno. Neanche a farsi scrupolo di ridestare la bionda. Brontolò per tutto il tempo che mi ci volle a fare le valigie, nonché per tutta la durata del viaggio fino a Sonoma, perché io avevo insistito nel passare da Rosie a lasciarle il cane e a recuperare l'El Camino e una sbarra da rimorchio. Ma dietro il bancone c'era una tipa mai vista, che mi disse che Rosie era andata a farsi un sonnellino nella sua roulotte, e che non voleva essere disturbata. E invece dovevo proprio. Rosie venne ad aprire dopo che io e Fireball ce n'eravamo rimasti un bel po' ad aspettare sui gradini. Si era rivestita alla meno peggio, in fretta e furia, con un accappatoio di ciniglia color porpora, e aveva i capelli ingarbu-
gliati da sonno e sudore. Fireball sgomitò per passarmi avanti e trotterellò verso la coda della roulotte, da cui proveniva il rombo di un uomo che russava. «Che cazzo ha attorno al collo?» mi chiese lei, mica tanto contenta di rivedermi. «Avrebbe dovuto chiamarmi, così almeno mi davo una sistemata.» «Mi spiace,» dissi, «ma fino a pochi minuti fa neanche io sapevo che saremmo passati.» «Gliene avete date secche, coi bar, eh?» «Difficile riuscire a spassarsela più di così,» dissi. «Ha trovato la mia bambina?» chiese. Scossi il capo e abbassai lo sguardo. Rosie tentò di nascondere le unghie dei piedi - lunghe, giallastre e contorte - prima con un piede, appunto, poi con l'altro. Alzai gli occhi. «Ma ha scoperto qualche traccia, almeno?» «Una voce,» dissi, «secondo la quale Betty Sue viveva in Oregon, sei o sette anni fa.» «E dove l'ha sentita, questa?» Rosie sembrava stupita. «Da suo padre.» «Ha parlato con quel buono a nulla di figlio di puttana?» mi chiese. «Per quanto ho potuto,» risposi. «Come se la passa?» «Ha una sua band,» dissi, «e un posto per suonare.» «Di sicuro c'è qualcuno che glielo manda avanti,» disse lei. «E ha anche una segretaria.» «Naa, figuriamoci,» fece Rosie. «Jimmy Joe è troppo cacasotto per prendersi una donna sveglia. Se Betty Sue non fosse stata così vispa, forse avrebbe voluto bene pure a lei.» «Può essere,» dissi. «Stia a sentire, visto che ho combinato poco e nulla, perché non si riprende i suoi quattrini?» Tentai di rifilarle quel gruzzolo di banconote piegate. «Se li tenga.» «Li riprenda lei.» «Se li è guadagnati.» «Va bene,» dissi. «Allora lungo la strada mi fermerò in Oregon a fare qualche altra domanda».Proprio la cosa che non avevo alcuna intenzione di fare. Non volevo cercare più, non volevo trovare altri frammenti di Betty Sue Flowers. «E se scovo qualcosa la chiamo.»
«Mi farebbe piacere,» disse lei, «ma ha già fatto molto più di quanto ha guadagnato». In fondo al corridoio, dietro il salottino, l'aria fu riempita dal cigolio del materasso e da una serie di imprecazioni sommesse. Fireball era saltato nel letto a fare compagnia al signore, e il signore non aveva gradito. Rosie parve imbarazzata, e si girò per calmare l'uomo. Così facendo, mi lasciò vedere un poster di Johnny Cash appeso alla parete alle sue spalle. Poi tornò a guardarmi. «Quel che le ho dato non bastava certo a pagarla per quanto si è dato da fare, o sbaglio?» «Gliel'avevo detto che erano soldi buttati,» dissi. «Tanto erano soldi miei,» disse, «e grazie per averci provato. Mi chiami, a carico mio naturalmente, per dirmi cosa ha scoperto in Oregon. E se mai ripasserà da queste parti, sappia che c'è un posto dove potrà bere senza pagare.» «Un vero paradiso,» dissi io, e lei sorrise. «Intende portarsi dietro anche la macchina del bestione?» Indicò col capo un punto alle mie spalle. Avevo già agganciato la Cadillac di Trahearne alla sbarra da rimorchio fissata al mio El Camino. «E anche lui,» dissi. «Che problema ha? Non può guidare?» «Al momento non può neanche camminare,» risposi. «Dev'essere uno spasso,» sussurrò lei. «Cosa?» «Avere così tanti soldi da poter assumere qualcuno per farsi rimorchiare qua e là,» disse. «Non saprei,» dissi. Infine, mentre ci scambiavamo i saluti, fece la sua comparsa un tipo calvo e peloso, con la pancia da bevitore di birra che gli traboccava sui boxer sformati, e attaccò subito a chiedere birra ghiacciata, uova strapazzate e un po' di vero amore. Rosie mi invitò a restare a pranzo, ma i suoi occhi mi imploravano di andarmene, e così feci. Tanto dovevo rimorchiare Trahearne a casa. Abraham Trahearne aveva costruito la sua reputazione di scrittore con sei volumi di poesia molto elogiati dalla critica, due dei quali erano stati candidati a premi letterari di portata nazionale, ma erano stati tre romanzi a fare la sua fortuna; il primo pubblicato nel 1950, il secondo nel 1959 e il terzo nel 1971. Li avevo letti tutti e tre, e tendevo a confonderli l'uno con l'altro, anche se ambientazione e personaggi erano diversi. Il primo, The Last Patrol, si svolgeva su una mai nominata isola del Pacifico, durante l'ultima settimana della seconda guerra mondiale. Un drappello di Marines
viene spedito a infiltrarsi tra le linee giapponesi, allo scopo di far saltare un ponte di fondamentale importanza strategica. Prima ancora dell'inizio della marcia, però, arriva un messaggio radio che annuncia la fine della guerra; ma il capo pattuglia, un giovane sottotenente, decide di non dir niente a nessuno. In prossimità del ponte, i giapponesi - stanchi e affamati - saltano fuori come birilli per arrendersi, e i Marines li riducono in polpette. Nel corso del massacro, il giovane sottotenente si becca una palla in petto, e in punto di morte rivela la verità ai suoi uomini. Poi scoppia a ridere, felice di tirare le cuoia prima del termine delle ostilità. «La guerra è finita», dice, «e con la pace adesso sono cazzi vostri». Nel secondo romanzo, Seadrift, i sopravvissuti a un naufragio, dispersi in mare su una piccola zattera, si dannano l'anima pur di sfuggire alle grinfie dei soccorritori. Uno dei superstiti, uno sceneggiatore di Hollywood, riesce a convincere i compagni che cavarsela da soli è molto più importante che cavarsela, punto e basta. Alla fine del libro mi aspettavo quasi che finissero divorati da una balena, ma l'unico che ci resta secco è proprio lo sceneggiatore, che salta dritto nelle fauci di uno squalo col solo rimpianto di non avere tempo a sufficienza per fare un bel discorso in punto di morte. Nel terzo, Up the River, un drammaturgo alcolizzato fa comunella con il figlio pacifista per portare a termine una tremenda vendetta contro un gruppo di cacciatori di alci, che per sbaglio hanno ammazzato la moglie di uno nonché madre dell'altro. Anche quando l'ultimo cacciatore schiatta in una trappola da orsi, padre e figlio non hanno ancora mica capito chi è stato a premere materialmente il grilletto, e a quel punto neanche gliene frega più niente, ormai prede della morbosa passione di questa giustizia fai da te. Finisce che il figlio si arruola nell'esercito per andare in Vietnam, mentre il padre smette di bere giusto in tempo per scrivere un grande lavoro teatrale imperniato sull'amore. Tutti e tre i romanzi erano stati dei bestseller, e tutti e tre avevano dato origine a film di successo e - forse per la buona nomea di Trahearne come poeta - avevano pure goduto di buone recensioni. Ma per quanto ne capivo io non si trattava che di robaccia dozzinale, ben condita con una larga dose di simbolismo e allusioni letterarie. Cacca ben confezionata, li aveva definiti un recensore che non si era lasciato impressionare. I personaggi maschili, anche i cattivi e i vigliacchi, si aggrappavano a un codice morale così macho, così tagliato con l'accetta che l'avrebbe capito subito anche un teppista analfabeta di una qualche gang pachuco dei ghetti di Los Angeles. Quelli femminili, invece, funge-
vano da manichini, tappezzeria e vittime. E le trame erano sempre incredibili. Ma Trahearne aveva trovato la sua miniera d'oro, e la sapeva sfruttare come se invece di una vena secondaria fosse il suo filone principale. Così aveva fatto una barca di quattrini, all'epoca in cui i soldi valevano ancora qualcosa. Ma forse non aveva avuto altra scelta. Quando era tornato dalla guerra, aveva scoperto che sua madre era diventata una ricca scrittrice di successo grazie a due romanzi sulle tenere, commoventi e comiche avventure di una giovane vedova che, pur con un figlio piccolissimo, riesce a farsi strada nel mondo come insegnante in una scuola del Montana occidentale, di quelle con una sola aula. Come diceva Trahearne, sua madre aveva intascato un milione di dollari per poi non scrivere mai più una sola parola, e soprattutto si era inventata ogni cosa di sana pianta, dal momento che la sua carriera scolastica a Cauldron Springs era durata un anno e basta, perché era rimasta subito incinta e aveva perso il posto. A sentire ancora Trahearne, non si era data pena di cercare di scrivere il miglior romanzo della storia, ma l'aveva vissuto. Appena avevano iniziato ad arrivare i soldi, Mamma Trahearne aveva lasciato Seattle ed era tornata a Cauldron Springs, dove aveva acquistato gli impianti termali e l'albergo, oltre a gran parte della città, che era riuscita a far sopravvivere negli anni bui, quando le terme avevano smesso di andare di moda e le fluttuazioni del mercato del bestiame avevano rovinato chissà quanti proprietari di ranch. Non era mai stata sgarbata con nessuno, non aveva mai più ricordato di essere stata scacciata da quella stessa città e si era limitata a guardarla benevola dall'alto, dalla sua casa in cima alla collina. Con i suoi primi quattrini, Trahearne si era costruito una casa sull'altra riva del torrente, proprio di faccia a quella della madre, e non aveva mai abitato altrove, fatti salvi gli occasionali viaggi in Europa e i periodi passati nei vari college come writer-ìn-residence. Il buffo è che tutte le sue poesie erano ambientate ad almeno un centinaio di chilometri da Cauldron Springs. Trahearne scriveva di ciò che aveva visto durante i suoi vagabondaggi alcolici, delle piccole città destinate a rimanere ostaggio delle autostrade, dei sogni di gloria delle cameriere di trattorie per camionisti, vale a dire trasferirsi a Omaha o a Cheyenne, del passato che aleggia come un fantasma non certo benvenuto, dei bar in cui i sopravvissuti di chissà quale frainteso disastro si riunivano per fissare polverose e ingiallite fotografie di loro stessi, per fissare bicchieri dal contenuto che virava ormai al nero di seppia. Ma di casa sua non scriveva mai. E, nel riportarcelo, ebbi tempo a
sufficienza per pensare a tutte quelle fughe. Il mio El Camino era un veicolo bastardo - mezza berlina, mezzo pickup, l'idea mezza scema che quei tipi di Detroit si erano fatti venire in mente per accontentare i pigri cowboy da drugstore, gente che vuole guidare un pickup senza dar l'impressione di guidarne uno - e a me faceva impazzire. Al momento dell'acquisto, il suo precedente proprietario, un ragazzetto indiano di Ronan, l'aveva ordinato in un allestimento tale da consentirgli di lavorare nel giro dei rodei trasportando i vitelli, il che significava un sacco di strada da percorrere a tutta birra e a pieno carico. Poi il ragazzo si era stufato dei rodei, oltre che delle rate mensili che si era ritrovato sul groppone, e dopo averglielo pignorato io, l'El Camino, ero riuscito a ricomprarlo a buon prezzo dal concessionario. Era una meraviglia: color rosso autopompa, tettuccio in vinile nero e cassone coperto, tutto cromature e design, ma aveva anche sospensioni ultraresistenti, cambio a quattro velocità e sotto il cofano un motore 1200 truccato ben bene. Una vera belva, insomma; in grado di dare la polvere a una Corvette in rettilineo e fregare in curva una Porsche Carrera, tanto che una volta mi ero beccato una multa per eccesso di velocità da un autovelox in South Dakota: 220 all'ora. D'altra parte, faceva poco più di due chilometri con un litro, quando era in buona, e nemmeno i Lloyd di Londra l'avrebbero assicurato volentieri, ma con una radio CB, un rivelatore di autovelox e una buona scorta di pasticche di speed, Detoxyn da un grammo l'una, anche un bambino poteva mettersi a rimorchiare la chiatta di Trahearne; e io feci letteralmente il fumo. Quando Trahearne si risvegliò dal sonnellino eravamo già a Lovelock, Nevada, e quando mi fermai a far benzina lui scese dalla sua bagnarola e venne a piazzarsi sull'El Camino. Non aprì bocca, eccetto che per versarci dentro qualche robusta gozzata di Wild Turkey, fin quando non arrivammo a Elko. «Non ne posso più,» disse, «e mi fa anche male il culo, quindi fermiamoci a dormire.» «Perché non se ne torna sulla sua, di macchina, e dorme là dentro?» feci io. «Sono così strafatto di speed che non riuscirei a dormire neanche se mi prendesse a cazzotti.» «Mica è colpa mia,» disse lui. «Forza, fermiamoci qui.» «Pensavo che non vedesse l'ora di arrivare a casa.» «'scolta, figliolo, sono io che pago, in questa storia, e quando dico basta è basta, non so se mi spiego.»
«Giusto,» dissi. «Un minuto le faccio da gran compagno di bevute, e il minuto dopo eccomi già diventato il suo lacché». M'infilai in una stazione di servizio in penombra e scesi. «Che stai facendo?» chiese. Poi mi seguì fin dietro al pickup per ripetermi la domanda. «Sto sganciando questa cazzo di macchina,» grugnii, facendo forza sui dadi della sbarra di traino. «Ci vada da solo a casa, vecchio. Così riparte quando è pronto e si ferma quando ne ha voglia. Io faccio festa.» Gli ci volle un bel po', ma finalmente riuscì a dirlo. «Ehi, mi spiace. Cazzo, non ho neanche più sonno.» «Sicuro?» «Già.» «E non cambierà idea?» «No. Mi spiace, te l'ho detto. I quattrini, a volte, rendono la gente stupida, sai com'è.» «Ancora non lo so,» dissi, «ma quando la sua ex-moglie mi salderà il conto, potrò farmene una qualche idea.» Trahearne scoppiò a ridere e andò a pescarmi una birra dal frigobar. «Devi imparare a rilassarti,» disse, «a prendertela comoda.» «Mica sono stato io a volermi fermare,» gli ricordai, mettendo in moto, e lui rise di nuovo. A sud di Arco, mentre guardavo i fari che rovistavano tra gli sterpi del deserto, Trahearne si svegliò di nuovo e volle sapere cos'era che mi aveva detto il padre di Sue. «Ho già provato a raccontarglielo quando eravamo a San Francisco,» feci, «ma lei voleva parlare di quella poetessa che stavo per fare mia.» «Un tipo tosto, quella, ma pieno di vita,» disse, e scoppiò a ridere. «Ti ha fatto vedere i sorci verdi, eh, figliolo?» «Può dirlo forte.» «Non sei uno che ti piacciono così trucide, eh?» «Lei sì?» «Certe volte,» borbottò. «Certe volte aiuta.» «Aiuta a far cosa?» «Mi aiuta a dimenticare che sto recitando per l'ennesima volta una stupida parte che ho già interpretato non so più quante volte,» disse placido, «non so più con quante donne e in quanti posti di merda.» «Tutta un'altra canzone, questa,» dissi.
«Giusto,» rispose senza approfondire. «Lo sapeva, suo padre, che Betty Sue era finita nell'Oregon?» «No. Ma non me l'avrebbe detto comunque, neanche se l'avesse saputo.» «Ci avrei quasi giurato, che saresti passato prima di lassù.» «L'idea ce l'ho avuta,» ammisi. «Ma poi ho deciso di riportare lei a casa. In Oregon ci vado la prossima settimana.» «Certo che ti sei preso un sacco di fastidi, per quella ragazza,» disse. «Accumulo crediti in paradiso,» feci. «Rosie mi ha promesso birra gratis per un mese, la prossima volta che passo da Sonoma.» «Tu non mi infinocchi,» disse. «Quella ragazza è come un'ossessione.» «Può darsi,» risposi. Poi passammo davanti a un cartello stradale che ci segnalava la distanza da lì al Craters of the Moon, monumento nazionale. «Ehi,» dissi, cambiando argomento, «lo sa che ci siamo scopati la stessa zoccola, al Cottontail?» «Perché hai fatto una cosa del genere?» mi chiese. «Pensavo di scoprire un qualche indizio.» «Cristo santo,» disse. «Ma che razza di cinico. Anzi, sei un cazzo di mistico sotto mentite spoglie». Riprese fiato. «E ti ha detto qualcosa?» mi chiese innervosito. «Ha solo manifestato qualche dubbio sull'eventuale conquista della luna,» feci. «Nient'altro.» «Così sono le donne, figliolo. O si fanno fregare con niente, oppure sono cazzi,» disse, e sospirò. Non ci avevo capito niente, ma non gli chiesi spiegazioni. Continuai a guidare verso la scura massa delle montagne, al di là del deserto, cercando di spingere Betty Sue in qualche recesso della mente, appena aiutato in questo dal whisky di Trahearne. Malgrado una leggera sbronza, riuscii a recapitare Trahearne a casa sua vero la mezzanotte del giorno dopo. Era una lunga costruzione in tronchi e pietra, posta su una vasta spianata che andava a infilarsi dentro un fianco della collina. Nel parcheggiarle di fronte, scorsi una donna appoggiata allo stipite della porta, una silhouette in controluce, braccia conserte e caviglie incrociate come se ci aspettasse da chissà quanto, come se fosse lì da giorni interi, a scrutare un mare buio e tempestoso da un ballatoio coperto. «Di nuovo a casa,» disse Trahearne. «Ogni volta che ritorno, mi sorprendo di essere ancora vivo. Continuo a pensare che la mia morte sarà sulla strada. E invece comincio a credere che tirerò le cuoia nel mio letto.» «Non sa come la capisco,» dissi.
«Dormi qua, stanotte, non si discute,» disse lui. «Se quella che si sta preparando è una gigantesca rissa di famiglia,» feci, «volto subito il culo e torno a Meriwether.» Trahearne mollò uno sghignazzo, rompendo la quiete dell'abitacolo. «Non preoccuparti,» disse. «Melinda è una santa donna. Neanche aspetta più che io combini qualcosa, per perdonarmi. Forza, andiamo a farci un drink di bentornato». Poi mi affibbiò una pacca sulla schiena e scese di macchina berciando. «Whisky, donna!» La sua voce tonante iniziò a riecheggiare per la vallata. Al di là del torrente, si accese una luce al piano superiore della casa della madre di Trahearne, e una macchia scura - una testa femminile - si affacciò alla finestra. «In che ordine?» chiese la donna sulla soglia con voce senza accento, e priva della benché minima traccia di rancore. «Fanculo l'ordine,» rintuzzò vociante Trahearne. «Che si faccia festa per l'approdo del marinaio, per il cacciatore che scende dalle colline.» «A cavallo dei suoi cliché, oppure sotto?» rispose lei allegra. Trahearne si avviò zoppicando su per le scale in redwood che portavano al pianerottolo, e io gli andai dietro con le sue valigie e il suo borsone, a mo' di portatore indigeno. «Chi hai alle spalle?» fece sua moglie. «Gunga Din?» «Forza, Gunga Din, razza di porco, che il tuo sahib vuole l'acqua per il whisky,» disse lui, e scese a darmi una mano. «Grazie,» dissi, e mi fermai sulle scale nel tentativo di placare il tremito da anfetamine che mi spezzava le gambe. Trahearne e sua moglie si abbracciarono sulla soglia. Lei gli sussurrò «Ma che maniaco», con affetto, e nel guidarlo in casa si mise a ridacchiare. Nel silenzio, si udiva il torrente mormorare nel suo letto pietroso, e il volto alla finestra aveva l'aria di fissare proprio me. Finii di salire le scale con un tacito senso di colpa, per sfuggire a quello sguardo. Quando raggiunsi la soglia, che dava direttamente su un soggiorno grande quanto una casa, Trahearne si era già sprofondato, piedi e tutto quanto, in una enorme chaise longue di pelle. La moglie era dietro un piccolo bancone da bar, a versare ghiaccio nei bicchieri. Dall'altra parte della stanza, dentro un caminetto grande a sufficienza per arrostire una Volkswagen, tre tronchi da più d'un metro l'uno sfrigolavano allegri, baluardo contro la gelida aria di montagna. Dal mio punto d'osservazione, sembrava un misero fuocherello da campo. «Qualcosa da bere, signor Sughrue?» chiese la signora Trahearne.
«Una birra, grazie,» risposi, e lei aprì una bottiglia per riempire un boccale di terracotta, poi venne a portarci i beveraggi: prima a Trahearne, poi a me, «Mi sa che Trahearne ha il garbo di un macigno,» disse nel porgermi il boccale. «Sono Melinda Trahearne». Tese una mano ruvida, che strinsi nel presentarmi. «Faccia come se fosse a casa sua,» disse poi, e sorrise. «E si faccia un giro, finché non le si risveglia il culo, poi si trovi una poltrona.» «Grazie,» risposi, e lei se ne tornò dal marito. Così me ne restai in piedi come un fesso, mentre lei si sedeva sul bracciolo della poltrona di Trahearne e giocherellava coi pochi capelli del vecchiardo. Era così contenta di riaverlo a casa, e si vedeva, che mi feci forza per non guardarli troppo e per non mettermi ad ascoltare i loro sussurri di benvenuto. Fino a quel momento avevo avuto la testa talmente piena di Betty Sue Flowers da non aver mai pensato all'eventuale aspetto della seconda signora Trahearne, e anche se cercavo di non metterle gli occhi addosso, avevo già capito che era una donna abbastanza normale, sulla trentina; non già quel che mi sarei aspettato, se solo ci avessi fatto mente locale. Brutta non era, soltanto anonima, e aveva l'aria di una che è appena tornata da una giornataccia di lavoro nei campi. Capelli castani, senza particolare pregio, né chiari né scuri, che portava molto corti, tanto da mettere in evidenza un naso troppo lungo e una bocca troppo ampia, oltre che due occhi fin troppo distanti. Non era truccata, fatta eccezione per una macchia di argilla grigiorosa sulla fronte, e anche sotto le luci soffuse il suo colorito era pallido, simile a quello di un galeotto o di una barista. Indossava un paio di jeans sformati e una felpa molto ampia, tali da non rivelare alcunché sul corpo in essi contenuto; non sembrava grassa né magra, ma si muoveva con quella grazia ben controllata che le ragazze di buona e ricca famiglia paiono imparare assieme ai loro primi passi. Anche i piedi nudi erano snelli ed eleganti, ben curati, mentre le mani erano ruvide e toste come quelle di un muratore; gli occhi, infine, di una strana sfumatura verdeazzurra, capace di per se stessa di renderli attraenti, ma non si intonavano certo con il colore - o la tintura - dei suoi capelli. Mi lanciò un'occhiata e mi sorprese a guardarla. Mi fece un ampio sorriso, con denti dritti e regolari come solo i dentisti di classe sanno sistemare. L'impressione era quella di una ricca ragazza della East Coast che si era specializzata in letteratura inglese e hockey su prato in qualche famosa università, magari una delle Sette Sorelle. Mentre continuavo a guardarla,
scivolò dal bracciolo della poltrona per andarsi a piazzare alle spalle di Trahearne, a massaggiargli con fare energico le spalle massicce. Aveva l'aria di sembrare efficace, quel massaggio, ma il vecchiardo attaccò a lamentarsi. «Basta, donna,» disse. «Il rimedio è peggiore del male». Poi le batté sulle mani per farla smettere. «Femminuccia,» rispose lei ridendo, e andò a prendere le valigie del marito. Quando le tirò su, pesanti com'erano, non batté ciglio, e s'incamminò verso un corridoio buio come se fossero vuote. Non lo erano, e lo sapevo bene. Via via che si allontanava, la solida linea dei fianchi si muoveva con una forza tutta sua sotto quei jeans privi di forma. Nel voltarmi, scoprii Trahearne che mi osservava guardare sua moglie. «Da quant'è che siete sposati?» gli chiesi, poi impegnai la bocca in un'attività più degna, vale a dire la birra. «Quasi tre anni,» rispose lui senza interesse. «Sembra una brava persona,» dissi io. «Già,» fece. «Una brava persona». La stanchezza aveva iniziato ad attenuargli la voce. «Magari è il caso che vada a sganciare la macchina e levi le tende,» dissi. «Sciocchezze,» disse Melinda dal corridoio. «Ha guidato fin troppo, e devo insistere perché rimanga a passare la notte da noi.» «Grazie, signora,» dissi, «ma non voglio essere d'incomodo.» «Nessun incomodo,» rispose con garbo. «Abbiamo un sacco di camere per gli ospiti, al piano inferiore, tutte tranquille e isolate. Così potrà andare e venire a suo comodo, senza disturbare nessuno. C'è un mobile bar, un frigorifero pieno di birra, un cucinotto e due tv a colori. Deve proprio restare.» «Be'...» «Ma vaffanculo,» ringhiò Trahearne. «Questo tipo è il non plus ultra dei buzzurri, e l'unico posto in cui riesce a prender sonno è sotto le stelle. E poi non si è mai sposato, e se la fa sotto al solo sentir parlare di liti in famiglia.» «Non fare lo sciocco,» disse Melinda, e scoppiò a ridere. «L'unica ragione di lite, in questa casa, è quando Trahearne attacca a russare».Venne a prendere anche il mio borsone. «Forza, che le mostro la sua camera.» «E io vado a mostrarmi al letto,» disse Trahearne nell'alzarsi. «Buonanotte, C. W., e fanculo alla buona educazione,» aggiunse, e barcollò verso
il corridoio con la pesantezza di un orso ferito. Il piano inferiore era occupato da una grande stanza con la parete esterna in vetro, e le camere da letto si trovavano lungo un corridoio che replicava quello del piano di sopra. Melinda portò il mio borsone in una cameretta accanto al bagno, poi mi ricondusse nella stanza con la vetrata per farmi vedere il mobile bar e il cucinotto. «Davvero, faccia come a casa sua,» disse. «Tutto quel che può servirle per la colazione è in frigo. Anche per pranzo. Mi spiace, ma io e Trahearne abbiamo differenti orari di lavoro, e quindi ci ritroviamo assieme per un solo pasto, vale a dire la sera. Verso le sette, di solito. Fino a quell'ora, dovrà arrangiarsi.» «Me la caverò,» risposi. «Ne ero certa, signor Sughrue,» fece lei. «Gli scapoli sono sempre gli ospiti migliori. Sanno cavarsela da soli molto più degli uomini sposati». Sorrise appena. «Mai stato sposato?» «No, signora.» «Le secca se le chiedo il perché?» «No che non mi secca,» dissi, «ma il fatto è che proprio non lo so. Non sono mai voluto saltar giù da un aeroplano di proposito. Anche al corso di paracadutismo hanno dovuto darmi un calcio in culo. E nessuno mi ha dato un calcio in culo per farmi sposare.» «Io l'ho praticato, il paracadutismo acrobatico,» disse lei piano, «e ho scoperto che il matrimonio è altrettanto emozionante.» «Difatti sembra felice.» «Lo sono,» rispose. «E credo si sia già accorto che voglio un gran bene a mio marito.» «Sì, signora.» «E lui sembra esserle affezionato,» disse. «Questo mi fa piacere. Non sono di quelle che invidiano le amicizie del marito. Spero solo che anche noi possiamo essere amici». Mi porse di nuovo la mano. Gliela strinsi. «Sì, signora.» «Certo, se si azzarda ancora a chiamarmi signora, dovrò prenderla a cazzotti,» disse impassibile, per poi attaccare a ridacchiare. «Forse potrei adattarmi a un 'gnora Melinda,» dissi io. Sorridemmo entrambi. «Va già meglio,» fece lei, e mi augurò sogni d'oro. Quando se ne fu andata, continuai a sentirmi riecheggiare in testa la sua voce, con una serie di frasi e parole di nessun apparente significato «mio
marito» e «il frigo» ma decisi di non farci molto caso. Il viaggio in macchina e il Desoxyn mi avevano lasciato troppo a brandelli per poter dormire, così mi sistemai di fronte alla tv a bermi qualche birra e guardare i film della notte su un canale via cavo di Spokane. Dopo una ventina di minuti di calma, forse mezz'ora, i Trahearne attaccarono a fare un gran casino, e meno male che non era una coppia dedita a liti famigliari. Da quando lavoravo in quel settore, ci avevo sempre dato dentro il più possibile, e così mi ero occupato di faccende di divorzio più spesso di quanto fosse lecito, ben più di quanto facessi all'epoca in cui avevo ancora un socio. Non avevo alcuna intenzione di ascoltare, a meno che non mi pagassero per farlo, e quindi alzai il volume della tv, ma anche così il forte rombo della voce del vecchiardo finiva per bucare i muri e i pavimenti, che tanto sottili non erano. Non so perché si fosse incazzato, ma lo sentii rompere le scatole a sua moglie durante tutto il secondo tempo di Johnny Guitar e per una buona metà di The Beast with a Thousand Eyes. Passai al whisky, scovai un pacchetto di sigarette dietro il bancone del mobile bar e me ne uscii fuori passando dalla vetrata scorrevole. Ma anche laggiù arrivava ugualmente il suono delle sue lamentele, così come quello della condiscendente cantilena di sua moglie. Tornai a guardarmi il film, e alzai il volume. Finalmente si dettero una calmata, e i rumori si mutarono nel cigolio del materasso a molle, nello scontro di un corpo sull'altro. La cosa mi innervosì ben più della lite precedente. Uscii di nuovo e mi avventurai fino alla macchina, appoggiandomi al parafango umido dell'El Camino. Giù nei pascoli c'era un gran movimento di zoccoli, un nasale e lieve risuonare di muggiti, lo scatto delle dentature che si chiudevano sui ciuffi d'erba. Oltre il torrente, l'altra casa era adesso immersa nel buio, ma ancora mi sentivo addosso gli occhi di quel volto, celato dal flebile bagliore di un lumino da notte che brillava a mo' di fantasma dietro le finestre oscurate. Per l'ennesima volta, trassi di tasca la foto di Betty Sue Flowers. Ce l'avevo da più di una settimana e ancora non l'avevo fatta vedere ad anima viva. All'improvvisa fiammella di un cerino, aveva un non so che di familiare, neanche fosse una mia compagna d'infanzia, ma appena tornato il buio furono i tremolanti fotogrammi del film porno a riempire la mia temporanea cecità. Io per primo non riuscivo a capire il mio interesse, né sapevo cosa pensare. Sospettavo di essere ormai diventato come tutti gli altri, di aspettarmi che fosse lei a conformarsi all'immagine che me n'ero fat-
to, di volerla riportare indietro; ma la verità, temevo, era che lei voleva starsene nascosta e vivere la propria vita senza l'assillo di tutti questi opprimenti desideri altrui. A meno che non fosse morta, beninteso; in questo caso, allora, aveva già vissuto la vita che voleva, e nel miglior modo possibile. Continuai a fissare la foto che avevo tra le mani, quella che non riuscivo più a vedere, e vidi invece i fotogrammi che non ero più in grado di guardare senza batter ciglio, quella carne pallida e soffice che sapeva muoversi con innegabile grazia, allo stesso tempo fragile e determinata, per sempre vulnerabile ma per sempre intatta. Pieno di vergogna per la mia eccitazione, pieno di vergogna per la mia stessa vergogna, e nuovamente eccitato al solo pensiero, me ne tornai verso la casa, adesso silenziosa, e verso il mio letto vuoto. Ma non già con l'intenzione di dormire, né oppresso da sogni sgradevoli. A bere, a fumare, a guardare il soffitto. Quando il portacenere di fianco al letto minacciò di traboccare, lo portai in bagno per vuotarlo, e la forza dell'abitudine mi spinse anche a ripulirlo. Era un blocco di argilla smaltata, priva di forma come una pietra qualsiasi, con un incavo liscio e poco profondo giusto al centro. Nel togliere le incrostazioni di cenere, mi apparve alla vista un profilo di donna, un volto nobile e risoluto che sorgeva dall'argilla, una lunga ciocca di capelli che le si staccava dal viso come spazzata da una folata di vento cosmico. A uno sguardo più attento, scorsi quelli che avevano tutta l'aria di essere gli occhi di qualche astante, appena visibili e disposti a cerchio attorno al bordo dell'incavo, che fissavano la donna con una passione molto vicina all'odio. Poi vidi un sottile vaso di ceramica sulla mensola del bagno, in cui era infilato un mazzetto di festuche, e decorato con una serie di volti femminili, le mani sugli occhi, i lunghi e intricati capelli a coprir loro le spalle. Doveva essere opera di Melinda, tutta quella roba, pensai, una donna ordinaria che sa ben comprendere la maledizione della bellezza. Ne fui colpito. Il portacenere pesava come un sasso, mentre il vaso era così leggero che sembrava fatto d'aria, e i volti delle donne troppo fragili da descrivere a parole. Di solito, quando passavo notti insonni al gabinetto, finivo per scrutarmi allo specchio, a lungo, nel tentativo di trovare nel mio viso abbrutito dalla stanchezza e dall'alcol una qualche traccia di quel che sarebbe stato, se non ci avessero messo mano tutti quegli anni buttati via, tutti quei bar, tutte quelle lunghe nottate. Ma quella notte mi limitai a far scorrere il pollice sui volti imprigionati sotto lo smalto marroncino e traslucido, su quelle donne piangenti, e non mi restò alcuna compassione per me stesso.
Il letto me l'ero già preparato prima, e mi ci ficcai dentro. Al mio risveglio mi sarei messo a fare quel che sapevo di dover fare; saldare i miei debiti con quella donna. 9 Un mio vecchio compagno di bevute se n'era tornato a casa da un vagabondaggio alcolico di un paio di settimane con una rosa tatuata sul braccio. Attorno al fiore c'era scritto «Di notte si tromba I e di giorno si dorme». Sua moglie lo costrinse a farselo togliere da un chirurgo, ma quando vide la cicatrice si incazzò ancora di più. Così lui se la toccava, quella cicatrice, e poi scoppiava a ridere. Qualche anno dopo lei tentò di levargli quel sorriso con una bottiglia di vino, ma riuscì solo a fargli saltar via un paio di denti, e il ghigno del marito si fece ancor più a presa per il culo. La cosa che non riesco a capire, tuttavia, è che quei due sono ancora sposati. Lui ha ancora quel sorrisetto, e lei si incazza come il primo giorno. Io non avevo alle spalle né tatuaggi né matrimoni, ma il mattino seguente il mio arrivo da Trahearne dormii lo stesso fino all'ora di pranzo. Al risveglio, mi resi conto che dovevo darmi una mossa e andare a farmi una bella corsa. Tuta e scarpe da jogging, tanto, ce le avevo. D'altra parte, ero in viaggio ormai da un bel pezzo, e già sentivo certe mie inestimabili parti del corpo lamentarsi per la mancanza di esercizio. Magari mi si sarebbe schiarita la mente. Magari mi sarei rotto una gamba e la faccenda dell'Oregon sarebbe passata in cavalleria. Fu così che, infilata la mia malconcia tuta ginnica, mi affacciai alla luce del mezzogiorno e mi sedetti nel patio a scrutare il panorama. La madre di Trahearne era proprietaria di una parte dell'area a nordovest della cittadina di Cauldron Springs. I suoi terreni si aprivano all'interno di una vallata poco profonda tra due costoni di roccia di scarsa elevazione. Nel punto più alto, la montagna era boscosa, ma via via che si scendeva gli alberi lasciavano il posto a una bassa sterpaglia. Tra le case e la superstrada, la donna aveva una zona adibita a pascolo, con qualche capo di bestiame. Tra i due costoni, il Cold Spring Creek scendeva fino al pascolo, dove si frammentava in una lunga e placida serie di anse sormontate da salici, per poi scorrere a fianco della superstrada e gettarsi nelle tiepide acque minerali del Cauldron Springs Creek, a est della cittadina. La casa di Trahearne dominava la sponda est del torrente, quella di sua madre la sponda ovest. La casa della madre, una fattoria squadrata e solida la cui unica de-
corazione era un porticato davanti alla facciata, pareva uscita dritta dalle Grandi Pianure per dominare la cittadina con lo sguardo austero del coltivatore di cereali fatto uscire pazzo dalle paturnie del clima. Cauldron Springs era nata attorno a una sorgente termale che ribolliva in una conca calcarea delle dimensioni e della forma di una vasca da bagno. L'albergo e lo stabilimento termale erano stati costruiti da un vecchio che era diventato ricco con le miniere d'argento e stagno, e che sosteneva che la sua sorgente avesse grandi proprietà curative. Dopo aver investito nell'impresa tutti i suoi averi e tirato su un gigantesco stabilimento termale, simile a una grossa torta nuziale, si era reso conto che le sue terme erano troppo lontane dai centri abitati, e che la sorgente non aveva abbastanza forza per mantenere calde piscine e bagni. La già scarsa e insoddisfatta clientela iniziò ad assottigliarsi ancor più. Alla sua morte, il vecchio era l'unico ospite del suo hotel, l'unico che ancora vi passava le acque. La madre di Trahearne aveva riaperto lo stabilimento, oltre a un piano dell'albergo, ma solo come gesto di cortesia nei confronti della città, proprio come i campi da tennis che aveva fatto costruire dietro le terme, in segno della sua disponibilità economica. Gli edifici no, quelli non li aveva fatti ridipingere. Erano rimasti come un tempo, passati dal bianco originario a un color grigio cenere, spento come l'argento grezzo. Mentre trotterellavo giù per la stradina sterrata che andava verso la superstrada, Melinda mi sorpassò alla velocità di un cervo. Sei stagioni di football nell'esercito e quattro nelle squadre di diversi college parauniversitari mi avevano lasciato nelle gambe solo un lontano ricordo di corsa veloce, e mi ritrovai a invidiare il ritmo solerte e sciolto di Melinda. Correva fluida proprio così come camminava, ma ancora se ne stava tutta infagottata, nascosta stavolta in una tuta ginnica molto ampia. Raggiunse la superstrada e sterzò verso ovest, attaccando a risalire la lunga rampa che si dipartiva dalla banchina. Quando anch'io arrivai alla superstrada, tentai di starle alle calcagna, ma dovetti ben presto rallentare e infine mettermi al passo, mentre lei toccava la sommità della rampa e tornava indietro. Rimasi ad aspettarla, e appena arrivò giù mi misi al suo fianco, per tornare assieme verso lo sterrato. «Non si farà mai il fiato, in questo modo,» mi disse, respirando lenta e fluida. «Sto facendo penitenza,» sbuffai, «mica attività fisica.» Lei scoppiò a ridere, poi scattò via, sollevando a ogni ampia falcata nugoli di polvere, i capelli corti e ispidi che ondeggiavano al sole.
Al mio rientro a casa, la trovai che mi aspettava sul patio, ben piazzata a pugni sui fianchi e gambe larghe. Arrancai su per le scale e mi lasciai cadere in una sedia a sdraio in redwood. «Magari riuscissi a far correre anche Trahearne,» disse. «Magari riuscisse a far smettere me,» ansimai. «Perché, non le piace correre?» «Sempre meglio di farsi infilare un bastone nell'occhio,» risposi, «ma almeno quello è un dolore di breve durata.» «Proprio così,» rombò Trahearne nel varcare la porta di casa. «Che ne dici di un Bloody Mary?» mi chiese, agitando una caraffa a mo' di amuleto magico. «Solo perché è prima di colazione,» dissi mentre mi versava da bere. «Quaggiù, è proprio questa la colazione,» fece Melinda. Mi voltai per guardarla in faccia e cogliere qualche traccia di ironia coniugale, ma la donna sorrideva, e nel tirare un leggero schiaffetto alla guancia cicciosa di Trahearne pareva quasi carina. Le urla e le scenate della notte, qualunque ne fosse il motivo, sembravano ormai dimenticate. Certo, poteva anche essere una finzione. Melinda gli dette un lieve bacio all'angolo della bocca ed entrò in casa. Trahearne si sistemò su una sdraio al mio fianco. «Ha proprio una donna eccezionale,» dissi io, «per moglie.» «La sapesse tutta,» rispose lui, e si fece tutto rosso. Ridacchiai al suo imbarazzo, ma lui non ricambiò il sorriso. Mi riempì solo il bicchiere. «Butta giù questo, ragazzo mio,» disse, «e poi ti faccio vedere com'è che si affronta sul serio un doposbronza.» «Allora è questo che significa passare le acque?» dissi mentre io e Trahearne ci immergevamo nel tepore della piscina principale dell'albergo. Lui si limitò a grugnire e si lasciò andare nell'acqua fino alle spalle. La Tshirt bianca che aveva voluto a tutti i costi tenersi addosso si gonfiò per qualche istante di aria presa in trappola, che gli defluì subito dalla scollatura col rumore di un rutto. Dopo aver scolato il Bloody Mary, Trahearne mi aveva costretto ad accompagnarlo in città a passare le acque. Aveva una chiave della porta posteriore e di uno spogliatoio privato, in cui ci eravamo cambiati, e la piscina era tutta per noi eccezion fatta per una vecchia coppia dell'Oklahoma, che stava uscendo proprio al nostro arrivo per andare a farsi dei fanghi bollenti sui piedi, dietro una porta che recava il calzante nome di Corn Hole, occhio di pernice.
«Ti piace?» sospirò Trahearne. «Mica male,» mentii per educazione. L'acqua, che puzzava appena di zolfo e altri minerali che il mio naso si rifiutava di identificare, era più tiepida che calda, e dava una sensazione di viscido pari ai sudori freddi di una febbre. «Altro che tutte quelle corse del cazzo,» disse lui, «e secondo me funziona pure. Mia madre ci mette la mano sul fuoco, visto che è qui tutte le mattine alle sei, e Melinda ci viene dopo il lavoro, la sera tardi, a farsi qualche bella nuotata.» «E lei che fa?» gli chiesi. «Io? Io ci vengo a curarmi i doposbronza,» rispose, «e me ne sto qui seduto fin quando non mi sono fatto una sudata gigante». Poi ficcò la testa sott'acqua e si tirò in piedi. «Sto sudando?» mi chiese, e sorrise. «La sensazione è proprio quella.» «Bagnato lo è di sicuro,» dissi, cercando di non far caso al groviglio di cicatrici rossastre che gli brillavano sul torace, da sotto la T-shirt fradicia. Trahearne tornò ad abbassarsi nell'acqua. «Quando sei pronto per andare, dimmelo pure,» fece. «Mica è stata mia, l'idea,» dissi. «Usciamo di qui,» sbottò. «Questo posto puzza sempre come un ospedale». Poi si alzò e si avviò barcollante verso i gradini. Sulla schiena, aveva ancor più cicatrici. Sembravano la dolorosa conseguenza di chissà quante schegge di shrapnel, il ricordo - scavato dritto nella carne, a sgorbia - di una guerra da tempo dimenticata. Lo seguii fuori dall'acqua, fin nello spogliatoio. «Okay,» disse mentre ci rivestivamo. «Mi vergogno, delle mie cicatrici.» «Mica sono così tremende,» dissi io. «Per me bastano,» rispose. «Datti una mossa. Forse riesco a mettermi a scrivere, oggi pomeriggio, visto che mi è passata la ciucca.» «Io, invece, sono abbastanza sobrio per saltare in macchina e tornare a Meriwether.» «Domani,» intimò Trahearne. «Melinda ha messo a scongelare una bistecca giusto per te.» «Sissignore,» dissi, e assieme ci avviammo alla macchina, che era parcheggiata tra il retro della piscina e i campi da tennis. Un tipo di una certa età stava facendo rimbalzare delle palline su un pannello di legno, e due ragazzine stavano lottando con furia per vincere un punto.
«Non guardare,» disse Trahearne nell'accomodarsi sul sedile del passeggero. «Tutta quella carne giovane e attraente finirà per farti uscire di senno.» «Già fatto,» dissi, e misi in moto. Più tardi, nel pomeriggio, dopo un breve sonnellino al sole, una doccia e uno spuntino, chiamai la casa della madre di Trahearne per far sapere a Catherine Trahearne che non avevo certo dimenticato chi era stato ad assumermi. Lei mi disse che se ne stava scendendo in città per giocare a tennis, ma di fare un salto da lei per un drink prima di cena, e io accettai. Trahearne era andato a nascondersi in un vasto studio adiacente al soggiorno, dal quale si udiva provenire il tintinnio dei cubetti di ghiaccio e il fruscio delia carta, oltre che una ininterrotta serqua di improperi, e Melinda era andata nel suo studio in cima alla collina; così mi versai da bere e andai a zonzo per il sentierino sterrato che portava a uno stretto ponte in legno che attraversava il torrente. Era davvero un fiumiciattolo, stracolmo di pietre e sterpaglie, che tra tutte quelle masserizie riusciva però ad acquistare impeto, fermandosi ogni tanto in qualche basso laghetto. Il fissare un torrente è un'arte che richiede pazienza, e io mi appoggiai al parapetto per meglio far pratica, aspirando le gelide folate di brezza che correvano sulla superficie e osservando le trote di giusto formato padella che rilucevano sotto il pelo dell'acqua e sbattevano le branchie come ali rudimentali, nell'attesa che scendesse la sera e portasse con sé lo schiudersi delle uova di mosca. «Lei dev'essere il detective,» disse dall'ombra dei salici accanto al laghetto una ruvida voce di donna, e io quasi balzai nel torrente. «Mi scusi,» proseguì. «Non intendevo spaventarla, ma quando è arrivato qui mi stavo facendo un pisolino inaspettato.» «Nessun problema,» dissi mentre usciva dall'ombra. Era una donna alta e angolosa, dai capelli grigi e corti, con una vecchia camicia rossa di flanella, pantaloni Malone e un paio di malconci stivali da caccia Bean's. Si appoggiava con forza a un bastone nodoso, nell'avanzare zoppicando lungo la sponda del fiume per raggiungere il sentierino. «Sono Edna Trahearne,» disse porgendomi una mano deformata dagli anni. Doveva essere sull'ottantina, ma aveva lo sguardo limpido e la stretta ferma, malgrado le dita tutte contorte. I duri tratti del viso le erano stati erosi da una serie di profonde rughe, e il seno pesante ma avvizzito le pendeva libero sotto la camicia di flanella come un inutile ammasso di carne. «E lei è quel tal Sughrue.»
«Sì, signora.» «Come sta mio figlio?» «Un po' stanco,» risposi, «ma è forte come un bue.» «Gli viene facile,» disse lei, «ma un giorno o l'altro finirà per cacciarsi nei guai, senza nessuno a toglierlo dalle peste. L'avevo detto, a Catherine, di non mandarlo a cercare, questa volta, tanto sono soldi e tempo buttati, ma figuriamoci se lei mi ha dato retta. Non lo so cos'è che gli fa, quella zoccola che si è messo in casa, ancora non gli ho parlato, a mio figlio, ma ormai le sue sbronze si susseguono senza interruzione, e sono due anni che non ha più scritto una sola riga. Se non se la toglie dai piedi, quella, si ritroverà con un piede nella fossa prima di me». Ciò detto, tacque per scrutarmi con uno sguardo quasi civettuolo. «Lei non è d'accordo?» «Non saprei,» risposi. «Sua moglie, sembra che lo ami.» «A mio figlio non serve amore, giovanotto. Lo manda in confusione,» disse lei. «Ha solo bisogno di essere accudito, come un bambino. Per quel che ne so, la sua giovane mogliettina ha commesso l'errore di trattarlo come un uomo. Invece lui è un artista, e tutti gli artisti sono dei bambini.» Vero, pensai, certi uomini non devono essere accuditi, ma è pur sempre umiliante parlarne a degli sconosciuti. Decisi di scoprire se la vecchia era tosta come voleva far credere a parole. «So che lei scriveva, un tempo,» dissi. «Per una donna sola era l'unico modo di far qualcosa che non fosse servire il maschio, e ho smesso non appena ho fatto soldi a sufficienza per potermi permettere questo posto.» «Quindi non era così dedita all'arte,» feci io. «Se ha letto i miei due romanzi, allora già saprà che razza di favolette siano,» disse, «e se ha parlato con mio figlio saprà anche la sincerità della vita che conduco. Ho spillato quattrini agli sciocchi, figliolo, e me li sono guadagnati, ma non mi venga fuori con queste stronzate artistiche.» «Va bene,» dissi. Era tosta proprio come sembrava, così me ne tornai a scrutare il torrentello. «Lei pesca?» mi chiese di colpo. «O è solo un altro bellimbusto con una canna all'ultimo grido?» «Non sono un gran pescatore, no, ma qualche trota in vita mia l'ho beccata.» «Se le presto la mia canna, pensa di riuscire a tirar su una mezza dozzina di quelle trotelle?» mi chiese. «Io non ci vedo più tanto bene, per non parlare di queste mani, e non riesco più a legare l'amo alla lenza, ma stasera
non mi dispiacerebbe una bella padellata di trote fritte.» «Ho la mia giù in macchina, grazie,» dissi, per poi appoggiare in terra il bicchiere e trotterellare a prendere la canna da pesca, ubbidiente come un bravo figlio. Da un pezzo nessuno aveva più pescato in quel torrente, e le trote saltavano su al benché minimo svolazzare di qualunque cosa potessi offrir loro. Finii comunque per acchiappare più rami di salice e correnti d'aria che pesci, e mi ci volle un'ora per mettere assieme un decente numero di piccole e accanite trote. La vecchia mi guardava come un avvoltoio, ma non aprì bocca per offrirmi né suggerimenti sprezzanti né saggi consigli sul mio stile di pesca. Pulii il pesce nel torrente e seguii la donna fino alla porta posteriore di casa sua, e poi in cucina. Mentre mi lavavo le mani, lei mi porse una birra e mi chiese di sedermi con lei in veranda. Attraversammo lentamente il soggiorno, come all'interno di un museo. Cimeli di guerra, peraltro. Pareti e tavoli erano coperti dai ricordi della guerra di Trahearne: foto in cornice di giovani ufficiali dei Marines, di fresca nomina, e di un ben più magro Trahearne che spiccava tra i suoi coetanei; gli stessi volti nel corso di una campagna nella giungla, lo sguardo vacuo e sfinito in mezzo alle rovine di una cinerea foresta pluviale, dopo le tempeste di fuoco della battaglia; bandiere giapponesi di guerra, una pistola automatica Nambu calibro 25, e la spada da samurai di un ufficiale giapponese appesa in croce con la spada dell'alta uniforme di Trahearne; cuscini trapuntati, collanine di conchiglie e orecchini d'osso, insomma tutte le cianfrusaglie che i reduci riportavano da casa dal Pacifico. Una delle foto era di un matrimonio, Trahearne in abito blu sotto un pino californiano sferzato dal vento, con spiagge bianche e un fasullo oceano azzurro sullo sfondo, ma la bella donna accanto a lui, con un bouquet bianco in mano, era tutta vestita di nero. Il tutto era molto strano; era come se fosse rimasto ucciso in guerra. In quel soggiorno niente si riferiva alla sua vita dopo la guerra, e quasi mi aspettavo di vedere una stella dorata, ormai stinta, appesa alla finestra di fronte. Quando alzai lo sguardo, tuttavia, la vecchia mi stava aspettando accanto alla porta con aria irritata. Mi scrollai di dosso la sensazione di gelo che quella stanza mi aveva fatto venire e la seguii all'esterno, respirando a fondo. L'aria del soggiorno era tanto stantia e satura di sangue da essere irrespirabile. «Lei è stato in guerra?» mi chiese educata. «Non in quella,» risposi. Lei scosse il capo e sorrise, come davanti a una
risposta errata. Le girai attorno, badando a non toccarla, per andarmi a presentare alla bella donna seduta in veranda su una sedia a dondolo. Quel giorno era vestita in bianco, invece che in nero: un corto completo da tennis, con racchetta e borsa di palline in terra, accanto alla sedia. Sulla fronte le brillavano gocce di sudore, che scendevano giù dai capelli color rame, legati all'indietro. Il tempo non l'aveva neanche sfiorata. Anzi, adesso era ancora più bella, con una carnagione liscia e abbronzata e un corpo sodo e scattante. «Sono Catherine Trahearne,» disse senza che ce ne fosse bisogno, e si alzò. «Sono andata a giocare a tennis giù in città, e non ho ancora avuto il tempo di cambiarmi. La prego di scusarmi.» «Nessun problema,» dissi. «Io sono stato a pescare.» «È andata bene?» mi chiese. «Quanto basta per cena,» disse la vecchia, «ma proprio a pelo». Sembrava allo stesso tempo un rimbrotto e un ordine, ma non capivo bene per cosa e per fare cosa. «Ogni volta che prendo qualcosa è un colpo di fortuna,» dissi. «Be', Trahearne l'ha preso,» disse Catherine, «e quindi preferisco credere che lei sia un pescatore abile, più che fortunato.» «Pfui,» la sbeffeggiò la vecchia. «Tutto tempo sprecato». Non capivo se si riferisse alla mia pesca o alla mia caccia. «Comunque sia, grazie per averlo riportato tutto intero,» disse Catherine. «Non dev'essere stato facile, ne sono certa.» «Ma neanche così difficile,» dissi. «Pfui,» aggiunse la vecchia. «Mamma Trahearne, vuole che le vada a prendere il suo bicchiere di vino?» chiese Catherine. «Mi sa che aspetterò fino all'ora di andare a letto,» rispose la vecchia. «Forse, se aspetto, questa notte riesco a dormire.» «Ma certo,» disse Catherine. «La inviterei anche a cena,» aggiunse poi rivolta a me, «ma sono sicura che avrà già altri impegni. E la prego di scusarmi ancora una volta. Devo farmi una doccia, prima di cena». Ebbi la sgradevole sensazione che la faccenda della doccia me la dicesse non tanto per buona educazione quanto per farmi pensare al suo corpo nudo e abbronzato sotto un getto d'acqua calda e schiumosa. «Se vuol farmi avere il conto, signor Sughrue, farò in modo che le sia saldato all'istante. Inoltre, vorrei ringraziarla ancora una volta. È stato un piacere fare la sua conoscenza». Mi strinse la mano ed entrò in casa, la piatta e fluida muscolatura
delle cosce che guizzava al sole del tardo pomeriggio. «Come abbia fatto mio figlio a farsi scappare una donna come questa, non lo capirò mai,» disse Edna Trahearne. «Non ne ho la minima idea,» borbottai. «Non mi prenda per il culo,» mi rampognò la vecchia. «Le sono grata per il pesce, figliolo, ma non abbastanza da lasciarmi sfottere sulla veranda di casa.» «Mi scusi,» dissi. «E la smetta di scusarsi.» Raccolsi la canna da pesca e mi congedai. Nel tornare verso la casa di Trahearne, mi resi conto che ero stato messo in mezzo, con strategie che non avevo neanche cominciato a capire e per ragioni che mi sfuggivano del tutto. Forse non ero che un comodo bersaglio. O forse ero andato a ficcarmi in una gabbia di matti. Dovevano esserlo, per vivere tutti così vicini l'un l'altro, ma di quel che stava succedendo non sapevo proprio un bel niente. E comunque il mio lavoro era finito. Sapevo solo che Melinda aveva promesso bistecche per cena. Avevo voglia di carne rossa, di un paio di bicchieri di buon whisky, di una buona nottata di sonno. E di levarmi dai piedi. Quando tornai a casa la cena era già pronta, ma Trahearne era troppo sfinito per mangiare. Sedeva nel suo studio, gli occhi fissi sulla scrivania, ricoperta di fogli di carta gialla strappati da un blocco per appunti, e si rigirava tra le mani una vecchia automatica d'ordinanza, calibro 45, mentre Melinda cercava di non far cuocere troppo la carne. «Adesso lo sai,» borbottò quando mi vide entrare nello studio, un bicchiere per mano. «Quel che so è che la cena è in tavola,» dissi. «Hai incontrato la vecchia megera e la dragonessa, e hai visto la sala dei sogni perduti,» disse. «Che altro c'è da sapere?» «Andiamo a mangiare,» suggerii. «Mangiare, mangiare,» disse, per sbottare poi nella sua cadenza poetica. Matched with an aged wife, I mete and dole Unequal laws unto a savage race, Who eat and sleep and breed, and know not me... «Serve a ben poco che un pigro re,» aggiunsi, tornando indietro di un
verso, «mandi a puttane la cena.» «Come cazzo fai a conoscere questi versi?» mi chiese, il viso contorto da uno stupore alcolico. «Quando mi avevano infiltrato come spia dell'esercito alla University of Colorado,» dissi, «ne approfittai per prendere una laurea in letteratura inglese.» «Mi stai prendendo per il culo,» disse, appoggiandosi allo schienale. «No di certo.» «Perdio, figliolo, facciamoci un drink,» disse, «così puoi raccontarmi tutto il tuo passato di spia.» «A cena,» dissi. «Va bene, porca puttana,» grugnì nello schiodare la sua massa dalla poltroncina. «Va bene, razza di figli di puttana che non siete altro, voi e la vostra cena del cazzo,» prese a imprecare, per seguirmi comunque a tavola. Se avessi saputo cosa stava per combinare, l'avrei lasciato nel suo studio a citare male il suo Tennyson. La bistecca era troppo cotta, la patata al forno era fredda, l'insalata con troppo aceto; o, almeno, così sosteneva con voce tonante, da vero ubriaco. Mangiò qualche boccone, spostò il cibo sul piatto come se stesse giocando una virtuale partita a scacchi, poi si lasciò andare contro lo schienale della sua poltroncina da capitano, a capotavola, e si addormentò russando - per fortuna - sottovoce. Melinda mi sorrise e scosse il capo. Ma non con aria di rimprovero. «Povero caro,» sussurrò. «Gli ci vuole sempre un bel po', quando torna a casa, per ricominciare a lavorare con profitto. Se non le secca, direi di lasciarlo dormire e continuare a mangiare.» «Non mi secca, no,» dissi. «Ho una tale fame che riuscirei a mangiare perfino se fosse sveglio.» «Non sia cattivo,» disse disinvolta. Poi sorrise di nuovo e si passò una mano tra i capelli corti. La polvere d'argilla che vi era contenuta si levò in una soffice nuvoletta. Melinda tornò a dedicarsi alla bistecca, mangiando con la voracità di un bracciante al termine della stagione del raccolto. Quando l'ebbe demolita, tagliò via una porzione di quella di Trahearne, che addentò con identico entusiasmo. Al termine, propose di spostarci sul patio per il caffè, e lasciammo il grand'uomo a dormire in poltrona. Erano già le otto passate, ma così a nord il sole ci metteva un bel pezzo a scomparire dietro le basse montagne dell'ovest. L'erba del pascolo si faceva sempre più scura nell'aria limpida, e le colline boscose mutavano colore, da verdi che erano a un nero come di carbon fossile. Sugli altipiani, i
succiacapre volteggiavano tra i salici con grida lancinanti, e le trotelle saltavano nella foschia sospesa sul torrente. Non molto distanti, le luci di Cauldron Springs baluginavano come fuochi di segnalazione. «È davvero un peccato,» disse piano Melinda, «che non riesca a scrivere di questo posto. Il mio lavoro non è mai andato meglio, mentre il suo sempre peggio, eppure dice ancora che non è colpa mia. Certe volte mi chiedo, comunque...» Tacque per bere un sorso di caffè e fissarmi da sopra l'orlo della tazza. Per quel giorno avevo già fatto il pieno di confidenze, quindi iniziai a parlare del più e del meno. «Lei è cresciuta da queste parti?» «Cosa?» disse. La luce che svaniva le ingentiliva i tratti, e mi venne in mente che se si fosse data un po' da fare «che so, truccarsi appena, farsi crescere i capelli e indossare qualcosa che non fosse sempre così sformato» avrebbe anche potuto sembrare attraente. La scrutai, lei arrossì, e mi chiesi cosa provasse alla vista dell'accurata bellezza di Catherine, cosa provassero le sue dita nel forgiare quei bei profili nell'argilla. «È cresciuta nel Montana?» le chiesi. «Oh, no,» rispose subito, quasi come se si sentisse colpevole di non averlo fatto. «Marin County,» disse, «dall'altra parte della baia di San Francisco, poi nella Sun Valley e infine nel sud della Francia». Sembrava un ritornello già ripetuto chissà quante volte, e che le era ormai venuto a noia. Se ne accorse anche lei. «Mi scusi,» disse. «Amo sul serio questi posti, e non vorrei esserle parsa un po' arrogante. La povera piccola ragazza ricca, sa com'è, e tutta questa specie di cose. Mi sarebbe piaciuto crescere in un piccolo ranch come questo, ma i miei parenti stavano bene di suo - non certo ricchi, capisce, ma ben messi - e si dilettavano di un sacco di cose, a tempo perso, sa com'è, violino e violoncello, pittura astratta, immersioni subacquee e sci. Dilettanti della peggiore specie, temo,» disse con un risolino garbato, «ma pur sempre bravissime persone.» «Sono ancora in giro per il mondo?» le chiesi, ancora intento a far conversazione con la povera piccola ragazza ricca cui Trahearne, anche pieno di difetti com'era, doveva essere sembrato vero ed emozionante come una tempesta nel mare del Nord. «I miei genitori?» «Sì.» «No. Sono morti da un pezzo.» «Mi spiace,» dissi.
«Mia madre è scomparsa in un incidente di sci sulle Alpi,» fece lei, «e mio padre è morto di crepacuore. Be', di questo mi sono convinta io. In realtà si è buttato con la sua Alfa Romeo giù da un dirupo della Costa Brava.» «Mi spiace,» ripetei. «Grazie, ma non ce n'è bisogno,» disse. «È passato tanto di quel tempo che sembra non essere mai successo.» Poi si tirò su e si rallegrò tutta. «Sono proprio contenta che non vi siate fatti male, in quell'incidente.» «È stata solo una bottarella,» dissi, chiedendomi che accidenti le avesse detto Trahearne. «Be', dev'essere stato un bello schianto, invece,» disse, «per costringere Trahearne in ospedale per tre giorni.» «In osservazione,» dissi, contento di avere ancora la battuta pronta. Se Trahearne non voleva che la sua giovane moglie sapesse che si era preso una pallottola nel culo, non sarei stato certo io a dirglielo. «Dev'essere caduto proprio male, quando è stato sbalzato fuori,» disse lei. «Quelle cicatrici sulla natica hanno l'aria abbastanza seria.» «Robetta,» dissi io. «Com'è andata?» mi chiese, ma non ebbi l'impressione di essere sotto interrogatorio. «In tutta onestà, ero troppo sbronzo per ricordarmene,» dissi. «Be', grazie per essersi preso cura di lui.» «Ce la siamo spassata,» dissi, «e non sarei così sicuro su chi dei due si è preso più cura dell'altro.» «Ha l'aria di essere stato proprio un viaggio di quelli fuori di testa». Riprese fiato. «Sa, anche noi ci siamo conosciuti durante un viaggio del genere. Io insegnavo in un corso estivo nella Sun Valley e mi stavo giusto bevendo qualcosa con qualche mio studente nel bar dell'albergo, e Trahearne arrivò dalla terrazza, grande e grosso, di bell'aspetto, un vero uomo, e venne a sedersi al bar accanto a me, mi offrì da bere, e poi una seconda volta, e non so come ma finimmo per scappare assieme. Non mi resi conto di chi fosse, se non quando ce n'eravamo già arrivati in Messico - nessuno diceva all'altro come si chiamasse, una cosa così, sa com'è - e poi lo udii sillabare il suo nome alle guardie di confine, per farsi rilasciare il visto turistico. Non ci potevo credere. L'uomo più vivo e vegeto che avessi mai incontrato, e guarda un po' chi era se non Abraham Trahearne. La vita è così strana. Chi poteva pensare che tutto questo sarebbe venuto fuori da un semplice gesto come offrirmi da bere?»
«A proposito del grand'uomo,» dissi, cercando di non suonare ironico, «mica le serve una mano per metterlo a letto?» «No di certo,» disse. «Tra un paio d'ore si sveglierà, e comincerà a pretendere del whisky, e donne senza inibizioni». Il sorriso che le si era dipinto in volto suggeriva che la parte della donna disinibita, quella sì che la sapeva interpretare alla perfezione. Per un istante le credetti pure, ma poi lei girò il volto dall'altra parte, e io pensai che se davvero era priva d'inibizioni, sapeva nasconderlo molto bene sotto un'apparenza di banalità. «L'ho proprio annoiata, eh, con la mia piccola storia d'amore?» «Non c'entra,» dissi. «Pensavo solo che farei bene a sganciare la macchina e andarmene finché sono ancora sobrio.» «Trahearne ci resterà male,» disse lei come se ne fosse davvero convinta. «Già, ma io sto lavorando a un altro caso,» dissi, «e devo trovarmi in Oregon entro «ieri».» «Il domani non arriva mai abbastanza presto, eh?» «No.» «E quella è una frase così emozionante.» «Quale?» «Sto lavorando a un altro caso,» disse. «Evoca oscuri intrighi, intricati misteri, proprio quel tipo di avventura negata ai comuni mortali.» «Temo che la dura realtà sia più il pignorare automobili e passare al pettine fitto i bar alla caccia di mariti in fuga,» dissi. «O figli scomparsi,» fece lei. «Certe volte.» «Che emozione,» disse. «Un principe rapito dagli zingari, o qualcosa del genere.» «Non conosco né zingari né principi,» ammisi. «Non è ragione sufficiente per smettere di cercare,» disse, mentre un tono lamentoso le si insinuava nella voce, lieve come il rantolo di un animale smarrito e morente. «Davvero, non vorrei che se ne andasse.» «Eppure devo,» dissi. «Capisco,» rispose. «Sono certa che Trahearne vorrebbe che le dicessi che lei sarà sempre il benvenuto, in casa nostra. E anch'io la penso così. Torni, la prego, ogni volta che ne avrà voglia.» «Sicuro,» dissi, «e grazie. Ma non riuscivo a farmi venire in mente un valido motivo che potesse riportarmi in quel posto di svitati. Ci salutammo. Nell'andarmene, perfino la ricerca di Betty Sue Flowers mi parve qua-
si una cosa di buon senso.» Ci detti dentro, e in tutta una tirata riuscii ad arrivare a Grants Pass, diciannove ore filate dietro il volante, poi scesi in un motel e dormii come un bambino fino alle dieci del mattino dopo. Quando mi fermai all'ufficio dello sceriffo della Josephine County, per notificare la mia presenza nella contea e la mia intenzione di non infrangere alcuna legge, mi parvero scazzatissimi al solo pensiero, ma mi indicarono comunque dove andare. Non arrivarono a dirmi cosa cercare, comunque, e un paio d'ore più tardi stavo spingendo l'El Camino per i monti Siskiyou, su una traballante strada sterrata che correva parallela a un piccolo affluente dell'Applegate River. Dopo una quindicina di chilometri, il paesaggio si aprì in una piccola e gradevole vallata, e fu allora che mi apparve chiaro il motivo del sorriso che aveva sfoderato il vicesceriffo. Un prefabbricato dal tetto spiovente, di quelli a forma di A maiuscola, sorvegliava la strada, circondato da una serie di bandierine in plastica multicolore che svolazzavano da cavi di ritegno lasciati liberi. Sul davanti, un grosso cartello recitava Sundown Summer Estates. Appena spensi il motore, un giovanotto di alta statura saltò fuori dalla baracca, calpestando con gli scarponi da trekking la dozzinale veranda di pino. «Salve,» disse allegro. «Poso esserle utile?» «Sto cercando un posto per trasferirmi e cambiar vita,» dissi, e di colpo mi parve una gran verità. Un posto tranquillo dove potermi riposare e pensare a tutte le folli e inutili cacce della mia esistenza. «Ho proprio quel che fa per lei,» disse subito, «un lotto di quattro ettari, con accesso al fiume, una sorgente e un fantastico spazio edificabile. Il valore intrinseco del terreno è quel che è, naturalmente, ma il prezzo è basso.» «In realtà, sto cercando una comune di hippy,» dissi. «È finito nel posto sbagliato,» rispose lui con tono aspro, ora che aveva esaurito il suo discorsetto. «È lei il proprietario, qui?» «Esatto,» disse. «Niente hippy, eh?» «Non adesso.» «Dov'è che sono andati?» «Dove vanno quelli come loro, quando scoprono che vivere nei campi come si faceva un tempo è una gran fatica.» «Come è entrato in possesso di questo posto?»
«Ammesso che siano fatti suoi, l'ho ereditato da mia nonna,» disse, poi guardò altrove strascicando i piedi. «Lei ha qualcosa a che fare con la legge, giusto?» «Privato,» dissi, e gli mostrai la licenza. «Ma guarda un po',» si mise a borbottare. «Oggi, tre potenziali clienti: un pollicultore di Fresno, due ragazzini su una Continental nuova di zecca, e uno sbirro a noleggio.» «Mica volevo illuderla ancora,» feci io. «È tutto quel che ci resta, no?» disse lui malinconico. «Era sua, la comune, o sbaglio?» «Tutti facciamo degli errori.» Ridacchiò. «E che cazzo, amico, ho compiuto i ventun anni che ero in Vietnam, e mi sono ritrovato in eredità questo posto e un po' di grana, e quando sono tornato alla vita civile non vedevo altro che pace e canne e pollastre hippy con le gambe pelose. Mi sembrava il paradiso in terra.» «E poi che è successo?» «Sono cambiati i tempi,» disse con semplicità, «e ho finito i soldi. Pensavo che ce l'avremmo fatta a sbarcare il lunario, quassù, ma nessuno voleva mai rimboccarsi le maniche. Quegli scansafatiche figli di puttana, a solo nominargli il lavoro, scappavano come lepri, e così io ho finito per bruciarmi un po' il cervello con l'acido e mi sono messo a caccia di quei coglioni. Cerca e distruggi, ecco cosa. Gli ho bruciato ogni cosa, li ho sistemati per le feste. Doveva proprio vedere come correvano.» «E quindi adesso sta svendendo ogni cosa.» «Mi tengo solo la parte là dietro,» disse. «O così, oppure altri sei mesi all'oleodotto, e l'Alaska è davvero una meraviglia, amico, a patto di non dover lavorare al freddo e al gelo. Ma tanto lassù fa sempre freddo.» «Da quant'è che se ne sono andati?» «Quattro o cinque anni fa,» disse. «Chi è che sta cercando?» «Betty Sue Flowers,» dissi, e gli mostrai la fotografia. «Vorrà scherzare,» disse guardandola. «No. Cerco proprio lei.» «Non dico questo, amico. È solo che questa non può essere lei,» fece. «Quando era qui, era una vacca vera e propria. Un tesoruccio, come no, ma grossa come un armadio.» «Se la ricorda, eh?» «Come si fa a dimenticarsi una troia come lei?» disse, e sospirò amaro, come se non riuscisse a dimenticarsi molte altre cose. «Senta, non è che le
va un'altra di quelle birre?» Annuii, e ne presi altre due dal frigobar. Andammo a sederci sui gradini della veranda. «Era fuori di testa, amico, anche troppo. Ma com'è che la sta cercando?» «Ha perso i contatti con la famiglia da un sacco di tempo, e vorrebbero ritrovarla, vederla di nuovo.» «Ho forti dubbi.» «Come mai?» «Amico, ne ho conosciute di tipe fuori di melone, in Vietnam e all'oleodotto, e anch'io ho fatto dei numeri che a ricordarli ora, alla luce del giorno, mi vergogno come un ladro, ma quella era davvero qualcosa di incredibile.» «Stavate assieme?» «Tutti erano di tutti,» disse. «La distruzione del concetto di proprietà privata, di possesso personale, sa com'è. E che cazzo amico, a forza di farsi fin sopra gli occhi, ti sembra anche giusto.» «Almeno le è rimasta la terra.» «Per un pelo,» disse. «Stavano cercando di convincermi a intestarla a tutti quanti noi, a dirmi che ero in preda a chissà che smanie di potere perché ero io il proprietario, ed è stato allora che ho staccato la spina una volta per tutte.» «Ed è allora che la ragazza se n'è andata?» «No, all'epoca non c'era già più,» disse. «Non è rimasta a lungo, qui, e poi ha litigato con un tale, uno più vecchio. Forse c'era arrivata assieme, ma chi se lo ricorda.» «E mica si ricorda il nome di quel tale?» «Jack. O roba simile. Sui cognomi non ci battevamo tanto, sa com'è, eravamo convinti di scardinare l'ennesimo rudere della classe media fascista, cazzate del genere.» «Randall Jackson.» «Può anche essere, amico, ma non ricordo bene.» «Trippone, gambe storte, mezzo pelato.» «Preciso quel verme,» disse. «Verme?» «Voleva che gli finanziassi un film porno mascherato da studio sociologico sulla libertà sessuale all'interno delle comuni. Aveva agganci a pacchi tra i distributori, a sentir lui, e diceva che avremmo fatto un bel malloppo. Lo conosce?» «Non è che ci siamo incontrati,» dissi, «ma so chi è.»
«Che gli è successo?» «Ho sentito dire che sta a Denver e si occupa di libri sconci,» feci. «E ti pareva,» disse lui. Restammo per qualche tempo ad ascoltare lo svolazzo delle bandierine di plastica. «Sembra proprio una cazzo di rivendita di macchine usate, no?» Annuii. «Quando ho deciso di vendere ogni cosa, ho deciso anche che doveva essere il più squallido possibile,» disse. «Ehi, se ha un'altra birra, magari posso darle in cambio un pezzo di terreno.» «La birra può prendersela,» risposi, «ma ho già due ettari di terra su nel Montana, sul versante nord del Flathead. Mi spiace.» «Non si senta in colpa,» fece, tornando con due birre. «E come vanno le vendite?» «Come il pane, però andato a male. Due lotti da due ettari l'uno, nell'ultimo mese, e le spese tutte a carico mio. Girano pochi soldi. Ma ho un'offerta di un consorzio di proprietari terrieri, sempre valida; sa, una di quelle società che vendono lotti di terreno in TV e nei supplementi domenicali dei giornali. Il problema è che quelli vogliono tutto quanto, dicono che se io mi tengo un pezzetto finisco per rovinare il potenziale sviluppo della zona, cazzate del genere. Però se non vendo qualche altro lotto alla svelta mi toccherà accettare la loro offerta.» «Meglio di nulla.» «No, è proprio il nulla,» disse. «Un po' di quattrini, e basta. Cazzo, il mio bisnonno era nato sulla pista dell'Oregon, nella seconda spedizione di Applegate, mentre mia nonna in una capanna di tronchi su per il fiume, a sette-otto chilometri da qui. C'è ancora, quella capanna. E io me ne sto seduto sotto una tonnellata di bandierine di plastica.» «L'ha detto lei, i tempi cambiano.» «Già,» borbottò. «Lo sa cos'è che non sopporto?» «Cosa?» «Una di queste sere, amico, me ne starò davanti alla TV a Santa Cruz, strafatto come un pazzo, a guardare i film della notte, e uno di quei pezzenti cowboy della televisione mi spunterà sullo schermo a cercare di vendere le mie terre ridotte a pezzettini. Vedrà come mi gireranno i coglioni.» «Magari potrebbe metterci un po' di bestiame, cose così.» «Cristo, ma le ha viste le quotazioni di borsa, di recente?» disse. «Solo per gettarsi nel business del bestiame e rimetterci anche le mutande bisogna avere i soldi che escono dagli occhi. E poi è un bel pezzo che non ho più voglia di fare un cazzo. Non vedo perché devo smettere proprio ora».
Riprese fiato. «Senta, amico, secondo me lei deve aver dato di fuori qualche volta, in vita sua. Avrei un pezzetto di fumo, qui in tasca, che è vera e propria dinamite. Se tira fuori un altro paio di birre, possiamo starcene qui ad a aspettare tutti i clienti che non verranno mai.» Ci fumammo il suo fumo e ci bevemmo la mia birra. Guardammo il sole che cavalcava per le grandi e immense praterie del cielo, parlammo di spedizioni e carovane, di chissà com'era a quei tempi, della concessionaria di motociclette che gli sarebbe piaciuto aprire a Santa Cruz; ma non facemmo parola di Betty Sue Flowers e neppure ci stonammo più di tanto. 10 Due giorni dopo, bussai alla porta dell'ufficio di Randall Jackson. Il tizio lavorava in un cubicolo nell'angolo di un enorme magazzino pieno di scatoloni di libri e riviste. Non c'era voluto molto, a scovarlo. Me l'aveva indicato il commesso della prima libreria porno che avevo incocciato sulla Colfax. Ma dovevo aver scelto il momento sbagliato. Bussai, e le voci all'interno dell'ufficio cessarono di colpo. La porta, un aggeggio dozzinale, si aprì di colpo quasi volando via dai cardini, e dalla stanzetta uscì un omaccione dal brutto muso, scuro di carnagione e con un vestito da trecento dollari. Mi chiese cosa volevo. Dovevo aspettarmelo, certo. Dove ci sono i soldi, c'è sempre del losco, e quando si lavora su quel versante, come me, bisogna aspettarsi di avere a che fare con questa gente. E dappertutto. Non così ben organizzata come vorrebbe farti credere, ma insomma. «Posso esserle utile?» mi chiese con garbo e un lieve accento messicano. Aveva un taglio di capelli da venti dollari che non c'incastrava un tubo con quella faccia che si ritrovava. «Vorrei parlare col signor Jackson,» risposi, ancora più garbato di lui. «Mi spiace, ma adesso ha da fare,» disse l'omaccione. «Chi è, Torres?» fece una voce dall'interno. «Nessuno,» rispose lui, senza per questo volermi insultare. «Digli di aspettare,» ordinò la voce. «È una bella giornata,» fece Torres. «Perché non aspetta fuori?» «Mi trovate nella zona di carico,» dissi. Lui annuì, e andammo entrambi per proprio conto. Non mi pareva vero. La pornografia è una torta pericolosa, un grosso affare che richiede un piccolo investimento di partenza e un enorme giro di liquidità, mentre la libertà di stampa è una splendida teoria. Né l'una né l'altra cosa, comunque,
sono affari miei. Aspettai fuori, guardando due tizi di colore che caricavano a mano scatoloni su un camioncino blu privo di scritte o contrassegni. Una bella giornata non era di certo, ma non mi lamentavo. A Denver c'è una cappa di smog pari a quella di L.A., ma cercai di penetrare con lo sguardo quella foschia sudicia e grigiastra, nel tentativo di scorgere le Montagne Rocciose, come se davvero riuscissi a vedere le cime dei monti stagliarsi come cattedrali in rovina contro un cielo cristallino color cobalto. Randall Jackson non era il proprietario della voce che avevo sentito arrivare dall'interno. La sua era più un misto tra lagna e moina, untuosa come grasso rancido di pancetta; la sentii mentre scortava il vero padrone della voce in questione al sedile posteriore di una Continental nera dai finestrini a specchio. L'omaccione messicano si mise al volante e scivolò via. Solo allora Jackson si voltò verso di me. Il tono da leccaculo era sparito. «Voleva vedermi, amico?» disse. Su di lui il tempo non aveva avuto la mano leggera. La panza era ancor più grossa, i capelli ancora più radi e le gambe ancora più storte. Anche il suo guardaroba era poco disposto a collaborare: un blazer marrone con calzoni blu elettrico dalle impunture cromate. I mocassini erano all'ultima moda, come no, belli lustri e con tanto di nappine superganze, ma avevano i tacchi consumati. Insomma, sulla carta intestata della ditta ci sarà anche stato il suo nome, ma Jackson senza chiedere il permesso non si azzardava neanche a tirare la catena. «Be', che c'è?» chiese impaziente. «Sto cercando Betty Sue Flowers,» dissi. Tanto ero sicuro che non mi avrebbe detto un bel niente, e non volevo che sapesse il mio nome, così non scesi in particolari né gli feci vedere la licenza. «Mai sentita,» rispose. «Forse si faceva chiamare con un altro nome,» dissi. «Sono venuto a sapere che lei è stato in Oregon con questa ragazza, parecchi anni fa.» «Belle informazioni di merda che le hanno dato, amico. Neanche ci ho mai messo piede, in Oregon,» fece, gli occhietti neri che mandavano bagliori di zircone. «Allora sarà il Randall Jackson sbagliato,» dissi. «Spiacente di averla disturbata, signor Jackson». Saltai sull'El Camino e filai via. E questo era quanto. Per il momento. Non potevo certo passare alle maniere forti, sotto gli occhi di una cannonata di magazzinieri. Però mi aveva detto una balla, forse solo per abitudine, e intendevo scoprire il perché. Le maniere forti le avrei usate comunque. Di sicuro non aveva il numero sul-
l'elenco, un eventuale indirizzo era certamente fasullo, e in più aveva anche visto l'El Camino, quindi pedinarlo era fuori discussione. Dovevo procurarmi un'altra macchina. Uno dei motivi che mi spingono a passare tutto questo tempo al volante, a parte il fatto che prendere l'aereo è una cosa che mi terrorizza a morte, è che quando arrivo in una città sconosciuta non posso noleggiare una macchina. Non posso perché non ho carte di credito. E non ho carte di credito perché l'unico modo per procurarmene una è rubarla. Faccio prima a rubare una macchina. In questo settore ho molta più esperienza. A nessuno piace parlarne, perché è pur sempre un lavoro di merda, ma gli investigatori privati passano un mucchio di tempo a recuperare macchine non pagate. È così che sono entrato in questo mestiere, peraltro. Al termine del mio terzo soggiorno nell'esercito, un amico mi aveva procurato un posto di cronista sportivo per l'Eagle-Beacon, un giornale di Wichita, a fare proprio quel che facevo sotto le armi quando non giocavo a football; però, visto che ero sempre a corto di grana e annoiato come un topo morto, iniziai a lavorare in nero per una finanziaria che rintracciava i clienti morosi e recuperava macchine, impianti stereo, mobilia e apparecchi tv. Quando il giornale mi buttò fuori, visto lo schifo di cronista che ero, andai a finire a San Francisco, dove mi detti alla macchia per un anno, poi su nel Montana - dove invece era morto mio padre - e mi dedicai a tempo pieno a rintracciare e recuperare roba non pagata. Quindi avevo rubato macchine a valanga con tanto di ordinanza del tribunale (ma anche senza), e figuratevi se potevo farmi dei problemi nel rubarne una a Denver. Me ne andai all'aeroporto Stapleton e parcheggiai il più lontano possibile dal terminal. Poi mi misi ad aspettare la macchina giusta, qualcosa di poco appariscente; una vettura aziendale, magari, guidata da un rappresentante sfinito e con tanto di bagaglio a mano. Non dovetti attendere molto. Quella giusta arrivò subito, e quando il rappresentante fu sparito alla vista sgraffignai una LTD marrone di proprietà della Hardy Industriai Towel Company. Con l'attrezzatura giusta, ci vuole un minuto. Uscii dal parcheggio dell'aeroporto che il rappresentante non aveva ancora raggiunto il terminal. Nella cassetta degli attrezzi avevo una scorta di certificati di proprietà in bianco e una serie di targhe dell'Alabama, oltre a un fascio di ordinanze di recupero, ma non avevo certo il tempo di mettermi a riempire tutta quella roba; quindi, non appena Jackson infilò la sua Cougar color prugna sulla Santa Fe, nel traffico dell'ora di punta, gli andai subito alle calcagna, ma
dovetti guidare con attenzione. Lui mi semplificò il compito, e riuscii a non perderlo mai di vista fino a quando non arrivammo in centro, a un bar con spogliarello sulla East Colfax. Due ore più tardi, quando Jackson uscì dal bar e si avventurò nell'oscurità, la faccia stravolta dal whisky e dalla visione di carni nude e danzanti, gli piantai una rivoltella tra le costole e lo costrinsi a guidare fino a un motel da quattro soldi ad Aurora. Non ci fu nemmeno bisogno di scendere di macchina. «Okay,» confessò. «La conoscevo, va bene. Siamo venuti qua assieme, e io non avevo un centesimo in tasca. Così la buttai sulla strada, e lei la prima notte si beccò un bell'arresto per adescamento. Non sapevo come pagare l'ammenda, così si fece trenta giorni giù alla prigione di contea.» «E poi?» Jackson si accese una sigaretta e lanciò un'occhiata alle stanze del motel. «Poi lei non volle aver più niente a che fare con me.» «Può darle torto?» «Penso di no.» «Dov'è andata a finire, in seguito?» «Dalle parti di Fort Collins, a quanto ho saputo,» disse. «C'è una riccastra che vive su a Poudre Canyon e ha una sorta di comunità di recupero, sa com'è, tira fuori di galera le ragazze e se le porta a casa. Una vera benefattrice, sa com'è, e ho sentito dire che Betty Sue c'è rimata per qualche tempo. Poi non ho saputo più nulla.» «Nulla?» «Proprio nulla.» «E perché mi ha raccontato una balla?» «Pensavo che fosse uno di famiglia,» rispose, «per via dell'accento eccetera, venuto a saldare i conti o roba simile.» «I conti di che?» «Sa com'è,» disse. «Era pur sempre una ragazzina.» Come se questo spiegasse ogni cosa. «Non avrebbe dovuto mentirmi,» dissi. «Me ne accorgo solo ora,» fece sbirciando la .38 che tenevo in mano. «Che aveva in mente di fare in quella stanza d'albergo, amico?» «Ridurla a brandelli.» «Me l'ero immaginato,» disse. «Cazzo, pensavo che volesse farmi saltare le cervella in mezzo alla strada, amico. Doveva vedere lo sguardo che aveva. Fuori di testa, amico.» «Sono stanco.»
«Ma perché cazzo si è messo a cercare Betty Sue?» «Manco me lo ricordo più,» dissi, e Jackson ci riportò fin dove aveva lasciato la macchina. «Nessun rancore,» lo salutai quando scese. «Ma certo,» disse. Poi si tirò su i calzoni e andò via. Nel tornare all'aeroporto, mi venne in mente che forse era stato fin troppo facile, e fui quasi per tornare indietro, ma avevo già abbastanza grane così. Parcheggiai la macchina del rappresentante in prossimità di dove gliel'avevo fregata, recuperai la mia e mi avviai verso nord sulla I-25, in direzione di Fort Collins. A metà strada, le mani mi cominciarono a tremare con tale violenza che mi toccò infilare la prima uscita e accostare. Non era una crisi di nervi, però. Più che altro si trattava di rabbia che saliva in superficie. Jackson aveva ragione. Quando gli avevo ficcato la rivoltella nella schiena, sulla strada di fronte al bar con spogliarello, mi era preso il folle impulso di premere il grilletto più di ogni altra cosa al mondo, sparare e sparare fino a farlo saltar via dal marciapiede. Pensai a quanto mi aveva detto Peggy Bain, che sarei stato disposto a uccidere pur di mettermi in fila per rendere omaggio a Peggy Sue. Ci pensai su, ma cazzo come sembrava lunga, quella fila. Strisciai sotto il telo del cassone e andai a chiudere la .38 nella scatola degli attrezzi, poi mi rimisi in marcia verso nord, con le montagne a ovest e le vaste, deserte distese delle Grandi Pianure a est. Un'estate - ero bambino e i miei genitori si erano già separati - andai a stare da mio padre sugli altipiani a est di Fort Collins, a nordest di una cittadina chiamata Ault, e in quei mesi estivi rimasi con lui e una vedova piccoletta con tre figli anch'essi piccoli. Mio padre stava cercando di trasformare i terreni a grano della donna in zone di aridocoltura, e abitavamo tutti quanti in un seminterrato sugli altipiani, un seminterrato senza casa sopra, in cui si viveva sottoterra come talpe e si guardava il cielo nell'attesa di una pioggia che non venne mai. Quando uscii dalla superstrada a Fort Collins, ebbi la mezza voglia di andare verso est per cercare di rintracciare quel seminterrato. Una volta, quando stavo a Boulder, l'avevo trovato; ma allora era giorno, e sapevo che al buio non ci sarebbe stato verso. Così scesi in un altro motel, mi infilai in un altro bar, mi scolai un altro maledettissimo drink. Il giorno seguente fu governato dalla sorte. Per cominciare, una botta di culo che andò subito a puttane, e subito dopo un po' di sfiga che si trasformò in qualcosa di peggio. La seconda assistente sociale che interpellai mi indicò dove trovare la
riccastra giusta. Anche la prima avrebbe potuto dirmelo, ma si vede che non ne aveva voglia. Selma Hinds viveva in una grande casa ottagonale di vetro e tronchi, posta sul dorso di un crinale a sud del fiume Cache la Poudre. Nel risalire il canyon, mi parve una sorta di fortezza medievale. Lasciai l'El Camino nei pressi della cassetta delle lettere, alla base del crinale, e mi infilai gli scarponi da trekking, lanciando occhiate di desiderio al vecchio montacarichi da miniera sul bordo della strada, che però serviva solo per trasportare cibarie e legna da ardere. Mi toccò arrancare su quella ripida pista scoscesa per più di un chilometro, chiedendomi se qualcuno capitasse mai per caso da Selma Hinds, fossero amici che passavano di lì oppure venditori porta a porta. Un telefono non ce l'aveva, e mi chiesi anche se l'avrei trovata in casa. In caso contrario, avrei dovuto aspettarla, a meno di non volermi sorbire quella risalita una seconda volta nella stessa giornata. Infine, ansimante e zuppo di sudore, emersi dal macchione di pini nani per entrare in una radura posta sulla sella del crinale, proprio nel momento in cui una mezza dozzina di cani si accorgeva della mia presenza. Si mostrarono comunque amichevoli, in particolare un grosso labrador nero con tre zampe, femmina, che mi ficcò la sua unica zampa anteriore dritta nelle palle. Gli altri, per lo più bastardi di taglia media, si limitarono ad abbaiare festosi. L'edificio ottagonale sorgeva nel punto più alto della sella, con un ampio giardino a separarlo da cinque costruzioni più piccole, e una fila di gabbie metalliche poste sul limitare degli alberi, sul lato opposto della radura. Due ragazze e un ragazzo erano al lavoro nel giardino, in mezzo a ciò che era stato piantato in primavera, protetto da segatura e teloni di plastica. Il terreno roccioso e arido del crinale era stato mescolato al compost fino a farlo diventare scuro come il fondale di un fiume. Nelle gabbie, animali di piccola taglia e uccelli sembravano guardarmi con gli occhi intontiti di un paziente d'ospedale. I tre ragazzi alzarono lo sguardo e tornarono subito al lavoro. Una donna alta e dall'aria materna, dai tratti distesi e dai capelli castani striati di grigio stava sulla soglia dell'edificio maggiore, con un gattone giallastro tra le braccia. I capelli erano raccolti in una crocchia, e indossava un vestito lungo, di taglio semplice. Anche a venti metri di distanza, i suoi occhi grigi mi fissavano con una tranquilla bontà d'animo, lo sguardo che ci si può aspettare da una pioniera accanto a una capanna sugli altipiani, una donna che ha visto tutta la crudeltà del mondo, l'ha vista e ha scoperto
la forza del perdono al di là di tutto e tutti. Non somigliava proprio a mia madre, donna del sud, piccola di statura e sbarazzina, piena d'energia e un po' propensa a lasciarsi andare, appena svanita e appena velata di tristezza, perché le avverse circostanze - nella persona di mio padre - l'avevano costretta a mettersi in proprio come dimostratrice della Avon nella Moody County, Texas. Però, nell'andare verso Selma Hinds, mi sentii allegro e con la mente sgombra, come se stessi rientrando a casa al termine di una guerra lunga e difficile. Lei mi sorrise, e io mi feci scappare una smorfia infantile, quasi sul punto di correre a gettarmi tra le sue braccia; ma nel fermarmi a poca distanza dalla donna qualcosa nel suo sguardo, forse una lieve mancanza di messa a fuoco, raffreddò la mia prima impressione. Ci presentammo, e lei mi invitò a entrare in casa. All'interno, tra mobili di legno in stile assai spartano, si aggiravano o dormivano un gran numero di gatti, che scodinzolavano e allo stesso tempo tenevano d'occhio i cani piazzati appena fuori dalla porta a lingua ciondoloni ed espressione bramosa. Non appena Selma Hinds si fu messa a sedere sul divano e mi ebbe indicato la poltrona di fronte, anche i cani si sedettero, gli occhi scuri che ci guardavano tranquilli, il frenetico abbaiare ormai placato. «Lei ha l'aria di star cercando qualcosa,» disse a bassa voce. «O qualcuno.» «Una ragazza,» dissi. «Betty Sue Flowers.» «Vedo,» disse. «E come lei, a sua volta, può vedere, la mia missione è raccogliere chi si è smarrito: lo zoppo, lo storpio, chi ha mal di piedi». Tacque per lisciare il pelo del gatto arlecchino che aveva preso il posto di quello giallo. «E anche chi ha sofferto nello spirito sa che da me troverà accoglienza, che farò il possibile per rimetterlo in sesto, sia nel corpo sia nell'animo. Chiunque ha una casa cui vuole tornare, ha da me il necessario per il viaggio; altrimenti, sono io a trovar loro un luogo dove andare. Talvolta, chi proprio non è in grado di partire, scelgo di tenerlo al mio fianco.» «Sissignora,» dissi, pensando che doveva essere o matta o troppo buona per questo mondo. «Il più delle volte è l'animale uomo che se ne va, e gli altri restano...» Tacque di nuovo, quanto bastava per farmi pensare che forse Betty Sue era ancora lì. «Sono tempi difficili, questi, per i giovani, e io so fornir loro un luogo appartato dal mondo, dalla violenza e dalla droga, un rifugio in cui si possa dar tregua al sesso.»
«E Betty Sue è stata qui?» «Sì, per un certo periodo.» «E se n'è andata?» chiesi, quasi confuso. «Tra noi ha lasciato il suo spirito, che ancora adesso ci cammina al fianco,» disse, «e le sue ceneri fanno parte del nostro giardino.» «Come dice, scusi?» «È morta, signor Sughrue,» disse. Vide che non aprivo bocca, e continuò lei. «Mi pare stupefatto. Tutti dobbiamo morire, più e più volte.» «Non credo di poterlo spiegare a sua madre.» «Le dica che quando Betty Sue era ancora tra noi era riuscita a riacquistare la sua innocenza, a recuperare la sua giovinezza,» disse la donna. «Qui lei è stata felice, è tornata giovane.» «Dicono che possa succedere,» feci io, ancora incredulo, «ma certo non mi è mai capitato sotto gli occhi.» «Un vero peccato, signor mio, perché è una delle gioie della vita vedere i giovani che tornano giovani.» «Com'è andata?» chiesi, per sapere i dettagli della sua morte. «Qui, era sbocciata come un fiore,» disse Selma, che aveva frainteso. «Ha ricominciato ad aver consapevolezza del proprio valore. Se lei la sta cercando da tempo saprà di sicuro quel che è stato della sua vita dopo che era fuggita di casa. Era arrivata qui dalla prigione, malmenata dalla vita, grassa e brutta, ma quando ebbe imparato a digiunare e a ripulire il suo organismo dai fluidi superflui, riuscì ad abbandonare quell'incontrollabile predisposizione al cibo, e la sua bellezza tornò a rifulgere nella pienezza dei sensi. È rimasta più a lungo di ogni altra persona che ho preso in cura, prima e dopo di lei, anche se la sua permanenza è stata tra le più difficili.» «Le secca se le chiedo il perché?» «Per lei questo non è solo un lavoro, o sbaglio?» «Non sbaglia, signora.» «E non è un membro della famiglia, o sbaglio?» «Non sbaglia, no.» «Le ho capite subito, queste due cose,» disse, «e questo ha reso possibile la nostra conversazione. Capirà che non spetta a me criticare o giudicare i miei beneficiati, né la loro vita precedente, ma quando arrivano quassù, essi devono sottostare alle mie regole oppure andarsene. Niente carne, né droga, né sesso. Quel che fanno dopo la loro partenza non mi riguarda più, e qualora dovessero risalire la montagna in preda a tormenti emotivi, sarò sempre ben lieta di riprenderli; ma finché stanno qui devono rispettare le
regole.» «E Betty Sue aveva dei problemi?» «I ragazzi le andavano dietro neanche fosse una cagna in calore,» rispose lei piatta. «D'altra parte, Betty Sue aveva grandi potenzialità amorose. Cercava di evitarli, i ragazzi, ma era davvero un'impresa. Sembrava che avesse proprio bisogno di quel tipo di affetto maschile - immagino che suo padre non le abbia mai dato l'amore che le sarebbe servito - ma lo combatteva sino in fondo». Poi Selma tacque, per scoppiare a ridere. «Aveva anche un'autentica ossessione per la carne rossa, ma era riuscita a non cedere mai a questo desiderio». Quella lieve risata parve richiamarle alla mente tutta una serie di ricordi, e un velo le passò sugli occhi grigi. «Poi un pomeriggio, a estate inoltrata,» proseguì, con voce così flebile da costringermi a sporgermi in avanti per sentirla, «poco dopo aver deciso di lasciarci, in autunno, per riprendere gli studi, scese giù in città col mio furgoncino a fare scorta di provviste, e al suo ritorno un cane randagio le tagliò la strada. Lei sterzò bruscamente per scansarlo, ma andò a finire nel fiume». Selma si alzò e andò alla finestra, col gatto ancora tra le braccia, come privo di sensi, e indicò col dito lo spumeggiante corso d'acqua. «È successo proprio qua sotto, in quel punto.» Seguii il dito giù per il crinale fino a una stretta ansa, una curva molto secca che confluiva in un allegro laghetto verdeazzurro. «È sopravvissuta allo schianto, ma è annegata,» disse Selma. «Non ha idea di quanto mi dispiaccia.» «È riuscita ad avvertire sua madre?» chiesi. «Sua madre? No. Ho fatto tutto il possibile, pubblicato annunci sui giornali di San Francisco, ma Betty Sue non aveva mai parlato della sua infanzia,» disse, «mai. Neanche una parola, tutto il tempo che è stata qui. Anche in questo era diversa da tutti quelli che sono rimasti con me per un certo periodo.» «Capisco,» dissi. «Secondo lei, perché Betty Sue non ha mai voluto parlare della sua infanzia?» mi chiese Selma, gli occhi lucidi e compunti. «Non saprei,» risposi. «Forse si sentiva come una principessa presa in ostaggio da un branco di contadini. Proprio non saprei.» «Troppo spesso i bambini provano di queste cose,» fece lei. «È davvero una tragedia.» «Penso che il trucco sia accontentarsi dei genitori che abbiamo avuto in sorte e fare buon viso a cattivo gioco,» dissi con fare disinvolto.
«Facile a dirsi,» sbottò lei, «ma spesso fin troppo difficile a farsi». Capii che il rimprovero si riferiva alla mia leggerezza nel trattare un argomento così delicato. «I genitori devono far sentire ai loro figli amore e affetto. Anche se non fanno altro, almeno questo è assolutamente indispensabile, almeno questo ai figli è dovuto,» disse con tono così schizzato da farmi pensare che anche lei fosse una figlia non voluta, o una madre incapace. Ma non glielo chiesi. «Ha fatto cremare il corpo?» dissi invece. «Le tombe mettono una gran malinconia, non trova?» «Già,» risposi. «Solo che sua madre potrebbe non apprezzare l'idea. Sa com'è la gente di campagna, a volte, a proposito della cremazione.» «Ormai è fatta,» disse secca, «e adesso c'è ben poco da apprezzare o no.» «Sicuro,» feci io. «Non è che ha un'istantanea di Betty Sue?» le chiesi, indicando col capo un pannello in sughero ricoperto di fotografie. «A sua madre magari piacerebbe.» «Quelle sono le fotografie di chi ha trovato un'altra vita dopo essere passato di qui,» disse. «Sono loro stessi a mandarle. Qui, non facciamo foto, non vogliamo niente che possa ricordar loro il loro aspetto in questo periodo, il motivo della loro venuta.» «Credo di capire,» dissi. «Le spiace se le chiedo perché fa tutto questo?» «Mi spiace eccome,» rispose. «Ho i miei motivi.» «Allora non le chiederò niente,» dissi, e lei mi sorrise. «Sono certo che la signora Flowers vorrebbe che la ringraziassi per suo conto, per tutto quel che ha fatto e per tutto l'amore che ha mostrato, e anch'io voglio ringraziarla per aver accettato di parlarmi.» «Mi spiace di averle portato cattive notizie,» disse, e strinse la mano che le porgevo. «Un tempo, anni fa, credevo che dopo la morte ci saremmo ritrovati in una sorta di consapevolezza universale, in una sorta di vita ben superiore a quella che in qualche modo ci tocca portare avanti nel nostro malridotto mondo, ma adesso ho un'altra, terribile consapevolezza: che i morti non risorgeranno mai e poi mai. Non provo alcuna gioia per tutto questo, né vera né falsa, e mi limito a sopportare questa situazione. È per me causa di immenso dolore averle dovuto riferire della morte di Betty Sue.» «Dovremmo essere contenti che qui sia stata felice,» dissi, «visto che altrove ha sofferto così tanto. È davvero bello, quassù.» «Grazie.»
«Grazie a lei,» dissi. «Sono un po' troppo vecchio, per mollare alcol, carne rossa e birra tutti assieme, ma un giorno o l'altro rischia seriamente di ritrovarmi addormentato davanti alla sua porta. Se riesco a risalire fino in cima.» «Lo prendo come un complimento,» disse nel battermi la mano. «La mia porta è sempre aperta.» «Grazie ancora,» dissi. «Forse è il caso che mi dica anche la data della morte. La madre vorrà senz'altro saperla.» Me la disse senza esitare, e me ne andai. Giù per quelle polverose montagne russe, scesi senza mai voltare lo sguardo, e nell'affrontare gli ampi tornanti della superstrada del canyon non vidi il sole che danzava sulle rapide, non vidi le torri e i bastioni dei picchi rosacei sorgere dalle acque. Tirai dritto, senza pensare né guardare, fin quando non ebbi raggiunto il palazzo di giustizia della Larimer County per controllare il certificato di morte. C'era. Mi detti del sospettoso figlio di puttana, maledissi l'inutilità del mio successo, il lungo tragitto fino in California prima di potermene tornare a casa. Poi pensai di sbronzarmi ben bene, una sorta di macabra veglia funebre, una vera e propria purga liquida. Fu così che la buona sorte si trasformò in sfortuna. Il passaggio da sfortuna ad autentica sfiga avvenne qualche ora più tardi, quando me ne tornai barcollante al motel, ormai stufo dei miei inutili tentativi di sbronzarmi. Mentre mi frugavo in tasca alla ricerca della chiave, qualcuno mi randellò con tanta forza da farmi cadere in ginocchio. Fui assalito da furibonde vampate di tenebra, e persi conoscenza quel tanto che bastava per ritrovarmi trascinato in camera senza dare nell'occhio, perquisito ben bene e ficcato in un angolo. Quando recuperai la capacità visiva il tale che scorsi su una sedia, in completo relax, era lo stesso che avevo visto uscire dall'ufficio di Jackson, e c'era anche il mostruoso omaccione messicano, mentre un altro scagnozzo se ne stava schiena contro il muro e mi teneva sotto il tiro di una piccola automatica con tanto di silenziatore. «Nessun problema,» borbottai. «Be', lei non è certo nella posizione di crearcene,» disse bonario il tipo sulla sedia. «Proprio quel che volevo dire io,» replicai. «Signor Sughrue, lei deve capire che non posso permetterle di maltrattare i miei amici,» disse lui.
«Scagnozzi,» dissi. «Come?» «Jackson è un suo scagnozzo,» spiegai, «non certo un amico.» «Sì, va bene, ma lei non può ficcargli una pistola in gola e minacciarlo a vuoto,» disse lui. «Okay, farò penitenza, visto che è quaresima.» «Temo che non basti,» disse. «Stia a sentire. Se mi voleva morto, lei non veniva qui di persona.» «Non ci conti troppo,» mi interruppe. «E nemmeno sarebbe rimasto nel raggio di una cinquantina di chilometri. Però, se fa tutto questo per non so che assurdo desiderio di vendicare Jackson, sono disposto a bere l'amaro calice,» dissi sistemandomi meglio contro il muro, «e prometto che farò il bravo.» «Ma che carino,» disse il tizio sulla sedia. «Niente di personale,» disse piano Torres nell'infilarsi un guanto sulla mano destra. Difatti non parvero impegnarsi più di tanto, e io non opposi resistenza, né detti loro alcuna ragione per farli sentire coinvolti sul piano emotivo. Forse funzionò, o forse avevano già deciso fin dall'inizio di non farmi troppo male. Fatto sta che non subii danni permanenti. Niente ossa rotte, né denti saltati, o milza fracassata. Però avevo scordato quanto male può fare un picchiatore professionista, e fui davvero contento quando mi spogliarono, mi avvolsero nel nastro adesivo e m'infilarono - chissà perché, poi - a sedere nella vasca da bagno. Comunque, la parte peggiore era finita. Forse sapevano quel che avevo progettato di fare a Jackson in quella stanza di motel ad Aurora. Prima di farmi imbavagliare e ficcare sotto la doccia fredda, il capobanda aveva ancora una cosa da dirmi. «Ehi, amico, vedo che hai un bell'autocontrollo, e a me piacciono i tipi che sanno cos'è la disciplina. Dovresti venire a lavorare per me.» «Lasci il suo nome giù al portiere,» borbottai. «Il tuo unico problema è che sei convinto di poter fare il duro e il simpatico allo stesso tempo,» disse, tirandomi un buffetto sulla guancia, «e la verità è che sei soltanto un duro, perché sei anche un po' tonto.» «Ma che cazzo,» grugnii. «Neanche sto a prenderli, ordini così idioti.» «Forse dovresti cambiare settore,» cinguettò, con la fotocopia della mia licenza tra le mani. «Sarebbe un ordine?»
«Non molli mai, eh?» disse ridendo. «Voglio sperare che ne valesse la pena, che tu abbia trovato la pupa per cui rompevi i coglioni a Jackson.» «È morta,» dissi. «Da quasi cinque anni. Tutto tempo sprecato.» «Che peccato,» disse lui, e scoppiò a ridere. «Ringrazia solo che non hai fatto del male al mio amico, e ringrazia che mi hai trovato in buona.» «Senz'altro,» feci. Poi i suoi scagnozzi mi ficcarono un calzino in bocca. Era pulito, per fortuna, e appena se ne furono andati riuscii a chiudere la manopola dell'acqua con un piede; per ulteriore fortuna, infine, quando arrivò la donna delle pulizie, la mattina dopo, invece di mettersi a urlare si limitò a levarmi quel calzino di bocca. Altrimenti non avevo la minima idea di come spiegare alla polizia il perché delle mie condizioni. Invece detti una bella mancia alla cameriera e le dissi di riferire al portiere che sarei rimasto un giorno di più. Avevo bisogno di riposo. 11 «Non è vero, e basta,» disse Rosie per la quinta volta. «Mi spiace,» ripetei, «ma ho visto il certificato di morte, e ho parlato con la persona che ha visto il corpo, ovvero la donna che ospitava sua figlia. Mi spiace, ma così stanno le cose.» «No,» disse lei, e si tirò una manata tra i seni, un colpo sordo e violento che le fece venire le lacrime agli occhi. «Non pensa che sarei venuta a saperlo, se la mia bambina fosse morta da tutto questo tempo?» Era l'ennesimo primo pomeriggio, nel bar di Rosie; c'era fresco là dentro, le ombre erano soffici e sature di polvere, e la giornata era primaverile, con una leggera brezza e un sole piacevole. Anche il lontano ronzio del traffico non dava fastidio, più simile a uno sciame di api al lavoro su un prato di trifoglio fresco. Dopo una breve visita al pronto soccorso, per una radiografia e qualche analgesico, avevo lasciato Fort Collins e mi ero installato al volante, tenendomi sveglio a forza di speed, codeina, birre e Big Mac, per arrivare da Rosie lercio, non rasato e sbronzo. Mi sentivo i nervi foderati di sabbia, e le budella piene di vetri rotti. Anche se avessi recato buone notizie, non avrei comunque avuto l'aria di un messaggero degli dèi, e con le sciagure che mi portavo dietro sembravo senza alcun dubbio uno stagionato fattorino dell'ufficio recapiti dell'inferno. Facevo così schifo che Oney non si era ancora azzardato a chiedermi di autografargli il gesso sul piede, mentre Lester aveva espresso la sua preoccupazione, arrivando al
punto di offrirmi una birra. Fireball si risvegliò quel tanto che bastava per sbavarmi sui calzoni, ma quando non gli cedetti la mia birra se la svignò dietro la porta. Ma Rosie cercava in tutti i modi di sfuggire il mio sguardo, sia quando mi aveva visto entrare sia dopo che le ebbi riferito ogni cosa. «Mi spiace,» ripetei per l'ennesima volta, «ma è morta.» «Non lo dica più,» disse lei, continuando a lustrare senza sosta il piano del bancone. «È così,» dissi, «e dovrà farsene una ragione.» Alla fine smise di pulire e mi guardò. «Se ne vada. Se ne vada, e basta.» «Come?» «Fuori di qui,» disse sottovoce. «Se ne vada.» «Andiamo, Rosie...» attaccò Lester, ma lei gli si rivoltò contro. «Vedi di chiudere quella cazzo di bocca, razza di figlio di puttana buono a nulla. Fuori, anche tu. Fuori tutti. Specialmente lei». Puntò un dito iroso nella mia direzione. «Me ne vado, va bene,» dissi, e gettai sul bancone i suoi ottantasette dollari, «ma lei si riprenda questi soldi del cazzo.» «Se li tenga,» fece lei, la voce atona e dura come un pezzo di ferro. «Se li è guadagnati, e se li tenga.» «Certo che me li sono guadagnati, porca puttana,» dissi nell'intascarli ancora una volta. «Mi hanno mentito, sballottato qua e là, picchiato, perdio, mi sono fatto quasi settemila chilometri del cazzo e me ne mancano ancora duemila, per arrivare a casa. Me li sono guadagnati sì, cazzo, cazzo e cazzo.» «Nessuno le ha chiesto un accidente di niente in più di quel che ha fatto. Quindi non venga a lagnarsi con me,» disse. Però non mi guardava in faccia. I suoi occhi si erano fatti di un colore metallico, grigiastro, come pezzetti di ardesia. «Basta che si levi dai coglioni.» «Difatti,» dissi. «E si prenda quel maledetto cazzo di un cane,» aggiunse. «Da quando l'ha riportato fin qui, non vale più una beata sega.» Schioccai le dita. Fireball si svegliò e mi seguì all'esterno. Lester e Oney ci avevano dato la paga, e li trovammo fuori a camminare in cerchi insensati, simili a bambini durante un'esercitazione antincendio. «Che razza di carattere,» disse Lester scuotendo il capo. «È un momentaccio. C'è da capirla,» dissi nell'avviarmi al pickup. «Dov'è che vai?» mi chiese lui. «Verso casa,» dissi, come se sapessi da che parte stava.
Casa? Casa mia è la Moody County, nel Texas meridionale, dove le pianure nerastre vanno a perdersi nelle colline di caliche e nelle fenditure simili a saette degli arroyo del Brasada, vera terra di sterpi. Ma non ci vado più, da quelle parti. Casa è il mio appartamento sulla riva est dell'HellRoaring Creek, tre stanze in cui mi tocca aprire armadi e cassetti per essere sicuro che sia quello il posto giusto. Casa? Diciamo il bar di un motel alle undici di una domenica sera, io che spartisco il silenzio con una graziosa barista che mi ha preso per un tipo losco e con una testa di cazzo in giubbotto di plastica che mi ha preso per il suo amicone. Casa è dove si cerca di farsi passare la sbronza, come avevo detto a Trahearne. Per quelli come me, quanto meno. Certe volte. Altre volte, invece, casa sono i miei due ettari dopo Polebridge sul North Fork, sessantadue chilometri di sterrato a nord di Columbia Falls e del bar più vicino, sedici chilometri a sud del confine canadese. Laggiù ho un rustico mai finito, fondamenta e vespaio già posati, oltre a un camino in pietra; casa o non casa, ero comunque lassù da circa una settimana, quando Trahearne riuscì a scovarmi. E ci stavo dando dentro. Ad abbronzarmi, e a schiacciare pisolini tardopomeridiani. Era stata una primavera arida, e avevo visto una colonna di polvere salire - simile a fumo - dieci minuti buoni prima di scorgere il maggiolino Volkswagen che l'aveva sollevata, e che adesso avanzava scoppiettando come un carrarmato in miniatura. Poi si era infilato nella mia strada, per fermarsi a una quindicina di centimetri da una catasta di ciocchi già scortecciati. All'interno di quella giallastra nuvola di polvere, Trahearne aveva l'aria di essersi infilato in una vasca da bagno di una taglia sotto la sua. «Che cazzo è quella roba?» gli chiesi mentre cercava di schiodarsi dal volante. «Ciò che per Melinda è un mezzo di trasporto,» borbottò. «La mia è dal meccanico.» «Be', vecchio, mi dia retta. La prossima volta che infila quella strada e solleva una nuvola di polvere di quella fatta, rischia di farla prendere a fucilate da qualche indigeno, quella povera bestia.» «Risparmiami i tuoi lazzi da buzzurro, Sughrue,» disse scuotendosi la polvere dalla sua tenuta kaki, come un mandriano al termine di un lungo viaggio. «Dove cazzo sei stato? mi chiese pressante.» «Qua e là,» risposi.
«Ce n'è voluto, per trovarti,» disse. «Mica mi ero nascosto,» risposi. «E lei, che non sa dove guardare.» «Basta cazzate,» disse. Erano giorni che non si radeva né si cambiava d'abito, e ancora zoppicava, ma sembrava abbastanza sobrio. «Che succede?» «Proprio nulla,» ringhiò nel sedersi sui gradini di casa e sfregare un fiammifero sul pavimento. «Un cazzo di nulla. E visto che non conosco nessun altro capace di non fare un beato cazzo così bene come te, mi è venuto in mente che forse potevamo non fare un beato cazzo assieme. Non è così pericoloso o seccante come farlo da solo.» «Devo prenderlo come un complimento o un insulto?» «Vedi di darmi una birra e di chiudere il becco,» disse, e io gli lanciai una lattina presa dal frigobar che stavo usando come poggiapiedi. «E allora, che combini?» mi chiese emergendo da un'ondata di birra schiumosa e di fumo di sigaro. «Lavoro alla mia casa da pensionato.» «Bel posticino, che ti sei fatto,» disse guardandosi attorno. «Grazie,» dissi. «Sempre meglio questo, di tutta l'ironia a buon mercato.» In realtà, mi piaceva parecchio di più, tanto che finire quei lavori mi pareva quasi inutile. Fondamenta e vespaio li avevo tirati su tre estati prima, mentre il camino e la base della canna fumaria erano un prodotto dell'estate successiva. Al posto dei muri e del tetto, però, proprio davanti al camino avevo alzato un tendone da ufficiali, un residuato di guerra dalla struttura in legno. Di fronte alla facciata mancante, toccava a un boschetto di pini catturare un po' della polvere che veniva dalla strada, e al di là della North Fork Road una bassa catena di montagne, a ovest, copriva in parte il cielo. A nord, il Red Meadows Creek andava a disperdersi su una pianura erbosa, per poi raccogliere le forze, infilarsi in un'ampia chiavica e gettarsi nelle acque gonfie del North Fork, ormai libere dai morsi del gelo. Oltre il fiume, a est, le guglie torreggianti del Glacier Park si lanciavano in un cielo incontaminato, azzurro come lo sguardo di un angelo. A sud, tuttavia, il panorama - che già nei giorni migliori non sapeva di niente - era offuscato dalla sudicia e torbida foschia che saliva dalla strada. «Sì, certo, va benissimo,» concesse Trahearne, «ma non saprei dove appendere il Mondrian». Poi ridacchiò e finì di scolarsi la birra. «La pittura astratta mi fa venire i...» «Maledetta la miseria,» sbottò infine lui, «non è che posso rintanarmi
quassù per qualche giorno?» «Si accomodi,» dissi. «Proprio questo pensavo,» disse. «Grazie». Poi si sedette, aspettandosi una richiesta di spiegazioni che io mi guardai bene dal fargli, ma che lui mi offrì comunque. Con Trahearne si poteva rimettere l'orologio. «A casa mia, non succede un cazzo niente. Di lavorare, neanche a parlarne. Neanche una riga. Porca puttana, certe volte mi domando se non mi sono già trombato l'ultima vera donna, scolato l'ultimo vero drink, spremuto dalle meningi l'ultima vera riga. E il bello è che non riesco a ricordarmi quando sarebbe successo, tutto questo». Alzò lo sguardo su di me, gli occhi cisposi pieni di lacrime. «Non mi ricordo quando è stato, dove cazzo è andato a finire tutto quanto.» «Cerchi di darsi una calmata.» «Non mi rispondere con le mie battute.» «Peggio per lei che me le ha dette,» sbottai nel porgergli un'altra birra. «Certo che quando vuoi, sai essere un gran figlio di puttana,» borbottò, le dita tremanti che armeggiavano sulla linguetta. «Gliela devo aprire io, vecchio?» «Mi sa che sono venuto apposta,» disse, sorridendo all'improvviso e tergendosi le lacrime con dita in formato salsiccia, «proprio per l'alto livello di comprensione che sapevo di poter trovare. La vedo tosta quassù, Sughrue, e direi che posso anche adattarmi». In realtà a casa sua gli offrivano ben più comprensione del lecito, secondo me, ma non avevo intenzione di dirglielo. Lo fece lui per me. «È che non riesco più a sopportare tutte quelle cazzo di premure. Nemmeno fossi uno che sta per schiantare da un momento all'altro, e Melinda l'infermiera con la bombola d'ossigeno». Tacque per pochi istanti. «Comunque, prima o poi finisco sempre per rimettermi al lavoro,» disse. «È solo che stavolta non ho ancora trovato il momento giusto.» Visto che non avevo nulla da dire, anche lui finì le cartucce, e ce restammo per un po' a goderci il silenzio. Un leggero vento faceva stormire i pini del boschetto e toglieva la polvere dalla strada, e alle nostre spalle il fiume ruggiva possente nel suo letto di pietre. La giornata si trascinava stanca verso il crepuscolo, fermo a mezz'aria come ciuffi di piume, e Fireball fece ritorno dalle sue esplorazioni pomeridiane, trotterellando lungo la strada come fosse di ritorno da chissà che importante missione. Andò a fiutare la caviglia di Trahearne, e il vecchiardo saltò a mezz'aria. «Che cazzo ci fa, lui, qui?»
«Dice Rosie che gliel'abbiamo traviato una volta per tutte,» risposi. «Sei tornato in California?» «Laggiù, e in qualche altro posto,» dissi. «Ho fatto così tanta strada che mi sembra d'essermi consumato il culo.» «E devi aver fatto danni di un certo rilievo anche da qualche altra parte,» disse, indicando col capo i lividi giallastri che mi ornavano l'addome. Non ero ancora così abbronzato da poterli nascondere. «Sono arrivato secondo in un dibattito politico a Pinedale, Wyoming,» mentii. Ancora non sapevo cosa pensare, di quel pestaggio, e anche se l'avessi saputo non l'avrei certo detto a lui. «L'hai trovata, la figlia di Rosie?» mi chiese nel rovistare tra i cubetti di ghiaccio alla caccia di un'altra birra. «Ho scoperto che è morta qualche anno fa,» dissi. «E come?» «Annegata dopo un incidente d'auto.» «Che razza di storia assurda,» disse lui. «E Rosie come l'ha presa?» «Mi ha buttato fuori dal bar,» dissi. «Come mai?» «Dice che sua figlia non può essere morta, che se lo sente dentro. Ma io ho visto il certificato di morte, ho parlato alla donna che ha riconosciuto il cadavere.» «Che storia assurda,» ripeté. «Ne muore a pacchi, di gente scappata di casa,» dissi io. «Per ogni tre o quattro che riesco a trovare, ce n'è sempre uno che finisce a piedi in avanti sul tavolo di un obitorio. Quella del fuggitivo non è una gran vita. Almeno la figlia di Rosie è riuscita a godersi sei mesi tranquilli, prima di morire». Mi alzai e accesi un fiammifero, per gettarlo sui ciocchi accatastati nel caminetto. La segatura imbevuta di kerosene prese subito fuoco, e i ciocchi iniziarono a scoppiettare. Invece di un allegro fuocherello, però, aveva più l'aria di una pira funeraria. «Sei mesi tranquilli,» ripetei. «Certe volte penso che lo cambierei volentieri, il resto della mia vita, con sei mesi tranquilli,» disse a bassa voce. «Mica funziona così.» Le fiamme si levarono senza fare fumo, e le scintille s'infilarono su per la tozza canna fumaria per poi perdersi nella notte di velluto che già incombeva a oriente. Quella notte Trahearne restò sobrio, limitandosi a centellinare qualche
birra, e il giorno seguente non toccò un sol goccio. La mattina del terzo giorno si sparò zoppicando quattro chilometri per andare fino all'emporio di Polebridge - più altri quattro al ritorno - dove acquistò una scatola di matite e un quaderno Big Chief. Il quarto giorno si mise al lavoro al tavolino da picnic che stava accanto alla tenda. Dopo di che, per più di una settimana, giorni e notti furono precisi e regolari come il levarsi e il tramontare del sole, dolci e tranquilli come le fasi di quella volubile luna. Ogni mattina me ne andavo a correre per la North Fork Road, in direzione del confine, scansando i camion carichi di tronchi. Non ci arrivai mai, che discorsi, ma il ritorno a passo d'uomo era sempre piacevole. Fin quando non mi fermavo al torrente per tuffarmi, rischiando un coccolone, nel basso laghetto appena sotto la chiavica. Al mio arrivo, poi, Trahearne chiudeva il quaderno, metteva sul fuoco un nuovo pentolino di caffè alla maniera dei cowboy e preparava la colazione su un fornelletto da campo. Io mi sedevo sui gradini con una tazza di caffè, a fumarmi la prima sigaretta della giornata, tossendo e sputazzando catarro e roba simile a brandelli di tessuto polmonare. «Che corri a fare?» mi chiese una di quelle mattine il vecchiardo, mentre accomodava nella padella un soffice strato di uova strapazzate. «Mi fa star bene,» dissi mezzo soffocato, poi tossii e sputai di nuovo. «Figliolo, mi sa che quello fortunato sono io,» disse ridacchiando. «Come sarebbe?» «Riesco a sentirmi di merda anche senza fare tutta quella fatica,» disse, e scoppiò a ridere come chi è pieno di sé e senza un pensiero al mondo. Il pomeriggio e la sera li passavamo a parlare delle nostre guerre, dei nostri padri fuggitivi, della natura delle cose; poi c'infilavamo nei sacchi a pelo in attesa di un nuovo giorno e di ricominciare tutto quanto da capo. Poi, una mattina, feci ritorno per scoprire un biglietto inchiodato ai gradini. «Spiacente», recitava. «Ci vediamo tra qualche giorno». Pensai anch'io di fiondarmi in qualche bar, ma finii per andarmene a pescare. Due notti più tardi, verso le tre del mattino, eccolo arrivare di nuovo, col solito gran casino, e col parafango destro della VW andò lungo sulla catasta di tronchi, per poi catapultarsi a letto blaterando cazzate sull'esistenza e su quei tempi così duri. Io feci il morto fin quando non si decise ad addormentarsi. Passò a letto tutto il giorno seguente, alzandosi solo per andare a pisciare, a ingozzarsi d'acqua e a ingollare aspirine e Rolaid. Il giorno dopo ancora, si mise a scassare il cazzo per via del tempo: era troppo bello, e quindi gli dava fastidio. Infine, si rimise al lavoro.
Questa volta resse solo quattro giorni. Il quinto, quando feci la mia comparsa mattutina grondante acqua gelida, Trahearne aveva piazzato sul quaderno la bottiglia del whisky, a mo' di sfida infantile. Il camino era pieno di pezzi di carta appallottolata e ammonticchiata come gli escrementi di chissà quale strano animale notturno. «Quanto pensi di reggere ancora questa cazzo di solitudine?» mi chiese stizzito nel versarsi un bicchiere di Wild Turkey. «Quale solitudine?» «Cazzo, Sughrue, ma qualcuno ti ha mai parlato dei doveri dell'ospitalità?» «Mai una seconda volta,» dissi. Mentre mi asciugavo con una felpa tutta sudicia, lui si alzò per avviarsi, tra sbuffi e grugniti, verso la VW decappottabile, poi schizzò via in una nuvola di polvere. Forse era la stessa polvere che già l'aveva trasportato fin lì. Quella sera, nell'utilizzare gli avanzi delle sue poesie per accendere il fuoco, ne trovai uno che sembrava più lungo degli altri, e lo spianai sul tavolo. Recitava: Volavi, al sole, un tempo, tu, nel sonno, le membra ambrate Rigide nell'aere. Adesso giaci immota, siccome pietra, ben oltre I venti, ormai neri e mutati, catene azzurro chiaro. Ma scure quelle acque Ti schiacciano sul fondo. Balene che tonanti risuonano profonde Nella scia dei ghiacciai; la loro coda, dolce, ti scorre sui capelli, E sognano i tuoi occhi argentee squame. Fermati, Aspetta. Dovrà pur frangersi l'estate, anche se lunga, pria che l'inverno Riporti a noi la voce ormai di ghiaccio, lapide interminabile. E piangerò non io, Il giorno che anche il mondo potrà tornare caldo, e l'uomo Dal cuore tuo una freccia saprà, lui, fabbricarsi... L'intera pagina era percorsa da una scrittura larga e infantile, che in certi punti s'impennava con frenesia quasi indecifrabile. Non avevo idea del significato di quella roba, ma la grafia era quella di un bambino privo di
qualche rotella. Per un istante, provai una certa compassione. Ripiegai il foglio con la poesia e me lo infilai nel portafogli. Mi sembrava affettato e pomposo, ma mi andava di conservarlo, per motivi che non volevo neanche immaginare. Più tardi, quella sera, scesi giù al fiume con un bicchiere di metallo pieno del suo whisky. Una luna nuova colorava d'ambra le acque agitate. Il fiume puzzava di neve stantia, di borraccina fredda e verdastra, e rombava come un merci a tutta palla, una valanga ormai sciolta. Una volta, in quella famosa estate che avevo passato con mio padre nel seminterrato sugli altipiani del Colorado, lui se n'era tornato a casa sbronzo e mi aveva svegliato per farmi vedere la prima neve della mia vita. Mi aveva ficcato sul sellino posteriore della sua moto, una decrepita Harley dei tempi di guerra, con tanto di retromarcia, e nella notte aveva tagliato per gli altipiani dritto verso le montagne, filando come se avesse mille diavoli alle calcagna, la ruota posteriore che mitragliava ghiaia a ogni tornante. Alla fine riuscì a trovarla, la neve, sul versante nord di una cava, fermò la moto e ci spogliammo sotto una falce di luna per rotolarci, appunto, in quella neve. Di sicuro in testa aveva chissà che reconditi significati mistici, ma eravamo gente degli altipiani, io e lui, e la neve non l'avevamo vista mai. Tempo un paio di minuti, e ci eravamo già messi a fare a pallate, ridendo e strillando sotto le stelle, azzuffandoci su quel leggero strato di neve ghiacciata. Sulla via del ritorno, legato una volta di più alla schiena di mio padre con dello spago da imballaggio, finii per addormentarmi, la pelle congelata ma rovente come fuoco, e sognai tormente e laghi ghiacciati, un paesaggio ammantato di neve, e io che chissà come ero al calduccio, avvolto in pelli d'orso e di castoro e di lince, via via che la motocicletta spaccava in due la notte. A questo pensavo, sorseggiando quel whisky torbato. Fu allora che sentii Trahearne ritornare, ma a velocità molto più bassa. Parcheggiò accanto al rustico e lasciò il motore acceso, a digrignare nel buio come una dentiera, per poi andare a raccogliere la sua roba, inciampando per ogni dove come un orso ubriaco. Rimasi lì al fiume fin quando non lo udii sbatacchiare la portiera, poi me ne tornai verso casa. Lui se ne stava andando piano piano, inscatolato in quel macinino che avanzava lento e solenne, come un barcone funerario lasciato alla deriva sulle acque nerastre e silenti di un fiume. Il riflesso dei suoi fanalini posteriori si faceva sempre più lieve nella polvere. Fu solo l'indomani mattina che mi accorsi che il bulldog era sparito.
12 Il giorno dopo me ne tornai a Meriwether e, in mancanza di meglio da fare, mi rimisi al lavoro. Un pignoramento notturno su alla riserva, qualche pallosissima riscossione e un caso di divorzio così squallido da spingermi a controllare l'entità del mio conto in banca. Mi scoprii ancora ben imbottito dei soldi di Catherine Trahearne. Detti un taglio alla faccenda del divorzio, chiusi l'ufficio e lasciai detto sulla segreteria telefonica che non ero disponibile perché impegnato fuori città in un grosso caso; dopo di che, passai qualche piacevole giornata - e nottata - a giocare a poker a due dollari al punto e a fissare i ruderi della mia faccia negli specchi dei bar. Con la luce giusta potevo forse dimostrare una quarantina d'anni, anche se in realtà ne avevo due di meno. Riuscii a mantenermi ragionevolmente sobrio e in buone condizioni, e a restarmene in città malgrado il sempre più frequente richiamo della superstrada. Poi un barista al Red Baron fu costretto ad assentarsi per andare a Billings, al funerale della madre, e io presi il suo posto. Quando mi ero trasferito a Meriwether, e già da prima che arrivassi io, il Red Baron era un notevole bar frequentato da operai e seri bevitori. Solo che allora si chiamava Elbow Room, ed era quel tipo di posto in cui alle sette del mattino il barista se ne va nel parcheggio a svegliare gli ubriachi che hanno passato la notte in macchina, li riporta dentro e offre loro il primo giro della giornata. L'Elbow Room non aveva né jukebox né tavolo da biliardo né flipper. Solo un apparecchio TV per guardare le partite, e una bella riserva di whisky per gli astanti. Poi, un'estate, il vecchio Unbehagen aveva tirato le cuoia nel sonno, giusto poche settimane dopo che il sottoscritto era entrato in possesso di un bel mucchietto di quattrini, bollente ma così bollente che a nessuno saltava in mente neanche di provare a riprenderselo. Fatto sta che mi ero messo in società anonima con i gemelli Schaffer, e avevamo comprato licenza e locali. Purtroppo, gli Schaffer erano tanto boccaloni e ambiziosi quanto io ero taciturno e riservato. Avevano finito per prendere il mio bar preferito e trasformarlo in un business, nel trionfo dello spogliarello, del biliardo e del flipper. E visto che io ero legato a quello scottante mucchio di quattrini, non potevo certo alzare la voce in segno di tacita protesta. Mi limitai a prendere la mia fetta di torta e a tenere il becco chiuso. Il lunedì sera il Baron fungeva da palcoscenico per le ballerine in topless, irresponsabili signorine non professioniste che esponevano con en-
tusiasmo i loro corpi scadenti al ludibrio di un'orda di giovanotti per i quali la semplice idea di vedere le tette della donna della porta accanto era sufficiente a scatenare le più turpi reazioni. A metà della settimana veniva il turno di tette e culi semiprofessionisti, e il pubblico dei maniaci si limitava a modulare un sordo rombo di sottofondo, rotto dall'occasionale scazzottata tra sbronzi. Il venerdì e il sabato toccava all'heavy metal o al bluegrass o a quel che cazzo di boogie andava in quel periodo, ma grazie a dio la domenica era considerata un giorno di tregua dalle sconsiderate follie dell'intrattenimento. La domenica sera era riservata ai veri bevitori, e di solito il bar era silenzioso come un cimitero. Certo, Catherine Trahearne avrebbe potuto farsi viva una domenica sera, ma non andò così. Doveva proprio essere di lunedì. Quando varcò la porta imbottita, quella sera, sembrava fuori posto come un pollo in chiesa, ma si avviò dritta al bancone e si piazzò alle spalle di un gruppo di rubizzi e vergognosi giovanotti finché quelli non le fecero un po' di spazio. Vestita in lana e in pelle - calzoni beige di taglio morbido, un pullover scuro di cashmere e un gilet in daino - stava ancora meglio che in completo da tennis. I riflessi scuri e ombrosi della sua pelle lasciavano intuire notti appassionate e piene di mistero, e il suo corpo slanciato e atletico sembrava voler dire che quelle non erano soltanto intuizioni. Quel che ogni donna dovrebbe perdere all'avvento della cinquantina, lei ancora lo possedeva. E tutto quanto. Un grosso e grezzo turchese, di forma e dimensioni analoghe a un dente di squalo, le pendeva tra i seni da una massiccia catena d'argento. Quando si sedette al bancone, prese una sigaretta, e io balzai ad accendergliela. Si era messa a guardare il palco alle mie spalle, sul quale BoomBoom, il nostro peso massimo tra le dilettanti, si apriva la camicetta per mettere in mostra due tette delle dimensioni di una testa calva, e mollava uno sghignazzo capace di spaccare i vetri. Come al solito, la folla attaccò a ululare e a schiamazzare, a battere cazzotti sul tavolo e a fischiare. Nella vita di tutti i giorni, vi sembrerà strano, Boom-Boom era una barista timida e riservata, ma il lunedì sera perdeva ogni inibizione e li faceva tutti secchi. Catherine sorrise a tutto quell'entusiasmo, e parve divertirsi sul serio. Io ignorai lo starnazzare delle ballerine in topless che si spacciavano per cameriere, ignorai i clienti al bancone e le chiesi se volesse bere qualcosa. «Che strano modo di sbarcare il lunario,» disse, e soffiò sul fiammifero prima che arrivasse a bruciarmi le dita. «Mica lo fa di mestiere,» dissi. «Ma con un entusiasmo degno di nota, non le pare?» fece lei, fissandomi
negli occhi con tale intensità da farmi tornare in mente il nostro primo incontro, quel che avevo provato all'annuncio della sua doccia imminente. Per liberarmi da quello sguardo, mi guardai alle spalle. Boom-Boom se la stava spassando alla grande, e mi sentii un vero idiota per non essermene mai accorto prima. «In realtà mi riferivo alla sua nuova attività, signor Sughrue.» «Sostituisco un amico indisposto, signora Trahearne.» «Catherine,» precisò sottovoce. «C. W.,» dissi io. «Che starebbe per?» mi chiese, sorridendo. «Chauncey Wayne,» confessai. «C. W. va benissimo,» ribatté, scoppiando a ridere. «Vuol bere qualcosa?» «In realtà sono qui per affari,» disse, «che possono però essere discussi davanti a un drink. Più tardi, che ne dice? E in qualche posto, magari, più idoneo alla conversazione?» «Dove alloggia?» «Al Thunderbird.» «Hanno un piano bar mica male,» dissi, «e potremmo vederci laggiù verso mezzanotte. Se non è troppo tardi.» «No di certo,» rispose. «D'accordo, allora». Poi mi porse la mano. Era snella, e le unghie erano di un bel rosso scuro che s'intonava a quello delle labbra e riprendeva le tonalità di carnagione e capelli. Gliela strinsi, e lei prolungò la stretta, per piantare gli occhi verdi nei miei fino a farmi quasi arrossire. «Trahearne ha molta stima di lei,» disse, «e spero che anche noi diventeremo amici». Già l'avevo sentita, questa; tutte le donne di Trahearne volevano essere amiche mie. Catherine mi elargì un sorriso costoso e se ne andò. Mentre usciva, anche il più scemo dei ragazzini nel locale distolse lo sguardo dalle poderose zinne di Boom-Boom per rimirare i fianchi sinuosi dell'ex signora Trahearne. Alla luce soffusa del piano bar, Catherine faceva ancora più colpo. Poteva passare per trentenne. E che trentenne. E lo sapeva benissimo. Non appena ci fummo sistemati in un elegante separé, attaccò a lavorarmi a colpi di occhiate assassine, di sorrisetti ironici, di contatti corporei ben più frequenti e casuali di quanto consentisse la pubblica decenza. «Grazie di essere venuto,» sussurrò. «Prima, parlava di affari,» dissi nervoso, e scolai il mio drink prima an-
cora che la cameriera se ne fosse tornata al bancone. Per quanto mi fosse piaciuto il primo round, non mi era mica ancora tornata la voglia di rincorrere Trahearne su e giù per l'intero West, e di sicuro non volevo mettermi nei casini con la sua ex moglie. «Sì. Avrei una piccola lamentela da farle sul modo in cui ha gestito la convalescenza del mio ex marito,» disse con scherzosa serietà. «Di che si tratta?» «Quando lei ha chiamato dall'ospedale,» disse, «mi ha raccontato una innocente bugia riguardo l'incidente di Trahearne, e non è questo il momento di parlarne, ma adesso voglio un rapporto completo della sua ultima odissea, fin nel più piccolo e sconcertante dettaglio.» «Bene,» dissi. Mi sembrava strano che l'ex moglie di Trahearne ne sapesse di più, di quanto era successo, della moglie attuale. E ritenni che a lui non doveva fregargliene un accidente, se raccontavo tutto a Catherine. «Cos'è che vuol sapere?» «Ogni cosa,» rispose lei con dolcezza. «Dov'è andato, come ha fatto ha scovarlo, com'è successo che si è ritrovato una pallottola nel culo. I dettagli più laidi». Sorseggiò il suo vermouth. «Ho sempre desiderato conoscere fatti e fattacci di quelle sue spedizioni,» proseguì, «ma le versioni di Trahearne, quando tornava a casa, si erano già trasformate in letteratura, e nessuno degli altri signori da me assunti era mai riuscito né a rintracciarlo né a fornirmi questi dettagli. Tutta gente che sembrava priva sia di intelligenza, sia di immaginazione. Non è che i suoi colleghi sono tutti così terra terra come quelli con cui ho avuto a che fare in passato?» «Le sembrerà strano,» risposi, «ma l'unico altro investigatore privato che conosco è il mio ex socio, qui in città, e lui è uno sbronzone ancor peggio di me. So che gli investigatori privati tengono dei congressi, ogni tanto, ma io non ci sono mai andato. È tutto un parlare di elettronica e di spionaggio industriale e stronzate del genere. Io, invece, recupero macchine non pagate e rincorro gente scappata di casa, oltre a pedinare mariti fedifraghi. Roba così, insomma.» «Non sembra mica tanto ambizioso.» «No di certo,» dissi, «neanche un po'. Ho passato nove anni sotto le armi, in tre diverse circostanze, e non ho fatto altro che giocare a football o starmene in palestra o scrivere di sport per giornali dell'esercito, poi ne ho passati altri quattro a giocare a football per tre college parauniversitari sotto due nomi diversi, e mi sono ritrovato a fare questo mestiere per puro caso, così non mi ritengo né Johnny Quest né il moralizzatore dell'emisfero
occidentale. Casomai potrei spacciarmi per un pistolero di seconda classe o per un vaccaro di prima categoria.» «Insomma, mille ne fa e nessuna ne conclude,» disse. «Un classico.» «Classico per classico, mi sento più una sorta di bracciante agricolo,» dissi io. «Uno stagionale con le pezze al culo.» «Eppure l'ha trovato lei, Trahearne,» disse, «e deve raccontarmi come ha fatto.» Mentre le dicevo quel che voleva sentirsi dire, lei si fece più vicina, sorridendo di quando in quando e sfiorandomi la mano con le dita, fin quando fianchi e cosce di entrambi vennero a contatto, e le sue unghie presero a ballarmi sul polso. Alla fine della storia mi chiese di dirle subito anche tutto il resto, e mentre le chiarivo i punti oscuri lei rideva e mi teneva la mano. Finii di raccontarle ogni cosa, che lei si stringeva il mio braccio al seno. «Ma che delizia,» disse. «Ehi,» dissi cercando di buttarla sullo scherzo. «Veda di andarci un po' più cauta.» Lei non fece la santarellina, ma scoppiò dritta a ridere, con tono così limpido da risuonare - nell'intimità di quel bar - simile alle campane del vespro all'ora del crepuscolo. «Non essere così serio,» disse. «Non ho intenzione di saltarti addosso.» «Porca puttana,» udii lamentarsi qualcuno. Che aveva la mia voce. Mica ero così scemo da andare a infrattarmi con le ex mogli dei miei amici, e per quanto storta fosse andata tra noi, Trahearne era diventato un amico. Ma lo ripetei lo stesso. «Porca puttana.» E Catherine si portò la mia mano alla bocca, mi sfiorò con le labbra una delle nocche malconce. Nel seguirla fuori dal locale mi sentivo agitato come un sedicenne. Porca puttana. «È per questo che sei venuta fin quaggiù?» le chiesi più tardi, sul letto del motel, posandole la mano sui muscoli sodi della coscia. «Volata,» disse, e scoppiò a ridere. «Sono volata fin qui facendo scalo a Seattle. Pensano tutti che sia laggiù, a far visita ad amici. Per questo sono venuta, sì, e me la sarei fatta anche a piedi.» «Come mai?» «Non ti sorprendere, ti prego, di quanto sto per dirti,» fece, fermandosi per accendere due sigarette, «e ricordati che avrei potuto sceglierti comunque. Faccio una fatica del diavolo a mantenere intatto questo corpo ormai non più giovane, e a scadenza annuale devo tollerare le umiliazioni cui mi sottopongono le mani di costosi chirurghi plastici, così che possa godermi
al meglio gli anni del declino. Sai, vado a letto con chi più mi aggrada,» tacque di nuovo, e la sua voce si fece aspra, «e in particolare con gli amici di Trahearne. Ti secca?» «Be', un po' mi sento come dentro i solchi lasciati da quel vecchiardo,» risposi, e mi tornò in mente la puttana del deserto, quella tutta pelle e ossa, «ma certo è che sono solchi di lusso. Quindi no, non mi secca.» «Grazie,» disse. «Mi resta ancora qualche anno, prima di avvizzire e invecchiare per sempre - no, non mi interrompere - e ho ancora un sacco di anni di solitudine, da recuperare.» Si soffermò a guardarmi. Io invece guardavo il fumo muoversi tra le ombre del soffitto in tante nuvolette. «Non ti incuriosiscono le mie ragioni?» mi chiese, con le unghie a piluccarmi i peli del torace. «Naa.» «Pensavo che gli investigatori fossero curiosi come scimmie,» dissi. «Solo nei film.» «È strano, sai,» disse dopo un altro lungo silenzio. «Cosa?» «Mi capita molto di rado di spiegare a qualcuno ciò che faccio,» sussurrò. «Però tu non mi hai chiesto niente, e quindi mi sento quasi in obbligo di spiegartelo lo stesso.» «Vecchie tattiche d'interrogatorio cinese,» dissi, e lei ridacchiò, tirandomi una manata sulla pancia. «Fa' il serio,» disse, ridacchiando ancora. «Sto per raccontarti la storia della mia vita.» «Okay.» «Ci siamo conosciuti durante la guerra, sai,» disse sporgendosi a schiacciare il mozzicone. «Ero poco più che una bambina, appena diciottenne, ma già vedova. Il mio primo marito era uno di quei baldi giovani di Carmel che avevano chiuso i cavalli da polo nella stalla e se l'erano filata ad arruolarsi nella RCAF, con la testa piena di fantasticherie sulla squadriglia Lafayette. Nell'eccitazione della partenza, finì per prendersi la mia verginità; il mattino dopo, in preda a un'ondata di rimorso, mi portò in macchina fino a Reno, dove fece di me una donna onesta. Sei mesi più tardi, il suo Spitfire precipitò nella Manica durante la battaglia di Dunkirk. All'epoca mi sembrava tutta una situazione da romanzo, e in un certo senso è l'effetto che mi fa ancora oggi.» «Poi incontrai Trahearne,» proseguì, «e mi ritrovai dritta nel secondo
capitolo di quel romanzo. Tutti quanti ci guardavano con orrore, ma io lo sposai che ancora ero vestita a lutto, e poi spedii anche lui in guerra.» «Sei tu la donna sul ponte,» bisbigliai. «Oh, vedo che l'ha raccontata anche a te, quella storia assurda,» disse. «Non sapevo cosa volesse dire per lui, ma dentro di me avevo le idee molto chiare sul da farsi.» «Chissà chi era, la donna alla finestra,» dissi meditabondo. «Ma sua madre, è chiaro,» rispose sottovoce Catherine. «Cristo,» dissi, poi mi tirai su, a caccia di un'altra sigaretta. «È per questo che non sono un tipo curioso. Scopro fin troppe cose che poi non voglio sapere. Cristo.» «Non credo fosse poi così terribile, questa cosa,» mi rimproverò lei. «E poi è passato un sacco di tempo. Trahearne le dà tutta questa importanza solo perché non è mai riuscito a scriverne.» «Torniamo alla guerra,» dissi, «che almeno è una cosa che riesco a capire.» «Quattro anni di tristissima fedeltà,» disse. «Poi altri quindici, mentre lui coltivava i suoi sensi di colpa, perché io riuscivo a essergli fedele e lui no. Mica mi dava fastidio il suo puttaneggiare, questo no, almeno non quanto mi seccavano le sue sfuriate da coda di paglia che poi si ripercuotevano tutte su di me. Non è stata una vita facile». Mi prese la sigaretta. «Un giorno, due anni fa, mi ha chiamato dalla Sun Valley per dirmi che voleva il divorzio. Non mi sono sorpresa più di tanto, perché non era la prima volta. Però in questa occasione è andato fino in fondo, e l'ha pagata cara, lasciamelo dire. L'ho spellato vivo, a sentir lui, come fa un grizzly con un salmone, e gli ho lasciato a malapena gli occhi per piangere. Questo sarebbe forse bastato a riportarlo indietro, ma prima ancora di rendersi conto di come l'avessi sistemato aveva già finito per risposarsi. Adesso si ritrova con una moglie infedele dalla mattina alla sera, proprio come lui, e così non deve più sentirsi in colpa; in più, sono due anni che non scrive una sola parola degna di questo nome. E ho il sospetto che tutto questo lo stia facendo uscire pazzo.» «E tu sei andata a vivere con sua madre,» dissi stupefatto. «In tutti quegli anni, Edna è stata molto gentile con me,» disse Catherine, «e mi sembrava il minimo che potessi fare. Si è comportata meglio della mia vera madre, e nel vivere con lei posso tenere d'occhio Trahearne. Adesso ho la mia libertà, più quattrini di quanti ne possa spendere prima di morire, e anche la mia vendetta». Tacque e girò su se stessa per inchio-
darmi la schiena al letto. «Non credere a chi ti dice che la vendetta non può essere dolce.» «Ancora lo ami, quel vecchio scorreggione,» dissi. «Ma certo,» fece lei nel mettersi a cavalcioni su di me. «Ma amo anche questo. Mica ti dispiace, eh?» Tutte queste complicazioni e tutto questo casino mi davano un po' da pensare, ma Catherine era una donna dolce e affettuosa, la cui passione era infiammata da tutti gli anni che aveva passato a tenerla a freno. Quella notte, in effetti, non mi dispiacque neanche un po'. Però il mattino dopo, quando lei lasciò il motel e si trasferì armi e bagagli nel mio appartamento, iniziarono a venirmi dei dubbi. Per i tre giorni successivi, tuttavia, li mettemmo da una parte. Era più brava di Trahearne, a preparare la colazione, ed era più semplice andarci d'accordo, ma devo ammettere che quando mi annunciò che doveva tornarsene in volo a Seattle, e poi a casa, mi sentii sollevato. Fu solo quando ci ritrovammo a dirci addio nel terminal dell'aeroporto che mi resi conto di quanto mi sarebbe mancata. «Non so come, ma questa cosa non è stata una semplice storiella da weekend,» dissi nell'osservare i passeggeri che scendevano dall'aereo che lei avrebbe preso di lì a poco. «Lo so, lo so,» mi rispose stringendomi la mano quasi con rabbia, «Sembra così banale, a dirlo, ma avrei voluto incontrarti vent'anni fa. E non solo è banale, è anche falso. Facciamo trent'anni, va', che è molto più realistico, e all'epoca tu non avevi ancora messo i calzoni lunghi.» «Sono nato vecchio,» dissi, ma lei mi ignorò. «Ci sarebbe voluto qualcuno come te, a salvarmi da quest'accidente di martirio affettivo. E pensare che me la sono scelta io, questa situazione,» disse con amarezza. Poi fu il momento di andare, e lei mi offrì una guancia per un materno bacio d'addio. «Faremo finta che tu sia un qualche amante senza nome che ho pescato in una sala da cocktail,» disse. «Come vuoi tu.» «E questo è un addio,» disse, per poi porgermi di nuovo la guancia. «All'inferno,» dissi io, e la abbrancai per le spalle, baciandola sulla bocca con tale violenza da toglierle tutto il rossetto, scompigliarle i capelli e farle cadere il bagaglio a mano. «Figlio di puttana,» bisbigliò quando riuscì a riprendere fiato e a raccogliere la borsa. Il suo collo sottile era avvolto da un consistente rossore, una serie di lingue di fuoco che le stavano colorando ben bene anche le guance. Allungò una mano a tergermi la bocca. «Figlio di puttana,» ripeté.
«Questo era l'ultimo». Poi varcò i controlli di sicurezza e salì a bordo dell'aereo senza guardarsi indietro. Mentre saliva la scaletta, ingollai un po' del mio sciocco dolore e tagliai la corda. Nessuno vive in eterno, nessuno resta giovane abbastanza a lungo. Il mio passato sembrava bagaglio in eccesso, il mio futuro una serie di lunghi addii, il mio presente una fiaschetta vuota, l'ultimo vero drink che già mi faceva la lingua amara. Lei amava ancora Trahearne e ancora gli restava, in segreto, fedele; come se la sua fedeltà fosse un pino giapponese in miniatura, minuscolo e perfetto in ogni dettaglio al pari di una tazza di porcellana, smarrito nell'oscuro e confuso angolo di un giardino un tempo ben curato, ma adesso inselvatichito. Dopo la sua partenza, vagai per giorni in una sorta di nebbia densa, dandomi dell'idiota e cercando di buttar giù, con moderate dosi di whisky, il macigno che mi era rimasto di traverso. Era quasi estate, nel Montana, ma da quelle parti siamo abbastanza a nord per far sembrare anche giugno un malevolo aprile. In cielo dominava uno stupido color azzurro, il verde delle montagne rifulgeva come un miraggio, e il sole sorgeva ogni mattina per battermi negli occhi con lo sguardo inespressivo ma toccante di un tenero bambino ritardato. Me ne scesi fino a Elko, nel tentativo di scovare un paesaggio più idoneo ai miei stati d'animo, ma il deserto era tutto in boccio sotto i colpi delle piogge di primavera, e le notti erano fresche e sfolgoranti di stelle. Infilai gli ottantasette dollari di Rosie in una slot-machine da un dollaro a colpo e beccai un jackpot da cinquecento bigliettoni. Poi me ne volai fino al posto più deprimente dell'intero West, la stazione degli autobus di Salt Lake City, dove mi misi a bere Four Roses da una bottiglia da mezzo litro infilata in un sacchetto di carta. Nemmeno così riuscivo a farmi arrestare, e così mi diressi a Pocatello per ingollare Coors a manetta, peggio di un maiale al trogolo, in compagnia di una gang di mormoni fasulli e con la speranza di scatenare una bella rissa, ma mi andò buca anche questa. Alla fine, non certo più impresentabile del solito, filai a nord, verso Meriwether, come un vaccaro vagabondo in cerca di bestiame da radunare. 13 Uno dei vantaggi del mio lavoro è che non mi lascia il tempo di rimuginare troppo a lungo sugli amori perduti. Tornato in città, mi occupai di un
paio di faccende di divorzio e pignorai qualche apparecchio TV in famiglie per le quali le liti domestiche erano come un portafoglio azionario. Funzionò a meraviglia. Il mio cinismo ricomparve intatto, e il mio conto in banca rimase ben fornito. Poi, un pomeriggio, mi telefonò Trahearne. «Ehi, mi spiace di averti piantato in asso in quel modo,» disse. «Più che un asso, sembrava un due di briscola,» risposi. «Hai sempre voglia di scherzare, eh, Sughrue,» fece lagnoso. «Quand'è che vieni a riprenderti il tuo cane del cazzo?» «Il mio cane?» dissi. «È lei che se l'è portato via, vecchio, e lei lo riporta indietro.» «Ma neanche per sogno. Finché riesco a restarmene a casa, non ho alcuna intenzione di muovermi,» disse lui. «Come sta Fireball?» «L'ultima volta che l'ho visto, era il boss dei boschi della zona.» «L'ultima volta?» «Già. Si è attaccato a Melinda neanche fosse suo fratello,» disse, «e adesso sono partiti per un viaggetto. Lo sai, che a Fireball piace viaggiare.» «E so anche come gli piace viaggiare,» dissi. «Se Melinda passa da queste parti, magari posso riportarlo io a Rosie.» «Mi sa che è troppo fuori strada, per lei,» disse con troppa fretta. «Non ha idea di dov'è andata a finire, eh?» «Non proprio, no,» ammise lui. «Ma va bene così.» «Vuole che mi metta a cercargliela?» «Mica è sparita.» «Neanche lei era sparito,» dissi, «ma l'ho trovata lo stesso.» «Sì. Grazie,» disse. Al telefono, il suo tono sarcastico faceva lo stesso effetto dello sbuffo di un bufalo ferito. «Che è? Ti stai annoiando, laggiù?» «Ci sono nato, annoiato.» «E allora, che cazzo, vieni quaggiù e dammi una mano a restare sobrio,» disse. Sembrava quasi serio. «Com'è la storia? Lo zoppo che guida lo storpio, o il bue che dà del cornuto all'asino?» «Già me la sto cavando bene da solo,» disse. «Sono quasi pronto per rimettermi al lavoro.» «Il suo pubblico la starà aspettando col fiato sospeso,» dissi. «Ehi, è lei lo scrittore. Che cazzo vorrà dire questa espressione?» «E che ne so. Magari fa solo un bell'effetto.» «Fantastico,» dissi. «Mi chiami, quando Melinda si rifarà viva col mio
cane, e cercherò di venire da voi un fine settimana.» «Va bene,» fece lui tutto allegro. Poi ci mettemmo a cazzeggiare del tempo e delle gran pescate che avremmo fatto. I tipici discorsi di chi non vuol pensare a niente e starsene tranquillo. Fu solo al termine della conversazione che mi venne in mente Catherine, il che mi fece pensare che, forse, mi era passata. Come si dice, mi scappò un sospiro di sollievo. Quando racconto alla gente di non essermi mai sposato, taccio a bella posta di essermi fidanzato almeno una quarantina di volte. E non appena decisi che ormai avevo smesso per sempre di andarmene in giro come un pazzo, il piede mi cominciò a prudere con tale e tanta violenza che mi toccò sfilarmi lo stivale. Mi grattai quasi con rabbia, ma il prurito era ormai sceso così a fondo che l'unica soluzione era spararsi un migliaio di chilometri d'autostrada. Riacciuffai la cornetta e chiamai tutti i garanti di cauzione che conoscevo, ma nessuno aveva il benché minimo fuggitivo da riagguantare. Poi le provai tutte, i soliti vecchi trucchi, sempre battendo il mio ufficetto: tre passi da una parte, quattro dall'altra. Piazzai un bicchiere contro il muro e tentai di ascoltare i discorsi del consulente matrimoniale della porta accanto, ma la parete di alluminio non lasciava trapelare un gran che. Il mio ufficio sta in una roulottona gigante, doppio volume, che divido con il suddetto consulente matrimoniale e una coppia di loschi agenti immobiliari. Nessuno dei miei vicini era noto per la sua disponibilità alla ciarla, così tirai le tendine di plastica e mi misi a osservare il panorama. Quanto si potrà stare a guardarsi il cassonetto di un discount in fondo a un vicolo, però, dovete dirmelo voi. Pensai anche di andare a far quattro chiacchiere con la mia attuale e incapace segretaria, che spartivo coi vicini, ma fu lei a chiamarmi al telefono prima che potessi uscire di lì. «C'è una telefonata per lei,» mi disse. «Chi è?» «Interurbana,» tubò. «Linee roventi, quest'oggi.» «Come?» «Nulla,» dissi. «Se non è a carico mio, passamela pure.» «Oops,» borbottò lei. «Mi spiace, signore, ma sembra che sia caduta la comunicazione». Un modo elegante per dirmi che si era scordata come si fa un trasferimento di chiamata. «Forse richiameranno.» «Spero anch'io.» E così fu. Era Rosie. «Gliel'avevo detto che non era morta,» mi fece,
prima che potessi aprir bocca. «Me l'aveva detto,» risposi. Il prurito mi salì su per la gamba a tutta birra, e andò a piazzarsi sottopelle, tra le scapole. «Che e successo?» «Mi ha chiamato Jimmy Joe per dirmi che ha ricevuto una cartolina illustrata da Denver, questa mattina. Era di Betty Sue.» «Sicuro che fosse la sua grafia?» «Per forza,» disse Rosie. «Chi gli giocherebbe mai un tiro così sporco?» «Che ne so,» ammisi. «Me l'ha letta, e sembrava proprio di Betty Sue,» aggiunse lei. «Ma se non la sente da dieci anni,» le dissi. «Come fa a sapere che sembrava proprio Betty Sue?» «Lo so e basta.» «Mi pigliasse un colpo.» «Non si tratti così male, C. W. Tutti possiamo sbagliare,» disse Rosie. «Quanto mi costerebbe mandarla a fare quattro chiacchiere con la donna che ha detto di aver sepolto mia figlia?» «Neanche un centesimo,» dissi. «Ora non faccia così.» «Va bene. Le manderò il conto. Ma solo se scopro qualcosa,» dissi. «Però potrebbe farmi un favore.» «Di che si tratta?» «Richiami il suo ex marito e gli dica di spedirmi quella cartolina a Fort Collins, Colorado, fermoposta. Okay?» «Lo consideri già fatto.» «Mi farò vivo tra un paio di giorni,» dissi. «Se per caso riesce a trovare Betty Sue, le dica solo che non è mica obbligata a tornarsene a casa. Basta che mi dia un colpo di telefono. A carico mio,» implorò Rosie. «Tutto qui. Udire di nuovo la sua voce sarebbe più che sufficiente.» «Okay.» «Senta,» aggiunse. «Come sta quel buono a nulla di un cane?» «A meraviglia,» dissi, «ma ha nostalgia di casa. Pensavo di riportarglielo, una volta o l'altra. Se le va bene.» «Be', direi di sì,» rispose. «A proposito, mi dispiace molto per come l'ho trattata quella volta... quando...» «Lasci stare,» dissi. «E abbia cura di sé.» «Anche lei, figliolo.» Tempo neanche un'ora, avevo già caricato le valigie sull'El Camino ed
ero partito per il Colorado. Nel corso di quattordici ore di viaggio, ebbi tutto il tempo di pensare a una gran quantità di cose, a quella cartolina fin troppo strategica e al pestaggio che mi ero beccato l'ultima volta che ero stato in Colorado, ma niente mi sembrava avere senso. Anche se avessi avuto quattordici anni a disposizione, invece di quattordici ore, non sarei lo stesso riuscito a cavarne qualcosa. Non è così che lavoro. Una volta il mio ex socio mi trovò in un bar ad arrovellarmi su un intricatissimo caso di divorzio che mi aveva completamente sbarellato - non riuscivo a capire chi stesse facendo cosa a chi - e mi consigliò di piantarla coi pensieri, di riportare il culo in strada e di mettere le mani addosso a qualcuno. Era sbronzo, per forza, ma sbronzo o sobrio era pur sempre un asso di detective, per i divorzi. Ma io ero in macchina, adesso, non a piedi in una strada di città, e non avevo proprio idea su chi mettere le mani. O Selma Hinds aveva mentito, per motivi del tutto privi di senso, oppure qualcuno aveva mentito a lei, cosa che di senso ne aveva ancora meno. Se era stata lei a mentire, e aveva intenzione di continuare, mi ritrovavo con le mani legate. A differenza di Jackson, Selma Hinds era un'onesta contribuente, e se solo l'avessi sfiorata con un dito si sarebbe messa a invocare la legge come un'aquila, e mi avrebbero sbattuto in una cella di Canon City con la prospettiva di sciropparmi dai vent'anni di galera all'ergastolo. Cosa stava succedendo non lo sapevo, e non ci capivo un tubo; anzi, l'intera faccenda non mi piaceva neanche un po'. Forse era per questo che la prima cosa a finire in valigia erano state le mie pistole. Se non ti funziona la capoccia, fa' vedere in giro che hai una pistola. Certe volte serve. In realtà tutti i miei grattacapi si rivelarono tempo buttato. Quando uscii dalla superstrada del Poudre Canyon, proprio ai piedi della pista che portava da Selma Hinds, parcheggiai dietro una Volkswagen rossa decappottabile, con targhe del Montana e una bella ammaccatura sul parafango anteriore destro. Lì per lì, mi domandai che cazzo ci faceva Melinda Trahearne a casa di Selma, ma poi dovetti chiedermi perché ero stato così cieco, così tonto. Quel pazzo figlio di puttana di Trahearne mi aveva preso per il naso fin dal principio, da quando l'avevo scovato nel bar di Rosie. Anzi, forse anche da prima, il che poteva spiegare tutta quella lunga e folle scampagnata da un bar all'altro, spiegare perché si era reso così facile da seguire e così difficile da rintracciare, perché infine mi aveva aspettato da Rosie. Voleva che fossi io a cercare Betty Sue Flowers, voleva che andassi a fic-
care il naso nel passato della ragazza, come un cane affamato che riesuma le ossa ormai sepolte e i resti decomposti della sua vita, così che lui potesse giustificare il cattivo sapore che aveva in bocca, il tanfo di marciume che gli ristagnava nel naso. Se non mi fossi messo a cercare Betty Sue con tutto quell'impegno, fin dalla prima volta avrei riconosciuto il suo viso in quello di Melinda. Maledetto Trahearne. Ero stato fatto rimbalzare come una stupida pallina di gomma attaccata a un elastico, e l'evidenza dei fatti mi rendeva adesso così sfinito che non mi fregava più un accidente di chi manovrasse il gioco. Volevo solo staccarmi da quell'elastico. Selma e Melinda erano in ginocchio a sarchiare il giardino. Le loro morbide voci e le risa riecheggiavano per tutto il crinale come campanelli mossi dal vento. All'estremità del giardino, accucciato in una buca poco profonda, Fireball dormiva su un letto di aghi di pino. Anche tutti gli altri cani se la dormivano della grossa, in una gabbia metallica posta alle spalle di quelle più piccole. «Scusatemi,» dissi fermandomi sul bordo del giardino. Le due donne tacquero, poi si alzarono in piedi e si voltarono verso di me. Il viso di Selma aveva la stessa aria comprensiva, ma che adesso sembrava come dipinta su pietra, passiva e immutabile. Quando mi riconobbe, tuttavia, fu come se quel volto le andasse in mille pezzi, sconvolto e terrorizzato come quello di un cervo pronto alla fuga. Melinda si rilassò con un sospiro, lo sguardo colmo della pazienza di chi sa di essere un'eterna vittima. «Ero quasi sicura che sarebbe venuto,» disse. «Diciamo che la stavo aspettando. Come ha fatto Trahearne a scoprirlo?» «A scoprire cosa?» dissi. «È stata sua madre a mandarmi.» «Ma sono io, sua madre,» disse lamentosa Selma. «Non le aveva detto che ero morta?» mi chiese Melinda. «Non mi ha creduto,» dissi. «E poi lei ha mandato quella cartolina a suo padre.» «Una cartolina?» disse lei, stupita. «Sono io sua madre,» ripeté Selma, cercando di rimettersi in sesto. «Se non è stata lei, allora l'ha fatto qualcun altro,» dissi. «Trahearne, forse, o qualche suo amico di Denver. Qualcuno ha mandato una cartolina per convincere Rosie che lei era ancora viva, e spingere me a venire fin qui. Solo che non riesco a capire il perché.» «Nemmeno io,» disse Melinda. «Ormai nessuno mi sta più cercando, e-
sclusa mia madre.» «Sono io tua madre,» si lamentò ancora Selma, buttandosi a piangere in ginocchio sul soffice terriccio scuro. «Va tutto bene,» disse Melinda, stringendosi alla coscia la testa della donna. «Digli che pagherò... che pagherò qualunque cifra per il suo silenzio,» singhiozzò Selma. «Qualunque cifra.» «Per quanto mi riguarda,» dissi, «Betty Sue Flowers è morta. Questa cazzo di collina me la sono risalita soltanto per esserne certo. Se lei» mi rivolsi a Melinda «vuole che sua madre pensi che sia morta, se la veda con la sua coscienza, e se vuole far finta che Trahearne non sappia la sua vera identità, è cosa che riguarda solo voi due. Io mi chiamo fuori. E me ne torno a casa.» «Qualunque cifra,» ululava Selma. «Zitta,» le disse Melinda, con gentilezza. «Doveva succedere, prima o poi. Sistemerò tutto». Poi mi guardò. «Mi aspetti, la prego. Giù, in fondo al sentiero. Vado a portare Selma in casa e a cercare di calmarla. Però mi aspetti. Ho bisogno di parlare con lei.» «Il fatto è che mi dirà cose che non voglio sapere,» feci. «Qualunque cifra!» urlò Selma. Nella gabbia, i cani si risvegliarono e presero a guaire, e anche Fireball finì per destarsi dal suo torpore. Sbadigliò, dette una fiutata in giro e infine mi venne a salutare trotterellando. Gli grattai la testa, e Melinda ne approfittò per aiutare Selma a rimettersi in piedi e avviarsi verso casa. Quando furono entrate, mi avviai giù per la collina. «Mi aspetti, la prego,» disse Melinda dalla soglia. «Per favore.» «E va bene,» dissi dal limitare della radura. Fireball mi seguì giù per la discesa con passo regolare, tra sole e ombra, il naso levato all'aria mattutina neanche sentisse già odore di birra. «Niente droghe in montagna,» gli dissi, e lui allungò il passo. Al termine della pista attraversai la superstrada per andare a lavarmi la faccia nel fiume, per togliermi di dosso tutti quei chilometri con un po' d'acqua fredda. Fireball mi lanciò un'occhiataccia malevola, poi dette una veloce sorsata, scrollando il capo come se la sola vista dell'acqua gli facesse schifo. Gli feci riattraversare la strada e gli allungai una birra. Ce l'eravamo proprio meritata, tutti e due.
Mi risvegliai a metà pomeriggio, in mano la lattina ormai calda. Melinda era seduta al mio fianco. Adesso indossava un paio di scarponcini da trekking, calzoni corti e una canottiera. Era come se avesse finalmente deciso di gettar via quei vestiti a sacco per mostrarmi cosa c'era davvero sotto: gambe muscolose, lunghe e ben fatte, un seno solido e compatto, insomma roba da far uscire pazzi gli uomini. «Se la dormiva così della grossa, che mi è parso un peccato svegliarla,» disse. «Selma non ha caffè, in casa, ma le ho preparato una tisana,» aggiunse mostrandomi un termos. «Preferisco una birra,» dissi. «Cos'è tutta questa salute?» «Allora Trahearne sa tutto?» mi chiese mentre rovistavo alla ricerca di una lattina. «È stato lui a portarmi fin da sua madre, e quando Rosie mi ha assunto per cercarla, è stato di nuovo lui a incoraggiarmi. Era tutto un piano.» «Avrei dovuto dirgli la verità sulla mia... sulla mia vita,» disse nel versarsi una tazza di tisana. «Avrebbe dovuto, sì,» concordai. «Cercandola qua e là, ci è anche capitato di vedere il suo debutto sullo schermo.» Sospirò. «Poveraccio. Adesso sì che non ci crederà mai.» «A cosa?» «Io ho bisogno di viaggiare molto, e anche di starmene da sola,» disse, «e lui si è convinto che... che vado a letto con altri uomini, quando non sto con lui». Mi vide tacere. «E non è vero,» aggiunse allora. «È lui che ormai è andato in fissa. Ormai lo so, e non m'importa, ma non faccio di queste cose.» «Va bene.» «Non mi sembra troppo convinto.» «Che vuole che me ne freghi,» dissi. «Inoltre, quel che voi due vi combinate l'un l'altro non è affar mio, okay?» «E non le interessa nemmeno il vero motivo della scomparsa di Betty Sue?» «No di certo.» «Erano venuti a cercarmi,» disse, «e sapevo che per farmi lasciare in pace dovevo sparire, morire.» «Randall Jackson e gli scagnozzi di Denver,» dissi. «Li conosce?» mi chiese, di nuovo sconcertata. «Molto, ma molto bene,» «Sono stata in galera,» fece con aria di sfida, «e...»
«Lo so,» dissi. «Adescamento.» «... e là dentro ho perso quindici chili, mezzo chilo al giorno,» continuò come se non mi avesse udito. «Selma fece una delle sue visite in prigione, quando c'ero io, e io avrei voluto venire subito quassù, ma dovevo prima tornare da Jackson a riprendere un po' di cose, libri e oggetti vari, e lui mi vide, senza più tutti quei chili, e mi spedì subito a lavorare per tutta quella gente tremenda. Mica era come a San Francisco - laggiù eravamo solo sballati, non facevamo che spassarcela, e i soldi andavano tutti in cibo e roba - no, questi erano affari, e mi spedirono all'ospedale per togliermi quella cicatrice che avevo... chirurgia plastica, ci spesero un sacco di quattrini e non intendevano certo farmi tagliare la corda. Non so se capisce.» «Come no.» «Così rubai un po' di soldi a Jackson e venni a nascondermi quassù, ma in un paio di settimane erano già venuti a cercarmi, e mi toccò andare a nascondermi nel bosco, e Selma dovette mentire, è una cosa che odia, l'ha visto anche lei come le è seccato dirle tutte quelle bugie. Poi, quella stessa estate, la figlia di Selma annegò in quell'incidente d'auto, e lei disse allo sceriffo che la morta ero io, capisce, e così ho potuto ricominciare tutto da capo, come se non fosse mai successo niente». Posò la tazza di plastica del termos sul cruscotto, con estrema cura, e cominciò a piangere. «Ma a lei non gliene frega niente, vero?» singhiozzò con le mani sulla faccia. Ne avevo fin sopra i capelli, di tutte quelle donne piangenti. «Cazzo di Budda!» urlai nel gettare la lattina mezza piena fuori dal finestrino, dritta sulla strada. «Sua madre mi ha pagato ottantasette dollari per ritrovarla,» dissi, «e io l'ho rincorsa per tutto questo cazzo di paese, e mica lo so più se l'ho fatto per Rosie o per me stesso o per qualche idea che mi ero fatto di lei. L'unica cazzo di cosa che so fin troppo bene è che non l'ho fatto per quel cazzo di ottantasette dollari, quindi non si permetta di dirmi che non me ne frega un cazzo niente!» «Mi spiace». Ridacchiò, poi prese a tergersi le lacrime. «Ero così presa dai miei problemi che mi sono scordata della gran faticaccia che lei ha dovuto fare per trovarmi.» «Mica lo sapeva,» dissi sostenuto. «L'ho capito senza bisogno di saperlo,» disse con un sorriso. «Stronzate.» «È proprio carino quando s'incazza, C. W.,» disse. Scesi dal pickup e mi misi a prendere a calci i sassi, sollevando una nuvola di polvere che riuscì quasi a soffocarmi.
«E adesso?» le chiesi, risalendo in macchina. «Proprio non lo so,» rispose. «Devo pensarci su per qualche giorno. È sempre stato questo il mio problema. Ho combinato tanti di quei casini, solo perché non ci avevo mai pensato prima.» «In realtà dovrò pur riferire qualcosa, a sua madre, anche se prima vi ho detto il contrario.» «Le spiace aspettare qualche giorno?» mi chiese. «Solo fin quando non avrò sistemato tutta la faccenda con Trahearne.» «Devo richiamare sua madre domani sera,» dissi. «Va bene. Vorrà dire che telefonerò a Trahearne questa sera. Preferirei non farlo al telefono, ma tanto, se lui già conosce ogni cosa, so già cosa ne starà pensando. Vediamoci domani, verso le dieci. Scendo io. Forse è meglio che lei non salga fin lassù... sa com'è, per via di Selma. Ha sepolto sua figlia col mio nome, e tra tutte le cose di cui le sono debitrice, questa è la più importante. Mi ha ridato la vita, e questa è la cosa più grande che una persona possa fare per un'altra. Anch'io mi sento così, a volte, nei confronti di Trahearne: in grado di dargli indietro la sua vita, di riprenderla a quelle due donnacce che l'hanno tenuto prigioniero per così tanto tempo. Lei le ha viste, e sa di cosa parlo.» «Forse sì,» dissi, «o forse no. Ma non importa. Però c'è una cosa che vorrei sapere.» «Pensavo che non volesse sapere proprio un bel nulla,» disse con un dolce sorriso. Mi stupivo di non essermene mai accorto prima, di quel sorriso. «Pensavo che non fosse mica curioso.» «Non faccia la furba,» dissi, «e intanto mi dica perché è scappata, la prima volta.» «Be', allora non è che sa proprio tutto, eh?» «No.» «Ero rimasta incinta,» disse, «e il mio ragazzo mi aveva portato a San Francisco per farmi abortire. Appena usciti dall'hotel in cui mi avevano praticato l'aborto, iniziai ad evere emorragie - è una vecchia storia, lo sa anche lei, così vecchia e squallida che non ci crede mai nessuno, finché non capita proprio a te - e lui è scappato a gambe levate, lasciandomi a perdere sangue sugli scalini del Franklin Hospital. Ci ho quasi lasciato le penne, quella volta. Quel tipo mi ha scaricato lì e ha tagliato la corda.» «Albert Griffith?» chiesi. «Vede che qualche cosa la sa?» disse. «Sono riusciti a bloccare l'emorragia, certo, ma mi sono ritrovata tra capo e collo un furibondo caso di set-
ticemia, e per fermare l'infezione hanno dovuto praticarmi una isterectomia. Mica male, no? Tra l'altro, avevo lasciato i documenti nella macchina di Albert, e così ho dato un nome e un'età falsi, quindi nessuno ha mai saputo niente. Avevo una gran paura che qualcuno lo venisse a sapere, e pure una gran vergogna, credo. Fatto sta che quando mi hanno dimesso dall'ospedale ormai era passato troppo tempo per tornare a casa, o almeno così mi pareva, e allora ho cominciato a vivere per le strade di Haight fin quando non sono stata raccattata da Jackson, e poi sono successe così tante di quelle cose che il tornare a casa era ormai assolutamente fuori questione. Neanche quando ho saputo che Bubba era stato ammazzato in Vietnam.» «Bubba sarebbe suo fratello Lonnie?» «Sì.» «Anche suo fratello più piccolo è morto.» «So anche questo,» bisbigliò lei. «Ogni tanto filo di nascosto dalle parti di Sonoma, e l'ho sentito dire. Quella volta sono quasi tornata a casa.» «È la prima cosa che avrebbe dovuto fare,» dissi. «Un sacco di gente si sarebbe risparmiata un sacco di casini, lei compresa.» «Lo so. Cristo se lo so, ma mio padre era sparito e poi non gliene fregava un bel niente. Una volta l'ho chiamato e figuriamoci se gliene fregava qualcosa, e poi mia madre era una zoccola...» «Ehi,» dissi. Mi guardò. «Non ho tutto questo gran diritto di giudicare, eh?» «Neanche se fosse rimasta vergine a forza di fare la vestale,» dissi. «Ha ragione,» sospirò. «Ma all'epoca sembrava così importante. Mamma cercava di far finta di niente, quando ha divorziato da papà, ma c'era rimasta male, eccome. Poi ha preso a bere come una spugna e a portarsi in casa un uomo dopo l'altro, e io me ne stavo in quella roulotte, nella cameretta sul retro, e li sentivo ridere e farne di tutti i colori, e mi dicevo che se magari avesse smesso, forse mio padre sarebbe tornato a casa, il che era una bella cazzata, perché già di me se n'era fregato alla grande quando stava con noi. La milionesima volta che mi aveva guardato neanche fossi una sconosciuta, da piccola, avevo deciso che ero stata adottata. Tutti i bambini piccoli lo fanno, prima o poi, no?» «È una facile scappatoia,» dissi. «Ed è passato tanto di quel tempo,» sussurrò. «Che adesso è tornato, tutto quanto.» «Credo di essere contenta,» disse, battendomi una pacca sulla coscia. «Credo di essere davvero contenta che sia tutto finito.»
«Pure io.» «Se n'è venuto dritto dal Montana, no? Tutta una tirata.» «Già.» «Dev'essere sfinito,» disse, e tolse la mano dalla coscia per mettermela tra collo e nuca. «Vada a infilarsi in qualche motel e si faccia una bella dormita,» disse. «Poi torni domattina verso le dieci. Ci vediamo qui. Va bene?» Sbadigliai. «Perfetto.» «Lei è stato così carino con me,» disse. «E con tutti quanti, da Trahearne a Selma a mia madre. È una costante della mia vita, questa, sa. Ogni volta che le cose vanno male arriva sempre qualcuno, e mi tratta molto meglio di quel che merito, gente come lei o Selma o Trahearne, e a modo suo anche il povero Jackson.» «Forse se lo merita davvero.» «Nessuno se lo merita,» disse. «Capita e basta. Ci vediamo domani». Poi si sporse a baciarmi sull'angolo della bocca, un bacio lieve, da sorella, ma sapeva di tisana, di erbe e fiori secchi e acqua sorgiva, fresca e limpida. «Verso le dieci,» ripeté, e la baciai sulla bocca. Le labbra si schiusero, le lingue si toccarono per un breve, elettrico istante, e i suoi occhi spalancati si fecero di un blu scuro e tempestoso. «Mi spiace,» disse, scusandosi per qualcosa che non aveva fatto e che non avrebbe fatto mai, poi saltò giù dal pickup e schioccò le dita a Fireball, che strisciò a fatica da sotto la Volkswagen, e assieme iniziarono a risalire la pista. In quell'improvviso colpo di sonno, mi resi conto che - mi piacesse o no - anch'io mi ero messo in coda davanti a lei, e che della posizione in cui mi ero cacciato non mi fregava un accidente. Mi aveva lasciato ansimante come un cavallo spompo. Nello scendere giù dai tornanti della superstrada del canyon, mi dissi che avrei fatto meglio a stare attento. Il rischio era che le donne di Trahearne mi spezzassero il cuore, o mi cambiassero la vita, oppure mi facessero secco. Mi dissi anche che quello era il momento di tirare il collo all'El Camino e filarmela a nord, verso casa, a tutta manetta. Ma non lo feci. Al posto del pranzo mi sparai qualche drink, ma il sapore della sua bocca mi era rimasto dentro, dolce come l'ostia della comunione, ancora non contaminata dall'asprezza del vino. A metà pomeriggio mi decisi a scendere in un Holiday Inn e a perdere i sensi in un sonno profondo, privo di sogni, con l'ora della sveglia che incombeva come una condanna a morte.
14 Il mattino dopo, il condannato - che aveva dormito come un bambino, e si era tirato a lucido come un teenager che si prepara per un appuntamento - si sbafò la più grossa colazione disponibile all'Holiday Inn, e poi uscì all'aperto per contemplare l'aria lieve e il cielo azzurro degli altipiani. La I25 correva a circa duecento metri a est, però, e il tanfo dei motori diesel mi tolse ben presto la voglia di starmene lì in mezzo al nulla. Un centinaio di chilometri a sud, la grigia nuvola di smog che ricopriva Denver si ingobbiva sulla linea dell'orizzonte come il dorso di una balena. Ma il colpo di grazia all'intera mattinata fu la vista di Trahearne seduto nella sua Cadillac di merda, un ghigno osceno su quel volto di luna piena. Sembrava un bambino, grasso e malvagio. «Che succede?» dissi, cercando di mantenere la calma. «Cazzo, figliolo, sono andato in tutti i motel della zona prima di questo,» fece lui. «Non pensavo che tu avessi il coraggio di scendere in un Holiday Inn.» «Tra i miei migliori amici ci sono proprio gli Holiday Inn,» dissi. «Che ci fa lei qui?» «Ti stavo cercando, che altro?» disse lui. «Dopo la nostra ultima conversazione, ho deciso di venire a trovarti a Meriwether, e al mio arrivo la tua segretaria mi ha detto che te n'eri venuto da queste parti. Così ho raccattato un paio di autostoppisti, che mi hanno dato una mano a guidare tutta la notte, ed eccomi qui...» La voce gli si spense poco a poco, come uno di quei bambolotti parlanti che stanno finendo le pile. «Basta con le menzogne, okay?» dissi nell'aprire la portiera della Cadillac e salire a bordo. «Basta così.» «Non ero in grado di trovarla, senza di te, figliolo,» sospirò. «Non sapevo dove cercare.» «Era già qui, quando mi ha chiamato, vero?» gli chiesi, e lui annuì. «Ed è stato lei a spedire una cartolina a suo padre, vero?» Sollevò il capo e se lo lasciò cadere, pesante, sul petto. «Perché?» «Devo sapere con chi si vede,» borbottò. «Okay,» dissi. «Glielo faccio vedere io.» «Guidi tu?» mi chiese. Non c'era fretta, e così feci il giro del paese. Trahearne non aprì bocca fin dopo una decina di chilometri, quando ci ritrovammo sulla strada di
Laramie, dalla parte opposta del paese. Nel valicare il primo passo, e scendere verso una piccola vallata dietro un crinale a schiena d'asino, cercò di dire qualcosa, ma il vento gli mangiò le parole. «Come?» gli chiesi. «Scusa,» disse. «Le sue scuse sono troppo poco, vecchio,» dissi, e lui attaccò a piangere. «Basta con questa cazzo di lagna,» dissi. Ci dia un taglio. Lo sa cosa mi ha detto, quando le ho raccontato che avevamo visto quel film? «Scosse il capo.» Ha detto "poveraccio". Non se la merita, una donna così, lo sa? «Dio se lo so,» disse. «Perché?» gli chiesi quando lasciammo la 287 per imboccare la strada del Poudre Canyon. «Perché? Che cazzo aveva in testa? Com'è che sapeva dove andare?» «Non avevo niente, in testa,» rispose, «se non ritrovarla. Mi ero ritrovato quaggiù, e non facevo altro che guidare a vuoto e bere, nella speranza di ritrovarla senza davvero cercarla, sai com'è, e quando mi sono fermato al Cottontail, non ho potuto... Be', quella puttanella te l'avrà detto senz'altro.» «Detto cosa?» «Che non mi si rizzava più,» disse inespressivo. «Ma se neanche si ricordava di lei,» dissi. «Questo è ancora peggio.» «Se vuole che si ricordino di lei, vecchio, stia alla larga dai bordelli,» dissi. «Come ha fatto a capitare a Sonoma?» «Una volta se n'è andata a fare un viaggio, e io ho frugato tra le sue cose e ho trovato il ritaglio di un giornale di San Francisco, la recensione di un'allestimento Little Theatre dell'Antigone di Anouilh. Quando sono arrivato al punto in cui si parlava della ragazzina che interpretava la parte della protagonista, ho capito subito che non poteva trattarsi che di lei». Tacque per qualche momento. «L'ho sempre saputo, che non era chi voleva farsi credere,» confessò. «Dal primo istante. Non era mai stata nel sud della Francia, e nemmeno nella Sun Valley, prima di quell'estate. All'inizio sembrava emozionante, sai com'è, il non sapere chi fosse in realtà. Ma poi è diventato come la promessa che mi ha costretto a farle prima di accettare di sposarmi. La novità è svanita subito, e ha cominciato a farmi uscire di senno.» «Che promessa?» feci nel parcheggiare la Cadillac dietro la Volkswagen di Melinda. Fermo più in là c'era anche un malconcio pickup GMC, con tutta l'aria di essere stato ripescato dal fiume dopo un incidente. «Che
promessa?» ripetei. «Che poteva andare e venire a suo piacimento,» borbottò Trahearne. «Che non le avrei fatto domande.» «E lei le ha promesso la stessa cosa, non è vero?» Lui annuì, e si guardò attorno. «Abita qui?» «Chi?» «Lui... l'uomo... l'uomo che frequenta.» «Avevamo fissato di incontrarci qui alle dieci, io e Melinda,» dissi. «Lascerò che sia lei stessa a dirglielo.» «Sei tu, allora,» disse amaro. Un'affermazione, non una domanda. «Sei tu.» «Ma vuol chiuderla, quella cazzo di bocca, eh?» sbottai, per poi scendere dalla macchina, attraversare la strada e andare a guardare il fiume. Che razza di caso. Gli investigatori privati dovrebbero rintracciare persone scomparse e impedire reati. Fino a quel momento gli unici reati dell'intera faccenda li avevo commessi io - ogni cosa, dal furto d'auto aggravato al comportamento criminale - e tutti quanti, esclusi io e la povera vecchia Rosie, avevano saputo sin dall'inizio dov'è che stava Betty Sue Flowers. Avevo la strana sensazione che se non mi sbrigavo a tornarmene a casa il prima possibile, invece di ritrovarmi il conto in banca rimpinguato dai quattrini di Catherine Trahearne avrei finito per consumarmi le suole delle scarpe e svuotarmi le tasche. Più ci pensavo, più mi ci incazzavo. Mi tirai su e attraversai la strada a passo di carica, urlando all'indirizzo di Trahearne. «Glielo mando io il conto, vecchiardo, e me ne frego se le spaccherà il culo, sarà meglio che me lo saldi alla svelta!» «Va bene,» rispose lui mogio. «La finisca di rompere i coglioni,» dissi. «Melinda è in cima alla montagna, da quella donna che già le ha salvato la vita una volta. Con me non sta combinando proprio un bel niente. Anzi, non ha combinato un bel niente proprio con nessuno, da quando ha fatto il colossale sbaglio di innamorarsi di uno sfigato come lei.» «Va bene,» disse, senza credere a una sola parola. E, nel ripensarci, anch'io non ero mica tanto sicuro di crederci. Come fin troppi uomini, io e Trahearne non sapevamo affrontare una donna come Melinda, presi com'eravamo tra la nostra sbadata, casuale passione e il desiderio di avere una donna fedele; un desiderio così primitivo e potente da
pensarlo innato, atavico, incontrollabile come una funzione corporea. Bastò questo per farmi passare l'incazzatura. «Che ore sono?» gli chiesi. «Le dieci e mezza.» «Dovrebbe essere qui tra poco,» dissi. «Facciamoci un sorso di metà mattinata.» Per un attimo parve sconcertato, poi allungò la mano sotto il sedile a caccia della bottiglia. Nello spartirci il whisky, mi chiesi da quant'era che gli uomini si perdonavano reciprocamente la loro stupidità, scolandosi qualcosa di forte. Alle undici - Melinda non si era ancora fatta viva - iniziai a risalire il sentiero verso la casa di Selma, con Trahearne che mi seguiva a modo suo, ovvero ogni dieci passi una fermata, in preda all'affanno. «Vado avanti io,» gli dissi, «e li avverto che sta arrivando, così non resteranno a bocca aperta.» «Io a bocca aperta già ci sono adesso, figuriamoci quando arriverò lassù,» scherzò lui, sempre avanzando. Due tornanti più in su, e ancora riuscivo a udire i suoi respiri ansimanti. Quando raggiunsi la radura, anche ai miei polmoni era toccato fare lo straordinario. Nel fermarmi per riposare un istante, vidi una chiazza scura nella polvere del sentiero, e macchie di sangue rappreso sulle pietre che lo fiancheggiavano. Mi chiesi dove fossero finiti i cani. Dalla parte opposta dello spiazzo, il cancello del canile era aperto, così come le porticine della fila di gabbie. Raggiunsi di corsa il fabbricato principale, ma era vuoto, così tornai all'esterno e vi girai attorno. Un ragazzo stava scavando una fossa con un piccone, e una ragazza era inginocchiata a fianco di un cumulo di cadaveri di cani, uccelli e altri animaletti da pelliccia. Selma era seduta nel punto più lontano della radura, la schiena contro il tronco di un albero di pino, una doppietta sulle ginocchia. «Ma che cazzo è successo?» dissi al ragazzo. Lui trasalì, poi saltò fuori dalla fossa, il piccone sollevato come una mazza. Aveva l'occhio sinistro chiuso e tumefatto, e sputava sangue dai denti spezzati. «Dovrai ammazzarmi sul serio, questa volta, figlio di puttana,» disse, nel saltarmi addosso col piccone. «Ehi,» feci io, alzando le braccia e arretrando. Lui non si fermò. La ragazza di fianco alla tomba iniziò a lamentarsi, a coprirsi il volto con le ma-
ni. «Ehi, aspetta un attimo,» dissi, ma lui continuava ad avanzare. «Calmati, figliolo,» andavo ancora a retromarcia, «io non ho fatto niente.» «Li ha portati lei quassù!» gridò Selma, alzandosi e puntando la doppietta più o meno nella mia direzione. Il ragazzo col piccone guardò alle mie spalle, e io udii lo scalpiccio di piedi sul sentiero pietroso. Non rimasi lì a scoprire cosa significasse quell'improvviso trattenere il fiato; mi buttai giù, rotolando da una parte, cogliendo di sfuggita l'altra ragazza che lasciava partire un colpo con l'accetta che teneva tra le mani. Quando si abbatté proprio sul punto in cui mi trovavo fino a un istante prima, la lama andò a colpire una pietra, e il manico dell'accetta saltò via dalle mani della ragazza. Lei, però, non mi tolse gli occhi di dosso, e con tenace tranquillità si chinò a raccoglierla. Niente e nessuno è in grado di metterti le ali ai piedi come una donna armata di accetta. Scagliai una manciata di terriccio e sassi contro il ragazzo col piccone, riuscii a rimettermi in piedi e mi diressi di gran carriera verso il sentiero, a grandi e veloci falcate. L'accetta mi fischiava sopra la testa e tracciava ampi cerchi in aria, e io aumentai il passo. Quando raggiunsi il limitare del bosco, Selma premette il primo grilletto, e la rosa dei pallini ridusse in brandelli un piccolo pino alla mia sinistra. Mi scansai, e lei mi fece saltar via non so che parte del corpo con la seconda scarica. Fui colpito di striscio in alto, sul lato destro, ma riuscii a non andare giù. Anzi, accelerai ancora, lasciando il sentiero per saltare difilato giù per la collina, tra un albero e l'altro. Il combattimento a distanza ravvicinata è roba che richiede un certo allenamento, a meno che non si preferisca agire d'impulso. D'altra parte, non appena ci si trova nelle peste non c'è più tanto tempo per pensare e giusto il tempo necessario per reagire. Erano ormai passati nove anni dall'ultima volta che avevo guidato una squadra col Primo Cavalleria Aerea negli altipiani del Vietnam centrale, e la guerra del Pacifico cui aveva preso parte Trahearne era roba di altri vent'anni prima. Quando lo pescai sul sentiero, a metà circa della discesa, non eravamo che due tipi in borghese spaventati a morte, una pattuglia d'assalto efficace come un paio di polli senza testa. «Cristo santo, che è successo?» mi chiese senza più fiato. «Non lo so,» dissi, cercando di far mente locale. «Torni giù,» gli feci. «Salti in macchina, prenda la superstrada e faccia un paio di chilometri. Se entro un'ora non sono di ritorno, chiama lo sceriffo.» «Ho una doppietta, nel baule,» disse. «Ce ne sono fin troppe di doppiette, lassù,» dissi. «Faccia quel che le di-
co.» «E tu, cosa intendi fare?» mi chiese con sguardo offeso. Quando gli tornava in mente la guerra, si ricordava anche che laggiù era lui a comandare. «Ritornare su,» disse. «Muova il culo, scenda.» «Fammi venire con te,» piagnucolò. «Si muova,» gli dissi, e lo colpii sulle spalle con la base dei palmi. Il vecchiardo andò a gambe all'aria,e io mi fiondai tra gli alberi, muovendomi in cerchio verso destra, lungo la parte inferiore del crinale, e saltai dritto nel primo canale di scolo, per poi scendere dal versante più lontano della cresta, a circa un centinaio di metri, e iniziare la risalita. Fossi stato in una forma migliore, avrei scelto tutt'altra strada, vale a dire sarei passato da sopra per raggiungere la radura dall'alto. E se avessi avuto un minimo di cervello, me ne sarei andato a casa. Un quarto d'ora più tardi, eccomi strisciare sul ventre nello spiazzo dietro l'edificio principale. Erano in tre, nel punto più lontano, a scrutare tra gli alberi che fiancheggiavano il sentiero: Selma con la doppietta, il ragazzo col piccone e la ragazza fuori di testa con l'accetta, mentre l'altra ragazza sedeva sull'orlo della tomba non finita, con la testa tra le mani. Grondavo sudore a tal punto da non riuscire a capire se perdessi ancora sangue dalla schiena, e a quel punto ero troppo stanco per avanzare ancora a pancia in giù. Mi alzai e mi avvicinai alla ragazza il più silenziosamente possibile, con tutta l'astuzia, la leggiadria e la silenziosità di una vecchia vacca da latte, ma lei si accorse della mia presenza soltanto quando le sedetti accanto. «Niente paura,» le dissi. «Non voglio farti del male.» All'istante, lei mi svenne tra le braccia. La sollevai, tenendomela davanti a mo' di scudo, e gridai per attirare l'attenzione degli altri, che si voltarono e iniziarono ad avvicinarsi. «Ancora un passo e le spezzo l'osso del collo!» berciai con fare melodrammatico. La ragazza si era a tal punto afflosciata che il collo sembrava già essersi rotto per conto suo. Si fermarono tutti e tre, per poi fare un ultimo passo esitante. «Gettate via quella ferraglia!» Il ragazzo, con aria disgustata, fece volare il piccone in terra, e Selma posò la doppietta ai suoi piedi, ma la ragazza fuori di testa continuò a bilanciarsi l'accetta sulla spalla. «Bisogna proprio che la butti, tesoro,» dissi. «Tesoro a me non lo dici, figlio di puttana,» rispose lei con calma, stringendo ancora di più il manico. «La prego, signorina,» ringhiò Trahearne dal sentiero, facendo la sua
barcollante apparizione alla vista dell'intera compagnia, «la metta giù». Era rosso come un tacchino, e la sua camicia era fradicia di sudore, ma camminava bello eretto, con la doppietta più minacciosa che avessi mai visto: roba da sommosse, una vera riot gun, un fucile a pompa Remington calibro 12 con caricatore da 8 colpi, canna da 20 pollici, impugnatura modello revolver e calcio metallico che si ripiegava su canna e serbatoio. Lo conoscevo bene, perché ne avevo uno identico. «La prego,» ripeté. La ragazza lasciò cadere la testa dell'accetta sul terreno, proprio accanto alla sua scarpa da tennis, ma tenne la mano sull'impugnatura. Fin lì poteva andarmi anche bene. Disarmati, Selma e il ragazzo avevano perso ogni spirito bellicoso, le spalle crollate come sacchi vuoti, mentre la ragazza stava ancora ben eretta, con aria di sfida. Riuscì anche a sputare in terra, verso di me. Io non sarei stato capace di sputare, in quel momento, neanche per una questione di vita o di morte. Presi tra le braccia la ragazza priva di sensi e m'incamminai verso il fabbricato principale. «Ma da dove cazzo è saltato fuori?» domandai a Trahearne. «E che ne so,» disse. «Comunque sia, è stato davvero un accidente di camminata». Un sorriso gli ravvivò il faccione sfinito. «Andiamo a sederci in casa,» invitai tutti quanti nell'avviarmi verso la porta con la ragazza in spalla. Mi vennero tutti dietro come tante paperelle. «Sono venuti all'imbrunire,» disse Selma alzando una mano a toccarsi la guancia gonfia, «sono saliti su per la collina. Avevano pistole col silenziatore, e hanno cominciato a sparare ai cani. Hanno ammazzato i cani e alcuni degli animali nelle gabbie, poi hanno portato via Melinda». Si tolse la mano dalla guancia per accarezzare la fronte della ragazza che le dormiva in grembo. La sua voce sembrava così lontana e priva di profondità da oscurare sempre più la stanza a ogni parola. «Benjamin ha cercato di fermarli, ma l'hanno pestato fino a fargli perdere i sensi, e poi sono stata colpita anch'io, quando ho cercato di aiutarlo.» «Avrei dovuto esserci anch'io,» disse amara l'altra ragazza, e batté sul pavimento il manico dell'accetta. «E avrebbero picchiato anche te,» disse piano Selma. «Meno male che non c'eri». Poi riportò lo sguardo su di me. «Melinda continuava a strillare che sarebbe andata con loro senza fare storie, ma quelli continuavano a ridere e a prendere a pedate il povero Benjamin, e a sparare ai cani.» «Hanno sparato anche al bulldog?» chiesi, ma sapevo già la risposta. «Nella pancia,» fece la ragazza con l'accetta, «ma lui e la cagna a tre
zampe erano ancora vivi, stamattina, quando sono venuta via dalla clinica veterinaria della CSU.» «La pagheranno cara, questa,» dissi. «Ah, perché l'aver rapito mia moglie no?» disse Trahearne. «Anche questa, certo,» dissi. «Tutto quanto». Poi mi tirai su. «Quanti erano?» «Quattro,» rispose Selma. «Per caso, ce n'era uno grande e grosso? Un messicano con la faccia rincagnata?» «Sembravano tutti dei giganti,» disse inespressiva Selma, «e avevano il passamontagna.» «Non avete chiamato lo sceriffo, vero?» chiesi. «Hanno detto che se l'avessimo fatto, Melinda sarebbe morta,» rispose lei, «e poi ci avrebbero fatti secchi tutti quanti. Avreste dovuto vederli che sparavano ai cani, ai corvi e ai falchetti e alla lince, nelle gabbie. Gli ho creduto, e così non l'ho chiamato, lo sceriffo». Alzò di nuovo la mano per toccarsi il volto, palpandosi il livido come se la ferita le scendesse giù nel profondo. «Che potevamo fare?» disse lamentosa. «E che possiamo fare?» «Di sicuro posso far qualcosa io, cazzo,» disse minaccioso Trahearne, levando la doppietta come se fosse una sacra icona, lo stendardo di battaglia per la sua jihad personale. «Si dia una calmata,» gli dissi. Lui mi rifilò un'occhiata oscena, poi si alzò in piedi e fece il giro della stanza, guardando in cagnesco la tribù di gatti addormentati. «Perché mi avete aggredito?» chiesi a Selma. «Pensavamo che li avesse fatti venire lei,» rispose. «E perché mai?» «Lei era l'unico a sapere chi fosse Melinda, e dove fosse. Perché è tornato?» «Melinda voleva parlarmi, dirmi cosa dovessi riferire a sua... alla sua madre naturale.» «E cosa intende riferirle?» chiese Selma. «Non lo so,» risposi. «Magari le dirò che ho raggiunto la vetta della montagna e ho visto il profeta, ma ormai mi sembra chiaro che sto diventando troppo vecchio per questa sorta di fesserie». Tentai un sorrisetto scemo, che in faccia al sottoscritto sembrava proprio naturale. «Anche lei è ferito,» disse Selma con un lieve sorriso. «Mi sa che è colpa mia.» «Non è niente,» minimizzai alla John Wayne.
«Stacy,» disse lei alla ragazza con l'accetta, «perché non sistemi la ferita del signor Sughrue?» La ragazza appoggiò l'accetta contro il basso divano su cui era seduta e attraversò la stanza con un sorrisetto imbarazzato. «Ha fatto un anno di veterinaria,» disse Selma. «Per curare me è più che sufficiente,» dissi. «Chi mi ha fatto nascere era proprio un veterinario.» Trahearne scoppiò a ridere. «Accidenti a te, Sughrue. I contadini hanno le scarpe grosse, e va bene, ma le tue sono davvero smisurate,» e rise di nuovo. Stacy mi staccò dalla schiena la camicia zuppa di sangue, aiutandosi con dell'acqua ossigenata e una certa abilità professionale, poi ripulì le ferite. La rosa dei pallini era più ampia di quanto mi fosse parso all'inizio, e si stendeva in cerchio dalla base del collo a metà circa del braccio. «Meno male che non era più vicino,» disse Selma. «Mica ha sputato sangue, eh?» chiese Stacy. «Non di recente,» risposi. «Eviti di fare il simpatico a tutti i costi,» disse lei. Sembrava il consiglio di un vero medico. «Quanti pallini?» chiesi. «Undici,» rispose, appena li ebbe contati tutti. «Di che grana?» «Sette e mezzo,» fece Benjamin. «Acciaio o piombo?» Gli toccò andare ad aprire un cassetto per controllare la scatola delle cartucce. «Acciaio,» disse. «Se ha una qualche pomata antibiotica,» dissi a Stacy, «possiamo anche lasciarli dentro per qualche giorno.» «Ho qualche specillo, e un anestetico locale che mi serve per gli animali,» disse lei. «Potrei mettergliene un po', estrarre tutto quanto e suturare le ferite.» Voltai la testa per guardarla. Zigomi alti, pelle scura e occhi castano scuro. Non l'avessi vista in azione con quell'accetta, l'avrei presa per un tipo fragile. «Che cazzo stiamo a perdere tempo,» dissi. Lei andò a prendere la borsa. Mentre Stacy mi sistemava, Trahearne riuscì a spedire Benjamin in fondo alla collina a prendere la bottiglia di whisky. Per lui, mica per me. Ma quando il ragazzo fu di ritorno, una sorsata me la feci lo stesso. Appena Trahearne si fu dissetato per la seconda volta, me la feci restituire e la ten-
ni fin quando Stacy non ebbe terminato di affettarmi la schiena. Concluse con del cerotto sulle suture, così che non restassero impigliate nella stoffa della camicia, e mi batté una lieve pacca sulla schiena. «E adesso?» mi chiese. «Andiamo a riprenderci la signora.» «Sai dov'è?» fece Trahearne ansioso. «So come fare a scoprirlo.» «Le serve una mano?» chiese Benjamin. «Giusto,» disse Stacy. «Andiamo tutti,» fece Selma, e la ragazza che le riposava in grembo si stiracchiò. Che storia romantica. Una banda di sciagurati, ma di animo nobile, che vanno al salvataggio della principessa. Giuro che ci pensai anche su, per un secondo, ma eravamo già abbastanza nei casini senza di loro. «L'hai fatto il militare?» chiesi a Benjamin. «No, signore,» rispose, e abbassò il capo. «Allora resta con Selma,» dissi, «e dalle una mano a risistemare le cose quassù.» «Neanche io l'ho fatto,» disse Stacy con pesante ironia, «ma so essere più stronza di tutti i Marines sulla faccia della terra, perdio.» «Puoi essermi utile come esca,» dissi, «ma ti toccherà fare la carina con un tipo schifoso.» «E che ci vuole,» rispose lei sorridendo. «Ho passato la vita, a far di queste cose.» «Paura?» le chiesi. «Sicuro,» rispose, «ma sono troppo incazzata per farci caso.» «Non sarà una passeggiata,» dissi. «Caro mio, potrei raccontarle di certe cose che le farebbero rizzare i capelli in testa,» disse. «Okay,» feci. «Sei dei nostri.» «La tenga d'occhio,» mi disse Selma a bassa voce. «Andrà tutto bene,» disse Stacy, col chiaro intento di farmi sapere che a tenersi d'occhio ci avrebbe pensato da sola. «State attenti, tutti quanti,» disse ancora Selma. «Be', questo dovrebbe essere il mio lavoro,» dissi io, e la cosa mi fece scappare da ridere. Ma non credo fosse una gran risata di gioia. Girai lo sguardo per tutta la stanza, e tutti lo evitarono. Eccetto Trahearne, che aveva un'aria infinitamente depressa.
Nel ridiscendere il sentiero - io, Stacy e Trahearne - a un certo punto il vecchiardo si fermò a riposare, appoggiandosi a uno spuntone di roccia. «Cos'è che facciamo, allora?» mi chiese, e mi affibbiò una manata sulla spalla. «Prima cosa, smetta di prendermi a botte là sopra,» dissi, con aria scherzosa, ma lui ci restò male. «Scusa,» fece. «E che cazzo, è da quando è finita la guerra che non ne ho combinata una giusta.» «È arrivato fin su con quella doppietta,» dissi. «Era già finito tutto, quando sono arrivato io,» rispose, guardandomi. «Pensi di aver bisogno di me, o no?» «Ma certo,» dissi. «Soprattutto delle sue carte di credito.» «E io, che aiuto dovrei fornire?» chiese Stacy. «Il richiamo del tuo giovane corpo,» dissi io. «Be', vergine non lo sono più da un pezzo,» sbottò lei disinvolta, e si avviò giù per la discesa. Ecco i risultati di un frenetico pomeriggio a Denver: prese due macchine a noleggio, comprato un vestito nuovo per Stacy e una parrucca con baffi finti per me, trovata una camera di motel a pianterreno nei pressi dell'aeroporto, con ingresso indipendente. Riuscimmo a procurarci tutto quanto in tempo per accompagnare Stacy - così tirata a lucido che dimostrava sedici anni invece dei ventiquattro indicati sulla sua patente - al Tricky Dicky, il bar di spogliarelli sulla Colfax frequentato da Jackson. Che si fece vivo subito, tutto poliestere e sorrisi, per spararsi il solito vodka Martini e la solita razione di tette al termine di una giornata di lavoro. E purtroppo, come temevo, era in compagnia di uno scagnozzo. Stacy si era comportata alla grande, tosta e scafatissima. All'inizio il barista non voleva credere ai suoi documenti, e lei gli aveva rotto i coglioni alla morte, per farsi servire un drink. Lui non era così sicuro di volere nel suo locale una zoccola mai vista prima, ma la ragazza lo sistemò ben bene, e andò a esibire la sua mercanzia alla lunga fila di maschi non accompagnati fin quando l'uomo non si convinse. Quando Jackson fece le sue avances, Stacy lo tenne un po' sulla corda. «Ascolta, amico, sono in cerca di lavoro,» gli disse, «mica di compagnia. Non voglio bravi cittadini, né puttanieri, né commessi viaggiatori. Okay?»
«Che razza di lavoro vai cercando, tesoro?» le chiese Jackson. «Lo stesso che facevo all'est,» rispose lei, «ma poi il tempo, laggiù, mi ha dato alla testa.» «Il tempo?» «La pressione, amico. Alta pressione.» «Ah sì,» disse lui, come se avesse capito tutto quanto fin dal principio. «Certo, alta pressione. Ma che... ma che razza di lavoro era?» «Film, amico, e che cazzo,» rispose lei. «Ma che ti pensavi? Assegni a vuoto? Farsi di crack? Fuori dalle palle, levati di mezzo, okay?» «Ascolta, pupa,» disse lui, facendosi più sotto, con la scusa di far vedere al barista il suo bicchiere vuoto, «io ho qualche amico, qualche socio in affari, che certe volte fa di questi film. Così, per spasso.» «Spasso, e quattrini,» fece beffarda Stacy. «Preciso, ragazzina.» «E immagino che vorrai controllare la mercanzia, prima di mettermi in contatto con questi amici tuoi, vero?» «Perché no?» «Eggià». Stacy sbuffò. «Togliti dai piedi, amico. Se vuoi un campione gratuito, chiama la tipa della Avon.» «Io, ah, non ho problemi a pagare,» disse Jackson circospetto. «Una cento per il servizio completo,» disse subito Stacy. «Mi sembri proprio il tipo che ne ha bisogno.» «Una cento!» esclamò Jackson a voce così alta da far voltare il barista e quasi tutti i clienti. «Se la merce è troppo cara, amico, fuori dal negozio,» ribatté lei, mostrandosi subito molto concentrata sul suo drink. Ignoro come avesse fatto, Stacy, a capire che con Jackson ci volevano le maniere forti invece delle solite moine delle puttane, ma in questo caso funzionò a meraviglia. «Sicuro,» disse Jackson. «Affare fatto. Andiamo.» «Prima vediamo la grana,» disse Stacy senza neanche guardarlo. A quel povero disgraziato toccò farsi cambiare un assegno e beccarsi il sorrisetto laido del barista. Tornò con i soldi, li porse a Stacy e si scolò il terzo Martini. «Tienili tu,» disse la ragazza. «Volevo solo vederli.» «Ho la macchina qua fuori,» disse, facendo grandi sforzi per sembrare disinvolto. «Sto in un motel vicino all'aeroporto,» disse Stacy. «Filiamocela.» «Giusto,» disse Jackson, e si rivolse al suo scagnozzo. «Forza, amico,
andiamo.» «E questo chi cazzo è?» chiese Stacy, fermando la mano di Jackson. «Il mio autista,» rispose lui altezzoso. «Viene a reggerti l'uccello?» fece lei. «Torno subito,» disse Jackson. L'uomo si rimise a sedere e ordinò un altro drink. Mi tolsi dagli occhi i riccioli della parrucca e seguii i due all'esterno. Adesso veniva l'unico momento in cui avevo detto a Stacy di seguire alla lettera le mie istruzioni. Non volevo che salisse in macchina con Jackson. «Ehi, amico,» fece lei. «Ho una macchina a noleggio proprio qui. Perché non vieni con me?» «Ti riporto indietro,» si offrì lui, magnanimo. «Metti che io non voglia tornare qui.» «Quando avrò finito con te, tesoro, mi verrai dietro come un cagnolino,» insistette Jackson, spingendola nella sua Cougar. Dal marciapiede, li guardai andarsene, chiedendomi dove cazzo fosse finito Trahearne, con l'altra Ford a noleggio. Mi detti dell'idiota per essermi fidato del vecchiardo, che aveva voluto aspettare fuori, per non essermi fatto dare una chiave di riserva per la Ford di Stacy. Cinque minuti dopo, Trahearne si decise a farsi vivo, rosso come un gambero, la bocca contorta in un sorrisetto di scuse. «Partiti, eh?» borbottò, mentre gli aprivo la portiera e lo scalzavo dal posto di guida. «Ma dove cazzo è stato?» gli chiesi, nel partire a tavoletta e svoltare in derapata su tutt'e quattro le ruote. «Ascolta, figliolo, c'eravamo scordati il whisky sull'altra macchina,» disse lui, agitando una bottiglia di vodka, «e io avevo bisogno di bere qualcosa. Siamo troppo vecchi per fare di queste stronzate senza un goccetto nello stomaco. Così ho fatto il giro dell'isolato per comprare una bottiglia. Che cazzo di differenza avrà fatto mai.» «Jackson non ha voluto seguirla,» dissi nel bruciare un semaforo col giallo, un istante prima di un autobus. «Stacy è sulla macchina di Jackson, e se non li troviamo al motel, se lui l'ha portata a casa sua o da qualche altra parte, vecchio, giuro che le spacco il culo, e glielo spacco sul serio.» «Cazzo, C. W., come facevo a saperlo?» si lagnò lui, e di colpo cambiò tattica, con quell'impacciata abilità che gli ubriaconi scambiano per brillante ingegno. «Per la miseria, figliolo, quella ragazza sa benissimo cavarsela da sola. Puoi starne certo». Poi mi mollò l'ennesima manata sulla spalla,
tanto forte da farmi riprendere a sanguinare le ferite. Mi strappai la parrucca e la gettai sul pavimento della macchina, ai suoi piedi. Lui la raccolse e soppiò a ridere, reggendola come fosse una pelle appena strappata a un castoro. «Facevi veramente schifo, sai,» disse, e se la mise in testa a mo' di copricapo. «Invece su di me sta a meraviglia,» fece, e rise di nuovo. Allungò la mano e mi strappò i baffi finti, per sistemarseli di sbieco sopra le labbra. «Che ne dici?» chiese, sogghignando. «Forza, che cazzo, non essere così serio,» disse, quando mi vide far scena muta. «Beviti un goccio e datti una calmata». Mi stuzzicò con la bottiglia. In effetti, altro da fare non c'era. «Hanno preso la mia Melinda, figliolo, e non so proprio cosa fare,» disse, mentre gli restituivo la vodka. «Non so proprio cosa fare.» «Provi a fare quello che le dico io, una volta tanto.» «Sei tu il capo,» disse, «ma sarà bene che tutto vada per il meglio.» «Fantastico,» dissi, tagliando da una stazione di servizio per infilarmi dalla Colorado sulla trentaduesima. Quando arrivammo al motel, la Cougar color prugna era parcheggiata davanti alla stanza di Stacy. Lasciai Trahearne in macchina con l'ordine di aspettare, e passai dalla stanza accanto, e dalla porta comunicante. Jackson era già sul pezzo. Gli occhi di Stacy avevano un'aria implorante, sopra quella spalla grassa e foruncolosa. Prima che riuscissi ad attirare l'attenzione dell'uomo ficcandogli una .22 silenziata nell'orecchio, lui attaccò a grugnire e a lamentarsi, e gli occhi della ragazza si riempirono di lacrime. Lo randellai alla base del collo col calcio della pistola, lo strappai dalla ragazza e lo gettai sul pavimento, infine lo riempii di pedate nello stomaco, con tanta energia da storcermi la caviglia. Poi feci per ricominciare con le pedate, ma Stacy saltò giù dal letto e mi prese per un braccio. «Tutto a posto,» disse, «tutto a posto. Non importa». Mi scosse il braccio con forza. «Non importa. Davvero.» «Siamo arrivati tardi. Mi spiace,» dissi. «Non importa,» ripeté lei. «Importa a me,» dissi. «È tutta colpa mia,» si scusò Trahearne con fare magniloquente, entrando dalla porta comunicante. «È tutta colpa mia, tesoro, ma non c'era verso di fare altrimenti.» Stacy gli lanciò una sola occhiata, poi fece un solo passo, e gli mollò un tale ceffone che il vecchiardo finì quasi a gambe all'aria. «Razza di disgraziato ubriacone,» sibilò, e lo prese di nuovo a schiaffi.
«Ma che ho detto?» si chiese a voce alta Trahearne, mentre la ragazza si precipitava nell'altra stanza. Poi vide Jackson, nudo, sul pavimento. «Gliele metto io le mani addosso a quel figlio di puttana,» ruggì nell'accostarsi a Jackson. Lo colpì proprio sulla spalla col calcio della pistola, e lui finì seduto sul letto. «Cristo,» borbottò. «Stia seduto lì e chiuda il becco,» dissi. «Puttana la miseria, è mia moglie che hanno preso, brutto figlio di troia, è mia moglie.» «Se non chiude quella bocca,» gli dissi, «si ritroverà a essere la sua vedova. Non le avevo detto di restare in macchina?» «È mia moglie,» fu tutto quel che riuscì a rispondere. Poi si mise comodo sul letto, e continuò a sospirare. «Mando sempre tutto a puttane.» Presi un rotolo di nastro adesivo e legai caviglie, ginocchia, polsi e gomiti di Jackson, poi gli ficcai un calzino sporco in bocca e lo tenni fermo con un giro di nastro attorno al collo. Nel mentre, udii Stacy che si lavava i denti e si faceva una doccia nel bagno della stanza accanto. Il rumore durò abbastanza per attrarre l'attenzione di Trahearne. «Non ne faccio una giusta,» riprese a lagnarsi. «Le ho detto di stare zitto,» feci. «Muova il culo e mi dia una mano a sistemare questo pezzo di merda.» «Sissignore,» disse, per poi scoppiare in risolini e coprirsi la bocca con un dito. Sembrava di avere a che fare con un bambino. Solo che aveva cinquantasette anni e pesava quasi centoventi chili. Non capivo dove la trovassero, tutta quella pazienza, Catherine o Melinda. Cazzo, neanche riuscivo a capire dove la trovasse lui, l'energia per scassare il cazzo in quel modo. Finalmente scese dal letto, afferrò Jackson sotto le ascelle e, prima che potessi intervenire, lo portò in bagno e lo infilò nella vasca. «Andava bene, signore?» disse con un sorriso alla Gary Cooper che, non so come, su quella faccia da luna piena era quasi appropriato. Schizofrenia: ecco la parola mancante. Da sobrio, e in certe fasi di ubriachezza, Trahearne era uno squallido vecchiardo con un carattere di merda, ma in altre fasi delle sue sbronze, si rivelava un bambino schizofrenico di cinquantasette anni e centoventi chili. «Basta che si levi dai coglioni, adesso,» gli feci. «Adesso sto bene,» disse. «Lo so, che mi sono comportato da idiota e da stupido, ma adesso sto bene. Abbiamo del lavoro da sbrigare, lo capisco, e prometto di non bere più così tanto, anzi di restarmene sobrio. L'ho già fatto in altre occasioni. Proprio come te. Quindi puoi capirmi.»
«Allora si tolga di mezzo,» dissi. «Sicuro,» rispose, con fare sobrio come quello di un Oliver Wendell Holmes. «Lo spettacolo è il tuo.» «E adesso?» chiese Stacy entrando nel bagno. Indossava jeans e una felpa nera. «Tornatene in camera,» dissi. «Siamo tutti nella stessa barca, amico,» disse lei, di colpo risoluta, «e visto che mi è toccato scoparmi quel verme, ho il diritto di stare a guardare, se gli fai saltare le cervella. Me lo sono guadagnato. Cazzo, sarebbe un vero raggio di sole, nella mia vita.» «You are the sunshine of my life,» intonò Trahearne, e si attaccò alla bottiglia. «Dammene un po' anche a me,» disse Stacy, e gli strappò la vodka dalle mani. Risi senza volerlo, e scossi il capo senza starci tanto a pensare. Quando guardai Jackson in faccia, aveva l'aria di uno che è capitato tra le grinfie della famiglia Manson, e non potevo dargli torto. «Hai intenzione di dirmi dove l'avete messa?» gli chiesi, e lui commise l'errore di fare spallucce. «Portami l'elenco del telefono,» dissi a Trahearne. «L'elenco del telefono?» Stacy passò in camera da letto e tornò col volume. Sollevai i piedi di Jackson e li appoggiai sul grosso tomo. I genitali gli si erano come appallottolati, all'inguine, e sembravano un qualche organo vitale scivolato via dal corpo. Mi alzai in piedi, e mi tolsi la .22 dalla cintura. «Non lo sai, dov'è?» gli chiesi. Lui fece di nuovo spallucce. «Okay,» dissi. Mi lasciai penzolare la pistola in mano, in attesa del rombo di un jet che avevo udito avvicinarsi e passare sopra l'albergo. «Ultima chance,» dissi, prima che il frastuono gli impedisse di sentirmi. Ennesime spallucce. «Lo sai che non ho nessuna intenzione di ucciderti, vero?» Lui scosse il capo, ma sorrideva con gli occhi. Sarà anche stato un pezzo di merda, Jackson, ma aveva due palle così. Oppure aveva più paura dei suoi soci in affari che del sottoscritto. Grave errore. Quando il jet in fase d'atterraggio passò proprio sopra il motel, mi chinai e gli sparai due colpi dritto nel piede destro. Elenco del telefono e vasca da bagno si riempirono di sangue, tanto rosso quanto era bianco il volto di Jackson. «Cristo santo,» borbottò Trahearne ficcando la testa nel cesso. Stacy si sporse sul lavandino e vomitò in un unico, rapido movimento.
«Sto benissimo,» disse nello sciacquarsi la bocca. «Sparagli ancora, a quel cazzone.» «Non c'era mica bisogno di due colpi,» disse Trahearne. «Uno per attirare la sua attenzione,» dissi, «e l'altro per fargli sapere che faccio sul serio». Poi abbassai lo sguardo su Jackson. «E faccio proprio sul serio, sai com'è». Senza aspettare di vedere se mi credeva, lo tirai su e gli ficcai l'elenco del telefono sotto il culo. «Capito?» Lui annuì in fretta. «Questa storia non mi piace,» disse Trahearne. «Allora, fuori di qui,» dissi senza voltarmi. Lui non si mosse. Io detti un colpetto al mento di Jackson col silenziatore. «Adesso, la prima cosa che ti devi mettere bene in testa è che in questa città, tu, hai chiuso. Questa parte della tua vita è terminata. O te ne esci di qui cadavere o te ne vai dopo avermi detto dov'è finita Betty Sue. E visto che i tuoi amici non ne saranno entusiasti, è ovvio che questa parte della tua vita è terminata. Fattene una ragione, e subito. Okay?» Non si limitò ad annuire, ma agitò il capo come un matto. «Adesso ti tolgo il bavaglio, e tu non farai neanche un rumore piccolo così. Okay?» Non appena smise di dimenare la testa, presi il mio coltellino da tasca, tagliai il nastro che fermava il calzino e glielo tolsi di bocca. Lui si lamentò con commendevole autocontrollo. Sfilai la bottiglia di vodka dalla mano di Trahearne e feci bere a Jackson una veloce sorsata. «Adesso ci dici dov'è Betty Sue?» «Sissignore,» sussurrò. «E dove?» «Questo tipo per cui lavoro, il signor Hyland, penso che lei l'abbia già incontrato una volta, a Fort Collins, insomma, lui ha una casa tra la Evergreen e la Conifer, un villone in mattoni rossi, stile coloniale, sul lato ovest della strada, su un terreno di circa un ettaro. Impossibile sbagliare. Laggiù, salta all'occhio come nulla, e poi c'è anche il suo nome sulla cassetta della posta.» «E lei è in quella casa?» «Sissignore.» «Che sistemi di sicurezza ci sono?» gli chiesi. «Sicurezza?» rispose Jackson, con aria parecchio confusa. Gli offrii una nuova sorsata di vodka. «Quanti uomini ci sono, a guardia di quel posto?» «A guardia di quel posto?» chiese. «Oh, be', certo, quando girano...» «Girano?» lo interruppi. «Sì, certo, quando girano un film,» mi spiegò Jackson. «in questi casi, il
signor Hyland tiene un uomo al cancello e manda un altro a perlustrare la proprietà. Per tener lontani i ragazzini del vicinato, capisce. Tutta gente che non ha rispetto per la proprietà privata. Così il signor Hyland, quando girano un film, fa tener d'occhio la situazione a Petey e Mike.» «E il messicano, quel tipo grande e grosso?» «Torres? Lui è la guardia del corpo del signor Hyland, e gli sta sempre alle costole,» disse Jackson. «Non pensano che potremmo cercare di riprendercela?» chiesi. «Secondo me neanche sanno chi siete,» disse Jackson cercando di mostrarsi il più possibile rispettoso. «Io, per esempio, lo ignoro.» Non sembrava il caso di mettersi a spiegare chi fossimo, e nel guardarmi attorno in quel bagno affollato cominciai anch'io ad avere qualche dubbio. «Come hanno fatto a sapere dove si trovava Betty Sue?» chiesi. «Suo padre, sa, quel tipo di Bakersfield,» disse Jackson. «Abbiamo degli amici in comune, e ha ricevuto questa cartolina. Noi si pensava che fosse morta, insomma, è la voce che girava un sacco di tempo fa, ed è quel che anche lei ha detto al signor Hyland quando l'hanno pestata. Fatto sta che quando gli amici del padre ci hanno chiamato per dirci della cartolina, Mike è volato fino in Montana e vi ha seguito.» «Fantastico,» dissi. Neanche mi detti pena di voltarmi per incenerire Trahearne con lo sguardo. Lui bestemmiò sottovoce e tornò nella camera da letto. «L'hanno rinchiusa da qualche parte?» «Non credo,» disse Jackson. «Stanotte girano.» «Stanotte?» «Già. L'attrezzatura la noleggiano per usarla di giorno nell'agenzia pubblicitaria di Hyland, e così gli tocca girare di notte.» «Pure tirchi, quei figli di puttana,» borbottò Stacy. «C'è una recinzione, là attorno?» chiesi. «Sì, metallica,» rispose lui. «E cani?» «Cani?» «Cani da guardia.» «No, niente del genere,» rispose. «Hyland non sopporta i cani.» A proposito. «C'eri anche tu, quando sono andati a prendere Betty Sue?» «Ho solo fatto da autista, ecco tutto,» disse. «Sono rimasto ad aspettare ai piedi della collina. Mica la prendo per il culo, amico, non su una cosa del genere.» «Lascia perdere,» dissi. «Ascolta, adesso ti slego le mani, così puoi di-
segnarmi una piantina della zona e della casa, va bene?» «Posso avere un altro po' di vodka, prima?» chiese. «Sicuro,» dissi, poi tagliai il nastro e gli lasciai tenere la bottiglia. Quando ebbe finito, si mise il blocco sulle ginocchia e iniziò a disegnare. «Fa' del tuo meglio,» gli dissi. «Ci provo,» borbottò, leccando la punta della matita con la lingua impastata. «Fa' conto di doverti salvare la pelle,» gli rammentai, e lui si mise sotto con ritrovate energie. Alla fine, mi porse il risultato. Niente male. «Solo tre porte?» chiesi. «Anteriore, posteriore e garage? Niente sul patio, né porte scorrevoli, né porte finestre?» «Esatto,» disse. «Dov'è che girano?» «In questa camera da letto, a pianterreno,» disse, indicandola con la gomma della matita. «Okay,» dissi. «Finora è andata benissimo. Adesso ti lascio qui in compagnia di questa signorina...» «Io non intendo restare qua dentro un minuto di più,» disse Stacy. «Come ho appena detto, adesso ti rinchiudo nel baule della nostra macchina, e se tutto va bene domattina ti mettiamo sul primo aereo.» «Non potreste semplicemente portarmi all'ospedale?» chiese. «Non chiamerò nessuno.» «Me l'hai già messo nel culo una volta,» dissi, «e quindi passerai la nottata nel baule della macchina.» «Capisco,» rispose lui. «Bravo,» dissi, e gli ripulii il piede. Entrambe le ferite erano nette, e il sangue aveva quasi cessato di uscire. «Secondo lei è conciato parecchio male?» mi chiese mentre glielo fasciavo. «Passerai zoppo il resto della tua vita,» dissi. «Così impari a mentire». Lui annuì come se capisse benissimo una giustizia del genere. «Ti spiace passarmi i suoi vestiti?» chiesi a Stacy. Lei sbuffò, ma andò a prenderli, poi li gettò sul pavimento e se ne tornò in camera da letto. «Perché hanno fatto tutto questo casino?» chiesi a Jackson mentre si rivestiva col mio aiuto. «Ne valeva così tanto la pena?» «Quello che li ha fatti davvero incazzare è stata la faccenda dei quarantamila dollari,» disse infilandosi a fatica i calzoni. «I quarantamila dollari?»
«Ah, di questo non sapeva nulla?» disse Jackson con un sorrisetto di superiorità. «Spara.» «Quando Betty Sue è sparita, si è fregata una bella quarantamila dalla cassa, e il signor Hyland ha dovuto rimetterceli di tasca sua. Quello che farà è rimettere sul mercato la ragazza fin quando non gli sembrerà di aver avuto indietro i suoi quattrini, e poi andrà a scaraventarla in qualche pozzo di miniera.» «Che bella gente,» dissi. «Soltanto affari,» disse Jackson. Invece di fargli saltar via la dentiera, gli detti due pastiglie di codeina avanzate dall'ultima visita in Colorado. «Che roba è?» «Per il dolore,» dissi. «Sembra incredibile, ma non è che mi fa questo gran male,» disse, premendo l'avampiede sul pavimento del bagno. «Butta giù quelle cazzo di pastiglie,» dissi, e lui ubbidì. Non facemmo in tempo, io e Trahearne, a portarlo alla macchina e ficcarlo nel baule con una coperta e un cuscino, che Jackson aveva già iniziato ad annuire con la testa e a chiamarci Mamma. «Che gli succederà?» chiese Trahearne mentre chiudevo lo sportello del baule. «Se siamo ancora vivi, domattina, gli diamo un po' di vantaggio sui suoi amici,» dissi. «Ma se siamo morti, o in galera o in ospedale, ci sta che in quel baule finisca per restarci secco. Cazzo, anche se tutto va come deve andare, mica è detto che lui non ci lasci le penne lo stesso.» «E non ti dà fastidio, questa cosa?» «Neanche un po',» dissi. «Quello è un pezzo di merda, amico, e mi ha raccontato un sacco di balle. Io qualche chance gliel'ho data, e lui ha continuato a mentire, quindi per me può andare a fare in culo.» «Anch'io ti ho mentito,» disse Trahearne voltando lo sguardo sulle luci a intermittenza dell'aeroporto. «Vero, ma c'è una bella differenza tra lui e lei,» dissi. «Sarebbe?» «Lui, vale la pena farlo secco, mentre lei no,» risposi, per poi rientrare in camera e lasciarlo là fuori. 15
Come tutti, anch'io avevo visto troppi film. La casa di Hyland me l'aspettavo come una vastissima proprietà, una fortezza difesa da alte mura e un massiccio cancello sorvegliato da un manipolo di uomini dotati di armi automatiche; in realtà era soltanto una normalissima costruzione in mattoni rossi, abbastanza grande, circondata da una recinzione metallica di un metro e venti. Accanto al cancello, che però era aperto, c'era un tizio, appoggiato a un pilastrino, che si stava con ogni evidenza annoiando a morte. Passandogli accanto, alla luce dei fari, lo riconobbi come un tale che avevo già visto bersi un caffè in un punto di ristoro per camionisti a Sheridan, Wyoming. Anche lì, di guardia, sembrava sempre un camionista dagli occhi cisposi, dai piedi gonfi e dalle emorroidi scatenate. Io, d'altro canto, mi ero vestito per l'occasione, e sembravo un mercenario in stivaletti da giungla e mimetica tigrata, oltre a essermi addirittura tinto il viso di nero come si usa nei combattimenti notturni. In più ero armato fino ai denti: coltellaccio K-bar assicurato al polpaccio, calibro .38 Airweight in una fondina alla spalla e nella cintura la .22 Colt Woodsman silenziata. «Vai a caccia di orsi, figliolo?» sghignazzò Trahearne mentre passavamo davanti al cancello di Hyland. «Sempre pronti,» dissi. «Questo è il mio motto.» «Discorsi da boy scout,» mi sbeffeggiò. «È solo geloso perché lui non ce l'ha, un'uniforme,» disse Stacy prima che potessi rispondere io. Questo bastò a chiudere il becco al vecchiardo. La ragazza mi lasciò dietro la prima curva a nord del cancello di Hyland, e io risalii il canale di scolo fino a raggiungere l'angolo della recinzione. Poi lo scavalcai, e proseguii lentamente a pancia in giù verso il retro della casa, cercando di scorgere l'altro uomo di guardia. Lo trovai che sbirciava da una fessura dei tendaggi scuri che coprivano una finestra della camera da letto. Certa gente non ne ha mai abbastanza, di certe cose. Anche se l'aria di montagna era fredda, il condizionatore andava a tutta palla. Approfittai del rumore per arrivare alle spalle dell'uomo senza farmi sentire. Era proprio un peccato, guastargli così la festa, ma lo randellai lo stesso, poi lo legai come un salame. Quando lo ebbi sistemato ben bene, presi il suo posto alla finestra. La stanza pullulava di luci da set, il cui calor bianco sembrava ancora più intensificato dall'enorme specchio posto sopra il letto gigante. Su uno sgabello sedeva una donna di colore, nuda, che con una mano si faceva vento e con l'altra si fumava una canna. Sul letto, un tipo biondo e abbron-
zato stava sperimentando un servizietto da parte di una giovane tettona in top e pantaloncini, la cui testa si alzava e abbassava sull'inguine dell'uomo con aria di irata esasperazione. Di fianco alla macchina da presa c'erano due altri tipi che chiacchieravano e si facevano uno spinello, mentre un tizio basso e grasso andava su e giù per la stanza parlando da solo. Su un divano immerso nell'ombra dietro le luci, Hyland e Torres sedevano accanto a una donna dall'immane capigliatura bionda, truccatissima, con una sottoveste assai esigua e un'espressione attonita. In una mano, Hyland reggeva un alto bicchiere ghiacciato. L'altro braccio riposava con fare casuale sulle spalle della donna, e la mano le accarezzava con metodo il seno, come a volerle far fare esercizio. Fu solo quando riportai gli occhi sulla donna che riconobbi Melinda. Voltai lo sguardo il più lontano possibile. Eravamo rimasti d'accordo, quando avessi raggiunto il cancello, che Stacy avrebbe fermato la macchina lungo la strada per chiedere indicazioni all'uomo di guardia, ma quando finii di fare il giro della casa per andare ad attendere l'arrivo della ragazza, scoprii che il tizio era perduto in un mondo tutto suo. Gli scivolai alle spalle e misi a nanna anche lui. Quando Stacy fermò la macchina, uscii dall'ombra e le feci segno di entrare nel vialetto. Lei spense i fari e s'infilò dentro. «Aspetta un istante,» le dissi. «Giusto il tempo di incartare anche questo.» Lei tirò il freno a mano e mi seguì dietro i cespugli. Mentre mi sporgevo per finire di legare le caviglie di quel tale, Stacy mi sfilò lo sfollagente dalla tasca posteriore, e prima che riuscissi a fermarla, gli aveva già fracassato il naso, fatto saltare qualche dente e fatto spuntare tra gli occhi un bozzo grosso quanto una noce. «Cristo santo,» borbottai nel toglierle lo sfollagente di mano. «Così impara ad ammazzare i cani, quel figlio di puttana.» Poi se ne tornò alla macchina, e a me toccò frugare dietro il bavaglio che gli avevo appena messo, a caccia di frammenti di dente, per impedirgli di morire soffocato. Era tutto tempo perso. Gli tolsi direttamente il bavaglio. Tanto, la bocca gli avrebbe fatto così male da impedirgli di fare il benché minimo rumore. Ammesso che si risvegliasse. Il bozzo in mezzo agli occhi aveva un'aria tremenda; forse sarebbe bastato quello a farlo secco, e sapevo che Stacy non aveva questo gran bisogno di un morto sulla coscienza. Era stata una giornataccia, quindi risalii il vialetto sul parafango della macchina, poi saltai giù e svitai le valvole dei pneumatici del furgone Dodge da tre quarti di tonnellata, oltre che della Continental nera. Con le
gomme a terra, quei veicoli avevano un'aria comica, ma ero troppo stanco per sorridere. Mentre Stacy faceva inversione di marcia per puntare la macchina verso l'uscita, con le chiavi che avevo sottratto all'uomo di guardia tentai di aprire la porta del garage che dava in cucina. Non era chiusa. Lasciai cadere le chiavi sui gradini e tornai indietro, a dare istruzioni a Trahearne e alla sua doppietta. «Lei resti fuori,» gli dissi nel controllare di nuovo che non avesse il colpo in canna. «Non entri in casa a meno che qualcuno non cominci a sparare. Se per caso lei dovesse entrare, cerchi di non sparare a nessuno fin quando non è certo di chi si tratta. Capito?» «Ma va' a fartelo schiantare nel culo.» «Non mi rubi le battute.» Lui mi guardò storto. «Comandavo un plotone a Guadalcanal quando tu eri ancora in fasce.» «Resti fuori, e basta,» gli dissi, «e cerchi di rimuginarci il meno possibile.» Lui grugnì, in quella che mi parve la cosa più simile a un cenno di assenso da parte sua. Cambiai il caricatore della .22 per avere a disposizione tre colpi a pallini, oltre i sei proiettili a punta cava, poi presi dalla macchina una Browning 9mm automatica, per Stacy, le feci scivolare un colpo in canna e lasciai il cane sollevato. «Se ce n'è bisogno,» le dissi, «impugnala come ti ho fatto vedere, e mira alle ginocchia. Poi continua a premere il grilletto finché il caricatore non è vuoto». Lei annuì, respiro un po' affannoso e occhi sbarrati. «Sicura che ancora te la senti?» «Facciamolo, prima che cambi idea,» disse, e mi seguì dentro casa. Avanzammo tra le stanze buie, e Stacy mi coprì mentre tranciavo i fili del telefono, cosa che mi ero scordato di fare all'esterno. Ogni volta che mi guardavo alle spalle, la vedevo accucciata, la pesante automatica nella mano destra, la sinistra a sorreggere il polso destro, la pistola che teneva sotto tiro l'intera stanza in ampie, fluide arcate. Troppi film, anche lei. Speravo solo che in caso di necessità sarebbe riuscita a premere il grilletto. Dopo aver controllato entrambi i piani e aver trovato tutte le stanze vuote, ci fermammo ai piedi delle scale per riprendere fiato, poi ci avviammo giù per il corridoio verso la camera da letto che fungeva da set. Alla porta, rimasi per un attimo in ascolto. Qualcuno si stava lamentando delle condizioni di lavoro, dell'ora tarda, e delle discutibili performance sessuali di certi cosiddetti attori. «Hai mai avuto un'erezione?» domandò la
voce mentre aprivo la porta, entravo nella stanza, e facevo saltar via la sommità del bicchiere di Hyland col proiettile a punta cava che avevo in canna. Tanto per fare un po' di scena. «State calmi,» dissi mentre Stacy s'infilava nell'angolo di fianco alla porta. «Ma calmi sul serio.» Funzionò quasi. Per un istante si bloccarono tutti. Eccetto Torres. Con un solo fluido movimento, il messicano si alzò e infilò la mano sotto l'ascella sinistra. A due metri di distanza, un colpo di calibro .22 a canna lunga è in grado di ridurre in briciole la testa di un serpente a sonagli, e quando sparai a Torres nella mano destra, questa parve esplodere, ma l'uomo non fece più rumore di quanto ne avesse fatto il colpo silenziato. «Ti toccherà assumere qualcuno per farti pulire il culo e soffiarti il naso,» dissi. Lui ridacchiò e lasciò cadere la mano lungo il fianco. Come a una sorta di segnale, la troupe si lanciò in una serie di piccoli movimenti e chiacchiericcio a vuoto, ma non appena Stacy le sventolò l'automatica sotto il naso, si fermarono tutti, a becco chiuso. Tutti, escluso il regista lardoso. «Allora,» disse, «che succede qui?» «Se riapre la bocca,» dissi a Stacy senza voltarmi, «fagli saltare le cervella.» L'uomo aprì davvero la bocca, ma la richiuse di corsa non appena vide la canna della pistola di Stacy. Guardò di nuovo, sospirò e andò giù come uno straccio. «Tutti voi del film,» dissi, «andate a sdraiarvi sul letto, a faccia in giù, con le dita allacciate sulla nuca. Subito». Melinda mi fissò, confusa, ma quando mossi con forza il capo anche lei filò dritta sul letto e si unì all'ammucchiata. «Adesso, voi due gentiluomini andate a mettervi contro il muro, dietro il divano, in quella posizione che tanto vi è familiare,» dissi a Hyland e Torres. Erano troppo duri per ubbidire di corsa, ma ci andarono comunque. «Se appena muovono un dito,» dissi a Stacy, «premi quel grilletto e non fermarti finché non hai svuotato il caricatore». Lei annuì e si spostò alla mia sinistra per tenere quei due sotto tiro, mentre io li perquisivo. Hyland era pulito, ma quella che Torres aveva cercato di prendere era una Colt Python .357 magnum, con canna di quindici centimetri. «Ti ci voleva un mese, per tirare fuori questo ordigno,» gli dissi mentre la scaricavo, ma lui non mi rispose. Rimase appoggiato alla parete a osservare il sangue che dalla mano sgocciolava sull'intonaco. «Adesso voi ragazzi ve ne restate
qui,» dissi nell'allontanarmi, e gettai la Colt sul divano. «Dobbiamo fare quattro chiacchiere.» «Che cosa vuoi?» disse Hyland con calma. «La ragazza,» risposi, «e un po' di soddisfazione.» «Prendila pure,» disse alzando le spalle, «e levati tutte le voglie che puoi, amico, perché sei un uomo morto.» Tanto per capire se non era un duro soltanto a parole, gli sparai di striscio sulla chiappe con la seconda rosa di pallini. «Cristo santo,» ululò, e iniziò a sudare freddo. Torres guardò dapprima Hyland con disprezzo, poi la .22 con un certo interesse. Sparai l'ultima rosa di pallini sulla fila di bottiglie piazzate su un mobiletto bar contro la parete più lontana. «Questa era l'ultima,» dissi, «e ignoro quanta strada riusciresti a fare con una palla a punta cava in mezzo agli occhi, ma se vuoi provare sei il benvenuto.» Lui si rilassò e si appoggiò ben saldo alla parete, ma prima che potessi dare il via alle domande Trahearne fece irruzione nella stanza, sbraitando: «Dove l'avete messa?», e facendo scivolare un colpo nella camera di scoppio della sua doppietta, per poi spararlo dritto contro il soffitto. L'enorme specchio esplose come uno shrapnel e una fila di luci lampeggiò come impazzita, scoppiando all'istante. Hyland rotolò sul bracciolo del divano per andarsi a nascondere là sotto, e Torres si slanciò verso Stacy e la sua automatica come un toro impazzito. Neanche perse tempo a guardarmi, e non esitò. Era sicuro che la ragazzina non avrebbe avuto il coraggio di premere il grilletto, e per un pelo questo non si rivelò l'ultimo sbaglio della sua vita. Stacy sparò cinque colpi alla massima velocità consentita dal grilletto, tenendo bassa la mira. Ma a ogni colpo la canna dell'automatica si spostava un po' verso l'alto. Il primo scheggiò il pavimento tra i piedi del messicano, i due successivi gli passarono tra le gambe, e Torres capì benissimo cosa gli stava per succedere. Si gettò a terra, scivolando a testa in avanti. Quando infine riuscì a fermare la sua corsa, Stacy aveva smesso di sparare, e solo allora l'uomo si decise ad alzare lo sguardo. La ragazza gli stava puntando la pistola dritta alla testa. Come avesse fatto a mancarlo da quella distanza, con cinque colpi, non lo capirò mai. E neanche Torres l'aveva capito. «Basta così,» disse, per poi risalire sul divano, strisciando. «Ti spiace se mi sdraio per un minuto?» fece. «Ma ti pare,» risposi.
Si arrampicò sul divano e poggiò la testa sul bracciolo che Stacy aveva appena ridotto in brandelli. «Come cazzo ho fatto a non prenderlo?» continuava a chiedersi la ragazza. «Dov'è mia moglie?» disse Trahearne. La sparatoria aveva immobilizzato anche lui. «Mi sembrava di averle detto di restare fuori,» gli dissi, ma lui neanche mi degnò di un'occhiata. «Laggiù,» dissi, e indicai la catasta di corpi che si erano andati a nascondere dietro il letto. Trahearne mi porse la doppietta e andò a prendere Melinda. «La porti via di qui,» dissi mentre la aiutava a rialzarsi, simile a una chioccia. Quando mi passarono davanti, Melinda si tolse la parrucca e la lasciò cadere a terra. Trahearne cercò di scagliarla via con un calcio, ma mancò il bersaglio e sarebbe finito a gambe all'aria se Melinda non l'avesse acchiappato al volo. Anche con quei capelli corti e il trucco sbaffato, faceva ribollire il sangue. Da un taglietto sulla guancia le usciva un rivolo di sangue, e quando mi guardò - mentre lei e il marito attraversavano la stanza strapiena di masserizie - mi accorsi che stava piangendo. Tutti i membri della troupe erano tornati a spostarsi sul letto, intenti a esaminare le ferite prodotte dalle schegge di vetro. Dal mio punto d'osservazione, nessuna sembrava troppo grave, semplicemente piccoli tagli. Al protagonista maschile era toccata la peggiore, un pezzo di specchio di una decina di centimetri che spuntava dal muscolo proprio sotto la scapola. Ma quando l'uomo cominciò a lagnarsi, la ragazza di colore gli strappò via il vetro e gli disse di chiudere il becco. «Signor Hyland,» feci, nell'avvicinarmi all'estremità del divano, «adesso può uscire». In realtà, non poteva. Quando guardai dietro il bracciolo, lo vidi accucciato in una pozza di sangue. Uno dei colpi sparati da Stacy gli aveva spiaccicato sul muro tutto un lato della testa. Fu uno sforzo incredibile, il peggiore di quella nottata di merda, ma riuscii comunque a voltarmi verso Stacy. «Il signore, qui, che tanto faceva il duro, c'è appena rimasto secco. Perché non accompagni tutta quella gente in bagno, giù in fondo al corridoio, così può iniziare a darsi una ripulita?» La ragazza annuì, poi fece cenno con la pistola agli occupanti del letto. La ragazza di colore dovette tirare una manata al protagonista maschile, per farlo muovere, mentre alla ragazza del pompino e a uno dei cameramen toccò sollevare il regista, ma dopo un po' tutti quanti si misero in marcia e imboccarono la porta.
«È morto?» chiese Torres non appena la stanza si fu svuotata. «Spiaccicato sul muro, amico,» dissi, mentre me ne andavo a prendere una bottiglia di whisky dal mobile bar, in mezzo ai vetri rotti. «Andiamo a farci un drink in cucina.» «Questa è la prima buona idea che hai avuto stanotte,» disse lui, poi rotolò dal divano e si rimise in piedi. «Forse la prima buona idea della tua vita.» M'infilai la .22 nella cintura e mi piazzai la doppietta sul braccio. Torres chiuse il becco. Nell'uscire dalla stanza, spensi la luce e chiusi la porta. «Non ha proprio il sapore del Chivas, non ti pare?» disse Torres a bicchieri alzati. «In questo momento sa soltanto di merda, ma è pur sempre un magnifico sapore,» dissi io. Sulla via della cucina, avevo chiuso la troupe nel bagno e avevo mandato Stacy all'esterno, a tenere d'occhio l'ingresso principale, casomai la sparatoria avesse attirato l'attenzione di qualcuno. Così, almeno, le avevo detto. «Hyland,» proseguì Torres. «Compra whisky da 4 e 98 e lo versa nelle bottiglie di Chivas, e poi si aspetta anche che nessuno se ne accorga, quello stupido figlio di puttana.» «Bell'elogio funebre,» dissi. «Sempre più di quel che si meritava,» asserì Torres. «E adesso?» «Dipende da come te la vuoi giocare.» Lui bevve una lunga sorsata di whisky, poi mi guardò fisso. «Okay. Ecco come stanno le cose,» disse, per poi tendere la mano fasciata in uno strofinaccio insanguinato. «Mi sa che ormai ho chiuso, col mio lavoro, e però sono un tipo abituato alla bella vita...» «Hai rischiato di chiudere con tutto quanto,» lo interruppi. «'sti cazzi, è vero,» sospirò. «Ancora non riesco a capire come abbia fatto a mancarmi, quella tipa.» «Preferivo che avesse mancato Hyland,» dissi io. «Se non glielo dici tu, amico, non lo saprà mai,» fece Torres. «D'altra parte, in un certo senso, ha fatto un piacere a entrambi.» «Sarebbe a dire?» «Quello era il tipico farabutto che prendeva le cose sul piano personale,» disse Torres. «Non capiva mai quand'era il momento di limitare i danni.» «Mentre tu, invece?» «Io invece sì,» rispose lui. «Vedila così, amico. Hyland era un idiota. In-
somma, bisogna essere proprio scemi, per girare film porno in casa propria, e lo zio che l'aveva introdotto al mestiere non lavora più nel ramo, non so se mi spiego, e quindi ci sarà qualcuno che non si strapperà certo i capelli alla notizia della sua morte.» «E tu sei tra questi?» «Dei suoi affari, ne sapevo più di lui,» disse Torres, «e ora che si è levato dai piedi posso prendere il suo posto e mandare avanti la baracca alla grande.» «E io me ne vado con la ragazza? Pulito?» «Assolutamente,» disse. «Salvo una cosa.» «I quarantamila.» «Proprio così.» «Ma è stato un sacco di tempo fa.» «Giusto. Ma chi c'è andato di mezzo, ancora se lo ricorda.» «Secondo me, mi stai prendendo per il culo,» dissi, «e cercando di raccattare qualche soldo, tanto per gradire.» «Puoi darmi torto?» disse lui, e sorrise. «E non ti sto raccontando balle. Se avessi io quei quarantamila, ci sarebbe un bel po' di pressione in meno.» «E il costo del tuo biglietto d'ingresso in questo mondo, sbaglio?» «Non sbagli.» «Non li ho con me,» dissi, «ma se mi lasci un paio di mesi di tempo, farò il possibile.» «Prima sarebbe meglio,» fece lui. «Ascolta, non mettermi fretta,» risposi. «Non certo quando ho un fucile tra le mani.» «Cazzo,» disse, per poi agitare una mano sanguinolenta. «Se mi volevi ammazzare, amico, l'avresti fatto subito, invece di stare a cazzeggiare con tutta quella faccenda idiota dei pallini. Troppo casino, amico. Da morto, ti creo più fastidi che altro, ma da vivo posso sistemare l'intera faccenda.» «Sessanta giorni,» dissi, «e non prometto niente.» «Okay, e che cazzo, ne vale pur sempre la pena. Affare fatto?» «Ho bisogno di qualcosa di più,» dissi. «Ovvero?» «Le tue impronte sulla pistola che ha ucciso Hyland,» dissi, «e i libri contabili che tiene in cassaforte.» «Altrimenti?» «Altrimenti sto facendo conversazione con un cadavere,» dissi. «Ti la-
scio nella stanza con Hyland e con la Browning in mano tua e la .22 nella sua, e staremo a vedere.» «Le armi non sono intestate a tuo nome, eh?» «Roba dell'Arkansas,» dissi. «Pulita e scintillante.» «Non sei quel che si dice un cittadino modello.» «Non sono un cittadino proprio per niente,» dissi. «Tu prendi la pistola, io prendo i libri contabili,» disse Torres con calma. «Tu prendi i libri, e io sto a guardare.» «Va bene,» disse, e si inginocchiò davanti al mobile dell'acquaio, lo aprì e tirò fuori quello che sembrava l'accumulo di almeno dieci anni di detersivi vari. Sollevò il pavimento del mobile per mettere alla luce una cassaforte rotonda incassata nel cemento. Manovrò il quadrante, e si fermò un istante prima di aprire lo sportello. «La prima cosa che esce, amico, è una pistola, ma esce piano piano,» disse, aprì la cassaforte ed estrasse un'automatica nichelata, calibro .32. Me la porse. «Splendida arma,» dissi scaricandola. «Già,» disse Torres. «L'avrà pagata almeno venti dollari.» Scoppiò a ridere, poi si alzò in piedi e mi porse un fascio di libri mastri. «Posso chiederti un altro piacere?» «Cosa?» «Di mandarmi copia di questi,» disse. «Renderà la fase di transizione molto più semplice.» «Okay.» «Ti credo quasi,» disse. «Spediscimi la ricevuta di una tua donazione di mille dollari alla Protezione Animali,» dissi, «e ti farò avere le copie.» «Affare fatto,» disse lui. «Mi spiace per quelle bestie. Era Hyland che li odiava, i cani, e quando quel bulldog lo ha azzannato alla caviglia, ha dato fuori di testa. Ho cercato di fermarlo, ma...» «Chiudi il becco,» dissi, piazzandogli la doppietta sotto il naso. «Capito?» Annuì. «Adesso sistemiamo la faccenda della Browning». Lo trascinai fuori, presi l'automatica a Stacy, poi lo spinsi di nuovo in cucina. «Scaricala,» dissi, «e puliscila per bene, poi ricaricala». Lui ubbidì, rapido e professionale. Non dovetti nemmeno dirgli di estrarre i proiettili dal caricatore. Al termine, trovò un grosso sacchetto di plastica e vi lasciò cadere la pistola. «Adesso andiamo a recuperare quei cinque bossoli,» dissi. «Sei proprio un prudente figlio di puttana,» disse nel porgermi il sac-
chetto di plastica. «È proprio quel che sto facendo,» dissi. «Metto in pratica la mia prudenza, sacco di merda.» «Non c'è bisogno di insultare,» disse mentre lo seguivo lungo il corridoio. «Non saprei da che parte cominciare,» dissi, poi feci un passo indietro mentre lui apriva la porta e accendeva la luce. I cinque bossoli eraro raggruppati dietro la porta. Torres li raccolse e me li porse. «Adesso prendi la magnum da sotto il divano.» «Andiamo, amico, quella è la mia pistola preferita,» si lagnò. «Inoltre, è intestata a mio nome.» «Ancora meglio,» dissi, e lui si chinò per allungare il braccio sotto il divano. «Niente di personale,» feci, quando vidi il revolver spuntare da sotto il divano, e randellai Torres dietro l'orecchio col calcio della doppietta. Lui batté il muso sul pavimento, inarcò la schiena, e tamburellò con i piedi sul tappeto. «Proprio niente di personale». Raccolsi la .357 e me la ficcai nella cintura, poi presi lo slancio per tirare una pedata in faccia al messicano. Però mi resi subito conto che sarebbe stato inutile. Abbassai il piede. Ero riuscito a recuperare Melinda, ma di soddisfazione ce n'era stata ben poca, se non punta. Quando tornai alla macchina feci segno a Stacy di mettersi al volante, poi mi sistemai sul sedile del passeggero e lasciai cadere a terra la mia carrettata di armi, assieme ai libri mastri. «Come mai ci hai messo tanto?» mi chiese Trahearne, mentre Stacy metteva in moto. «Sarà almeno un'ora che stiamo qui seduti ad aspettare.» «Tesoro,» sussurrò Melinda, «tesoro, sta' zitto. Mi ha tirato fuori di lì.» «E che cazzo, con tutti i soldi che gli ho dato,» disse lui. Stacy tirò una frenata così brusca che la macchina sbandò sulla ghiaia del vialetto, e si voltò per sbraitare in faccia a Trahearne. «Vecchio ciccione figlio di puttana, chiudi il becco! No, anzi. Prima di chiudere il becco, ringrazia. L'unica cosa che sei stato capace di fare stanotte è stato rompere i coglioni e combinare casini. Se non era per lui, Melinda finiva per chiavarsi quel bel biondone. Quindi ringrazia e chiudi quella cazzo di bocca!» «Tutto a posto,» dissi io. «E tu smetti di trovargli sempre giustificazioni!» mi urlò lei. «Non devo certo ringraziare i miei salariati,» disse offeso Trahearne. Questa battuta fece incazzare Stacy ancora di più. Tornò furibonda al vo-
lante e pigiò l'acceleratore a tavoletta. La macchina sfrecciò sul vialetto e s'infilò in strada a coda di pesce. Nel tragitto verso Denver nessuno aprì bocca per un bel pezzo. Il silenzio era rotto solo dal sibilo delle gomme, dallo sciabordio della bottiglia di Trahearne e dai singhiozzi di Melinda. Bevvi una lunga sorsata d'acqua da una borraccia, poi con un asciugamano bagnato cercai di togliermi il nero dalla faccia. Alla fine dell'operazione mi lasciai andare contro lo schienale e Stacy mi batté una pacca sulla coscia. «Grazie,» disse piano Melinda. «Grazie, di cuore.» «Già,» grugnì Trahearne, al top della sua gentilezza. «Volete bere qualcosa?» E fece passare la bottiglia di vodka dal sedile posteriore. «È questa l'unica risposta che sai dare?» gridò Stacy, ruotando sul sedile e rischiando di andare fuori strada. «Non farlo incazzare,» le dissi mentre afferravo il volante, «o non mi darà neanche un goccio.» «Oh,» borbottò lei, e tornò a concentrarsi sulla guida. Quando feci per passarle la bottiglia di Trahearne, lei prima imprecò, poi bevve una lunga sorsata. «Non so proprio berché bevete questa robaccia tremenda,» disse, sputando e tossendo. «È l'unico modo per sbronzarsi,» dissi io, e tutti scoppiarono a ridere come a una battuta simpatica. «Mi spiace,» disse Trahearne, suscitando altre risate. «Vorrei anche vedere,» disse Stacy, ridacchiando. «Non riesco ancora a capire come ho fatto a non beccarlo, quel figlio di puttana,» aggiunse, e ridacchiò più forte. «L'hai fermato prima così, quel grosso farabutto, che a fargli saltar via la testa,» disse Trahearne, con una risatina chioccia. «Più stronza di un Marine,» strillò Stacy. «Questo non vuol dire un gran che,» disse Trahearne. «Anche mia madre è più stronza di tutti i Marines sulla faccia della terra.» «Ah, non c'è dubbio,» intervenne Melinda, un po' intimidita. «Lei non avrebbe sbagliato di certo,» aggiunse, e tutti scoppiarono di nuovo a ridere, così contenti di essere ancora vivi che li avrebbe messi di buonumore anche un segnale di stop. Di ritorno al motel, portammo tutte le armi in camera, dopo di che io andai a togliere Jackson dal baule e a sistemarlo sul sedile anteriore. Lo stile di guida di Stacy non gli aveva fatto certo bene, anzi. Non che sanguinasse
molto, ma sembrava giusto il superstite di qualche tremendo incidente d'auto. Lo portai all'ingresso del pronto soccorso del Denver General e lo lasciai sul marciapiede, una scarpa in tasca, una bottiglia mezza vuota di bourbon nell'altra, sicuro che sarebbe riuscito a cavarsela, visto che gli avevo appena raccontato che Hyland era morto e che nessuno sarebbe più venuto a cercarlo. Lui annuì con brio, poi iniziò a zoppicare verso l'ospedale, saltellando in fretta sul tallone destro. «Mi spiace!» gli gridai dal finestrino, ma lui mi salutò con la mano senza neanche voltarsi, come se l'intera faccenda fosse ordinaria amministrazione. Quando tornai ancora una volta al motel non era ancora mezzanotte, e trovai la truppa intenta a sgranare pizze a domicilio e birre del servizio in camera, e così mangiammo e bevemmo come matti fin quando la stanchezza non ci crollò addosso come una tempesta tropicale, e ci mandò al tappeto come mosche zuppe d'acqua. Trahearne si addormentò con un trancio di pizza ancora a mezza strada tra la mano e la bocca e, mentre lo scortava a letto, anche Melinda andò giù al suo fianco con un piccolo, improvviso grugnito, come se le avessero dato una botta in testa. Tempo pochi secondi e Trahearne, a pancia all'aria, attaccò a russare come solo lui sapeva. «Cristo santo,» sussurrò Stacy, «ma come fa, sua moglie, a dormire in quelle condizioni?» Sbadigliai. «Sarà perché lo ama.» «Dev'essere così.» «Mi sa che dovrò dormire in camera tua,» dissi. «Sicuro,» rispose lei con dolcezza, poi mi prese per mano e varcò la porta comunicante. Stacy già dormiva in piedi, e anch'io sprofondai nel sonno che non avevo ancora sfiorato il letto. Ma fu un sonno rapido e sgradevole, - ne ero certo - e privo di sogni, interrotto da continui sobbalzi nel ridestarmi al buio in una stanza non mia, proprio come le prime notti appena tornato dalla boscaglia al campo base di An Khe: un sonno infido. E la seconda volta che mi svegliai, verso le tre del mattino, mi era passata la voglia di richiudere gli occhi. Mi svincolai dalle braccia di Stacy con la massima delicatezza possibile, ma finii per svegliare anche lei. «Ogni volta che chiudo gli occhi,» mormorò sognante, «vedo quella stanza con lo specchio che esplode in mille lame, e non riesco a capire perché mi sento bene.»
«Perché i buoni hanno vinto,» dissi, allentandole la mano che mi stringeva il collo. «Dov'è che vai?» «Al gabinetto,» dissi. «Torna,» sussurrò. «Non mi sento male, no, però torna, va bene? Non capisco perché non mi sento male.» «Certo che torno,» dissi. Andai a chiudere le porte comunicanti, poi filai al cesso. Quando ne uscii, Stacy si era tolta i vestiti e si era sdraiata sulle coperte, con le mani a sorreggere i piccoli seni come fossero dolorose ferite. «Non sono come i suoi,» disse sottovoce, senza bisogno di spiegare a chi si riferisse, «ma è tutto quel che ho.» «Sei proprio carina,» le dissi. «Lo so che vorresti i suoi,» disse, e rideva e piangeva allo stesso tempo, «però, ti prego, fa' l'amore con me.» Mi sdraiai e la tenni stretta, coi singhiozzi che le squassavano il corpo magro, simili a convulsioni, la tenni stretta finché non si addormentò a forza di piangere. Poi la coprii e andai in cucina a prepararmi un drink, con l'intenzione di bere fino a riprendere sonno, ma udii dei colpetti alle porte comunicanti. Aprii, e non fui certo sorpreso di trovare Melinda. «Dobbiamo parlare,» sussurrò, portando l'indice alle labbra pallide. Nel corso della notte, chissà quando, aveva trovato il tempo di struccarsi, ma anche avvolta in un lenzuolo e con quel volto pallido sembrava bella come prima non ero riuscito a vedere, una bellezza adesso evidente come lo sguardo angosciato che le velava gli occhi. «Dobbiamo parlare,» ripetei io, poi la condussi in bagno e chiusi la porta. Si sedette sul pavimento, a gambe incrociate, i piedi eleganti che apparivano rosei alla luce abbagliante. Io, invece, mi sedetti sulla tazza del cesso, nella mia classica posizione da pensatore. «Di recente mi capitano un sacco di conversazioni al gabinetto.» «Mi spiace,» disse, come se potesse tornare indietro e cambiare ogni cosa. «Mi spiace così tanto.» «Anche a me,» dissi, «ma ormai è troppo tardi, e non possiamo farci più niente.» «Come si fa a sapere quando è troppo tardi per cambiare le cose?» chiese con un sorriso malinconico. Ma non cercava una risposta. Non a quella domanda. «Come mai ci ha messo così tanto, dopo che io e Trahearne ce ne siamo andati?»
«Dovevo ripulire tutto quel casino,» dissi, «e discutere i dettagli con Torres e Hyland». Non mi pareva necessario che sapesse che Stacy aveva ucciso Hyland. Non doveva saperlo nessun altro. «Che dettagli?» mi chiese noncurante. «Tipo cosa fare del suo cadavere se non gli restituisce i quarantamila dollari,» dissi, e lei si coprì la faccia con le mani. «Non si può rubare a gente del genere,» dissi. «Non lo sapeva?» «Non avevo altra scelta». Sollevò il capo per guardarmi. Per la prima volta, da quando la conoscevo, riuscivo a distinguere una certa somiglianza con Rosie. Aveva gli stessi occhi pazienti, la stessa aria di sfida nel modo in cui sollevava il mento. «Non potevo fare ancora un altro film,» disse. «Non potevo... non ce la facevo più a... Cazzo, non riesco neanche più a dirlo... Non ce la facevo più a scoparmi tutti quegli sconosciuti. Quando ho cominciato sembrava una sciocchezza. Voglio dire, sembrava un vero spasso, sa com'è, eravamo stonati dalla mattina alla sera e già si scopava con chiunque, figuriamoci se scopare ed essere pure pagati non aveva l'aria di un vero affare. Quel che facevo del mio corpo non contava. Solo la mente e lo spirito avevano importanza, pensavo allora. Ma mi sbagliavo. Tutto quel che fai, conta. Ogni azione provoca complicazioni, ripercussioni. L'ho imparato in galera.» «Che è successo?» «Niente di così drammatico,» disse. «Quando sono arrivata, mi vedevo ancora come Betty Sue Flowers: un po' fuori di testa, va bene, e quindici chili sovrappeso, ma sempre più sveglia e carina di tutta quell'altra immondizia che girava in carcere. Mi sbagliavo. Laggiù ho incontrato una donna molto più brillante e di bell'aspetto di quanto io possa mai diventare in tutta la mia vita, più dotata di talento e con maggiori promesse intellettuali. Era anche la più stronza e rognosa persona mai conosciuta. La prima sera mi pestò a sangue, e da allora non perse mai occasione di umiliarmi, giorno e notte, ma la cosa peggiore fu quando mi disse che tempo dieci anni sarei diventata proprio come lei. Aveva perfettamente ragione, chiaro. Appena uscita, quindi, sapevo di dover cambiare vita. Il danaro mi ha offerto questa possibilità, e l'ho afferrata al volo perché non ne avevo altre.» «Cosa ne ha fatto, dei soldi?» «Quando ho lasciato la casa di Selma, sono andata ad abitare con una sua amica a St. Louis, e tramite lei sono stata ammessa in via del tutto eccezionale alla Washington University.» «Il grande sogno americano,» la interruppi. «Pagarsi un'istruzione coi
soldi della mala.» «All'epoca sembrava una buona idea,» disse lei tranquilla. «Così ho frequentato il college fin quando non ho scoperto l'arte della ceramica. Quando le mie opere hanno cominciato a vendere, me ne sono tornata all'ovest. E tutto è andato per il meglio finché... finché è capitato quel che sappiamo.» «Non so se è stata tutta colpa mia o di Trahearne,» dissi, «ma mi sembra giusto chiederle scusa.» «Non ce n'è bisogno,» rispose lei. «Se la colpa è di qualcuno, non può che essere mia». Sospirò. «E adesso che succederà?» «Quanto le è rimasto, di quei soldi?» «In banca ho ancora tremilacinquecento dollari, più o meno,» disse, «e posso sempre trovarne altri, diciamo tre o quattromila, se mi metto a vendere tutti i miei lavori già ultimati. Da qui a quarantamila dollari ce ne vuole, no?» Ridacchiò. «Forse mi lasceranno pagare a rate,» disse. «Ci lasceranno.» «Ci?» «Anch'io sono nella sua stessa barca, adesso,» dissi. «Sono riuscito a procurarmi un po' di tempo, ma non ho abbastanza vantaggio per riuscire a tenerli alla larga in eterno. Se c'è una cosa su cui sono sensibili, sono i loro quattrini. Sono capaci di spenderne centomila, di dollari, pur di recuperare i loro quarantamila, e poi di tagliarci le mani.» «E che possiamo fare?» chiese con aria stanca. «Prenderli in prestito da Trahearne,» suggerii. «È così al verde, che mi tocca andare a fare la spesa con la sua BankAmericard,» disse lei. «E Selma, invece?» «Ha già fatto abbastanza,» disse. «Chieda a Trahearne di farseli prestare da sua madre,» feci io. «Piuttosto mi faccio tagliare le mani,» disse, e le tese come a volerle porgere alla spada. Lunghe unghie finte, rosso scuro, erano state maldestramente appiccicate sopra le sue. Nel guardarsi le dita tremanti, Melinda cominciò a piangere lacrime di rabbia, e subito dopo a strapparsi le unghie finte, a morsi persino, a lacerare le sue unghie vere, le cuticole, la carne, finché le punte delle dita non furono coperte di sangue. Infine ficcò le mani nelle pieghe del lenzuolo che le si era ammucchiato in grembo. «Ho incasinato tutto,» sussurrò fissando le macchie, «e gente che non ho mai visto né conosciuto è venuta a salvarmi una volta di più... Forse dovrei
chiamare Hyland e dirgli che mi rimetterò a lavorare per lui.» «Non credo che sia possibile,» dissi. «E perché no?» «Mi ha detto di non volerla vedere mai più,» mentii. «E di sicuro ho anche incasinato la sua, di vita,» disse rivolta a me. «Già era un bel casino di suo, come sempre,» dissi allegro. «Ha fatto così tanto per me,» dissi, «e neppure ne conosco il motivo.» Nemmeno io lo sapevo. Eppure presi il portafogli, tirai fuori la foto di Betty Sue ai tempi del liceo e gliela porsi. «Questa ragazza l'ho uccisa un sacco di tempo fa,» disse con calma. «Non ha fatto altro che cercare un fantasma». Toccò il suo volto nel ritratto, macchiandolo di sangue. Piangeva ancora, senza singhiozzare, e le lacrime le scendevano copiose giù per le guance. «Quel cammeo era di mia nonna, sa, l'unica cosa che le era rimasta al suo arrivo in California. Oltre a sette figli, e un marito con un cancro al bulbo oculare,» disse. «Li ha tirati su tutti, quei figli, tutti quanti hanno finito le scuole superiori. Si è rovinata i piedi a forza di fare la cameriera in una tavola calda di Fresno, e quando è diventata troppo vecchia per lavorare ha deciso di andare nell'ospizio della contea. Non voleva saperne di vivere con i suoi figli, non voleva creare disturbo. Quando ero piccola, mia madre mi portava a farle visita, sa, e quell'odore che mandano le persone anziane mi ha sempre dato fastidio. Gente che ha perso la testa per via della solitudine, gente che usciva dalla propria stanza per venirmi a toccare e a farmi mille moine, e sapesse come lo odiavo tutto questo.» «Mia madre parlava con mia nonna,» proseguì, «si inginocchiava davanti alla sua poltrona, le sollevava le gambe e se le metteva sulle spalle, per massaggiarle le vene varicose, fin quando non le venivano i crampi alle mani. Poi chiedeva a me di massaggiare le gambe della nonna per qualche minuto, per riposarsi un poco, ma io non volevo saperne, non mi andava di toccare quelle vene simili a grossi e mostruosi vermi nascosti sotto le calze. Non riuscivo proprio a toccarle, quelle gambe che si era distrutta perché i suoi figli potessero finire il liceo...» «Dio santo, perché non l'ho capito?» si lamentò. «Non sono andata al suo funerale perché giocavo a fare l'attrice tragica nell'Antigone... Fingere, recitare, mio dio, che bambina stupida sono stata». Poi tacque e si voltò verso di me, lacrime e sangue a chiazzarle le guance, come un'antica maschera di dolore. «Perché?» chiese. «Non lo so,» dissi, e lei raccolse le gambe sotto di sé, lasciandomi cade-
re la testa in grembo. «Sono dieci anni che non sogno più,» disse, la voce attutita dalla mia coscia, il respiro caldo sulla mia pelle, anche attraverso la tela della mimetica. «Dicono che sogno e non riesco a ricordare niente, ma io so benissimo di non sognare più. Sono le mie mani a sognare per me,» continuò, nel dondolarsi sulle ginocchia e tendere di nuovo le mani, come a volerle offrire a qualche dio inferocito. Mi allungai a toccarle, ma lei mi afferrò per le guance e mi tirò a sé, baciandomi tra le lacrime, sussurrandomi sulla bocca «Fa' l'amore con me, fammi dimenticare, ti prego, ti prego...» Con l'ultimo briciolo di forza, la afferrai per i polsi e la spinsi via. Nell'andare indietro, le cadde il lenzuolo dalle spalle, a mo' di sudario, e il suo seno nudo si frappose tra noi. «Tu non mi vuoi,» disse, «e non posso darti torto, dopo tutto quel che hai saputo.» «È per via di Trahearne,» dissi. «Lui non mi vuole più,» disse lei. «Vuole che esca dalla sua vita. Ormai è da tanto che la so, questa cosa, ma ho scelto di ignorarla.» «Si è dato un gran daffare, per essere uno che non la vuole più,» dissi. «Secondo lui sono una sgualdrina,» sussurrò, «e quel che gli interessa è averne la certezza. Ecco tutto. Non è la stessa cosa che desiderarmi. Una donna le sa, queste cose. Tu mi vuoi, si vede benissimo. E non so perché non vuoi fare l'amore con me.» «Ho paura,» dissi. «Di me?» chiese, e si liberò con facilità dalla stretta. «Di me stesso,» risposi, e lei mi lanciò una lunga e severa occhiata. «Tu ami Trahearne,» aggiunsi, nel metterle le mani sulle spalle nude. Lei attese, immobile come un animale ormai rassegnato a cadere nella trappola, attese le mie mosse: o trarla a me, oppure respingerla. «Hai proprio ragione,» disse, piegando il capo così da appoggiare la guancia sul dorso della mia mano sinistra. «Mi spiace».Si alzò e si avvolse il lenzuolo attorno al corpo. «Pensi di essere innamorato di me, vero?» disse, con la mano sul pomello della porta. Io annuii lentamente. «Neanche mi conosci,» disse, e fui costretto ad annuire di nuovo. «È molto carino da parte tua prenderti tutto questo fastidio, ma tu neanche mi conosci». Poi se ne andò, via dall'anonima luce del bagno e dritta nelle tenebre. Ai miei occhi stanchi, il suo lenzuolo bianco sembrava aver lasciato una sorta di immagine residua, in movimento, che brillava come un fuoco su una palude. Allo scatto della porta comunicante, Stacy si alzò dal letto e venne alla
porta. «Hai buttato via la tua chance,» disse sottovoce. Io mi alzai in piedi e andai a prepararmi un altro drink. «Gli uomini sono proprio dei vecchi, romantici coglioni,» disse sorridendo. «Forza, vieni a letto.» La mattina dopo ci svegliammo alle dieci, ma Melinda e Trahearne se n'erano già andati, lasciando a me le pulizie, neanche fossi una sorta di valletto. 16 Tentai di convincere Stacy a tornare da Selma, mentre io mettevo un po' d'ordine in tutto quel casino, ma lei non volle saperne. «Ho il primo vestito nuovo da cinque anni a questa parte,» disse, «e tu stasera mi porti fuori a cena, tontolone.» «Giusto,» dissi, contento dell'idea. Così rimase ad aspettarmi al motel, mentre io sbrigavo qualche commissione. Andai a restituire le due macchine a noleggio, feci fotocopiare i libri mastri, spedii le copie a Torres e mi tenni gli originali, mettendoli al sicuro in una cassetta di sicurezza assieme a un biglietto che spiegava di cosa si trattasse. Prenotai in un ristorante cinese e comprai due bottiglie di champagne francese, che ci scolammo mentre ci vestivamo per cena. «Non avevo mai bevuto del vero champagne,» sospirò Stacy, nell'infilarsi il vestito dalla testa. «Ma adesso non ho intenzione di smettere». Poi cadde di traverso sul letto, continuando a ridere sottovoce finché non si fu addormentata. Ordinai la cena al telefono e mandai un taxista a ritirarla. Quando l'uomo fu di ritorno, lo pagai e andai a sdraiarmi accanto a Stacy. A un certo punto, era notte fonda, ci segliammo che facevamo l'amore ancora vestiti. Dopo di che, ci spogliammo e ci sedemmo a tavola davanti alla cena ormai fredda, che consumammo in silenzio come due villici affamati. Infine, ce ne tornammo a letto. «Sai una cosa,» disse Stacy con aria sognante. «Devo essermi rimessa in sesto.» «Come mai?» «Eccomi qui, piena di champagne fino agli occhi, a letto con uno strano tipo che è pure più vecchio di me, l'odore della polvere da sparo ancora fresco nelle mie narici giovani e innocenti, e mi sento alla grande,» disse. «E tu?» «Io ho questi buchi nella spalla,» dissi, «una caviglia gonfia, una cena
cinese sullo stomaco e nessuna prospettiva se non un doposbronza da champagne e un lungo viaggio fino a casa.» «Non è una meraviglia,» sussurrò lei. «Sarò un gran veterinario, sai, un cazzo di gran veterinario. Da grande. Tu cosa sarai, da grande?» «Più vecchio,» le risposi, ma si era già riaddormentata. Il mattino seguente, nel parcheggiare ai piedi del sentiero di Selma, mi toccò mettermi in fila dietro il suo pickup, un camioncino di una ditta di recinzioni e la Volkswagen di Melinda. «Secondo te è ancora qui?» chiese Stacy. «Secondo me ho quasi deciso di tornare a occuparmi di pignoramenti di macchine,» dissi, scendendo dall'El Camino per andare a leggere il biglietto infilato sotto il tergicristallo della VW. Dentro il biglietto, piegato in due, c'era una chiave. E due sole parole: per favore. Scossi il capo e, gambe in spalla, io e Stacy ci avviammo su per il sentiero. Selma sedeva in soggiorno e guardava quattro giovanotti che facevano una gran fatica nel tentativo di scavare buche per i paletti delle recinzioni, in quel terreno roccioso. «Non pensavo che saremmo mai arrivati a tanto,» disse quando ci unimmo a lei. «E secondo lei è sufficiente?» chiesi. «Ho acquistato due cani da guardia in un allevamento di Broomfield,» ammise. «Il mondo è davvero troppo, per noi,» citò. «Mai più nessuno sconfinerà qua dentro,» aggiunse, e si toccò il livido sulla guancia. «Mai più.» «Spero di no,» dissi. «Ho trovato il modo di procurare a noi tutti una sorta di assicurazione, però è meglio se tirate su la recinzione e vi procurate quei cani. Non si sa mai.» «Ha il tono di uno che sta per dire addio,» fece. «Perché non resta con noi qualche giorno e si riposa?» «Dài,» disse Stacy afferrandomi il braccio. «Sono troppo stanco per restare,» confessai. «Perché non le fate tutti voi, le valigie, e ve ne andate in montagna per qualche giorno? Trovatevi un laghetto e un po' d'aria buona, senza nessuno tra i piedi. Io vado in città a procurarmi una sbarra da traino e a recuperare il mio cane, poi filo verso casa, visto che sono ancora in piedi.» «Forse ha ragione lei,» disse Selma. Lanciò un'occhiata a Stacy, che annuì lentamente e mi lasciò andare il braccio. «Lei sarà sempre il benvenu-
to, quassù.» «Grazie.» «E se ti serve un medico,» disse con disinvoltura Stacy, «chiamami pure. Quando vuoi». Mi abbracciò in fretta e uscì di casa, diretta verso la sua abitazione, a schiena rigida e ben eretta. «È una brava figliola,» disse Selma, «e sono convinta che tutta questa situazione, per quanto tremenda, per lei sia stata un bene.» «È una vera tigre,» dissi io. «Se la caverà benissimo.» «Me l'ha detto Melinda,» disse lei. «Penso sempre di conoscere i miei ragazzi, e invece loro trovano sempre il sistema di sorprendermi. Lei, invece, non mi ha sorpreso per niente.» «Perché?» «Sapevo che sarebbe riuscito a riportare indietro Melinda,» disse, «e voglio ringraziarla per questo. Le ha salvato la vita.» «Non fossi stato così stupido, non l'avrebbero mai trovata,» dissi. «Non ci si può incolpare per aver creduto a delle bugie,» disse lei piano. «Mi pagano proprio per capire la differenza,» dissi, «ma questa volta...» «Questa volta era diversa,» mi interruppe. «Sissignora.» «Mi farebbe un ultimo piacere?» chiese. «Ma certo.» «Tenga d'occhio Melinda,» disse. «Di tanto in tanto, cerchi di capire cosa succede. Ho la sensazione che tra non molto avrà bisogno di un vero amico.» «Farò del mio meglio,» dissi, «ma non posso prometterle nulla.» «Grazie,» rispose. «E non stia a darsi la colpa dei recenti problemi di Melinda. Sono cominciati tanti anni fa, e lei non c'entrava proprio niente.» «Mica ne sarei tanto sicuro,» dissi, e la lasciai con i suoi gatti e le sue ragazze e la sua nuova recinzione. Ma i veri casini non finiscono mai. Si trascinano come una controversia infinita, o una febbre malarica. Invece pensavo che questo si fosse concluso, a parte la storia dei quarantamila dollari, che era soprattutto un problema di Melinda. Ebbi anche un sacco di tempo per pensarci su, diretto per l'ennesima volta a nord con la VW di Melinda a rimorchio e Fireball sdraiato sul sedile del passeggero, sedato fino agli occhi. Il bulldog era fasciato come un salame, per tenere fermi i drenaggi. Quando ero andato a prenderlo, i veterinari me l'avevano riconsegnato con ben poche speranze
di farcela. Gli avevano asportato una parte dello stomaco e resecato l'intestino tenue, così cercavo di riportarlo a casa con meno scossoni possibili. Quando arrivammo a Meriwether, aveva un'aria così malmessa che mi toccò lasciarlo dal veterinario mentre andavo a riportare la VW a Cauldron Springs. Ne avevo ormai le palle piene del circo a tre piste della famiglia Trahearne, quindi mollai la macchina di Melinda dietro la piscina dell'hotel, poi me ne tornai a casa a seguire la situazione di Fireball e a sistemare le ultime faccende. Rimasi in ufficio con la cornetta del telefono in mano finché non fu tutta fradicia di sudore, poi riagganciai e tirai fuori qualche cartolina. Mi sembrava il sistema più idoneo di comunicare. Ne spedii una a Rosie, col numero di telefono di Trahearne, un'altra a Melinda, invitandola a chiamare sua madre. Una terza a Trahearne, con una semplice frase: «È in debito con me, vecchio». Nell'uscire dall'ufficio, mi fermai alla scrivania della mia segretaria, e la interruppi proprio mentre si applicava una nuova mano di lucido trasparente sulle unghie azzurre. «Se chiamasse qualcuno,» le feci, «di' pure a tutti quanti che sono fuori città a tempo indefinito.» «Ovvero per quanto?» mi chiese senza alzare lo sguardo. «Quasi per sempre,» dissi, e lei prese nota. Recuperai Fireball, che teneva ancora duro, e lo portai al rustico sul North Fork. Le sue ferite guarirono piano, ma guarirono. Sul muso gli era apparso un ciuffo di peli bianchi, e l'andatura era incerta, come se il bulldog tentasse di controllare la sua consueta camminata ondeggiante; inoltre, non riusciva più ad alzare la gamba per pisciare. Però sopravvisse. Infine lo riportai a Columbia Falls per fargli togliere i drenaggi e i punti. Quando tornammo al rustico, la Cadillac di Trahearne era parcheggiata lì davanti, e il vecchiardo era seduto al tavolo con un litro e mezzo di vodka tra le mani e un bottiglione di acqua tonica. Non aprì bocca, mentre io prendevo in braccio Fireball e lo portavo su per i gradini. Quando lo misi seduto, il bulldog fece per avvicinarsi a Trahearne per annusarlo, ma a metà strada cambiò idea e si sdraiò a leccarsi le ferite. «Immagino che sia colpa mia anche questa,» disse Trahearne noncurante. «Non incolpo nessuno di niente,» dissi. «Dev'essere dura, la parte del santo,» fece lui. Sembrava sobrio, ma gli occhi erano rossi e lucidi. Una crosticina biancastra di antiacido gli si
squamava a un angolo della bocca. «Che ci fa qui?» gli chiesi. «Non riuscivo a combinare niente,» rispose, e abbassò il capo. «Forse è troppo lontano dalla scrivania,» dissi. «E tu che cazzo ne sai?» mi chiese, la rabbia che si mutò in malinconia a metà domanda. «Nulla.» «Allora non cercare di dirmi come devo fare,» disse, cercando di versare della vodka nel bicchiere. Ma era un'impresa troppo difficile. Sollevò la bottiglia e bevve direttamente dal collo, e buttò giù la vodka con un bel po' di acqua tonica. «Non è così che si prepara un vodka tonic,» dissi. «Vaffanculo». Sparò un rutto laborioso e si riattaccò alla vodka. «Perché non ci diamo un taglio, a questa conversazione, e ricominciamo da capo?» «Come vuoi,» borbottò. Si alzò in piedi e barcollò fin quasi in casa. Cadde in ginocchio quasi come in preghiera, fu preso da un paio di conati di vomito, e infine lasciò partire con violenza un grosso schizzo di sangue. «Cristo,» dissi. Vomitò sangue di nuovo, e cadde giù dalla veranda per un metro buono, a faccia in giù sulla terra. Lo aiutai a rialzarsi e gli ripulii la faccia, poi gli presi un braccio, lo ancorai alla mia spalla e mi avviai verso la macchina. «Che stai facendo?» chiese. «La porto all'ospedale,» dissi. «Lasciami morire,» dissi. «Lasciami morire.» «E alle mosche, non ci pensa?» gli dissi mentre lo infilavo nella Cadillac. Quando tornai a prendere Fireball, sentii Trahearne che rideva e soffocava di nuovo. Mi ci vollero pochi minuti per infilare qualche vestito in uno zaino, e quando uscii da dietro la tenda il vecchiardo era sceso dalla macchina e filava barcollando verso il fiume. «Ehi!» gridai rincorrendolo. «Va' via,» disse quando lo presi per un braccio. Non me ne andai, e lui scrollò il braccio con tale violenza da scagliarmi contro un albero. Poi ripartì verso il fiume. Il mio primo impulso fu quello di saltargli addosso e cazzottarlo ben bene, ma non volevo certo rischiare di rompermi una mano su quella mascella gigante. Quindi gli passai un braccio attorno al collo come per strozzarlo, e farlo andare giù. Si dimenò, infuriato, impennandosi come un toro scatenato, ma io non mollai la presa fin quando non lo vidi cadere in gi-
nocchio. Solo allora lo lasciai andare. Prese a scuotere il capoccione, alla disperata ricerca di aria, di ossigeno per il cervello, poi si rialzò senza una parola e si riavviò al fiume. Questa volta feci meno fatica. E la terza ancora meno. «Guardi che posso andare avanti tutto il giorno,» gli dissi mentre si rialzava per l'ennesima volta. «Sarà bene che ti ci abitui,» sussurrò, ancora mezzo strozzato dalle sue parole. «E che cazzo,» dissi nel dargli le spalle, per poi voltarmi di scatto e colpirlo alla sommità della mascella. Fu come tirare un cazzotto a un albero, e mi parve d'essermi rotto tutte le ossa di polso e mano destra. «Porca puttana,» dissi, sorreggendomi la destra con la sinistra. Per un istante Trahearne riuscì a restare in piedi, poi fece un passo in avanti e mi rovinò addosso. Cademmo entrambi, lo scimmione sopra di me, e io mi sentii saltar via un paio di costole. Be', almeno era fuori combattimento. Riuscii a strisciargli da sotto, e lo afferrai per la collottola per trascinarlo alla macchina, prima che il dolore si facesse intollerabile. Ma non riuscii a smuoverlo di un millimetro. Mi toccò andare in macchina fino all'emporio di Polebridge, per cercare qualcuno disposto ad aiutarmi a caricarlo sul sedile posteriore della Cadillac. Quando infine raggiunsi l'ospedale di Kalispell, Trahearne se la russava in santa pace, e la mia mano destra sembrava un guanto di gomma pieno d'acqua. Due giorni dopo tornai all'ospedale per fargli visita. Quando entrai nella sua stanza, lui sorrise con fatica. «Finirai per farmi secco,» disse. «Mi sono rotto sei ossa della mano, vecchio, e slogato tre costole, nel tentativo di tenerla in vita.» Gli feci vedere il gesso. «Mi sa che ho un nuovo debito con te, eh?» «Può scommetterci il culo,» dissi. «Be', grazie.» «Che cazzo le era passato per la testa?» gli chiesi, prendendo la sedia più vicina. «Chi lo sa,» borbottò. «Chi cazzo lo sa?» Poi tacque a lungo. «Melinda mi ha detto dei quarantamila dollari, e io ho commesso l'errore di andare da mia madre a chiederle un prestito.» «Errore?»
«Quella vecchia e pazza zoccola mi ha riso in faccia,» disse, rosso di vergogna. «Lo sapevo, che non era il caso,» aggiunse. «Sapevo che dovevo cercare di cavarmela da solo.» «E far cosa? Accendere un'ipoteca sulla casa?» «Lo farei, potendo,» disse. «Ma la banca ha già due cambiali scadute, su casa mia, e l'unico motivo per cui non mi ha ancora cacciato fuori è perché mia madre ha garantito di persona su quelle cambiali. Maledetta vecchia pazza. Non l'ho mai capita, sai, ma neanche un po'. Forse mi vuole ancora lì, ma solo alle sue condizioni. Non so...» «E così le ha riso in faccia, e lei si è attaccato alla bottiglia, eh?» «No, non allora. Ho chiamato il mio editore e l'ho convinto a darmi quarantamila dollari d'anticipo per il mio nuovo libro...» «Quale nuovo libro?» lo interruppi. «Quello che devo ancora scrivere,» rispose. «Ma devo mandargli almeno cento pagine prima di vedere un solo dollaro. È per questo che ero venuto da te.» «Vuole che lo scriva io?» gli chiesi. «Oppure devo soltanto tenerla per mano mentre lo scrive?» Lui annuì lentamente. «Se tu venissi a casa mia a farmi restare sobrio per un mese, so che potrei farcela.» «Vuoi scherzare.» «No di certo,» disse. «Lo so, quanto ti devo, C. W., ma se tu mi facessi quest'ultimo favore, io... io farei qualunque cosa per te, ti darei qualunque somma. Devo solo tornare al lavoro, capisci, devo...» «Per i quarantamila?» chiesi. «Per Melinda?» «Già, proprio così,» borbottò. «Figlio di puttana,» dissi. «Lo faccio, va bene, ma non per lei o per il tuo stupido libro...» «Per lei,» disse sottovoce. «Va bene. E sempre più di quanto mi merito.» «E lei che ne pensa?» «Ancora non lo sa,» dissi. «Ha noleggiato un camioncino, ci ha caricato sopra tutti suoi lavori ed è andata a San Francisco.» «Fantastico,» dissi. «E perché non le ha dato una mano?» «Non me lo ha permesso,» rispose. «Ha detto che erano problemi suoi e se li doveva gestire da sola. Ma quando avrò il danaro, potrai darglielo tu a quella gente, e lei sarà fuori dei guai.» «Pure io,» dissi, ma non mi ascoltava più. «Dev'essere dura,» disse piano.
«Cosa?» «Arrivare in fondo a una sì grande ricerca e scoprire che la damigella è stata disonorata,» disse, quasi in un sussurro. «Soltanto da lei,» dissi, «soltanto da lei.» «Proprio questo intendevo,» disse. «Scoprire che la damigella è innamorata del drago, è sposata con una bestia irsuta e dall'alito fetente...» Tacque, e mi guardò fisso. «Avresti dovuto lasciarmi arrivare al fiume.» «Ci ho pensato sul serio.» «E perché non l'hai fatto?» «Perché lei la ama, immagino,» dissi, «anche se non capisco il perché.» «Nemmeno io.» «E lei?» gli chiesi. «Lei la ama?» Trahearne ci mise un sacco di tempo a rispondere. «Non so più che cosa significhi, questo,» disse, «ma so che senza di lei non posso vivere.» «Non mi sembra che con lei tu viva troppo bene.» Tacque di nuovo, ancora più a lungo. «Sai com'è. Tempo addietro non vedevo l'ora di invecchiare, per potermene fregare delle donne. Pensavo che quando fosse arrivato il momento, tutta l'energia che avevo sprecato nel rincorrerle sarebbe confluita nel mio lavoro. Pensavo che con la vecchiaia sarebbe arrivata la saggezza, e il mio disinteresse per il sesso mi avrebbe fatto diventare come un oracolo; ma non è andata così, figliolo, proprio no. È successo tutto molto più in fretta del previsto, e mi ha mandato fuori di testa. O forse ancor più fuori di testa. E quando Melinda ha riacceso il fuoco della passione, le sono stato così grato che ho finito per sposarla. Adesso ho terrore di perderla.» «Non le serve un investigatore privato, vecchio, ma uno strizzacervelli.» «Forse è vero, figliolo,» disse, «ma tu sei tutto quel che ho. Preferisco darteli a te, trenta dollari l'ora. Almeno, tu ogni tanto mi offri da bere.» «Non più,» dissi. «Il primo drink che le vedo bere è l'ultimo che le offro.» «Sarò mansueto come un agnellino,» disse con un gran sorriso. «Vedrai.» Appena i medici furono in grado di sottoporre Trahearne a una serie di analisi, scoprirono che quella di Trahearne non era un'ulcera perforata, ma un semplice attacco di gastrite acuta, causata dall'alcol. Il mattino dopo, lo dimisero dall'ospedale. «Tira su la capote,» mi disse vergognoso nell'accomodarsi sul sedile del
passeggero della Cadillac. Era così bianco in volto che sembrava che l'avessero truccato da clown. «Chiuda il becco e si goda il sole,» dissi nell'avviare la macchina. «Dove stai andando?» sospirò. «È la direzione sbagliata.» «Devo prendere il mio pickup.» Feci saltare la linguetta a una lattina di birra. «Non posso guidare,» disse Trahearne fissando la birra. «Lo so,» disse. «Ho una sbarra da traino nel baule. Me ne ha appena comprata una. Sono stufo di noleggiarle a destra e a sinistra. Stufo quasi quanto il dover rimorchiare le sue maledette macchine avanti e indietro.» «E mi farai fare quei settanta chilometri di strada sterrata?» disse. «Andata e ritorno?» «E le toccherà anche vedermi bere birra tutto il tempo,» dissi. «Che cazzo, se ci riesce Fireball, può farlo anche lei,» aggiunsi, indicando col capo il sedile posteriore su cui dormiva il bulldog. «Sughrue, sei proprio uno stronzissimo figlio di puttana,» disse Trahearne nel tergersi il sudore dal viso. «Preferisce una comprensione da due soldi, oppure un rendimento da cento dollari al giorno?» «Che ne dici di un po' di paroline giuste?» disse lui, quasi ridendo. «Lo zio Sam me ne ha comprata una sacchettata, ma non ho mai l'opportunità di usarle.» Trahearne sorrise fin quando non mi vide aprire un'altra birra, poi ci avviammo in direzione nord, verso le montagne. Io bevvi e lui mi guardò, fin quando non raggiungemmo il rustico, dove agganciai per l'ennesima volta i nostri due veicoli. Sulla via del ritorno, mi fermai in un paio di bar a Columbia Falls e Kalispell, poi in tutti quelli che trovai fino a Cauldron Springs. Il vecchiardo non aprì mai bocca. Rimase in macchina a sorseggiare 7-Up e a grattare la testa di Fireball. Quando infine parcheggiai davanti a casa sua era ormai pomeriggio inoltrato, e io ero sbronzo come un idiota. Quando aprii la portiera dell'El Camino, Catherine Trahearne la portò quasi via con la sua Porsche. Frenò di colpo e riuscì a fermarsi proprio di fronte a noi, poi saltò fuori e corse ad aiutare Trahearne a scendere dal pickup. «Come stai?» tubò. «Avresti dovuto permettermi di venire in ospedale, sai.» «Sto bene». Trahearne esalò un gran sospiro, mentre lei lo riempiva di smancerie. «Bene, bene. Solo un po' stanco. Forse andrò a farmi un sonnel-
lino.» «Sonnellino, o sorsettino?» chiesi nello scendere dal pickup. Trahearne mi rifilò uno sguardo triste e spossato, ma Catherine mi lanciò un'occhiata così furibonda da farmi quasi passare la ciucca. Niente come un po' di vero odio per attirare l'attenzione di un ubriaco. «Dorma bene,» aggiunsi come uno stupido, mentre lei aiutava Trahearne a entrare in casa. Quando furono scomparsi in casa, girai attorno all'El Camino per fare scendere Fireball, che fiutò con calma il prato, alla ricerca di un cespuglio. Non per pisciarci sopra, no; per nascondervisi dietro. L'idea di accucciarsi come un cucciolo qualunque lo imbarazzava a non finire. Finalmente riuscì a scovare un malconcio cespuglietto sempreverde per provvedere ai suoi bisogni. «Che cazzo ci fai laggiù?» gli chiesi. Ma non lo sapeva neanche lui. Quando spuntò da dietro il cespuglio, venne ad accucciarsi all'ombra accanto ai miei piedi. Mi appoggiai al parafango e continuai con la birra. Catherine uscì di casa e si avviò verso di me, la corta gonna a pieghe del suo completo da tennis che le andava su e giù nello scendere in fretta le scale. «Sei davvero bella, oggi,» le dissi. Era la verità. Un'estate passata a giocare a tennis le aveva regalato una profonda abbronzatura senza seccarle la pelle, e i rossi colpi di sole dei capelli le risplendevano sulle guance. Sapeva di profumo e di sudore, di olio di cocco e di sole. «Proprio bella,» dissi, levando la lattina di birra a mo' di brindisi, mentre un caldo bagliore di desiderio tornava a riscaldarmi il ventre. Lei mi si fermò davanti, e mi fece saltar via di mano la lattina, che andò a rimbalzare sulla ghiaia del vialetto e a versare un fiotto di schiuma sulla strada. «Che cazzo credi di fare?» chiese, cercando di ingoiare la sua stessa rabbia. «Ne ha avuti fin troppi, di affetto e compassione,» dissi. «Ora basta.» «E tu che cazzo ne sai?» disse insistente. «Quasi tutto quel che c'è da sapere in proposito,» dissi. «Mi ha assunto per farlo restare sobrio, e volevo solo vedere se davvero ne ha il coraggio.» «L'alcolismo è una malattia,» mi urlò. «Non ha niente a che fare col coraggio.» «Be', lui ha assunto me, non te,» dissi. «Neanche lo fai per lui,» disse. «Lo fai solo per lei». Neanche mi detti la
briga di negare. «Oh, quella maledetta puttana,» sibilò. La rabbia le appiattiva le labbra, e le tirava la pelle sugli zigomi, a tal punto che il suo volto brillava come il teschio incartapecorito di una mummia. Sottili linee bianche le luccicavano roventi agli angoli degli occhi, alle tempie, e lungo la mascella. Sibilò di nuovo, questa volta un silenzioso insulto, batté il piede in terra e infine corse alla sua Porsche e filò via ruggendo in una nuvola di polvere e ghiaia. Andai a prendere un'altra birra e la guardai andarsene. S'infilò nella superstrada con una derapata su quattro ruote davvero ben fatta. Doveva già essere a mezza strada per tornare in città, quando vidi lampeggiarle le luci dei freni. Aveva inchiodato per poi fermarsi, slittando, nel bel mezzo della strada, dove rimase parecchi minuti. Infine, con deliberata lentezza, fece inversione di marcia e tornò verso la casa. «Vorrei che tu accettassi le mie scuse,» disse nel fermare la macchina nei miei paraggi. «Sono davvero dispiaciuta.» «Non ti scusare,» dissi mentre scendeva. «È un segno di debolezza.» Fu all'istante percorsa da un nuovo accenno di rabbia, ma riuscì a tenerlo a freno. «Come?» disse. «È quel che dice John Wayne,» feci. «Non ricordo in quale film, ma so che l'ha detto lui.» «È il tuo eroe, non è vero?» «Solo gli sciocchi hanno eroi,» risposi. «Vedo,» disse con un lento sorriso. «Commetto sempre l'errore di sottovalutarti, no?» «Sempre meglio che sopravvalutarmi, non ti pare?» «Non ne sono mica tanto sicura,» disse, «ma di certo sono dispiaciuta.» «Lascia perdere,» dissi. «È un'impresa inutile, e non è detto che la stia portando avanti nel modo migliore. Però è l'unico che conosco. Orgoglio e coraggio. È l'unica cosa che funziona, con Trahearne.» «Quando il gioco si fa duro, i duri incominciano a giocare?» mi chiese allusiva. «Prendimi in giro, se ti va, ma è il segreto della forza di carattere.» «Mi spiace». Rise, e mi toccò il braccio. «È che non posso fare a meno di stuzzicarti. Hai un'aria così seria.» «Gli ubriachi sono sempre seri nel momento sbagliato,» dissi. «Pensi davvero di riuscire a tenerlo sobrio per qualche tempo?» «Se davvero ne ha la volontà, posso dargli una mano, almeno credo. Può valer la pena di tentare.»
«Forse dovrei venire a prepararvi la cena, a tutti e due.» «Grazie,» dissi, «ma ce la caveremo da soli.» «Mi stai mettendo alla porta con gentilezza?» «Qualcosa del genere,» ammisi. «Forse hai ragione tu,» disse. «Vieni a berti qualcosa, dopo cena.» «Vedremo,» risposi. «Ma certo». Si allungò a baciarmi su un angolo della bocca. «Abbine cura. Fallo per me.» «Farò del mio meglio,» dissi, e lei annuì cone se ne fosse davvero convinta. Tornò alla sua macchina e fece un lento giro per avviarsi verso la casa della madre di Trahearne. Per l'ennesima volta mi caricai i bagagli sulle spalle e li trasportai con fatica su per le scale. Invece di fare il suo sonnellino, però, Trahearne era seduto alla scrivania, in calzoncini e maglietta, e manovrava assorto il carrello della Colt .45. Vicino al suo gomito c'era un bicchiere pieno di whisky liscio, appena versato. «Non preoccuparti,» disse mentre portavo le valigie nel soggiorno. «Non intendo certo farmi saltare le cervella. Preferisco il lento suicidio dell'alcol». Poi levò il bicchiere di whisky. «E non preoccuparti neanche di questo,» disse nel metterlo giù, «la sua presenza, in qualche modo, mi conforta». Riprese la .45 e girò sulla poltroncina per guardarmi in faccia. La grossa automatica, in mano sua, sembrava minuscola. Se la lasciò ciondolare dalle dita come un'ala spezzata. «Hai preso d'assalto quella casa, giù in Colorado, come un bravo soldato,» disse. «Lo sei stato davvero?» «Sembrava l'unica possibilità, all'epoca,» dissi. «Il miglior modo per sopravvivere.» «È questa la grossa differenza,» disse calmo, «tra la tua guerra e la mia. Voi ragazzi sapevate che se foste riusciti a superare la ferma, la guerra per voi era finita. Noi sapevamo che ci avrebbero ammazzato, prima o poi. Era l'unico modo per andare avanti: accettare in anticipo la nostra morte. Ma non è questo il punto, o sbaglio?» «E qual è il punto?» gli chiesi sedendomi. «Qual è la cosa peggiore che hai fatto in guerra?» mi domandò a bruciapelo. Non era una domanda buttata lì a caso, e io non avevo una risposta qualunque. «Stavamo combattendo in un villaggio a sud di An Khe, un buco chiamato Plei Bao Three,» dissi, «e io lanciai una granata su una capanna e fe-
ci secche tre generazioni di vietnamiti. Entrambi i nonni, la figlia, e i suoi tre bambini.» «E prima di questo, eri un buon soldato?» mi chiese. «Penso di sì.» «E dopo?» «Non c'è stato alcun dopo,» dissi. «Finii in una prigione militare. Una troupe televisiva canadese stava riprendendo l'attacco, e la sera dopo io finii al telegiornale. Quindi furono costretti a rinchiudermi.» «Queste sono azioni politiche,» disse Trahearne, agitando verso di me la mano vuota, «non di guerra». Dopo aver fatto fuori il trauma più importante della mia esistenza con un cenno della mano, Trahearne proseguì. «Adesso ti dico qualcosa che non ho mai detto a nessuno.» «Che bello,» dissi, ma lui non se ne accorse. «Quando sbarcammo a Guadalcanal, non ero un gran che, come Marine,» fece. «Certo, camminavo e parlavo e combattevo proprio come uno di loro, ma era tutta una finta. Probabilmente pensavo che ce l'avrei fatta a sfangarmela in quell'accidente di guerra, non so, ma andavo avanti solo per inerzia, cercando di fare bella figura. Poi una volta, eravamo trincerati su per il fiume Tenaru, i giapponesi lanciarono un'offensiva notturna. Riuscimmo a resistere, e gli spaccammo il culo, e fu lì che ebbi qualche idea dei miei errori. Alla fine, però, risolsi tutto da solo.» «Stavamo controllando i cadaveri dei giapponesi,» continuò, «e io scovai questo coscritto che galleggiava nelle acque basse a faccia in su. C'era pochissima luce, appena sufficiente per capire che era ancora vivo, abbastanza perché lui mi vedesse. Mi chinai, e gli sparai in mezzo agli occhi con questa .45.» «Non credo di doverti dire com'è così da vicino,» fece. «Immagino che già lo sai. Ma io mi costrinsi a guardare, a non indietreggiare, e fu allora che capii che cos'era la guerra. Non era politica o sopravvivenza o tutte queste stronzate, ma era solo uccidere senza tirarsi indietro, vivere senza paura». Poi tacque, e gettò la pistola su un cumulo di fogli. «E così che ho vissuto, da quella notte, ed è qui il mio errore. Se non sai tirarti indietro, sei già peggio che morto.» «È stato un sacco di tempo fa,» dissi. «Forse è giunta l'ora di smettere questa autoflagellazione.» «Tu hai smesso di darti la colpa è per tutti quei civili morti?» mi chiese subito. «Un po'.»
«Allora ti è andata bene,» disse con tristezza. «Io non riesco a smettere. Quindi finirò per arrendermi. Sta' a sentire. So bene che razza di sciocchezze sentimentali siano le mie poesie, e so anche che mucchio di stronzate da macho siano i miei romanzi - sono fasullo proprio come quella maledetta pazza di mia madre - ma in questi ultimi assurdi mesi qualcosa ho imparato, e ho deciso di chiudere con tutto il resto. Ed è tutta colpa tua.» «È sempre colpa mia,» dissi spensierato. «All'inizio, volevo solo che tu scoprissi qualcosa su Melinda, così anch'io avrei saputo - se non fosse stata Rosie ad assumerti, avrei trovato lo stesso il sistema - ma poi ti ho visto metterti sulle sue tracce per un sorriso e ottantasette dollari, e non l'hai mai giudicata, nemmeno una volta, l'hai perdonata senza mai chiedere nulla in cambio. In ospedale, non ho fatto altro che pensare a questo, e alla fine ho capito. Tutto questo tempo, tutti questi anni dopo la guerra, mi sono sempre preoccupato di essere duro il più possibile, di come fare a vivere senza paura, ma quando siamo arrivati al dunque, quando la questione era vivere piuttosto che morire, non ho avuto il coraggio di perdonare la donna che amavo. Non ce l'ho fatta, figliolo, neanche un pochettino». Tacque abbastanza a lungo per raccogliere la .45 e spingere il fascio di pagine giù dalla scrivania. «Quindi adesso ho chiuso. Intendo scrivere uin romanzo sull'amore e sul perdono. Anche se mi dovesse uccidere. E per questo non ho intenzione di farmi saltare le cervella con questa». Tornò a gettare la pistola sulla scrivania. «Non è altro che un fermacarte, adesso.» «Bene.» «Ho premuto il mio ultimo grilletto, figliolo,» disse sorridendo. «Cazzo, neanche l'ho premuto io il grilletto, quella sera. Ho solo infilato un colpo nella camera di scoppio, ed ero così sbronzo che l'ho fatto con il grilletto indietro, e quel figlio di puttana è scattato da solo. Nessuno c'è rimasto peggio di me.» «Be', c'è chi è rimasto a bocca aperta,» dissi restituendogli il sorriso. «Nessuno più di me,» disse, poi rise chioccio porgendomi il bicchiere di whisky. «Adesso fuori di qui, figliolo. Ho del lavoro da fare.» «Giusto,» risposi. Nell'alzarmi e vederlo raccogliere le sue matite appuntite e un nuovo quadernone mi scoprii uno strano groppo in gola e un curioso bruciore agli occhi, ma me ne andai per i fatti miei prima che il vecchiardo se ne potesse accorgere. Trahearne lavorò fino all'ora di pranzo, poi mangiò uova strapazzate e
salsiccia senza alzarsi dalla scrivania, allontanandomi con un cenno quando gliene offrii ancora. Visto che sembrava sotto pressione, decisi di andare a farmi un giro, a vedere come stava il bulldog. Fireball aveva mangiato quasi tutti gli omogeneizzati, e si era addormentato ancora col naso nella ciotola. Lo lasciai stare e mi spostai verso il torrente. Al ponte, trovai Catherine. Indossava un vestito lungo di maglia, che le si increspava sul corpo alla luce del tramonto. «Venivi a farti un drink?» mi chiese nel saldarmi le braccia al collo e spingere l'inguine contro il mio. «Più o meno,» dissi, facendo scivolare le mani attorno a quell'esile girovita. «Non abbiamo un posto dove andare, amore,» mi sussurrò sulla bocca, baciandomi. In realtà, non sembrava che avesse molta importanza. Abbassò rapida le mani e mi sbottonò i Levi's, poi sollevò le lunghe falde della sua gonna, avvolgendosele attorno ai fianchi, così che potessi sostenerle con la mano sana le natiche nude, mentre piegavo le ginocchia. Al termine, le sbirciai alle spalle, in direzione della casa di mamma Trahearne. Si mosse una tenda, a una finestra del piano superiore, come se qualcuno si fosse appena scostato. «Mi sa che la vecchia ci stava guardando,» dissi. «Che vada al diavolo,» fece Catherine nel lisciarsi la gonna sulle belle gambe muscolose. «Ti ha mai soltanto sfiorato l'idea che forse non dovremmo?» le chiesi. «Non mi viene mai in mente prima, soltanto dopo,» rispose, e scoppiò a ridere con grazia. «Domani sera,» aggiunse. «Stesso posto, stessa ora». Poi si allontanò nel crepuscolo ormai avanzato, prima ancora che potessi dirle di no. Ma l'indomani sera, quando arrivai al ponte dopo cena, trovai ad aspettarmi Edna Trahearne. Indossava, come al solito, i suoi abiti da pescatore in pensione, ai quali aveva aggiunto un cappello irlandese di maglia, per difendersi dal fresco della sera. Mentre imboccavo il ponte, grugnì come se fossi arrivato in ritardo alla lezione di pesca. «Cerchi di controllare il suo disappunto,» mi ringhiò. «Catherine sta ancora sparecchiando. Arriverà tra poco.» «Mi fa piacere rivederla, signora Trahearne,» dissi, appoggiandomi al parapetto, accanto a lei. «Abboccano?» «Ma che personcina beneducata,» disse a presa di culo. «Com'è che ha
fatto a impegolarsi con tutti questi poveri mortali?» «E lei?» «Un istante di stupida passione, figliolo,» rispose, per poi prorompere in un vero e proprio cachinno, una risata temeraria e febbrile che fendette la sera come il richiamo di una strolaga. «Sentiamo la sua scusa.» «Credo di non averne, signora.» «Meglio se ne trova una, figliolo,» mi consigliò cordiale. «Ha messo il piede in un nido di vipere, e se è qui senza un buon motivo non ha alcuna ragione di starci.» «Un giorno di lavoro, un giorno di paga,» dissi, e lei rise di nuovo. «La trovo di buon umore, stasera,» aggiunsi. «Ogni volta che quella puttanella sparisce, il mio umore migliora in maniera sensibile,» disse, e attese che abboccassi all'esca. Quando si convinse che non l'avrei fatto, grugnì di nuovo e cambiò discorso. «Che le è capitato alla mano, figliolo?» «Ho tirato un cazzotto alla mascella del suo bambino,» confessai. «Chi fa il suo lavoro dovrebbe pensarci due volte, prima di colpire un uomo grosso il doppio di lui.» «Ci ho pensato,» dissi, «ma poi l'ho fatto lo stesso. Per puro e semplice piacere.» «Davvero, figliolo, lei è proprio educato,» disse con un sorriso storto come le sue dita, «ma non è certo carino. Neanche un po'.» «Sissignora,» risposi, e la vecchia si voltò per arrancare verso casa, fermandosi un istante per dire qualcosa a Catherine, che si stava dirigendo al ponte. Non riuscivo a sentire quel che diceva Edna, ma Catherine si guardò alle spalle per lanciarmi un sorriso, lo stesso sorriso che mia madre era solita definire di serpente. Alla fine della conversazione, la vecchia riprese la strada di casa, mentre Catherine venne piano verso di me. Aveva lo stesso vestito verde, morbido e lungo, della sera precedente, e teneva in mano un bicchiere alto. «Vedo che non sei sempre rispettoso nei confronti degli anziani,» disse nel salire sul ponte, sempre con lo stesso sguardo malizioso in viso. «Con te lo sono sempre,» dissi. «Lo trovi divertente battere sempre sulla mia età?» mi chiese, il sorriso di colpo svanito. «Era solo una battuta,» dissi a mo' di scusa. «Non mi ha fatto ridere,» disse lei, mulinando con furia il suo drink. «Mi spiace.»
«Perché non te ne torni a giocare alla bambinaia?» «Ben detto, signora mia,» dissi, e mi avviai. «C. W.,» mi chiamò sottovoce, ma io tirai dritto. 17 Per quasi due settimane tutto filò per il meglio, e io e Trahearne coabitammo in maniera piacevole, come due vecchi scapoli impotenti, proprio come più o meno era successo durante la sua lunga visita sul North Fork. Per me era come essere in vacanza. La mattina andavo a correre, poi mi sedevo al sole e proseguivo la mia esplorazione di gran parte della sua biblioteca. Dopo pranzo, spostavo la poltrona all'ombra e riprendevo la lettura del libro che avevo lasciato a mezzo. Trahearne scriveva tutto il giorno, nella sua grafia selvaggia, borbottando a mezza voce. Tutti i pomeriggi, verso le cinque, usciva di casa a stiracchiarsi. «Sempre a scribacchiare, eh, signor Gibbon?» ringhiava, poi si metteva a ridacchiare nello scendere le scale per la sua ginnastica quotidiana, e fischiava per richiamare Fireball. Il vecchiardo e il bulldog se ne andavano a piedi fino in città, tutti i pomeriggi, mentre io li seguivo sulla Cadillac come un allenatore che sorveglia i suoi pugili che fanno footing. Quando Trahearne non ce la faceva più, li facevo salire in macchina e li portavo alla piscina dell'hotel, dove Trahearne si adagiava come un vecchio tricheco, fin quando il capo non gli cominciava a ciondolare. Allora accompagnavo i due invalidi a casa, e li nutrivo. Dopo cena entrambi se ne andavano a dormire, e io scendevo dabbasso a spararmi qualche birra e a guardare la televisione, fin quando a mia volta non trovavo rifugio nel sonno. Tutte le mattine, mentre io ero impegnato nella mia corsa, Catherine portava a Trahearne un fascio di fogli battuti a macchina, e recuperava il manoscritto del giorno prima, per ricopiarlo. Una volta, però, arrivò tardi, e mi trovò seduto in veranda, di ritorno dalla corsa, che respiravo affannosamente. Salì i gradini, mi salutò con un cenno del capo ed entrò in casa. Quando ne uscì, però, volle fermarsi. «Immagino che tu lo trovi strano,» disse agitandomi i lunghi fogli gialli sotto il naso. «Nessun altro al mondo è in grado di decifrare la sua grafia,» dissi. «Faccio quel che posso, e ne sono felice,» disse altezzosa, e se ne andò. «Come tutti,» le sussurrai alle spalle. Trahearne riuscì a rimanere sobrio, eccetto che per una sorsata di birra il
pomeriggio che levammo un brindisi alla salute di Fireball, la prima volta che riuscì ad alzare la gamba per una pisciatina. «Dio, se è buona,» sospirò dopo aver deglutito, «è buona davvero, cazzo.» «La prima è sempre buona,» gli ricordai nel riprendermi la lattina. «Giusto,» disse, e partì per la sua passeggiata. Fireball lo seguiva obbediente, marcando ogni cespuglio e pietra in vista. Quando raggiunsero la superstrada, Fireball attraversò la strada per andare a bere al torrente, e per tutto il tempo, fino in città, Trahearne non fece altro che scocciare il bulldog, dicendogli di abbassare quella gamba e di darsi una mossa. Quella sera, nel calarsi nelle acque della piscina, il vecchiardo mi chiese perché non facessi più il bagno assieme a lui. «È come nuotare nel moccio di qualcun altro,» dissi. «Sughrue,» fece lui a bassa voce, «sei l'essere umano più disgustoso che abbia avuto il dispiacere di incontrare.» «Almeno io non nuoto nel...» «Perdio, non dirlo più,» strillò, e infilò la testa sott'acqua. Nel riemergere, finse un enorme starnuto e mi schizzò da capo a fondo. La sua risata riecheggiò nello stanzone piastrellato, riempiendolo di un suono simile a quello di vetri infranti. Poi mi inondò ben bene. «Mai più!» gridava. «Non ripeterlo mai più!» Allungai uno stivale fradicio e gli ficcai la testa sotto. Lui mi afferrò la caviglia con quella manona e mi fece rotolare in acqua dal bordo della piscina. Tornammo a galla ridendo come bambini. Più tardi, quella sera, mentre guardavo la televisione e facevo asciugare i vestiti, udii un colpetto sulla grande finestra panoramica del seminterrato. Alzai gli occhi e vidi Catherine che mi sorrideva. Avevo i pantaloni quasi asciutti, e così me li infilai prima di andare ad aprire la porta. «Ma che ragazzo pudico,» disse lei, ancora sorridente. «Mia madre era una venditrice della Avon,» dissi, «e mi ha insegnato a non aprire mai la porta in mutande.» «Tutto torna,» rispose, sospirando, e il sorriso le svanì per non tornare. «Sta' a sentire, mi sono stufata di stare rinchiusa quassù. Stasera, quando ho finito di battere a macchina, mi sono resa conto di aver bisogno di uscire da questa casa. Perché non dichiariamo una tregua, e non mi porti giù in città a bere qualcosa?»
«Buona idea,» dissi. Alle due, quando lo Sportsman Bar tirò giù il bandone, mi feci servire una mezza dozzina di drink in bicchierini di plastica e li portai alla Porsche di Catherine. Mentre cercavo di salire in macchina tenendoli in equilibrio, lei allungò una mano a sfiorarmi la guancia. «Di un bel bagno di mezzanotte, che ne dici?» «Buona idea,» risposi. Spinse la spider per la città ormai buia e la parcheggiò dietro l'hotel, poi scese ad aprire la porta posteriore della piscina. Mentre Catherine si toglieva i vestiti, io allineavo i bicchierini sul bordo della piscina. Poi venne a darmi una mano. «Lo facciamo prima o dopo, il bagno?» sussurrò quando anch'io fui completamente nudo. «Durante,» risposi. Le saltai addosso, e rotolammo nel tiepido, viscoso abbraccio dell'acqua. Più tardi ci sedemmo sul bordo della piscina, i piedi che ciondolavano in acqua. Filamenti di vapore sormontavano la superficie increspata e, come una distante eco di tuono, la sorgente gorgogliava lieve dalla parte opposta dello stanzone. L'ultimo quarto di luna scorreva lentamente dietro un lucernario. «È così strano quaggiù, la notte,» sussurrò Catherine. «Sembra l'ingresso di qualche mondo sotterraneo, dove fa sempre caldo e c'è sempre silenzio. Per questo parlo sottovoce. Quando è tutto chiuso come stasera, non ti sente nessuno all'hotel, nemmeno a gridare.» «E tu non gridare,» bisbigliai portandole la mano alla bocca. Lei mi ridacchiò sulle dita. Quando spostai la mano, lanciò un grido acutissimo che infranse il silenzio e riecheggiò da una parete all'altra. «Mi spiace,» disse sottovoce, e tornò a ridere, stavolta con la sua mano davanti alla bocca. «Signora, lei è proprio andata,» dissi annaspando alla ricerca di un altro drink. Il ghiaccio si era sciolto, ma lo buttai giù lo stesso. «Che meraviglia,» sospirò, stretta a me. «Ti dirò un segreto.» «Allora non sarà più un segreto.» «Basta che non lo dici a nessuno,» disse lei. «Sono troppo sbronzo per ricordare.» «D'inverno, quando vengo qui la notte, esco dalla piscina e vado a rotolarmi nella neve, poi mi ributto in acqua.»
«Ma se lo sanno tutti, giù in città,» dissi. «Accidenti a te,» sibilò, e mi batté una lieve pacca sul torace. «Dovresti provarlo, una volta o l'altra. Ci si sente rinascere.» «Rotolarmi nudo nella neve non è proprio come intendo un'esperienza mistica,» dissi. «Donnicciola.» «Sarò anche una donnicciola, ma a rotolarsi nella neve ci si congela le palle,» feci. «Sei proprio tremendo,» disse. «Eccetto quando sei meraviglioso.» «È quel che dico sempre anch'io.» «Ti rivelerò un altro segreto, signor tremendo.» «Ho già scordato quello di prima,» dissi. «Sei il primo che ho mai portato qui,» disse, guardandosi i piedi che muovevano l'acqua. «Il primo in assoluto.» «Sono davvero colpito.» «Non fare il cinico,» disse. «Questo posto è davvero speciale per me». Si raddrizzò. Le strisce di pelle non abbronzata risplendevano nel buio, e quando si voltò per mettersi di fronte a me il biancore del suo seno era luminoso quanto una piccola luna. Doveva essersi accorta che la guardavo, perché si affrettò a coprirsi con le mani abbronzatissime. «Il chirurgo plastico che mi opera ha detto che da ora in avanti ho il cinquanta per cento di possibilità di riuscita,» disse disinvolta. «E mi ricorda sempre di come sono stata fortunata a non avere figli. Trahearne non ne voleva sapere». Non dissi nulla, e fu lei a continuare. «Considerando com'è andata a finire, forse aveva ragione lui.» «È già sufficiente Trahearne, come bambino.» «Trahearne è un grande artista,» disse subito, «e ogni sacrificio che ho fatto è stato dedicato alla sua grandezza.» «Okay,» dissi, con l'intenzione di sembrare rimesso al mio posto. «Non sembri molto convinto,» disse. «Guarda, sono molto affezionato a quel vecchio coglione,» dissi, «ma lascerò che a decidere per mio conto siano gli esperti in grandezza e stronzate del genere.» «C. W., certe volte dai prova di una ristrettezza di vedute che proprio non ti si addice.» «Provinciale, eh?» «Un vero e proprio buzzurro,» disse lei, e scoppiò a ridere. «Brutto imbroglione,» aggiunse poi. «So tutto di te. Trahearne mi ha era ccontato o-
gni cosa». Non avevo niente da dire, neanche su questo argomento. Se Trahearne voleva parlare con la sua ex moglie, cazzi suoi. «Io mica gli dico tutto,» disse Catherine, «se è questo che ti preoccupa.» «Non mi preoccupo mai.» «Io sì, di Trahearne,» disse lei seria. «Forse è il caso che tu smetta,» le suggerii. «No. È proprio adesso che ha più bisogno di me,» disse. «Penso che tu possa capirlo.» «Sicuro.» «Mica sei geloso, eh?» «Non credo,» dissi. «Sono un tipo frugale, e se tu vuoi fare da balia a Trahearne, è un problema vostro.» «Non proprio,» disse lei piano. «Come?» «Melinda,» sussurrò. «Giusto.» «Sai, penso che la odierei anche se non mi avesse portato via il marito,» disse lei. «Gelosa?» «Solo del suo rovescio.» «Cosa?» «Quando è arrivata qui, all'epoca in cui stavo ancora cercando di prendere per il meglio tutta la situazione, la invitai a giocare a tennis, un pomeriggio,» disse Catherine. «E com'è andata?» «Mi ha umiliato, dapprima sul campo e poi nello spogliatoio, quando siamo venute a farci una nuotata,» disse lei. «So che hai visto quel corpo che nasconde sotto quei tremendi vestiti a sacco, e puoi immaginarti come mi sia sentita io, quando l'ho visto». Tacque. «Non che me l'abbia mostrato lei, che ha fatto del suo meglio per nasconderlo, devo ammetterlo, ma sono stata io a sbirciare nella doccia. Questo è stato il momento più duro tra molti momenti difficili.» «Anche tu sei una bella donna,» dissi. «Carino da parte tua, pensarlo,» disse. «Immagino che anche a letto sia meglio di me.» «Non saprei dire,» feci. «Ma guarda,» disse, con aria sorpresa. «Pensavo che distribuisse con larghezza i suoi favori.»
«Non sei l'unica a pensarlo,» feci io. «Sei un po' innamorato di lei, o sbaglio?» «Può essere.» «Trahearne pensa di sì.» «Forse che sì, forse che no,» ammisi. «Non so altro.» «Cazzo.» «Che c'è?» «Sei abbastanza sobrio? Devo farti una domanda molto importante.» «Sicuro.» «Pensi che sarebbe capace di lasciarlo? Nella situazione giusta?» «Proprio non saprei,» dissi. «Lei lo ama, ma pensa che lui non la ami più. Potrebbe andarsene, ma non saprei dire quale potrebbe essere questa situazione giusta.» «Pensaci su un momento,» disse. «Nella borsetta ho tre assegni circolari. Uno per quarantamila dollari, al portatore. Un altro per ventimila, intestato a Betty Sue Flowers. E un terzo a nome tuo, per diecimila.» «No,» dissi. Mi alzai e feci per prendere i miei vestiti. «Ascoltami,» disse, seguendomi. «Ascolta bene. Trahearne ha ripreso a lavorare, ha smesso di bere e ha la possibilità di continuare a scrivere per il resto della vita. Se lei torna a vivere qui, lui morirà entro un anno. Devi saperlo.» «No,» dissi. «Non voglio entrarci.» «Quando se ne tornerà da San Francisco, Trahearne ti chiederà di andarla a prendere all'aeroporto di Meriwether,» disse Catherine frugando nella borsetta, «e tu non dovrai fare altro che convincerla a risalire su quell'aereo - o un altro, fa lo stesso - e a uscire dalle nostre vite.» «No.» «Ti prego,» disse, nel porgermi una lunga busta bianca. «Trahearne mi manderebbe di nuovo a cercarla,» dissi nel soppesare la busta. Settantamila dollari sembravano leggeri come una piuma, eppure così pesanti, tanto che la mia mano faceva fatica a sorreggerli. Picchiettai la busta sul gesso, che si stava già sbriciolando dopo essersi bagnato due volte nello stesso giorno. «Me la farebbe cercare di nuovo.» «Ma se ti ci volesse parecchio tempo a trovarla, diciamo il tempo sufficiente a Trahearne per terminare il suo nuovo libro, non importerebbe più nulla». Non dissi niente. «Vorrei che tu leggessi l'inizio del nuovo romanzo. È magnifico, e capiresti subito perché tutto questo è così importante.» «Non posso farlo,» dissi tentando di restituirle la busta.
«Allora pensaci e basta,» disse lei. «Tieni il danaro e pensaci su. Almeno questo me lo devi.» «Immagino di sì,» risposi nell'appoggiare la busta sul pavimento mi infilarmi i vestiti. «Di chi sono questi soldi?» le chiesi quando ci fummo ricomposti. «Ha importanza?» «Forse.» «Metà miei, metà di Edna.» «Ci penserò su, ma so già che non ne farò di niente,» dissi. «Se non riesci a convincerla,» sussurrò Catherine gettandosi tra le mie braccia, «Trahearne è un uomo morto.» «Non posso,» dissi, e affondai il volto nei suoi capelli bagnati. Sotto l'acuto odore minerale dell'acqua della sorgente, aleggiava ancora la lieve fragranza floreale del suo profumo. «Sarebbe tutto così semplice, se tu lo facessi,» mi bisbigliò sul collo, «e così tremendo se ti tirassi indietro.» «È già abbastanza tremendo,» dissi. Guidammo in silenzio fino alla casa di Trahearne, e quando mi lasciò Catherine non mi dette nemmeno la buonanotte. La guardai dirigersi verso l'altra casa e parcheggiare la macchina nel garage sul lato più lontano, guardai le luci che via via si accendevano e si spegnevano. La luce nel soggiorno rimase accesa più a lungo delle altre, come se Catherine si fosse messa a rimirare i cimeli bellici di Trahearne. Poi il piano inferiore piombò nel buio e un soffice bagliore illuminò le finestre del primo piano, come se qualcuno avesse acceso le luci del corridoio. Nel voltarmi, vidi accendersi anche le luci delle camere, e scorsi le ombre delle due donne che si muovevano ciascuna dietro i propri tendaggi. La vecchia era rimasta dabbasso, ad aspettare nel buio tra i ricordi di quella vecchia guerra. Un brivido mi passò lungo la schiena, e mi diressi all'El Camino, aprii il copricassone e mi infilai all'interno per mettere sottochiave la busta, nella custodia delle armi, in fondo alla cassetta degli attrezzi. Andai a letto prima che cominciassero a venirmi i pensieri più disparati. Però su una cosa Catherine aveva ragione: due giorni più tardi Trahearne mi chiese di andare a prendere Melinda a Meriwether, così lui non avrebbe perso neanche un giorno di lavoro. Quando scese dalla scaletta, quasi non la riconobbi. Indossava un completo di sartoria di taglio maschile, in un color pesca scuro; i suoi capelli
erano di nuovo biondi, ancora corti ma ben sfumati, invece che ispidi come in precedenza, e si era applicata anche un leggero strato di trucco. Quando attraversò di buon passo la pista e le porte del terminal, l'intera attività dell'aeroporto parve fermarsi, e tutti quanti guardare lei. Aveva un nuovo paio di stivali di pelle, dal tacco alto e squadrato, e non ebbe bisogno di alzarsi in punta di piedi per darmi il lieve bacio e il leggero abbraccio con cui aveva voluto salutarmi. «Ti piace la mia nuova personalità?» mi chiese, con un sorriso così caldo e abbagliante da accecarmi quasi. «Cristo santo,» borbottai. «Grazie,» disse, accettando il complimento come se sapesse di meritarselo. «Come stai?» «Sopraffatto dal desiderio,» dissi. «Grazie, di nuovo,» disse tranquilla, poi fece dondolare la borsetta a tracolla e si avviò a recuperare i bagagli. Sul nastro trasportatore apparve una coppia di valigie di cuoio, in tinta. Lei le indicò con un cenno del capo, e io le raccolsi. «Che accidenti c'è dentro?» grugnii. «Una nuova vita,» rispose sorridendo. La seguii all'esterno fino all'El Camino, affrettandomi per tenere il suo nuovo passo, così sicuro di sé. Anche vista da dietro, sembrava felice. Quando aprì la portiera dal lato del passeggero, Fireball rotolò fuori per salutarla. Ancora un po' d'eccitazione in più, e si sarebbe rotolato sulla schiena per poi pisciarsi addosso come un cucciolo. Invece si limitò a balzare per ogni dove, a latrare e a sbavare fin quando rimase senza fiato. «Il vecchio Fireball MacRoberts sembra proprio essersi rimesso,» disse chinandosi ad accarezzargli le orecchie mozze. «Roberts,» dissi io, nel gettare le valigie sotto il telone. «Cosa?» mi chiese. «Fireball Roberts,» dissi. «Non MacRoberts.» «Che differenza vuoi che faccia,» disse lei tutta allegra, e non potei che concordare. «Ho quasi paura di chiederti cosa è successo,» esclamai nell'avviare il pickup. «Offrimi una birra e ti racconterò ogni cosa,» disse, e aprì il frigobar tra i sedili per far saltare la linguetta a due lattine. Me ne porse una, poi bevve metà dell'altra in una sola, lunga sorsata, con un fluido movimento dei muscoli del collo. «Che hai fatto alla mano?»
«Ancora rotta,» dissi, battendo quel che era rimasto del gesso sul volante. «Che è successo?» chiese. Avevo commesso l'errore di credere che già lo sapesse, ma sembrava che Trahearne non le avesse detto nulla. E, a questo punto, non l'avrei fatto neanche io. «Una delle solite cose,» dissi. «Be', se proprio vuoi fare il misterioso,» fece lei, per poi scoppiare a ridere e muovere all'attacco della birra. Vuotò la lattina e la schiacciò come un fazzoletto di carta, la gettò dietro il sedile e ne prese un'altra. «Pronto?» «Non ancora,» dissi, soppesando la mia lattina, ancora quasi piena. «Che hai combinato laggiù?» «Non so da che parte cominciare. Mi sono capitate tante di quelle cose meravigliose. Ho trovato una galleria in Ghirardelli Square che ha molto apprezzato i miei lavori, tanto da organizzare una mostra. E in tre giorni ho venduto tutto. Riesci a crederci? Il resto, l'ho spedito in un posto a L.A., e quindi è tutto sistemato.» «Poi sono andata a trovare tutti i miei vecchi fantasmi. Io e Rosie ci siamo sbronzate come tegoli, abbiamo litigato a morte, e infine ci siamo messe a piangere e a ridere l'una nelle braccia dell'altra». Tacque abbastanza a lungo per scoppiare in una risata vertiginosa. «Poi sono andata a trovare il signor Gleeson, un vecchio scemo patetico. Infine, senza avvertire, sono capitata dal vecchio Albert, e per smettere di balbettare gli ci sono voluti due Valium e un whisky gigante. Ho perdonato quel figlio di puttana per essersi comportato in quel modo, e lo sai che cosa ha fatto?» «No, ma posso immaginarmelo.» «Ha cominciato a fare il piacione, e quando ha visto che non gli davo retta, anzi gli ho riso in faccia, è scoppiato a piangere e si è fiondato al piano di sopra dal suo strizzacervelli. Fantastico». Rise di nuovo, poi si mise a frugare nella borsetta. Quando ne estrasse una lunga busta bianca, mi detti da fare con la birra, ma lei mi sbatté la busta sul petto. «Cinquemila dollari in contanti,» disse. «Puoi fare in modo di recapitarli a Hyland da parte mia?» «Va bene,» balbettai, e mi ficcai la busta nel taschino della camicia. «Un anticipo su una nuova vita.» «Melinda...» attaccai a dire. «Betty Sue,» mi interruppe a bassa voce. «Betty Sue Flowers. È un nome rispettabile.»
«L'ho sempre pensato anch'io,» dissi. «Come sta Trahearne?» mi chiese. «Al telefono, non aveva molto da dire.» «Lavora come un mulo, e non ha più toccato un goccio.» «Però mi ha detto che sei stato una balia eccezionale,» disse. «Pensi di restare ancora, no? Fino a quando avrà bisogno di te?» «Penso di sì,» dissi, «a meno che tu non voglia scappare con me.» «Non fare lo sciocco,» ridacchiò nell'affibbiarmi una gran manata sulla coscia. «Sono appena tornata.» 18 Non appena arrivammo a casa, Betty Sue balzò fuori dal pickup e si slanciò per i gradini della porta d'ingresso. Io e Fireball la seguimmo pian piano - io per educazione, e Fireball perché ancora si esercitava a prendere la mira - ma lei ci aveva aspettato sulla soglia, il dito alle labbra. «È al lavoro,» sussurrò. «Ascolta,» dissi nel posare le sue valigie, «penso che oggi pomeriggio andrò a pescare. Ti lascio da sola con il grand'uomo.» «Non fare la carogna,» disse timida. «Non è mica necessario che te ne vai.» «Ma vado lo stesso,» dissi. «Andiamo ad acchiappare qualche trota,» dissi a Fireball. Ma lui si era messo a sedere con aria imperturbabile ai piedi di Betty Sue. «Dài tu un'occhiata al cane?» le chiesi. «Casomai è più probabile il contrario,» rispose. «Buon divertimento.» «Anche tu,» risposi, cercando di sembrare sincero. Nel salire sul pickup, ben celata dal calore del sole di tarda estate, una zaffata di fresca aria di montagna mi solleticò il naso. È quasi autunno, mi dissi, e un altro inverno del Montana che è lì ad aspettarmi. Ogni autunno pensavo di migrare a sud, a San Francisco, e rinnovare la mia licenza della California, ma non l'avevo mai fatto. Forse questa sarebbe stata la volta buona. Per il momento, però, mi bastava sapere che c'era un piccolo laghetto lungo la strada, sulle montagne dietro Cauldron Springs. Moondog Lake, dove le trote andavano d'accordo con le esche, un luogo dove passare un pomeriggio a guardare la mia lenza che ballava spinta dai venti. Imboccai l'autostrada e voltai a destra, allontanandomi dalla città, ma la Porsche di Catherine mi raggiunse prima ancora che arrivassi in cima alla salita. Accostai, spensi il motore e scesi dal pickup.
«Che cosa ha detto?» mi chiese lei, venendo a mettersi al mio fianco. «Eh?» «Ancora non ne abbiamo parlato.» «Perché no?» «Tutta questa idea è... è terribile,» dissi. «Non puoi pensare di pagare la gente per cose del genere.» «Perché no?» «C'è qualcosa di più del danaro, in questa storia,» dissi. «Proprio per questo Edna e io siamo disposte a spendere tutti quei soldi.» «Be', dovrai trovarti qualcun altro per farlo,» dissi, «oppure farlo da sola.» «Tu sei l'unico che può riuscirci,» disse, «e se non lo fai, qualunque cosa accade è colpa tua.» «Certe volte ho il tremendo sospetto che tutta questa storia mi sia scappata dalle mani dal primo istante,» dissi. «Se è vero, come fa a essere colpa mia? E anche se lo fosse non intendo dare dei soldi a quella donna per farle lasciare l'uomo che ama.» «Se l'amasse, Sughrue, lo lascerebbe gratis.» «Betty Sue non...» «Ah, è Betty Sue, adesso,» mi interruppe Catherine. «Molto interessante.» «È il suo vero nome.» «Le sta a pennello,» disse beffarda lei. «Guarda,» dissi, spostandomi sul retro del pickup per sganciare il copricassone, «adesso ti restituisco quei maledetti assegni e poi intendo lavarmene le mani, di questo gran casino.» «Fatti tuoi, adesso,» disse lei, poi tornò di corsa alla sua macchina e scappò via prima che potessi arrampicarmi sul cassone. «Col cazzo,» Rimisi a posto il telone, tossendo per la polvere. Non venni via da Moondog Lake fino a sera inoltrata, così era quasi mezzanotte quando imboccai la superstrada verso casa Trahearne. Le luci erano ancora accese, quindi me ne andai in città a farmi un drink, e poi tornai indietro a controllare. Stavolta erano spente. Mi infilai nel vialetto, parcheggiai, ed entrai in casa dalla porta del seminterrato. La casa era immersa nel silenzio. Mi versai da bere e accesi la TV nella speranza di beccare il film della tarda notte sul canale via cavo di Spokane, magari un
qualcosa di avventura e passione, tipo The Hanging Tree oppure Ride the High Country. Invece beccai La caduta dell'impero romano, che mi fece venire un gran sonno. Ogni tanto mi ridestavo a un attacco dei barbari, a un discorso scornacchiante di Christopher Plummer, o alle tette di Sophia Loren che riempivano il piccolo schermo, per poi ricadere in un sonno confuso. Fu il rumore di uno sparo a svegliarmi, oltre che l'immediato ricordo di un grido udito pochi istanti prima. Lanciai un'occhiata alla tv, dove un aggressivo giovanotto mi incitava all'acquisto di un nuovo pickup tra le migliaia che esponeva il suo autosalone. Poi sentii esplodere un altro colpo. In fondo al corridoio, udii rumore di vetri infranti nel bagno del seminterrato. Schizzai in camera mia a prendere la .38, poi tornai indietro di corsa e risalii di gran carriera le scale che portavano a pianterreno. Alle orecchie mi giungevano gli sbuffi e i tonfi di una lotta. Mentre scivolavo nella cucina buia, si udì un terzo sparo. Mi gettai sul tappeto del soggiorno e rotolai in posizione di sparo, la mano sinistra sulla pistola, proprio dietro la poltrona di Trahearne. La lampada della scrivania dello studio era accesa, ma era stata fatta volare da una parte, così da illuminare dritta la porta e, di conseguenza, i miei occhi. Dietro il cono di luce, però, riuscivo a vedere due ombre impegnate a lottare per il possesso della Colt .45, che lasciò partire un nuovo colpo. Uno scaffale di libri finì ridotto in brandelli. Sparai anch'io un colpo in aria e gridai «fermi!», ma nessuno mi prestò la minima attenzione. Stavo per fiondarmi sulla porta, quando udii un pugno che colpiva qualcosa di morbido, e Betty Sue barcollò verso di me. La spinsi da una parte, e mi rannicchiai appena fuori della porta. Quando Trahearne fece irruzione come un toro lo randellai sul collo con il calcio della .38, e mentre cadeva gli rifilai un'altra botta. Nel cadere, cercò di puntare la .45 su di me, ma gliela feci saltare di mano con il gesso. Piombò a terra privo di sensi, e vomitò una piccola chiazza di qualcosa che mandava il classico odore del whisky liscio. Raccolsi la .45, la scaricai e la gettai sulla chaise longue. «Sta bene?» ansimò Betty Sue alle mie spalle. «È ancora vivo,» dissi, inginocchiandomi a sentirgli il polso, che batteva simile a quello di un orso, «ma è ubriaco fradicio. Tu stai bene?» «Mi ha solo mozzato il respiro».Ansimò, sbuffando. «Ecco tutto». Si spostò per inginocchiarsi accanto a me. «Dammi una mano a metterlo a letto.» «Va bene,» dissi ficcandomi la .38 nella cintura. «Meno male che non
ho dovuto sparare a nessuno,» dissi. «Con la sinistra sono terribile.» «Dammi una mano,» rispose, e assieme riuscimmo a rimettere l'uomo in posizione verticale e a muoverlo verso la camera da letto. Nel cadere sul letto, si risvegliò il tempo sufficiente per farci sapere che non gli serviva il nostro maledetto aiuto, ma si addormentò prima che potessimo intavolare una discussione sull'argomento. «Grazie,» disse Betty Sue, col respiro ancora profondo e affannoso. «Che cazzo è successo?» chiesi. «Ho bisogno di bere qualcosa,» rispose lei, uscendo dalla camera. «Anch'io,» feci seguendola. Ma neanche in soggiorno si mostrò disposta a parlare. Versai due bicchieri di whisky e gliene porsi uno. «Posso avere una sigaretta?» disse. Ne accesi due, e lei me ne strappò una di mano, aspirando fino a tossire. «Forse è meglio che ti siedi,» le suggerii. «Fuori,» disse, e la seguii di nuovo. Mentre mi appoggiavo allo stipite della porta, lei si mise ad andare avanti e indietro sulla veranda, attaccandosi a turno al whisky e alla sigaretta, finché non ebbe finito entrambi. Quando rientrai in casa, mi accorsi che nella casa di mamma Trahearne c'erano le luci accese. Mi augurai che non avessero udito gli spari. Tornai fuori e porsi un nuovo drink a Betty Sue. «Che è successo?» le chiesi. «Non ne sono sicura,» disse con voce flebile. «Questo pomeriggio, quando ha finito di lavorare, siamo scesi in città per cena e ha cominciato a bere. Secondo lui andava tutto bene, sai com'è, perché dovevamo festeggiare, visto che aveva terminato una parte del libro e io ero tornata a casa. Sembrava in gran forma, tutto buonumore e battute...» «Fino a quando?» dissi nella sua pausa. «Fino a quando non siamo andati a letto,» sussurrò. Arrossì, e si strinse le braccia attorno al corpo per difendersi dalla fresca aria della notte, avvolgendosi in una camicia da notte gialla, nuova di zecca. «Poi si è addormentato, era l'ora, e ho finito per assopirmi pure io,» disse. «Al mio risveglio, era scomparso. Sono scesa a vedere se per caso fosse tornato nello studio a lavorare: lo fa, certe volte, quando non riesce a dormire. Era nello studio, difatti. Si stava... si stava puntando la pistola alla testa... E mi guardava dritto negli occhi, con l'arma in mano... Era quasi come se volesse sfidarmi a fargli premere il grilletto. Non so... Mi ricordo di aver gridato, e poi ci siamo messi a lottare. Ecco tutto.»
«È meglio se ti rimetti un po' in sesto,» la interruppi, perché avevo visto le luci blu della macchina dello sceriffo uscire di corsa da Cauldron Springs e dirigersi verso la svolta di casa Trahearne. «Perché?» Era sul punto di piangere. «Perché sta arrivando la legge.» «E che devo dirgli?» «Neanche una parola,» dissi. «Sta' seduta sulla sdraio e scoppia a piangere ogni volta che qualcuno ti fa una domanda. Capito?» Come a volermi prendere alla lettera, Betty Sue si lasciò cadere sulla sdraio e iniziò a singhiozzare rumorosamente. Io me ne tornai in casa e accesi le luci della veranda, poi rimasi a mani vuote, in piena luce, ad aspettare che l'auto dello sceriffo si fermasse sgommando in fondo alle scale. Un agente saltò fuori dalla macchina e si sporse sul cofano, tenendomi sotto la minaccia della sua pistola. «Sparategli!» qualcuno urlò dal torrente. «Ha ucciso il mio bambino! Ammazzatelo!» La vecchia uscì a fatica dall'ombra, trascinando con sé Catherine, che cercava di trattenerla. «Ammazzatelo!» urlò di nuovo. «Il signor Trahearne sta benissimo,» dissi al vicesceriffo appostato dietro la macchina. «Nessuno si è fatto male.» «In ginocchio, amico,» ringhiò lui, «le mani dietro la testa». Non tentai nemmeno di esitare. Mentre ubbidivo, lui uscì dal riparo della macchina e salì i gradini, con la pistola puntata sulla mia cassa toracica. «Più strette,» disse nel venirmi alle spalle. «Le nocche devono diventare bianche.» «Sono reduce da una recente frattura di mano destra e polso, agente,» gli dissi mentre mi afferrava le dita e una manciata di capelli. Mi perquisì e mi sospirò nell'orecchio, mentre mi sfilava la .38 dalla cintura. «In piedi,» mi ordinò ammanettandomi il polso sinistro. Mentre mi alzavo, lo spinse verso il basso, dietro la schiena, poi afferrò anche il polso destro e lo ammanettò appena sopra il gesso. «Calma,» dissi con la massima tranquillità possibile. «Le ho appena detto che non è successo niente. Non c'è motivo di spezzarmi di nuovo il polso.» «Ammazzatelo!» urlò ancora la vecchia nell'arrampicarsi su per le scale come un granchio ferito. Catherine aveva smesso di cercare di trattenerla. «Dite a quella vecchia troia di chiudere il becco,» dissi a nessuno in particolare. «Chiudilo tu, amico,» disse il vicesceriffo, strattonando le manette. «Lo sceriffo arriva subito,» aggiunse, e dette un nuovo strattone, come se l'alli-
neamento delle mie scapole non fosse di suo gradimento. «Il suo bambino è sano e salvo, e dorme come un sasso perché è sbronzo,» dissi alla vecchia che mi aveva raggiunto, arrancante, e mi mostrava le gengive. «Ti ho detto di chiudere il becco,» disse il vicesceriffo, per poi ripetere il suo giochetto con le mie braccia. «Non lo faccia più,» gli dissi con calma. Lui scoppiò a ridere e lo fece di nuovo. Certa gente non impara mai. In particolare gli sbirri di campagna. Non c'è abbastanza movimento, dalle loro parti, per farli restare in forma. Afferrai il cinturone del vice con la mano sinistra e tirai l'uomo verso di me, poi gli detti un pestone sul collo del piede destro e gli ruppi il naso con la nuca. Infine, gli rifilai uno spintone col culo. Mentre lui barcollava all'indietro, cercando di sfilare il revolver dalla fondina, mi voltai e gli sparai un tale calcio nelle palle da farlo volare a gambe all'aria. Andò a terra in posizione fetale, ma gli sciolsi le braccia con i piedi e gli sedetti sul torace. «Non mi hai voluto dare retta,» gli dissi. Ruotò la testa di lato e sputò sangue. Alle mie spalle udivo grugniti e scalpiccio di piedi. Catherine aveva una bella presa sulla donna, per dire, e a giudicare dal sorriso che aveva stampato in faccia, si era convinta che dopo quanto avevo combinato al vicesceriffo sarei rimasto fuori dalla circolazione per un bel pezzo. Betty Sue era seduta sulla sdraio, la bocca aperta come se si fosse bloccata nel bel mezzo di un singhiozzo. «Ehi,» le dissi, «prendi le chiavi di questo idiota e aprimi le manette.» Non aprì bocca. Lo fece, e basta. «Guardi che sta bene davvero,» dissi alla madre di Trahearne quando Betty Sue mi tolse le manette. «Si è solo sbronzato, e ha deciso di ristrutturare il suo studio a colpi di .45. Ecco tutto.» «Davvero?» domandò Catherine con un sopracciglio alzato. «Accompagna la signora in camera da letto, così può vedere da sola,» dissi scaricando il revolver del vicesceriffo. Le due donne si scambiarono un'occhiata ed entrarono in casa. «Ehi,» dissi a Betty Sue, «non è che riesci a trovarmi un asciugamano e una ciotola di ghiaccio?» Quando fu entrata in casa, mi alzai in piedi e lasciai andare il vice. «Hai sentito tutto?» gli chiesi. Lui annuì e cercò di strisciare verso la sdraio vuota. «Che figura da scemo preferisci fare, quando arriva lo sceriffo?» «Sei tu lo scemo, figlio di puttana,» borbottò lui. «Aspetta solo che ti abbia scaraventato in una cella.»
«Pensi di avere ancora un lavoro, dieci secondi dopo che lo sceriffo scoprirà che un uomo in manette è riuscito a portarti via la pistola?» Il vice ghignò beffardo. «Lo sceriffo è mio zio.» «Ma mica è stupido, Roy Berglund,» dissi. «Nipote o no, ti butterà via come una patata bollente. Non ci si fa certo eleggere assumendo parenti che fanno la figura degli scemi.» Il vice ci pensò su per un paio di minuti, il tempo sufficiente perché il suo orgoglio e i gioielli di famiglia iniziassero a dolergli un po' di meno, e infine alzò lo sguardo su di me. «Che aveva in mente?» mi chiese. «Che a forza di annaffiare il prato,» dissi, e lui continuò a fissarmi, «quel cazzo di scale s'infradicia e diventa più scivoloso che pestare una merda.» «Che scale del cazzo,» borbottò, infine sorrise e si terse il sangue dal volto. Betty Sue tornò con una ciotola di ghiaccio e due asciugamani. Li porsi al vice, poi andai a sistemare gli irrigatori. Dopo di che, ci sedemmo tutti ad aspettare l'arrivo dello sceriffo. Tutti, eccetto Edna Trahearne. Lei se ne tornò a casa incazzata nera. Roy Berglund sembrava proprio uno sceriffo. Alto, biondo, occhi azzurro cristallo e volto arcigno. Per quanto ne sapevo io, non era né stupido né corrotto. Ma era pur sempre un funzionario statale, più interessato all'apparenza che allo svolgimento del suo lavoro. E l'uniforme gli donava alla grande. Prima di arrivare con due altri vice e un medico legale, si era preso la briga di infilarsene una fresca di bucato. Mentre lui avanzava come un gigante tra gli irrigatori e le scale, gli altri gli andavano dietro proprio come i semplici mortali che erano. Insomma, Roy fece un ingresso memorabile fin quando il cuoio di un tacco non gli scivolò sul pianerottolo bagnato. Senza più terra sotto i piedi, iniziò a mulinare le gigantesche braccia per recuperare l'equilibrio, e con un manrovescio involontario fece volare in aria uno dei suoi vice. Betty Sue dovette scoppiare in singhiozzi per nascondere il riso, e il vice sulla sdraio fu colto da un tale attacco d'ilarità che il naso riprese a buttargli sangue. «Chiudi questa cazzo di acqua,» gridò Roy al vicesceriffo che giaceva a terra. Era davvero incazzato. Il cittadino più importante, il figlio della donna più ricca della contea, era stato ucciso in maniera vergognosa, e la sua dignità di sceriffo aveva subito un forte danno. «Allora, che succede qui?» chiese.
«Temo che sia tutto un terribile equivoco,» disse Catherine uscendo dall'ombra e prendendo la situazione in pugno con disinvolta sicurezza. «Io e Edna Trahearne abbiamo udito dei colpi d'arma da fuoco, e pensato subito al peggio. Siamo saltate a conclusioni affrettate». Lo sceriffo Roy sembrava allo stesso tempo confuso e risentito. «Mio marito - il mio ex marito, cioè,» disse Catherine con un lieve sorriso, «stava pulendo la sua pistola, che all'improvviso ha lasciato partire un colpo. Nessun danno alle persone, glielo dico con piacere.» «Oh,» fece lo sceriffo, giocherellando col carnoso labbro inferiore. «Va bene, allora». Poi si rivolse al nipote. «E a te, cosa è successo?» «Stavo venendo a chiamarti via radio,» disse, «e sono scivolato su quelle dannate scale.» «Oh,» ripeté lo sceriffo. «Bene, signora Trahearne, sono proprio contento che nessuno si sia fatto del male, ma devo comunque stilare un rapporto. Se potesse fare un salto nel mio ufficio nei prossimi giorni, a suo comodo, gliene sarei molto grato.» «Ma certo,» rispose Catherine prima di Betty Sue. «Leviamo le tende,» disse lo sceriffo ai suoi cortigiani; poi si rivolse a me come sovrappensiero. «Le dispiace accompagnarmi alla macchina, signor Sughrue?» «Ma le pare,» dissi io. Lo sceriffo attese che tutti quanti si fossero avviati, poi mi passò un braccio attorno alle spalle e mi fece scendere le scale. «Attenzione, qui, C. W.,» disse con fare amabile. A guardarlo da vicino vedevo che aveva trovato anche il tempo di farsi la barba. «Allora,» disse a bassa voce quando fummo in fondo alle scale. «Che è successo? Il vecchio ne ha tirata fuori una delle sue, eh?» «Se c'ero, dormivo,» dissi. «Tranquillo,» sussurrò lui, tirandomi più vicino. «È una cosa tra noi due.» «Soltanto tra noi due, eh?» «Assolutamente.» «Detto tra noi due, Roy, io dormivo,» bisbigliai. «Vedi di non prendermi per il culo, figliolo,» disse, «o ti ficco in tali casini che voglio vedere come fai a tirartene fuori.» «Nei casini c'è lei, sceriffo.» «Aggressione a un agente di polizia, dai tre ai cinque anni a Deer Lodge. Che ne dici?»
«Dico che è da due a dieci,» feci, ma non lo sapevo mica. «Comunque sia, non ti piacerebbe comunque,» disse lui, ma quando vide che non rispondevo, provò un'altra strategia. «Com'è che non ti sei mai fatto vedere nel mio ufficio, a dirmi che stavi lavorando nella mia contea?» «Perché non ci lavoro,» risposi. «Faccio solo il turista.» «Non per molto, mi auguro, figliolo,» disse lui, poi mi batté una pacca sulla spalla e si mise a ridere come se avesse appena sparato una battuta. «Neanche a gettare una lattina di birra dal finestrino ti voglio vedere, capito?» «Davvero pensa che le servirebbe a qualcosa sapere se Trahearne ha tentato di farsi saltare le cervella?» «L'uomo che possiede già tutto non ha bisogno di regali,» sentenziò lui senza voltarsi. «Quel che è successo già lo so, e non m'interessa. È solo che mi dà fastidio quando qualcuno mi racconta balle.» «Anche a me,» dissi. Nell'andarsene, rise di nuovo. «Ci vediamo, Sughrue,» disse, e salì in macchina, ordinando all'autista - un giovane vice - di riportarlo a casa. In terrazza, Catherine stava in piedi in cima alle scale, mentre Betty Sue sedeva sulla sdraio. Mi guardavano entrambe, mentre mi arrampicavo per raggiungerle. «Betty Sue, vorresti lasciarci soli un minuto?» disse Catherine senza guardarla. «Ma certo,» rispose Betty Sue, ed entrò in casa. «Parliamone domani, ti va?» dissi nel sollevare il piede dall'ultimo gradino. «Domani è troppo tardi,» disse Catherine. «Diglielo adesso.» «Adesso me ne vado a letto.» «Ci avrei giurato,» mi disse alle spalle. Entrato in casa, andai a prepararmi qualcosa da bere. Ero a circa metà del secondo drink quando Betty Sue riapparve dalla camera da letto. Si era tolta la camicia da notte per infilarsi i suoi vecchi vestiti a sacco. «Mi piacevi di più prima,» dissi. Lei non si dette pena di rispondere e si appoggiò allo stipite della porta dello studio. La luce della lampada rovesciata le illuminava in maniera brutale il volto pallido e stanco. «Lascia che sia lui a rimettere a posto i suoi casini,» dissi. «Non posso. E se anche tu l'avessi pensata così, a proposito dei miei casini?»
«Questa è un'altra faccenda,» le risposi moscio, ma lei era già entrata nello studio. L'angolazione della luce si abbassò, la linea d'ombra scivolò sul tappeto in direzione della porta, e la poltroncina della scrivania scricchiolò come se Betty Sue vi si fosse seduta. Mi versai un'altro goccio di whisky e uscii di casa, spegnendo le luci della veranda nel passare dalla porta. La mia .38 Airweight era ancora sul cuscino della sdraio, là dove il vicesceriffo l'aveva scagliata. La scaricai e me la ficcai nella tasca posteriore. Uno spicchio di luna apriva il cielo notturno, simile a una sottile crepa, e la massa scura della parte in ombra era perfettamente visibile. Nel fissarla, sentii Fireball che uggiolava giù nel prato. Lo chiamai, e udii il suo passo lento e strascicato su per i gradini. Arrivato in veranda, venne con gran fatica a montarmi in grembo, mentre anch'io mi sedevo sulla sdraio. I fianchi gli tremavano di paura. «Tutto a posto,» gli dissi accarezzandogli il capo. «La prima volta che si sente sparare, è così per tutti». Il cane uggiolò e io continuai ad accarezzargli il collo fin quando non cessò di tremare. Poi lo misi giù e rientrai in casa. Lui mi seguì, il naso a sfregarmi i talloni. Betty Sue era seduta alla scrivania, la testa tra le mani, china sulla pila disordinata di fogli gialli. Quando alzò lo sguardo su di me, tuttavia, vidi che non piangeva. Fireball le andò incontro, e lei lo prese in grembo. Anch'io mi avvicinai, appoggiandomi alla scrivania. «Stai bene?» le chiesi. «Che ho fatto di male?» «Nulla.» «Allora perché ha tentato di uccidersi?» «Non ce la fa, secondo me.» «A far cosa?» mi chiese, asciugandosi il naso col dorso della mano. «Ad amare, a perdonare,» dissi. «Penso che sia il caso di lasciarlo,» disse lei sottovoce. «Forse è la cosa migliore.» «Per chi?» «Tutti e due.» «Magari hai ragione,» disse lei. «Potrebbe far bene a entrambi.» «E dov'è che andrai?» Mi guardò a lungo, poi rispose con estrema lentezza. «Con dieci anni di ritardo, ma ho deciso di tornare a casa.» «Almeno saprò dove trovarti,» dissi.
«Non farlo,» sussurrò. «Non farlo, ti prego.» «Come vuoi.» «E non ti preoccupare di Hyland e degli altri soldi,» disse. «In qualche modo farò.» «Davvero vuoi partire?» dissi. «Aspetta un attimo,» e andai a prendere gli assegni e i cinquemila dollari in contanti. «Cos'è questa roba?» mi chiese, mentre le porgevo la busta. «Da' un'occhiata.» «Mio dio,» sospirò nell'estrarre gli assegni, «Catherine?» «E mamma Trahearne.» «Se lo vogliono così tanto, direi che se lo possono tenere,» disse, e mi rese assegni e contanti. «Restituisci gli assegni a Catherine e i contanti a Hyland,» disse. «Pagherò a modo mio.» Piegai gli assegni e me li infilai in tasca, assieme ai cinquemila dollari in contanti. «Più tardi,» dissi, «me ne andrò in banca a incassare quello da quarantamila, poi scenderò a Denver e restituirò i soldi a Hyland. Catherine può riprendersi gli altri due assegni e i tuoi cinquemila.» «Non farlo, ti prego,» disse. «Ascolta, non sei mica l'unica coinvolta in questa faccenda,» dissi. «C'è anche il mio culo, sulla graticola.» «Mi spiace,» rispose. «Ringrazia Catherine da parte mia. Dille che le restituirò tutto.» «Diglielo tu.» «Me ne vado prima dell'alba,» disse. «Ho ancora qualcosa di mio da prendere, nello studio, e qualche vestito, prima di partire.» «Io parto subito,» dissi. «Vieni qui,» fece, e mi chinai su di lei. Mi fece scivolare una mano dietro la testa e accostò il mio volto al suo. Le nostre labbra si sfiorarono. «Grazie,» sussurrò. «Grazie di tutto.» «Fammi un piacere,» dissi, tirandomi su. «Cosa?» «Quando torni a casa, portati via quel cazzo di buono a nulla di un bulldog.» «Grazie,» ripeté, con una lieve traccia di riso che spuntava in mezzo a nuove lacrime. Le sfiorai la guancia con le dita della mano rotta, e così la lasciai.
19 Nel fare le valigie, passai dal bagno a recuperare i miei effetti personali, e scoprii che lo specchio era stato mandato in frantumi dal colpo sparato da Trahearne nel pavimento dello studio, al piano superiore. Un grosso frammento era caduto dall'intelaiatura, e aveva rotto il sottile vaso di ceramica, quello con le festuche e i volti di donna. Allungai una mano tra i pezzi di vetro e terracotta e ne ripescai uno che recava, tutto intero, un viso femminile. Lo fissai a lungo, poi lo gettai dove l'avevo trovato, sulla mensola, e continuai a fare i bagagli. Dopo aver caricato l'El Camino, però, mi resi conto che non sapevo più dove andare. Scesi giù per lo sterrato fino alla superstrada, tanto per fare, poi voltai a destra e risalii verso le montagne. Quando arrivai in cima alla prima salita, mi fermai e scesi di macchina, poi accesi una sigaretta e aprii una birra. Le case dei Trahearne erano immerse nel buio, ma dallo studio di Betty Sue, sulla collinetta che sovrastava la dimora del vecchiardo, usciva la luce violenta di un riflettore, e dietro le finestre si scorgeva la sagoma della donna che andava su e giù. Nell'oscurità che ammantava la vallata, lo studio sembrava un'isola di cristallo in mezzo a un mare di tenebra. Finii di fumare la sigaretta, di scolare la birra, e mi avviai verso il Moondog Lake per trascorrere laggiù il resto della notte. All'alba, una solitaria strolaga ruppe il silenzio del lago col suo borbottio maniacale. E sì che era dalla parte opposta alla mia. Calpestai il mio maldestro fuoco da campo e feci ritorno a Cauldron Springs. Quando raggiunsi la periferia della città, mi fermai a una cabina del telefono per chiamare Torres e dirgli che avevo i suoi quattrini, poi attraversai lentamente la città ancora addormentata, in cerca di una tazza di caffè. Però era ancora tutto chiuso. Girai a vuoto per un bel pezzo, e scoprii che ero l'unica persona già in piedi, fatta eccezione per un vecchietto artritico che stava uscendo da un motel scassato per dirigersi a fatica verso l'hotel e le sue sorgenti calde. Mi fermai per offrirgli un passaggio, ma lui rifiutò, dicendomi con una risatina che un po' di movimento non gli faceva che bene. Passai a bassa velocità davanti all'hotel e, nello svoltare, scorsi la VW di Betty Sue parcheggiata nel vicolo dietro la piscina e i campi da tennis. Con gli occhi fissi sulla macchina, tirai dritto per un po', infine invertii la marcia e m'infilai a mia volta nel vicolo per parcheggiare dietro al maggiolino, ancora stracarico delle masserizie di Betty Sue. La porta posteriore non era chiusa a chiave, ma quando entrai nello stan-
zone l'acqua della piscina deserta era come stagnante, con i faretti subacquei che mandavano riflessi quasi viscosi, una luce cinerea proprio come quella che filtrava dai lucernari. Mi avvicinai al bordo della vasca e chiamai Betty Sue ad alta voce, ma il suo corpo nudo galleggiava a faccia in giù nelle acque traslucide, il braccio destro sopra il corpicino del bulldog, come a volerlo proteggere dai proiettili. Tre buchi neri si aprivano, molto vicini tra loro, proprio al centro della schiena di Betty Sue, e un altro brillava come un tizzone dietro l'orecchio di Fireball. Sul fondo della vasca, la .45 sembrava volersi nascondere come una velenosa pianta acquatica, e una nuvola di sangue, ancora compatto nell'acqua immota, circondava i due cadaveri come un alone di nebbia attorno a una luna nuova. Non era più questione di scelta, ma di dovere. Andai ad aprire il cofano dell'El Camino e staccai il filtro dell'aria. Al suo interno nascosi gli assegni e i contanti, poi tornai nella piscina e passai nell'hotel. Il vecchio che aveva rifiutato il mio passaggio era intento a discutere i suoi malanni con un altro matusalemme ancora più malconcio di lui, vale a dire il portiere. Prima di dire a quest'ultimo di chiamare l'ufficio dello sceriffo, lasciai che la loro conversazione si spegnesse di morte naturale. La prima mossa dello sceriffo Roy fu, com'è ovvio, sbattermi in galera. Passai due settimane e tre giorni in una cella della prigione della Logan County, senza dire una sola parola a chicchessia, escluso l'avvocato d'ufficio, e a lui dissi soltanto di non avere niente da dichiarare. Se i Trahearne non si fossero messi a fare pressioni, il procuratore della contea non avrebbe avuto modo di istruire alcunché. Così continuai a tenere la bocca chiusa, e loro di pressioni non ne fecero. Una volta, comunque, vennero anche a trovarmi, Catherine e Trahearne. Ci accomodammo alle estremità opposte di un lungo tavolo, il mio avvocato da una parte, noi tre dall'altra. Il vecchiardo sembrava depresso mentre, nel comunicarmi che non sarei stato accusato di niente, Catherine mi omaggiò di un largo sorriso. «Grazie,» le dissi. «Abbiamo tirato in ballo quei tipi di Denver,» disse lei, «ma naturalmente hanno tutti quanti degli alibi a prova di bomba.» «È gente che non si fa mai beccare senza,» dissi io. «Che fine hanno fatto i soldi?» mi chiese noncurante. «Sono al sicuro,» risposi. «Te li sei guadagnati,» disse lei sorridendo. «Senza dubbio.»
Trahearne fece per dire qualcosa, ma Catherine allungò una mano per tappargli la bocca. Ne conclusi che era tornata a vivere con lui, a confortarlo, a proteggerlo. «Spero che ne valesse la pena,» dissi, poi mi alzai e uscii in corridoio a ripescare il secondino. Quel pomeriggio, mentre lasciavo la città a bordo dell'El Camino, mi accorsi che lo sceriffo Roy mi stava seguendo. Mi segnalò la sua presenza accendendo e spegnendo i fari; poii, quando vide che non mi fermavo, azionò i lampeggianti sul tettuccio. Mi guardai bene dal rallentare, neanche quando fece partire la sirena, e una quindicina di chilometri fuori città lui ci dette un taglio e mi lasciò in pace. Quando si fermò per invertire la marcia, feci lo stesso e tornai indietro. Scendemmo di macchina contemporaneamente e ci incontrammo a mezza strada. «Certo che ne hai di fegato, figliolo,» disse. «Anche lei a faccia tosta non scherza,» risposi. «Volevo solo impedirti di tornare in città a sistemare le cose,» disse. «Quali cose?» «Il colpevole, o più d'uno, è ancora sconosciuto,» disse. «Lasciamo che vada a finire così.» «A me, mi hanno pagato più di lei,» dissi nel tornare al mio pickup. «A me, non mi hanno dato proprio nulla,» mi sentii dire alle spalle, e la cosa mi parve verosimile. I funerali me li ero persi perché stavo in galera, ma quando arrivai in California andai a vedere le tombe. Betty Sue era stata sepolta in mezzo ai suoi due fratelli, in uno di quei cimiteri moderni, così di buon gusto, tutti prato e lastre di marmo. Serve a ridurre la manutenzione. Possono falciare l'erba fin sotto le pietre tombali. Sopra le carni putrefatte. Oney e Lester avevano scavato una fossa nel cemento per seppellire Fireball proprio davanti alla porta del bar di Rosie, e poi avevano gettato una nuova colata, su cui avevano inciso - con tipica grafia da ubriachi - il nome del bulldog e le sue date di nascita e morte. Lo stesso pomeriggio del mio arrivo a Sonoma, io e Rosie ce ne stavamo a sedere sui gradini del bar, intenti a rimirare la tomba di Fireball, mentre Lester e Oney ci facevano da palo scolandosi le birre che io avevo offerto a tutti quanti. «Andate pure dentro, ragazzi,» disse Rosie, e loro ubbidirono. «Grazie
per il disturbo che vi siete presi.» «Mi spiace,» dissi. «Almeno sono riuscita a rivederla, una volta,» disse lei. «Sempre meglio che nulla». Poi tacque per attaccarsi alla bottiglia di birra. «Mi ha raccontato ogni cosa,» disse sottovoce, « ma quel che non capisco è perché hanno dovuto ammazzarla. Glieli avrebbe restituiti, quei soldi, e tu lo sai, oppure l'avrebbe fatto suo marito, per lei, se solo avessero aspettato un po'. Me l'ha detto proprio lui, quando è venuto a riconsegnarmi il corpo. Non avevano bisogno di ucciderla.» «No,» dissi. Poi si voltò verso di me. «Non credo di poterti assumere di nuovo per... per sistemare quei tipi di Denver... tu lo faresti?» «No,» risposi. «Non puoi assumermi, e poi non servirebbe a niente.» «Il tipo che l'ha uccisa, lui forse neanche... neanche la conosceva... e nemmeno sapeva il perché...» Inciampò sulle parole, poi abbandonò la testa tra le braccia. «Esatto,» dissi, lasciandole credere che fosse andata proprio così. «Ancora non me la sento di piangere,» disse alzando il capo di scatto. «Mi faresti un favore?» dissi. «Sarebbe?» «Mi è rimasto un po' dei quattrini di Betty Sue,» dissi, «e so per certo che lei vorrebbe che finissero a te». Ripescai i cinquemila dollari dalla tasca dei calzoni e glieli porsi. Avevo già fatto avere a Torres quanto gli spettava. Se non se la sentiva di incassare l'assegno, cazzi suoi. «Perché non salti su un aereo e te ne vai in un qualche accidente di posto, tipo le Hawaii? Te lo mando avanti io, il bar.» «Mi sembra chiedere un po' troppo,» disse battendosi sulla coscia il fascio di banconote. «Forza,» sbottai, più aggressivo di quanto volessi. «Dici davvero?» «Ci puoi contare.» «Preferirei andarmene in Oklahoma a trovare un po' di parenti,» disse sottovoce. «Restaci quanto vuoi,» dissi, e solo allora Rosie dette sfogo al pianto. Quando riuscì a smettere, andò nella roulotte a fare i bagagli, e Lester e Oney presero il mio pickup per accompagnarla all'aeroporto. In sua assenza, mandai avanti io il bar, annessi e connessi, e passai le mie giornate nell'attesa di chi sapevo io.
Gli ci volle una settimana, ma finalmente, un giovedì pomeriggio, Trahearne si fece vivo, barcollando fin dalla porta d'ingresso come un orso ubriaco. Si fermò a scambiare una serqua di condoglianze alcoliche con Lester e Oney, poi caracollò sino in fondo al bar, là dove io stavo aspettando proprio lui. Quando lo vidi scivolare su uno sgabello, andai ad aprire due birre per i ragazzi e una terza per il vecchiardo. «Come ti butta, figliolo?» disse, mentre gli piazzavo la birra sotto il naso. «Meglio che a lei, vecchio,» dissi. «Come sarebbe?» «Io ho la coscienza a posto.» «Già, lo so,» borbottò lui. «Non fossi stato così al verde, tutto questo casino non sarebbe successo. Quel figlio di puttana di un Hyland!» «Chi?» «Hyland,» rispose lui. «Quel figlio di puttana di Denver.» «Era già morto, quando ce ne siamo andati da quella casa,» dissi. Trahearne restò senza fiato per un momento. «Come fai a saperlo?» disse infine. «Potrebbe essere riuscito a svignarsela in qualche modo. Come fai a saperlo?» «Ho visto il suo cadavere, vecchio.» «Allora sarà stato quell'altro grosso e brutto figlio di puttana,» disse. «In effetti, è stato proprio un grosso e brutto figlio di puttana,» feci io, «solo che questo qua non ha neanche avuto il coraggio di premere lui il grilletto.» «Vale a dire?» «L'ha fatto premere alla sua ex moglie, il grilletto,» dissi. «Non capisco,» fece lui. «È stata lei a sparare,» dissi, «ma è stato lei a metterle la pistola in mano. E tutto per niente, vecchio. Betty Sue se n'era andata, se n'era già andata.» «Via, figliolo, vorrai scherzare,» disse Trahearne, poi scoppiò in una risata vacua. «Posso offrirti io una birra, figliolo, prima di andarmene? Devo proprio tornare a casa, sai, tornare alla mia vecchia scrivania. È proprio come dicevi tu, a starci troppo lontano non riesco a combinare niente. Prenditi una birra, figliolo.» «Se ne vada a casa,» dissi, strappandogli la bottiglia di mano. «Porti quel culo di merda a casa.»
«Andiamo, figliolo, ridammi la birra,» si lamentò lui. Invece la scagliai in terra, ai miei piedi, sulla passerella del bancone. «Okay, se è così che la prendi, figliolo, me ne vado.» «E quando arriva a casa,» dissi, «deve farmi un favore.» «Eh? Di che favore parli?» disse tirandosi in piedi e tentando di rimettersi in sesto, neanche fosse ferito. «Se ne vada a casa e mi aspetti, vecchio,» dissi. «Ho un fucile nuovo di zecca, da caccia all'alce, un 7mm magnum, e un pomeriggio, sì, un pomeriggio, lei ne uscirà in veranda dopo una giornata passata a scribacchiare e scribacchiare, e io le pianterò nelle budella una palla di piombo da 175.» «Sempre voglia di scherzare, eh, Sughrue,» disse in piena retromarcia, barcollando. «Se ne vada a casa, vecchio,» dissi. «Se ne vada a casa e mi aspetti lì, e cerchi di lavorare, se può.» «Suvvia,» implorò il vecchiardo, e andò a sbattere contro il tavolo da biliardo. «Lei è già morto,» dissi. «Se ne vada a casa, prima di cominciare a puzzare.» Seguì il mio consiglio, immagino. L'ultima volta che lo vidi, se la filava a gambe levate dal bar di Rosie, inciampando sulla tomba di Fireball. Un moralista senza morale di Luca Conti I've been known to drive alone to Butte, Montana to get a banana split... Bobby Troup, Hungry Man Se c'è una cosa che stupisce, nell'Ultimo vero bacio, è la quantità di chilometri percorsi da C. W. Sughrue prima di arrivare allo sconcertante scioglimento della sua indagine, quell'autentico colpo basso che negli anni ha fatto versare fiumi d'inchiostro a critici (ammirati) e lettori (inferociti). D'altra parte, quando nel tredicesimo capitolo del romanzo Sughrue salta su a lamentarsi di una certa noia che si è insediata nella sua routine quotidiana, scorrono davanti agli occhi dello stupefatto, incredulo lettore le im-
magini delle migliaia e migliaia di chilometri già percorsi tra Montana, California, Oregon e Colorado alla vana ricerca dell'elusiva Betty Sue Flowers. Ma l'unica soluzione a quel prurito, sbotta il nostro eroe, è «spararsi un migliaio di chilometri di autostrada» e tempo neanche un'ora, eccolo pronto a farsi quattordici ore di macchina come nulla fosse. Per metterlo in moto, in questo caso, è sufficiente una cartolina: e la caccia riprende. Certo, ha un bel dire James Crumley che i suoi libri e i suoi personaggi non sono ispirati né a se stesso né a gente di sua conoscenza («la gente ti fa sempre un sacco di domande, e qualcosa bisogna pur rispondere...» ha dichiarato nel 2002, confessando una buona volta la sua insopprimibile tendenza alla misdirection, sia del lettore che del critico): proprio come C. W. Sughrue - e la sua immagine speculare Milo Milodragovitch - la vita dello scrittore si è sviluppata on the road, a partire da Three Rivers, Texas (è lì che è nato, nel 1939) per toccare, nell'ordine, Iowa, Arkansas, Oregon, Colorado, Pennsylvania, di nuovo Texas, e infine Montana. E da ognuno di questi luoghi Crumley - lo racconta lui stesso - era capace di partire senza preavviso, di saltare in macchina e farsi duemila chilometri, tutta una tirata «per una partita a poker, o per vedere una donna». E facile gioco ha avuto la critica, davanti a simili indizi, nel leggere nei romanzi di Crumley il non casuale aggiornamento di una lunga tradizione di cinema e narrativa western, con l'automobile (o meglio il pickup) a sostituire la fedele cavalcatura del saddle tramp, il cowboy girovago alla ricerca di un branco di bestiame da radunare o, come nell'Ultimo vero bacio, di una ragazza scomparsa da rintracciare. Gran parte del fascino immortale del libro, peraltro, sta in questa inaspettata e subliminale commistione di generi, mai esplicitamente sottolineata nel testo ma pronta a disvelarsi, capitolo dopo capitolo, agli occhi dello stupefatto, incredulo lettore di cui già si diceva in precedenza; e tale è ancora oggi la forza evocativa del romanzo, a oltre venticinque anni dalla sua uscita (1978), da far intuire l'effetto dirompente che fin da subito L'ultimo vero bacio ha avuto sulla narrativa hardboiled (ma non solo; basti pensare alla fortissima influenza di Crumley su scrittori molto diversi tra loro come Jack O'Connell e Jonathan Lethem), ben superiore a quello di coevi romanzi di autori pur importanti come Robert B. Parker o Bill Pronzini, per citarne solo alcuni. Crumley, è vero, sceglie di agire come Parker, Pronzini e tanti altri all'interno di una tradizione codificata da Raymond Chandler, ma la sua è un'opera deliberatamente eversiva, volta a minare alla radice le strutture consolidate e un po' malconce del poliziesco americano con inve-
stigatore privato narrante, un genere le cui contraddizioni già all'epoca - e da lungo tempo - erano state messe a nudo dall'opera di Ross Macdonald, in un ciclo narrativo che proprio alla fine degli anni Settanta trovava la sua conclusione. Curioso, ma assai indicativo delle sue reali intenzioni, che Crumley abbia scoperto - giovane ma non più giovanissimo, verso il 1972 - il detective novel attraverso i libri di Chandler; ma che abbia scelto di esordire nel genere, di lì a breve, con un romanzo, Il caso sbagliato (The Wrong Case, 1975), ispirato non poco a quelli di Macdonald, che proprio di Chandler era stato il primo consapevole e intenzionale eversore, tanto da suscitare nello stesso Chandler una reazione un po' infastidita, quasi sdegnata. E in un ideale passaggio di testimone, Crumley è pronto a raccogliere da Macdonald i resti dell'eredità di Chandler per procedere, a sua volta, a una profonda rielaborazione del genere, come in una di quelle ristrutturazioni immobiliari in cui di un edificio si conservano solo le pareti e si modifica a fondo l'interno. Già nel Caso sbagliato sono evidenti, pur con tutti i comprensibili limiti della poca dimestichezza di Crumley col genere e della sua relativa inesperienza (o forse proprio per questo) le prime avvisaglie dei piani eversivi dello scrittore; ma è con L'ultimo vero bacio, di lì a tre anni, che Crumley raggiunge in maniera del tutto inaspettata i vertici della sua carriera, e sforna - in un incredibile stato di grazia, che invano e con enorme fatica lui stesso tenterà di replicare - non soltanto quello che è il capolavoro assoluto della narrativa hardboiled, ma uno dei romanzi più importanti, e soprattutto più belli, della narrativa americana tout court della seconda metà del Novecento. Non che sia stato facile, per lui. Il leggendario paragrafo d'apertura, forse l'incipit più celebre (e citato) nell'intera storia del giallo, è stato scritto almeno quattro anni prima del resto del libro, e ha subito almeno una dozzina di revisioni, per poi restare chiuso in un cassetto nell'attesa di una trama e un titolo adeguati. Già, perché anche il titolo è arrivato prima del romanzo... Ma ne parleremo tra poco. Quello che conta segnalare è che le quattro, indimenticabili righe d'apertura dell'Ultimo vero bacio sono una grande prova di virtuosismo stilistico, traboccanti di tali e tanti richiami interni, di assonanze e doppi sensi da rendere ardua una traduzione in grado di riproporne per intero la fragranza e la musicalità. Ma tutto il primo capitolo è un modello di costruzione letteraria: a piena ragione, autori di una generazione successiva come George Pelecanos o Dennis Lehane, per non parlare di quasi coetanei di Crumley come James Sallis, possono affermare di aver scoperto dalla lettura dell'Ultimo vero bacio i grandi margini di
manovra che ancora si nascondevano all'interno dei pur traballanti confini del genere. Ma la mina vagante del romanzo è Richard Hugo. Chi era costui, potreste dire. Completamente sconosciuto in Italia, paese che peraltro conosceva benissimo sia per averci combattuto nella Seconda guerra mondiale sia per averci vissuto a più riprese negli anni Sessanta, Richard Hugo è stato poeta e romanziere di una certa rilevanza, nato a Seattle nel 1923 e scomparso nel 1982, allievo di Theodore Roethke e professore di scrittura creativa alla University of Montana negli stessi anni in cui vi bazzicava come visiting professor lo stesso Crumley. L'amicizia tra Hugo e Crumley è stata molto stretta, rinsaldata anche da una certa, comune predisposizione ad alzare un po' il gomito. È stato Hugo, nel corso di lunghe conversazioni in uno dei tanti bar della zona, a far scoprire Chandler a Crumley, che non l'aveva mai letto; è stato Hugo, soprattutto, a fornire a Crumley il modello e l'ispirazione per il personaggio di Abraham Trahearne nell'Ultimo vero bacio. Come suo costume Crumley nega, o meglio minimizza, ma larghi tratti di Trahearne sono modellati sul carattere e sull'aspetto fisico di Hugo, sebbene esasperati. Però la fotografia di Hugo riportata sul sito web del «Missoulian Online» all'indirizzo www.missoulian.com/specials/100montanans/list/029.html - fa spuntare un sorrisetto anche al più distratto lettore dell'Ultimo vero bacio, altroché. A guardarlo bene, Hugo, in quella intensa foto con tanto di macchina per scrivere, ci si convince subito che Trahearne non può essere altro che così (tra parentesi, già che ci siamo, ci si può anche chiedere se la faccia giusta per Sughrue fosse proprio quella di David Carradine, così come prevedeva la mai realizzata trasposizione cinematografica del libro, con la regia di Robert Altman e la sceneggiatura di Walter Hill: progetto del quale Crumley non ha, ancora oggi, un ricordo molto positivo). Il rapporto di odio e amore con la madre, le gesta eroiche in guerra, i molti aspetti caratteriali buoni e meno buoni - sui quali non ci dilunghiamo per non guastare le tante sorprese del romanzo ai suoi nuovi lettori, sono stati presi di peso dalla biografia di Hugo e trasportati dritti nelle pagine dell'Ultimo vero bacio. E come excusatio non petita, soprattutto per tenerselo buono, Crumley ha non solo voluto dedicare il romanzo allo stesso Hugo, «vecchio indagatore dell'animo umano», ma è arrivato al punto di estrapolarne il titolo da quella che è forse la sua poesia più bella e famosa, Degrees of Gray in Philipsburg, un singolare esempio di noir in versi la cui stanza iniziale è riportata
per intero in epigrafe al romanzo. Non ci è dato sapere le reazioni di Hugo a tutto questo. Ricorda Crumley, un po' sornione e un po' maligno, che Hugo era «un tipo un po', diciamo così, litigioso. Mi sono detto che se gli avessi dedicato il libro, magari non avrebbe fatto tante storie». Certo è che nel 1981 anche Hugo ha deciso di cimentarsi nel poliziesco, e il suo unico romanzo, Death and the Good Life, è un piccolo capolavoro del noir che lascia un enorme rimpianto su ciò che poteva essere lo Hugo narratore e che purtroppo non è stato. Il guaio è che la particolare struttura dell'Ultimo vero bacio finisce per legare le mani all'estensore di queste poche note, costretto a camminare sul filo del rasoio per non svelare nulla più del lecito. Però, in questi pochi appunti sparsi, ci sembra giusto indicare all'attenzione del lettore alcuni tratti distintivi del Crumley narratore. Primo, la sua già citata volontà di mischiare le carte, di contaminare i generi (l'hardboiled con il noir, in questo caso, come è evidente nel pesante intervento del fato, à la Woolrich): già il Lew Archer di Ross Macdonald, un libro dopo l'altro, si era sempre più trovato coinvolto a livello personale nei casi di cui si occupava, ma con Crumley - in particolare nell'Ultimo vero bacio - l'indagine si trasforma ben presto in ossessione, non più in lavoro. Gli ottantasette dollari che Rosie offre a Sughrue per avere notizie della figlia scomparsa (e che, con buone probabilità, non bastano a C . W. neanche per un pieno di benzina) sono un semplice pretesto, una delle tante scuse che i personaggi del romanzo si fabbricano, per poi rinfacciarsi, pur di andare avanti a testa bassa in questa wild goose chase. «Non sapevo più perché la stessi cercando», confessa Sughrue dopo qualche migliaio di chilometri. E non siamo neanche a metà libro. Secondo, la caratterizzazione dei personaggi. Impresa difficile, com'è ovvio, in un romanzo scritto in prima persona, nel quale tutto ciò che accade è giocoforza filtrato dalla visuale e dalle opinioni del narratore. Eppure, ciò che Crumley riesce a ottenere nell'Ultimo vero bacio ha del miracoloso. Tutti i personaggi del libro saltano fuori dalla pagina con una plasticità che non teme confronti nell'intera storia dell'hardboiled e del noir, paragonabile solo a capolavori quali Meridiano di sangue di Cormac McCarthy. Basta pensare, per rendersi conto della statura dello scrittore, che uno dei personaggi meglio delineati dell'intero libro è Fireball Roberts, il bulldog alcolizzato che, com'è ovvio, non dice una parola. Terzo, i personaggi femminili. Il mondo di Crumley (così come quello di Trahearne, Sughrue, Milodragovitch) è dominato dalle donne. I perso-
naggi femminili dei suoi libri, a partire dal Caso sbagliato per arrivare, in maniera traumatica e furibonda, alla Terra della menzogna, sono il motore e il detonatore di tutte le vicende, donne tutte quante fornite - nessuna esclusa - di poderosi e singolari tratti caratteriali, davanti ai quali tutti gli uomini - nessuno escluso, anche qui - fanno una figura ben poco brillante. E l'assortimento femminile dell'Ultimo vero bacio è davvero memorabile: Rosie, Betty Sue, Melinda, Catherine, Edna, Selma, Stacy formano un assortimento del quale si cercherebbero invano eguali tra le opere dei contemporanei di Crumley. «Sono il figlio illegittimo di Raymond Chandler», ha detto Crumley in una delle sue battute più a effetto e, per questo, più citate. «Se lui non fosse mai esistito, i miei libri sarebbero completamente diversi. Lui batteva le strade buie di Los Angeles, io l'intrico di autostrade e superstrade che tagliano le montagne del West. Ciò che ci distingue, tuttavia, è soprattutto il diverso atteggiamento nei confronti della morale. A differenza di Chandler, io ho vissuto la guerra del Vietnam e i profondi cambiamenti che essa ha operato nella coscienza sociale degli Stati Uniti. È per questo che i miei due investigatori non se la passano tanto bene, con la morale corrente, come invece succedeva a Philip Marlowe». Milodragovitch e Sughrue sono quindi, come suggerisce Robert E. Burkholder, dei «moralisti privi di morale», personaggi che vivono in un mondo corrotto e che sono costretti a sporcarsi le mani in prima persona per riuscire a distinguere il bene dal male, incapaci di svolgere le proprie indagini col distacco di chi sa di potersi ritirare in una torre d'avorio a contemplare le miserie umane. A lettura ultimata, e per l'ennesima volta, scopriamo quindi che anche con Ultimo vero bacio il romanzo americano riflette su uno dei suoi temi più cari: la perdita dell'innocenza. In realtà la visione tragica di Crumley, e la sua ispirazione dichiaratamente anarchica (ma un'anarchia molto all'americana, con forti tratti di individualismo, che si preoccupa soprattutto di mettere in evidenza che la vera lotta sociale è quella del singolo contro la burocrazia) finiscono per metterci in testa un tarlo non di poco conto: che questa beata e tanto strombazzata innocenza, in fondo, non sia mai esistita. FINE