MATILDE ASENSI L'ULTIMO CATONE (El Último Catón, 2001) Per Pascual, Andrés, Pablo e Javier RINGRAZIAMENTI Creare mondi, ...
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MATILDE ASENSI L'ULTIMO CATONE (El Último Catón, 2001) Per Pascual, Andrés, Pablo e Javier RINGRAZIAMENTI Creare mondi, personaggi e storie utilizzando le parole come ferri del mestiere è un'attività che richiede solitudine e, nel mio caso, anche silenzio e lavoro notturno. Ciononostante, alla luce del sole, ho bisogno di avere intorno a me tutte le persone che condividono l'affascinante e incredibile processo dello scrivere un romanzo. Sarebbe dunque molto egoista ignorare pubblicamente la loro collaborazione e far credere ai lettori che dietro l'opera che hanno tra le mani ci sia soltanto io. Pertanto, in primo luogo, voglio ringraziare Patricia Campos per il suo infaticabile sostegno, per aver letto ogni giorno il poco o tanto che avevo scritto e per avere riletto il testo ogni volta che si rendeva necessario, senza mai stancarsi, offrendomi commenti azzeccati, critiche e suggerimenti. In secondo luogo, José Miguel Baeza, per il suo aiuto inestimabile nelle traduzioni dal greco e dal latino e per essere il migliore al mondo nella ricerca di documentazioni: è in grado di trovare il dato più strano nel libro più strano. In terzo luogo, Luis Peñalver, coscienzioso e meticoloso correttore di stile, trama e dati storici: il critico più severo che possa capitare a uno scrittore. Non racconterò nel dettaglio dove sia capace di arrivare, ma tutti coloro che appaiono in questa pagina conoscono aneddoti indimenticabili ed esilaranti. In quarto luogo, tutte le persone che, con impressionante fedeltà, si sono lette il romanzo a fascicoli, servendomi tanto da laboratorio sperimentale (se loro non riuscivano a capire certe cose, nemmeno i lettori avrebbero potuto) quanto da stimolo costante: Lorena Sancho, Lola Gulias (dell'Agenzia Letteraria Kerrigan) e Olga García (della casa editrice Plaza & Janés). E per ultima, senza che questa posizione in classifica supponga una minore importanza, la mia agente (o agentessa, come la chiamo io) Antonia Kerrigan, una persona in cui confido ciecamente, perché se oggi sto scrivendo questa lista di ringraziamenti e se i lettori possono leggere questo libro, è grazie a lei, alla sua fiducia in me e alla sua energia al momento di scommettere sui miei romanzi e di lottare per loro.
Non potrei arrivare al termine di questa pagina senza menzionare la mia editor preferita, Carmen Fernández de Blas. Dicono che le relazioni più personali di uno scrittore sono con il suo agente e il suo editor. Ebbene, è proprio così: Carmen è la mia editor dalla pubblicazione del mio primo romanzo e la considererò sempre tale, anche se le rotazioni del piccolo mondo dell'editoria hanno fatto sì che ora curi, vizi e protegga altri autori come ha curato, viziato e protetto me durante la sua fruttuosissima permanenza presso Plaza & Janés. Che segua il suo cammino: io continuerò a considerarla «la mia editor» nei secoli dei secoli. Amen. 1 Le cose belle, le opere d'arte, gli oggetti sacri, soffrono come tutti noi dell'inarrestabile scorrere del tempo. Dal preciso istante in cui il loro autore umano, cosciente o no della propria armonia con l'infinito, dà il tocco finale e le consegna al mondo, comincia per loro una vita che, col passare dei secoli, le condurrà alla vecchiaia e persino alla morte. Nondimeno, questo stesso tempo che ci consuma e ci distrugge conferisce loro una nuova specie di bellezza, che la vecchiaia dell'uomo non può sognare di raggiungere. Per nulla al mondo vorrei vedere ricostruito il Colosseo, con tutte le mura e le gradinate in perfetto stato, o un Partenone dipinto di colori squillanti, o una Vittoria di Samotracia con la testa. Assorta profondamente nel mio lavoro, lasciavo fluire involontariamente questi pensieri, mentre sfioravo con la punta delle dita gli angoli ruvidi della pergamena che avevo di fronte. Ero così concentrata da non accorgermi che il dottor William Baker, Segretario dell'Archivio, stava bussando. Né lo sentii girare la maniglia. Mi accorsi di lui solo quando ebbe aperto la porta. «Dottoressa Salina», mormorò, senza osare varcare la soglia, «il Reverendo Padre Ramondino mi ha pregato di chiederle che si presenti immediatamente nel suo ufficio.» Alzai gli occhi dalla pergamena e mi tolsi gli occhiali per guardare meglio il Segretario, sul cui viso ovale leggevo la mia stessa perplessità. Baker era un americano basso e massiccio, di quelli che, per lignaggio genetico, possono passare senza difficoltà per europei del sud. Portava occhiali spessi con montatura di tartaruga e aveva capelli radi tra il biondo e il grigio, che pettinava meticolosamente per coprire la maggiore porzione possibile della sua lucida calvizie.
«Mi perdoni, dottore», replicai, sgranando gli occhi, «potrebbe ripetere?» «Il reverendissimo Padre Ramondino desidera vederla quanto prima nel suo ufficio.» «Il Prefetto vuol vedere... me?» Non credevo alle mie orecchie. Guglielmo Ramondino, numero due dell'Archivio Segreto Vaticano, era la massima autorità esecutiva dell'istituzione, dopo Sua Eccellenza Monsignor Oliveira, e le volte che aveva convocato qualcuno di noi si potevano contare sulle dita di una mano. Baker abbozzò un sorriso e assentì. «E sa per quale motivo vuole vedermi?» domandai, intimidita. «No, dottoressa Salina. Ma, senza dubbio, deve trattarsi di qualcosa di molto importante.» Detto questo, col sorriso ancora sulle labbra, chiuse delicatamente la porta e scomparve. In quel momento già pativo gli effetti di ciò che, comunemente, si definisce terrore incontrollabile: mani sudate, secchezza delle fauci, tachicardia e tremore alle gambe. Appena ne fui in grado, mi alzai, spensi la lampada e gettai uno sguardo sofferto ai due bellissimi codici bizantini aperti sulla mia scrivania. Avevo dedicato gli ultimi sei mesi a ricostruire, con l'aiuto di quei manoscritti, il celebre testo perduto del Panegyrikon di San Niceforo ed ero quasi giunta al compimento dell'opera. Sospirai, rassegnata. Intorno a me il silenzio era assoluto. Il mio piccolo laboratorio, ammobiliato con una vecchia scrivania di legno, un paio di solide panchette, un crocifisso alla parete e parecchi scaffali colmi di libri, era situato quattro piani sottoterra e faceva parte dell'Ipogeo, la zona dell'Archivio Segreto cui ha accesso solo un numero ridottissimo di persone, inesistente per il mondo e per la storia. Quanti cronisti e studiosi avrebbero dato metà della loro vita solo per consultare qualcuno dei documenti che mi erano passati tra le mani da otto anni a quella parte! Ma l'idea che qualsiasi estraneo alla Chiesa potesse ottenere il permesso necessario per entrarvi era pura utopia: nessun laico aveva o avrebbe mai avuto accesso all'Ipogeo. Sulla mia scrivania, oltre ai leggii, ai cumuli di taccuini e alla lampada a bassa intensità (per evitare il riscaldamento della pergamena), riposavano bisturi, guanti di lattice e cartellette piene di fotografie ad alta definizione dei fogli più consumati dei codici bizantini. Da un bordo della scrivania, contorto come un lombrico, spuntava il lungo braccio articolato di una lente di ingrandimento, da cui penzolava una manona di cartone rosso con
tante stelle incollate sopra. Era un ricordo dell'ultimo compleanno, il quinto, della piccola Isabella, la mia nipotina preferita tra i venticinque discendenti che sei dei miei otto fratelli avevano apportato al gregge del Signore. Non potei fare a meno di sorridere ricordando la graziosa Isabella: «Zia Ottavia, zia Ottavia, lasciati picchiare da questa mano rossa». Il Prefetto! Mio Dio, il Prefetto mi stava aspettando e io ero lì, immobile come una statua, che pensavo a Isabella! Mi sfilai precipitosamente il camice bianco, che appesi a un gancio alla parete, e recuperai il mio tesserino di identificazione, su cui campeggiava una grossa C accanto a un'orribile fotografia della mia faccia. Uscii in corridoio, tirandomi dietro la porta. I miei assistenti erano all'opera su una schiera di scrivanie che si estendeva per una cinquantina di metri, fino alle porte dell'ascensore. Sulla parete in cemento armato dalla parte opposta, il personale subalterno era impegnato a catalogare e archiviare centinaia, migliaia di registri e fascicoli riguardanti la Chiesa, la sua storia, la sua diplomazia e le sue attività dal II secolo ai giorni nostri. Gli oltre venticinque chilometri di scaffali dell'Archivio Segreto Vaticano danno un'idea del volume della documentazione conservata. Ufficialmente, l'Archivio conserva solamente scritti degli ultimi otto secoli. Nondimeno anche il materiale relativo ai mille anni precedenti (che si trova esclusivamente al terzo e al quarto piano sotterranei, quelli ad alta sicurezza) è sotto la sua custodia. Provenienti da parrocchie, monasteri, cattedrali o scavi archeologici, così come dai vecchi archivi di Castel Sant'Angelo e della Camera Apostolica, dal loro arrivo all'Archivio Segreto quei preziosi documenti non vedevano la luce del sole, che, come altri fattori altrettanto pericolosi, avrebbe potuto distruggerli per sempre. Mi avviai verso l'ascensore con passo leggero, soffermandomi un istante a osservare il lavoro di uno dei miei assistenti, Guido Buzzonetti, affaccendato su una lettera che Güyük, Gran Khan dei mongoli, aveva inviato a Papa Innocenzo IV nel 1246. Un flacone di soluzione alcalina, senza tappo, si trovava a pochi millimetri dal suo gomito destro, proprio accanto ad alcuni frammenti della lettera. «Guido!» esclamai di soprassalto. «Non si muova.» Guido mi guardò con terrore, senza neppure osare respirare. Il sangue gli era defluito dal viso, concentrandosi un po' per volta nelle orecchie, che sembravano due stracci rossi ai lati di un sudario bianco. Sarebbe bastato un lieve movimento del braccio per rovesciare la soluzione alcalina sulla pergamena, provocando danni irreparabili a un documento unico nella storia. Intorno a noi, ogni attività si era interrotta. Il silenzio si sarebbe potuto
tagliare con un coltello. Presi il flacone, lo tappai e lo appoggiai sul lato opposto della scrivania. «Buzzonetti», sussurrai, fulminandolo con lo sguardo, «raccolga immediatamente le sue cose e si presenti al Viceprefetto.» Non potevo consentire una simile disattenzione nel mio laboratorio. Buzzonetti era un giovane domenicano che aveva studiato presso la Scuola Vaticana di Paleografia e Archivistica, specializzandosi nello studio dei codici orientali. Io stessa gli avevo dato per due anni lezioni di paleografia greca e bizantina, prima di chiedere al Reverendo Padre Pietro Ponzio, Viceprefetto dell'Archivio, che gli offrisse un posto nella mia équipe. Ciononostante, per quanto apprezzassi fratel Buzzonetti, per quanto fossi conscia del suo enorme valore, non potevo permettere che continuasse a lavorare all'Ipogeo. Il nostro materiale era unico e insostituibile. Quando, di lì a mille o duemila anni, qualcuno avesse voluto consultare la lettera di Güyük a Innocenzo IV, doveva poterlo fare. Punto e basta. Che cosa sarebbe successo a un dipendente del Museo del Louvre che avesse lasciato un barattolo di vernice, aperto, sopra la cornice della Gioconda? Da quando lavoravo al Laboratorio di Restauro e Paleografia dell'Archivio Segreto Vaticano, non avevo mai ammesso errori del genere, lo sapevano tutti, e la regola valeva anche in quel caso. Mentre premevo il pulsante dell'ascensore, mi rendevo pienamente conto che i miei assistenti non mi avevano troppo in simpatia. Non era la prima volta che notavo sguardi di disapprovazione alle mie spalle, e non mi facevo illusioni sulla loro stima. D'altra parte, non ritenevo che conquistare l'affetto dei subordinati o dei superiori fosse il motivo per cui, otto anni prima, mi era stata affidata la direzione del Laboratorio. Il pensiero di licenziare fratel Buzzonetti mi affliggeva profondamente e solo io sapevo quanto me ne sarei rammaricata, nei mesi a venire. Ma era grazie alla mia capacità di prendere decisioni del genere che avevo raggiunto quella posizione. L'ascensore si fermò silenziosamente al quarto piano sotterraneo e aprì le porte per lasciarmi entrare. Introdussi la chiave di sicurezza nel pannello, passai il tesserino di identificazione nel lettore elettronico e premetti lo zero. Qualche secondo dopo, la luce del sole che inondava il vestibolo dalle grandi vetrate sul patio di San Damaso mi abbagliò, lasciandomi quasi stordita. L'atmosfera artificiale dei piani inferiori atrofizzava i sensi. In più di un'occasione, concentrata su qualche lavoro importante, mi ero sorpresa a uscire dall'Archivio alle prime luci del giorno seguente, dopo aver perso
completamente la nozione del tempo. Battendo le palpebre, guardai il mio orologio da polso: erano le tredici in punto. Con mia sorpresa, il Reverendissimo Padre Guglielmo Ramondino, anziché aspettarmi comodo nel suo gabinetto, stava passeggiando impaziente avanti e indietro per il grande vestibolo. «Dottoressa Salina», mormorò, stringendomi la mano e incamminandosi verso l'uscita, «mi accompagni, per favore. Abbiamo poco tempo.» Faceva caldo nel giardino Belvedere, quel giorno al principio di marzo. I turisti, dalle finestre dei corridoi della pinacoteca, ci osservavano come se fossimo stati animali esotici in uno zoo stravagante. Mi sentivo sempre strana, quando camminavo nelle zone pubbliche della Città. E non c'era nulla che mi infastidisse di più dell'alzare lo sguardo e trovare qualcuno che puntava su di me l'obiettivo di una macchina fotografica. Disgraziatamente, certi prelati provavano gusto a esibire la loro condizione di abitanti del più piccolo Stato del mondo, e Padre Ramondino era tra questi. Con la giacca aperta del clergyman e la sua enorme corporatura da contadino lombardo, non sarebbe passato inosservato a chilometri di distanza. Nel condurmi alle stanze della Segreteria di Stato, al primo piano del Palazzo Apostolico, ebbe cura di passare per i luoghi più prossimi al percorso dei turisti e, mentre mi preannunciava che saremmo stati ricevuti personalmente da Sua Eminenza Reverendissima il Cardinale Angelo Sodano (cui, a quanto pareva, era unito da una stretta e antica amicizia), dispensava ampi sorrisi e destra e a sinistra, come se stesse sfilando alla processione della Domenica di Resurrezione in un paesino di provincia. Le guardie svizzere che vegliavano sull'ingresso degli uffici diplomatici della Santa Sede non batterono ciglio al nostro passaggio. Non così il sacerdote segretario che controllava chi entrava e chi usciva, il quale prese nota sul suo registro dei nostri nomi, incarichi e occupazioni. In effetti, ci informò, alzandosi in piedi per guidarci nei lunghi corridoi che si affacciavano su Piazza San Pietro, il Segretario di Stato ci attendeva. Benché tentassi di dissimularlo, mentre camminavo al fianco del Prefetto avevo la sensazione che un pugno di acciaio mi stringesse il cuore. La convocazione non poteva essere dovuta a miei eventuali errori sul lavoro, eppure ripassavo mentalmente tutto ciò che avevo fatto negli ultimi mesi, in cerca di qualcosa che potesse avermi meritato una reprimenda da parte della somma gerarchia ecclesiastica. Il sacerdote segretario si fermò, finalmente, in una delle sale, una qualunque, identica alle altre, con gli stessi motivi ornamentali e gli stessi af-
freschi. Ci chiese di aspettare un momento e sparì dietro porte così delicate e leggere da sembrare lamine dorate. «Lo sa dove siamo, dottoressa?» mi domandò il Prefetto, con aria nervosa e un sorrisetto di profonda soddisfazione sulle labbra. «Approssimativamente, Reverendo Padre», risposi, guardandomi intorno con attenzione. C'era un odore particolare nella sala, come di biancheria appena stirata e ancora calda, mescolato a resina e cera. «Queste sono le stanze della Seconda Sezione della Segreteria di Stato.» Alzò il mento in un movimento circolare, per indicare l'ambiente che ci circondava. «La sezione incaricata delle relazioni diplomatiche della Santa Sede con il resto del mondo, alla cui testa si trova l'Arcivescovo Segretario, Monsignor François Tournier.» «Ah, Monsignor Tournier!» esclamai con molta convinzione. Non avevo la più pallida idea di chi fosse, ma il nome mi suonava vagamente familiare. «Qui, dottoressa Salina, è dove con maggiore facilità si può constatare che il potere spirituale della Chiesa trascende i governi e le frontiere.» «E perché siamo venuti qui, Reverendo Padre? Il nostro lavoro non ha nulla a che vedere con questo genere di cose.» Mi guardò turbato e abbassò la voce. «Non saprei dirle il motivo. In ogni caso, le posso assicurare che si tratta di una questione della massima importanza.» «Ma, Reverendo Padre», insistetti, ostinata, «io sono solo una dipendente dell'Archivio Segreto. Le questioni di massima importanza dovrebbero essere di sua competenza, come Prefetto, e di Sua Eminenza Monsignor Oliveira. Che cosa ci faccio io qui?» Dal suo sguardo si capiva che non sapeva che cosa rispondermi e, dopo avermi dato un buffetto di incoraggiamento su una spalla, andò a raggiungere un nutrito gruppo di prelati radunatosi davanti alle vetrate, per riscaldarsi al tepore dei raggi del sole. Fu in quel momento che mi resi conto che l'odore di biancheria stirata proveniva da loro. Era quasi ora di pranzo, ma lì nessuno se ne preoccupava. Le attività fervevano nei corridoi e nelle stanze, con un continuo andirivieni di ecclesiastici e civili. Non avevo mai avuto occasione di entrare in quelle sale e ne osservai meravigliata la sontuosità, l'eleganza dell'arredamento, l'incalcolabile valore dei dipinti e degli oggetti decorativi. Mezz'ora prima ero chiusa nel mio piccolo laboratorio, con il mio camice bianco e gli occhiali, e ora mi trovavo circondata dalla più alta diplomazia internazionale, in un
luogo che sembrava uno dei più importanti centri di potere del mondo. D'un tratto, lo scricchiolio di una porta che si apriva precedette un tumulto di voci. Tutti i presenti si voltarono in quella direzione. Nel corridoio apparve uno stuolo di giornalisti, chi con una telecamera, chi con un registratore, in un coro di risatine ed esclamazioni. Per la maggior parte erano stranieri, prevalentemente europei e africani, ma c'erano anche parecchi italiani. Saranno stati in tutto quaranta o cinquanta reporter, e in pochi secondi invasero la sala. Qualcuno si fermò a salutare i sacerdoti, i vescovi e i cardinali che, come me, si trovavano sul loro cammino. Altri si affrettarono verso l'uscita. Quasi tutti mi guardarono di sottecchi, sorpresi dall'insolita presenza in quel luogo di una donna. «Ha fatto fuori Lehmann in quattro e quattr'otto!» esclamò un giornalista calvo con occhiali da miope, passandomi accanto. «È chiaro che Wojtyla non pensa di dimettersi», affermò un altro, grattandosi una basetta. «O non lo lasciano dimettersi!» osò ipotizzare un terzo. Il resto delle loro parole si perse, mentre si allontanavano lungo il corridoio. Qualche settimana prima il presidente della Conferenza Episcopale Tedesca, Karl Lehmann, aveva rilasciato alcune pericolose dichiarazioni: se Giovanni Paolo II non era più in condizioni di guidare la Chiesa in modo responsabile, avrebbe fatto bene a trovare la volontà di andare in pensione. La frase del vescovo di Magonza, che non era il solo a esprimere quel suggerimento data la cattiva salute del Sommo Pontefice, era caduta come olio bollente sui circoli più prossimi al Papa. A quanto pareva il Cardinale Segretario di Stato, Angelo Sodano, aveva appena dato una precisa risposta a quelle dichiarazioni nel corso di una tempestosa conferenza stampa. Le acque si agitavano, mi dissi con apprensione, e la quiete sarebbe tornata solo quando il Santo Padre fosse stato sottoterra e un nuovo pastore avesse assunto con mano ferma il governo universale della Chiesa. Di tutti gli affari del Vaticano, quello che senza dubbio è più interessante e affascinante per la gente, il più carico di significati politici e terreni, quello in cui emergono non solo le ambizioni più indegne della Curia, ma anche gli aspetti meno pii dei rappresentanti di Dio, è l'elezione di un nuovo Papa. Disgraziatamente, ci trovavamo alle porte di questo evento spettacolare e la Città era un ribollire di manovre e macchinazioni da parte delle differenti fazioni interessate a porre il proprio candidato sul Soglio di Pietro. Quel che è certo è che da molto tempo, in Vaticano, si avvertiva un senso di grande provvisorietà e di imminente fine del pontificato. Per
quanto io, come figlia della Chiesa e come religiosa, fossi estranea al problema, come ricercatrice con vari progetti in attesa di approvazione e finanziamento ne ero condizionata direttamente. Durante il pontificato di Giovanni Paolo II, dalla marcata tendenza conservatrice, era stato impossibile portare a termine determinate ricerche. In coscienza, anelavo a un nuovo Santo Padre più aperto di vedute e meno preoccupato di trincerarsi dietro la versione ufficiale della storia della Chiesa. Quanto materiale era etichettato con la dicitura RISERVATO E CONFIDENZIALE! D'altro canto, non nutrivo grandi speranze di un rinnovamento significativo, dal momento che il potere accumulato dai cardinali nominati dallo stesso Giovani Paolo II in più di vent'anni di pontificato rendeva impossibile l'elezione in Conclave di un papa dell'ala progressista. A meno che lo Spirito Santo in persona non decidesse di apportare un cambiamento ed esercitasse la sua potente influenza per ottenere una nomina così poco spirituale, era del tutto improbabile che il nuovo Pontefice non appartenesse al gruppo conservatore. In quell'istante un sacerdote in tonaca nera si avvicinò al Reverendo Padre Ramondino e gli disse qualcosa all'orecchio. Il Prefetto mi fece cenno di prepararmi, alzando le sopracciglia: ci stavano aspettando e dovevamo entrare. Le due porte di squisita fattura si aprirono silenziosamente di fronte a noi. Attesi che il Prefetto entrasse per primo, come richiesto dal protocollo. Uno spazio tre volte più grande della sala d'aspetto da cui provenivamo, decorato con specchi, stucchi dorati e affreschi (che riconobbi come opera di Raffaello), ospitava l'ufficio più esiguo che avessi visto in vita mia: l'unico arredamento era costituito da una scrivania di stampo classico e da una sedia dallo schienale alto, poste sopra un tappeto e quasi invisibili in fondo alla sala. Su un lato, sotto le finestre alte e sottili da cui entrava la luce del sole, un gruppo di ecclesiastici impegnati in un'animata conversazione occupavano piccoli sgabelli, completamente nascosti dalle loro tonache. In piedi, accanto a uno di essi, un secolare taciturno si manteneva ai margini della discussione, con un inconfondibile atteggiamento marziale, da militare o poliziotto. Era un individuo singolare, di altezza imponente, superiore al metro e novanta, robusto e massiccio come se tutti i giorni sollevasse pesi e masticasse vetri a pranzo. I capelli biondi erano rasati quasi a zero: si notava appena un po' di peluria sulla nuca e sulla fronte. Al nostro ingresso uno dei cardinali, che riconobbi immediatamente come il Segretario di Stato Angelo Sodano, si alzò in piedi e ci venne incon-
tro. Era un uomo di corporatura media, sulla settantina, con la fronte ampliata da una discreta calvizie e i capelli bianchi imbrillantinati sotto lo zucchetto di seta purpurea. Portava occhiali di foggia antiquata, dalla montatura color terra e dalle grosse lenti quadrate, e indossava una lunga tonaca nera con bottoni e decorazioni porpora, fascia color girasole e calzini in tinta. Una croce d'oro risaltava sul petto, seppur con discrezione. Sua Eminenza si avvicinò al Prefetto con un sorriso amichevole, per scambiare i baci di saluto. «Guglielmo!» esclamò. «Che gioia rivederti!» «Eminenza!» Era evidente la soddisfazione reciproca nel ritrovarsi. Dunque il Prefetto non aveva esagerato, quando mi aveva parlato della sua amicizia con il più importante mandatario del Vaticano; dopo il Papa, s'intende. Mi sentivo sempre più perplessa e disorientata, come se quello fosse un sogno e non una realtà tangibile. Che cos'era successo perché io mi trovassi in quella sala? Gli altri presenti, che osservavano la scena con curiosità, erano il Cardinale Vicario di Roma e presidente della Conferenza Episcopale Italiana, Sua Eminenza Carlo Colli, un uomo tranquillo dall'aria affabile; l'Arcivescovo Segretario della Seconda Sezione, Monsignor François Tournier (che riconobbi dallo zucchetto viola, non porpora, esclusivo dei cardinali); e il silenzioso soldato biondo, che aggrottava le sopracciglia trasparenti come se fosse profondamente infastidito. D'un tratto il Prefetto si voltò verso di me, mi mise una mano sulla spalla e mi tirò accanto a sé, al cospetto del Segretario di Stato. «La dottoressa Ottavia Salina, Eminenza», disse, a titolo di presentazione. In pochi secondi, gli occhi di Sodano mi squadrarono dalla testa ai piedi. Meno male che quel giorno mi ero vestita decentemente, con una bella gonna grigia e twin set color salmone. Il Cardinale stava probabilmente stimando la mia età sui trentotto o trentanove anni ben portati, ed esaminando il mio aspetto: viso gradevole, capelli neri corti, occhi scuri e statura media. «Eminenza», mormorai, mentre facevo una genuflessione e chinavo il capo in segno di rispetto, prima di baciare l'anello che il Segretario di Stato mi metteva davanti alle labbra. «È una religiosa, dottoressa?» fu il suo unico saluto. Aveva un lieve accento piemontese. «Suor Ottavia, Eminenza», si affrettò a dichiarare il Prefetto, «è membro
dell'Ordine del Beato Cuore di Maria.» «E perché veste da secolare?» intervenne inquisitivo l'Arcivescovo Segretario della Seconda Sezione, Monsignor François Tournier. «Forse che il suo Ordine non usa l'abito, sorella?» Il tono era profondamente offensivo, ma non intendevo lasciarmi intimidire. Dopo anni in Vaticano, mi ero trovata in quella situazione un'infinità di volte e avevo combattuto mille battaglie in difesa della mia scelta. Perciò mi sentivo debitamente corazzata. Lo guardai dritto negli occhi e risposi: «No, Monsignore. Il mio Ordine ha abbandonato l'abito dopo il Concilio Vaticano II». «Ah, il Concilio...» mormorò tra sé, con evidente disgusto. Monsignor Tournier era un uomo che teneva molto alle apparenze e, a giudicare dal suo aspetto, era un autentico candidato al ruolo di principe della Chiesa: uno di quei signorini che vengono sempre bene nelle fotografie. «'È conveniente che la donna preghi Dio a capo scoperto?'» si chiese ad alta voce, citando la prima Lettera di San Paolo ai Corinzi. «Suor Ottavia, Monsignore», puntualizzò il Prefetto, a mia discolpa, «è dottoressa in Paleografia e Storia dell'Arte, oltre a possedere molti altri titoli accademici. Dirige da otto anni il Laboratorio di Restauro e Paleografia dell'Archivio Segreto Vaticano, è docente della Scuola Vaticana di Paleografia e Archivistica, e ha conseguito numerosi riconoscimenti internazionali, tra i quali il prestigioso Premio Getty, Monsignore. In due occasioni, nel 1992 e nel 1995.» «Α-ha!» esclamò il Cardinale Segretario di Stato Sodano, lasciandosi convincere, mentre prendeva posto al fianco di Tournier. «Bene, queste sono le ragioni per cui abbiamo richiesto la sua presenza a questa riunione, sorella.» Tutti mi guardavano con evidente curiosità, ma io rimasi in silenzio, in attesa, prima che, per amore della conversazione, l'Arcivescovo Segretario citasse in mio onore anche quel passaggio di San Paolo che dice: «Tacciano le donne in assemblea, poiché non è loro concesso di prendere parola». Supposi che Monsignor Tournier, così come il resto dei presenti, prediligessero le loro religiose-cameriere, probabilmente tre o quattro per ognuno; o le suorine polacche dell'Ordine di Maria Bambina, dall'ampio copricapo a tettoia, che preparavano da mangiare a Sua Santità, pulivano le sue stanze e mantenevano lucenti i suoi vestiti; oppure le figlie della Congregazione delle Pie Discepole del Divino Maestro, che fungevano da telefoniste presso la Città del Vaticano.
«Ora, sorella», riprese Sua Eminenza Angelo Sodano, «l'Arcivescovo Segretario, Monsignor Tournier, le spiegherà perché è stata convocata. Vieni, Guglielmo, siediti al mio fianco. Monsignore, le cedo la parola.» Monsignor Tournier, con quella sicurezza derivante dalla certezza che il proprio aspetto gli aprirà qualunque strada nella vita, si alzò lentamente in piedi e, senza guardare, tese una mano verso il soldato biondo. Questi, disciplinato, gli porse una rigonfia cartelletta di pelle nera. Provai un sussulto allo stomaco. Per un istante pensai che, qualunque errore avessi commesso, doveva trattarsi di qualcosa di terribile e che sarei uscita da quella sala con una lettera di licenziamento in mano. «Suor Ottavia», cominciò il Monsignore, con voce grave, nasale, evitando di guardarmi. «In questo dossier troverà alcune fotografie che potremmo definire... come? Insolite, senza dubbio. Prima che lei le esamini, dobbiamo informarla che in esse appare il corpo di un uomo morto di recente, un etiope della cui vera identità tuttora non siamo al corrente. Osserverà che si tratta di ingrandimenti di alcuni dettagli del cadavere.» Ah, dunque non mi volevano licenziare? «Forse sarebbe opportuno domandare prima a Suor Ottavia», intervenne per la prima volta il Cardinale Vicario di Roma, Sua Eminenza Carlo Colli, «se se la sente di lavorare su materiale così sgradevole.» Mi guardò con una preoccupazione quasi paterna. «Questo povero disgraziato, sorella, è morto in un penoso incidente, che lo ha lasciato sfigurato. Risulta alquanto fastidioso guardare queste immagini. Crede di poterlo sopportare? Perché, in caso contrario, non ha che da dircelo.» Ero paralizzata dallo stupore. Non riuscivo a liberarmi dalla sensazione che avessero sbagliato persona. «Mi scusino, Eminenze», balbettai. «Ma non sarebbe più corretto consultare un anatomopatologo? Non riesco a capire come potrei essere utile.» Tournier prese lentamente a camminare all'interno del circolo formato dai presenti. «Vedrà, sorella», tagliò corto. «L'uomo che appare nelle fotografie era implicato in un grave delitto contro la Chiesa Cattolica e contro le altre Chiese cristiane. Siamo spiacenti di non poterle fornire altri dettagli. Quello che vogliamo da lei è che, con la maggiore discrezione possibile, realizzi uno studio su certi segni, certe particolari cicatrici rinvenute sul corpo quando è stato spogliato per effettuare l'autopsia. Scarificazioni credo sia la definizione corretta per questo tipo di... Come chiamarli? Tatuaggi rituali o marchi tribali. Sembra che in certe antiche culture vigesse la consuetudine di decorare il corpo con ferite cerimoniali. In effetti», conti-
nuò, aprendo la cartelletta e dando un'occhiata alle fotografie, «quelle di questo povero disgraziato sono davvero curiose: lettere greche, croci e altre rappresentazioni parimenti... artistiche? Sì, senza dubbio la parola è artistiche.» «Ciò che Monsignore sta cercando di dirle», lo interruppe Sua Eminenza il Segretario di Stato con un sorriso cordiale, «è che lei deve analizzare questi simboli, studiarli e fornirci un'interpretazione quanto più completa ed esatta possibile. A questo scopo, naturalmente, avrà a sua disposizione ogni risorsa dell'Archivio Segreto e del Vaticano.» «Inoltre, la dottoressa Salina può contare sul mio completo appoggio», dichiarò il Prefetto dell'Archivio, guardando i presenti in cerca di approvazione.» «Ti siamo grati dell'offerta, Guglielmo», puntualizzò Sua Eminenza, «ma anche se Suor Ottavia lavora abitualmente ai tuoi ordini, questo caso è diverso. Spero che tu non ti offenda, ma da questo momento e fino al completamento del rapporto, la sorella sarà al servizio della Segreteria di Stato.» «Non si preoccupi, Reverendo Padre», aggiunse Monsignor Tournier in tono soave, con un elegante gesto di disinteresse con la mano. «Suor Ottavia disporrà dell'inestimabile collaborazione del qui presente capitano Kaspar Glauser-Röist della Guardia Svizzera, uno dei più validi agenti di Sua Santità, al servizio del Tribunale della Sacra Rota Romana. È lui l'autore delle fotografie, nonché il coordinatore dell'inchiesta in corso.» «Eminenze...» Quella che si era sentita era la mia voce incerta. I quattro prelati e il militare si voltarono a guardarmi. «Eminenze», ripetei con tutta l'umiltà di cui ero capace, «sono loro infinitamente grata per aver pensato di affidarmi un incarico di tale importanza, ma temo di non poterlo svolgere.» Addolcii ancora di più il mio tono di voce, prima di continuare. «Non solo perché in questo momento non posso interrompere il lavoro a cui mi sto dedicando e che occupa tutto il mio tempo, ma anche perché non ho la competenza necessaria per gestire la banca dati dell'Archivio Segreto. Per di più, necessiterei dell'aiuto di un antropologo, per mettere a fuoco gli aspetti più particolari della ricerca. Voglio dire che... Eminenze... che non mi sento all'altezza del compito.» Monsignor Tournier fu l'unico a dare cenni di vita quando ebbi finito di parlare. Mentre gli altri restavano muti per la sorpresa, lui cominciò a ridacchiare, sarcastico, lasciandomi supporre che fosse contrario all'impiego
dei miei servigi già prima che entrassi nella sala. Potevo immaginarmelo mentre diceva con disprezzo: «Una donna...?» Fu il suo atteggiamento provocatorio e mordace che mi indusse a fare una completa inversione e ad aggiungere: «Anche se, a pensarci bene, potrei portarlo a termine, a condizione di disporre di tempo sufficiente». L'espressione di scherno sparì come d'incanto dal volto di Monsignor Tournier, mentre gli altri manifestavano sollievo con grandi sospiri di soddisfazione. Uno dei miei peccati è l'orgoglio, lo riconosco, in tutte le sue declinazioni di arroganza, vanità, superbia... Non me ne pentirò mai abbastanza, né farò mai sufficiente ammenda per questo peccato, ma sono incapace di rifiutare una sfida o di perdermi d'animo di fronte a una provocazione che metta in dubbio la mia intelligenza o le mie conoscenze. «Splendido!» Il Segretario di Stato si batté una mano sul ginocchio. «Non vi è altro da aggiungere. Problema risolto, grazie a Dio! Molto bene, Suor Ottavia. Da questo momento il capitano Glauser-Röist sarà al suo fianco per aiutarla in qualunque sua necessità. Ogni mattina, all'inizio della sua giornata di lavoro, il capitano le consegnerà le fotografie e alla sera lei gliele restituirà. Qualche domanda, prima di cominciare?» «Sì», risposi io, sorpresa. «Il capitano potrà dunque entrare con me nella zona riservata dell'Archivio Segreto? È un secolare...» «Naturalmente, dottoressa», affermò il Prefetto Ramondino. «Io stesso mi incaricherò di preparare la sua autorizzazione, che sarà pronta oggi stesso.» Un soldatino di piombo (che altro sono le guardie svizzere?) stava per porre fine a una venerabile tradizione inviolata da secoli. Pranzai alla caffetteria dell'Archivio e dedicai il resto del pomeriggio a riporre tutto quello che avevo sulla mia scrivania, nel laboratorio. Rinviare il mio studio sul Panegyrikon mi irritava più di quanto volessi ammettere, ma era inutile piangerci sopra. D'altro canto, non avrei potuto sottrarmi a un compito affidatomi dal Cardinale Sodano in persona. Specie a un incarico così intrigante da solleticare la mia perversa curiosità. Una volta messo tutto in ordine e approntata la scrivania al nuovo lavoro che avrei cominciato l'indomani mattina, raccolsi le mie cose e me ne andai. Attraversato il colonnato del Bernini, lasciai Piazza San Pietro per Via di Porta Angelica e passai distrattamente davanti ai numerosi negozi di souvenir, ancora traboccanti di turisti giunti a Roma per il grande Giubileo. I ladruncoli del Borgo più o meno ci conoscevano tutti, noi che lavora-
vamo in Vaticano. Ma, dall'inizio dell'Anno Santo (solo nei primi dieci giorni di gennaio erano arrivati in città tre milioni di persone), alla manovalanza locale si erano aggiunti borsaioli e scippatori giunti da tutta Italia. Sicché strinsi con forza la borsetta e affrettai il passo. La luce della sera sfumava lentamente a occidente e io, che di quella luce avevo sempre avuto un certo timore, non vedevo l'ora di rifugiarmi a casa. La strada era breve, ormai. Per fortuna la direttrice generale del mio Ordine considerava un onore il fatto che una delle sue religiose occupasse una posizione di rilievo, e ciò aveva giustificato l'acquisto di un immobile nelle vicinanze del Vaticano, con vista sulla fontana barocca un tempo alimentata dalla salutare Acqua Angelica, dai grandi poteri curativi per i disturbi gastrici. Le sorelle Ferma, Margherita e Valeria, che lavoravano insieme in una vicina scuola pubblica, erano appena tornate a casa. Le trovai in cucina, che preparavano la cena e chiacchieravano allegramente del più e del meno. Ferma, che con i suoi cinquantacinque anni di età era la più vecchia, si ostinava a indossare l'abbigliamento che aveva adottato a mo' di uniforme dal momento in cui l'Ordine aveva rinunciato all'abito: camicia bianca, giacchetta blu marina, gonna dello stesso colore, sotto il ginocchio, e calze nere spesse. Margherita, più vecchia di me solo di qualche anno, era la Superiora della nostra comunità e la direttrice della scuola in cui le tre lavoravano. Il nostro atteggiamento reciproco era passato, con gli anni, da distante a cordiale e da cordiale ad amichevole, senza tuttavia andare oltre la superficialità. Infine la giovane Valeria, milanese di origine, insegnava ai più piccoli della scuola, quelli di quattro o cinque anni, tra i quali abbondavano sempre di più i figli di immigrati arabi o asiatici, con tutti i problemi di comunicazione che ciò comportava in un'aula. Recentemente l'avevo vista leggere un grosso libro sui costumi e le religioni di altri continenti. Le tre rispettavano moltissimo il mio lavoro in Vaticano, per quanto in realtà ne sapessero ben poco, se non che non dovevano fare domande in proposito. Suppongo che i vertici dell'Ordine avessero dato loro raccomandazioni in tal senso. Del resto, una clausola molto esplicita del mio contratto di lavoro con il Vaticano precisava che mi era proibito, pena la scomunica, parlare del mio lavoro con gli estranei. Ciononostante, sapendo quanto piacesse alle sorelle, di tanto in tanto raccontavo loro qualche recente scoperta sulle prime comunità cristiane o i primi tempi della Chiesa. Ovviamente, mi limitavo a ciò che si poteva rivelare senza smentire la storiografia ufficiale o minare i pilastri della fede. Perché mai avrei dovuto
spiegare loro, per esempio, che uno scritto di Ireneo, uno dei Padri della Chiesa, risalente all'anno 183 e custodito gelosamente nell'Archivio, menzionava Linneo come primo Papa, anziché Pietro, il quale non era neppure nominato? O che la lista dei primi Papi raccolta nel Catalogas Liberianus dell'anno 354 era completamente falsa e che i presunti Pontefici in essa elencati (Anacleto, Clemente I, Evaristo, Alessandro...) non erano mai esistiti? A che scopo rivelare che i quattro Vangeli erano stati scritti solamente dopo le Lettere di Paolo, autentico artefice della nostra Chiesa, seguendo la sua dottrina e i suoi insegnamenti, e non viceversa come credeva il mondo? I miei dubbi e i miei timori, che Ferma, Margherita e Valeria percepivano con grande intuizione, le mie lotte interiori e le mie grandi sofferenze erano un segreto di cui potevo rendere partecipe solamente il mio confessore, il padre francescano Egilberto Pintonello, presso il quale si confessavano tutti coloro che lavoravano al terzo e al quarto piano dei sotterranei dell'Archivio Segreto. Le mie tre consorelle e io, messa la cena in forno e apparecchiata la tavola, entrammo nella cappella della casa e ci sedemmo sui cuscini disposti sul pavimento, intorno al sacrario, dinanzi al quale era perennemente accesa una minuscola candela. Recitammo insieme i misteri dolorosi del Rosario, quindi restammo in silenzio, raccolte nell'orazione. Eravamo in Quaresima e in quei giorni, su raccomandazione di Padre Pintonello, ero solita riflettere sul passaggio evangelico dei quaranta giorni di digiuno di Gesù nel deserto e delle tentazioni del demonio. Non che mi piacesse particolarmente, ma ero sempre stata molto disciplinata e non mi sarei mai sognata di contravvenire a un'indicazione del mio confessore. Durante la preghiera, il colloquio con i prelati di quel mezzogiorno continuava a tornarmi fastidiosamente alla memoria. Mi chiedevo se sarei riuscita a portare a termine con successo un lavoro riguardo al quale mi venivano tenute nascoste alcune informazioni fondamentali. Oltretutto, la vicenda aveva un alone misterioso. «L'uomo che appare nelle fotografie», aveva detto Monsignor Tournier, «era implicato in un grave delitto contro la Chiesa Cattolica e contro le altre Chiese cristiane. Siamo spiacenti di non poterle fornire altri dettagli.» Quella notte ebbi incubi terribili, nei quali un uomo malridotto e senza testa, che era la reincarnazione del demonio, mi appariva agli angoli di una lunga strada che percorrevo con passo malfermo, come ubriaca, e mi tentava con il potere e la gloria di tutti i regni del mondo.
Alle otto in punto del mattino, il citofono si mise a suonare con insistenza. Fu Margherita ad andare a rispondere. Poco dopo, apparve in cucina con un'espressione di circostanza sul viso. «Ottavia, un certo Kaspar Glauser ti aspetta di sotto.» Rimasi di sasso. «Il capitano Glauser-Röist?» farfugliai, con la bocca piena. «Se è capitano, non l'ha detto», puntualizzò Margherita. «Ma il nome corrisponde.» Trangugiai il biscotto senza masticare e bevvi un sorso di caffellatte. «Cose di lavoro», mi scusai, abbandonando precipitosamente la cucina sotto gli sguardi sorpresi delle consorelle. L'appartamento in Piazza delle Vaschette era così piccolo che mi ci volle un attimo per riordinare la mia stanza e passare in cappella per congedarmi dal Santissimo. Presi al volo borsa e soprabito dall'attaccapanni dell'ingresso e uscii chiudendomi la porta alle spalle. Ero in preda alla confusione. Che cosa ci faceva il capitano Glauser-Röist di sotto ad aspettarmi? Che fosse successo qualcosa? Nascosto dietro un paio di impenetrabili occhiali scuri, il robusto soldatino di piombo era appoggiato, inespressivo, alla portiera di una vistosa Alfa Romeo blu scuro. A Roma è consuetudine parcheggiare l'auto davanti ai portoni, senza curarsi di non intralciare il traffico. Qualsiasi buon romano vi spiegherà tranquillamente che in questo modo si risparmia tempo. Il capitano Glauser-Röist, malgrado la nazionalità svizzera, obbligatoria per tutti i membri del piccolo esercito del Vaticano, doveva avere vissuto a lungo nella capitale, visto che ne aveva ormai adottato le abitudini peggiori. Indifferente alla curiosità che stava sollevando nel vicinato, il capitano non mosse un muscolo del viso quando, finalmente, sbucai dal portone. Fui lieta di notare che, alla luce impietosa del sole, il volto ingannevolmente giovanile dell'enorme militare denunciava i segni dell'età, sotto forma di piccole rughe intorno agli occhi. «Buon giorno», lo salutai, chiudendomi i bottoni del soprabito. «È successo qualcosa, capitano?» «Buon giorno, dottoressa», disse lui, con una pronuncia correttissima dell'italiano, dalle cui erre traspariva tuttavia una lieve inflessione germanica. «L'ho aspettata alla porta dell'Archivio fin dalle sei del mattino.» «E perché così presto, capitano?» «Credevo che cominciasse a lavorare a quell'ora.»
«Io comincio a lavorare alle otto», ribattei, in tono ostile. Il capitano gettò un'occhiata distratta all'orologio. «Sono già le otto e dieci», annunciò, freddo e simpatico come un sasso. «Sì? Be', allora andiamo.» Che uomo irritante! Non sapeva che noi capi arriviamo sempre tardi? Fa parte dei privilegi dell'incarico. L'Alfa Romeo attraversò le viuzze del Borgo a tutta velocità. Dei romani, il capitano aveva adottato anche lo stile di guida ai limiti del suicidio. In un amen passammo la Porta Sant'Anna e ci lasciammo alle spalle le caserme della Guardia Svizzera. Se non mi misi a gridare e non tentai la fuga dalla portiera durante il tragitto, fu solo grazie alle mie origini siciliane e al fatto di aver preso la patente a Palermo, dove la segnaletica stradale ha scopo puramente decorativo e tutto si basa sui rapporti di forza, sull'uso del clacson e sull'istinto di sopravvivenza. Il capitano inchiodò il veicolo in un posto macchina che ostentava una targa col suo nome e spense il motore con aria soddisfatta. Fu quella la prima traccia di umanità che potei scorgere in lui, e mi colpì profondamente. Senza dubbio, guidare gli piaceva. Ci incamminammo verso l'Archivio, attraversando zone del Vaticano a me sconosciute: passammo per una moderna palestra e un poligono di tiro di cui ignoravo l'esistenza. Tutte le guardie che incontravamo scattavano sull'attenti e salutavano militarmente il capitano. Da anni ero curiosa di scoprire l'origine delle appariscenti uniformi della Guardia Svizzera. Disgraziatamente, in nessuno dei documenti catalogati dall'Archivio Segreto si trovava una conferma o una smentita della voce corrente, ossia che il disegno originale fosse opera di Michelangelo. Tuttavia confidavo che la soluzione sarebbe apparsa nel momento più inaspettato, in mezzo all'ingente quantità di documenti che ancora restavano da studiare. In ogni caso Glauser-Röist, a differenza dei suoi compagni, sembrava non utilizzare mai l'uniforme. Quantomeno, nelle due occasioni in cui l'avevo visto, era in borghese e indossava abiti indubbiamente troppo cari per il suo misero salario di guardia svizzera. Attraversammo in silenzio il vestibolo dell'Archivio Segreto, passando davanti alla porta chiusa dell'ufficio del Reverendo Padre Ramondino, ed entrammo insieme in ascensore. Glauser-Röist introdusse nel pannello il suo tesserino nuovo di zecca. «Ha con sé le fotografie, capitano?» domandai curiosa, mentre scende-
vamo all'Ipogeo. «Esatto, dottoressa.» Più lo guardavo, più mi faceva pensare alla roccia scoscesa di una scogliera. Ma dove avevano trovato un tipo del genere? «Allora, suppongo che ci metteremo subito al lavoro, giusto?» «Immediatamente.» I miei assistenti restarono a bocca aperta quando videro il capitano Glauser-Röist marciare lungo il corridoio verso il laboratorio. La scrivania di Guido Buzzonetti era tristemente vuota, quel mattino. «Buon giorno», dissi ad alta voce. «Buon giorno, dottoressa», mormorò qualcuno, giusto per non lasciarmi senza risposta. Il silenzio più assoluto ci accompagnò fino alla porta del laboratorio. Ma il grido che mi sfuggì appena la aprii dovette sentirsi fino al Foro Romano. «Gesù mio! Cos'è successo?» La mia vecchia scrivania era stata spinta impietosamente in un angolo. Al suo posto, un tavolo metallico su cui troneggiava un gigantesco computer occupava il centro della stanza. Tutt'intorno, altre attrezzature informatiche erano state collocate su tavolini di metacrilato, sottratti a qualche ufficio in disuso. Decine di cavi e spine si aggrovigliavano sul pavimento o pendevano dagli scaffali delle mie vecchie librerie. Mi coprii la bocca con le mani, di fronte a quella scena orripilante, e avanzai cauta, come se stessi entrando in un nido di serpenti. «Questa attrezzatura ci sarà necessaria per il nostro lavoro», annunciò la Roccia, alle mie spalle. «Lo spero proprio, capitano! Chi le ha dato il permesso di entrare nel mio laboratorio e fare tutta questa confusione?» «Il Prefetto Ramondino.» «Mi si poteva anche avvisare!» «Abbiamo montato l'attrezzatura ieri sera, dopo che lei se n'era già andata.» Nella sua voce non c'era la minima traccia di dispiacere o compartecipazione. Si limitava a informarmi, punto e basta, come se qualsiasi cosa lui facesse fosse indiscutibile. «Splendido! Davvero splendido!» sillabai, piena di rancore. «Vuole cominciare a lavorare o no?» Mi voltai come se mi avesse preso a schiaffi e lo guardai con tutto il disprezzo di cui ero capace. «Vediamo di finire quanto prima.» «Come desidera», mormorò, strascicando le erre. Si aprì i bottoni della giacca e, da qualche tasca misteriosa, sfilò il voluminoso dossier di pelle
nera che Monsignor Tournier mi aveva mostrato il giorno prima. «È tutto suo», disse, porgendomelo. «E lei che cosa intende fare, mentre io lavoro?» «Userò il computer.» «A quale scopo?» chiesi, perplessa. Il mio analfabetismo informatico era una questione in sospeso con cui sapevo che prima o poi avrei dovuto fare i conti. Ma per il momento, da brava erudita, mi trovavo molto più a mio agio a disprezzare quegli strumenti diabolici. «Allo scopo di fugare i suoi dubbi e procurarle ogni informazione esistente su qualsiasi argomento le possa interessare.» Chiusa la discussione. Cominciai a esaminare le fotografie. Erano molte, trenta per la precisione, numerate e classificate in ordine cronologico, vale a dire dal principio alla fine dell'autopsia. Dopo un esame iniziale, selezionai quelle in cui si vedeva, disteso su un lettino metallico, l'intero corpo dell'etiope supino e prono, ossia a faccia in su e faccia in giù. Già a prima vista, dall'arco innaturale delle gambe, si notava la frattura del bacino, oltre a una terribile lesione nella zona parietale destra del cranio che aveva lasciato scoperta, tra schegge d'osso, la gelatina grigia del cervello. Scartai, in quanto inutili, le immagini restanti, che attestavano la moltitudine di lesioni interne subite dal cadavere, che io non sapevo valutare e che non ritenevo rilevanti ai fini del mio lavoro. Notai, questo sì, che, probabilmente a causa dell'impatto, la vittima si era mozzata la lingua tra i denti. Quell'uomo non avrebbe mai potuto passare per qualcosa di diverso da ciò che era, cioè un etiope. Le caratteristiche etniche erano molto vistose: piuttosto magro, anzi ossuto, dalle carni secche e fibrose, con la pelle di colorazione fin troppo scura. I tratti del viso erano la prova definitiva della sua origine abissina: zigomi alti e ben marcati, guance scavate, grandi occhi neri che nelle foto erano spalancati, con un effetto impressionante, fronte ampia e ossuta, labbra grosse e naso fine, quasi da profilo greco. Prima che fosse rasata, la parte intatta della testa presentava capelli grossi e ricci, incrostati di sangue. Dopo la rasatura, al centro del cranio si poteva distinguere perfettamente una sottile cicatrice a forma di sigma maiuscola: Σ Quella mattina non feci altro che osservare, più e più volte, le terribili
immagini, prendendo nota di ogni dettaglio che mi sembrasse significativo. La cicatrici sulla pelle erano precise come le strade su una cartina, qualcuna gonfia e carnosa, alquanto sgradevole alla vista, altre sottili, quasi impercettibili, come fili di seta. Ma tutte, senza eccezione, presentavano una colorazione rosata, a tratti rossiccia, che conferiva loro l'aspetto repellente di inserti di pelle bianca su una pelle nera. A metà pomeriggio avevo lo stomaco sottosopra, la testa pesante e la scrivania piena di annotazioni e schemi delle cicatrici del defunto. Avevo trovato altre sei lettere greche maiuscole ripartire su tutto il corpo: sul braccio destro, sopra il bicipite, una tau (T); su quello sinistro una ipsilon (Y); al centro del petto, sopra il cuore, una alfa (A); sull'addome una ro (P), sulla coscia destra, sopra il quadricipite, una omicron (O), e su quella sinistra, nello stesso punto, un'altra sigma (Σ). Proprio sotto la alfa e appena sopra la ro, nella zona corrispondente ai polmoni e allo stomaco, si vedeva un grande Crismon, il noto monogramma ricorrente sui timpani e sugli altari delle chiese medioevali, formato dalle prime due lettere del nome di Cristo scritto in greco, la chi e la ro, XP, sovrapposte:
Tale Crismon, tuttavia, presentava una curiosa caratteristica. Gli era stata aggiunta una barra trasversale che contribuiva a comporre l'immagine di una croce. Il resto del corpo, con eccezione di mani, piedi, natiche, collo e faccia, era pieno di altre croci, della fattura più originale che mi fosse mai capitato di vedere. Il capitano Glauser-Röist trascorreva quasi tutto il tempo seduto al computer, digitando senza posa misteriose istruzioni. Di quando in quando, però, avvicinava la sua sedia alla mia e contemplava silenzioso l'evoluzione della mia analisi. Per questo sobbalzai quando mi domandò senza preavviso se mi sarebbe stato utile un disegno del corpo umano a grandezza naturale, per indicare la posizione delle cicatrici. Prima di rispondergli, feci una serie di cenni affermativi e negativi col capo, al solo scopo di alleviare i miei dolori cervicali. «È una buona idea. Per saperlo, capitano, fino a che punto è autorizzato a darmi informazioni sul conto di questo pover'uomo? Monsignor Tournier ha detto che è stato lei a scattare queste fotografie.» Glauser-Röist si alzò e rimise la sedia davanti al computer. «Non posso dirle niente.» Batté rapidamente sui tasti e la stampante cominciò a crepita-
re e a espellere carta. «Avrei bisogno di saperne di più», protestai, massaggiandomi il naso sotto gli occhiali. «Forse lei è al corrente di dettagli che potrebbero facilitare il mio compito.» La Roccia non si lasciò commuovere dalle mie richieste. Staccando pezzi di nastro adesivo con i denti, andò alla porta, l'unico spazio libero nel mio piccolo laboratorio, per appendervi i fogli usciti dalla stampante, fino a comporre la sagoma di un essere umano. «Posso esserle d'aiuto in qualcos'altro?» si offrì, terminato il lavoro. Lo guardai indispettita. «Da quel computer può consultare la banca dati dell'Archivio Segreto?» «Da questo computer posso consultare qualsiasi banca dati del mondo. Che cosa vuole sapere?» «Tutto quello che può trovare sulle scarificazioni.» Il capitano si mise al lavoro senza por tempo in mezzo. Io, da parte mia, presi da un cassetto della mia scrivania una manciata di pennarelli colorati e mi piazzai di fronte alla sagoma di carta. In capo a mezz'ora ero riuscita a ricostruire con una certa fedeltà il doloroso mappamondo delle ferite del cadavere. Mi domandai perché un uomo sano e forte, sui trent'anni e passa, si fosse lasciato torturare in quella maniera. Era molto strano. Oltre alle lettere greche, avevo trovato un totale di sette bellissime croci, ognuna completamente diversa dalle altre: una croce latina nella parte inferiore dell'avambraccio destro e una croce latina immissa (con la traversa corta a metà del palo) in quella del sinistro; una croce potenziata sulla schiena; una croce ansata sulle vertebre dorsali e una croce bizantina su quelle cervicali. Le due croci restanti, per arrivare a sette, erano del tipo detto decussato, a Χ, o croce greca. Ed erano situate nella parte posteriore delle cosce. La varietà era ammirevole, benché tutte avessero qualcosa in comune: erano racchiuse, o protette, da quadrati, cerchi o rettangoli, a guisa di certe finestre o feritoie medioevali, sormontati da un'identica coroncina a sette punte, in forma di denti di sega. Alle nove di sera eravamo stanchi morti. Glauser-Röist aveva appena localizzato qualche modesto riferimento alle scarificazioni. Mi spiegò, sommariamente, che si trattava di un'usanza religiosa circoscritta a una frangia dell'Africa Centrale nella quale, per nostra disgrazia, non era compresa l'Etiopia. In quella zona, a quanto pareva, le tribù primitive erano solite strofinare con una certa mistura di erbe le incisioni della pelle, praticate generalmente con piccole canne affilate come coltelli. I motivi ornamentali po-
tevano raggiungere una notevole complessità, ma essenzialmente rispondevano alle forme geometriche della simbologia sacra, spesso in relazione a qualche rito religioso. «Tutto qui?» domandai delusa, quando il capitano ebbe concluso il suo esiguo rapporto. «Be', c'è altro, ma niente di significativo. I cheloidi, ossia le cicatrici più grosse e rigonfie, sono un autentico richiamo sessuale che i maschi esibiscono di fronte alle femmine.» «Ma guarda», ribattei, sorpresa. «Questa è bella. Non l'avrei mai immaginato.» «Per cui», proseguì lui, indifferente, «continuiamo a non sapere la ragione delle cicatrici sul corpo di quest'uomo.» Credo che fu in quel momento che mi accorsi per la prima volta che i suoi occhi erano di uno strano grigio incolore. «Un altro dato curioso, ancorché irrilevante per il nostro lavoro, è che ultimamente questa pratica è divenuta di moda tra i giovani di molti Paesi. La chiamano body art o performance art, e uno dei suoi principali sostenitori è il cantante e attore David Bowie.» «Non ci posso credere», sospirai, accennando un sorriso. «Vuol dire che si fanno praticare quelle incisioni per il piacere di farlo?» «Ecco», aggiunse lui, non meno sconcertato di me, «ha qualcosa a che fare con l'erotismo e la sensualità, ma non saprei come spiegarglielo.» «Non ci provi neppure, grazie», lo dispensai, estenuata. Mi alzai in piedi, dando per conclusa quella prima, spossante sessione di lavoro. «Andiamo a riposare, capitano. Domani sarà un'altra giornata molto lunga.» «Mi permetta di accompagnarla a casa. Non è un'ora adatta per passeggiare da sola nel Borgo.» Ero troppo stanca per dire di no, e poco dopo mi trovai di nuovo a rischiare la vita a bordo di quel macchinone spettacolare. Arrivata a destinazione, salutai e ringraziai il capitano. Mi sentivo in colpa per come l'avevo trattato, anche se il rimorso non durò a lungo. Respinsi educatamente la sua offerta di venirmi a prendere l'indomani mattina. Erano già due giorni che non sentivo messa e non intendevo lasciarne passare uno di più. Mi ripromisi di alzarmi presto e, prima di riprendere il lavoro, di fermarmi alla chiesa dei Santi Michele e Magno. Ferma, Margherita e Valeria stavano guardando un vecchio film alla televisione quando entrai. Avevano avuto la cortesia di lasciarmi la cena calda nel forno a microonde, così mangiai un po' di minestra, seppur svogliatamente. Avevo visto troppe cicatrici, quel giorno. Prima di andare a
dormire mi chiusi nella cappella, anche se quella sera non riuscivo a concentrarmi nell'orazione. Non solo perché ero troppo stanca, ma anche perché a tre dei miei otto fratelli venne in mente di chiamarmi dalla Sicilia per chiedermi se sarei andata alla festa che tutti gli anni organizzavamo per nostro padre, il giorno di San Giuseppe. Promisi a tutti e tre che non sarei mancata e me ne andai a letto, esasperata. A partire da quel primo giorno, il capitano Glauser-Röist e io vivemmo settimane frenetiche. Rinchiusi nel laboratorio dalle otto del mattino fino alle otto o alle nove di sera, dal lunedì alla domenica, passavamo in esame i pochi dati di cui disponevamo, alla luce delle scarse informazioni che ricavavamo dagli archivi. Risolvere il problema delle lettere greche e del Crismon risultò relativamente facile, in confronto allo sforzo titanico che richiese la soluzione dell'enigma delle sette croci. Il secondo giorno di lavoro, appena entrata nel laboratorio, mi bastò chiudere la porta e sbirciare con la coda dell'occhio la sagoma di carta perché la spiegazione delle lettere greche arrivasse all'improvviso, come uno schiaffo in piena faccia. Risultava così evidente che mi pareva incredibile non averla vista già la sera prima. Mi giustificai rammentando quanto fossi stanca. Leggendo dalla testa ai piedi e da destra a sinistra, le sette lettere formavano la parola ΣΤΑΥΡΟΣ ossia stauros, che in greco significa, ovviamente, «croce». A questo punto non c'era dubbio che tutte le incisioni su quel corpo color rame erano in relazione allo stesso tema. Qualche giorno più tardi, dopo avere rivoltato come un guanto la storia dell'antica Abissinia, ora Etiopia, dopo avere consultato la più svariata documentazione sull'influenza della cultura greca sulla cultura e la religione di quel Paese, dopo avere trascorso ore e ore a esaminare attentamente decine di libri sull'arte di tutte le epoche e gli stili, così come estesi dossier sulle sette religiose forniti dai vari dipartimenti dell'Archivio Segreto e rapporti esaustivi sul Crismon che il capitano aveva recuperato grazie al computer, giungemmo a un'altra scoperta alquanto significativa: il simbolo del Nome di Cristo che l'etiope aveva sul petto corrispondeva a una varietà denominata Monogramma di Costantino che, almeno nell'uso che ne faceva l'arte cristiana, era stata abbandonata a partire dal VI secolo della nostra
era. Alle origini del cristianesimo, per quanto possa apparire sorprendente, la Croce non era stata oggetto di alcuna adorazione. I primi cristiani trascuravano completamente lo strumento del martirio e, quando dovevano servirsi di segni e immagini, preferivano altri elementi ornamentali, meno lugubri. Inoltre, durante le persecuzioni romane, in realtà limitate a quella di Nerone ai tempi dell'incendio di Roma nell'anno 64 e, secondo Eusebio,1 ai due anni dell'impropriamente detta Grande Persecuzione di Diocleziano, dal 303 al 305, l'esibizione e l'adorazione pubblica della Croce sarebbe risultata indubbiamente molto pericolosa. Motivo per cui, sulle pareti delle catacombe e delle case, sulle lapidi dei sepolcri, sugli oggetti personali e sugli altari, erano apparsi simboli quali l'agnello, il pesce, l'ancora e la colomba. La rappresentazione più importante fra tutte era il Crismon, il monogramma formato dalle lettere X e P, impiegato diffusamente per decorare i luoghi sacri. Esistevano molteplici variazioni del Crismon, in funzione dell'interpretazione religiosa che si desiderava attribuirgli. Per esempio, sulle tombe dei martiri si rappresentava un Crismon con un ramo di palma in luogo della lettera P, simboleggiando la vittoria di Cristo, mentre i monogrammi con un triangolo al centro esprimevano il Mistero della Trinità. Nell'anno 312 d.C. l'imperatore Costantino il Grande, adoratore del dio Sole, la notte prima della battaglia decisiva contro il suo principale rivale per il trono dell'Impero, Massenzio, ebbe un'apparizione in sogno. Gesù Cristo gli suggeriva di apporre quelle due lettere, X e P, sulla parte superiore degli stendardi dei suoi reggimenti. Il giorno dopo, prima dello scontro, dice la leggenda, Costantino vide apparire il monogramma con l'aggiunta di una barra trasversale che formava l'immagine di una Croce, sopra l'accecante sfera del sole e, sotto di essa, le parole greche En toutoi nika, più conosciute nella traduzione latina In hoc signo vinces: «In questo segno vincerai». Poiché, innegabilmente, Costantino sconfisse Massenzio nella battaglia del Ponte Milvio, il suo stendardo con il Crismon, in seguito battezzato Labarum, divenne la bandiera dell'Impero. Tale simbolo, dunque, acquisì un'importanza straordinaria in ciò che restava dell'Impero Romano. Quando la parte occidentale del territorio, vale a dire l'Europa, cadde nelle mani dei barbari, il Crismon continuò a essere usato nella parte orientale, Bisanzio, almeno fino al VI secolo, momento in cui, come ho già detto, scomparve completamente dall'arte cristiana.
Ebbene, il monogramma che il nostro etiope esibiva sul petto era precisamente quello che l'imperatore aveva visto nel cielo prima della battaglia, quello con la barra trasversale, e non una delle sue variazioni. Era un dato curioso. Anzi, più che curioso, strano, dal momento che non se ne faceva più uso da quattordici secoli, come attestava il Padre della Chiesa San Giovanni Crisostomo, secondo il quale alla fine del V secolo tale simbolo era stato sostituito dall'autentica Croce, esposta ora pubblicamente con orgoglio e prodigalità. È vero che nei periodi romanico e gotico il Crismon era riapparso come motivo ornamentale, ma con altre forme, diverse da quella semplice e concreta del Monogramma di Costantino. Bene, un altro mistero era, apparentemente, risolto. Nondimeno, come la parola Stauros ripetuta in varie parti del corpo, anche la presenza del Crismon ci risultava inspiegabile. Ogni giorno che passava, il desiderio di sciogliere quella trama, di comprendere ciò che quell'insolito cadavere stava cercando di dirci, si faceva sempre più impellente. D'altro canto, il mio incarico si doveva limitare all'interpretazione dei segni, indipendentemente dal loro significato complessivo, per cui non mi restava altro che proseguire, senza uscire dal seminato, nel tentativo di chiarire una volta per tutte il senso delle sette croci. Perché proprio sette, e non otto, o cinque, o quindici, per esempio? Perché tutte diverse? Perché tutte inquadrate in figure geometriche, come finestrelle medioevali? Perché tutte sormontate da una coroncina? Non lo avremmo mai capito, mi dicevo, compunta: era troppo complicato e troppo assurdo al tempo stesso. Alzavo gli occhi dalle fotografie e dagli schizzi e li posavo sulla sagoma di carta, casomai l'ubicazione delle croci potesse darmi un indizio. Ma non vedevo niente. O, per lo meno, niente che mi aiutasse a decifrare il geroglifico. Perciò chinavo nuovamente gli occhi sulla scrivania e mi concentravo faticosamente sullo studio di ciascuna delle piccole finestrelle incoronate. In quei giorni, Glauser-Röist parlava appena. Trascorreva le ore morte digitando sulla tastiera del computer, mentre io sentivo nascere dentro di me un vano rancore nei suoi confronti: lui giocherellava in quel modo stupido, mentre a me si fondeva il cervello. La data di domenica 19 marzo si avvicinava a grandi passi. Dovevo cominciare a prepararmi per il viaggio a Palermo. Non tornavo a casa molto spesso, solo due o tre volte l'anno, ma come ogni buona famiglia siciliana noi Salina restavamo uniti indissolubilmente, nel bene e nel male, persino al di là della morte. Essere la penultima di nove fratelli, da cui il mio no-
me, Ottavia, presentava molti vantaggi per quanto riguardava l'apprendistato e l'uso delle tecniche di sopravvivenza. C'era sempre qualche fratello o sorella maggiore pronto a torturarti o a schiacciarti sotto il peso della sua autorità: le tue cose sono del primo che se ne appropria, il tuo spazio viene invaso da quello che arriva per primo, i tuoi trionfi o i tuoi fallimenti sono sempre gli stessi di chi ti ha preceduto eccetera eccetera. Malgrado ciò, la coesione tra i nove figli di Filippa e Giuseppe Salina era indistruttibile: nonostante la mia assenza da vent'anni, quella di Pierantonio, francescano in Terrasanta, e quella di Lucia, domenicana di stanza in Inghilterra, si contava su di noi per organizzare qualsiasi celebrazione famigliare, comprare qualsiasi regalo ai nostri genitori o prendere qualsiasi decisione collegiale che condizionasse la famiglia. Il giovedì precedente la mia partenza, il capitano Glauser-Röist tornò dal pranzo nella caserma della Guardia Svizzera con uno strano bagliore negli occhi grigi. Io ero ancora ostinatamente immersa nella lettura di un farraginoso trattato sull'arte cristiana dei secoli VII e VIII, nella vana speranza di trovare qualsiasi allusione ai disegni di qualcuna delle sette croci. «Dottoressa Salina», mormorò, chiudendo la porta, «mi è venuta un'idea.» «L'ascolto», risposi, allontanando da me, con entrambe le mani, il noioso compendio. «Ci serve un programma informatico che confronti le immagini delle croci dell'etiope con tutte quelle schedate nell'Archivio e nella Biblioteca.» Inarcai le sopracciglia in un'espressione perplessa. «È possibile farlo?» «Per il servizio di informatica dell'Archivio, sì.» Rimasi a pensare qualche istante. «Non so... Dev'essere molto complicato. Una cosa è scrivere delle parole su un computer e aspettare che la macchina cerchi lo stesso testo sulla base dei dati, e un'altra confrontare due immagini che possono essere archiviate con dimensioni differenti e in formati incompatibili, o fotografate da angolazioni diverse e persino con una qualità così scadente da impedire al programma di riconoscerle come uguali.» Glauser-Röist mi osservò con compatimento. Era come se, salendo entrambi la stessa scala, lui fosse sempre qualche gradino sopra di me e, voltandosi a guardarmi, fosse costretto a chinare la testa. «La ricerca delle immagini non dipende dai fattori che lei ha menzionato.» Nella sua voce c'era una sfumatura di commiserazione. «Non ha visto nei film come i computer della polizia confrontano l'identikit di un assassino con le foto-
grafie digitali dei delinquenti schedati negli archivi? Si utilizzano parametri quali la distanza tra gli occhi, la larghezza della bocca, le coordinate della fronte, del naso e della mandibola, e così via. I programmi di identificazione degli indiziati si basano su calcoli numerici.» «Ho seri dubbi», dichiarai io, seccata, «che il nostro servizio di informatica disponga di un programma di identificazione degli indiziati. Non siamo la polizia, capitano. Siamo il cuore del mondo cattolico e, alla Biblioteca e all'Archivio, lavoriamo solo con la storia e con l'arte.» Glauser-Röist fece dietro-front e impugnò di nuovo la maniglia della porta. «Dove va?» domandai, rabbiosa, vedendo che non mi stava neppure ad ascoltare. «A parlare con il Prefetto Ramondino. Darà lui le disposizioni necessarie al servizio di informatica.» Il venerdì, dopo pranzo, Suor Chiara mi passò a prendere con la sua automobile. Lasciammo Roma, imboccando l'autostrada dirette a sud. Suor Chiara andava a passare il fine settimana a Napoli, dalla sua famiglia, ed era ben contenta di poter fare il viaggio accompagnata. La distanza tra le due città non era enorme, ma il viaggio era più leggero se si aveva qualcuno con cui fare conversazione. Suor Chiara e io non eravamo le uniche a partire da Roma quel venerdì. Il Santo Padre, soddisfacendo uno dei suoi più ardenti desideri, aveva trovato la forza di compiere un pellegrinaggio ai luoghi sacri in Giordania e Israele: il Monte Nebo, Betlemme, Nazareth... Era ammirevole come un corpo in quelle condizioni deplorevoli e una mente così affaticata e ormai ridotta a occasionali momenti di lucidità si rianimassero in vista di un viaggio così faticoso. Giovanni Paolo II era un autentico pellegrino del mondo. Il contatto con le folle gli restituiva vigore. Così, dunque, la Città che lasciavo alle mie spalle ferveva dei preparativi dell'ultim'ora. A Napoli presi il traghetto notturno della Tirrenia, dal quale sarei sbarcata a Palermo nelle prime ore di sabato. Quella notte il tempo era eccellente e, ben coperta, presi posto su una poltroncina sul ponte, al secondo piano, per godere di una placida traversata. Ripensare al passato non era uno dei miei hobby preferiti; tuttavia, ogni volta che attraversavo quel tratto di mare diretta verso casa, restavo ipnotizzata dalla memoria degli anni che vi avevo trascorso. In realtà, quando ero piccola, da grande sarei voluta diventare una spia. A otto anni mi rammaricavo che non ci fossero più guer-
re mondiali a cui partecipare come Mata Hari. A dieci anni mi fabbricavo piccole torce elettriche con le pile dei giocattoli e le minuscole lampadine rubate ai giochi di elettronica dei miei fratelli maggiori, con cui passavo le notti a leggere romanzi di avventura nascosta sotto le coperte. Più tardi, nell'internato delle suore del Beato Cuore di Maria in cui mi avevano mandata a tredici anni, dopo una fuga in barca con il mio amico Vito, continuai a praticare quella specie di catarsi che era la lettura compulsiva. Con l'immaginazione, trasformavo il mondo a mio piacimento, rendendolo più simile a quello in cui avrei voluto vivere. La realtà non era né gradevole né felice, per una ragazzina che guardava la vita attraverso una lente di ingrandimento. Fu durante l'internato che lessi per la prima volta le Confessioni di Sant'Agostino e il Cantico dei cantici, scoprendo una profonda somiglianza tra i sentimenti che riempivano quelle pagine e la mia turbolenta e impressionabile vita interiore. Suppongo che quelle letture abbiano contribuito a risvegliare in me l'inquietudine della vocazione religiosa. Ma dovettero passare anni e capitare molte cose, prima che si concretizzasse. Ricordai con un sorriso quel pomeriggio indimenticabile in cui mia madre mi sorprese a leggere le avventure della spia americana Ottavia Prescott, nascoste in un libro di scuola... Se mi avesse trovata con in mano una pistola o una rivista di uomini nudi, non si sarebbe potuta scandalizzare di più. Per lei, come per mio padre e il resto dei Salina, la lettura era un passatempo insensato, più adatto a bohémien e disoccupati che a una ragazza di buona famiglia. Sotto la luna, bianca e luminosa nel cielo scuro, l'odore del mare portato dall'aria fredda della notte si era fatto così acre e intenso che mi dovetti coprire il naso e la bocca con il bavero del soprabito, intabarrandomi fino al collo nella leggera coperta da viaggio. La Ottavia di Roma, la paleografa del Vaticano, restava indietro, come la costa italiana, mentre da qualche luogo remoto spuntava la Ottavia Salina che non aveva mai lasciato la Sicilia. Chi conosceva il capitano Glauser-Röist? Che cosa c'entravo io con un etiope morto? Nel pieno della metamorfosi, mi addormentai profondamente. Quando riaprii gli occhi, il cielo si illuminava gradualmente della luce rossa del sole nascente e il traghetto entrava a velocità sostenuta nel porto di Palermo. Prima che attraccasse, mentre piegavo la coperta e prendevo la borsa da viaggio, scorsi sul molo le tozze braccia di Giacoma, la mia sorella maggiore, e di mio cognato Domenico, che si agitavano in un saluto af-
fettuoso. Non c'era dubbio: ero tornata a casa. Quando scesi, tanto l'equipaggio del traghetto quanto gli altri passeggeri, i carabinieri del terminal e la gente in attesa ai piedi della passerella mi guardarono con enorme curiosità: la presenza di Giacoma, la più famosa dei nuovi Salina, e della sua discretissima scorta, due impressionanti, chilometriche automobili blindate dai finestrini scuri, non potevano passare inosservate. Mia sorella mi strinse tra le braccia fin quasi a spezzarmi la schiena, mentre mio cognato mi dava affettuosi buffetti su una spalla e uno degli uomini di mio padre raccoglieva la mia valigia e la metteva nel bagagliaio. «Ti avevo detto di non venirmi a prendere», protestai. Giacoma mi lasciò andare e mi guardò senza capire, con un sorriso disarmante. Mia sorella, cinquantatré anni appena compiuti, aveva lunghi capelli neri e un trucco più colorato della tavolozza di Van Gogh. Ciononostante, restava bella e sarebbe anche risultata molto attraente... se non fosse stato per i suoi venti e o trenta chili di troppo. «Non fare la stupida!» esclamò, gettandomi tra le braccia di Domenico, che mi strizzò a sua volta. «Volevi arrivare a Palermo da sola e prendere l'autobus fino a casa? Impossibile!» «E poi», aggiunse Domenico, con uno sguardo di rimprovero paterno, «abbiamo qualche problema con gli Sciarra di Catania.» «Che cosa succede con gli Sciarra?» volli sapere, preoccupata. Concetta Sciarra e la sua sorella minore, Doria, erano state mie amiche di infanzia. Le nostre famiglie erano sempre andate d'accordo e da bambine avevamo giocato insieme tante volte, la domenica. Concetta era una persona generosa e comprensiva. Dalla morte di suo padre, due anni prima, aveva preso in mano le industrie Sciarra e, per quanto ne sapevo, le sue relazioni con i miei erano buone. Doria, d'altra parte, era l'altra faccia della medaglia: contorta, invidiosa ed egoista, cercava sempre di far ricadere sugli altri la colpa delle sue malefatte e, nei miei confronti, aveva sempre manifestato fin da piccola una cieca gelosia, non esitando a rubarmi o rompermi giocattoli e libri. «Stanno invadendo i nostri mercati con prodotti più economici», mi spiegò Giacoma, impavida. «Una guerra sporca e incomprensibile.» Ammutolii. Aveva tutta l'aria di una provocazione, forse tesa ad approfittare dell'inevitabile stanchezza di mio padre, che ormai andava per gli ottantacinque. Ma la mia buona Concetta doveva sapere che, per quanto debilitato potesse essere Giuseppe Salina, i suoi figli non avrebbero subito
passivamente. Ci allontanammo dalla darsena a tutta velocità, senza frenare davanti al semaforo rosso all'incrocio con Via Francesco Crispi. Svoltammo a destra, verso La Cala. Non facemmo molto caso alla segnaletica nemmeno in Via Vittorio Emanuele, ma non c'era da preoccuparsi: i nostri tre veicoli, dati i loro proprietari, godevano della precedenza a qualsiasi incrocio e di indulgenza plenaria per gli stop. Lasciammo a sinistra il Palazzo dei Normanni e uscimmo dalla città in direzione di Calatafimi. Poi, a pochi chilometri da Monreale, nel pieno della verdeggiante e già fiorita Conca d'Oro, il primo veicolo svoltò bruscamente a destra, imboccando la strada privata che portava direttamente alla nostra casa, l'antica e monumentale Villa Salina, costruita alla fine del XIX secolo dal mio bisnonno Giuseppe. «Mentre ti prepari e metti a posto le tue cose», mi spiegò mia sorella, aggiustandosi i capelli neri con entrambe le mani, «Domenico e io andiamo all'aeroporto a prendere Lucia, che arriva alle dieci.» «E Pierantonio?» «È arrivato ieri sera dalla Terrasanta!» proruppe Giacoma, gioiosa. Sorrisi, felice come una lucertola al sole. La presenza di Pierantonio, incerta fino all'ultimo, coronava splendidamente la riunione famigliare. Erano due anni che non vedevo mio fratello, l'uomo più buono e dolce del mondo, al quale, a detta di tutta la famiglia, ero accomunata da una notevole somiglianza sia fisica sia di intelligenza e di carattere, che ci aveva resi inseparabili da sempre. Pierantonio era entrato nell'Ordine Francescano a venticinque anni, quando io ne avevo quindici, dopo la laurea in archeologia. L'anno seguente era stato inviato a Rodi, in Grecia, poi a Cipro, in Egitto e, infine, a Gerusalemme, dove nel 1998 aveva ricevuto la nomina a Custode della Terrasanta, incarico costituito nel 1342 da Papa Clemente VI per assicurare la presenza cattolica nei luoghi santi dopo la sconfitta dei Crociati. Pertanto, mio fratello Pierantonio era una personalità importante del mondo cristiano d'Oriente, e ai miei occhi aveva quell'alone speciale tipico dei santi e dei personaggi più in vista. «La mamma sarà contenta!» esclamai, allegra, voltandomi a guardare fuori dal finestrino. Protetta da cancellate di ferro e alte mura di cemento, la vecchia casa di quattro piani era molto cambiata negli ultimi tempi: numerose videocamere di sorveglianza, disposte tutt'intorno al perimetro della villa, vigilavano su ogni minimo movimento, mentre le garitte dei guardiani ai lati del cancello, che ai tempi della mia infanzia erano solo piccole baracche di legno
con all'interno una sedia di giunco, si erano trasformate in vere e proprie postazioni di controllo, equipaggiate di computer in grado di controllare a distanza qualsiasi dispositivo di sicurezza e di allarme. Gli uomini di mio padre chinarono lievemente il capo al passaggio della nostra macchina. Non potei reprimere un'esclamazione di gioia vedendo che tra loro c'era Vito, il mio vecchio amico d'infanzia. «È Vito!» gridai, mentre facevo frenetici cenni di saluto dal lunotto posteriore. Lui mi rispose con un sorriso timido, quasi impercettibile. «È appena uscito dalle Giudiziarie»,2 disse Domenico, aggiustandosi la giacca sulla pancia prominente. «Tuo padre è molto contento che sia tornato.» Finalmente il veicolo si fermò davanti a casa. Mia madre, come sempre vestita tutta di nero, ci aspettava in cima alla scalinata, appoggiata al suo sempiterno bastone d'argento. I settantacinque anni di vita intensa che gravavano sulle spalle di quella nobile dama siciliana, la minore delle figlie della famiglia Zafferano, non avevano minimamente piegato il suo portamento altero. Salii le scale a due gradini per volta e abbracciai la mamma come se non la vedessi dal giorno in cui ero nata. Avevo sentito molto la sua mancanza e provai un sollievo puerile nel ritrovarla così in forma, nel sentire la decisione nei suoi baci e nel vedere che il suo corpo era forte ed energico come sempre. Con un nodo di emozione in gola, ringraziai Dio che non le fosse accaduto nulla durante la mia assenza. Lei, sorridendo, fece un passo indietro per guardarmi bene. «Mia piccola Ottavia!» esclamò, con espressione felice. «Ti trovo benissimo. Lo sai che è arrivato tuo fratello Pierantonio? Muore dalla voglia di vederti! Avrete tante cose da raccontarmi.» Mi appoggiò la mano su una spalla e mi spinse delicatamente in casa. «Come sta il Santo Padre? È in buona salute?» Il resto della giornata fu un continuo andirivieni di membri della famiglia: Giuseppe, il maggiore dei miei fratelli, abitava nella villa con la moglie e i quattro figli, così come Giacoma e Domenico, i cui cinque figli erano arrivati dall'Università di Messina e dai collegi in cui studiavano. Cesare, il terzo, si era sposato con Letizia e aveva quattro bravi ragazzi, che purtroppo vivevano in provincia di Agrigento. Pierluigi, il quinto, arrivò a metà pomeriggio con la moglie Livia e i cinque figli. Salvatore, il settimo, era l'unico a essere separato, ma si presentò anche lui, accompagnato da tre dei suoi quattro figli. E infine Agata, la minore, che aveva già trentotto anni, ci raggiunse con suo marito Antonio e i loro tre rampolli, la più piccola
dei quali era la mia cara Isabella, di cinque anni. Pierantonio, Lucia e io eravamo i tre religiosi della famiglia. Mi aveva sempre procurato un certo imbarazzo constatare quali aspettative avesse mia madre per il futuro di ciascuno dei suoi figli. Era come se Dio donasse alle madri la chiaroveggenza necessaria per predire quello che sarebbe accaduto e, cosa ancor più preoccupante, come se Dio adeguasse i propri piani ai loro desideri. Misteriosamente, Pierantonio, Lucia e io avevamo preso i voti, esattamente come mia madre aveva sempre anelato. La ricordo ancora mentre parlava con mio fratello, quando lui aveva diciassette o diciotto anni: «Non puoi nemmeno immaginare», gli aveva detto, «quanto sarei orgogliosa di te se ti vedessi sacerdote, un buon sacerdote. Potresti diventarlo. Hai il carattere perfetto per reggere con mano ferma, come minimo, una diocesi». O quando, pettinando i bei capelli biondi di Lucia, le sussurrava all'orecchio: «Sei troppo sveglia e indipendente per sottometterti a un marito. Non sei fatta per il matrimonio. Sono sicura che saresti più felice vivendo come le religiose della tua scuola: viaggi, studi, libertà, buone amiche...» Per non parlare di quello che mia madre diceva a me: «Di tutti i miei figli, Ottavia, sei tu la più brillante, la più orgogliosa. Hai un carattere così speciale, così forte, che solo Dio potrebbe fare di te la persona che vorrei». Ripeteva tutto questo con la forza e la convinzione di una chiromante che predice il futuro. Curiosamente, lo stesso era accaduto con gli altri miei fratelli: le loro occupazioni, studi o matrimoni calzavano come un guanto sulle previsioni materne. Trascorsi tutto il giorno con la piccola Isabella in braccio, passando da un lato all'altro della casa, parlando con i membri della mia grande famiglia, salutando zii, cugini e conoscenti che si presentavano per fare anzitempo gli auguri di buon onomastico a mio padre e per portargli regali. La gente che si era raccolta era così tanta che a malapena riuscivo a salutare e a baciare tutti, prima di perderli di vista. Ricordo solo che mio padre, con una profonda stanchezza sul viso, mi guardò orgoglioso per un istante, mi accarezzò la guancia con la pelle rugosa della mano e... fu rapito dalla folla di visitatori. Più che una casa, sembrava una festa di paese. A metà pomeriggio sentivo un dolore terribile alla schiena. Colpa di Isabella, che nemmeno a supplicarla mi avrebbe tolto le braccia dal collo. Ogni volta che cercavo di deporla sul pavimento, mi stringeva le gambe intorno alla vita come una scimmietta. Quando fu l'ora di preparare la cena, noi donne ci dirigemmo verso la cucina per dare una mano alle cameriere. Gli uomini invece si riunirono nel salone, per discutere delle que-
stioni e degli affari di famiglia. Non mi stupii di vedere apparire, poco dopo, la figura slanciata di mio fratello Pierantonio tra pentole e padelle. Il suo modo di muoversi e camminare ricordava in qualche modo le maniere eleganti di Monsignor Tournier, l'Arcivescovo Segretario della Seconda Sezione della Segreteria di Stato. Le differenze tra loro erano infinite, naturalmente: per cominciare, uno dei due era il mio fratello prediletto e l'altro no. Ma in comune avevano la sicurezza nell'affrontare la vita e un certo carisma. Mia madre, ovviamente, gli rivolse uno sguardo carico di ammirazione. «Mamma», disse Pierantonio, dandole un bacio su una guancia. «Se mi permetti, vorrei fare due chiacchiere in giardino con Ottavia, prima di cena.» «Nessuno chiede la mia opinione?» risposi io, dall'altro lato della cucina. «E se non ne avessi voglia?» Mia madre sorrise. «Zitta, zitta. Figurati se non ne hai voglia», scherzò, come se fosse inconcepibile che non volessi fare due passi in giardino con mio fratello. «E noi, come se neanche esistessimo, vero?» protestarono Giacoma, Lucia e Agata. Pierantonio, in vena di salamelecchi, diede un bacio a ciascuna di loro, poi schioccò le dita come se chiamasse un cameriere. «Ottavia, andiamo.» Maria, una delle cuoche, mi tolse di mano la padella. Era tutta una cospirazione. «In tutta la mia vita», cominciai a dire, togliendomi il grembiule e lasciandolo sul bancone della cucina, «non ho mai visto un frate francescano meno umile di Padre Salina.» «Custode, sorella», mi corresse lui. «Custode della Terrasanta.» «Sempre così modesto!» ridacchiò Giacoma, imitata dal coro delle altre donne. Se avessi potuto guardare la mia famiglia dall'esterno, come una semplice spettatrice, tra le molte cose che avrebbero richiamato la mia attenzione la più evidente sarebbe stata l'adorazione che tutte le donne della famiglia provavano nei confronti di Pierantonio. Mai nessuno ha potuto contare su una schiera di adulatrici più mielose, ferventi e sottomesse. Ogni desiderio del dio Pierantonio era un ordine, eseguito con il fanatismo proprio delle baccanti greche. E lui, che lo sapeva, godeva come un bambino nel fare la parte di un Dioniso capriccioso. La colpa era, naturalmente, di mia madre, che ci aveva trasmesso come un virus la cieca idolatria per il figlio preferi-
to. Come potevamo negare qualsiasi cosa al piccolo dio, quando lui ci ricompensava con bacetti e smancerie? Bastava così poco per renderlo felice! Il dio mi prese per la vita e mi condusse verso il patio sul retro, dove si apriva la porta sul giardino. «Raccontami un po'!» mi invitò, cerimonioso, quando fummo sul prato che circondava la casa. «Raccontami tu», ribattei io, guardandolo. I capelli che regredivano sulle tempie e le sopracciglia cespugliose gli davano un'aria selvatica. «Come fa l'importante Custode della Terrasanta ad abbandonare il suo posto proprio quando il Santo Padre sta per arrivare a Gerusalemme?» «Perbacco, senza mezzi termini!» rise lui, appoggiandomi un braccio sulle spalle. «Sono felice che tu sia qui, lo sai», gli spiegai. «Ma mi sorprende che tu sia venuto: domani Sua Santità parte per le tue terre.» Lui alzò lo sguardo al cielo, distratto, come per dire che la questione non aveva importanza. Ma io, che lo conoscevo bene, sapevo che quel suo atteggiamento significava l'esatto contrario. «Be', lo sai... Le cose non sono sempre come appaiono.» «Senti, Pierantonio, forse potrai ingannare i tuoi frati, ma non me.» Sorrise, continuando a guardare il cielo. «Allora», insistetti, prima che cominciasse a parlarmi della bellezza delle stelle, «me lo dici come può l'Illustrissimo Custode della Terrasanta andarsene quando il Sommo Pontefice sta per arrivare?» Il piccolo dio smise di fare il finto tonto. «Non posso raccontare a una suora che lavora al Vaticano quali problemi ci siano tra l'Ordine Francescano e gli alti prelati di Roma.» «Sai che passo la mia vita chiusa in un laboratorio. A chi potrei andare a parlare di questi problemi?» «Al Papa?» «Sì, figuriamoci», proferii, fermandomi nel bel mezzo del giardino. «Al Cardinale Ratzinger?» fece lui, a mo' di cantilena. «Al Cardinal Sodano?» «Andiamo, Pierantonio!» Ma qualcosa doveva avermi letto in faccia, quando aveva nominato il Cardinale Segretario di Stato, perché sgranò gli occhi e inarcò le sopracciglia. «Ottavia, conosci Sodano?» «Me lo hanno presentato qualche settimana fa», ammisi, evasiva. Mi prese il mento con una mano, mi sollevò la testa e appoggiò il suo
naso al mio. «Ottavia, piccola Ottavia! Perché frequenti Angelo Sodano, eh? Intuisco che ci dev'essere qualcosa di molto interessante che non mi vuoi raccontare.» Questo è il guaio di conoscersi! pensai. E il guaio di essere la penultima di una famiglia piena di fratelli maggiori esperti di abusi e manipolazioni. «Neanche tu mi vuoi raccontare quali problemi ci sono tra i francescani e Sua Santità, anche se te l'ho chiesto.» «Facciamo un patto», propose, allegro, prendendomi per un braccio e forzandomi a riprendere il cammino. «Io ti racconto perché sono venuto e tu come mai conosci l'onnipotente Segretario di Stato.» «Non posso.» «Sì che puoi!» proruppe, contento come un bambino con le scarpe nuove. Chi avrebbe potuto dire che quello sfruttatore di sorelline avesse ormai cinquant'anni? «Nel segreto della confessione. Ho i paramenti nella cappella. Andiamo.» «Senti, Pierantonio, è una cosa seria e...» «Fantastico. Più è serio e più mi piace!» Quello che mi faceva più rabbia era sapere che io stessa mi ero tradita. Se solo avessi dissimulato un po' meglio, non mi sarei messa in quella situazione. Ero stata io a mettere la lepre sotto il naso di quell'insistente e instancabile cane da caccia. E, quanta più ansia dimostravo, tanto più stimolavo la sua curiosità. «Basta, Pierantonio! Non sto scherzando. Non ti posso raccontare niente. Tu dovresti capirlo più di chiunque altro.» Il mio tono di voce doveva essere suonato particolarmente severo, perché lo vidi tornare sui suoi passi e cambiare drasticamente atteggiamento. «Hai ragione», concesse, con aria pentita. Ci sono cose che non si possono dire... Ma non avrei mai immaginato che mia sorella fosse coinvolta nelle trame di potere del Vaticano!» «Non lo sono. Solo che sono stati richiesti i miei servigi per una strana indagine. Una cosa molto singolare, non so...» mormorai pensosa, pizzicandomi il labbro inferiore tra pollice e indice. «Quello che è certo è che sono piuttosto sconcertata.» «Qualche strano documento? Qualche codice misterioso? Qualche vergognoso segreto del passato della Chiesa?» «Magari. Di quelli ne ho visti tanti. No, è qualcosa di molto più insolito. E il peggio è che mi tengono nascoste le informazioni che mi servono.» Mio fratello si fermò e mi guardò con fare deciso. «Allora aggira l'ostacolo.»
«Non ti capisco.» Mi fermai anch'io, scacciando un insetto dall'erba con la punta di una scarpa. Faceva fresco, sul far della sera. Presto si sarebbero accese le luci del giardino. «Scavalcali. Non vogliono forse un miracolo? E tu daglielo. Senti, io ho parecchi problemi a Gerusalemme, più di quanti tu possa immaginare.» Si rimise a camminare, lentamente, e io lo seguii. D'un tratto, mio fratello parve più che mai un capo di Stato sopraffatto dalle responsabilità. «La Santa Sede ha affidato a noi francescani della Terrasanta compiti diversi e difficili, dal ristabilimento del culto cattolico nei Luoghi Santi all'accoglienza dei pellegrini, passando per lo stimolo degli studi biblici e gli scavi archeologici. Abbiamo scuole, ospedali, dispensari, pensionati per anziani e, soprattutto, la stessa Custodia, che genera non pochi conflitti coi nostri vicini di altre religioni. Sai qual è il mio problema principale, in questo momento? Il Santo Cenacolo, dove Gesù istituì l'Eucarestia. Attualmente è una moschea ed è amministrata dalle autorità israeliane. Ebbene, il Vaticano continua a farmi pressioni perché stipuli un contratto d'acquisto. Mi danno forse i soldi? No!» esclamò, arrabbiato. La fronte e le guance cominciavano a imporporarsi. «In questo stesso momento ho trecentoventi religiosi, di trentasei Paesi diversi, che lavorano in Palestina, Israele, Giordania, Siria, Libano, Egitto, Cipro e Rodi, e non bisogna sottovalutare che la Terrasanta è una zona piena di conflitti, dove si combatte a suon di fucili, bombe e ripugnanti manovre politiche. Come posso tenere in piedi questa struttura di opere religiose, culturali e sociali? Credi che il mio Ordine, che non ha un soldo, mi possa aiutare? Credi che il tuo ricchissimo Vaticano mi dia qualcosa? Niente, nessuno mi dà niente! A suo tempo, il Santo Padre ha sviato fondi della Chiesa, milioni e milioni passati sottobanco, per mezzo di uomini di paglia, false imprese e trasferimenti bancari in paradisi fiscali, per sostenere il sindacato polacco Solidarność e abbattere il comunismo nel suo Paese. Quanti soldi credi che passi a noi, in cambio di quello che ci chiede, eh? Niente! Zero!» «Non è del tutto vero, Pierantonio», mormorai, punta sul vivo. «La Chiesa realizza una colletta annuale in tutto il mondo, per voi in Terrasanta.» Mi guardò con occhi fiammeggianti d'ira. «Non farmi ridere!» sbottò, con disprezzo. Mi voltò le spalle e si incamminò nuovamente verso la casa. «Va bene, ma almeno finisci di spiegarmi come posso ottenere le informazioni che mi servono», lo pregai, mentre si allontanava da me a lunghi
passi. «Fatti furba, Ottavia», rispose, senza voltarsi. «Nel mondo di oggi ci sono mille modi per ottenere quello che si vuole. Devi solo stabilire le priorità, valutare che cosa è importante e che cosa no. Verifica fino a che punto sei disposta a disobbedire o a fare di testa tua, alle spalle dei superiori. Anche a costo di...» esitò, «passare sopra i dettami della tua coscienza.» La sua voce traboccava di amarezza, come se a lui capitasse di continuo. Mi domandai se io ne sarei stata capace, se avrei avuto il coraggio di contravvenire alle istruzioni ricevute e procurarmi per mio conto le informazioni che desideravo. Ma prima di formulare il pensiero già sapevo la risposta: sì, certo. Sì, ma come? «Sono disposta a farlo», dichiarai, nel mezzo del giardino. Avrei dovuto ricordare quella frase che dice: «Attento a ciò che desideri: potresti averlo». Ma non lo feci. Mio fratello si voltò. «Per avere cosa? Cos'è che vuoi?» «Informazioni.» «Allora comprale. E se non le puoi comprare, procuratele.» «Come?» chiesi, disorientata. «Indaga, investiga, domanda a chi le ha, interrogali con astuzia, cerca negli archivi, nei cassetti, nei cestini, guarda negli uffici, nei computer, nella carta straccia. Rubale, se necessario!» Passai una notte inquieta, senza dormire, rigirandomi nel mio vecchio letto. Di fianco a me, Lucia russava sommessamente e dormiva il sonno dei giusti. Le parole di Pierantonio mi riecheggiavano in testa, ma non vedevo come mettere in atto i suoi terribili suggerimenti. Come potevo interrogare con astuzia un osso duro come Glauser-Röist? Come potevo penetrare nei computer del Vaticano, se non avevo la minima idea di come funzionassero quelle dannate macchine? Cedetti al sonno quando ormai la luce entrava dalle persiane. Sognai Pierantonio, questo me lo ricordo, ma non fu un sogno gradevole. Per cui mi rallegrai infinitamente quando la mattina dopo lo rividi in piena forma, con i capelli ancora bagnati dalla doccia, mentre celebrava messa nella cappella di casa. Mio padre, il festeggiato, era seduto in prima fila, più curvo e insicuro del solito, accanto a mia madre. Li guardai e mi sentii orgogliosa della grande famiglia che avevano formato, dell'amore che avevano dato ai loro nove figli e che ora davano ai numerosi nipoti. Li guardai e pensai che a-
vevano passato la vita l'uno al fianco dell'altra, con i loro dispiaceri e i loro problemi, senza dubbio, ma uniti inseparabilmente. All'uscita dalla messa, i più piccoli si misero a giocare in giardino, irrequieti dopo l'immobilità della cerimonia, mentre noi entravamo in casa per fare colazione. I miei nipoti maggiori si sedettero a un'estremità del lungo tavolo della sala da pranzo, formando un gruppo separato dagli altri adulti. Quando mi si presentò l'occasione, presi per la collottola Stefano, il quarto dei figli di Giacoma e Domenico, e lo trascinai in un angolo. «Studi informatica, Stefano?» «Sì, zia.» Mi guardò preoccupato, neanche lo avessi minacciato con un coltello. Perché gli adolescenti sono così strani? «E nella tua stanza hai un computer collegato a Internet?» «Sì, zia.» Sorrideva con orgoglio, ora che aveva constatato che la zia non intendeva ammazzarlo. «Bene. Allora ho bisogno di un favore...» Stefano e io passammo tutta la mattina rinchiusi nella sua stanza, bevendo Coca-Cola, con il naso incollato al monitor. Era un ragazzo sveglio, che si muoveva con disinvoltura nella rete e tra i motori di ricerca. All'ora di pranzo, dopo avere ricompensato mio nipote per il suo lavoro con una cospicua somma di denaro (non mi aveva forse detto Pierantonio di comprare le informazioni?), sapevo chi era il mio etiope, com'era morto e perché le Chiese cristiane stavano indagando su di lui. E questo bastava a farmi tremare le gambe mentre scendevo le scale. 2 Tornai a Roma lunedì sera, in preda a timore e confusione. Avevo fatto qualcosa che da me non mi sarei mai aspettata: avevo disobbedito. Avevo ottenuto un'informazione importante con metodi poco ortodossi e contro i voleri della Chiesa. Mi sentivo insicura, spaventata, come se da un momento all'altro un fulmine divino dovesse incenerirmi per la mia cattiva azione. Seguire le regole è sempre più facile: ti risparmi il rimorso, il senso di colpa, le insicurezze e, soprattutto, ti puoi sentire orgogliosa di ciò che hai fatto. Io invece non mi sentivo per nulla soddisfatta dei miei meschini espedienti né, di conseguenza, di me stessa. Ero alquanto preoccupata e non sapevo come affrontare Glauser-Röist. Ero convinta che la mia colpa mi si leggesse in faccia. Quella sera pregai chiedendo consolazione e perdono. Avrei dato qua-
lunque cosa pur di scordare ciò che sapevo e poter tornare al momento in cui avevo detto a Pierantonio: «Sono disposta a farlo», semplicemente per rimangiarmi la frase e recuperare la pace interiore. Ma era impossibile. Quando il mattino seguente chiusi la porta del laboratorio e vidi la triste sagoma appesa al legno col nastro adesivo, piena di disegni e scarabocchi a pennarello, ricordai, involontariamente, il nome dell'etiope: Abi-Ruj Iyasus. Povero Abi-Ruj, mi dissi, avviandomi a passi lenti verso la scrivania, su cui giacevano le fotografie del suo cadavere martoriato. La sua era stata una morte orribile, che nessuno di noi vorrebbe. Per quanto, senza dubbio, proporzionale al suo peccato. Mio nipote Stefano, con gli indici sulla tastiera del computer e un paio di ciuffi scuri che gli ricadevano sulla fronte, mi aveva chiesto: «Che cosa vuoi che ti cerchi, zia Ottavia?» E io gli avevo risposto: «Incidenti... Qualsiasi incidente in cui sia morto un giovane etiope». «Quando è successo?» «Non lo so.» «E dov'è successo?» «Non so neanche questo.» «Insomma, non sai niente.» «Esatto», avevo risposto, alzando impotente le spalle. Con questi dati, mio nipote aveva passato in rassegna migliaia di documenti a una velocità vertiginosa. Teneva aperte varie finestre simultaneamente, ciascuna con un diverso motore di ricerca: Virgilio, Yahoo Italia, Google, Lycos, Dogpile... Le parole chiave erano «incidente» ed «etiope», anche se, per approfittare della varietà di pagine e informazioni disponibili in inglese, erano in campo anche accident ed ethiopian. Il computer si era rapidamente riempito di migliaia di documenti, che Stefano scartava con pari velocità, dopo avere constatato che l'incidente non aveva nulla a che vedere con l'etiope (nominato per qualche altra ragione tre paragrafi più in basso) o che l'etiope aveva ottant'anni, o che l'incidente all'etiope risaliva all'epoca di Alessandro Magno. Le pagine che sembravano avere una relazione con quello che cercavo venivano inserite in una cartella, naturalmente virtuale, battezzata «Zia Ottavia». La porta del laboratorio si aprì alle mie spalle e si chiuse delicatamente. «Buon giorno, dottoressa.» «Buon giorno, capitano», risposi, senza voltarmi. Non riuscivo a staccare gli occhi dal povero Abi-Ruj.
Stefano si era scollegato da Internet poco prima dell'ora di pranzo. E da quel momento avevamo cominciato la cernita del materiale archiviato. Dopo una prima scrematura, avevamo conservato solo i documenti non in italiano. Dopo la seconda scrematura, sommamente coscienziosa e meticolosa, avevamo trovato quello che cercavo. Si trattava di cinque pagine di giornale, datate tra mercoledì 16 e domenica 20 febbraio di quello stesso anno: un'edizione inglese del quotidiano greco Kathimerini, un bollettino della Athens News Agency e tre pubblicazioni etiopiche chiamate Press Digest, Ethiopian News Headlines e Addis Tribune. Il sunto della storia era il seguente: martedì 15 febbraio, un aereo a noleggio, un Cessna-182, si era schiantato contro il Monte Quelmo, nel Peloponneso, alle 21,35 di sera. Nell'incidente erano morti il pilota, un ventitreenne greco che aveva appena ottenuto la licenza, e il passeggero, un etiope di nome Abi-Ruj Iyasus, di trentacinque anni. Secondo il piano di volo consegnato alle autorità dell'aeroporto di Alexandroupolis, nella Grecia settentrionale, il velivolo si dirigeva verso l'aerodromo di Kalamata, nel Peloponneso, dove l'atterraggio era previsto alle 21,45. Dieci minuti prima, senza alcun invio di richieste di soccorso, l'apparecchio aveva perso bruscamente 2000 piedi mentre sorvolava il boscoso Monte Quelmo a 2335 metri di quota, ed era scomparso dai radar. I vigili del fuoco della vicina località di Kertazi, messi in allarme dalle autorità aeroportuali, si erano precipitati sul posto, trovando i resti dell'aereo ancora fumanti, sparpagliati nel raggio di un chilometro, e pilota e passeggero morti, appesi agli alberi. Questa informazione proveniva essenzialmente dai quotidiani greci, che avevano riportato l'evento grazie ai corrispondenti di zona. Sul Kathimerini appariva persino una fotografia del luogo del disastro, piuttosto sgranata, in cui si distingueva Abi-Ruj su una barella. Non era facile riconoscerlo, ma non avevo dubbi che si trattasse di lui: il suo volto mi era rimasto impresso nella memoria, a forza di guardare e riguardare le fotografie dell'autopsia. Il corrispondente della Athens News Agency, più esplicito, descriveva le ferite mortali sofferte dalle due vittime, che, nel caso del passeggero, coincidevano con quelle del mio etiope. Apparentemente, le scarificazioni erano passate inosservate ai giornalisti, nascoste sotto i vestiti. «Ho buone notizie, dottoressa Salina.» «Ah, sì? Mi dica...» mormorai, senza il minimo interesse. Una frase dispersa nella notizia riportata dalla Athens News Agency aveva calamitato la mia curiosità. I vigili del fuoco avevano trovato ai piedi del cadavere di Iyasus, come se gli fosse sfuggita di mano insieme all'ulti-
mo alito di vita, una bella scatola d'argento che si era aperta in seguito all'impatto, liberando il suo contenuto: alcuni strani frammenti di legno. I giornali etiopici, al contrario, riferivano pochissimi dettagli dell'incidente, che citavano solo di sfuggita, limitandosi a richiedere l'aiuto dei lettori per localizzare i famigliari di Abi-Ruj Iyasus, appartenente all'etnia oromo, un popolo di pastori e agricoltori dell'Etiopia centrale. L'appello era rivolto soprattutto agli incaricati dei campi profughi (il Paese era colpito da una terribile carestia) e, cosa assai curiosa, alle autorità religiose, dato che, nelle mani del defunto, erano state rinvenute «alcune sante reliquie di grande valore». «Forse dovrebbe voltarsi e guardare che cosa le sto offrendo», insistette il capitano. Controvoglia, tornai al presente e mi voltai. La figura monumentale dello svizzero, che (oh, miracolo!) sfoggiava un enorme sorriso, mi stava porgendo col braccio teso una fotografia di grosse dimensioni. La presi, con la massima indifferenza possibile, e le rivolsi un'occhiata sdegnosa. La mia espressione mutò all'istante e mi lasciai sfuggire un'esclamazione di sorpresa. Nell'immagine si vedeva la sezione di un muro di granito rossiccio, brillantemente illuminato dalla luce del sole, su cui spiccavano in rilievo due piccole croci racchiuse da rettangoli sormontati da coroncine a sette punte. «Le nostre croci!» esclamai, in preda a un improvviso entusiasmo. «Cinque dei più potenti computer del Vaticano hanno lavorato senza sosta per quattro giorni per trovare quello che ha in mano.» «Vale a dire?» Mi sarei messa a fare salti di gioia, se non fosse stato fatale, alla mia età. «Me lo dica, capitano! Che cosa ho in mano?» «La riproduzione fotografica di un segmento della parete del monastero ortodosso di Santa Caterina del Sinai.» Glauser-Röist era soddisfatto quanto me. Sorrideva apertamente e, benché il suo corpo non si muovesse di un millimetro, congelato come sempre, con le mani in tasca che tiravano i lembi della giacca blu marina, la sua faccia esprimeva un'allegria che non mi sarei mai aspettata da un tipo come lui. «Santa Caterina del Sinai?» Ero sorpresa. «Il monastero di Santa Caterina del Sinai?» «Esatto», rispose lui. «Santa Caterina del Sinai. In Egitto.» Non ci potevo credere. Santa Caterina era un luogo mitico per i paleografi. La sua biblioteca possedeva i codici antichi più preziosi del mondo, dopo quelli del Vaticano, ed era ugualmente inaccessibile agli estranei e
avvolta da un alone non meno misterioso. «E che cosa c'entra Santa Caterina del Sinai con l'etiope?» «Non ne ho la più pallida idea. In effetti, è a questo che ci dovremo dedicare oggi.» «Be', allora, diamoci da fare.» Mi sistemai gli occhiali sul naso. Nei fondi della Biblioteca Vaticana erano molti i volumi, le memorie, i compendi e i trattati che riguardavano il monastero. Nondimeno, la gente non sospettava neppure remotamente l'esistenza di un luogo così importante come quel tempio ortodosso scavato ai piedi del Monte Sinai, nel cuore stesso del deserto egiziano, circondato da vette sacre e costruito intorno a un luogo di inarrivabile trascendenza religiosa: quello in cui Yahveh, sotto forma di Roveto Ardente, aveva consegnato a Mosè le Tavole della Legge. La storia del monastero ci rimetteva di fronte alcune vecchie conoscenze: nell'anno 337, dopo che la valle aveva cominciato a essere meta di pellegrinaggi, l'imperatrice Elena, madre dell'imperatore Costantino (lo stesso del Monogramma omonimo), aveva dato ordine di costruirvi un bel santuario. Tra i primi pellegrini vi fu la celebre Egeria, una suora della Galizia spagnola, che tra la Pasqua del 381 e quella del 384 compì un lungo viaggio in Terrasanta, magistralmente riferito nel suo Itinerarium. Raccontava Egeria che, nel luogo in cui più tardi sarebbe sorto il monastero di Santa Caterina del Sinai, un gruppo di anacoreti si prendeva cura di un piccolo tempio la cui abside proteggeva il Santo Roveto, ancora in vita. Il problema degli anacoreti era che, trovandosi il loro tempio sulla strada che collegava Alessandria e Gerusalemme, erano costantemente sotto attacco da parte di feroci predoni del deserto. Per questo motivo, due secoli dopo, l'imperatore Giustiniano e sua moglie, l'imperatrice Teodora, incaricarono l'architetto bizantino Stefano d'Aila di edificare una fortezza a protezione del sacro recinto. Secondo studi recenti, le muraglie erano state rinforzate e in buona parte ricostruite nel corso dei secoli: del tracciato originale restavano unicamente il muro sudoccidentale, quello decorato con le misteriose croci riprodotte sulla pelle del nostro etiope, e il santuario originale fatto costruire da Sant'Elena, la madre di Costantino, poi restaurato e migliorato da Stefano d'Aila nel VI secolo. Tutto ciò si era conservato fino ai giorni nostri, per l'ammirazione e la meraviglia di eruditi e pellegrini. Nel 1844 uno studioso tedesco di nome Tischendorff fu ammesso nella biblioteca del monastero, ove scoprì il famosissimo Codex Sinaiticus, la più antica copia completa che si conosca del Nuovo Testamento. Lo studioso aveva colto l'occasione per rubare il codice, che aveva rivenduto al
British Museum, ove si conserva tuttora. Qualche anno prima, io stessa avevo avuto la fortuna di contemplarlo avidamente. E dico «contemplarlo avidamente» perché in quel periodo avevo tra le mani il suo possibile gemello, il Codex Vaticanus, dello stesso secolo e, probabilmente, della stessa origine. Lo studio simultaneo di entrambi i codici mi avrebbe permesso di portare a termine uno dei lavori di paleografia più importanti della storia. Ma non mi era stato possibile. Verso sera, Glauser-Röist e io avevamo raccolto un'abbondante e interessantissima documentazione su quel curioso monastero ortodosso, ma continuavamo a non sapere quale relazione potesse esistere tra le cicatrici del nostro etiope trentacinquenne e il muro sudoccidentale di Santa Caterina, eretto nel VI secolo. La mia mente, abituata alla sintesi e allenata a estrarre i dati rilevanti da qualsiasi cumulo di informazioni, aveva già elaborato una complessa teoria sulla base degli elementi ripetitivi di quella vicenda. Sennonché, dal momento che si presumeva che io fossi all'oscuro di buona parte di essi, non potevo condividere le mie idee con il capitano, anche se mi avrebbe fatto piacere se fosse giunto anche lui alle stesse conclusioni. Morivo dalla voglia di stupirlo con le mie deduzioni e fare sfoggio della mia intelligenza. Nella prossima confessione, Padre Pintonello avrebbe dovuto impormi una durissima penitenza per farmi espiare l'orgoglio. «Molto bene, abbiamo finito», dichiarò Glauser-Röist, chiudendo rumorosamente il grosso volume di architettura che aveva tra le mani. «Che cosa abbiamo finito?» volli sapere. «Il nostro lavoro, dottoressa. È finito.» «Finito?» farfugliai, con gli occhi sgranati dalla sorpresa. Sapevo che il mio ruolo in quella storia prima o poi doveva concludersi, ma non mi era passato per la testa neppure un istante che ne sarei stata estromessa proprio sul più bello. Il capitano mi osservò a lungo, con quel poco di simpatia e comprensione che gli concedeva la sua natura rocciosa. Si sarebbe detto che, in quei venti giorni, si fossero creati fra noi legami di fiducia e cameratismo di cui non mi ero accorta. «Abbiamo completato il lavoro di cui l'hanno incaricata, dottoressa. Non c'è più niente che lei possa fare.» Glauser-Röist mi aveva lasciato sconcertata, senza parole. Sentivo un nodo alla gola che si stringeva sempre di più, togliendomi il respiro. Dovevo essere impallidita e per un attimo credetti di svenire. «Dottoressa Salina», mormorò imbarazzato lo svizzero, continuando a
fissarmi. «Si sente bene?» Mi sentivo perfettamente. Era solo che il mio cervello stava funzionando a piena potenza, risucchiando tutto il sangue e le energie del mio organismo nella materia grigia, in vista dell'attacco. «Come sarebbe a dire che 'non c'è più niente che io possa fare'?» «Mi spiace, dottoressa», mormorò Glauser-Röist, «ma lei ha ricevuto un incarico che ormai è concluso.» Sollevai le palpebre e lo guardai con decisione. «Perché mi tagliano fuori, capitano?» «Gliel'ha già detto Monsignor Tournier prima di cominciare, dottoressa... Non ricorda? Le sue conoscenze nel campo della paleografia risultavano imprescindibili per interpretare i simboli sul corpo dell'etiope, ma ciò corrispondeva solo a una piccola parte dell'indagine in corso, che va ben al di là di quanto lei possa sospettare. Non posso raccontarle nulla, dottoressa. Per quanto mi dispiaccia, ora dovrà farsi da parte e tornare ai suoi incarichi abituali, cercando di dimenticare quanto è avvenuto negli ultimi venti giorni.» Bene. Dovevo giocarmi il tutto per tutto. Era rischioso, naturalmente, ma quando si ha a che fare con una struttura gerarchica potente e inalterabile quale la Chiesa Cattolica, o ci si salva o si finisce al circo coi leoni. «Si rende conto, capitano», dissi, scandendo le parole in modo che non gli sfuggisse alcun dettaglio, «che Abi-Ruj Iyasus, il nostro etiope, non può essere che un piccolo ingranaggio in un grande meccanismo il cui scopo, per oscure ragioni, è rubare le sacre reliquie della Vera Croce? Se ne rende conto, capitano», (Dio mio, quant'ero disperata, per enfatizzare in quel modo le mie parole! Sembravo un vecchio attore che si rivolge agli dei in una tragedia greca), «che dietro tutto questo non può esserci altro che una setta religiosa che si considera erede di tradizioni risalenti all'Impero Romano d'Oriente, a Bisanzio e all'imperatore Costantino, la cui madre, Santa Elena, oltre ad aver fatto erigere la basilica di Santa Caterina del Sinai, scoprì la Vera Croce nell'anno 326?» Gli occhi grigi di Glauser-Röist, il suo volto incolore incorniciato dai riflessi biondi e metallici dei capelli, e la sua mandibola, facevano pensare più che mai a quelle feroci teste di Ercole in marmo bianco in mostra nei Musei Capitolini di Palazzo Nuovo, a Roma. Non gli diedi respiro. «Si rende conto, capitano, che sul corpo di Abi-Ruj Iyasus abbiamo trovato sette lettere greche, ΣΤΑΥΡΟΣ, che significano 'Croce', e sette croci dai disegni diversi che riproducono quelle del muro sudoccidentale di San-
ta Caterina del Sinai, con tanto di coroncina a sette punte? Si rende conto che Abi-Ruj Iyasus, al momento della morte, era in possesso di importanti reliquie della Vera Croce?» «Basta!» Se il suo sguardo avesse potuto incenerirmi, lo avrebbe fatto in quello stesso istante. I suoi occhi di acciaio e piombo schizzavano scintille che mi piovevano addosso come dardi incandescenti. Si alzò in piedi e mi si avvicinò minaccioso. «Come fa a sapere tutto questo?» Se voleva intimidirmi, ci era riuscito, ma io non arretrai. Sono una Salina. Non era stato molto difficile collegare gli strani frammenti di legno trovati dai vigili del fuoco ai piedi del cadavere di Iyasus con quelle «sante reliquie di grande valore» cui facevano riferimento i giornali etiopi. Quali reliquie di legno potevano mobilitare il Vaticano e le altre Chiese cristiane? Era evidente. E le scarificazioni di Iyasus lo confermavano. Secondo una leggenda generalmente ammessa dagli studiosi ecclesiastici, Santa Elena, madre di Costantino, scoprì la Vera Croce di Cristo nell'anno 326, durante un viaggio a Gerusalemme alla ricerca del Santo Sepolcro. Secondo la ben nota Leggenda Aurea di Jacopo da Varagine,3 quando l'imperatrice, che all'epoca aveva ottant'anni, giunse a Gerusalemme, fece mettere sotto tortura gli ebrei più saggi del Paese perché confessassero tutto ciò che sapevano del luogo in cui Cristo era stato crocifisso. Poco importava che fossero trascorsi tre secoli dalla morte di Gesù e che all'epoca nessuno vi avesse fatto caso. Ovviamente, Santa Elena non ebbe difficoltà a strappare loro le informazioni. Fu condotta al presunto Golgota, il Monte del Calvario (in realtà, a tutt'oggi non ancora identificato con sicurezza da parte degli archeologi), dove un paio di secoli prima l'imperatore Adriano aveva fatto erigere un tempio dedicato a Venere. L'imperatrice diede ordine di abbatterlo e di scavare il terreno. Furono trovate tre croci: quella di Gesù, naturalmente, e quelle dei due ladroni. Per scoprire quale delle tre fosse la Croce del Salvatore, Santa Elena ordinò che le fosse portato un uomo morto. Quando il cadavere fu posto sulla Vera Croce, l'uomo resuscitò. Dopo questo lieto evento, l'imperatrice e suo figlio fecero costruire sul luogo del ritrovamento una sontuosa basilica, la cosiddetta basilica del Santo Sepolcro, in cui custodirono la reliquia. Da questa, nel corso dei secoli, provengono i numerosi frammenti che oggi si trovano in tutto il mondo. «Come fa a sapere tutto questo?» tuonò ancora il capitano, furibondo,
ormai a pochi centimetri da me. «Monsignor Tournier mi crede stupida, e lei pure?» protestai con energia. «Pensava che negandomi le informazioni e mettendomi da parte avrebbe potuto utilizzare solo quel poco di me che gli tornava utile? Andiamo, capitano. Ho vinto due volte il Premio Getty per la ricerca paleografica!» Lo svizzero restò immobile per qualche secondo, guardandomi fisso. Indovinai che per la sua testa, in quel momento, stavano passando rabbia, impotenza, collera, istinti omicidi... e, finalmente, un lampo di prudenza. Poi, all'improvviso, nel più assoluto silenzio, raccolse le fotografie di Abi-Ruj, strappò dalla porta i fogli che componevano la sagoma dell'etiope, e ripose appunti, schizzi, quaderni e immagini nella sua cartelletta di pelle. Infine, spense il computer e, senza neppure un saluto, senza dire una sola parola, senza nemmeno voltarsi a guardarmi, uscì dal mio laboratorio e sbatté la porta con tale violenza da far tremare le pareti. Come spiegare ciò che provai l'indomani mattina, quando, dopo aver passato il mio tesserino nel lettore elettronico, sul display cominciò a lampeggiare una lucina rossa e una sirena da pompieri fece voltare verso di me tutti coloro che si trovavano nell'atrio dell'Archivio Segreto, come se fossi una delinquente? No, non è possibile spiegarlo. Fu la sensazione più umiliante di tutta la mia vita. Due membri del corpo di sicurezza in borghese, con tanto di occhiali scuri e auricolari, si piazzarono alle mie spalle e in tono affabile mi chiesero di seguirli. Non mi diedero nemmeno il tempo di supplicare Dio che mi facesse sprofondare sottoterra. Strinsi le palpebre così forte da farmi male. No, non poteva accadere davvero. Di sicuro era un orribile incubo e da un momento all'altro mi sarei svegliata. Ma la voce cortese di uno dei due uomini mi riportò alla realtà: avevano ordine di condurmi nell'ufficio del Prefetto, il Reverendo Padre Ramondino. Fui sul punto di rispondere che non occorreva, che mi lasciassero andare, che già sapevo che cosa mi avrebbe detto il Reverendo Padre. Ma stetti zitta e li accompagnai docile, più morta che viva, conscia del fatto che i miei anni di lavoro in Vaticano erano giunti al termine. Non ha molto senso ricordare morbosamente quanto accadde nell'ufficio del Prefetto. Mantenemmo la conversazione su un piano molto corretto e civile. Fui informata ufficialmente della rescissione del mio contratto e del fatto che in ogni caso mi sarebbe stato pagato fino all'ultimo centesimo dovutomi ai termini di legge. Quanto al mio impegno al silenzio riguardo al contenuto dell'Archivio Segreto e della Biblioteca, sarebbe valso vita
natural durante. Il Prefetto mi disse inoltre che era molto soddisfatto dei miei servigi e che sperava potessi trovare un'altra occupazione degna delle mie conoscenze e capacità. Infine, abbattendo il palmo della mano sulla scrivania, mi comunicò che sarei stata sottoposta a dure sanzioni, e persino alla scomunica, qualora avessi fatto qualsiasi commento sul mistero dell'etiope. Con una forte stretta di mano mi congedò sulla porta del suo ufficio, dove il dottor William Baker, il Segretario dell'Archivio, mi aspettava paziente, tenendo in braccio uno scatolone di medie dimensioni. «Le sue cose, dottoressa», disse, in tono sprezzante. Fu in quel momento, credo, che compresi di essere divenuta una paria e che non avrei più rimesso piede in Vaticano. Mi avevano condannato all'ostracismo, esiliandomi dalla Città. «Mi consegna il suo tesserino e la sua chiave, per favore?» aggiunse Baker, porgendomi lo scatolone contenente i miei modesti averi, ben sigillato con nastro adesivo. Mi domandai se avessero messo dentro anche la mano rossa di Isabella. Ma non fu tutto e non fu il peggio. Due giorni dopo, la direttrice generale del mio Ordine reclamò la mia presenza nella casa centrale. Naturalmente a ricevermi non fu lei, come sempre oberata dalle responsabilità, ma la vicedirettrice, Suor Giulia Sarolli, la quale mi informò che avrei dovuto lasciare l'appartamento e la comunità di Piazza delle Vaschette per essere urgentemente destinata alla provincia di Connaught, Irlanda, dove mi sarei occupata di archivi e biblioteche di vari antichi monasteri della zona. Lassù, aggiunse Suor Giulia, avrei trovato la pace spirituale di cui tanto avevo bisogno. Mi sarei dovuta presentare a Connaught la settimana successiva, tra lunedì 27 marzo e venerdì 31. Per quale data volevo i biglietti? Volevo forse passare prima a salutare i miei in Sicilia? Ricusai l'offerta con un cenno del capo. Ero così demoralizzata da non riuscire nemmeno a parlare. Non avevo idea di come dirlo a mia madre. Provavo un dolore immenso per lei, così orgogliosa di sua figlia Ottavia. L'avrei fatta soffrire molto e me ne sentivo colpevole. E che cosa avrebbe detto Pierantonio? E Giacoma? L'unico aspetto positivo di quel trasferimento era che mia sorella Lucia sarebbe stata meno lontana, a Londra. Forse lei avrebbe saputo aiutarmi a superare il fallimento. Perché di questo si trattava: un fallimento. E io ero una fallita. Avevo deluso le aspettative della mia famiglia. Non che mia
madre e i miei fratelli mi avrebbero voluto meno bene se anziché in Vaticano avessi lavorato in una contrada sperduta dell'Irlanda, tuttavia non mi avrebbero più vista con gli stessi occhi. Povera mamma, che tanto si vantava di Pierantonio e di me! Ora avrebbe dovuto dimenticarsi di Ottavia e parlare solo di lui. Quella sera, essendo un venerdì di Quaresima, Ferma, Margherita, Valeria e io andammo alla basilica di San Giovanni in Laterano per la Via Crucis e la celebrazione di penitenza. Tra quelle mura cariche di storia mi sentii piccola piccola e dissi a Dio che accettavo quel castigo per il mio grandissimo peccato di superbia. Me lo ero meritato: mi ero sentita investita di un potere superiore e avevo ottenuto con un sotterfugio qualcosa che mi era stato negato. Ora, sconfitta e piegata, chiedevo umilmente perdono e mi pentivo delle mie colpe, pur sapendo che era un pentimento tardivo e che non avrei potuto sfuggire al mio castigo. Cedetti al timore di Dio e accettai quella Via Crucis come una prova ulteriore della Sua misericordia, che mi permetteva di condividere con Gesù Cristo il dolore e la sofferenza del Calvario. Come se non bastasse, quella notte l'Etna fece eco al dolore che mi rodeva. Il vulcano che noi siciliani consideriamo nostro, che conosciamo bene e guardiamo sempre con ansia e timore, si esibì in una eruzione spettacolare. Un mare di lava discese alle sue pendici fino all'alba, mentre la sua bocca, a 3200 metri di altezza, sputava fuoco e cenere. Palermo, per fortuna, era sufficientemente distante dal vulcano ma non abbastanza da non soffrirne le conseguenze: eventi sismici, interruzioni della corrente, dell'acqua, delle strade... Telefonai a casa preoccupatissima e trovai tutti svegli, intenti a seguire i bollettini di radio e televisione locali. Mi tranquillizzarono: nessuno correva alcun pericolo e la situazione era sotto controllo. Avrei dovuto cogliere l'occasione per dire che lasciavo Roma e il Vaticano per trasferirmi in Irlanda, ma non ne ebbi il coraggio. Fino a che punto temevo la loro delusione e i loro commenti! Una volta giunta a Connaught, mi sarei fatta venire qualche idea per convincerli che si trattava di un cambiamento positivo e che ero soddisfatta della mia nuova destinazione. Il giovedì della settimana successiva, alle tredici, salii sull'aereo che doveva portarmi a destinazione. Solo Margherita poté venire a salutarmi. Mi baciò tristemente sulle guance e mi pregò con affetto di non resistere alla volontà di Dio, di cercare di adeguarmi con allegria a quella nuova situazione e di lottare contro il mio forte temperamento. Fu il volo più triste e
angoscioso della mia vita. Mi rifiutai di vedere il film e di assaggiare il cibo di plastica che mi misero davanti. L'unica ossessione era comporre laboriosamente le frasi con cui avrei dato la notizia a mia sorella Lucia e al resto della mia famiglia, quando fossi stata capace di parlare con loro. Quasi due ore e mezzo più tardi, le diciassette in Irlanda, atterrammo all'aeroporto di Dublino. I passeggeri, stanchi e nervosi, sciamarono nel terminal internazionale per recuperare i bagagli dai nastri trasportatori. Sollevai con forza la mia enorme valigia, tirai un sospiro profondo e mi incamminai verso l'uscita, cercando con lo sguardo le sorelle che dovevano essere venute a prendermi. Ero destinata a trascorrere in quel Paese, quasi certamente, i prossimi venti o trent'anni della mia vita. E chissà, mi dicevo senza convinzione, se con un po' di fortuna sarei riuscita ad adattarmi e a essere felice. Sapevo di mentire, di ingannare me stessa. Quel Paese era la mia tomba, la fine delle mie ambizioni professionali, la porta di uscita dai miei progetti e dalle mie ricerche. A che scopo avevo studiato tanto? A che scopo mi ero sforzata per anni e anni per conseguire un titolo dopo l'altro, se ora tutto questo non mi sarebbe servito a nulla, in quel miserabile villaggio della provincia di Connaught, dove mi avrebbero sepolta? Mi guardai intorno con apprensione, chiedendomi quanto a lungo sarei riuscita a sopportare quella situazione disonorevole. E ricordai, con un peso nel cuore, che non dovevo fare aspettare le sorelle irlandesi che mi erano venute a prendere. Ma, con sorpresa, non trovai ad attendermi nessuna religiosa del mio Ordine. Al loro posto c'erano invece un paio di giovani sacerdoti vestiti alla vecchia maniera, con collare, tonaca e soprabito nero, che si affrettarono a farsi carico del mio bagaglio e mi chiesero, ovviamente in inglese, se fossi io Suor Ottavia Salina. Quando risposi affermativamente, si scambiarono uno sguardo di sollievo. Uno dei due mise la mia valigia su un carrello e vi si avvinghiò come se ne andasse della sua stessa vita. L'altro mi spiegò che dovevo imbarcarmi su un volo in partenza per Roma di lì a un'ora. Non capivo nulla di quanto stesse accadendo, e i due ne sapevano ancora meno. Nei pochi minuti che passai assieme a loro, il tempo di presentare la carta di imbarco che mi avevano consegnato, mi spiegarono che erano segretari del Vescovado e che erano stati inviati all'aeroporto per prendermi da un volo e mettermi sull'altro. L'ordine veniva direttamente dal Vescovo, che si trovava in viaggio per la diocesi e aveva chiamato dal suo cellulare. E questo fu tutto ciò che vidi della Repubblica d'Irlanda: il terminal dei
voli internazionali. Alle otto di sera atterravo di nuovo a Fiumicino, dopo avere passato tutto il giorno a volare avanti e indietro. Stavolta la sorpresa furono due hostess che mi scortarono nella zona VIP, dove, in una sala privata, seduto su una comoda poltroncina, trovai ad aspettarmi il Cardinale Vicario di Roma, Sua Eminenza Carlo Colli, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, il quale, alzandosi, mi tese la mano con espressione turbata. «Eminenza...» dissi, a mo' di saluto, mentre facevo la genuflessione e gli baciavo l'anello. «Suor Ottavia», balbettò lui, imbarazzato. «Suor Ottavia, non sa quanto ci dispiace per quello che è successo!» «Eminenza, come supporrà, non so di che cosa stia parlando.» Si riferiva, immaginavo, ai maltrattamenti di cui ero stata oggetto tanto da parte del Vaticano quanto del mio Ordine negli ultimi otto giorni, ma non ero disposta a cedere facilmente, sicché gli diedi a intendere che per richiamarmi a Roma fosse occorsa qualche disgrazia. «È successo qualcosa a qualcuno della mia famiglia?» «No, no! Oh, no, no! Dio benedetto! La sua famiglia sta benissimo.» «Allora cosa, Eminenza?» Il Cardinale Vicario di Roma sudava a profusione, a dispetto dell'aria condizionata della sala. «Mi accompagni in Città, per favore. Monsignor Tournier le spiegherà tutto.» Uscimmo da una porticina che dava direttamente sulla strada. Davanti a noi era in attesa una di quelle limousine nere targate SCV (Stato della Città del Vaticano) a disposizione dei cardinali, alla cui sigla l'ironia dei romani aveva dato il significato di: «Se Cristo Vedesse...» Qualcosa di grave doveva pur essere successo, mi dicevo mentre prendevo posto accanto al Cardinale. Non solo mi avevano fatto passare la giornata attraversando i cieli d'Europa in un senso e nell'altro, ma avevano inviato all'aeroporto nientemeno che il Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, come se per andare a prendere la cameriera si presentasse il signor conte in persona. Tutto ciò era molto strano. La limousine attraversò orgogliosa le strade di Roma, brulicanti di turisti anche a quella fredda ora della sera, ed entrò in Vaticano dalla Piazza del Sant'Uffizio, dalla cosiddetta Porta Petriano, a sinistra di Piazza San Pietro: un ingresso più discreto e sconosciuto rispetto a Porta Sant'Anna. Una volta che le guardie svizzere, con le loro divise policrome, ci ebbero aperto il passo, risalimmo i viali tenendo il Palazzo del Sant'Uffizio e la Camera
delle Udienze alla nostra sinistra. Quindi, fatto un giro, lasciammo sulla destra l'enorme Sagrestia di San Pietro, che per le sue dimensioni avrebbe potuto essere un'altra basilica, e sbucammo in Piazza di Santa Marta, costeggiandone i giardini e le fontane fino a fermarci davanti alla porta principale della fiammante Domus Sanctae Martae. Lo splendido palazzo, così chiamato in onore di Santa Marta, la sorella di Lazzaro che alloggiò Gesù nella propria umile casa a Betania, era stato costruito di recente con una spesa di 35 miliardi di lire, nel duplice intento, da un lato, di offrire un comodo alloggio ai cardinali durante il prossimo Conclave, dall'altro di fungere da albergo di lusso per i visitatori illustri, i prelati, o chiunque fosse disposto a pagare le sue elevate tariffe. Alla faccia dell'umile casa di Santa Marta. Nell'atrio, illuminato e decorato sontuosamente, Sua Eminenza e io fummo accolti da un anziano portiere che ci scortò alla reception. Appena il gestore riconobbe il Cardinale, abbandonò il suo lucido banco di marmo e ci accompagnò sollecito attraverso l'ampio vestibolo, verso le impressionanti scalinate curvilinee che scendevano a un bar composto da varie sale. Attraverso alcune porte aperte scorsi una biblioteca e, in un angolo, gli uffici amministrativi della Domus. Dalla parte opposta, in penombra, si intravedeva una sala congressi di proporzioni gigantesche. Il gestore, sempre un passo davanti a noi, ma con il corpo ruotato all'indietro per rispetto al Cardinale, ci condusse fino a una zona transennata del bar, oltre la quale si trovavano le sale riservate. Dopo avere rispettosamente bussato alla prima porta, il gestore la aprì con discrezione, facendoci cenno di entrare. Subito dopo, fece una riverenza e scomparve. All'interno della sala, intorno a un piccolo tavolo ovale da riunione circondato da poltroncine moderne in pelle nera dall'alto schienale, ci aspettavano tre persone. Monsignor Tournier sedeva a un'estremità con il volto cupo. Alla sua destra il capitano Glauser-Röist, roccioso come sempre, aveva un che di diverso, insolito, che mi indusse a esaminarlo con maggiore attenzione: notai con sorpresa che, quasi avesse passato una settimana su un spiaggia dell'Adriatico, esibiva una bella abbronzatura (con qualche zona tendente al rosso-gambero), che permetteva finalmente di distinguere il chiarore dei capelli da quello della pelle. C'era infine un individuo sconosciuto, alla destra di Glauser-Röist, che teneva la testa bassa e le mani strettamente intrecciate, come in preda al nervosismo. Il Monsignore e il capitano si alzarono in piedi per riceverci. Osservai le fotografie allineate sulle pareti color crema: tutti i pontefici di questo seco-
lo, con abito, zucchetto bianco e sorrisi paterni. Feci una genuflessione dinanzi a Tournier, poi mi voltai verso il soldatino di piombo: «Ci si rivede, capitano. È a lei che devo questo interessante volo di andata e ritorno a Dublino?» Glauser-Röist sorrise, e per la prima volta da quando lo avevo conosciuto osò toccarmi, prendendomi per il gomito e accompagnandomi alla poltroncina su cui lo sconosciuto era rimasto immobile. «Dottoressa, mi permetta di presentarle il professor Farag Boswell. Professore...» Questi si alzò in piedi così di scatto che una tasca della sua giacca si agganciò a un bracciolo, frenando bruscamente lo slancio. Dopo una breve lotta contro la tasca, riuscì a liberarsi e, sistematisi sul naso gli occhialini rotondi, fu finalmente in grado di guardarmi negli occhi e sorridermi timidamente. «Professor Boswell, le presento la dottoressa Ottavia Salina, religiosa dell'Ordine del Beato Cuore di Maria, di cui le ho parlato.» Il professore mi tese una mano tremante, che strinsi senza troppa convinzione. Era un uomo di bell'aspetto, sui trentasette-trentotto anni, alto quasi quanto la Roccia e vestito in modo informale: polo azzurra, giacca sportiva, larghi pantaloni beige piuttosto spiegazzati e un paio di stivali sporchi e consunti. Batteva nervosamente le palpebre, come se avesse paura di sostenere il mio sguardo. Era un tipo curioso, quel professor Boswell. Aveva la pelle bruna degli arabi e i suoi tratti erano un perfetto compendio della morfologia ebraica. Tuttavia i capelli, che ricadevano morbidi su entrambi i lati della testa, erano di un castano molto chiaro, quasi biondo, e gli occhi erano azzurrissimi, di un bel colore turchese come quelli di quell'attore... Come si chiamava? Non me lo ricordavo, ma era in quel film in cui tutti si ammazzavano per la benzina e viaggiavano su strani veicoli. Be', il fatto è che quel misterioso professor Boswell mi piacque fin dal primo istante. Sarà stata la sua goffaggine (avrebbe inciampato nelle righe del pavimento, anche se non c'erano) o la sua timidezza (restava completamente afono quando doveva parlare), ma sentii nei suoi confronti un'immediata e sorprendente ondata di simpatia. Ci sedemmo. L'Arcivescovo Segretario aveva ceduto il posto a capotavola al Cardinal Colli; davanti a me si trovavano Glauser-Röist, mentre al mio fianco c'era il sempre gradevole Monsignor Tournier. Benché morissi dalla voglia di sapere che cosa stesse succedendo, decisi di ostentare indifferenza. Tutto sommato, se ero lì era perché avevano di nuovo bisogno di me e nell'ultima settimana mi avevano già causato troppi fastidi perché mi
abbassassi a chiedere spiegazioni. A proposito di spiegazioni! Chissà se il mio Ordine sapeva dove fossi andata (o volata) a finire. Ricordai che all'aeroporto di Dublino le sorelle irlandesi non erano venute a prendermi, quindi dovevano essere state già informate, perciò smisi di preoccuparmene. Il primo a prendere la parola fu il capitano. «Come vedrà, dottoressa», cominciò, con la sua voce da baritono germanico, «le cose hanno preso una piega inaspettata.» Detto questo, si chinò sul pavimento, raccolse la sua cartelletta di pelle e ne estrasse un pacchetto rigonfio, grande più o meno come una torta di compleanno, avvolto in un telo bianco. Se mi aspettavo qualche scusa o un gesto di conciliazione, me li potevo anche scordare. Tutti i presenti guardarono il pacchetto come se fosse il gioiello più prezioso del mondo e lo seguirono con lo sguardo mentre le mani del capitano lo facevano scivolare sul tavolo. L'involucro si fermò proprio davanti a me, che non sapevo bene che cosa farne. Credo che, a parte me, tutti gli altri trattenessero il respiro. «Può aprirlo», mi tentò Glauser-Röist. Mille pensieri mi attraversarono la testa in quel momento, tutti a gran velocità e non molto coerenti, ma di una cosa ero sicura: se avessi aperto quel pacchetto, mi sarei trasformata in un volgare strumento usa e getta. Mi avevano fatto tornare a Roma perché avevano bisogno di me, ma io non avevo più intenzione di collaborare. «No, grazie», rifiutai, spingendo nuovamente il pacchetto verso Glauser-Röist. «Non mi interessa minimamente.» La Roccia si appoggiò allo schienale e si aggiustò il colletto della giacca con aria severa. Poi mi lanciò un'occhiata di rimprovero. «Tutto è diverso, dottoressa. Si fidi di me.» «Sarebbe così gentile da dirmi perché? Se non ricordo male, ma ho un'ottima memoria, l'ultima volta che l'ho vista è stato esattamente otto giorni fa, quando lei è uscito dal mio laboratorio sbattendo la porta. Il giorno dopo, suppongo per pura coincidenza, mi hanno licenziata.» «Lasci che sia io a spiegare, Kaspar», disse d'un tratto Monsignor Tournier, alzando addirittura una mano in un cenno diretto a Glauser-Röist. Poi si girò verso di me e, con un tono melodrammatico di falsa contrizione, continuò: «Quello che il capitano non voleva rivelarle è che... il responsabile del suo licenziamento sono io. Sì, non è bello sentirselo dire...» Il mondo, pensai, non è pronto a sentire Monsignor Tournier che am-
mette di essersi sbagliato. «Il capitano Glauser-Röist», proseguì, «aveva ordini strettissimi, da parte mia, devo aggiungere. E quando lei gli ha rivelato di essere al corrente di tutti i dettagli dell'indagine, lui si è sentito in dovere... come dire? Di informarmi, sì, anche se deve sapere che si è opposto energicamente al suo... licenziamento. Oggi sono qui per dirle quanto sono spiacente dell'atteggiamento sbagliato che la Chiesa ha adottato nei suoi confronti. Si è trattato, senza dubbio... di un deplorevole errore.» «Di fatto, Suor Ottavia», intervenne il Cardinal Colli, «il capitano Glauser-Röist ha assunto in pieno l'autorità di questa indagine, per decisione personale del Cardinale Segretario di Stato, Sua Eminenza Reverendissima Angelo Sodano. Monsignor Tournier, per così dire, non tiene più le redini della vicenda.» «E le prime due cose che ho richiesto al momento di assumere tale direzione», puntualizzò lo svizzero, aggrottando la fronte con aria impaziente, «sono state il suo immediato reinserimento nell'indagine e il rinnovo del suo contratto con l'Archivio Segreto e la Biblioteca Vaticana.» «Certo!» confermò il Cardinal Colli. «Pertanto, dottoressa», concluse la Roccia, «se lei è d'accordo su tutto... si decida ad aprire quel dannato pacchetto!» E con una brusca spinta lo fece di nuovo scivolare sul mio lato del tavolo, mentre il professor Boswell si lasciava sfuggire un'esclamazione inorridita. «Mi spiace, ho perso la pazienza», si scusò il capitano. Ero così sconcertata che non sapevo che cosa pensare. Appoggiai le mani sul telo bianco e rimasi in sospeso. Avevo recuperato il mio lavoro all'Archivio Segreto, avevo smesso di essere una proscritta del Vaticano e, oltretutto, ero parte integrante della squadra investigativa di Glauser-Röist, con una missione che mi aveva appassionata fin dal principio. Era più di quello che mi aspettassi quella mattina, quando mi ero alzata dal letto per prepararmi alla partenza! D'improvviso, mentre soppesavo quelle buone notizie, un lieve prurito alle palme delle mani mi spinse a fregarle l'una contro l'altra, inconsciamente, per togliermi un fastidioso pulviscolo che aveva aderito alla pelle. Stupita, vidi minuscoli granelli bianchi cadere come neve sul legno scuro del tavolo. Glauser-Röist li indicò. «Non dovrebbe trattare così la sacra sabbia del Sinai.» Lo guardai come se fosse la prima volta. Il mio stupore non aveva limiti. «Del Sinai?» ripetei automaticamente, collegando ogni indizio alla velo-
cità del vento. «Per la precisione, del monastero di Santa Caterina.» «Vuole dire... vuole dire che lei è stato a Santa Caterina del Sinai?» lo rimproverai con l'indice della mano destra. Era incredibile! Mentre io passavo la settimana peggiore della mia vita, lui aveva visitato un luogo in cui per diritto, come paleografa, sarei dovuta andare io. Ma la Roccia parve non accorgersi del mio risentimento. «Effettivamente, dottoressa», rispose, tornando al suo abituale tono neutro. «Alle fine è risultato imprescindibile. E, dal momento che avrà di certo molte domande da farmi, posso assicurarle che risponderò a tutte, anzi...» Si interruppe e si voltò verso il professor Boswell, che cambiò posizione sulla poltroncina. «Risponderemo a tutte, senza nasconderle alcuna informazione.» Mi sentivo a disagio, inevitabilmente, ma non per questo mi sfuggiva il nuovo atteggiamento di Glauser-Röist nei confronti di Monsignor Tournier e del Cardinal Colli. Mentre alla prima riunione, quella cui avevano partecipato anche Sodano e Ramondino, il capitano si manteneva disciplinatamente sulle sue, obbedendo solo agli ordini di Tournier, ora sembrava quasi ignorarlo del tutto, quasi fosse un'ombra sulla parete. «Molto bene, molto bene», replicai, alzando le braccia e lasciandole cadere pesantemente sul tavolo, rassegnata. «Cominci a dirmi di Abi-Ruj Iyasus e finisca spiegandomi cos'è questo involucro pieno di sabbia del Sinai.» Glauser-Röist alzò gli occhi al soffitto e inspirò, prima di cominciare. «Be', vediamo... Il vero inizio di questa storia fu l'incidente del Cessna-182 dello scorso 15 febbraio, in Grecia. Ai piedi del cadavere del cittadino etiopico Abi-Ruj Iyasus i pompieri trovarono una preziosa cassetta d'argento, molto antica, decorata con smalti e gemme, che conteneva strani frammenti di legno, apparentemente privi di valore. Dato che la cassetta in realtà aveva l'aspetto di un reliquiario, le autorità civili si consultarono con la Chiesa Greco-Ortodossa, in cerca di spiegazioni. Gli ortodossi ebbero una grossa sorpresa quando comprovarono che quei frammenti di legno secco erano nientemeno che il famoso Lignum Crucis del Monastero Docheiariou, sul Monte Athos. L'allarme si diffuse rapidamente tra gli altri Patriarcati ortodossi d'Oriente e si constatò che tutti i reliquiari contenenti i frammenti della Vera Croce erano vuoti. Perciò la Chiesa Ortodossa decise di mettersi in contatto con noi, gli eretici cattolici, dal momento che siamo in possesso della maggior parte dei Ligna Crucis del mondo.»
Il capitano si raddrizzò, cercando una posizione più comoda sulla poltroncina, e riprese: «Tutto quello che le sto raccontando si è svolto in un tempo rapidissimo, nell'arco di appena ventiquattr'ore dall'incidente. Sua Eminenza Reverendissima il Segretario di Stato fu informato dal Santo Sinodo della Chiesa di Grecia e diede ordine che, con la massima discrezione possibile, tutte le chiese cattoliche dell'orbe in possesso di Ligna Crucis controllassero lo stato dei loro reliquiari. Il risultato fu un sessantacinque per cento di astucci vuoti. Tra questi, per la precisione, quelli che contenevano i frammenti più importanti: il Lignum di Verona, qui a Roma i Ligna di Santa Croce in Gerusalemme e San Giovanni in Laterano, quelli di Santo Toribio di Liébana e di Caravaca de la Cruz in Spagna, e quelli del monastero cistercense di La Boissière e della Sainte-Chapelle in Francia. Ma, e questo è molto significativo, anche l'America Latina era stata razziata: tra gli altri, mancavano all'appello gli importanti frammenti della Cattedrale Metropolitana del Messico e della Fratellanza di Jesús Nazareno del Consuelo in Guatemala». Non avevo mai provato la minima devozione per le reliquie. Nessuno nella mia famiglia si era mai dedicato all'adorazione di esotici frammenti di osso, legno o tela, neppure mia madre, che in fatto di religione aveva gusti controriformistici, e tantomeno Pierantonio, che viveva in Terrasanta ed era responsabile del ritrovamento, durante alcuni scavi archeologici, di più di un corpo in odore di santità. Ma la storia che mi stava raccontando il capitano risultava stupefacente. Erano molti i cristiani che riponevano la loro fede in quegli oggetti sacri, e in nessun modo si poteva mancare di rispetto alle loro credenze. Oltretutto, per quanto con gli anni la Chiesa avesse abbandonato quelle dubbiose pratiche, c'era tuttora una corrente propensa alla venerazione delle reliquie. Nondimeno, la cosa più sorprendente era che non si trattava del braccio mummificato di Santa Come-si-chiama o del corpo incorrotto di San Chissà-chi. Stavamo parlando della Croce di Cristo, del presunto legno su cui il corpo del Salvatore aveva sofferto i tormenti e la morte. E risultava molto strano che, per quanto tutti i Ligna Crucis del mondo potessero qualificarsi a priori come falsificazioni, quei frammenti di legno fossero diventati l'unico obiettivo di una banda di fanatici. «La seconda parte di questa storia, dottoressa», continuò Glauser-Röist, imperturbabile, «riguarda la scoperta delle scarificazioni sul corpo di Iyasus. Mentre le autorità greche indagavano senza esito su vita, morte e miracoli del suddetto, Sua Santità, attraverso il Segretario di Stato e su richie-
sta delle Chiese d'Oriente, che non dispongono di altrettanti mezzi per condurre un'indagine, ci chiese di scoprire chi stesse rubando i Ligna Crucis e perché. L'ordine del Papa fu, se non ricordo male, di fermare immediatamente le sottrazioni, recuperare le reliquie rubate, scoprire i ladri e, naturalmente, consegnarli alla giustizia. Quando la polizia greca scoprì le strane cicatrici dell'etiope, ne diede notizia a Sua Beatitudine l'Arcivescovo di Atene, Christodoulos Paraskeviades, il quale, nonostante le sue relazioni con Roma non siano ottime, sollecitò l'invio di un agente speciale che fosse presente all'autopsia. Quell'agente ero io. Il seguito lo conosce di prima mano.» Non avevo mangiato niente in tutto il giorno e cominciavo a soffrire di una sgradevole ipoglicemia. Doveva essere tardissimo, ma non volevo guardare l'orologio, per evitare di sentirmi peggio. Mi ero alzata alle sette del mattino, avevo preso un aereo che mi aveva portata fino in Irlanda, ero tornata a Roma di sera e mi sentivo così stanca che mi faceva male anche solo a respirare. C'era ancora molto da raccontare, ricordai, vedendo il pacchetto bianco davanti a me. Ma, nonostante la mia curiosità, se non mangiavo subito qualcosa rischiavo di stramazzare sul tavolo priva di sensi. Perciò approfittai del repentino silenzio del capitano per chiedere se fosse possibile fare una breve pausa e mangiare qualcosa, perché mi stava venendo la nausea. Si produsse un mormorio unanime di approvazione: era chiaro che nessuno dei presenti aveva ancora cenato. Perciò Sua Eminenza il Cardinal Colli fece un cenno al capitano, il quale, dopo avermi tolto di mano il pacchetto e averlo riposto nella sua cartelletta di pelle, uscì dalla sala, rientrandovi quasi subito accompagnato dal capocameriere. Poco dopo, un esercito di camerieri in giacca bianca entrava nella sala, spingendo grandi carrelli traboccanti di cibo. Sua Eminenza benedisse gli alimenti con una semplice orazione di ringraziamento e tutti, compreso il timido professor Boswell, ci lanciammo ansiosi sui piatti. Ero così affamata che, quanto più cibo ingerivo, tanto meno mi sentivo sazia. Non persi la mia compostezza, ma mangiai come fossi digiuna da un mese. Suppongo dipendesse anche dalla stanchezza e dalla carenza di sonno. Alla fine, notando il sorrisetto di compatimento di Monsignor Tournier, decisi di frenarmi, avendo recuperato energie a sufficienza. Durante la cena e fino allo squisito, fumante caffè espresso, Sua Eminenza il Cardinal Colli ci raccontò delle grandi speranze che Sua Santità Giovanni Paolo II riponeva nella soluzione del complesso problema delle
reliquie. Dopo tanti anni di lotta per l'ecumenismo, le relazioni con le Chiese d'Oriente erano peggiori di quanto ci si potesse aspettare. Se fossimo riusciti a restituire loro i Ligna Crucis e porre fine alle razzie, forse il Patriarca di Mosca e di tutte le Russie, Alessio II, e il patriarca Ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I, le due figure più rappresentative nella pleiade dei patriarchi ortodossi, sarebbero stati disposti al dialogo e alla riconciliazione. A quanto pareva, i due patriarchi cristiani erano al momento in conflitto tra loro, per la ripartizione delle Chiese Ortodosse dei Paesi dell'ex Unione Sovietica, ma uniti contro la Chiesa di Roma sul tema delle richieste dei cattolici di rito orientale, gli uniati, che rivendicavano beni e proprietà a suo tempo requisiti dal regime comunista e passati in mani ortodosse. In fin dei conti, si trattava di una volgare questione di proprietà e potere. La struttura gerarchica delle Chiese Cristiano-Ortodosse, che in teoria nemmeno esisteva come tale, era una fitta rete di intrighi storici e trame economiche: il Patriarcato di Mosca e di tutte le Russie, in mano a Sua Santità Alessio, teneva sotto la sua ala le Chiese Ortodosse indipendenti dei Paesi dell'est europeo (Serbia, Bulgaria, Romania...), mentre il Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli, nelle mani di Sua Divinissima Santità Bartolomeo, controllava tutte le altre (Grecia, Siria, Turchia, Palestina, Egitto... inclusa l'importantissima Chiesa Greco-Ortodossa d'America). Tuttavia le frontiere non erano così chiare come poteva sembrare a prima vista ed esistevano monasteri e templi di ciascuna fazione nell'ambito di influenza dell'altra. In ogni caso, il Patriarca Ecumenico di Costantinopoli, pur non avendo alcun potere sugli altri patriarchi del mondo, li «precedeva in onore». Il che valeva anche per Alessio, che tuttavia sembrava ignorare totalmente questa tradizione antica e millenaria, preoccupato com'era di impedire che le autorità russe permettessero l'ingresso della Chiesa Cattolica nel suo feudo, impresa in cui finora aveva avuto un certo successo. Insomma, un caos. E a noi toccava il compito di spianare la strada accidentata verso l'unione di tutti i cristiani risolvendo la questione dei furti. Eravamo in quella sala da ore, ma per tutto il tempo il professor Boswell non aveva aperto bocca, se non per mangiare. Si vedeva tuttavia che seguiva con attenzione quanto si stava dicendo, perché di quando in quando, senza accorgersene, muoveva la testa in impercettibili cenni affermativi o negativi. Era l'uomo più silenzioso che avessi mai conosciuto. Dava la sensazione di trovarsi a disagio, quasi perduto in quello spazio così grande. «Bene, bene, professor Boswell», fece proprio in quel momento Monsi-
gnor Tournier, come se mi avesse letto nel pensiero. «Credo che ora sia il suo turno. Non le ho chiesto se parla italiano. Ha capito qualcosa di quanto abbiamo detto questa sera?» Notai che Glauser-Röist socchiudeva gli occhi, fissi su Monsignor Tournier, e che il professor Boswell batteva le palpebre, intontito, e cercava di schiarirsi la gola, nel disperato tentativo di controllare la propria voce. «La capisco perfettamente, Monsignore», balbettò il professore, con un marcato accento arabo. «Mia madre era italiana.» «Ah, magnifico! Magnifico!» esclamò Tournier, ostentando un ampio sorriso. «Il professor Farag Boswell», tagliò corto Glauser-Röist, per non lasciare adito a dubbi, «oltre all'arabo e al copto domina perfettamente il greco, il turco, il latino, l'ebraico, il francese e l'inglese.» «Non ne ho alcun merito», si affrettò a spiegare, tartagliando, il professore. «Mio nonno paterno era ebreo, mia madre italiana e il resto della mia famiglia, me incluso naturalmente, è cattolica copta.» «Ma il suo cognome è inglese, professore», commentai, sorpresa, ma ricordai subito dopo che l'Egitto era stato a lungo una colonia britannica. «Le farà piacere sapere, dottoressa», aggiunse lo svizzero, con uno dei suoi strani sorrisi, «che il professor Boswell è il bisnipote del dottor Kenneth Boswell, uno degli archeologi che scoprirono la città bizantina di Oxirrinco.» Oxirrinco! Certo, quel dato era molto interessante, ma ancora meglio era vedere Glauser-Röist nel ruolo di amico e paladino dell'egiziano. «Davvero, professore?» chiesi a Boswell. «È così, dottoressa», mi confermò questi, chinando timidamente il capo. «Il mio bisnonno scoprì Oxirrinco.» Oxirrinco, una delle capitali più importanti dell'Egitto bizantino, svanita da secoli nelle sabbie del deserto, aveva ripreso vita nel 1895, grazie agli archeologi inglesi Bernard Grenfell, Arthur Hunt e Kenneth Boswell. Da allora si era rivelata il principale giacimento di papiri bizantini, un'autentica biblioteca di opere perdute di autori classici. «E naturalmente anche lei è archeologo», affermò Monsignor Tournier. «In effetti, lavoro...» si trattenne, aggrottò la fronte e si corresse: «Lavoravo presso il Museo Greco-Romano di Alessandria». «Non vi lavora più?» volli sapere, curiosa. «È il momento di raccontarle una nuova storia, dottoressa», annunciò Glauser-Röist. Tornò a chinarsi sulla cartelletta di pelle appoggiata sul pa-
vimento ed estrasse di nuovo l'involucro bianco contenente la sabbia del Sinai. Ma stavolta non me lo consegnò. Lo appoggiò con cura sul tavolo e, tenendolo fra le mani, lo contemplò con l'intenso bagliore metallico dei suoi occhi grigi. «Il giorno dopo avere lasciato il laboratorio e dopo, come già sa, avere conferito con Monsignor Tournier, ho preso un aereo per Il Cairo. All'aeroporto ho trovato ad aspettarmi il qui presente professor Boswell, inviato dalla Chiesa Cattolica Copta per farmi da interprete e guida.» «Sua Beatitudine Stefano II Ghattas», intervenne Boswell, aggiustandosi nervosamente gli occhiali sul naso, «mi ha chiesto personalmente questo favore e mi ha detto di fare tutto il possibile per aiutare il capitano.» «Devo dire che l'aiuto del professore è stato inestimabile», aggiunse il capitano. «Se non fosse stato per lui, oggi non avremmo questo.» Accennò col mento al pacchetto. «Al momento di accogliermi all'aeroporto, il professore conosceva perfettamente la natura del mio incarico e mi ha messo a disposizione tutte le sue conoscenze, le sue risorse e i suoi contatti.» «Gradirei un altro caffè», si intromise il Cardinal Colli. «Qualcun altro lo vuole?» Monsignor Tournier diede un'occhiata all'orologio e fece un cenno affermativo. Glauser-Röist si alzò nuovamente in piedi e uscì dalla sala per alcuni minuti. Rimasi sola con gli altri più a lungo di quanto mi risultasse sopportabile. Ma poi il capitano rientrò con un vassoio colmo di tazze, con una grande caffettiera al centro. Mentre ci servivamo, riprese a raccontare. Entrare a Santa Caterina del Sinai, spiegò Glauser-Röist, non era stata un'impresa facile. Per le visite turistiche esiste un orario limitato e un percorso ancora più limitato all'interno del recinto monastico. Poiché il capitano e l'archeologo non sapevano esattamente che cosa stessero cercando, né come cercarlo, occorreva loro ampia libertà di tempo e movimento. Pertanto il professore aveva elaborato un piano rischioso, che alla fine aveva funzionato alla perfezione. Benché nel 1782, per ragioni remote e confuse, il monastero ortodosso di Santa Caterina del Sinai si fosse reso indipendente dal Patriarcato di Gerusalemme e si fosse convertito in Chiesa autonoma, la cosiddetta Chiesa Ortodossa del Monte Sinai, il Patriarcato aveva conservato un certo ascendente tanto sul monastero quanto sull'Arcivescovo. Ebbene, conoscendo questa influenza, Sua Beatitudine Stefano II Ghattas aveva chiesto al patriarca di Gerusalemme, Diodoro I, di preparare una lettera di presentazione per il capitano Glauser-Röist e il professor Boswell, cosicché il monastero
aprisse loro le porte. Per quale motivo Santa Caterina avrebbe dovuto accettare la richiesta del Patriarcato di Gerusalemme? Molto semplice. Perché il visitatore europeo figurava come un importante filantropo tedesco interessato a donare vari milioni di marchi al monastero. Di fatto nel 1997, causa disperate necessità economiche, i monaci avevano accettato per la prima e unica volta nella storia di esporre alcuni dei loro tesori più preziosi al Metropolitan Museum di New York. L'obiettivo di quella mostra non era solo incassare la somma pagata dal museo per l'evento, ma anche ricercare investitori disposti a finanziare il restauro dell'antichissima biblioteca e della straordinaria collezione di icone. Per cui, in cerca di una pista per dare nuovo impulso alle indagini, il capitano Glauser-Röist e il professor Boswell si erano presentati negli uffici della Chiesa Ortodossa del Monte Sinai al Cairo e avevano raccontato le loro bugie col massimo sangue freddo. Quella notte stessa, noleggiato un fuoristrada preparato per attraversare il deserto, erano partiti alla volta del monastero. A riceverli era stato l'abate in persona, Sua Beatitudine l'Arcivescovo Damiano, un uomo molto attento e intelligente, che aveva dato loro il benvenuto e aveva offerto la sua ospitalità per tutto il tempo necessario. Nel pomeriggio, il capitano e il professore avevano dato inizio all'ispezione dell'abbazia. «Ho visto le croci, dottoressa», mormorò Glauser-Röist, visibilmente emozionato. «Le ho viste. Identiche a quelle del corpo del nostro etiope. Anche quelle erano sette in tutto, identiche a quelle riprodotte nelle scarificazioni. Erano lì ad aspettarmi sul muro.» E io invece non le ho viste, pensai. Non le ho viste perché mi hanno tagliata fuori. Non ero stata nel deserto egiziano a saltare sulle dune in fuoristrada per colpa di Monsignor Tournier, che aveva deciso che Suor Ottavia doveva essere licenziata perché sapeva troppo. E perché fin dal principio gli aveva dato fastidio che fosse una donna a occuparsi della questione. «Non dovrei», riconobbi a voce alta, dopo aver bevuto un lungo sorso di caffè, «ma la invidio molto, capitano. Mi sarebbe piaciuto vedere quelle croci. Dopotutto, sono tanto mie quanto sue.» «Ha ragione», ammise il capitano. «Anche a me sarebbe piaciuto che lei le vedesse.» «In ogni caso, sorella», aggiunse il professor Boswell, con il suo marcato accento arabo, «per quanto non possa esserle di consolazione...» Batté le palpebre evasivamente e spinse gli occhiali in cima al naso. «Lei non avrebbe potuto fare molto a Santa Caterina. I monaci non ammettono con
facilità le donne nel recinto. Non arrivano all'estremo della comunità del Monte Athos, in Grecia, dove come sa non possono nemmeno entrare le femmine degli animali, ma dubito che le avrebbero consentito di pernottare all'abbazia, o di deambulare liberamente nel monastero, come fortunatamente abbiamo potuto fare noi. I monaci ortodossi sono molto simili ai musulmani, per quanto riguarda le donne.» «Difatti», confermò Glauser-Röist. «Il professore non esagera.» Non ne ero sorpresa. Di norma, tutte le religioni del mondo discriminano le donne, collocandole incomprensibilmente in secondo piano o addirittura legittimandone maltrattamenti e vessazioni. Era un fatto davvero deplorevole, a cui nessuno sembrava voler trovare rimedio. Il monastero ortodosso di Santa Caterina si trova nel cuore di una valle chiamata Wadi-el-Deir, ai piedi del Sinai, ed è uno dei luoghi più belli creati dalla natura con la collaborazione dell'uomo. Un perimetro rettangolare, delimitato dalle mura erette da Giustiniano nel VI secolo, custodisce tesori inimmaginabili e una bellezza sconfinata che lascia ammutoliti coloro che ne varcano la soglia e sono ammessi al suo interno. L'aridità del deserto circostante e il baluardo di brulle montagne di granito rossiccio fuorviano i pellegrini, che all'interno possono trovare un'impressionante basilica bizantina, numerose cappelle, un immenso refettorio, la seconda biblioteca più importante del mondo e la più grande collezione di icone... E tutto questo adornato di lampade d'oro, mosaici, legni intagliati, marmi, intarsi, argenti rivestiti d'oro, pietre preziose... Una festa irripetibile per i sensi e un'ineguagliabile esaltazione della fede. «Nel giro di un paio di giorni», raccontò Glauser-Röist, il professore e io abbiamo esplorato il monastero in lungo e in largo, alla vana ricerca di qualcosa che potesse avere a che fare con l'etiope. La presenza delle sette croci sul muro cominciava a perdere di significato. Mi chiedevo se non si fosse trattato di una ridicola coincidenza e se non stessimo procedendo in una direzione sbagliata. Ma il terzo giorno...» La bocca gli si allargò in uno stupefacente sorriso. Il capitano si voltò verso il professore, in cerca del suo assenso. «Il terzo giorno ci presentarono, finalmente, Padre Sergio, responsabile della biblioteca e del museo delle icone.» «I monaci sono molto cauti», spiegò il professore, quasi in un sussurro. «Lo dico perché si capisca per quale ragione ci hanno fatto aspettare due giorni prima di mostrarci i loro oggetti più preziosi. Non si fidano di nessuno.» In quel momento guardai l'orologio. Erano le tre del mattino. Non ce la
facevo davvero più, nemmeno dopo due tazze di caffè. Ma la Roccia non prestò attenzione allo sfinimento che mi si leggeva in faccia e continuò imperterrito: «Padre Sergio venne a prenderci verso le sette di sera, dopo cena, e ci guidò tra gli stretti vicoli del monastero, facendo luce con una lampada a olio. Era un monaco grasso e taciturno, che in testa, invece del bonetto nero che usavano tutti gli altri, calzava un berretto a punta di lana». «E continuava a tirarsi la barba», aggiunse il professore, come se il dettaglio lo avesse particolarmente divertito. «Quando fummo davanti alla biblioteca, il padre tirò fuori dalle pieghe dell'abito un pesante mazzo di chiavi e si mise ad aprire una serratura dopo l'altra, fino ad arrivare a sette.» «Ancora il sette», mi lasciai sfuggire io, mezza addormentata, ricordando le lettere e le croci di Abi-Ruj. «Le porte cigolavano. L'interno era più scuro della bocca di un lupo, ma la cosa peggiore era l'odore. Da non immaginare quanto fosse nauseabondo.» «Odore di cuoio marcio e stracci vecchi», precisò Boswell. «Avanzavamo nella penombra, tra le file di scaffali pieni di manoscritti bizantini, le cui lettere miniate di oro zecchino luccicavano alla luce della lampada di Padre Sergio. Finalmente, ci siamo fermati di fronte a una vetrina. Il monaco ci ha detto: 'Qui conserviamo alcuni dei codici più antichi. Possono guardare, se lo desiderano'. Ho pensato che ci stesse prendendo in giro: non si vedeva niente!» «Ricordo che è stato allora che sono inciampato in qualcosa e ho urtato lo spigolo di una di quelle vetrine», segnalò il professore. «Sì, è stato in quel momento.» «E allora ho detto a Padre Sergio che, se i monaci volevano il finanziamento dello straniero per il restauro della biblioteca...» si schiarì la gola e rimise a posto gli occhiali «... il minimo che potevano fare era mostrargliela nelle condizioni migliori, con la luce del giorno e senza tanto riserbo. A quel punto Padre Sergio mi ha detto che era loro dovere proteggere i manoscritti, perché in passato avevano subito dei furti, e che noi dovevamo apprezzare il fatto che ci venisse mostrato quanto di più prezioso vi era nel monastero. Ma, poiché continuavo a protestare, alla fine Padre Sergio è andato verso un angolo della parete e ha fatto scattare un interruttore.» «La verità è che la biblioteca dispone di un'abbagliante illuminazione elettrica», finì di spiegare il capitano, «ma i monaci di Santa Caterina pro-
teggono i loro manoscritti mostrandoli solo a chi si presenta previa autorizzazione dell'Arcivescovo, com'era il nostro caso, e oltretutto solo in penombra, perché nessuno possa farsi un'idea di quanto realmente vi sia custodito. Quando arriva qualche studioso con tanto di permesso, viene portato di notte e rimane nella semioscurità mentre consulta il manoscritto che gli interessa. In questo modo, nessuno arriva a sospettare che cosa gli stia intorno. Immagino che il furto del Codex Sinaiticus da parte di Tischendorff nel 1844 abbia lasciato un segno doloroso e incancellabile nei monaci di Santa Caterina.» «Lo stesso segno che lascerà il nostro furto, capitano», mormorò Boswell, con un sogghigno dolente. «Avete rubato un manoscritto dal monastero?» domandai, allarmata, risvegliandomi di colpo dal dolce sopore in cui mi stavo cullando. Un profondo silenzio fu la risposta alla mia domanda. Li guardai a uno a uno, confusa, ma le quattro facce che mi circondavano si erano convertite in inespressive maschere di cera. «Capitano», insistetti, «mi risponda, per favore. È arrivato a rubare un manoscritto da Santa Caterina del Sinai?» «Giudichi lei», rispose freddamente, spingendo nuovamente verso di me la torta di compleanno avvolta nel telo bianco, «e poi mi dica se lei al mio posto non avrebbe fatto altrettanto.» Perplessa, incapace di reagire, guardai l'involucro come se fosse un topo o uno scarafaggio. Non era mia intenzione toccare quella cosa. «Lo apra», mi ordinò Monsignor Tournier. Mi rivolsi al Cardinal Colli, in cerca della sua protezione, ma questi aveva lo sguardo perso sotto il tavolo. Il professor Boswell si era tolto gli occhiali e li stava pulendo con il lembo della giacca. «Suor Ottavia», insistette impaziente Monsignor Tournier, «le ho appena detto di aprire quel pacchetto. Non mi ha sentito?» Non mi restava altro che fare quello che mi diceva. Non era il momento di lasciarsi andare a scrupoli o problemi di coscienza. Il telo bianco risultò essere una borsa e, appena ebbi sciolto i lacci che la chiudevano, vidi spuntare l'angolo di un codice antico. Non potevo credere ai miei occhi... Man mano che sfilavo dalla borsa il pesante volume, il mio turbamento crebbe, finché mi trovai di fronte a un grosso, solido manoscritto bizantino, dalla primitiva fattura quadrata. Sulla copertina di legno, rivestita di cuoio lavorato a sbalzo, si potevano vedere in rilievo le sette croci di Santa Caterina: due colonne di tre sui due lati della copertina e la settima in basso, allinea-
ta con quelle agli estremi inferiori. Nella parte superiore, al centro, il Monogramma di Costantino, e sotto di esso la parola greca di sette lettere che sembrava essere la chiave di tutto: ΣΤΑΥΡΟΣ Stauros, croce. Sentivo la mente vuota come un guscio d'uovo. Le mie mani presero a tremare, tanto che per poco il codice non mi cadde sul pavimento della sala. Cercai di dominarmi, ma non ci riuscii. Forse ero troppo stanca, suppongo. In ogni caso Monsignor Tournier si affrettò a togliermi di mano il volume per salvaguardarne l'integrità. Ricordo che in quel momento sentii qualcosa che mi sorprese. Per la prima volta, il capitano Glauser-Röist era scoppiato a ridere. Risulta evidente che non è nelle nostre mani la capacità di resuscitare i morti, poiché tale potere taumaturgico spetta esclusivamente a Dio. Ma anche se non possiamo far sì che il sangue riprenda a circolare nelle vene e che i pensieri facciano ritorno a un cervello senza vita, ci è concesso invece di recuperare i pigmenti che il tempo ha cancellato dalla pergamena e con essi le idee che qualcuno ha plasmato su di essa. Il miracolo di rianimare un corpo morto non è nelle nostre facoltà, certamente, ma lo è invece il prodigio di restituire l'alito della vita allo spirito in letargo dentro un codice medioevale. Come paleografa, ero in grado di leggere, decifrare e interpretare qualsiasi antico testo di amanuense, ma ciò che mi era impossibile era indovinare che cosa fosse scritto su quella pergamena rigida e traslucida, ingiallita dal tempo, le cui lettere, sfumate dai secoli, risultavano pressoché illeggibili. Il Codice Iyasus, come in onore del nostro etiope battezzammo il manoscritto rubato da Glauser-Röist e Boswell a Santa Caterina, si trovava in condizioni davvero pietose. Il capitano raccontò che, dopo avere esplorato per due giorni la biblioteca del monastero, il professore e lui avevano scovato in un angolo, in prossimità dei mucchi di legna che i monaci usavano per riscaldarsi nei rigidi mesi invernali, alcune ceste di pergamene e papiri disfatti, impiegati per accendere il fuoco. Con l'intento di distrarre Padre Sergio, mentre Glauser-Röist esaminava il contenuto delle ceste, il professor Boswell aveva portato in biblioteca una bottiglia dell'impareggiabile
vino egiziano Omar Khayam, un lussuoso piacere riservato ai non musulmani e ai turisti. Il professore, attento come sempre ai dettagli, ne aveva portato con sé varie bottiglie, per farne omaggio all'Arcivescovo Damiano al momento di congedarsi, in segno di ringraziamento. Padre Sergio, deliziato dalla sorpresa, aveva offerto a sua volta al professore una bottiglia del vino prodotto nel monastero. Un bicchiere tira l'altro e alla fine i due si erano ritrovati ubriachi persi, a cantare vecchie canzoni egiziane (Padre Sergio, prima di diventare monaco, era stato marinaio). Al suo riapparire Glauser-Röist, che, nel frattempo, aveva nascosto il Codice Iyasus sotto la camicia, sulla schiena, era stato accolto da esclamazioni di giubilo. Il codice, riferì il capitano, si trovava proprio in una di quelle ceste, sotto un involto di fogli, insieme ad altri volumi che i monaci avevano accantonato per mancanza di valore o per il pessimo stato di conservazione, com'era il caso del nostro manoscritto. Glauser-Röist aveva asportato con una mano lo strato di polvere e sporcizia dalla copertina e, viste le incisioni, si era lasciato sfuggire una tale esclamazione di sorpresa da temere di avere risvegliato l'intera comunità di Santa Caterina. Fortunatamente né Padre Sergio né il professor Boswell, poco più in là, si erano accorti di nulla. Il capitano e il professore avevano abbandonato il monastero all'alba del giorno seguente. Tuttavia i monaci dovevano avere subodorato qualcosa, ritrovando Padre Sergio coi postumi della sbornia. A pochi chilometri dal Cairo, ormai sul far della sera, il cellulare del professor Boswell aveva cominciato a suonare: a chiamarlo era il segretario di Sua Beatitudine Stefano II Ghattas, il quale li informava che non dovevano entrare nella capitale, né in qualsiasi altra città d'Egitto, ma piuttosto dirigersi quanto più rapidamente possibile, lungo strade secondarie, verso Israele e attraversare la frontiera, per sfuggire alla polizia. L'Arcivescovo del Sinai, l'abate Damianos, aveva infatti denunciato un possibile furto di manoscritti da parte di quei due impostori che avevano fatto ubriacare il bibliotecario. Glauser-Röist e Boswell, dunque, erano nuovamente risaliti fino a Bilbays, avevano attraversato il Canale di Suez passando per Al'Qantara e avevano guidato tutta la notte fino ad Al'Arish, in prossimità della frontiera israeliana, dove un rappresentante della delegazione apostolica di Gerusalemme li stava aspettando con passaporti diplomatici della Santa Sede. Avevano attraversato il posto di frontiera di Rafah e, in meno di due ore, avevano potuto finalmente riposare alla delegazione. Poco dopo, mentre io salivo sul volo diretto in Irlanda, il capitano e il professore decollavano a
bordo di un Boeing 747 della compagnia israeliana El Al dall'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, per giungere tre ore e mezzo più tardi all'aeroporto militare di Roma Ciampino, proprio quando io cominciavo il mio volo di ritorno. Ebbene, se pensavamo che tutto questo fosse stato problematico, in confronto a ciò che ci aspettava non sarebbe stato nulla. Quella notte mi ero resa subito conto che lo stato di deterioramento del codice era molto avanzato. Difficilmente saremmo riusciti a ricavarne più di un paio di paragrafi accettabili sui quali lavorare. Si intravedevano appena macchie e ombre, come un acquerello su cui qualcuno avesse rovesciato bicchieri e bicchieri d'acqua. La pergamena, simile alla pelle liscia di un tamburo, è meno permeabile all'inchiostro rispetto alla carta. Con il tempo, l'inchiostro svanisce gradualmente e può arrivare a cancellarsi del tutto, a seconda dei materiali usati per prepararlo. Se quel manoscritto aveva contenuto un tempo informazioni utili a spiegare perché Abi-Ruj Iyasus e altri come lui stessero rubando i frammenti della Vera Croce, ora era impossibile scoprirlo. O almeno così pensavo io. Ma, dopotutto, ero solo una paleografa dell'Archivio Segreto del Vaticano, non un archeologo del famoso Museo Greco-Romano di Alessandria, per cui le mie nozioni sulle tecniche di recupero di papiri e pergamene lasciavano molto a desiderare, come sottolineò, pur senza polemiche, il professor Farag Boswell. Venerdì mattina, mentre ancora dormivo in una delle stanze della Domus Sanctae Martae, il Reverendo Padre Ramondino discese nell'Ipogeo e comunicò ai responsabili dei servizi di Informatica, Restauro, Paleografia, Codicologia e Riproduzione fotografica che per il momento tanto loro quanto il personale al loro servizio dovevano togliersi dalla testa l'idea di rientrare nei rispettivi conventi, comunità o noviziati. Era stata decretata la legge marziale e da lì nessuno sarebbe uscito fino al compimento dell'impresa. Informati della natura dell'incarico, i responsabili protestarono: a una prima valutazione, sarebbe occorso come minimo un mese di duro lavoro e di assoluta dedizione. Al che il Prefetto Ramondino rispose che avevano a disposizione solo una settimana e che, se entro quel tempo non fossero giunti a un risultato, potevano fare le valigie e dire addio alle loro carriere in Vaticano. In seguito tanta urgenza si sarebbe rivelata superflua, ma in quel momento nulla sembrava sufficiente. Agli ordini del professor Boswell, il dipartimento di Restauro dei documenti cominciò a squadernare il codice, separando gli infolio4 dalle tavo-
lette quadrate della copertina, che risultarono essere in legno di cedro, come consuetudine nei codici bizantini. La tipologia della rilegatura collocava il volume chiaramente intorno al IV o V secolo. Una volta separati, gli in folio di pergamena erano in tutto centottantadue, ossia trecentosessaquattro pagine complessive, fabbricati con eccellente pelle di gazzella neonata, che in origine doveva essere di un candore perfetto. Il laboratorio fotografico fece alcune prove, per stabilire quale delle due tecniche possibili, la fotografia all'infrarosso o quella digitale ad alta definizione con telecamera CCD refrigerata, permettesse il recupero più completo del testo. Alla fine fu adottata una combinazione di entrambe le tecniche: le immagini ottenute con l'uno e l'altro metodo, passate allo stereo-microscopio e allo scanner, potevano facilmente essere sovrapposte sullo schermo di un computer. In questo modo, la fragile pergamena ingiallita cominciò a svelare i suoi magnifici segreti: dallo spazio vuoto o tutt'al più pieno di ombre emerse lentamente uno splendido bozzetto di scrittura onciale5 in lettere greche, senza accenti né separazioni tra una parola e l'altra, distribuite in due ampie colonne di trentotto linee cadauna. I margini erano ampi e proporzionati e si distinguevano chiaramente le lettere all'inizio di ogni paragrafo, sul margine sinistro, più grandi e dipinte di porpora, in contrasto con il resto del testo, scritto con inchiostro nero di china. Completato il lavoro sul primo bifolio, non era ancora possibile una lettura completa del testo: c'era una moltitudine di parole e frasi tronche, a prima vista irrecuperabili, frammenti interi in cui la luce infrarossa, lo stereomicroscopio e la risoluzione digitale non avevano trovato nulla da far risaltare. Giunse quindi il turno del dipartimento di Informatica. Con l'aiuto di sofisticati programmi di disegno grafico, si cominciò a selezionare un gruppo di caratteri a partire dal materiale recuperato e, dato che la scrittura era manuale e pertanto variabile, per ogni lettera furono scelte cinque rappresentazioni diverse. I tratti verticali e orizzontali furono pazientemente misurati, così come l'altezza e la larghezza dei caratteri, gli spazi bianchi di ciascuno, la profondità sotto la linea base dei tratti discendenti e l'elevazione dei tratti ascendenti. Fatto tutto questo, fui chiamata ad assistere allo spettacolo più curioso che mi fosse mai capitato di contemplare nella mia vita: con l'immagine completa del bifolio sullo schermo, il programma provava automaticamente, a una velocità vertiginosa, i caratteri che potevano essere contenuti negli spazi vuoti e che si adattavano ai resti o alle ombre di inchiostro rimasti
sulla pergamena, quando ce n'erano. Quando riusciva a completare la catena, il programma verificava che tale parola figurasse nel dizionario del magnifico programma Ibycus, contenente tutta la letteratura greca conosciuta, biblica, patristica e classica, e inoltre se fosse apparsa precedentemente nel testo, confrontandola e verificandone l'esattezza. Come ho detto, il processo era molto rapido, ma ugualmente molto laborioso. Solo dopo un giorno e mezzo di lavoro fu possibile fornirmi un'immagine completa del primo bifolio in condizioni quasi perfette, con un novantacinque per cento di testo recuperato. Il prodigio si era compiuto: lo spirito che viveva in letargo all'interno del Codice Iyasus era tornato in vita ed era giunto il momento che io leggessi il messaggio e ne interpretassi il contenuto. Ero a dir poco commossa quando, di ritorno all'Ipogeo, dopo avere ascoltato la messa della quarta Domenica di Quaresima in San Pietro, mi sedetti finalmente alla scrivania e mi misi gli occhiali sul naso, apprestandomi all'opera. I miei assistenti, che disponevano di copie identiche alla mia, si preparavano a loro volta a cominciare l'analisi paleografica, basata sullo studio degli elementi della scrittura: morfologia, angoli e inclinazioni, ductus,6 legature, nessi, ritmo, stile eccetera. Per fortuna, nel greco bizantino si utilizzavano pochissimo le abbreviazioni e le contrazioni, così comuni invece nel latino e nelle trascrizioni medioevali degli autori classici. Tuttavia, come contropartita, le peculiarità di una lingua così evoluta come il greco bizantino potevano condurre a gravi confusioni, poiché né il modo di scrivere né il significato delle parole erano gli stessi dei tempi di Eschilo, Platone e Aristotele. La lettura del primo bifolio del Codice Iyasus mi lasciò assolutamente stupefatta. L'amanuense, che doveva chiamarsi Mirogene da Neapoli ma che al momento di redigere il testo si attribuiva ripetutamente il nome di Catone, spiegava che, per volontà di Dio Padre e di suo figlio Gesù Cristo, un gruppo di fratelli di buona volontà, diaconi7 della Basilica del Santo Sepolcro di Gerusalemme e devoti adoratori della Vera Croce, si erano costituiti in una sorta di confraternita sotto la denominazione di ΣΤΑΥΡΟΦΥΛΑΚΕΣ (Staurophylakes), ossia Guardiani della Croce. Lui, Mirogene, era stato eletto archimandrita della Confraternita, con il nome di Catone, il primo giorno del primo mese dell'anno 5850. «5850?» si sorprese Glauser-Röist. Il capitano e il professore erano seduti davanti a me, dall'altro lato della scrivania, ad ascoltare la mia traduzione del contenuto del bifolio.
«In realtà», spiegai loro, alzando gli occhiali sopra la fronte, «questa data corrisponde al primo settembre dell'anno 341 dopo Cristo. Il computo temporale, per i bizantini, faceva corrispondere lo zero al primo settembre dell'anno 5509, in base alla data in cui ritenevano che Dio avesse creato il mondo.» «Vale a dire che questo tal Mirogene», concluse il professore, stringendosi con forza le dita delle mani, «diviene leader della Confraternita degli Staurophylakes il primo settembre del 341, cioè, se non ricordo male, quindici anni dopo la scoperta della Vera Croce da parte di Sant'Elena.» «E da quel momento», aggiunsi io, «si ribattezza Catone e comincia a scrivere questa cronaca.» «Dovremmo raccogliere altre informazioni su questa Confraternita», propose il capitano, alzandosi in piedi. Pur essendo il coordinatore dell'indagine, era quello che al momento aveva meno lavoro e sentiva il bisogno di rendersi utile. «Me ne occupo io.» «Buona idea», assentii. «Occorre dimostrare l'esistenza storica degli Staurophylakes, al di fuori del codice.» Qualcuno bussò con delicatezza alla porta del laboratorio. Era Padre Ramondino, con un sorriso che andava da un orecchio all'altro. «Vorrei invitarvi a pranzo al ristorante della Domus, se lo gradite», suggerì, compiaciuto. «Per celebrare gli sviluppi favorevoli dell'indagine.» Ma non tutto era così favorevole come ci illudevamo. Quella sera stessa, mentre tornavo con tutti gli onori nel mio minuscolo appartamento in Piazza delle Vaschette, l'importante Lignum Crucis del Convento di Sainte-Gudule, a Bruxelles, spariva dal suo reliquiario d'argento. Il capitano Glauser-Röist fu assente per tutto il lunedì. Appena giunse in Vaticano la notizia del furto, partì con il primo volo per Bruxelles e non fece ritorno fino a martedì a mezzogiorno. Nel frattempo, il professor Boswell e io continuammo a lavorare all'Ipogeo. I bifolii restaurati mi arrivavano sulla scrivania con sempre maggiore rapidità, man mano che i tecnici perfezionavano e acceleravano il procedimento. A volte disponevo solo di due o tre ore per completare la lettura e la trascrizione del testo prima che arrivasse la seguente infornata di dati. Se non erro fu proprio la sera di quel lunedì al principio di aprile che il professor Boswell e io ci trovammo a cenare completamente soli nella caffetteria dell'Archivio Segreto. Sulle prime pensavo che sarebbe stato piuttosto complicato reggere una conversazione con una persona così timida e
silenziosa, ma il professore si dimostrò ben presto di gradevole compagnia. Parlammo a lungo e di molte cose. Dopo avermi narrato nuovamente, per filo e per segno, la storia del furto del codice, mi domandò della mia famiglia. Voleva sapere se avessi fratelli e sorelle e se i miei genitori fossero ancora in vita. In un primo momento, sorpresa dalla svolta personale della conversazione, gli feci una descrizione abbreviata. Ma lui, scoperto il numero dei membri della tribù Salina, volle saperne di più. Ricordo che gli feci persino uno schema su un tovagliolo di carta, perché capisse di chi gli stavo parlando di volta in volta. È sempre strano trovare una persona che sa ascoltare. Il professor Boswell non faceva domande dirette, né dimostrava una curiosità eccessiva. Si limitava a guardarmi fisso e ad assentire col capo, sorridendo nei momenti appropriati. E io, ovviamente, caddi nella trappola. Senza nemmeno accorgermene, finii per raccontargli la storia della mia vita. Lui rideva, divertito, e io pensai che fosse giunto il momento di passare al contrattacco: all'improvviso mi sentivo molto vulnerabile, come se fossi afflitta da un senso di colpa per aver parlato troppo. Per cui gli domandai se non era preoccupato della perdita del suo lavoro presso il Museo Greco-Romano di Alessandria. Lui corrugò la fronte, si tolse gli occhiali e si pizzicò il naso con aria stanca. «Il mio lavoro...» mormorò, e rifletté per qualche istante. «Lei non sa che cosa sta succedendo in Egitto, dottoressa?» «No, non lo so», risposi, disorientata. «Vede... Io sono copto, ed essere copto in Egitto equivale a essere un paria.» «Mi sorprende, professor Boswell. Voi copti siete gli autentici discendenti degli antichi egizi. Gli arabi sono giunti molto tempo dopo. Di fatto, la vostra lingua discende direttamente dall'egizio demotico, che si parlava ai tempi dei faraoni.» «Sì, ma sa... le cose non sono così belle come lei le dipinge. Magari il mondo la vedesse come lei. Il fatto è che noi copti siamo una piccola minoranza in Egitto, divisa a sua volta tra cristiani cattolici e cristiani ortodossi. Da quando ebbe inizio la rivoluzione fondamentalista, gli irhebin, voglio dire i terroristi, della Gema'a al-Islamiyya, la guerriglia islamica, hanno cominciato ad assassinare i membri delle nostre piccole comunità. Nell'aprile del 1992 hanno ucciso a colpi di arma da fuoco quattordici copti della provincia di Asyut, perché si erano rifiutati di pagare i 'servizi di protezione'. Nel 1994 un gruppo di irhebin armati ha attaccato il monastero
copto di Deir-ul-Muharraq, vicino ad Asyut, uccidendo monaci e fedeli.» Sospirò. «Ci sono di continuo attentati, furti, minacce di morte, aggressioni... Ultimamente sono state messe bombe all'ingresso delle principali chiese di Alessandria e del Cairo.» Dedussi, in silenzio, che il governo egiziano non stesse facendo molto per impedire quei crimini. «Per fortuna», esclamò, con un sorriso inaspettato, «io sono un pessimo cattolico copto, lo riconosco! Sono molti anni che non vado in chiesa, e questo mi ha salvato la vita.» Continuò a sorridere e si rimise gli occhiali, sistemandoli accuratamente sulle orecchie. «L'anno scorso, in giugno, la Gema'a al-Islamiyya ha messo una bomba sulla porta della chiesa di Sant'Antonio, ad Alessandria. Quindici persone sono rimaste uccise. Tra loro il mio fratello minore, Juhanna, sua moglie Zoe e il loro bambino di cinque mesi.» Fui sopraffatta dall'orrore e abbassai gli occhi sul tavolo. «Mi dispiace...» riuscii faticosamente a balbettare. «Be', loro... loro non soffrono più. Chi soffre è mio padre, che non riuscirà mai a superare il trauma. Ieri, quando gli ho telefonato, mi ha pregato di non tornare ad Alessandria, di rimanere qui, lontano dal pericolo. Di fatto, ho anche la nazionalità italiana, grazie a mia madre, come sa.» «Ah, sì. Sua madre era italiana, giusto?» «Di Firenze, per la precisione. A metà degli anni Cinquanta, quando venne di moda l'Egitto dei faraoni, mia madre si laureò in archeologia e vinse una borsa di studio per lavorare negli scavi di Oxirrinco. Mio padre, anche lui archeologo, un giorno passò di lì in visita, e... Vede, la vita è strana! Mia madre ha sempre detto che lo aveva sposato perché era un Boswell. Ma naturalmente scherzava.» Sorrise di nuovo. «In realtà il loro fu un matrimonio felice. Mia madre si adattò facilmente ai costumi di un nuovo Paese e alla sua nuova religione, anche se, in fondo, ha sempre preferito i riti cattolici romani.» Ero molto curiosa di sapere se avesse ereditato quegli occhi azzurro mare così intensi da sua madre o dalle sue ascendenze inglesi, ma non mi parve corretto domandarglielo. «Professor Boswell...» cominciai. «Che ne dice se ci chiamiamo per nome, dottoressa?» mi interruppe, guardandomi fisso, come suo solito. «In questo luogo tutti si comportano in modo troppo cerimonioso.» Sorrisi. «Perché qui, in Vaticano», gli spiegai, «le relazioni personali si devono sviluppare entro binari molto restrittivi.»
«Be', che ne dice se usciamo da questi binari? Crede che Monsignor Tournier o il capitano Glauser-Röist si scandalizzerebbero?» Scoppiai a ridere. «Certo!» risposi divertita. «Ma peggio per loro!» «Splendido!» esclamò il professore. «Allora... Ottavia?» «Lieta di conoscerti, Farag.» E ci stringemmo la mano sopra il tavolo. In quell'occasione scoprii che il professor Boswell, Farag, era una persona deliziosa, completamente diversa da come appariva in pubblico. Compresi che ciò che lo intimidiva non erano le persone, che anzi gli erano gradite, ma i gruppi. E quanto più erano numerosi, peggio era: tartagliava, tossiva, batteva le palpebre, si aggiustava continuamente gli occhiali, esitava, si schiariva la gola... Glauser-Röist tornò da Bruxelles il giorno dopo. Apparve in laboratorio con il volto cupo, la fronte aggrottata e le labbra strette in una fine linea praticamente impercettibile. «Cattive notizie, capitano?» gli chiesi, alzando gli occhi dal bifolio (il quarto) che mi era stato appena portato. «Cattive. Pessime.» «Si sieda, la prego, e mi racconti.» «Non c'è niente da raccontare», bofonchiò, mentre si lasciava cadere sulla sedia, che scricchiolò sotto il suo peso. «Niente. Non sono state trovate impronte, nessun segno di effrazione, nessun indizio di alcun genere. Si è trattato di un furto impeccabile. Non risulta nemmeno l'ingresso nel Paese di cittadini etiopi nelle ultime settimane. La polizia belga interrogherà i residenti di quella nazionalità, nel caso se ne possa ricavare qualche informazione. Mi chiameranno, se scoprono qualcosa.» «Può darsi che stavolta il ladro non sia un etiope», obiettai. «Ci abbiamo già pensato. Ma non abbiamo in mano niente.» Si guardò distrattamente intorno. «Come vanno le cose qui?» chiese finalmente, mettendo gli occhi sul bifolio disteso sulla mia scrivania. «Qualche passo avanti?» «Procediamo sempre più rapidi», risposi, soddisfatta. «In realtà sono io il collo di bottiglia: non posso trascrivere e tradurre alla stessa velocità a cui lavora il resto della squadra. Sono testi molto complicati.» «Non potrebbe aiutarla qualcuno dei suoi assistenti?» «Ho già abbastanza problemi con l'analisi paleografica! In questo momento stanno lavorando sul secondo Catone.»
«Il secondo Catone?» Il capitano inarcò le sopracciglia. «Oh, sì. Sembra che Mirogene sia morto presto, nell'anno 344. Dopo di che la Confraternita degli Staurophylakes nominò come archimandrita un certo Pertinace. In questo stesso momento stiamo lavorando su di lui. Stando ai miei assistenti, Catone II, così si è ribattezzato, era un uomo di grande cultura, dotato di un vocabolario squisito. Il greco che si parlava all'epoca aveva una pronuncia molto diversa da quello classico che fu, tuttavia, quello su cui si fissarono le norme linguistiche e lessicografiche.» Il capitano mi guardò come se non stesse capendo nulla. Decisi di fargli un esempio. «La stessa cosa che oggi succede con l'inglese: i bambini devono imparare la sillabazione delle parole e memorizzarle, perché la pronuncia non ha nulla a che vedere con la grafia. Il greco bizantino, dopo tanti secoli di modifiche, era altrettanto complicato.» «Ah, sì, sì...» Meno male, mi dissi, con sollievo. Ripresi: «Pertinace, ovvero Catone II, deve avere ricevuto una buona educazione in qualche monastero in cui si copiavano manoscritti. La sua grammatica è impeccabile e lo stile molto raffinato, a differenza di quelli di Catone I, che sembrava piuttosto impreparato. Qualcuno dei miei assistenti avanza l'ipotesi che Pertinace, più che un ex monaco, fosse addirittura membro della famiglia reale o della nobiltà costantinopolitana, perché il suo ductus presenta caratteristiche molto eleganti, fin troppo eleganti per un monaco, se così posso dire». «E che cosa racconta Catone II?» «Ho appena finito la sua cronaca», proclamai con soddisfazione. «Durante il suo mandato, la Confraternita crebbe inusitatamente. Gerusalemme riceveva un'infinità di pellegrini in occasione delle festività religiose e molti di loro restavano per sempre in Terrasanta. Alcuni di questi stranieri finirono con l'integrarsi nella Confraternita. Catone II riferisce le sue difficoltà nel governare una comunità così nutrita e diversa. Sottolinea addirittura la necessità di porre restrizioni all'ammissione di nuovi membri, ma una decisione in tal senso non viene presa, perché il Patriarca di Gerusalemme è soddisfatto della crescita della comunità. Il Patriarca doveva essere Massimo II o Cirillo I. Ho già chiesto all'Archivio di ripassare le loro biografie, nell'eventualità che si trovi qualche riferimento.» «Qualcuno ha cercato informazioni dirette riguardo alla Confraternita, sulla base dei dati?» «No, capitano. Questo è compito suo. Non ricorda di essersi offerto?» Glauser-Röist si alzò lentamente in piedi, come se gli costasse molta fa-
tica. Cosa ancora più sconcertante, dopo il viaggio il suo vestito, contrariamente al solito, appariva spiegazzato e in disordine. Era visibilmente depresso. «Vado a fare una doccia in caserma. Torno nel pomeriggio per rimettermi al lavoro.» «Tra non molto il Prefetto, il professor Boswell e io ci vedremo nella caffetteria del personale. Se vuole pranzare con noi...» «Non mi aspettate», declinò lui, uscendo. «Ho un'udienza urgente con il Segretario di Stato e con Sua Santità.» Dopo Catone II vennero Catone III, Catone IV, Catone V... Per qualche ragione sconosciuta, ogni archimandrita degli Staurophylakes adottava quel curioso nome per simboleggiare la massima autorità all'interno della Confraternita. Ai titoli consolidati di Papa e Patriarca si aggiungeva dunque quello assai più strano di Catone. Il professor Boswell si chiuse un giorno intero in biblioteca con i sette pesanti volumi delle Vite parallele di Plutarco e studiò a fondo le biografie dei due Catoni più conosciuti, Catone il Censore e Catone l'Uticense. Dopo parecchie ore, tornò dalla biblioteca con una teoria relativamente plausibile che, al momento e in mancanza di meglio, accettammo per buona. «Non ho alcun dubbio che uno dei due Catone servì da modello agli archimandriti degli Staurophylakes», disse, con molta convinzione. Eravamo nel laboratorio, riuniti intorno alla mia vecchia scrivania di legno coperta di carte e appunti. Continuò: «Catone il Censore era un maledetto fanatico, un difensore dei valori più retrivi e tradizionalisti di Roma, non diverso da quei sudisti americani che credono nella supremazia dei bianchi e simpatizzano per il Ku-Klux-Klan. Disprezzava la lingua e la cultura greche, perché sosteneva che debilitassero i romani. Lo stesso valeva per qualsiasi cosa venisse dall'estero. Era duro e freddo come una pietra». «Bel ritratto che ci stai dando!» commentai, divertita. Glauser-Röist mi guardò con la stessa espressione infastidita che esibiva da quando aveva scoperto che Farag e io avevamo simpatizzato più tra noi che con lui. «Ricoprì a Roma le cariche di questore, edile, pretore, console e censore tra gli anni 204 e 184 avanti Cristo. Pur disponendo di una fortuna, viveva con somma austerità e considerava superfluo qualsiasi gesto inutile, come per esempio nutrire gli schiavi più vecchi che non potevano più lavorare. Si limitava ad ammazzarli, facendo così dei tagli agli spese, e consigliava ai romani di seguire il suo esempio per il bene della Repubblica. Conside-
rava se stesso un cittadino perfetto ed esemplare.» «Non mi piace per niente questo Catone», affermò Glauser-Röist, ripiegando diligentemente in quattro uno dei miei fogli di appunti. «No, neppure a me», concordò Farag, scuotendo il capo. «Credo che non ci sia dubbio: la Confraternita prese a esempio l'altro Catone, Catone l'Uticense, bisnipote del precedente e uomo sicuramente ammirevole. Come questore della Repubblica, restituì al tesoro di Roma un'immagine di onestà che era andata perduta diversi secoli prima. Era una persona di somma rettitudine, un giudice incorruttibile e imparziale, convinto che, per essere giusti, bastasse solo volerlo essere. La sua sincerità era a tal punto proverbiale che a Roma, quando si voleva negare drasticamente qualcosa, si diceva: 'Questo non è certo, checché ne dica Catone! ' Fu un ardente oppositore di Giulio Cesare, che accusava, a ragione, di essere un corrotto e ambizioso manipolatore e di voler regnare senza opposizione su tutta Roma, che all'epoca era una Repubblica. Cesare e Catone si odiavano a morte. Per anni e anni portarono avanti una lotta sanguinosa, uno per impadronirsi del potere, l'altro per impedirlo. Quando alla fine il trionfo arrise a Giulio Cesare, Catone si ritirò a Utica, dove aveva una casa, e si conficcò una spada nel ventre, perché, disse, non era sufficientemente vile da supplicare la clemenza di Cesare, né abbastanza coraggioso da discolparsi di fronte al suo nemico.» «È curioso», commentò Glauser-Röist, che aveva seguito con attenzione il racconto di Farag. «Il nome di Cesare, il grande nemico di Catone, è divenuto in seguito il titolo degli imperatori romani, i Cesari. Così come Catone è diventato il titolo degli archimandriti della Confraternita, i Catoni.» «Davvero molto curioso», osservai a mia volta. «Catone l'Uticense divenne il paradigma della libertà», proseguì Farag. «Tant'è che Seneca, per esempio, dice: 'Né visse Catone, morta la libertà, né vi fu più libertà, morto Catone'.8 E Valerio Massimo si domanda: 'Che sarà della libertà senza Catone?'»9 «Be', il nome di Catone era sinonimo di onestà e libertà, come Cesare era sinonimo di potere», dissi. «In effetti», replicò il professore, sistemandosi gli occhiali sul naso nell'esatto momento in cui lo facevo anch'io. «Senza dubbio è molto strano», confermò Glauser-Röist, spostando lo sguardo da me a Farag e viceversa. «Qualche pezzo interessante lo abbiamo, di questo rompicapo», commentai io, per spezzare il silenzio che si era creato. «Il più sorprendente è
quello che ho trovato nella cronaca di Catone V.» «Di che si tratta?» chiese Farag, incuriosito. «I Catoni scrivevano le loro cronache a Santa Caterina del Sinai.» «Sul serio?» Annuii con decisione. «Di fatto, già sospettavo qualcosa del genere, perché un codice come quello di Iyasus non può venire che da un centro monastico o una grande biblioteca costantinopolitana. La pergamena va tagliata e perforata con buchi minuscoli che indicano il principio e la fine del foglio. Dev'essere suddivisa in righe, la cosiddetta tecnica della rigatura, perché il testo proceda diritto; bisogna disegnare o miniare i capilettera... Insomma, un lavoro meticoloso che richiede personale esperto. E non dimentichiamo la rilegatura dei fogli. Risulta evidente che i Catoni potevano contare sui servizi di un centro specializzato e, dato che il contenuto era presumibilmente segreto, doveva trattarsi di un centro monastico molto isolato.» «Ma questo vale per centinaia di monasteri», sottolineò Farag. «Sì, è vero, ma Santa Caterina è stato costruito per volontà di Santa Elena, l'imperatrice che scoprì la Vera Croce, e non dimenticare che è lì che avete trovato il codice. È logico pensare che sia sempre rimasto lì e che i Catoni vi si recassero per redigere le cronache, oppure che il codice venisse affidato loro per il tempo necessario e che loro lo restituissero al monastero a lavoro finito. Questo spiegherebbe il suo successivo abbandono. Forse gli Staurophylakes non scrivevano più cronache, o accadde qualcosa che impedì di farlo. In particolare, Catone V racconta del suo rischioso e difficile viaggio a Santa Caterina, che tuttavia, data la sua età avanzata, non poteva rinviare ulteriormente.» «Immagino ci fossero relazioni molto strette tra la Confraternita e il monastero», commentò Farag. «Non sapremo mai fino a che punto.» «Che altro abbiamo scoperto?» chiese Glauser-Röist. «Be'», sfogliai i miei appunti, presi frettolosamente mentre consultavo i lunghi rapporti consegnatimi dai miei assistenti. «Resta ancora molto da tradurre, ma posso dirvi che la maggior parte dei Catoni occupano solo poche righe, con le loro cronache. Qualcuno una pagina o un bifolio, qualcuno un duerno e pochissimi un terno. Ma tutti, senza eccezione, si recano a Santa Caterina negli ultimi cinque o dieci anni della loro vita. Se dimenticano o non fanno in tempo a menzionare qualcosa di importante, provvede a farlo il Catone successivo, al principio della propria cronaca.» «Sappiamo quanti Catoni ci sono stati, in totale?»
«Non glielo posso assicurare, capitano. Il dipartimento di Informatica non ha ancora completato la ricostruzione del testo. Ma al momento della caduta di Gerusalemme nelle mani del re persiano Cosroe II, nell'anno 614, si erano già susseguiti trentasei Catoni.» «Trentasei Catoni!» ripeté il capitano, con ammirazione. «E che cosa accadde alla Confraternita, in tutto questo tempo?» «Oh, be', niente di che, apparentemente. Il loro problema principale erano i pellegrini latini, che arrivavano a migliaia nelle ricorrenze più importanti. Si dovette organizzare una sorta di guardia pretoriana di Staurophylakes intorno alla Vera Croce, perché, per dirne una, molti pellegrini, al momento di inginocchiarsi per baciarla, strappavano schegge coi denti per portarsele via come reliquia. Ci fu una crisi importante intorno all'anno 570, durante il mandato di Catone XXX. Un gruppo di Staurophylakes corrotti organizzò il furto della reliquia. Erano ex pellegrini, entrati nella Confraternita anni prima. Nessuno li avrebbe mai sospettati, se non fossero stati sorpresi con le mani nel sacco. Si riaprì allora il vecchio dibattito se ammettere o meno nuovi membri: la Confraternita rischiava di diventare un ricettacolo di gente che pensava solo a sbronzarsi e fare soldi. Ma né in quell'occasione né negli anni successivi la questione venne affrontata. C'erano forti pressioni da parte dei Patriarchi di Gerusalemme, Alessandria e Costantinopoli perché le cose rimanessero come stavano: la funzione di polizia degli Staurophylakes era molto apprezzata e a nessuno interessava che la Confraternita si trasformasse in un club privato ed elitario.» «E lei, capitano?» domandò d'un tratto Farag, interessato. «Ha poi trovato quell'informazione che cercava sugli Staurophylakes?» Negli ultimi giorni avevamo visto Glauser-Röist lavorare febbrilmente al computer, stampando pagine su pagine e rileggendole varie volte. Mi aspettavo che da un momento all'altro ci annunciasse una scoperta interessante, ma i giorni passavano e la Roccia era come sempre silenzioso e imperturbabile. «Per cercarla, l'ho cercata. Ma non ho trovato assolutamente nulla.» Per un istante parve sprofondare nell'abisso di qualche riflessione. «Be', non proprio. Ho trovato un riferimento, ma così poco significativo che non ho pensato valesse la pena di menzionarlo.» «Capitano, per favore!» protestai, giustamente indignata. «D'accordo, va bene, vediamo...» cominciò. Si tirò i lembi della giacca, ricomponendosi. «Ho trovato un'allusione in un curioso manoscritto di una suora della Galizia.»
Non potei fare a meno di interromperlo. «L'Itinerarium di Egeria? Gliene ho parlato quando stavamo indagando su Santa Caterina del Sinai.» Il capitano assentì. «Certo. L'Itinerarium di Egeria, scritto tra la Pasqua del 381 e quella del 384. Ebbene, il capitolo che descrive i riti del Venerdì Santo a Gerusalemme afferma che gli Staurophylakes erano incaricati di custodire la reliquia e vigilare i fedeli che le si avvicinavano. La suora spagnola lo vide con i propri occhi.» «Confermato!» dichiarò Farag, pieno d'allegria. «Gli Staurophylakes esistevano davvero! Il Codice Iyasus ci sta dicendo la verità.» «E allora diamoci da fare», borbottò in malomodo Glauser-Röist. «Il Segretario di Stato è molto insoddisfatto del nostro basso rendimento.» Per la prima volta nella mia vita, la Settimana Santa arrivò senza che me ne accorgessi. Non celebrai la Domenica delle Palme, né il Giovedì Santo, né la Pasqua di Resurrezione. Non partecipai neppure alle cerimonie di penitenza né alla Vigilia di Pasqua. Per giunta, disertai anche la confessione settimanale con il buon Padre Pintonello. Tutti noi che eravamo sommersi nell'Ipogeo ricevemmo una dispensa dal Papa, che ci esonerò dai nostri obblighi religiosi. Mentre Sua Santità appariva in tutti i mezzi di comunicazione celebrando gli Uffici della Settimana Santa (e dimostrando che, a dispetto di quello che credeva tutto il mondo, era sempre tutto d'un pezzo), era suo desiderio che noi continuassimo a lavorare sottoterra, fino alla soluzione del problema. E, nonostante la stanchezza, ce la mettevamo davvero tutta. Smettemmo di frequentare la caffetteria del personale, perché ci veniva portato da mangiare direttamente in laboratorio. Smettemmo di tornare a casa a dormire, perché ci furono riservate delle stanze alla Domus. Smettemmo anche di prenderci pause di riposo perché, semplicemente, non avevamo tempo. Eravamo prigionieri volontari, in preda a una febbre irriducibile: l'appassionata ricerca di un segreto custodito per secoli. L'unico a uscire dal laboratorio con una certa frequenza era il capitano. Oltre ai suoi abituali colloqui con il Segretario di Stato Angelo Sodano, per tenerlo informato del procedere dell'indagine, Glauser-Röist dormiva nella caserma della Guardia Svizzera (ufficiali e sottufficiali del corpo disponevano di camere individuali) dove a volte si tratteneva per fare pratica di tiro e occuparsi di questioni imprecisate. Era un tipo misterioso, il capitano Glauser-Röist, riservato, silenzioso, quasi sempre taciturno e di quando in quando persino un po' sinistro. O così sembrava a me, perché Farag
non era della stessa opinione: era convinto che Glauser-Röist fosse una persona semplice e affabile, tormentata dal tipo di lavoro che gli toccava svolgere. Avevano parlato a lungo, in Egitto, mentre percorrevano il Paese in lungo e in largo a bordo del fuoristrada. Anche se la Roccia non gli aveva svelato la natura delle sue responsabilità, Farag intuiva che non gli piacevano molto. «Ti ha raccontato qualcosa?» gli chiesi io, che morivo di curiosità, una sera in cui entrambi ci trovavamo soli nel mio laboratorio, lavorando finalmente sulle ultime pagine del codice. «Non ti ha rivelato qualche dettaglio, non ti ha parlato della sua vita, non gli è sfuggita qualche indiscrezione interessante?» Farag rise di gusto. I suoi denti bianchi spiccarono sulla carnagione scura. «Ricordo soltanto», commentò, divertito, cercando di dominare il suo accento arabo, «che ha detto di essere entrato nella Guardia Svizzera perché era una tradizione di famiglia, da quando il suo antenato Kaspar Röist salvò Papa Clemente VI dalle truppe di Carlo V durante il Sacco di Roma.» «Perbacco! Allora il capitano è figlio d'arte.» «Mi ha detto anche di essere nato a Berna e di avere studiato all'Università di Zurigo.» «E che cosa ha studiato?» «Ingegneria agraria.» Rimasi a bocca aperta. «Ingegneria agraria?» «Che cosa c'è di strano? Be', forse questo ti piace di più: mi è parso di capire che abbia preso anche una laurea in letteratura italiana presso l'Università di Roma.» «Non riesco proprio a immaginarmelo a costruire serre per ortaggi e frutta», mi limitai a dire, ancora sotto l'effetto della sorpresa. Farag scoppiò a ridere fragorosamente, tanto da doversi asciugare le lacrime con le palme delle mani. «Sei impossibile! La tua mente è così quadrata che...» Mi guardò un istante con gli occhi brillanti e poi, scuotendo il capo, appoggiò un dito sul bifolio che avevamo lasciato a metà. «Che ne dici se torniamo al lavoro?» «Sì, sarà meglio. Siamo arrivati qui.» E indicai con la penna un punto intermedio della seconda colonna della pagina. Con la cattura di Gerusalemme da parte del re persiano Cosroe II nell'anno 614, la Confraternita degli Staurophylakes andò in crisi. Cosroe, dopo la vittoria, prese la Vera Croce e se la portò a Ctesifone, capitale del
suo impero, per metterla ai piedi del trono come simbolo della propria divinità. I membri più deboli della Confraternita, terrorizzati, si dispersero o scomparvero. I pochi rimasti, agli ordini di Catone XXXVI, si dedicarono a espiare la loro presunta incompetenza con terribili digiuni, penitenze, flagellazioni e sacrifici vari. Qualcuno morì, persino, a seguito delle ferite autoinflittesi. Trascorsero quattordici anni dolorosi, durante i quali l'imperatore bizantino Eraclio continuò a combattere contro Cosroe II, fino a sconfiggerlo definitivamente nell'anno 628. Poco tempo dopo, in una commovente cerimonia celebrata il 14 settembre di quello stesso anno, la Vera Croce fece ritorno a Gerusalemme, portata dall'imperatore in persona attraverso la città. Gli Staurophylakes onorarono l'evento, partecipando attivamente alla processione e al solenne atto liturgico durante il quale la reliquia fu riportata al suo luogo di origine. Ma l'epoca dell'angustia non si era ancora conclusa. Solo nove anni più tardi, nel 637, un altro potente esercito giunse alle porte di Gerusalemme: i musulmani, guidati dal califfo Omar. A quel tempo la Confraternita aveva un nuovo Catone, il trentasettesimo, chiamato precedentemente Anastasios, che decise di non restare con le mani in mano all'avvicinarsi del pericolo. Quando la notizia della nuova, imminente invasione giunse in città, Catone XXXVII inviò una delegazione di Staurophylakes notabili a negoziare con il califfo. Si firmò un patto segreto, in base al quale si garantiva la sicurezza della Vera Croce in cambio dell'aiuto della Confraternita a localizzare i tesori cristiani ed ebraici accuratamente nascosti all'approssimarsi dei musulmani. Omar fu di parola e gli Staurophylakes pure. Per molti anni vi furono pace e buona convivenza tra le tre religioni monoteiste, la cristiana, l'ebraica e la musulmana. Nel corso di questo periodo di tranquillità, la Confraternita subì parecchie trasformazioni. La perdita della Vera Croce all'epoca dell'invasione persiana e l'accordo con gli arabi erano serviti di lezione agli Staurophylakes. Convinti più che mai che la loro missione fosse la pura e semplice tutela del Santo Legno, si fecero più riservati, più indipendenti dai Patriarcati, più invisibili e anche molto più potenti. Nelle loro file cominciarono a militare uomini delle migliori famiglie di Costantinopoli, Antiochia, Alessandria, Atene e anche delle città italiane di Firenze, Ravenna, Milano, Roma... Non erano più una banda di energumeni pronti a sbranare i pellegrini che avessero osato toccare la Vera Croce. Erano uomini preparati e intelligenti, più militari e diplomatici che diaconi o monaci. Come ci erano riusciti? Facendo quello che Catone II aveva proposto già
nel IV secolo: fu stabilita una serie di requisiti per l'ammissione. I nuovi aspiranti dovevano saper leggere e scrivere, dominare il latino e il greco, conoscere la matematica, la musica, l'astrologia e la filosofia e, oltretutto, superare determinate prove fisiche di resistenza e forza. Gli Staurophylakes si convertirono, a poco a poco, in un'istituzione importante e indipendente, sempre dedita alla propria singolare missione. I problemi sorsero con le nuove ondate di pellegrini dall'Europa, gente di ogni genere e condizione sociale: vagabondi, mendicanti, ladri, asceti, avventurieri e mistici, personaggi pittoreschi in cerca di un luogo in cui vivere e morire. Nel corso dei secoli IX e X, la situazione si aggravò e i califfi di Gerusalemme smisero di essere magnanimi. L'entrata dei latini nei Luoghi Santi fu proibita. Nell'anno 1009 il califfo Al-Hakem, un demente con cui il Patriarca di Gerusalemme e la stessa Confraternita avevano già avuto seri problemi, ordinò la distruzione di tutti i santuari non musulmani. Mentre i soldati di Al-Hakem abbattevano una chiesa dopo l'altra, un tempio dopo l'altro, gli Staurophylakes corsero a salvare la Vera Croce e la nascosero nel luogo preparato in previsione di occasioni come questa: una cripta clandestina sotto la basilica del Santo Sepolcro, che ospitava abitualmente la reliquia. La Croce fu salvata dalla distruzione, ma a prezzo delle vite di vari Staurophylakes, che si scontrarono corpo a corpo coi soldati permettendo ai confratelli di raggiungere il nascondiglio. Il laboratorio di riproduzione fotografica completò il bifolio 182, l'ultimo, nel pomeriggio della seconda domenica di Pasqua. I miei assistenti completarono l'analisi paleografica due giorni dopo, ai primi di maggio. Mancava solo che io facessi la mia parte, la più lenta e farraginosa. Si produsse quindi una riorganizzazione: liberati i membri del dipartimento che avevano già concluso il loro lavoro, tutta la mia sezione si fece carico della traduzione. In questo modo Glauser-Röist, Farag e io potevamo sederci comodamente a leggere le pagine che ci arrivavano dal laboratorio. Nell'anno 1054, senza che fosse una sorpresa per nessuno, si verificò il Grande Scisma della Chiesa Cristiana. Romani e ortodossi si scontrarono in campo aperto su futili questioni teologiche e sulla divisione del potere: Roma sosteneva che il Papa fosse l'unico successore diretto di Pietro, idea respinta invece dai Patriarchi, che affermavano di essere tutti legittimi successori dell'Apostolo, secondo il modello delle prime comunità cristiane. Gli Staurophylakes non si schierarono né con gli uni né con gli altri, benché la posizione in cui vennero a trovarsi fosse insostenibile. Erano fedeli solo a loro stessi e alla Croce, e nei confronti del resto del mondo nutriva-
no una profonda sfiducia, che si acuiva a ogni nuova controversia politica o religiosa. Mentre Catone LXVI studiava l'adozione di misure urgenti per proteggere la Confraternita dalle critiche e dagli attacchi di cui era oggetto da parte delle due fazioni cristiane, la Terrasanta tornava sul piede di guerra: nella primavera del 1097 quattro grandi eserciti crociati si concentrarono a Costantinopoli con l'intenzione di avanzare su Gerusalemme e liberare i Luoghi Santi dal dominio musulmano. Di nuovo, un gruppo di negoziatori inviati dagli Staurophylakes uscì surrettiziamente dalla città per dirigersi verso le innumerevoli truppe europee agli ordini di Goffredo di Buglione. Le raggiunsero due mesi dopo, mentre l'armata faceva tappa ad Antiochia dopo avere sconfitto le truppe turche a Nicea e Dorilea. Secondo la cronaca di Catone LXVI, Goffredo di Buglione non accettò il patto proposto dalla Confraternita: rispose loro che la Vera Croce del Salvatore, il cui simbolo campeggiava sulle divise di tutti i soldati, era il vero obiettivo di quella Crociata e che non era disposto a rinunciarvi in cambio di alcun tesoro musulmano, ebraico o ortodosso. Disse inoltre che, dal momento che gli Staurophylakes non si erano voluti unire alla Chiesa di Roma durante il Grande Scisma, quando lui avesse preso la città li avrebbe considerati scomunicati e avrebbe sciolto la Confraternita per sempre. I negoziatori tornarono a Gerusalemme portando le cattive notizie e causando una profonda desolazione tra i Guardiani della Croce. Catone LXVI convocò tutti gli Staurophylakes in un'assemblea che si tenne nella basilica del Santo Sepolcro il 3 luglio dell'anno 1098 e annunciò loro i pericoli che si avvicinavano. Con l'appoggio unanime dei presenti, propose di nascondere la reliquia e passare alla clandestinità. Fu quello il momento in cui gli Staurophylakes smisero di esistere agli occhi del pubblico. Un anno più tardi, dopo un mese di assedio, con l'aiuto delle loro macchine belliche i crociati presero Gerusalemme e ne massacrarono, nel senso letterale del termine, tutta la popolazione. Il sangue nelle strade era tanto che i cavalli si impennavano e nitrivano spaventati e i soldati non riuscivano a camminare. Nel mezzo della strage, Goffredo di Buglione si presentò alla basilica del Santo Sepolcro per impadronirsi della Vera Croce, ma non la trovò. Ordinò dunque che tutti gli Staurophylakes superstiti fossero condotti alla sua presenza. Non se ne reperì nessuno. Mise quindi sotto tortura i sacerdoti ortodossi, che confessarono di avere tra loro tre Staurophylakes sotto mentite spoglie: erano i tre monaci più giovani, di nome
Agapios, Elia e Teofanes, rimasti a Gerusalemme per vegliare sulla reliquia. Goffredo li fece torturare a morte, flagellandoli, sottoponendoli al fuoco e infine smembrandoli. Teofanes, il più debole, non resistette. Con le braccia e le gambe già legate ai cavalli, all'ultimo momento gridò che il Santo Legno si trovava nascosto nella cripta segreta sotto la basilica. Quasi privo di sensi e trascinato dai soldati di Goffredo, riuscì a malapena a indicare il luogo. Poi fu abbandonato in mezzo alla strada e il suo destino fu quello di morire pugnalato per mano ignota. La Vera Croce divenne, in questo modo, la reliquia più importante dei crociati, che la portarono con loro in tutte le battaglie. La Croce veniva mostrata ai soldati prima di ogni scontro, perché servisse da stimolo. Per cento anni si disse che, grazie al Legno di Cristo, nessuno poteva sconfiggerli. Un gran numero di frammenti di Ligna Crucis fu inviato in Europa, in dono a sovrani, papi, monasteri e famiglie nobili d'Occidente. Il Legno Santo veniva fatto a pezzi e suddiviso come fosse una torta. E dove giungeva una scheggia, arrivava anche la ricchezza, sotto forma di pellegrini e devoti. Gli Staurophylakes contemplarono a distanza la frammentazione, senza poter fare nulla per impedirla. La loro contrarietà divenne rancore, risentimento cieco. I Guardiani giurarono di recuperare ciò che restava della Croce, a qualsiasi prezzo. Ma, per il momento, l'impresa era impossibile. Secondo quanto narrava Catone LXXII nella sua cronaca, alcuni confratelli si infiltrarono tra i crociati per sorvegliare i movimenti del Legno. Il loro timore era che durante una battaglia o una scaramuccia la Croce cadesse in mani musulmane: gli arabi e i turchi conoscevano perfettamente il significato che essa aveva per i latini e sapevano che, impadronendosene, avrebbero ridimensionato le loro vittorie. In quella stessa epoca, intorno al 1150, altri gruppi di Staurophylakes partirono alla volta delle principali città cristiane d'Oriente e d'Occidente. Il piano era di stabilire relazioni con persone influenti e potenti, in modo da mediare in favore della Confraternita o, nel caso, di esigere la restituzione della reliquia. Col tempo, i confratelli entrarono in questo modo in contatto con alcune delle organizzazioni e degli ordini religiosi che proliferavano nell'Europa medioevale, le cui basi erano fermamente radicate nel cristianesimo, dai templari europei ai catari, fino alla Fede Santa, la Massenie du Saint Graal, il Compagnonnage, i Minnesänger o i Fedeli d'Amore. Quasi tutti furono avvicinati dagli Staurophylakes, dando origine a scambi di informazioni e a militanze comuni: molti Staurophylakes aderirono a quelle organizzazioni, e viceversa. Furono poi reclutati alcuni dei giovani più in vista delle città in cui gli
Staurophylakes avevano preso dimora, con l'intento di farli maturare all'ombra della Confraternita prima che occupassero le posizioni di potere a cui erano destinati per nascita. Ma per quei ragazzi essere Guardiani della Vera Croce era qualcosa di intangibile, dal momento che il Santo Legno continuava a trovarsi a Gerusalemme e Gerusalemme era troppo lontana. Molti disertarono dalla Confraternita qualche anno dopo esservi entrati, e fu proprio uno di questi che comunicò alle autorità ecclesiastiche di Milano tutto ciò che sapeva sul conto degli Staurophylakes. Per quel giovincello la delazione non aveva la minima importanza, la sua vita non ne fu alterata e ben presto se ne dimenticò. Ma un anno dopo, a Gerusalemme e Costantinopoli, i membri della Confraternita, incluso Catone LXXV, furono arrestati e condotti in prigione, dove si ricordò loro che erano scomunicati e che la Confraternita era stata sciolta cent'anni prima da Goffredo di Buglione. Pertanto li si considerava eretici e li si condannava a morte. Tutti, senza eccezione alcuna, furono giustiziati. Il Catone successivo, che riferiva questi tristi eventi al principio della sua cronaca, era uno degli Staurophylakes stabilitisi ad Antiochia. Questi convocò i confratelli in assemblea in quella città alla fine dell'anno 1187 e cominciò il proprio intervento con la terribile notizia che era già sulla bocca di tutti: il condottiero Saladino aveva sconfitto i crociati nella battaglia di Hattin, in Galilea, e secondo gli Staurophylakes presenti aveva strappato dalle mani del re crociato sconfitto, Guy de Lusignan, la reliquia della Vera Croce. Il Legno di Gesù Cristo era caduto in mani musulmane. Molte importanti decisioni si presero in quell'assemblea ad Antiochia, che si protrasse per mesi. Oltre a eleggere i confratelli che si sarebbero infiltrati nell'esercito di Saladino per vigilare da vicino sulla Vera Croce e, se possibile, rubarla (Nikephoros Panteugenos, Sofronio di Teila, Joachim Sandalya, Dionisio di Dara e Abraham Abdounita), si stabilì di selezionare accuratamente gli aspiranti Staurophylakes, affinché non si ripetesse il tradimento che aveva portato alla morte i confratelli di Gerusalemme e Costantinopoli e lo stesso Catone LXXV. A questo scopo altri quindici confratelli di Roma, Ravenna, Atene, Antiochia e Alessandria si incaricarono di preparare una procedura di iniziazione sufficientemente rigorosa da permettere solo ai migliori e più devoti di entrare a far parte della Confraternita. Non ci sarebbe stata alcuna pietà per coloro che non avessero superato le prove: la loro bocca sarebbe stata chiusa per sempre. Un gruppo di Staurophylakes ebbe l'incarico di trovare il luogo più sicuro e recondito dell'orbe per nascondervi la Vera Croce una volta che fosse
tornata nelle mani della Confraternita. Da quel momento, la reliquia non avrebbe mai più lasciato quel luogo e a nessun profano sarebbe mai stato possibile toccarla. Né toccarla né vederla, perché il nascondiglio doveva essere realmente inespugnabile. I dodici confratelli avrebbero girato il mondo fino a trovare il luogo idoneo. Nel frattempo gli sforzi di tutti gli altri Staurophylakes dovevano essere concentrati sull'urgente recupero della reliquia. Più di ottocento anni di esistenza non potevano chiudersi con un simile fallimento. In pochi mesi l'intera Terrasanta cadde nelle mani di Saladino e i crociati si videro costretti a ripiegare sulle coste di Tiro, in Libano. Gli Staurophylakes furono gli organizzatori occulti della Seconda Crociata. Nell'agosto del 1191, Riccardo Cuor di Leone sconfisse gli eserciti musulmani in numerose battaglie, costringendoli a negoziare la restituzione della Vera Croce. Un gruppo inviato dal re cristiano, di cui faceva parte uno Staurophylax, poté vedere la reliquia e venerarla. Ma proprio allora, in un gesto assurdo e inspiegabile, Riccardo fece uccidere duemila prigionieri musulmani e Saladino ruppe le trattative. Il gruppo di Staurophylakes incaricato di organizzare la procedura di iniziazione degli aspiranti membri portò a termine il proprio lavoro nel luglio dell'anno 1195. L'informazione giunse a tutti i confratelli attraverso emissari mandati nelle principali città del mondo. Poco tempo dopo, il primo candidato iniziò le prove. Così Catone LXXVI ne descriveva la natura: «Affinché le loro anime giungano pure alla Vera Croce del Salvatore e siano degne di prostrarsi avanti a essa, dovranno purificare anzitutto le loro colpe, fino a mondarsi d'ogni macchia. Espieranno i sette gravi peccati capitali nelle sette città che ostentano il terribile privilegio di esser conosciute per averli perversamente praticati. E dunque Roma per la superbia, Ravenna per l'invidia, Gerusalemme per l'ira, Atene per l'accidia, Costantinopoli per l'avarizia, Alessandria per la gola e Antiochia per la lussuria. In ciascuna di esse, come fosse un Purgatorio in terra, sconteranno le loro colpe per entrare nel luogo segreto che noi, gli Staurophylakes, chiameremo Paradiso Terrestre, giacché da un ramo dell'Albero del Bene e del Male che l'arcangelo Michele diede ad Adamo e che questi piantò nacque l'Albero dal cui Legno fu ricavata la Croce su cui Cristo morì. E perché i confratelli di una città sap-
piano ciò che è avvenuto nelle città precedenti, al termine di ogni prova il supplicante sarà marchiato nella carne con una Croce, una per ogni peccato capitale cancellato dalla sua anima, a ricordo dell'espiazione. Le Croci saranno le stesse della muraglia del monastero di Santa Caterina, nel Luogo Santo del Sinai, ove Mosè ricevette da Dio le Tavole della Legge. Se il supplicante giunge al Paradiso Terrestre con le sette Croci, vi sarà ammesso come uno di noi ed esibirà per sempre sul suo corpo il Crismon e la parola sacra che dà significato alle nostre vite. Se non vi giungerà, che Dio abbia pietà della sua anima». «Sette prove in sette città», mormorò Farag, impressionato. «E una di esse è Alessandria, per il peccato della gola.» Erano due giorni che studiavamo l'ultima parte del materiale e gli eventi convulsi del XII secolo. E tutto quello che leggevamo ci avvicinava ad Abi-Ruj Iyasus: le scarificazioni con le sette croci di Santa Caterina, il Crismon e la parola Stauros. La sola idea che gli Staurophylakes esistessero ancora, milleseicentocinquantanove anni dopo la loro fondazione, risultava stupefacente. Ma credo che, a questo punto, nessuno di noi ponesse in dubbio che ci fossero proprio loro dietro i furti dei Ligna Crucis. «Dove sarà il Paradiso Terrestre?» chiesi, togliendomi gli occhiali e sfregandomi gli occhi affaticati. «Può darsi che lo dica l'ultimo bifolio», suggerì Farag, prendendo dalla scrivania la trascrizione fatta dai miei assistenti. «Forza, siamo quasi alla fine. Eh, capitano?» Ma Glauser-Röist non si mosse. Il suo sguardo era perso nel vuoto. «Capitano?» lo chiamai. Guardai Farag, divertita. «Dev'essersi addormentato.» «No, no», sussurrò la Roccia, intontito. «Non mi sono addormentato.» «Allora che le succede?» Farag e io lo guardammo preoccupati. Il capitano appariva provato, lo sguardo incerto. Si alzò immediatamente in piedi e ci guardò, senza vederci, dall'alto della sua statura. «Andate avanti voi. Devo controllare una cosa.» «Che cosa deve...?» cominciai, ma Glauser-Röist era già uscito. Mi voltai verso Farag, che ricambiò il mio sguardo con un'espressione incredula. «Che gli succede?» «Mi piacerebbe saperlo.»
Dopotutto, il comportamento del capitano aveva una spiegazione. Lavoravamo sotto pressione parecchie ore al giorno, dormivamo appena e passavamo la vita nell'atmosfera artificiale dell'Ipogeo, senza vedere il sole o respirare aria pura. Era l'esatto contrario di una gita in campagna o di un giorno in spiaggia. Ma avevamo fretta e ci sottoponevamo a sforzi insostenibili, nel timore che da un momento all'altro ci giungesse la notizia di qualche nuovo furto di Ligna Crucis. E ci sentivamo semplicemente sfiniti. «Andiamo avanti noi, Ottavia.» L'ultimo Catone, curiosamente quello che portava il numero 77, cominciava la sua cronaca con una bella orazione di ringraziamento: la Confraternita aveva riscattato la vera Croce nell'anno 1219. «Ce l'hanno fatta!» esclamai con gioia. Avevo dimenticato completamente che gli Staurophylakes erano «i cattivi». «È evidente, non ti pare?» «Non vedo il perché», ribattei, offesa. «Come? Perché la Vera Croce scomparve! O non ricordi più la storia? Non se ne seppe più nulla.» Farag aveva ragione, certo. La verità era che mi sentivo così stanca che il mio cervello sembrava una spremuta di neuroni. La Vera Croce scomparve misteriosamente durante la Quinta e ultima Crociata al principio del XIII secolo. Catone LXXVII, ovviamente, raccontava l'evento da un punto di vista molto parziale. Stando alla sua cronaca, mentre l'esercito dell'imperatore del Sacro Romano Impero Germanico, Federico II, si trovava nel porto di Damietta, sul delta del Nilo, il sultano Al-Kamil si offrì di restituire la Vera Croce se i latini avessero abbandonato l'Egitto. Poco prima, con grandi pericoli e difficoltà, Dioniso di Dara, uno dei cinque confratelli che trentadue anni prima si erano infiltrati nell'esercito di Saladino, era stato nominato tesoriere del sultano. Era entrato così bene nel suo ruolo di importante diplomatico mammalucco, che la notte in cui si presentò all'umile casetta di Nikephoros Panteugenos con il suo prezioso carico, questi non lo riconobbe. Entrambi si prostrarono davanti alla reliquia della Croce e piansero a lungo di allegria. Poi uscirono alla ricerca dei tre confratelli che mancavano all'appello. Sul far del giorno i cinque Staurophylakes, travestiti, si incamminarono alla volta di Santa Caterina del Sinai, dove rimasero nascosti fino all'arrivo di Catone LXXVII, accompagnato da una nutrita scorta. Fu allora che Catone scrisse la sua felice cronaca, al termine della quale annunciava che gli Staurophylakes si sarebbero ritirati per sempre nel Paradiso Terrestre, trovato nel frattempo dagli altri confratelli.
«Ma non dice dove!» protestai, rigirando il foglio tra le mani. «Credo che dovremmo leggere fino alla fine.» «Vedrai che non lo dice.» Ed effettivamente Catone LXXVII non svelava l'ubicazione del Paradiso Terrestre. Accennava solo che si trovava in un paese assai lontano e che pertanto, completati i preparativi del lungo viaggio, doveva concludere la sua cronaca e mettersi immediatamente in marcia. Prima di affidare il codice alle cure dei monaci di Santa Caterina, nella cui biblioteca era rimasto per nove secoli, annunciava, non senza dolore, che la storia della Confraternita non si sarebbe più scritta in quel luogo. Concludeva: «I miei successori continueranno nel nostro nuovo rifugio. Laggiù proteggeremo quel poco che la malvagità degli uomini ha lasciato del Legno Santo. Il nostro destino è segnato. Che Dio ci protegga». «Punto e basta», conclusi, lasciando cadere il foglio, scoraggiata. Come due statue di sale, Farag e io restammo muti e immobili per un bel po', impossibilitati a credere che tutto fosse finito e che ci trovassimo di nuovo daccapo. Ovunque fosse il Paradiso Terrestre degli Staurophylakes, lì si trovavano anche i Ligna Crucis rubati nelle chiese cristiane. Ma, a parte la soddisfazione di sapere chi fossero i ladri, non avevamo molto di cui rallegrarci. Indagando per mesi, con tutte le risorse dell'Archivio Segreto e della Biblioteca Vaticana a nostra disposizione su ordine del Papa, passando ore e ore rinchiusi nell'Ipogeo con tutto il personale impegnato senza sosta... con tutti questi sforzi, non eravamo giunti praticamente a niente. Tirai un profondo sospiro e lasciai cadere la testa di colpo, fino ad appoggiare il mento sul petto. Le mie stanche vertebre cervicali crocchiarono come un tappeto di vetri rotti. Da quando era cominciata quella storia non ero riuscita a dormire bene neppure una notte. Quando non era per l'insonnia, era perché mi svegliavo al minimo rumore che si udisse nella stanza della Domus: il piccolo frigorifero, il legno dei mobili, l'orologio sul muro, il vento sulla persiana... E quando dormivo ero tormentata da sogni lunghi e faticosi in cui mi capitavano le cose più strane del mondo. Non erano propriamente incubi, ma spesso erano davvero spaventosi, come quella notte. Mi vedevo avanzare
in un cantiere stradale, costretta a passare sopra scavi pericolosi percorrendo assi malferme o aggrappandomi a corde. Dopo la frustrante conclusione della nostra avventura e senza più notizie del capitano, Farag e io eravamo tornati alla Domus, avevamo cenato e ci eravamo ritirati nelle nostre camere con lo scoramento dipinto sul viso. Mi sentivo delusa, nonostante Farag avesse cercato di consolarmi dicendo che, dopo avere riposato, saremmo stati in grado di trovare quello che cercavamo nella storia dei Catoni. Mi ero messa a letto in uno stato di profondo abbattimento che mi condusse nella strada con gli scavi a cielo aperto. Ero appesa a una corda, con il vuoto sotto di me, quando il trillo del telefono mi fece sussultare nel letto. Spalancai gli occhi nell'oscurità. Non sapevo dove mi trovassi, né cosa fosse il baccano che stavo sentendo, né se sarei riuscita a impedire che il cuore mi balzasse fuori dalla bocca. Ma ero sveglia, con i sensi allerta. Quando fui capace di reagire, mi localizzai nello spaziotempo, diedi una manata all'interruttore della luce e risposi al telefono senza tanti complimenti: «Sì?» grugnii, mostrando i denti al ricevitore. «Dottoressa?» «Capitano? Ma... per l'amor del cielo, lo sa che ora è?» E misi faticosamente a fuoco l'orologio appeso alla parete di fronte. «Le tre e mezzo», rispose Glauser-Röist, imperturbabile. «Le tre e mezzo del mattino, capitano!» «Il professor Boswell scenderà tra cinque minuti. Sono alla reception. La prego di sbrigarsi, dottoressa. Quanto le ci vorrà per essere pronta?» «Pronta per cosa?» «Per andare all'Ipogeo.» «All'Ipogeo? Adesso?» «Vuole venire o no?» Il capitano stava perdendo la pazienza. «Vengo, vengo. Mi dia cinque minuti.» Andai in bagno e accesi la luce. Il flusso bianco del neon mi ferì gli occhi. Mi lavai faccia e denti, mi spazzolai i capelli annodati e, tornata in camera, indossai rapidamente una gonna nera e un pesante maglione di lana beige. Presi giacca e borsetta e uscii in corridoio, avviluppata da una sensazione di irrealtà, come se fossi passata direttamente dai ponteggi del mio sogno all'ascensore della Domus. Mentre scendevo, chiesi a Dio che non mi trascurasse anche se io, per pura stanchezza, avrei potuto trascurare Lui. Farag e Glauser-Röist mi aspettavano nell'enorme vestibolo rilucente,
parlando concitatamente a sussurri. Farag, mezzo addormentato, si tirava indietro i ciuffi spettinati con gesti nervosi, mentre il capitano, impeccabile, aveva un'aria sorprendentemente fresca e lucida. «Andiamo», disse, appena mi vide, e si avviò verso la strada senza voltarsi a guardare se lo stessimo seguendo. Il Vaticano è lo Stato più piccolo del mondo, ma percorrerne un buon tratto a piedi, poco prima delle quattro del mattino, al freddo e nel silenzio assoluto, è come attraversare senza soste gli Stati Uniti da una costa all'altra. Incrociammo alcune limousine nere targate Se Cristo Vedesse, che ci illuminarono fugacemente coi loro fari e si persero per le viuzze della Città, fuggendo dalla nostra presenza. «Dove andranno quei cardinali a quest'ora?» domandai, sorpresa. «Non vanno da nessuna parte», rispose seccamente Glauser-Röist. «Tornano. Ed è meglio non chiedere da dove, perché la risposta non le piacerebbe.» Chiusi la bocca come se me l'avessero cucita e mi dissi che, tutto sommato, il capitano aveva ragione. Le vite private di molti cardinali della Curia erano disordinate e indecorose, ma quello era un problema delle loro coscienze. «E non temono scandali?» volle sapere Farag, nonostante il tono con cui il capitano aveva chiuso l'argomento. «Che succederebbe se ne parlassero i giornali?» Glauser-Röist continuò a camminare in silenzio per qualche istante. «Questo è il mio lavoro», rispose poi. «Impedire che i panni sporchi del Vaticano vengano alla luce. La Chiesa è santa, ma senza dubbio alcuni suoi membri sono peccatori.» Il professore e io ci scambiammo un'occhiata densa di significati e non aprimmo più bocca finché non fummo nell'Ipogeo. Il capitano aveva le sue chiavi e i codici di tutte le porte dell'Archivio Segreto. Vedendolo procedere con tanta sicurezza, fu chiaro che non era la prima notte che entrava da solo in quegli uffici. Finalmente raggiungemmo il mio laboratorio, che ormai non era più l'ufficio ben ordinato di qualche mese prima. Un grosso libro appoggiato sulla scrivania richiamò la mia attenzione. Ne fui attirata come da una calamita, ma Glauser-Röist, più rapido, mi sorpassò sulla destra e lo prese tra le sue manone, senza lasciarmelo vedere. «Dottoressa, professore», cominciò, obbligandoci a sederci per prestargli la debita attenzione. «Ho tra le mani un libro, una sorta di guida di viaggio,
che ci porterà fino al Paradiso Terrestre.» «Non mi dica che gli Staurophylakes hanno pubblicato un Baedeker!»10 commentai, sarcastica. Il capitano mi fulminò con lo sguardo. «Qualcosa di simile», rispose, girando il volume per mostrarcene la copertina. Per un momento Farag e io restammo in sospeso, senza dire nulla, sorpresi come due collegiali davanti a una cerimonia vudù. «La Divina Commedia di Dante?» dissi, sorpresa. O il capitano si stava facendo beffe di noi, o, il che era peggio, era uscito completamente di senno. «La Divina Commedia di Dante, precisamente.» «Ma... quella di Dante Alighieri?» chiese a sua volta Farag, più preoccupato di me, se ciò era possibile. «Ci sono forse altre Divine Commedie, professore?» obiettò GlauserRöist. «È solo che...» balbettò Farag, incredulo. «È solo che, capitano, riconosca che non ha molto senso.» Rise sommessamente, come se avesse appena finito di raccontare una barzelletta. «Andiamo, capitano, non ci prenda in giro!» Per tutta risposta, Glauser-Röist si sedette sopra la mia scrivania e aprì il libro a una pagina segnata da un post-it rosso. «Purgatorio», recitò, come uno scolaro diligente. «Canto I, verso 31 e seguenti. Dante giunge con il suo maestro Virgilio alle porte del Purgatorio e dice: Vidi presso di me un veglio solo degno di tanta reverenza in vista che più non dee a padre alcun figliolo. Lunga la barba e di pel bianco mista portava, a' suoi capelli simigliante, de quai cadeva al petto doppia lista. Li raggi delle quattro luci sante fregiavan sì la sua faccia di lume ch'i'l vedea come Ί sol fosse davante». Il capitano ci guardò, in attesa. «Molto bello, sì», commento Farag.
«Poetico, senz'altro», confermai io, cinicamente. «Ma non vedete?» si disperò Glauser-Röist. «Che cos'è che vuole che vediamo?» chiesi io. «Il vecchio. Non lo riconoscete?» Davanti ai nostri sguardi attoniti e alle nostre espressioni di assoluta incomprensione, il capitano sospirò con rassegnazione e adottò l'aria paziente di un maestro elementare. «Virgilio obbliga Dante a prostrarsi rispettosamente davanti al vecchio, il quale domanda loro chi essi siano. Virgilio glielo spiega e gli dice che, su richiesta di Gesù Cristo e di Beatrice, la defunta amata di Dante, sta mostrando al poeta i regni dell'oltretomba.» Voltò pagina e riprese a recitare: «Mostrata ho lui tutta la gente ria e ora intendo mostrar quelli spirti che purgan sé sotto la tua balia... Or ti piaccia gradir la sua venuta: libertà va cercando, ch'è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta. Tu'l sai, che non ti fu per lei amara in Utica la morte, ove lasciasti la vista ch'al gran dì sarà sì chiara». «Utica! Catone!» gridai. «Il vecchio è Catone l'Uticense!» «Finalmente! Questo volevo che capiste», spiegò Glauser-Röist. «Catone l'Uticense, colui che diede il nome agli archimandriti degli Staurophylakes, è il guardiano del Purgatorio nella Divina Commedia di Dante. Non vi sembra significativo? Le tre cantiche dell'Inferno, del Purgatorio e del Paradiso furono pubblicate separatamente, pur formando un'opera unica. Osservate le coincidenze tra il testo dell'ultimo Catone e il testo dantesco del Purgatorio.» Sfogliò le pagine avanti e indietro e cercò sulla mia scrivania la copia trascritta dell'ultimo bifolio del Codice Iyasus. «Nel verso 82, Virgilio dice a Catone: 'Lasciane andar per li tuoi sette regni'. Ebbene, Dante deve mondare i sette peccati capitali, uno per ogni girone o cornice del monte del Purgatorio: superbia, invidia, ira, accidia, avarizia, gola e lussuria», enumerò. Poi prese la copia del bifolio e lesse: «'Espieranno i sette gravi peccati capitali nelle sette città che ostentano il terribile privilegio di esser conosciute per averli perversamente praticati. E dunque
Roma per la superbia, Ravenna per l'invidia, Gerusalemme per l'ira, Atene per l'accidia, Costantinopoli per l'avarizia, Alessandria per la gola e Antiochia per la lussuria. In ciascuna di esse, come fosse un Purgatorio in terra, sconteranno le loro colpe per entrare nel luogo segreto che noi, gli Staurophylakes, chiameremo Paradiso Terrestre. «E in cima al monte del Purgatorio di Dante c'è il Paradiso Terrestre?» domandò Farag, interessato. «Infatti», confermò Glauser-Röist, «la seconda parte della Divina Commedia si conclude quando Dante, dopo essersi purificato dei sette peccati capitali, giunge al Paradiso Terrestre, da dove potrà raggiungere il Paradiso Celeste, che corrisponde alla terza e ultima parte dell'opera. Ma adesso ascoltate che cosa dice Dante dell'angelo guardiano della porta del Purgatorio quando questi lo supplica di lasciarlo passare: Sette Ρ nella fronte mi descrisse col punton della spada e: 'Fa che lavi, quando se' dentro, queste piaghe' disse.»11 «Sette P, una per ogni peccato capitale», concluse il capitano. «Capite? Dante si libererà di esse, a una a una, espiando i suoi peccati lungo le sette cornici del Purgatorio. E gli Staurophylakes marchiano i loro adepti con sette croci, una per ogni peccato capitale superato nelle sette città.» Non sapevo che cosa pensare. Che Dante fosse stato uno Staurophylax? Mi sembrava alquanto assurdo. Avevo la sensazione che stessimo navigando in acque torbide e che la stanchezza ci facesse perdere la prospettiva. «Capitano, come fa a esserne così sicuro?» chiesi, senza poter evitare che quei dubbi si riflettessero nella mia voce. «Guardi, dottoressa, conosco quest'opera come il palmo della mia mano. L'ho studiata a fondo all'università e posso garantirle che il Purgatorio di Dante è il Baedeker, come lei ha detto, che ci condurrà agli Staurophylakes e ai Ligna Crucis rubati.» «Ma come fa a esserne così sicuro?» insistetti, ostinata. «Potrebbe essere una coincidenza. Tutto il materiale che Dante utilizza nella Divina Commedia fa parte della mitologia cristiana medioevale.» «Ricorda che a metà del XII secolo vari gruppi di Staurophylakes partirono da Gerusalemme, diretti alle principali città cristiane d'Oriente e Occidente?» «Sì, lo ricordo.»
«E ricorda anche che questi gruppi entrarono in contatto con i Catari, la Fede Santa, la Massenie du Saint Graal, i Minnesänger e i Fedeli d'Amore, per citare solo alcune di quella organizzazioni di carattere cristiano e iniziatico?» «Sì, ricordo anche questo.» «Ebbene, mi lasci dirle che Dante Alighieri faceva parte dei Fedeli d'Amore fin dalla prima giovinezza e giunse a occupare un posto molto importante nella Fede Santa.» «Sul serio?» balbettò Farag, confuso, battendo le palpebre. «Dante Alighieri?» «Perché crede, professore, che la gente non capisca niente quando legge La Divina Commedia? A tutti sembra un bel poema, lunghissimo, carico di metafore che gli studiosi interpretano sempre come allegorie riferite alla Santa Chiesa Cattolica, ai sacramenti o a qualsiasi altra sciocchezza del genere. E tutto il mondo pensa che Beatrice, la sua amata Beatrice, fosse la figlia di Folco Portinari, e che morì di parto a vent'anni. Invece no, non è così, e per questo non si capisce che cosa dice il poeta: perché si legge la Commedia da un punto di vista errato. Beatrice Portinari non è la Beatrice di cui parla Dante, né tantomeno è la Chiesa Cattolica la grande protagonista dell'opera. Bisogna leggerla in chiave, come insegnano altri specialisti.» Si allontanò dalla scrivania e dalla tasca interna della giacca estrasse un foglio ripiegato meticolosamente. «Poiché ognuna delle tre parti della Divina Commedia è divisa esattamente in trentatré Canti e ognuno di questi Canti è formato esattamente da centoquindici o centosessanta versi, cifre la cui somma dà sette... non credo sia un caso, in un'opera così colossale. Inoltre le tre cantiche si concludono tutte con la stessa parola, 'stelle': dal simbolismo astrologico.» Respirò profondamente. «E tutto ciò non è che una piccola parte dei misteri contenuti in quest'opera. Potrei citarvene a dozzine, ma non finiremmo più.» Farag e io lo guardammo, intontiti. Non mi sarebbe mai passato per la testa che l'opera somma della letteratura italiana, quella che a scuola avevo imparato a detestare, tanto ce la facevano studiare, potesse essere un compendio di sapienza esoterica... Oppure no? «Capitano, ci sta dicendo che La Divina Commedia è una specie di libro iniziatico?» «No, dottoressa. Non le sto dicendo che è una specie di libro iniziatico. Le sto dicendo, tassativamente, che lo è. Senza il minimo dubbio. Vuole altre prove?» «Io sì», si fece avanti Farag, entusiasta.
Il capitano riprese il libro, che aveva deposto sopra la scrivania, e lo aprì a un'altra pagina segnata. «Canto IX dell'Inferno, verso dal 61 al 63: O voi ch'avete l'intelletti sani, mirate la dottrina che s'asconde sotto 'l velame de li versi strani.» «Tutto qui?» chiesi, delusa. «Osservi, dottoressa», mi spiegò Glauser-Röist, «che questi versi si trovano nel Canto IX, e il nove, nella simbologia numerica medioevale, è la Sapienza, la Conoscenza Suprema, la Scienza che spiega il mondo ai margini della fede. Oltretutto, questa misteriosa affermazione si trova tra i versi dal 61 al 63, le cui somme danno rispettivamente sette e nove. E ricordi che in Dante nulla è casuale, neppure una virgola: l'Inferno ha nove gironi, dove si trovano le anime dei condannati in base ai loro peccati, il Purgatorio sette cornici e il Paradiso di nuovo nove cieli. Sette e nove, vi rendete conto? Ma vi ho promesso altre prove e intendo darvele.» Mi stava innervosendo, col suo passeggiare avanti e indietro, ma non ritenni opportuno chiedergli di stare quieto. Sembrava profondamente concentrato in quanto ci stava raccontando. «Secondo la maggioranza degli specialisti, Dante entrò a far parte dei Fedeli d'Amore nel 1283, a diciotto anni, poco dopo il suo teorico secondo incontro con Beatrice. Il primo, stando a ciò che racconta lui stesso ne La vita nuova, risaliva a quando entrambi avevano nove anni e, come vedete, il secondo fu nove anni più tardi. I Fedeli d'Amore costituivano una società segreta interessata al rinnovamento spirituale della cristianità. Stiamo parlando di un'epoca in cui la corruzione aveva già preso piede nella Chiesa di Roma: ricchezze, potere, ambizione... Era l'epoca del papato di Bonifacio VIII, di terribile memoria. I Fedeli d'Amore intendevano combattere quella depravazione e restituire al cristianesimo le sua primitiva purezza. Si dice persino che i Fedeli d'Amore, la Fede Santa e i Francescani fossero tre rami diversi dell'Ordine dei Templari. Ma questo, naturalmente, è indimostrabile. Quello che è certo è che Dante si formò presso i Francescani e che mantenne sempre con loro una stretta relazione. Tra i Fedeli d'Amore si contano i poeti Guido Cavalcanti, Cino da Pistoia, Lapo Gianni, Forese Donati, lo stesso Dante, Guido Guinizzelli, Dino Frescobaldi, Guido Orlandi e altri. Cavalcanti, che ebbe sempre fama di stravagante ed eretico, era il capo fiorentino dei Fedeli d'Amore, e fu lui ad ammettere Dante nella
società segreta. Come uomini colti, come intellettuali di una nuova società medioevale in fieri, erano anticonformisti e denunciavano a gran voce l'immoralità ecclesiastica e l'intento di Roma di soffocare le libertà nascenti e la conoscenza scientifica. Può essere dunque La Divina Commedia, come dicono, quella grande opera religiosa che celebra la Chiesa Cattolica, così come i suoi valori e le sue virtù? Io credo di no. E di fatto, già dalla più semplice lettura del testo è evidente il rancore di Dante contro numerosi papi e cardinali, contro il marciume della gerarchia clericale e contro le ricchezze della Chiesa. Nondimeno, gli studiosi ufficiali hanno travisato le parole del poeta fino a fargli dire quello che non dice.» «Ma che cosa c'entra Dante con gli Staurophylakes?» volle sapere Farag. «Mi scusi», mormorò il capitano. «Mi sto lasciando trasportare. Quello che voglio dire è che Dante ebbe relazioni con gli Staurophylakes. Li conobbe ed è possibile anche che abbia fatto parte della Confraternita, per un certo tempo. Ma naturalmente in seguito li tradì.» «Li tradì?» Ero sorpresa. «Perché?» «Perché raccontò i loro segreti, dottoressa. Perché spiegò dettagliatamente, nel Purgatorio, la loro procedura di iniziazione. Un po' come fece Mozart nella sua opera Il flauto magico, raccontando il rituale iniziatico della Massoneria, della quale era membro. Ricordate che la morte di Mozart presenta molti aspetti enigmatici? Non c'è dubbio che Dante sia stato uno Staurophylax e che abbia approfittato delle loro conoscenze per trionfare come poeta, per arricchire la sua opera letteraria.» «Gli Staurophylakes non glielo avrebbero permesso. Lo avrebbero eliminato.» «E chi le dice che non lo abbiano fatto?» Spalancai la bocca. «Lo fecero?» «Lo sa che, dopo avere pubblicato il Purgatorio, nel 1315, Dante scomparve per quattro anni? Non si seppe niente di lui fino al gennaio del 1320, quando...» Inspirò e ci guardò fisso. «Quando riapparve a sorpresa a Verona, per tenere una conferenza sul mare e la terra nella chiesa... di Sant'Elena! Perché proprio lì, dopo quattro anni di silenzio? Stava cercando di chiedere perdono per ciò che aveva fatto con il Purgatorio? Non lo sapremo mai. Sappiamo che, appena concluso il discorso, partì a cavallo per Ravenna, città governata dal suo grande amico Guido Novello da Polenta. È ovvio che cercava protezione, perché quello stesso anno ricevette un invito a dare lezioni presso l'Università di Bologna, ma rifiutò l'offerta dichiarando di avere paura: se lasciava Ravenna, correva gravi pericoli, non
meglio specificati, il che storicamente è incomprensibile...» Il capitano tacque un momento, per riflettere. «Disgraziatamente, un anno dopo, il suo amico Novello gli chiese il favore specialissimo di intercedere presso il Doge di Venezia, che era sul punto di invadere i suoi territori. Dante partì, ma tornò dal viaggio in preda a una malattia mortale, con febbri terribili che lo portarono rapidamente alla morte. Sapete in che giorno morì?» Farag e io non dicemmo mezza parola. Forse non respiravamo neanche. «Il quattordici settembre, festa dell'Esaltazione della Vera Croce.» 3 Naturalmente, né io né il professore ci presentammo all'Ipogeo il mattino seguente, visto che eravamo tornati a dormire poco dopo l'alba, con i nervi a fior di pelle dopo le incredibili scoperte del capitano. A mezzogiorno, tuttavia, rieccoci tutti e tre insieme, riuniti intorno a un tavolo del ristorante della Domus, con facce così assonnate che avrebbero spaventato anche un fantasma. A dire il vero Glauser-Röist, l'ultimo ad arrivare, più che sonnolenza esibiva un rictus gelido che mi preoccupò. «È successo qualcosa, capitano? Ha una brutta faccia.» «No», rispose lui, seccamente, sedendosi e dispiegando il tovagliolo sulle ginocchia. Non ne voleva parlare, era evidente. Farag e io ci scambiammo un'occhiata, come se ci leggessimo il pensiero. Meglio non insistere. Perciò intavolammo una conversazione sul futuro del professor Boswell in Italia, mentre la Roccia restava chiuso nel suo mutismo. Solo al dessert si degnò di aprire bocca e fu, una volta di più, per darci una brutta notizia. «Sua Santità è profondamente insoddisfatto», disse, a sorpresa. «Non credo che ne abbia motivo», protestai. «Abbiamo lavorato il più in fretta possibile.» «Non è sufficiente, dottoressa. Sua Santità mi ha comunicato che non è per nulla contento dei nostri risultati. Se in breve tempo non otteniamo qualcosa di concreto, un'altra squadra si occuperà dell'operazione. Inoltre, la notizia del furto dei Ligna Crucis è stata lì lì per arrivare alla stampa.» «Com'è possibile?» chiesi, allarmata. «Molta gente in tutto il mondo è a conoscenza dei fatti. Qualcuno ha parlato più del necessario. Siamo riusciti a fermare la notizia all'ultimo minuto, ma non sappiamo quanto a lungo potremo riuscirci.» Farag si pizzicò il labbro inferiore, meditabondo. «Credo che il vostro
Papa si sbagli», disse alla fine. «Non capisco che cosa speri di ottenere minacciando di sostituirci. Pensa che così potremo lavorare di più? A me non disturberebbe dividere con altri ciò che sappiamo. Quattro occhi vedono meglio di due, non vi pare? O il vostro Pontefice è molto deluso, oppure ci tratta come bambini piccoli.» «È molto deluso», chiarì la Roccia. «Quindi torniamo al lavoro.» In meno di mezz'ora eravamo nell'Ipogeo, seduti intorno alla mia scrivania. Il capitano propose di dare inizio a una lettura completa e individuale della Divina Commedia, prendendo nota ogniqualvolta un elemento attirasse la nostra attenzione e riunendoci alla fine della giornata per condividere le osservazioni. Farag si oppose all'idea, argomentando che l'unica parte di nostro interesse era la seconda, il Purgatorio, e che alle altre due, Inferno e Paradiso, avremmo dovuto prestare meno attenzione. Meglio non perdere tempo e concentrarci soprattutto su quella più importante. Di fronte al pericolo, assunsi una posizione nettamente contraria: con il cuore in mano, ammisi che odiavo a morte la Divina Commedia, che a scuola i miei professori di lettere erano riusciti a farmela aborrire e che mi sentivo incapace di leggere quel mattone. Quindi la cosa migliore era andare al sodo e saltare il resto a piè pari. «Ma, Ottavia», protestò Farag, «potrebbero sfuggirci inavvertitamente moltissimi dettagli importanti.» «Nient'affatto», affermai. «Perché abbiamo con noi il capitano? Non solo questo libro è la sua passione, ma conosce l'opera e l'autore a menadito. Che sia il capitano a fare una lettura completa, mentre noi lavoriamo sul Purgatorio.» Glauser-Röist strinse le labbra, ma non disse nulla. Sembrava piuttosto disgustato. E così ci mettemmo al lavoro. Quello stesso pomeriggio la Segreteria Generale della Biblioteca Vaticana ci fornì altre due copie della Divina Commedia e io feci la punta alle matite e preparai i taccuini, pronta ad affrontare per la prima volta dopo vent'anni, se non di più, quella che consideravo la lettura più pesante di tutta la storia dell'umanità. Credo di non drammatizzare eccessivamente se dico che mi sentivo straziata alla sola vista di quel volume, in minacciosa attesa sulla mia scrivania, con il profilo cascante e aquilino di Dante in copertina. Non che non fossi in grado di leggere il magnifico testo dantesco. Ne avevo letti di ben più difficili, nella mia vita: volumi interi dal tedioso contenuto scientifico o manoscritti me-
dioevali di noiosissima teologia patristica. Era solo che avevo in mente il ricordo di quei lontani giorni di scuola in cui ci facevano leggere e rileggere i passi più noti della Divina Commedia, ripetendoci fino alla nausea che quel poema così pesante e incomprensibile era uno dei grandi orgogli d'Italia. Dieci minuti dopo essermi seduta, feci nuovamente la punta alle matite. Quando ebbi terminato, decisi che dovevo andare in bagno. Tornai di lì a poco e mi sedetti nuovamente, ma già cinque minuti dopo mi si chiudevano gli occhi dal sonno. Decisi di salire alla caffetteria, dove ordinai un espresso, che bevvi con tutta calma. Tornai svogliatamente all'Ipogeo e in quel momento mi parve un'idea eccellente riordinare i cassetti per disfarmi dell'ingente quantità di carte e cartacce inutili che si ammonticchiano inutilmente negli angoli, anno dopo anno, come per magia. Alle sette di sera, sferzata dal senso di colpa, raccolsi le mie cose per tornare all'appartamento in Piazza delle Vaschette, dove non mi si vedeva da giorni. Ma non prima di avere salutato Farag e il capitano, che negli uffici adiacenti al mio erano assorti nella lettura e profondamente commossi dal capolavoro della letteratura italiana. Nel breve tragitto verso casa mi feci un severo sermone su temi quali la responsabilità, il dovere e il compimento degli obblighi assunti. Avevo lasciato quei due poveri disgraziati (così li vedevo in quel momento) a lavorare coscienziosamente, mentre io scappavo come una scolaretta capricciosa. Giurai a me stessa che il giorno seguente, di buon mattino, mi sarei seduta alla scrivania e avrei messo mano all'opera senza ulteriori indugi. Quando aprii la porta di casa, un intenso profumo di sugo alla bolognese mi aggredì le narici. I miei succhi gastrici si risvegliarono furiosi e cominciarono a ruggire. Ferma si affacciò in fondo al corridoio e mi sorrise a mo' di benvenuto, senza nascondere tuttavia un'espressione preoccupata che notai immediatamente. «Ottavia! Quanti giorni senza tue notizie!» esclamò felice. «Meno male che sei tornata!» Mi avvicinai, per annusare il piacevole odorino che usciva dalla cucina. «Posso avere per cena un po' dell'appetitosa pasta al ragù che stai preparando?» domandai, togliendomi la giacca. «Sono solo semplici spaghetti», protestò lei, con falsa modestia. La verità è che Ferma cucinava meravigliosamente. «Be', ho proprio bisogno di un piatto di spaghetti col ragù fatto in casa.» «Non preoccuparti, fra poco si cena. Margherita e Valeria arriveranno
presto.» «Dove sono andate?» Ferma mi guardò con rimprovero e si immobilizzò a due passi da me. I suoi capelli davano l'impressione di diventare ogni giorno più bianchi. «Ottavia... non ti ricordi di domenica?» Domenica... domenica... Che cosa dovevamo fare domenica? «Non farmi pensare, Ferma!» mi arresi. Andai in salotto. «Che cosa succede domenica?» «È la quarta domenica di Pasqua!» esclamò lei, come se fosse la fine del mondo. Rimasi di ghiaccio, senza reagire. Era la domenica del Rinnovo dei Voti e io me n'ero dimenticata. «Mio Dio», gemetti. Ferma scosse tristemente il capo e usci dal salotto. Non osava rimproverarmi, sapendo che la mia vergognosa dimenticanza era dovuta allo strano lavoro in cui ero coinvolta e a causa del quale ero sparita da casa, isolandomi da loro e dalla mia famiglia. Ma io sì che me la presi con me stessa. Come se quel giorno ne avessi bisogno, Dio mi castigava con un nuovo rimorso. Sola e a capo chino, lasciai perdere momentaneamente la cena e andai direttamente in cappella, a chiedere perdono per la mia colpa. Non era tanto per avere scordato il rinnovo giuridico dei voti, un mero atto formale che avrebbe avuto luogo quella domenica, ma piuttosto per avere dimenticato un momento molto importante che da quando mi ero fatta suora era sempre stato gioioso e intenso. È vero che potevo essere considerata una suora atipica, dati l'eccezionalità del mio lavoro e il trattamento di favore che mi riservava il mio Ordine, ma niente nella mia vita avrebbe più avuto alcun senso se il suo fondamento, il mio rapporto con Dio, non fosse stato per me la cosa più importante. Perciò pregai, col cuore appesantito dal dolore, e promisi di sforzarmi maggiormente di seguire Cristo, affinché il mio nuovo Rinnovo dei Voti fosse anche un rinnovo del mio impegno, pieno di giubilo e allegria. Quando sentii rientrare Margherita e Valeria, mi feci il segno della croce e mi alzai da terra, appoggiandomi ai cuscini su cui mi ero seduta, non senza soffrire un vasto assortimento di dolori articolari. Forse sarebbe stata una buona idea rinunciare una volta per tutte all'arredamento moderno della cappella per sostituirlo con uno più classico, fatto di sedie o inginocchiatoi. La vita sedentaria cominciava a presentarmi il conto: oltre alla cervicale a pezzi, mi bastava restare immobile per un po' per sentire dolori alle ginocchia. Mi stavo convertendo, a tappe forzate, in una vecchia piena
di acciacchi. Dopo avere cenato con le sorelle e prima di ritirarmi nella mia stanzetta che stava ormai diventandomi estranea, telefonai in Sicilia. Parlai prima con mia cognata Rosalia, la moglie del mio fratello maggiore, Giuseppe. Poi parlai con Giacoma, che le strappò di mano il ricevitore e mi fece una ramanzina per non essermi fatta viva per così tanti giorni. Di colpo, senza preavviso, mi disse «Ciao» e subito dopo sentii la voce dolce di mia madre. «Ottavia?» «Sì, mamma. Come stai?» chiesi, contenta. «Bene, figliola, bene. Qui va tutto bene. E tu come stai?» «Lavoro molto, come sempre.» «Bene, vai avanti così, molto bene.» La sua voce era allegra, senza preoccupazioni. «Sì, mamma.» «Bene, tesoro, riguardati. Lo farai?» «Certo.» «Chiama presto, mi fa molto piacere sentirti. A proposito, domenica prossima hai il Rinnovo dei Voti?» Mia madre non scordava mai certe date importanti nelle vite dei figli. «Sì.» «Sii felice, figlia mia. Pregheremo tutti per te alla messa, in casa. Un bacio, Ottavia.» «Un bacio, mamma. Ciao.» Quella notte dormii con un sorriso felice sulle labbra. Alle otto in punto del mattino, come mi ero ripromessa la sera prima, ero seduta di fronte alla mia scrivania, con gli occhiali sul naso e la matita in mano, pronta finalmente ad affrontare l'obbligo di leggere La Divina Commedia. Aprii il libro, nuovo e intonso, a pagina 270. Al centro si leggeva, in piccolo, la parola PURGATORIO Con un sospiro, mi armai di coraggio, voltai pagina e cominciai a leggere. Per correr miglior acque alza le vele
omai la navicella del mio ingegno che lascia dietro a sé mar sì crudele. E canterò di quel secondo regno dove l'umano spirito si purga e di salire al ciel diventa degno.12 Così dicevano i primi versi di Dante. Il viaggio per il secondo regno aveva inizio, secondo la nota a piè di pagina, il 10 aprile dell'anno 1300, domenica di Pasqua, intorno alle sette del mattino. Nel Canto I, Virgilio e Dante passavano dall'Inferno all'Antipurgatorio, una sorta di pianura solitaria dove incontrano immediatamente il guardiano, Catone l'Uticense, che li rimprovera aspramente per la loro presenza. Tuttavia, come ci aveva raccontato Glauser-Röist, una volta che Virgilio spiega che Dante dev'essere istruito sui regni dell'oltretomba, Catone offre loro ogni aiuto possibile per iniziare il duro cammino. Va dunque e fa che tu costui ricinghe d'un giunco schietto e che li lavi l viso sì che d'ogni sudiciume quindi stinghe; ché non si convenía l'occhio sorpriso d'alcuna nebbia andar dinanzi al primo ministro ch'è di quel paradiso. Questa isoletta intorno ad imo ad imo là giù colà dove la batte l'onda porta de' giunchi sovra 'l molle limo. Virgilio e Dante si dirigono dunque giù per la pianura, fino al mare, e il grande poeta di Mantova passa le palme delle mani sull'erba umida di rugiada, per lavare la sporcizia che il viaggio all'Inferno ha lasciato sul viso del fiorentino. Poi, giunti a una spiaggia deserta, di fronte alla quale si trova l'isoletta, Virgilio lo cinge con un giunco, come ordinato da Catone. Nei sette Canti successivi, dalla mattina di quel giorno fino a sera, Virgilio e Dante percorrono l'Antipurgatorio, incontrando vecchi amici e conoscenti con cui intavolano conversazioni. Nel Canto III giungono finalmente ai piedi del monte del Purgatorio, sul quale si trovano sette cornici, dove
le anime si purificano dei loro peccati per poter entrare in cielo. Dante osserva che le pareti sono scoscese e impossibili da scalare. In quel mentre, si avvicina loro una turba di anime che camminano lentamente: sono gli scomunicati, che si pentirono delle loro colpe in punto di morte, condannati a girare lentamente intorno al monte. Nel Canto IV, Dante e Virgilio trovano uno stretto sentiero, seguendo il quale cominciano l'ascesa, servendosi delle mani e dei piedi. Raggiunto uno spiazzo pianeggiante, appena ripreso fiato, Dante si lamenta della sua terribile stanchezza. Allora una voce misteriosa li chiama da dietro una roccia. Avvicinandosi a essa, i due poeti scoprono un secondo gruppo di anime, quelle dei pigri a pentirsi. Proseguendo, nel Canto V, si imbattono in coloro che morirono di morte violenta e ritrattarono i loro peccati all'ultimo istante. Nel Canto VI ha luogo un incontro sommamente emozionante: Dante e Virgilio trovano l'anima del famoso trovatore Sordello da Goito, che nel Canto successivo li accompagna fino alla valle dei principi negligenti e che spiega loro che dopo il tramonto dovranno fermarsi e cercare rifugio, perché andar su di notte non si puote.13 Dopo varie conversazioni con i principi della valle, ha inizio il Canto IX, in cui, fedele al suo numero preferito, Dante colloca la vera entrata del Purgatorio. Naturalmente, non rende le cose facili: secondo la nota a piè di pagina, nella Commedia in questo momento sono le tre del mattino e Dante, unico mortale presente, cede al sonno e si addormenta come un bambino sull'erba. E a questo punto sogna un'aquila che piomba dal cielo come un lampo, lo afferra tra gli artigli e lo solleva in aria. Spaventato, Dante si sveglia e scopre che è già mattina e che di fronte a lui c'è il mare. Virgilio, calmo, lo invita a non avere paura: sono finalmente giunti alle soglie del Purgatorio. E gli racconta che, mentre lui dormiva, è venuta una dama che ha detto di essere Santa Lucia. Costei, prendendolo tra le braccia, lo ha portato fino a lì, indicando con lo sguardo a Virgilio il cammino che avrebbero dovuto seguire. Mi piacque il riferimento alla santa protettrice della vista, una delle patrone della Sicilia insieme a Sant'Agata, da cui il nome di due delle mie sorelle. Scossosi dal suo torpore, Dante segue con Virgilio il sentiero indicato da Lucia fino a trovarsi di fronte a una scala di tre gradini, in cima alla quale, davanti a una porta, si trova l'angelo guardiano del Purgatorio, il primo dei ministri del Paradiso di cui aveva parlato loro Catone. «Dite costinci: che volete voi?»
cominciò elli a dire: «Οv'è la scorta? Guardate che 'l venir su non vi noi.» «Donna del ciel, di queste cose accorta», rispose il mio maestro a lui, «pur dianzi ne disse: 'Andate là: quivi è la porta'.»14 L'angelo guardiano, che impugna una spada nuda e sfolgorante, li invita a salire fino a lui. Il primo gradino è di marmo bianco e rilucente, il secondo di pietra nera, ruvida e arida, il terzo di porfido rosso sangue. A quanto pareva, secondo la nota a piè di pagina, tutto questo passo era un'allegoria del Sacramento della Confessione: l'angelo raffigurava il sacerdote e la spada le parole di questi, che muovono alla penitenza. Sicuramente fu questo a ricordarmi Sorella Berardi, una delle mie professoresse di lettere, che nello spiegarci quei versi diceva: «Il gradino di marmo bianco significa l'esame di coscienza, quello di pietra nera il dolore della contrizione e quello di porfido rosso la soddisfazione della penitenza». Che cose strane conserva la memoria! Chi l'avrebbe detto che, dopo tanti anni, mi sarei ricordata della professoressa Berardi, morta di vecchiaia tempo addietro, e delle sue noiose lezioni di lettere. A quel punto sentii bussare alla porta. Apparve Farag, sorridente. «Come te le cavi?» domandò, ironico. «Sei riuscita a superare i tuoi traumi infantili?» «No, non ancora», risposi, appoggiandomi allo schienale e alzando gli occhiali sulla fronte. «Continua a sembrarmi un mattone insopportabile.» Lui mi guardò a lungo, in un modo molto strano che non riuscii a interpretare. Poi, come se si svegliasse da un lungo sogno, batté le palpebre e deglutì. «A... a che punto sei?» si interessò, ficcando le mani nelle grandi tasche della sua vecchia giacca. «Alla conversazione con il guardiano del Purgatorio, l'angelo con la spada in cima ai gradini colorati.» «Ah, magnifico!» fece lui, entusiasta. «Questa è una delle parti più interessanti! I tre gradini alchemici!» «I tre gradini alchemici?» gli feci eco, storcendo il naso. «Andiamo, Ottavia, non mi dire che non sai che quei tre gradini rappresentano le tre fasi del processo alchemico: Albedo, Nigredo e Rubredo: l'Opera in bianco o Opus Album, l'Opera in Nero o Opus Nigrum e...» Si trattenne vedendo la mia espressione di sorpresa. Tornò a sorridere. «Ti
suona familiare, vero? Forse conosci meglio i nomi in greco: Leucosis, Melanosis e Iosis.» Riflettei per un momento, ricordando tutto ciò che avevo letto sull'alchimia nei codici medioevali. «Certo che mi suona familiare», risposi. «Ma non avrei mai immaginato che avessero a che fare con i gradini del Purgatorio. Stavo giusto ricordando che simboleggiavano il Sacramento della Confessione...» «Il Sacramento della Confessione?» si stupì Farag, avvicinandosi alla mia scrivania. «Leggi che cosa dice: l'angelo guardiano poggia i piedi sul gradino di porfido ed è seduto sulla soglia della porta, che è di diamante. Con l'Opera in Rosso, l'ultima tappa dell'alchimia, quella della sublimazione, si raggiunge la pietra filosofale, il cui corpo è di diamante. Non ricordi?» Ero perplessa. «Sì, certo...» Lo stupore perdurava. Non avrei mai sospettato niente del genere. Ovviamente, quell'interpretazione risultava molto più plausibile dell'altra, quella della Confessione, di per sé piuttosto forzata. «Vedo che hai capito!» approvò lui con soddisfazione. «Be', ti lascio lavorare. Continua a leggere.» «Va bene. Ci vediamo all'ora di pranzo.» «Passeremo a prenderti.» Ma già non lo ascoltavo più. Guardavo, allucinata, il testo del Purgatorio. «Ho detto che Kaspar e io passeremo a prenderti per andare a mangiare», ripeté Farag, dalla porta, a voce piuttosto alta. «D'accordo, Ottavia?» «Sì, sì, per andare a mangiare. D'accordo.» Dante Alighieri, per me, era appena rinato sotto nuove spoglie. Cominciavo a pensare che forse la Roccia non aveva torto ad assicurare che La Divina Commedia fosse un libro iniziatico. Ma... Dio mio! Che relazione poteva avere tutto questo con gli Staurophylakes? Mi massaggiai il naso e rimisi gli occhiali al loro posto, disponendomi a leggere con maggiore interesse, e con altri occhi, i molti versi che mi restavano. Farag mi aveva interrotto quando Dante e Virgilio si trovavano di fronte ai gradini. Ebbene, una volta saliti, Virgilio dice al suo pupillo di chiedere umilmente all'angelo che apra loro i chiavistelli: Divoto mi gettai ai santi piedi: misericordia chiesi che m'aprisse,
ma pria nel petto tre fiate mi diedi. Sette Ρ nella fronte mi descrisse col punton della spada e: «Fa che lavi, quando se' dentro, queste piaghe», disse.15 Da sotto le sue vesti, del colore della cenere o della terra secca, l'angelo estrae allora due chiavi, una d'argento e una d'oro. Prima con la bianca, poi con la gialla, spiega Dante, apre le due serrature: «Quandunque l'una di este chiavi falla che non si volga dritta per la toppa» disselli a noi, «non s'apre questa calla. Più cara è l'una, ma l'altra vuol troppa D'arte e d'ingegno avanti che disserri, perch'ella è quella che nodo digroppa. Da Pier le tegno; e dissemi ch'i'erri Anzi ad aprir ch'a tenerla serrata, pur che la gente a' piedi mi s'atterri.» Poi pinse l'uscio alla porta sacrata, dicendo: «Intrate, ma facciovi accorti che di fuor torna chi 'n dentro si guata.» Bene, mi dissi, se quella non era un'autentica guida per entrare al Purgatorio, non sapevo che cos'altro potesse essere. Nonostante la mia sfiducia, dovevo ammettere che Glauser-Röist aveva ragione. O almeno così sembrava, perché ci mancava ancora l'elemento principale: dove si trovavano, in realtà, l'Antipurgatorio, i tre gradini alchemici, l'angelo guardiano e la porta dalle due chiavi? A mezzogiorno, mentre attraversavamo il vestibolo dell'Archivio Segreto diretti alla caffetteria, ricordai che dovevo comunicare a Glauser-Röist la mia temporanea assenza dalla squadra. «Domenica celebro il mio Rinnovo dei Voti, capitano. Devo ritirarmi per qualche giorno. Ma lunedì sarò senz'altro di ritorno.» «Il tempo stringe», bofonchiò, arrabbiato. «Non può prendersi solo il sa-
bato?» «Cos'è questa storia del Rinnovo dei Voti?» si incuriosì Farag. «Be'», risposi, turbata, «le religiose Beato Cuore di Maria rinnovano i voti ogni anno.» Per una suora, parlare di queste cose significava esporre quanto di più privato e intimo ci sia nella sua vita. «Altri Ordini fanno voti perpetui o li rinnovano ogni due o tre anni. Noi lo facciamo ogni quarta domenica di Pasqua.» «I voti di povertà, castità e obbedienza?» insistette Farag. «Strettamente parlando, sì...» risposi, sempre più a disagio. «Ma non solo questo... Be', sì, questo, ma...» «Ma tra i copti non esistono religiosi?» intervenne Glauser-Röist in mia difesa. «Sì, certamente. Chiedo scusa, Ottavia. Ero solo molto curioso.» «No, non importa, davvero», feci io, conciliante. «Pensavo solo che fossi suora per sempre», aggiunse il professore, in modo alquanto inappropriato. «Va benissimo il Rinnovo dei Voti annuale. Così, se un giorno decidi di smettere, te ne puoi sempre andare.» La veemente luce del sole, che entrava obliqua dalle vetrate, mi accecò per un istante. Per qualche ragione, non gli dissi che in tutta la storia del mio Ordine c'era stato solo un caso di abbandono. È così difficile comprendere i disegni di Dio! Viviamo immersi in una cecità totale dal giorno della nostra nascita fino a quello della nostra morte e, nel breve intervallo che chiamiamo vita, siamo incapaci di controllare quello che ci accade intorno. Il venerdì, a metà pomeriggio, suonò il telefono di casa. Io ero nella cappella, con Ferma e Margherita, a leggere brani dell'opera di Padre Caciornia, fondatore del nostro Ordine, e cercando di prepararmi alla cerimonia di domenica. Non so perché, ma appena sentii il trillo intuii istintivamente che fosse successo qualcosa di grave. A rispondere fu Valeria, che in quel momento era in salotto. Pochi secondi dopo la porta della cappella si dischiuse delicatamente. «Ottavia...» sussurrò Valeria. «È per te.» Mi alzai in piedi, mi feci il segno della croce e uscii. All'altro capo del filo sentii la voce di mia sorella Agata, afflitta. «Ottavia, papà e Giuseppe...» «Papà e Giuseppe...?» chiesi, visto che mia sorella si era zittita. «Papà e Giuseppe sono morti.» «Hai detto che papà e Giuseppe sono morti?» riuscii ad articolare. «Ma
cosa stai dicendo, Agata?» «Sì, Ottavia.» Mia sorella era scoppiata a piangere. «Sono morti tutti e due!» «Mio Dio!» balbettai. «Cos'è successo?» «Un incidente. Un terribile incidente. La macchina è uscita di strada e...» «Calmati, per favore», le dissi. «Non piangere davanti ai bambini.» «Non sono qui. Antonio li ha portati a casa dei suoi. La mamma vuole che andiamo tutti alla villa.» «E la mamma? Come sta la mamma?» «Lo sai quanto è forte...» riassunse Agata. «Ma ho paura per lei.» «E Rosalia? E i figli di Giuseppe?» «Non so niente, Ottavia. Sono tutti alla villa. Ci sto andando anch'io, adesso.» «Vengo anch'io. Prenderò il traghetto di stanotte.» «No», mi raccomandò mia sorella. «Il traghetto no. Prendi un aereo. Dirò a Giacoma che mandi qualcuno a prenderti all'aeroporto.» Passammo tutta la notte svegli, a recitare il rosario nel salotto del primo piano, alla luce dei ceri disposti intorno, sui tavoli e sul caminetto. I cadaveri di mio padre e di mio fratello erano rimasti all'obitorio di Palermo, anche se il magistrato aveva assicurato a mia madre che l'indomani mattina avrebbero consegnato i corpi per procedere all'inumazione presso il cimitero della villa. I miei fratelli Cesare, Pierluigi e Salvatore, che arrivarono dall'obitorio il mattino presto, ci dissero che erano gravemente sfigurati dall'incidente e che non sarebbe stato opportuno esporli in bare aperte nella camera ardente. Mia madre chiamò un'impresa di pompe funebri, perché i truccatori ricomponessero al meglio i cadaveri, prima di riportarli a casa. Mia cognata Rosalia, la vedova di Giuseppe, era distrutta. I figli le stavano intorno, sconsolati, cercando di prendersene cura nel timore che le accadesse qualcosa: Rosalia non smetteva di piangere e guardava nel vuoto con gli occhi fuori dalle orbite, come una demente. Le mie sorelle, Giacoma, Lucia e Agata, tenevano compagnia a mia madre, che dirigeva il rosario con la fronte aggrottata e la faccia trasformata in una maschera di cera. Le mie altre cognate, Letizia e Livia, si occupavano delle visite dei famigliari, che a dispetto dell'ora si presentavano a casa nostra per esprimere le loro condoglianze e unirsi alle preghiere. E io? Be', io passeggiavo per la grande casa, salendo e scendendo le scale senza trovare pace. Quando arrivavo alla mansarda, alzavo gli occhi ver-
so le stelle sopra il lucernario, poi facevo dietro-front e tornavo a scendere nell'atrio, accarezzando col palmo della mano la ringhiera di legno delicato e brillante, su cui tutti noi avevamo fatto lo scivolo da piccoli. La mia mente era occupata da ricordi dell'infanzia, memorie di mio padre e mio fratello. Non smettevo di ripetermi che mio padre era stato un buon padre, un padre come nessuno, e che mio fratello Giuseppe, malgrado con gli anni si fosse fatto un po' scontroso, era stato un buon fratello, un fratello che, quando ero bambina, mi faceva il solletico e mi nascondeva i giocattoli per farmi dispetto. Tutti e due avevano passato la vita a lavorare, mantenendo e aumentando un patrimonio di famiglia del quale andavano veramente orgogliosi. Erano così, mio padre e mio fratello. E ora erano morti. Condoglianze e lacrime si susseguirono per tutto il giorno successivo. Tutto era dolore e tristezza, a Villa Salina. Decine di veicoli riempivano il giardino, centinaia di persone mi strinsero la mano, mi baciarono sulle guance e mi abbracciarono. Non mancava nessuno, con l'eccezione delle sorelle Sciarra, e ciò mi ferì profondamente, perché per anni Concetta Sciarra era stata la mia migliore amica. Da Doria, la sorella minore, me lo sarei aspettato: in base alle notizie più recenti sul suo conto, aveva lasciato la Sicilia appena compiuti i vent'anni e viaggiato per il mondo, laureandosi in storia chissà in quale Paese e finendo a lavorare come segretaria in una remota ambasciata. Ma... Concetta? Da Concetta non me l'aspettavo. Lei voleva molto bene a mio padre, tanto quanto io al suo. E qualsiasi rivalità potesse esserci stata negli affari, la sua assenza mi risultava incomprensibile. La sepoltura ebbe luogo domenica mattina, perché Pierantonio non poté arrivare da Gerusalemme fino a sabato notte tardi e mia madre si era ripromessa che fosse lui a celebrare il funerale. Non ricordo molto di quanto accadde dopo l'arrivo di Pierantonio. So che mio fratello e io ci abbracciammo forte, ma poi me lo portarono via e lui dovette sopportare i baciamano e le riverenze dovute al suo incarico e alle circostanze. Più tardi, quando lo lasciarono in pace, dopo che ebbe mangiato qualcosa, si chiuse con mia madre in una stanza e io non li vidi uscire, perché mi ero assopita sul divano su cui mi ero seduta a pregare. Domenica mattina, molto presto, mentre ci preparavamo per presentarci nella cappella di casa, ricevetti una chiamata inattesa dal capitano GlauserRöist. Mentre andavo a rispondere al telefono più vicino mi domandavo, infastidita, perché mi chiamasse a quell'ora e in un momento così inopportuno. Lo avevo salutato prima di lasciare Roma, raccontandogli l'accaduto,
per cui una sua telefonata in quel momento mi sembrava una mancanza di rispetto e un'indelicatezza deplorevole. Naturalmente, data la situazione, non ero in vena di cortesie. «Dottoressa Salina, è lei?» mi chiese Glauser-Röist, dopo un mio breve e secco saluto. «Certo che sono io, capitano.» «Dottoressa», fece lui, ignorando l'ostilità nel mio tono di voce. «Il professor Boswell e io siamo qui, in Sicilia.» Se mi avessero punto con uno spillo, non sarebbe uscita neppure una goccia di sangue. «Qui?» chiesi, attonita. «Qui a Palermo?» «Ecco, siamo all'aeroporto di Punta Raisi, a una trentina di chilometri dalla città. Il professor Boswell è andato a noleggiare una macchina.» «E che cosa ci fate qui? Perché se siete venuti per il funerale di mio padre e di mio fratello, è un po' tardi. Non arriverete in tempo.» Mi sentivo a disagio. Da una parte apprezzavo la loro buona volontà e il loro desiderio di essermi vicini in un momento così triste. Dall'altro mi sembrava che il gesto fosse piuttosto eccessivo e fuori luogo. «Non vogliamo disturbarla, dottoressa.» Sopra il vocione di GlauserRöist si sentiva il brusio degli altoparlanti dell'aeroporto, che chiamavano a raccolta i passeggeri dei voli. «Aspetteremo che termini il funerale. A che ora pensa potrebbe vederci?» Mia sorella Agata mi si mise davanti, indicando con insistenza il suo orologio da polso. «Non saprei, capitano. Lo sa come vanno queste cose... Forse a mezzogiorno.» «Non ce la farebbe prima?» «No, capitano! Non ce la faccio prima!» ribattei, piuttosto arrabbiata. «Mio padre e mio fratello sono morti, se non se lo ricorda. Gli stiamo facendo il funerale!» Mi sembrava di vederlo, all'altro capo del filo, mentre si armava di pazienza e sbuffava. «Vede, dottoressa, il fatto è che abbiamo trovato l'entrata del Purgatorio. Ed è proprio qui in Sicilia. A Siracusa.» Rimasi senza parole. Avevamo trovato l'entrata. Quando aprirono le casse per l'ultimo addio, non volli guardare mio padre e mio fratello. Mia madre, con grande fermezza, si avvicinò e si chinò su mio padre per dargli un bacio in fronte. Stava per fare lo stesso con mio fratello, ma vacillò e si appoggiò al bordo della bara, stringendo con l'altra
mano l'impugnatura del bastone. Giacoma e Cesare, alle sue spalle, si affrettarono a sostenerla, ma lei li respinse con un'occhiata fulminante. Chinò il capo e si mise a piangere in silenzio. Non avevo mai visto mia madre in lacrime. Nessuno di noi l'aveva vista così, prima d'allora, e questo ci fece soffrire ancora di più. Ci guardavamo a vicenda, sconcertati, senza sapere che cosa fare. Anche Agata e Lucia si misero a piangere. Facemmo tutti un passo verso mia madre, pronti a sorreggerla e a consolarla. Ma l'unico che le si avvicinò fu Pierantonio, che corse da dietro l'altare, scese precipitosamente i gradini e le circondò le spalle, asciugandole le lacrime con la mano. Mia madre si lasciò confortare, come una bambina, ma tutti sapevamo che quel giorno si era prodotta una rottura irreparabile, che era cominciato una sorta di conto alla rovescia. Mia madre non si sarebbe più ripresa da quella tragedia. Quando la cerimonia e la sepoltura si furono concluse, rientrammo in casa per preparare il pranzo. Chiesi a Giacoma di lasciarmi un'auto per andare a Palermo, perché mi ero accordata con Farag e Glauser-Röist per trovarci alle dodici e trenta al ristorante La Gondola, in Via Principe di Scordia. «Ma sei impazzita?» chiese mia sorella sgranando gli occhi. «Oggi non è giorno da ristoranti!» «È per lavoro, Giacoma.» «Non mi interessa. Chiama i tuoi amici e di' loro che vengano qui. Non te ne puoi andare, chiaro?» Sicché chiamai sul cellulare Glauser-Röist e gli spiegai che, per evidenti motivi di famiglia, non potevo lasciare la villa e che lui e il professore erano invitati a pranzo a casa. Diedi loro le indicazioni più precise possibili per raggiungermi e mi parve di notare ripetutamente, nella voce del capitano, certe fastidiose reticenze. Arrivarono proprio quando stavamo per sederci a tavola. Il capitano, come sempre, era vestito in modo impeccabile, di un'eleganza superba, mentre Farag aveva sostituito il suo abituale look da funzionario di un remoto Paese africano con quello di un indomito esploratore e agguerrito guidatore di jeep. Appena fecero il loro ingresso, diedi inizio alle presentazioni. Il professore si mostrava timido e perplesso, ma negli occhi gli si leggeva senza equivoco lo sguardo dello scienziato che si appresta a studiare una nuova specie sconosciuta di animale. Glauser-Röist, al contrario, era padrone della situazione. Il suo aplomb e la sua imperturbabilità avevano un effetto
rassicurante in un ambiente triste e appesantito dal dolore. Mia madre ricevette i due nuovi ospiti con affabilità e Pierantonio, al suo fianco, mi sorprese salutando il capitano come se già lo conoscesse, seppure in modo molto formale. Subito dopo si allontanarono l'uno dall'altro, come poli identici di due calamite. Era dal giorno prima che avrei voluto parlare con Pierantonio e ancora non ci ero riuscita. Ma d'un tratto me lo trovai di fronte in un angolo del giardino, dove, approfittando del bel tempo, eravamo usciti a prendere il caffè. Mio fratello non aveva il suo consueto aspetto florido: gli si notavano le occhiaie e le rughe sulla fronte. Mi guardò dritta negli occhi e mi afferrò un polso. «Perché lavori con il capitano Glauser-Röist?» «Come fai a sapere che lavoro con lui?» replicai io. «Me l'ha detto Giacoma. E adesso rispondi alla mia domanda.» «Non posso rivelarti i dettagli, Pierantonio. Ha a che vedere con quello di cui abbiamo parlato l'ultima volta, all'onomastico di papà.» «Non ricordo più. Rinfrescami la memoria.» Feci un gesto di incomprensione con la mano libera, lasciandola a mezz'aria col palmo rivolto verso l'alto. «Che ti succede, Pierantonio? Hai mal di testa o che cosa?» Mio fratello parve ritornare alla realtà. Mi guardò e mi lasciò andare il polso. «Perdonami, Ottavia. Mi sono innervosito.» «Che cosa ti ha fatto innervosire? Il capitano?» «Scusami. Scordatelo», replicò lui, allontanandosi. «Vieni qui, Pierantonio», gli ordinai, autoritaria. Mio fratello si fermò all'istante. «Non te ne vai prima di avermi dato una spiegazione.» «La piccola Ottavia fa l'insubordinata davanti al fratello maggiore?» Fece un sorriso furbo. Io non risi. «Parla, Pierantonio, o mi arrabbio sul serio.» Lui mi guardò, sorpreso. Inarcò le sopracciglia e fece due passi verso di me. «Lo sai chi è il capitano Glauser-Röist? Lo sai qual è il suo lavoro?» «So che fa parte della Guardia Svizzera, anche se lavora per il Tribunale della Sacra Rota, e che coordina la ricerca a cui io partecipo in veste di paleografa dell'Archivio Segreto.» Mio fratello scosse varie volte il capo. «No, Ottavia, no. Ti sbagli. Kaspar Glauser-Röist è l'uomo più pericoloso del Vaticano, la mano nera che esegue tutte le azioni più inconfessabili della Chiesa. Il suo nome è associato a...» Si interruppe. «Questa è buona davvero! Che cosa c'entra mia
sorella con un uomo temuto da cielo e terra?» Mi sentivo trasformata in una statua di sale. Non potei rispondere. «Che cosa mi dici, eh?» insistette mio fratello. «Non puoi darmi nessuna spiegazione, adesso?» «No.» «Be', allora questa conversazione è conclusa», stabilì Pierantonio. Si allontanò, diretto verso un gruppo di persone che conversavano intorno al tavolo del giardino. «Stai attenta, Ottavia. Quell'uomo non è ciò che sembra.» Quando mi ripresi dallo stupore, distinsi in lontananza mia madre e Farag impegnati in un'animata conversazione. Con passo incerto, mi incamminai verso di loro. Ma prima che potessi raggiungerli, la mole immensa del capitano mi tagliò la strada. «Dottoressa, dovremmo andarcene quanto prima. Si sta facendo tardi e tra breve non ci sarà più luce.» «Dove ha conosciuto mio fratello, capitano?» «Suo fratello?» fece lui, inquieto. «Non finga. Lo so che conosce Pierantonio, quindi non stia a mentire.» La Roccia si guardò intorno con aria indifferente. «Ne deduco che Padre Salina non le ha dato questa informazione, pertanto non sarò io a farlo, dottoressa.» Abbassò gli occhi su di me. «Andiamo, per favore?» Assentii e mi passai una mano sulla faccia, costernata. Salutai tutti, uno per uno, e salii sull'automobile che il capitano e Farag avevano preso a nolo all'aeroporto, una Volvo S40 color argento, coi finestrini scuri. Attraversammo la città per prendere la statale 121 verso Enna, nel cuore dell'isola, e da lì l'autostrada A19 per Catania. Glauser-Röist, che quando guidava si sentiva al settimo cielo, accese la radio e lasciò che la musica invadesse l'abitacolo fino a quando non lasciammo Palermo, dopo di che abbassò drasticamente il volume. Farag, che viaggiava sul sedile posteriore, si protese verso di noi, appoggiando le braccia sui nostri schienali. «In realtà, Ottavia, non sappiamo perché siamo qui», cominciò a spiegarmi. «Siamo venuti in Sicilia per verificare una mia ispirazione, ma rischiamo di diventare lo zimbello del Vaticano.» «Non gli faccia caso, dottoressa. Il professore ha trovato l'ingresso del Purgatorio.» «Non faccia caso a lui, dottoressa. Ti assicuro che ho seri dubbi che possiamo trovare l'entrata a Siracusa. Ma il capitano si è impegnato a compro-
varlo in situ.» «E va bene», accondiscesi, con un sospiro. «Ma dammi almeno una spiegazione convincente. Che cosa c'è a Siracusa?» «Santa Lucia!» esclamò Farag. «Santa Lucia?» Ero così vicina al professore che potevo sentire il suo fiato. Rimasi paralizzata, soffocata da una vergogna terribile e improvvisa. Mi ci volle uno sforzo sovrumano per tornare a guardare la strada davanti a noi senza che si notasse il mio turbamento. Boswell dev'essersene accorto, mi dissi, spaventata. Era una situazione incresciosa e il suo silenzio mi stava diventando insopportabile. Perché non parlava? Perché non continuava a raccontare la sua storia? «Perché Santa Lucia?» mi affrettai a chiedere. «Perché...» Farag si schiarì la gola e si offuscò. «Perché sì. Perché...» Non potevo vedergli le mani, ma ero sicuro che stessero tremando. Lo avevo notato in altre occasioni. «Glielo spiego io, dottoressa», intervenne Glauser-Röist. «Chi è che porta Dante fino alla porta del Purgatorio?» Lo ricordai subito. «Santa Lucia, è vero. Lo solleva in aria dall'Antipurgatorio mentre lui sta dormendo e lo lascia davanti al mare. Ma che cosa c'entra la Sicilia?» Ricordai anche quello. «Certo, Santa Lucia è la patrona di Siracusa, ma...» «Siracusa è di fronte al mare», osservò il professore, apparentemente tornato in sé. «Inoltre, dopo avere deposto Dante a terra, Santa Lucia segnala con gli occhi a Virgilio il cammino da seguire per giungere fino alla porta dalle due chiavi.» «Be', sì, ma...» «Lo sapevi che Lucia è la patrona della vista?» «Che domanda! Naturalmente.» «Tutte le immagini la rappresentano mentre tiene i suoi occhi su un vassoio.» «Se li strappò durante il martirio», precisai. «Il suo promesso sposo pagano, che fu colui che la denunciò, adorava i suoi occhi, e lei se li strappò per farglieli arrivare.» «Che Santa Lucia ci conservi la vista», recitò Glauser-Röist. «Sì, in effetti questo riferisce la tradizione popolare.» «Tuttavia», sottolineò Farag, «la santa patrona di Siracusa è raffigurata sempre con gli occhi al suo posto e ben aperti. Quelli sul vassoio sono un
paio di riserva.» «Be', questo per non dipingerla con le orbite vacue e sanguinanti.» «Ah, davvero? Non mi pare che l'iconografia cristiana si sia mai trattenuta dal porre l'accento sul sangue e sul dolore fisico.» «Be', questa è un'altra storia», protestai. «Continuo a non capire dove volete andare a parare.» «È molto semplice. Vedi, secondo tutti i martirologi cristiani che trattano il suo supplizio, Santa Lucia non si cavò mai gli occhi, né li perse altrimenti. In realtà, quello che si dice è che le autorità romane al servizio dell'imperatore Diocleziano cercarono di violentarla e bruciarla viva, ma che, per intercessione divina, non ci riuscirono. Così dovettero infiggerle una spada nella gola per ucciderla. Era il 13 dicembre dell'anno 300. Ma degli occhi non si parla per niente. Allora perché è la patrona della vista? Non sarà che stiamo parlando di un altro tipo di vista, che non riguarda il corpo, ma l'illuminazione che permette di accedere a una conoscenza superiore? Di fatto, nel linguaggio simbolico, la cecità significa ignoranza mentre la vista equivale alla sapienza.» «Lavori troppo di fantasia», obiettai. Non mi sentivo bene. La logorrea di Farag mi scorreva come sabbia nel cervello. Ero ancora sotto l'effetto della morte di mio padre e mio fratello e non avevo voglia di ascoltare sottigliezze enigmistiche. «Fantasia? Be', allora senti questo. La festa di Santa Lucia si celebra il presunto giorno della sua morte, il 13 dicembre, come ti ho già detto.» «Questo lo sapevo già. È l'onomastico di mia sorella.» «Ma forse non sai che, prima della correzione di dieci giorni introdotta dal calendario gregoriano nel 1582, la sua festa si celebrava il 21 dicembre, giorno del solstizio d'inverno. E, dall'antichità più remota, quella è la data in cui si celebra la vittoria della luce sulle tenebre, perché da quel momento le giornate cominciano ad allungarsi.» Non aprii bocca. Non capivo più nulla. «Ottavia, per favore, sei una donna di cultura», mi esortò Farag. «Fai appello alle tue conoscenze e vedrai che non dico stupidaggini. Dante racconta che Santa Lucia lo conduce fino alle porte del Purgatorio. Ma ci dice anche che, dopo essere stato deposto a terra, mentre sta ancora dormendo, Lucia indica a Virgilio con gli occhi il cammino verso la porta dei tre gradini alchemici e dell'angelo guardiano. Non è chiarissimo, come riferimento?» «Non saprei», dichiarai, senza darvi troppa importanza. «Lo è?»
Farag rimase zitto. «Il professore non è sicuro», mormorò Glauser-Röist, premendo l'acceleratore. «Per questo dobbiamo constatarlo di persona.» «Il mondo è pieno di santuari di Santa Lucia», ribattei. «Perché dev'essere proprio quello di Siracusa?» «Perché, oltre a essere la città natale di Santa Lucia, è anche il luogo in cui visse e fu martirizzata», puntualizzò la Roccia. «Quando Dante e Virgilio incontrano Catone l'Uticense, questi raccomanda al Fiorentino che, prima di presentarsi all'angelo guardiano, si lavi la faccia per ripulirsi da ogni sporcizia e si cinga con un giunco di quelli che crescono su un'isoletta prossima alla riva.» «Sì, lo ricordo.» «La città di Siracusa fu fondata dai greci nell'VIII secolo avanti Cristo», disse Farag. «A quel tempo le fu dato il nome di Ortigia.» «Ortigia?» feci io, reprimendo la reazione istintiva di girarmi verso di lui. «Ortigia è il nome dell'isola davanti a Siracusa!» «Α-ha! L'hai detto! Davanti a Siracusa c'è un'isola chiamata Ortigia, su cui, oltre ai famosi papiri, che tuttora si coltivano, crescono giunchi in abbondanza.» «Ma Ortigia oggi è un quartiere della città, interamente urbanizzato e unito alla terra da un ponte.» «Certo. Ma questo non riduce per nulla l'importanza della pista lasciataci da Dante. E non hai ancora sentito il meglio.» «Ah, sì?» Stavano cominciando a convincermi. Con tutto quel cumulo di assurdità, erano riusciti a farmi lasciare il dolore alle spalle e a tornare alla realtà. «Dopo il crollo dell'Impero Romano, la Sicilia fu occupata dai goti. Nel VI secolo l'imperatore Giustiniano, lo stesso che fece costruire la fortezza di Santa Caterina del Sinai, ordinò al generale Belisario che conquistasse l'isola per l'Impero Bizantino. Ebbene: appena sbarcate a Siracusa, che cosa fecero le truppe di Costantinopoli? Eressero un tempio sul luogo del martirio, tempio che...» «Lo conosco.» Farag era inarrestabile. «... è tuttora in piedi, anche se, naturalmente, è stato sottoposto a innumerevoli ristrutturazioni nel corso dei secoli. Ciononostante la maggiore attrattiva dell'antica chiesa di Santa Lucia sono le sue catacombe.» «Catacombe?» mi sorpresi. «Non avevo idea che ci fossero catacombe
sotto la chiesa.» La nostra auto imboccò a velocità sostenuta la A19. La luce del sole cominciava a scemare. «Catacombe notevoli, del III secolo, di cui finora sono stati studiati solamente i rami principali. Si sa, questo sì, che furono ampliate e modificate, curiosamente, durante il periodo bizantino, quando non c'erano persecuzioni e la fede cristiana era la religione ufficiale dell'Impero. Disgraziatamente sono aperte al pubblico solo durante le feste di Santa Lucia, dal 13 al 20 dicembre, e solo in parte. Rimangono vari piani e moltissime gallerie tuttora da esplorare.» «E noi come facciamo a entrare?» «Forse non ce ne sarà bisogno. In realtà, non sappiamo che cosa possiamo trovare. O meglio, non sappiamo che cosa vogliamo cercare, come quando siamo andati a Santa Caterina del Sinai. Curioseremo, passeggeremo e si vedrà. Può darsi che ci arrida la sorte.» «Mi rifiuto di cingermi con un giunco e lavarmi la faccia con la rugiada dell'erba dell'Ortigia.» «Nient'affatto», vibrò, collerica, la voce di Glauser-Röist. «Quella sarà proprio la prima cosa che faremo appena arrivati. Perché, se non se ne è resa conto, se abbiamo ragione su Santa Lucia, prima di notte ci troveremo nel cuore delle prove iniziatiche degli Staurophylakes.» Era già tardi quando entrammo a Siracusa. Mi spaventava l'idea che la Roccia volesse penetrare a quell'ora nelle catacombe, ma, grazie a Dio, Glauser-Röist puntò diritto verso l'Ortigia. Al centro dell'isola, a poca distanza dalla famosa Fonte Aretusa, si trovava l'Arcivescovado. Il Duomo era di grande bellezza, nonostante la mescolanza di stili architettonici accumulati l'uno sull'altro col passare dei secoli. La facciata barocca, con sei enormi colonne bianche e una nicchia sopraelevata con l'immagine di Santa Lucia, era grandiosa. Seguendo a piedi Glauser-Röist, che aveva lasciato l'auto di fronte alla chiesa, ci incamminammo verso l'Arcivescovado, dove fummo ricevuti personalmente da Sua Eccellenza Monsignor Giuseppe Arena. L'Arcivescovo ci ossequiò con una cena squisita, cui seguì una vacua conversazione sulle vicende dell'Arcidiocesi e sugli auguri da trasmettere al Santo Padre, che il mercoledì seguente avrebbe compiuto ottant'anni. Dopo poco, ci ritirammo nelle stanze che ci erano state preparate. Alle quattro in punto del mattino, quando neppure un miserabile raggio
di sole entrava dalla finestra, qualcuno bussò vigorosamente alla porta, strappandomi ai sogni. Era il capitano, pronto a cominciare la giornata. Lo sentii chiamare anche Farag. In mezz'ora eravamo tutti e tre in sala da pranzo, davanti a un'abbondante colazione servita da una suora domenicana al servizio dell'Arcivescovo. Mentre il capitano, tanto per cambiare, era in perfetta forma, Farag e io eravamo come al solito incapaci di articolare più di due parole di seguito e barcollavamo come zombie nella sala, inciampando nei tavoli e nelle sedie. In tutto l'edificio regnava un assoluto silenzio, rotto solo dai passi lievi della suora. Al terzo o quarto sorso di caffè mi accorsi che il cervello ricominciava a funzionare. «Pronti?» chiese imperturbabile la Roccia, deponendo il tovagliolo sulla tavola. «Io no», farfugliò Farag, aggrappandosi alla tazza di caffè come un marinaio all'albero della nave durante una tempesta. «Nemmeno io, credo», dissi, solidale, con un'occhiata complice. «Vado a prendere la macchina. Vi aspetto fuori tra cinque minuti.» «Non credo che ci sarò», lo avvertì il professore. Risi di gusto, mentre Glauser-Röist usciva dalla sala da pranzo senza prestarci attenzione. «Che uomo impossibile», dissi, osservando con sorpresa che quella mattina Farag non si era rasato. «Sarà meglio sbrigarci. È capace di andare senza di noi. E che cosa possiamo fare noi due a Siracusa alle cinque meno un quarto del mattino?» «Prendere un aereo e tornare casa», suggerii, alzandomi in piedi. In strada non faceva freddo. Il tempo era decisamente primaverile, anche se con un po' di umidità e qualche fastidioso colpo di vento che mi scuoteva la gonna. Salimmo sulla Volvo e facemmo un giro completo della Piazza del Duomo, prendendo una strada che ci portò direttamente al porto. Parcheggiammo e proseguimmo a piedi fino a un angolino in fondo alla rada. Alla luce dei lampioni si distinguevano la sabbia bianca e, naturalmente, giunchi a centinaia. La Roccia aveva in mano la sua copia della Divina Commedia. «Professore, dottoressa...» mormorò, visibilmente emozionato. «È giunto il momento di cominciare.» Depose il libro sulla sabbia e si diresse verso i giunchi. Con gesto riverente passò le mani sull'erba e si lavò la faccia con la rugiada. Poi strappò un tallo flessibile, il più alto che trovò, si sfilò la camicia dai pantaloni e se lo legò alla cintola. «Bene, Ottavia», mi sussurrò Farag all'orecchio, «è il nostro turno.» Con passo fermo, il professore raggiunse la Roccia e ripeté il rituale.
Anche il suo viso, umido di rugiada, assunse un'espressione particolare, come se fosse in presenza di qualcosa di sacro. Mi sentii turbata, insicura. Non capivo bene che cosa stessimo facendo, ma non potevo fare altro che imitarli. Ora che ero lì, rifiutarsi sarebbe stato ridicolo. Lasciai le scarpe sulla sabbia e li raggiunsi. Passai le mani sull'erba umida e mi sfregai il viso. La rugiada era fresca e di colpo mi sentii sveglissima, lucida, piena di energia. Poi scelsi il giunco che mi sembrava più bello e più verde e lo spezzai alla base, con la speranza che in futuro potesse ricrescere dalla radice. Sollevai appena il bordo del mio maglione e legai il giunco intorno alla vita, sorprendendomi di quanto fosse elastico e delicato al tatto. Non ebbi difficoltà ad annodarlo. Avevamo compiuto la prima parte del rito. Con un po' di fortuna, mi dissi per tranquillizzarmi, nessuno ci aveva visto. Di nuovo in macchina, lasciammo l'Ortigia passando sopra il ponte ed entrammo in Viale Umberto I. La città cominciava a risvegliarsi. Si vedevano luci accese alle finestre e il traffico era già in movimento: un paio d'ore più tardi sarebbe stato caotico quanto quello di Palermo. Il capitano svoltò a destra e si infilò in un altro viale, in direzione di Via dell'Arsenale. D'un tratto parve stupirsi di qualcosa fuori dal finestrino. «Sapete come si chiama questa via? Via Dante. L'ho appena visto. Non è una curiosa coincidenza?» «In Italia, capitano, in ogni città c'è una Via Dante», replicai, trattenendo a stento le risate. Quella di Farag, invece, si udì distintamente. Giungemmo rapidamente in Piazza Santa Lucia, proprio di fianco allo stadio. In realtà, più che una piazza era una semplice via che racchiudeva la pianta rettangolare della chiesa. Accanto al pesante edificio di pietra bianca, che esibiva un modesto campanile di tre piani, si poteva ammirare un piccolo battistero di pianta ottagonale. Lo stile della chiesa non lasciava dubbi: malgrado le ricostruzioni normanne del XII secolo e il rosone rinascimentale della facciata, quel tempio era bizantino quanto Costantino il Grande. Un uomo sui sessant'anni, che indossava pantaloni vecchi e una giacca consunta, passeggiava avanti e indietro sul sagrato. Vedendoci scendere dall'auto, si fermò e ci guardò con attenzione. Aveva una folta capigliatura grigia che incorniciava un viso piccolo e pieno di rughe. Ci salutò dall'altro lato della strada, alzando un braccio, e corse agile verso di noi. «Il capitano Glauser-Rò?» «Sì, sono io», disse cortesemente la Roccia, senza correggerlo. Gli strin-
se la mano. «Questi sono i miei colleghi, il professor Boswell e la dottoressa Salina.» Il capitano si era messo in spalla un piccolo zaino di tela. «Salina?» fece l'uomo, con un sorriso amabile. «È un cognome siciliano, anche se non di Siracusa. Lei è di Palermo?» «Sì, infatti.» «Ah, lo dicevo! Bene, vengano con me, per favore. Sua Eccellenza l'Arcivescovo mi ha chiamato ieri sera per annunciare la loro visita. Mi seguano.» Con un inaspettato gesto protettivo, Farag mi tenne per un braccio finché non raggiungemmo il marciapiede. Il sacrestano introdusse una chiave enorme nel portone di legno della chiesa e l'aprì, senza entrare. «Sua Eccellenza l'Arcivescovo ha chiesto che fossero lasciati soli. Fino alla messa delle sette, la chiesa della nostra patrona è tutta loro. Prego, entrino. Io torno a casa a fare colazione. Se vogliono qualcosa, abito di fronte.» E indicò un vecchio edificio dai muri bianchi di calce. «Al secondo piano. Ah, a momenti me ne dimenticavo. Capitano Glauser-Rò, il quadro elettrico è sulla destra e queste sono le chiavi di tutto il recinto, compresa la cappella del Sepolcro, il battistero qui a fianco. Non tralascino di visitarlo, ne vale la pena. Be', a dopo. Torno alle sette in punto.» E trotterellò dall'altra parte della strada. Erano le cinque e mezzo del mattino. «Molto bene. Che cosa aspettiamo? Dottoressa, prima lei.» L'interno era buio, a parte le lampadine di emergenza nella parte superiore: né dal rosone né dalle vetrate entrava ancora la luce. Il capitano cercò gli interruttori e li premette. E subito i chiarore diafano delle luci elettriche che pendevano dal soffitto illuminò l'interno: tre navate ricche di decorazioni, separate da pilastri, con un soffitto a cassettoni di legno bordato dagli scudi dei re aragonesi che avevano governato la Sicilia nel XIV secolo. Sotto un arco trionfale si vedeva un crocifisso del secolo XII o XIII. Un altro, di epoca rinascimentale, si trovava sul fondo. E naturalmente, sopra un magnifico piedistallo d'argento, c'era l'immagine da processione di Santa Lucia: la santa aveva il collo trapassato da una spada e, nella mano destra, una coppa con ü paio d'occhi di riserva, come aveva detto Farag, che cominciava a dare l'impressione di non essere troppo pio. «La chiesa è nostra», disse la Roccia. La sua voce, già grave di per sé, suonò come un tuono in una caverna. L'acustica era favolosa. «Cerchiamo l'entrata del Purgatorio.» Nella chiesa faceva più freddo che in strada, come se dal pavimento si
levasse una corrente d'aria gelida. Mi diressi all'altare della navata centrale e sentii imperiosamente la necessità di inginocchiarmi davanti al Sacrario e pregare per qualche secondo. Con la testa affondata tra le spalle e il viso coperto dalle mani, cercai di riflettere su tutte le cose strane che mi stavano capitando ultimamente. Da poco più di un mese a quella parte, quando ero stata convocata alla Segreteria di Stato, avevo perso il controllo della mia vita ben ordinata. Ma nell'ultima settimana l'avevo vista deragliare completamente. Niente mi sembrava più come prima. Chiesi a Dio che mi perdonasse per averlo trascurato e lo supplicai desolata che fosse misericordioso con mio padre e mio fratello. Pregai anche per mia madre, affinché trovasse la forza necessaria in quei terribili momenti, e per la mia famiglia. Con gli occhi colmi di lacrime mi feci il segno della croce e mi rimisi in piedi. Non volevo che Farag e il capitano facessero tutto senza di me. Mentre loro esploravano le navate laterali, io salii al presbiterio e osservai la colonna di granito rossiccio a cui, secondo la tradizione, la santa si era appoggiata quando era stata trafitta dalla spada. Nei secoli, le mani devote dei fedeli avevano lucidato la pietra. La sua importanza come oggetto di adorazione era evidente dalla ripetizione di questo simbolo nelle decorazioni di tutta la chiesa. Naturalmente, oltre alla colonna, anche la rappresentazione degli occhi era ripetuta a sazietà: da ogni parte pendevano centinaia di curiosi ex voto a foggia del pane chiamato «occhi di Santa Lucia». Terminata la perlustrazione della chiesa scendemmo una scaletta che ci portò a uno stretto corridoio, in fondo al quale si trovava la contigua cappella del Sepolcro. Entrambi gli edifici erano collegati da quel tunnel sotterraneo scavato nella roccia. Il battistero ottagonale ospitava unicamente il loculo rettangolare in cui la santa era stata sepolta dopo il martirio. In verità, il corpo non si trovava più a Siracusa e nemmeno in Sicilia. Per uno dei casi della vita, una volta morta la santa aveva fatto il giro del mondo, approdando alla chiesa di San Geremia, a Venezia. Nell'XI secolo il generale bizantino Maniace se n'era portato i resti fino a Costantinopoli, dove erano stati venerati fino al 1204, anno in cui i veneziani li avevano presi, con l'intenzione di tenerseli. I siracusani dovevano accontentarsi di onorare il sepolcro vuoto, che era stato adornato di una bella pala di legno collocata sopra un altare, ai piedi del quale una scultura di marmo, opera di Gregorio Tedeschi, riproduceva la santa come doveva essere al momento della sepoltura. Ed ecco terminata la nostra visita alla chiesa. Avevamo visto tutto quello
che c'era da vedere, esaminando ogni dettaglio, senza trovare niente di significativo che potesse ricollegarla a Dante o agli Staurophylakes. «Ricapitoliamo», propose il capitano. «Che cosa ha attirato la nostra attenzione?» «Assolutamente niente», affermai con convinzione. «In questo caso», dichiarò Farag, «ci rimane una sola opzione.» «Pensavo anch'io la stessa cosa», osservò la Roccia, imboccando di nuovo il corridoio che portava alla chiesa. Dunque, contrariamente alle mie segrete speranze, ci toccava addentrarci nelle catacombe. Stando al cartello appeso a un chiodo sulla porta di accesso ai sotterranei, le catacombe di Santa Lucia erano chiuse al pubblico: se qualcuno voleva soddisfare la propria curiosità poteva visitare le vicine catacombe di San Giovanni. Immagini terribili di frane e smottamenti mi passarono rapidamente per la testa. Ma dovetti sbarazzarmene subito, perché ormai il capitano, aperta la porta con una delle chiavi del mazzo affidatogli dal sacrestano, aveva già messo piede all'interno. Contrariamente a quanto si suole credere, le catacombe non servivano da rifugio ai cristiani nell'epoca delle persecuzioni. Non era quello il loro scopo, né i cristiani le scavavano per nascondervisi. Per cominciare, le persecuzioni furono brevi e molto localizzate nel tempo. A metà del II secolo i primi cristiani avevano cominciato ad acquisire terreni per seppellire i morti, essendo contrari all'usanza pagana di cremarli in quanto credevano nella resurrezione dei corpi il giorno del Giudizio Universale. Di fatto, questi cimiteri sotterranei non erano neppure chiamati «catacombe», parola di origine greca divenuta popolare nel IX secolo e il cui significato è «cavità», bensì koimeteria, vale a dire «dormitori», da cui la parola «cimitero». I cristiani credevano semplicemente di dormire fino al giorno della resurrezione della carne. Per il bisogno di spazi sempre più grandi, le gallerie dei koimeteria si erano estese verso il basso e lateralmente, convertendosi in autentici labirinti che potevano raggiungere parecchi chilometri di lunghezza. «Andiamo, Ottavia», mi incoraggiò Farag da dietro la porta, vedendo che non avevo la minima intenzione di entrare. Dal soffitto della galleria pendeva una lampadina nuda, che illuminava debolmente un tavolo, una sedia e alcuni attrezzi coperti da uno strato di polvere vicino all'ingresso. Per fortuna il capitano aveva estratto dal suo zaino una robusta torcia elettrica, che lampeggiò nel buio come un rifletto-
re da 1000 watt. Rampe di scale scavate nella roccia molti secoli prima precipitavano nelle profondità della terra. Glauser-Röist cominciò a scendere con passo deciso, mentre Farag si faceva da parte per lasciarmi passare e chiudere la marcia. Sulle pareti una miriade di graffiti, scolpiti con punte di ferro, commemoravano i morti: CORNELIVS CVIVS DIES INLVXIT ovvero «Cornelio, il cui giorno rifulse», OUTOS O BIOS ovvero «Questa è la vita», EIRENE ECOIMETE ovvero «Irene si addormentò»... Su un pianerottolo, in cui la scala svoltava a sinistra, erano ammonticchiate varie lapidi che originariamente chiudevano i loculi. Di alcune erano rimasti solo frammenti. Arrivati all'ultimo gradino ci trovammo in un piccolo santuario di forma rettangolare, decorato da splendidi affreschi che avevano l'aria di risalire ai secoli VIII e IX. Il capitano li illuminò con la torcia. Restammo affascinati davanti alla rappresentazione del supplizio dei quaranta martiri di Sebastia. Secondo la leggenda, quaranta giovani della XII Legione detta «Fulminata» che prestavano servizio a Sebastia, in Armenia, ebbero ordine dall'imperatore Licinio, come tutti i legionari, di fare sacrifici agli dei per il bene dell'Impero. Ma i quaranta soldati si rifiutarono, in quanto cristiani, e per questo furono condannati a morte per assideramento, appesi a una corda, nudi, sopra uno stagno ghiacciato. L'affresco, dipinto sopra lo strato di gesso del muro, si era ammirevolmente conservato in condizioni quasi perfette, a differenza di altre opere posteriori, realizzate con tecniche meno arcaiche. «Non riscaldi gli affreschi con la torcia, Kaspar», lo pregò Farag dall'oscurità. «Potrebbe danneggiarli irreparabilmente.» «Mi spiace», rispose la Roccia, puntando a terra il fascio di luce. «Ha ragione.» «E adesso che cosa facciamo?» chiesi io. «Abbiamo qualche piano?»
«Proseguire, dottoressa. Nient'altro.» Dall'altra parte del santuario si apriva una cavità che doveva essere il principio di un lungo corridoio. Vi entrammo nello stesso ordine con cui avevamo sceso la scala e lo seguimmo per un lungo tratto in completo silenzio, superando a destra e a sinistra le aperture di gallerie secondarie sulle cui pareti si vedevano interminabili file di tombe. Non si udiva nient'altro, a parte i nostri passi. Provavo una sensazione di asfissia, nonostante sul soffitto si aprissero lucernari per la ventilazione. In fondo alla galleria c'era un'altra scala, cui un cartello appeso a una catena proibiva l'accesso. Il capitano lo ignorò e ci precedette al secondo piano sotterraneo, dove tutto, se possibile, sembrava ancora più opprimente. «Vi ricordo», disse Glauser-Röist, come se noi non ci avessimo pensato, «che queste catacombe sono state esplorate solo sommariamente. In particolare questo livello non è stato ancora studiato, quindi fate molta attenzione.» «Perché non esaminiamo il piano di sopra?» proposi, avvertendo nelle tempie il battito accelerato del mio cuore. «C'erano tutte quelle gallerie che non abbiamo percorso. E se l'entrata del Purgatorio fosse in una di esse?» Il capitano avanzò di qualche metro e si fermò, illuminando qualcosa sul pavimento. «Non credo, dottoressa. Guardi qui.» Ai suoi piedi, incorniciato dall'intenso cerchio di luce, si distingueva nitidamente il Monogramma di Costantino con la traversa orizzontale, identico a quello trovato sul corpo di Abi-Ruj Iyasus e a quello sulla copertina del codice sottratto a Santa Caterina. Era evidente che gli Staurophylakes erano passati di lì. Quello che non si poteva sapere, pensavo angustiata, era quanto tempo prima ciò fosse avvenuto. La maggior parte delle catacombe erano cadute nell'oblio durante il basso Medio Evo, dopo che, recuperate a poco a poco, per motivi di sicurezza, le reliquie dei santi, frane e vegetazione avevano fatto perdere le tracce degli ingressi di molte di esse. Farag non stava in sé dalla gioia. Mentre procedevamo di buon passo lungo una galleria dal soffitto altissimo, sosteneva che avevamo decifrato il linguaggio misterico degli Staurophylakes e che, a partire da quel momento, potevamo interpretare tutte le loro piste e i loro segnali con quasi completa certezza, La sua voce giungeva dal buio assoluto alle mie spalle, dato che l'unica luce era quella proiettata dalla torcia del capitano, un metro davanti a me. Il riflesso sulle rocce mi permetteva di vedere le tre file di loculi (molti dei quali evidentemente occupati) che scorrevano all'altezza dei piedi, della vita e della testa. Leggevo al volo i nomi dei defunti,
scolpiti sulle poche lapidi rimaste al loro posto: Dionisio, Puteolano, Cartilla, Astasio, Valentina, Gorgono... Tutte le lapidi mostravano qualche disegno simbolico relativo al loro lavoro in vita (sacerdote, agricoltore, madre di famiglia...) o alla primitiva religione cristiana che professavano: la colomba, l'ancora, i pani e i pesci. C'erano persino, incrostati nel gesso, alcuni oggetti personali dei defunti, dalle monete agli attrezzi, ai giocattoli se si trattava di bambini. Quel luogo era una fonte storica inestimabile. «Un altro Crismon», annunciò il capitano, fermandosi a un'intersezione di gallerie. Sulla destra, in fondo a uno stretto passaggio, si intravedevano al centro un altare e ai lati loculi e arcosogli, grandi nicchie simili alla bocca di un forno che ospitavano un'intera famiglia. Sulla sinistra si apriva un'altra galleria dal soffitto alto, identica a quella che avevamo percorso. Davanti a noi, invece, un'altra scala scavata nella roccia, a chiocciola, scendeva intorno a una grossa colonna di pietra liscia, che scompariva nelle profondità della terra. «Mi faccia vedere», chiese Farag, superandomi. Il Monogramma di Costantino era cesellato esattamente sul primo gradino. «Credo che dovremmo continuare a scendere», ne dedusse il professore, passandosi nervosamente le mani tra i capelli e spingendosi gli occhiali sul naso, nonostante li avesse già incollati agli occhi. «Non mi sembra prudente», obiettai. «Continuare a scendere è avventato.» «Non possiamo più tornare indietro», affermò la Roccia. «Che ora è?» chiese inquieto Farag, guardando nel contempo l'orologio. «Le sette meno un quarto», annunciò il capitano, cominciando la discesa. Se avessi potuto, avrei fatto dietro-front e sarei tornata in superficie, ma chi avrebbe avuto il coraggio di andarsene da sola, nell'oscurità, in quel labirinto popolato di morti, per quanto cristiani potessero essere? Non c'era rimedio: seguii il capitano sulla scala, imitata immediatamente da Farag. La scala sembrava non avere mai fine. Un gradino dopo l'altro, ci calavamo in quel pozzo in cui l'aria era sempre più soffocante, tenendoci alla colonna per non scivolare. Ben presto il capitano e il professore dovettero chinare il capo perché la loro fronte arrivava all'altezza degli scalini che avevamo già disceso. Dopo poco anche la larghezza della scala cominciò a ridursi: la distanza tra la colonna e il muro laterale diminuiva sensibilmente. La misura di quell'imbuto era più adatta a un bambino che a un adulto.
A un certo punto il capitano dovette piegarsi in avanti e procedere di lato, perché le sue ampie spalle non passavano dalla stretta apertura. Se erano stati gli Staurophylakes a concepire quel passaggio, dovevano avere una mente davvero contorta. La sensazione di claustrofobia faceva venir voglia di scappare nella direzione opposta, per rimettere piede sulla nuda terra. Ma l'aria cominciava a mancare e sembrava impossibile poter ritornare in superficie, come se ci fossimo congedati per sempre dalla vita reale, con le macchine, le luci, la gente... Avevamo l'impressione di scendere in uno dei loculi riservati ai defunti, da cui nessuno era mai potuto uscire. Doveva essere passata un'eternità e ancora non avevamo visto la fine di quella diabolica scala, sempre più stretta. A un certo punto fui presa da un attacco di panico. Sentii di non poter respirare. Il mio unico pensiero era che dovevo uscire immediatamente da quel buco, risalire in superficie. Boccheggiavo come un pesce fuor d'acqua. Mi controllai, chiusi gli occhi e cercai di calmare i battiti forsennati del mio cuore. «Un momento, capitano», avvisò Farag. «La dottoressa non si sente bene.» Lo spazio era così ristretto che a stento riuscì ad avvicinarmisi. Con una mano mi accarezzò i capelli e poi, dolcemente, le guance. «Stai meglio, Ottavia?» «Non riesco a respirare.» «Sì che ci riesci. Devi solo calmarti.» «Devo uscire di qui.» «Ascoltami», disse con fermezza, qualche gradino sopra di me, sollevandomi il mento e girandomi la testa verso di lui. «Non lasciarti dominare dalla claustrofobia. Respira a fondo. Varie volte. Dimenticati dove siamo e guardami.» Gli obbedii, perché non avevo alternativa. Lo guardai e, come per magia, i suoi occhi mi diedero sollievo e il suo sorriso mi allargò i polmoni. Cominciai a riprendermi e a recuperare l'autocontrollo. In meno di due minuti mi sentivo di nuovo me stessa. Farag mi accarezzò di nuovo il viso e fece cenno al capitano di proseguire. Cinque o sei gradini più in basso, tuttavia, Glauser-Röist si fermò di colpo. «Un altro Crismon.» «Dove?» chiese Farag. Né io né lui riuscivamo a vederlo. «Sul muro, all'altezza della mia testa. È inciso più in profondità degli al-
tri.» «Gli altri erano sul pavimento», sottolineai. «Si saranno consumati camminandoci sopra.» «Assurdo», aggiunse Farag. «Che cosa ci fa un Crismon proprio qui? Non c'è nessun cammino da indicare.» «Può essere una conferma perché l'aspirante Staurophylax sappia che la strada è giusta. Un segnale di incoraggiamento, o qualcosa del genere.» «Possibile», ribatté Farag, poco convinto. Riprendemmo il cammino, ma tre o quattro gradini più avanti il capitano si fermò di nuovo. «Un nuovo Crismon.» «Dov'è, stavolta?» volle sapere il professore, piuttosto alterato. «Nella stessa posizione del precedente.» Il precedente era ora all'altezza della mia faccia e potevo vederlo chiaramente. «Continua a non avere senso», insistette Farag. «Proseguiamo», propose la Roccia, laconico. «No, Kaspar, aspetti!» si oppose il professore, nervoso. «Esamini la parete. Guardi se vede qualcosa di strano. Se non c'è niente, continuiamo a scendere. Ma prima controlli bene, per favore.» Glauser-Röist girò la torcia verso di me, abbagliandomi accidentalmente. Mi coprii gli occhi con una mano, lasciandomi sfuggire una protesta soffocata. Un attimo dopo, sentii un'esclamazione più forte della mia. «Qui c'è qualcosa, professore!» «Cos'ha trovato?» «Tra i due Crismon si distingue un'altra forma erosa sulla roccia. Sembra uno sportello, ma si distingue appena.» La cecità temporanea dovuta al bagliore della torcia cominciava a passare. Potei presto intravedere la figura scorta dal capitano, ma non mi sembrò affatto uno sportello. Era un blocco di pietra, perfettamente incassato nel muro. «Si direbbe opera dei fossores.16 Un tentativo di rinforzare la parete o un'indicazione per gli scavi», commentai. «Lo spinga, Kaspar!» invitò il professore. «Non credo di riuscirci. Sono in una posizione molto scomoda.» «Allora spingilo tu, Ottavia!» «Come faccio a spingere questa pietra? Non si muoverà di un millime-
tro.» Ma mentre lo dicevo appoggiai il palmo della mano sul blocco e, con un minimo sforzo, riuscii a spingerlo dentro la parete. Mi accorsi che quella che dall'esterno sembrava una delle tante pietre quadrate del muro, con i lati di circa quarantacinque centimetri, era in realtà come la punta di un iceberg: una sporgenza di un blocco più grande, una sorta di grosso dente quadrato che si incuneava nella parete esterna, sigillando l'apertura. Dietro di essa, oltre il muro, il blocco di pietra si rivelava più largo e scorreva in una sorta di tunnel, anch'esso quadrato, mezzo metro in larghezza e mezzo metro in altezza. «Si muove!» esclamai, concitata. «Si muove!» Era curioso: il blocco scivolava come se fosse stato ingrassato, senza rumore, senza sfregare contro le pareti. In ogni caso, il mio braccio non era lungo a sufficienza perché la pietra arrivasse a fine corsa: le pareti intorno a noi dovevano avere uno spessore di qualche metro e l'apertura sembrava non avere fine. «Prenda la torcia, dottoressa!» proruppe Glauser-Röist. «Entri nell'apertura. Noi la seguiremo.» «Perché prima io?» Il capitano sbuffò. «Senta, né io né il professore possiamo farlo. Non abbiamo spazio per muoverci. Lei è proprio davanti, quindi entri, maledizione! Il professore entrerà per secondo e io per ultimo, retrocedendo fino a dove si trova lei ora.» Fu così che mi trovai ad aprire il cammino, procedendo gattoni, in un corridoio alto e largo poco più di mezzo metro. Dovevo spingere il blocco con le mani e la torcia con le ginocchia. Quasi svenni quando mi ricordai che avevo Farag dietro di me e che, stando a quattro zampe, la gonna non doveva coprirmi molto. Ma mi feci coraggio e mi dissi che quello non era il momento per simili sciocchezze. Ciononostante, in previsione di situazioni del genere, decisi che quando fossi tornata a Roma mi sarei comprata un paio di pantaloni. E che alle mie compagne, al mio Ordine e al Vaticano venisse pure un attacco di cuore. Fortunatamente per le mie mani e le mie ginocchia, il passaggio era liscio come la pelle di un neonato. Si aveva la sensazione di camminare sul vetro. Anche il blocco di pietra che scivolava lungo le pareti del corridoio doveva essere altrettanto liscio, il che spiegava perché fosse così facile da spingere. Tuttavia, quando staccavo le mani, scivolava leggermente verso di me, come se il corridoio fosse leggermente in salita. Non so quale distanza percorremmo in quelle condizioni, forse quindici o venti metri, ma
a me parvero interminabili. «Stiamo salendo», annunciò alle nostre spalle la voce del capitano. Infatti, la pendenza del corridoio aumentava sempre di più e il peso della pietra cominciava a farsi sentire sui miei polsi affaticati. Non sembrava affatto un passaggio destinato a un essere umano. Un cane o un gatto, piuttosto, ma assolutamente non una persona. Il pensiero che prima o poi mi sarebbe toccato ripercorrere la strada all'indietro, tornare alla sinistra scala a chiocciola, risalirla e percorrere due piani di catacombe mi faceva sentire lontanissima dal sole e dall'aria aperta. Finalmente, mi parve di notare che l'altra faccia del blocco di pietra stesse uscendo dal fondo della galleria. La pendenza era molto pronunciata e a stento riuscivo a reggerne il peso. Con un ultimo sforzo gli diedi uno spintone e il blocco cadde nel vuoto, atterrando un attimo dopo su qualcosa di metallico. «Ci siamo!» «Vede qualcosa?» «Lasciatemi un minuto per riprendere fiato e ve lo dico.» Presi la torcia con la mano destra e feci luce fuori dall'apertura. Non vidi nulla, per cui avanzai leggermente e mi affacciai. Era un cubicolo di proporzioni analoghe a quelli che avevamo visto nelle catacombe, ma completamente vuoto. A una prima occhiata mi parvero solo quattro pareti nude, scavate direttamente nella roccia, con un soffitto decisamente basso e il pavimento coperto da una larga lastra di ferro. In quel momento non feci caso al fatto che tutto era estremamente pulito, così come non mi accorsi che mi stavo appoggiando sulla stessa pietra che avevo spinto per tutti quei metri lungo la rampa. La sua altezza corrispondeva approssimativamente alla distanza tra il pavimento e l'apertura da cui ero emersa. Inspirai, come un saltatore prima della rincorsa, feci una contorsione acrobatica e saltai nel cubicolo, con grande frastuono. Un attimo dopo Farag uscì dal buco e dietro di lui il capitano, che non aveva un bell'aspetto: il suo corpo era troppo grosso e per passare aveva dovuto strisciare come un serpente, trascinandosi dietro lo zaino. Farag era alto quanto lui, ma essendo più magro era riuscito a muoversi con maggiore facilità. «Un pavimento molto originale», notò il professore, battendo i piedi sulla lastra di ferro. «Mi dia la torcia, dottoressa», reclamò Glauser-Röist. «È tutta sua.» In quel momento accadde qualcosa di spaventoso. Appena il capitano fu
emerso dall'apertura, udimmo uno scricchiolio inquietante, come la dolorosa torsione di vecchie corde, e il rumore di un ingranaggio che si metteva lentamente in marcia. Glauser-Röist illuminò tutto il cubicolo, girando rapidamente su se stesso, ma non vedemmo nulla. Fu il professore a scoprire di che cosa si trattasse. «La pietra! Guardate la pietra!» Il blocco di pietra che tanto amorevolmente mi aveva preceduta fino a lì si stava sollevando dal pavimento, spinto da una sorta di piattaforma che lo depositò sulla bocca del tunnel. Dopo di che scivolò all'indietro lungo la rampa, scomparendo alla nostra vista in un amen. «Siamo in trappola!» gridai, angosciata. Il blocco scivolava senza arrestarsi lungo il condotto, fino a incastrarsi di nuovo all'altra imboccatura. Dall'interno sarebbe stato impossibile rimuoverlo. La cornice in corrispondenza dell'apertura da cui eravamo entrati non aveva lo scopo di rendere difficile l'ingresso, bensì quello di impedire l'uscita. Ma intanto un altro meccanismo si era messo in movimento. Nella parete di fronte all'apertura, un blocco di pietra ruotò come una porta sui cardini, lasciando allo scoperto una nicchia delle dimensioni di una persona, nella quale erano visibili, senza il minimo dubbio, tre gradini di marmo bianco, granito nero e porfido rosso. Sopra di essi, scolpita nella roccia, l'enorme figura di un angelo con le braccia levate in preghiera, con una grande spada sospesa sopra la testa, puntata verso il cielo. Il bassorilievo era colorato. Esattamente come Dante le descriveva nella Divina Commedia, le lunghe vesti dell'angelo erano del colore della cenere o della terra secca, la carne rosa pallido e i capelli di un nero intenso. Dalle palme delle sue mani, in realtà da fori praticati nella roccia, pendevano due catene di tre anelli, di uguale lunghezza, una indiscutibilmente d'oro, l'altra, naturalmente, d'argento. Entrambe erano lucidissime e brillavano sotto il raggio della torcia. «Che cosa vorrà dire tutto questo?» si chiese Farag, avvicinandosi alla figura. «Fermo, professore! «Che succede?» fece questi, sobbalzando. «Non ricorda le parole di Dante?» «Le parole...» Boswell corrugò la fronte. «Non è che ha portato una copia della Divina Commedia?»
Ma Glauser-Röist aveva già estratto il libro dallo zaino e lo stava aprendo alla pagina corrispondente. Lesse: «Divoto mi gittai a' santi piedi: misericordia chiesi che m'aprisse, ma pria nel petto tre fiate mi diedi».17 «Per favore!» protestai. «Non dovremo ripetere a uno a uno tutti i gesti di Dante?» «Quindi l'angelo mostra due chiavi, una d'argento e una d'oro», ci ricordò il capitano. «Prima con quella d'argento, poi con quella d'oro, apre le serrature. E dice chiaramente che quando una delle due chiavi viene meno, la porta non si apre: Più cara è l'una, ma l'altra vuol troppa d'arte e d'ingegno avanti che disserri, perch'ella è quella che nodo digroppa».18 «Mio Dio!» «Animo, Ottavia», mi incoraggiò Farag. «Cerca di guardare il lato buono della situazione. Dopotutto è un bel rituale.» Be', in parte aveva ragione. Se non fossimo stati parecchi metri sottoterra, chiusi in un sepolcro e senza via d'uscita, forse avrei potuto apprezzare la bellezza di cui parlava Farag. Ma la prigionia mi irritava. Provavo un'acuta sensazione di pericolo che mi solleticava la spina dorsale. «Suppongo», riprese Farag, «che gli Staurophylakes abbiano attribuito ai tre colori alchemici un significato puramente simbolico. Per loro, come per chiunque altro giungesse qui, le tre fasi della Grande Opera alchemica corrispondevano al processo che l'aspirante adepto doveva seguire per giungere fino alla Vera Croce e al Paradiso Terrestre.» «Non ti capisco», dissi. «È molto semplice. Nel Medio Evo, l'Alchimia era tenuta in grande considerazione come scienza e molti erano i saggi che a essa si dedicavano: Ruggero Bacone, Raimondo Lullo, Arnaldo di Villanova, Paracelso... Gli alchimisti passavano buona parte delle loro vite rinchiusi nei loro laboratori, fra alambicchi, ritorte, crogioli e atanor, in cerca della Pietra Filosofale o dell'Elisir di Lunga Vita.» Farag sorrise. «In realtà, l'Alchimia era un percorso di perfezionamento interiore, una specie di pratica mistica.»
«Potresti andare al sodo?» incalzai. «Siamo chiusi in un sepolcro e dobbiamo uscire di qui.» «Scusate», balbettò, spingendosi gli occhiali in cima al naso. «I grandi studiosi dell'Alchimia, come lo psichiatra Carl Jung, sostengono che si trattasse di un percorso di autoconoscenza, un processo di ricerca del sé che passava per la dissoluzione, la coagulazione e la sublimazione, vale a dire, le tre Opere o gradini alchemici. Forse gli aspiranti Staurophylakes devono subire un analogo processo di distruzione, reintegrazione e purificazione, il che spiegherebbe perché la Confraternita ha adottato questa simbologia.» «In ogni caso, professore», soggiunse il capitano, facendo un passo verso l'angelo guardiano, «in questo momento gli aspiranti Staurophylakes siamo noi.» Glauser-Röist si prostrò davanti alla figura, chinando il capo fino a toccare il primo gradino con la fronte. Quella scena meritava di essere vista. Farag lo imitò. Vergognandomi profondamente, dovetti fare lo stesso per evitare discussioni. Ci battemmo tre volte il petto, proprio come Dante, mentre pronunciavamo una supplica affinché, misericordiosamente, ci venisse aperta la porta. Ma, naturalmente, la porta non si aprì. «Proviamo con le chiavi», mormorò il professore, rialzandosi in piedi e salendo i tre impressionanti scalini. Si trovava faccia a faccia con l'angelo, ma la sua attenzione era calamitata dagli spessi anelli delle due catene che pendevano dalle mani del bassorilievo. «Provi a tirare prima quella d'argento, poi quella d'oro», suggerì la Roccia. Il professore obbedì. Al primo strattone, un altro anello uscì dalla mano dell'angelo: ora ne pendevano quattro dalla mano sinistra e tre dalla destra. Farag provò con quella d'oro. Accadde esattamente la stessa cosa: uscì un altro anello. Ma stavolta non accadde solo questo. Un nuovo scricchiolio, molto più forte di quello che aveva preceduto il sollevamento del blocco di pietra, si produsse sotto i nostri piedi, al di sotto della fredda lastra di ferro. Mi si accapponò la pelle ma, apparentemente, non vi fu alcuna conseguenza. «Tiri di nuovo», insistette la Roccia. «Prima quella d'argento e poi quella d'oro.» Io non ci vedevo chiaro. C'era un elemento che ci sfuggiva. Ci stavamo scordando qualche dettaglio importante e qualcosa mi diceva che era me-
glio non continuare a giocare con le catene. Ma non dissi nulla, sicché Farag ripeté l'operazione. Ora da ognuna delle mani dell'angelo pendevano cinque anelli di catena. All'improvviso avvertii un calore insopportabile. Lo stesso GlauserRöist, senza nemmeno accorgersene, si sfilò la giacca e la lasciò cadere a terra. Farag si slacciò il colletto della camicia e si mise a sbuffare. Il calore aumentava a una velocità vertiginosa. «Non vi sembra che stia succedendo qualcosa di strano?» domandai. «L'aria sta diventando irrespirabile», notò Farag. «Non è l'aria», mormorò la Roccia, perplesso, abbassando lo sguardo. «È il pavimento. Il pavimento si sta riscaldando!» Era vero. La lastra di ferro irradiava un intenso calore e, se non fosse stato per le nostre scarpe, ci saremmo scottati i piedi come quando si cammina sulla sabbia rovente in piena estate. «Dobbiamo sbrigarci, o qui dentro finiremo alla brace!» esclamai con orrore. Il capitano e io saltammo sui gradini. Mi ritrovai sullo scalino di porfido, accanto a Farag, e fissai l'angelo. Una luce, una scintilla di comprensione si fece strada nel mio cervello. La soluzione era lì. Doveva essere lì. Lo volesse Dio, altrimenti in pochi minuti quel cubicolo sarebbe divenuto un forno crematorio. L'angelo sorrideva lieve, come la Gioconda di Leonardo, e sembrava divertito da quello che stava capitando. Con le mani levate al cielo, si divertiva... Le mani! Dovevo concentrarmi sulle mani. Esaminai minuziosamente le catene. Non avevano niente di speciale, tolto il loro valore venale. Erano catene normali, di fattura comune, con anelli grossi. Ma le mani... «Che cosa sta facendo, dottoressa?» Le mani non erano normali, nossignore. Dalla mano destra mancava il dito indice. L'angelo era mutilato. Che cosa mi ricordava tutto ciò? «Guardate quell'angolo del pavimento!» gridò il professore. «Sta diventando rosso!» Un ruggito sordo, un fragore di fiamme inferocite, salì fino a noi dal piano inferiore. «C'è un incendio, là sotto», disse fra sé Glauser-Röist. Poi, rabbioso, mi disse: «Che diavolo sta combinando, dottoressa?» «L'angelo è mutilato», gli spiegai, con il cervello che funzionava a pieno regime. «Gli manca il dito indice della mano destra.» «Benissimo. E allora?»
«Non capisce?» gridai, voltandomi verso il capitano. «A questo angelo manca un dito. Non può essere un caso. Deve significare qualcosa!» «Ottavia ha ragione, Kaspar», intervenne Farag, togliendosi la giacca e sbottonandosi del tutto la camicia. «Usiamo la testa. È la nostra unica possibilità di salvezza.» «Gli manca un dito. Stupendo.» «Forse è una specie di combinazione. Come una cassaforte», pensai a voce alta. Di fatto le mani indicavano i numeri uno, il dito mancante, e nove, le altre dita. «Forse dovremmo lasciare un anello solo nella catena d'argento della mano sinistra e arrivare a nove nella catena d'oro della mano destra. Dieci, come le dieci dita.» «Avanti, Ottavia! Non abbiamo molto tempo.» A ogni anello che spingevo all'interno della mano dell'angelo si sentiva un clac metallico dietro il bassorilievo. Quando ebbi lasciato solo un anello nella catena d'argento, tirai la catena d'oro fino ad arrivare a nove anelli. Niente. «I quattro angoli del pavimento sono incandescenti, Ottavia!» mi gridò Farag. «Più veloce di così non posso. Non posso!» Avvertivo un senso di nausea. Il forte odore di bruciato mi stava soffocando. «Non sono uno e nove», ipotizzò il capitano. «Dobbiamo guardarlo da un altro punto di vista. Con l'indice mancante, tra le due mani si vedono in tutto sei dita a sinistra e tre a destra. Provi sei e tre.» Tirai la catena d'argento come una posseduta, lasciando liberi sei anelli. Stiamo per morire, mi dissi. Per la prima volta nella mia vita cominciai a credere che fosse arrivata la fine. Pregai. Pregai con disperazione, mentre spingevo sei anelli d'oro nella mano destra, lasciandone fuori solo tre. Anche stavolta non accadde niente. Il capitano, Farag e io ci guardammo sconsolati. Una fiammata si alzò dal pavimento: la giacca lasciata a terra dal capitano aveva preso fuoco. Il sudore mi colava lungo il corpo, ma il peggio era il rombo nelle orecchie. Cominciai a sfilarmi il maglione. «Stiamo restando senza ossigeno», annunciò in quel momento GlauserRöist, con voce neutra. Dai suoi occhi grigiastri si intuiva che, come me, sentiva l'approssimarsi della fine. «È meglio che preghiamo, capitano», dissi. «Almeno voi», se ne uscì il professore, guardando la giacca consumata
dalle fiamme e passandosi una mano tra i capelli fradici, «avete la consolazione di credere che tra breve comincerete una nuova vita.» Fui inondata da un improvviso timore. «Non sei credente, Farag?» «No, Ottavia, non lo sono», si scusò, con un sorriso timido. «Ma non preoccuparti per me. Sono anni che mi preparo a questo momento.» «Ti prepari?» feci, scandalizzata. «L'unica cosa che dovresti fare è rivolgerti a Dio e confidare nella sua misericordia.» «Mi limiterò a dormire», replicò con tutta la tenerezza di cui era capace. «Per molto tempo ho avuto timore della morte, ma non mi sono concesso la debolezza di credere in un Dio per risparmiarmelo. Poi ho capito che ogni notte, quando andavo a dormire, morivo un po'. Il processo è lo stesso, non lo sapevi? Ricordi la mitologia greca?» Sorrise. «I fratelli gemelli, Hypnos e Thanatos,19 entrambi figli di Nyx, la notte. Ricordi?» «Dio santo, Farag!» gemetti. «Come puoi bestemmiare in questo modo quando stiamo per morire?» Non avrei mai immaginato che Farag non fosse credente. Sapevo che non era quello che si dice un cristiano praticante, ma da questo all'ateismo c'era un abisso. Non avevo conosciuto molti atei nella mia vita. Ero convinta che tutti, ciascuno a suo modo, credessero in Dio. Per questo provai orrore quando mi resi conto che quello stupido si stava giocando la vita eterna dicendo cose spaventose all'ultimo minuto. «Dammi la mano, Ottavia», mi chiese, tendendomi la sua, tremante. «Se devo morire, mi piacerebbe tenere la tua mano tra le mie.» Gliela diedi, naturalmente. Come potevo negargliela? Anch'io, del resto, sentivo il bisogno di un contatto umano, per quanto breve. «Capitano», dissi poi. «Vuole che preghiamo?» Il calore era infernale, l'aria scarseggiava e quasi non ci si vedeva, e non solo per le gocce di sudore che mi colavano negli occhi, ma perché ero priva di energie. Cominciavo a provare un dolce sopore, un sonno ardente che si stava impadronendo di me. Il pavimento, la fredda lastra di ferro che ci aveva accolti all'arrivo, era ora un abbagliante lago di fuoco. Tutto, noi compresi, era illuminato da un bagliore rosso-arancio. «Certamente, dottoressa. Cominci lei e io la seguirò.» Ma in quel momento capii. Era così semplice! Mi bastò dare un'ultima occhiata alla mia mano intrecciata con quella di Farag: in quell'unione, le dita madide di sudore e brillanti sotto la luce, si erano moltiplicate... Mi tornò alla mente, come in un sogno, un giochetto infantile, un trucco che avevo imparato da mio fratello Cesare, quando ero piccola, per ricordare le
tabelline delle moltiplicazioni. Per quella del nove, mi aveva spiegato Cesare, bastava contare le dita dal mignolo della mano sinistra fino ad arrivare al numero moltiplicatore e piegare il dito corrispondente. Le dita che restavano alla sinistra di quello piegato corrispondevano alle decine, e le dita che restavano alla destra corrispondevano alle unità. Mi liberai dalla stretta di Farag, che tenne gli occhi chiusi, e tornai a guardare l'angelo. Non erano sei e tre gli anelli che dovevo lasciare pendenti. Il numero indicato dalle dita dell'angelo era sei-tre, sessantatré. Ma sessantatré non era una combinazione che fosse possibile comporre. Sessantatré era il prodotto, il risultato della moltiplicazione di due numeri, come il trucco di Cesare. E quali fossero quei numeri era facile da indovinare: i numeri di Dante, il nove e il sette! Nove per sette: sessantatré. Sette per nove: sessantatré. Sei dita, tre dita. Non c'erano altre possibilità. Lanciai un grido di giubilo e cominciai a tirare le catene. Non ero in me. La mia mente era sotto l'effetto di un'euforia provocata dalla carenza di ossigeno. Ma grazie a quell'euforia avevo trovato la soluzione. Sette e nove! O nove e sette, che fu la combinazione che si rivelò corretta. Le mie mani sudate non riuscivano quasi a spingere e tirare gli anelli, ma una specie di follia, di raptus allucinatorio, mi obbligò a insistere con tutte le mie forze, fino a riuscirci. Seppi che Dio mi stava aiutando, sentii il suo alito su di me. Ma quando ci riuscii, quando la lastra di pietra con l'angelo sprofondò lentamente sottoterra aprendo un nuovo e fresco corridoio, mentre le fiamme si affievolivano, una voce pagana dentro di me mi disse che, in realtà, la mia vita avrebbe sempre cercato di resistere alla morte. Trascinandoci a terra, abbandonammo il cubicolo, assaporando un'aria che doveva essere vecchia e stantia, ma che a noi parve la più dolce e pulita che avessimo mai respirato. Non lo facemmo apposta, ma senza accorgercene seguimmo anche l'ultimo precetto che Dante aveva ricevuto dall'angelo: Intrate ma fatevi accorti, che di fuor torna chi'n dietro s'inguaia.20 Una volta entrati, non ci guardammo indietro, e alle nostre spalle la lastra di pietra tornò a chiudersi. Il nuovo corridoio era ampio e ventilato. Lungo il percorso, di quando in quando, una serie di gradini ci portava verso la superficie. Eravamo stanchi e affranti. La tensione cui eravamo stati sottoposti ci aveva estenuato. Farag tossiva così forte che sembrava sul punto di spezzarsi in due, il capitano si appoggiava alle pareti e camminava con passo incerto e io, confusa,
pensavo solo che volevo uscire di lì, sentire i raggi del sole sulla faccia. Nessuno dei tre era in grado di parlare. Procedevamo in assoluto silenzio, a parte i colpi di tosse di Farag, come i superstiti di una catastrofe. Dopo un'ora o un'ora e mezza, Glauser-Röist poté spegnere la torcia elettrica: la luce che scendeva dagli stretti lucernari, finalmente, era più che sufficiente a camminare senza pericolo. L'uscita non doveva essere molto lontana. Tuttavia, pochi passi più avanti, anziché raggiungere la libertà, ci trovammo in una saletta circolare, delle dimensioni della mia stanzetta in Piazza delle Vaschette, le cui pareti erano letteralmente invase da iscrizioni in greco scolpite nella pietra. A prima vista, leggendo qualche parola qua e là, si sarebbe detta un'orazione. «Hai visto, Ottavia?» La tosse di Farag andava calmandosi a poco a poco. «Bisognerà ricopiarlo e tradurlo», sospirai. «Potrebbe essere un'iscrizione qualunque, oppure un testo che gli Staurophylakes hanno lasciato per coloro che superano l'ingresso al Purgatorio.» «Comincia qui», indicò lui, con la mano. La Roccia, che in quel momento non era più tanto roccioso, si lasciò cadere al suolo, appoggiando la schiena all'epigrafe. Estrasse dallo zaino una borraccia d'acqua. «Ne volete?» C'era bisogno di chiederlo? Eravamo così disidratati che fra tutti e tre ci volle poco per svuotare la borraccia. Riprese le energie, il professore e io esaminammo l'iscrizione dal principio, illuminandola con la torcia elettrica. Πάσαν χαράν ήγήσασθε, αδελφοί μου, δταν πειρασμοΐς περιπήσετε ποικίλοις, γιγνώσκοντες δτι το δοκίμων υμών της πίστεως κατεργάζεται ύπομονήν «'Πάσαν χαράν ήγήσασθε, αδελφοί μου...'» lesse Farag in un greco correttissimo. «'Considerate, fratelli miei...' Ma che cos'è?» Il capitano estrasse dallo zaino un taccuino e una penna e li consegnò al professore, perché prendesse appunti. «'Considerate, fratelli miei'», tradussi io, seguendo l'iscrizione con l'indice, «'come motivo di grande gaudio il vedervi coinvolti in ogni genere di prova, sapendo che la dimostrazione della vostra fede produce costanza.'» «Sta bene», fece il capitano, sarcastico, senza alzarsi da terra. «Considererò grande motivo di allegria essere stato a un passo dalla morte.»
«'Ma che la costanza'», proseguii, «'porta con sé un'opera perfetta, perché siate perfetti e pienamente integri, senza deficienza alcuna.' Un momento... Io lo conosco questo testo!» «Sì? Allora non è un messaggio degli Staurophylakes?» domandò Farag, appoggiando la mano con la penna alla fronte. «Viene dal Nuovo Testamento! Il principio della lettera di San Giacomo! Il saluto che San Giacomo di Gerusalemme dirige alle dodici tribù della diaspora.» «Giacomo l'apostolo?» «No, assolutamente no. L'autore di questa lettera, anche se dice di chiamarsi Iacobos, ovvero Giacomo in greco, non si identifica in nessun momento come apostolo e oltretutto, come puoi constatare, utilizza un greco colto e corretto, per cui non può trattarsi di Giacomo il Vecchio.» «Allora non è un messaggio degli Staurophylakes?» ripeté Farag. «Certo che lo è, professore», lo consolò Glauser-Röist. «Dalle frasi che avete letto, non credo di sbagliare a supporre che gli Staurophylakes utilizzino le sacre parole della Bibbia per comporre i loro messaggi.» «'Se a qualcuno di voi manca la sapienza'», continuai a leggere, «'la chieda a Dio, che la dà a tutti in abbondanza senza chiedere nulla in cambio, ed Egli ve la darà.'» «Io», mi interruppe Farag, appoggiando a sua volta un dito sopra il testo, «preferirei tradurla: 'Qualora taluno di voi si veda carente di sapienza, la chieda allora a Dio, che a tutti dona generosamente senza pretesa alcuna, ed Egli ve la dispenserà'.» Sospirai, armandomi di pazienza. «Non colgo la differenza», commentò il capitano. «Perché non c'è», dichiarai io. «Va bene, va bene!» si rassegnò Farag, con un gesto di falso disinteresse. «Riconosco che sono un po' barocco nelle mie traduzioni.» «Un po'?» mi sorpresi. «Dipende dal punto di vista... Si potrebbe anche dire sufficientemente preciso.» Ero sul punto di dirgli che i suoi occhiali erano così affumicati che «precisione» era una parola grossa, ma me ne astenni, visto che oltretutto era lui a farsi carico della trascrizione del testo e io non avevo alcuna voglia di farlo. «Stiamo uscendo dal seminato», segnalò Glauser-Röist. «Gli esperti non potrebbero badare più alla sostanza che alla forma, per favore?»
«Certamente, capitano.» Guardai Farag con la coda dell'occhio.» 'Ma chieda con fede, senza dubitare, poiché il dubbio è come le onde del mare, agitato dal vento e sollevato da una parte e dall'altra. Non pensi quell'uomo di ricevere nulla dal Signore: è un indeciso, incostante in ogni suo cammino.'» «Più che indeciso, io tradurrei dall'animo piegato.» «Professore...!» «Va bene! Sto zitto!» «'Sia orgoglioso il fratello umile della propria esaltazione e il ricco della sua umiliazione.'» Mi stavo avvicinando alla fine di quel lungo paragrafo. «'Beato colui che sostenne la prova, perché dopo di essa riceverà la corona.'» «La corona che ci incideranno sulla pelle, sopra la prima croce», mormorò la Roccia. «Ecco, francamente, la prova di entrata al Purgatorio non è stata per niente facile, ma non ci ha lasciato sul corpo alcun marchio che non avessimo già portato da casa», rilevò Farag, respingendo il pensiero sgradevole delle scarificazioni. «Non è nulla in confronto a ciò che ci aspetta. Non abbiamo fatto altro che chiedere il permesso di entrare.» «Non ci resta molto da leggere», dissi, abbassando il dito e lo sguardo sulle ultime parole dell'epigrafe. «Solo un paio di frasi.» La prima era: καί οΰτως είς την ̉Ρώμην ήλθαμεν «'E con questo ci dirigiamo a Roma'», tradusse il professore. «C'era da aspettarselo...» affermò Glauser-Röist. «La prima cornice del Purgatorio di Dante è quella dei superbi e, secondo Catone LXXVI, l'espiazione di questo peccato capitale deve compiersi nella città conosciuta per la sua mancanza di umiltà. Ossia Roma.» «Dunque, si torna a casa», dissi, soddisfatta. «Sì, se usciamo di qui, dottoressa. Ma non sarà per molto.» «Non abbiamo ancora finito», avvisai, tornando alla parete. «Ci manca l'ultima riga: 'Il tempio di Maria è bellamente adornato'.» «Questo non può essere la Bibbia», notò il professore, massaggiandosi le tempie. I capelli, sporchi di terra e sudore, gli ricadevano sul viso. «Non ricordo che da nessuna parte si faccia riferimento a un tempio di Maria.»
«Sono quasi certa che sia un frammento del Vangelo di Luca, anche se modificato con un riferimento alla Vergine. Suppongo che ci stiano dando una pista.» «Ce ne occuperemo una volta rientrati in Vaticano», sentenziò GlauserRöist. «Viene da Luca, sicuramente», insistetti, orgogliosa della mia buona memoria. «Non saprei dire il capitolo e il versetto, ma riguarda il momento in cui Gesù profetizza la distruzione del Tempio di Gerusalemme e le future persecuzioni dei cristiani.» «In realtà, quando Luca scrisse queste profezie mettendole in bocca a Gesù», rimarcò Boswell, «tra gli anni 80 e 90 dopo Cristo, queste cose erano già accadute. Gesù non ha profetizzato niente.» Lo guardai gelida. «Non mi sembra un commento molto appropriato, Farag.» «Mi spiace, Ottavia», si scusò. «Credevo che lo sapessi.» «Lo sapevo», risposi, alquanto offesa. «Ma a che scopo ricordarmelo?» «Be'», tartagliò lui, «ho sempre pensato che fosse meglio sapere la verità.» La Roccia si alzò in piedi, senza mettere il naso nella nostra discussione. Raccolse da terra il suo zaino, se lo mise in spalla e si inoltrò nel corridoio, verso l'uscita. «Se la verità fa male», dissi stizzita, pensando a Ferma, Margherita, Valeria e a tanta altra gente, «non è necessario conoscerla.» «La pensiamo in modo diverso, Ottavia. La verità è sempre preferibile alla menzogna.» «Anche se fa male?» «Dipende dalla persona. Ci sono malati di cancro a cui non si può dire quale sia il loro male. Altri, invece, esigono di saperlo.» Mi guardò fisso e, per la prima volta da quando lo avevo conosciuto, senza battere le palpebre. «Credevo che tu appartenessi alla seconda categoria.» «Dottoressa! Professore! L'uscita!» gridò Glauser-Röist, non lontano da noi. «Andiamo, o resteremo qui dentro per sempre!» esclamai, e mi avviai per il corridoio lasciandomi dietro Farag. Uscimmo in superficie passando attraverso un pozzo secco situato tra monti selvaggi e spogli. Si stava facendo sera e non avevamo la minima idea di dove ci trovassimo. Camminammo per due ore, seguendo il corso di un fiume che scorreva
in una gola molto stretta. Ci ritrovammo poi su una strada di campagna che ci condusse fino a una fattoria, il cui cortese proprietario era abituato a ricevere escursionisti dispersi. Ci informò che ci trovavamo nella valle dell'Anapo, a una decina di chilometri da Siracusa, e che avevamo percorso al buio i Monti Iblei. Poco più tardi, un'automobile dell'Arcivescovo ci passò a prendere per riportarci nella civiltà. Non potemmo raccontare nulla della nostra avventura a Monsignor Giuseppe Arena. Ci limitammo a una rapida cena presso l'Arcivescovado, recuperammo i nostri bagagli e ripartimmo a tutta velocità verso l'aeroporto di Fontanarossa, a una cinquantina di chilometri di distanza, per prendere il primo volo per Roma. Ricordo che, quando eravamo già a bordo e ci stavamo allacciando le cinture, mi tornò in mente all'improvviso l'anziano sacrestano di Santa Lucia e mi domandai che cosa gli avessero raccontato all'Arcivescovado per tranquillizzarlo. Volevo parlarne al capitano, ma, quando mi voltai, mi accorsi che si era addormentato profondamente. 4 Al mio risveglio, l'indomani, molto prima dell'alba, mi sentii come quei viaggiatori confusi che, senza comprendere bene il fenomeno, perdono un giorno del calendario delle loro vite a causa della rotazione della terra. Persino nel letto della stanza alla Domus ero così sfinita da avere l'impressione di non avere dormito per niente, quella notte. Nel silenzio, osservando le sagome disegnate intorno a me dalla fioca luce che arrivava dalla strada, continuavo a domandarmi in che storia mi fossi infilata, che cosa stesse accadendo e perché la mia vita avesse preso quella piega dissennata. Solo poche ore prima ero in fin di vita nelle profondità della terra. Persino la tragica fine di mio padre e mio fratello mi sembrava un ricordo lontano almeno due giorni. E, come se non bastasse, non avevo compiuto il Rinnovo dei Voti. Come potevo assimilare tutto ciò, vivendo a un ritmo così insolito per me? I giorni, le settimane, i mesi volavano e io ero sempre meno cosciente di me stessa e dei miei doveri tanto di religiosa quanto di responsabile del Laboratorio di Restauro e Paleografia dell'Archivio Segreto del Vaticano. Sapevo di non dovermi preoccupare dei voti: le cause di forza maggiore, come quella che mi riguardava, erano contemplate nello statuto del mio Ordine e, sempre che firmassi la petizione appena possibile, si sarebbero
dati come automaticamente rinnovati in pectore. Era vero che l'Ordine mi avrebbe perdonata, era vero che stavo espletando un lavoro di vitale importanza per la Chiesa, ma... potevo perdonarmi io? E poteva perdonarmi Dio? Per un momento, mentre cambiavo posizione e richiudevo gli occhi nella speranza di riconciliarmi il sonno, pensai che sarebbe stato meglio rinunciare a quelle riflessioni e continuare a lasciarmi trascinare dalla vita, anziché tentare invano di fare viceversa. Ma persino le palpebre rifiutarono di obbedirmi e una voce interiore mi accusò di vigliaccheria, di brontolare per ogni nonnulla e di nascondermi dietro una falsa cortina di timori e rimorsi. Perché, invece di sovraccaricare la mia coscienza di sensi di colpa, attività che a quanto pareva mi deliziava, non mi decidevo a godere di ciò che inaspettatamente mi veniva offerto? Avevo sempre invidiato il lato avventuroso della vita di mio fratello Pierantonio, i suoi lavori, il suo incarico in Terrasanta, i suoi scavi archeologici... E adesso che ero io a trovarmi impegnata in un'impresa analoga, invece di fare appello alla mia forza e al mio coraggio, mi tuffavo nelle mie paure, come chi si avvolge in una coperta. Povera Ottavia! Tutta libri e orazioni, tutta la vita a studiare, cercando di dimostrare il proprio valore tra codici, rotoli, papiri e pergamene, e quando Dio decideva di metterla in pista e strapparla per un po' ai suoi studi e alle sue ricerche, faceva capricci come una bambina e tremava come una pusillanime. Se volevo continuare a indagare sul furto dei Ligna Crucis con Farag e il capitano Glauser-Röist, dovevo comportarmi come la persona privilegiata che ero, dovevo mostrare più animo e più decisione, lasciando indietro lamenti e proteste. Forse che Farag non aveva perso tutto, senza battere ciglio? La sua casa, la sua famiglia, il suo Paese, il suo lavoro al Museo Greco-Romano di Alessandria? In Italia non disponeva che di una camera in prestito dalla Domus e del modesto sussidio che la Segreteria di Stato, su richiesta del capitano, gli aveva concesso. Eppure eccolo lì, pronto a giocarsi la vita per chiarire un mistero che, oltre ad affondare le radici nella notte dei tempi, stava tormentando tutte le Chiese cristiane... E per giunta era ateo, ricordai, sorprendendomi di nuovo. No, ateo no, mi dissi, accendendo la luce sul comodino e alzandomi dal letto. Nessuno era ateo, per quanto lo credesse. Tutti, in un modo o nell'altro, credevamo in Dio. O almeno questo era ciò che mi avevano insegnato a pensare. Anche Farag doveva credere in Lui, a modo suo, checché ne di-
cesse. Benché questa opinione, propria di noi credenti, potesse essere solo il frutto di un atteggiamento intollerante e prepotente e quindi, per quanto strano, potessero esistere persone che non credevano in Dio. Quando sfilai le gambe da sotto le coperte mi spaventai: tutto il mio corpo era pieno di spine, aghi, schegge... Una batteria inimmaginabile di microscopiche ferite. L'avventura del giorno prima nelle catacombe di Santa Lucia mi avrebbe lasciata ammaccata e dolorante per un bel po'. Ehi, un momento, mi rimproverai severa. Che cosa avevo appena finito di dire a me stessa? Invece di lamentarmi, dovevo ripensare con orgoglio a ciò che era accaduto a Siracusa e sentirmi soddisfatta di avere risolto l'enigma e di essere uscita viva da quella trappola. Altri, molto probabilmente, sarebbero morti senza... Altri erano morti in quello stesso luogo. E i loro resti? «Non c'è dubbio che a Siracusa ci siano Staurophylakes», affermò il capitano, qualche ora più tardi, quando ci ritrovammo tutti e tre nel mio laboratorio all'Ipogeo, per la prima volta quella settimana. «Chiami l'Arcivescovado e chieda del sacrestano della chiesa», propose Farag. «Il sacrestano?» fece la Roccia, stupito. «Sì, credo anch'io che abbia qualcosa a che vedere con la Confraternita», sostenni. «È un'intuizione.» «Ma a che scopo volete che chiami? Per sentirmi dire che è solo un brav'uomo che da anni lavora generosamente a Santa Lucia? Se non avete idee migliori, cambiamo argomento.» «Eppure sono sicura che sia lui a mantenere pulito il luogo della prova e a eliminare i resti mortali di coloro che non la superano. Non ricorda che le catene d'oro e d'argento erano lucidissime?» «E se così fosse, dottoressa?» ribatté sarcastico Glauser-Röist. «Crede che confesserebbe la sua condizione di Staurophylax, se glielo chiedessimo gentilmente? O magari potremmo farlo arrestare dalla polizia, anche se non ha mai commesso alcun delitto ed è l'onesto e anziano sacrestano della chiesa di Santa Lucia, patrona di Siracusa. In questo caso, che cosa facciamo? Gli strappiamo a forza i vestiti per verificare se vi siano scarificazioni sul suo corpo? Certo, se non è disposto a spogliarsi, possiamo sempre chiedere a un magistrato che glielo imponga, e una volta nudo al commissariato... sorpresa! Non ha cicatrici addosso ed è solo chi dice di essere.
Molto bene! Allora ci denuncia e ci fa causa, e la storia ricade naturalmente sul Vaticano e finisce sui giornali.» «La questione è», intervenne Farag, placando il capitano, «che se il sacrestano è uno Staurophylax, immagino che, oltre a svolgere gli incarichi menzionati da Ottavia, avviserà anche la Confraternita che abbiamo dato inizio alle prove.» «Non dobbiamo trascurare questa possibilità», concordò il capitano. «Dobbiamo andare coi piedi di piombo, qui a Roma.» «E a proposito di Roma...» Mi guardarono entrambi, con aria interrogativa. «Credo che dovremmo prendere in considerazione l'eventualità di morire nel corso di una delle prove», proseguii. «Non è questione di avere paura o tirarsi indietro, ma le cose dovrebbero essere chiare, prima di continuare.» Il capitano e il professore si scambiarono un'occhiata, poi tornarono a guardare me. «Credo che la questione sia già risolta», disse Glauser-Röist. «Come sarebbe a dire già risolta?» «Non moriremo, Ottavia», dichiarò Farag, con molta decisione, spingendosi gli occhiali sulla sommità del naso. «Nessuno dice che non sia pericoloso, certo, ma...» «Ma per quanto pericoloso possa essere», commentò la Roccia, «perché noi non dovremmo superare le prove da cui sono usciti vivi Staurophylakes a centinaia, durante i secoli?» «Non ho detto che moriremo di sicuro. Voglio semplicemente dire che potremmo morire e che non dobbiamo dimenticarcene.» «Lo sappiamo, dottoressa. E lo sanno anche Sua Eminenza il Cardinal Sodano e Sua Santità il Papa. Ma nessuno ci obbliga. Se non dovesse sentirsi in grado di proseguire, la capirei. Per una donna...» «Ci risiamo!» protestai, indignata. Farag cominciò a ridacchiare sotto i baffi. «Si può sapere che cosa c'è da ridere?» lo apostrofai. «Rido perché adesso vorrai essere la prima a superare tutte le prove.» «Ebbene sì. E allora?» «Niente!» rispose, abbandonandosi a una grassa risata. Ma la cosa più strana fu che, prima ancora che potessi reagire, un'altra fragorosa risata riecheggiò nel laboratorio. Non potevo credere ai miei occhi: Farag e la Roccia stavano morendo dal ridere, sghignazzavano in coro senza riuscire a smettere.
Che cosa potevo fare, ammazzarli? Sospirai e sorrisi con rassegnazione. Se quei due erano disposti ad andare fino in fondo in quell'avventura, io sarei stata due passi avanti a loro. Chiusa la questione. Ora piuttosto dovevamo metterci al lavoro. «Dovremmo cominciare a studiare gli appunti sull'iscrizione», suggerii, appoggiando pazientemente i gomiti sulla scrivania. «Sì, sì», farfugliò Farag, asciugandosi le lacrime col dorso di una mano. «Ottima idea, dottoressa», disse il capitano, tra un singhiozzo e l'altro. Era bello sapere che anche la Roccia era capace di ridere. «Be', se ti sei ripreso, leggi i tuoi appunti, Farag, per favore.» «Un momento», mi chiese, rivolgendomi uno sguardo affettuoso mentre estraeva il taccuino da una delle enormi tasche della giacca. Si schiarì la gola, si tirò indietro i capelli dalla fronte, inspirò e, quando finalmente trovò quello che cercava, si mise a leggere. «'Considerate, fratelli miei, come motivo di grande gaudio l'esser sottoposti a prove d'ogni genere, sapendo che la dimostrazione della vostra fede produce costanza. Ma che la costanza porti con sé un'opera perfetta, affinché siate perfetti e pienamente integri, senza deficienza alcuna. Perché se qualcuno di voi si vede a corto di sapienza, la richieda a Dio, che a tutti dà generosamente senza pretese, ed egli ve ne farà dono. Ma chieda con fede, senza dubitare, poiché colui che dubita somiglia alle onde del mare agitato dal vento e sollevato da ogni parte. Non pensi costui di ricevere qualcosa dal Signore: egli è un uomo dall'animo piegato...'» «Un uomo dall'animo piegato? Questa non è la mia traduzione.» «In realtà è la mia. Visto che ero io a prendere gli appunti...» rimarcò soddisfatto. «'Un uomo dall'animo piegato, incostante in ogni suo cammino. Si glori il fratello umile nella propria esaltazione e il ricco della propria umiliazione. Beato colui che sostiene la prova, giacché, una volta sottopostovi, riceverà la corona.' Poi viene il pezzo di: 'E adesso dirigiamoci a Roma', che, come ha osservato il capitano, ci indica la città della prima prova del Purgatorio. E infine: 'Il tempio di Maria è bellamente adornato'.» «Bellamente adornato», ripetei sconfortata. «Un bel tempio dedicato alla Vergine. Di sicuro questa è la chiave per trovare il luogo, però non ci dice molto. La soluzione non è la frase, però è nella frase. Ma come scoprirla?» «A Roma tutte le chiese dedicate a Maria sono belle, no?» «Solo quelle dedicate a Maria, professore?» ironizzò Glauser-Röist. «A Roma tutte le chiese sono belle.»
Senza accorgermene e senza motivo apparente, mi ero messa in piedi e avevo alzato la mano destra. La mia mente inseguiva le parole. «Com'era la frase in greco, Farag? Hai copiato il testo originale?» Il professore mi guardò, inarcò le sopracciglia e fissò la mia mano, che sembrava misteriosamente appesa a un cavo inesistente. «Hai qualcosa al braccio?» «Hai copiato il testo, Farag? L'originale? L'hai copiato?» «Be', no, non l'ho copiato, Ottavia. Ma me lo ricordo, più o meno.» «Non mi serve più o meno», protestai, abbassando la mano fino alla tasca del camice, che continuavo a indossare per abitudine: non riuscivo a farne a meno. «Ho bisogno di ricordare com'erano scritte esattamente le parole 'bellamente adornato'. Erano per caso kalos kekosmetai? Ho una mezza idea...» «Vediamo, lasciami ricordare... Sì, ne sono sicuro, era 'το Ιερόν της Παναγίας καλώς κεκοσμέται, 'Il tempio della Santissima è bellamente adornato.' Panagias, la 'Tutta Santa' o 'Santissima', è la locuzione greca per indicare la Vergine.» «Naturalmente!» proclamai, in preda all'entusiasmo. «Kekosmetai! Kekosmetai! Santa Maria in Cosmedin!» «Santa Maria in Cosmedin?» ripeté Glauser-Röist, mostrando di non capire di che cosa stessi parlando. Farag sorrise. «Incredibile. A Roma c'è una chiesa con un nome greco? Santa Maria Adornata... Credevo che qui fosse tutto in italiano o in latino.» «Incredibile è dir poco», mormorai, passeggiando avanti e indietro per il mio piccolo laboratorio, «perché oltretutto è proprio una delle mie chiese preferite. Non ci vado tanto spesso quanto vorrei, perché è lontana da casa, ma solo lì si celebrano messe in greco.» «Non ricordo di esserci mai stato», commentò la Roccia. «Ha mai messo la mano nella Bocca della Verità, capitano?» gli domandai. «Sa, quell'effigie terrificante la cui bocca, secondo la leggenda, morde la mano ai bugiardi.» «Ah, sì, certo che ho visto la Bocca della Verità: è uno dei luoghi imprescindibili di Roma.» «Ebbene, la Bocca della Verità è situata sotto il portico di Santa Maria in Cosmedin. Gente da ogni parte del mondo scende dagli autobus che riempiono il piazzale della chiesa, e tutti fanno la coda sotto il portico, arrivano all'effigie, mettono dentro la mano, fanno la foto di rigore e se ne vanno. Nessuno entra nella chiesa, nessuno la vede, nessuno sa che esiste, nono-
stante si tratti di una delle più belle della città.» «'Il tempio di Maria è bellamente adornato'», recitò Farag. «Sì, dottoressa, ma come fa a essere sicura che si tratti proprio di quella chiesa? Ce ne sono a centinaia di belle chiese, in questa città!» «No, capitano», risposi, mettendomi di fronte a lui. «Non è solo perché è bella, e lo è, molto, né perché i greci bizantini che giunsero a Roma nell'VIII secolo, in fuga dalla querelle iconoclasta, l'abbiano abbellita ulteriormente. Ma perché la frase dell'iscrizione delle catacombe di Santa Lucia la indica con precisione: kalos kekosmetai... Non vede? Kekosmetai, Cosmedin.» «Non può vederlo», mi fece presente Farag. «Glielo spiego io, capitano. Cosmedin deriva dal greco kosmidion, che significa 'ornato, adornato, abbellito'. Kekosmetai è il verbo al passivo della nostra frase. Se togliamo il raddoppiamento ke, la cui unica funzione è distinguere il perfetto dagli altri tempi verbali, ci resta kosmetai, che come vede ha la stessa radice di kosmidion.» «Santa Maria in Cosmedin è il luogo indicato dagli Staurophylakes», affermai, profondamente convinta. «Dobbiamo solo andare a constatarlo.» «Dovremmo ripassare le note sulla prima cornice del Purgatorio di Dante», ammonì Farag, prendendo dalla scrivania la mia copia della Divina Commedia. Mi sfilai il camice. «Mi sembra opportuno. Prima però ho una cosa urgente da fare.» «Non c'è nulla di più urgente, dottoressa. Dobbiamo andare a Santa Maria in Cosmedin questo stesso pomeriggio.» «Ottavia, scappi sempre quando c'è da leggere Dante.» Appesi il camice al gancio e mi voltai verso di loro. «Se devo strisciare per terra, scendere gradini coperti di polvere e percorrere catacombe inesplorate, ho bisogno di vestiti più adeguati di quelli che uso in Vaticano.» Farag era sorpreso. «Vai a comprarti dei vestiti?» Aprii la porta e uscii in corridoio. «In realtà, solo un paio di pantaloni.» Non avevo alcuna intenzione di entrare in Santa Maria in Cosmedin senza prima avere letto il Canto X del Purgatorio, ma i negozi chiudevano per l'ora di pranzo e non mi restava molto tempo per comprare ciò che mi serviva. E poi volevo chiamare casa, per sapere come stavano mia madre e il resto della famiglia, e per questo avevo bisogno di un po' di tranquillità. Quando tornai all'Archivio seppi che Farag e il capitano stavano pran-
zando al ristorante della Domus. Io ordinai un panino alla caffetteria del personale e mi rinchiusi nel laboratorio per documentarmi sulle disgrazie che ci sarebbero toccate quel pomeriggio. Non smettevo di pensare all'espediente della tabellina, grazie al quale avevo risolto l'enigma dell'entrata al Purgatorio. Mi rivedevo ancora, a sette anni, di fronte ai compiti sul tavolo in cucina, con Cesare che mi spiegava il trucco, seduto accanto a me. Com'era possibile che un giochetto da bambini ascendesse al rango di prova iniziatica di una setta millenaria? Potevo trovare solo due spiegazioni: la prima era che ciò che secoli prima si considerava il summum della scienza fosse ormai materia di studio delle scuole elementari; la seconda, inaudita e quasi inaccettabile, era che la saggezza del passato poteva attraversare i secoli nascosta dietro certe usanze popolari, racconti, giochi infantili, leggende, tradizioni e persino libri apparentemente innocui. Per riscoprirla, mi dissi, bastava solo cambiare il modo di guardare il mondo, accettare il fatto che i nostri occhi e le nostre orecchie sono solo miseri recettori della complessa realtà che ci circonda e mettere da parte i pregiudizi. E questo era il processo a cui stavo cominciando a sottopormi, pur senza saperne il motivo. Non potevo più leggere il testo dantesco con l'indifferenza di prima. Ora sapevo che quelle parole celavano un significato più profondo. Anche Dante Alighieri si era trovato di fronte al bassorilievo dell'angelo guardiano nelle catacombe di Siracusa e aveva tirato le stesse catene che io avevo avuto tra le mani. Questo e altro mi facevano sentire una certa familiarità nei confronti del poeta fiorentino. Mi spaventava l'idea che avesse osato scrivere il Purgatorio sapendo, come sapeva, che gli Staurophylakes non glielo avrebbero mai perdonato. Forse la sua ambizione letteraria era enorme, forse voleva dimostrare di essere un nuovo Virgilio e ricevere il serto d'alloro, premio dei poeti, che difatti ornava tutti i suoi ritratti e che, a suo dire, era l'unica sua vera aspirazione. Dante aveva il terribile desiderio di passare alla posterità come il più grande scrittore della storia, lo manifestò in varie occasioni. Per questo doveva sembrargli penoso il passare del tempo, il volgere degli anni, senza che lui riuscisse a realizzare i suoi sogni. Forse, come Faust secoli dopo, considerò anche la possibilità di vendere l'anima al diavolo, in cambio della gloria. Alla fine realizzò il suo scopo, anche se a prezzo della vita. Il Canto X ha inizio quando Dante e il suo maestro Virgilio varcano finalmente la porta del Purgatorio. Dal rumore della porta che si chiude (non possono voltarsi indietro), sanno che non c'è possibilità di ritorno. Così
comincia il cammino di purificazione interiore del Fiorentino. Ha visitato l'Inferno e visto quali castighi siano inflitti nei nove gironi agli eterni dannati. Ora gli si chiede di purificare l'anima dai propri peccati per poter accedere, completamente rinnovato, al regno celestiale ove lo attende la sua amata Beatrice, la quale, secondo Glauser-Röist, altro non sarebbe che la rappresentazione della Sapienza e della Suprema Conoscenza. Noi salivam per una pietra fessa che si moveva d'una e d'altra parte, sì come l'onda che fugge e s'appressa. «Qui si convene usare un poco d'arte» cominciò 'l duca mio «in accostarsi or quinci or quindi al lato che si parte.»21 Dio Mio, una roccia in movimento! Il pezzo di pane che stavo masticando mi si fece amaro in bocca. Meno male che avevo comprato quei pantaloni di un bel grigio perla. Ero contenta, perché mi erano costati poco e li sentivo molto comodi. Nascosta nel camerino di prova, sola di fronte allo specchio, avevo scoperto che mi davano un insolito aspetto giovanile. Sperai con tutta l'anima che non esistessero ridicole norme che mi proibissero di indossarli. Ma anche se ci fossero state le avrei ignorate totalmente e senza rimorsi. Mi ricordai della celebre suora americana Mary Dominic Ramacciotti, fondatrice della residenza romana Girls' Village, che aveva ottenuto da Papa Pio XII un permesso speciale per indossare giacche di pelle, farsi la permanente, usare cosmetici di Elizabeth Arden, andare all'opera e vestirsi con eleganza squisita. Io non aspiravo a tanto: mi accontentavo di poter usare un semplice paio di pantaloni, che non mi ero tolta prima di uscire dal negozio. Intanto, tra grandi difficoltà, Dante e Virgilio giungono alfine alla prima cornice. Dalla sua sponda ove confina il vano al piè dell'alta ripa che pur sale misurerebbe in tre volte un corpo umano; e quanto l'occhio mio potea trar d'ale or dal sinistro e or dal destro fianco
questa cornice mi parea cotale.22 Ma subito Virgilio lo obbliga a smettere di curiosare in giro e a prestare attenzione alla strana turba di anime che lentamente e dolorosamente si avvicina loro. Io cominciai: «Maestro, quel ch'io veggio muovere a noi, non mi sembian persone, e non so che, sì nel veder vaneggio.» Ed elli a me: «La grave condizione di lor tormento a terra li rannicchia, sì che i miei occhi pria n'ebber tensione. Ma guarda fiso là, e disviticchia col viso quel che vien sotto a quei sassi: già scorger puoi come ciascun si picchia.»23 Sono le anime dei superbi, schiacciate dal peso di enormi pietre che servono loro di umiliazione e purificazione dalle vanità del mondo. Avanzano con sofferenza lungo la stretta cornice, con le ginocchia al petto e i volti pallidi per lo sforzo, recitando una strana versione del Padre Nostro, adattata alla situazione: O Padre Nostro, che ne' cieli stai, non circunscritto...24 Cosi comincia il canto XI. Dante, provando orrore per tanta sofferenza, augura loro una breve permanenza nel Purgatorio, perché possano giungere presto alle stellate rote.25 Virgilio, dal canto suo sempre attento al lato pratico, chiede alle anime che indichino loro la strada per salire alla cornice superiore. Ma fu detto: «A man destra per la riva con noi venite, e troverete il passo possibile a salir persona viva.»26 Durante il tragitto, come nell'Antipurgatorio, si tengono lunghe conversazioni con vecchie conoscenze di Dante o con personaggi famosi, i quali tutti lo ammoniscono contro la vanità e la superbia, come se indovinassero che questa è la cornice che toccherà a Dante, se non si purificherà per tempo. Infine, dopo avere parlato e passeggiato a lungo, all'inizio del Canto
XII Virgilio avverte il Fiorentino di lasciare in pace le anime dei superbi e di concentrarsi sulla salita. Ai versi dal 13 al 15: Ed el mi disse: «Volgi gli occhi in giùe: buon ti sarà, per tranquillar la via, veder lo letto delle piante tue.» Dante, obbediente, guarda per terra e vede una serie di meravigliose figure incise nella pietra. A partire da qui inizia una descrizione lunga dodici o tredici terzine delle scene raffigurate nelle incisioni: Lucifero che cade dal Cielo come un lampo, Briareo che agonizza dopo essersi ribellato agli dei dell'Olimpo, Nemrod che impazzisce al vedere completata la sua bella Torre di Babele, il suicidio di Saul dopo la disfatta di Gelboè, e così via. Una moltitudine di esempi mitici, biblici o storici di superbia castigata. Il poeta fiorentino, mentre cammina chino per non perdersi neppure un dettaglio, si domanda ammirato chi sarà l'artista che col suo scalpello o stilo ha realizzato così magistralmente quei bassorilievi. Per sua fortuna e mio sollievo, Dante non dovette caricarsi nessuna pietra sulle spalle, tuttavia chinò ugualmente la schiena per un lungo tratto, per osservare le incisioni. Se la prova degli Staurophylakes consisteva in questo, nel camminare curvi per qualche chilometro, ero pronta a cominciare, anche se qualcosa mi diceva che non sarebbe stato così semplice. L'esperienza di Siracusa mi aveva segnata profondamente e non mi fidavo per nulla di quei versi. Finalmente, i due viandanti giungono all'estremità opposta della cornice. A questo punto Virgilio dice a Dante di prepararsi e di adottare espressione e modi riverenti, perché un angelo vestito di bianco e scintillante come la stella del mattino si avvicina loro, per aiutarli a uscire. Le braccia aperse e indi aperse l'ale; disse: «Venite, qui son presso i gradi, e agevolemente omai si sale. A questo invito vegnon molto radi: o gente umana, per volar su nata, perché a poco vento così cadi?» Menocci ove la roccia era tagliata:
quivi mi batté l'ali per la fronte; poi mi promise sicura l'andata.27 Alcune voci prendono a intonare il Beati pauperes spiritu28 mentre i due poeti cominciano a salire la ripida scala. Dante, che in varie occasioni ha accennato alla sua grande stanchezza fisica, si stupisce di sentirsi leggero come una piuma. Virgilio si volta verso di lui e gli dice che, senza che il Fiorentino se ne rendesse conto, con il battito d'ali l'angelo gli ha cancellato una di quelle sette Ρ incise sulla fronte, una per ogni peccato capitale, e quindi ora è meno pesante. Così dunque l'Alighieri si libera del peccato della superbia. E a questo punto mi addormentai sulla scrivania, sfinita a mia volta. Non avevo avuto la fortuna di Dante. Nel mio sogno, agitato e affollato di immagini della cripta di Siracusa e di indefinibili pericoli, appariva Farag sorridente, che mi trasmetteva sicurezza. Io prendevo la sua mano per disperazione, perché era la mia unica speranza di salvarmi, e lui mi chiamava per nome con dolcezza infinita. «Ottavia... Ottavia, svegliati. Ottavia...» «Dottoressa, si fa tardi», muggì Glauser-Röist, implacabile. Gemetti, senza poter uscire dal mio sogno. Provavo un acuto mal di testa, che si intensificava se cercavo di aprire gli occhi. «Ottavia, sono le tre», insisteva Farag. «Stanotte riposeremo, vedrai. Quando usciremo da Santa Maria in Cosmedin andremo direttamente alla Domus e non ci alzeremo dal letto per una settimana.» «Scusate», farfugliai, alzandomi con grande sforzo. «Mi sono addormentata. Sono spiacente.» «Siamo messi a dura prova», ammise la Roccia, mettendosi in spalla lo zaino di tela, che sembrava più pesante rispetto al giorno prima. Doveva averci infilato anche un estintore, o qualcosa del genere. Lasciammo l'Ipogeo, ma non prima che prendessi una pastiglia contro il mal di testa, la più forte che trovai nel dispensario. Attraversammo la Città fino a raggiungere il parcheggio della Guardia Svizzera, dove GlauserRöist teneva la sua automobile sportiva. All'aperto, l'aria fresca mi aiutò a risvegliarmi e mi diede un po' di sollievo, anche se in realtà avrei avuto bisogno di andare a casa e dormire venti o trenta ore filate. Credo fu allora che compresi, in tutta la sua cruda realtà, che fino a quando non si fosse conclusa quella storia, riposo, sonno e vita regolare sarebbero stati lussi
inarrivabili. Oltrepassammo Porta Santo Spirito e proseguimmo sul Lungotevere, fino al Ponte Garibaldi, come al solito invaso da un traffico selvaggio. Dopo dieci lunghi minuti di attesa fummo sull'altra riva del fiume e imboccammo a gran velocità Via Arenula e Via delle Botteghe Oscure, fino a Piazza San Marco: un giro esageratamente largo, che tuttavia ci permise di arrivare rapidamente alla nostra destinazione. Eravamo circondati da sciami di motorini, ma Glauser-Röist riuscì miracolosamente a schivarli tutti, finché, dopo non pochi spaventi, l'Alfa Romeo si fermò accanto al marciapiede del parco di Piazza Bocca della Verità. Ed eccola, la mia piccola e ignorata chiesa bizantina, tanto armoniosa nelle sue sapienti proporzioni. La contemplai con affetto da dietro il parabrezza, mentre aprivo la portiera per scendere. Il cielo si andava rannuvolando dal mattino e la luce grigia cercava invano di oscurare la bellezza di Santa Maria in Cosmedin. Forse, oltre alla stanchezza, era quell'atmosfera plumbea la causa del mio mal di testa. Alzai lo sguardo verso la sommità del campanile, alto sette piani, che si innalzava dal centro della chiesa. Riflettei una volta di più sulla vecchia idea degli effetti del tempo, che ci distrugge inesorabilmente mentre rende più belle le opere d'arte. Nell'antichità quella zona di Roma, conosciuta come Foro Boario in quanto luogo di compravendita del bestiame, aveva ospitato una cospicua colonia greca e un importante tempio dedicato a Ercole Invitto, eretto in onore di colui che aveva recuperato i buoi rubati dal ladro Caco. E nel III secolo dopo Cristo sui resti del tempio si costruì una prima cappella cristiana, che in seguito crebbe e si abbellì fino a diventare la splendida chiesa di oggi. Di certo, per Santa Maria in Cosmedin era stato determinante l'arrivo degli artisti greci in fuga da Bisanzio durante le persecuzioni iconoclaste, promosse dai cristiani che ritenevano che rappresentare immagini di Dio, della Vergine o dei Santi fosse peccato. Farag, il capitano e io ci avvicinammo al portico, schivando le ramificazioni delle pressanti code di turisti del Giubileo in attesa di farsi fotografare con la mano dentro il mascherone della Bocca della Verità. Il capitano avanzava con la fermezza e l'indifferenza di una nave ammiraglia, senza far caso a ciò che lo circondava, mentre Farag si guardava freneticamente intorno, come se non gli bastassero gli occhi per cogliere e memorizzare i minimi dettagli. «E quella bocca», mi chiese all'orecchio, «ha mai morso qualcuno, che tu sappia?»
Scoppiai a ridere. «Mai. Ma se lo fa ti avviso.» Rise a sua volta. Notai che i suoi occhi azzurri, per effetto della luce, erano diventati più scuri, e che la peluria chiara della barba, assieme a qualche ciuffo sciolto, faceva risaltare di più i suoi tratti semitici e la sua pelle scura di egiziano. Quali casi strani della vita potevano riunire nello stesso tempo e nello stesso luogo uno svizzero, una siciliana e un compendio morfologico razziale? L'interno della chiesa era illuminato da riflettori collocati in alto nelle navate laterali e in cima alle colonne: da sola, la luce che entrava dalle vetrate non era sufficiente per celebrare gli uffici. Le decorazioni della chiesa erano nettamente greco-bizantine, uno dei motivi per cui mi piaceva. Ma ciò che mi aveva sempre attratto erano gli enormi candelieri di ferro che invece di ospitare, come nelle chiese latine, decine di ceri piatti e bianchi, sostenevano sottili candele gialle, tipiche del mondo orientale. Senza indugio raggiunsi il candeliere appoggiato contro la ringhiera della schola cantorum, situata nella navata centrale, davanti all'altare. Gettai qualche moneta nella cassettina, accesi una di quelle luci dorate, socchiusi le palpebre e pregai Dio che avesse pietà di mio padre e mio fratello e che proteggesse mia madre, che faticava a riprendersi dal lutto. Lo ringraziai per trovarmi impegnata in una missione della Chiesa e potermi così sottrarre al costante dolore che quella perdita mi provocava. Quando riaprii gli occhi, scoprii di essere rimasta completamente sola. Cercai con lo sguardo Farag e il capitano e li trovai a percorrere le navate laterali come turisti sperduti. Si mostravano interessati agli affreschi raffiguranti scene della vita della Vergine e alle decorazioni del pavimento, di stile cosmatesco. Dal momento che io conoscevo già gli uni e le altre, mi diressi verso il presbiterio, per esaminare da vicino l'aspetto più peculiare di tutta la chiesa: sotto un baldacchino gotico della fine del XIII secolo si trovava un'enorme vasca di porfido color rosa salmone scuro, che fungeva da altare della chiesa. Era da supporre che qualche ricco bizantino, o bizantina, della Roma imperiale avesse fatto bagni profumati dentro quel futuro tabernacolo cristiano. Nessuno ebbe a ridire per il mio ingresso nel presbiterio. In effetti in quella chiesa, tolte le ore delle messe e dei rosari, non c'era mai un sacerdote o un sacrestano, né una di quelle vecchiette garbate che, per poche lire nella cassettina delle offerte, trascorrono un pomeriggio intero in chiesa con lo stesso entusiasmo con cui i miei nipoti passavano i sabati sera in discoteca a Palermo. Del resto Santa Maria in Cosmedin era una chiesa soli-
taria, in cui solo di rado entrava qualche visitatore, di solito perché aveva sbagliato strada. E questo nonostante il portico brulicasse permanentemente di turisti. Mi soffermai a esaminare la vasca. A mio rischio e pericolo, tirai con forza i quattro grossi anelli laterali, anch'essi di porfido, ma non accadde nulla. Nemmeno Farag e Glauser-Röist ebbero successo nella loro ricerca. Si sarebbe detto che gli Staurophylakes non fossero mai passati di lì. Mentre stavo ispezionando il trono episcopale, i miei due compagni mi raggiunsero. «Qualcosa di significativo?» mi domandò la Roccia. «No.» Con aria grave ci dirigemmo verso la sagrestia, dove trovammo l'unica persona viva di tutta la chiesa: il vecchio venditore del negozio di souvenir, tra medagliette, crocifissi, cartoline e collezioni di diapositive. Era un anziano sacerdote con indosso una tonaca sporca, mal rasato e con i capelli bianchi spettinati. L'igiene non doveva essere di casa, dove viveva lui. Ci squadrò torvo, quando entrammo, ma subito mutò la sua espressione, esibendo una gentilezza servile che trovai sgradevole. «Sono del Vaticano?» domandò, uscendo da dietro il bancone per piazzarcisi di fronte. Emanava un odore ripugnante. «Sono il capitano Glauser-Röist, e questi sono la dottoressa Salina e il professor Boswell.» «Vi stavo aspettando! Sono al loro servizio. Mi chiamo Bonuomo, Padre Bonuomo. In che cosa posso esser loro d'aiuto?» «Abbiamo già visitato la chiesa», lo informò il capitano. «Ora vogliamo vedere il resto. Credo che ci sia anche una cripta.» Il prete fece un'espressione di disappunto. Anch'io ero sorpresa: una cripta? Non sapevo che ce ne fosse una, a Santa Maria. «Sì», rispose l'anziano, con scarso entusiasmo. «Ma non è ancora ora di visita.» Bonuomo? Meglio sarebbe stato se si fosse chiamato Maluomo. Nondimeno, Glauser-Röist rimase imperturbabile e continuò a fissare il sacerdote senza muovere un muscolo della faccia, senza neppure battere le palpebre, come se il vecchio nemmeno avesse parlato, in attesa di un invito inevitabile. Il prete era combattuto tra il suo obbligo di obbedienza e la sua meschina incapacità di modificare gli orari.
«Qualche problema, padre?» domandò, gelido e tagliente, Glauser-Röist. «No», gemette il vecchio, girando su se stesso e guidandoci verso le scale che scendevano alla cripta. Una volta lì, si fermò davanti alla porta e azionò vari interruttori su un pannello sulla destra. «Ecco le luci. Mi spiace non poterli accompagnare, ma non posso abbandonare il negozio. Mi avvisino quando hanno finito.» Con quelle secche parole, si levò di torno, cosa che apprezzai, dato che l'odore acre che emanava stava cominciando a prendermi lo stomaco. «Di nuovo al centro della Terra!» esclamò Farag, fingendosi scherzoso, mentre scendeva le scale senza entusiasmo. «Spero un giorno di tornare a vedere la luce del sole», dissi tra me e me, seguendolo. «Non è detto, dottoressa.» Mi voltai a guardare Glauser-Röist. «Per via della fine del millennio», proseguì lui, con la sua consueta serietà. «Già lo sa: la fine del mondo può arrivare da un momento all'altro, anche mentre ci troviamo nella cripta.» «Ottavia», si affrettò a dire Farag, per trattenermi. «Non ti venga in mente di cominciare una discussione proprio adesso!» Non era mia intenzione. Ci sono sciocchezze che non meritano nemmeno una risposta, Quel fatuo sacerdote ci aveva presi in giro, quando aveva parlato di luce. Appena fummo in fondo alla scala, ci trovammo immersi nell'oscurità più completa. Purtroppo eravamo già scesi quanto bastava a rendere scomoda la risalita. Dovevamo essere già a diversi metri sotto il livello del Tevere. «Ma non c'è luce, in questo buco?» si risentì Farag, alla mia destra. «Non c'è luce nella cripta, ma non vi preoccupate. Sto prendendo la torcia.» «E Padre Bonuomo non poteva dircelo, prima di farci scendere?» mi sorpresi. «E poi come fanno, per i visitatori?» «Dottoressa, non si è resa conto che non c'è nessun cartello con gli orari di visita?» «L'ho notato. Di fatto, sono entrata molte volte in questa chiesa e non sapevo nemmeno che ci fosse un cripta.» «Ed è anche strano che non ci sia alcun tipo di illuminazione», riprese Glauser-Röist, accendendo la torcia ed esplorando l'ambiente con l'intenso fascio di luce. «O che un sacerdote della Chiesa si permetta di mettere i bastoni tra le ruote a un ordine diretto della Segreteria di Stato. E che que-
sto stesso sacerdote non accompagni nella visita tre inviati del Vaticano.» Il capitano illuminò il fondo della cripta. In quel momento compresi appieno l'etimologia della parola, dal greco krypto, che significa «nascondere». La prima cosa che vidi fu un piccolo altare, all'estremità della navata centrale. Quel luogo aveva esattamente la pianta di una chiesa in miniatura, divisa in tre navate da colonne dai bassi capitelli e persino dotata di cappelle laterali, completamente buie. «Capitano», disse Farag, «sta insinuando che Padre Bonuomo possa essere uno Staurophylax?» «Dico che può esserlo né più né meno del sacrestano di Santa Lucia.» «Allora lo è», affermai, inoltrandomi nella chiesa in miniatura. «Non ne abbiamo la certezza, dottoressa. È solo un'intuizione. E con le intuizioni non si va da nessuna parte.» «Ma lei come faceva a conoscere l'esistenza di questo luogo quasi clandestino?» domandai, curiosa. «Perché ho cercato in Internet. Si può trovare di tutto, in Internet. Del resto lei già lo sa, dottoressa.» «Io? Ma se so usare appena il computer!» «Tuttavia è in Internet che ha trovato tutte le informazioni sui Ligna Crucis e sull'incidente aereo di Abi-Ruj Iyasus, non è così?» La domanda a bruciapelo mi lasciò basita. Non potevo certo confessare di avere coinvolto nelle ricerche mio nipote Stefano, né d'altra parte potevo mentire. E poi, a quale scopo? A quel punto doveva leggermisi in faccia tutto il mio senso di colpa. Ciononostante, Glauser-Röist non rimase ad aspettare la mia risposta. Mi superò sulla destra, mettendomi in mano un'altra torcia, identica a quella che consegnò a Farag. Così ci potemmo dividere per perlustrare ognuno un'area diversa. Alla luce delle tre torce, la cripta parve meno inospitale. «Questo luogo», cominciò a pontificare il capitano, «è noto come Cripta di Adriano, in onore di Papa Adriano I, che ne ordinò il restauro nell'VIII secolo. Ma la sua costruzione deve risalire alle persecuzioni di Diocleziano del III secolo, quando i primi cristiani decisero di approfittare delle fondamenta di un tempio pagano preesistente per edificare una piccola chiesa segreta. Questi blocchi di pietra che risaltano sull'intonaco delle pareti sono ciò che rimane del tempio originale e l'altare dell'abside è quanto resta dell'Ara Maxima.» «Era un tempio dedicato a Ercole Invitto», precisai. «Appunto: un tempio pagano», ripeté la Roccia.
Illuminai ed esaminai palmo a palmo ogni angolo delle tre navate e ciascuna delle cappelle sul lato sinistro. C'era polvere ovunque. Trovai frammenti di urne contenenti i resti di santi e di martiri dimenticati per molti secoli dalla tradizione popolare. Ma, a parte l'ovvio interesse storico e artistico, quella discreta chiesetta sotterranea non aveva niente che fosse degno di nota. Non c'era nulla che fornisse indizi sulla prima prova iniziatica del Purgatorio staurofilakense. Dopo una lunga ricerca infruttuosa, ci riunimmo tutti e tre nell'abside per tirare le somme. Ci sedemmo sul pavimento, davanti all'Ara Maxima. Mi accomodai tranquillamente, coi miei pantaloni nuovi. Di fianco a me, dentro una nicchia, riposavano il cranio e le ossa di Santa Cirilla: SANTA CIRILLA, VERGINE E MARTIRE, FIGLIA DI SANTA TRIFONIA, MORTA PER CRISTO SOTTO IL PRINCIPE CLAUDIO recitava l'epitaffio in latino. «Stavolta non abbiamo trovato nessun Crismon che ci indicasse la strada», rilevò Farag, scostandosi i capelli dalla fronte. «Qualcosa deve pur esserci», replicò il capitano, alquanto seccato. «Ripensiamo a tutto quello che abbiamo visto da quando siamo arrivati a Santa Maria in Cosmedin. Che cosa abbiamo visto di curioso?» «La Bocca della Verità!» esclamò Farag, pieno di entusiasmo. Io sorrisi. «Non mi riferisco alle attrazioni turistiche, professore.» «Be', è quello che ha attirato di più la mia curiosità.» «La verità è che quel coperchio di fognatura romana riveste un certo interesse», commentai io, per spalleggiarlo. «Molto bene» concluse la Roccia. «Torneremo di sopra e ricominceremo daccapo l'ispezione.» Era più di quanto potessi sopportare. Guardai il mio orologio, che segnava le cinque e trenta. «Non potremmo tornare domattina, capitano? Siamo stanchi.» «Domani, dottoressa, dovremo essere a Ravenna, per affrontare la seconda cornice del Purgatorio. Non pensa che in questo stesso istante, da qualche parte del mondo, qualcuno potrebbe rubare un altro Lignum Crucis? Persino qui, a Roma! No, non ci fermeremo e non andremo a riposa-
re.» «Sono sicuro che non è nulla di importante», dichiarò in quel momento il professore, tornando ai suoi abituali tic nervosi, il balbettio e gli occhiali. «Ma io lì ho visto qualcosa di strano.» Indicò una della cappelle laterali, sulla destra. «Di che si tratta, professore?» «Una parola scritta sul pavimento... Incisa nella pietra, più esattamente.» «Che parola?» «Non si distingue chiaramente, perché l'incisione è molto consumata, ma sembra che ci sia scritto Vom.» «Vom?» «Vediamo», decise Glauser-Röist, alzandosi in piedi. Nell'angolo interno sinistro della cappella, al centro di un'enorme lastra rettangolare di pietra ad angolo retto con le pareti, si poteva effettivamente distinguere la parola VOM «Che cosa vuol dire Vom?» chiese la Roccia. Ero sul punto di rispondergli, quando d'un tratto udimmo uno scatto secco. Il pavimento cominciò a tremare come se si fosse scatenato un terremoto formidabile. Mi lasciai sfuggire un grido, mentre cadevo a peso morto sulla lastra, che stava sprofondando nella terra, oscillando furiosamente da un lato all'altro. Tuttavia avevo colto un dettaglio importante: un attimo prima dello scatto, il mio naso avevo percepito l'acre odore del sudore e della sporcizia di Padre Bonuomo, che doveva essere molto vicino a noi. Il panico mi impediva di pensare. Cercavo solo di aggrapparmi al pavimento oscillante, per non cadere nel vuoto. Persi la torcia e la borsetta, mentre una mano di ferro mi prendeva per il polso, aiutandomi a restare sulla lastra. Continuammo a scendere in quelle condizioni per quella che mi sembrò un'eternità, anche se, a dire il vero, in realtà furono forse solo pochi minuti. Finalmente la dannata pietra toccò il fondo e si fermò. Nessuno di noi si mosse. Potevo sentire i respiri affannosi di Farag e del capitano, oltre ai miei. Braccia e gambe mi sembravano di gomma, incapaci di sostenermi. Ero scossa da un tremito incontrollabile e mi veniva da vomitare. Ricordo di essermi resa conto che, attraverso le palpebre serrate, filtrava una luce accecante. Dovevamo avere l'aspetto di tre rane distese a pancia in giù sul
tavolo di uno scienziato pazzo. Sentii Farag che diceva: «Non... non l'abbiamo... fatto bene». «Si può sapere che cosa sta dicendo, professore?» domandò GlauserRöist a voce molto bassa, come se non avesse la forza di parlare. Cercando di riprendere fiato, il professore recitò: «Noi salivam per una pietra fessa che si moveva d'una e d'altra parte, sì come l'onda che fugge e s'appressa. 'Qui si convene usare un poco d'arte' cominciò 'l duca mio, 'in accostarsi or quinci or quindi al lato che si parte.'»29 «Accidenti a Dante Alighieri», mormorai. I miei compagni si rialzarono. La mano di ferro che ancora era stretta intorno al mio polso lasciò la presa. Solo allora mi resi conto che apparteneva a Farag, che me la offrì di nuovo, timidamente, insieme al suo cavalleresco aiuto per rialzarmi. «Dove diavolo siamo?» sillabò la Roccia. «Legga il Canto X e lo saprà», gli risposi. Avevo ancora le gambe tremanti e il polso accelerato. Quel luogo puzzava di muffa e putrefazione, in parti uguali. Una lunga fila di torce, fissate alle pareti con anelli di ferro, illuminava quella che sembrava una vecchia fognatura. Ci trovavamo sul bordo di un canale di acque residue, che ancora scorrevano nere e sudice. Il bordo, ma forse dovrei chiamarlo cornice, misurava in tre volte un corpo umano,30 che era poi la larghezza della lastra di pietra su cui eravamo discesi. E naturalmente, fin dove arrivava la mia vista, tanto a destra come a sinistra, si distingueva solo la stessa monotona immagine della galleria. «Credo che siamo arrivati», affermò il capitano, rimettendosi lo zaino in spalla con fare deciso. «Dobbiamo essere in qualche diramazione della Cloaca Massima.» «La Cloaca Massima? Incredibile!» «I romani non facevano le cose a metà, professore. E quanto a opere di ingegneria, erano i migliori. Acquedotti e fognature non avevano segreti per loro.» «Di fatto», aggiunsi io, «in molte città d'Europa sono ancora in uso le
canalizzazioni romane.» Avevo appena trovato i resti della mia borsetta sparpagliati dappertutto. La torcia elettrica era rotta. «Ma... la Cloaca Massima!» «Fu l'unico modo di dare sollievo a Roma», continuai a spiegare. «Tutta l'area occupata dal Foro Romano era acquitrinosa e dovette essere prosciugata. La costruzione della Cloaca ebbe inizio nel VI secolo avanti Cristo, per ordine del re etrusco Tarquinio Prisco. Poi, come è evidente, fu ampliata e rinforzata fino a raggiungere proporzioni colossali e un funzionamento perfetto, ai tempi dell'Impero.» «E il luogo in cui ci troviamo dev'essere per forza un suo ramo secondario», ribadì Glauser-Röist. «Un ramo che gli Staurophylakes impiegano per i neofiti che devono sottoporsi alla prova della superbia.» «E perché le torce sono accese?» domandò Farag, estraendone una dall'anello alla parete. Il fuoco ruggì lottando contro l'aria. «Perché Padre Bonuomo sapeva del nostro arrivo. Credo che su questo non ci siano dubbi.» «Be', allora dovremo metterci in marcia», dissi io, alzando lo sguardo verso l'alto. L'apertura da cui eravamo discesi era così in alto da essere ormai invisibile. Dovevamo essere sprofondati di parecchi metri. «A destra o a sinistra?» chiese il professore, fermandosi in mezzo alla cornice con il braccio sollevato e la torcia in mano. Notai una certa somiglianza con la Statua della Libertà. «Decisamente da questa parte», indicò Glauser-Röist, puntando un dito verso terra. Farag e io ci avvicinammo. «Non posso crederci», mormorai, affascinata. Cominciando proprio alla nostra destra, sul pavimento di pietra erano visibili gli stessi bassorilievi descritti da Dante, a partire dalla caduta di Lucifero dal Cielo. Sul viso bellissimo dell'angelo si distingueva un'espressione di rabbia, mentre precipitava con le mani tese verso Dio, quasi a implorarne la misericordia. I dettagli erano curati così minuziosamente che era impossibile non provare un brivido di fronte a una tale perfezione artistica. «Lo stile è bizantino», considerò il professore, impressionato. «Guardate questo Cristo Pantocrator giustiziere che contempla il castigo del suo angelo prediletto.» «Il castigo della superbia», mormorai. «Be', era quella l'idea, no?»
«Prendo la Divina Commedia», annunciò Glauser-Röist, facendo seguire alle parole i fatti. «Dobbiamo verificare la corrispondenza.» «Corrisponderà, capitano, corrisponderà. Non ne dubiti.» La Roccia sfogliò il libro e alzò la testa con un sorrisetto sulle labbra. «Sapevate che le terzine di questa serie di rappresentazioni iconografiche cominciano dal verso 25 del Canto? Due più cinque, sette. Uno dei numeri preferiti di Dante.» «Non impazzisca, capitano», lo implorai. C'era un'eco, nella galleria. «Non impazzisco, dottoressa. Per sua informazione la serie in questione si conclude con il verso 63. Sei più tre, nove, l'altro numero preferito di Dante. Torniamo al sette e al nove.» Né Farag né io prestammo troppa attenzione a quell'attacco di numerologia medioevale. Eravamo troppo impegnati a goderci la magnificenza dei bassorilievi sul pavimento. Dopo Lucifero, appariva Briareo, il figlio mostruoso di Urano e Gea, il Cielo e la Terra, facile da riconoscere dalle sue cento braccia e cinquanta teste. Questi, credendosi più forte e potente, aveva sfidato gli dei dell'Olimpo ed era morto trafitto da un dardo celeste. Bisognava riconoscere che la scena, nonostante la mostruosità di Briareo, era stupenda. La luce delle torce alle pareti conferiva ai bassorilievi un verismo terrificante, mentre quella della fiamma di Farag restituiva loro la profondità e il volume, facendo risaltare piccoli dettagli che altrimenti sarebbero passati inosservati. La scena successiva rappresentava la morte dei Giganti, che nella loro superbia avevano cercato di uccidere Zeus ed erano morti in sua vece, smembrati per mano di Marte, Atena e Apollo. Poi Nemrod, impazzito di fronte alla Torre di Babele. Quindi Niobe, che si era vantata dei suoi sette figli e delle sue sette figlie davanti a Latona, che aveva generato solo Apollo e Diana. E così via: Saul, Aracne, Roboamo, Alcmeone, Sennacherib, Ciro, Oloferne e la distruzione della città di Troia, ultimo esempio di superbia castigata. Eccoci dunque tutti e tre, a capo chino come buoi al giogo, in silenzio, avidi di vedere ancora. Come Dante, non dovevamo fare altro che procedere ammirando quei frammenti di sogno o di storia che ci raccomandavano umiltà e semplicità. Ma dopo Troia non c'erano altri bassorilievi. Era finita la lezione. O no? «Una cappella», esclamò Farag, introducendosi in una stretta apertura nella parete.
Identica alla Cripta di Adriano quanto a dimensioni, forma e disposizione degli spazi, ci si offrì alla vista un'altra chiesetta bizantina sotterranea. Ma c'era un'importante differenza tra questa e la sua gemella superiore: qui le pareti erano suddivise in ripiani, da sopra i quali ci fissavano le orbite vacue di centinaia di teschi. Farag mi circondò le spalle con il braccio libero. «Hai paura, Ottavia?» «No», mentii. «Sono solo un po' impressionata.» In verità ero atterrita, paralizzata da quegli sguardi vuoti. «Proprio una bella necropoli», scherzò Farag, sorridente, lasciandomi andare per avvicinarsi al capitano. Gli corsi dietro. Non intendevo allontanarmi di un centimetro da loro. Non tutti i teschi erano integri. Per la maggior parte poggiavano sui pochi denti della mascella (quelli che ancora ne avevano) come se la mandibola fosse stata scordata altrove. A parecchi mancava un osso parietale o temporale, o frammenti del frontale, o addirittura l'intera fronte. Ma ciò che mi spaventava di più erano proprio le fosse oculari, alcune completamente vuote, alcune con i resti delle ossa orbitali. E il fatto che i resti fossero centinaia. «Sono reliquie di santi e martiri cristiani», commentò il capitano, che stava esaminando con attenzione una fila di teschi. «Come dice? Reliquie?» feci io. «Be', così parrebbe. Davanti a ognuna c'è una piccola legenda incisa nella pietra, con il nome corrispondente: Benedetto sanctus, Desirio sanctus, Ippolito martyr, Candida sancta, Amelia sancta, Placido martyr...» «Mio Dio! E la Chiesa non ne sa niente? Di sicuro dà per perdute queste reliquie da parecchi secoli.» «Potrebbero non essere autentiche, Ottavia. Tieni presente che siamo in pieno territorio Staurophylax. Qualunque cosa è possibile. Inoltre, facci caso, i nomi non sono in latino classico, ma medioevale.» «Non importa che siano false», avvertì la Roccia. «Spetta alla Chiesa stabilirlo. È forse vera la Croce che cerchiamo?» «Il capitano ha ragione», concordai. «È un compito che spetta al Vaticano e all'Archivio delle Reliquie.» «Che cos'è l'Archivio delle Reliquie?» domandò Farag. «L'Archivio delle Reliquie è il luogo in cui si conservano, in teche e vetrine, le reliquie di cui la Chiesa ha bisogno per questioni amministrative.» «Perché ne ha bisogno?» «Ecco... Ogni volta che nel mondo si costruisce una nuova chiesa, l'Ar-
chivio delle Reliquie deve inviarvi qualche frammento d'osso, perché sia depositato sotto l'altare. È obbligatorio.» «Perbacco. Mi piacerebbe sapere se si usa anche nelle chiese copte. Confesso la mia ignoranza in materia.» «Sicuramente. Benché non sappia se anche voi conserviate i vostri...» «Che ne dite se usciamo di qui e continuiamo il nostro viaggio?» ci interruppe Glauser-Röist, tornando all'apertura. Diamine, pensai, che rompiscatole! Farag e io, come alunni disciplinati, lo seguimmo fuori dalla cappella. «I bassorilievi finiscono qui», segnalò la Roccia, «proprio davanti all'ingresso della cripta. E questo non mi piace.» «Perché?» gli chiesi. «Perché ho l'impressione che questo ramo della Cloaca Massima non abbia uscita.» «Avevo notato che l'acqua nel canale scorre appena», osservò Farag. «È quasi ferma, praticamente uno stagno.» «Ma sì che scorre», obiettai. «La vedo muoversi nella nostra direzione. Molto lentamente, ma si muove.» «Eppur si muove...»31 disse il professore. «Esatto. In caso contrario, sarebbe imputridita. E non lo è.» «Be', proprio pulita non è!» E su questo eravamo tutti e tre d'accordo. Purtroppo il capitano aveva indovinato: quel tratto della cloaca non aveva uscita. Solo duecento metri più avanti, ci trovammo di fronte a un muro di pietra che bloccava la galleria. «Ma... ma l'acqua si muove», balbettai. «Com'è possibile?» «Professore, sollevi la torcia più che può e si sporga dal bordo», disse il capitano, mentre puntava sul muro la sua potente torcia elettrica. Le due fonti luminose chiarirono il mistero: al centro della barriera, a circa mezza altezza, si distingueva con fatica un Crismon di Costantino scolpito nella pietra, il cui asse era attraversato da una linea verticale dai bordi irregolari, che tagliava il muro in due. «È una chiusa!» esclamò Farag. «Di che cosa si stupisce, professore? Pensava forse che sarebbe stato facile?» «Sì, ma come facciamo a muovere questi due blocchi di pietra? Devono pesare ciascuno un paio di tonnellate, come minimo.» «Be', allora sediamoci un momento a pensare.»
«Intanto si avvicina l'ora di cena e io comincio ad avere fame.» «Allora sbrighiamoci a risolvere questo problema», li esortai, lasciandomi cadere sul pavimento. «Perché se non usciamo di qui, niente cena stasera, né colazione domattina, né pasti per il resto della nostra vita, che peraltro sarebbe piuttosto corta.» «Non ricominci, dottoressa! Usiamo il cervello. E mentre pensiamo, possiamo mangiare i sandwich che ho portato», disse Glauser-Röist. «Sapeva già che avremmo passato qui la notte?» feci io, sorpresa. «No, ma non potevo essere sicuro del contrario. E adesso cerchiamo di risolvere il problema, per favore.» A lungo analizzammo la questione della chiusa, esaminando la situazione da ogni punto di vista. Provammo persino a usare un pezzo di legno recuperato da uno dei ripiani della cripta per sondare la profondità dell'acqua sul fondo del canale. Ma dopo un paio d'ore l'unica cosa che eravamo riusciti a scoprire era che le due sezioni della chiusa non combaciavano perfettamente e che proprio da quella minuscola fessura l'acqua poteva continuare a scorrere. Ripercorremmo i bassorilievi avanti e indietro, indietro e avanti, ma non ne ricavammo nulla. Erano molto belli. Nient'altro. Verso mezzanotte, sfiniti, stufi e congelati, tornammo alla chiesa sotterranea. Ormai conoscevamo quel ramo della Cloaca Massima come se lo avessimo costruito con le nostre mani ed era chiaro che da lì non saremmo usciti, se non per magia o superando la prova. A patto di capire quale fosse. Se da un lato c'era la chiusa, dall'altro, a un paio di chilometri dalla lastra oscillante, c'era uno sbarramento di pietre attraverso i cui interstizi filtrava l'acqua che scorreva nel canale. E qui avevamo trovato una cassa di legno piena di torce spente, giungendo alla conclusione che non fosse un buon segno. Avevamo considerato la possibilità che per uscire dovessimo rimuovere quelle enormi pietre, memori del castigo inflitto ai superbi, ma concludemmo che sarebbe stato impossibile: ognuno di quei blocchi pesava il doppio o il triplo di ciascuno di noi. Dunque eravamo in trappola e, se non trovavamo in fretta una soluzione, saremmo rimasti là sotto come cibo per i vermi. Il mio mal di testa, sparito per alcune ore, tornò più forte di prima. Erano la stanchezza e il sonno arretrato. Non avevo nemmeno la forza di sbadigliare, a differenza del professore, che spalancava la bocca smisuratamen-
te, con sempre maggiore frequenza. Nella chiesa faceva freddo, anche se meno che lungo il canale. Perciò raccogliemmo sul pavimento di una delle cappelle tutte le torce che riuscimmo a trasportare e le accendemmo, a mo' di focolare. Il calore delle fiamme ci avrebbe permesso di sopravvivere alla notte, anche se gli sguardi dei teschi che mi circondavano non erano quanto di meglio ci fosse per conciliarmi il sonno. Farag e il professore si abbandonarono a una lunga disquisizione sull'ipotetica natura della prova da superare che, ovviamente, non poteva essere altro che aprire i due portali di pietra della chiusa. Non ricordo molto di quella conversazione, perché avevo la sensazione di trovarmi a metà strada tra il sonno e la veglia, di fluttuare in uno spazio etereo illuminato dal fuoco, circondata dal sussurro dei teschi. Perché i teschi parlavano... o era parte del sogno? Non so, presumo di sì, ma a me sembrava che parlassero e fischiassero. L'ultima cosa che ricordo prima di entrare in un coma profondo è che qualcuno mi stava aiutando a sdraiarmi e mi metteva qualcosa di morbido sotto la testa. Più tardi dischiusi gli occhi per un momento (il mio sonno non era molto tranquillo) e intravidi Farag sdraiato accanto a me, addormentato, e il capitano assorto nella lettura di Dante alla luce delle torce. Non dovette passare molto tempo, prima che un'esclamazione mi svegliasse di soprassalto. Ne seguì immediatamente un'altra, e un'altra ancora, tanto che spalancai gli occhi preoccupata, e vidi Glauser-Röist in piedi, alto come un dio greco, con le braccia levate in aria. «Ci sono! Ci sono!» gridava, in preda all'entusiasmo. «Che c'è?» domandò la voce sonnolenta di Farag. «Che ora è?» «Si alzi, professore! Anche lei, dottoressa! Ho bisogno di voi. Ho scoperto una cosa!» Guardai l'orologio. Erano le quattro del mattino. «Signore!» singhiozzai. «Possibile che non si riesca mai a dormire sei o sette ore di seguito?» «Ascolti attentamente, dottoressa», e declamò: «'Vedea colui che nobil fu creato... Vedea Briareo, fitto dal telo... Vedea Timbreo, vedea Pallade e Marte... Vedea Nembrot a piè del gran lavoro...'32 Che ne dice, eh?» «Non sono i primi versi delle terzine in cui si descrivono i bassorilievi?» chiesi a Farag, che guardava il capitano senza capire. «C'è di più», continuò Glauser-Röist. «Ascoltate: 'O Niobè, con che occhi dolenti... O Saùl, come su la propria spada... O folle Aragne, sì vedea io te... O Roboam, già non par che minacci...'»33
«Farag, che cosa gli ha preso al capitano? Non capisco niente!» «Nemmeno io, ma sentiamo dove vuole arrivare.» «E per finire, per-fi-ni-re...» rimarcò, agitando in aria il libro e poi tornando a leggere. «'Mostrava ancor lo duro pavimento... Mostrava come i figli si gettaro... Mostrava la ruina e 'l crudo scempio... Mostrava come in rotta si fuggiro...'34 E adesso attenzione! È molto, molto importante. I versi dal 61 al 63 del Canto: Vedea Troia in cenere e caverne: O Iliòn, come te basso e vile Mostrava il segno che lì si discerner «È una serie di strofe acrostiche!» esclamò Boswell, togliendo il libro di mano al capitano. «Quattro versi che cominciano con Vedea, quattro con O e quattro con Mostrava.» «E l'ultima terzina, quella di Troia che ho letto per intero, contiene la chiave!» Nonostante il mal di testa, fui in grado di capire che cosa stava succedendo. Arrivai persino a scoprire prima di loro la relazione tra quelle strofe acrostiche e la misteriosa parola che Farag aveva trovato sulla pietra oscillante e che aveva fatto sì che ci trovassimo tutti e tre sopra di essa: Vedea O Mostrava «Che cosa vorrà dire Vom?» chiese il capitano. «Avrà qualche significato?» «Ce l'ha, Kaspar, ce l'ha. Il che mi riporta alla mente il nostro Padre Bonuomo. A te no, Ottavia?» «Ci avevo già pensato», risposi, mettendomi faticosamente in piedi e sfregandomi la faccia con le mani. «Se è per questo, mi domando quanti poveri aspiranti Staurophylakes avranno perso la vita cercando di superare queste prove. Bisogna essere geniali per mettere insieme tutti gli indizi.» «Sareste così gentili da spiegarvi, per favore?» chiese Glauser-Röist. «Adesso sono io a non capire» «In latino», gli dissi, «la lettera U si scrive come la lettera V, per cui Vom equivale a Uom, cioè 'uomo' in italiano medioevale. Il nostro simpati-
co sacerdote si fa chiamare Bon-Uomo, o Bon-Uom. Adesso ha capito?» «Lo farà arrestare, Kaspar?» Il capitano fece un cenno negativo con la testa. «Siamo daccapo. Padre Bonuomo avrà un alibi solido e un passato inattaccabile. La Confraternita si sarà preoccupata di coprirgli per bene le spalle, soprattutto trattandosi del guardiano della prova di Roma. E lui non ammetterà mai volontariamente la sua condizione di Staurophylax.» «Be', signori», sospirai io, «lasciamo perdere. Dal momento che non si dorme più, riprendiamo il filo del discorso. Abbiamo l'acrostico dantesco, abbiamo la parola Uom e la chiusa di pietra. Che cosa facciamo?» «A me, per cominciare, viene in mente che uno di questi teschi potrebbe avere come legenda Uom sanctus», segnalò Farag. «Allora, al lavoro.» «Ma, capitano, le torce sono quasi consumate. Ci vorrà un po' per andarne a prendere altre.» «Raccogliete quello che potete dalle braci e cominciate. Non c'è tempo.» «Mi ascolti bene, capitano Glauser-Röist!» esclamai, furente. «Se usciamo vivi da questa avventura, mi rifiuto di continuare prima di una pausa di riposo. Ha capito?» «Ha ragione, Kaspar. Siamo a pezzi. Dovremmo fare una sosta di qualche giorno.» «Ne parleremo quando saremo fuori di qui. Adesso, per favore, cercate! Lei, dottoressa, cominci da lì. Lei, professore, dalla parte opposta. Io esaminerò il presbiterio.» Farag si chinò e recuperò le uniche due torce che ancora ardevano tra le braci. Me ne passò una e si tenne l'altra. Sarà superfluo segnalare che, dopo lunghe ricerche, constatammo che non c'era nessun santo né martire indicato con la parola Uom. Era scoraggiante. Fuori, per i felici umani che potevano vederlo, doveva essere ormai sorto il sole quando capimmo che Uom non era la parola da cercare, bensì un acrostico: dovevamo invece cercare tutti coloro che cominciavano con le lettere V o U, con la O e con la M. Ci azzeccammo! Dopo un'altra lunga e tediosa esplorazione, risultò che c'erano quattro santi i cui nomi cominciavano con la V (Valerio, Volusia, Varrone e Vero), quattro martiri con la O (Ottaviano, Odenata, Olimpia e Ovinio) e altri quattro santi con la Μ (Marcella, Marziale, Miniato e Maurizio). Non era incredibile? Ormai era chiaro che avevamo imboccato la strada giusta. Tracciammo con la fuliggine dei segni per indicare la posizione dei te-
schi, nel caso la loro distribuzione potesse avere qualche significato, ma apparentemente non c'era nessun ordine. L'unica caratteristica comune era che i dodici crani erano completi, cosa che in quel magazzino di teschi rotti non passava inosservata. Avevamo fatto un grande passo avanti, ma ora non sapevamo più come procedere. Non si vedeva niente che potesse servirci ad aprire la chiusa. «Le avanza qualche sandwich, Kaspar?» si informò Farag. «Quando non dormo mi viene una fame feroce.» «Mi è rimasto qualcosa nello zaino. Dia un'occhiata.» «Ottavia, vuoi?» «Sì, grazie. Muoio di fame.» Ma nello zaino del capitano era rimasto solo un miserabile panino con salame e formaggio, che dividemmo in due con le mani sporche. Lo mangiammo: sapeva di gloria benedetta. Mentre Farag e io cercavamo di trarre in inganno i nostri stomaci, il capitano deambulava nella cripta come una belva in gabbia. Lo si vedeva concentrato, assorto, mentre ripeteva ossessivamente le terzine di Dante che, evidentemente, aveva imparato a memoria. Il mio orologio segnava le nove e trenta del mattino. Sopra di noi, da qualche parte, la vita ricominciava. Le strade dovevano essere piene di traffico, le scuole affollate di bambini. Sottoterra, in profondità, tre anime agli sgoccioli cercavano di scappare da una trappola per topi. Il mezzo sandwich mi aveva placato l'appetito. Più rilassata, mi misi a sedere con la schiena alla parete, contemplando gli ultimi bagliori del fuoco che ci aveva scaldato nella notte. Di lì a poco, le braci si sarebbero spente definitivamente. Un profondo sopore mi obbligò a chiudere gli occhi. «Hai sonno, Ottavia?» «Devo chiudere gli occhi un momento. Ti dispiace, Farag?» «A me no. Perché dovrebbe? Al contrario, fai bene a riposare un po'. Ti sveglierò tra una decina di minuti, d'accordo?» «Sono sopraffatta dalla tua generosità.» «Dobbiamo uscire di qui, Ottavia. E abbiamo bisogno della tua mente.» «Dieci minuti, non uno di meno.» «Avanti, dormi.» A volte dieci minuti sono tutta una vita. Riposai di più in quel breve lasso di tempo che nelle quattro ore di sonno della notte precedente. Nel corso della mattinata riesaminammo tutto dal principio e ne appro-
fittammo per recuperare un paio delle torce nella cassa all'altra estremità del canale, vicino alla barriera di pietre. Era chiaro che gli Staurophylakes avevano programmato minuziosamente tutto il processo e sapevano esattamente quanto potesse durare quella prova. Finalmente, disperati e a testa bassa, tornammo alla chiesa. «È qui», gridò Glauser-Röist, in preda all'ira, battendo un piede sul pavimento. «Sono sicuro che la soluzione è qui, accidenti! Ma dove? Dove sta?» «Nei teschi?» buttai lì. «Non c'è niente nei teschi!» muggì il capitano. «Be', a dire il vero...» commentò il professore, spingendosi gli occhiali in cima al naso, «non ci abbiamo guardato dentro.» «Dentro?» feci io. «Perché no? Ci sono altre possibilità? Almeno controlliamo. Scuotiamo i crani di questi dodici santi e martiri... o una cosa del genere.» «Toccarli?» A me sembrava una colossale irriverenza. E, da un altro punto di vista, disgustoso. «Toccare le reliquie... con le mani?» «Lo farò io», disse Glauser-Röist. Si diresse verso il primo teschio segnato con la fuliggine e lo sollevò, scuotendolo senza rispetto. «C'è qualcosa dentro! C'è qualcosa!» Farag e io sobbalzammo, come spinti da una molla. Il capitano studiava attentamente il cranio. «È sigillato. Ha tutti gli orifizi sigillati: la gola, le fosse nasali, le orbite... È un recipiente!» «Dovremmo svuotarlo da qualche parte», disse Farag, guardandosi intorno. «Sull'altare», proposi io. «È concavo come un piatto.» Risultò che Valerio e Ovinio contenevano zolfo, dall'odore e colore inconfondibili; Marcella e Ottaviano una gomma resinosa di colore nero che identificammo come pece; Volusia e Marziale due impiastri di grasso fresco; Miniato e Odenata una polvere biancastra che bruciò leggermente una mano al capitano e che giudicammo quindi essere calce viva, da maneggiare con molta cautela; Varrone e Maurizio una sostanza nera, densa e brillante, che dall'odore doveva essere petrolio grezzo o nafta; infine, Vero e Olimpia contenevano una polverina molto fine color ocra, che non riuscimmo a identificare. Raccogliemmo le sostanze in mucchietti separati e l'altare si trasformò in un tavolo da laboratorio. «Credo di non sbagliare», annunciò Farag, con l'aria di chi ha riflettuto a lungo ed è giunto a una conclusione preoccupante, «se vi dico che siamo di
fronte agli elementi del Fuoco Greco.» «Dio mio!» Mi portai la mano alla bocca, con orrore. Il Fuoco Greco era stata l'arma più letale e pericolosa degli eserciti bizantini, che aveva permesso loro di tenere in riga i musulmani dal VII al XV secolo. Per centinaia di anni, la formula del Fuoco Greco fu il segreto meglio custodito della storia e persino oggi non si è del tutto sicuri di conoscerne con esattezza la composizione. Secondo una leggenda, nell'anno 673, mentre Costantinopoli era sul punto di cadere sotto l'assedio da parte degli arabi, un misterioso siriano di nome Calinico si presentò in città e offrì all'ormai disperato imperatore Costantino IV Pogonato l'arma più potente del mondo: il Fuoco Greco, che aveva la proprietà di incendiarsi a contatto con l'acqua e di ardere con violenza senza che nessuno potesse spegnerlo. I bizantini installarono dei tubi sulle loro navi, mediante i quali innaffiarono la flotta nemica con la miscela preparata da Calinico, distruggendola. I superstiti fuggirono spaventati da quelle fiamme, che bruciavano persino sott'acqua. «Ne è sicuro, professore? Non potrebbe essere qualcos'altro?» «Qualcos'altro, Kaspar? No, per niente. Questi sono tutti gli ingredienti che, secondo gli studi più aggiornati, costituiscono il Fuoco Greco: nafta o petrolio grezzo, che ha la caratteristica di galleggiare sull'acqua; ossido di calcio o calce viva, che si incendia a contatto con l'acqua; zolfo, che bruciando emette vapori tossici; pece, o resina, per attivare la combustione; e grasso per agglutinare gli elementi. La polvere color ocra che non siamo riusciti a identificare è certamente nitrato di potassio, vale a dire salnitro, che entrando in combustione rilascia ossigeno e permette che il fuoco continui a bruciare anche sott'acqua. Ho letto un articolo in proposito poco tempo fa, sulla rivista Byzantine Studies.» «E a che cosa ci può servire il Fuoco Greco?» chiesi io, ricordando di avere letto lo stesso articolo. «Su questo altare manca solo un elemento», disse Farag, guardandomi. «Possiamo mescolare tutto senza che accada assolutamente nulla. Vediamo se indovini quale ingrediente occorre per dare fuoco alla miscela.» «L'acqua, naturalmente.» «E dove si trova l'acqua qua sotto?» Sussultai. «Ti riferisci all'acqua del canale?» «Esatto! Se prepariamo il Fuoco Greco e lo gettiamo in acqua, si incendierà con una potenza incredibile. È molto probabile che la chiusa si apra per effetto del calore.»
«Se non vi è di disturbo», lo interruppe Glauser-Röist, preoccupato, «prima di compiere un'azione così pericolosa mi piacerebbe sapere perché la chiusa si dovrebbe aprire con il calore.» «Ottavia, correggimi se sbaglio: erano o non erano i bizantini dediti alla meccanica e alla costruzione di giocattoli articolati e di macchine automatiche?» «Certo, sono rimasti famosi nella storia. Un imperatore fece sfilare di fronte agli ambasciatori di altri Paesi due leoni meccanici che camminavano da soli emettendo ruggiti. Altri avevano nel trono dispositivi che emettevano lampi e tuoni, seminando il terrore tra i cortigiani. Ed era celebre, anche se ormai quasi dimenticato, il fantastico Albero d'Oro del giardino reale, con i suoi uccelli canterini meccanici. C'erano sacerdoti, per esempio, e parlo di sacerdoti cristiani, che durante la Santa Messa compivano 'miracoli', come aprire e chiudere le porte del tempio a distanza e così via. In tutta Costantinopoli c'erano fonti che dispensavano acqua inserendo una moneta. L'elenco è interminabile. C'è un ottimo libro che ne parla.» «Bisanzio e i giocattoli di Donald Davis.» «Proprio quello. Credo che abbiamo interessi e letture molto simili, professor Boswell», notai, con un ampio sorriso. «Certo, dottoressa Salina», replicò lui, sorridendo a sua volta. «Va bene, d'accordo, siete anime gemelle. Ma vi spiacerebbe andare al sodo, per favore? Dobbiamo uscire di qui.» «Glielo ha detto Ottavia, Kaspar: c'erano sacerdoti che aprivano e chiudevano le porte dei templi a loro discrezione. I fedeli credevano fossero miracoli, ma in realtà era un trucco molto semplice. Si trattava solo di...» Gli rubai la parola: «... accendere un fuoco». Conoscevo bene l'argomento: la meccanica bizantina mi aveva sempre affascinato. «Il calore faceva dilatare l'aria in un recipiente che conteneva anche acqua. L'aria dilatata spingeva l'acqua e la faceva salire lungo un sifone che la convogliava in un altro recipiente sospeso a delle corde. Il secondo recipiente cominciava a scendere sotto il peso dell'acqua e le corde che lo sostenevano azionavano dei cilindri che facevano girare le porte sui cardini. Che ne dice, eh?» «Mi sembra assurdo!» fu la risposta del capitano. «Dobbiamo preparare una bomba incendiaria solo perché forse si aprirà la chiusa? Siete pazzi!» «Allora ci proponga lei un'alternativa, se la trova», lo sfidai con voce gelida. «Ma non capite?» insistette lui, desolato. «Il rischio è enorme!» «Per caso non ero io, capitano, che solo in quanto donna dovevo essere
l'unica del gruppo ad avere paura di morire?» Glauser-Röist masticò un certo numero di imprecazioni e inghiottì la rabbia. Stava perdendo, un po' per volta, il controllo delle proprie emozioni. C'era un abisso tra il flemmatico e freddo capitano della Guardia Svizzera che conoscevo e l'essere umano espressivo e viscerale che avevo ora davanti. La Roccia cominciava a mostrare qualche crepa. «E va bene! Avanti! Fate quello che dovete fare e sbrighiamoci!» Farag e io non aspettavamo altro. Mentre Glauser-Röist ci faceva luce con la torcia elettrica, usammo le fiaccole spente come pale per smuovere e amalgamare gli elementi. Percepii una lieve irritazione agli occhi, al naso e alla gola, dovuta alla calce viva, ma niente di allarmante. Poco dopo, al legno delle nostre spatole rudimentali aderiva una massa grigiastra e viscosa, molto simile alla pasta del pane prima di entrare in forno. «Dobbiamo dividerla in pezzi, o gettiamo tutto nel canale in un blocco unico?» chiese Farag, indeciso «Forse è meglio dividerla. Così potremo coprire una superficie maggiore. Non sappiamo come funziona il meccanismo della chiusa.» «Allora procediamo. Tieni il bastone come se fosse un cucchiaio.» La massa era leggera e facile da trasportare, fra tutti e due. Uscimmo dalla cappella e ci dirigemmo verso la chiusa. Una volta lì, lasciammo il nostro composto a terra, assicurandoci che fosse all'asciutto, e lo dividemmo in tre porzioni uguali. La Roccia ne prese una servendosi di un'altra torcia spenta. Una volta pronti, lanciammo quei proiettili appiccicosi e ripugnanti verso il centro del canale. Probabilmente eravamo tra le pochissime persone che, da cinque o sei secoli a quella parte, avessero l'opportunità di vedere in azione il famoso Fuoco Greco dei bizantini. L'esperienza, naturalmente, fu emozionante. In pochi decimi di secondo, fiammate furiose si alzarono fino alla volta di pietra della galleria. L'acqua cominciò ad ardere con tale forza che un uragano di aria calda ci investì, spingendoci contro il muro come un pugno. In mezzo a quella luminosità abbagliante e al denso fumo nero che si stava formando sopra le nostre teste, fissammo la chiusa per vedere se si apriva. Non si muoveva di un millimetro. «Glielo avevo detto, dottoressa!» gridò Glauser-Röist a pieni polmoni, per riuscire a farsi sentire. «Glielo avevo detto che era una pazzia!» «Il meccanismo si attiverà!» garantii. Stavo per dirgli che doveva solo
aspettare un momento, quando fui interrotta da un accesso di tosse che mi lasciò senz'aria nei polmoni. Il fumo nero era già sceso fino all'altezza delle nostre teste. «A terra!» gridò Farag, gettandosi su di me con tutto il suo peso. All'altezza del pavimento l'aria era ancora pulita. Respirai affannosamente, come se avessi tenuto la testa sott'acqua. In quel momento, sopra il ruggito delle fiamme, udimmo uno scricchiolio sempre più forte. Erano i cardini della chiusa che giravano, la frizione della pietra sulla pietra. Ci rimettemmo rapidamente in piedi e con un salto balzammo sul bordo asciutto del canale, correndo verso la stretta apertura attraverso la quale l'acqua cominciava a passare dall'altra parte. Il fuoco che galleggiava sulla superficie ci si avvicinava minaccioso. Credo di non avere mai corso più veloce in tutta la mia vita. Semiaccecata dal fumo e dalle lacrime, senz'aria da respirare, pregai Dio che rendesse leggere le mie gambe, permettendomi di varcare quella soglia quanto prima. Giunsi dall'altra parte sentendomi sull'orlo di un attacco di cuore. «Non vi fermate!» gridò il capitano. «Continuate a correre!» Anche le fiamme e il fumo oltrepassavano la chiusa, ma noi eravamo più veloci. Di lì a tre o quattro minuti ci considerammo sufficientemente lontani dal pericolo. Rallentammo, fino a fermarci completamente. Ansimando e agitando le braccia come gli atleti alla fine di una gara, ci voltammo a contemplare il lungo percorso che ci eravamo lasciati alle spalle. In lontananza si distingueva un bagliore lontano. «Guardate: c'è una luce in fondo al tunnel!» esclamò Glauser-Röist. «Lo sappiamo, capitano. La vediamo.» «Non quella, dottoressa, per l'amor di Dio! Dall'altra parte!» Girai su me stessa come una trottola e vidi effettivamente il chiarore a cui si riferiva il capitano. «Oh, Signore!» mi lasciai sfuggire, di nuovo in lacrime, ma stavolta per l'emozione. «L'uscita, finalmente! Andiamo, per favore, andiamo!» Camminammo di buon passo, mettendoci a correre per alcuni tratti. Non riuscivo a credere che il sole e le strade di Roma potessero trovarsi all'altro capo di quella galleria. Il solo pensiero di poter tornare a casa mi metteva i razzi alle scarpe. La libertà era davanti a noi! Proprio lì, a neanche venti metri! E questo fu il mio ultimo pensiero, perché un colpo secco sulla testa mi lasciò incosciente in un batter d'occhio.
Percepii il balenare di luci dentro la testa, prima di tornare alla realtà. Purtroppo a quelle luci si accompagnavano fitte dolorose: ogni volta che se ne accendeva una, mi sentivo crepitare le ossa del cranio, come se ci passasse sopra uno schiacciasassi. Lentamente quella sensazione sgradevole si estinse, rimpiazzata da una non meno deliziosa: un bruciore simile a un'ustione sull'avambraccio destro, che mi riportò bruscamente al presente. Con grande sforzo, accompagnando il movimento con una serie di gemiti, portai la mano sinistra sulla parte sofferente. Ma mi bastò sfiorare la lana del maglione per provare un dolore così violento da farmi spalancare gli occhi e allontanare la mano con un grido. «Ottavia?» La voce di Farag sembrava venire da lontano, da una distanza enorme. «Ottavia, stai... stai bene?» «Oh, Dio mio, non lo so. E tu?» «Mi... mi fa piuttosto male la testa.» Distinsi la sua sagoma a qualche metro da me, buttato a terra come uno straccio. Un po' più in là, il capitano era ancora in stato di incoscienza. Procedendo gattoni, come un quadrupede, mi avvicinai al professore cercando di tenere la testa eretta. «Fammi vedere, Farag.» Lui tentò di girarsi, per mostrarmi la parte della testa in cui aveva ricevuto il colpo, ma gli sfuggì un lamento improvviso e si portò una mano all'avambraccio destro. «Dei!» ululò. Rimasi perplessa un istante, sentendo quell'esclamazione pagana. Avrei dovuto fare un discorso molto serio a Farag. E molto presto. Gli passai una mano sulla nuca. Si scostò con un gemito, ma ebbi il tempo di notare un considerevole bernoccolo. «Ci hanno dato una bella botta», sussurrai, sedendomi accanto a lui. «E ci hanno marchiato con la prima croce, vero?» «Temo di sì.» Sorrise, stringendomi una mano fra le sue. «Sei coraggiosa come un'Augusta Basileia.» «Le imperatrici bizantine erano coraggiose?» «Oh, sì. Molto.» «Non l'avevo mai sentito...» mormorai, liberandomi la mano per andare a vedere come stava il capitano. Glauser-Röist aveva ricevuto un colpo molto più forte di quello che era toccato a noi. Gli Staurophylakes dovevano avere pensato che fosse necessario, per abbattere quel gigantesco svizzero. Si distingueva chiaramente
una macchia di sangue secco sui capelli biondi. «Speriamo che nelle prossime occasioni cambino metodo», mormorò Farag, alzandosi in piedi. «Altre sei botte in testa come questa qua e ci restiamo secchi.» «Credo che col capitano ci siano andati vicino.» «Non sarà morto?» si allarmò, precipitandosi a controllare. «No, per fortuna, ma non mi pare stia bene. Non mi riesce di svegliarlo.» «Kaspar! Ehi, Kaspar, apra gli occhi! Kaspar!» Mentre Farag cercava insistentemente di rianimarlo, io mi guardai intorno. Ci trovavamo ancora nella Cloaca Massima, nello stesso punto in cui avevamo perso conoscenza, non lontano dall'uscita. La luce proveniente dall'esterno, tuttavia, era sparita. Una fiaccola, che non doveva essere accesa da molto tempo, illuminava l'angolo in cui ci avevano lasciato. D'istinto sollevai il polso per vedere l'ora, provando di nuovo quel terribile bruciore añ'avambraccio. L'orologio mi disse che erano le undici di sera, il che significava che eravamo stati privi di sensi per oltre sei ore. Non poteva essere effetto della sola botta in testa: probabilmente era stato usato qualche altro metodo per mantenerci addormentati. Eppure non soffrivo dei postumi di un'anestesia o di sedativi. Tutto sommato, mi sentivo piuttosto bene. «Kaspar!» continuava a gridare Farag, prendendo a schiaffi la Roccia. «Non credo che riuscirai a svegliarlo in questo modo.» «Vedremo!» disse lui, e giù altri schiaffi. Il capitano emise un gemito e agitò le palpebre. «Santità...?» balbettò. «Che Santità? Sono io, Farag! Apra gli occhi una buona volta, Kaspar!» «Farag?» «Sì, Farag Boswell, di Alessandria d'Egitto. E questa è la dottoressa Salina, Ottavia Salina, di Palermo, in Sicilia.» «Oh, sì... Ora ricordo. Che cos'è successo?» In modo automatico, il capitano ripeté gli stessi gesti che Farag e io avevamo fatto al nostro risveglio: aggrottò la fronte, prendendo coscienza del dolore alla testa, poi cercò di portarsi la mano alla nuca, ma la ferita all'avambraccio sfregò sulla tela della camicia, con una fitta di dolore. «Cosa diavolo...?» «Ci hanno marchiato, Kaspar. Non abbiamo ancora visto le nostre nuove cicatrici, ma sappiamo già che cosa ci hanno fatto.» Trascinandoci come vecchi acciaccati e sorreggendo il capitano, ci dirigemmo verso l'uscita. Sentimmo sul viso l'aria fresca e ci accorgemmo di
trovarci lungo il corso del Tevere, a un paio di metri sopra il livello dell'acqua. Lasciandoci cadere dal terrapieno avremmo potuto nuotare fino a una scaletta a una decina di metri sulla nostra destra. Ricordo tutto come un sogno lontano e confuso, privo di sfumature. So di avere vissuto quei momenti, ma mi sentivo come in una specie di letargo. Alla nostra sinistra, molto più lontano, si vedeva il Ponte Sisto, il che significava che eravamo a metà strada tra il Vaticano e Santa Maria in Cosmedin. L'erba e i rifiuti accumulati sul pendio frenarono la nostra discesa. Sopra le nostre teste, le luci dei lampioni della strada e delle sommità degli edifici della zona ci erano di sprone a continuare, a dispetto della stanchezza. Ci gettammo in acqua e raggiungemmo la scala, lasciandoci trascinare dalla lieve corrente d'acqua gelida. Non aveva piovuto, negli ultimi mesi, e il fiume non riempiva gli argini. Ma il tuffo bastò a me e a Farag per riprendere quasi completamente coscienza. Non così per Glauser-Röist, che come un ubriaco non coordinava troppo bene le parole e i movimenti. Quando finalmente risalimmo sull'altra riva, bagnati, traumatizzati e privi di forze, il traffico sul Lungotevere e la normalità della capitale a quell'ora tarda ci riempirono di gioia. Un paio di corridori notturni, di quelli che si mettono in pantaloncini corti e T-shirt per fare jogging dopo il lavoro, ci passarono davanti senza nascondere la loro perplessità. Dovevamo avere un aspetto grottesco. Sostenendo il capitano uno da una parte e una dall'altra, ci portammo sul bordo del marciapiede, pronti a fermare un taxi anche con la forza, se necessario. «No, no...» mormorò a stento Glauser-Röist. «Attraversiamo la strada al prossimo passaggio pedonale. Io abito di fronte.» «Ha una casa sul Lungotevere dei Tebaldi?» «Sì, al numero... al numero 50.» Farag mi fece un cenno, per farmi capire che non era opportuno farlo parlare ancora, e andammo verso il passaggio pedonale. Attraversammo la strada fra gli sguardi sorpresi e scandalizzati degli automobilisti fermi al semaforo e giungemmo a un bel portone di legno scolpito e ferro battuto. Mentre cercavo la chiave nella tasca della giacca del capitano, un foglietto bagnato cadde a terra. «Che succede?» chiese la Roccia, vedendo che esitavo ad aprire. «Le è caduto un foglietto, capitano.» «Mi faccia vedere.» «Dopo, Kaspar», disse Farag. «Prima dobbiamo andare di sopra.»
Infilai la chiave nella serratura e aprii la porta con uno spintone. L'atrio era elegante e spazioso, illuminato da grandi lampade in cristallo di rocca. Alle pareti, grandi specchi moltiplicavano la luce. Il capitano doveva essere molto ricco, per vivere in quel palazzo. «A che piano, Kaspar?» chiese Farag. «All'ultimo. L'attico. Devo vomitare.» «Non qui, no, per l'amor del cielo!» esclamai. «Aspetti di arrivare. Ci siamo quasi!» Salimmo in ascensore, temendo che in qualsiasi momento la Roccia Spezzata rigettasse senza remissione. Ma lui si comportò bene e resistette finché non fummo a casa. Poi, senza por tempo in mezzo, si liberò da noi con un movimento brusco e, barcollando, scomparve nel buio dell'anticamera. Poco dopo, lo sentimmo vomitare l'anima. «Vado ad aiutarlo», disse Farag, accendendo le luci. «Tu cerca un telefono e chiama un medico. Credo che ne abbia bisogno.» Attraversai lo spazioso appartamento con la sensazione di violare l'intimità del capitano. Era improbabile che un uomo così riservato, silenzioso e prudente per quanto concerneva la propria vita privata lasciasse entrare molte persone in quella casa. Fino a quel momento avevo dato per scontato che Glauser-Röist abitasse nella caserma della Guardia Svizzera, tra il colonnato sulla destra di Piazza San Pietro e Porta Sant'Anna. Non mi era mai venuto in mente che potesse avere un appartamento privato a Roma, anche se era più che possibile, dato il suo grado di ufficiale: solo gli alabardieri, ossia i soldati, avevano l'obbligo di vivere in Vaticano. In ogni caso, non avrei mai immaginato che un militare con un salario miserabile (come quello per cui la Guardia Svizzera era tristemente nota) fosse proprietario di un appartamento elegante sul Lungotevere dei Tebaldi e, per giunta, arredato con evidente buon gusto. In un angolo del salone, accanto alle tende di una finestra, trovai il telefono e la rubrica del capitano. Accanto, sullo stesso tavolino, la fotografia di una giovane sorridente, in una cornice d'argento. La ragazza, molto bella, con in testa un vistoso berretto da sci, aveva capelli e occhi neri, dunque non doveva essere consanguinea della Roccia. Che si trattasse di una fidanzata? Sorrisi. Quella sì che sarebbe stata una sorpresa. Mi bastò aprire la rubrica telefonica perché una pioggia di foglietti e biglietti da visita cadesse sul pavimento. Li raccolsi precipitosamente e cercai il numero dei Servizi Sanitari del Vaticano. Quella notte il medico di guardia era il dottor Pietro Arcuti, che conoscevo. Mi assicurò che sarebbe
arrivato immediatamente e, a sorpresa, mi chiese se ritenessi necessario avvisare il Segretario di Stato Angelo Sodano. «Perché dovrebbe chiamare il Cardinale?» volli sapere. «Perché sulla cartella clinica del capitano Glauser-Röist che ho sul computer c'è una nota secondo cui, in qualsiasi eventualità di questo tipo, occorre avvisare direttamente il Segretario di Stato, o, in sua assenza, l'Arcivescovo Segretario della Seconda Sezione. Monsignor François Tournier.» «Ecco, non saprei cosa dirle, dottor Arcuti. Faccia quello che ritiene più opportuno.» «In questo caso, dottoressa Salina, chiamerò Sua Eminenza.» «Molto bene, dottore. La aspettiamo.» Il tempo di riagganciare e Farag comparve nel salone con le mani in tasca e lo sguardo interrogativo. Era sporco e spettinato come un mendicante che vivesse di quello che trovava scavando nell'immondizia. «Hai parlato con il medico?» «Arriva subito.» Farag si frugò nelle molte tasche della giacca e ne estrasse qualcosa. «Guarda qui, Ottavia: è il foglietto che hai trovato nella giacca del capitano quando cercavi la chiave.» «Come sta Glauser-Röist?» «Non troppo bene.» Farag mi si avvicinò con il foglietto in mano. «Più che addormentato, mi sembra incosciente. Perde i sensi di continuo. Che droga ci avranno somministrato?» «Qualunque fosse, ha avuto effetto solo su di lui. Tu stai bene, vero?» «Non del tutto. Ho molta fame. Andrò in cucina a cercare qualcosa, ma non prima di averti mostrato questo.» Presi il foglietto e lo esaminai. Non era carta normale: anche impregnata di acqua, era spessa e ruvida e i bordi erano troppo irregolari per essere un prodotto industriale. La distesi nel palmo della mano e vidi un testo in greco, solo lievemente stinto dalle acque del Tevere. «Dai nostri amici Staurophylakes?» «C'è da scommetterci.» τι στενή ή πύλη και τεθλιμμένη ή οδός ή άπάγουσα είς την ζωήν, και ολίγοι είσίν οι εύρίσκοντες αυτήν «'Com'è stretta la porta e quanto angusto è il cammino che conduce alla vita'», tradussi, con una stretta al cuore. «'E quanto pochi sono coloro che
la trovano!' È un frammento del Vangelo di San Matteo.» «Non importa. Quello che mi spaventa è il suo possibile significato.» «Che la prossima prova di iniziazione abbia a che vedere con porte strette e cammini angusti. Che cosa c'è scritto sotto?» «'Agios Konstantinos Akanzon.'» «San Costantino delle Spine», mormorai, pensosa. «Non si può riferire all'imperatore Costantino, per quanto sia stato santificato, perché lui non ha alcun appellativo dopo il nome, tantomeno 'delle Spine'. Sarà qualche patrono importante per gli Staurophylakes, o il nome di qualche chiesa?» «Se è una chiesa, dev'essere a Ravenna, perché il prossimo peccato da espiare è l'invidia. Quanto alle spine...» Spinse gli occhiali sul naso, si passò la mano tra i capelli lerci e abbassò gli occhi a terra. «Quanto alle spine, non mi piacciono per niente, perché nella seconda cornice dantesca gli invidiosi portano il cilicio e hanno gli occhi cuciti.» Un improvviso sudore freddo mi coprì la fronte e le guance. Sentii come se il sangue mi fosse defluito dalla faccia. Strinsi i pugni compulsivamente. «Per favore!» supplicai, sull'orlo dello svenimento. «Non stanotte!» «No, stanotte no», convenne Farag, avvicinandosi a me e appoggiandomi un braccio sulle spalle. «Stanotte diamo l'assalto al frigorifero di Kaspar e dormiamo un bel po' di ore. Forza, andiamo in cucina!» «Spero che il dottor Arcuti non tardi.» La cucina di Glauser-Röist era un vero scandalo. Appena entrata, pensai alla povera Ferma, che in un terzo dello spazio e con un decimo degli elettrodomestici si dava da fare per preparare pasti deliziosi. Che cosa avrebbe fatto se avesse potuto disporre di quella versione domestica della NASA? Sulla porta del frigorifero, un blocco immane di acciaio inossidabile, c'erano un distributore di acqua fresca e cubetti di ghiaccio e uno schermo da computer che, appena aprimmo lo sportello, emise un fischio e ci indicò che sarebbe stata una buona idea comprare carne di vitello. «Come farà a pagare tutto questo?» chiesi a Farag, che stava impadronendosi di una confezione di pan carré e di un assortimento di salumi. «Non sono affari nostri, Ottavia.» «Come no?» protestai. «Sono oltre due mesi che lavoro con lui e so solo che è simpatico come un sasso e che lavora agli ordini della Sacra Rota e di Tournier. Figurati!» «Non è più agli ordini di Tournier.» Farag si mise a preparare un paio di panini succulenti, appoggiandosi al bancone di marmo rosso della cucina, da cui spuntavano sei fornelli elet-
trici con relativi comandi di alluminio e una piastra di cottura dello spessore di un centimetro e mezzo, in pietra lavica, secondo quanto comunicava la targhetta del fabbricante. «Be', continua a essere simpatico come un sasso.» «Lo hai sempre guardato dal punto di vista sbagliato, Ottavia. In fondo, credo sia infelice. Sono sicuro che sia una brava persona, trascinata dalla vita fino alla posizione ragguardevole che occupa attualmente.» «La vita non trascina nessuno che non voglia farsi trascinare», sentenziai, convinta di avere affermato una grande verità. «Ne sei sicura?» mi domandò sarcastico, mentre toglieva la crosta al pane. «So di qualcuno che non è stato molto libero di scegliere il proprio destino.» «Se ti riferisci a me, ti sbagli», replicai, offesa. Lui rise, avvicinandosi alla tavola con due piatti e un paio di tovaglioli colorati. «Lo sai che cosa mi ha detto tua madre domenica, quando Kaspar e io ci siamo presentati a casa tua dopo i funerali?» Per qualche secondo sentii il cuore riempirsi di veleno. Non replicai. «Tua madre mi ha detto che, di tutti i suoi figli, tu sei sempre stata la più brillante, la più intelligente e la più forte.» Si succhiò la salsa piccante dalla punta delle dita. «Non so perché mi abbia parlato con tanta franchezza, ma mi ha spiegato che tu puoi essere felice solo vivendo la tua vita come facevi fino a poco tempo fa, dedicandoti a Dio, perché non sei fatta per il matrimonio e non potresti mai tollerare le imposizioni di un marito. Suppongo che tua madre misuri il mondo secondo le regole del suo tempo.» «Mia madre misura il mondo come le pare», ribattei. Chi era Farag per giudicarla? «Non arrabbiarti, per favore. Ti ho solo riferito quello che mi ha detto. E ora, senz'altri indugi, ceniamo con questi magnifici panini, grassi e piccanti, con dentro quasi tutto quello che c'era in frigorifero. Mordi, Imperatrice di Bisanzio, e scoprirai i piaceri sconosciuti della vita!» «Farag!» «Mi spiace», disse, con la bocca così piena che a stento riusciva a chiuderla e con l'aria che non gli spiacesse per niente. Come faceva a essere così pieno di vita, quando io cascavo dal sonno e dalla stanchezza? Un giorno o l'altro, mi dissi, mentre staccavo un morso dal panino e constatavo quanto fosse buono, un giorno o l'altro devo mettermi a fare un po' di esercizio. Basta passare le ore morte a lavorare in laboratorio, senza muovere le gambe. Mi sarei messa a passeggiare, avrei
fatto un po' di ginnastica al mattino e avrei portato Ferma, Margherita e Valeria a correre per il Borgo. Avevamo quasi finito di cenare quando suonò il citofono. «Resta seduta e finisci», ordinò Farag, alzandosi in piedi. «Vado io ad aprire.» Quando uscì dalla cucina, sentii che rischiavo di addormentarmi sul tavolo. Perciò trangugiai l'ultimo boccone e andai in anticamera a salutare il dottor Arcuti, che entrava in casa proprio in quel momento. Mentre il medico esaminava il capitano, mi diressi verso il salone, con l'intenzione di sedermi un momento su un divano. Praticamente addormentata, camminavo e parlavo nel sonno. Dovevo dare requie al mio corpo, da qualche parte. Ma, passando davanti a una porta socchiusa, non resistetti alla tentazione di curiosare. Accesi la luce e mi trovai in un enorme studio, arredato con moderni mobili da ufficio che, non saprei dire come, non stonavano per nulla con la libreria antica di mogano e i ritratti degli antenati militari di Glauser-Röist. Sulla scrivania era installato un computer, molto più sofisticato di quello che avevamo in laboratorio, e sulla destra, accanto a una finestra, un impianto stereo con più bottoni e schermi digitali della cabina di pilotaggio di un aereo. Centinaia di CD occupavano strani classificatori dalle forme contorte. Da quanto potei constatare, si andava dal jazz all'opera, passando per varie musiche folcloristiche, inclusi una raccolta di musica dei pigmei (veri pigmei), e parecchi canti gregoriani. Avevo appena scoperto che la Roccia era un grande appassionato di musica. I ritratti degli antenati erano un altro paio di maniche. La faccia di Glauser-Röist, con lievi modifiche nel corso dei secoli, si ripeteva nei suoi bisbisnonni e pro-prozii. Si chiamavano tutti Kaspar o Linus o Kaspar Linus Glauser-Röist e tutti sfoggiavano la stessa espressione severa del capitano. Notai che solo il nonno e il padre, rispettivamente Kaspar e Linus GlauserRöist, erano raffigurati con l'uniforme di gala disegnata da Michelangelo. I loro predecessori indossavano una corazza di metallo, come tradizione degli eserciti del passato. Che l'uniforme colorata fosse solo un'invenzione moderna? Sopra il computer trovavano posto una fotografia di formato particolarmente grande e una splendida croce di ferro sostenuta da un piedistallo di pietra. Girando intorno alla scrivania riconobbi nella foto la stessa ragazza dai capelli neri che avevo visto nel salone. Non avevo più dubbi, doveva essere la fidanzata: non si tengono tante foto di un'amica o di una sorella.
Sicché la Roccia aveva una bella casa, una graziosa fidanzata, un lignaggio militare ed era amante della musica e dei libri, che abbondavano non solo nello studio, ma in tutte le stanze. Mi sarei aspettata di trovare da qualche parte la tipica collezione di armi antiche che i militari sono soliti esporre in casa propria, ma Glauser-Röist non sembrava interessato a certe cose. A parte i ritratti degli antenati, niente in quell'appartamento poteva identificarne il proprietario come un ufficiale dell'esercito. «Che cosa fai qui, Ottavia?» Sussultai e mi girai verso la porta. «Diamine, Farag, mi hai spaventata!» «E se invece di essere io fosse stato il capitano? Che cosa avrebbe pensato di te, eh?» «Non ho toccato niente, stavo solo guardando.» «E se io vengo a casa tua, ricordami di guardare nella tua camera.» «Non te lo consiglio.» «Vieni fuori, dai», mi disse, invitandomi a seguirlo. «Il dottor Arcuti ti deve esaminare il braccio. Il capitano sta bene, è solo sotto l'effetto di un potente sonnifero. Tanto lui quanto io abbiamo un bella crocettina nella parte interna dell'avambraccio destro. Vedrai. Le nostre sono croci latine inscritte in un rettangolo verticale, con una coroncina a sette punte sulla sommità. Chissà se a te ne hanno fatta una di un altro modello.» «Non credo...» mormorai. A dire il vero mi ero dimenticata del braccio. Era da un po' che aveva smesso di dolermi. Entrammo in camera da letto. La Roccia stava dormendo profondamente, tuttora sporco e malconcio come quando eravamo usciti dalla Cloaca Massima. Il dottor Arcuti mi chiese di sollevare la manica del maglione. La parte interna dell'avambraccio era infiammata e arrossata e la croce era coperta da un cerotto. Per essere una setta millenaria, gli Staurophylakes erano molto moderni, quando si trattava di praticare le loro scarificazioni tribali. Arcuti rimosse cautamente la garza. «Va bene», mi rassicurò, guardando il mio nuovo segno particolare. «Non c'è infezione e sembra pulito, a parte questa colorazione verdastra. Un antisettico vegetale, forse. Non saprei dire. È un lavoro molto professionale. Sarebbe troppo domandare...?» «No, non faccia domande, dottor Arcuti», risposi io, guardandolo. «È una nuova forma di body art. Il cantante David Bowie è uno dei suoi più grandi sostenitori.» «E lei, Suor Salina...?»
«Sì, dottore. Anch'io seguo la moda.» Arcuti sorrise. «Suppongo che non possiate rivelarmi niente. Sua Eminenza il Cardinal Sodano mi ha già avvisato di non stupirmi di quello che avrei visto stanotte e di non fare domande. Se ho ben capito, è in corso un'importante missione per la Chiesa...» «Qualcosa del genere», accennò Farag. «Bene, in tal caso», disse il medico, mettendo un nuovo cerotto sopra la croce, «io ho finito. Lasciate dormire il capitano fino a quando si sveglierà. E anche voi dovreste riposare. Non avete un bell'aspetto. Sorella Salina, credo sarebbe opportuno che venisse con me: sono in macchina e posso accompagnarla alla sua comunità.» Il dottor Arcuti, come affiliato all'Opus Dei (dall'elezione di Giovanni Paolo II l'organizzazione religiosa di maggior spicco in Vaticano), non vedeva di buon occhio che una suora passasse la notte nella stessa casa in cui si trovavano due uomini. Senza contare, cosa ancora più pericolosa, che quei due uomini non erano sacerdoti, ma secolari. Si diceva che il papa non muovesse un dito senza il beneplacito dell'Opera, come la chiamavano i suoi affiliati, e che anche i membri più influenti e indipendenti della potente Curia Romana preferissero non opporsi apertamente alle direttrici politico-religiose tracciate dall'istituzione, i cui membri, dal dottor Arcuti fino al portavoce del Vaticano, lo spagnolo Joaquín Navarro Valls, erano onnipresenti nell'establishment vaticano. Guardai sconcertata Farag. Non sapevo che cosa rispondere al dottore. In quella casa c'erano stanze in eccesso e non mi era neppure passato per la testa di andare a dormire in Piazza delle Vaschette, considerando l'ora tarda e la mia stanchezza. Il dottor Arcuti tornò alla carica. «Di certo vorrà ripulirsi da quella sporcizia e cambiarsi, non è vero? Non ci pensi più: come potrebbe fare una doccia qui? No, sorella, no.» Mi resi conto che sarebbe stato assurdo opporre resistenza. Qualora mi fossi negata, il giorno dopo, se non addirittura quella notte stessa, il mio Ordine avrebbe ricevuto una severa reprimenda. Da come andavano le cose, era meglio non scherzare col fuoco. Perciò mi congedai da Farag e, più morta che viva, lasciai la casa in compagnia del medico, che mi fece scendere in Piazza delle Vaschette con il sorriso soddisfatto di chi ha compiuto il suo dovere. Com'era inevitabile, Ferma, Margherita e Valeria si spaventarono a morte appena mi videro rientrare in quelle condizioni. So che, effettivamente, mi feci una doccia, ma non ho alcuna idea di come riuscii ad
arrivare a letto. Fedele alla sua natura svizzero-tedesca, il capitano Glauser-Röist si rifiutò di prendere anche un solo giorno di riposo e, nonostante l'insistenza di Farag e mia, il pomeriggio successivo si presentò con la testa bendata nel mio laboratorio all'Ipogeo, pronto a riprendere le ricerche e a giocarsi di nuovo la vita. Come se dietro quella assurda storia ci fosse più della cattura di ladri di reliquie, il capitano era consumato dall'ossessione di giungere quanto prima agli Staurophylakes e al loro Paradiso Terrestre. Forse per lui le prove iniziatiche che simboleggiavano la purificazione dai sette peccati capitali non erano solo un dovere personale. Ma per quanto mi riguardava erano una provocazione, un guanto di sfida gettato ai miei piedi che io avevo deciso di raccogliere. Quel giovedì mi ero svegliata verso mezzogiorno, sentendomi abbastanza in forze considerando le dure prove a cui il mio corpo e la mia anima erano stati sottoposti nell'ultima settimana. Mi fu di conforto aprire gli occhi e trovarmi nel mio letto, nella mia stanza, circondata dalle mie cose, soprattutto dopo undici o dodici ore filate di sonno. Malgrado le ammaccature, i dolori muscolari alle gambe e il nuovo, curioso marchio sulla pelle, per la prima volta da molto tempo mi sentivo in pace e rilassata, come se tutto intorno a me fosse a posto. Ma quella piacevole sensazione era durata solo un momento. Dal mio letto, coperta fino alle orecchie, avevo sentito il trillo del telefono e avevo indovinato che la chiamata era per me. Ma il buonumore non mi era passato nemmeno quando Valeria era venuta a svegliarmi: non c'è nulla come un buon sonno ristoratore. Al telefono c'era Farag, che con voce sorprendentemente alterata mi comunicava che il capitano aveva convocato una riunione in laboratorio, subito dopo l'ora di pranzo. Era stato allora che avevo insistito perché la Roccia se ne restasse a letto tutto il giorno. Ma il professore, più infuriato di me, mi comunicò che aveva già cercato di convincerlo con ogni mezzo, inutilmente. Lo avevo pregato di calmarsi e di non preoccuparsi tanto per una persona che evidentemente non prendeva sul serio la propria salute. Volevo sapere intanto come si sentiva lui, se fosse più tranquillo e riposato rispetto alla notte precedente. Farag mi aveva risposto che si era svegliato solo un paio d'ore prima e che, a parte la scarificazione, sempre verdognola ma meno infiammata, e il bernoccolo, si sentiva in forma: aveva dormito bene e fatto una copiosa colazione.
Sicché ci eravamo dati appuntamento alle quattro in laboratorio: il tempo sufficiente perché pranzassi con le mie sorelle, pregassi nella cappella e chiamassi a casa per sapere come stavano tutti quanti. Mi sembrava incredibile poter disporre di tre ore libere per ritrovare il mio posto nel mondo. Fresca come una rosa e con un sorriso felice sulle labbra, mi ero incamminata verso il Vaticano, assaporando l'aria della strada e il sole del pomeriggio. Quanto poco valore si dà alle cose, finché non si corre il rischio di perderle! I raggi sul viso mi infondevano vigore e gioia di vivere. Le vie, il rumore, il traffico e il caos mi riportavano alla normalità e all'ordine quotidiano. Il mondo era quello ed era fatto così: a che pro lamentarsi di continuo di ciò che poteva apparire bello, a seconda di come lo si guardava? Persino l'asfalto sporco, le macchie di olio o di benzina e la cartacce sul marciapiede potevano avere una loro bellezza, se viste con gli occhi giusti. Specie se in qualche momento si era giunti a pensare di non poterli vedere mai più. Ero entrata un momento da Al mio caffè per prendere un cappuccino. Il locale, per la sua vicinanza alle caserme, era spesso frequentato da giovani guardie svizzere, che parlavano e ridevano rumorosamente. Ma c'era anche gente che, come me, veniva dal lavoro o da casa e vi si fermava per il servizio cortese e, s'intende, i magnifici cappuccini. Ero arrivata infine all'Ipogeo con cinque minuti di anticipo rispetto all'ora convenuta. Nel sotterraneo erano riprese le normali attività lavorative, come se la follia del Codice Iyasus si fosse cancellata dalla mente di tutti. Curiosamente, i miei assistenti mi accolsero con simpatia, qualcuno mi fece addirittura un cenno con la mano a mo' di benvenuto. Risposi timidamente ai saluti e mi rifugiai al volo nel mio laboratorio, chiedendomi quale strano miracolo avesse prodotto quell'insolito cambio di atteggiamento. Che avessero scoperto che ero anch'io un essere umano? O forse la mia sensazione di benessere era contagiosa? Non feci in tempo ad appendere il soprabito e la borsa che si presentarono Farag e il capitano, quest'ultimo con una clamorosa benda sulla grossa testa bionda. Ma, sotto le ciglia, il bagliore metallico dei suoi occhi presagiva tempesta. «Sto godendomi una giornata meravigliosa», lo avvisai, «e non ho voglia di facce serie.» «Chi ha la faccia seria?» fece Glauser-Röist, aspro. Non che Farag fosse di umore migliore: sembrava che, qualunque cosa fosse accaduta a casa della Roccia, doveva essere stata apocalittica.
Il capitano non si tolse la giacca e non diede cenno di volersi sedere. «Tra quindici minuti ho un'udienza con Sua Santità e con Sua Eminenza Sodano», annunciò, a sorpresa. «È una riunione molto importante, quindi sarò assente per un paio d'ore. Cominciate a prepararvi sulla prossima cornice di Dante e al mio ritorno completeremo il lavoro.» Detto questo, prese di nuovo la porta e se ne andò. Non sapevo se domandare a Farag che cosa fosse successo. «Sai una cosa, Ottavia?» cominciò lui, lo sguardo fisso sulla porta da cui era uscito Glauser-Röist. «Il capitano non è in sé.» «Non avresti dovuto insistere perché riposasse. Quando una persona ostinata come lui vuole fare qualcosa, bisogna assecondarlo, e tanto peggio per lui.» «Non è questo!» Mi guardò con una strana espressione. «'Sono forse il guardiano di mio fratello?' Kaspar è adulto e vaccinato ed è libero di fare come vuole. Solo che... Senti, non lo so, ma questa storia degli Staurophylakes lo sta facendo uscire di senno. O punta a una medaglia o si sta servendo di questa avventura come altri fanno con la bottiglia, per dimenticare e autodistruggersi.» «Ci pensavo giusto stamattina... o meglio, a mezzogiorno.» Sfilai gli occhiali dall'astuccio. «Per te e per me questa è solo un'avventura in cui siamo coinvolti volontariamente, per interesse e curiosità. Ma per lui significa qualcosa di più. Non gli importa della stanchezza, della morte di mio padre e di mio fratello, del fatto che tu abbia dovuto rinunciare alla tua vita e al tuo lavoro in Egitto. Ci sta facendo correre contro il tempo come se il solo furto di un'altra reliquia fosse una catastrofe insormontabile.» «Non credo si tratti di questo», rifletté Farag, accigliato. «Credo sia profondamente dispiaciuto per l'incidente di tuo padre e tuo fratello e molto preoccupato per la mia situazione attuale. Ma quello che è certo è che per lui gli Staurophylakes sono diventati un'ossessione. Stamattina, appena sveglio, ha chiamato Sodano e ha parlato a lungo con lui. Mentre era al telefono, ha dovuto sdraiarsi due volte, perché non si reggeva in piedi. Poi, senza nemmeno avere fatto colazione, si è chiuso nello studio, quello in cui curiosavi ieri sera, e si è messo ad aprire cassetti e cartellette. Mentre io mangiavo e mi facevo una doccia, lui girava inquieto per la casa. Gemeva di dolore, ogni tanto doveva sedersi un momento per riprendersi, ma subito dopo si rimetteva in piedi. Non ha mangiato niente, dopo il sandwich nella Cloaca.» «Sta proprio impazzendo», sentenziai.
Restammo in silenzio, come se non ci fosse più nulla da dire sul conto di Glauser-Röist, ma sono sicura che stavamo pensando la stessa cosa. Infine feci un lungo sospiro. «Ci mettiamo al lavoro?» lo incoraggiai. «Ascesa alla seconda cornice del Purgatorio, Canto XIII.» «Potresti leggerlo a voce alta», propose lui, appoggiandosi allo schienale della sedia e mettendo i piedi sullo scatolone del computer appoggiato sul pavimento. «Io l'ho già letto. Poi lo commentiamo.» «E devo proprio leggerlo io?» «Se vuoi posso farlo io, ma sono seduto comodo e da qui ho una vista magnifica.» Preferii ignorare il commento, che mi sembrava fuori luogo, e cominciai a declamare i versi danteschi: «Noi eravamo al fondo della scala dove secondamente si risega lo monte che salendo altrui dismala».35 I nostri alter ego, Dante e Virgilio, giungono alla nuova cornice, leggermente più piccola della precedente, e avanzano di buon passo, cercando qualche anima che spieghi loro come proseguire il cammino. D'un tratto, Dante sente alcune voci che dicono «Vinum non habent».36 «I' sono Oreste» e «Amate da cui male aveste»37 «Questo che cosa significa?» chiesi a Farag, guardandolo da sopra gli occhiali. «In realtà, sono riferimenti a esempi classici di amore verso il prossimo, che è ciò di cui mancano i protagonisti di questa cornice. Continua a leggere e capirai.» Curiosamente, Dante rivolge a Virgilio la stessa domanda che avevo appena fatto a Farag. E 'l buon maestro: «Questo cinghio sferza la colpa dell'invidia; e però sono tratte d'amor le corde della ferza. Lo fren vuol esser del contrario sono: credo che l'udirai per mio avviso, prima che giunghi al passo del perdono.
Ma ficca 'l viso per l'aere ben fiso, e vedrai gente innanzi a noi sedersi, e ciascuno è lungo grotta assiso».38 Dante esamina con attenzione la parete e scorge alcune ombre vestite di manti del colore della pietra. Si avvicina un po' di più e rimane terrorizzato da ciò che vede. Di vil ciliccio mi parean coperti, e l'un sofferta l'altro con la spalla, e tutti dalla ripa eran sofferti [...] E come alli orbi non approda il sole, così all'ombre quivi, ond'io parlo ora, luce dal ciel di sé largir non vole; ch'a tutti un fil di ferro i cigli fora e cuce sì, come a sparvier selvaggio si fa però che questo non dimora.39 Tornai a guardare Farag, che mi osservava sorridente, e feci un cenno negativo con la testa. «Non credo di poter sopportare questa prova.» «Hai forse dovuto metterti in spalla qualche pietra, nella prima cornice?» «No», ammisi. «Allora nessuno dice che stavolta ci cuciranno le palpebre.» «E se invece lo fanno?» «Ti hanno fatto del male, quando ti hanno marchiata con la prima croce?» «No», ammisi di nuovo, anche se avrei dovuto menzionare la botta in testa. «Allora continua a leggere e non ti preoccupare. Abi-Ruj Iyasus non aveva buchi nelle palpebre, giusto?» «No.» «Ti sei soffermata a pensare che gli Staurophylakes ci hanno avuto in loro potere per sei ore e tutto quello che ci hanno fatto sono state le scarificazioni? E ti sei resa conto che sanno perfettamente chi siamo e ciononostante ci hanno consentito di superare le prove? Per qualche ragione sconosciuta, non hanno paura di noi. È come se dicessero: 'Avanti, visitate il
nostro Paradiso Terrestre, se ci riuscite!' Si sentono molto sicuri di loro stessi al punto da lasciare nella giacca del capitano l'indizio per la prova successiva. Avrebbero potuto astenersene e noi saremmo qui a scervellarci.» «Ci stanno sfidando?» «Non credo. Direi piuttosto che ci stanno invitando.» Si passò una mano sulla barba, più chiara della pelle, e fece una smorfia disperata. «Pensi di finire di leggere la seconda cornice?» «Non ne posso più di Dante, degli Staurophylakes e di Glauser-Röist. Per essere sincera, non ne posso più di tutta questa storia!» protestai, indignata. «E non ne puoi più anche di...?» cominciò a domandare, seguendo il filo delle mie lamentele, ma si fermò, scoppiò in una risata che mi parve piuttosto artificiosa e mi guardò severo. «Ottavia, per favore, continua a leggere.» Obbediente, abbassai gli occhi sul libro e continuai. Seguiva una parte tediosa, in cui Dante si mette a parlare con tutte le anime che vogliono raccontargli le loro vite e i motivi per cui si trovano in quella cornice del monte: Sapia dei Salvani, Guido del Duca, Ranieri da Calboli... Tutti in vita erano stati terribilmente invidiosi e si erano rallegrati dei mali altrui come delle proprie fortune. Finalmente, terminato il noioso Canto XIV, cominciava il XV, con Dante e Virgilio di nuovo soli, investiti da una luce brillantissima che obbliga il fiorentino a coprirsi gli occhi con una mano. È l'angelo guardiano del secondo girone, che viene a cancellare un'altra Ρ dalla fronte di Dante e per portare i due poeti alla terza cornice. Nel fare questo, stranamente, l'angelo si mette a cantare Beati misericordes e Godi tu che vinci! «Ecco tutto», dissi, avendo completato la cornice. «Dunque, adesso dobbiamo scoprire cosa sia Agios Konstantinos Akanzon.» «Per questo ci serve il capitano. È lui che sa usare il computer.» Farag mi guardò stupefatto. «Non siamo forse nell'Archivio Segreto Vaticano?» domandò, guardandosi intorno. «Hai ragione!» Mi alzai in piedi. «A che cosa servono quelli là fuori?» Aprii la porta con gesto deciso e uscii con l'intenzione di prendere il primo assistente che mi fosse capitato a tiro, scontrandomi frontalmente con la Roccia, che a sua volta stava rientrando nel laboratorio come un bulldozer. «Capitano!»
«Doveva andare da qualche parte, dottoressa?» «Be', in realtà io...» «Allora entri. Ho cose importanti da comunicarvi.» Feci marcia indietro e tornai alla mia scrivania. Farag era di nuovo accigliato. «Professore, innanzitutto devo chiederle scusa per il mio comportamento di stamattina», cominciò umilmente la Roccia, sedendosi in mezzo a noi. «Mi sentivo piuttosto male e sono un pessimo paziente.» «L'ho notato.» «Vede, quando non mi sento bene divento insopportabile. Non sono abituato a stare a letto nemmeno con quaranta di febbre. Temo di essere stato detestabile come anfitrione e me ne dispiace.» «Va bene, Kaspar, chiusa la questione.» Farag accompagnò la frase con il gesto di chiudere una porta. «Bene. Ordunque», sospirò Glauser-Röist, sbottonandosi la giacca e mettendosi comodo, «devo informarvi della situazione senza altri preamboli. Ho appena finito di raccontare al Papa e al Segretario di Stato tutto quello che ci è capitato a Siracusa e qui a Roma. Sua Santità si è mostrato visibilmente impressionato dalle mie parole. Oggi, se ve lo siete dimenticato, è il suo ottantesimo compleanno, ma, nonostante gli innumerevoli impegni, ha trovato spazio nella sua agenda per ricevermi. Ve lo dico perché vi rendiate conto di quanto sia importante per la Chiesa la vicenda di cui ci stiamo occupando. Malgrado la sua stanchezza e qualche difficoltà a parlare, per bocca di Sua Eminenza il Papa mi ha fatto sapere che è molto soddisfatto e che pregherà per noi ogni giorno.» Sorrisi emozionata. Quando lo avesse saputo mia madre! Il Papa che pregava ogni giorno per sua figlia! «Bene, la questione successiva riguarda quello che ci resta da fare. Dobbiamo ancora superare sei prove per poter arrivare al Paradiso Terrestre degli Staurophylakes. Nel caso sopravviviamo a tutte e sei, la nostra missione è, naturalmente, recuperare la Vera Croce, ma anche offrire perdono ai membri della setta, sempre che siano disposti e integrarsi nella Chiesa Cattolica sotto forma di Ordine religioso. Il Papa è particolarmente interessato a conoscere l'attuale Catone, se esiste, pertanto dovremo condurlo a Roma, volontariamente o con la forza. Da parte sua, il Cardinal Sodano mi ha comunicato che, dal momento che le prove mancanti avranno luogo a Ravenna, Gerusalemme, Atene, Istanbul, Alessandria e Antiochia, il Vaticano metterà a nostra disposizione sia uno dei suoi Dauphin 365, sia il
Westwind di Sua Santità. Quanto agli accrediti diplomatici...» «Un momento!» Farag aveva alzato una mano come si faceva a scuola. «Che cosa sono un Dauphin non-so-quanto e un Westwind?» «Scusate.» La Roccia era calmo come le acque di un lago. Il Papa aveva sempre un'influenza positiva su di lui. «Non mi ero reso conto che non sapeste niente di elicotteri e aerei.» «Oh, no!» feci io, chinando il capo. «Oh, sì, cara Basileia! Continuiamo a correre contro il tempo!» Fortunatamente Glauser-Röist non colse il senso del poco appropriato appellativo greco con cui Farag mi ossequiava ultimamente. «Non c'è altro fa fare, professore. Questa vicenda deve concludersi quanto prima. Tutte le chiese cristiane sono state spogliate dei loro Ligna Crucis e i pochi frammenti rimasti, per quanto sotto attenta vigilanza, continuano a sparire. Per vostra informazione, tre giorni fa è stato rubato quello di St. Michaelis, a Zweibrücken, in Germania.» «Continuano i furti anche se sanno che stiamo dando loro la caccia?» «Non hanno paura, dottoressa. St. Michaelis Kirche era custodita da un servizio di sorveglianza privato, assunto dalla diocesi. La Chiesa sta sprecando grandi somme per proteggere le reliquie, ma senza successo, come vedete. Questo è un altro dei motivi per cui il Cardinal Sodano, con l'autorizzazione di Sua Santità, mette a nostra disposizione uno degli elicotteri Dauphin del Vaticano e l'aereo Westwind II dell'Alitalia che il Papa utilizza per i suoi spostamenti.» Farag e io ci scambiammo un'occhiata. «Questo è il piano», proseguì la Roccia. «Domattina alle sette ci troveremo all'eliporto vaticano, che, come saprete, si trova all'estremità ovest della Città, proprio dietro San Pietro, in linea retta fino alla Muraglia Leonina. Qui troveremo ad aspettarci il Dauphin che ci porterà a Ravenna. Intanto... Avete trovato indizi sulla prossima prova?» «No.» Mi schiarii la gola. «Aspettavamo lei.» «Me? E perché?» «Vede, Kaspar, sappiamo già che la prossima città è Ravenna, che il peccato è l'invidia e che nella prova ci sono porte strette e cammini angusti. Ma l'indizio definitivo è un nome a noi sconosciuto: Agios Konstantinos Akanzon, ovvero San Costantino delle Spine.» «La seconda cornice è quella del cilicio», ragionò Glauser-Röist. «In effetti, abbiamo un'idea di come potrebbero andare le cose... O almeno così crediamo», intervenne Farag. «In ogni caso, bisogna controllare
chi sia questo San Costantino. Forse la sua vita potrebbe darci qualche indicazione su quello che ci aspetta.» «Oppure», suggerii io, «Agios Konstantinos Akanzon potrebbe essere una chiesa di Ravenna. Tocca e lei scoprirlo, con quella meravigliosa invenzione chiamata Internet.» «Molto bene», disse la Roccia, sfilandosi la giacca e distendendola sullo schienale della sedia. «Diamoci da fare.» Accese il computer, attese che il sistema si avviasse e si collegò al server del Vaticano per entrare nella rete. «Come avete detto che si chiamava quel santo?» «Agios Konstantinos Akanzon.» «No, capitano», mi intromisi. «Provi prima San Costantino delle Spine, è più logico.» Dopo un bel po', quando Farag e io cominciavamo a essere stanchi di restare immobili a fissare gli innumerevoli documenti che scorrevano sullo schermo, Glauser-Röist si abbandonò a un'esclamazione di trionfo. «Ci siamo!» Si appoggiò allo schienale e si allentò la cravatta. «San Costantino Acanzo, in provincia di Ravenna. Sentite che cosa dice questa guida turistica delle strade verdi.» «Strade verdi?» domandò Farag. «Ecoturismo, professore. Itinerari per amanti della natura, lungo sentieri, gole e paesaggi naturali poco frequentati.» «A-ha!» «San Costantino Acanzo è un'antica abbazia benedettina situata a sud del delta del Po, in provincia di Ravenna. Un complesso monastico anteriore al X secolo, che conserva una preziosa chiesa bizantina, un refettorio decorato da splendidi affreschi e un campanile duecentesco.» «Non c'è da stupirsi se gli Staurophylakes abbiano scelto Ravenna per una delle loro prove», commentai. «Di fatto, fu la capitale dell'Impero Bizantino d'Occidente dal VI fino all'VIII secolo. Quello che non capisco è perché la considerassero come la metropoli più rappresentativa del peccato dell'invidia.» «Perché Ravenna, dottoressa, nel suo periodo di maggiore splendore, quei due secoli di Esarcato a cui si riferiva, si mise in competizione con Roma, che all'epoca si era ridotta a poco più di un villaggio.» «Conosco la storia di Roma», gli feci notare. «Sono l'unica italiana tra noi, ricorda?» Il capitano mi guardò, poi si voltò verso Farag, ignorandomi del tutto.
«Come già sa, l'Impero Romano d'Occidente cadde nel IV secolo e i barbari presero il controllo dell'intera penisola. Tuttavia, quando i bizantini la riconquistarono nel VI secolo, anziché riportare a Roma la capitale d'Occidente, come ci si sarebbe aspettati, la stabilirono a Ravenna, perché a Roma governava il Papa e tra Costantinopoli e il Pontefice romano c'era una lunga inimicizia.» «Perché se non ricordo male, Kaspar», notò Farag mettendosi in cattedra, «il Papa di Roma si considerava l'unico successore di Pietro. Se non fosse per questo piccolo dettaglio, la riunione di tutti i cristiani del mondo potrebbe essere più facile.» Glauser-Röist lo guardò in silenzio, con occhi inespressivi. Dopo un paio di secondi, come se Farag non avesse aperto bocca, riprese: «Trascurata da Costantinopoli, Roma decadde, mentre Ravenna cresceva, si arricchiva e si consolidava. Ma anziché accontentarsi di godere di tale gloria, dedicò tutte le proprie energie a oscurare la passata grandezza della città rivale. Oltre a riempirsi di magnifiche costruzioni bizantine, che sono tuttora l'orgoglio di Ravenna, introdusse come umiliazione supplementare il culto di Sant'Apollinare nella propria Basilica di San Pietro.» Farag emise un breve fischio. «Sì», riconobbe. «Direi proprio che l'invidia fosse una caratteristica della Ravenna bizantina. Pessima idea, quella di Sant'Apollinare. Ma come fa a sapere tutto questo?» «Non ci sono forse diocesi a Ravenna? In questo stesso momento molta gente in tutto il mondo sta lavorando per noi, soprattutto nelle città che ci restano ancora da visitare. E sappiate che in queste sei città tutto è già pronto per il nostro arrivo.» Si allentò ulteriormente la cravatta. «La ricerca degli Staurophylakes è un'impresa su vasta scala, nella quale non siamo più soli. Tutte le chiese cristiane sono molto interessate alla vicenda.» «Sì, ma tutta questa gente non verrà con noi a rischiare la vita ad Agios Konstantinos Akanzon.» «Adesso si chiama San Costantino Acanzo», ricordai a Farag. «Sì. E con tutte queste chiacchiere non abbiamo finito di leggere che cosa ci dice Internet su questa antica abbazia», ci rimproverò il capitano, rivolgendo gli occhi allo schermo. «A quanto pare, il vecchio complesso monastico bizantino è in rovina, ma rimane ancora una piccola comunità di benedettini che gestisce una piccola locanda per gli escursionisti. Il luogo si trova esattamente al centro del Bosco di Palù, di proprietà dei benedettini, che si estende per oltre mille ettari.» «'Com'è stretta la porta e quanto angusto è il cammino che conduce alla
vita'», citai. «'E quanto pochi sono coloro che vi giungono!'» «Dovremo attraversare il bosco?» volle sapere Farag. «Il bosco è proprietà privata dei monaci. Non si può entrare senza il loro permesso», precisò la Roccia, guardando il monitor. «In ogni caso, noi raggiungeremo la locanda in elicottero.» «Questo mi piace di più.» Mi divertiva l'idea di viaggiare su un mulino volante. «Posso dirle che non le piacerà così tanto, dottoressa: prepari le valigie stasera stessa, perché non ritorneremo a Roma prima di avere con noi l'attuale Catone. A partire da domani sera, il Westwind II dell'Alitalia ci aspetterà all'aeroporto di Ravenna per portarci direttamente a Gerusalemme. Sono gli ordini di Sua Santità.» 5 L'eliporto vaticano era una stretta superficie romboidale assediata dalla Muraglia Leonina, che da secoli separava la Città dal resto del mondo. Il sole, appena spuntato, già illuminava un cielo radioso e sereno, di una bella tonalità azzurro chiaro. «Avremo un volo a vista magnifico, capitano!» gridò a Glauser-Röist il pilota del Dauphin as-365n2. «È una mattinata splendida!» I motori del Dauphin facevano un rumore simile a quello di un gigantesco ventilatore, completamente diverso da quello che si sente nei film quando si vede un elicottero. Il pilota, un giovane biondo, alto e robusto e il viso rubicondo, indossava una tuta di volo grigia piena di tasche. Aveva un sorriso fresco e simpatico e non smetteva di osservarci incuriosito. Doveva domandarsi chi fossimo, perché ci lasciassero volare sul suo smagliante Dauphin bianco. Non ero mai salita in elicottero ed ero un po' nervosa. Al mio fianco, Farag si guardava intorno attentamente, con l'atteggiamento tipico di un turista straniero in visita a una pagoda cinese. La sera precedente mi ero sentita molto inquieta, mentre preparavo il bagaglio. Ferma, Margherita e Valeria mi avevano dato un prezioso contributo, non solo usando la lavatrice a pieno ritmo e poi stirando, piegando e riponendo in valigia i vestiti, ma anche tenendomi di buon umore con scherzi, risate e un'ottima cena. Mi sarei dovuta sentire come un'eroina in procinto di salvare il mondo, e invece ero terrorizzata, schiacciata da un peso indefinibile. Era come se stessi vivendo gli istanti conclusivi della
mia vita e consumassi la mia ultima cena. Ma il momento peggiore era stato quando ci eravamo ritirate tutte e quattro in cappella e le sorelle avevano espresso a voce alta le loro suppliche al Signore affinché mi proteggesse durante la missione. Non avevo potuto trattenere le lacrime. Per qualche ragione sconosciuta, sentivo che non sarei tornata, che non avrei mai più pregato in quella cappella in loro compagnia. Cercavo di scacciare quegli assurdi timori dalla mente e mi dissi che dovevo farmi coraggio. Se non fossi tornata, almeno sarebbe stato per una buona causa. Una causa della Chiesa. E ora eccomi lì, all'eliporto, con indosso pantaloni reduci da lavatrice e ferro da stiro, sul punto di salire su un elicottero per la prima volta in vita mia. Quando il pilota e il capitano ci invitarono a entrare nell'abitacolo, mi feci il segno della croce. Mi sorpresi quando vidi l'interno, accogliente, elegante e spazioso: niente banchi metallici né attrezzature militari. Farag e io prendemmo posto su comode poltroncine di cuoio bianco, in una cabina con aria condizionata, ampi finestrini e un silenzio da chiesa. I nostri bagagli furono caricati nella parte posteriore dell'aeromobile. Il capitano Glauser-Röist occupò il posto del secondo pilota. «Che bello! Stiamo decollando», mi comunicò Farag, guardando dal finestrino. L'elicottero si sollevò da terra, bilanciandosi nel vuoto con leggerezza. Se non fosse stato per la forte vibrazione dei motori, non mi sarei nemmeno accorta che eravamo in aria. Era incredibile volare in quel modo, con il sole alla nostra destra, eseguendo movimenti di danza impossibili per un aereo. Il cielo era chiarissimo. Cercavo di guardare fuori dal finestrino, ma il chiarore era accecante. D'un tratto, la figura di Farag si frappose tra me e la luce. Mi mise qualcosa sulle orecchie. «Non è necessario che tu me li restituisca», disse. «Sapevo che un topo di biblioteca come te non li avrebbe avuti.» Così, potevo guardare fuori senza restare abbagliata. Il sole era sempre più alto. Il nostro elicottero sorvolava la città di Forlì. Dagli altoparlanti della cabina Glauser-Röist ci comunicò che di lì a un quarto d'ora saremmo stati sopra il delta del Po. Una volta giunti a destinazione, l'elicottero avrebbe proseguito fino all'aeroporto della Spreta, a Ravenna, dove sarebbe rimasto in attesa di istruzioni. Il quarto d'ora passò nel tempo di un sospiro. All'improvviso l'apparecchio si inclinò in avanti e diede inizio a una rapida discesa che mi accelerò il battito cardiaco.
«Siamo arrivati a una quota di circa cinquecento piedi», annunciò la voce metallica del capitano. «Stiamo sorvolando il bosco di Palù. Guardate quanto è fitto.» Farag e io ci incollammo ai finestrini e vedemmo uno sconfinato tappeto verde che superava largamente la mia vaga idea di quanto potessero essere estesi mille e passa ettari. «Meno male che non abbiamo dovuto attraversarlo», mormorai, gli occhi fissi sugli enormi alberi. «Aspetta a dirlo...» replicò lui. «A sinistra potete vedere il monastero», ci avvisò il capitano. «Atterreremo in una radura davanti all'entrata.» Farag mi si avvicinò per guardare l'abbazia. Un modesto campanile cilindrico di quattro piani con una croce sulla sommità indicava il punto esatto in cui, secoli prima, sorgeva un luogo sereno di raccoglimento e di orazione. Ora di tutto il complesso era rimasta solo la robusta muraglia ovale che lo circondava: il resto erano solo cumuli di pietre e, qua e là, qualche parete isolata che a stento si reggeva in piedi. Solo quando cominciammo la discesa sopra la radura, agitando la boscaglia con lo spostamento d'aria delle pale, scorgemmo alcune piccole costruzioni in prossimità delle mura. L'elicottero toccò terra dolcemente. Farag e io aprimmo lo sportello, senza renderci conto che le eliche erano ancora in marcia a pieno ritmo. La loro potenza selvaggia si abbatté su di noi come fossimo sacchetti di plastica in un uragano. Mi sentii un'idiota alla mercé di un ciclone e Farag dovette prendermi per un gomito per aiutarmi a uscire dalla turbolenza. Nella cabina di pilotaggio, il capitano si trattenne a parlare con il giovane pilota, di cui ora si vedeva solo il casco rotondo e la visiera nera e brillante, che faceva cenni di assenso. Poi Glauser-Röist, con sforzo minore del nostro, attraversò a sua volta il vortice, mentre le pale acceleravano e la macchina volante tornava a sollevarsi in aria. Di lì a pochi secondi non era che una lontana macchiolina bianca nel cielo. Il mio primo volo in elicottero era stato appassionante, un'esperienza che meritava di essere ripetuta alla prima occasione, ma che subito divenne acqua passata: Farag, il capitano e io ci trovavamo di fronte al cancello d'ingresso del solitario monastero benedettino di Agios Konstantinos Akanzon e l'unico rumore che si sentiva era il canto degli uccelli. «Bene, fino a qui siamo arrivati», dichiarò la Roccia, guardando il panorama attorno a sé. «Ora andiamo in cerca del nostro amico Staurophylax che vigila sulla prova.»
Non fu necessario. Come sorti dal nulla, due anziani monaci con la tonaca nera dei benedettini apparvero sul sentiero di ghiaia che portava al cancello. «Salve, buon giorno», ci accolse uno di loro, agitando il braccio in aria, mentre l'altro apriva il cancello. «Desiderate ospitalità?» «Sì, padre», risposi io. «E i vostri zaini?» chiese il più vecchio dei due, congiungendo sul petto le mani nascoste dalle maniche. Glauser-Röist mostrò il suo. «Qui abbiamo tutto il necessario.» Da vicino, i due monaci risultavano molto più vecchi di quanto avessi supposto, ma entrambi mostravano un animo gioviale e sorrisi gentili. «Avete fatto colazione?» domandò quello cui restava ancora qualche capello in testa. «Sì, grazie», rispose Farag. «Allora andiamo alla locanda. Vi daremo delle camere.» Ci squadrò dalla testa ai piedi e aggiunse. «Tre, vero? O qualcuno di questi è tuo marito, figliola?» Sorrisi. «No, padre. Non ho marito.» «E perché siete venuti in elicottero?» volle sapere l'altro, il novantenne, con curiosità infantile. «Abbiamo poco tempo», fu la risposta di Glauser-Röist, che camminava piano, per non lasciare indietro i monaci con le sue lunghe falcate. «Ah, allora dovete essere molto ricchi, perché un viaggio in elicottero non è che se lo possono permettere tutti.» E i due frati si misero a sghignazzare, come se avessero sentito la barzelletta più divertente del mondo. Noi tre ci scambiammo di soppiatto occhiate perplesse. O quegli Staurophylakes erano attori consumati, oppure avevamo preso un granchio colossale. Li esaminai minuziosamente, cercando di cogliere qualsiasi dettaglio fuori posto, ma i loro volti rugosi sembravano assolutamente sinceri. Che ci fossimo sbagliati? Ci dirigemmo verso la locanda, mentre i monaci ci raccontavano per sommi capi la storia del monastero. Andavano molto orgogliosi degli affreschi bizantini che decoravano il refettorio e del buono stato di conservazione della chiesa, compito a cui dedicavano la loro vita, oltre a ospitare i pochi escursionisti che passavano di lì. Ci chiesero come ci fosse capitato di visitare San Costantino Acanzo e quanto tempo ci saremmo trattenuti. Naturalmente, tennero a precisare, eravamo invitati a dividere il loro desco e, se gradivamo il trattamento, non sarebbe stato fuori luogo lasciare una
buona mancia per l'abbazia, visto che eravamo così ricchi. E, detto questo, scoppiarono di nuovo a ridere come bambini allegri. Il caso volle che, camminando e chiacchierando, passassimo accanto a un orticello in cui un altro anziano benedettino affondava faticosamente una vanga nel terreno. «Padre Giuliano, abbiamo ospiti», gridò uno dei nostri accompagnatori. Il monaco chino sulla vanga si appoggiò una mano sulla fronte per guardarci meglio ed emise un grugnito. «Padre Giuliano è l'abate, è bene che andiate a salutarlo», ci raccomandò il nostro accompagnatore. «Probabilmente vi tratterrà per un po' con qualche domanda, per cui noi vi aspettiamo alla locanda. Quando avete finito, seguite quel sentiero e poi, al bivio, prendete a destra. Non potete sbagliare.» Il capitano cominciava a dare segni di impazienza. La sensazione di avere commesso un errore e che tutto fosse una perdita di tempo era sempre più forte. Quei monaci non corrispondevano all'idea che ci eravamo fatti degli Staurophylakes. Ma in realtà, mi domandai mentre raggiungevamo l'orticello, che idea ci eravamo fatti degli Staurophylakes? Con assoluta certezza, potevamo dire di averne visto solo uno, il nostro giovane etiope Abi-Ruj Iyasus, perché gli altri due, il sacrestano di Santa Lucia e il prete maleodorante di Santa Maria in Cosmedin, non era detto che lo fossero. I frati erano scomparsi lungo il sentiero, mentre l'abate, immobile come un monarca sul trono, ci aspettava appoggiato alla sua vanga, il volto in buona parte coperto dal cappuccio. «Quanto tempo pensate di trattenervi?» ci domandò all'improvviso, appena gli fummo davanti. «Non molto», rispose la Roccia, parimenti ostile. «Che cosa vi ha condotto a San Costantino Acanzo?» Dal tono della sua voce, sembrava ci stesse facendo un terzo grado. «La flora e la fauna», rispose aspro il capitano. «Il paesaggio, padre. Il paesaggio e la tranquillità», si affrettò ad aggiungere Farag, più conciliante. L'abate sollevò la vanga con entrambe le mani e la infisse nuovamente nel terreno, voltandoci le spalle. «Andate alla locanda. Vi stanno aspettando.» Confusi da quella breve e strana conversazione, riprendemmo il cammino. Il sentiero che ci era stato indicato si inoltrava in un ombroso tratto di bosco. Un lungo tratto di bosco.
«Che alberi saranno questi, così alti?» chiese Farag. «Un po' di tutto», rispose la Roccia, senza alzare gli occhi, come se già li avesse esaminati. «Querce, frassini, olmi, pioppi bianchi... Ma di solito non crescono così tanto. È possibile che la composizione chimica del terreno sia molto ricca, o che nei secoli i monaci abbiano proceduto a una selezione dei semi.» «Sono impressionanti!» esclamai, alzando lo sguardo verso la compatta cupola vegetale che ombreggiava il nostro cammino. Proseguimmo in silenzio per un po'. Poi Farag osservò: «Non avevano detto che a una biforcazione dovevamo prendere a destra?» «Non deve mancare molto», commentai. E invece sì, perché i minuti passavano e il bivio non si vedeva. «Forse abbiamo sbagliato strada», disse la Roccia, guardando l'ora. «Era un po' che lo facevo notare», rilevò Farag. «Continuiamo», obiettai. Dopotutto, il sentiero che avevamo imboccato era quello indicato dai monaci. Tuttavia, dopo mezz'ora, dovetti ammettere il mio errore. Avevamo la sensazione di addentrarci sempre di più nel bosco. Il sentiero si distingueva appena, il fogliame era sempre più fitto e la luce del sole, oscurata dagli alberi, sempre più scarsa. Era impossibile capire in che direzione stessimo camminando. Per fortuna l'aria era fresca e limpida e la marcia non troppo pesante. «Torniamo indietro», ordinò Glauser-Röist, con una faccia poco rassicurante. Non lo contraddicemmo. Era evidente che, anche se avessimo camminato tutto il giorno, non saremmo arrivati da nessuna parte. La cosa strana fu che, tornati indietro di un chilometro, trovammo l'intersezione dei sentieri preannunciata dai frati. «Non ha senso», protestò la Roccia. «Prima non siamo passati da questo bivio.» «Volete sapere la mia opinione?» chiese Farag, sorridente. «Credo che il viaggio verso la seconda cornice sia cominciato. Questi sentieri dovevano essere mimetizzati. Li hanno riaperti dopo il nostro passaggio, per farceli trovare. Uno di questi dovrebbe portare al luogo giusto.» Il capitano parve rasserenato. «In questo caso, facciamo quello che si aspettano da noi.» «Da che parte andiamo? A destra o a sinistra?» «E se non è la prova?» obiettai, storcendo la bocca. «E se ci siamo sem-
plicemente persi e crediamo di vedere dei segnali dove non ci sono?» Per tutta riposta, ebbi un silenzio indifferente. L'uno e l'altro cominciarono a guardarsi intorno, ad annusare, a smuovere sassolini da terra con le scarpe. Sembravano due esploratori indiani o, peggio, due cani da caccia in cerca di una preda nel fogliame. «Di qui! Di qui!» gridò Farag. Sul tronco di un albero, al principio del sentiero alla nostra sinistra, si vedeva un piccolo Crismon di Costantino, delle dimensioni di un'unghia. «Che cosa vi dicevo?» aggiunse Glauser-Röist, soddisfatto. «Di qui!» Di qui risultò essere un altro percorso lunghissimo, che verso mezzogiorno ci portò davanti a una barriera di rami intrecciati, alta circa tre metri, che ci tagliava la strada. Ci fermammo, con la stessa inquietudine che avrebbe provato un tuareg trovando un grattacielo in mezzo al deserto. «Credo che ci siamo», mormorò il professore. «E adesso che si fa?» «Seguiamo la barriera. Forse c'è un'apertura. Può darsi che dall'altra parte ci sia qualcosa per noi.» Costeggiammo la barriera per una ventina di minuti, fino a quando la sua perfetta regolarità non fu interrotta da un'apertura larga un paio di metri. Un Crismon di ferro inchiodato nel terreno non lasciava dubbi su che cosa dovessimo fare. «La cornice degli invidiosi», mormorai, intimidita, portandomi la mano all'avambraccio su cui era ancora fresca la scarificazione della prima croce. «Andiamo, Basileia», mi incoraggiò Farag, divertito, infilandosi nell'apertura. «Che non si dica che siamo codardi.» Una seconda barriera si ergeva di fronte a noi. Non se ne distingueva la fine né da un lato né dall'altro. Il corridoio tra le due barriere sembrava interminabile. «I signori preferiscono la destra o la sinistra?» riprese Farag, con lo stesso buonumore. «Che direzione prende Dante, quando giunge alla seconda cornice?» chiesi io. Il capitano sfoderò rapidamente dallo zaino la sua copia ormai consumata della Divina Commedia e prese a sfogliarla. «Ascoltate cosa dice la terza strofa del Canto», disse, visibilmente emozionato. «Ombra non li è né segno che si paia;
parsi la ripa e parsi la via schietta col livido color della petraia.40 «La parete e il pavimento della cornice sono nudi e lisci. E quattro versi più in basso, riferendosi a Virgilio: «Poi fissamente al sole gli occhi porse: fece del destro lato a muover centro e la sinistra parte di sé torse.41 «Converrete con me che non si può pretendere un'indicazione più precisa.» «E il sole dov'è?» chiesi io, guardando verso l'alto. I giganteschi alberi erano una coltre impenetrabile che rendeva arduo localizzarne la posizione nel cielo. Il capitano guardò l'orologio, prese una bussola e puntò l'indice verso l'alto. «Dev'essere più o meno lì.» Una volta saputa la direzione, era più facile distinguerne il chiarore tra l'intrico dei rami. «Ma non possiamo essere sicuri che Virgilio abbia visto il sole alla nostra stessa ora. La direzione potrebbe cambiare completamente.» «Lasciamo fare al caso», proposi. «Se gli Staurophylakes volessero farci prendere una direzione determinata, ce la indicherebbero.» Glauser-Röist, che continuava a consultare la Divina Commedia, alzò la testa e ci guardò con gli occhi che brillavano. «Ebbene, come lei ha detto, dottoressa, lasciando fare al caso abbiamo fatto centro: Virgilio e Dante risultano essere giunti alla seconda cornice esattamente dopo mezzogiorno. Quasi alla nostra stessa ora.» Con un sorriso soddisfatto orientai il viso verso il sole, fissai bene il piede destro nel terreno e girai verso sinistra, trovandomi rivolta verso il sentiero di destra. Ci incamminammo lungo la via schietta, costeggiando la ripa, che in realtà era liscia solo per modo di dire, perché era formata da un fitto intrico di rami. Ogni cento o duecento metri, ben ancorata al suolo, appariva una stella di legno. Da principio quelle figure attirarono la nostra attenzione e ci avventurammo in ipotesi sul loro significato. Ma dopo mezz'ora di cammino decidemmo che non ce ne importava più di tanto. Proseguimmo per un'ora senza che il paesaggio mostrasse la minima variazione: un corridoio di terra al centro, punteggiato di stelle, tra due alte
pareti verdeggianti che, per effetto della prospettiva, si congiungevano davanti a noi. La stanchezza cominciava a farsi sentire. Avevo i piedi arroventati e doloranti e avrei dato qualunque cosa per una sedia, o, meglio ancora, per il comodo sedile dell'elicottero. Ma, come a Dante e Virgilio (benché questi, essendo uno spirito, non fosse mai stanco), anche a noi toccò camminare a lungo, prima di arrivare a qualcosa che fosse degno di nota. «Mi torna in mente una frase di Borges», mormorò Farag, «che dice: 'Iο so di un labirinto greco che è un'unica linea retta. Su questa linea si sono persi tanti filosofi che ben vi si può perdere un semplice detective'. Credo che venga da Artificio.» «E non ricordi quella del 'circolo infinito il cui centro è da ogni parte e la cui circonferenza è così grande da sembrare una linea retta'?» Anch'io avevo letto Borges, quindi perché non darmi delle arie? Verso le cinque di sera, senza che nessuno di noi si fosse ricordato di avere fame o sete, la barriera interna finalmente mostrò un'irregolarità nel suo tracciato: una porta di ferro, alta quanto la parete e larga un'ottantina di centimetri. Spingendola e passando oltre la soglia, scoprimmo due cose interessanti: che le pareti erano fatte in realtà di solida pietra (quasi mezzo metro di spessore), interamente ricoperta di vegetazione, e che la porta era progettata in modo da non potersi riaprire una volta richiusa alle nostre spalle. «A meno di metterci una zeppa», propose Farag, che quel giorno era particolarmente ispirato. Non c'erano sassi intorno a noi e i dannati rami erano robusti e per giunta pieni di spine. L'unica soluzione che trovammo fu l'orologio di Farag, che lo offrì generosamente sostenendo che era di titanio e avrebbe retto senza problemi. In realtà, quando richiudemmo con molta cautela la porta, il povero orologio resistette solo qualche secondo, per poi sfracellarsi sotto la spinta del meccanismo. «Mi spiace, Farag», cercai di consolarlo. Ma lui, più che deluso, pareva incredulo. «Non si preoccupi, professore. Il Vaticano la indennizzerà», aggiunse Glauser-Röist. «Il problema è che ormai la porta è chiusa e non c'è modo di riaprirla.» «Be'», feci presente io, «ma questo non vuole forse dire che siamo sulla strada giusta?» Riprendemmo la marcia nella stessa direzione, notando che il nuovo cor-
ridoio era più stretto di quello precedente. L'oscurità cominciava a diventare pericolosa. Forse fuori dal bosco c'era ancora luce sufficiente, ma sotto quel cielo di rami la visibilità era scarsa. Non avevamo fatto cento metri che ci trovammo di fronte a un nuovo simbolo sul terreno, decisamente più originale:
A giudicare dal colore e dalla sensazione al tatto, doveva essere di piombo, anche se non potevamo esserne certi. Di sicuro, chi lo aveva collocato in quel punto aveva fatto in modo che non lo si potesse smuovere di un millimetro. Sembrava spuntare dal terreno e farne tuttavia parte. «La forma mi è familiare», osservai, china a esaminarlo. «Non è un segno zodiacale?» Il capitano rimase in piedi, in attesa che gli esperti dessero il loro verdetto. «No, lo sembra ma non lo è», obiettò Farag, ripulendolo con la mano. «Questo è il simbolo con cui nell'antichità veniva indicato il pianeta Saturno.» «E che cosa c'entra Saturno?» «Se lo sapessimo, dottoressa, potremmo già tornare a casa», borbottò la Roccia. Di nascosto, gli mostrai i denti. Farag mi vide e sorrise tra sé. Ci rimettemmo in cammino. La notte si stava chiudendo su di noi. Di quando in quando si udiva il grido di un uccello o il rumore delle foglie scosse da una raffica di vento. Come se non bastasse, cominciava a fare fresco. «Dovremo passare qui la notte?» chiesi, sollevandomi il collo della giacca, che per fortuna era di pelle, rivestita all'interno di flanella. «Temo di sì, Basileia. Kaspar, mi auguro che lei abbia previsto questa eventualità.» «Perché Basileia?» domandò il capitano. D'un tratto mi tremarono le gambe. «Era una parola molto diffusa, a Bisanzio. Significa 'donna retta'.» Che bugiardo! pensai, concedendomi un silenzioso sospiro di sollievo. La traduzione di Basileia non era affatto «donna retta», né tantomeno si trattava di una parola di uso comune, visto che significava «imperatrice» o «principessa». Erano solo le sei e mezzo, ma il capitano dovette accendere la sua poten-
te torcia elettrica, perché eravamo immersi nell'oscurità. Era tutto il giorno che camminavamo e ancora non eravamo arrivati da nessuna parte. Ci decidemmo a fare una sosta e ci lasciammo cadere a terra per consumare il primo pasto dopo la colazione fatta a Roma quella mattina. Mentre masticavamo gli ormai famosi sandwich di salame e formaggio (il capitano non cambiava menù da una prova all'altra), ricapitolammo i dati raccolti nel corso della giornata e giungemmo alla conclusione che ancora ci mancavano molti frammenti del puzzle. Avremmo dovuto aspettare il giorno successivo per capire cosa ci aspettava. Un thermos di caffè ci restituì il buonumore. «E se restassimo qui a dormire e riprendessimo il cammino domattina?» proposi. «Proseguiamo ancora un po'», si oppose la Roccia. «Ma, capitano, siamo stanchi!» «Kaspar, forse Ottavia ha ragione. È stata una giornata molto lunga.» La Roccia si arrese, controvoglia. Allestimmo un accampamento improvvisato. Il capitano ci fornì un paio di robusti berretti di lana che ci mossero al riso. Lo guardammo come se stesse dando i numeri. Lui, naturalmente, non lo gradì. «La vostra ignoranza è vergognosa!» protestò. «Non conoscete il detto 'Sei hai freddo ai piedi, mettiti un cappello'? La testa è responsabile di buona parte della dispersione termica del corpo umano. Se vi poniamo rimedio, manterremo costante la temperatura e, pertanto, mani e piedi caldi.» «Uffa! Io sono un uomo del deserto», sghignazzò Farag, calcandosi il berretto sulle orecchie. Feci lo stesso. Il berretto che mi aveva dato il capitano aveva qualcosa di familiare, ma sul momento non ricordai che cosa. Poi Glauser-Röist estrasse dal suo zaino magico alcuni pacchetti che sembravano di sigarette e ce ne offrì uno a testa, spiegandoci, paziente, che si trattava di coperte di sopravvivenza: fogli di materiale plastico e alluminio, leggerissimi, ma ideali per conservare il calore. Un lato era argentato, l'altro colorato: rosso per la mia coperta, giallo per quella di Farag e arancione per quella del capitano. In effetti, tenevano caldo. Tra il berretto e la coperta, che crepitava in modo insopportabile a ogni minimo movimento, ci si poteva quasi scordare di essere all'aperto, in mezzo a un bosco. Mi addossai cautamente alla parete di fogliame, in mezzo ai miei due compagni di viaggio. Senza rendermene conto, scivolai fino a poggiare il capo sulla spalla di Farag. E mentre il sonno mi sopraffaceva ricordai dove ave-
vo visto prima quel copricapo: lo indossava la ragazza bruna della fotografia nel salotto del capitano. Verso le cinque del mattino cominciò a far luce, se si può chiamare luce il passaggio dal nero al grigio scuro. Ci svegliammo tutti e tre contemporaneamente, al coro assordante degli uccelli. Ricordai vagamente che era sabato e che, solo una settimana prima, mi trovavo a Palermo con la mia famiglia, per la veglia funebre. Pregai in silenzio per mio padre e mio fratello e cercai di accettare l'assurda realtà che mi circondava. Ci rimettemmo faticosamente in piedi, bevemmo il caffè ormai freddo e raccogliemmo le nostre cose. Riprendemmo il cammino da dove lo avevamo lasciato e proseguimmo senza sosta fino alle nove o alle nove e mezzo, contando una trentina di simboli di Saturno sul terreno. Ci concedemmo un breve riposo, poi continuammo la marcia, domandandoci se quella fosse una prova del Purgatorio o una prova di resistenza. Poi, all'improvviso, ci apparve in lontananza un muro enorme che ostruiva il corridoio. «Attenzione», annunciò Farag. «Siamo arrivati!» Affrettammo il passo, ansiosi di raggiungere l'ultima tappa, ma ci fermammo prima di arrivare al muro coperto di sterpaglia: sulla nostra sinistra trovammo un'altra porta di ferro, identica a quella che avevamo oltrepassato il giorno precedente. Sapendo che non saremmo riusciti a impedirle di chiudersi, la spingemmo con rassegnazione, sicuri che dall'altra parte ci aspettasse un panorama identico a quello che ci lasciavamo dietro. Di fatto, non fosse stato che il nuovo corridoio era più stretto del precedente, avremmo potuto giurare che fosse lo stesso. «Ho l'impressione che stiamo percorrendo linee parallele, sempre più vicine l'una all'altra», ipotizzò Farag, allargando le braccia per valutare la larghezza del corridoio. Qui le punte delle sue dita arrivavano a un palmo dalle pareti. Ma anche la natura della vegetazione era cambiata: ai rampicanti si erano aggiunte matasse enormi di rovi, cardi e ortiche, che minacciavano di pungerci a ogni piè sospinto. «I passaggi si restringono», convenne la Roccia, osservando la bussola, «ma non sono sicuro che stiamo avanzando lungo linee parallele. Apparentemente, abbiamo girato di settanta gradi verso sinistra.» «Davvero?» si sorprese Farag, avvicinandosi a lui per controllare personalmente la bussola. «Eh, sì.» «Credo di essere stata io a citare 'il cerchio infinito il cui centro è da o-
gni parte e la cui circonferenza è così grande da sembrare una linea retta'», commentai con ironia, mentre saggiavo una delle spine acute che spuntavano dalle pareti. Se la loro origine non fosse stata chiaramente vegetale, avrei potuto scommettere che fossero opera del miglior fabbricante di aghi di tutti i tempi. La puntura mi lasciò sul dito certi finissimi peluzzi neri che, in pochi secondi, mi arrossarono la pelle. Per un attimo mi parve di avere toccato la capocchia accesa di un fiammifero. «Per l'amor del cielo, queste ortiche sono terribili! Meglio starne lontani!» «Mi faccia vedere.» Mentre il capitano mi esaminava il dito, il rossore e il bruciore svanirono gradualmente. «Per fortuna l'effetto dell'ortica che ha toccato è passeggero, ma non sappiamo se questo vale per tutte le specie qui presenti. Fate attenzione.» Cercando di non sfiorare le piante, le cui spine avrebbero potuto lacerare anche i nostri vestiti, avanzammo per altri cento-centocinquanta metri. Poi il capitano, che guidava il gruppo, si fermò di colpo. «Un altro strano simbolo», notò. Farag e io ci chinammo a osservarlo. Si trattava di un artistico numero quattro, fabbricato con un metallo dai riflessi azzurrini:
«Il simbolo del pianeta Giove», disse Farag, sempre più sorpreso. «Non lo so... Se ci stiamo muovendo a cerchio e a ogni nuovo passaggio troviamo un pianeta, è possibile che questa non sia altro che una grande rappresentazione cosmologica.» «Può darsi», ammise Glauser-Röist sfiorando la figura con le dita. «Una rappresentazione cosmologica fatta di stagno.» «Saturno era di piombo», ricordai. «Non lo so, non lo so...» ripeté Farag, di malumore. «Tutto ciò è molto strano. A che gioco stanno giocando, stavolta?» Cinque ore più tardi, dopo avere calpestato almeno trenta volte il pianeta Giove, arrivammo a un'altra soglia. Prima di attraversarla facemmo una sosta per mangiare, seduti a terra a distanza di sicurezza dai rovi. Il corridoio successivo, o il cerchio, a seconda dei punti di vista, era leggermente più stretto. Le piante si erano fatte più dense e pericolose. Qui il simbolo era quello del pianeta Marte, in ferro:
«A questo punto non ci sono dubbi», commentò il capitano. «Stiamo camminando per il sistema solare.» «Credo che non dovremmo ragionare in termini contemporanei», mi corresse Farag, chino sul nuovo simbolo. «Le nostre attuali conoscenze sui pianeti e l'universo non coincidono con quello che si sapeva nell'antichità. Se ci fate caso, l'ordine seguito è Saturno-Giove-Marte, vale a dire che sono assenti i tre pianeti più esterni, Plutone, Nettuno e Urano, scoperti solo negli ultimi tre secoli. Perciò direi che ci stiamo muovendo lungo la concezione dell'universo che imperò dalla Grecia classica fino al Rinascimento, cioè la sfera delle Stelle Fisse, il primo corridoio che abbiamo percorso, poi i sette Pianeti e la Terra.» «Era la concezione dell'universo secondo Dante», sospirò Glauser-Röist. «Certamente, capitano. Dante Alighieri, come molti prima di lui e moltissimi altri dopo, credeva che il cielo fosse composto da nove sfere concentriche. La più esterna, che conteneva tutte le altre, era quella delle Stelle Fisse, la più interna era la Terra. Nessuna di queste due sfere era in movimento. A girare erano quelle intermedie, le sfere dei sette Pianeti considerati a quell'epoca: Saturno, Giove, Marte, Mercurio, Venere, Sole e Luna.» «Nove sfere e sette pianeti», conteggiò Glauser-Röist. «Ancora nove e sette.» Guardai Farag senza nascondere la mia profonda ammirazione. Era l'uomo più intelligente che avessi mai conosciuto. Tutto quello che aveva detto, punto per punto, era assolutamente esatto, il che attestava una memoria eccellente, superiore persino alla mia, e una cultura senza pari. «Dunque, l'orbita successiva sarà quella di Mercurio», predisse la Roccia. «Ne sono certo, Kaspar. Ma credo anche che ogni cerchio sarà più breve, dal momento che sono uno dentro l'altro. Il cammino sarà più rapido.» «E i corridoi più stretti», aggiunsi io. «Muoviamoci, allora», ci esortò Glauser-Röist. «Ci restano ancora quattro pianeti da visitare.» Verso sera giungemmo alla porta di Mercurio. Cominciavo a pensare che Abi-Ruj Iyasus, quel cadavere sul tavolo dell'obitorio di Atene, dovesse essere un colosso, un vero e proprio Ercole, se aveva superato tutte quelle prove. E lo stesso doveva valere per gli altri membri della Confraternita, inclusi Dante e Padre Bonuomo. Quale fede o fanatismo spingeva
quelle persone a sopportare simili tormenti? E perché, se erano tanto speciali, tanto saggi, accettavano di restare così a lungo in umili posti di vigilanza e di condurre vite nascoste e insignificanti? Trascorremmo la notte sopra uno dei simboli di Mercurio, di un metallo violaceo brunito e brillante che non fummo in grado di riconoscere. Dovemmo dormire per terra, in fila lungo il corridoio, perché lo spazio tra le pareti spinose non permetteva certo di scherzare... Il mattino seguente, domenica, fummo nuovamente svegliati di soprassalto dal fragoroso canto degli uccelli. Riprendemmo il cammino all'alba, con ossa e muscoli doloranti. Arrivammo alla quinta orbita planetaria quando il sole era ormai alto nel cielo. Il capitano ci comunicò che avevamo fatto un giro di duecento gradi rispetto alla posizione di partenza. Ci mancava meno della metà dei trecentosessanta gradi necessari per completare il giro. Nel corridoio di Venere trovammo il simbolo corrispondente solo ventidue volte, in rame dalle tonalità rosso-dorate. Ma la grande sorpresa ci aspettava nel corridoio successivo, la cui prospettiva non era più, come nei precedenti, di linee rette convergenti a perdita d'occhio, bensì di archi che giravano visibilmente verso sinistra. Inoltre, appena varcata la soglia dell'orbita del Sole, constatammo che i rovi si congiungevano formando una volta sopra le pareti e che il corridoio era così stretto che il capitano, il più corpulento del gruppo, poteva procedere solo di lato. Farag, da parte sua, prima che raggiungessimo il primo simbolo già aveva dei tagli sulla manica della giacca. Quanto a me, dovevo procedere con cautela per non essere trafitta da quelle centinaia di aghi acuminati. Il primo simbolo apparve quasi immediatamente: un semplice cerchio con un ancora più semplice punto al centro, di oro puro, purissimo, tanto che scintillava persino sotto la fioca luce che filtrava dalla volta. Se non ci fossimo trovati in una situazione così scomoda, minacciati da ogni parte dalle spine che laceravano i vestiti e ci graffiavano la pelle, ci saremmo soffermati a contemplare la magnificenza dei quindici simboli solari che incontravamo sul nostro cammino. Ma avevamo fretta di uscire di lì e di giungere a un luogo in cui potessimo muoverci senza graffi, punture ed eruzioni dovute alle ortiche. Né potevamo dimenticare che la notte stava già calando su di noi. In quei momenti ci chiedevamo, in preda al panico, che destino ci toccasse oltre la porta del settimo pianeta, la Luna. Ma neppure le nostre più fosche previsioni si potevano avvicinare alla quasi incredibile realtà.
Per cominciare, la porta di ferro si apriva appena, come se dietro si trovasse un ostacolo. Ma non era che la sterpaglia della parete di fronte: il corridoio era così stretto che solo un bambino avrebbe potuto percorrerlo senza graffiarsi. Le pareti e la volta di rovi, potati in modo da lasciare al centro una galleria corrispondente alla sagoma di un uomo, ci avrebbero obbligati a camminare con la testa ingabbiata tra i rami, senza poterla muovere. Poiché Farag e Glauser-Röist superavano l'altezza del tunnel, che sembrava tagliato sulla mia misura, offrii loro la mia giacca e il mio maglione, perché si riparassero un po' dalle spine. Consigliai al capitano di avvolgersi nella sua coperta. Ma Farag si rifiutò. «Verremo graffiati tutti, Basileia!» gridò, arrabbiato. «Non vedi che è in questo che consiste la prova? Fa parte del piano. Perché tu dovresti patire più di noi?» Lo guardai dritto negli occhi, cercando di trasmettergli la mia determinazione. «Stammi a sentire, Farag: a me toccherà solo qualche graffietto, ma voi soffrirete ferite molto serie, se non vi coprite il più possibile.» «Professor Boswell», intervenne la Roccia. «La dottoressa Salina ha ragione. Prenda la sua giacca e si copra.» «E i berretti», aggiunsi. «Mettetevi i berretti e calateveli sulla faccia.» «Dovremo tagliarli, fare i buchi per gli occhi.» «Anche tu dovrai proteggerti la faccia col berretto, Ottavia. Questa storia non mi piace per niente», farfugliò il professore. «Non preoccuparti, mi riparerò anch'io.» Il corridoio del settimo pianeta fu un incubo orribile, anche se il capitano disse che i simboli sul terreno, lune crescenti d'argento, simili a conche, erano i più belli di tutto il labirinto. Lui riusciva a vederli perché apriva la marcia con la torcia elettrica, ma suppongo che, se anche mi fosse stato possibile chinare il capo per guardarli, e non era così, non me ne sarebbe importato nulla. Ricordo di avere provato, in preda alla disperazione, il desiderio di gettarmi tra i rovi e farla finita. Non sopportavo più i graffi, le punture, i bruciori, i tagli che mi facevano sanguinare le braccia, le gambe e persino le guance. Non c'era lana o tessuto che tenesse: nulla poteva parare gli assalti di quelle daghe. Ricordo la sensazione di freddo dei rivoletti di sangue che si essiccavano, ricordo anche di avere cercato di calmarmi, pensando alla Corona di Spine portata da Cristo lungo il Calvario, e di essere giunta molto vicino a un'incontrollabile isteria. Ma più di tutto ricordo la mano di Farag, appiccicosa di sangue, che cercava la mia. Credo che sia stato proprio allora, in quei momenti in cui non potevo e-
sercitare alcun controllo su me stessa, che mi resi conto che mi stavo innamorando di quello stravagante egiziano che si preoccupava sempre per me e che, all'insaputa di tutti, mi chiamava «imperatrice». Era impossibile, eppure quello che provavo non poteva essere che amore, per quanto non avessi nella mia vita alcun termine di paragone precedente. Non mi ero mai innamorata, neppure da adolescente, sicché mi era sempre stato difficile comprendere il significato di quella parola, né mai avevo avuto alcun problema sentimentale. Dio era il centro della mia vita e mi aveva sempre protetta da quei sentimenti che facevano impazzire, invece, le mie sorelle maggiori e le mie amiche, portandole a dire e fare stupidaggini. Ciononostante io, Ottavia Salina, religiosa dell'Ordine del Beato Cuore di Maria, con quasi quarant'anni sulle spalle, mi stavo innamorando di quello straniero dagli occhi azzurri. Non sentivo nemmeno più le spine, o, se le sentivo, non me lo ricordo. Non c'è bisogno di dire che il resto del corridoio del settimo pianeta fu una lunga lotta contro me stessa, una battaglia persa in partenza, anche se allora mi illudevo di poter fare qualcosa per impedire ciò che stava accadendo. E, di fatto, quella fu la mia decisione, prima che giungessimo all'ultima porta di quel diabolico labirinto: il sentimento sconosciuto che mi intontiva, mi accelerava i battiti del cuore, mi faceva venir voglia di piangere o ridere, che mi faceva esistere solo per quella mano che ancora stringeva la mia, era solo un prodotto assurdo della situazione terribile che stavo vivendo. Una volta conclusa questa avventura degli Staurophylakes, sarei tornata a casa e avrei ripreso la mia vita di sempre, senza colpi di testa o stupidaggini. Tutto sarebbe rientrato nella normalità e io avrei fatto ritorno all'Ipogeo per seppellirmi tra i miei codici e i miei libri... Seppellirmi? Seppellirmi, avevo detto? In realtà non potevo sopportare l'idea di tornare senza Farag, senza Farag Boswell... Mentre pronunciavo il suo nome a bassa voce, perché nessuno mi sentisse, un sorriso infantile mi si disegnò sulle labbra. No, non potevo tornare alla mia vita precedente senza Farag... Ma non potevo nemmeno tornarci con Farag! Ero una religiosa! Non potevo smettere di essere una suora! La mia vita intera, il mio lavoro giravano intorno a questo asse. «La porta!» esclamò il capitano. Avrei voluto voltarmi per guardare il professore, per sorridergli e fargli sapere che io ero lì. Avevo bisogno di vederlo! Vederlo e dirgli che eravamo arrivati, anche se lui lo sapeva già. Ma se avessi girato la testa anche di un solo centimetro, come minimo ci avrei rimesso il naso. E fu questo a
salvarmi: gli ultimi secondi prima di uscire dal corridoio della Luna mi ridiedero giudizio. Forse fu la sensazione di essere arrivati in fondo, o forse la certezza che, se avessi continuato a lasciare le mie emozioni a briglia sciolta, mi sarei persa per sempre. Fatto sta che la mia parte razionale, ossia tutta me stessa, vinse quella prima battaglia. Strappai il pericolo alla radice, lo soffocai sul nascere, senza pietà né ripensamenti. «La apra, capitano!» gridai, liberandomi bruscamente dalla mano che fino a un attimo prima era l'unica cosa che mi importasse nella vita. E lasciandola andare, seppure con dolore, tutto si cancellò, «Stai bene, Ottavia?» mi domandò Farag, preoccupato. «Non lo so.» La voce mi tremava. «Quando riesco a respirare senza pungermi, te lo dico. Ora devo uscire subito di qui!» Eravamo giunti al centro del labirinto. Ringraziai Dio per quell'ampio spazio circolare nel quale potevamo muoverci, distendere le braccia, persino correre, se lo avessimo voluto. Il capitano depose la torcia elettrica su un tavolo al centro dello spazio. Contemplammo l'ambiente che ci circondava come se fosse il palazzo più bello del mondo. Quello che ci piaceva meno era il nostro aspetto. Sembravamo minatori appena fuoriusciti da una galleria, solo che era di sangue che eravamo coperti, non di fuliggine. Quando ci sfilammo i berretti dalla testa, ci ritrovammo molteplici e minuscoli tagli sulla fronte e sulle guance, ma anche sul collo e sulle braccia. Persino sotto i vestiti eravamo coperti di ferite sanguinanti, ematomi ed esantemi dovuti al liquido urticante delle piante. E, come se non bastasse, a dare un ulteriore, sottile tocco artistico a quei ritratti di Cristo in croce che erano le nostre facce, c'erano persino delle vere spine, conficcate qua e là. Per fortuna nello zaino del capitano c'erano cotone e una bottiglietta di acqua ossigenata con cui disinfettammo le ferite, tutte superficiali, grazie a Dio. Poi, alla luce della torcia, vi applicammo un buono strato di iodio. Alla fine, dopo le cure, riconfortati dalla nostra nuova situazione, demmo un'occhiata allo spazio circostante. Ad attirare per primo la nostra attenzione fu il tavolo su cui era appoggiata la torcia: a un rapido esame risultò essere un'antica incudine di ferro, molto grande, consumata nella parte posteriore da lunghi e duri anni di servizio. Ma a essere curiosa non era l'incudine in sé, che risultava piuttosto decorativa, quanto la catasta di martelli di diverse misure gettati in un angolo come rifiuti. Restammo in silenzio, incapaci di indovinare che cosa ci si aspettasse
che facessimo con tutto ciò. Se almeno ci fossero stati una fucina e un pezzo di metallo da modellare, lo avremmo capito. Ma c'erano solo un'incudine e una montagna di martelli, il che non era molto. «Propongo di cenare e andare a dormire», suggerì Farag, lasciandosi cadere a terra e appoggiando la schiena alla morbida vegetazione che era tornata a coprire la parete circolare di pietra. «Domani è un altro giorno. Io non ce la faccio più.» Senza pronunciare una parola, completamente d'accordo con lui, il capitano e io ci sedemmo accanto a Farag. Domani sarebbe stato un altro giorno. Non c'era più caffè nel thermos, né acqua nella borraccia, né sandwich al salame e formaggio nello zaino. Non avevamo più niente, a parte un vasto campionario di ferite, una stanchezza profonda e le articolazioni che scricchiolavano. Non avevamo nemmeno le coperte di sopravvivenza che erano riuscite a tenerci caldo la notte, perché erano inservibili per gli squarci riportati percorrendo l'ultimo corridoio. Per cui, o Dio ci aiutava a uscire di lì, o saremmo entrati nel novero degli aspiranti Staurophylakes (di sicuro troppi) morti nel tentativo di diventarlo. La ragione mi diceva che, contrariamente alle apparenze, la nostra situazione non era poi molto cambiata, rispetto al corridoio della Luna. Quello era una gabbia vegetale che ci obbligava a seguire il sentiero tracciato, questo era un centro apparentemente libero e diafano, da cui potevamo distinguere la fredda e pura durezza del cielo ma in cui non avevamo altro da fare che risolvere il rebus dell'incudine e i martelli. O questo, o niente. Molto semplice. «Dovremo sbrigarci», mormorò Farag, ancora sonnolento. «A proposito... buon giorno.» Avrei voluto voltarmi a guardarlo, ma mi trattenni con fermezza, resistendo allo stupido desiderio di mettermi a piangere. Stavo cominciando a stancarmi di me stessa. Glauser-Röist si mise in piedi e diede inizio a una serie di esercizi fisici tesi a sciogliere i muscoli intorpiditi. Io rimasi immobile. «Potremmo ordinare una buona colazione al servizio in camera», propose Farag. «Per me un espresso bollente e biscotti al cioccolato», supplicai a mani giunte. «Che ne direste se ci mettessimo al lavoro?» tagliò corto la Roccia, con
le braccia dietro la nuca, apparentemente nell'intento di svitarsi la testa. «Basta che non ci chieda di forgiare qualche scultura in ferro battuto», scherzai io. Il capitano si piazzò davanti alla catasta di martelli e la studiò con attenzione. Poi si chinò, scomparendo alla mia vista dietro l'incudine. Farag si sollevò leggermente da terra per seguirlo con lo sguardo e poi decise di alzarsi e di raggiungerlo. «Trovato qualcosa, Kaspar?» La Roccia si rialzò, tornai a vederlo a mezzo busto. Aveva un martello in mano. «Niente di speciale. Sono martelli normali», disse, soppesando l'attrezzo di ferro. «Alcuni sono stati usati, altri no. Ce ne sono di grandi, di piccoli e di medi. Ma non sembrano avere niente di straordinario.» Farag si chinò a sua volta, rialzandosi poco dopo con un martello in mano. Lo sollevò, lo rigirò, lo lanciò in aria e lo riprese al volo con abilità. «Effettivamente, niente di straordinario», confermò, piuttosto deluso. E mentre lo diceva, fece un passo avanti e diede un colpo di martello all'incudine. Il suono riecheggiò nel cuore del bosco come il rintocco di un'immensa campana. Restammo immobili come statue di sale. Non così gli uccelli, che a stormi si levarono in volo dalle cime degli alberi e fuggirono con alti strepiti. «Signore...!» balbettai, battendo le palpebre e deglutendo. La Roccia scoppiò a ridere fragorosamente. «Meno male che non erano niente di straordinario, professore! Pensi se lo fossero!» Ma Farag non rideva. Era serio e inespressivo. Senza dire nulla girò su se stesso, tolse il martello di mano al capitano e, prima che potessimo impedirglielo, colpì di nuovo l'incudine, con tutte le sue forze. Appena lo vidi compiere l'insano movimento, mi portai le mani alle orecchie, ma non servì a molto. Le vibrazioni all'impatto del ferro sul ferro mi si trasmisero al cervello attraverso la scatola cranica. Scattai in piedi e andai verso di lui. Preferivo mille volte litigare che risentire quel baccano. E se avesse voluto provare tutti i martelli? «Si può sapere che cosa stai facendo?»gli chiesi in malomodo, guardandolo in faccia dall'altro lato dell'incudine. Non mi rispose. Tornò alla catasta di martelli per prenderne un terzo. «Toglitelo dalla testa!» gridai. «Ti ha dato di volta il cervello?» Mi guardò come se mi vedesse per la prima volta, girò intorno all'incudine e mi prese per le braccia come se effettivamente gli fosse dato di volta il cervello. «Basileia, Basileia! Pensa, Basileia: Pitagora!»
«Pitagora...?» «Pitagora! Pitagora! Non è fantastico?» Il mio cervello da una parte ripercorreva tutto quello che avevamo visto da quando eravamo scesi dall'elicottero e, dall'altra, tutto quello che sapevo di Pitagora: il labirinto di rette, il famoso teorema (in un triangolo rettangolo il quadrato dell'ipotenusa è pari alla somma dei quadrati dei cateti, o qualcosa del genere), i sette cerchi planetari, l'Armonia delle Sfere, la setta segreta dei Pitagorici confrontata con la Confraternita degli Staurophylakes... L'Armonia delle Sfere, l'incudine e i martelli! Sorrisi. «Ci sei arrivata, eh?» Farag sorrise a sua volta, continuando a guardarmi. «Te ne sei resa conto, vero?» Assentii. Pitagora di Samo, uno dei massimi filosofi greci dell'antichità, nato nel VI secolo avanti Cristo, aveva elaborato una teoria in base alla quale i numeri erano il principio fondamentale di tutte le cose e l'unica via possibile per chiarire l'enigma dell'universo. Aveva fondato una specie di comunità scientifico-religiosa nella quale lo studio della matematica era considerato un cammino di perfezionamento spirituale e aveva dedicato tutte le sue energie a trasmettere ai propri allievi la pratica del ragionamento deduttivo. La sua scuola aveva avuto numerosi seguaci ed era stata l'origine di una catena di sapienti che, attraverso Platone e Virgilio (Virgilio!) si era protratta fino al Medio Evo. Di fatto oggi Pitagora veniva considerato dagli studiosi come il padre della numerologia medioevale, la stessa che Dante Alighieri aveva seguito alla lettera nel comporre la Divina Commedia. Ed era stato lui, Pitagora, a stabilire la famosa classificazione delle matematiche che per duemila anni sarebbe stata in uso sotto la definizione di Quadrivium delle Scienze: Aritmetica, Geometria, Astronomia e... Musica. Sì, Musica, perché Pitagora era ossessionato dalla spiegazione matematica della scala musicale, che all'epoca era un grande mistero per gli esseri umani. Era convinto infatti che gli intervalli tra le note di un'ottava potessero essere rappresentati da numeri e lavorò intensamente su questa base per tutta la vita. Fino al giorno in cui, secondo la leggenda... «E se qualcuno volesse spiegarlo a me?» brontolò Glauser-Röist. Farag si voltò verso di lui, come risvegliandosi dalla trance, e gli rivolse un'occhiata colpevole. «I pitagorici», cominciò, «furono i primi a definire il cosmo come una serie di sfere perfette che descrivono orbite circolari. La teoria delle nove sfere e dei sette pianeti su cui si basa il labirinto da cui siamo usciti, capitano, fu Pitagora il primo a elaborarla!» Rifletté per un istante. «Come avrò fatto a non pensarci prima? Vede, Pitagora sosteneva
che i sette pianeti, nel descrivere le loro orbite, emettono dei suoni, le note musicali, che creano ciò che lui battezzò Armonia delle Sfere. Questo suono, questa musica armoniosa, non può essere percepita da noi esseri umani perché ci siamo abituati fin dalla nascita. Vale a dire che ciascuno dei sette pianeti emette una delle note, dal Do al Si.» «E cosa c'entra questo con le martellate che ha dato all'incudine?» «Glielo dici tu, Ottavia?» Per qualche ragione sconosciuta, sentivo un nodo alla gola. Guardavo Farag e volevo solo che continuasse a parlare. Perciò rifiutai l'offerta con un gesto. La vecchia Ottavia era morta, mi dissi, sconsolata. Che fine aveva fatto il mio esibizionismo intellettuale? «Un certo giorno», riprese Farag, «mentre camminava per la strada, Pitagora sentì una serie di suoni ritmici che richiamarono immediatamente la sua attenzione. Il rumore veniva da una fucina, a cui il saggio di Samo si avvicinò, attratto dalla musicalità delle martellate sull'incudine. Vi si trattenne a lungo, osservando il lavoro dei fabbri, il loro impiego degli attrezzi e rendendosi conto che il suono cambiava a seconda delle dimensioni dei martelli.» «È una leggenda notissima», intervenni io, con uno sforzo sovrumano per apparire normale, «che potrebbe addirittura corrispondere alla verità. Perché dopo quell'episodio Pitagora scoprì la relazione numerica tra le note musicali, le stesse emesse dai pianeti girando intorno alla Terra.» Il sole apparve, brillante, da dietro la muraglia, illuminando il circolo terrestre da cui stavamo cercando di uscire. Glauser-Röist parve impressionato. «Ed è in questa Terra», concluse Farag, contento, «centro della cosmologia pitagorica, che ci troviamo ora. Da cui i simboli planetari che abbiamo trovato nei cerchi esterni.» «Suppongo che avrà capito che la sua amata numerologia dantesca viene direttamente da Pitagora, vero?» dissi con ironia, rivolta al capitano. La Roccia mi guardò. Mi parve di cogliere una sfumatura riverente nei suoi occhi d'acciaio. «Ma, dottoressa, non capisce che questo conferma la mia convinzione che nel corso della storia abbiamo perso conoscenze splendide e profonde?» «Pitagora si sbagliava, capitano», gli feci presente. «Per cominciare, la Luna non è un pianeta, ma un satellite della Terra, E, naturalmente, nessun astro emette note musicali mentre segue la sua orbita, che oltretutto non è circolare ma ellittica.»
«Ne è sicura, dottoressa?» Farag ci ascoltava con attenzione. «Certo che ne sono sicura, capitano. Per l'amor del cielo! Non ricorda quello che le hanno insegnato a scuola?» «Di tutti i percorsi possibili», rifletté Glauser-Röist, «l'umanità ha scelto quello più triste. Non le piacerebbe di più poter credere alla musica dell'universo?» «Se vuole sapere la verità, per me fa lo stesso.» «Per me no», dichiarò lui, voltandomi le spalle e andando in silenzio alla catasta di martelli. Come poteva in un tipo così duro albergare una sensibilità tanto indulgente? «Ricorda», mormorò Farag, «che il Romanticismo nacque in Germania.» «E questo che cosa c'entra?» «A volte la fama o l'immagine esteriore non corrispondono alla verità. Te l'ho detto che Glauser-Röist è una brava persona.» «Non ho mai affermato il contrario!» protestai. In quel momento rimbombò una martellata spaventosa. Il capitano aveva colpito l'incudine con tutte le sue forze. Quando il frastuono diminuì di intensità, gridò: «Dobbiamo trovare l'Armonia delle Sfere! Non state lì a perdere tempo!» «Credo che nessuno di noi avrà la testa a posto, quando avremo finito con questa storia», mi lamentai, guardando la Roccia. «Io spero di sì, soprattutto la tua, Basileia. È troppo preziosa.» Mi voltai, imbattendomi nei suoi occhi azzurri. Oh, Dio mio! Quanto si sbagliava! La mia testa era già perduta. «Per favore!» insistette il capitano. «Mi volete spiegare che cosa fece Pitagora con quei martelli maledetti?» Farag si girò sorridente verso di lui. «Se ne fece portare un mucchio, come quello che abbiamo qui, e si mise a provarli su un'incudine fino a trovare quelli che corrispondevano ad alcune note della scala musicale. Be', in realtà i greci dividevano le note in tetracordios, dato che le nostre Do, Re, Mi, Fa, Sol, La, Si - hanno origine da un inno medioevale dedicato a San Giovanni. Ma si tratta delle stesse.» «Conoscevo quell'inno», dissi io, «adesso però non me lo ricordo più.» «E che altro fece Pitagora, dopo avere trovato quei martelli?» sbuffò il capitano. «Calcolò la relazione numerica tra il peso di quelli che aveva, così da
dedurne il peso di quelli che gli mancavano. Se li fece fabbricare e ottenne una serie di martelli che suonavano perfettamente intonati.» «Bene. E qual è quella relazione numerica?» Farag e io ci guardammo, poi ci rivolgemmo al capitano. «Chi lo sa?» sussurrai io. «Suppongo lo sapranno i matematici e i musicisti», si giustificò Farag. «Ma noi non siamo né gli uni né gli altri.» «Insomma, bisogna trovarli.» «Sembra proprio di sì. Ricordo solo una cosa, anche se non ne sono del tutto sicuro: il martello corrispondente al Do pesava esattamente il doppio di quello del Do dell'ottava seguente.» «E quindi», continuai io, «il martello del Do più acuto pesa la metà del martello del Do più grave. Sì, me lo ricordo.» «È una di quelle curiosità storiche che si ricordano sempre come aneddoti.» «Più o meno», obiettai. «Se non fosse stato per questa situazione, non mi sarebbe mai tornata in mente.» «Be', si dà il caso che siamo qui dentro da tre giorni e che se vogliamo rivedere il mondo dobbiamo servirci dell'Armonia delle Sfere.» Solo a pensare che avremmo dovuto far risuonare di nuovo quei martelli mi veniva il mal di testa. Doveva capitare proprio a me, che amavo il silenzio! Proposi di suddividere i martelli in funzione del loro peso approssimativo, per cominciare una prima, rapida classificazione. L'impresa si rivelò più complessa del previsto: nella maggior parte dei casi era impossibile apprezzare la differenza, per esempio, tra un martello da un chilo, uno da un chilo e duecentocinquanta grammi e uno da un chilo e mezzo. Se non altro la luce era buona, perché il sole era alto nel cielo, ma non avevamo più né cibo né acqua e io cominciavo a temere un'imminente ipoglicemia. Dopo un paio d'ore, risultò che era più facile mettere in fila i martelli (in realtà a spirale, dato che il recinto era circolare) cominciando dal più grande e finendo con il più piccolo. Quando finimmo, eravamo già sudati per lo sforzo e assetati come tra le sabbie del deserto. Da quel momento in poi tutto fu più facile. Prendemmo il martello più grande e colpimmo delicatamente l'incudine. Poi scegliemmo l'ottavo martello e lo facemmo suonare. Non eravamo sicuri che la nota fosse la stessa, per cui provammo anche il settimo e il nono. Così riuscimmo a confonderci ulteriormente le idee. Dopo una lunga discussione e dopo avere soppesato i martelli, decidemmo
di esserci sbagliati e mettemmo il nono al posto dell'ottavo. Riaggiustato il catalogo, le note suonarono meglio. Purtroppo il martello che avrebbe dovuto dare il Re, il secondo della spirale, non suonava affatto come un Re: tutti sanno cantare la scala musicale, ma a nessuno di noi parve che il Do e il Re suonassero «giusti». Tuttavia, nella seconda ottava, quella del Do ottenuto dallo scambio, il secondo martello suonava effettivamente come il Re corrispondente. Stavamo facendo qualche passo avanti, ma intanto anche il giorno avanzava, senza che ce ne rendessimo conto. Nella seconda scala risultò mancare un Mi, o almeno così ci parve dopo averli provati tutti. Quindi dovemmo trovare il terzo Do e identificare il Re e il Mi corrispondenti. Quest'ultimo, tanto per cambiare, non era al suo posto, ma più avanti di due posizioni. Era una follia. Non c'era modo di completare un'ottava, o perché la posizione dei martelli non era corretta, o perché, semplicemente, ne mancava qualcuno. Tra la disperazione, le martellate, la fame e la sete, mi venne un terribile mal di testa, che non fece che aumentare col passare del tempo. A metà pomeriggio ci parve di avere completato la scala. Quasi tutte le note suonavano bene, anche se non ero certa che fossero giuste. Nel senso che non sembravano esatte, come se da qualche parte ci fosse qualche grammo di ferro in più o in meno. Ciononostante, Farag e il capitano erano convinti che avessimo raggiunto l'obiettivo. «Bene. E allora perché non succede niente?» domandai. «Che cosa dovrebbe succedere?» ribatté Glauser-Röist. «Dovremmo uscire di qui, capitano, non ricorda?» «Sediamoci ad aspettare. Ci tireranno fuori.» «Perché non riesco a farvi capire che la scala musicale non è corretta?» «Lo è, Basileia. Sei tu l'unica a sostenere il contrario.» Tormentata dal mal di testa e dalla loro ostinazione, mi lasciai cadere a terra, appoggiando la schiena all'incudine, e mi chiusi in un silenzio tempestoso, che i due preferirono ignorare. I minuti passavano. Trascorse mezz'ora e i miei compagni cominciarono a esibire facce di circostanza, forse chiedendosi se non avessi ragione io. A occhi chiusi, respirando irregolarmente, continuai a riflettere e mi resi conto che quell'intervallo di riposo ci faceva bene. Quando si passa tutto il giorno a sentire rumori, che oltretutto pretendono di essere note musicali, arriva un momento in cui non si sente più niente. Una volta che il silenzio ci avesse ripulito a fondo le orecchie, forse Farag e la Roccia sarebbero stati più disposti a cambiare
opinione, riascoltando la loro meravigliosa scala musicale. «Riprovate», li esortai, senza alzarmi. Farag non diede alcun cenno di volersi muovere, ma il capitano, irriducibile anche quando si trattava di contraddire se stesso, ci riprovò. Fece suonare le sette note e stavolta, con maggiore chiarezza, si percepì un lieve errore nel Fa dell'ottava. «Aveva ragione la dottoressa, professore», ammise Glauser-Röist, a denti stretti. «L'ho notato», disse Farag, stringendosi nelle spalle con un sorriso. Il capitano passò in rassegna la spirale fino a trovare i martelli immediatamente anteriore e posteriore al Fa difettoso. C'era di nuovo un errore. Provò e riprovò fino ad azzeccare la combinazione giusta di attrezzi, ottenendo la nota corretta. «Li faccia suonare di nuovo tutti in fila», gli chiese Farag. Glauser-Röist colpì l'incudine con i sette martelli definitivi. Si stava facendo sera. Il cielo era illuminato da una luce calda e dorata. Quando nel bosco tornò il silenzio tutto fu armonia e serenità: tanta armonia e tanta serenità che mi accorsi che mi stavo addormentando. Ma non era un sonno naturale, non era il mio modo abituale di assopirmi. Me ne resi conto subito dall'immensa debolezza che si impadroniva del mio corpo, trascinandomi pian piano in un oscuro pozzo letargico. Aprii gli occhi e vidi Farag con lo sguardo vitreo e il capitano appoggiato all'incudine, le braccia tese come funi, che cercava di tenersi in piedi. Nell'aria c'era un dolce aroma di resina. Le palpebre mi si richiusero con un lieve tremito, come se fossero obbligate contro la loro volontà. Mi misi subito a sognare: il mio bisnonno Giuseppe stava dirigendo i lavori di costruzione di Villa Salina. Mi svegliai di soprassalto. La mia parte cosciente, forse non ancora del tutto vinta, mi avvisava che tutto ciò non era reale. Dischiusi nuovamente gli occhi, con grande sforzo, e attraverso una nube di fumo biancastro che riempiva lo spazio circolare, fuoriuscendo dalla base del muro e dal suolo, vidi Glauser-Röist cadere in ginocchio, mormorando un soliloquio incomprensibile. Si afferrava all'incudine per non perdere l'equilibrio e scuoteva il capo per mantenersi sveglio. «Ottavia...» La voce di Farag mi rianimò quanto bastava per tendere la mano verso di lui, senza riuscire tuttavia a rispondergli. Le punte delle mie dita sfiorarono il suo braccio e la sua mano cercò la mia. Di nuovo unite, come nel labirinto, le nostre mani furono il mio ultimo ricordo lucido.
E il mio primo ricordo lucido fu un freddo intenso, accompagnato da un'intensa luce bianca puntata direttamente sui miei occhi. Come se della mia persona esistesse solo l'essenza, senza un'identità reale, senza passato né ricordi, persino senza nome, tornai alla vita galleggiando in una bolla che ascendeva in un mare d'olio. Corrugai la fronte, percependo la rigidezza dei miei muscoli facciali. Avevo la bocca così secca che non riuscivo a staccare la lingua dal palato, né a separare le mandibole. Il rumore del motore di un'auto nelle vicinanze e la sgradevole sensazione di freddo finirono di svegliarmi. Aprii gli occhi e, ancora priva di identità e di coscienza, vidi di fronte a me la facciata di una chiesa, una strada illuminata da lampioni e uno scorcio di zona verde. La luce bianca sopra di me veniva da uno dei lampioni sul marciapiede. Avrebbe potuto trattarsi di New York come di Melbourne e io potevo essere tanto Ottavia Salina quanto Maria Antonietta, regina di Francia. E in quel momento ricordai. Mi riempii i polmoni di aria e, con essa, tornarono il labirinto, le sfere, i martelli e... Farag! Mi guardai intorno. Era proprio lì, alla mia sinistra, profondamente addormentato tra me e il capitano. Un'altra auto passò nella via, con i fari accesi. Il guidatore non ci fece caso o, se lo fece, dovette pensare che fossimo tre vagabondi che passavano la notte su una panchina del parco. L'erba era umida di rugiada. Mi dissi che era tempo di svegliare i belli addormentati e capire dove fossimo e cosa ci fosse successo. Appoggiai una mano sulla spalla di Farag e lo scossi dolcemente. Nel farlo, un dolore analogo a quello sentito al risveglio nella Cloaca Massima si fece sentire all'avambraccio sinistro. Non avevo bisogno di sollevare la manica per sapere che avrei trovato un altro cerotto, sopra una nuova scarificazione a forma di croce. Gli Staurophylakes avevano certificato, a modo loro, il nostro successo nella seconda prova, quella del peccato dell'invidia. Farag alzò le palpebre, mi vide e sorrise. «Ottavia...!» mormorò, passandosi la lingua asciutta sulle labbra. «Svegliati, Farag. Siamo fuori.» «Siamo usciti da... Non mi ricordo. Ah, sì, l'incudine e i martelli.» Si diede un'occhiata intorno, ancora insonnolito, e si passò le mani sulle guance irsute. «Dove siamo?» «Non lo so», risposi, senza togliergli la mano dalla spalla. «In un parco, mi pare. Dobbiamo svegliare il capitano.» Farag cercò di alzarsi in piedi, ma non ci riuscì. Sul suo viso si disegnò un'espressione di sorpresa. «Ci hanno colpito molto forte?»
«No, Farag, niente botte in testa. Ci hanno addormentati. Ricordo un fumo bianco.» «Fumo bianco?» «Ci hanno drogati con qualcosa che odorava di resina.» «Resina? Ti assicuro che non ricordo assolutamente niente, a partire dal momento in cui Kaspar ha colpito l'incudine coi sette martelli.» Rimase in sospeso per un istante, poi tornò a sorridere, portandosi la mano all'avambraccio sinistro. «Ci hanno marchiato, eh?» L'idea pareva affascinarlo. «Sì. Ma adesso, per favore, sveglia la Roccia.» «La Roccia?» «Il capitano! Sveglia il capitano.» «Lo chiami 'la Roccia'?» «Non ti venga in mente di dirglielo!» «Non preoccuparti, Basileia», promise, ridendo a crepapelle. «Da me non lo saprà.» Il povero Glauser-Röist era, anche stavolta, quello che stava peggio. Dovemmo scuoterlo e dargli un paio di ceffoni per cominciare a rianimarlo. Ci volle un bel po' per fargli riprendere coscienza. Grazie al cielo non passò di lì nessuna auto della polizia, altrimenti di sicuro saremmo finiti in carcere. Quando la Roccia tornò in sé, il traffico si era ridotto, anche se erano solo le cinque del mattino. Fortunatamente sul marciapiede, proprio vicino a noi, c'era un'indicazione che segnalava il Mausoleo di Galla Placidia: eravamo giusto nel centro di Ravenna. Glauser-Röist fece una chiamata dal cellulare e rimase a parlare per un po'. Quando chiuse la comunicazione si rivolse a noi, che lo aspettavamo pazienti, e ci guardò con aria strana. «Sapete che c'è di bello? A quanto pare siamo nei giardini del Museo Nazionale, vicino al Mausoleo di Galla Placidia e alla Basilica di San Vitale, tra la Chiesa di Santa Maria Maggiore e quella che abbiamo di fronte.» «E cosa c'è di bello?» «Che quella che abbiamo di fronte è la Chiesa di Santa Croce.» Cominciavamo ad abituarci a simili dettagli. E altri ancora ne avremmo visti, mi dissi. Il tempo passava lentamente, mentre ciascuno di noi, a suo modo, cercava di riprendersi. Io passeggiavo a testa bassa, avanti e indietro, guardando l'erba. «Kaspar», proruppe Farag, «dovrebbe guardarsi nelle tasche. Può darsi che ci abbiano lasciato una pista per la prossima cornice del Purgatorio.»
Il capitano controllò subito. Nella tasca destra dei pantaloni trovò, come al termine della prova precedente, un foglio ripiegato, spesso e di fattura irregolare: έρώτησον τον έχοντα τάς κλείδας ό άνοίγων και κλείσει, και κλείων και ουδείς ανοίγει. «'Domanda a colui che ha le chiavi: colui che apre e nessuno chiude, che chiude e nessuno apre'», tradussi. «Che cosa vogliono che facciamo a Gerusalemme?» Ero sconcertata. «Non me ne preoccuperei, Basileia. Conoscono perfettamente i nostri movimenti. Ce lo faranno sapere.» Un'automobile con i fari accesi si stava avvicinando rapidamente lungo la via. «Per ora, dobbiamo andarcene», mormorò la Roccia, passandosi una mano tra i capelli. Era ancora semiaddormentato. Il veicolo, una piccola Fiat grigio chiaro, si fermò davanti a noi. Il finestrino del guidatore si abbassò. «Capitano Glauser-Röist?» chiese un giovane chierico col collarino. «Sono io.» Il sacerdote aveva l'aria di essere stato buttato giù dal letto senza troppi complimenti. «Vengo dall'Arcivescovado. Sono Padre Iannucci. Devo condurvi all'aeroporto della Sperta. Salgano, per favore.» Scese dall'auto per aprirci cortesemente le portiere. Arrivammo all'aerodromo in pochi minuti. Era minuscolo, paragonato ai grandi aeroporti di Roma. Persino quello di Palermo sembrava enorme, al confronto. Padre Iannucci ci lasciò all'ingresso e svanì con la stessa affabilità con cui era comparso. Glauser-Röist chiese indicazioni a una dipendente dell'aeroporto con gli occhi ancora gonfi di sonno, che ci spiegò come raggiungere una zona separata, vicino all'Aeroclub Francesco Baracca, dove trovavano posto gli aerei privati. Il capitano riprese in mano il cellulare e chiamò il pilota, che lo informò che il Westwind era pronto al decollo, appena ci fossimo imbarcati. Fu il pilota a darci le ultime istruzioni per raggiungere il velivolo, che aveva già i motori in funzione e le luci accese. Il Westwind, dalla fusoliera bianca, sembrava un Concorde, a paragone dei piccoli apparecchi dell'Aeroclub, ma in realtà non era poi così grande. Sulle fiancate aveva cinque finestrini. Una giovane hostess e due piloti dell'Alitalia ci aspetta-
vano ai piedi della scaletta. Dopo averci salutato con una certa freddezza professionale, ci invitarono a bordo. «Siamo sicuri che questo aereo ce la farà ad arrivare a Gerusalemme?» domandai a bassa voce. «Non andiamo a Gerusalemme, dottoressa», predicò la Roccia, a pieni polmoni, mentre salivamo la scaletta, «atterreremo all'aeroporto di Tel Aviv e da lì voleremo a Gerusalemme in elicottero.» «Sì, ma», insistetti io, «è sicuro che questo aeroplanino ce la farà ad attraversare il Mediterraneo?» «Abbiamo priorità per il decollo», comunicò in quel momento il pilota. «Possiamo partire quando vuole.» «Subito», ordinò laconico il capitano. La hostess ci indicò i nostri posti, l'ubicazione dei giubbotti salvagente e la posizione delle uscite di emergenza. La cabina era piuttosto stretta e il soffitto molto basso, ma lo spazio era sfruttato al meglio, con un paio di lunghi divani laterali e quattro poltrone sul fondo, una di fronte all'altra, ricoperte di pelle bianca come la neve. L'aereo decollò dolcemente pochi minuti più tardi e il sole, che ancora non era sorto sull'Italia, inondò la cabina coi suoi primi raggi. Gerusalemme! mi dissi, emozionata. Sto andando a Gerusalemme! Nei luoghi in cui Gesù visse, predicò e morì per resuscitare il terzo giorno. Era tutta la vita che volevo compiere un viaggio come quello, un sogno meraviglioso che, per colpa del lavoro, non avevo mai potuto realizzare. E adesso, inaspettatamente, era il mio stesso lavoro a portarmi laggiù. Sentivo crescere l'emozione dentro di me. Chiudendo gli occhi, sentii rinascere la mia ferma e irrinunciabile vocazione religiosa. Come avevo potuto permettere a certi sentimenti irrazionali di tradire quanto di più sacro c'era nella mia vita? A Gerusalemme avrei chiesto perdono per quella pazzia assurda e passeggera. Laggiù, nei luoghi più santi del mondo, mi sarei liberata una volta per tutte di quelle ridicole passioni. Ma a Gerusalemme c'era qualcos'altro che mi riguardava direttamente: Pierantonio, che in quel momento nemmeno poteva immaginare che mi trovassi a bordo di un piccolo aereo diretta verso i suoi domini. Appena messo piede a terra, sempre che ci arrivassi, lo avrei chiamato per dirgli dove mi trovavo e chiedergli che annullasse tutti i suoi impegni di quel giorno per dedicarmi ogni minuto del suo tempo. Avevo in serbo una bella sorpresa per il rispettabile Custode. Ci vollero poco meno di sei ore per arrivare a Tel Aviv. Durante tutto
quel tempo, la hostess fece il possibile per renderci gradevole il volo, tanto che a ogni sua apparizione in corridoio ci veniva da ridere. A intervalli di cinque minuti, più o meno, ci offriva da bere, da mangiare, musica, film in videocassetta, giornali o riviste. Alla fine Glauser-Röist la congedò senza mezzi termini, permettendoci di dormicchiare indisturbati. Gerusalemme, la bella e santa Gerusalemme! Prima di sera, avrei camminato per le sue strade. Poco prima di atterrare, la Roccia sfilò dallo zaino la sua copia sempre più usurata della Divina Commedia. «Non siete curiosi di sapere che cosa ci aspetta?» «Io già lo so», disse Farag. «Una cortina impenetrabile di fumo.» «Fumo!» esclamai io, spalancando gli occhi. Il capitano sfogliò le pagine frettolosamente, alla luce abbagliante che entrava dai finestrini. «Canto XVI del Purgatorio», cominciò. «Verso 1 e seguenti: Buio d'inferno e di notte privata d'ogni pianeta, sotto pover cielo, quant''esser può di nuvol tenebrata, non fece al viso mio sì grosso velo come quel fummo ch'ivi ci coperse, né a sentir di così aspro pelo: che l'occhio stare aperto non sofferse, onde la scorta mia saputa e fida mi s'accostò e l'omero mi offerse.» «Dove ci chiuderanno, stavolta?» chiesi. «Dovrà essere un luogo che possano riempire di fumo denso.» «Con noi dentro, è chiaro», aggiunse Farag. «S'intende», conclusi. «E che cosa succede nella terza cornice, capitano? Come ne escono?» «Camminando», rispose Glauser-Röist. «Tutto qui.» «Tutto qui? Non vengono feriti, non cadono da una roccia, non...» «No, dottoressa. Non gli capita niente. Camminano lungo la cornice, incontrano le anime degli iracondi, che percorrono alla cieca la cornice avviluppati dal fumo, parlano con loro e quindi ascendono alla cornice succes-
siva, dopo che l'angelo rimuove dalla fronte di Dante una nuova P.» «Proprio tutto qui?» «Proprio. Non è vero, professore?» Farag fece un cenno affermativo. «Ma ci sono alcuni aspetti curiosi», aggiunse, col suo lieve accento arabo. «Per esempio, questa cornice è la più corta del Purgatorio. Dura appena un canto e mezzo: il XVI, come ha detto il capitano, che occupa solo poche pagine, e metà scarsa del XVII.» Sospirò e accavallò le gambe. «Infatti, e questa è la seconda curiosità, Dante non fa coincidere la fine della cornice con la fine di un Canto. La cornice degli iracondi comincia nel Canto XVI e prosegue... fino a che punto, Kaspar?» «Al verso 79 del Canto XVII. Ancora sette e nove.» «Al verso 79 comincia a sorpresa la quarta cornice, quella degli accidiosi, che a sua volta, eccezionalmente, non ha inizio in corrispondenza del principio di un Canto. Il Fiorentino, per qualche oscura ragione, fonde la fine di una cornice con l'inizio della successiva all'interno dello stesso Canto, cosa che non aveva mai fatto prima.» «E questo vorrà dire qualcosa?» «Come facciamo a saperlo, Ottavia? Ma stai tranquilla, lo scoprirai di sicuro per tuo conto.» «Grazie.» «Di niente, Basileia.» Atterrammo all'aeroporto internazionale Ben Gurion di Tel Aviv intorno a mezzogiorno. Un veicolo della compagnia El Al ci portò al vicino eliporto, dove salimmo su un elicottero militare israeliano che in venticinque minuti ci trasferì a Gerusalemme. Appena fummo a terra, un'automobile ufficiale dai finestrini scuri ci condusse rapidamente alla Delegazione Apostolica. Devo dire che il poco che vidi durante il tragitto mi deluse: Gerusalemme era come qualsiasi altra città del mondo, coi suoi viali, il suo traffico e i suoi edifici moderni. In lontananza si distinguevano alcuni minareti musulmani che puntavano verso il cielo. Tra la popolazione, del tutto normale, si notavano ebrei ortodossi, con i loro cappelli neri e le lunghe basette, e decine di arabi con in testa la kefiah stretta dall'akal. Suppongo che Farag si accorse della mia delusione, perché cercò di consolarmi: «Non preoccuparti, Basileia. Questa è la Gerusalemme moderna. La città vecchia ti piacerà di più». Contrariamente alle mie speranze, non scorgevo alcuna traccia del pas-
saggio di Dio sulla Terra. Avevo sempre sognato di visitare Gerusalemme, sicura che, appena vi avessi posato piede, avrei percepito all'istante l'indubitabile presenza di Dio. Ma, almeno per il momento, non era così. Per ora a incuriosirmi era solo la variopinta mescolanza di architetture orientali e occidentali e il fatto che tutte le indicazioni stradali fossero in ebraico, in arabo e in inglese. Né potei non notare la grande quantità di militari israeliani che circolavano per strada armati fino ai denti. Ricordai in quel momento che quella città era in uno stato di guerra endemico e che non riusciva a dimenticarselo. Gli Staurophylakes non avevano sbagliato nell'aggiudicarle la palma dell'ira: Gerusalemme ne traboccava, piena com'era di sangue, rancore e morte. Gesù avrebbe potuto scegliere un altro luogo per morire, e Maometto un altro per ascendere al cielo. Avrebbero salvato molte vite umane e molte anime, che in quel modo si sarebbero risparmiate di conoscere l'odio. La grande sorpresa, tuttavia, la ricevetti alla Delegazione Apostolica, un immenso edificio che si distingueva da quelli circostanti solo per le sue dimensioni. Fummo ricevuti sulla porta da vari sacerdoti di età e nazionalità assortite, alla testa dei quali c'era il Nunzio Apostolico in persona, Monsignor Pietro Sambi. Questi ci accompagnò da una stanza all'altra, fino a una moderna ed elegante sala riunioni in cui, tra le altre grandi personalità, si trovava nientemeno che Pierantonio! «Piccola Ottavia!» esclamò, appena ebbi varcato la soglia, tra il capitano e il Monsignore. Poi corse verso di me e ci stringemmo in un abbraccio. Tra gli altri presenti si diffuse un clamore divertito. «Come stai, eh?» mi domandò mio fratello, staccandosi da me e guardandomi dalla testa ai piedi. «A parte essere sporca, lacera e ferita...» «Stanca», risposi, sull'orlo delle lacrime. «Molto stanca, Pierantonio. Ma anche felice di rivederti.» Come sempre, lui aveva un aspetto magnifico, nonostante il suo semplice abito da francescano. L'avevo visto di rado in queste vesti, perché quando veniva a farci visita a casa indossava abiti da secolare. «Sei diventata una personalità, sorellina! Guarda quanta gente importante si è riunita oggi per conoscerti!» Nel frattempo Glauser-Röist e Farag venivano presentati da Monsignor Sambi alle alte cariche nella sala. Nel mio caso, fu mio fratello a fare gli onori. Conobbi l'Arcivescovo di Baghdad e vicepresidente della Conferenza degli Arcivescovi Latini, Paul Dahdah; il Patriarca di Gerusalemme e presidente dell'Assemblea degli Ordinari Cattolici di Terrasanta, Sua Bea-
titudine Michel Sabbah; l'Arcivescovo di Haifa, il greco-melkita Boutros Mouallem, vicepresidente dell'Assemblea degli Ordinari Cattolici; il Patriarca ortodosso di Gerusalemme, Diodoro I; il Patriarca armeno-ortodosso Torkhom; l'Esarca greco-melkita Georges El-Murr... Un vero arcipelago dei più importanti patriarchi e vescovi della Terrasanta. A ogni nuova presentazione aumentava il mio sconcerto. Forse che la nostra missione non era più segreta? Non aveva forse detto Sua Eminenza il Cardinal Sodano che avremmo dovuto mantenere un completo riserbo sulla natura delle nostre azioni e degli eventi? Farag si avvicinò a Pierantonio e lo salutò con affetto. Notai invece che Glauser-Röist si manteneva a una discreta distanza. Non avevo dubbio alcuno che tra lui e mio fratello non corresse buon sangue, anche se tuttora ne ignoravo le ragioni. Nondimeno, nel corso delle conversazioni che seguirono, potei constatare che molti dei presenti si rivolgevano alla Roccia con un certo timore e alcuni, persino, quasi con disprezzo. Mi ripromisi di risolvere quel mistero prima di lasciare Gerusalemme. La riunione fu lunga e noiosa. I patriarchi e gli arcivescovi della Terrasanta misero in luce la loro preoccupazione per i furti dei Ligna Crucis. A quanto ci raccontarono, le chiese cristiane più piccole erano state le prime a soffrirne, nonostante disponessero di schegge minuscole o frammenti microscopici dentro ai reliquiari. Quello che era cominciato come un misterioso incidente su uno sperduto monte della Grecia si era ormai convertito in un caso internazionale di proporzioni smisurate: una palla di neve si era trasformata in una valanga che minacciava di travolgere l'intera cristianità. Tutti i presenti erano angosciati dalle possibili conseguenze sull'opinione pubblica qualora lo scandalo fosse arrivato ai mass media. Al tempo stesso io mi domandavo come si sarebbe potuto mantenere il segreto, se tutta quella gente importante ne era già informata. In realtà, quella riunione aveva un unico obiettivo: soddisfare la curiosità che patriarchi, vescovi e delegati avevano di conoscerci. Da tutto quello che si disse, né io, né Farag, né il capitano ricavammo nulla di utile, se non la certezza di poter contare sull'appoggio di tutte quelle Chiese per qualsiasi nostra necessità. Perciò ne approfittai. «Con il debito rispetto», dissi in inglese, usando le loro stesse formule di cortesia, «qualcuno di loro ha sentito parlare di un custode di chiavi, qui, a Gerusalemme?» Si guardarono tra loro, sconcertati. «Mi spiace, Sorella Salina», mi rispose Monsignor Sambi, «credo che non abbiamo capito bene la doman-
da.» «In questa città», intervenne impaziente Glauser-Röist, «dobbiamo localizzare qualcuno che possiede delle chiavi e che, quando apre non sappiamo che cosa, nessun altro può chiuderla, e viceversa.» Tornarono a guardarsi, con l'aria di non sapere di che cosa stessimo parlando. «Ottavia», mi riprese affettuosamente mio fratello, ignorando la Roccia, «sai quante chiavi importanti ci sono in Terrasanta? Ogni chiesa, basilica, moschea o sinagoga ha il proprio prezioso e storico mazzo di chiavi! Mi spiace, ma quello che dici non ha senso qui a Gerusalemme: è semplicemente ridicolo.» «Cerca di prendere questa storia più sul serio, Pierantonio!» Per un attimo dimenticai dove ci trovassimo e il fatto che mi stavo rivolgendo all'importantissimo Custode della Terrasanta nel mezzo di un'assemblea ecumenica di prelati, alcuni dei quali pari al Papa in dignità. Vedevo solo mio fratello maggiore che si faceva beffe di una questione che in tre occasioni mi era quasi costata la vita. «Trovare 'colui che ha le chiavi' è molto importante, capisci? Che a Gerusalemme ce ne siano poche o tante è irrilevante. Quello che conta è che, in questa città, c'è qualcuno che ha delle chiavi che a noi servono.» «Molto bene, Sorella Salina», mi rispose lui. Rimasi basita nel vedere che, per la prima volta nella mia vita, Pierantonio mostrava rispetto e comprensione sul suo volto da principe sovrano. Forse che la «piccola Ottavia» d'un tratto fosse diventata più importante del Custode? Mio Dio, questa sì che era una buona notizia! Avevo potere su mio fratello! «Be', dunque... infine...» Monsignor Sambi non sapeva come porre termine a quell'insolita disputa famigliare all'interno di una riunione di tale livello. «Credo che tutti i presenti dovrebbero prendere nota di quanto ci hanno detto il capitano Glauser-Röist e Sorella Salina e disporre che si dia inizio alla ricerca di questo custode delle chiavi.» Nel consenso generale, il conclave si dissolse amichevolmente in un pranzo servito dalla Delegazione nella lussuosa sala da pranzo del palazzo. Seppi che lì, in varie occasioni, aveva pranzato Sua Santità il Papa nel corso dei suoi viaggi in Terrasanta. Non potei fare a meno di sorridere, pensando che erano tre giorni che non ci facevamo una doccia e che dovevamo avere addosso un cattivo odore. Quando a fine pasto fummo condotti alle stanze che ci erano state assegnate, scoprii che un paio di monache ungheresi avevano disfatto i miei
bagagli e disposto le mie cose in perfetto ordine nell'armadio, nel bagno e sulla scrivania. Pensai che non avrebbero dovuto prendersi tanto fastidio, dal momento che l'indomani, probabilmente al mattino presto o a un'ora ugualmente impossibile, saremmo stati in volo verso Atene, con altre ammaccature, ferite e scarificazioni sul nostro corpo. E, ricordandomi proprio della scarificazione, andai in bagno, mi spogliai dalla cintola in su e staccai con cura i cerotti che coprivano la parte superiore dei miei avambracci. Eccoli lì, i due marchi, quello di Roma molto meno arrossato di quello di Ravenna, che risaliva solo a poche ore prima. Entrambi presentavano linee verdi in profondità nella carne, come si mi avessero iniettato estratti di piante ed erbe. Decisi che non fosse una buona idea abbandonarsi all'apprensione: finii di svestirmi e mi feci una gloriosa doccia. Poi, dopo essermi asciugata, mi prestai le cure necessarie e mi bendai con quello che trovai in un armadietto sanitario dietro la porta. Per fortuna, con le maniche lunghe non si vedeva niente. A metà pomeriggio, dopo solo un'ora di riposo, Pierantonio mi propose una breve visita turistica nella città vecchia. Il Nunzio manifestò preoccupazione per la nostra incolumità, visto che proprio pochi giorni prima tra israeliani e palestinesi c'erano stati gli scontri più duri dalla fine dell'Intifada. Presi dai nostri problemi, noi non ce ne eravamo neppure accorti, ma in quegli scontri c'erano stati almeno una decina di morti e più di quattrocento feriti. Il governo israeliano si era visto costretto a consegnare tre quartieri della città, Abu Dis, Azaria e Sauajra, all'Autorità Palestinese, con la speranza di riaprire la strada ai negoziati e porre termine alla rivolta nei territori autonomi. Per cui la situazione era tesa e si temevano nuovi attentati. Considerata anche la posizione di Pierantonio, il Nunzio raccomandò che per girare nella città vecchia ci servissimo di un discreto veicolo della Delegazione. Ci fornì inoltre la migliore delle guide: Padre Murphy Clark, della Scuola Biblica di Gerusalemme, un uomo grosso e grasso come un barñe con una bella barba bianca ben curata, uno dei maggiori specialisti al mondo in archeologia biblica. Parcheggiammo l'auto, anch'essa coi finestrini scuri, in prossimità del Muro del Pianto, e da lì proseguimmo a piedi, viaggiando a ritroso nel tempo: duemila anni di storia! Avrei voluto vedere ogni cosa, anche se non mi bastavano gli occhi per cogliere tutta in una volta la bellezza di quelle viuzze di pietra, con i loro negozietti di magliette e souvenir e la loro strana popolazione, vestita secondo l'uso delle tre culture che coesistevano in città. Ma l'emozione mag-
giore fu percorrere la Via Dolorosa, il cammino seguito da Gesù in direzione del Golgota con la Croce sulle spalle e la Corona di Spine sulla fronte. Come spiegare una simile esperienza, indescrivibile a parole? Pierantonio, che mi leggeva come un libro aperto, si mise al mio fianco, lasciando che fossero Farag e Padre Clark ad aprire la strada. Era evidente che mio fratello non intendeva mettersi a recitare la Via Crucis con me. La sua idea era cavarmi il massimo delle informazioni possibili riguardo alla nostra missione. «Ma, Pierantonio», protestai, «non sai già tutto? Perché non la smetti di farmi domande?» «Perché non mi rispondi. Devo tirarti fuori le parole col cavatappi?» «Che cosa vuoi da me, me lo vuoi dire? Non c'è nient'altro.» «Raccontami delle prove.» Sospirai e alzai gli occhi al cielo in cerca di aiuto. «Non sono esattamente prove, Pierantonio. Stiamo percorrendo una specie di Purgatorio che deve purificare le nostre anime terrene per renderci degni di raggiungere il Paradiso Terrestre degli Staurophylakes. Questo è il nostro unico obiettivo. Una volta localizzata la Vera Croce, chiameremo i poliziotti e saranno loro a farsi carico della vicenda.» «E la storia di Dante? Santo cielo, sembra incredibile. Dai, raccontami.» Mi fermai nel bel mezzo di una processione di americani che pregavano alle stazioni della Via Crucis e mi voltai verso di lui. «Facciamo un patto», dissi, molto seria. «Tu mi parli di Glauser-Röist e io ti racconto tutto nel dettaglio.» Il volto di mio fratello si trasformò. Avrei giurato di cogliere un barlume di odio nei suoi santi occhi. Fece cenno di no con la testa. «A Palermo mi hai detto», insistetti, «che Glauser-Röist era l'uomo più pericoloso del Vaticano e, se la memoria non mi inganna, mi hai chiesto che cosa ci facevo a lavorare fianco a fianco con un uomo temuto da cielo e terra, la mano nera della Chiesa.» Si rimise a camminare, lasciandomi indietro. «Se vuoi che ti racconti di Dante Alighieri e degli Staurophylakes», lo tentai, appena lo ebbi raggiunto, «dovrai raccontarmi di Glauser-Röist. Ricorda che tu stesso mi hai spiegato come ottenere le informazioni, anche a costo di passare sopra la mia coscienza.» Si fermò di nuovo, a metà della Via Dolorosa. «Vuoi sapere tutto sul capitano Kaspar Linus Glauser-Röist?» mi chiese in tono di sfida, con gli occhi che lampeggiavano d'ira. «Adesso te lo dico. Il tuo caro collega ha il
compito di far sparire tutti i panni sporchi dei membri più importanti della Chiesa. Da tredici anni a questa parte distrugge tutto ciò che può ledere in qualsiasi modo l'immagine del Vaticano. E quando dico distruggere, intendo proprio distruggere, con minacce, estorsioni e non mi stupirebbe anche omicidi, nel compimento del suo dovere. Nessuno sfugge alla lunga mano di Glauser-Röist: giornalisti, banchieri, cardinali, politici, scrittori... Se nella tua vita c'è un segreto, Ottavia, meglio che lui non lo conosca. Un giorno o l'altro potrebbe usarlo contro di te, con assoluto sangue freddo e senza il minimo rimorso.» «Non credo che arriverebbe a tanto!» ribattei, non perché dubitassi delle sue affermazioni, ma per stimolarlo a continuare a parlare. «Ah, no?» fece lui, indignato. Accelerammo il passo, perché Padre Clark, Farag e la Roccia erano molto più avanti di noi. «Vuoi delle prove? Ricordi il caso Marcinkus?» Be', sì, ne avevo sentito parlare, anche se non ne sapevo molto. D'abitudine, mi disinteressavo a tutto ciò che andava contro la Chiesa, e lo stesso valeva per gli altri religiosi. Non che non potessimo sapere, il fatto era che non volevamo. A priori, non ci piaceva sentire accuse di quel genere, e facevamo orecchie da mercante agli scandali anticlericali. «Nel 1987 i giudici italiani ordinarono l'arresto dell'Arcivescovo Paul Casimiro Marcinkus, all'epoca direttore dello Ior, l'Istituto per le Opere Religiose, conosciuto anche come Banca Vaticana. L'accusa, dopo sette mesi di indagini, era di avere portato alla bancarotta fraudolenta il Banco Ambrosiano di Milano. Risultò che il Banco era controllato da un gruppo di compagnie straniere, con sede nei paradisi fiscali di Panama e del Liechtenstein, che in realtà fungevano da copertura per l'Istituto e lo stesso Marcinkus. Il Banco Ambrosiano aveva un buco di oltre milleduecento milioni di dollari, dei quali il Vaticano, dietro molte pressioni, ne restituì ai creditori solo duecentocinquanta. Vale a dire che il Vaticano fagocitò oltre novecento milioni di dollari. Sai a chi toccò il compito di impedire che Marcinkus cadesse nelle mani della giustizia e di insabbiare la questione?» «Al capitano Glauser-Röist?» «Il tuo amico riuscì a portare Marcinkus in Vaticano con un passaporto diplomatico prima che la polizia italiana potesse arrestarlo. Dopo averlo tratto in salvo, organizzò una campagna di depistaggio dell'opinione pubblica facendo sì, chissà con quali metodi, che certi giornalisti qualificassero Marcinkus come un amministratore ingenuo, negligente e distratto. Poi Glauser-Röist lo fece sparire e gli organizzò una nuova vita in una piccola
parrocchia in Arizona, dove si trova tuttora.» «Non vedo alcun delitto in tutto questo, Pierantonio.» «No. Lui non fa mai niente fuori dalla legge. Si limita a ignorarla! Se un cardinale viene arrestato alla frontiera con la Svizzera, con una valigetta piena di milioni che cerca di far passare come bagaglio diplomatico, ecco Glauser-Röist che corre a porre rimedio. Prende il cardinale, lo riporta in Vaticano, fa in modo che le guardie di frontiera 'dimentichino' l'accaduto e cancella ogni traccia, come se la misteriosa fuga di capitali non avesse mai avuto luogo.» «Continuo a non trovare ragione per temere Glauser-Röist.» Ma Pierantonio ripartiva già alla carica. «Una casa editrice italiana pubblica un libro sulla corruzione in Vaticano? Glauser-Röist identifica immediatamente il Monsignore o i Monsignori che hanno violato la consegna del silenzio e mette loro la museruola, non si sa bene con quali minacce, facendo in modo che la stampa, dopo lo scandalo iniziale, dimentichi la questione. Chi pensi che prepari rapporti minuziosi, con i dettagli più scabrosi, della vita privata dei membri della Curia, perché poi questi non possano fare altro che accettare in silenzio certe malefatte? Chi credi che sia entrato per primo nell'appartamento del comandante della Guardia Svizzera Alois Estermann la notte in cui questi, sua moglie e il capo Cédric Tornay morirono per i colpi di pistola sparati, si suppone, da quest'ultimo? Kaspar Glauser-Röist. Fu lui a rimuovere le prove e a inventare la versione ufficiale della 'momentanea follia' del responsabile, che la Chiesa qualificò come consumatore di droghe e 'squilibrato pieno di rancore'. Glauser-Röist è l'unico a sapere che cosa sia successo veramente quella notte. E se un prelato organizza una serata, per così dire, su di giri, e un giornalista si appresta a pubblicare foto scandalose? Niente paura, dopo una visita di Glauser-Röist l'articolo non esce e il giornalista chiude la bocca per sempre. Perché? Te lo puoi immaginare. In questo momento un importante prelato, l'Arcivescovo di Napoli, è sotto inchiesta in Basilicata con l'accusa di usura, associazione a delinquere e appropriazione indebita. Scommetti ciò che vuoi che sarà assolto. Da quanto ho saputo, il tuo amico se ne sta già occupando.» Un pensiero sinistro si stava facendo strada nella mia mente, un pensiero che non mi piaceva per niente e che mi turbava. «E tu che cos'hai da nascondere, Pierantonio? Non parleresti così del capitano se non avessi avuto a che fare con lui.» «Io?» Si mostrò sorpreso. D'un tratto tutta la sua ira era svanita e mio
fratello era l'immagine di un agnellino pasquale. Ma non poteva ingannare me. «Sì, tu. Non venirmi a dire che sei a conoscenza delle faccende di Glauser-Röist perché la Chiesa è una grande famiglia in cui si sa tutto di tutti.» «Questo è sicuro. Noi che occupiamo certe posizioni sappiamo tutto di quasi tutti.» «Può essere», mormorai meccanicamente, guardando in lontananza le nuche di Murphy Clark, della Roccia e di Farag. «Ma io non ci casco. Hai avuto qualche problema con il capitano Glauser-Röist e adesso me lo racconti.» Scoppiò a ridere. Un raggio di sole tra le nubi gli illuminò il viso. «E perché dovrei farlo, piccola Ottavia? Che cosa potrebbe spingermi a confessarti peccati che non si possono rivelare, tantomeno a una sorella minore?» Lo guardai gelida, con un sorriso artificiale sulle labbra. «Perché se non lo fai andrò immediatamente da lui, gli riferirò quello che mi hai detto e gli chiederò che sia lui a darmi spiegazioni.» «Non lo farebbe», replicò Pierantonio, con fare presuntuoso. L'umile abito dei francescani non gli si adattava per niente. «Un uomo come lui non parla mai di certe cose.» «Ah, no?» Se lui giocava sporco, non potevo essere da meno. «Capitano! Ehi, capitano!» La Roccia e Farag si voltarono. Padre Murphy ci mise un po' di più a girare la sua immensa pancia. «Capitano, può venire un momento?» Pierantonio si fece livido in volto. «Te lo racconto io», bofonchiò, vedendo che Glauser-Röist stava già venendo verso di noi. «Ti dico tutto, ma digli di lasciar perdere.» «Mi scusi, capitano, mi sono sbagliata! Vada pure avanti.» E gli feci un cenno con la mano, perché proseguisse con gli altri. La Roccia si fermò, mi osservò per qualche secondo, poi riprese il cammino con Farag e Padre Murphy. Uno strano gruppo di donne, sei o sette, vestite di nero, ci spinse da parte e ci superò. Indossavano un lungo manto che scendeva fino ai piedi e portavano un curioso copricapo rotondo che ricadeva sulla fronte, sostenuto da un fazzoletto legato intorno alla testa. Dedussi che si trattava di monache ortodosse, ma non riuscii a indovinare la Chiesa di appartenenza. Curiosamente, poco dopo fummo superati da un altro gruppo simile, ma senza cappellino e con lunghi ceri gialli tra le ma-
ni. «Piccola Ottavia, stai diventando ostinata!» «Parla.» «Ricordi che a casa ti ho parlato dei problemi che avevo con la Santa Sede?» «Sì, mi ricordo.» «Ti ho detto delle scuole, degli ospedali, dei pensionati per anziani, degli scavi archeologici, delle case per i pellegrini, degli studi biblici, del culto cattolico da ristabilire in Terrasanta...» «Sì, e anche dell'ordine del Papa di acquistare il Santo Cenacolo senza fornirti i fondi necessari.» «Esatto. Questo è il punto.» «Che cosa hai fatto, Pierantonio?» gli chiesi, con grande pena. La Via Dolorosa stava facendo onore al proprio nome. «Ecco... Ho dovuto vendere alcune cose.» «Quali?» «Reperti trovati negli scavi.» «Mio Dio, Pierantonio!» «Lo so, lo so», affermò, contrito. «Se può esserti di consolazione, li ho venduti al Vaticano, attraverso un uomo di paglia.» «Che cosa vuoi dire?» «Tra i principi della Chiesa ci sono grandi collezionisti d'arte. Poco prima che Glauser-Röist ci mettesse il naso, l'avvocato di Roma che lavorava per mio conto ha venduto a un prelato, che tu conosci personalmente perché ha lavorato a lungo presso l'Archivio Segreto, un antico mosaico dell'VIII secolo, rinvenuto negli scavi archeologici di Banu Ghassan. Lo ha pagato quasi tre milioni di dollari. Credo che ora lo abbia in mostra nel salotto di casa.» «Oh, mio Dio», gemetti, sopraffatta. «Sai quante buone cose abbiamo fatto con quei soldi, piccola Ottavia?» Mio fratello non sembrava sentirsi minimamente in colpa. «Abbiamo aperto ospedali, abbiamo dato da mangiare a molta gente, abbiamo costruito pensionati per gli anziani e scuole per i bambini. Che cosa ho fatto di male?» «Hai trafficato in opere d'arte, Pierantonio.» «Ma se è a loro che le ho vendute! Niente di quello che ho venduto è andato in mani che non fossero benedette dal sacerdozio e tutto ciò che ho guadagnato è stato investito per soddisfare le esigenze dei poveri in Terra-
santa. Certi principi della Chiesa hanno tutto e noi qui non abbiamo niente.» Riprese fiato e l'odio riapparve nel suo sguardo. «Finché, un bel giorno, non si presenta nel mio ufficio il tuo amico Glauser-Röist, del quale avevo già sentito parlare. Ha fatto indagini ed è al corrente delle mie attività. Mi proibisce di continuare con le vendite, minacciando di fare scoppiare uno scandalo che infangherebbe il mio nome e quello dell'Ordine. In tutta calma mi dice: 'Domani posso far uscire la sua foto in prima pagina sui giornali più importanti del mondo'. Io gli parlo degli ospedali, degli asili, delle mense pubbliche, delle scuole... Per lui fa lo stesso. Ora sono soffocato dai debiti e non so come uscire dalla situazione.» Che cosa mi aveva detto Farag nelle catacombe di Santa Lucia? Anche se fa male, la verità è sempre preferibile alle bugie. Ora mi domandavo se la bontà di Pierantonio, anche se male applicata, non fosse preferibile all'ingiustizia. Forse dubitavo perché lui era mio fratello e cercavo con ogni mezzo di giustificarlo. O perché la vita non è fatta di blocchi bianchi e neri, ma di un mosaico multicolore dalle combinazioni infinite, un cumulo di ambiguità, di sfumature intercambiabili che cercavamo di costringere in assurdi schemi di norme e dogmi. Mentre mi dedicavo a queste disquisizioni interiori, il nostro gruppo svoltò a un angolo, trovandosi di colpo nella piazzetta della Basilica del Santo Sepolcro. Mi sentii commossa. Di fronte a me si trovava il luogo in cui Gesù era stato crocifisso. Le lacrime premevano per uscire, sospinte dall'emozione. La Basilica eretta da Santa Elena nel luogo dove aveva creduto di scoprire la Vera Croce era impressionante: angoli retti, pietra solida e millenaria, grandi finestre con inferriate, torri squadrate con coperture di mattoni rossi, sopra una piazza popolata di gente di ogni razza e condizione. Mulinelli di turisti giravano intorno a strette croci di legno e intonavano canti in varie lingue, che, mescolandosi nella cassa di risonanza costituita dalla piazza stessa, si trasformavano in un brusio dissonante. E lì, sotto il portico, le monache ortodosse che ci avevano superato lungo la strada davano le spalle a un gruppo di suore cattoliche vestite con abiti chiari e gonne corte. Molte donne avevano al collo magnifici rosari e alcune invece li tenevano in mano, sgranandoli in preghiera, inginocchiate sulla nuda pietra. C'erano sacerdoti cattolici e religiosi degli Ordini più disparati. Abbondavano i monaci ortodossi dalle lunghe barbe fluenti e dai neri cappelli tubolari di vari modelli: lisci, decorati con fiocchi e bottoni, con la sommità a camino o con un velo che scendeva fino alla schiena o addirittura fino alla
vita. Sopra questa babele umana volava una moltitudine di colombe bianche che, noncuranti della folla, passavano da un cornicione all'altro, da una finestra all'altra, in cerca della visuale migliore. La facciata della Basilica era molto curiosa, con portali gemelli sotto due finestre egualmente gemelle a sesto acuto, anche se il portale di destra sembrava murato. E l'interno... Ecco, l'interno era sconvolgente. Dal momento che l'ingresso era su una navata laterale, non se ne poteva avere una prospettiva completa prima di raggiungere il centro. Ma intanto la luce di centinaia di candelieri orientali illuminava il percorso. Fu un momento così emozionante che a stento riesco a ricordare tutto quanto. Padre Murphy ci spiegava con dovizia di dettagli tutti i particolari. Nell'atrio, all'ingresso, circondata da lampade e candelabri, si trovava la Pietra dell'Unzione, una grande lastra rettangolare di pietra calcarea rossa su cui si presumeva fosse stato deposto il corpo di Gesù una volta tolto dalla Croce. La gente, infervorata, gettava sulla pietra acqua benedetta, per poi inumidirvi fazzoletti e rosari. Non c'era modo di avvicinarsi. Al centro della Basilica si trovava il Catholicon, il luogo in cui si supponeva si trovasse il Santo Sepolcro, con una facciata coperta di piccole lampade in preziose sfere d'argento. Sopra la porta c'era un trittico con immagini della Resurrezione, ciascuna di uno stile diverso: latino, greco e armeno. Oltre la porta del Catholicon si giungeva a un piccolo vestibolo detto Cappella dell'Angelo, perché si riteneva che qui alle Sante Donne fosse stato dato l'annuncio della Resurrezione. Passata un'altra porticina, si accedeva al Santo Sepolcro propriamente detto, uno spiazzo piccolo e stretto in cui si distingueva una lastra di marmo che ricopriva la pietra originale su cui era stato collocato il corpo di Gesù. Mi inginocchiai per un istante (l'affluenza della folla non permetteva di trattenersi più a lungo) e uscii con minor riverenza di quando ero entrata. L'ambiente era ipnotico e induceva a una variante religiosa della Sindrome di Stendhal, ma la pressione della folla mi spinse alla fretta. Scendendo una scalinata, giungemmo al luogo in cui Santa Elena aveva trovato le tre croci, secondo quanto riferito nella Leggenda Aurea di Jacopo da Varagine: era una stanza di pietra, ampia e spoglia, in un angolo della quale una ringhiera di ferro proteggeva il punto esatto in cui erano state trovate le reliquie. Padre Murphy, tirandosi la barba, cominciò a raccontarci la leggenda. Scoprimmo così di essere meglio informati di uno dei più considerati esperti del mondo. Ma l'affabile e corpulento archeologo si rese conto ben presto di non avere a che fare con dei novellini e ascoltò, in tutta
umiltà, alcuni dei nostri commenti. Percorremmo la Basilica da cima a fondo, compresa la rotonda dell'Anastasi. Pierantonio e Padre Murphy ci raccontarono che tanto la comunità latina quanto la greco-ortodossa e la armeno-ortodossa erano comproprietarie del tempio in parti uguali. L'accordo si reggeva su uno status quo, ovvero una fragile alleanza che, in mancanza di meglio, cercava di mantenere la pace tra le Chiese cristiane di Gerusalemme. Anche i copto-ortodossi, i siro-ortodossi e gli etiopi potevano officiare le loro cerimonie nella Basilica. Per questo Farag protestò vivamente, dato che i cattolici copti non godevano degli stessi diritti. Ma Padre Murphy lo pregò, un po' scherzando e un po' sul serio, di non gettare benzina sul fuoco: non si potevano permettere ulteriori sollevamenti popolari. Terminata la visita, mio fratello e Padre Murphy ci proposero di continuare il giro turistico della città. «C'è ancora una cosa che non abbiamo visto», ribattei. «La cripta sotterranea.» Pierantonio mi guardò senza capire, mentre Murphy Clark ostentava un sorriso soddisfatto. «Dottoressa, come fa a sapere dell'esistenza della cripta?» domandò, curioso. «Sarebbe troppo lunga da raccontare, Murphy», gli rispose Farag. «Ma saremmo molto interessati a visitarla.» «È piuttosto complicato», mormorò pensoso Padre Murphy, riprendendo a tirarsi la barba. «La cripta è di proprietà della Chiesa Greco-Ortodossa e sono pochissimi i sacerdoti cattolici che vi hanno avuto accesso. Forse suo fratello, il Custode Salina, potrebbe ottenere il permesso.» «Ma se nemmeno sapevo della sua esistenza!» rilevò Pierantonio, sconcertato. «Nemmeno io l'ho visitata, padre», replicò Murphy, «ma, come a sua sorella, mi farebbe molto piacere poterlo fare. Richieda l'autorizzazione al Patriarca ortodosso di Gerusalemme. Le basterà una telefonata.» «È proprio necessario?» volle sapere mio fratello prima di mettersi a chiedere favori politicamente impegnativi. «Ti assicuro di sì.» Pierantonio si avviò all'uscita e, riparandosi dalla folla in un angolo dell'atrio, estrasse da una tasca della tonaca il cellulare. Gli ci vollero solo pochi minuti. «Fatto», annunciò allegramente, tornando verso di noi. «Dobbiamo cercare Padre Chrisostomos. Non è stato facile! Si tratta di una camera segreta
nascosta nelle profondità della Basilica. Avreste dovuto sentire le esclamazioni di sorpresa e incredulità che mi sono giunte per telefono. Come facevate a sapere della sua esistenza?» «È una storia molto lunga, Pierantonio.» Mio fratello, ormai a sua volta preda del sacro fuoco, si rivolse al primo prete ortodosso che gli capitò a tiro e di lì a pochi minuti ci trovammo di fronte a un pope dal cappello a camino, simile a quelli in uso nella Firenze rinascimentale. Padre Chrisostomos, che portava un paio di occhiali appesi a un cordoncino all'altezza del petto, ci scrutò sconcertato. La sua espressione lasciava intendere che ancora non gli era arrivata la chiamata che doveva annunciare la nostra presenza e le ragioni della stessa. Pierantonio la anticipò, facendo pesare la sua posizione e tutti i suoi incarichi, più di quelli di cui ero a conoscenza. Il pope gli strinse la mano con rispetto, senza cancellare l'espressione di sorpresa, che sembrava esserglisi pietrificata in faccia. Dopo che mio fratello ebbe presentato anche noialtri, il pope diede sfogo all'angoscia che lo opprimeva. «Non vorrei essere indiscreto, ma... potrebbero spiegarmi come hanno scoperto l'esistenza della Camera?» Fu la Roccia a rispondergli. «Da alcuni documenti antichi che riferivano della sua costruzione.» «Ah, sì? Ebbene, se le mie domande non sono di disturbo, mi piacerebbe saperne di più. Padre Stephanos e io abbiamo passato tutta la vita a custodire le reliquie della Vera Croce che si conservano nella cripta, ma ignoravamo che se ne avesse notizia e che esistessero documenti riguardanti la sua costruzione.» Mentre scendevamo, un piano dopo l'altro, verso le profondità della terra, Farag, la Roccia e io raccontammo ciò che sapevamo a proposito delle Crociate e della camera segreta, pur senza fare riferimento agli Staurophylakes. Infine, dopo essere scesi per un centinaio di gradini di pietra, giungemmo a una stanza dalle pareti sempre di pietra e dall'apparente funzione di magazzino. Alle pareti erano appesi ritratti di antichi Patriarchi, qua e là c'erano mobili che dormivano il sonno dei giusti coperti da teloni di plastica e c'era persino un vecchio paramento ortodosso appeso a un portabiti e immobile come un fantasma. Sul fondo, una cancellata di ferro proteggeva una porticina di legno che sembrava essere il nostro obiettivo. Un vecchietto con una lunga barba bianca, vedendoci entrare si alzò da una sedia. «Padre Stephanos, abbiamo ospiti», annunciò Padre Chrisostomos. I due
preti scambiarono un breve dialogo a bassa voce, poi si voltarono verso di noi. «Avanti.» Il vecchio prete ortodosso estrasse dalle pieghe della tonaca un mazzo di chiavi di ferro e si diresse verso la cancellata al rallentatore. Prima di aprire la porticina di legno, azionò un interruttore antidiluviano sopra lo stipite. La mia sorpresa fu enorme quando, al mio ingresso nella camera segreta degli Staurophylakes, costruita intorno all'anno 1000 per proteggere la reliquia della Vera Croce dalla distruzione ordinata dal califfo impazzito Al Hakem, mi ritrovai in una specie di caserma militare arredata come una cucina. Guardando meglio, dopo essermi ripresa dalla prima impressione, distinsi un piccolo altare al centro della camera, su cui faceva bella mostra di sé una bella icona della Crocifissione. Davanti c'erano un paio di croci di piccole dimensioni, che risultarono essere i reliquiari contenenti le Sante Schegge. Alla mia sinistra, alcuni armadietti metallici da ufficio completavano perfettamente il mobilio costituito da seggiole pieghevoli e tavolini di legno abbandonati dove capitava. Se l'avessero visto gli Staurophylakes! Anche se, pensandoci bene, era il modo più intelligente, sempre che fosse frutto di una decisione cosciente, per proteggere qualcosa di così prezioso. Padre Stephanos e Padre Chrisostomos si fecero ripetutamente il segno della croce, alla maniera ortodossa, e con estrema devozione ci mostrarono, attraverso gli sportellini di vetro dei reliquiari, i minuscoli frammenti di legno della croce scoperta da Santa Elena. Tutti procedemmo a baciare quegli oggetti con l'eccezione della Roccia, che ci dava le spalle, immobile. Padre Stephanos, rendendosene conto, gli si avvicinò lentamente e cercò con lo sguardo ciò che aveva catturato l'interesse del capitano. «Molto bello, vero?» disse, in un inglese correttissimo. Anche noi ci avvicinammo e, sorpresa, scoprimmo un bel Monogramma di Costantino dipinto su una tavola di legno scuro che conteneva un lungo testo in greco. La tavola era appoggiata direttamente alla parete, con la base sul pavimento. «È la mia orazione preferita. Sono cinquant'anni che ci medito sopra e, mi creda, ogni giorno scopro un nuovo tesoro nella sua semplice sapienza.» «Che cos'è?» chiese Farag, chinandosi per esaminarla meglio. «Una trentina d'anni fa, alcuni esperti inglesi ci dissero che si trattava di una preghiera cristiana molto antica, probabilmente del secolo XII o XIII. Il penitente che la redasse o l'artista che la realizzò non era greco, perché il
testo contiene molti errori. Gli esperti dissero che poteva trattarsi di qualche eretico latino che visitò questo luogo e che, per gratitudine, fece dono alla Basilica di questa bella tavola con i pensieri che gli ispirò la Vera Croce.» Mi rannicchiai al fianco di Farag e tradussi sottovoce in italiano le prime parole. «'Tu che hai superato la superbia e l'invidia, supera ora l'ira con la pazienza.'» Mi rialzai di scatto e lanciai al capitano un'occhiata carica di significato. Questi, recepito il messaggio, sgranò gli occhi. Qualsiasi aspirante Staurophylax che avesse superato le prove di Roma e di Ravenna avrebbe letto quel messaggio in chiave personale. «Così dice la prima frase, quella dipinta a lettere onciali rosse.» Padre Stephanos mi guardò con affetto. «Ha capito il senso dell'orazione?» «Pardon», mi affrettai a discolparmi. «Ho cambiato lingua senza rendermene conto. Chiedo scusa.» «Oh, non si preoccupi. Mi ha molto rallegrato vedere nei suoi occhi l'emozione mentre leggeva il testo. Credo che abbia colto l'importanza della preghiera.» Farag si rimise in piedi e tutti e tre ci scambiammo occhiate complici. E perché alla scena non mancasse nulla, un attimo dopo ci voltammo a guardare Padre Stephanos... Padre Stephanos, oppure Stephanos lo Staurophylax? «Vi interessa?» volle sapere l'anziano. «In tal caso posso darvi l'opuscolo che abbiamo stampato poco dopo la visita degli esperti inglesi. C'è una foto completa della tavola e altre più piccole con i particolari. Purtroppo come pubblicazione è un po' antiquata e le immagini sono in bianco e nero. Ma l'orazione è tradotta...» E qui l'anziano si mostrò orgoglioso e sorridente. «Devo avvisarvi che l'ho tradotta io.» Con espressione emozionata, Padre Stephanos cominciò a recitare a memoria: «'Tu che hai superato la superbia e l'invidia, supera ora l'ira mediante la pazienza. Come la pianta cresce impetuosa per volontà del Sole, implora Dio che la sua divina luce ricada dal cielo su di te. Dice Cristo: non aver paura alcuna, se non il timore dei peccati. Cristo vi nutrì, affamati, a gruppi di cento e di cinquanta. La sua parola benedetta non disse gruppi di novanta o di due. Confida dunque nella giustizia come gli ateniesi e non temere la tomba. Abbi fede in Cristo come l'ebbe persino il malefico esattore. La tua anima, come gli uccelli, corre e vola verso Dio. Non trattenerla peccando ed essa arriverà. Se vinci il male, la luce sorgerà prima del mattino. Purifica la tua anima chinandoti
dinnanzi a Dio come un umile supplicante. Con l'aiuto della Vera Croce, colpisci senza pietà i tuoi appetiti terreni. Inchiodati a essa con Gesù, con sette chiodi e sette colpi. Se lo fai, Cristo, nella Sua Maestà, uscirà a riceverti alla dolce porta. Che la tua pazienza sia colmata da questa orazione. Amen.' Non è bella?» «È... bellissima, padre Stephanos», mormorai. «Oh, vedo che vi ha emozionato!» esclamò il vecchio, felice. «Vado a cercare quegli opuscoli e ve ne do uno ciascuno!» E col suo passo lento e vacillante uscì dalla cripta. La tavola era, indiscutibilmente, molto antica. Il legno era annerito dal fumo dei ceri che, un tempo e per secoli, avevano brillato di fronte a essa. Le dimensioni erano pressappoco un metro in altezza e un metro e mezzo in larghezza, i caratteri erano greci onciali. Il testo era scritto con inchiostro nero, anche se la prima e l'ultima frase erano dipinte con una bordatura rossa. Sulla sommità, a mo' di scudo o di segno di identità, il Crismon dell'Imperatore, con la barra trasversale. Mio fratello intuì subito che avevamo trovato qualcosa di importante. Perciò impegnò Padre Murphy e Padre Chrisostomos in una banale conversazione, dando a me, a Farag e alla Roccia la possibilità di parlarne. «Questa tavola», osservò il capitano, «è ciò che siamo venuti a cercare a Gerusalemme.» «Il messaggio non potrebbe essere più chiaro», concordò Farag. «Dovremo studiarlo attentamente. Il contenuto è molto strano.» «Strano?» feci io. «Stranissimo! Ci consumeremo gli occhi a tentare di decifrarlo.» «E che cosa mi dite di Padre Stephanos?» chiese la Roccia. «Staurophylax», rispondemmo in coro Farag e io. «Sì, è chiaro.» Il Padre in questione riapparve con gli opuscoli in mano. «Recitate questa orazione ogni giorno», raccomandò, nel consegnarceli. «Scoprirete quanta bellezza possa nascondersi in queste parole. Non potete immaginare la devozione che può arrivare a ispirare, se si recita con pazienza.» Dentro di me sentii crescere un'ira assurda contro quel cinico Staurophylax. Scordandomi che fosse anziano e che potesse anche non essere membro della Confraternita, avevo una gran voglia di prenderlo per la tonaca e farlo smettere di ridere alle nostre spalle. Più volte avevamo rischiato di morire, per colpa del loro assurdo fanatismo. Ma in quel momento mi ricordai che la prova riguardava, non a caso, l'ira, perciò tentai di soffocare
la furia che, ne ero sicura, era alimentata dalla stanchezza fisica e mentale. Quasi mi venne da piangere quando compresi che il cammino iniziatico era stato meticolosamente calcolato da quei diabolici diaconi millenaristi. Come sonnambuli, uscimmo dalla cripta portando con noi l'affetto del vecchio sacerdote e la simpatia e la gratitudine di Padre Chrisostomos, cui avevamo promesso di inviare tutta la documentazione storica relativa alla costruzione della cripta. A quell'ora del pomeriggio, nella Basilica del Santo Sepolcro stavano ancora entrando ondate di turisti. Ci fu concesso un piccolo ufficio nel palazzo della Delegazione, perché potessimo lavorare sul testo dell'orazione. Il capitano richiese apparecchiature informatiche con accesso alla rete, mentre Farag e io chiedemmo vari dizionari di greco classico e greco bizantino, che ci furono portati dalla biblioteca della Scuola Biblica di Gerusalemme. Dopo una cena frugale, Glauser-Röist si mise davanti al computer e cominciò a digitare sulla tastiera. Per lui era come uno strumento musicale che doveva essere sempre accordato, o come un motore potente i cui pezzi dovevano essere sempre ben ingrassati. Mentre si intratteneva nelle sue esplorazioni informatiche, Farag e io aprimmo gli opuscoli sul tavolo e cominciammo a studiare l'orazione. La traduzione di Padre Stephanos poteva qualificarsi meritoria. La sua interpretazione del testo greco era inappuntabile dal punto di vista dello stile, anche se, grammaticalmente, lasciava un po' a desiderare. Tuttavia dovemmo riconoscere che l'anziano prete non avrebbe potuto fare di meglio, perché era evidente che l'autore non dominava perfettamente il greco: certi tempi verbali, anche tenendo conto di quanto fossero difficili i verbi in greco, erano errati, e alcune parole erano mal collocate all'interno delle frasi. Sarebbe stato logico pensare che chiunque avesse redatto quell'orazione avesse cercato con tutta la buona volontà di trasferire i propri pensieri in una lingua che non conosceva a sufficienza, spinto da qualche necessità sociale o religiosa. Ma sapendo, come sapevamo, che si trattava in realtà di un messaggio degli Staurophylakes, non potevamo trascurare quelle irregolarità. Per prima cosa notammo le frasi contenenti numeri, in parte perché erano assurde nel contesto e in parte perché di sicuro contenevano una chiave di qualche genere: Cristo vi nutrì, affamati, a gruppi di cento e di cinquanta. La sua parola benedetta non disse gruppi di novanta o di due.
E anche: Inchiodati a essa con Gesù, con sette chiodi e sette colpi. Il numero sette non poteva essere casuale, a questo punto ci era ben chiaro. Ma i numeri cento, cinquanta, novanta e due? Quella sera non riuscimmo a lavorare a lungo. Eravamo così stanchi da non poter tenere gli occhi aperti. Perciò ce ne andammo a dormire, convinti che qualche ora di sonno avrebbe fatto meraviglie per le nostre capacità intellettuali. Ma nemmeno il giorno dopo si riuscì a battere chiodo. Rivoltammo il testo da cima a fondo, lo analizzammo parola per parola e, con l'eccezione della prima e dell'ultima frase, quelle le cui lettere erano bordate di rosso, nulla nell'orazione ci pareva alludere in modo diretto alle prove degli Staurophylakes. Verso sera, tuttavia, arrivammo a una conclusione che, se possibile, ci confuse ancora di più le idee. Cristo vi nutrì, affamati, a gruppi di cento e di cinquanta non aveva altro senso se non in riferimento alla moltiplicazione dei pani e dei pesci, in cui l'evangelista Marco diceva testualmente che la folla si accomodò a gruppi di cento e di cinquanta.42 Insomma, eravamo nuovamente a mani vuote. Ben presto l'ufficio che ci era stato concesso cominciò a sembrarci piccolo. I libri di consultazione che arrivavano dalla Scuola Biblica, gli appunti, i dizionari, i fogli stampati da Internet erano bazzecole rispetto ai pannelli che cominciammo a utilizzare nel successivo fine settimana. Farag considerò che forse avremmo visto qualcosa, o visto di più, se avessimo lavorato su una gigantografia dell'orazione. Il capitano procedette alla scansione dell'immagine alla massima definizione, poi, come già avevamo fatto con la sagoma di Abi-Ruj Iyasus, la stampò su vari fogli, che disponemmo su un supporto di cartone. Collocammo la riproduzione su un tripode dalle gambe estensibili, che a stento riuscimmo a far stare nell'ufficio. Motivo per cui la domenica trasferimmo armi e bagagli in una stanza più spaziosa, nella quale disponevamo anche di una lavagna su cui traccia-
re schemi e confrontare testi. La domenica pomeriggio la disperazione cominciò ad affiorare. Abbandonai i miei sventurati compagni al loro destino e da sola me ne andai alla chiesa dei francescani, nella città vecchia. Mio fratello Pierantonio vi celebrava messa tutte le domeniche alle sei e, trovandomi lì, non potevo perdermi un evento così speciale (anche perché, se non l'avessi fatto, mia madre mi avrebbe ammazzata). Poiché la chiesa francescana era accanto alle mura della Basilica del Santo Sepolcro, una volta scesa dall'auto della Delegazione ripercorsi a piedi la stessa strada del primo giorno. Sentivo il bisogno di passeggiare con tranquillità, di ritrovare me stessa. E quale posto migliore della vecchia Gerusalemme? Mi sentivo una privilegiata, a ricevere gomitate e spintoni lungo la Via Dolorosa. Seguendo le indicazioni che Pierantonio mi aveva dato per telefono, trovai la chiesa dei francescani proprio dirimpetto all'ingresso della Basilica, per cui anziché raggiungere la piazza svoltai un paio di vie prima. Era curioso trovarsi a girare da sola per quelle stradine, in cerca della mia destinazione. Ascoltai la messa con devozione e ricevetti la comunione dalle mani di mio fratello. Al termine della celebrazione feci quattro passi in sua compagnia, raccontandogli per filo e per segno la storia dei furti dei Ligna Crucis e degli Staurophylakes. Stava scendendo la sera e Pierantonio si offrì di riaccompagnarmi alla Delegazione. Tornando sui nostri passi, vidi la Cupola della Roccia, la moschea di Al-Aqsa e molte altre cose. Per un po' ci trattenemmo nella piazza della Basilica del Santo Sepolcro, incuriositi da una piccola folla che scattava fotografie e riprendeva con videocamere la chiusura delle porte per quel giorno. «Incredibile. La gente si incuriosisce per ogni nonnulla», ironizzò mio fratello. «E tu, turista? Vuoi vedere anche tu?» «Molto gentile», risposi con sarcasmo. «Non ce n'è bisogno, grazie.» Ma, distrattamente, feci un passo in quella direzione. Era difficile resistere all'incanto di una serata nel cuore cristiano di Gerusalemme. «Nel frattempo, Ottavia, c'è una cosa di cui vorrei parlarti, ma non ne ho ancora trovato il tempo.» Come un'attrazione circense, un omuncolo in cima a un'alta scala appoggiata contro le porte si affannava a chiudere la solida serratura di ferro, illuminato dalle luci e dai flash delle macchine fotografiche. «Pierantonio, ti prego, non dirmi che hai altre storie torbide da raccontarmi.»
«No, questo non ha niente a che vedere con me. Riguarda Farag.» Mentre l'omuncolo cominciava a scendere la scala, mi voltai di scatto verso mio fratello. «Che cos'ha Farag?» «A dire il vero non ha niente di strano. Sei tu che sembri avere qualche problema.» Il mio cuore smise di battere. Sentii il sangue defluirmi dal viso. «Non so di che cosa tu stia parlando.» Dal gruppo di spettatori si levò qualche grido e un mormorio allarmato. Mio fratello si voltò a guardare; io rimasi dov'ero, paralizzata dalle sue parole. Avevo cercato di tenere a bada i miei sentimenti, avevo fatto tutto il possibile per non lasciarli trasparire, ma Pierantonio mi aveva scoperta. «Che cos'è successo, Padre Longman?» chiese mio fratello. Alzai lo sguardo da terra e vidi che si era rivolto a un altro frate francescano che si trovava vicino a noi. «Salve, Padre Salina», lo salutò l'interpellato. «Il Guardiano delle Chiavi è caduto dalla scala. Gli è scivolato un piede ed è finito a terra. Per fortuna era quasi all'ultimo scalino.» Ero così intorpidita dal dolore e dallo spavento che mi ci volle qualche secondo per reagire. Ma, grazie a Dio, il cervello riprese a funzionare e una voce dal subcosciente cominciò a ripetermi nella testa: Il Guardiano delle Chiavi, il Guardiano delle Chiavi... Con uno sforzo, uscii dalle nebbie mentre Pierantonio ringraziava il suo confratello. «L'uomo sulla scala è caduto. Be', dov'eravamo rimasti? Mi sono ripromesso di parlartene. Se non vado errato, sorellina, hai un problema molto serio.» «Che cosa ti ha detto esattamente quel frate?» «Non cercare di cambiare argomento, Ottavia», mi redarguì Pierantonio, molto serio. «Lascia perdere queste idiozie. Che cosa ti ha detto esattamente?» Mio fratello si mostrò sorpreso. «Che il portiere della Basilica è scivolato mentre scendeva dalla scala ed è caduto.» «No!» gridai. «Non lo ha chiamato portiere!» Una luce si accese all'improvviso nella mente e sul viso di Pierantonio. Aveva capito. «Il Guardiano delle Chiavi!» mormorò, dopo una breve esitazione. «Colui che ha le chiavi!» «Devo parlare con lui!» E senza dargli il tempo di rispondere mi feci largo tra la folla di turisti. Chiunque ricevesse l'appellativo di Guardiano delle Chiavi della Basilica del Santo Sepolcro di Gerusalemme doveva de-
cisamente avere a che fare con «colui che ha le chiavi: colui che apre e nessuno chiude, che chiude e nessuno apre». Se mi sbagliavo, per lo meno ci avevo provato. Quando arrivai al centro del capannello, l'omuncolo si era già rimesso in piedi e si stava ripulendo. Come molti altri arabi che mi era capitato di vedere in quei giorni, indossava una camicia senza cravatta, con il colletto aperto e le maniche ripiegate. Sul labbro superiore aveva un sottile paio di baffetti. Mostrava un'espressione di rabbia trattenuta. «È lei che chiamano Guardiano delle Chiavi?» gli chiesi timidamente in inglese. Lui mi guardò con indifferenza. «Mi sembra chiaro, signora», rispose con molta dignità, e subito dopo mi voltò le spalle per occuparsi della scala, ancora appoggiata al portale della Basilica. Sentii che stavo perdendo un'occasione unica, che non dovevo lasciarmelo scappare. «Mi ascolti», gridai, per attirare la sua attenzione. «Mi hanno detto di domandare a colui che ha le chiavi!» «Mi sembra giusto, signora», rispose senza voltarsi, dando per scontato che fossi una povera pazza. Batté su uno sportello dissimulato tra le decorazioni e questo si aprì. «Non capisce, signore», insistetti, spingendo da parte un paio di pellegrini che cercavano di filmare come la scala spariva dentro lo sportello. «Mi hanno detto di domandare a colui che apre e nessuno chiude, che chiude e nessuno apre.» L'uomo rimase immobile per qualche secondo, poi si voltò e mi guardò fisso, come un entomologo che studia un insetto. Non poté nascondere la sua sorpresa. «Una donna?» «Sono forse la prima?» «No», rispose, dopo averci pensato. «Ce ne sono state altre, ma non con me.» «Allora, possiamo parlare?» «Certamente», rispose, pizzicandosi i baffetti. «Mi aspetti qui tra mezz'ora. Se non le spiace, adesso devo finire.» Lasciai che continuasse il suo lavoro e tornai da Pierantonio, che mi aspettava impaziente. «Era lui?» «Sì. Mi ha dato appuntamento qui tra mezz'ora. Suppongo che voglia parlarmi senza nessuno intorno.» «Bene, allora facciamo due passi.»
Mezz'ora non era un tempo molto lungo, ma se mio fratello intendeva riprendere l'argomento di Farag poteva diventare un'eternità. Per perdere tempo, gli chiesi il cellulare e telefonai al capitano. La Roccia fu soddisfatto della scoperta del Guardiano delle Chiavi, ma al tempo stesso allarmato, perché né lui né Farag avrebbero potuto raggiungermi in mezz'ora, nemmeno se fossero usciti di corsa dalla Delegazione. Perciò enumerò una lunga serie di domande da porre al Guardiano delle Chiavi, che continuò a ripetere come un disco incantato, rammentandomi più volte che avrei dovuto fare e dire quello che mi aveva ordinato di fare e dire. La verità era che, dopo quattro giorni di ritardo, l'apparizione del Guardiano era una luce nelle tenebre. Ora potevamo sottoporci alla prova di Gerusalemme, qualunque essa fosse, e partire per Atene quanto prima. In questo modo, parlando con il capitano, feci passare l'intervallo di tempo senza che Pierantonio avesse modo di pormi domande compromettenti. Quando finalmente gli restituii il cellulare, sorrise. Eravamo di fronte alla sua chiesa. «Adesso penserai che non potremo più parlare del tuo amico Farag», disse, prendendomi sottobraccio e guidandomi verso un vicolo che sbucava sulla Via Dolorosa. «Esatto.» «Voglio solo aiutarti, piccola Ottavia. Se hai un problema, puoi contare su di me.» «Ho un problema serio», ammisi, a testa bassa. «Ma immagino che a tutti i religiosi capiti di attraversare una crisi come questa. Non siamo persone speciali, né siamo al riparo dai sentimenti umani. A te non è mai successo?» «Ecco...» mormorò, voltando la testa dall'altra parte. «Devo dire di sì. Ma è passato molto tempo e alla fine, grazie a Dio, la mia vocazione ha trionfato.» «In questo confido anch'io, Pierantonio.» Avrei voluto abbracciarlo, ma non eravamo a Palermo. «Confido in Dio e, se Egli vorrà che io risponda alla Sua chiamata, mi aiuterà.» «Pregherò per te, sorellina.» Raggiungemmo di nuovo la Piazza del Santo Sepolcro. Il Guardiano delle Chiavi mi aspettava davanti al portale, come aveva promesso. Mi avvicinai lentamente e mi fermai a pochi passi da lui. «Mi ripeta la frase, per favore», chiese gentilmente. «Mi hanno detto: 'Domanda a colui che ha le chiavi: colui che apre e nessuno chiude, che chiude e nessuno apre'.»
«Molto bene, signora. Allora ascolti con attenzione. Il messaggio che ho per lei è il seguente: 'La settima e la nona'.» «La settima e la nona?» ripetei, disorientata. «Quale settima e nona? Di che cosa sta parlando?» «Non lo so, signora.» «Non lo sa?» L'omuncolo si strinse nelle spalle. Faceva caldo, quella sera. «No, no, signora. Io non ne conosco il significato.» «E allora che cosa ha a che fare tutto questo con... con gli Staurophylakes?» «Con chi?» Inarcò le sopracciglia e si pettinò con il palmo della mano un ciuffo nero che gli ricadeva sulla fronte. «Mi scusi, ma io non ne so niente. Vede, mi chiamo Jacob Nusseiba, Mujì Jacob Nusseiba. Noi Nusseiba abbiamo l'incarico di aprire e chiudere le porte della Basilica tutti i giorni dall'anno 637, quando il califfo Omar ce lo affidò. Al suo arrivo a Gerusalemme, la mia famiglia era nel suo esercito. Per evitare conflitti con i cristiani, che erano divisi tra loro, il califfo ci consegnò le chiavi. Da allora, per tredici secoli, il figlio maggiore di ogni generazione dei Nusseiba è stato il Guardiano delle Chiavi. In qualche momento della storia, a questa lunga tradizione se n'è aggiunta un'altra, di carattere segreto. Al momento di passare la consegna delle chiavi al figlio, il padre gli dice: 'Quando ti chiedono se sei tu che hai le chiavi - colui che apre e nessuno chiude, che chiude e nessuno apre - devi rispondere: La settima e la nona'. Lo impariamo a memoria e lo ripetiamo da molti secoli quando qualcuno ce lo domanda, come ha fatto lei oggi.» La settima e la nona. Di nuovo il sette e il nove, i numeri di Dante. Ma a che cosa si potevano riferire, questa volta? «Desidera qualcos'altro, signora? Si è fatto tardi...» Feci un cenno del capo, più che altro per scuotere via i miei pensieri, e guardai il Mujì Nusseiba. Quell'omuncolo aveva un albero genealogico più antico di quello di molte case reali europee, eppure, dal suo aspetto, nessuno avrebbe detto che potesse essere qualcosa di più di un cameriere insignificante in un caffè. «È venuta molta altra gente come me, a farle questa domanda? Voglio dire...» «Ho capito, ho capito», si affrettò a dirmi, facendomi cenno di tacere con la mano. «Mio padre mi consegnò le chiavi dieci anni fa e da allora ho ripetuto la risposta diciannove volte. Con lei, venti.» «Venti!»
«Mio padre la ripeté a sessantasette persone. Credo che cinque fossero donne.» La Roccia mi aveva raccomandato di domandare anche di Abi-Ruj Iyasus, ma il Guardiano delle Chiavi non me ne diede la possibilità. «Mi spiace davvero, ma ora devo andare. Mi aspettano a casa ed è molto tardi. Spero di esserle stato d'aiuto. Che Allah la protegga.» Detto questo, si allontanò con passo rapido lasciandomi con ancora più interrogativi di prima. Un braccio incorporeo mi mise un cellulare davanti alla faccia. «Vuoi chiamare i tuoi compari?» mi chiese Pierantonio. «La settima e la nona?» fece il capitano, attraversando l'ufficio avanti e indietro a lunghe falcate. Sembrava un leone in gabbia. Era rinchiuso da quattro giorni a digitare sul computer le frasi dell'orazione, nella speranza di trovare una corrispondenza in qualche documento ovunque nel mondo, e l'unico risultato era stato perdersi l'incontro con il Guardiano delle Chiavi e, ascoltando l'enigmatica risposta di questi, anche la poca pazienza che gli restava. «Ne è sicura? Ha detto 'La settima e la nona'?» «Ne sono assolutamente sicura, capitano.» «La settima e la nona», ripeté Farag, pensoso. «La settima prova e la nona, che non esiste? La settima e la nona parola dell'orazione? La settima e la nona strofa della cornice degli iracondi? La settima e la nona di Beethoven? La settima e la nona di qualcosa che ignoriamo?» «Quali sono la settima e la nona strofa della cornice, in Dante?» «Ma non le ho già detto che nella quarta cornice non c'è niente di interessante, a parte il fumo?» muggì Glauser-Röist, senza smettere di passeggiare avanti e indietro. Farag prese dal tavolo la copia della Divina Commedia e si mise a cercare il Canto XVI del Purgatorio, sotto lo sguardo sprezzante del capitano. «Nessuno mi dà ascolto?» si lamentò questi. «La settima strofa del Canto XVI», disse Farag, «dal verso 19 al 21, dice: Pur Agnus Dei era la loro essordia; una parola in tutte era ed un modo, sì che parea tra esse ogne concordia.» «Di che cosa sta parlando Dante?» volli sapere. «Delle anime che si avvicinano a lui e a Virgilio. Non le possono vede-
re, perché accecati dal fumo, ma sanno che arrivano perché le sentono cantare l'Agnus Dei.» «L'Agnus Dei?» fece la Roccia. «Quello che recitiamo durante la messa allo spezzare del pane: 'Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi'.» «Gliel'avevo detto che queste strofe non c'entrano niente!» Farag abbassò nuovamente gli occhi sul libro. «La nona strofa dello stesso Canto, versi dal 25 al 27, dice: 'Or tu chi se' che Ί nostro fummo fendi, e di noi parli pur come se tue partissi ancor lo tempo per calende?'» «Le anime si sorprendono di trovare un vivo nella loro cornice», ne dedussi. «Niente di interessante.» «No, naturalmente», valutò Farag, rileggendo le strofe. Glauser-Röist sbuffò, impaziente. «Che cosa vi avevo detto? Qui l'unica cosa che importa è il fumo. E il fumo di questa maledetta orazione non ci lascia vedere niente.» «Che altre opzioni hai citato, Farag?» «Quali opzioni?» «Quando hai detto che potevano essere la settima e la nona strofa, hai parlato anche di altre possibilità.» «Ah, sì. Ho pensato alle prove, ma sono solo sette, quindi non vale. Escluderei anche le sinfonie di Beethoven, no? Be', potrebbero essere anche la settima e la nona parola dell'orazione di Padre Stephanos.» «Questa non mi dispiace», dichiarai, avvicinandomi alla fotografia a grandezza naturale. Dopo quattro giorni di intenso lavoro su quell'orazione, l'avevo imparata a memoria e non avevo bisogno di guardarla per sapere che cosa diceva: Tu che hai superato la superbia e l'invidia, supera ora l'ira mediante la pazienza. Come la pianta cresce impetuosa per volontà del Sole, implora Dio che la sua divina luce ricada dal cielo su di te. Dice Cristo: non aver paura alcuna, se non il timore dei peccati. Cristo vi nutrì, affamati, a gruppi di cento e di cinquanta. La sua parola benedetta non disse gruppi di novanta o di due. Confida dunque nella giustizia come gli ateniesi e non temere la tomba.
Abbi fede in Cristo come l'ebbe persino il malefico esattore. La tua anima, come gli uccelli, corre e vola verso Dio. Non trattenerla peccando ed essa arriverà. Se vinci il male, la luce sorgerà prima del mattino. Purifica la tua anima chinandoti dinnanzi a Dio come un umile supplicante. Con l'aiuto della Vera Croce, colpisci senza pietà i tuoi appetiti terreni. Inchiodati a essa con Gesù, con sette chiodi e sette colpi. Se lo fai, Cristo, nella Sua Maestà, uscirà a riceverti alla dolce porta. Che la tua pazienza sia colmata da questa orazione. Amen. Sospirai. Su una cosa non c'erano dubbi. Come aveva detto GlauserRöist, era una vera cortina di fumo. «Prendi il pennarello, Ottavia», mi chiese Farag, dalla sua sedia. «Mi sta venendo un'idea.» Mi affrettai a obbedirgli perché quando Farag aveva un'idea, di solito era una buona idea. Impugnai il grosso pennarello nero con la mano destra e restai immobile come un'alunna diligente, in attesa che il professore cominciasse a condividere la sua sapienza. «Orbene, supponiamo che ognuna delle due frasi scritte a due colori abbia di per sé un significato speciale.» «Questo lo abbiamo già discusso varie volte questa settimana», borbottò la Roccia. «'Tu che hai superato la superbia e l'invidia, supera ora l'ira mediante la pazienza.' Non c'è dubbio che questo primo enunciato abbia lo scopo di attirare l'attenzione. L'aspirante Staurophylax arriva alla cripta del Santo Sepolcro e proprio di fronte ai reliquiari trova la tavola con questa frase che lo avvisa che quanto segue riguarda la prova che dovrà superare.» «Quello che non capisco», mormorai, «è come gli aspiranti Staurophylakes che giungono a Gerusalemme possano sapere della cripta e avervi accesso.» «Da quanto tempo abbiamo cominciato le prove?» chiese la Roccia, smettendo di passeggiare e appoggiandosi allo schienale della sedia. «Da due settimane esatte», risposi. «Da domenica 14 maggio, quando ero a Palermo al funerale di mio padre e mio fratello, e lei e Farag mi avete chiamato al telefono. Oggi è domenica 28 maggio e sono trascorse esattamente due settimane.» «Due settimane, eh? Be', supponete che, invece di passare da una città all'altra in aereo e in elicottero, di disporre di computer e di Internet, e di
aver potuto contare sulle conoscenze vostre o di coloro che ci aiutano nelle varie città... supponete che uno solo di noi avesse dovuto viaggiare a piedi o a cavallo, e risolvere per proprio conto la questione di Santa Lucia o quella di Pitagora... Quanto tempo ci avrebbe impiegato?» «Non è la stessa cosa, Kaspar», puntualizzò il professore. «Pensi che quelle che per noi sono conoscenze di storia antica, per certe persone dal ΧII al XVIII secolo erano comune oggetto di studio. L'educazione era orientata alla completezza, a ottenere che una persona fosse nel contempo pittore, scultore, poeta, architetto, astronomo, musicista, matematico, atleta, giocoliere... tutto in una volta. Scienza e arte non erano separate come adesso. Ricordate Ildegarda di Bingen, Leon Battista Alberti, Trotula Ruggiero o Leonardo da Vinci. Qualsiasi aspirante Staurophylax del Medio Evo o del Rinascimento, come Dante Alighieri, studiava fin dall'infanzia ciò che noi invece dobbiamo recuperare dal baule dei ricordi. Dante era anche medico, lo sapeva?» «Be'», obiettai, «ma Abi-Ruj Iyasus, per considerare l'unico caso attuale di nostra conoscenza, non ha ricevuto l'educazione classica di cui parli. In realtà, non credo che abbia ricevuto alcuna educazione.» «Come fai a saperlo?» «Ecco, non lo so. Ma visto che l'Etiopia è un Paese in cui la gente muore di fame e metà della popolazione vive in campi profughi...» «Non devi fare questo errore, Ottavia», mi contraddisse Farag. «L'Etiopia è un Paese con una storia, una tradizione e una cultura invidiabili tanto dall'Europa quanto dall'America. Prima di trovarsi nella sua catastrofica situazione odierna, l'Etiopia, o Abissinia, è stata ricca, forte, potente e, soprattutto, colta, molto colta. È vero che le immagini che oggi si vedono in televisione ci fanno pensare a una terra miserabile dispersa in una remota area dell'Africa, ma non dimenticare che la regina di Saba era etiope e che la casa reale di quel Paese si considerava discendente dal re Salomone.» «La prego, professore!» lo interrupe la Roccia, in malomodo. «Non usciamo dal seminato! Vi ho fatto una semplice domanda e nessuno di voi mi ha risposto. Quanto tempo ci metterebbe uno solo di noi, senza poter contare su alcun aiuto?» «Probabilmente mesi», risposi. «Addirittura anni.» «A questo mi riferivo! Gli aspiranti Staurophylakes non hanno fretta. Passano da una città all'altra, da una prova all'altra, mettendoci tutto il tempo che vogliono. Studiano, domandano, utilizzano il cervello. Se arrivano a Gerusalemme, è logico che vi trascorrano vari mesi, fino a...»
«Fino a perdere la pazienza, perché di questo si tratta», notò Farag, sorridendo. «Esatto! Ma noi tutto questo tempo non lo abbiamo. In due settimane abbiamo superato l'Antipurgatorio e le prime due cornici.» «E con un po' di fortuna, Kaspar, se continuiamo a lavorare questa notte, in pochi giorni avremo risolto la prima parte della terza cornice.» Le parole di Farag suonarono come un richiamo. Risollevai il pennarello, mentre lui riprendeva: «Come stavo dicendo prima di questa gradevole chiacchierata, quando l'aspirante Staurophylax arriva alla cripta della Vera Croce, trova questa tavola su cui campeggiano il Crismon di Costantino e un paio di frasi in rosso che attirano la sua attenzione. La prima frase gli indica che, finalmente, si trova in prossimità della prova dell'ira e che per risolverla dovrà essere paziente. Molto paziente, dato che la pazienza è la virtù teologale opposta al peccato capitale dell'ira. E l'ultima frase, quella che dice: 'Che la tua pazienza sia colmata da questa orazione', lo avverte che la soluzione dev'essere ricercata nell'orazione stessa, perché essa soddisferà la sua ricerca. Di modo che, eliminando le due frasi in rosso, ci resta la parte in nero. E credo che sia qui che dobbiamo cercare 'la settima e la nona'.» «Dunque, la settima e la nona parola?» chiesi, voltandomi verso la gigantografia. «Proviamo, in mancanza di meglio.» Farag occhieggiò la Roccia, che non fece alcun movimento. «La settima parola del testo originale è hotan, 'quando'», dissi io, circondandola con un tratto ovale. «E la nona è helios, 'sole'.» «Hotan ho helios...» pronunciò Farag con soddisfazione. «'Quando il sole...' Credo che abbiamo indovinato, Basileia! Almeno ha senso.» «Non canti vittoria troppo presto», lo riprese il capitano. «Può essere stato un caso. E poi le parole non coincidono con quelle della traduzione.» «In nessuna traduzione l'ordine delle parole può mai coincidere, Kaspar. Nemmeno nella trasposizione letterale, che, in questa prima frase, sarebbe: 'Così come la pianta prospera impetuosa quando vuole il sole.'» «Be', supponendo che si tratti della settima e della nona parola di ogni frase», azzardai, per impedire che si perdessero in un'inutile discussione, «le seguenti sono katedi ed ek. 'Discendere' e 'da'.» «Ecco la prova, Kaspar! Hotan ho helios katedi ek... ovvero, 'quando il sole cala da'... È l'espressione greca per dire 'al tramonto'. Che ne dice?» Continuai a contare le parole, segnandole col pennarello, fino a ottenere il messaggio completo dal testo dell'orazione, che lessi testualmente per in-
tero: «'Quando il sole tramonta, da quello dei centonovantadue ateniesi tomba fino all'esattore. Corri e giungi prima del mattino. Come supplicante, batti i sette colpi alla porta'». «Ha senso!» gridò Farag. «Ah, sì?» lo prese in giro la Roccia. «Allora me lo spieghi, perché a me sfugge.» Farag scattò in piedi e mi venne a fianco. «'La sera, dalla tomba dei centonovantadue ateniesi fino all'esattore. Corri e giungi prima del mattino...'» «Perché metti i punti come nell'orazione?» chiesi. «Se li togli, la frase scorre meglio.» «Hai ragione. Vediamo: 'La sera...' hmmm... 'La sera corri dalla tomba dei centonovantadue ateniesi fino all'esattore e giungi prima del mattino. Come supplicante, batti sette colpi alla porta.' 'Battere alla porta', cioè 'bussare'.» «Credo che sia giusto», dissi. «La traduzione è correttissima.» «Ne è sicura dottoressa? Perché io questa storia del correre dai centonovantadue ateniesi fino all'esattore non la capisco. Se non le spiace che lo dica.» «Credo che faremmo bene a scendere a cenare e riprendere dopo», suggerì Farag. «Siamo sfiniti e sarà opportuno riprendere energie e schiarirci il cervello parlando d'altro. Non vi pare?» «Sono d'accordo», aderii, entusiasta. «Forza, capitano. È il momento di fare una pausa.» «Scendete voi», brontolò la Roccia. «Io ho delle cose da fare.» «Per esempio?» chiesi, recuperando la mia giacca dalla sedia. «Potrei risponderle che sono affari miei», ribatté lui. «Ma voglio indagare su quegli ateniesi e sull'esattore.» Mentre scendevamo le scale verso la sala da pranzo, non potei evitare di ripensare a quanto mio fratello aveva detto sul conto del capitano GlauserRöist. Fui sul punto di parlarne a Farag, ma ci ripensai. Era meglio se quel genere di informazioni non circolavano, o quantomeno non per causa mia. Per certe questioni preferivo essere il capolinea, piuttosto che una stazione di transito. Quando uscii dai miei pensieri, già seduta a tavola, mi accorsi che il professore mi stava contemplando con i suoi occhi turchesi. Non riuscii a so-
stenerne lo sguardo: lo schivai durante tutta la cena, come se potesse scottarmi, e cercai di mantenere normali la mia voce e il tono della conversazione. Devo riconoscere che, nonostante tutti i miei sforzi, quella sera trovai Farag... molto bello. Ecco, l'ho detto. Molto attraente. Non so se fosse per come i capelli gli ricadevano sulla fronte, o per i suoi gesti, o per il suo sorriso... ma era bellissimo. Di ritorno all'ufficio dove ci attendeva il simpatico Glauser-Röist, cui Farag portò un piatto con qualcosa da mangiare, sentii le gambe venir meno e provai il desiderio di fuggire, tornare a casa, scappare e non rivederlo mai più. Chiusi gli occhi in un disperato tentativo di rifugiarmi in Dio, ma non ci riuscii. «Stai bene, Basileia?» «Vorrei concludere una buona volta questa avventura e tornare a Roma!» esclamai con tutta l'anima. «Perbacco!» La sua voce era triste. «Questa è l'ultima risposta che mi aspettavo.» Quando rientrammo in ufficio, trovammo il capitano che batteva rapidamente istruzioni al computer. «Com'è andata, Kaspar?» «Qualcosa ho trovato...» bofonchiò, senza staccare gli occhi dal monitor. «Guardate questi fogli. Ne sarete entusiasti.» Presi il cumulo di fogli dal vassoio di uscita della stampante e cominciai a leggerne i titoli: Il tumulo di Maratona, Il percorso originale di Maratona, La corsa di Filippide, La città di Pikermi e, con mia sorpresa, due pagine in greco, Timbos Maratonos e Maratonas. «Che cosa significa tutto questo?» domandai, allarmata. «Significa che dovrà correre la maratona in Grecia, dottoressa.» «Quarantadue chilometri di corsa?» Il tono della mia voce non poteva suonare più acuto di così. «In realtà, no.» La Roccia corrugò la fronte e strinse le labbra. «Sono solo trentanove. Ho scoperto che la corsa odierna non corrisponde a quella fatta da Filippide dell'anno 490 avanti Cristo per annunciare agli ateniesi la vittoria sui persiani nelle pianure di Maratona. Secondo quanto spiega il Comitato Olimpico Internazionale nella sua pagina web, il tragitto moderno di quarantadue chilometri fu stabilito nel 1908, in occasione delle Olimpiadi di Londra, e corrisponde alla distanza tra il Castello di Windsor e lo stadio di White City, a ovest della città, dove si tennero i Giochi. Tra il villaggio di Maratona e la città di Atene ci sono solo trentanove chilometri.»
«Non vorrei guastare la festa», cominciò Farag, riprendendo l'accento arabo che aveva quasi perso nelle ultime settimane, «ma credo che quel tale Filippide sia morto subito dopo avere comunicato la buona notizia.» «Sì, ma non per la corsa, professore. Per le ferite riportate in battaglia. A quanto pare, Filippide aveva percorso diverse volte la distanza di centosessantasei chilometri tra Sparta e Atene per portare messaggi da una città all'altra.» «Sì, ma... che cosa c'entra tutto questo con i centonovantadue ateniesi?» Mentre consultava le nuove pagine che uscivano dalla stampante, la Roccia spiegò: «A Maratona ci sono due tombe gigantesche. Sembra che in questi tumuli si trovino i cadaveri di coloro che morirono nella famosa battaglia: seimilaquattrocento persiani da un lato e centonovantadue ateniesi dall'altro. Queste almeno sono le cifre secondo Erodoto. Stando all'orazione, dobbiamo partire al tramonto dal tumulo degli ateniesi e giungere prima del mattino ad Atene. Ancora non mi è chiara la destinazione precisa ad Atene: l'esattore». «Sarebbe a dire che la soluzione della prova di Gerusalemme è la pista della prova di Atene.» «Esatto, dottoressa. Per questo Dante fonde i due gironi a metà del Canto XVII.» «E non ci mettono il marchio della croce?» «Non si preoccupi, lo faranno.» «Allora, dobbiamo correre in Grecia», rise Farag. «Appena avremo risolto la questione dell'esattore.» «Ha provato a cercare la parole in greco, Kaspar?» «No, la tastiera del computer non me lo permette. Dovrei scaricare qualche aggiornamento del navigatore che mi permetta di effettuare ricerche anche in altri alfabeti.» Glauser-Röist si dedicò proprio a questo rosicchiando la cena che gli avevamo portato. Nel frattempo Farag e io leggevamo le pagine stampate sulla corsa di Maratona. Io, che non avevo mai praticato alcun esercizio fisico, che conducevo la vita più sedentaria del mondo e che non mi ero mai sentita attratta dallo sport, mi trovavo ora a studiare i dettagli della storica corsa che presto avrei dovuto affrontare. Ma se non so nemmeno come si fa a correre! mi ripetevo, angustiata. Stupidi Staurophylakes! Come pretendevano che percorressi trentanove chilometri di notte, al buio? Credevano che tutti potessero diventare degli Abebe Bikila?43 Con tutta probabilità sarei morta, abbandonata su una collina solitaria, sotto la luce fredda della
luna, con l'unica compagnia di animali selvatici e pericolosi. E tutto questo perché? Per avere un'altra bella scarificazione sulla pelle? Finalmente il capitano annunciò che il computer era pronto perché si inserisse il testo greco nei motori di ricerca di Internet compatibili. Presi il suo posto davanti alla tastiera. Non era facile, perché le lettere latine che premevo sui tasti non corrispondevano esattamente alle lettere greche virtuali che apparivano sullo schermo, ma in poco tempo riuscii a scoprire i trucchi e potei cavarmela facilmente. Non avevo la minima idea di che cosa stessi facendo, per cui, dopo che ebbi digitato la parola kapnikareias, il capitano mi fece alzare. Ma siccome aveva bisogno di me per decifrare i testi in greco che apparivano sul monitor, tornai poco dopo a occupare il suo posto, in una specie di gioco delle sedie. Poiché il greco classico e il greco bizantino presentano notevoli differenze rispetto al greco moderno, c'erano molte parole, o intere costruzioni, che non ero in grado di comprendere, per cui chiesi aiuto a Farag. Insieme cercammo di tradurre quello che appariva sul monitor. Verso mezzanotte, un motore di ricerca greco ci fornì una pista che risultò fondamentale: una breve nota a piè di pagina (virtuale) ci comunicò che non erano stati trovati altri riferimenti oltre a quelli mostrati, ma che era possibile consultare altre dodici pagine analoghe. Tra queste ce n'era una riguardante una splendida chiesa bizantina situata nel cuore di Atene e chiamata Kapnikarea. La pagina spiegava che la chiesa Kapnikarea era conosciuta come la Chiesa della Principessa, perché la sua fondazione era attribuita all'imperatrice Irene, sovrana di Bisanzio tra il 797 e Γ802 dopo Cristo. In realtà, il vero fondatore era un ricco esattore delle imposte, che aveva deciso di dare alla chiesa il nome della sua lucrosa professione: kapnikareas, ovvero «esattore». Ora conoscevamo punto di partenza e traguardo. Ci mancava solo di andare in Grecia, nella bella città di Atene, culla del pensiero umano. Ma a questo provvedemmo il giorno seguente, dopo che Glauser-Röist ebbe trascorso l'intera notte al telefono, dando istruzioni, chiedendo informazioni e organizzando i prossimi giorni delle nostre vite con l'aiuto del Santo Sinodo della Chiesa di Grecia. Abbandonavamo definitivamente i territori latini e cattolici per entrare nel cuore del mondo cristiano d'Oriente. Se tutto andava come speravamo, dopo Atene, in cui avremmo dovuto superare la prova dell'accidia, ci sarebbero toccate l'avara Costantinopoli, la ghiotta Alessandria e la lussuriosa Antiochia. Il volo da Tel Aviv all'aeroporto Hellinikon di Atene a bordo del piccolo
Westwind dell'Alitalia durò solo tre ore, durante le quali ci preparammo alacremente alla quarta cornice del Purgatorio, che già si trovava a metà strada dalla vetta. Dante Alighieri, liberato di una nuova Ρ dal terzo angelo, cammina libero dal peso dell'ira e si sente molto più leggero, con una gran voglia di fare domande alla sua guida. Come nella cornice precedente, il contenuto concretamente riferito alla prova era minimo, dal momento che metà del Canto XVII e tutto il Canto XVIII erano dedicati a dirimere gravi questioni relative all'amore. Virgilio spiega a Dante che le tre grandi cornici per cui sono già passati, ovvero superbia, invidia e ira, sono i luoghi in cui si purgano i peccatori che vogliono il male del prossimo e godono dell'umiliazione e del dolore altrui. Al contrario, nei tre gironi che ancora restano sopra di loro, nelle tre più piccole cornici superiori, ovvero avarizia, gola e lussuria, si purgano i peccatori che danneggiano solo loro stessi. «Dolce mio padre, dì, quale offensione sì purga qui nel giro dove semo? Se i piè si stanno, non stea tuo sermone.» Ed elli a me: «L'amor del bene, scemo del suo dover, quiritta si ristora; qui si ribatte il mal tardato remo [...]»44 Dopo di che, vagando per la cornice, Dante e Virgilio si lanciano in una discussione sulla natura dell'amore e i suoi effetti positivi e negativi sugli uomini. Solo dopo ben quarantacinque terzine, quando Virgilio ha affrontato l'argomento del libero arbitrio dell'essere umano, appare la turba dei penitenti accidiosi: per ch'io, che la ragione aperta e piana sovra le mie questioni avea ricolta, stava com'om che sonnolento vana. Ma questa sonnolenza mi fu tolta subitamente da gente che dopo le nostre spalle a noi era già volta...45 [...] Tosto fur sovra noi, perché correndo
si movea tutta quella turba magna; e due dinanzi gridavan piangendo: «Maria corse con fretta alla montagna46 e Cesare, per soggiogare Ilerda, punse Marsilia e poi corse in Ispagna». «Ratto, ratto, che 'l tempo non si perda per poco amor» gridavan li altri appresso; «che studio di ben far grazia rinverda.»47 Come sempre, il maestro Virgilio domanda alle anime dove si trovi il passaggio alla cornice seguente e una di esse, che passa di corsa senza trattenersi, li invita a seguirlo fino a trovarlo. Ma i poeti restano dove sono, contemplando inquieti come gli spiriti che furono pigri in vita ora si perdano in lontananza, veloci come il vento. Dante, sfiancato dalla camminata durata tutto il giorno, si addormenta profondamente, pensando a ciò che ha visto. Il suo sonno fa da transizione tra i due Canti e i due gironi, ponendo termine alla quarta cornice. All'aeroporto Hellinikon, dove atterrammo verso mezzogiorno, ci aspettava l'automobile ufficiale di Sua Beatitudine l'Arcivescovo di Atene, Christodoulos Paraskeviades, che ci lasciò sulla porta dell'Hotel Grande Bretagne, sulla Plateia Syntagmatos, proprio accanto al Parlamento greco. Il viaggio dall'aeroporto era stato lungo e l'ingresso nella città sorprendente. Atene era un vecchio villaggio di grandi dimensioni che non voleva svelare la propria condizione di capitale storica ed europea, fin quando non si giungeva nel profondo del suo cuore. Solo allora, con il Partenone che salutava il viaggiatore dall'alto dell'Acropoli, si prendeva coscienza che quella era la città della dea Atena, quella di Pericle, Socrate, Platone e Fidia, quella amata dall'imperatore romano Adriano e dal poeta inglese lord Byron. Persino l'aria sembrava diversa, carica di aromi inimmaginabili: aromi di storia, bellezza e cultura, che nascondevano ciò che di sfatto e decadente potesse esserci ad Atene. Un usciere in livrea verde e berretto piatto ci aprì gentilmente le portiere e si occupò dei nostri bagagli. L'hotel era antico e spettacolare, con un'enorme reception dai marmi colorati e dai lampadari d'argento. Fummo accolti dal direttore in persona che, neanche fossimo capi di Stato, ci accompagnò con deferenza a una sala riunioni al primo piano, sulla cui porta ci
attendeva un nutrito gruppo di alti prelati ortodossi dalle lunghe barbe e dagli impressionanti medaglioni pendenti sul petto. All'interno, comodamente seduto in un angolo, ci aspettava Sua Beatitudine Christodoulos. L'aspetto giovanile e la buona forma dell'Arcivescovo mi sorpresero: portava molto bene la sua età, che doveva superare i sessant'anni. La sua barba era ancora piuttosto scura e il suo sguardo simpatico e affabile. Quando ci vide, si alzò in piedi e ci si avvicinò con un grande sorriso: «Sono lietissimo di accogliervi in Grecia!» ci salutò, in un italiano correttissimo. «Voglio che sappiate quanto vi siamo grati per ciò che state facendo a favore delle Chiese cristiane.» L'Arcivescovo, saltando a piè pari il protocollo, ci introdusse personalmente gli altri presenti, una folta rappresentanza del Sinodo della Chiesa di Grecia (e qui mi resi conto della mia ignoranza, incapace com'ero di distinguere in base a vestiti e medaglioni i differenti ranghi della Chiesa Ortodossa): Sua Eminenza il Metropolita di Staoi e Meteora, Serapheim (per gli alti prelati non era usanza, a quanto pareva, menzionare il cognome); il Metropolita di Kaisariani, Vyron e Ymittos, Daniel; il Metropolita di Mesogaia e Lavreotiki, Agathonikos; le Loro Eminenze i Metropoliti di Megara e Salamis, di Chalkis, di Thessaliotis e Fanariofarsala, di Mitilene, Eressos e Plomarion... Una lunga lista di venerabili Metropoliti, Archimandriti e Vescovi dai nomi maestosi. Se la riunione al nostro arrivo a Gerusalemme mi era sembrata il prodotto esagerato della curiosità dei Patriarchi, quella nella sala del Grande Bretagne mi appariva ancor più sproporzionata. Senza volerlo, eravamo diventati eroi. Tra i presenti c'era grande curiosità riguardo alla nostra missione. Nonostante la nostra iniziale reticenza, il capitano Glauser-Röist dovette cedere alle pressioni e raccontare le rischiose avventure che avevamo vissuto fino a quel momento, omettendo tuttavia alcuni importanti dettagli relativi alla Confraternita degli Staurophylakes. Non ci fidavamo di nessuno e non era da escludere che in quell'augusto consesso potesse esserci qualche infiltrato della setta. Il capitano omise inoltre, benché più volte sollecitato, di spiegare la natura della prova che avremmo dovuto affrontare in Grecia quella notte stessa. In aereo, durante il viaggio, ci eravamo trovati concordi sulla necessità di mantenere il segreto: anche l'innocente intromissione di qualche curioso avrebbe potuto compromettere il raggiungimento dell'obiettivo. L'unico a esserne al corrente era Sua Beatitudine Christodoulos, assieme a qualche altro membro del Sinodo a lui vicino. Ma nessun altro doveva sapere che quella sera tre insoliti corridori, almeno due dei quali
con un fisico più da bibliotecario che da atleta, avrebbero versato sudore sulla terra dell'Attica per guadagnarsi il diritto di continuare a rischiare la vita. Fummo invitati a un pranzo magnifico in un salone riservato dell'hotel. Felice come una bambina, apprezzai la taramosalata, purea salata di patate e uova di pesce; la mousaka, sorta di lasagne di melanzane, patate e carne piccante con besciamella e formaggio gratinato; la souvlakia con tzatziki, spezzatino di maiale arrosto insaporito con limone, erbe mediterranee, olio di oliva e accompagnato dalla famosa salsa di yogurt, cetriolo, aglio e menta; e dell'originale kleftico, carne di capra avvolta in una pastella di farina e acqua. Una menzione a parte meritava il pane greco, incomparabile, fatto con uva passa, erbette, verdure, olive o formaggi. E, come dessert, un po' di freska frouta. Si poteva chiedere di più? Non c'è cucina migliore di quella mediterranea e Farag lo dimostrò, mangiando per tre. Quando finalmente fummo liberi dai protocolli e i popi barbuti se ne furono andati, dovemmo rimetterci al lavoro senza indugi, perché ci restava ancora molto da fare. Sua Beatitudine Christodoulos volle trascorrere con noi tutto il pomeriggio e assistere ai preparativi della prova e della corsa. Contrariamente a quanto si poteva pensare, la presenza dell'illustre personaggio non ci risultò di disturbo, anzi l'opposto. Spariti i membri del Sinodo e i Vescovi dell'Arcidiocesi, Sua Beatitudine si rivelò un uomo dallo spirito gioviale, giovanile e sportivo, che superava quello di Farag, del capitano e il mio messi insieme. «Devo prepararmi ai Giochi Olimpici del 2004», non cessava di ripetere Sua Beatitudine, affascinato dall'idea che, dopo Sydney, Atene fosse stata scelta come nuova sede delle Olimpiadi. Ci raccontò che i primi Giochi dell'era moderna si erano tenuti in Grecia nell'aprile del 1896, trascorsi millecinquecento anni dall'edizione precedente. Il vincitore della gara di maratona era stato un pastore greco di ventitré anni, alto appena un metro e sessanta, di nome Spyros Louis. Spyros, da allora considerato un eroe nazionale, aveva percorso la distanza che separava Maratona dallo stadio olimpico di Atene in due ore, otto minuti e cinquanta secondi. «Ma era un corridore professionista?» domandai, interessata. Ero intimamente convinta che non sarei riuscita a superare quella prova. Non si trattava di dubbi o insicurezza. Semplicemente, sapevo che non avrei mai potuto percorrere trentanove chilometri, era empiricamente e cartesianamente impossibile. «Oh, no!» rispose Sua Beatitudine con un sorriso orgoglioso. «Spyros
partecipò alla corsa per puro caso. All'epoca era un soldato dell'esercito greco e il suo colonnello lo incoraggiò a partecipare all'ultimo momento. Sì, è chiaro che doveva essere un buon corridore, ma non aveva ricevuto alcun allenamento o preparazione particolare: lo fece per semplice patriottismo, perché tra i partecipanti alla più importate delle corse greche ci fosse un rappresentante del nostro Paese. Non potevamo consentire che fosse uno straniero a vincere!» Per la sua impresa, Spyros non ricevette alcuna medaglia d'oro, perché tale riconoscimento ancora non era in uso in quella prima edizione dei Giochi Olimpici. Tuttavia gli furono garantiti una pensione mensile di cento dracme per il resto della vita e, dietro sua richiesta, un cavallo e un carretto per lavorare nei campi. «Ma volete sapere la più bella di tutte?» aggiunse orgoglioso Sua Beatitudine. «Quarant'anni dopo fu il portabandiera della delegazione greca alla cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici di Berlino del 1936 e mise una corona d'alloro, simbolo della pace, nelle mani di Adolf Hitler.» «Be', ma non era un atleta, vero?» «No, Sorella. Non era un atleta.» «Allora, se non era un atleta e ci mise quasi tre ore a percorrere i trentanove chilometri della corsa, quanto ci potremo impiegare noi?» domandai, guardando il capitano. «Non è facile da stabilire, dottoressa.» La Roccia aprì un taccuino delle dimensioni di un portafogli e ne sfogliò le pagine fino a trovare ciò che cercava. «Oggi è il 29 maggio e, secondo i dati forniti dall'Arcidiocesi, il sole tramonterà ad Atene alle ore 20,56. Domani, 30 maggio, il sole sorgerà alle ore 6,02. Pertanto abbiamo a disposizione nove ore e sei minuti per completare la prova.» «Ah, allora sì!» esclamò Farag, pieno di entusiasmo. La sua animazione era tale che ci voltammo tutti a guardarlo. «Che c'è?» fece lui. «Era solo che credevo che non sarei riuscito a superare questa prova.» Come me, aveva tenuto segreti i suoi timori, fino a quel momento. «Io sono sicura che non ce la farò.» «Oh, andiamo, Ottavia! Abbiamo più di nove ore!» «E allora? Io non ce la faccio a correre per nove ore. A dire il vero, non credo di farcela neanche per nove minuti.» La Roccia continuò a sfogliare il taccuino. «La media maschile dei tempi della maratona è di poco inferiore alle due ore e sette minuti, quella femminile supera le due ore e venti.»
«Non ce la farò!» ripetei, ostinata. «Lo sapete quanto ho corso negli ultimi anni? Niente! Neppure un minuto! Nemmeno per prendere l'autobus!» «Vi darò alcune indicazioni da seguire stanotte», riprese Glauser-Röist, sordo ai miei lamenti. «In primo luogo, evitare gli eccessi. Non vi lanciate a gran carriera come se doveste vincere la maratona. Correte senza fretta, con regolarità, economizzando i movimenti. Falcate brevi e uniformi, ridotta oscillazione delle braccia, respirazione regolare... Quando dovete salire una collina, fatelo senza sforzo, a piccoli passi. Quando dovete scenderla, fatelo in velocità, ma controllando il ritmo, che dovrà essere costante per tutto il percorso. Non alzate troppo le ginocchia e non chinatevi in avanti. Mantenete il corpo ad angolo retto rispetto al terreno.» «Ma di che cosa sta parlando?» bofonchiai. «Sto parlando di arrivare a Kapnikarea, ricorda, dottoressa? O preferisce tornare a Roma domani mattina stessa?» «Sapete che cosa fece Spyros Louis al chilometro trenta?» Sua Beatitudine Christodoulos non aveva voglia di assistere alle nostre dispute. «Dal momento che si sentiva molto stanco, ordinò un grosso bicchiere di vino rosso e se lo bevve in un sorso. Poi diede inizio a una rimonta spettacolare che lo fece volare per gli ultimi nove chilometri.» Farag scoppiò a ridere. «Be', adesso sappiamo che cosa fare quando saremo estenuati! Bere un buon bicchiere di vino.» «Non credo che oggi i giudici di gara lo permetterebbero», obiettai, ancora arrabbiata con Glauser-Röist. «Come no? I corridori possono bere qualunque cosa, a patto di non risultare positivi all'esame antidoping.» «Noi consumeremo bevande isotoniche», annunciò la Roccia. «Soprattutto la dottoressa Salina, per recuperare ioni e sali minerali. In caso contrario, soffrirà di gravi crampi alle gambe.» Tenni la bocca chiusa. Preferivo mille volte il suolo in fiamme di Santa Lucia a quella dannata prova fisica alla quale non ero preparata. Il capitano aprì una borsa di pelle appoggiata sul tavolo e ne prese tre misteriose scatolette. In quel momento una pendola, da qualche parte, batté le sette di sera. «Mettetevi questi pulsometri», ordinò, mostrando a me e a Farag due strani orologi. «Quanti anni ha, professore?» «Questa è buona, Kaspar! Perché me lo chiede?» «Occorre programmare i pulsometri perché controllino le vostre frequenze cardiache durante la corsa. Se i battiti eccedono, rischiate un collasso o, peggio, un attacco di cuore.»
«Io non ho intenzione di eccedere», dichiarai, indispettita. «Professore, mi dica la sua età, per favore», insistette la Roccia, manipolando uno dei pulsometri. «Trentotto anni.» «Molto bene. Allora bisognerà sottrarre trentotto da duecentoventi pulsazioni massime.» «E questo?» domandò Sua Beatitudine Christodoulos, curioso. «Le pulsazioni idonee per un uomo si calcolano sottraendo la sua età alla frequenza cardiaca massima, che è di duecentoventi pulsazioni al minuto. Quindi il professore potrà raggiungere una frequenza cardiaca teorica di centottantadue pulsazioni. Se superasse questo numero durante la corsa, potrebbe essere a rischio. Se ciò dovesse avvenire, il pulsometro emetterà un segnale. D'accordo, professore?» «D'accordo», disse Farag, mettendo al polso l'apparecchio. «Mi dica la sua età, dottoressa, per favore.» Stavo aspettando quel terribile momento. Non mi importava che la sapessero Sua Beatitudine o la Roccia, ma mi disturbava oltremisura che Farag scoprisse che avevo un anno più di lui. In ogni caso, non c'era via d'uscita. «Ho trentanove anni.» «Perfetto», disse Glauser-Röist, imperturbabile. «Le donne hanno una frequenza cardiaca massima superiore agli uomini e ammettono sforzi maggiori. Nel suo caso, sottraendo trentanove da duecentoventisei, il suo massimo teorico sono centottantasette pulsazioni, dottoressa. D'altra parte, visto che lei conduce una vita molto sedentaria, lo programmerò al sessanta per cento, vale a dire centododici. Ecco il suo pulsometro. Ricordi: se l'apparecchio emette un fischio, dovrà immediatamente rallentare il passo e tranquillizzarsi. D'accordo?» «Senz'altro.» «Questi calcoli sono approssimativi. Ogni persona è diversa dalle altre. I limiti possono variare in base alla costituzione e alla preparazione fisica. Quindi non fidatevi solo del pulsometro. Al minimo segnale d'allarme dal vostro corpo, rallentate e riposate. Bene, e ora preoccupiamoci delle possibili lesioni.» «Non potremmo saltarla, questa parte?» chiesi, annoiata. Era chiaro che non intendevo lesionarmi, né far suonare il pulsometro. Mi sarei limitata a mantenere un passo tranquillo, il più tranquillo possibile, fino ad arrivare ad Atene. «No, dottoressa. Non possiamo saltarla. È importante. Prima di comin-
ciare, faremo alcuni esercizi di riscaldamento e stretching. La mancanza di massa muscolare nelle persone sedentarie è la causa principale di lesioni a caviglie e ginocchia. In ogni caso, per nostra fortuna, tutto il percorso è su strade asfaltate.» «Ah, sì?» lo interruppi. «Credevo che la corsa fosse attraverso i campi.» «Scommetto il mio pulsometro che ti vedevi già morente su una collina, in mezzo alla vegetazione e circondata da animali selvatici», commentò Farag, senza trattenere le risate. «Ebbene sì, non mi vergogno a dirlo.» «Tutto il tragitto è su strada, dottoressa. Inoltre, non corriamo il rischio di perderci, perché da molti anni il governo greco ha fatto dipingere una striscia blu commemorativa lungo i trentanove chilometri. E, per maggiore sicurezza, attraverseremo alcuni villaggi e qualche città, come avrà modo di vedere. Quindi non lasceremo la civiltà nemmeno per un momento.» L'eventualità di perdermi nei boschi era definitivamente eliminata. «Se in qualche momento doveste avvertire un forte dolore muscolare, così forte da lasciarvi senza fiato, fermatevi. Vorrà dire che per voi la prova si è conclusa: con buona probabilità si tratterebbe di uno strappo muscolare, e se proseguiste la corsa i danni potrebbero diventare molto seri. Se avvertite invece un dolore normale, ancorché intenso, palpate il muscolo sofferente: se lo sentite duro come un sasso, fermatevi a riposare, praticate un massaggio nella direzione del muscolo e, quando possibile, qualche lieve stiramento. Se la tensione diminuisce, riprendete la corsa. In caso contrario, fermatevi, perché non potete proseguire. E adesso, per favore», si alzò in piedi con fare deciso, «cambiatevi e andiamo. Mangeremo qualcosa per strada. Si sta facendo tardi.» Trovai nella mia stanza una strampalata tuta sportiva. Non era più strana o variopinta di quelle di uso corrente, ma quando la indossai mi sentii così ridicola che mi venne voglia di sprofondare sottoterra. Devo riconoscere tuttavia che, quando mi tolsi le scarpe e indossai quelle bianche da ginnastica, la situazione migliorò. E ancora di più quando infilai un discreto foulard di seta sotto il colletto della felpa. Così l'insieme sembrava meno patetico e, questo sì, risultava comodo. Negli ultimi mesi non avevo avuto tempo di andare dal parrucchiere e i capelli erano cresciuti abbastanza da poterli raccogliere con un elastico che, per quanto stravagante, evitava che i ciuffi cadessero sulla fronte. Indossai un lungo maglione di lana, più per camuffarmi che per coprirmi, e scesi alla reception dove mi stavano aspettando i miei compagni, il portiere in livrea verde e l'autista dell'Arcivesco-
vado. Il viaggio verso Maratona fu punteggiato da consigli e raccomandazioni dell'ultima ora. Dedussi che il capitano non aveva alcuna intenzione di fermarsi ad aspettare me e Farag e, fino a un certo punto, mi sembrava saggio. L'idea era che almeno uno di noi riuscisse ad arrivare a Kapnikarea prima dell'alba. Nel caso che né Farag né io avessimo guadagnato le nostre scarificazioni, avremmo potuto continuare a collaborare dall'esterno con la Roccia per le cornici seguenti. Le strade greche sembravano tutte sentieri di campagna. Il traffico non era eccessivo e tanto la larghezza quanto la qualità del fondo stradale erano inferiori, rispetto all'Italia. Viaggiando sull'auto dell'Arcidiocesi si aveva l'impressione di retrocedere nel tempo di dieci o quindici anni. Con tutto questo, la Grecia continuava a essere un Paese meraviglioso. La notte era alle porte quando attraversammo le prime strade di Maratona. Situata in una valle circondata da colline, su un terreno pianeggiante e spazioso, sembrava il luogo ideale per una battaglia dei tempi antichi. Per il resto, non si distingueva da qualsiasi laboriosa cittadina industriale dell'Europa odierna. L'autista ci raccontò che, in alta stagione, Maratona era invasa dai turisti e, in particolare, dagli sportivi che desideravano misurarsi con lo storico percorso. A fine maggio, in ogni caso, non si vedeva nessuno all'infuori della popolazione locale. L'automobile si fermò accanto al marciapiede di una strana zona fuori città, nei pressi di una collinetta verdeggiante e fiorita. Scendemmo dal veicolo con gli occhi fissi sul tumulo, coscienti di trovarci sul luogo di uno degli scontri più importanti e dimenticati della storia. Se i persiani avessero vinto la battaglia, avrebbero imposto cultura, religione e politica ai greci e oggi nulla del mondo che conosciamo sarebbe esistito. Tutto sarebbe differente, né migliore né peggiore, solo completamente diverso. Sotto quel tumulo, secondo Erodoto, si trovavano i centonovantadue ateniesi morti affinché tutto questo fosse possibile. L'autista si congedò e si allontanò rapidamente, lasciandoci soli. Il tempo era splendido e io avevo lasciato in macchina il maglione. «Quanto manca, Kaspar?» domandò Farag, che indossava una strana maglietta bianca dalle maniche lunghe e pantaloni sportivi corti azzurro chiaro. Ognuno di noi aveva in spalla uno zaino di tela con tutto l'occorrente. «Sono le otto e trenta. È quasi buio. Facciamo un giro della collina.» Il capitano era tra noi quello che aveva l'aspetto migliore, con una tuta rossa
e la sua aria da atleta. Il tumulo era più grande di quanto sembrasse a prima vista. Persino la Roccia pareva una formica, in confronto. Il luogo era così solitario che sobbalzammo quando dall'altra parte della collina risuonò una voce che parlava in uno stretto greco moderno. «Che diavolo è stato?» fece Glauser-Röist. «Andiamo a vedere», proposi, incamminandomi. Seduti su una panca di pietra, a godersi il clima e gli ultimi raggi del sole, un gruppo di anziani con cappelli neri e bastoni nodosi ci osservavano con un certo divertimento. Non si capiva niente di quello che dicevano, ma forse non era nelle loro intenzioni rendersi incomprensibili. Anche se, abituati ai turisti, dovevano ridere parecchio alle spalle di quelli che, come noi, si presentavano travestiti da atleti per emulare le gesta di Spyros Louis. I sorrisi burloni sui loro volti rugosi erano molto significativi. «Che sia un comitato di benvenuto degli Staurophylakes?» chiese Farag, tenendoli d'occhio. «Mi rifiuto di pensarlo», sospirai, anche se l'idea mi era passata per la testa. «Stiamo diventando paranoici.» «Tutto pronto?» domandò il capitano, guardando l'orologio. «Perché tanta fretta? Mancano ancora dieci minuti.» «Facciamo qualche esercizio. Cominciamo dallo stretching.» Pochi minuti dopo l'inizio del riscaldamento, i lampioni stradali si accesero. La luce del sole era ormai al minimo. Gli anziani continuavano a osservarci, facendo incomprensibili commenti scherzosi. Di quando in quando, qualcuna delle nostre posizioni scatenava risate incontenibili che mi mettevano di pessimo umore. «Tranquilla, Ottavia. Sono solo vecchi contadini, nient'altro.» «Quando incontreremo l'attuale Catone, avrò qualcosina da dirgli riguardo alle spie delle sue prove.» I vecchi continuavano a sghignazzare e io, furiosa, voltai loro le spalle. «Professore, dottoressa, è venuto il momento. Ricordate che la linea blu comincia al centro della città, nel punto in cui ebbe inizio la corsa olimpica del 1896. Cercate di non separarvi da me fino a quel momento. Siete pronti?» «No», dichiarai. «E non credo che lo sarò mai.» La Roccia mi rivolse un'occhiata di rimprovero, ma Farag si frappose rapidamente tra noi. «Siamo pronti, Kaspar. Al suo via.» Restammo fermi e in silenzio per qualche secondo, mentre Glauser-
Röist fissava l'orologio. D'un tratto si voltò, ci fece un cenno con la testa e cominciò una lenta marcia che Farag e io imitammo. Il riscaldamento non mi era servito a nulla: mi sentivo come un'anatra fuori dall'acqua e ogni passo era un supplizio per i miei ginocchi, su cui sembravano pesare un paio di tonnellate. Tuttavia, mi dissi con rassegnazione, costasse quello che costasse, dovevo fare bella figura. Pochi minuti dopo giungemmo al monumento olimpico da cui aveva inizio la striscia blu sul suolo stradale. Era un semplice muro di pietra bianca davanti a cui si ergeva il solido supporto di una fiaccola, spenta. A partire da lì, cominciava la vera corsa. Il mio orologio segnava le nove e un quarto, ora locale. Seguendo la linea, ci addentrammo in città. Non potei evitare un po' di vergogna, chiedendomi che cosa avrebbe pensato la gente che ci vedeva. Ma gli abitanti di Maratona non dimostrarono il minimo interesse: ormai dovevano averne viste di tutti i colori. All'uscita, quando trovammo davanti a noi la stessa strada rettilinea che avevamo percorso in auto poco prima, il capitano aumentò il ritmo e si distanziò gradualmente da noi. Io, al contrario, cominciai a ridurre al minimo la velocità, fedele al mio piano di adottare un passo lento e mantenerlo per tutta la notte. Farag si voltò. «Che cos'hai, Basileia? Perché ti fermi?» E così, riprendeva a chiamarmi Basileia, eh? Dal nostro arrivo a Gerusalemme lo aveva fatto solo in un paio di occasioni (le avevo contate) e mai davanti ad altri: si era trasformata in una parola clandestina, privata, solo per le mie orecchie. In quel momento, il mio pulsometro fischiò. Avevo superato il numero di pulsazioni raccomandato. E sì che andavo piano. «Stai bene?» balbettò Farag, preoccupato. «Perfettamente. Ho fatto i miei calcoli», risposi, imponendo il silenzio al dannato apparecchietto. «Con questo passo, ci metterò sei o sette ore ad arrivare ad Atene.» «Sei sicura?» chiese lui, guardandomi di sottecchi. «No, non proprio. Ma una volta, molti anni fa, ho fatto un'escursione di sedici chilometri e ci ho messo quattro ore. Moltiplicando...» «Ma qui il terreno è diverso. Non scordarti delle montagne intorno a Maratona. E poi la distanza da Atene è più del doppio.» Riconsiderai la situazione e mi sentii meno sicura. Ricordavo vagamente di essere arrivata alla fine dell'escursione mezza morta e il panorama intorno a me non era incoraggiante. Nel contempo, desideravo intensamente
che Farag si mettesse a correre e si allontanasse da me. Ma, a quanto vedevo, non intendeva lasciarmi sola. Durante l'ultima settimana avevo cercato con ogni mezzo di concentrarmi sul nostro compito e di scordare i miei stupidi squilibri sentimentali. In questo la visita a Gerusalemme e il colloquio con Pierantonio mi erano stati di grande aiuto. Ma l'impegno a reprimere quei sentimenti mi sottraeva energie. Quella che a Ravenna era cominciata come un'emozione esaltante che aveva trasformato ogni mia sensazione, ad Atene era diventata un'amara sofferenza. Si può lottare contro una malattia o contro il destino, ma come lottare contro la forza che mi spingeva verso quell'uomo affascinante che era Farag Boswell? Ed eccomi lì, nascosta dietro a una fragile integrità che veniva meno a ogni passo. La linea blu era tracciata sull'asfalto della strada, ma noi, prudentemente, camminavamo lungo un ampio marciapiede ombreggiato dagli alberi. Poco più avanti, però, il marciapiede scomparve e dovemmo proseguire lungo il ciglio della strada. Per fortuna il numero delle auto in transito diminuiva e, anche se camminavamo sul lato destro, dando le spalle a eventuali veicoli in arrivo dalla nostra parte, l'unico pericolo, se così si poteva chiamare, era l'oscurità. C'erano ancora lampioni, davanti a qualche bar lungo la strada, e qualche casetta nelle vicinanze, ma sempre più rari. A quel punto pensai che forse sarebbe stato meglio non separarsi da Farag. Quando giungemmo alla vicina città di Pandeleimonas eravamo impegnati in un'interessante discussione sui bizantini e sulla scarsa conoscenza, in Occidente, delle vicende di quell'Impero Romano che era durato fino al XV secolo. Dopo una leggera salita, attraversammo le località di Nea Makri e Zoumberi immersi nelle chiacchiere. Il tempo e i chilometri passavano senza che ce ne rendessimo conto. Non mi ero mai sentita così felice, né mai la mia mente era stata così sveglia e motivata, pronta ad affrontare qualsiasi sfida intellettuale. Non ero mai andata tanto lontano e a fondo in una conversazione. Nella cittadina assonnata di Agios Andreas, tre ore dopo l'inizio della corsa, Farag cominciò a raccontarmi del suo lavoro al Museo. La notte era così magica, bella e speciale che nemmeno mi accorsi del freddo che cominciava a scendere nel buio dei campi intorno a noi. La fioca luce della luna calante illuminava ben poco e ci dovevamo servire delle torce elettriche. Ma non ero né preoccupata né spaventata. Ero assorta nelle parole di Farag, che mi parlava appassionatamente dei testi gnostici scritti in copto trovati nell'antica Nag Hammadi, nell'Alto Egitto. Erano diversi anni che
ci lavorava sopra, localizzando le fonti greche del II secolo su cui si basavano e confrontandoli frammento per frammento con altri testi conosciuti di scrittori copti gnostici. Avevamo in comune un'intensa passione per il nostro lavoro, così come un amore profondo per l'antichità e i suoi segreti. Ci sentivamo chiamati a svelarli, a scoprire che cosa, per abbandono o per interesse, si fosse perduto nel corso dei secoli. Farag, naturalmente, non condivideva certe sfumature cattoliche del mio modo di pensare, né io d'altra parte potevo trovarmi d'accordo con i suoi postulati sulle origini gnostiche del cristianesimo. Ma dovevo ammettere la mia ignoranza riguardo ai primi tre secoli di vita della mia religione e che quelle grandi lacune erano state colmate deliberatamente con documenti falsi e testimonianze manipolate. Persino i Vangeli erano stati ritoccati nel corso di quei secoli per essere adattati alle correnti dominanti nella Chiesa nascente, a costo di far incorrere Gesù in terribili contraddizioni o assurdità che, a forza di sentire per tutta la vita, passavano inosservate. Ma quello che non potevo accettare era che questo fosse reso pubblico, che si aprissero le porte del Vaticano a qualsiasi studioso che, come lui, non fosse provvisto della fede necessaria per dare un senso corretto alle proprie scoperte. Farag mi diede della reazionaria e della retrograda, e fu per puro miracolo che non mi accusò di usurpare il patrimonio dell'umanità, ma ci andò vicino. Tuttavia, non lo faceva con cattive intenzioni. La notte trascorreva leggera come il vento. Ridevamo senza posa, ci attaccavamo dai nostri rispettivi fortini ideologici, con un misto di affetto e tenerezza che spuntavano le armi a qualsiasi assalto. E così le ore continuavano a passare, impercettibilmente. Mati, Limanaki, Rafina... Eravamo prossimi a Pikermi, la città che corrispondeva esattamente a metà della corsa. Non c'era traffico, lungo la strada, né si vedeva più traccia del capitano Glauser-Röist. Cominciavo a sentire una certa stanchezza alle gambe e un lieve dolore ai polpacci, ma mi rifiutavo di ammetterlo. I piedi mi bruciavano dentro le scarpe da ginnastica e poco dopo, durante una sosta forzata, scoprii due piaghe che si sarebbero allargate ulteriormente nel corso della nottata. Continuammo a camminare per un'ora, due ore... Non ci accorgevamo che il nostro passo rallentava sempre di più e che avevamo trasformato la notte in una lunga passeggiata in cui il tempo non contava. Attraversammo Pikermi, sopra le cui strade era sospesa una fitta rete di cavi della luce e del telefono, che andavano da un vecchio palo di legno all'altro. Ci la-
sciammo dietro Spata, Palini, Stavros, Paraskevi... E il tempo continuava imperturbabile la sua marcia senza che prendessimo coscienza che di quel passo non saremmo arrivati ad Atene prima dell'alba. Eravamo ipnotizzati, ubriachi di parole, e non ci accorgevamo di niente al di fuori del nostro dialogo. Dopo Paraskevi, la strada svoltava a sinistra, abbracciando un bosco frondoso di pini altissimi. E fu in quel punto, a una decina di chilometri da Atene, che l'orologio di Farag cominciò a suonare all'impazzata. «Sei stanco?» gli domandai, inquieta. Non lo vedevo bene in faccia, nell'oscurità. Non ebbi risposta. «Farag?» insistetti. L'apparecchietto continuava a emettere l'insopportabile segnale di allarme che, nel silenzio che ci circondava, sembrava la sirena di un'ambulanza. «Devo dirti una cosa...» mormorò, misterioso. «Allora spegni quell'affare e dimmela.» «Non posso...» «Come non puoi? Devi solo premere il pulsante arancione.» «Voglio dire...» tartagliò. «Quello che voglio dire...» Lo presi per il polso e premetti il pulsante. D'improvviso mi resi conto che qualcosa era cambiato. Una vocina soffocata mi avvisò che ci trovavamo su un terreno pericoloso e capii che non volevo sentire quello che stava per dirmi. Rimasi in silenzio, muta come un pesce. «Quello che...» Il pulsometro riattaccò a suonare, ma stavolta fu lui stesso a spegnerlo. «Non posso dirtelo, perché ci sono troppi impedimenti, troppi ostacoli...» Trattenni il respiro. «Aiutami, Ottavia.» La voce non mi usciva. Avrei voluto trattenerlo, ma non avevo fiato. E fu a quel punto che il mio pulsometro ricominciò a suonare. Sembrava una sinfonia di fischi. Lo bloccai con uno sforzo sovrannaturale. Farag sorrise. «Lo sai che cosa ti voglio dire, vero?» Le mie labbra rifiutavano di aprirsi. Riuscii solo a sfilarmi l'apparecchio dal polso, altrimenti avrebbe continuato a suonare. Farag, continuando a sorridere, mi imitò. «Bella idea. Io... Vedi, Basileia, è molto difficile per me. Nelle mie relazioni precedenti non ho mai dovuto... Le cose erano diverse. Ma con te... Dio, che complicazione! Perché non può essere più facile? Lo sai che cosa sto cercando di dirti. Basi-
leia, aiutami!» «Non posso aiutarti, Farag», risposi, con una voce da oltretomba che sorprese persino me. «Già, già...» Non disse nient'altro, e io neppure. Il silenzio calò su di noi e continuammo così fino a Holargos, una piccola cittadina che, con i suoi edifici alti e moderni, annunciava la vicinanza di Atene. Credo di non avere mai vissuto momenti così amari e difficili. La presenza di Dio mi impediva di accettare quella specie di dichiarazione che Farag aveva cercato di farmi, ma i miei sentimenti, incredibilmente forti, verso quell'uomo meraviglioso mi tormentavano la coscienza. La cosa peggiore non era riconoscere che lo amavo, ma il fatto che mi amasse anche lui. Fosse stato così facile! Ma io non ero libera. Un'improvvisa esclamazione mi fece sobbalzare. «Ottavia! Sono le cinque e un quarto del mattino!» Per un attimo non capii che cosa stesse dicendo. Le cinque e un quarto. Bene, e allora? Poi, all'improvviso, la luce illuminò il mio cervello. Le cinque e un quarto! Non saremmo riusciti ad arrivare ad Atene prima delle sei! Eravamo almeno a quattro chilometri! «Mio Dio!» gridai. «Che cosa facciamo?» «Corriamo!» Mi prese per mano e mi tirò come un pazzo, dando inizio a una corsa sfrenata che durò solo pochi metri. «Non posso Farag!» gemetti, lasciandomi cadere sull'asfalto. «Sono troppo stanca!» «Ascoltami, Ottavia. Alzati in piedi e corri!» Il tono di voce era autoritario, del tutto privo di compassione e di affetto. «Mi fa molto male la gamba destra. Devo essermi danneggiata qualche muscolo. Non posso seguirti, Farag. Vai tu. Io arriverò dopo.» Lui si chinò davanti a me e, prendendomi bruscamente per le spalle, mi scosse fino a farmi alzare lo sguardo. «Se non ti alzi subito, ti dico quello che non sono riuscito a dirti prima. E se lo faccio...» Chinò la testa verso di me, le sue labbra a pochi millimetri dalla mia bocca. «Te lo dirò in modo tale che non potrai mai più sentirti suora per il resto della vita. Se vieni ad Atene con me, non insisterò mai più.» Sentii un bisogno terribile di piangere, di nascondere la testa nel suo petto e cancellare le cose spaventose che mi aveva appena detto. Lui sapeva che lo amavo e per questo mi dava la possibilità di scegliere tra il suo amo-
re e la mia vocazione. Se mi fossi messa a correre, lo avrei perso per sempre. Se fossi rimasta lì, sull'asfalto della strada, mi avrebbe baciata e mi avrebbe fatto dimenticare che avevo consegnato la mia vita la Dio. Provavo l'angoscia più profonda, il dolore più oscuro. Avrei dato qualunque cosa per non dover scegliere, per non avere mai conosciuto Farag Boswell. Inspirai finché i polmoni non furono sul punto di scoppiare, liberai le spalle dalle sue mani e con uno sforzo sovrumano (solo io so quanto mi costò, e non certo per la stanchezza fisica o le piaghe ai piedi) mi rimisi in equilibrio, mi alzai, aggiustai la tuta con gesto deciso e lo guardai. Lui era rimasto nella stessa posizione, chino a terra, ma ora il suo sguardo era infinitamente triste. «Andiamo?» gli dissi. Mi osservò per qualche secondo, senza muoversi, senza cambiare espressione. Poi si risollevò, atteggiò la bocca a un falso sorriso e riprese il cammino. «Andiamo.» Non ricordo molto delle località che attraversammo, a parte i loro nomi, Halandri e Papagou, ma so che correvo continuando a occhieggiare l'orologio, cercando di ignorare il dolore alle gambe e la pena nel cuore. Il freddo del mattino gelò le lacrime che mi rimbalzavano sul viso. Entrammo ad Atene dalla Via Kifissias quando mancavano dieci minuti alle sei. Per quanto potessimo correre fino a Kapnikarea, nel centro della città, sarebbe stato impossibile portare a termine la prova. Ma questo non ci trattenne, né ci riuscì il dolore pungente che cominciai a sentire al costato e che mi mozzava il respiro. Sudavo copiosamente e avevo la sensazione che sarei potuta svenire da un momento all'altro. Mi sembrava di avere coltelli conficcati nei piedi, ma continuai a correre perché, se non lo facevo, avrei dovuto confrontarmi con qualcosa che sarebbe stato più forte di me. In realtà, più che correre, scappavo, scappavo da Farag, e sono sicura che lui lo sapesse. Restava al mio fianco anche se avrebbe potuto superarmi e, forse, concludere con successo la prova dell'accidia. Ma non mi abbandonò e io, fedele alla mia abitudine di sentirmi in colpa per ogni cosa, mi sentii a mia volta responsabile del suo fallimento. Quella bella nottata, di sicuro indimenticabile, stava concludendosi come un incubo. Non so quanti chilometri sia lungo il grande viale di Vassilis Sofias, ma a me parve interminabile. Le auto cominciavano a circolare, mentre noi correvamo come disperati, superando porte, lampioni, cestini dei rifiuti, alberi, cartelloni pubblicitari e panchine di ferro. Vassilis Sofias non finiva più e il mio orologio segnava già le sei del mattino. Era troppo tardi, ma,
per quanto mi voltassi a destra e a sinistra, il sole non si vedeva da nessuna parte. Continuava a essere notte, come un'ora prima. Che cosa stava succedendo? La linea blu che avevamo seguito tutta la notte si perse sulla Vassilis Konstantinou, la traversa che portava direttamente allo Stadio Olimpico. Noi invece proseguimmo lungo il viale che sfociava nella Plateia Syntagmatos, l'enorme piazza del Parlamento, sullo stesso angolo del nostro hotel, davanti alla cui porta passammo senza fermarci. Kapnikarea si trovava a metà della Via Ermou, una delle arterie che nascevano dall'altra parte della piazza. In quel momento erano già le sei e tre minuti. I polmoni e il cuore sembravano sul punto di esplodere, il dolore al costato mi stava uccidendo. A incoraggiarmi era solo la persistente oscurità notturna del cielo, quella coltre nera non ancora intaccata da alcun raggio di sole. Se continuava così, forse c'era ancora speranza. Ma appena entrammo nella Via Ermou, area pedonale, i muscoli della gamba destra decisero che era ora di smettere di correre. Una fitta acuta mi immobilizzò, strappandomi un gemito, mentre mi portavo una mano alla zona dolente. Farag si voltò, fulmineo, e senza bisogno di parole capì che cosa mi stava succedendo. Tornò sui suoi passi, mi passò il braccio destro sotto le ascelle e mi aiutò ad alzarmi. Così, senza fiato, in quella strana posizione, riprendemmo la corsa: io facevo un passo con la gamba sana e gravavo col mio peso su di lui al passo successivo. Ondeggiavamo come barche nella tempesta, ma non ci fermavamo. L'orologio indicava ormai le sei e cinque, e ci mancavano ancora solo trecento metri: più avanti lungo la Via Ermou, come una strana apparizione incomprensibile, una piccola chiesa bizantina mezza sprofondata nel terreno spuntava da una piazzetta. Duecento metri... Potevo sentire il respiro affannoso di Farag. Anche la gamba sana cominciò a risentire di quell'ultimo sforzo supremo. Centocinquanta metri. Le sei e sette minuti. Procedevamo sempre più lentamente. Eravamo sfiniti. Centoventicinque metri. Con un brusco impulso, Farag mi risollevò e mi strinse più forte, prendendomi la mano appoggiata al suo collo. Cento metri. Le sei e otto minuti. «Ottavia, devi sopportare il dolore», farfugliò ormai sfiatato. Il sudore gli inondava la faccia e il collo. «Cammina, ti prego.» Kapnikarea ci mostrava le mura di pietra del suo lato sinistro. Eravamo così vicini! Potevo vedere le sue cupolette coperte di tegole rosse e incoronate da piccole croci. E io che non riuscivo a respirare, non riuscivo a cor-
rere. Era una vera tortura! «Ottavia, il sole!» gridò Farag. Non lo cercai nemmeno con lo sguardo, mi bastò notare il colore più azzurro del cielo. Quelle tre parole furono lo sprone di cui avevo bisogno per spremere le mie ultime forze. Un brivido mi attraversò da capo a piedi e, nello stesso tempo, provai una tale rabbia verso quel sole traditore che presi aria e mi sospinsi in direzione della chiesa. Suppongo ci siano momenti nella vita in cui obnubilamento, ostinazione e orgoglio prendano il controllo delle nostre azioni e ci obblighino a lanciarci ciecamente verso un obiettivo che oscura tutto il resto. Immagino che l'origine di questa reazione sconsiderata abbia a che fare con l'istinto di sopravvivenza, perché ci comportiamo come se da questo dipenda la nostra stessa vita. Certo, sentivo dolori in tutto il corpo, ma nel mio cervello c'era solo l'idea fissa che il sole stava sorgendo e non potevo più esitare. Più degli impedimenti fisici, poteva l'obbligo di varcare la soglia di Kapnikarea. E così mi misi a correre come non avevo corso in tutta la notte e Farag mi raggiunse proprio quando, dopo avere sceso i gradini che ci portarono al livello della chiesa, arrivai allo splendido portico che proteggeva l'entrata. Sopra il portale, un impressionante mosaico bizantino raffigurante il Bambino e la Vergine riluceva alla tenue luce dei lampioni. Sopra le nostre teste, un cielo di brillanti tessere dorate circondava un Crismon di Costantino. «Bussiamo?» chiesi con un filo di voce, appoggiando le mani ai fianchi e piegandomi in avanti per respirare. «Tu che ne dici?» se ne uscì Farag. E un attimo dopo sentii il primo dei sette colpi che batté furiosamente contro il legno solido della porta. Poco dopo, un giovane pope ortodosso dalla lunga e folta barba nera apparve di fronte a noi. Con il volto accigliato e l'espressione severa ci disse qualcosa in greco moderno che non riuscimmo a capire. Di fronte alle nostre facce sconcertate, ripeté la frase in inglese: «La chiesa non apre fino alle otto». «Lo sappiamo, Padre, ma dobbiamo entrare. Dobbiamo purificare le nostre anime inchinandoci di fronte a Dio come anime supplicanti.» Guardai Farag con ammirazione. Come gli era venuto in mente di usare le parole dell'orazione di Gerusalemme? Il giovane pope ci squadrò da capo a piedi e il nostro aspetto pietoso dovette commuoverlo. «In tal caso, entrate. Kapnikarea è tutta vostra.»
Non mi lasciai ingannare: quel ragazzino con la tonaca era uno Staurophylax. Se ci avessi messo la mano sul fuoco, non mi sarei bruciata. Farag mi lesse nel pensiero. «Per caso, Padre», domandai, asciugandomi il sudore dal viso con la manica della tuta, «ha visto un nostro amico, un corridore come noi, molto alto, con i capelli biondi?» Il pope parve meditare. Se non avessi saputo che era uno Staurophylax, probabilmente gli avrei creduto. Ma anche se era un bravo attore, non riuscì a ingannarmi. «No», rispose, dopo lunga riflessione. «Non ricordo nessuno con queste caratteristiche. Ma entrate, per favore. Non rimanete in strada.» Da quel momento eravamo alla sua mercé. La chiesa era splendida, una di quelle meraviglie che il tempo e la civiltà rispettano perché non possono porre fine alla loro bellezza senza morire un po' a loro volta. Centinaia, migliaia di piccoli ceri gialli brillavano al suo interno, permettendo di intravedere, in fondo, sulla destra, una bellissima iconostasi che rifulgeva come l'oro. «Vi lascio alla preghiera», disse il pope, mentre con noncuranza richiudeva i chiavistelli della porta. «Non esitate a chiamarmi, se avete bisogno di qualcosa.» Ma di che cosa avremmo potuto avere bisogno? Appena ebbe pronunciato quelle parole cortesi, qualcuno alle mie spalle mi diede un forte colpo alla testa. Barcollai e stramazzai sul pavimento. Non ricordo altro. Mi spiace solo di non avere visto meglio Kapnikarea. Aprii gli occhi sotto il lucore glaciale dei tubi al neon e cercai di girare la testa, intuendo la presenza di qualcuno accanto a me, ma un dolore intenso me lo impedì. Una gentile voce di donna mi disse qualche parola incomprensibile e io persi di nuovo conoscenza. Qualche tempo dopo mi risvegliai. Varie persone vestite di bianco erano chine sul mio letto e mi stavano esaminando meticolosamente, sollevandomi le palpebre inerti, misurandomi le pulsazioni e muovendomi delicatamente il collo. Nella nebbia, mi accorsi che un tubo sottilissimo mi usciva dal braccio e saliva fino a un sacchetto di plastica pieno di liquido trasparente, appeso a un palo metallico. Ma mi riaddormentai e il tempo continuò a passare. Finalmente, dopo diverse ore, tornai alla realtà. Dovevano avermi somministrato un bel po' di farmaci, perché mi sentivo bene, senza dolori, an-
che se con lo stomaco sottosopra e un senso di nausea. Seduti su sedie di plastica verde, due uomini dall'aspetto strano mi osservavano con facce patibolari. Quando mi videro battere le palpebre, balzarono in piedi e si avvicinarono alla sponda del letto. «Sorella Salina?» chiese uno dei due, in italiano. Guardandolo meglio mi accorsi che indossava tonaca e collarino. «Sono Padre Ferruccio Cardini dell'ambasciata vaticana e il mio accompagnatore è Sua Eminenza l'Archimandrita Theologos Apostolidis, segretario del Sinodo Permanente della Chiesa di Grecia. Come si sente?» «Come se mi avessero gettato un masso sulla testa, Padre. E i miei compagni, il professor Boswell e il capitano Glauser-Röist?» chiesi di rimando. «Non si preoccupi, stanno bene. Sono nelle stanze accanto. Li abbiamo appena visti. Si stanno svegliando.» «Dove siamo?» «Al nosocomio George Gennimatas.» «Dove?» «L'Ospedale Generale di Atene, Sorella. Un gruppo di marinai ha trovato lei e i suoi compagni su uno dei moli del Pireo e vi ha portati all'ospedale più vicino. Vedendo i vostri documenti diplomatici vaticani, il personale del Pronto Soccorso si è messo in contatto con noi.» Un medico alto e bruno, con enormi baffoni alla turca, comparve all'improvviso tirando la tenda di plastica che fungeva da porta. Si avvicinò al mio letto e, mentre mi prendeva il polso e controllava gli occhi e la lingua, si rivolse a Sua Eminenza l'Archimandrita Theologos Apostolidis, il quale mi parlò subito dopo in perfetto inglese. «Il dottor Kalogeropoulos vuole sapere come si sente.» «Bene, mi sento bene», risposi, cercando di alzarmi. Non avevo più la fleboclisi attaccata al braccio. Il medico greco disse qualcos'altro e tanto Padre Cardini quanto l'Archimandrita Apostolidis si voltarono verso la parete. Poi il dottore scostò il lenzuolo che mi copriva. Mi accorsi che l'unico indumento che indossavo era un orrendo camicione corto color salmone chiaro, da cui spuntavano le gambe. Non mi sorpresi vedendo che avevo i piedi bendati, ma non mi aspettavo che lo fossero anche le cosce. «Che cosa mi è successo?» domandai. Padre Cardini ripeté le mie parole in greco e il medico rispose con una lunga conferenza. «Il dottor Kalogeropoulos dice che tanto lei quanto i suoi compagni pre-
sentate diverse ferite molto strane. Dice che all'interno di esse è stata trovata una sostanza simile a clorofilla che non è stato possibile identificare. Le chiede se sa come se le è procurate, dal momento che a quanto pare gliene hanno trovate altre simili, precedenti, sulle braccia.» «Gli dica che non so niente e che vorrei vederle, Padre.» Alla mia richiesta, il medico rimosse le bende con estrema cautela, poi, lasciando i due religiosi con la faccia al muro e me seminuda, uscì dalla stanza. La situazione era così sconveniente che non osai dire mezza parola. Per fortuna, il dottor Kalogeropoulos rientrò all'istante con uno specchio, che mi permise di vedere le scarificazioni, piegando le gambe. Avevo una croce decussata nella parte posteriore della coscia destra e un'altra, greca, su quella sinistra. Gerusalemme e Atene incise per sempre sul mio corpo. Avrei dovuto sentirmene orgogliosa ma, una volta saziata la curiosità, la mia unica ossessione era vedere Farag. Il guaio fu che, con lo specchio in mano, vidi il riflesso della mia faccia. Rimasi attonita constatando che non solo avevo gli occhi infossati e la pelle avvizzita, ma anche che avevo in testa un turbante di bende. Il dottor Kalogeropoulos notò la mia espressione sorpresa e lanciò un'altra raffica di parole. «Il dottore», mi tradusse Padre Cardini, «dice che lei e i suoi amici siete stati colpiti al cranio da un oggetto contundente e che presentate contusioni rilevanti. Dai risultati delle analisi ritiene inoltre che abbiate assunto alcaloidi e vuole sapere quali sostanze abbiate ingerito.» «Questo dottore ci ha preso per drogati?» Padre Cardini non osò tradurre. «Dica al medico che non abbiamo assunto proprio niente e che siamo all'oscuro di tutto, Padre. E che per quante domande ci faccia non possiamo dire altro. E adesso, se non è troppo disturbo, vorrei vedere i miei compagni.» Detto questo, mi sedetti sul bordo del letto e appoggiai i piedi a terra. Le bende erano ottime, come pantofole. Il dottor Kalogeropoulos si lasciò sfuggire un'esclamazione di protesta e, prendendomi per le braccia, cercò di rimettermi a letto. Ma io resistetti con tutte le mie forze. «Padre Cardini, per favore, sarebbe così gentile da dire al dottore che vorrei i miei vestiti e gradirei liberarmi di queste bende sulla testa?» Il sacerdote cattolico tradusse le mie parole e si produsse in un dialogo rapido e agitato. «Non si può, Sorella. Il dottor Kalogeropoulos dice che lei ancora non sta bene e che potrebbe subire un collasso.»
«Dica al dottor Kalogeropoulos che sto benissimo. Padre, è a conoscenza dell'importanza del lavoro a cui il professore, il capitano e io ci stiamo dedicando?» «Approssimativamente, Sorella.» «Allora gli dica di consegnarmi i miei vestiti. Subito!» Ci fu un nuovo concitato scambio di parole. Il medico uscì offeso dalla stanza. Poco dopo si presentò una giovane infermiera che depose frettolosamente una borsa di plastica ai piedi del mio letto e, senza dire una parola, cominciò a liberarmi la testa dal turbante. Provai un immenso sollievo quando me lo tolse, come se quegli strati di garza mi stessero comprimendo il cervello. Passai le dita tra i capelli e percepii con la punta delle dita una protuberanza dolente nella parte superiore della testa. Non avevo ancora finito di vestirmi quando sentii bussare sullo stipite metallico del vano dell'ingresso. Quando fui pronta, scostai la tenda. Farag e il capitano, con indosso vestaglie corte dello stesso colore azzurro stinto dei loro camicioni ospedalieri, mi guardarono sorpresi da sotto i rispettivi turbanti. «Com'è che tu sei già pronta e noi siamo ancora ridotti così?» chiese Farag. «Perché non sapete far valere la vostra autorità», risposi, ridendo. Rivederli mi faceva sentire felicissima. Il cuore mi batteva all'impazzata. «State bene?» «D'incanto. Ma questa gente fa del suo meglio per trattarci come bambini.» «Vuole vedere questo, dottoressa?» mi chiese Glauser-Röist, porgendomi l'ormai familiare foglietto ripiegato degli Staurophylakes. Lo presi sorridente e lo aprii. Stavolta c'era solo una parola: Άποστόλειον Apostoleion. «Si ricomincia, eh?» dissi. «Appena usciamo di qui», mormorò la Roccia, guardandosi intorno con aria torva. «Non prima di domani», disse Farag, infilando le mani nelle tasche della vestaglia. «Sono le undici di sera e non credo che a quest'ora ci lasceranno andare.» «Le undici di sera?» feci io, sgranando gli occhi. Eravamo rimasti in stato di incoscienza tutto il giorno.
«Firmeremo quello che c'è da firmare in questo Paese per dimetterci dall'ospedale volontariamente», borbottò il capitano, dirigendosi verso le scrivanie del personale sanitario. Approfittai della sua assenza per guardare per bene Farag. Aveva grandi occhiaie e, con la barba ormai lunga, sembrava un anacoreta biondo del deserto. Il ricordo della notte passata in sua compagnia mi faceva battere il cuore ancora più forte, se ciò era possibile, e mi faceva sentire padrona di un segreto che solo lui e io condividevamo. Tuttavia Farag pareva non ricordare niente: sul suo volto c'era una simpatica espressione di indifferenza e, anziché parlare con me, si rivolse ai miei due ospiti, lasciandomi a bocca aperta. Che avessi sognato tutto quanto? Non riuscii a farlo parlare nemmeno quando uscimmo dall'ospedale e salimmo sull'automobile dell'ambasciata vaticana (Sua Eminenza Theologos Apostolidis si congedò cortesemente e se ne andò sulla sua macchina). Farag si rivolgeva al capitano o a Padre Cardini e, quando i suoi occhi incrociavano i miei, passavano oltre, come se fossi trasparente. Se voleva ferirmi, ci stava riuscendo. Ma non avrei permesso che la cosa continuasse, perciò mi chiusi in un tetro mutismo fino all'arrivo in hotel. Una volta in camera, non potendo sedermi comodamente a causa delle scarificazioni, mi sdraiai sul letto a pregare, finché non crollai dal sonno verso le tre del mattino. Piena di angoscia, avevo chiesto a Dio di aiutarmi, di restituirmi la certezza della mia vocazione religiosa e la tranquilla stabilità della mia vita di un tempo. Mi ero rifugiata nel Suo Amore fino a trovare la pace di cui sentivo il bisogno. Dormii bene, ma il mio ultimo pensiero della notte e il primo del mattino seguente furono per Farag. Lui, dal canto suo, non mi degnò di uno sguardo per tutta la colazione, né durante il viaggio verso l'aeroporto, né quando prendemmo posto (con molta cautela) sui sedili del Westwind, che cominciava a essere l'unico nostro riferimento permanente. Decollammo da Hellinikon verso le dieci del mattino. Subito dopo cominciarono i passaggi della nostra hostess preferita, che risultò chiamarsi Paola, con le sue offerte di cibo, bevande e intrattenimenti. Glauser-Röist, dopo avere pronosticato i destini più orribili per la povera ragazza, ci raccontò con soddisfazione di avere impiegato solo quattro ore a coprire la distanza tra Maratona e Kapnikarea e che il suo pulsometro non aveva suonato neppure una volta. Farag si complimentò con lui, stringendogli la mano e battendogli amichevoli colpetti sulla spalla. Intanto, io non riuscivo a dimenticare i segnali di allarme emessi dai nostri apparecchi e i preziosi momenti vissuti quella notte.
Il volo da Atene a Istanbul fu così breve che avemmo appena il tempo di prepararci alla quinta cornice del Purgatorio. A Costantinopoli avremmo dovuto purificarci dell'avarizia e, a detta del Fiorentino, ci saremmo dovuti prostrare a terra: Com'io nel quinto giro fui dischiuso, vidi gente per esso che piangea, giacendo a terra tutta volta in suso. «Adhaesit pavimento anima mea»48 sentía dir lor, con sì alti sospiri che la parola a pena s'intendea.49 «Tutto qui quello che abbiamo?» domandò Farag, scettico. «Mi pare poco. E Istanbul è molto grande.» «Abbiamo anche l'Apostoleion», gli rammentò Glauser-Röist, accavallando le gambe tranquillo, come se non soffrisse minimamente dei postumi delle cicatrici, né le fitte moleste che la maratona ci aveva lasciato per ricordo. «Dalla notte scorsa, la Nunziatura Vaticana di Ankara e il Patriarcato di Costantinopoli sono al lavoro su quell'indizio. Quando siamo arrivati in albergo, mi sono messo in contatto con il Nunzio Apostolico, Monsignor Lewis, e con il segretario del Patriarca, Padre Kallistos, il quale mi ha informato che l'Apostoleion era la famosa chiesa ortodossa dei Santi Apostoli che, fino all'XI secolo, fungeva da Pantheon Reale per gli imperatori di Costantinopoli. Fu il tempio più grande, dopo Santa Sofia, ma oggi non ne resta più nulla: Mehmet II, il conquistatore turco che pose fine all'Impero Bizantino, ne ordinò la distruzione nel XV secolo.» «Non ne resta più niente?» mi scandalizzai. «E che cosa pretendono da noi? Che scaviamo sottoterra alla ricerca di reperti archeologici?» «Non lo so, dottoressa. Dovremo documentarci. Sembra che Mehmet II, nel tentativo di emulare gli imperatori, abbia ordinato la costruzione nello stesso luogo del proprio mausoleo, la moschea di Fatih Camii, tuttora esistente. Dell'Apostoleion non rimane assolutamente niente, nemmeno una pietra. Ma bisognerà aspettare i rapporti della Nunziatura e del Patriarcato per saperne di più.» «Che cosa ha chiesto loro di cercare?» «Tutto, proprio tutto. La storia completa della chiesa, con tutti i dettagli, e anche quella di Fatih Camii: libri, progetti, mappe, disegni della ricostru-
zione, nomi degli architetti, oggetti e opere d'arte, il rituale di sepoltura degli imperatori, e via dicendo. Come vede, non ho lasciato niente al caso. Sono sicuro che tanto la Nunziatura quanto il Patriarcato faranno un'indagine molto approfondita. Monsignor Lewis mi ha detto che potremo contare sull'aiuto di uno degli addetti culturali dell'ambasciata italiana, un esperto di architettura bizantina. E il Patriarcato è ansioso di collaborare con noi, visto che è stato a sua volta vittima degli Staurophylakes: il poco che restava del frammento della Vera Croce che Santa Elena donò a suo figlio, l'imperatore Costantino, è scomparso da meno di un mese dalla chiesa patriarcale di San Giorgio. E questo quando già erano stati messi in guardia. Ma il Patriarcato di Costantinopoli, un tempo potente, ora è così povero da non disporre di mezzi adeguati per proteggere le proprie reliquie. Del resto, in città i fedeli ortodossi sono sempre meno. L'intenso processo di islamizzazione e il violento nazionalismo hanno fatto sì che la popolazione sia ormai turca e musulmana quasi al cento per cento.» In quel momento il comandante del Westwind ci comunicò attraverso gli altoparlanti che in meno di mezz'ora saremmo atterrati all'aeroporto internazionale Atatürk di Istanbul. «Dovremmo sbrigarci con la lettura di Dante», incalzò Glauser-Röist, riaprendo il volume. «Dov'eravamo rimasti?» «All'inizio», rispose Farag, aprendo la propria copia della Divina Commedia. «Dante stava sentendo le anime recitare il primo verso del Salmo 118.» «Dunque, poco dopo Virgilio chiede che gli indichino la via di accesso alla cornice successiva...» «Ma a Dante hanno tolto il marchio dalla fronte?» lo interruppi. Sentivo un bruciore alla croce decussata sulla coscia destra. «Non in tutti i gironi Dante parla esplicitamente dell'asportazione dei marchi dei peccati capitali. Ma di tanto in tanto nota di sentirsi più leggero e di camminare con maggior facilità. E occasionalmente ricorda che gli hanno tolto qualche Ρ. Vuole sapere altri dettagli, dottoressa?» «No, molte grazie. Continui pure.» «Continuo... Gli avari rispondono ai poeti: 'Se voi venite dal giacer sicuri, e volete trovar la via più tosto, le vostre destre sian sempre di furi'.50
«Sarebbe a dire», lo interruppi di nuovo, «che devono andare verso destra, lasciando da quel lato il precipizio.» Il capitano mi guardò e annuì. Fedele alle proprie abitudini, il Fiorentino si lanciava poi in lunghe conversazioni con alcune anime, in questo caso quella di Papa Adriano V, ricordato dalla storia come avaro. D'un tratto, mi resi conto che il poeta collocava un gran numero di Santi Pontefici tra le anime del suo Purgatorio. Erano le stesse proporzioni dell'Inferno? In ogni caso, non si poteva certo dire che La Divina Commedia esaltasse i pregi della Chiesa Cattolica, tutt'altro. Quando tornai a prestargli attenzione, il capitano stava leggendo le prime terzine del Canto XX, in cui Dante descrive le difficoltà che il suo maestro e lui trovano nel camminare su quella cornice, perché il terreno è ingombro di anime piangenti: Mossimi; e 'l duca mio si mosse per li luoghi spediti pur lungo la roccia, come si va per muro stretto a' merli; ché la gente che fonde goccia a goccia per li occhi il mal che tutto 'l mondo occupa dall'altra parte in fuor troppo s'approccia.51 Saltammo a piè pari la parte del Canto in cui anime assortite vanno cantando esempi di avarizia castigata: il re Mida, il ricco romano Marco Licinio Crasso eccetera. All'improvviso, un tremore apocalittico scuote la cornice. Dante si spaventa, ma Virgilio lo tranquillizza dicendo: «Non dubbiar mentr'io ti guido».52 Il Canto XXI comincia con la spiegazione dello strano evento: uno spirito ha espiato il suo castigo ed è stato purificato e può, pertanto, porre fine alla sua permanenza nel Purgatorio. Il fortunato è il poeta napoletano Stazio,53 il quale, consumata la propria penitenza, si è appena staccato da terra. Stazio, che non sa con chi sta parlando, spiega ai due visitatori di essersi fatto poeta per la propria profonda ammirazione nei confronti di Virgilio. Questa confessione, naturalmente, scatena l'ilarità di Dante. Stazio si offende, senza capire che il riso del Fiorentino è dovuto alla presenza
dell'interessato. Sciolto l'equivoco, il napoletano si inginocchia davanti al poeta che tanto rispetta e dà inizio a una lunga serie di versi elogiativi. A questo punto il nostro aereo cominciò una brusca discesa. Le orecchie mi si tapparono. La giovane Paola si presentò per supplicarci di allacciare le cinture e per offrirci, per l'ultima volta prima di atterrare, un vassoio di squisitezze. Accettai con entusiasmo il terribile succo di frutta in bottiglia, sperando così di alleviare la pressione sui timpani. Ero così affaticata e dolorante che non vedevo l'ora di scaricare il mio peso su qualche superficie morbida. Ma, ovviamente, non potevo permettermi questo lusso orientale proprio quando stavo per dare inizio alla quinta prova del Purgatorio. Forse gli altri aspiranti Staurophylakes erano più soli di noi e non potevano contare sull'aiuto che avevamo a disposizione, ma in compenso disponevano di molto più tempo per portare a termine le loro prove. E, al momento, quello mi pareva un lusso invidiabile. Non dovemmo neppure entrare nel terminal dell'aeroporto: un veicolo con una bandierina vaticana accanto a un fanale ci raccolse ai piedi della scaletta del Westwind e, preceduto da due motociclisti della polizia turca, abbandonò le immense piste passando da un'apertura laterale della recinzione. Accarezzando l'elegante pelle della tappezzeria dell'automobile, Farag notò con ammirazione che, rispetto a Siracusa, eravamo saliti di categoria. Avevo già visitato Istanbul per ragioni di lavoro una decina di anni prima: la ricerca che, nel 1992, mi aveva fatto vincere il Premio Getty. Ricordavo una città molto più bella e accogliente e la visione di orribili casermoni, veri e propri alveari di cemento, mi colse di sorpresa. Era successo qualcosa di terribile a quella che era stata la capitale dell'Impero Turco per oltre cinquecento anni. Mentre l'automobile percorreva le strade nei pressi del Corno d'Oro in direzione del quartiere del Fhanar, dove si trovava il Patriarcato, vidi che, dove prima c'erano casette di legno con graziose persiane dipinte di vari colori, ora turbinavano gruppetti di russi che vendevano oggettini e giovani turchi che mangiavano ceci e pistacchi, ostentando folte barbe islamiche in luogo dei tradizionali baffi ottomani. Notai anche che era aumentato il numero delle donne che usavano il türban, il tradizionale velo nero chiuso da una spilla sotto il mento. Costantinopoli, la Roma imperiale che era riuscita a sopravvivere fino al XV secolo, era stata la capitale più ricca della storia antica. Dal palazzo di Blacherna, sulle rive del Mar di Marmara, gli imperatori di Bisanzio governavano un territorio che arrivò a estendersi dalla Spagna fino al Vicino
Oriente, passando per il Nordafrica e i Balcani. Si dice che a Costantinopoli si potevano ascoltare tutte le lingue del mondo e scavi recenti avevano dimostrato che, ai tempi di Giustiniano e Teodora, dentro le sue mura c'erano oltre sessanta bagni pubblici. Ma mentre quel giorno ne percorrevo le strade, vedevo solo una città povera e arretrata. Se il centro del mondo cattolico è la Città del Vaticano, splendida nella sua bellezza, magnificenza e ricchezza, il centro principale del mondo ortodosso era quell'umile Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli situato in un quartiere povero e fortemente nazionalista della periferia di Istanbul. I sempre più frequenti attacchi di integralisti avevano reso necessaria la costruzione di un muro di cinta che a stento riusciva a proteggerlo. Nessuno avrebbe potuto immaginare che, dopo millecinquecento anni di gloria e potere, questa sarebbe stata la fine di un così importante trono cristiano. I poliziotti turchi si fermarono ad aspettare fuori dalla porta del Fhanar; il veicolo dell'ambasciata vaticana attraversò invece il patio centrale e si fermò ai piedi della scalinata di uno degli umili edifici del Patriarcato. Fummo ricevuti da un pope di età avanzata, che si presentò come il segretario del Patriarca, Padre Kallistos, il quale ci accompagnò nelle stanze di Bartolomeos I, dove, ci disse, diverse persone ci aspettavano fin dalle prime ore del mattino. L'ufficio di Sua Divinissima Santità era una specie di sala riunioni inondata dalla luce del sole, che entrava da due grandi finestre con vista sulla chiesa patriarcale di San Giorgio. L'aquila imperiale e la corona, simboli dell'antico potere, apparivano da ogni parte: sui disegni della tappezzeria e dei tappeti, sugli intagli di tavoli e sedie, nei quadri e nelle opere d'arte che ingombravano ogni superficie. Sua Divinissima Santità era un uomo di statura considerevole, sui sessant'anni, che si nascondeva timidamente dietro una lunghissima barba candida come la neve. Vestiva come un semplice pope, con la tonaca e il copricapo simile a quello dei Medici di Firenze, e portava un enorme paio di occhiali da presbite che sembravano essergli caduti sul naso per puro accidente. Ma dal suo portamento emanava una tale dignità che ebbi l'impressione di trovarmi di fronte a uno di quegli imperatori bizantini scomparsi per sempre. Accanto al Patriarca si trovava il Nunzio Vaticano, John Lawrence Lewis, in clergyman. Questi ci venne subito incontro per salutarci e dare inizio alle presentazioni. Monsignor Lewis assomigliava in modo preoccupante al marito della regina Elisabetta d'Inghilterra, il duca di Edimburgo:
era alto e magro come lui, altrettanto cerimonioso e, come se non bastasse, aveva le stesse orecchie a sventola sotto la calvizie. Lo stavo guardando affascinata, cercando di trattenere le risate, quando una voce femminile mi strappò dalle mie riflessioni. «Ottavia cara, non ti ricordi di me?» La sconosciuta che mi si era avvicinata mentre Monsignor Lewis ci presentava al Patriarca era una di quelle donne che, attraversata la frontiera della mezza età, si rendono scandalosamente appariscenti con un eccesso di trucco e gioielli. Con i capelli castano chiaro a cascata sulle spalle e un leggero ed elegante tailleur blu con minigonna, mi guardava allegra, in equilibrio sui sottili tacchi a spillo. «No, mi spiace», dissi, sicura di non averla mai vista in vita mia. «Ci conosciamo?» «Ottavia... Ma sono Doria!» «Doria?» mormorai, confusa. Un vago ricordo, una nube che prendeva forma con i visi delle sorelle Sciarra di Catania, cominciò a emergere dal fondo della mia mente. «Doria Sciarra...? La sorella di Concetta?» «Ottavia!» esclamò, contenta che l'avessi identificata, e si lanciò in un forte abbraccio, avendo cura peraltro di non guastarsi il maquillage. «Non è fantastico, Ottavia? Dopo tanti anni! Quanti? Dieci, quindici...?» «Venti», risposi, sprezzante. E mi sembrava fin poco! Se c'era una persona al mondo che non potevo sopportare, era proprio Doria Sciarra, quella piccola vanitosa che si dedicava a seminare zizzania ovunque passasse, senza pensarci due volte. Né io ero mai stata la sua compagna preferita, per cui mi sfuggiva il senso di tutte quelle smancerie. Presentii che sarei stata di pessimo umore per tutto il resto della giornata. «Oh, sì», fece lei, sognante. Era artificiale e plastificata quanto una Barbie. «Non è meraviglioso? Chi l'avrebbe detto? Che colpo di scena!» E si abbandonò a una risata infantile e canterina. Ma certo! pensai, guardandola. Quella ragazzotta grassoccia con i capelli neri come la pece ora esibiva un corpo da anoressica e una dorata criniera leonina. Mi tornò in mente la voce di mio cognato: Abbiamo qualche problema con gli Sciarra di Catania. E poi quella di Giacoma: Stanno invadendo i nostri mercati... Una guerra sporca... «Quanto mi è spiaciuto per tuo padre e tuo fratello, Ottavia! Me lo ha detto Concetta qualche settimana fa. Come sta tua mamma?» Fui sul punto di risponderle per le rime, ma mi contenni. «Lo puoi immaginare.»
«Certo, è terribile. Non sai quanto ho sofferto quando morì mio padre, due anni fa. Fu spaventoso.» «Che cosa ci fai qui, Doria?» la interruppi. Il mio tono doveva essere alquanto secco, perché mi guardò con sorpresa. La regina dell'ipocrisia. «Monsignor Lewis mi ha chiesto di aiutarvi. Sono una degli addetti culturali dell'ambasciata italiana in Turchia. Sono venuta da Ankara con il Nunzio Apostolico per darvi una mano.» Ci mancava solo questo. L'esperto in architettura bizantina che Monsignor Lewis ci aveva promesso era proprio Doria Sciarra! Che senza dubbio era informata della nostra missione. Magnifico. «Vecchie amiche che si ritrovano, eh?» commentò per l'appunto il Monsignore, materializzandosi al nostro fianco. «È una vera fortuna poter contare sulla sua amica Doria per questo lavoro, Sorella Salina. Persino i turchi le chiedono consiglio!» «Mai abbastanza, Monsignore», rispose Doria, in un rimprovero mellifluo. «Per loro l'architettura bizantina è più un fastidio che una meraviglia da conservare.» Il Nunzio non prestò attenzione alle imbarazzanti parole di Doria. Mi prese per un braccio e mi trascinò al cospetto di Sua Divinissima Santità Bartolomeos I, che mi porse l'anello pastorale perché lo baciassi. Feci una lieve genuflessione e avvicinai le labbra al gioiello, chiedendomi intanto quanto a lungo avrei dovuto sopportare la presenza della mia vecchia amica. Ma il peggio venne poco dopo, quando, voltandomi verso i miei compagni, vidi Doria che parlava a bassa voce con Farag, mangiandoselo con gli occhi. Quel cretino non sembrava rendersi conto delle pulsioni carnivore dell'arpia e rispondeva sorridente alle insinuazioni di costei. Un veleno aspro e giallo come la bile mi riempì lo stomaco e il cuore. Dopo di che ci sedemmo intorno a una grande tavola rettangolare al cui centro era intarsiato lo scudo del Patriarca, una croce greca dorata in un cerchio purpureo. La riunione si protrasse ben oltre l'ora di pranzo. Sua Santità Bartolomeos, che marcava inconsciamente il ritmo lento delle sue parole battendo la mano destra, cominciò a spiegarci che la Chiesa dei Santi Apostoli era stata eretta nel IV secolo dall'imperatore Costantino con l'intento di farne un mausoleo famigliare. L'imperatore era morto in Nicomedia nel 337 e il suo corpo era stato portato a Costantinopoli anni dopo e inumato nell'Apostoleion. Il suo figlio e successore, Costanzo, portò quindi nella chiesa le reliquie di San Luca Evangelista, Sant'Andrea Apostolo e San Timoteo.
Doria tolse la parola al Patriarca per dire che due secoli dopo, durante il regno di Giustiniano e Teodora, il tempio era stato interamente ricostruito dai famosi architetti Isidoro di Mileto e Antemio di Talles. Poiché, dopo il suo erudito intervento, non restava nulla da aggiungere, il Patriarca continuò a raccontarci che fino all'XI secolo molti imperatori, patriarchi e vescovi furono sepolti all'Apostoleion e che i fedeli vi si recavano per adorare le reliquie dei martiri, dei santi e dei padri della Chiesa conservate nel tempio. Dopo la sua distruzione, le reliquie peregrinarono da un luogo all'altro per secoli, fino a trovare riposo nell'adiacente chiesa patriarcale. «Eccezion fatta, è chiaro», disse lentamente Sua Santità, «per quelle rubate dai Crociati nel XIII secolo: reliquiari e vasi d'oro e d'argento tempestati di pietre preziose eccetera. La maggior parte dei quali si trovano ora a Roma e nella Basilica di San Marco, a Venezia. Lo storico Nicetas Chroniates afferma che i Crociati giunsero persino a profanare le tombe degli imperatori.» «Naturalmente», aggiunse Doria, prendendo tutto ciò come un'offesa personale, «dopo tali eventi e il terremoto del 1328, l'Apostoleion dovette essere ricostruito, per ordine dell'imperatore Andronico II Paleologo, alla fine del XIII secolo. Ma il tempio non era più lo stesso di prima: spogliato delle sue reliquie e degli oggetti di valore, fu abbandonato e dimenticato fino alla caduta di Costantinopoli, a metà del XV secolo. Nel 1461 Mehmet II ne ordinò la demolizione e fece costruire al suo posto il proprio mausoleo, la cosiddetta Moschea del Conquistatore, o Fatih Camii.» Notai che, mentre all'altro lato del tavolo il capitano stava perdendo la pazienza, Farag invece sembrava incantato da quella esibizione: assentiva e sorrideva come un deficiente a ogni sguardo di Doria. «Potrebbero dirci com'era la chiesa?» domandò Glauser-Röist, per tornare al tema. Doria aprì il quaderno che teneva davanti a sé e distribuì a destra e a manca alcune grosse stampe. «La pianta della basilica era a croce greca, con cinque enormi cupole blu, una all'estremo di ciascun braccio e un'altra, gigantesca, al centro. L'altare, interamente d'argento, si trovava proprio sotto quest'ultima, sormontato da un baldacchino di marmo dalla forma piramidale. Al piano superiore, una fila di colonne sulla lunghezza dei muri interni formava una galleria detta Catechumena, accessibile solo da una scala a chiocciola.» «Se del tempio non resta niente, come si fa a sapere tutto questo?» La Roccia, a volte, era meravigliosamente perspicace. Mi sentivo in debito
con lui per avere messo alla prova le nozioni di Doria. In quel momento giunse nelle mie mani la prima delle stampe, una ricostruzione virtuale dell'Apostoleion, in bianco e nero, con le sue cinque cupole e numerose finestre. «Ma, capitano...» protestò Doria, in tono graziosamente affascinante, «non vorrà che le enumeri tutte le fonti!» «Sì, lo voglio», confermò Glauser-Röist. «Bene. Per cominciare, le dirò che esistono tuttora due chiese costruite sul modello dell'Apostoleion: San Marco a Venezia e Saint-Front a Perigeux, in Francia. Abbiamo inoltre le descrizioni fatte da Eusebio, Filostorgio, Procopio e Teodoro Anagnostes. Disponiamo poi di un lungo poema del X secolo intitolato Descrizione dell'edificio degli Apostoli, opera di un certo Costantino di Rodi, composto in onore dell'imperatore Costantino VII Porfirogeneto.» «L'imperatore», tagliai corto, «che scrisse un magnifico trattato sulle norme di comportamento cortigiano, adottato come manuale dalle corti europee alla fine del Medio Evo. Lo hai letto, Doria?» «No», fece lei, dolcemente. «Non ne ho avuto l'occasione.» Come sospettavo, le sue conclamate conoscenze su Bisanzio si limitavano all'aspetto architettonico. La sua cultura non era così ampia come dava a intendere. «D'altra parte, Ottavia», e a partire da questo momento fece come se neanche ci fossi, «tornando a ciò che ci interessa, devo dire che dispongo di molte altre fonti, anche se sarebbe ozioso elencarle. In ogni caso, se il capitano lo desidera, sarò lieta di passargli i miei appunti.» La Roccia rifiutò l'offerta con un brusco monosillabo e sprofondò nella sedia. «Ci parli della sua ubicazione, Doria, per favore», chiese Farag, sorridendo, chino in avanti sul tavolo con le mani intrecciate, come uno scolaro devoto. «Della mia?» disse la demente con un sorrisetto, senza togliergli gli occhi di dosso. Farag trovò la battuta molto divertente. «No, no, certo. Dell'Apostoleion!» «Ah, volevo ben dire!» Avrei voluto ucciderla, ma dovetti trattenermi. «A quanto ne sappiamo, Costantino il Grande ordinò la costruzione del proprio mausoleo sulla collina più alta della città. Intorno a questo edificio
circolare sorse la primitiva Chiesa dei Santi Apostoli. Poi, nei secoli, il tempio si ampliò, fino a raggiungere le stesse dimensioni di Santa Sofia. E da quel momento cominciò la sua decadenza. Mehmet II non ne lasciò traccia, quando fece erigere la sua moschea.» «Possiamo visitare Fatih Camii?» si informò subito il capitano GlauserRöist. «Naturalmente», rispose il Patriarca. «A patto di non disturbare i fedeli musulmani, perché sareste espulsi senza esitazioni.» «Anche le donne possono entrare?» chiesi con curiosità. Non ero molto esperta di questioni islamiche. «Sì», mi rispose immediatamente Doria, con un incantevole sorriso. «Ma solo nelle zone consentite. Ti accompagnerò io, Ottavia.» Guardai il capitano di sottecchi e lui si limitò ad alzare lievemente le spalle: era inevitabile. Se Doria voleva venire, non potevamo farci niente. La seconda stampa mi giunse in quel momento tra le mani: era una superba miniatura bizantina in cui si distinguevano perfettamente i colori delle cupole e delle mura, rosse e dorate, come dovevano essere al momento del massimo splendore del tempio. Dentro la chiesa, tra le colonne e le pareti, Maria e i dodici Apostoli contemplavano l'Ascensione in cielo di Gesù. Non potei trattenere un'esclamazione ammirata: «È splendida!» «Puoi tenerla, Ottavia», disse Doria con voce argentina. «Appartiene a un codice bizantino del 1162 che si trova nella Biblioteca Vaticana.» Non valeva la pena di risponderle. Se pensava che dovessi sentirmi in colpa per le razzie storiche della Chiesa Cattolica, si sbagliava di grosso. «Ricapitoliamo», decise Glauser-Röist, protendendosi in avanti, mentre lisciava la sua giacca elegante ma spiegazzata. «Abbiamo una città conosciuta come la più ricca e splendida del mondo antico, padrona di innumerevoli tesori. In questa città dobbiamo purificarci, non si sa come, del peccato dell'avarizia. E dobbiamo farlo in una chiesa dedicata agli Apostoli, che non esiste più. È così?» «Precisamente, Kaspar», convenne Farag, grattandosi la barba. «Quando intendete visitare Fatih Camii?» domandò Monsignor Lewis. «Immediatamente», rispose la Roccia, «a meno che la dottoressa e il professore non vogliano sapere altro.» Entrambi scuotemmo il capo. «Molto bene. Allora andiamo.» «Ma... capitano!» Perché Doria si ostinava a usare quella ridicola cantilena? «È ora di pranzo. Non è d'accordo con me, professor Boswell, che
sarebbe meglio mangiare qualcosa prima di andare?» Sul serio, l'avrei ammazzata. «Per favore, Doria, mi chiami Farag.» Un mare di onde gigantesche mi si sollevò dentro e il cuore mi si riempì di schegge microscopiche e velenose. Che cosa stava succedendo? Trascinandomi dietro l'anima, seguii Padre Kallistos fino alla sala da pranzo, dove un paio di anziane greche con copricapi alla turca servirono un pranzo luculliano che riuscii appena ad assaggiare. Doria si era seduta alla mia destra, tra me e Farag, obbligandomi a sopportare le sue chiacchiere più di quanto avrei voluto. Credo sia stato questo a togliermi l'appetito. Ciononostante, per non richiamare l'attenzione, mangiai un po' di pesce e una miscela di verdure ripiene e pasta piccante paragonabile alla caponatina siciliana, il che mi indusse a pensare come il cibo potesse considerarsi una forma di cultura comune a tutti i Paesi del Mediterraneo, dal momento che ovunque sulle sue rive ritrovavo gli stessi ingredienti, preparati in maniera simile. Come dessert, il Patriarca Ecumenico divorò tre o quattro budini al latte, candidi come la sua barba. Tutti i presenti seguirono il suo esempio, tranne me: preferii una leggera cagliata di latte, per favorire la digestione. Al momento del caffè, dolce, scuro e con molto fondo, Doria decise di lasciare temporaneamente la presa su Farag e intavolare una conversazione con me. Mentre gli uomini discutevano sulle peculiarità degli Staurophylakes, la loro incredibile storia e la loro singolare organizzazione, la mia cosiddetta amica si lanciò nella rievocazione dei nostri ricordi d'infanzia e mi sorprese con un'insaziabile curiosità riguardo ai membri della mia famiglia. Sembrava piuttosto ben informata, ma le mancava qualche dettaglio per completare il puzzle. Finché, seccata dalle sue continue e ossessive domande, non troncai la conversazione in malomodo: «Come fai a essere così aggiornata, stando in Turchia, su quello che facciamo noi Salina a Palermo?» «Be', Ottavia», protestò lei, dolcemente, «non vi portiamo rancore. La morte di nostro padre ci ha procurato grande dolore, ma vi abbiamo perdonato.» Di che cosa parlava quella pazza? «Scusami, Doria, ma quello che dici è assurdo. Perché dovreste perdonarci la morte di vostro padre?» «Concetta dice sempre che tua madre fa molto male a tenere nascoste le attività di famiglia a te, a Pierantonio e a Lucia. Davvero non sai niente, Ottavia?»
La sua espressione ingenua e il suo sorriso sibillino mi indicarono che, se io ne ero all'oscuro, lei era disposta a illuminarmi. Mi sentii così irritata che bevvi un lungo sorso di caffè, al termine del quale, non so per quale associazione di idee, me ne uscii con una delle frasi preferite di mia madre: «Passu lungu e vucca corta, Doria».54 Lei si sorprese. «Ma guarda! Allora sai perfettamente di che cosa sto parlando!» La guardai attonita. «Chiederti di tacere equivale a sapere di che cosa stai parlando?» «Oh, andiamo, Ottavia, non fare la bambina. Come puoi non sapere che tuo padre era un campieri?»35 Come feci a capirla? Non lo so. «Mio padre non era un campieri. Stai insultando la memoria e il buon nome dei Salina!» «Be'», sospirò lei, rassegnata. «Non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire. In ogni caso, Pierantonio sa la verità.» «Senti, Doria, sei sempre stata molto strana, ma ho idea che ormai ti abbia dato di volta il cervello. Non ti permetto di insultare la mia famiglia.» «I Salina di Palermo?» fece lei, con un sorrisone. «I padroni della Cinisi, l'impresa di costruzioni che controlla in esclusiva gli affari miliardari del cemento, e delle pietraie di Biliemi, usate per costruire gli edifici pubblici? I proprietari del pacchetto completo della azioni della Finanziaria di Sicilia, che lava il denaro sporco della droga e della prostituzione? I possessori di quasi tutti i terreni produttivi dell'isola, che controllano le flotte dei camion, le reti di distribuzione e la protezione di commercianti e venditori? Quei Salina di Palermo? Quella famiglia?» «Siamo imprenditori!» «Naturale, mia cara! E noi pure, gli Sciarra di Catania! Il problema è che in Sicilia ci sono centottantaquattro clan mafiosi organizzati intorno a due uniche famiglie: gli Sciarra e i Salina, la Doppia S, come ci chiama la Direzione Antimafia. Mio padre, Bernardo Sciarra, è stato per anni il Padrino dell'isola, finché tuo padre, un leale campieri che non aveva mai dato problemi, cominciò pian piano a impadronirsi degli affari principali, assassinando i capi più importanti.» «Sei pazza, Doria? Ti supplico di tacere, per l'amor di Dio!» «Non vuoi sapere come tuo padre ha ucciso il grande Bernardo Sciarra e come ha sottomesso i capi e i campieri fedeli alla mia famiglia?» «Zitta, Doria!» «Vedi, si è servito dello stesso metodo che abbiamo usato noi per ucci-
dere tuo padre e tuo fratello Giuseppe: un finto incidente d'auto.» «Mio fratello aveva quattro figli! Come avete potuto?» «Ancora non l'hai capito, cara Ottavia? Siamo la Mafia, Cosa Nostra... Il mondo ci appartiene! Già i nostri bisnonni erano mafiosi. Uccidiamo, controlliamo governi, mettiamo bombe, spariamo con le lupare e rispettiamo l'omertà. Nessuno può disobbedire alle regole e sfuggire alla vendetta. Tuo padre, Giuseppe Salina, lo ha fatto e ha commesso un errore. E sai la cosa più bella?» La ascoltavo mentre stringevo i denti fino a farmi male, mentre cercavo di respirare e trattenere le lacrime, mentre contraevo i muscoli della faccia in una smorfia di dolore. A lei tutto questo doveva piacere, perché sorrideva come una bambina che ha appena ricevuto un regalo. Tutta la mia vita stava crollando. Chiusi gli occhi perché mi bruciavano e perché un nodo alla gola mi soffocava. Doria era malvagia, era la perversione incarnata. Ma forse mi meritavo quella punizione, per essermi chiusa in un mondo di sogni, sfuggendo alla realtà. Avevo costruito castelli in aria e mi ci ero reclusa perché nulla potesse ferirmi. E alla fine tutto quello sforzo non era servito a niente. «La cosa più bella è che tuo padre non ebbe mai la forza di essere un vero Padrino. Era solo un campieri e non voleva essere altro. Ma dietro di lui c'era qualcuno che aveva, sì, la forza e l'ambizione necessarie per scatenare una guerra puntando all'egemonia. Lo sai di chi parlo, cara Ottavia? No? Di tua madre, amica mia, tua madre, Filippa Zafferano, la donna che in questo momento è il vero Padrino di tutta la Sicilia!» E scoppiò in un'allegra risata, agitando le mani in aria per sottolineare quanto la cosa la divertisse. La guardai senza batter ciglio, senza cancellare l'espressione di dolore dalla mia faccia, senza fare altro che inghiottire le lacrime e serrare le labbra. In qualche momento della mia vita, mi dissi, dovevo avere fatto qualcosa di terribile, per raccogliere una simile vendemmia di odio. «Filippa, tua madre, si sente forte e sicura a Villa Salina. Quindi consigliale di restarci e di non uscire, perché fuori l'attendono molti pericoli.» E, detto questo, mi voltò le spalle e si girò verso Farag, impegnato a conversare con Sua Divinissima Santità. Il mio corpo era paralizzato, senza vita. Al contrario, la mia testa era un vortice di pensieri. Ora capivo perché mi avevano mandata dalle suore fin da piccola, com'era capitato a Lucia e a Pierantonio. Ora capivo perché mia madre ci teneva sempre al di fuori degli affari di famiglia. Ora capivo
perché ci aveva sempre spinti a starcene lontano da casa e a puntare alle cariche più alte della Chiesa. Tutto tornava alla perfezione: i pezzi sciolti del rompicapo andavano ognuno al loro posto e completavano il quadro. L'ambizione della mamma ci aveva selezionati per fare da contrappeso, da garanzia spirituale e terrena. Pierantonio, Lucia e io eravamo i suoi gioielli, la sua opera, la sua giustificazione. Quell'assurda idea di compensazione coincideva esattamente con la mentalità vecchio stampo di mia madre. Poco importava che i Salina fossero degli assassini, quando tre di noi erano vicini a Dio, pregavano per gli altri e occupavano posti di responsabilità o prestigio all'interno della Chiesa, mantenendo pulito il nostro cognome. Sì, corrispondeva molto bene al suo modo di pensare e di essere. D'un tratto il grande rispetto e l'ammirazione che avevo sempre provato per lei si trasformarono in una grande pena di fronte alla sproporzione dei suoi peccati. Mi sarebbe piaciuto chiamarla e chiederle perché si era comportata così, perché aveva mentito a Pierantonio, a Lucia e a me, perché aveva impiegato mio padre come strumento della sua cupidigia, perché aveva spinto i suoi altri sei figli (ora solo cinque, dopo la morte di Giuseppe) a rubare, estorcere e uccidere, perché permetteva che i suoi nipoti, cui tanto diceva di voler bene, crescessero in quell'ambiente, e perché desiderava a tutti i costi essere a capo di un'organizzazione che andava contro le leggi di Dio e degli uomini. D'altro canto non potevo chiederle tutte quelle spiegazioni, perché lei non avrebbe tardato a scoprire come fossi venuta a conoscenza della verità e la guerra tra i Salina e gli Sciarra avrebbe lasciato troppi morti per le strade di Sicilia. Era finito il tempo degli inganni. E, in fondo, dovevo riconoscere che neppure io ero così innocente come avrei voluto. Né lo era Pierantonio, che con i suoi affari sporchi nell'ambito della Chiesa non faceva altro che continuare la tradizione di famiglia. Né poteva esserlo la buona Lucia, sempre ingenua ed estranea a tutto. Tutti e tre vivevamo felici dentro una menzogna, nella quale la nostra era una famiglia da fiaba. Una famiglia perfetta, con gli armadi pieni di scheletri. Ero così assorta che non ricordo di avere sentito il capitano GlauserRöist che mi chiamava. Ma ugualmente mi alzai in piedi, come un automa. Non mi importava più nulla del colpo di fulmine tra Doria e Farag. Niente poteva causarmi più dolore di quello che provavo in quel momento, quindi, per quanto mi riguardava, potevano vivere per sempre felici e contenti. Per me faceva lo stesso. La mia mente viaggiava tra il passato e il presente, il presente e il passato, annodando i fili sospesi e ricucendo trame perdute.
Tutto assumeva tinte diverse, tutto aveva una nuova spiegazione. Improvvisamente mi sentivo molto sola, come se il mondo intero si fosse spopolato, o come se i miei legami con la vita si sciogliessero. Anche i miei fratelli mi avevano mentito. Avevano tutti mantenuto il silenzio, stando alle regole del gioco stabilite da mia madre. I realtà, i fratelli di cui mi fidavo ciecamente mi avevano ingannata. Insieme non formavamo affatto quel gruppo indivisibile di cui dicevamo di sentirci tanto orgogliosi. I veri figli di Giuseppe e Filippa erano i cinque che vivevano in Sicilia e che si occupavano degli affari di famiglia. Noi che ne stavamo fuori, bellamente imbrogliati, eravamo estranei alla realtà quotidiana della casa. Giuseppe, riposi in pace, Giacoma, Cesare, Pierluigi, Salvatore e Agata dovevano sempre essersi sentiti degli emarginati, rispetto a noi, oppure, al contrario, dei privilegiati. La fiducia tra i nove fratelli era sempre stata una fandonia: tre erano stati destinati alla Chiesa, i tre eletti, e gli altri sei avevano condiviso il destino e le disgrazie, la verità e la finzione, mentendo per ordine di mia madre. E mio padre? Mio padre che ruolo aveva in tutto questo? In quel momento compresi che mio padre, di sicuro, non era che un campieri, un semplice campieri e cui piaceva il suo odioso lavoro e che agiva secondo i dettami della moglie, la grande Filippa Zafferano. Tutto tornava. Chiaro e semplice. «Dottoressa? Non si sente bene, dottoressa Salina?» Le immagini famigliari mi si cancellarono dagli occhi e dalle nebbie spuntò il volto della Roccia. Ci trovavamo nel vestibolo del Patriarcato e nemmeno mi ricordavo come ci fossimo arrivati. Il capitano, che negli ultimi mesi avevo visto tutti i giorni, mi risultava totalmente estraneo, proprio come Doria prima che mi dicesse il suo nome. Sapevo di conoscerlo, ma era come se nulla nella sua faccia mi permettesse di identificarlo. Qualche parte del mio cervello aveva sofferto un cortocircuito: mi sentivo sperduta come una neonata. «Dottoressa Salina, per favore», insistette, prendendomi per un braccio, «vuole dirmi che cosa diavolo le sta succedendo?» «Devo chiamare casa.» «Deve che cosa?» fece, preoccupato. «Gli altri sono già in macchina e ci aspettano.» «Devo chiamare casa», ripetei, meccanicamente, mentre gli occhi mi si riempivano di lacrime. «La prego... La prego...» Glauser-Röist mi fissò, in tensione, per un paio di secondi, ma dovette concludere che avrebbe perso meno tempo a lasciarmi telefonare, piuttosto
che ad aspettare che cambiassi idea o a discutere con me. Mi lasciò andare di colpo e si rivolse a Padre Kallistos e al Patriarca, in piedi dall'altro lato della porta a vetri, spiegando che dovevamo fare una telefonata in Italia. Dopo un breve scambio di frasi, il capitano tornò da me, con un'espressione torva. «Può usare il telefono in quell'ufficio là dietro. Ma faccia attenzione: il governo turco intercetta le chiamate.» Non me ne importava. Volevo solo sentire la voce di mia madre, per porre fine a quell'orribile sensazione di abbandono e solitudine che mi stava avvolgendo l'anima. Qualcosa mi diceva che, se avessi parlato con lei anche solo per mezzo minuto, avrei potuto recuperare la lucidità e tornare con i piedi per terra. Così, chiusa la porta, mi impossessi del telefono, composi il prefisso internazionale seguito dalle nove cifre del numero di casa e attesi il segnale della linea. A rispondere fu Matteo, il più serio e laconico dei miei nipoti, uno dei figli di Giuseppe e Rosalia. Come sua abitudine, quando mi riconobbe non mostrò la minima allegria; non lo faceva mai. Gli chiesi di passarmi la nonna e lui mi disse di attendere, perché era occupata. Fu allora che mi resi conto che anche i ragazzi erano coinvolti. Con tutta sicurezza, doveva essergli stato ripetuto mille volte che, quando chiamavano lo zio Pierantonio, la zia Lucia o la zia Ottavia, non dovevano dare spiegazioni su quello che qualsiasi membro della famiglia stava facendo. O che, quando eravamo presenti, non si dovevano toccare certi tasti. Provai di nuovo la vertigine dell'ipocrisia e della solitudine. «Sei tu, Ottavia?» La voce di mia madre suonava lieta. «Come stai, tesoro? Dove sei?» «Ciao, mamma.» Quasi non riuscivo a parlare. «Tuo fratello Pierantonio mi ha detto che hai passato alcuni giorni a Gerusalemme con lui!» «Sì.» «Come lo hai trovato? In forma?» «Sì, mamma.» Cercavo di fingermi allegra. Mia madre rise. «Bene, bene. E tu? Non mi dici dove sei?» «Certo, mamma. Sono in Turchia, a Istanbul. Senti, mamma, ho pensato... volevo dirti... Vedi, mamma, probabilmente, quando tutto questo sarà finito, lascerò il mio lavoro in Vaticano.» Non so perché lo dissi. Non mi era mai venuto in mente prima. Forse per farle male, per infliggere anche a lei un po' di dolore. «Come?» fece lei, gelida, dopo una breve pausa.
Come? Era un'idea così ridicola, così assurda, da sembrare una vera pazzia. Ma in quel momento l'idea di lasciare il Vaticano mi pareva una liberazione. «Sono stanca, mamma. Credo che mi farebbe bene ritirarmi in uno dei conventi di campagna del mio Ordine. Ce n'è uno in Irlanda, nella provincia di Connaught, dove potrei occuparmi degli archivi e delle biblioteche di vari monasteri della zona. Ho bisogno di pace, mamma. Pace, silenzio e preghiera.» Le ci vollero alcuni secondi per reagire e, quando lo fece, fu in tono di dispetto. «Andiamo, Ottavia, non dire sciocchezze! Non rinuncerai al tuo posto in Vaticano! Vuoi darmi un altro dispiacere? Dopo la morte di tuo padre e tuo fratello? Perché mi dici queste cose, figlia mia? Bene, non se ne parli più. Non lascerai il Vaticano.» «E se lo facessi, che cosa succederebbe, mamma? Credo che la decisione spetti a me.» Che fosse una mia decisione non c'era dubbio, ma al tempo stesso riguardava anche mia madre. «Basta così! Hai proprio deciso di darmi un dispiacere? Che cosa ti succede, Ottavia?» «In realtà niente, mamma.» «Allora rimettiti al lavoro e non pensarci più. Chiamami un altro giorno, va bene, tesoro? Lo sai che mi fa sempre piacere sentirti.» «Sì, mamma.» Quando salii in macchina, avevo recuperato la calma interiore. Sapevo di non potermi dimenticare di quella storia nemmeno per un secondo, perché la mia mente procedeva a impulsi ossessivi. Ma almeno sarei stata capace di affrontare la situazione attuale senza perdere la ragione. Ciononostante, sapevo anche qualcos'altro, per quanto doloroso, per quanto volessi negare l'inevitabile: non sarei mai più tornata a essere quella di prima. Nella mia vita si era aperta una frattura dolorosa, una crepa che mi scindeva in due parti inconciliabili e che mi allontanava per sempre dalle mie radici. L'automobile che ci portò a Fatih Camii non fu quella della Nunziatura: per una questione di discrezione, Monsignor Lewis e il capitano si erano trovati d'accordo nel servirsi di un veicolo del Patriarcato, privo di insegne. Dei partecipanti alla riunione, solo Doria venne con noi: fu lei a guidare fino alla Moschea del Conquistatore, percorrendo velocemente l'area del Corno d'Oro e il Viale Atatürk. La Moschea, che apparve improvvisamente ai nostri occhi in fondo al Bozdogan Kemeri, l'Acquedotto di Valente, era enorme, solida, austera, con altissimi minareti carichi di balconi, una gran-
de cupola centrale intorno a cui si moltiplicavano le semicupole e una miriade di fedeli che andavano e venivano nella grande piazza antistante, circondata da edifici religiosi. Doria, cui non rivolsi né lo sguardo né la parola per tutto il tragitto, da lei ricambiata, si fermò in un parcheggio all'estremità della piazza. Mimetizzati tra i numerosi turisti, ci incamminammo verso l'entrata. Notai che Farag si teneva indietro, per mettersi al mio fianco, lasciando Doria con il capitano. Ma non avevo la forza di sopportare la sua presenza, per cui affrettai il passo e mi affiancai alla Roccia, l'unico che sembrasse disposto a lasciarmi in pace. Non avevo voglia di parlare con nessuno. Varcammo la soglia e ci trovammo in un patio porticato di grandi dimensioni, in cui c'erano alberi e un tempietto centrale che sembrava un'edicola di giornali ma che, in realtà, era la fonte per le abluzioni. Anche le colonne dell'atrio erano colossali e non potei non notare che, benché si trattasse di una costruzione musulmana, tutto il complesso aveva una marcata aria neoclassica. Ma l'impressione svanì di lì a poco, dopo che ci fummo tolti le scarpe e Doria e io ci coprimmo il volto con veli neri consegnatici da un vecchio custode, incaricato di vigilare sulla moralità dei turisti distratti. Appena entrammo all'interno della Moschea, la sua bellezza e il suo splendore mi tolsero il respiro. Mehmet II si era davvero costruito un mausoleo degno del conquistatore di Costantinopoli. Preziosi tappeti rossi coprivano interamente un pavimento la cui superficie era estesa quanto quella di San Pietro in Vaticano. Vetrate multicolori alle finestre, disposte intelligentemente sul tamburo della cupola e agli incroci delle tre altezze, lasciavano passare un'intensa luce orizzontale che riempiva lo spazio. Le sezioni bianche e rosse delle volte mettevano in risalto le componenti architettoniche e, alla congiunzione degli archi con le pareti, vistosi medaglioni azzurri recavano luminose iscrizioni dal Corano. Come se ciò non fosse sufficiente, una maglia di cavi sosteneva, a metà altezza, un alveare di lampadari d'oro e d'argento. Le gallerie riservate alle donne erano situate al primo piano. Per un momento ebbi il timore che il custode ci obbligasse a restare lì, mentre Farag e il capitano esploravano la Moschea. Per fortuna, non fu così: Doria e io, senza scambiare una parola, potemmo muoverci a nostra discrezione. A quanto pareva, le turiste straniere godevano di certi privilegi, negati invece alle donne musulmane. Andammo su e giù per un'ora, ispezionando ogni angolo, senza trovare
nulla. Cominciammo dalla qibla, il muro del tempio orientato verso la Mecca, al cui centro, scavato nella pietra, si trova il mihrab, il luogo più sacro dell'edificio, una sorta di nicchia che indica con precisione la direzione. Esaminare la maxura fu più complesso, trattandosi della zona antistante la qibla in cui si trova il pulpito dell'imam. Poi ci separammo. Farag studiò con sconfinata pazienza e abilità l'infinità di lampade. A me toccarono tutte le colonne dei tre piani, incluse quelle della galleria delle donne. Da parte sua il capitano, che si stringeva al suo zaino di sopravvivenza come se da un istante all'altro potesse capitarci qualche disgrazia, oltre ad analizzare i motivi dei tessuti degli immensi tappeti passò in rassegna le panche e le parti in legno, così come il semplice sarcofago che conservava i resti di Mehmet II. Doria si occupò invece delle vetrate e della porta. Alla fine ci restava solo da controllare il pavimento, cosa che sarebbe risultata impossibile. Quando il nostro sopralluogo fu concluso, la Moschea del Conquistatore si era ormai quasi svuotata, eccezion fatta per qualche anziano che dormicchiava vicino ai pilastri. Ma quel silenzio era solo la calma che precedeva la tempesta. Il grido del muezzin che dagli altoparlanti chiamava alla preghiera ci fece sobbalzare. Ci guardammo l'un l'altro sconcertati. Il capitano ci fece cenno di riunirci vicino alla porta e di uscire quanto prima. Avemmo appena il tempo di raggrupparci, mentre centinaia di fedeli spuntati dal nulla entravano a ondate nel tempio, disponendosi in file perfettamente ordinate e parallele per cominciare la preghiera di metà pomeriggio. «È l'adhan», spiegò Doria, che la marea umana sembrava spingere inevitabilmente addosso a Farag. «La chiamata all'orazione.» «La ilah illa Allah wa Muhammad rasul Allah», continuava a recitare la voce amplificata del muezzin: «Non vi è altro Dio all'infuori di Allah e Maometto è il suo profeta». «Andiamocene», ordinò Glauser-Röist, facendo da ariete col suo corpo per aprirci il passo attraverso la corrente. Con enormi difficoltà raggiungemmo il patio scoperto, il sahn, appena in tempo: prima ancora che potessimo recuperare le nostre scarpe, la Moschea si era riempita come un uovo. «Domani è un altro giorno», sentenziò Farag, guardandosi intorno con un sorriso. «Andiamo», disse Doria. «Vi porto in albergo, così potrete riposare. Chiamerò Monsignor Lewis perché vi faccia portare i bagagli dall'aeroporto.»
«Sono ancora a bordo?» le chiesi, sorpresa. Mi spiacque immediatamente di essermi rivolta a lei, anche se solo per quella semplice domanda. «Avevo ordinato di non sbarcarli», puntualizzò Glauser-Röist, «nell'eventualità che fossimo riusciti a superare la prova in giornata.» «Temo che non sarà possibile, Kaspar.» «Se volete», continuò Doria, sfoggiando il suo sorriso e togliendosi il velo dalla testa, «stasera vi porto a cena in uno dei migliori ristoranti di Istanbul. Un locale divertentissimo, dove potrete assistere all'autentica danza del ventre.» «Prima di andarcene dovremmo dare un'occhiata a questo patio», obiettai, di malumore. Eravamo un gruppo così strano... L'unico tramite possibile per la comunicazione fra noi quattro era la Roccia, che non aveva idea di che cosa stesse succedendo fra le sue truppe. «Ma stanno pregando, adesso», protestò Doria. «Se la prenderanno con noi. Meglio tornare domani.» Glauser-Röist mi guardò. «No, la dottoressa ha ragione. Esaminiamo questo luogo. Con un po' di discrezione, non disturberemo nessuno.» «Mentre controlliamo qualcuno dovrebbe distrarre il custode», propose Farag. «Non ci toglie gli occhi di dosso.» «Sarà lo Staurophylax che vigila sulla prova», ironizzai. Quella stupida di Doria si voltò verso il custode rapida come un lampo. «Sul serio?» esclamò ad alta voce. «Uno Staurophylax?» «Doria, ti prego!» la sgridai. «Questo non è un gioco! Smetti di guardarlo.» Il custode, un uomo anziano con la barbetta e un copricapo bianco a forma di guscio d'uovo, si accigliò, ma non smise di osservarci. «Vada lei, Doria», stabilì la Roccia. «Parli con lui, gli restituisca i veli e lo distragga più a lungo che può.» Con un sorrisetto malizioso sulle labbra le consegnai il mio türban e rimasi con Farag e il capitano. Quante volte abbiamo giocato insieme da piccole!, pensai, guardandola allontanarsi. E, per fortuna, quanto erano diverse le nostre vite. «Dividiamoci», disse Glauser-Röist. «Ciascuno di noi esaminerà un terzo del patio. Lei, dottoressa, non si avvicini alla fonte delle abluzioni: scatenerebbe una rivoluzione. Ci penseremo noi.» Mi ritrovai sola, mentre loro si dirigevano al sabial, l'edicola. La sezione che toccava a me, all'estremità sinistra del limitato spazio libero, non pre-
sentava il minimo interesse. Il pavimento era di pietra, gli alberi avevano il tronco sottile e sulle pareti non c'era niente di insolito. Vagando pigramente lungo il portico, occhieggiai Doria, che stava impegnando il custode della Moschea in un'inutile conversazione. L'anziano la guardava come se fosse un'idiota, e lo era, o l'incarnazione del diavolo, ed era anche quello: ancora un po' e l'avrebbe scacciata senza mezzi termini. Chissà che cosa stava dicendo al pover'uomo, per farlo alterare in quel modo. In ogni caso, non ebbi il tempo di scoprirlo. La mano di Farag mi afferrò un braccio e mi costrinse a girarmi. Lui, col suo incantevole sorriso sulle labbra, ammiccò in direzione del capitano. «Lo abbiamo localizzato», sussurrò, senza smettere di sorridere. «Dobbiamo sbrigarci.» Passeggiando senza fretta, ci dirigemmo verso il lato del sabial su cui si trovava Glauser-Röist. «Che cos'avete trovato?» domandai, sorridendo a mia volta. «Un Crismon di Costantino.» «In una fonte musulmana per le abluzioni? Non è possibile.» Prima delle cinque orazioni quotidiane prescritte dal Corano, i musulmani devono effettuare un rituale completo di abluzioni consistente nel lavarsi la faccia, le orecchie, i capelli, le mani, le braccia fino al gomito, le caviglie e i piedi. A questo scopo, all'entrata di tutte le moschee del mondo si trova una fonte davanti alla quale i fedeli devono passare per entrare nella sala delle preghiere, o haram. «È dissimulato perfettamente», mi spiegò Farag. «È come un rompicapo i cui pezzi siano stati messi in disordine e collocati sul fondo della fonte.» «Sul fondo della fonte?» «Ci sono dodici rubinetti da cui l'acqua cade nella conca di pietra, sul cui fondo si trovano i pezzi del nostro Crismon. Questo significa che la chiave è nel sabial. Il capitano sta continuando a esaminarlo. Dobbiamo sbrigarci. Doria non potrà trattenere il custode in eterno, quindi osserva rapidamente e allontanati più in fretta che puoi.» Seguii punto per punto le istruzioni di Farag, scambiando un'occhiata complice con il capitano quando entrai nel suo raggio visivo. Avevano ragione: il centro della fonte era un cilindro di pietra da cui spuntavano dodici bocche di rame che rovesciavano l'acqua in una conca larga poco meno di un metro, circondata da un basso muretto. Sul fondo, quasi nascosti nell'acqua sporca che stagnava dopo le recenti e massicce abluzioni, si vedevano le pietre su cui, consumati ma riconoscibili se si sapeva che cosa cercare, si distinguevano le componenti di un Crismon di Costantino.
Molto bene, mi dissi, inarcando le sopracciglia. Dov'è il trucco? Che cosa dovevamo fare, adesso? Benché messa in guardia sul pericolo rappresentato dalla mia presenza nei pressi del sabial, con un gesto inconscio aprii uno dei rubinetti. Non provocai alcun cataclisma cosmico, ma quel gesto mi diede un'idea che, naturalmente, non esitai a mettere in pratica. Sotto lo sguardo di orrore di Farag, mi tolsi le scarpe e misi un piede nel canale di scarico. Volevo verificare se ciò che ci si aspettava da noi era che calpestassimo le pietre. Ovviamente, non servì a niente. Ma il fondo era sdrucciolevole e indietreggiando scivolai, urtando col fianco uno dei rubinetti. Lo strano fu che il rubinetto si piegò senza rompersi, lasciando allo scoperto una molla. Questo significava che avevo scoperto qualcosa. Farag e il capitano decisero di imitarmi ed entrarono nel canale, senza nemmeno togliersi le scarpe, spingendo tutti i rubinetti come in un accesso di follia. Per quanto strano possa sembrare, dal momento in cui entrai nella fonte a quello in cui tutti i dodici rubinetti furono sollevati e il pavimento si aprì sotto i nostri piedi, non dovette passare più di mezzo minuto, ma ricordo la scena come se si fosse svolta al rallentatore. Le dodici pietre del fondo della fonte cedettero sotto il nostro peso come una dentatura colpita da un pugno, lasciandoci cadere nel vuoto, per poi richiudersi: mentre sprofondavamo, vedemmo la luce sparire sopra di noi. In un altro momento della mia vita, come quando eravamo caduti nella Cloaca Massima dalla cripta di Santa Maria in Cosmedin, avrei gridato come una pazza e agitato le braccia nel tentativo di afferrarmi a qualcosa, ma ormai, giunta alla quinta cornice del Purgatorio, sapevo che tutto era possibile e non mi spaventai nemmeno. Quando, con un baccano tremendo, atterrai in un pozzo colmo d'acqua che attutì la nostra caduta, mi colpì solo quanto fosse gelata. Trattenni l'aria nei polmoni, puntai i piedi sul fondo e mi spinsi verso l'alto, fino a emergere. Quel pozzo, a parte il fetore insostenibile, era buio come la notte. Sentii uno sciacquio vicino a me. «Farag? Capitano?» L'eco mi restituì la mia voce moltiplicata. «Ottavia!» gridò Boswell alla mia destra. «Ottavia, dove sei?» Un altro sciacquio. Qualcuno sputò acqua vicino a me. «Capitano?» «Maledizione! Maledetti tutti gli Staurophylakes del demonio», tuonò Glauser-Röist. «Mi sono bagnato tutti i vestiti!» Non potei trattenere una risata, mentre battevo le gambe per tenermi a galla. «Questa è buona! E adesso come facciamo, capitano? Ha tutti i ve-
stiti bagnati! Che catastrofe!» «Terribile! Terribile!» commentò Farag. «Potete ridere quanto volete, ma non ne posso più di quella gente!» «Perché io, invece?» dissi a mia volta. In quel momento la Roccia accese la torcia elettrica. «Dove siamo?» domandò Farag. Ci trovavamo in una cisterna di pietra piena di un liquido torbido. Il vantaggio di vivere avventure come quella e di immergersi da capo a piedi in una soluzione usata per lavare centinaia di piedi sudati è che i problemi della vita reale, quelli che fanno male sul serio, svaniscono dalla mente. L'immediato assorbe tutte le risorse fisiche e psichiche. In questo caso, l'immediato era non vomitare e non far caso al prurito in tutto il corpo, senza contare tutte le infezioni che quella sporcizia poteva procurarmi ai piedi ancora piagati dalla maratona o alle scarificazioni ancora fresche sulla mia pelle. «È una specie di Mar dei Sargassi, solo che invece di alghe ci sono funghi.» Com'ero cambiata, mio Dio! Farag rise. «Dottoressa, per favore», reclamò Glauser-Röist, «la smetta di parlare di schifezze! Cerchiamo il modo di uscire, svelti!» «Allora faccia luce sulle pareti, chissà che non si veda qualcosa.» Le mura di pietra della cisterna mostravano grandi macchie di muschio, separate da grosse linee di sporco che indicavano i differenti livelli raggiunti dall'acqua nel corso degli ultimi cinque o dieci secoli. Ma, a parte l'umidità e lo strato di vegetazione, non si vedeva niente che potesse esserci d'aiuto per scalare le pareti. Nel contempo, la distanza che ci separava dal sabial era tale da rendere impossibile la scalata fino alla sommità senza cadere varie volte in quello stagno profumato. Se c'era un'uscita, concludemmo, non poteva essere che sotto di noi. «Più che l'avarizia», mormorò Farag, «qui ci fanno perdere l'orgoglio, in questo bagno di umiltà.» «Ancora non abbiamo finito, professore», gli rammentò Glauser-Röist. «Abbiamo solo una torcia», dissi io, che cominciavo a sentire le gambe affaticate. «Se dobbiamo immergerci, è meglio farlo insieme.» «Si sbaglia, dottoressa: ne abbiamo tre. Le do subito la sua.» Il capitano frugò nello zaino fradicio fino a trovare, con notevoli difficoltà, quello che cercava. Porse una torcia a me e una a Farag. Con tutta quella luce, quel luogo sinistro e schifoso divenne soltanto schifoso. Provai una certa nau-
sea e preferii non pensarci, per non dovermi sottomettere allo sforzo di aggiungere sporcizia all'acqua. «Pronti?» chiese la Roccia. E, senza ulteriori preamboli, inspirò, gonfiò le guance e si immerse nella broda. «Andiamo, Ottavia», mi istigò Farag, guardandomi col sorriso negli occhi, gli stessi che per tutto il giorno erano rimasti stupidamente incollati a Doria. Se stava cercando di ridurre le distanze, aveva trovato la persona più ostinata della Terra. Senza rispondergli, né dare riscontro alle sue parole, mi riempii i polmoni con l'aria infetta della cisterna e mi tuffai sulla scia del capitano. La sospensione nell'acqua era così densa che la torcia di Glauser-Röist era un punto appena visibile qualche metro più in basso. Farag mi seguì, illuminando le pareti del pozzo, su cui non si vedeva altro che muschio bianco che oscillava al nostro passaggio. Naturalmente fui la prima a trovarsi a corto d'aria e mi vidi costretta a tornare in superficie. Inspirai grandi boccate, senza nemmeno più far caso al fetore della cisterna. A intervalli, ognuno di noi doveva risalire, ma alle immersioni successive tutto si fece più rapido: nuotavamo in zone conosciute. Benché l'acqua fosse sempre più fredda, la sensazione di scivolare dolcemente a testa in giù nel silenzio assoluto era meravigliosa. A un certo punto Farag mi urtò accidentalmente e le sue gambe si unirono alle mie per qualche secondo. Quando la sua torcia ci illuminò, l'espressione del suo volto era di divertito imbarazzo, ma io mi mantenni seria e mi allontanai da lui, anche se quel fugace contatto mi aveva fatto sembrare l'acqua meno gelida. Finalmente, a circa quindici metri di profondità, al limite della nostra resistenza e con una pressione terribile alle orecchie, scoprimmo l'enorme bocca circolare di un canale. Tornammo in superficie per riposare qualche secondo e riprendere fiato. Quando ci sentimmo pronti, ci immergemmo di nuovo, puntando dritti verso la bocca. Entrammo. Per un attimo, il pensiero che l'aria immagazzinata nei polmoni potesse esaurirsi prima dalla fine del condotto mi angosciò. Oltretutto, nuotavo tra il capitano, davanti a me, e Farag, che mi seguiva. Ero in trappola. Pregai, chiedendo aiuto. Mi concentrai sul Padrenostro per evitare che i nervi mi facessero consumare il poco ossigeno residuo. Ma, quando già pensavo che fosse giunta la mia ora e immaginavo Farag sconvolto dalla mia morte, il condotto giunse al termine e sopra le nostre teste, in lontananza, distinsi una superficie liquida e trasparente che lasciava passare il riflesso della luce. Con il cuore sul punto di esplodere, mi lanciai verso l'alto, controllando lo spasmo istintivo
della respirazione di cui il mio corpo sentiva un bisogno disperato. Finalmente, come una palla che rimbalza in aria, emersi boccheggiante fino alla vita. Sbuffavo come una locomotiva e faticavo a riprendere il controllo del mio corpo intirizzito dal freddo, ma finalmente presi visione di dove fossimo giunti. Per la legge dei vasi comunicanti, dovevamo inevitabilmente trovarci alla stessa altezza dell'acqua nella cisterna, eppure il paesaggio era completamente diverso: una spiaggia di pietra che scivolava nell'acqua occupava metà di quell'insolita grotta illuminata da decine di torce infisse nelle pareti. Ma ancora più strano era il gigantesco Crismon cesellato nella roccia e bordato di fiaccole che si vedeva chiaramente sul fondo. «Mio Dio!» sentii dire a Farag, profondamente impressionato. «Si direbbe una cattedrale dedicata al dio Monogramma», commentò Glauser-Röist. «Mi pare chiaro che ci stavano aspettando», sussurrai. «Guardate le torce.» Il silenzio, rotto dallo scoppiettio delle fiamme, rendeva ancora più suggestiva, se possibile, l'impressione di trovarsi in un sacro recinto. Nuotammo lentamente verso la riva. Era un piacere sentire di nuovo la terraferma sotto i piedi e uscire dall'acqua camminando, anche se a piedi scalzi. Ero così congelata che l'aria della grotta mi parve calda. Mentre mi strizzavo l'acqua dalla gonna (non potevo trovare occasione migliore per indossarla) mi diedi un'occhiata distratta intorno. Il mio cuore perse qualche colpo quando mi accorsi che Farag, a pochi passi da me, mi stava osservando minuziosamente. C'era un bagliore particolare nel suo sguardo, come se i suoi occhi fossero lì lì per prendere fuoco. Mi irrigidii e gli voltai le spalle, ma la sua immagine mi era rimasta impressa nella retina. «Guardate!» esclamò la Roccia, puntando l'indice. «L'entrata di una caverna sotto il Crismon! Avanti, dottoressa!» «Sì, ma perché la prima devo essere sempre io?» protestai, con una certa apprensione. «È una donna coraggiosa.» «Non è una risposta, capitano.» Ma obbedii e feci strada, perché sapevo che, oltre quell'entrata, ci aspettava la vera prova degli Staurophylakes. Camminando con cautela, visto che ero senza scarpe, cominciai a chiedermi come se la fosse cavata Dante nella cisterna. Un uomo serio e severo come lui, così circospetto, doveva essersi infuriato dopo la decima immersione in quell'acqua ripugnante. Chi avrebbe mai immaginato Dante Ali-
ghieri che nuotava? Un'attività del genere sembrava assolutamente in contrasto con la sua immagine. Eppure non poteva esserne uscito altrimenti. Il tratto di caverna che dovemmo precorrere non era molto lungo, non più di duecento o trecento metri, ma feci ogni passo con i cinque sensi all'erta: non si può mai sapere che cosa abbia in mente qualcuno che accende decine di fiaccole e poi sparisce senza salutare. E poi, dalle esperienze precedenti, avevo imparato che dei guardiani delle prove c'era poco da fidarsi. Finalmente scorgemmo una luce in fondo alla grotta. Quando vi giungemmo, trovammo un grande spazio circolare, una specie di circo romano, sovrastato da una cupola di pietra molto sopra le nostre teste. Esattamente al centro, un solitario sarcofago di porfido rosso sangue, grande quanto bastava ad albergare un'intera famiglia, poggiava su quattro splendidi leoni bianchi a grandezza naturale, il cui aspetto feroce sembrava ammonirci di stare lontani. «Che posto!» commentò Farag. Alle sue parole fece immediatamente seguito un rumore assordante che ci fece girare su noi stessi di centottanta gradi. Una pesante inferriata era caduta dall'alto, chiudendo la grotta. «Ora sì che ci hanno sistemati!» esclamai, indignata. «Con questa gente non c'è niente da fare!» «La smetta di lamentarsi, dottoressa, e si concentri su quello che dobbiamo fare.» Senza rendermene conto, guardai Farag in cerca della sua complicità. D'improvviso, il velo che aveva nascosto i miei sentimenti si sollevò, lasciando che mi franassero addosso. Il professor Boswell aveva i capelli incollati alla testa, la barba gocciolante, gli occhi infossati in occhiaie preoccupanti, ma nonostante tutto era bellissimo. Lo sentivo mio, come se lo avessi amato da tutta la vita, come se fossi sempre stata al suo fianco, tenendolo per mano, aderendo al suo corpo, fusa con lui. Fui scossa da una commozione inspiegabile. Perché certe immagini mentali hanno il potere di far tremare la terra? Non avevo mai sperimentato niente del genere. Ciò che più mi sorprendeva erano i cambiamenti della temperatura del mio corpo a seconda dei pensieri. Non potevo continuare così e, preoccupata, mi domandai se non fossi arrivata a confondere l'ambizione con la vocazione, se quello che avevo creduto amore e dedizione non fosse in realtà che un lavoro e uno stile di vita. In fondo sarebbe stato meglio, perché solo così avrei potuto giustificare di fronte alla mia coscienza quello che prova-
vo per quell'uomo bello e intelligente e, al tempo stesso, giustificare il mio ipotetico abbandono della vita religiosa... Ma, diamine, che cosa andavo a pensare? Non l'avevo visto fare lo scemo tutto il giorno con Doria Sciarra? Gli rivolsi un'ultima occhiata indispettita e gli voltai le spalle proprio quando cominciava a sorridermi. Avrà pensato che stessi impazzendo o che fosse stata un'illusione ottica. Con un dolore acuto che mi bruciava il cuore a fuoco lento, mi diressi verso il sarcofago, seguita dalla Roccia. Come se non avessi già abbastanza problemi con la mia famiglia, me ne andavo a cercare altri. Possibile che non riuscissi mai a concedermi un momento di pace? Sul bordo del pavimento circolare di marmo della sala erano distribuite dodici strane cavità semicircolari. Se non fossimo stati nelle mani di una setta cristiana, avrei pensato si trattasse di sinistri bothros, aperture nei muri da cui si lasciavano nella sala le libagioni per i morti, o sopra le quali si sgozzavano le vittime sacrificate agli dei infernali. Non erano eccessivamente grandi, sembravano piuttosto tane di piccoli animali, distribuite a intervalli regolari. Al momento non prestai eccessiva attenzione agli strani bassorilievi che si trovavano sopra gli archi delle cavità. Tra un'apertura e l'altra, le fiaccole erano infisse nelle pareti. Gli impressionanti leoni che sorreggevano il gigantesco sarcofago erano cesellati in marmo bianco. Quanto più mi avvicinavo al sepolcro, tanto più mi sentivo impressionata: non solo i lati erano meravigliosamente lavorati ad altorilievo, ma tutte le decorazioni erano in oro puro, compresi i due anelli, grossi come il mio pugno, che almeno in teoria avrebbero dovuto servire a sollevare il sarcofago. Persino gli artigli dei leoni, gli occhi e le zanne erano ricoperti di quel prezioso materiale, così come le modanature del coperchio e i motivi a foglia d'alloro scolpiti nel porfido. Era un sarcofago degno di un re. Quando fui abbastanza vicina, con il coperchio all'altezza degli occhi, la scena rappresentata su uno dei lati confermò i miei sospetti: nella parte inferiore, una moltitudine levava le mani in gesto di supplica verso una figura centrale in panni imperiali bizantini, che distribuiva monete ed era affiancata da importanti dignitari e funzionari di corte. Girai intorno al sarcofago e, ai suoi piedi, vidi scolpito un medaglione con la stessa figura imperiale, a cavallo, scortata da altre figure molto più piccole con corone, palme e scudi. Incredula, notai che la testa di quell'imperatore era circondata dall'aureola dei santi e che all'interno degli scudi era scolpito il Monogramma di Costantino. Senza riuscire a convincermi del tutto dell'assurda idea che cominciava a prendere forma nel mio cervel-
lo, continuai a girare intorno al sarcofago. La scena descritta sull'altra fiancata rappresentava un Cristo Pantocrator seduto su un trono, dinnanzi al quale lo stesso monarca avanzava praticando la proskinesis, vale a dire il tradizionale atto di omaggio solitamente rivolto agli imperatori bizantini, consistente nell'inginocchiarsi fino a toccare il pavimento con la fronte ed estendendo le mani in un gesto di supplica. Anche in questo caso la figura aveva l'aureola e i tratti del viso erano gli stessi delle altre scene: dunque tutte rappresentavano lo stesso imperatore, i cui resti dovevano essere contenuti in quella capsula di pietra. «Perbacco, è incredibile!» disse in quel momento la voce di Farag, alle mie spalle, emettendo subito dopo un fischio di ammirazione. «Ottavia, lo sai chi è questo vecchio Ercole alato con la faccia cattiva?» «Che cosa dici, Farag?» replicai, seccata, voltandomi verso di lui. Sopra la bocca di uno dei bothros, l'Ercole in questione sbuffava dalla bocca, mentre reggeva una giovane donzella tra le braccia. «È Borea, non lo riconosci? La personificazione del freddo vento del nord. Guarda come soffia attraverso la conchiglia e come la neve gli copre i capelli.» «Come fai a esserne sicuro?» domandai, avvicinandomi. Ebbi da sola la risposta leggendo l'incisione sotto la figura: Βορέας «Va bene, non me lo dire, ho capito.» «E quello di fronte è Noto, di sicuro», disse Farag, andando a controllare. «Infatti. Noto, il vento caldo e piovoso del sud.» «Pertanto, sopra ognuna di queste dodici cavità semicircolari c'è la figura di un vento diverso», commentò Glauser-Röist, senza muoversi da dove si trovava. Era proprio così: i dodici figli del temibile Eolo, adorati nell'antichità come dei, in quanto possenti manifestazioni della natura. Per i greci, e non solo per loro, i venti erano le divinità che cambiavano le stagioni favorendo la vita, che formavano le nubi e provocavano le tempeste, che muovevano i mari, inviavano le piogge e facevano sì che il sole scaldasse o bruciasse la terra. E, come se questo non fosse sufficiente, gli antichi avevano preso coscienza che il vento doveva entrare anche nel corpo umano, attraverso la respirazione, per cui la vita dipendeva completamente da questi dei.
Procedendo in senso orario, si incontravano prima il vecchio e rude Borea, come Farag lo aveva descritto; poi Ellesponto, simboleggiato da una tempesta, quindi Afeliote, un campo pieno di frutta e di grano; il benefico Euro, il «vento buono» dell'est «che ben fluisce», ritratto come un uomo di età matura dall'incipiente calvizie; poi Euronoto e poi Noto, il vento del sud, raffigurato come un giovane dalle ali gocciolanti rugiada; quindi Libanoto e poi Libs, un adolescente imberbe dalle guance gonfie che spingeva un aphlaston;56 il giovane Zefiro, il vento dell'ovest, che insieme alla sua amante, la ninfa Cloris, spargeva fiori sopra il suo nero bothros; Argeste, mostrato come una stella, Trascia, coronato di nubi; per ultimo l'orribile Aparctias, con il volto accigliato e barbuto. Tra questi due si trovava la bocca sigillata della grotta da cui eravamo entrati. I quattro venti cardinali, Borea, Euro, Noto e Zefiro, erano rappresentati dalle figure più grandi e complete. Gli altri da figure più piccole e di qualità inferiore. La bellezza delle immagini, di fattura bizantina, era paragonabile a quella dei bassorilievi riguardanti la superbia del pavimento della Cloaca Massima. Senza dubbio l'artista era lo stesso ed era un peccato che il nome non fosse stato registrato dalla storia, perché le sue opere lo avrebbero meritato. Era possibile persino, anche se questo era da verificare, che avesse lavorato esclusivamente per la Confraternita, il che avrebbe conferito aña sua arte un esclusivo valore aggiunto. «E il sarcofago?» domandò Glauser-Röist, sospendendo l'esame dei venti. «Impressionante, vero?» mormorai, avvicinandomi al sepolcro. «Ha dimensioni spropositate. Osservi, capitano: il coperchio arriva quasi all'altezza della sua testa.» «Sì, ma chi c'è dentro?» «Non ne sono sicura. Devo ancora esaminare l'altorilievo dal lato della testa.» Farag si accostò alla mole di porfido, osservandola con curiosità. Andai alla testa del sarcofago, prima di formulare la delirante ipotesi. Ma tutti i miei dubbi svanirono appena vidi il profilo classico magistralmente scolpito sul lauraton della pietra purpurea: circondato da una corona d'alloro, si distingueva lo stesso volto dagli occhi rivolti al cielo e lo stesso collo taurino che appariva sul solidus, la moneta d'oro creata nel IV secolo dall'imperatore Costantino il Grande. «Non è possibile!» gridò Farag, facendomi spaventare. «Ottavia, non indovinerai mai che cosa c'è scritto quassù!»
Cercai inutilmente Farag con lo sguardo, senza riuscire a localizzarlo. Ci riuscii solo al suo grido successivo, alzando la testa e scoprendolo a quattro zampe sopra il coperchio del sarcofago, con gli occhi spalancati e un rictus di stupore. «Ottavia, ti giuro che non lo puoi indovinare! Incredibile ma vero!» «La smetta di dire sciocchezze, professore», vibrò la voce del capitano, alla mia destra. «Vuole farmi il santo favore di spiegarsi?» Ma Farag continuò a non dargli retta e a guardarmi con la faccia da pazzo. «Basileia, te l'assicuro, è incredibile! Lo sai che cosa c'è scritto, lo sai?» Il mio cuore tornò a battere all'impazzata, appena sentii che mi chiamava Basileia. «Se non me lo dici», ribattei, con voce incerta e deglutendo saliva, «non credo di poterlo indovinare, anche se ho un lieve sospetto.» «No, non ce l'hai, non è possibile. Neanche in un milione d'anni puoi immaginare il nome del morto che sta qui dentro.» «Quanto scommetti?» lo provocai bonariamente. «Quello che vuoi!» esclamò Farag, con convinzione. «Ma non alzare troppo la posta perché perderai.» «L'imperatore Costantino il Grande», affermai, «figlio dell'imperatrice Santa Elena, colei che scoprì la Vera Croce.» Il volto di Farag rifletté un'enorme sorpresa. Rimase zitto qualche secondo, poi balbettò: «Come ci sei arrivata?» «Dalle scene scolpite nel porfido. In una si vede il volto dell'imperatore.» «Meno male che non abbiamo scommesso niente!» Stando a Farag, sulla lauda, il coperchio del sarcofago, oltre al Crismon dell'Imperatore si leggeva una semplice iscrizione: KONSTANTINOS ΕΝΕSTI ovvero «Costantino è qui». Quella era la più grande scoperta della Storia, il ritrovamento più importante da parecchi secoli a quella parte. In qualche momento, tra l'anno 1000 e l'anno 1400, la tomba di Costantino era andata perduta per sempre, sotto la polvere dei sandali dei Crociati, dei persiani e degli arabi. Ma noi avevamo appena scoperto il sepolcro del primo imperatore cristiano, del fondatore di Costantinopoli. E questo dimostrava, una volta di più, che gli
Staurophylakes erano sempre pronti a porre in salvo qualsiasi cosa avesse a che fare con la Vera Croce. Una volta risolta questa dannata allegoria del Purgatorio e conclusa, come avevo pensato, la mia attività presso l'Archivio Segreto del Vaticano per ritirarmi a Connaught, mi sarei dedicata a una serie di articoli sulla Vera Croce, gli Staurophylakes Dante Alighieri, Santa Elena e Costantino il Grande, portando a conoscenza del mondo intero il nascondiglio dei resti dell'imperatore. Non avevo dubbi: avrei vinto tutti i premi accademici conosciuti, il che mi avrebbe aiutata a rimarginare le ferite del mio orgoglio, dopo avere abbandonato l'onnipotente Vaticano. «Non credo che l'imperatore Costantino sia li dentro», ci smentì la Roccia. Farag e io lo guardammo attoniti. «Non capite che è impossibile? Un personaggio del genere non può avere concluso i suoi giorni diventando parte di una prova iniziatica di una banda di ladri.» «Forza, Kaspar, non sia scettico!» disse Farag, iniziando la discesa. «Sono cose che capitano. In Egitto, per esempio, tutti i giorni si scoprono siti archeologici con le cose più inverosimili... Eh? E questo che cos'è?» Il coperchio del sarcofago aveva cominciato lentamente a spostarsi, minacciando di sbilanciarlo. «Salta, Farag!» lo incoraggiai. «Lasciati cadere!» «Che cos'ha fatto, professore?» chiese Glauser-Röist. «Niente, Kaspar, glielo assicuro.» Farag fece un audace salto con piroetta, atterrando sulle lastre di marmo del pavimento. «Ho solo messo i piedi negli anelli d'oro per scendere meglio.» «Dunque è così che si apre il sarcofago», mormorai, mentre la lastra di porfido concludeva il suo movimento con un aspro scricchiolio. Glauser-Röist fece presa su una testa di leone e si issò fino in cima al sarcofago per dare un'occhiata. «Che cosa vede, capitano?» chiesi, piena di curiosità. Avrei giurato di avere sentito proprio in quel momento un rumore come di una turbina, ma non ne ero sicura. «Un morto», rispose la Roccia. Farag levò gli occhi al cielo con aria di rassegnazione e imitò GlauserRöist, arrampicandosi sul leone adiacente. «Vieni a vedere, Ottavia», mi invitò, con un sorriso. Non ci pensai due volte. Feci scendere il capitano, tirandolo senza troppi complimenti per la giacca perché mi cedesse il posto, dopo di che, con un
supremo sforzo atletico, mi sollevai fino a poter contemplare l'incredibile scena: come una matrioška, all'interno del sarcofago ce n'erano di più piccoli, uno dentro l'altro, fino ad arrivare a quello che effettivamente conteneva il corpo dell'imperatore. Tutti i sarcofagi avevano un coperchio di cristallo, grazie al quale si potevano distinguere facilmente i resti di Costantino. A dire il vero, affermare che quello potesse veramente essere Costantino era alquanto azzardato, dal momento che si vedeva uno scheletro come tanti altri con i paramenti imperiali che ne confermavano l'alto lignaggio. Tuttavia sul cranio risplendeva uno stemma d'oro, la corona imperiale, splendidamente tempestata di gioielli e ornata di catatheistae57 che spuntavano da sotto la toufa.58 Lo scheletro indossava un'impressionante skaramangion, la tunica imperiale, fissata da una fibbia sopra la spalla destra, bordata di oro e di argento, arricchita da ametiste, rubini, smeraldi e perle. Al collo, lo scheletro portava un loros, la stola ingioiellata riservata agli imperatori e alle personalità di pari rango, e alla cintola una vecchia akakia, una borsa piena di polvere, attributo imprescindibile per ogni imperatore bizantino. «È Costantino», affermò Farag, a bassa voce. «Suppongo di sì.» «Quando pubblicheremo tutto questo, Basileia, diventeremo famosissimi.» Mi voltai verso di lui. «Come sarebbe a dire pubblicheremo?» mi indignai, ma in quello stesso momento mi resi conto che entrambi avevamo il diritto di fregiarci di quella scoperta e che io avrei dovuto condividerne i meriti con Farag e Glauser-Röist. Mi rivolsi alla Roccia, sotto di me: «Anche lei vuole pubblicarlo, capitano?» «Certamente, dottoressa. Pensava forse di avere l'esclusiva?» Farag scoppiò a ridere e si lasciò cadere a terra. «Non se ne abbia a male, Kaspar. La dottoressa Salina ha la testa dura, ma il cuore d'oro.» Volevo rispondergli a tono, ma mi resi conto che il tenue rumore che avevo percepito poco prima si stava convertendo in un fragore simile a quello delle pale di un mulino spinte da un vento furioso. L'immagine non era tanto fantasiosa, perché un'inaspettata corrente d'aria proveniente dai bothros mi agitò la gonna, spingendomi contro il sarcofago. «Che sta succedendo?» protestai. «Temo che stia cominciando la festa, dottoressa.» «Tieniti forte, Ottavia.» Prima che Farag finisse la frase, la corrente si trasformò in un flusso in-
tenso e il flusso in un uragano. Le fiaccole si spensero di colpo, lasciandoci al buio. «I venti!» gridò Farag, aggrappandosi con forza al sarcofago. Il capitano Glauser-Röist, colto di sorpresa, accese la torcia elettrica e si riparò gli occhi con una mano. Cercava di raggiungerci, ma i vortici d'aria erano così forti che anche coprire la distanza di due o tre metri che ci separava era un'impresa impossibile. Come Farag, mi ero aggrappata al sarcofago, per non farmi trascinare via da quell'improbabile ciclone, ma mi resi conto che non sarei riuscita a resistere a lungo. Le dita mi dolevano e le forze cominciavano a venir meno. L'intensità dei venti aumentava sempre più. Mi lacrimavano gli occhi, intessendo rigagnoli sulle mie guance. Ma questo non era il peggio. Il peggio cominciò quando ognuno dei figli di Eolo aggiunse alla sua corrente il piccolo dettaglio per cui era conosciuto: l'aria di Borea, Aparctias ed Ellesponto si raggelò, abbassando la temperatura a un livello intollerabile. Trascia e Argeste non giunsero a tanto, ma le gocce d'acqua dalle loro bocche, condensandosi al freddo, si convertirono in grandine: era come se fossimo sotto il tiro di un fucile a pallettoni. Giunse un momento in cui il dolore alle dita si fece insopportabile: le mie mani lasciarono la presa e mi ritrovai ad aderire al pavimento, come aveva detto Dante. Ora le sue parole mi apparivano chiare come il sole di mezzogiorno. I miei occhi continuavano a lacrimare, per effetto dell'aria secca di Afeliote ed Euro. E se Trascia e Argeste sputavano grandine, da Euronoto, Noto e Libanoto giungevano rabbiose folate roventi che scioglievano il ghiaccio e scottavano la pelle. Ricordo che in quel momento sentii la mancanza dei pantaloni: perché le raffiche di grandine mi riempivano le gambe di lividi e il calore di Noto me le arrostiva. Cercavo di proteggermi il viso con le braccia, ma l'aria filtrava ugualmente, rendendo difficile la respirazione. Pensai che avrei dovuto avvicinarmi a Farag, ma non avevo idea di come riuscirci, né potevo vedere dove si trovasse, perché era impossibile sollevarsi da terra o muovere anche solo un braccio o una gamba. Perciò lo chiamai, gridando con tutte le mie forze. Ma il frastuono era tale che non riuscivo neppure a sentire la mia voce. Era la fine. Come avremmo potuto uscirne? Impossibile. Al principio notai qualcosa che si strofinava quasi impercettibilmente contro la mia caviglia. Poi sentii cinque dita che mi afferravano con forza e risalivano la mia gamba come fosse un corrimano. Non avevo dubbi che si trattasse di Farag, il capitano non avrebbe mai osato toccarmi in quella
maniera. E oltretutto, l'ultima volta che avevo visto, Glauser-Röist era davanti a me, non dietro. Nell'angoscia di quella situazione, trovai qualcosa che mi aiutasse a non perdere le speranze e, soprattutto, la testa. Be', un po' la persi lo stesso, perché quando finirono le gambe il contatto della mano scomparve, sostituito da un braccio che mi si strinse intorno alla vita. E un corpo che si incollò al mio, continuando a risalire lungo il fianco. Devo riconoscere che, anche se ero messa a dura prova dalle raffiche di vento gelido e incandescente e dalla mitraglia di grandine, quel lungo istante in cui Farag si avvicinò al mio viso fu uno dei più grandi turbamenti della mia vita. E, fatto ancora più strano, quelle sensazioni insolite che avrebbero dovuto scatenare in me un insostenibile senso di colpa mi facevano sentire libera e felice, come se finalmente avessi intrapreso un viaggio a lungo rimandato. Non avevo nemmeno timore di rispondere di quei sentimenti di fronte a Dio, come se mi fosse chiaro che Egli fosse d'accordo. Appena Farag mi fu accanto, mi appoggiò la bocca all'orecchio e pronunciò alcuni suoni sconnessi che non riuscii a interpretare. Li ripeté varie volte e, unendo i frammenti con molta immaginazione, riuscii a decifrare le parole «Zefiro» e «Dante». Pensai a Zefiro, il vento dell'occidente, che gettava fiori in compagnia della sua amante, la giovane Cloris. Zefiro, il vento elogiato dai grandi poeti dell'antichità come brezza leggera e dolce che comincia con la primavera... suonava un po' kitsch, ma lo avevo letto da qualche parte, di sicuro in Plinio. Zefiro, il vento di ponente, del tramonto, del giorno che finisce, dell'inverno che finisce... Che finisce... Forse era questo che cercava di dirmi Farag. La fine di quell'incubo doveva essere Zefiro. Quella era l'uscita. Ma come arrivarci? Non mi potevo muovere di un millimetro. E poi, dove si trovava il bothros di Zefiro? Avevo perso completamente l'orientamento. D'improvviso ricordai: «Se voi venite dal giacer sicuri, e volete trovar la via più tosto, le vostre destre sian sempre di furi».59 La terzina di Dante! Ecco che cosa Farag stava cercando di dirmi: che rammentassi le parole di Dante! Spremetti le meningi per ricordare ciò che avevamo letto quella mattina durante il volo: Mossimi; e 'l duca mio si mosse per li luoghi spediti pur lungo la roccia,
come si va per muro stretto a' merli.60 Dovevamo raggiungere la parete! E, una volta lì, aderenti alla roccia, procedere sempre verso destra, fino ad arrivare a Zefiro, il vento dolce e tiepido che ci avrebbe liberati dall'uragano e dalla grandine e, forse, permesso di uscire. Con uno sforzo immane, presi la mano di Farag e la strinsi per fargli capire che avevo recepito il messaggio. Non so come, aiutandoci a vicenda, avanzammo lentamente, come serpenti schiacciati sotto uno stivale. Continuavamo a lacrimare e a boccheggiare per assimilare un'aria difficilmente respirabile. Ci occorse molto tempo per raggiungere il muro, schivando i furiosi tifoni che scaturivano dai bothros, zigzagando in cerca di angoli morti che ci permettessero i movimenti. In più di un'occasione dubitai che ce l'avremmo fatta: temevo fosse uno sforzo inutile. Ma quando finalmente ci scontrammo con la roccia seppi che avevamo una possibilità. Mi preoccupai di Glauser-Röist. Se fossimo riusciti a rimetterci in piedi e, come diceva Dante, a strisciare lungo la parete, forse saremmo riusciti a vederlo alla luce della torcia. Ma alzarsi da terra non era così facile. Come bambini che muovono i primi passi e si appoggiano ai mobili in cerca di sostegno, dovemmo insinuare le dita nelle asperità della roccia per passare, con molte difficoltà, dallo stadio di rettili a quello di bipedi. Tuttavia, il poeta fiorentino aveva lasciato una buona pista: quando fummo addossati alla parete, ci trovammo al riparo dal vento e potemmo respirare meglio. Non che si fosse placata la tempesta, ma tra le aperture dei bothros c'erano zone di relativa calma. Se muoversi e respirare era difficile, vedere era quasi impossibile, perché l'aria era così secca che all'istante gli occhi bruciavano come trafitti da decine di aghi e, nonostante i fiumi di lacrime, le palpebre si rifiutavano anche solo di sollevarsi. Ma dovevamo localizzare Glauser-Röist. Mi feci coraggio e, ignorando il dolore, tenni gli occhi aperti fino a vederlo all'altro estremo della sala, tra Trascia e Aparctias, incollato al muro come un'ombra, con la testa di profilo e gli occhi chiusi. Cercare di chiamarlo era inutile, non ci avrebbe uditi. Non ci restava che raggiungerlo. Poiché ci trovavamo tra Euronoto e Noto, dovemmo cominciare il cammino verso nord, alla volta di Borea, seguendo le istruzioni di Dante e camminando quindi sempre verso destra. Purtroppo il capitano doveva avere dimenticato le indicazioni della Di-
vina Commedia, perché invece di dirigersi verso Zefiro stava venendo verso di noi, buttandosi a terra tutte le volte che passava davanti a uno dei venti, per impedire che il getto d'aria lo scagliasse contro il sarcofago. Ero allo stremo. Se non fosse stato per la mano di Farag, probabilmente non ce l'avrei mai fatta. La stanchezza era tale che, quando ci sdraiavamo a terra per oltrepassare i bothros, ero tentata di restarmene lì. A ogni metro le mie forze erano sempre di meno. Finalmente raggiungemmo il capitano, all'altezza di Ellesponto. Unimmo le mani in una stretta eloquente ed emozionata che valeva più di ogni parola. Il problema sorse quando Farag volle riprendere il cammino verso Zefiro. Per quanto incredibile, Glauser-Röist si rifiutò di cambiare direzione, facendo barriera col proprio corpo. Vidi Farag cercare di dirgli qualcosa all'orecchio e gridare a pieni polmoni, ma il capitano fece cenno di no con la testa e indicò con un dito la direzione opposta. Farag ci riprovò, ma la Roccia, più Roccia che mai, continuava a negare e a spingerci dalla parte opposta. Io ero l'ultima e avevo Afeliote a mezzo metro dalle gambe. Non ci fu modo di convincerlo. Per quanto gridassimo, gesticolassimo e cercassimo di procedere verso destra, alla fine fummo obbligati a fare come voleva lui. Non riuscivo a immaginare quale cosa terribile ci sarebbe potuta accadere se non avessimo seguito le istruzioni di Dante, ma preferii non pensarci mentre riprendevamo il cammino verso Euronoto. La faccia di Farag e la mia riflettevano una simile disperazione. Il capitano era in errore. Come farglielo capire? Impiegammo approssimativamente mezz'ora per superare i cinque venti che ci separavano da Zefiro. Ero così estenuata che speravo che alla fine della prova, sempre che avessimo azzeccato la soluzione, gli Staurophylakes ci addormentassero con la nube di fumo biancastro che avevano utilizzato nel labirinto di Ravenna. Mi dava rabbia sentirmi così stanca e invidiavo la forza fisica di Glauser-Röist e la resistenza di Farag. Un altro buon proposito per quando quella storia fosse finita: un po' di ginnastica. Non potevo fare nemmeno appello alla differenza tra generi, dicendo che le donne sono il sesso debole: una contadina russa sarà sempre più forte di un burocrate cinese. La colpa della mia stanchezza era solo mia e della mia vita sedentaria. Finalmente raggiungemmo l'angolo morto tra Libs e Zefiro. Sorrisi e sospirai di sollievo. Ero la prima della fila e toccò a me avvicinarmi alla bocca: il vento era dolce e caldo come una brezza di primavera. Misi cautamente la mano destra davanti alla cavità, temendo di vedermela strappare
via. Con gioia scoprii che Zefiro, benché più violento di come lo descrivevano i poeti, non aveva niente a che vedere con la veemenza dei suoi undici fratelli. Non bruciava, non gelava, non sputava grandine. L'effetto non era diverso dall'estendere la mano fuori dal finestrino di un'auto in movimento. Avevamo trovato l'uscita! Zefiro mi aspirò al suo interno e mi salvò la vita. Entrai nello stretto bothros e caddi sul pavimento come un sacco di patate. Inspirai l'aria fine e gradevole. Sarei rimasta volentieri ferma in quel punto ancora per un po', ma dovevo spostarmi per lasciare spazio ai miei due compagni. Ero sicura che fossero immediatamente dietro di me, perché sentii subito le proteste di Farag, dirette a Glauser-Röist. «Si può sapere perché diavolo ci ha fatto rifare il giro di tre quarti della grotta? Eravamo già quasi arrivati a Zefiro, quando l'abbiamo raggiunta. Non ricorda che Dante diceva di girare sempre verso destra?» «Stia zitto!» ribatté Glauser-Röist, autoritario. «È proprio quello che abbiamo fatto!» «Ma è pazzo? Abbiamo camminato in senso orario. Non distingue la destra dalla sinistra?» «Per favore!» esclamai, vedendo che gli animi si stavano riscaldando. «Siamo usciti e stiamo bene. Per favore!» «Ascolti, professor Boswell!» tuonò la Roccia. «Che cosa diceva Dante? Che bisogna sempre tenere fuori la destra.» «La destra, Kaspar! La destra, non la sinistra. Non ha ancora capito?» «La destra fuori, professore. È lei che non ha capito.» Mi accigliai. La destra fuori? In quel caso, aveva ragione la Roccia. Dante e Virgilio avanzavano lungo la cornice di una montagna e la loro destra era rivolta, ovviamente, al precipizio, al vuoto. Ma noi camminavamo aderenti a una parete e la nostra destra era rivolta al centro della grotta, il nostro lato libero era all'interno, non all'esterno. In un modo o nell'altro, a Zefiro c'eravamo arrivati, anche se ci avremmo messo meno tempo procedendo nel verso opposto. «Nell'altro senso non saremmo mai arrivati, dottoressa!» «Ma cosa sta farneticando?» mi inalberai. «Vedo che tutti e due vi siete dimenticati di Trascia e di Argeste, gli ultimi due venti da attraversare prima di giungere a Zefiro, procedendo nell'altro verso!» Il silenzio calò nel corridoio. Né Farag né io potevamo contraddirlo. Il capitano ci aveva risparmiato, nel migliore dei casi, di percorrere tutto il
cammino solo per dover tornare sui nostri passi: non saremmo mai potuti passare di fronte a Trascia e Argeste, i due venti che scaricavano enormi quantità di grandine. «Avete capito adesso, o devo spiegarvelo di nuovo?» Aveva ragione. Aveva tutta la ragione del mondo, e glielo dissi. Farag non poté far altro che chiedergli scusa in tutte le lingue che conosceva: cominciò dal copto e poi proseguì con greco, latino, arabo, turco, ebraico, francese, inglese e italiano. Alla fine scoppiammo a ridere e la tensione si dissolse. La Roccia era un eroe, e glielo dicemmo. «Lasciate perdere le stupidaggini e usciamo da questo buco», fece Glauser-Röist. «Perché devo sempre andare io per prima?» borbottai, indispettita. Non capivo perché quell'onore toccasse sempre a me. «Dottoressa, la prego...» «Ottavia...» Naturalmente non c'era nulla da controbattere. Avanzando a gattoni, con la torcia elettrica infilata tra i bottoni della blusa, aprii la marcia, pentendomi di avere indossato la gonna anche quel giorno. Mi parve di rivivere l'esperienza delle catacombe di Santa Lucia, con Farag proprio dietro di me. Mi ripromisi che, una volta fuori, avrei buttato tutte quante le gonne in pattumiera, senza tanti complimenti. La verità era che non ce la facevo davvero più, non avevo le forze per andare avanti. Per questo mi rallegrai infinitamente quando il mio naso percepì un dolce aroma di resina. «Credo che abbiamo fortuna», annunciai. «Stavolta ci risparmiano la fatica.» «Che cosa dici, Basileia?» «Che ci mettono a nanna. Non senti l'odore di resina?» «No.» «Be', non importa. Tanti saluti lo stesso. Ci vediamo al risveglio.» «Basileia!» Cominciavo ad avvertire un lieve sopore che trovavo delizioso. «Sì?» «Quello che ti ho detto alla maratona non era vero.» «Che cosa mi hai detto alla maratona?» Ecco che arrivava il fumo bianco, il benedetto fumo bianco che, come un buon sonnifero, mi avrebbe garantito ore meravigliose di sonno ristoratore. Mi fermai e mi sdraiai a terra. Non mi interessava che cosa gli Staurophylakes avrebbero fatto del mio corpo: volevo solo dormire. «Sì, il fatto che se ti fossi rimessa a correre con me ad Atene non sarei
più tornato a insistere.» Sorrisi. Era l'uomo più romantico del mondo. Mi sarebbe piaciuto voltarmi verso di lui. Ma no, meglio dormire. E poi la Roccia sentiva tutto. «Non era vero?» Sorrisi tra me, con gli occhi già gravati dal sonno. «Nemmeno un po'. Dovevo avvisarti. Ti dispiace?» «Oh, no. Tutt'altro. Sono d'accordo con te.» «Bene. Allora ci vediamo dopo», mormorò. «Kaspar, anche lei dorme?» «No», rispose Glauser-Röist, con la voce impastata. «Quello che diceva era molto interessante.» Mio Dio! pensai. E mi addormentai. 6 Mi svegliarono gli urletti di bambini che giocavano. Il sole di mezzogiorno mi cadeva addosso come una cascata di luce. Battei le palpebre e cercai di alzarmi, tra un gemito e l'altro. Ero distesa a faccia in giù su un tappeto di sterpaglia. Il fetore era insopportabile, una puzza di rifiuti accumulati nel corso di anni e fermentati sotto il sole d'Oriente. I bambini continuavano a gridare e a parlare in turco, ma le voci si affievolivano, come se loro o noi ci stessimo allontanando. Riuscii a mettermi a sedere sull'erba e ad aprire gli occhi. Mi ritrovai in un patio ingombro di macerie bizantine e cumuli di rifiuti, su cui svolazzavano mosche azzurre grosse come elefanti. Alla mia sinistra, da un'autofficina dall'aspetto poco raccomandabile giungevano sfrigolii metallici e soffi di fiamma ossidrica. Mi sentivo sporca. Sporca e scalza. Davanti a me, Farag e il capitano erano ancora stesi a terra, con la faccia nell'erba. Sorrisi alla vista di Farag e provai un assurdo sussulto allo stomaco. «Sicché non era vero», sussurrai, avvicinandomi a lui. Non riuscivo a smettere di sorridere. Gli scostai i ciuffi di capelli dalla fronte e mi soffermai a guardare le rughe sottili sul suo viso, le tracce del tempo che non avevamo trascorso insieme: quei trenta e passa lunghi anni nei quali aveva inspiegabilmente avuto una sua vita, lontano da me, sognando, lavorando, respirando, ridendo e persino amando senza sospettare che io lo aspettassi alla fine della strada. Nemmeno io lo sapevo, naturalmente. Ma eccoci lì. E aveva del miracoloso il fatto che un uomo come Farag Boswell si fosse accorto di una donna come me, che non poteva ambire nemmeno alla metà
del suo fascino. Certo, la bellezza fisica non è tutto, ma qualcosa conta. E, anche se in tutta la mia vita non me n'ero mai preoccupata, in quel momento avrei voluto essere bella e attraente, per poterlo sorprendere al suo risveglio. Sospirai e risi sommessamente. Non era il caso di chiedere altri miracoli. Ce n'erano stati a sufficienza. Mi guardai intorno e non vidi nessuno. E nessuno vedeva me. Perciò mi chinai lentamente su Farag e, prima che si svegliasse, gli diedi un piccolo bacio sulle rughe della fronte. «Dottoressa? Si sente bene, dottoressa Salina? E il professor Boswell?» Mi presi il più grosso spavento della mia vita. Con il cuore a mille, rossa in viso, scattai in piedi come una molla. «Capitano, lei sta bene?» chiesi, allontanandomi da Farag, che stava ancora dormendo. «Dove siamo?» «Vorrei saperlo anch'io.» «Dobbiamo svegliare il professore, lui parla turco.» Glauser-Röist si appoggiò sulle mani e fece per sollevarsi, ma un dolore lancinante lo paralizzò a metà flessione. «Dove diavolo ci hanno marchiato, stavolta?» La scarificazione! Inconsciamente portai una mano alle spalle, all'altezza delle cervicali, e solo allora avvertii le fitte ormai familiari. «Credo che abbiamo ricevuto la prima delle tre croci sulla schiena.» «Be', questa fa male!» Come avevo fatto a non rendermene conto? Il dolore si fece improvvisamente intenso. «Sì, fa proprio male», convenni. «Più delle precedenti.» «Passerà. Ma adesso dobbiamo svegliare il professore.» Non ci pensò due volte e cominciò a scuoterlo senza misericordia. Farag gemette. «Ottavia?» mormorò, senza aprire gli occhi. «Spiacente, professore», borbottò la Roccia. «Non sono la dottoressa Salina. Sono il capitano Glauser-Röist.» Farag sorrise. «Non è la stessa cosa. E Ottavia?» «Sono qui», risposi, prendendolo per mano. Lui aprì gli occhi e mi guardò. «Scusate il disturbo», disse il capitano senza troppa cortesia, «ma dovremmo tornare al Patriarcato.» «Si è già guardato nei vestiti, capitano?» gli domandai, senza togliere lo sguardo e il sorriso da Farag. «È importante sapere se abbiamo la pista per la prova di Alessandria.» Glauser-Röist rivoltò in fretta le tasche dei pantaloni e della giacca. «Eccola qui!» esclamò soddisfatto, mostrando il consueto foglietto di carta.
«Vediamo», disse Farag, alzandosi in piedi senza lasciarmi la mano. «Ci hanno marchiato sulla schiena?» domandò, sorpreso. «Alle cervicali», confermai. «Accidenti, questa sì che fa male!» Il capitano guardò il foglietto e glielo porse. «Se non lascia la mano della dottoressa, non le sarà facile leggerlo.» Farag rise e mi accarezzò fugacemente le dita prima di lasciarmi andare. «Spero che questo non la metta in imbarazzo, capitano.» «Per nulla, professore», dichiarò la Roccia, in tono serio. «La dottoressa Salina è adulta e sa quello che fa. Suppongo che metterà in chiaro quanto prima la propria posizione con la Chiesa.» «Non si preoccupi, capitano», lo tranquillizzai. «Non mi dimentico neppure per un istante che sono una suora. È una questione privata, ma, dal momento che la conosco, so che si sentirà meglio se le dico che sono conscia dei problemi.» Il pover'uomo era così ottuso per certe cose che avevo preferito fare quella precisazione. Farag, che stava esaminando il biglietto, era rimasto a bocca aperta. «Io questo lo conosco!» «Per forza lo conosce, professore. La prossima prova è ad Alessandria.» «No, no!» Farag scosse freneticamente il capo. «Non l'ho mai visto in vita mia. Ma potrei localizzarlo.» «Di che cosa stai parlando?» volli sapere. Gli presi il biglietto dalle mani. Stavolta sulla superficie rugosa non c'era un testo, bensì un disegno piuttosto approssimativo fatto a carboncino. Si distingueva perfettamente un serpente barbuto con le corone faraoniche dell'Alto e del Basso Egitto, sopra le quali appariva un medaglione con la testa di Medusa. Dalle spire dell'animale, intrecciate come in un nodo marinaro, emergevano il tralcio di Dioniso, il dio greco della vegetazione e del vino, e il caduceo di Hermes, il messaggero degli dei. «E questo che cos'è?» «Non lo so», mi rispose Farag, «comunque non sarà difficile scoprirlo. Al Museo abbiamo un catalogo informatizzato dei siti archeologici della città.» Mi si avvicinò e, guardandola da sopra la mia spalla, indicò l'immagine. «Avrei giurato di saper riconoscere a occhi chiusi praticamente qualsiasi opera alessandrina. Invece, per quanto mi appaia familiare, non riesco a ricordare questa figura. Vedi la mescolanza di stili? Vedi il caduceo di Hermes e le corone dei faraoni? Il serpente barbuto è un simbolo romano. Questa improbabile combinazione è tipica di Alessandria.» «Professore, se non le spiace, potrebbe andare a chiedere informazioni in
quell'officina e scoprire dove diavolo siamo?» Tornò a interromperci la Roccia. «E chieda se hanno un telefono. Il mio cellulare è fuori uso, dopo il tuffo nella cisterna.» Farag sorrise. «Tranquillo, Kaspar. Ci penso io.» «Questo è il numero del Patriarcato», aggiunse Glauser-Röist, consegnandogli la sua piccola rubrica telefonica, già aperta alla pagina corrispondente. «Dica a Padre Kallistos dove ci troviamo e gli chieda di mandarci a prendere.» A me non faceva molto piacere che Farag entrasse da solo in quell'antro pieno di ferraglia, ma per fortuna dopo cinque minuti era già fuori, con aria soddisfatta. «Ho già parlato con il Patriarcato, capitano», ci gridò. «Arrivano subito. Ci troviamo tra i resti di quello che fu il Grande Palazzo di Giustiniano.» «Il Grande Palazzo di Giustiniano... questo?» mi stupii io, con apprensione, guardandomi intorno. «Esatto, Basileia. Ci troviamo nel palazzo di Zeyrek, nella parte vecchia della città, e questo patio è tutto ciò che resta della residenza di Giustiniano e Teodora.» Si mise al mio fianco e mi prese la mano. «Non capisco, Farag», mormorai. «Come hanno permesso che si riducesse in questo stato?» «Per i turchi, i resti bizantini non hanno lo stesso valore che hanno per noi, Basileia. Non comprendono altre religioni che non siano la loro, con tutte le implicazioni culturali e sociali che questo comporta. Conservano le loro moschee, ma perché avere cura delle chiese di una religione estranea? Questo è un Paese povero, che non può preoccuparsi di un passato che disconosce e che non gli interessa.» «Ma la cultura, la storia!» mi infuriai. «Il futuro!» «Qui la gente tira a campare come può», riprese Farag. «Le vecchie chiese vengono trasformate in abitazioni e i palazzi antichi in officine. E quando le costruzioni del passato crollano, cercano altre chiese e altri palazzi in cui trasferire casa e lavoro. Hanno una mentalità diversa dalla nostra, più semplice: perché restaurare se si può riutilizzare? Ringraziamoli per avere conservato Santa Sofia.» «Appena arriva l'auto del Patriarcato, ci faremo portare immediatamente all'aeroporto», comunicò Glauser-Röist, laconico. Sobbalzai. «Così? Da qui? Senza nemmeno farci una doccia e cambiarci?» «Lo faremo ad Alessandria. Sono solo tre ore di viaggio. E ci sono bagni
a bordo del Westwind. Oppure preferisce dare spiegazioni su quello che abbiamo scoperto là sotto?» Era ovvio il contrario, per cui non feci altre obiezioni. «Spero non ci siano troppi problemi per il mio rientro in Egitto...» mormorò Farag, preoccupato. L'ultima volta che aveva lasciato il suo Paese era ricercato per il furto di un manoscritto nel Monastero di Santa Caterina del Sinai e aveva dovuto varcare la frontiera israeliana da fuggiasco, con un passaporto diplomatico della Santa Sede. «Non abbia timore, professor Boswell», lo rassicurò Glauser-Röist. «Il Codice Iyasus è già stato restituito ufficialmente al Monastero da cui lo abbiamo preso a prestito.» «A prestito!» esclamai, sarcastica. «Bell'eufemismo!» «Lo chiami come vuole, dottoressa... Ciò che importa è che il Codice è tornato alla Biblioteca di Santa Caterina e che tanto la Chiesa Cattolica quanto le Chiese Ortodosse hanno presentato all'abate le scuse e le spiegazioni del caso. L'Arcivescovo Damianos ha ritirato la denuncia e pertanto, professore, lei è completamente libero di tornare alla sua casa e al suo lavoro.» Per qualche minuto, in quella discarica di rifiuti si udirono solamente il ronzio delle mosche e i rumori dell'officina. Farag non credeva alle proprie orecchie. Si stava arrabbiando lentamente, come una caldaia che si accende e comincia ad aumentare di pressione. Il capitano restava tranquillo, mentre a me tremavano le gambe, perché sapevo che Farag, come tutte le persone di animo affabile, poteva resistere fino a un certo limite, oltre il quale rischiava di diventare violento. Come temevo, lo vidi avvicinarsi a Glauser-Röist e fermarsi a pochi centimetri da lui. «Da quando il Codice Iyasus è a Santa Caterina?» sibilò, a denti stretti. «Dalla settimana scorsa, dopo che gli è stato restituito il suo aspetto originale. Le ricordo che non lo abbiamo lasciato in ottime condizioni, squadernato e con i fogli sparpagliati. Poi, per mezzo del Patriarca CoptoCattolico della sua Chiesa e del Patriarca di Gerusalemme, Sua Beatitudine Michel Sabbah, sono cominciate le trattative con il Vescovo Damianos. Il suo Patriarca, Stefano II Ghattas, ha parlato anche con il direttore del Museo Greco-Romano di Alessandria. Da ieri lei si trova in permesso speciale indefinito. Ho pensato che le avrebbe fatto piacere saperlo.» Farag si sgonfiò come un palloncino. Incredulo, guardò me, poi di nuovo Glauser-Röist, poi di nuovo me, e così varie volte prima di riuscire a for-
mulare una frase. «Posso... tornare a casa?» tartagliò. «Posso tornare al Museo?» «No, al Museo non ancora. Ma sarà a casa sua questo stesso pomeriggio. Che cosa ne dice?» Perché Farag era così emozionato all'idea di tornare ad Alessandria e al suo lavoro al Museo? Non mi aveva forse detto che essere copto in Egitto equivaleva a essere un paria? Non avevano forse i fondamentalisti islamici ucciso l'anno prima suo fratello minore, la cognata e il nipotino di cinque mesi all'uscita dalla chiesa? Era quanto mi aveva detto lui stesso la prima volta che avevamo cenato insieme. «Oh, mio Dio!» esclamò, alzando le braccia al cielo come un corridore vittorioso al traguardo. «Stasera sarò a casa!» E mentre si lanciava in una lunga perorazione su quanto mi sarebbe piaciuta Alessandria e quanto sarebbe stato contento suo padre di rivederlo e di conoscermi, da una delle strade vicine giunse l'automobile guidata dall'autista del Patriarca, che ci raccolse sul lato opposto della discarica. Mi ci volle un'eternità per attraversarla, perché il terreno era ingombro di frammenti di metallo pericolosamente affilati che avrebbero potuto tagliarmi i piedi. Ma quando salii a bordo, mi sentii come se avessi passeggiato su un tappeto di petali di rosa: accanto a me, sul sedile posteriore del veicolo, c'era l'esperta in architettura bizantina Doria Sciarra. Il capitano prese posto di fianco all'autista e io, intenzionalmente, lasciai che Farag entrasse dall'altra portiera. Doria si trovò intrappolata fra noi due. Mi mostrai gentilissima con lei, come se quanto era avvenuto il giorno prima non avesse la minima importanza. Mi rallegrai tuttavia quando la vidi arricciare il nasino a causa dell'odore che emanavamo. Doria si era offesa, perché mentre lei distraeva il custode di Fatih Camii, noi eravamo scomparsi, lasciandola sola. Non era riuscita più a trovarci nel patio ed era tornata alla macchina, sulla quale aveva continuato ad aspettarci fino a sera. Solo allora, sola e preoccupata, aveva fatto ritorno al Patriarcato. Volle che le raccontassimo tutto quello che ci era successo, ma noi schivammo le domande con risposte anodine, parlandole superficialmente di quanto fosse stata difficile la prova e delle terribili torture cui eravamo stati sottoposti, fino a farle perdere ogni interesse. Come potevamo raccontarle di avere fatto la più grande scoperta archeologica della storia? Farag continuò a mostrarsi cortese con lei, ma senza più stare al suo gioco. Non raccolse nessuna delle sue allusioni e io mi sentii rassicurata e perfettamente in pace con me stessa. In pace per quanto riguardava Farag e in
pace con Doria, che aveva cercato di ferirmi, ma ci era riuscita solo temporaneamente: un tentativo ridicolo, il suo, se non le permettevo di raggiungere l'obiettivo. Perciò sorrisi, chiacchierai e scherzai come se il giorno prima fosse stato come tanti altri e non il giorno in cui il mio mondo era crollato, per risollevarsi, all'ultimo minuto, grazie a Farag. Ora mi importava solamente di lui e Doria non era nessuno. Quando l'auto del Patriarcato ci lasciò di fronte all'enorme hangar in cui aveva trovato riparo il Westwind, mi congedai dalla mia vecchia amica con un paio di baci sulle guance, a dispetto del suo vano tentativo di sfuggirmi. Non saprò mai se si sentisse disorientata, oppure in colpa, oppure se fosse semplicemente disgustata dal mio odore. Ma la baciai a forza, quasi con affetto, e la ringraziai ripetutamente «per tutto quanto». Farag e il capitano si limitarono a stringerle la mano. Poi Doria sparì a bordo del veicolo patriarcale. «Che cosa ti ha detto ieri Doria, a fine pranzo, per sconvolgerti tanto?» mi domandò Farag, sulla scaletta dell'aereo. «Te lo racconterò in un altro momento», risposi. «Com'è che non mi hai chiesto niente, se ti sei accorto che stavo così male?» «Non potevo», mi spiegò, salutando Paola e il resto dell'equipaggio. «Ero imprigionato nella mia stessa trappola.» «Quale trappola?» Glauser-Röist stava parlando con il comandante, mentre noi occupavamo i nostri posti abituali. Forse avrei dovuto ripulirmi, prima di sedermi su quella bella poltroncina bianca, ma ero troppo curiosa di sentire quello che Farag aveva da dirmi. Non volevo che il capitano arrivasse prima che lui avesse finito. «Ecco... quella di Doria, lo sai.» Non capivo l'espressione di burla nei suoi occhi. «No, non lo so. Di quale trappola di Doria stai parlando?» «Dai, Ottavia, non prendertela. Dopotutto è andata a buon fine.» «Spero non sia quello che sto pensando, Farag», lo avvisai, serissima. «Temo di sì, Basileia. Dovevo scatenare una reazione da parte tua. Non sei contenta?» «Contenta? E come potrei? Mi hai fatto passare un inferno!» Farag scoppiò a ridere come un bambino felice. «Questa era l'idea, Basileia. Dio mio, ad Atene temevo di avere perso ogni speranza. Non puoi immaginare quanto mi sono sentito male quando ti sei rialzata in piedi e hai detto: 'Andiamo?' In quel momento, guardandoti, ho capito che per
convincere una donna ostinata come te dovevo usare una bomba nucleare. E Doria si è dimostrata perfetta, non ti pare? Peccato che, dopo averti bombardata, tu non mi guardassi più o, se lo facevi, fosse con...» La Roccia si avvicinò. «Vado avanti dopo», disse Farag. «Non occorre», replicai, sdegnosa, alzandomi dal sedile e prendendo il nécessaire dalla mia borsa. «Sei un baro.» «Certamente!» esclamò lui, divertito. «E anche parecchie altre cose.» Glauser-Röist si abbatté sul sedile, sbuffando. «Vado a ripulirmi», annunciai, senza voltarmi. «Ricordi che al momento del decollo dovrà essere seduta qui», mi rammentò la Roccia. «Non si preoccupi.» Il viaggio fino ad Alessandria richiese tre ore, durante le quali mangiammo, parlammo e ridemmo. Farag e io ci ammutinammo quando il capitano, estraendo La Divina Commedia dallo zaino, propose di prepararci sulla prossima cornice del Purgatorio. Mi sentivo fresca e riposata, dopo quasi dodici ore di sonno, ma mentalmente ero ancora esausta. Se fosse stato possibile, avrei chiesto qualche giorno di vacanza per ritirarmi con Farag in un remoto angolo del mondo, dove nessuno mi ricordasse la vita che mi stavo lasciando alle spalle. Poi, forse trasformata in un'altra persona, mi sarei sentita meglio disposta a completare le prove che ci mancavano per raggiungere quel dannato Paradiso Terrestre. Provavo la strana sensazione di avere mollato gli ormeggi senza che ci fosse un altro porto in cui attraccare. La mia casa era quell'aereo, la mia famiglia Farag e il capitano, il mio lavoro la caccia a quei sorprendenti ladri di reliquie che attraversavano i secoli come si attraversa una strada... Ricordare la Sicilia mi intristiva e sapevo che non sarei mai più tornata alla mia stanza in Piazza delle Vaschette. Che cosa avrei fatto, quando tutto questo fosse finito? Meno male che c'era quel baro senza scrupoli di Farag Boswell: ero sicura che mi amasse e che sarebbe stato al mio fianco, aiutandomi a ricostruire la mia vita. Ora lui era tutto quello che volevo al mondo. Verso le cinque del pomeriggio il comandante del Westwind annunciò dagli altoparlanti che stavamo per atterrare all'aeroporto Al Nouzha. Il cielo era sereno e la temperatura sulla pista raggiungeva i trenta gradi. «Siamo a casa!» esclamò Farag, entusiasta. Non c'era modo di tenerlo fermo sul sedile, per quanti tentativi facesse la
povera Paola. Farag voleva vedere la sua città, pareva volesse arrivare prima ancora dell'aereo. Nemmeno nei miei sogni più fantasiosi avrei mai immaginato che Alessandria d'Egitto sarebbe diventata un luogo speciale, perché mi sarei innamorata di un uomo che veniva da lì. Certo, avevo letto Lawrence Durrell e Konstantinos Kavafis e conoscevo, come tutti, alcune curiosità sulla città fondata da Alessandro Magno nell'anno 332 avanti Cristo. Avevo sentito parlare della sua favolosa Biblioteca, che era giunta a ospitare oltre mezzo milione di volumi su tutti gli argomenti dello scibile, e del suo Faro, una delle Sette Meraviglie del Mondo, che guidava le centinaia di mercanti che entravano nel suo porto, il più grande dell'antichità classica. Sapevo che per secoli non solo era stata la capitale dell'Egitto e del Mediterraneo, ma anche il massimo centro letterario e scientifico del mondo. Sapevo che i suoi palazzi, edifici e templi erano stati i più ammirati per eleganza e ricchezza della loro epoca. Era stato ad Alessandria che Eratostene aveva misurato la circonferenza della Terra, che Euclide aveva sistematizzato la geometria, che Galeno aveva scritto i suoi trattati di medicina. Ed era stato in quella città che si erano amati Marcantonio e Cleopatra. Lo stesso Farag Boswell era un chiaro esempio di ciò che quella città aveva rappresentato fino a poco tempo prima: discendeva da inglesi, copti, ebrei e italiani, riunendo in sé una miscela di tratti e culture che lo rendevano, almeno ai miei occhi, unico e meraviglioso. «Ci aspetta un comitato di benvenuto, capitano?» chiesi alla Roccia, che aveva passato parecchio tempo incollato al telefono di bordo. «Certamente, dottoressa. Ci verrà a prendere un'automobile del Patriarcato Greco-Ortodosso di Alessandria, presso la sede del quale ci riuniremo con il Patriarca, Petros VII, con Sua Beatitudine Stefano II Ghattas e con Papa Shenouda III, leader della Chiesa Copto-Ortodossa. È confermata anche la presenza del nostro vecchio amico, l'Arcivescovo Damianos, abate di Santa Caterina del Sinai.» «Si direbbe una festa», commentai. «Sa una cosa, capitano? Non avrei mai pensato che ci fosse una simile quantità di Papi, Santità e Beatitudini. Comincio a non capire più niente con tutti questi Santi Pontefici.» «E pensi a tutti quelli che non ha avuto modo di conoscere, dottoressa», replicò Glauser-Röist, accavallando le gambe. «Per gli ortodossi tutti gli apostoli erano uguali e avevano pari autorità al momento di governare il proprio gregge.» «Lo so, ma mi risulta difficile equipararli al nostro Pontefice: come cat-
tolica, sono stata educata a ritenere che esista un unico legittimo successore di Pietro.» «Ho imparato molto tempo fa che tutto è relativo», mi spiegò il capitano, in uno dei suoi rari momenti di confidenza. «Tutto è relativo, temporaneo e mutevole. Forse è per questo che cerco la stabilità.» «Lei?» mi sorpresi. «Perché, dottoressa? Non può credere che una persona come me sia un essere umano? Non sono così cattivo come mi ha dipinto suo fratello Pierantonio.» Ammutolii, come se mi avesse sorpresa con le mani nella marmellata. «C'è sempre una spiegazione per quello che facciamo e per quello che siamo», proseguì. «Guardi se stessa.» «Sa anche della mia famiglia?» mormorai, abbassando la testa. In quel momento mi resi conto che non avevo voglia di parlarne, tantomeno con Glauser-Röist. «Naturalmente», disse, concedendosi una delle sue infrequenti risate. «Lo sapevo già quando ci presentarono nell'ufficio di Monsignor Tournier. Come sapevo anche che lei era la sorella di Pierantonio Salina, Custode della Terrasanta. Questo è il mio lavoro, lo ha dimenticato? Io so tutto e sorveglio tutto. Qualcuno deve fare il lavoro sporco e il compito è toccato a me. Non mi piace, non mi piace affatto, ma ci sono abituato. Lei non è l'unica che dopo questa storia cambierà drasticamente la sua vita. Un giorno o l'altro me ne andrò anch'io e mi ritirerò a vivere in una casetta di legno sulle rive del Lago Lemano, dedicandomi a ciò che davvero mi piace: coltivare la terra, provare nuove colture e sperimentare nuovi sistemi di produzione. Lo sa che mi sono laureato in agraria, prima di diventare un militare ed entrare nella Guardia Svizzera? Quella era la mia autentica vocazione, ma la mia famiglia aveva altri progetti per me e non sempre è facile sfuggire a quello che ci inculcano fin da piccoli.» Rimasi in silenzio per qualche minuto, guardando fuori dal finestrino e pensando alle sue parole. «Perché crediamo di vivere le nostre vite», dissi poi, «quando sono le nostre vite a vivere noi?» «Ha ragione», concordò, aggiustandosi il poco che restava della piega dei pantaloni. «Ma abbiamo sempre la possibilità di cambiare. Lei sta per farlo e lo farò anch'io. Le confesserò un segreto, dottoressa, e spero saprà mantenerlo. Questo sarà il mio ultimo lavoro per il Vaticano.» Lo guardai e sorrisi. Avevamo appena stretto un patto di amicizia. Percorremmo le strade di Alessandria a bordo del veicolo del Patriarca
Petros VII, una limousine di fabbricazione italiana. Farag, silenziosissimo, era seduto sul sedile anteriore e si guardava intorno senza posa. Io mi sentivo un po' triste, perché pensavo che il trovarsi ad Alessandria lo allontanasse un po' da me. Cominciai a prendere la città in antipatia. Grandi viali moderni sovraccarichi di traffico costeggiavano spiagge interminabili di sabbia dorata. In realtà, l'Alessandria che avevo davanti non coincideva molto con quella della mia immaginazione. Dov'erano templi e palazzi? Dov'erano Marcantonio e Cleopatra? Dov'era il luogo in cui l'anziano poeta Kavafis passeggiava la sera, appoggiandosi al bastone? Non fosse stato per gli indumenti arabi della gente, avrei potuto anche credere di trovarmi a New York. Quando ci allontanammo dalle spiagge e ci addentrammo nel cuore della città, il caos del traffico divenne indicibile. In una stretta via a senso unico il nostro veicolo si trovò imbottigliato tra la fila di auto che ci seguiva e un'altra fila che, inspiegabilmente, arrivava contromano. Farag e l'autista scambiarono qualche frase, poi quest'ultimo aprì la portiera, scese dal veicolo e cominciò a gridare. Suppongo che l'idea fosse di costringere le macchine in senso vietato a indietreggiare per lasciarci passare, ma, al contrario, l'unico risultato fu un acceso diverbio tra automobilisti. Naturalmente non c'era un solo vigile urbano nel raggio di chilometri. «Andiamo, Ottavia», mi disse Farag, affacciandosi al finestrino. «Mio padre vive qui vicino.» «Un momento», protestò Glauser-Röist. «Torni in macchina, professore. Ci stanno aspettando!» «Aspettano lei, Kaspar», ribatté Farag, aprendomi la portiera. «Tutte queste riunioni con i Patriarchi sono una perdita di tempo. Quando ha finito, ci chiami sul mio cellulare, che qui in Egitto è tornato attivo. Il Vicario di Sua Beatitudine, Monsignor Kolta, ha il mio numero e quello di mio padre. Andiamo, Basileia.» «Professor Boswell!» proruppe la Roccia, indispettito. «Non può portare via la dottoressa Salina!» «Ah, no? Be', me lo ricordi stasera. La aspettiamo per cena alle nove in punto. Non faccia tardi.» Un attimo dopo correvamo entrambi come due fuggitivi, allontanandoci dall'auto e dal capitano Glauser-Röist, cui sarebbe toccato il compito di giustificare la nostra assenza di fronte alle autorità religiose. Sarebbe stato l'ottuagenario Patriarca Stefano II Ghattas, che non avrebbe creduto nemmeno per un istante ai pretesti accampati dal capitano, a chiedere più di
ogni altro di Farag, che conosceva da quando era bambino. Noi intanto correvamo, portandoci dietro i bagagli, lungo una viuzza che sfociava nel Viale Tareek El Gueish. Farag portava le due valigie e io la sua borsa e la mia. Non riuscii a trattenere le risate, mentre scappavamo in quella maniera. Mi sentivo felice e libera come una quindicenne che comincia a disobbedire alle regole. In ogni caso, non avendo quindici anni, ero ben lieta di avere indossato un paio di scarpe comode, senza le quali mi sarei trovata lunga e distesa per la strada. Svoltato il primo angolo, rallentammo il passo e riprendemmo tranquillamente fiato. Farag mi spiegò che ci trovavamo nel quartiere di Saba Facna, dove suo padre aveva una casa di tre piani. «Lui vive di sotto e io di sopra.» «Allora stiamo andando a casa tua», conclusi inquieta. «Certo, Basileia. Ho detto che era la casa di mio padre per non scandalizzare Glauser-Röist.» «Ma adesso sono io che mi scandalizzo!» dissi, ancora ansimante. «Tranquilla, Basileia. Andremo prima da mio padre, poi saliremo da me per fare una doccia, medicarci le scarificazioni, indossare qualcosa di pulito e preparare la cena.» «Lo fai apposta, vero Farag?» gli chiesi, fermandomi in mezzo alla strada. «Mi vuoi spaventare.» «Spaventare?» si stupì. «Di che cosa hai paura?» Si chinò verso il mio viso e per un istante ebbi paura che volesse baciarmi lì davanti a tutti. Per fortuna eravamo in un Paese arabo. «Non preoccuparti, Basileia.» Sorrisi: aveva tartagliato. «Lo capisco», proseguì Farag. «Ti assicuro che, per quanto mi costi, non devi temere che accada... nulla. Non ti do garanzie assolute, s'intende, ma farò tutto il possibile. D'accordo?» Era così bello, lì, in mezzo alla strada, con quei suoi occhi blu, che ebbi paura di andare contro i miei stessi desideri. Ma... quali desideri? Oh, Dio mio, tutto così nuovo per me! Avrei dovuto vivere quei momenti vent'anni prima. Ero così in ritardo che temevo di diventare ridicola, o che lo sarei stata in seguito, quando... Signore! «Andiamo subito da tuo padre!» esclamai, angosciata. «Spero tu possa chiarire al più presto la tua posizione rispetto alla Chiesa. Non sarà facile starti accanto sapendo che sei intoccabile.» Fui sul punto di dirgli che l'essere intoccabile dipendeva solo da me e dalla mia coscienza, ma preferii tacere. Anche se, per magia, fossi stata li-
bera all'istante dalla mia condizione di religiosa, non per questo ero pronta a rompere il secondo dei miei voti senza prima avere sciolto i miei impegni con Dio e con l'Ordine. «Andiamo, Farag», dissi, con un sorriso. Avrei dato qualsiasi cosa per poterlo baciare. «Perché mi sono andato a innamorare di una suora?» disse lui, ad alta voce, in mezzo alla strada. Per fortuna, parlava in greco classico. «Con tutte le belle donne che c'erano ad Alessandria?» Tornare a casa lo aveva trasformato: era un uomo diverso da quello che conoscevo. «Andiamo, Farag», ripetei, paziente, continuando a sorridergli. Sapevo che ci aspettavano settimane terribili. Sulla strada in cui si trovava la casa della famiglia Boswell si affacciavano edifici antichi con eleganti facciate in stile inglese. Era una via stretta, scura e fresca, chiusa al traffico, in cui tuttavia carretti e biciclette transitavano liberamente, schivando i tranquilli pedoni. Nonostante l'aria europea, porte e finestre ostentavano graziosi arabeschi con motivi floreali. Era una bella via e la gente sembrava amichevole. Farag, visibilmente emozionato, estrasse una chiave dalla tasca e aprì il cancello. Un vago odore di menta uscì dal portale, ampio e ombroso, com'era usanza in un Paese caldo quale l'Egitto. Non si vedeva l'ombra di un ascensore. «Non fare rumore, Basileia. Voglio fare una sorpresa a mio padre.» Salimmo silenziosamente la breve scalinata e ci fermammo di fronte a una grande porta in legno e vetro smerigliato. Il campanello era sullo stipite, all'altezza delle nostre teste. «Ho la chiave», mi disse, premendo il pulsante, «ma voglio vedere la sua faccia.» Il campanello risuonò per il raggio di qualche chilometro. Prima che ne svanisse l'eco, dall'interno giunsero latrati furiosi. «È Tara», mi spiegò Farag, di buon umore. «Era di mia madre: andava matta per Via col vento», aggiunse a titolo di scusa, indovinando i miei pensieri: il nome di quel cane mi sembrava terribilmente kitsch, ma non dissi nulla. In fondo, nella vita avevo sentito nomi peggiori dati ad animali. La gente ha spesso cadute di gusto, in queste cose. Quando la porta si schiuse, intravidi un uomo alto e magro, sulla settantina, con i capelli bianchi e gli occhi di un blu intenso, incorniciati da lenti bifocali. Era bello come il figlio, di fatto sembrava una fotografia di Farag scattata nel futuro: aveva gli stessi tratti ebraici, la stessa pelle scura, la stessa espressione sul viso... Non mi stupivo che la madre di Farag avesse
abbandonato tutto per un uomo del genere, e provai una certa complicità nei suoi confronti, dal momento che anch'io stavo vivendo un'esperienza simile. L'abbraccio tra Farag e suo padre fu lungo ed emozionante. La cagnetta, una miscela non molto fortunata di yorkshire e scottish terrier, abbaiava come una forsennata, saltando in aria come una lepre. Butros Boswell baciò ripetutamente i capelli chiari del figlio come se ogni singolo giorno della sua assenza fosse stato per lui una tortura. Mormorò qualche parola in arabo ed ebbi l'impressione che gli si riempissero gli occhi di lacrime. Quando si separarono l'uno dall'altro, entrambi si voltarono verso di me. «Papà, ti presento la dottoressa Salina.» «Farag mi ha parlato molto di lei, in questi ultimi mesi, dottoressa», disse Butros Boswell in perfetto italiano. «Entri, la prego.» Seguiti da Tara che, incantata dalle carezze di Farag, muoveva la coda freneticamente, entrammo nell'anticamera dello spazioso appartamento. C'erano libri dappertutto, persino impilati sul mobile dell'ingresso. Abbondavano anche le foto di famiglia, nel corridoio e nelle stanze. L'arredamento era una miscela bizzarra di mobili e oggetti inglesi, viennesi, italiani, arabi e francesi: qui un vaso di Lalique, lì una teiera d'argento sbalzato, un trumeau inglese del primo Novecento, una scatola di legno intarsiato e madreperla, un servizio di bicchieri arabi, un tavolino sormontato da una scacchiera con i pezzi d'avorio e circondato da sedie in legno dallo schienale a volute. Ma ciò che più attirò la mia attenzione furono i quadri appesi alle pareti del salotto. Notato il mio interesse, Butros Boswell mi si affiancò per spiegarmi, con una certa dose di orgoglio, l'identità di tutti quei personaggi. «Questo è mio nonno, Kenneth Boswell, lo scopritore di Oxirrinco. Lo può vedere anche in questa vecchie foto in bianco e nero insieme ai suoi colleghi Bernard Grenfell e Arthur Hunt, nel 1895, durante i primi scavi. E questa...» indicò il quadro successivo, da cui ci osservava una bellissima donna con indosso un abito da cocktail e un paio di lunghi guanti neri che quasi le arrivavano alle ascelle «... era sua moglie, Esther Hopasha, mia nonna, una delle ebree più belle di Alessandria.» C'erano anche i ritratti di Ariel Boswell, il loro figlio, e di sua moglie Miriam, un'egiziana copta dalla pelle scura e dai capelli tinti con l'henné. Ma il posto d'onore sulla parete era riservato a una giovane donna non bellissima ma con occhi grandi e brillanti che trasmettevano un'infinita gioia di vivere. «Mia moglie, dottoressa Salina, la madre di Farag, Rita Luche-
se.» Un'ombra gli oscurò il viso. «È morta cinque anni fa.» «Papà», sussurrò Farag, che teneva Tara in braccio, «dobbiamo salire per mettere giù i bagagli.» «Cenate qui, stasera?» volle sapere Butros. «Sì, da me, con il capitano Glauser-Röist. Pensavo di ordinare qualcosa al Mercure.» «Molto bene», fu d'accordo Butros. «Allora ci vediamo, figliolo. Non andartene da Alessandria senza salutarmi.» «Sei invitato anche tu», lo informò Farag. Lanciò in aria la cagnetta, che doveva essere piuttosto pesante. Tara atterrò agilmente sul pavimento e venne subito verso di me. Aveva grandi occhi dallo sguardo intelligente. Il pelo era color cannella, tranne che sul collo e sul petto, dove aveva una grossa macchia bianca. Le passai cautamente una mano sulla testa e lei, sentendosi incoraggiata, si erse sulla zampe posteriori, appoggiandosi a me con quelle anteriori. «Spero non le dia fastidio, dottoressa. È il suo modo di dirle che le è simpatica.» Dopo esserci congedati da Butros, giunti quasi al piano superiore, dissi a Farag: «Tuo padre è una persona stupenda». «Lo so», rispose, aprendo la serratura e spingendo la porta. «Chi vive al piano di mezzo?» «Nessuno, ormai.» Farag si addentrò nell'oscurità e depose a terra le valigie. «Prima ci abitava mio fratello Juhanna con Zoe e il bambino.» «Non riesco ancora a credere a quello che mi hai raccontato. È una cosa terribile.» «Meglio non pensarci», mormorò, togliendomi le borse di mano e richiudendo la porta. «Abbiamo molte cose da fare.» Sì, ne avevamo molte. Era vero. Ma tra queste non era incluso accendere le luci, né aprire le persiane, né vedere la casa. Non avrei mai sospettato che mi sarebbe risultato così difficile mantenere fede al mio secondo voto. Sapevo che c'era un confine, ma io... io non mi ero mai resa conto di quanto potesse essere facile oltrepassarlo. Tuttavia non lo feci. Ma solo perché, all'ultimo momento, lottando ostinatamente contro i miei istinti e sentimenti, ricordai che dovevo mantenere una promessa. Era assurdo, era una follia, era ridicolo, lo sapevo. Ma per qualche ragione dovevo essere fedele all'impegno tuttora vigente con Dio, con il mio Ordine e con la Chiesa. Era spaventoso dover stare lontana dalle labbra, dal corpo, dalle tenerezza e dalla passione di Farag. Era come rompermi in mille pezzi.
«Mi hai assicurato... Mi hai assicurato che mi avresti aiutata», sussurrai, spingendolo via da me con entrambe le mani. «Non posso, Ottavia.» «Farag, per favore», lo supplicai. «Aiutami! Ti amo tanto!» Lui rimase immobile come una statua per alcuni secondi. Poi si chinò su di me e mi diede un bacio. «Ti amo anch'io, Basileia», disse, staccandosi subito. «Aspetterò.» «Ti prometto che stasera stessa chiamerò Roma», gli dissi, appoggiandogli una mano sulla guancia non rasata. «Parlerò con Suor Giulia Sarolli, la vicedirettrice del mio Ordine, e le spiegherò la situazione.» «Fallo, per favore», mi pregò, baciandomi di nuovo. «Per favore.» «Te lo prometto», ripetei. «Stasera stessa.» Mi feci la doccia, mi cambiai il cerotto che copriva la scarificazione, che stavolta raffigurava una croce bizantina, e indossai indumenti puliti. Nel frattempo Farag, dietro mio ordine, aprì porte e finestre, spolverò i mobili, preparò la casa ad accogliere gli ospiti e ordinò la cena al ristorante del vicino Hotel Mercure. Poi ci cambiammo di posto. Rifiutai l'invito a tenergli compagnia mentre faceva la doccia e mi trovai libera di curiosare a mia discrezione in quella casa sconosciuta. Ipocritamente, gli chiesi se c'era qualche punto in cui era meglio che non frugassi. «La casa è tua, Basileia. Guarda dove vuoi», disse, prima di scomparire. E così feci. Se dubitava delle mie doti di spia, si sbagliava di grosso. Nella mezz'ora che seguì, rivoltai la casa come un guanto. L'appartamento, dalle pareti lisce dipinte di bianco e dal pavimento chiaro di palladiana, era dotato di due camere da letto, di enormi dimensioni, come in tutte le vecchie case. Una di esse, molto austera, con un grande letto al centro, era quella di Farag. Nell'altra, situata al capo opposto dell'appartamento, c'erano due letti più piccoli e fungeva essenzialmente da magazzino per i libri, centinaia, e le riviste di storia, archeologia a paleografia. Il salone, con un grande divano e poltrone color crema, occupava uno spazio pari al resto della casa, cucina e studio compresi. Vicino a una parete era stato collocato un grosso tavolo da pranzo di legno scuro. Il resto dell'arredamento era dello stesso colore e tono: letti, armadi, librerie, tavolini, comodini, vetrine... Dovevano piacergli molto i cuscini, perché ce n'erano dappertutto, in una gamma che andava dal color rame al bianco. Un'altra presenza costante erano le fotografie, come già nell'appartamento di sotto: Farag con suo padre, con sua madre, con suo fratello, con la cognata, col nipote, di nuovo col padre, e così via. Ne scoprii molte in cui lo si vedeva da piccolo, con i
compagni di scuola e poi con quelli dell'università, e altre ancora con due amici che apparivano di frequente. Ma nelle fotografie di viaggio in giro per il mondo lo si vedeva sempre in compagnia di ragazze molto attraenti che cambiavano ogni volta. Per esempio, le foto scattate a Roma lo ritraevano da giovane con una bionda dal naso all'insù, quelle di Parigi con una bruna dal sorriso grazioso, quelle di Londra con un'orientale dai capelli corti e neri, quelle di Amsterdam con una modella scultorea dai denti perfetti, quelle di... Ma insomma, perché continuare? Dovevo rendermi conto che mi ero innamorata di Casanova, o, peggio ancora, di uno spudorato della peggiore specie. Chi l'avrebbe mai detto? Mi lasciai cadere sul divano, desolata, e abbracciai un cuscino mentre guardavo il cielo della sera attraverso le finestre. Dubitavo seriamente dell'opportunità di fare quella telefonata a Suor Giulia Sarolli. Ero ancora in tempo a tornare indietro e rifugiarmi nella casa di Connaught. In quel momento suonò la musichetta del cellulare di Farag, appoggiato su una delle piccole librerie in corridoio, vicino alla porta del bagno. «Ottavia!» mi gridò Casanova. «Prendi tu! Dev'essere il capitano!» Non gli risposi. Mi limitai a premere il pulsante verde e a rispondere alla Roccia, che sembrava di cattivo umore. «È già finita la riunione, capitano?» «Come al solito.» «Allora esca e ci raggiunga. La cena è quasi pronta.» Per quanto mi riguardava, speravo che quelli del ristorante si dessero una mossa. «Dove dorme stanotte, dottoressa?» mi chiese a bruciapelo. «Ecco...» esitai. «Non ci avevo pensato. Lei dove dorme?» «Il professore ha stanze sufficienti per tutti e tre?» «Sì, ha due camere e tre letti.» «C'è posto anche qui al Patriarcato. Vogliono sapere le nostre intenzioni.» «Ci servono computer o altro per preparare la prova?» «Il professore non ne ha?» domandò Glauser-Röist, interpretando la mia domanda a rovescio. «Sì, ne ha uno nel suo studio, ma non so se sia connesso alla rete.» «Sì!» gridò Casanova, che a quanto pareva seguiva punto per punto la nostra conversazione. «Ho una connessione a Internet e accesso al database del Museo!» «Ha detto di sì, capitano», riferii. «Allora decida lei, dottoressa.» Mi parve di cogliere una sfumatura di
sfiducia nella voce di Glauser-Röist. Suppongo si sentisse insicuro. «Venga qui, capitano. Staremo più comodi. Qual è l'indirizzo, Farag?» chiesi al mio principe senza corona, di là dalla porta. «Il 33 di Moharrem Bey, ultimo piano!» «Ha sentito, capitano?» «Sarò lì entro mezz'ora», promise la Roccia, e riagganciò senza salutare. Fortunatamente, il servizio a domicilio del ristorante del Mercure fu più rapido del capitano, sicché ci affrettammo a preparare la tavola in modo da continuare a fargli credere che la cena fosse opera nostra. «Non pensi sia meglio chiamare Suor Giulia prima che arrivi Kaspar?» mi chiese Farag, mentre prendevamo i bicchieri dalla cucina. Non sapevo che cosa dire, per cui rimasi zitta. Lui insistette: «Ottavia, non pensi di chiamarla?» «Non lo so, Farag. Non ho le idee chiare!» «Ma che cosa dici?» si sorprese. «Mi sono perso qualcosa?» Se gli avessi spiegato il motivo, sicuramente avrebbe riso di me. Quell'assurda gelosia era ridicola, d'altra parte non avevo molta pratica in materia. In realtà si trattava di un problema di confronti: io non avevo nessuno nel mio passato, ero come un appartamento-campione in una casa appena costruita, mentre lui aveva collezionato un vasto assortimento di amanti ed era piuttosto come una stanza d'albergo con uso cucina. Per quanto cercassi di rigirare la frittata, ero sempre io in svantaggio. Farag intuì qualcosa perché, depositando sul tavolo le stoviglie, mi si avvicinò e mi circondò le spalle con le braccia. «Che cosa succede, Basileia? Già cominciamo ad avere segreti?» «È questo il punto!» Tesi un dito accusatore verso le sue fotografie di viaggio. «Sei stato sposato? Perché in tal caso...» E lasciai la minaccia sospesa nell'aria. «Non sono mai stato sposato», balbettò. «Che storia è questa?» Continuavo a indicare le fotografie, ma con mia disperazione e incredulità lui continuava a non seguirmi. «Dio mio, Farag! Non capisci? Ci sono state troppe donne nella tua vita!» «Ah, be'!» sospirò. «Non sapevo che ti riferissi a quello. Ma dopotutto, Ottavia, non ti aspettavi sul serio che fossi rimasto vergine fino a trentanove anni?» Mi usò persino la cortesia di aggiungersi un anno, per attribuirsi la mia stessa età. «Perché no? Io l'ho fatto!» Se mi aspettavo che mi porgesse delle scuse o che ribattesse che io ero
una suora, rimasi delusa, perché la sua unica reazione fu abbandonarsi sul divano e ridere a crepapelle. Quando vidi che l'attacco non gli passava e che aveva il volto congestionato e pieno di lacrime a forza di sghignazzare, raccolsi il mio orgoglio ferito e lo portai nella camera in cui si trovavano i miei bagagli. Ma non ci arrivai: a lunghi passi, Farag mi raggiunse in corridoio e mi intrappolò davanti a una parete. «Non essere sciocca, Basileia», disse tra una risata e l'altra. «Te lo dico una volta sola e spero che sia chiaro. Fai quella telefonata in Italia, di' addio a Suor Giulia e all'Ordine e togliti dalla testa qualsiasi donna io possa avere avuto nella mia vita. Non ho provato per nessuna quello che provo per te. Questa è la prima volta che sono sicuro di quello che sento... E quello che sento è che ti amo come non ho amato nessun'altra.» Si chinò lentamente a baciarmi. «E mentre parli con la Sarolli, farò sparire tutte quelle foto, va bene?» «Va bene.» «Siamo d'accordo», assentì lui, sfiorandomi il naso con il suo. «Hai cinque secondi. Usa quel maledetto telefono.» «Parli come Glauser-Röist.» «Credo di cominciare a capirlo.» Sotto lo sguardo inquisitore di Farag, entrai nella camera. Preferivo parlare da lì, da sola e in tranquillità, senza averlo accanto come un'ombra, ad ascoltare ogni mia parola. Quando sentii il segnale di libero dalla casa centrale del mio Ordine a Roma, udii anche suonare il campanello della porta. Il capitano arrivava proprio in quel momento. Butros ci raggiunse poco dopo. Quella che ebbi con Suor Giulia Sarolli fu una conversazione piuttosto difficile: la vicedirettrice usò lo stesso tono sprezzante con cui mi aveva comunicato il mio esilio in Irlanda, lontano dalla mia comunità e dalla mia famiglia. Per quanto insistessi, non riuscivo a farmi spiegare quali passi dovessi seguire per lasciare l'Ordine. Si ostinava a ripetermi che la parte giuridica della questione era secondaria, che l'unica cosa importante era la mia anima, il dono che avevo fatto della mia vita. «Questo dono, Suor Ottavia», mi diceva, «è un dono d'amore, di un amore che cerca di superare il proprio egoismo aprendosi al prossimo. Per questo si vive in comunità. E l'ideale a cui tutte noi sorelle aspiriamo è dire, come San Paolo: 'Ho la libertà di fare questo e quello, ma anche di non fare ciò che voglio, bensì ciò che gli altri si aspettano da me'. Capisce?» «Capisco, Suor Giulia, ma ho riflettuto a lungo e sono sicura che non
potrei tornare a essere felice se continuassi la vita religiosa.» «Ma questa vita consiste nel seguire Cristo!» Suor Giulia non riusciva a capire che stavo rinunciando volontariamente a quell'alta meta e parlava come se non esistesse alcuna alternativa degna di essere presa in considerazione. «Lei è stata chiamata da Dio. Come può mostrarsi sorda alla voce di Nostro Signore?» «Non si tratta di questo, Sorella. Mi rendo conto che è difficile da comprendere, ma le cose non sono sempre così facili.» «Non si sarà innamorata di un uomo, vero?» chiese con voce tetra, dopo qualche secondo di silenzio. «Temo di sì.» Il silenzio si protrasse per qualche altro secondo. «Lei ha fatto un voto...» sottolineò, in tono accusatorio. «Cui non sono venuta meno, Suor Giulia. Per questo voglio che lei mi spieghi che cosa devo fare esattamente per reintegrarmi nella vita secolare.» Non ebbi fortuna nemmeno stavolta. Suor Giulia non capiva, o non voleva capire, che quando una cosa è finita non si può tornare indietro. Perciò insistette nel tentativo di convincermi a pensarci ancora, prima di prendere una decisione di tale gravità. Sapevo che quella telefonata sarebbe stata lunga, ma non avevo immaginato così tanto. «Deve confidare nel fatto che Dio la sta ancora chiamando», mi ripeteva Suor Giulia. «Mi ascolti, Sorella», ribattei, stanca e indispettita. «Di sicuro Dio mi sta chiamando, ma io sto chiamando lei, da Alessandria d'Egitto, e nemmeno lei mi risponde, quindi siamo pari. Per favore, mi dica una volta per tutte che cosa devo fare per uscire dall'Ordine!» La vicedirettrice ammutolì, ma dovette rendersi conto che, se non c'era più niente da fare, la cosa migliore era liberarsi di me. «Il prossimo mese di dicembre, quando parlerà con la Superiora della sua comunità per la revisione annuale, le dica che non intende rinnovare i voti la successiva Quarta Domenica di Pasqua. Ecco tutto.» «Che cosa dice?» chiesi, sconvolta. «Aspettare fino alla revisione annuale? Suor Giulia, questa soluzione la conoscevo già. Io le sto chiedendo che cosa posso fare per lasciare l'Ordine adesso.» La sentii sospirare attraverso il cavo telefonico. Udii anche la sirena lontana di un'ambulanza che passava vicino al suo studio, là a Roma. «Le occorre una dispensa del Vescovo», ringhiò. «Le ricordo che è da meno di un
mese che ha rinnovato i suoi voti.» Una piccola luce si accese in fondo al tunnel. «No, Suor Giulia. Non li ho rinnovati.» «Che cosa?» sussultò la vicedirettrice. «La Quarta Domenica di Pasqua era il 14 maggio, giorno in cui mi trovavo in Sicilia, al funerale di mio padre e mio fratello, morti in un... incidente d'auto.» «E non li ha rinnovati neppure la domenica successiva? Non ha firmato il documento?» «La missione che sto svolgendo per conto del Vaticano non me lo ha permesso. Ho fatto, questo sì, un rinnovo in pectore.» La sentii aprire e chiudere cassetti e sfogliare carte. Poi Suor Giulia coprì il ricevitore con una mano e disse qualcosa a qualcuno. Io cominciavo a soffrire, pensando quanto sarebbe costata a Farag quella lunga telefonata internazionale. Dopo un po', apparentemente convinta dalle mie parole, con voce rassegnata la vicedirettrice mi informò: «Legalmente, Sorella, lei non deve fare niente. La sua contrizione davanti a Dio è un'altra cosa: quella è una questione personale e dovrà affrontarla da sola. Sarebbe corretto, in ogni caso, che inviasse una lettera alla direttrice generale, comunicando la sua decisione. E anche una lettera alla Superiora della sua comunità, Suor Margherita. Le lettere saranno archiviate nella sua pratica e, da quello stesso momento, considereremo conclusa la sua appartenenza al nostro Ordine». «Tutto qui? Sono fuori? Finito?» Non potevo crederci. «Quando avremo ricevuto quelle lettere. Se non vuole sapere altro, Sorella...» Pronunciò con esitazione quest'ultima parola. «E il mio stipendio? Comincerò a riceverlo per intero, direttamente dal Vaticano?» «Di questo non si deve preoccupare. Appena avremo ricevuto quelle lettere, provvederemo a tutto. In ogni caso, ricordi che il suo contratto con il Vaticano si basa sulla sua condizione di religiosa. Temo che dovrà regolare la questione con il prefetto dell'Archivio Segreto, Padre Guglielmo Ramondino. E credo sia abbastanza probabile che dovrà cercarsi un altro posto di lavoro.» «Questo lo sapevo. Grazie di tutto, Suor Giulia. Spedirò quelle lettere prima possibile.» Quando riagganciai, provai un senso di vertigine. Avevo davanti a me un precipizio e il ciglio opposto era troppo lontano per arrivarci con un sal-
to. Retrocedere era impossibile, ormai, e non era certo quello che volevo. Sospirai e diedi un'occhiata alla camera da letto di Farag. Quando mia madre lo avesse saputo non le sarebbe venuto un attacco di cuore, no: gliene sarebbero venuti almeno due o tre. E non riuscivo a immaginare la reazione dei miei fratelli. Forse l'unico in grado di capire sarebbe stato Pierantonio. Io volevo solo passare con Farag tutto il resto della mia vita, ma lo spirito pratico dei Salina mi induceva a soppesare qualsiasi eventualità. Nonostante tutto, potevo sempre tornare a Palermo: lì avrei sempre trovato un rifugio. E avrei dovuto anche cercare un nuovo lavoro, ma questo non mi preoccupava: con il mio curriculum, i miei premi e le mie pubblicazioni, non sarebbe stato difficile. Da quel lavoro, naturalmente, sarebbe dipeso anche il luogo in cui avrei vissuto. Sospirai di nuovo. La paura non faceva parte del gioco, non era permessa. In una maniera o nell'altra, sarei andata avanti e avrei trovato il modo di superare il precipizio. La porta della camera si aprì lentamente e la barba di Farag spuntò dalla fessura. «Com'è andata?» chiese. «All'altro apparecchio si è sentito quando hai riagganciato.» «Non ci crederai», risposi, inarcando le sopracciglia. «Sono libera.» Farag spalancò la bocca e rimase paralizzato come una statua di sale. Mi alzai in piedi e andai verso di lui. «Andiamo a mangiare. Poi ti racconterò tutto nei dettagli.» «Ma... vuol dire che... non sei più una suora?» «Tecnicamente no», gli spiegai, sospingendolo lungo il corridoio. «Moralmente sì, per lo meno finché non mando la mia rinuncia per iscritto. Adesso pensiamo a mangiare, per favore: la cena si sarà freddata e io mi sento in colpa per tuo padre e il capitano.» «Non è più una suora!» gridò Farag, appena entrammo nella sala. Butros sorrise, chinando il capo, per esprimere un'intima allegria che doveva essere collegata a quella del figlio. La Roccia invece passò parecchio tempo a guardarmi di sottecchi. La cena si svolse in un'atmosfera molto piacevole. La mia nuova vita non poteva cominciare sotto migliori auspici. Compresi poi, al di là di ogni dubbio, perché gli Staurophylakes avessero scelto Alessandria per la purificazione dal peccato della gola: sarebbe stato difficile trovare piatti più succulenti e condimenti più appetitosi di quelli alessandrini. Prima del baba ghannoug, il purè di melanzane preparato con tahine e succo di limone, e dello hummus bi tahine, purè di ceci con lo stesso condimento a base di sesamo, assaggiammo un assortimento di insalate saporitissime ed
elaborate accompagnato da una buona quantità di formaggio e di fuul, le grosse fave egiziane. Secondo quanto ci spiegò Butros, quella alessandrina era erede diretta delle cucine romana e bizantina, cui aveva saputo aggiungere il meglio della cucina araba. Non c'era intingolo senza spezie e nei piatti alessandrini non mancavano mai l'olio d'oliva, il miele, l'alloro, lo yogurt, l'aglio, il timo, il pepe nero, il sesamo e la cannella. Ebbi modo di constatarlo. A cominciare dal pane, rappresentato dalle gustose aish, focacce preparate con farine diverse che accompagnavano i purè, fino al gambari, un piatto di gamberi giganti con salsa d'aglio che mi lasciò con il desiderio frustrato di leccarmi le dita, tutto quello che mangiammo quella sera fu francamente delizioso. Persino Glauser-Röist parve incantato dalla cena offerta da Farag, ma non credette nemmeno per un istante che fossimo stati noi a preparare quelle meraviglie culinarie. Butros ci raccontò poi che, a suo parere, i piatti più saporiti erano quelli di carne, anche se sul tavolo non ne restavano più, eccezion fatta per l'ottimo hamam, piccione ripieno di grano verde arrostito a fuoco lento. Tuttavia, ci disse, tanto gli egiziani quanto gli stranieri apprezzavano molto l'agnello, e il pesce, sempre fresco e ben condito, non era da meno. Glauser-Röist si bevve un paio di bottigliette di birra della marca egiziana Stella e il padre di Farag ne bevve tre. «Sapete che la birra fu inventata nell'Antico Egitto?» disse. «Niente di meglio di un buon bicchiere di birra prima di andare a letto: concilia il sonno ed è un rilassante naturale.» Nonostante ciò, Farag e io ci limitammo a bere acqua e carcadè freddo, la bevanda color rosso vivo ricavata dal fiore dell'ibisco, che gli egiziani sono soliti bere in abbondanza tutto il giorno, così come lo shai nana, un tè nero dal sapore forte accompagnato da foglioline di menta. Il peggio, tuttavia, furono i dessert. E dico il peggio perché non finivano più. Gli alessandrini, che non tradivano l'ascendenza bizantina, erano, come i greci, grandi amanti del dolce. Perciò Farag, fedele alla tradizione, aveva ordinato un assortimento di pasticcini e sfoglie più consono alla fame di un esercito che a quattro commensali già sazi dell'ottima cena: om ali, miscela di pasta di latte, noci, uva passa e cocco, konafa, sfoglia con miele, baklaoua, sfoglia con zucchero, pistacchi e cocco, e ashura, pasta di grano schiacciato con latte, frutta secca, uva passa e acqua di rose, piatto tipico dei musulmani, che lo consumavano il decimo mese di moharram, ma che Farag e suo padre gustavano a ogni possibile occasione. GlauserRöist e io ci scambiammo qualche discreta occhiata di sorpresa: la capacità della famiglia Boswell di consumare dolci senza ordine, numero e misura
era inaudita. «Non hai paura del diabete, mi pare», dissi a Farag, scherzosa. «Né del diabete, né del peso, né dell'ipertensione arteriosa», farfugliò, inghiottendo un boccone di konafa. «Sentivo la mancanza di una buona cena.» «Alessandria ostenta il terribile privilegio», cominciò a recitare la Roccia, con voce tetra, «di essere conosciuta per praticare perversamente il peccato della gola.» «Che cos'ha detto, capitano Glauser-Röist?» chiese Butros, mandando giù la sua baklaoua con l'aiuto di una sorsata di birra. «Tranquillo, papà», lo rassicurò Farag. «Kaspar non è impazzito. Era solo una delle sue battute.» No, non era una battuta. Anche a me, non so per quale ragione, erano tornate in mente le parole del messaggio di Catone su quella città e sulla sua colpa. «Ho sentito dire», continuò la Roccia, cambiando argomento, «che nei Paesi arabi l'accesso a Internet è ristretto. Vale anche per l'Egitto?» Butros ripiegò meticolosamente il suo tovagliolo e lo depose sul tavolo prima di rispondere, mentre il figlio era ancora alle prese con la sua konafa. «Questa è una questione molto seria, capitano», rispose, aggrottando la fronte in un reticolo di rughe. «A quanto ne so, qui in Egitto non soffriamo delle restrizioni imposte in Arabia Saudita e in Iran, che filtrano e restringono l'accesso dei loro cittadini a migliaia di pagine della rete. L'Arabia Saudita, per esempio, dispone di un centro ad alta tecnologia alla periferia di Riad da cui controlla tutte le pagine web visitate dai sudditi,61 e ogni giorno blocca l'accesso a centinaia di nuovi indirizzi che, secondo il governo, vanno contro la religione, la morale e la famiglia reale. Ma il caso dell'Iraq e della Siria è ancora peggiore: laggiù Internet è completamente proibito.» «Ma tu di che cosa ti preoccupi, papà? Sai appena maneggiare il computer e in Egitto non abbiamo di questi problemi.» Butros guardò il figlio come se lo vedesse per la prima volta. «Un governo non può spiare il proprio popolo, figliolo, o esserne il carceriere e il censore. Ancora meno può farlo una religione, qualunque essa sia. L'inferno di cui parlano i libri non è nell'altra vita, ma è proprio qui, su questa Terra, e a forgiarlo sono tanto gli uomini che si dicono interpreti della parola di Dio, quanto i governi che restringono le libertà dei loro cittadini. Pensa com'era un tempo e com'è adesso la nostra città. E non dimenticarti
di Juhanna, Zoe e del piccolo Simon.» «Non me ne dimentico, papà.» «Cerca un Paese in cui essere libero, figliolo», aggiunse Butros, rivolgendosi a Farag come se né il capitano né io fossimo presenti. «Trovalo e vattene da Alessandria.» «Che cosa dici, papà?» Farag premette le mani sul tavolo con tale forza che le nocche gli divennero bianche. «Vattene da Alessandria, Farag. Se rimani qui, non potrò vivere tranquillo. Lascia il tuo lavoro al Museo e chiudi questa casa. E non preoccuparti per me», si affrettò ad aggiungere, guardandomi e sorridendo con divertita malizia. «Quando troverete quel luogo, venderò questa casa e ne comprerò una nel Paese che avrete scelto.» «Lei vuole lasciare Alessandria, Butros?» gli chiesi, sorridendo a mia volta. «La morte di mio figlio Juhanna e del mio nipotino hanno segnato la mia rottura con questa città.» La sua espressione cordiale nascondeva a fatica il grande dolore. «Alessandria è stata gloriosa per millenni. Ma ora, per chi non è musulmano, è solo pericolosa. Non ci sono più ebrei, greci, europei... Tutti sono fuggiti e vengono solo come turisti. Perché noi dovremmo restare qui?» Rivolse al figlio uno sguardo carico di amarezza. «Promettimi che te ne andrai, Farag.» «Ci avevo pensato, papà», ammise Farag, guardandomi con la coda dell'occhio. «Ma da quando sono tornato mi sento così felice che mi costa molto farti questa promessa.» Butros si rivolse a me. «Ottavia, lo sa che, se Farag rimane ad Alessandria, potrebbe restare vittima della Gema'a al-Islamiyya?» Rimasi in silenzio. Forse Butros era ossessionato dalla sua tragedia personale, ma quelle parole mi scossero profondamente e lo feci capire a Farag con un'occhiata. «D'accordo, papà», si rassegnò lui. «Hai la mia parola. Non tornerò più ad Alessandria.» «Trovati un buon Paese e un buon lavoro. Penserò io alle tue cose.» Dopo quell'ultima frase, restammo in silenzio. Non avrei mai pensato che si potesse convivere con tutta quella paura e ripensai tristemente alle persone che in Sicilia vivevano nella minaccia di famiglie come quella di Doria e la mia. Perché il mondo doveva essere un luogo così orribile? Perché Dio permetteva che accadessero cose del genere? Avevo vissuto sotto una campana di vetro e ora era venuto il momento di guardare in faccia la
realtà. «Che ne dite se ci mettiamo al lavoro?» propose la Roccia, lasciando il tovagliolo sul tavolo. Scossi il capo come se mi svegliassi da un sogno e lo guardai, sorpresa. «Lavoro?» «Sì. Lavoro. Sono...» guardò l'orologio, «le undici. Possiamo lavorare per un paio d'ore. Che ne dice, professore?» Farag reagì con il mio stesso torpore. «Bene, bene, Kaspar», assentì, titubante. «Suppongo che potremo avere accesso alla banca dati del Museo. Mi auguro che non abbiano annullato la mia password.» Tra tutti e quattro impiegammo poco a sparecchiare e a mettere in ordine la cucina. Poi, dal momento che era poco probabile che lo rivedessimo prima di partire, Butros salutò il figlio e me con abbracci calorosi e strinse con affetto la mano a Glauser-Röist. «Fate molta attenzione», ci raccomandò, mentre scendeva la prima rampa di scale. «Non preoccuparti, papà.» Farag si sedette alla scrivania dello studio e avviò il computer, mentre la Roccia spostava una pila di riviste da una sedia e l'accostava all'apparecchiatura. Io, che non avevo alcuna voglia di pensare agli Staurophylakes, mi misi a curiosare tra i libri. «Molto bene, eccoci qui», disse Farag. «'Introdurre il nome utente.' Kenneth», ci rivelò, a voce alta. «'Introdurre la password.' Oxirrinco. Fantastico: l'ha accettata. Siamo nel database.» «Può cercare le immagini?» «In realtà no. Ma posso cercare testi e accedere alle immagini relative. Cercherò 'serpente barbuto'.» «In che lingua?» chiesi io, senza voltarmi. «In arabo e in inglese», mi spiegò. «Di solito uso l'inglese, perché è più comodo con questa tastiera a caratteri latini. Ne ho un'altra in arabo in quel mobile», indicò, «però non la uso quasi mai.» «Posso vedere?» «Certo.» Mentre Farag e il capitano si lanciavano sulla pista dei serpenti barbuti, io presi la tastiera araba. Era curiosissima: naturalmente era uguale alle nostre, solo che sui tasti c'erano caratteri arabi anziché latini. «Davvero sei capace di scrivere con questa?» «Sì. Non è così complicato. La cosa più difficile è cambiare la configurazione del computer e dei programmi. Per questo uso sempre l'inglese.»
«Che cosa dice lì, professore?» chiese la Roccia, senza togliere gli occhi dal monitor. «Dove? Vediamo... Ah, sì, questa è la collezione di immagini di serpenti barbuti del Museo.» Si concentrarono nell'esame delle fotografie di rettili e serpenti scolpiti o dipinti tra gli oggetti conservati nel Museo Greco-Romano. Ma dopo un po' giunsero alla conclusione che nessuna di quelle immagini avesse a che vedere con il disegno degli Staurophylakes, sicché ricominciarono daccapo. «Forse non è qui», ipotizzò Farag, incerto. «Il Museo copre solo sei secoli di storia, a partire dal 300 avanti Cristo. L'immagine potrebbe essere posteriore.» «Gli elementi del disegno sono greco-romani, Farag», gli feci presente, mentre sfogliavo una rivista di archeologia egizia. «Devono per forza corrispondere a quel lasso di tempo.» «Sì, ma qui non c'è niente, il che è piuttosto strano.» Decisero di consultare anche i cataloghi generali di arte alessandrina elaborati dal Museo per il municipio locale e disponibili nella banca dati. Stavolta ebbero maggiore fortuna: trovarono un serpente barbuto con le corone faraoniche dell'Alto e Basso Egitto che, pur non essendo esattamente uguale, corrispondeva approssimativamente a quello del disegno. «Dove si trova quest'opera, professore?» chiese la Roccia, seguendo l'uscita di una copia dell'immagine dalla stampante. «Oh, nelle... nelle catacombe di Kom el-Shoqafa.» «Kom el-Shokafa? Credo di avere appena visto qualcosa in proposito», dissi io, ispezionando le tre instabili colonne di arretrati del National Geographic. Ricordavo «Shoqafa» perché suonava come konafa, l'enorme sfoglia al miele che Farag aveva ingurgitato. «Non preoccuparti, Basileia. Non credo che Kom el-Shoqafa abbia nulla a che fare con la prova.» «Che cosa glielo fa dire, professore?» chiese la Roccia. «Perché ci ho lavorato, Kaspar. Ho diretto gli scavi del 1998 e conosco il sito. Se avessi visto l'immagine riprodotta nel disegno degli Staurophylakes me lo ricorderei.» «Ma hai detto che ti era familiare», ricordai, continuando a cercare la rivista. «Per la mescolanza di stili, Basileia.» Nonostante l'ora tarda, Farag e il capitano ripresero con insolita energia
l'esame del catalogo dell'arte alessandrina degli ultimi millequattrocento anni. Sembravano instancabili. Finalmente, mentre io trovavo la copia del National Geographic, inciamparono in un altro dato importante: un medaglione con una testa di Medusa. Dall'esclamazione del capitano, che confrontava il consunto disegno a carboncino con l'immagine sullo schermo, seppi che avevano trovato qualcosa di significativo. «È identico, professore», rilevò Glauser-Röist. «Osservi.» «Una medusa in stile tardo ellenistico? È un motivo piuttosto comune, Kaspar!» «Sì, ma è identica. Dove si trova questo bassorilievo?» «Mi lasci vedere... Hummm, nelle catacombe di Kom el-Shoqafa. Curioso! Non mi ricordavo...» «E non ricordi nemmeno il tralcio del dio del vino?» gli chiesi, sventolando la rivista, aperta a una pagina in cui si vedeva una grande fotografia. «Perché questo è identico a quello tra le spire di quel serpente ripugnante. E si trova anch'esso a Kom el-Shoqafa.» Il capitano si alzò subito in piedi e mi tolse la rivista di mano. «Nessun dubbio: è lo stesso.» «Il luogo è Kom el-Shoqafa», affermai con convinzione. «Non è possibile!» obiettò Farag, indignato. «La prova degli Staurophylakes non si può svolgere lì: quel sito funerario era completamente sconosciuto fino a un giorno del 1900, quando il terreno cedette sotto le zampe di un asinello che passava per la strada. Nessuno sapeva dell'esistenza delle catacombe e non è stata trovata nessun'altra entrata! Quel sito era perduto da oltre quindici secoli.» «Come il Mausoleo di Costantino, Farag», gli rammentai. Mi guardò. Era appoggiato allo schienale e mordicchiava rabbiosamente la punta di una biro. Sapeva che avevo ragione, ma si rifiutava di ammetterlo. «Che cosa vuol dire Kom el-Shoqafa?» «È il nome dato al sito dopo la sua scoperta nel 1900. Significa 'mucchio di frantumi'.» «Ma guarda!» commentai divertita. «Kom el-Shoqafa è un cimitero sotterraneo di tre piani, il primo dei quali era dedicato esclusivamente alla celebrazione di banchetti funebri. Fu battezzato così perché si trovarono migliaia di frammenti di piatti e di vasi.» «Senta, professore», fece la Roccia, tornando a sedersi senza restituirmi
il National Geographic. «Dica quello che vuole ma questa faccenda di banchetti e stoviglie mi sembra in tema con la prova della gola.» «Ha ragione», convenni io. «Conosco queste catacombe come il palmo della mia mano. Vi assicuro che non può essere questo il luogo che cerchiamo. Pensate che sono state scavate nella roccia del sottosuolo e che sono state esplorate nella loro totalità. Il fatto che certi dettagli del disegno coincidano non significa niente: di sculture, disegni e bassorilievi se ne trovano ovunque a centinaia. Al secondo piano, per esempio, ci sono grandi riproduzioni dei morti sepolti nelle nicchie e nei sarcofagi. Vi assicuro che fa impressione.» «E al terzo piano?» volli sapere, soffocando uno sbadiglio. «Anche questo è riservato alle sepolture. Il problema è che è parzialmente inondato da acque sotterranee. Ma vi posso assicurare che l'ho studiato a fondo e che non nasconde sorprese.» Il capitano si alzò in piedi, guardando l'orologio. «A che ora si possono cominciare a visitare queste catacombe?» «Se non ricordo male, sono aperte al pubblico dalle nove e mezzo del mattino.» «Allora andiamo a riposare. Alle nove e mezzo in punto dobbiamo essere lì.» Farag mi guardò desolato. «Vuoi che scriviamo adesso le lettere per il tuo Ordine, Ottavia?» Mi sentivo piuttosto stanca, senza dubbio per tutte le nuove emozioni di quel primo giorno di giugno, che era anche il primo giorno della mia nuova vita. Lo guardai triste e feci un cenno negativo con la testa. «Domani, Farag. Le scriveremo domani, quando saremo in volo verso Antiochia.» Quello che non sapevo era che non saremmo mai più risaliti a bordo del Westwind. Alle nove e mezzo in punto, come stabilito da Glauser-Röist, eravamo di fronte all'entrata delle catacombe di Kom el-Shoqafa. Un autobus di turisti giapponesi si era appena fermato di fronte a quella strana casa daña pianta circolare e dal tetto basso. Ci trovavamo a Karmouz, un quartiere estremamente povero per le cui strette viuzze circolavano carretti trainati da asini. Non era strano che fosse stata una di quelle bestie l'illustre scopritore dell'importante sito archeologico. Le mosche sorvolavano le nostre teste in nubi compatte e rumorose e ci si posavano sulla faccia e sulle braccia scoperte con un'insistenza repellente. I giapponesi non sembravano partico-
larmente disturbati dal contatto degli insetti, ma io cominciavo a innervosirmi e osservavo con invidia come gli asini le scacciassero con efficaci colpi di coda. Quindici minuti dopo l'orario previsto, un vecchio funzionario municipale, che data l'età avrebbe dovuto godere di una meritata pensione, si avvicinò con molta calma alla porta e l'aprì come se non vedesse le cinquanta o sessanta persone in attesa. Poi si sedette su una seggiola di canne dietro un tavolino su cui erano ammonticchiati i biglietti e, salutando con un poco convinto «Ahlan wasahlan», ci fece cenno di avvicinarci uno alla volta. La guida del gruppo giapponese cercò di infilarsi, ma il capitano, che lo superava in altezza di un buon mezzo metro, gli appoggiò una mano sulla spalla e lo fermò con qualche educata parola in inglese. Farag, essendo egiziano, pagò solo cinquanta piastre. Il funzionario non lo riconobbe, anche se erano passati solo due anni dagli scavi, e lui fece di tutto per passare inosservato. Glauser-Röist e io, come stranieri, sborsammo dodici lire egiziane a testa. Appena entrati all'interno della casa trovammo un buco nel pavimento, in cui scendeva una lunga scala a chiocciola scavata nella roccia, pericolosamente aperta al centro. Cominciammo la discesa, stando ben attenti a non inciampare. «Alla fine del II secolo», ci spiegò Farag, «quando Kom el-Shoqafa era un cimitero molto attivo, i corpi venivano calati mediante corde attraverso questa apertura.» Il primo tratto della scala portava a una specie di vestibolo dal pavimento di pietra calcarea perfettamente livellato. Qui si potevano vedere, con fatica data la scarsa illuminazione, due banconi ricavati nella parete, decorati con conchiglie marine. Il vestibolo, a sua volta, si apriva su una grande rotonda al cui centro si elevavano sei colonne dai capitelli a forma di papiro. Ovunque, come ci aveva detto Farag, si vedevano strani bassorilievi in cui la mescolanza di motivi egizi, greci e romani ricordava paurosamente le strane Monna Lisa di Duchamp, Warhol e Botero. Le sale destinate ai banchetti funebri erano così numerose da formare un vero labirinto di gallerie. Si poteva immaginare un giorno qualunque, intorno al I secolo dopo Cristo, in cui tutte quelle camere fossero affollate di famiglie e amici dei defunti, seduti su cuscini collocati sui sedili di pietra, intenti a celebrare alla luce delle torce quei festini in onore dei morti. Quanto era diversa la mentalità pagana da quella cristiana! «Al principio», riprese Farag, «queste catacombe dovevano appartenere
a un'unica famiglia. Ma col tempo probabilmente sono state acquisite da una corporazione che ne fece un cimitero pubblico. Questo spiegherebbe perché ci sono tante camere funerarie e tante sale per i banchetti.» Su una parete si vedeva un'enorme crepa aperta nella roccia da una frana. «Dall'altra parte c'è il cosiddetto Salone di Caracalla, in cui sono state trovate ossa umane insieme a ossa di cavallo.» Farag passò una mano sulla breccia come se fosse lui il proprietario delle catacombe. «Nell'anno 215, l'imperatore Caracalla si trovava ad Alessandria e, senza motivo apparente, dispose la leva di uomini giovani e forti. Dopo avere passato in rassegna le nuove truppe, ordinò che uomini e cavalli fossero uccisi.»62 Dalla rotonda, un nuovo tratto di scala scendeva al secondo livello. Se nel primo la luce era insufficiente, in questo si vedevano appena le silhouette inquietanti delle statue dei defunti, a grandezza naturale. Glauser-Röist, senza pensarci due volte, estrasse la torcia elettrica dallo zaino e l'accese. Eravamo soli: il drappello di giapponesi era rimasto di sopra. Nel nuovo vestibolo due enormi colonne, dai capitelli con decorazioni a foglie di papiro e di loto, racchiudevano un fregio raffigurante due falconi che scortavano un sole alato. Scolpite nella parete, le figure fantasmagoriche di un uomo e una donna, anch'esse a grandezza naturale, ci guardavano con occhi vacui. Il corpo dell'uomo era identico a quello delle figure dell'Antico Egitto: ieratico e con due piedi destri. La testa, invece, era di fattura greco-ellenistica, con un viso molto bello e fortemente espressivo. La donna, da parte sua, aveva una ricercata pettinatura romana sopra un altro impassibile corpo egizio. «Riteniamo che siano gli occupanti di quelle due nicchie.» Farag indicò le profondità di un lungo corridoio. Le dimensioni delle camere mortuarie facevano impressione, e il loro lusso e la peculiarità delle decorazioni erano sorprendenti. Sui lati di una porta si vedevano da una parte il dio Anubi dalla testa di sciacallo e dall'altra Sobek, dio del Nilo, dalla testa di coccodrillo. L'uno e l'altro indossavano la lorica da legionario romano, con daga, lancia e scudo. Trovammo il medaglione con la testa di Medusa all'interno di una camera contenente tre sarcofagi giganteschi. Scolpito sulla fiancata di uno di questi riconoscemmo anche il tralcio di Dioniso. Intorno a questa camera si sviluppava un passaggio pieno di nicchie, ciascuna delle quali, ci disse Farag, aveva spazio sufficiente per tre mummie. «Ma non sono più lì dentro, vero?» chiesi con apprensione.
«No, Basileia. Quasi tutte le nicchie furono razziate prima ancora del 1900. Come saprai, in Europa, fin quasi alla fine del XIX secolo, la polvere di mummia era considerata una panacea per tutti i mali ed era pagata a peso d'oro.» «Allora c'era un'altra entrata, oltre a quella principale», rilevò GlauserRöist. «Non è mai stata trovata», ribadì Farag. «Se è stato solo grazie a una frana fortuita che avete trovato il Salone di Caracalla, come può escludere che esistano altre camere ancora da scoprire?» «Qui c'è qualcosa!» esclamai io, osservando un'ansa in una parete. Avevo scoperto il nostro famoso serpente barbuto. «Bene», approvò Farag, avvicinandosi. «Adesso ci manca solo il kerykeion63 di Hermes il messaggero.» «Il caduceo, vero?» domandò il capitano. «A me ricorda più i medici e i farmacisti che i messaggeri.» «Perché Esculapio, il dio greco della medicina, aveva un bastone simile, solo con un serpente anziché due. La confusione tra i due simboli ha portato i medici ad adottare il simbolo di Hermes.» «Dobbiamo scendere al terzo livello», li incitai, incamminandomi verso la scala a chiocciola. «Ho idea che qui non troveremo altro.» «Il terzo livello è chiuso, Basileia. Le gallerie sono inondate. Quando lavoravo qui, non è stato facile studiare il livello inferiore.» «E allora che cosa aspettiamo?» incalzò la Roccia, venendomi dietro. La scala per la discesa verso gli abissi delle catacombe di Kom elShoqafa era, effettivamente, chiusa da una catenella da cui pendeva un cartello metallico che vietava l'accesso in arabo e in inglese. Il capitano, audace esploratore che rifuggiva dalle convenzioni, la strappò dalla parete e cominciò a scendere, accompagnato dalla colonna sonora dei grugniti di Farag. Sopra le nostre teste, un'avanguardia del gruppo giapponese stava trovando il coraggio di scendere al secondo livello. A un dato momento, prima ancora di toccare l'ultimo gradino, mi accorsi che avevo messo il piede in una pozzanghera tiepida. «Donna avvisata...» mi prese in giro Farag. L'anticamera di quel piano era decisamente più grande rispetto a quelle dei livelli superiori. L'acqua ci arrivava alla cintola. Cominciavo a dare ragione a Farag. «Sapete che cosa mi è venuto in mente?» dissi, in tono scherzoso.
«La stessa cosa che è venuta in mente a me», rispose Farag. «Non sembra di essere tornati nella cisterna di Costantinopoli?» «No», lo contraddissi. «Stavo pensando che stavolta non abbiamo letto il testo della sesta cornice di Dante.» «Non l'avrete letto voi», ci redarguì Glauser-Röist. «Io sì.» Casanova e io ci scambiammo un'occhiata colpevole. «Allora ci dica, Kaspar, giusto per sapere di che morte dobbiamo morire.» «La prova della sesta cornice è molto più semplice delle precedenti», cominciò a illustrarci la Roccia, mentre ci addentravamo nelle gallerie. Nell'aria c'era un forte odore di decomposizione e l'acqua era torbida quanto quella di Costantinopoli, ma per fortuna il suo colore biancastro era dovuto al calcare e non al sudore di centinaia di piedi di fedeli. «Dante trae vantaggio della forma conica del monte del Purgatorio per ridurre il diametro delle cornici e l'entità dei castighi.» «Che Dio lo ascolti!» implorai, speranzosa. I bassorilievi del terzo livello non erano meno originali di quelli dei piani superiori. Gli alessandrini dell'Età d'Oro non si facevano problemi quanto a religione e le loro credenze erano piuttosto aperte: non gli importava essere sepolti sotto un'invocazione a Osiride decorata con bassorilievi di Dioniso. Quel profondo eclettismo era divenuto la base di una società prospera. Purtroppo tutto questo aveva avuto fine quando il cristianesimo primitivo, un culto che rifiutava con violenza tutti gli altri, era divenuto la religione ufficiale dell'Impero Bizantino. «Il sesto girone occupa i canti XXII, XXIII e XXIV», continuò a spiegarci la Roccia. «Le anime dei golosi girano incessantemente intorno alla cornice, su cui si trovano, alle estremità opposte, due alberi dalla chioma a cono rovesciato.» «Assomiglia alla pianta del papiro», notò Farag. «Certo, professore, si potrebbe interpretare come una velata allusione ad Alessandria. In ogni caso, dalle chiome pendono frutti abbondanti e appetitosi che i penitenti non possono raggiungere. Inoltre dalle loro foglie cola un liquore squisito che, allo stesso modo, i penitenti non possono bere. Sicché le anime si aggirano per la cornice affamate e assetate con gli occhi infossati e i volti emaciati.» «Come al solito, Dante incontrerà un sacco di amici e conoscenti», immaginai. Mi parve di scorgere, in fondo a una camera, l'immagine del caduceo. «Andiamo da quella parte, credo di avere visto qualcosa.»
«E come finisce la prova?» chiese Farag. «Un angelo di colore rosso, fiammeggiante come il fuoco, indica loro la salita alla settima e ultima cornice e cancella dalla fronte di Dante il marchio del peccato della gola.» «Finisce così?» domandai, avanzando faticosamente nell'acqua per raggiungere la parete si cui ora potevo distinguere con chiarezza il caduceo di Hermes. «Proprio così. Tutto si fa più semplice, dottoressa.» «Non sa quanto darei perché fosse vero, capitano.» «Quanto darei io, suppongo.» «Il kerykeion!» esclamò Farag, appoggiando le mani sulla parete come un ebreo devoto sul Muro del Pianto. «Giurerei proprio che questo due anni fa non ci fosse.» «Suvvia, professore», lo rimproverò la Roccia. «Non sia così orgoglioso. Ammetta che può essersene dimenticato.» «No, Kaspar, no! Le camere sono troppe per ricordarsele tutte, questo è vero, ma un simbolo come questo non mi sarebbe sfuggito.» «Lo avranno messo apposta per noi», ironizzai. «Non vi sembra curioso che abbiamo trovato le riproduzioni della Medusa, del serpente e del tralcio al secondo piano e quella del caduceo al terzo, piuttosto lontana dagli altri?» sottolineò Farag. La Roccia e io riflettemmo per qualche secondo. «Un momento! Che cosa vi dicevo, eh?» proruppe Farag, mostrandoci le palme delle mani. Erano piene di fango. «Il muro si disfa», aggiunse Glauser-Röist, perplesso, introducendovi una mano ed estraendola piena di calcina pastosa. «È una parete falsa! Lo sapevo!» esclamò Farag, e cominciò ad abbatterlo con tale furia che alla fine si ritrovò schizzato di fango fino alle sopracciglia, come un bambino. Quando, ansante e sudato, ebbe aperto un varco nel muro, gli ripulii quanto possibile la faccia con la mano bagnata, per ridargli un aspetto decente. Sembrava felice. «Non sono riusciti a ingannarci, Basileia!» ripeteva, lasciandosi pulire quell'impasto di peli e fango che era diventata la sua barba. «Venite a vedere questo!» ci chiamò la Roccia, da dietro la parete fittizia. La luce intensa della sua torcia elettrica ci offriva uno spettacolo superbo: a un livello inferiore al nostro, un'enorme sala ipostila, con lunghe gallerie divise da colonne bizantine, era immersa fino a mezza altezza in un
calmo lago nero che scintillava alla luce come il mare di notte sotto la luna. «Non statevene lì», ci esortò la Roccia. «Venite anche voi in questo pozzo di petrolio.» Per fortuna il petrolio era in realtà solo acqua stagnante, sulla cui superficie si disegnava la traccia biancastra dell'acqua che filtrava dalle catacombe. Disfatto ciò che restava del muro di argilla, scendemmo quattro altri gradini. «In fondo alla sala c'è una porta», disse il capitano. «Andiamo da quella parte.» Con l'acqua che ci arrivava al collo, procedemmo in silenzio per uno di quegli ampi corridoi, in cui avrebbe potuto navigare tranquillamente una barchetta da pesca. Era evidentemente un'antica cisterna cittadina, uno di quei depositi in cui gli alessandrini immagazzinavano acqua potabile da utilizzare quando, annualmente, il Nilo straripava, trascinando con sé il limo rosso del sud, la famosa piaga del sangue mandata da Yahveh per liberare il popolo ebraico dalla schiavitù in Egitto. In prossimità del solido muro di blocchi di pietra in fondo alla galleria salimmo altri quattro gradini, uscendo dall'acqua. Non fu una sorpresa imbatterci in un Crismon di Costantino intagliato nel legno della porta: semmai sarebbe stato strano non trovarlo. Fiducioso, il capitano spinse la maniglia di ferro. Restammo di sasso nel trovarci di fronte a una sala per banchetti funebri, identica a quelle del primo piano. «Che diavolo significa?» tuonò Glauser-Röist, alla vista dei morbidi cuscini disposti sulle panche di pietra e delle squisite vivande in bella mostra sul tavolo centrale. Farag e io lo spingemmo da parte ed entrammo a nostra volta. La sala era illuminata da fiaccole. Arazzi e tappeti decoravano pareti e pavimenti. Anche se non si vedevano porte, qualcuno doveva essere appena uscito, perché i piatti erano ancora fumanti. Coppe di alabastro traboccavano di acqua, vino e carcadè. «Questo non mi piace», continuò a ruggire la Roccia. «Se si tratta di un banchetto funebre, siamo pronti.» Le sue parole mi spaventarono. D'un tratto, senza sapere bene perché, avvertii qualcosa di sinistro in quella tavola così ben apparecchiata e nell'aria colma di aromi emanati da quegli squisiti piatti di carne, legumi e verdure. «Oh... no!» balbettò Farag dietro di me. «No!»
Mi voltai di scatto, messa in allarme dall'angoscia nella sua voce, e lo vidi a torso nudo, mentre si sfilava freneticamente la camicia. Il suo torace era pieno di strane macchie nere, spesse e lunghe come dita, che si muovevano. «Dio santo!» gridai. «Sanguisughe!» In preda alla frenesia, Glauser-Röist lasciò la lanterna sull'angolo della tavola e si strappò i bottoni della camicia. Anche il suo petto, come quello di Farag, era coperto da quindici o venti di quei vermi ripugnanti che ingrassavano a vista d'occhio, grazie al sangue caldo di cui si stavano alimentando. «Ottavia, togliti i vestiti!» Sarebbe stato facile fare una battuta, ma non era il momento di scherzare. Mentre mi aprivo la blusa con le mani tremanti, sull'orlo di una crisi di nervi, Farag e il capitano si sfilavano i pantaloni. Entrambi avevano le gambe pelose, ma questo non pareva dare fastidio alle innumerevoli sanguisughe che avevano aderito alla loro pelle. Disgraziatamente, anche il mio corpo era pieno di quelle bestie rivoltanti. Con un nodo alla gola e lo stomaco sottosopra dal disgusto, presi una delle nove o dieci sanguisughe che avevo sul ventre: era molle, umida, gelatinosa e ruvida al tatto. Tirai. «Non lo faccia, dottoressa!» mi gridò Glauser-Röist. Non avvertivo alcun dolore, né ne avevo sentiti quando quelle bestiacce avevano cominciato a mordermi, ma per quanto tirassi non riuscivo a strapparmela di dosso. La sua bocca circolare era una ventosa e aveva una presa molto forte. «Si possono togliere solo con il fuoco», mi avvisò il capitano. «Come?» feci, angosciata. Lacrime di puro disgusto e disperazione mi colavano lungo le guance. «Ci bruceremo!» Ma Glauser-Röist era già salito su una panca ed ergendosi in tutta la sua altezza raggiunse una fiaccola. Lo vidi venire verso di me con aria decisa e uno sguardo fanatico negli occhi. Indietreggiai, spaventata. Quando toccai il muro con la schiena, mi resi conto della massa vischiosa ed elastica di vermi intenti a succhiarmi il sangue. Fui scossa da un violento conato. Non riuscii a controllarmi e vomitai su quei magnifici tappeti. Prima ancora che avessi il tempo di riprendermi, la Roccia avvicinò la fiamma al mio corpo: gli animali caddero come frutti maturi. Il problema era che mi stavo ustionando e il dolore era insostenibile. I lamenti divennero strilli quando il capitano applicò la fiamma una seconda volta. Nel frattempo, le sanguisughe sul corpo di Farag e del capitano conti-
nuavano a ingrassare. Aumentavano di volume a partire dalla testa, dove avevano la ventosa, ma la parte inferiore, la coda, restava sottile come quella di un lombrico. Non sapevo quanto potessero bere quelle bestiacce, ma ce n'erano così tante che dovevamo già avere perso molto sangue. «Lasci la fiaccola, capitano!» gridò Farag, comparendogli alle spalle con una coppa di alabastro. «Provo con questo.» Intinse le dita nel bicchiere, colmo di un liquido dall'odore di aceto. Un attimo dopo ci impregnò una delle sanguisughe che avevo sulla coscia. L'animale si contorse come il demonio di fronte all'acquasanta e mi si staccò di dosso. «Sul tavolo ci sono vino, aceto e sale: li mescoli e ci si lavi come ho fatto con Ottavia.» Farag continuò e uno dopo l'altro gli animali caddero a terra. Ringraziai Dio per quella soluzione: le zone del mio corpo su cui la Roccia aveva applicato la torcia dolevano come se mi avessero dato una coltellata. Ma se le ustioni mi facevano male, perché non i morsi delle sanguisughe? Nemmeno mi accorgevo della loro presenza, non sentivo che mi stavano dissanguando. Ero solo disgustata dalla visione dei nostri corpi ricoperti di lombrichi nerastri. Glauser-Röist, anziché applicare la miscela a se stesso, si dedicò a staccare dalla schiena di Farag vermi ormai grossi come topi. Ma erano troppi. Il pavimento era ingombro dei loro corpi rigonfi di sangue, eppure non sembrava che il loro numero diminuisse. Quando se ne staccava una, la ventosa lasciava sulla pelle un marchio arrossato a forma di stella, identico allo stemma della Mercedes Benz, da cui il sangue continuava a colare a profusione. Il che significava che, oltre a succhiare, mordevano con i loro denti acuminati. «Meglio la torcia, professore», commentò la Roccia. «Credo che il morso della sanguisuga sanguini per molto tempo. Il fuoco lo impedirebbe. E poi, ricordi che nella sesta cornice di Dante l'angelo che indica l'uscita è rosso e fiammeggiante.» «No, Kaspar, mi creda. Conosco queste bestie, le vedo da quando ero piccolo. Ce ne sono molte ad Alessandria, tanto sulla spiaggia quanto sulle rive del Mareotis.64 Non c'è modo di interrompere l'emorragia: la saliva delle sanguisughe contiene un forte anestetico e un potente anticoagulante. La ferita sanguina per una dozzina di ore.» Mentre parlava, Farag non smetteva di strapparmi un verme dopo l'altro. «Per fermare il sangue dovremmo ustionarci seriamente. E poi non possiamo cauterizzarci tutto il
corpo. Possiamo solo strapparci via queste bestiacce al più presto: possono assorbire sangue fino a dieci volte il loro peso.» Morivo di sete. D'un tratto sentivo la bocca secca e non potevo togliere gli occhi dall'acqua e dal carcadè sulla tavola. Il capitano, che aveva ancora addosso tutte le sue cinquanta o sessanta sanguisughe, si avvicinò barcollante alle coppe e, afferrandole con le mani tremanti, ne portò una a Farag e una a me. Poi ne bevve anche lui, come un cammello assetato, incapace di controllarsi. Farag eliminò l'ultimo verme dal mio corpo e cominciò a soccorrere Glauser-Röist, bianco come un cadavere e malfermo sulle gambe come un ubriaco. In preda alla nausea, mi appoggiai a un morbido arazzo sulla parete: il mio sangue lo impregnò all'istante, rendendolo appiccicoso. Avrei voluto bere ancora, ma la debolezza e la disidratazione me lo impedivano. Un'infinità di rivoletti di sangue colavano inarrestabili dalle mie ferite a forma di stella, formando pozze dentro e fuori le scarpe. «Bevi, Ottavia.» La voce di Farag sembrava venire da lontano. «Bevi, amore mio, bevi!» Non riuscivo quasi a sentirlo, ma percepii il bordo di una coppa a contatto con le labbra. Nelle orecchie sentivo un ronzio continuo, come le note di centinaia di ocarine. Ricordo di avere socchiuso gli occhi, poco prima di cadere a terra priva di sensi: intravidi il capitano, pieno di vermi, che giaceva incosciente ai piedi di una panca di pietra. L'immagine anelante e confusa di Farag, pallido in viso, con le guance scavate e gli occhi infossati, fu il mio ultimo ricordo. Restammo molto deboli per una settimana. Gli uomini che si prendevano cura di noi ci facevano bere molti liquidi e mangiare un impasto che sapeva di purè di verdure. La convalescenza fu lenta e segnata da lunghi periodi di incoscienza, momenti di delirio e strane allucinazioni, in cui tutto sembrava logico e possibile. Quando gli uomini ci portavano da mangiare e da bere, aprivo gli occhi e vedevo un tetto di canne attraverso il quale filtravano i raggi del sole. Non ero sicura se quell'immagine fosse reale o se facesse parte delle mie visioni, ma in ogni caso io non ero io, per cui non m'importava. Il secondo o il terzo giorno, non saprei precisarlo, mi resi conto che ci trovavamo su un'imbarcazione. Le oscillazioni e il rumore dell'acqua contro lo scafo, vicino alla mia testa, non appartenevano solo ai miei incubi. Ricordo di avere cercato Farag con lo sguardo e di averlo visto al mio fianco, privo di sensi, ma non avevo le forze per avvicinarmi a lui. Nei
miei sogni lo vedevo illuminato da una luce arancione e lo sentivo dire con voce triste: «Almeno voi avete la consolazione di credere che tra breve comincerete una nuova vita. Io invece dormirò per sempre». Protendevo le braccia verso di lui per chiedergli che non mi abbandonasse, che tornasse da me, ma lui, sorridendo malinconico, mi rispondeva: «Per molto tempo ho avuto timore della morte, ma non mi sono concesso la debolezza di credere in un Dio per risparmiarmelo. Poi capii che ogni notte, quando andavo a dormire, morivo un po'. Il processo è lo stesso, non lo sapevi? Ricordi la mitologia greca? I fratelli gemelli, Hypnos e Thanatos, entrambi figli di Nyx, la notte. Ricordi?» E la sua immagine si convertiva nel profilo confuso che avevo visto prima di svenire nella sala dei banchetti funebri di Kom el-Shoqafa. Il nostro sonno doveva essere molto prossimo alla morte, ma l'acqua, la birra e gli impasti di verdure, in cui dopo poco cominciarono a comparire pezzetti di pesce sminuzzato, svolsero la loro funzione rigenerante. Una notte la barca attraccò a una spiaggia. Gli uomini ci avvolsero in teli e, caricandoci in spalla, ci portarono a terra, fino al carretto di un venditore di shai nana. Aspirai il forte odore di tè nero e menta e vidi la luna, di questo sono certa: una luna crescente in uno sterminato cielo stellato. Quando tornai a riprendere conoscenza, eravamo di nuovo su una barca, un'altra, più grande e più stabile sull'acqua. Mi misi a sedere, anche se mi costò una fatica sovrumana. Volevo vedere Farag e capire che cosa stesse accadendo. Eravamo circondati da funi, vecchie vele e reti che puzzavano di pesce marcio. Farag e il capitano erano accanto a me, profondamente addormentati. Eravamo tutti coperti da un fine telo di lino giallognolo che arrivava fino al collo e ci proteggeva dalle mosche. Lo sforzo di mantenermi eretta fu troppo per il mio corpo: ricaddi sul mio giaciglio più debole di prima. Dal ponte giunse la voce di un uomo che gridava qualcosa in una lingua sconosciuta, che non suonava come l'arabo. Prima di riaddormentarmi mi parve di cogliere una parola come «Nubia», ma non ne ero sicura. Dopo numerosi e brevi periodi di veglia, in cui trovavo sempre Farag e Glauser-Röist addormentati, giunsi alla conclusione che nel cibo che ci davano non ci fossero solo pesce, verdure e farina. Il nostro sonno non era naturale e ormai dovevamo avere recuperato forze sufficienti per restare svegli. D'altro canto non osavo rinunciare al cibo, per cui continuai a mangiare il purè e a bere la birra che gli uomini ci portavano. Uomini, peraltro, alquanto peculiari: come unico indumento sulla loro pelle scura indossa-
vano perizomi di tela bianchissima, che nel delirio indotto dalle droghe mi riportavano alla mente la Trasfigurazione di Gesù sul Monte Tabor, quando i suoi indumenti divennero di un candore sfolgorante e una voce dal cielo disse: «Questo è il mio figlio amatissimo di cui Io mi compiaccio. Dategli ascolto». In testa gli uomini portavano finissimi teli, pure bianchi, legati con un laccio sulla nuca, i cui lembi ricadevano loro sulle spalle. Parlavano poco e sempre in quella strana lingua che non capivo. Se qualche volta cercavo, con voce impastata, di chiedere qualcosa o semplicemente di articolare qualche parola, mi rispondevano agitando le mani in aria e ripetendo sorridenti: «Ghiiz, ghiiz!» Erano sempre gentili e mi trattavano con grande considerazione, dandomi da mangiare e da bere con la delicatezza di una madre affettuosa. Di sicuro non erano Staurophylakes: sui loro corpi non c'erano scarificazioni. Il giorno in cui notai questo dettaglio mi tranquillizzai, pensando che se fossero stati banditi o terroristi a quel punto ci avrebbero già ammazzati e che, in definitiva, tutto ciò doveva far parte dei contorti piani della Confraternita. Altrimenti, come potevamo essere finiti nelle loro mani, dopo l'avventura di Kom el-Shoqafa? Cambiammo barca cinque volte, sempre di notte, prima di percorrere un lungo tratto via terra, dormendo sul pianale di un vecchio camion che trasportava legname. Costeggiammo la riva di un fiume. Sulla sponda opposta, dietro la scura barriera delle palme, si distingueva l'immensità vuota e fredda del deserto. Ricordo di avere pensato che stavamo risalendo il Nilo, in direzione sud, e che quei periodici cambi notturni di barca dovevano essere dovuti alla necessità di evitare le pericolose cateratte che ne punteggiavano il corso. In base alla mia supposizione, dovevamo ormai trovarci, come minimo, in Sudan. Ma allora... la prova di Antiochia? Se viaggiavamo verso sud, ci stavamo allontanando dalla nostra destinazione successiva. Finalmente, un giorno, smisero di somministrarci le droghe. Mi svegliai definitivamente sentendo le labbra di Farag sopra le mie. Non aprii gli occhi e mi abbandonai alla dolce sensazione del dormiveglia e dei suoi baci. «Basileia...» «Sono sveglia, amore mio», mormorai. Quando sollevai le palpebre, i suoi occhi azzurro mare mi attraversarono come un raggio. Il suo viso era provato, ma bello come sempre. E credo di non esagerare se dico che puzzava più delle reti da pesca. «Quanto tempo senza sentirti, Basileia», disse, tra un bacio e l'altro. «Eri sempre addormentata.»
«Ci hanno drogato, Farag.» «Lo so, amore mio, ma non ci hanno fatto del male. Questa è la cosa importante.» «Come ti senti?» gli chiesi, staccandomi da lui e accarezzandogli il viso. La sua barba bionda era lunga un palmo. «Perfettamente. Questa gente si arricchirebbe, se commercializzasse le droghe che usa per le prove.» In quel momento mi accorsi che le pareti di quella nuova e lussuosa cabina sembravano fatte di carta e lasciavano entrare la luce e i rumori dell'esterno. «E la Roccia?» «Eccolo lì.» Accennò con la testa alla parete di fronte. «Sta ancora dormendo, ma non credo sarà per molto. Sta per accadere qualcosa e ci vogliono svegli.» Non finì di parlare che la tenda di lino che chiudeva un lato della cabina si scostò, lasciando passare gli uomini che ci avevano curato in quei giorni. Li riconobbi, ma fu come se li vedessi per la prima volta, finalmente libera dagli effetti delle droghe. Erano alti e magri, quasi scheletrici, tutti con una barbetta che conferiva loro un aspetto fiero. «Ahlan wasablan», disse quello che sembrava essere il capo, piegando le sue magre gambe scure fino a sedersi accanto a noi con un movimento agile e naturale. Gli altri rimasero in piedi. Farag rispose al saluto e diede inizio a una lunga conversazione in arabo. «Sei pronta per una sorpresa, Ottavia?» mi disse poi, guardandomi sconcertato. «No», risposi, mettendomi a sedere senza sfilare le gambe dal telo. Indossavo solo una corta tunica bianca e la mia dignità mi proibiva l'esibizionismo. Solo allora mi resi conto che qualcuno di quei tipi silenziosi, negli ultimi giorni, doveva avere pulito le parti più intime del mio corpo. Avrei voluto morire. «Be', spiacente, ma te lo devo dire», riprese Farag, senza far caso al brusco cambiamento di colore della mia faccia. «Questo brav'uomo è il capitano Mulugeta Mariam e gli altri sono il suo equipaggio. Questa barca, la... Neway?» Mulugeta, interpellato dallo sguardo di Farag, fece un deciso cenno affermativo con la testa. «È una delle molte», continuò Farag, «che lui possiede lungo il corso del Nilo e che usa per il trasporto di mercanzie e passeggeri dall'Egitto all'Abissinia. Ovvero l'Etiopia.»
Ascoltavo Farag e sgranavo gli occhi. «Da secoli la sua gente, gli anuak di Antioch, nella regione di Gambela, vicino al Lago Tana, raccoglie passeggeri addormentati sul delta del Nilo e li trasporta fino al villaggio.» «Chi glieli consegna?» lo interruppi. Farag ripeté la mia domanda in arabo e il capitano Mariam rispose laconicamente: «Starofilas». Restammo in silenzio, scambiandoci un'occhiata inquieta. «Domandagli», balbettai poi, «che ne sarà di noi quando saremo arrivati.» Ci fu un nuovo scambio di parole, poi Farag mi guardò: «Dice che dovremo superare una prova che fa parte della tradizione anuak da quando Dio donò loro la terra e il Nilo. Se moriamo, bruceranno i nostri corpi su una pira e consegneranno le nostre ceneri al vento. E, se sopravviviamo...» «Che cosa?» chiesi, spaventata. «Starofilas», rispose Farag, imitando la voce di Mariam. Stordita, scossi il capo e mi passai una mano sui capelli, così sporchi e appiccicosi che non riuscivo a infilarci le dita. «Ma... ma il nostro compito era scoprire dove fosse il Paradiso Terrestre per catturare i ladri...» Era la paura a parlare per mia bocca. «Come facciamo ad avvisare la polizia, se ci tengono prigionieri?» «Tutto torna, Basileia. Gli Staurophylakes non potevano lasciarci liberi alla fine della settima cornice. Né noi né nessuno dei presunti aspiranti. È troppo facile cambiare opinione o lasciarsi comprare, o tradire un ideale all'ultimo momento, quando la meta è a portata di mano. Davanti a un simile pericolo, che cosa possono fare? È ovvio, no? Avremmo dovuto sospettare che l'ultima cornice sarebbe stata diversa dalle altre. E poi, nel nostro caso, come potevano fare? Lasciarci superare la prova e darci la pista definitiva perché giungessimo con i nostri mezzi fino al Paradiso Terrestre? Sarebbe bastato, come dici tu, comunicare alle autorità il luogo del nascondiglio perché su di loro calasse un intero esercito. Non sono stupidi.» Mulugeta Mariam ci guardava senza capire una parola, ma non si mostrava minimamente impressionato: come se avesse vissuto quella situazione un'infinità di volte, appariva calmo e deciso. Alla fine, dopo il nostro prolungato silenzio, fece un rapido discorso che Farag ascoltò attentamente. «Dice che non manca molto al villaggio di Antioch e che per questo ci
hanno svegliato. A quanto pare, sono diversi giorni che navighiamo sul Nilo e stiamo per imboccare uno dei suoi affluenti, l'Atbara, che secondo il brav'uomo appartiene, come il Nilo, agli anuak.» «E come siamo giunti in Etiopia? Non ci sono frontiere, non ci sono dogane e polizia?» «Passano le frontiere di notte e sono esperti di navigazione su feluche, le barche a vela tipiche del Nilo, che possono passare silenziose accanto a un posto di polizia senza destare sospetti. Suppongo anche che corromperanno qualche funzionario, o qualcosa del genere. Da queste parti è una pratica normale», mormorò, pizzicandosi il labbro inferiore. Stentavo a respirare. «E dove siamo, esattamente?» riuscii faticosamente a domandare. Avevo l'impressione di trovarmi dispersa in qualche punto inesplorato del globo. «Non ho mai sentito parlare né degli anuak né di un villaggio chiamato Antioch, ma so dov'è il Lago Tana, da cui nasce il grande Nilo Azzurro.65 E ti assicuro che non è quella che si definisce una zona civilizzata e di facile accesso. Dimenticati che siamo alle porte del XXI secolo. Torna indietro di duemila anni e ti avvicinerai di più alla verità.» Gli occhi mi dolevano a forza di sgranarli, ma non avrei potuto cambiare espressione nemmeno se avessi voluto. «Che diavolo sta dicendo, professore?» ringhiò la Roccia, agitandosi sotto il lenzuolo. «Di cosa diavolo sta parlando?» Mulugeta, Farag e io lo guardammo, mentre cercava di sollevare la testa nell'aria calda brulicante di mosche. «Del fatto che siamo in Etiopia, Kaspar», disse Farag, tendendogli una mano per aiutarlo ad alzarsi, mano che Glauser-Röist rifiutò. «Secondo il capitano Mariam abbiamo passato la frontiera col Sudan da alcuni giorni. Stiamo per giungere ad Antiochi, la città della prossima prova.» «Maledizione», protestò la Roccia, passandosi le mani sulla faccia per scacciare il sopore. Anche lui aveva urgente bisogno di un rasoio. «Ma non era ad Antiochia che dovevamo andare?» «Be', così credevamo», risposi io, non meno perplessa. «Ma non si trattava dell'antica Antiochia in Turchia, bensì di un villaggio chiamato Antioch, in Etiopia.» «Se non lo sapete», sospirò Farag, ormai rassegnato a questo volgere inaspettato degli eventi, «Antiochia e Antioch sono entrambe forme corrette del nome. Al mondo esistono numerose città con questo nome, ma ignoravo che ce ne fosse una anche in Abissinia.»
«Mi sembrava strano», commentai, passandomi una mano sui capelli sporchi, «che ci facessero andare dalla Turchia all'Egitto, per poi farci tornare in Turchia. Sarebbe stato un tour de force piuttosto strano, per i pellegrini medioevali che viaggiavano a piedi o a cavallo.» «Ecco la spiegazione, Basileia», dichiarò Farag, stringendo la mano al capitano Mulugeta, che si congedava da noi per tornare a occuparsi della navigazione. «E adesso, che ne dite se usciamo di qui, respiriamo un po' di aria pura e ci rinfreschiamo con l'acqua del fiume?» «Mi sembra un'idea eccellente», concordai, alzandomi in piedi. «Ho un odore da far paura.» «Vediamo...» volle controllare Farag, avvicinandosi a me. «Vade retro, Satana!» gridai, scappando oltre la tenda di lino. La Roccia mormorò qualcosa riguardo alla cornice dei lussuriosi che, nella mia foga, non riuscii a sentire. Mariam ci assicurò che non correvamo pericoli a tuffarci nelle acque azzurre dell'Atbara, sicché ci buttammo nel fiume. Sentii rivivere tutti i miei muscoli e anche il mio povero cervello intontito. L'acqua era fresca e sembrava pulita, ma Glauser-Röist ci raccomandò di non berne neppure un sorso, perché malaria, tifo e colera sono malattie endemiche nella maggioranza dei Paesi africani. Nessuno lo avrebbe detto, contemplando quel fiume calmo e trasparente, ma nel dubbio gli obbedimmo alla lettera. L'aria era pura e salubre e il cielo era di un azzurro così perfetto che faceva venire voglia di volare. Le due rive, piuttosto lontane l'una dall'altra, erano coperte da una fitta vegetazione da cui spuntavano alberi alti e frondosi, popolati da uccelli che sciamavano gracchiando e gorgheggiando da una chioma all'altra. Quelli, assieme alle nostre voci e all'eco dei nostri tuffi nel fiume, erano gli unici suoni che si udivano. Era tutto così bello che avrei giurato di sentire, nel vento, un grandioso coro di voci che cantavano al ritmo dell'aria e della corrente, combinando note musicali secondo l'armonia del cielo e dell'acqua. Non mi ero tolta la tunica bianca prima di tuffarmi, ma la tela galleggiava sull'acqua intorno a me e tanto sarebbe valso denudarsi. Farag e il capitano si erano spogliati, io invece avevo preferito tenere addosso il vestito, anche se non faceva il suo dovere. Quanto all'equipaggio, impegnato a issare la vela latina sul doppio albero, non m'importava che mi vedesse com'ero venuta al mondo; tra l'altro, una situazione simile doveva già essere capitata loro varie volte. Né, d'altra parte, mi parve che i marinai fossero interessati.
Come sei cambiata, Ottavia, mi dissi, accondiscendente, nuotando come una sirena da un lato all'altro. Io, una suora che aveva passato tutta la sua vita al chiuso, studiando o lavorando nei sotterranei dell'Archivio Segreto del Vaticano, tra pergamene, papiri e codici antichi, ora galleggiavo, nuotavo e mi immergevo nelle acque di un fiume in mezzo alla natura selvaggia. E, soprattutto, potevo vedere a pochi metri da me la testa dell'uomo che amavo con tutta l'anima e che mi divorava con gli occhi senza osare avvicinarsi. Come sei cambiata, Ottavia! Per completare la mia felicità ci sarebbe voluto un po' di sapone liquido e di shampoo, ma mi dovetti accontentare di una saponetta di glicerina che la Roccia aveva recuperato dal suo impagabile zaino, di cui tanto gli Staurophylakes quanto gli anuak avevano rispettato il contenuto. Quando risalimmo a bordo, trovammo nella cabina dall'aria fetida i nostri vestiti puliti e piegati, anche se non stirati. Mi sentii come una regina quando, lavata e rivestita, un marinaio mi mise in mano un piatto con un pesce enorme e saporito appena pescato nel fiume e cucinato sul fuoco. Alla sera ci sedemmo sul ponte con il capitano Mulugeta Mariani, che ci informò che saremmo giunti ad Antioch quella notte stessa. Era un uomo di poche parole e tutto quello che diceva aveva la proprietà di inquietarmi. «Ci chiede di pregare molto, prima di affrontare la prova», tradusse Farag, «perché la sua gente soffre quando un santo o una santa devono essere bruciati sulla pira.» «Quali santi?» chiese Glauser-Röist, che non aveva colto il significato. «Noi, Kaspar, siamo noi i santi: gli aspiranti Staurophylakes.» «Veda se riesce a cavargli qualche informazione su quei ladri di reliquie.» «Ci ho già provato», gli rispose Farag. «Ma quest'uomo pensa di compiere chissà quale sacra missione e si farebbe ammazzare piuttosto che tradire gli Staurophylakes.» «Starofilas», pronunciò con riverenza il capitano Mariam. Poi ci guardò e chiese qualcosa a Farag, che scoppiò a ridere. «Vuole saperne di più sul suo conto, Kaspar.» «Sul mio?» fece la Roccia, sorpreso. Mulugeta continuava a parlare. Non riuscivo a capire quanti anni avesse, nemmeno dalla macchia bianca sulla barba. Il volto sembrava giovane e la sua pelle nera brillava come metallo al sole. Ma c'era qualcosa di anziano nel suo sguardo, che si conciliava con la magrezza del corpo. «Dice che lei è due volte santo.»
Non riuscii a evitare di ridere. «È pazzo», sbuffò la Roccia. Farag e io cercavamo di contenere le risate, senza riuscirci. «Gli dica che sono un soldato e che di santo non ho proprio niente.» Mulugeta protestò con forza quando Farag, con un certo sforzo, gli tradusse le parole di Glauser-Röist. Con mia grande sorpresa, Farag smise di ridere. «Si tolga la camicia, Kaspar», disse. «Anche lei è impazzito, professore?» si indignò la Roccia. «Se la tolga lei!» «Sul serio, Kaspar, per favore!» Glauser-Röist, stupito quanto me, si sbottonò la camicia. Farag si protese verso di lui, appoggiandogli una mano sulla spalla perché si chinasse in avanti. «Guarda qui, Ottavia. Mariam dice che Glauser-Röist è due volte santo perché gli Staurophylakes lo hanno marchiato con... questo.» E indicò le vertebre dorsali del capitano, che sembrava un toro pronto alla carica. «Che scempiaggini sta dicendo, professore?» Al centro della schiena di Glauser-Röist si vedeva chiaramente una scarificazione a forma di piuma, in luogo della croce abituale. «A te che cos'hanno lasciato, Farag?» domandai, sollevandogli la camicia. A differenza della Roccia, sopra quella che ci avevano inciso a Istanbul, aveva all'altezza delle vertebre dorsali una croce ansata egizia, identica a quella di Iyasus. «Abi-Ruj Iyasus era etiope!» esclamai, affascinata dalla strana scoperta. «Certo», disse Glauser-Röist, che dopo essersi rivestito cominciava a calmarsi. «E adesso siamo in Etiopia.» «Che sia qui il Paradiso Terrestre?» soggiunsi, pensosa. «Sarà in Etiopia l'origine e la fine del mistero?» «Tra non molto lo sapremo», commentò Farag, alzandomi la blusa fin sulla nuca. «Anche tu hai una croce ansata. In realtà si tratta del simbolo ankh del linguaggio geroglifico egizio, il simbolo che rappresenta la vita.» La sua mano accarezzava la mia scarificazione, senza particolare necessità ma in modo molto gradevole, devo dire, mentre io... «È chiaro!» esclamò a un tratto. «La piuma di struzzo! Ecco che cos'ha sui dorsali, Kaspar! Noi, ad Alessandria, siamo stati marchiati con una croce ansata che corrisponde in origine a un geroglifico egizio. Lei è stato marchiato con un altro geroglifico: la piuma di struzzo, ovvero la piuma di Maat, il cui significato è la giustizia.»
«Maat? La giustizia?» fece la Roccia, dubbioso. «Maat è la regola eterna che regge l'universo», spiegò Farag, in preda all'eccitazione. «La precisione, la verità, l'ordine e la rettitudine. L'obbligo principale dei faraoni egizi era la realizzazione di Maat, perché non regnassero il disordine e l'iniquità. Il suo simbolo geroglifico era la piuma di struzzo, che al momento del giudizio dell'anima veniva posta su uno dei piatti della bilancia di Osiride. Sull'altro piatto si metteva il cuore del morto, che doveva essere leggero come la piuma di Maat, per avere diritto all'immortalità.» «E mi hanno tatuato tutto questo sulla schiena?» «No, Kaspar, solo il geroglifico della piuma di Maat», lo tranquillizzò Farag, che subito dopo si accigliò e aggiunse: «Il capitano Mariam afferma che per questo è due volte santo. Ossia, più santo di noi, che non l'abbiamo». «Tutto ciò è molto strano», rilevai, preoccupata. Farag rise. «Più strano di tutto quello che ci è capitato finora? Andiamo, Basileia!» Ma la piuma di Maat non era neppure sul corpo di Abi-Ruj Iyasus. E io sapevo che il capitano Glauser-Röist, militare di carriera, poliziotto e braccio segreto del Vaticano, era l'unico di noi a costituire un effettivo pericolo per gli Staurophylakes. Era inquietante che proprio lui fosse stato marchiato con un geroglifico che significava «giustizia». Non mi liberai di quel sospetto nemmeno mentre ci preparavamo all'ultima cornice del Purgatorio, con l'aiuto della Divina Commedia, intanto che la Neway si avvicinava lentamente alla sua destinazione. Al pari di noi tre in quel momento, Dante, Virgilio e il poeta napoletano Stazio, che a loro si è unito nell'ascesa al Paradiso Terrestre, si avvicinano alla loro ultima destinazione. Scende la notte e il gruppo deve affrettare il passo per arrivare alla settima cornice, quella dei lussuriosi, prima che faccia buio. E già venuto all'ultima tortura s'era per noi, e volto alla man destra, ed eravamo attenti ad altra cura. Quivi la ripa fiamma in fuor balestra e la cornice spira fiato in suso che la reflette e via da lei sequestra;
ond'ir ne convenía dal lato schiuso ad uno ad uno; e io temea il foco quinci, e quindi temea cader giuso.66 Virgilio supplica ripetutamente il suo pupillo di fare attenzione a dove mette i piedi, perché il minimo errore, camminando tra la parete fiammeggiante e l'orlo della cornice, potrebbe risultare fatale. Dante, dimentico della raccomandazione, sente cantare un inno che invita alla purezza, si volta e vede un folto gruppo di anime che avanzano tra le fiamme. Una di esse, tanto per cambiare, gli rivolge la parola e gli chiede come mai la luce del sole non lo attraversi: «Né solo a me la tua risposta è uopo, che tutti questi n'hanno maggior sete che d'acqua fredda Indo o Etiopo».67 «Questo è troppo», commentò Farag. «Davvero», convenni. «Come abbiamo fatto a non capirlo prima? Perché non ci è venuto il sospetto quando abbiamo letto tutto il Purgatorio a Roma?» «Quando lei lo ha letto, professore, avrebbe potuto immaginare anche solo lontanamente in che cosa consistessero le sette prove?» gli chiese la Roccia. «È assurdo chiederselo adesso. E se fosse stata l'India, anziché l'Etiopia? Dante raccontava quello che poteva, correva rischi perché sapeva di avere una bella storia ed era ambizioso, ma non era pazzo e non voleva correre rischi inutili.» «Ciò non toglie che l'abbiano ucciso», notai. «Sì, ma lui non voleva arrivare fino a quel punto. Per questo dissimulava i dati.» Alla convergenza delle due rive dell'Atbara si cominciavano a distinguere il villaggio di Antioch e l'imbarcadero, una semplice palafitta sulla sponda destra. Un tiepido raggio di luce crepuscolare mi scaldava la spalla destra. Il mio stomaco sussultò appena vidi le colonne di fumo che si levavano in aria dal villaggio. Avrei voluto che la Neway facesse dietro-front, ma era troppo tardi. Mentre l'anima del lussurioso, che poi risultava essere il poeta Guido Guinizelli, membro, come Dante, della società segreta dei Fedeli d'Amore,
domanda al nostro eroe perché non sia permeabile alla luce del sole, un altro gruppo di spiriti si avvicina in direzione contraria, camminando lungo il sentiero ardente. Assistendo al caloroso scambio di baci e cordialità tra i due gruppi, Dante deduce che una schiera è quella dei lussuriosi eterosessuali, l'altra quella dei lussuriosi omosessuali. Contrariamente alle sue abitudini, Dante li consola, vuoi perché propenso a questo peccato, vuoi perché per la maggior parte i presenti risultano essere letterati come lui, ricordando loro che sono molto vicini al raggiungimento della pace e del perdono di Dio, perché il cielo è pieno di amore. Appena cominciato il Canto XXVII, a giorno praticamente finito, i tre viandanti giungono a un punto in cui tutto il sentiero arde di fiamme. Appare dunque bel bello un angelo di Dio, che li incoraggia ad attraversarle. Dante, terrorizzato, si copre il viso con le braccia e si sente qual è colui che nella fossa è messo.68 Virgilio tuttavia, vedendolo così spaventato, lo tranquillizza. Volsersi verso me le buone scorte; e Virgilio mi disse: «Figliuol mio, qui può esser tormento, ma non morte [...] Credi per certo che se dentro all'alvo di questa fiamma stessi mille anni, non ti potrebbe far d'un capel calvo».69 «Questo varrà anche per noi, vero?» interruppi, speranzosa. «Non mettere il carro davanti ai buoi, Basileia.» La Roccia, imperturbabile, continuò a leggere di come Dante, intimorito, rimanesse immobile davanti alle fiamme senza azzardarsi a fare un passo. Poi dentro al foco innanzi mi si mise, pregando Stazio che venisse retro, che pria per lunga strada ci divise. Si com fui dentro, in un bogliente vetro gittato mi sarei per rinfrescarmi, tant'era ivi lo 'ncendio senza metro.
Lo dolce padre mio, per confortarmi, pur di Beatrice ragionando andava, dicendo: «Li occhi suoi già veder parmi».70 I tre escono dalle fiamme seguendo una voce che dall'esterno canta Venite, benedicti Patris mei!:71 è quella dell'ultimo angelo guardiano, che appare tra le fiamme sotto forma di luce accecante e cancella l'ultima Ρ dalla fronte di Dante. I viandanti si trovano ora davanti alla salita che conduce al Paradiso Terrestre. Felici e contenti, cominciano l'ascesa. Tuttavia in quel momento scende definitivamente la notte e i tre devono sdraiarsi sulle scale perché, in base all'avvertimento ricevuto da Dante in precedenza, la montagna del Purgatorio non permette di salire quando fa buio. Giacendo sul gradino, Dante vede un cielo pieno di stelle di lor solere e più chiare e maggiori72 e, contemplandole, si addormenta profondamente. La Neway virò verso il molo di Antioch, da cui la gente del luogo, un centinaio di persone vestite di bianco dalla testa ai piedi, con tuniche, veli, copricapi e perizomi, lanciava grida di benvenuto, saltando e agitando le braccia in aria. Il ritorno di Mulugeta Mariani e del suo equipaggio sembrava essere motivo di grande allegria. Il villaggio era costituito da trenta o quaranta case di paglia e fango, con i tetti di canne e le pareti dipinte a colori vivaci, ammassate dietro l'imbarcadero. Da tutte spuntavano grandi tubi neri, a mo' di comignoli, ma il fumo che avevo avvistato già prima di arrivare nasceva in qualche punto dietro il villaggio, tra questo e il bosco: ora le colonne grigie apparivano enormi, come braccia di titani protese verso il cielo. Stavamo ormai per attraccare, ma Glauser-Röist non voleva separarsi dal libro. «Siamo arrivati, capitano», lo avvisai, approfittando di una delle sue brevi pause per riprendere fiato. «Lei sa forse a che cosa andrà incontro in questo villaggio, dottoressa?» mi chiese, in tono di sfida. «No, non lo so.» «Molto bene, allora continuiamo a leggere. Non dobbiamo scendere da questa barca prima di avere tutti i dati.»
Ma di dati non ce n'erano più, eravamo giunti alla fine. Come conclusione, Dante Alighieri racconta, non senza una certa malinconica bellezza, come si risveglia l'indomani mattina e vede Virgilio e Stazio già alzati, che lo aspettano per terminare l'ascesa che li condurrà al Paradiso Terrestre. Il maestro dice a Dante: «Quel dolce pome che per tanti rami cercando va la cura dei mortali, oggi porrà in pace le tue fami».73 Dante sale di corsa i gradini, impaziente, e quando finalmente arriva in cima e contempla il sole, gli arbusti e i fiori del Paradiso Terrestre, il suo amato maestro si congeda da lui per sempre. E disse: «Il temporal foco e l'etterno veduto hai, figlio, e se' venuto in parte dov'io per me più oltre non discerno. Tratto t'ho qui con ingegno e con arte; lo tuo piacere omai prendi per duce: fuor se' dell'erte vie, fuor se' dell'arte [...] Non aspettar mio dir più né mio cenno: libero, dritto e sano è tuo arbitrio, e fallo fora non fare a tuo senno: perch'io te sovra te corono e mitrio».74 «Finito», annunciò la Roccia, chiudendo il libro. Sembrava un po' meno Roccia del solito, come se avesse appena salutato per sempre un vecchio amico. Negli ultimi mesi Dante, il più grande poeta italiano di tutti i tempi, era stato parte essenziale delle nostre vite, e quell'ultimo verso sfuggente ci lasciava tutt'a un tratto più soli. «Credo che questo sia un binario morto», mormorò Farag. «Ho la sensazione che Dante ci abbandoni. Mi fa sentire orfano.» «Be', lui è arrivato al Paradiso Terrestre. Ha raggiunto il suo obiettivo, la gloria e la corona d'alloro. Noi», dissi, avvertendo nell'aria l'odore del fumo, «dobbiamo ancora affrontare l'ultima prova.»
«Ha ragione, dottoressa. Andiamo!» ordinò Glauser-Röist, scattando in piedi. Ma lo vidi accarezzare di nascosto la copertina della sua copia sempre più consunta della Divina Commedia, prima di lasciarla cadere nello zaino. Il villaggio di Antioch ci ricevette con grandi schiamazzi. Appena ci videro sul ponte, ci assordarono con grida di giubilo, battiti di mani e acclamazioni. «Non sarà un villaggio di cannibali che vede arrivare la sua cena?» «Farag, sono già abbastanza nervosa!» Il capitano Mulugeta Mariam, come anfitrione della festa e responsabile del nostro piacevole viaggio, aprì la strada tra i cordoni di folla come una stella di Hollywood, tra saluti, baci, pacche amichevoli e abbracci. Dietro di lui veniva Glauser-Röist, che i bambini anuak accolsero con timidi sorrisi e sguardi di ammirazione: era così biondo e così alto che difficilmente nelle loro vite poteva essergli capitato di vedere un esemplare umano tanto impressionante. Le donne, che morivano di curiosità, facevano più caso a me. Non dovevano essere molte le sante che giungevano dall'Atbara pronte ad affrontare l'ultima prova del Purgatorio, e questo era per loro un certo orgoglio di genere che si rifletteva negli sguardi. Gli occhi blu di Farag fecero strage: una ragazzina che non doveva avere più di quattordici o quindici anni, spinta dalle amiche che la circondavano ridendo a crepapelle, gli si avvicinò e gli tirò la barba. Casanova scoppiò a ridere a sua volta, divertito. «Hai visto che cosa succede a non farti la barba?» «Credo che non me la farò mai più!» Gli diedi un colpetto alle costole con il gomito destro, cosa che lo divertì ancora di più. Che castigo! Il capo del villaggio, Berehanu Bekela, un uomo dalle enormi orecchie pendule e dai denti giganteschi, ci diede il benvenuto con tutti gli onori. Faceva parte della cerimonia metterci intorno al collo vari fazzoletti bianchi fino a formare una spessa e tiepida stola, molto appropriata per quella temperatura. Poi, seguendo la retta che partiva dal molo, ci portarono al centro della spianata intorno a cui si raggruppavano le case, illuminate da fiaccole legate a lunghi pali infissi nel terreno. Una volta lì, Berehanu gridò alcune parole incomprensibili e la gente si diede ad acclamazioni sfrenate che si interruppero solo quando il capo alzò le mani in aria. In pochi secondi la spianata si riempi di sgabelli, stuoie e cuscini e tutti furono pronti a dare l'assalto alle montagne di cibo portate su vassoi dalle
case circostanti. Smisero di prestarci attenzione, per concentrarsi su quei mucchi di carne serviti su larghe foglie verdi, a guisa di piatti vegetali. Berehanu Bekela e la sua famiglia ci usarono l'onore di servirci con le loro mani quello che avremmo dovuto mangiare, a prima vista un rotolo di carne cruda, e ci osservarono con ansia. Una graziosissima bambina sui tre anni mi si sedette accanto, ripetendo: «Injera, injera!» Mulugeta parlò con Farag e questi guardò me e il capitano con espressione seria. «Dobbiamo mangiare quello che ci offrono anche se ci fa schifo. Altrimenti, arrecheremmo una grave offesa al capo e a tutto il villaggio.» «Non dire sciocchezze!» proruppi. «Non intendo mangiare carne cruda!» «Non discutere, Basileia, e mangia.» «Ma come faccio a mangiare questi pezzi di non so che?» ribattei con apprensione, prendendo tra le dita qualcosa che sembrava un tubo di plastica di colore nero. «Mangi», disse Glauser-Röist tra i denti, ficcandosene in bocca una manciata. La festa salì di tono proporzionalmente alla birra in bottiglia che fluiva per il villaggio come l'Atbara. La bambina continuava a fissarmi e furono i suoi occhioni neri a incoraggiarmi a schiudere le mie labbra esitanti e a portarvi un pezzo di carne cruda. Trattenendo i conati, masticai quanto potei e inghiottii quasi per intero un pezzo di rognone di antilope. Poi ingollai un pezzo di stomaco, che mi parve elastico e di gusto più dolce del rognone. Poi un pezzo di fegato ancora caldo che mi schizzò il mento e i bordi della bocca di sangue. A quanto vedevo, gli etiopi adoravano quelle delizie. Per me fu l'esperienza peggiore della mia vita, uno dei quei momenti che non si possono cancellare dalla memoria nemmeno col passare degli anni. Bevvi un sorso da una bottiglia di birra e avrei svuotato la successiva se Farag non mi avesse trattenuta prendendomi per la manica. La festa durò a lungo. Quando finì la cena, un gruppo di ragazze comprendente quella che aveva tirato la barba a Farag entrò nel cerchio e si esibì in una danza molto curiosa, agitando freneticamente le spalle. Era incredibile! Non avrei immaginato che potessero muoversi così, a quella velocità rabbiosa e in quella maniera prodigiosa, come se fossero snodate. La musica era un ritmo semplice battuto da un tamburo, cui poi se ne aggiunse un altro e poi un altro ancora, finché la cadenza non divenne ipnotica. Tra quello e la birra, cominciavo a non capire più niente. La bambina, che
a quanto pareva aveva deciso di adottarmi, si alzò da terra e si sistemò tra le mie gambe incrociate, come se io fossi un comodo sedile e lei una piccola regina. Era delizioso vedere come si aggiustava accuratamente il velo che le copriva la testa e che le scendeva fino alla vita. Ma non c'era modo di tenere quel lino bianco in equilibrio sui suoi capelli neri e ricci, per cui dovevo essere io a metterglielo a posto di continuo. Alla fine, quando le ballerine smisero di danzare, la bambina appoggiò la schiena al mio stomaco e si accomodò come se fossi effettivamente il suo trono. Immediato, il ricordo della mia nipotina Isabella mi trafisse il cuore come un dardo. Quanto avrei voluto averla con me in quel momento, proprio come quella bambina. In mezzo a un villaggio sperduto in Etiopia, sotto la luce della luna crescente e delle torce, la mia mente volava a Palermo. Seppi che sarei dovuta tornare, prima o poi, per cercare di cambiare le cose. Anche se non ci fossi riuscita, la mia coscienza mi imponeva di fare un ultimo tentativo prima di andarmene per sempre. Quel senso radicato di appartenenza a un clan inculcatoci da mia madre, non meno tribale di quello degli anuak, mi impediva di tagliare i ponti una volta per tutte, nonostante ormai sapessi che tipo di famiglia mi fosse toccata in sorte. Quando i tamburi tacquero e le ballerine furono uscite di scena, Berehanu Bekela si avviò lentamente verso il centro della piazza, in un profondo silenzio. Persino i bambini smisero di muoversi irrequieti e corsero dalle loro madri, per restare immobili e silenziosi. L'occasione era solenne e la mia tachicardia partì al galoppo: sentivo che la festa stava per cominciare. Berehanu tenne un lungo discorso che, secondo quanto ci spiegò Farag a sussurri, riguardava l'antichissima relazione tra gli anuak e gli Staurophylakes. Le traduzioni simultanee di Mulugeta e di Farag lasciavano molto a desiderare, ma non avevamo interpreti migliori a nostra disposizione e ci dovemmo accontentare di mezze frasi e mezze parole. «Gli starofilas», diceva Berehanu, «giunsero sull'Atbara centinaia di anni fa su grandi barche... gli anuak la parola di Dio. Quegli uomini di... la fede e ci insegnarono a muovere la pietra, a lavorarla... a fabbricare birra e a costruire barche e case.» «Sei sicuro che dica questo?» mormorai. «Sì, e non interrompermi, se no non sento Mariam.» «Sì, ma non capisco perché comprino birra in bottiglia...» «Zitta, Ottavia!» «Gli starofilas ci fecero cristiani», continuò il capo, «e ci insegnarono tutto quello che sappiamo. In cambio ci chiesero solo... il loro segreto e
che portassimo i santi dall'Egitto ad Antioch. Noi anuak abbiamo... che diede Mulualem Bekela in nome del nostro popolo. Oggi tre santi... per le acque dell'Atbara, il fiume che Dio donò a... Siamo responsabili di... e gli starofilas si aspettano che facciamo il nostro dovere.» Subito dopo la folla esplose in una clamorosa ovazione e un gruppo di quindici o venti giovani si alzò in piedi e corse a perdifiato tra le case, scomparendo nel buio. «Vadano dunque gli uomini a preparare il cammino dei santi», tradusse Farag con un certo ritardo. Tutti si erano messi a ballare al ritmo dei tamburi e, nel bel mezzo della festa, la Roccia, Farag e io fummo presi e separati per essere condotti in case diverse e preparati all'imminente cerimonia. Le donne che mi avevano rapito mi tolsero i sandali, i pantaloni, la blusa e gli indumenti intimi, lasciandomi completamente nuda. Poi mi lavarono, aspergendomi acqua sul corpo con un fascio di rami, e mi asciugarono con teli di lino. I miei abiti sparirono e mi dovetti accontentare di un camicione, ovviamente bianco, che per fortuna mi arrivava fino alle ginocchia. Si rifiutarono di restituirmi le scarpe, sicché, quando mi riportarono fuori, camminavo come fossi sugli spilli. Non mi fu di consolazione constatare che Farag e la Roccia avevano il mio stesso aspetto triste. Mi sorprese tuttavia la reazione che ebbi alla vista di Farag. Non ero ancora abituata alle sconcertanti risposte dei miei ormoni a certi stimoli: continuavo a fissare la sua pelle scura illuminata dalle fiaccole, le sue mani dalle lunghe e dolci dita che scostavano i ciuffi biondi dalla fronte, il suo corpo alto e snello. Quando finalmente i nostri sguardi si incrociarono, provai una dolorosa stretta allo stomaco. Che cosa poteva esserci in quella dannata carne cruda che ci avevano dato per cena? Tra acclamazioni e colpi di tamburo ci condussero lungo le strade buie del villaggio fino al luogo in cui si trovavano i grandi falò, da cui si innalzava un inquietante bagliore purpureo. Il cielo notturno era pieno di stelle e, contemplandole con la percezione acuta che viene dalla paura, notati che erano e più chiare e maggiori del solito, come aveva osservato Dante mentre giaceva sui gradini che salivano al Paradiso Terrestre. Farag mi prese la mano per rassicurarmi e me la strinse delicatamente. Ma, con tutti quei preparativi e quei tamburi, il timore mi aveva già messo radici nell'animo e mi sentivo come Gesù sulla strada del Calvario, con la croce in spalla. Con la cosiddetta Vera Croce, quella che gli Staurophylakes stavano recuperando un pezzettino alla volta? No, di sicuro no. Ma era
proprio per quella croce, anche se falsa, che ci trovavamo lì. Era per quella croce che mi sentivo tremare le gambe, sudavo a profusione e battevo i denti. Finalmente giungemmo a un'altra spianata, intorno alla quale la gente di Antioch si dispose silenziosamente. Immensi falò consumavano i loro ultimi tronchi tra grandi scintille, mentre i giovani che erano partiti di corsa alla fine del discorso di Berehanu Bekela distribuivano a cerchio le braci sul terreno, servendosi di lunghe lance appuntite. Battendo le braci con le lance, spezzavano i pezzi più grossi e lisciavano la superficie, che aveva uno spessore di una ventina di centimetri e un raggio di quattro o cinque metri. Avevano lasciato tuttavia un corridoio scoperto, che permetteva di giungere al centro. Quando Mulugeta Mariam si rivolse a Farag, non ebbi bisogno di traduzione per sapere che cosa stesse dicendo. In quel momento, il capitano della Neway era l'allegro angelo di Dio che appare a Dante sulla settima cornice e gli indica che deve passare attraverso il corridoio di fuoco. Strinsi con più forza la mano di Farag e appoggiai la guancia sulla sua spalla, così spaventata che quasi non riuscivo a respirare. Mi sentivo sul serio qual è colui che nella fossa è messo. «Coraggio, amore mio!» mi esortò Farag, tuffando il naso nei miei capelli e baciandoli dolcemente. «Ho tanta paura, Farag!» gemetti, chiudendo gli occhi e lasciando traboccare un fiume di lacrime. «Ascolta, tesoro, ce la caveremo, come abbiamo fatto in tutte le prove precedenti. Non avere paura, Ottavia.» Ma io ero inconsolabile. Non riuscivo a smettere di battere i denti. «Ricorda che c'è sempre una soluzione, Basileia, amore mio!» Guardando il cerchio di fuoco, quella soluzione sembrava più una fantasia che una certezza. Potevo ammettere di avere infranto, in qualche momento della mia vita e in grado maggiore o minore, i sei peccati capitali precedenti, ma non ero assolutamente disposta a morire per il peccato della lussuria, per il quale fino a quel momento ero completamente innocente. E oltretutto, se fossi morta tra le fiamme, non avrei mai avuto occasione di peccare come Dio comanda contro il sesto comandamento, commettendo, con Farag, quei famosi atti impuri di cui tanto parlava la gente. «Non voglio morire!» gemetti, stringendomi a lui. Glauser-Röist si era avvicinato silenziosamente alle nostre spalle. «'Figliuol mio'», recitò, «'qui può esser tormento, ma non morte,.. Credi per
certo che se dentro all'alvo di questa fiamma stessi mille anni, non ti potrebbe far d'un capel calvo.»» «Oh, andiamo, capitano!» strillai. Mulugeta Mariam si fece insistente. Non potevamo restare lì tutta la notte, dovevamo avanzare tra le braci. Mi avviai, come un condannato verso la forca, sorretta dal braccio fermo di Farag. A due metri dal tappeto di braci, il calore era già insopportabile: lo sentivo ardere sulla pelle. Quando mettemmo piede nel corridoio che conduceva al centro del cerchio, ebbi la sensazione di incenerirmi. Il mio sangue era prossimo al punto di ebollizione, la temperatura era intollerabile. Le barbe di Farag e di Glauser-Röist oscillavano all'aria calda. Da quel lago rosso e tempestoso di scintille saliva un crepitio soffocato. Finalmente giungemmo al centro e, appena fummo a destinazione, il gruppo di giovani che aveva preparato il terreno si affrettò a coprire di braci anche il corridoio, disponendole, rastrellandole e lisciandole con le lance. In trappola come animali, Farag, la Roccia e io guardammo storditi il circolo formato dagli anuak a debita distanza dal cerchio di carboni ardenti: sembravano fantasmi impassibili, giudici spietati illuminati da uno splendore infernale. Nessuno si muoveva, nessuno respirava, e noi meno di loro, con quell'aria rovente che entrava nei polmoni. D'un tratto uno strano canto si levò dalla moltitudine, una cadenza primitiva che, al principio, era coperta dal crepitio delle braci. Era un'unica frase musicale, sempre la stessa, ripetuta incessantemente come una lenta e meditata litania. Le braccia di Farag, intorno alle mie spalle, si tesero come cavi di acciaio. La Roccia cambiò inquieto posizione sui piedi nudi. Un grido lanciato da Mulugeta Mariam ci riportò alla realtà. «Dobbiamo attraversare i carboni ardenti», disse Farag. «Se non lo facciamo, ci uccideranno.» «Che cosa?» feci io, terrorizzata. «Ci uccideranno? Non ce l'avevano detto! Non è possibile camminare sopra questo!» E guardai il manto di braci la cui superficie si stava annerendo. «Riflettete», supplicò la Roccia. «Se si tratta solo di mettersi a correre, lo faccio subito, anche a costo di morire per ustioni di terzo grado su tutto il corpo. Ma prima di suicidarmi, voglio sapere con certezza che non esiste altra possibilità, che non c'è niente nei vostri cervelli che possa aiutarci.» Mi voltai verso il viso di Farag, che a sua volta si era chinato su di me. Mentre ci guardavamo vicendevolmente, i nostri cervelli ripassarono in pochi decimi di secondo tutti gli insegnamenti accumulati nel corso delle
nostre vite. Ma nessuno di questi contemplava passeggiate sui tizzoni ardenti. Poco dopo, i nostri volti riflettevano una totale delusione. «Mi spiace, Kaspar», si scusò Farag. Sudavamo copiosamente, ma il sudore evaporava subito. Non ci occorreva l'aiuto degli anuak per morire: ci sarebbe bastato restare lì per morire disidratati. «Abbiamo solo il testo di Dante», dissi tristemente. «Ma non ricordo nulla che possa esserci d'aiuto.» Un sibilo acuto tagliò l'aria e una delle lance usate per distribuire le braci si piantò nel terreno ai miei piedi. Credetti che il mio cuore non avrebbe più ripreso a battere. «Dio!» gridò Farag, inferocito. «Lasciatela in pace! Prendetevela con noi!» Il canto monotono della moltitudine aumentò di intensità. Mi parve che cantassero in greco, ma pensai che fosse un'allucinazione. «Il testo di Dante», ripeté Glauser-Röist, pensoso. «Forse è quella la chiave.» «Ma quando Dante entra nel fuoco dice solo che per rinfrescarsi si sarebbe potuto gettare nel vetro fuso.» «Infatti...» Si udì un altro sibilo che si avvicinava pericolosamente e il capitano lasciò incompleta la frase. Un altro giavellotto si infisse nel suolo, stavolta al centro dello spazio lasciato libero da tre paia di piedi indifesi. Farag perse la testa e gridò una caterva di insulti in arabo, che per fortuna non potei comprendere. «Non vogliono ancora ucciderci!» aggiunse poi, sempre furioso. «Altrimenti lo avrebbero già fatto. Ci stanno solo incitando a cominciare!» La frase musicale si fece udire con forza. Ora si potevano distinguere nitidamente le voci degli anuak: «Macarioi hoi kazaroi ti kardia». «Beati i puri di cuore!» esclamai. «Stanno cantando in greco!» «Dal Vangelo di Matteo, come il canto dell'angelo mentre Dante, Virgilio e Stazio sono dentro il fuoco. Non è vero, Kaspar?» chiese Farag. La Roccia sembrava avere perso la favella dopo la seconda lancia, e si limitò ad annuire. Farag proseguì. «La soluzione dev'essere nelle terzine dantesche. Ci aiuti, Kaspar! Che cosa dice Dante del fuoco?» «Ecco., ecco...» titubava Glauser-Röist. «Non dice niente, dannazione! Niente», sbottò, disperato. «L'unica cosa che allontana il fuoco è il vento!» «Il vento?» Farag corrugò la fronte, cercando di ricordare. «Quivi la ripa
fiamma in fuor balestra e la cornice spira fiato in suso che la reflette e via da lei sequestra...» Una strana immagine mentale simile a un disegno animato mi si formò nella testa: un piede che cadeva velocemente dall'alto, tagliando l'aria. «Fiato in suso che la reflette», mormorò Farag, meditabondo. In quel momento, un'altra lancia spezzò il fulgore rosseggiante delle braci per infiggersi giusto davanti al piede destro del due volte santo, che fece un balzo in aria di quasi un metro. «Maledetti!» ruggì Glauser-Röist. «Ascoltatemi», gridò Farag, in preda all'eccitazione. «Ci sono! So che cosa fare!» «Macarioi hoi kazaroi ti kardia», ripeteva il coro grave e sonoro della gente di Antioch. «Se camminiamo con passo molto pesante, possiamo creare una sacca d'aria sotto la pianta dei piedi e ritardare la combustione per qualche secondo. Il fiato riflette le fiamme e le allontana. Ecco che cosa voleva dirci Dante!» La Roccia rimase immobile, mentre l'idea cercava di fare breccia nella sua testa dura. Ma io capii al volo: si trattava di una semplice questione di fisica applicata. Se il piede andava in suso e calava dall'alto trattenendosi sulle braci per un breve lasso di tempo, la sacca d'aria che si sarebbe creata sotto la pianta ci avrebbe difeso dalle ustioni. Ma, per riuscirci, si doveva premere con forza, come aveva detto Farag, e con rapidità, senza distrarsi e senza perdere il ritmo, perché in quel caso nulla avrebbe potuto impedire alla pelle di calcinarsi e alle braci di divorare i nostri piedi in un amen. Era molto rischioso, s'intende, ma era anche l'unica spiegazione che concordasse con le indicazioni di Dante Alighieri e, ovviamente, l'unica idea che ci fosse venuta in mente in quel momento. Senza contare che il tempo era scaduto, come annunciarono gli strepiti di Mulugeta Mariam, in piedi al fianco del capo Berehanu Bekela. «Bisogna stare anche attenti a non cadere», aggiunse Glauser-Röist, che aveva finalmente compreso le parole di Farag. «Come dice Dante, e io temea il foco quinci, e quindi temea cader giuso. Non ve lo dimenticate. Se il dolore o qualsiasi altra cosa dovesse farvi rallentare o perdere l'equilibrio, vi brucereste da capo a piedi.» «Vado io per primo!» stabilì Farag, chinandosi a darmi un bacio sulle labbra, che servì anche a tacitare le mie proteste. «Non dire niente, Basileia», mi sussurrò all'orecchio, perché la Roccia non lo udisse. Poi aggiunse: «Ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo...»
Continuò a ripeterlo incessantemente, fino a farmi sorridere. Poi, senza preavviso, si staccò da me e si gettò verso i carboni ardenti, gridando: «Guarda, Basileia, e non ripetere i miei errori!» «Mio Dio!» gridai, isterica, tendendo le braccia verso di lui, devastata dall'angoscia. «No, Farag, no!» «Si calmi, dottoressa!» si affrettò a dirmi Glauser-Röist, afferrandomi per le spalle. La figura di Farag era una sagoma rosseggiante che avanzava sul fuoco con passo ritmato e deciso. Non potevo guardare. Nascosi la faccia nel petto della Roccia, che mi abbracciò, e piansi come non avevo mai fatto nella mia vita, con singhiozzi e spasmi così forti, con un dolore e una disperazione tali che quasi non sentii la voce di Glauser-Röist quando gridò: «Guardi, dottoressa Salina, guardi! È fuori!» Alzai la testa senza capire bene che cosa dicesse il capitano. Vidi Farag con un braccio levato in aria che mi faceva segnali dall'esterno del cerchio di fuoco. «È vivo, mio Dio!» gridai. «Grazie, Signore, grazie! Sei vivo, Farag!» «Ottavia!» gridava lui. E in quel momento lo vidi stramazzare a terra, privo di sensi. «Si è ustionato!» urlai. «Si è ustionato!» «Andiamo, dottoressa! Ora tocca a noi!» «Che cosa dice?» balbettai. Ma prima che mi rendessi conto di quello che stava succedendo, la Roccia mi aveva preso per mano e mi tirava verso il fuoco. Il mio istinto di sopravvivenza si ribellò e frenai inchiodando i piedi a terra. «Proprio così deve camminare!» mi disse Glauser-Röist, senza che la mia brusca fermata rallentasse la sua corsa. Credo sia stata la vicinanza delle braci a farmi reagire, perché sollevai il piede e lo tuffai sul fuoco con tutte le mie forze. La vita si fermò. Il mondo sospese il suo eterno giro e la natura si zittì. Entrai silenziosamente in una specie di tunnel bianco in cui potei comprovare di persona che, come diceva Einstein, lo spazio e il tempo sono relativi. Guardai i miei piedi e ne vidi uno leggermente affondato tra pietre bianche e fredde, mentre l'altro saliva al rallentatore per il passo successivo. Il tempo si dilatava, permettendomi di contemplare senza fretta quella strana passeggiata. L'altro piede cadde come dall'alto fa una bomba sopra i ciottoli, ma già il primo aveva cominciato lentamente la sua ascesa. Potevo vedere le dita che si allungavano, la pianta del piede che si allargava per
offrire maggiore resistenza al letto pietroso. E ora discendeva piano piano, con tale forza da provocare un terremoto. Sorrisi. Sorrisi perché stavo volando: un secondo prima di colpire la superficie, l'altro piede si era già alzato da terra, lasciandomi sospesa in aria. Non riuscii a cancellare la gioia dal mio viso per tutta la durata di quell'incredibile esperienza. Furono solo dieci passi, i dieci passi più lunghi della mia vita, ma anche i più sorprendenti. Bruscamente, tuttavia, giunsi alla fine del tunnel bianco e tornai alla realtà, crollando a terra, spinta dall'aria. I tamburi suonavano, le grida mi rintronavano la testa, la terra aderiva alle mie braccia e alle mie gambe, graffiandomi. Non vidi Farag da nessuna parte e non vidi neppure Glauser-Röist, anche se mi parve che da qualche parte qualcuno coprisse me e qualcun altro con un grande telo bianco, sollevandoci a forza di braccia. Trasformata in un rotolo di lino, centinaia di mani mi sostenevano in aria in mezzo a strepiti assordanti. Poi mi lasciarono cadere su una superficie morbida e mi srotolarono. Ero del tutto intontita, appiccicosa di sudore ed esausta come non lo ero mai stata. E poi sentivo un freddo terribile e rabbrividivo, prossima al congelamento. Eppure, nonostante tutto, mi parve di notare che le due donne che mi offrivano un grande bicchiere d'acqua non fossero anuak di Antioch. Primo, perché erano bionde, con la pelle trasparente, e secondo perché una di loro aveva gli occhi verdi. Dopo avere bevuto quel liquido, che a dire il vero non sapeva di acqua, mi addormentai profondamente e non ricordo più nulla. 7 Mi liberai lentamente della ragnatela del sonno, fuoriuscendo dal letargo in cui ero sprofondata dopo la terribile esperienza dei carboni ardenti. Mi trovai rilassata, a mio agio, con un'incredibile sensazione di benessere. Il primo dei miei sensi a svegliarsi fu l'olfatto: un gradevole aroma di lavanda mi avvisò che non mi trovavo al villaggio di Antioch. Mezza addormentata, sorrisi, deliziata da quella fragranza familiare. Il secondo senso ad attivarsi fu l'udito. Sentii voci femminili intorno a me, voci che parlavano quiete, a sussurri, come se non volessero disturbare il mio sonno. Ciononostante, tesi le orecchie e fu per me straordinario (oh, impossibile desiderio!), per la prima volta nella mia vita di studiosa del greco bizantino, sentirlo parlare come lingua viva. «Dovremmo svegliarla», mormorava una delle voci.
«Ancora no, Zauditu», rispose un'altra donna. «E fammi il favore di uscire di qui senza far rumore.» «Ma Tafari mi ha detto che gli altri due stanno mangiando.» «Molto bene, che mangino. Questa ragazza continuerà a dormire finché vorrà.» Aprii gli occhi di colpo, recuperando il terzo dei miei cinque sensi, la vista. Ero distesa su un fianco ed ero rivolta verso una parete liscia, affrescata con motivi di flautisti e ballerini. I colori erano intensi e brillanti, con magnifici dettagli in oro, e abbondavano il marroncino e il malva. O ero morta e volata in cielo, o stavo sognando a occhi aperti. D'improvviso capii: ero nel Paradiso Terrestre. «Vedi?» disse la voce della donna che voleva lasciarmi dormire. «A forza di parlare, l'hai svegliata.» Non avevo mosso un muscolo del corpo e voltavo loro le spalle. Come sapevano che le stavo ascoltando? Una delle due si chinò su di me. «Hygieia,76 Ottavia.» Girai la testa molto piano e vidi un viso femminile di mezza età. La pelle era bianca, i capelli candidi raccolti a crocchia, gli occhi verdi. Da questo dettaglio la riconobbi: era una delle donne che mi avevano dato da bere al villaggio di Antioch. La sua bocca era atteggiata a un sorriso bonario, che le produceva rughe intorno agli occhi e alle labbra. «Come ti senti?» mi domandò. Feci per parlare, ma mi resi conto che non avevo mai pronunciato nulla in greco bizantino, sicché dovetti passare rapidamente da una lingua che conoscevo a due dimensioni, scritta solo sulla carta, a una lingua che si poteva convertire in suoni. Quando cercai di dire qualcosa, compresi che lo parlavo malissimo. «Molto bene, grazie», risposi, titubante, interrompendomi a ogni sillaba. «Dove sono?» La donna fece un passo indietro, permettendomi di mettermi a sedere sul letto. Il mio quarto senso, il tatto, scoprì allora che le lenzuola che mi avvolgevano erano di seta finissima, più morbide e leggere del raso o del taffettà. Quando mi muovevo, praticamente ci scivolavo dentro. «A Stauros, la capitale di Paradeisos. E questa», si guardò intorno, «è una delle stanze degli ospiti del basileion77 di Catone.» «Dunque», conclusi, «mi trovo nel Paradiso Terrestre degli Staurophylakes.» La donna sorrise e l'altra, più giovane, che si nascondeva dietro di lei, fece lo stesso. Entrambe indossavano ampie tuniche bianche, strette da cin-
ture alla vita e chiuse da fibbie sulle spalle. Il candore della stoffa non aveva paragone con quello dei vestiti degli anuak, che al confronto sarebbero parsi grigi e sporchi. In quel luogo tutto era bello, di una bellezza squisita che non poteva lasciare indifferenti. I vasi di alabastro che riposavano su un magnifico tavolo di legno erano così perfetti che rifulgevano alla luce delle innumerevoli candele che illuminavano la stanza, i cui pavimenti erano coperti da tappeti dai colori vivaci. C'erano fiori dappertutto, di grandezza e splendore inusitati. Ma la cosa più sconcertante era che le pareti erano interamente rivestite di pitture murali di stile romano, con graziose scene di vita quotidiana dell'Impero Bizantino del XIII o del XIV secolo. «Il mio nome è Haidé», mi disse la donna dagli occhi verdi. «Se vuoi, puoi restare ancora a letto a guardare gli affreschi, che, come vedo, ti piacciono molto.» «Mi affascinano!» affermai, piena di entusiasmo. Tutto il lusso, il buon gusto e l'arte bizantini erano riuniti in quel luogo. Era l'occasione perfetta per studiare di prima mano ciò che fino a quel momento erano solo congetture e riproduzioni spurie sui libri. «Tuttavia», aggiunsi, «preferirei vedere i miei compagni.» Il mio ampio vocabolario in quella lingua, del quale mi ero sempre sentita orgogliosa, mi si rivelava ora amaramente scarso, tanto che dissi «compatrioti», sumpatriotes, anziché «compagni». Ma le due donne mi capirono ugualmente. «Il didaskalos78 Boswell e il protospatharios79 Glauser-Röist stanno mangiando assieme a Catone e ai ventiquattro shasta.» «Shasta?» ripetei, sorpresa. Era una parola di origine sanscrita, che significava «saggio» e «venerabile». «Gli shasta sono...» Haidé sembrava cercare il termine adeguato per spiegare a una neofita come me un concetto molto complesso «... aiutanti di Catone, anche se non è esattamente questo il loro compito. Sarà bene che tu abbia pazienza, nel tuo apprendistato, giovane Ottavia. Non avere tanta fretta. A Paradeisos il tempo non manca.» Mentre diceva questo, Zauditu, la ragazza che prima parlava tanto e che ora se ne stava zitta, aveva aperto le porte di un armadio dissimulato in una parete, prendendone una tunica identica alle loro. La depose su una bella sedia di legno intagliato, un'autentica opera d'arte. Poi aprì un cassetto nascosto sotto il piano di un tavolo e ne estrasse un astuccio decorato con smalti, che depose con cura sulle mie ginocchia ancora coperte dalle lenzuola. L'astuccio conteneva un'incredibile collezione di fibbie d'oro e pietre preziose che dovevano valere una fortuna, tanto per i materiali quanto
per il taglio e il disegno, chiaramente bizantino. L'orefice che aveva prodotto quelle meraviglie doveva essere un artista di prima categoria. «Scegline una o due, come preferisci», disse timidamente Zauditu. Come scegliere tra oggetti tanto belli, quando io, oltretutto, non ne facevo mai uso? «No, no, grazie», mi scusai con un sorriso. «Non ti piacciono?» «Certo che mi piacciono. Ma non sono solita indossare oggetti così preziosi.» Ero stata quasi sul punto di dire che ero una suora e che avevo fatto voto di povertà, ma rammentai per tempo che tutto ciò apparteneva al passato. Zauditu, sconcertata, si voltò verso Haidé, che non le prestò attenzione. Stava parlando tranquillamente con qualcuno fuori dalla porta, sicché la giovane riprese l'astuccio e lo depose sul tavolo più vicino. In quel momento giunse il suono di una lira che interpretava una melodia festosa. «È Tafari, il migliore liroktipos80 di Stauros», disse Zauditu con orgoglio. Haidé ritornò con passi languidi. In seguito avrei scoperto che quello era il modo abituale di camminare degli abitanti di Paradeisos, tanto dei cittadini di Stauros quanto di quelli di Crucis, Eden e Lignum. «Spero che questa musica ti piaccia», disse Haidé. «Molto», risposi. In quel momento mi accorsi che non avevo la minima idea di che giorno fosse. In tutta quella baraonda, avevo perso la nozione del tempo. «Oggi è il diciotto di giugno», mi rispose Haidé. «Giorno del Signore.» Domenica diciotto giugno! Avevamo impiegato tre mesi ad arrivare laggiù ed eravamo scomparsi da oltre quindici giorni. «Non vuole fibbie», ci interruppe Zauditu, assai preoccupata. «Come farà ad allacciarsi l'himation?» «Non vuole fibbie?» si adombrò Haidé. «Ma non è possibile, Ottavia.» «Sono... sono troppo... Io non porto mai cose del genere, non sono abituata.» «E come pensi di indossare l'himation, si può sapere?» «Non avete qualcosa di più semplice? Aghi, spilli...» Non avevo idea di come si dicesse «spilla di sicurezza». Haidé e Zauditu si guardarono perplesse. «L'himation si porta solo con le fibbie», mi spiegò poi Haidé. «Si allaccia in maniere diverse a seconda che tu ne voglia usare una o due, ma non sarebbe normale fissarlo con spilli: non reggerebbero il peso della tela e la strapperebbero.»
«Ma quelle fibbie sono troppo appariscenti!» «È questo il tuo problema?» domandò Zauditu, che sembrava capirne sempre di meno. «Be', Ottavia, non ti preoccupare», concluse Haidé. «Ne parleremo dopo. Adesso scegli le fibbie e i sandali e andiamo in sala da pranzo. Ho mandato Ras ad avvisarli del tuo arrivo. Credo che il didaskalos Boswell sia impaziente di vederti.» E io di vedere lui! Perciò saltai fuori dal letto e scelsi un paio di fibbie tra le più belle: una a testa di leone, con incredibili occhi di rubino, e l'altra simile a un cammeo, raffigurante una cascata. Quindi cominciai a sfilare, dalla testa, il lungo camicione che avevo indossato durante il sonno. «I miei capelli!» esclamai, in italiano, improvvisamente paralizzata dalla scoperta. «Che cosa dici?» chiese Zauditu. «I miei capelli! I miei capelli!» ripetei, lasciandomi ricadere il camicione fino ai piedi e cercando uno specchio in cui guardarmi. Ce n'era uno a figura intera, con la cornice d'argento, appeso a una parete laterale in prossimità della porta. Corsi a guardarmi e il sangue mi si gelò nelle vene quando mi vidi la testa rapata a zero. Incredula, mi portai le mani al cranio e lo palpai, cercando invano ciuffi inesistenti. Nel farlo, notai qualcosa sulla punta delle dita e al tempo stesso provai un dolore acuto. Piegai leggermente il collo e la vidi: nella parte superiore, al centro stesso della testa, avevo una scarificazione raffigurante la lettera sigma, esattamente come Abi-Ruj Iyasus. Ancora in stato catatonico e insensibile alle parole di consolazione di Haidé e Zauditu, mi tolsi il camicione, restando nuda di fronte alla mia stessa immagine. Altre sei lettere greche erano ripartite sul mio corpo: sul braccio destro una tau, sul sinistro una ipsilon; sopra il cuore, tra le mammelle, un'alfa; sull'addome una ro; sulla coscia destra un'omicron e sulla sinistra un'altra sigma, come quella sulla testa. Sommando le croci che avevo ricevuto dopo le varie prove e il grande Crismon di Costantino che appariva sotto il mio ombelico, si otteneva l'immagine di una povera malata di mente con tutto il corpo lacerato. Di lì a poco, Haidé apparve accanto a me nello specchio, nuda a sua volta, e subito dopo Zauditu. Entrambe avevano gli stessi marchi, anche se cicatrizzati da molto più tempo. Il loro gesto generoso meritava una risposta. «Mi passerà...» balbettai. «Il tuo corpo non ha sofferto», mi spiegò Haidé, con molta serenità.
«Prima di tagliare la pelle si controlla sempre che il sonno sia profondo. E poi guardaci: siamo forse così orribili?» «Io le trovo molto belle», osservò Zauditu, sorridente. «Adoro quelle del corpo di Tafari e a lui piacciono le mie. Vedi questa?» aggiunse, indicando la lettera alfa in mezzo al seno. «Nota con quale delicatezza l'hanno fatta. I bordi sono perfetti, morbidi e arrotondati.» «E pensa che queste lettere», riprese Haidé, «formano la parola stauros, che sarà sempre con te ovunque andrai. È una parola importante, quindi anche le lettere lo sono. Ricorda quanto ti è costato ottenerle e sentitene orgogliosa.» Mi aiutarono a vestirmi, io però non riuscivo a smettere di pensare al mio corpo pieno di scarificazioni, né alla mia testa rapata. Che cosa avrebbe detto Farag? «Forse ti tranquillizzerà sapere che il didaskalos e il protospatharios sono nelle tue stesse condizioni», commentò Zauditu, «ma a loro non sembra che sia dispiaciuto.» «Loro sono uomini!» protestai, mentre Haidé mi annodava la cintura. Le due donne si scambiarono un'occhiata complice, cercando di dissimulare la loro espressione rassegnata. «Forse ti ci vorrà un po' di tempo, Ottavia», disse Haidé, «ma imparerai che queste differenze sono sciocchezze. E adesso andiamo, ti stanno aspettando.» Preferii tacere e seguirle fuori dalla stanza, non senza sorprendermi di quanto fossero moderni gli Staurophylakes. La porta dava su un ampio corridoio adorno di arazzi, che conduceva a un patio centrale pieno di fiori, al centro del quale una graziosa fontana lanciava in aria getti d'acqua. Alzai lo sguardo per vedere il cielo, ma distinsi solo strane ombre nere a grande distanza, di cui non fui in grado di stimare l'altezza. Mi resi conto allora che lì non arrivava la luce del sole, che anzi non si vedeva da nessuna parte. Qualunque cosa fosse, ciò che ci illuminava non era affatto naturale. Attraversammo molti altri corridoi simili al primo, con altri cortili ornati da fontane dagli straordinari giochi d'acqua. Il suono era molto rilassante, come quello di una piccola cascata lungo il corso di un ruscello, ma io mi sentivo piuttosto nervosa. Più facevo caso ai dettagli, più mi inquietavo. In quel luogo c'era qualcosa di molto strano. Le mie guide silenziose camminavano senza fretta davanti a me, affacciandosi sui cortili, sistemando di quando in quando una tovaglietta sopra un tavolo o aggiustandosi i capelli. «Dove si trova esattamente Paradeisos?» domandai.
Per tutta risposta, ebbi una sonora risata. «Che domanda!» commentò Zauditu, divertita. «Dove pensi che possa essere?» si sentì obbligata ad aggiungere Haidé, con lo stesso tono con cui avrebbe risposto a una bambina piccola. «In Etiopia?» azzardai. «A te che cosa sembra?» rispose lei, come se la soluzione fosse così ovvia che non ci fosse nemmeno bisogno di porre la domanda. Le mie guide e maestre si fermarono davanti a due grandi porte di impressionante fattura, che spalancarono senza esitazione. Dall'altra parte si apriva una sala enorme, non meno ricca di decorazioni di tutto il resto del basileion. Al centro si trovava una grande tavola circolare, che mi ricordò la Tavola Rotonda di Re Artù. Farag Boswell, il didaskalos più calvo che avessi mai visto in vita mia, balzò in piedi appena mi vide entrare. Il resto dei presenti si alzò a sua volta, anche se con maggiore calma. Farag mi corse incontro a braccia tese, inciampando nell'orlo della tunica. Lo guardai con un nodo alla gola, dimenticandomi di tutto ciò che ci circondava. Gli avevano rasato la testa, ma non la barba bionda, lunga come prima. Mi strinsi a lui, sentendo che mi mancava il respiro, avvertendo il calore del suo corpo e aspirando il suo profumo, non quello dell'himation, che sapeva di sandalo, ma quello della pelle del suo collo, che ormai mi era familiare. Eravamo nel luogo più strano del mondo, ma ero con Farag e mi sentivo di nuovo sicura. «Stai bene? Stai bene?» ripeteva lui, angustiato, continuando a baciarmi e a stringermi con forza. Io ridevo e piangevo al tempo stesso, travolta dai sentimenti. Tenendolo per le mani, feci un passo indietro e lo guardai. Aveva un aspetto stranissimo! Calvo, con la barba e vestito con una tunica bianca lunga fino ai piedi, persino Butros avrebbe avuto difficoltà e riconoscerlo. «Professore, per favore», disse una voce anziana che riecheggiò nel vuoto della sala. «Porti qui la dottoressa Salina.» Attraversammo la sala circondati da sguardi cordiali e ci dirigemmo verso un vecchietto curvo, che si distingueva dagli altri solo per la sua età avanzata: né la posizione attorno al tavolo né l'abbigliamento lasciavano intendere che si trattasse, nientemeno, che di Catone CCLVII. Quando indovinai chi fosse, un senso di rispetto e timore si impadronì di me, assieme a una viva curiosità che mi indusse a esaminarlo attentamente, mentre mi avvicinavo a lui, metro dopo metro. Catone CCLVII era un vecchio di statura e corporatura medie, che appoggiava su un sottile bastone il peso della
sua età. Un leggero tremore, dovuto alla debolezza delle ginocchia e dei muscoli, gli scuoteva il corpo, senza tuttavia lederne la solenne dignità. Avevo visto pergamene e papiri meno incartapecoriti della sua pelle, screpolata dal reticolo di rughe sovrapposte e intrecciate, ma l'espressione acuta del viso e lo sguardo brillante degli occhi grigi davano un'impressione di un'infinita intelligenza, tanto che fui sul punto di dare inizio al rituale di riverenze e genuflessioni tanto comune e consueto in Vaticano. «Hygieia, dottoressa Salina», disse il vecchio con la stessa voce debole e tremula di poco prima, esprimendosi in un perfetto inglese. «Sono lieto di conoscerti, finalmente. Non immagini con quale interesse abbia seguito le tue prove.» Quanti anni poteva avere quell'uomo? Mille? Mille milioni? Sembrava portare sulla fronte il peso dell'eternità, come se fosse nato quando ancora le acque coprivano il pianeta. Molto lentamente, mi tese una mano tremante con il palmo rivolto all'insù e le dita leggermente piegate, aspettando che gli dessi la mia. Quando lo feci, se la portò alle labbra con un fare galante che mi colpì profondamente. Solo allora vidi la Roccia, serio e circospetto come sempre, in piedi alle spalle di Catone. A parte l'espressione grave, di noi tre era quello con l'aspetto migliore: dopotutto era solito portare i capelli molto corti e si notava appena che fosse stato rasato a zero. «Per favore, dottoressa, prendi posto accanto al professore», disse Catone CCLVII. «Ho molta voglia di chiacchierare con voi e non c'è niente di meglio di un buon pranzo per apprezzare una conversazione.» Catone fu il primo a sedersi, seguito dai ventiquattro shasta. Uno dopo l'altro, da porte dissimulate anche qui dietro gli affreschi, comparvero servitori con vassoi e carrelli carichi di cibo. «In primo luogo, permettete che vi presenti agli shasta di Paradeisos, gli uomini e le donne che si sforzano ogni giorno di rendere questo luogo ciò che vogliamo che sia. Cominciando dalla destra, vicino alla porta, il giovane Gete, traduttore dal sumero; accanto a lui Ahmose, la migliore costruttrice di sedie di Stauros; vicino a lei, Shakeb, uno dei professori della Scuola degli Opposti; poi Mirsgana, incaricata delle acque; Hosni, kabidarios...»82 E continuò con le presentazioni di tutti e ventiquattro: Neferu, Katebet, Asrat, Hagos, Tamirat... Tutti erano vestiti come lui e sorridevano allo stesso modo quando venivano nominati, chinando il capo in un cenno di saluto e di assenso. Ma ciò che richiamò la mia attenzione, oltre ai loro curiosissimi nomi, fu il fatto che un terzo dei presenti erano biondi come
Glauser-Röist, ma ce n'erano anche di rossi, castani, bruni... Un assortimento di tratti somatici e di razze di tutto il mondo. Nel frattempo i servitori deponevano senza fretta una grande quantità di piatti sulla tavola, nessuno dei quali con carne, e tutti con una minima quantità di pietanza, splendidamente presentata, come se il cibo fosse più una decorazione che un alimento. Terminate le cerimonie e i saluti, Catone diede inizio al banchetto. I presenti avevano centinaia di domande da farci: volevano sapere come avessimo superato le prove e quali impressioni ne avessimo ricavato. Ma a dire il vero noi eravamo più interessati a soddisfare la nostra curiosità che la loro. Senza contare che la Roccia sembrava una caldaia prossima a esplodere: pareva quasi di vedere il fumo uscirgli dalle orecchie. Fino al momento in cui il mormorio aumentò di volume e, sotto la pioggia di domande, il capitano non si trattenne più: «Mi duole ricordarvi che il professore, la dottoressa e io non siamo aspiranti Staurophylakes. Siamo venuti ad arrestarvi!» Il silenzio che calò nella sala fu impressionante. Solo Catone ebbe la presenza di spirito necessaria a salvare la situazione. «Dovresti calmarti, Kaspar», ribatté tranquillamente. «Se ci vuoi arrestare, puoi farlo più tardi. Ora non rovinare con queste bravate un pranzo tanto gradevole. Forse qualcuno dei presenti ti ha rivolto la parola senza garbo?» Rimasi basita. Nessuno poteva permettersi di parlare in questo modo al capitano Glauser-Röist. O almeno, nessuno lo aveva mai fatto di fronte a me. Adesso la Roccia si sarebbe alzato in piedi come una furia e avrebbe fatto volare in aria la tavola rotonda... E invece, sorprendentemente, lui si guardò intorno e rimase quieto. Farag e io ci prendemmo per mano sotto il tavolo. «Mi scuso per il mio comportamento», disse improvvisamente il capitano, senza abbassare lo sguardo. «È imperdonabile. Mi dispiace.» Il mormorio riprese come se nulla fosse successo e Catone cominciò a parlare a bassa voce con il capitano, che lo ascoltava attentamente, con espressione decisa. Nonostante l'età, Catone CCLVII aveva una personalità indubbiamente forte e carismatica. Lo shasta di nome Ufa, domatore di cavalli, si rivolse a Farag e a me, permettendo a Catone e Glauser-Röist di parlare in privato. «Perché vi siete presi per mano sotto la tavola?» domandò, in greco bizantino. Il didaskalos e io restammo di sasso. Come se n'era accorto? «Forse che, durante le prove, vi siete innamorati?» chiese con somma
innocenza, come se le sue domande non fossero un'intromissione ingiustificabile. «Ecco, sì, be'... In realtà...» tartagliò Farag. «Sì o no?» volle sapere un altro, che si chiamava Teodros. Altre teste si girarono. «Non credo che Ottavia e Farag siano abituati a questo genere di domande», intervenne Mirsgana, l'incaricata delle acque. «Perché no?» chiese Ufa. «Non sono di qui, ricordi? Vengono da fuori.» E accennò con la testa verso l'alto, cosa che non mi sfuggì. «Che ne direste di cominciare a raccontarci qualcosa su di voi e su Paradeisos?» domandai io, con la stessa innocenza di Ufa. «Per esempio: dove si trova veramente questo posto, perché avete rubato i frammenti della Vera Croce, come pensate di impedire che vi consegniamo alla polizia...» Sospirai. «Insomma, sapete, questo tipo di cose.» Uno dei servitori, che in quel momento mi stava riempiendo la coppa di vino, mi interruppe. «Sono tante domande tutte in una volta.» «E tu, Candace, non eri forse curioso il giorno in cui ti risvegliasti a Stauros?» ribatté Teodros. «È passato tanto tempo!» rispose questi, mentre serviva il vino anche a Farag. Cominciavo a rendermi conto che quelli che avevo considerato servitori non lo erano affatto, o almeno non nel senso tradizionale. Erano vestiti anche loro come Catone, gli shasta e noi, e partecipavano tranquillamente alle conversazioni. «Candace è nato in Norvegia», mi spiegò Ufa, «ed è qui da quindici o venti anni, vero Candace?» Questi annuì, passando un panno asciutto sull'imboccatura della caraffa. «È stato shasta fino allo scorso anno, ma adesso ha scelto le cucine del basileion.» «Piacere di conoscerti, Candace», mi affrettai a dire, subito imitata da Farag. «Il piacere è mio. Ma insisto. Credetemi, se volete conoscere sul serio Paradeisos, dovete andarvi a passeggio, senza fare domande.» E, detto questo, si diresse verso le porte. «Forse Candace ha ragione», commentai, riprendendo la conversazione e stringendo la coppa tra le mani. «Ma passeggiare per le strade di Paradeisos non ci potrà chiarire dove si trovi, o perché avete rubato i frammenti della Vera Croce, o come pensate di impedirci che vi consegniamo alla po-
lizia.» Gli shasta che si univano alla conversazione aumentavano di numero, così come quelli che ascoltavano ciò che Catone e la Roccia si stavano dicendo. La tavola si era divisa in due settori indipendenti. In attesa di risposte che tardavano ad arrivare, mi portai la coppa alle labbra e bevvi un sorso di vino. «Paradeisos è il luogo più sicuro del mondo», disse finalmente Mirsgana. «Non abbiamo rubato il Legno, dal momento che è sempre stato nostro. E per quanto riguarda la polizia, credo che non ci preoccupi più che tanto.» Gli altri fecero un cenno di assenso. «Le sette prove di ingresso a Paradeisos comportano solitamente una serie di qualità che, per loro stessa natura, impongono a chi supera l'iniziazione di non fare del male ad alcuno gratuitamente e inutilmente. Questo vale anche per voi tre. In realtà», aggiunse, divertita, «nessuno lo ha mai fatto, e sì che esistiamo da oltre milleseicento anni.» «E che cosa mi dici di Dante Alighieri?» domandò Farag, senza esitazioni. «In che senso?» chiese Ufa. «Lo avete ucciso», affermò Farag. «Noi?» fecero, attonite, varie voci intorno a noi. «Noi non lo abbiamo ucciso», assicurò Gete, il giovane traduttore dal sumero. «Era uno dei nostri. Nella storia di Paradeisos, Dante Alighieri è una figura di grande importanza.» Non potevo credere alle mie orecchie. O erano bugiardi matricolati, o la teoria di Glauser-Röist crollava come un castello di carte. E ciò non poteva essere, perché era stata proprio quella teoria a portarci fino a lì. Pertanto... «Dante Alighieri visse molti anni a Paradeisos», aggiunse Teodros. «Andava a veniva. Di fatto, fu qui che cominciò a scrivere il Convivio e il De vulgari eloquentia, nell'estate del 1304. E l'idea per la Commedia, cui l'editore Ludovico Dolce aggiunse l'aggettivo di Divina nel 1555, nacque nel corso di una serie di conversazioni con Catone LXXXI e gli shasta dell'epoca nella primavera del 1306, prima che tornasse nella penisola italiana.» «Ma Dante raccontò la storia delle prove e lasciò aperta la strada che avrebbe permesso di scoprire questo luogo», obiettò Farag. «Naturalmente», replicò Mirsgana, con un grande sorriso. «Quando ci nascondemmo a Paradeisos, nell'anno 1220, all'epoca di Catone LXXVII, il numero dei nostri cominciò a diminuire. Gli unici aspiranti a diventare
membri della Confraternita provenivano da associazioni quali la Fede Santa, la Massenie du Saint Graal, i Catari, i Minnesänger, i Fedeli d'Amore e, in misura minore, gli Ordini Militari: Templari, Ospedalieri di San Giovanni e Teutoni. Il problema di chi avrebbe protetto la Vera Croce nel futuro divenne allarmante.» «Per questo motivo», riprese Gete, «si chiese a Dante Alighieri di scrivere la Commedia. Avete capito, adesso?» «Era un modo per far sì che la gente capace di vedere in profondità», precisò Ufa, «la gente che non si accontenta delle apparenze e preferisce guardare che cosa c'è sotto, potesse giungere fino a qui.» «E la paura di Dante di lasciare Ravenna dopo avere pubblicato il Purgatorio? E tutti quegli anni in cui non si sa niente di lui?» domandò Farag. «Paure politiche», rispose Mirsgana. «Non dimenticare che Dante partecipò attivamente alle guerre tra guelfi e ghibellini, che a Firenze fu mandatario dei guelfi bianchi, in opposizione ai guelfi neri, e che prese sempre posizione contro la politica militare di Bonifacio VIII, del quale fu grande nemico a causa della vergognosa corruzione del suo papato. Dante rischiò la vita in molte occasioni.» «Volete forse dire che fu la Chiesa Cattolica a ucciderlo il giorno della Vera Croce?» chiesi, sarcastica. «In realtà la Chiesa Cattolica non lo uccise, né siamo sicuri che sia effettivamente morto il giorno della Vera Croce», spiegò Teodros. «Quel che è certo è che passò a miglior vita la notte tra il 13 e il 14 settembre. A noi farebbe piacere che fosse stato veramente il 14, perché sarebbe una bella coincidenza, una coincidenza quasi miracolosa. Però non esiste alcuna prova documentale che lo attesti. In quanto all'idea che sia stato assassinato, siete in errore. Il suo amico Guido Novello inviò Dante come ambasciatore a Venezia e questi, al suo ritorno, attraversando le lagune della costa adriatica, contrasse la malaria. Noi non vi abbiamo avuto niente a che fare.» «Eppure le circostanze rimangono sospette», insistette Farag, irriducibile. Sul nostro gruppo scese un pesante silenzio. «Sapete che cos'è la bellezza?» ci domandò d'un tratto Shakeb, giovane professore dell'inesplicabile Scuola degli Opposti, che fino a quel momento era rimasto muto e attento. Farag e io lo guardammo, senza capire. Shakeb aveva la faccia tonda e grandi occhi neri molto espressivi. Alle mani paffute portava vari anelli
che mandavano bagliori luminosi. «Riuscite a vedere come trema la fiamma della candela più corta del candelabro d'oro sopra la testa di Catone?» Il candelabro in questione era un lontano punto luminoso. Come facevamo a distinguere la candela più corta e tantomeno la fiamma tremante? «Riuscite a percepire il profumo della marmellata di cavolo che arriva dalle cucine?» continuò. «Notate l'intenso aroma piccante della maggiorana e l'odore aspro delle foglie di rabarbaro che la coprono nelle ciotole?» Eravamo francamente sconcertati. Di che cosa stava parlando? Come facevamo a sentire quegli odori? Senza muovere la testa né abbassare lo sguardo, cercai invano di indovinare gli ingredienti del piatto squisito che avevo davanti. Riuscii solo a ricordare, per averlo assaggiato un momento prima, che i sapori erano molto concentrati, più intensi e naturali del normale. «Non so dove vuoi arrivare», disse Farag a Shakeb. «Potresti dirmi tu, didaskalos, quanti strumenti interpretano la musica che accompagna il nostro pranzo?» Musica? Quale musica? pensai io. In quel momento mi resi conto che effettivamente una piacevole melodia faceva da sfondo alle conversazioni da quando ci eravamo messi a tavola. Non l'avevo sentita perché non vi avevo prestato attenzione e perché era molto dolce e sommessa, ma distinguere gli strumenti musicali era decisamente impossibile. «O come suona la goccia di sudore che in questo stesso momento scorre lungo la schiena di Ottavia?» Sobbalzai. Che cosa stava dicendo quel pazzo? Ma rimasi zitta perché, effettivamente, tra la tensione nervosa e l'emozione, una minuscola goccia di sudore stava davvero colandomi lungo la spina dorsale, tra la pelle e la tela dell'himation. «Che cosa succede qui?» chiesi, sconcertata. «E tu, Ottavia, dimmi.» L'uomo con gli anelli era implacabile. «A che ritmo sta battendo il tuo cuore? Te lo dico io: a questo.» E prese a battere sul tavolo con le dita, esattamente allo stesso ritmo delle mie palpitazioni. «E che profumo ha il vino che hai bevuto? Hai notato l'aroma speziato, la lieve corposità e il sapore denso e secco, quasi ligneo, che lascia in bocca?» Io venivo dalla Sicilia, importante regione vinicola italiana, la mia famiglia possedeva vigneti e si beveva sempre vino a tavola, ma non avevo mai notato niente del genere. «Se non siete capaci di percepire ciò che vi circonda né di sentire quello
che succede», concluse in tono amabile ma deciso, «se non godete della bellezza perché non siete nemmeno in grado di scoprirla, se ne sapete meno dei bambini più piccoli della mia scuola, non pretendete di essere depositari della verità e non permettetevi di sospettare di coloro che vi accolgono con affetto.» «Suvvia, suvvia, Shakeb», intervenne Mirsgana, levandosi a nostra difesa. «Hai ragione, ma adesso basta. Sono appena arrivati. Bisogna essere pazienti.» Shakeb si mostrò immediatamente pentito. «Perdonatemi. Mirsgana ha ragione. Ma accusarci di avere assassinato Dante è stata un'impertinenza da parte vostra.» Quella gente non aveva peli sulla lingua. Farag, da parte sua, appariva teso e concentrato. Sulla linea di Shakeb, mi sembrava di sentire gli ingranaggi del suo cervello che giravano. «Scusa le mie parole, Shakeb», disse infine Farag, senza inflessioni, «ma anche accettando la possibilità di vedere quella fiammella o cogliere gli aromi della marmellata di cavolo dalla cucina, mi sembra improbabile che tu possa sentire i battiti del cuore di Ottavia o la goccia di sudore che le scivola lungo la schiena. Non è che dubiti di te, però...» «Be'», li interruppe Ufa, togliendo la replica a Shakeb, «in realtà la goccia di sudore l'abbiamo sentita tutti, così come possiamo udire i battiti del vostro cuore, intuire dalla vostra voce quanto siate nervosi o percepire la digestione nei vostri stomaci.» La mia incredulità non poteva essere maggiore e il solo pensiero che tutto ciò fosse possibile mi metteva decisamente a disagio. «No... Non può essere», mormorai, esitante. «Volete una dimostrazione?» si offrì gentilmente Gete. «Certamente!» rispose Farag, determinato. «E ve la darò io», dichiarò Ahmose, la costruttrice di sedie, che fino a quel momento non era intervenuta. «Candace», sussurrò, come se parlasse all'orecchio dell'uomo che ci aveva raccomandato di passeggiare per Paradeisos. Mi guardai intorno, da ogni parte, ma Candace non era nella sala in quel momento. «Candace, per favore, potresti portare un po' di quel tortino di fiori di sambuco che hai appena tirato fuori dal forno?» Rimase in silenzio per un istante, poi sorrise soddisfatta. «Candace ha risposto: 'Subito, Ahmose'.» «Già...» fece sdegnoso Farag. Lo stesso sdegnoso Farag che dovette rimangiarsi il commento quando, quasi all'istante, Candace apparve da una
porta, portando su un piatto una sorta di budino bianco che altro non poteva essere se non ciò che gli aveva appena chiesto Ahmose. «Ecco il tortino di fiori di sambuco, Ahmose», disse Candace. «L'ho preparato pensando a te. Ne ho messo da parte un pezzo da portare a casa più tardi.» «Grazie, Candace», rispose lei, con un sorriso felice. Non c'era dubbio che fossero conviventi. «Non capisco», riprese il mio sfiduciato didaskalos. «Davvero non capisco.» «Non capisci, ma cominci ad accettarlo», sottolineò Ufa, alzando allegro la sua coppa di vino. «Brindiamo a tutte le belle cose che scoprirete a Paradeisos!» I membri del nostro gruppo alzarono a loro volta le coppe e brindarono con entusiasmo. Quelli del gruppo di Catone e Glauser-Röist non si mossero, affascinati da quello che stavano sentendo, di qualunque cosa si trattasse. Shakeb aveva ragione: il vino aveva un meraviglioso aroma speziato ed era denso e secco come legno. Un minuto dopo averlo gustato, il mio palato conservava ancora la sensazione della sua corposità. Mi tornò in mente una frase di John Ruskin:83 «La conoscenza della bellezza è la vera strada e il primo gradino verso la comprensione di ciò che è buono». La coppa da cui bevevo era di cristallo smerigliato, con foglie di acanto in rilievo sul bordo. Quel pomeriggio ce ne andammo a passeggio per Stauros, in compagnia di Ufa, Mirsgana, Gete e una certa Khutenptah, la shasta incaricata delle colture, che aveva simpatizzato con il capitano Glauser-Röist e che veniva con noi per mostrarci le serre e il sistema di produzione agricola. La Roccia, con la sua laurea in agraria, si mostrava molto interessato a questo aspetto di Paradeisos. A fine pranzo attraversammo un'altra serie di sale e cortili e uscimmo dal basileion di Catone. Finalmente le nostre guide ci chiarirono, parlando in inglese, il mistero dell'assenza del sole. «Guardate in alto», ci invitò Mirsgana. E in alto non c'era il cielo. Stauros si trovava all'interno di una gigantesca grotta, di cui non si vedevano né la volta né le pareti. Se centinaia di scavatrici come quelle che avevano aperto il tunnel della Manica avessero lavorato senza posa per un secolo, non sarebbero riuscite ugualmente ad
aprire sottoterra uno spazio come quello occupato da Stauros, con una superficie pari a quella di Roma e New York messe insieme e un'altezza superiore a quella dell'Empire State Building. Ma Stauros era solo la capitale di Paradeisos. Altre tre città sorgevano in altrettante grotte, di analoghe proporzioni, e i quattro nuclei urbani erano interconnessi da un complesso sistema di corridoi e gallerie. «Paradeisos è un meraviglioso capriccio della natura», ci spiegò Ufa, che si era ripromesso di portarci a visitare il maneggio in cui domava i cavalli. «Il risultato delle terribili eruzioni vulcaniche del Pleistocene. Le correnti di acqua calda che circolavano qua sotto dissolsero il calcare, lasciando solo la pietra lavica. Fu questo il luogo scoperto dai nostri confratelli nel XIII secolo. Ci credereste che, dopo settecento anni, ancora non abbiamo finito di esplorare tutto il complesso? E sì che, da quando disponiamo di luce elettrica, procediamo molto più rapidi! Paradeisos è grandioso!» Le strade della città erano pavimentate di pietra e il traffico era costituito da cavalieri e carri. I cavalli sembravano essere l'unica forza motrice disponibile. A mo' di marciapiedi, c'erano splendidi mosaici dalle tessere brillanti che raffiguravano paesaggi naturali o scene di musici, artigiani e vita quotidiana nel più puro stile bizantino. Vari Staurophylakes spazzavano le strade e raccoglievano i rifiuti con singolari palette meccaniche. «Spiegateci come illuminate Stauros», chiese Farag, che camminava al mio fianco tenendomi per mano. «Stauros ha più di trecento vie», disse Mirsgana, salutando con un cenno una donna affacciata alla finestra di un primo piano. Le case erano fatte della stessa roccia vulcanica della grotta, ma i cornicioni e altri elementi architettonici, assieme ai disegni e ai colori delle facciate, conferivano alle abitazioni un aspetto delicato, stravagante o distinto a seconda dei gusti dei proprietari. «Nella città ci sono sette laghi, tutti navigabili, battezzati dai primi abitanti con i nomi delle sette virtù, le cardinali e le teologali, che si oppongono ai sette peccati capitali.» «Questi laghi, soprattutto il Temperanza e il Pazienza, sono popolati di pesci ciechi e crostacei albini», intervenne Khutenptah, che non so perché aveva qualcosa di familiare. La mia memoria era eccellente ed ero sicura di averla già vista fuori da Paradeisos. Era molto bella, con capelli e occhi neri e tratti classici, naso sottile compreso, che mi martellavano il cervello. «Abbiamo anche un fiume», proseguì Mirsgana, «il Kolos,84 che sgorga dalle profondità poco prima di Lignum e che attraversa le nostre quattro
città, formando a Stauros il lago Carità. È il Kolos a fornirci l'energia necessaria per illuminare Paradeisos. Quarant'anni fa comprammo delle vecchie turbine per generare elettricità. Non sono molto ferrata sull'argomento», si scusò, «quindi non posso dirvi altro. So solo che disponiamo di corrente elettrica e che lassù», indicò l'immensa volta, «anche se non si vedono, corrono cavi di rame che arrivano in ogni punto di Stauros.» «Ma il basileion era illuminato da candele», obiettai. «La nostra centrale elettrica non ha potenza sufficiente per garantire la luce a tutte le abitazioni, e in fondo non lo desideriamo. Ci basta l'illuminazione pubblica. Hai sentito la mancanza della luce, in qualche momento? Nei secoli dell'oscurità, gli artigiani di Paradeisos sono giunti a fabbricare candele di grande intensità luminosa. Inoltre la nostra vista, come avrai avuto modo di constatare, è ottima.» «Perché?» domandò Farag, cogliendo la palla al balzo. «Perché è ottima, la vostra vista?» Fu Gete a rispondere. «Questo lo scoprirete quando visiteremo le scuole.» «Avete scuole per migliorare la vista?» domandò Glauser-Röist, con ammirazione. «Nell'ambito del nostro sistema educativo, i sensi e tutto ciò che a loro compete sono fondamentali. Come potrebbero altrimenti i bambini studiare la Natura, sperimentare, trarre conclusioni proprie e verificarne l'esattezza? Sarebbe come chiedere a un cieco di disegnare carte topografiche. Gli Staurophylakes che giunsero qui sette secoli fa dovettero affrontare prove durissime, che li portarono a sviluppare tecniche molto utili per migliorare le proprie condizioni di vita e sopravvivenza.» «I primi abitanti scoprirono che i pesci avevano perso la vista e i crostacei il colore perché non gli servivano nelle oscure acque di Paradeisos», riprese Khutenptah, divertita. «Allo stesso modo osservarono che alcune specie di uccelli annidati sulle rupi non usavano gli occhi per volare nelle gallerie, avendo sviluppato, come i pipistrelli, un nuovo sistema percettivo. Perciò i pionieri si dedicarono a uno studio approfondito della fauna di questo luogo e giunsero alla conclusione che, mediante una serie di esercizi molto semplici, certe tecniche potevano essere applicate anche agli esseri umani. E oggi le insegniamo nelle scuole, ai bambini e ai nuovi arrivati come voi. Sempre che lo desideriate, ovviamente.» «Ma è davvero possibile?» insistetti. «È davvero possibile affinare la vista o l'udito con una serie di esercizi?»
«Naturalmente. Non è un facile apprendistato, ma è molto efficace. Come credi che sia riuscito Leonardo da Vinci a studiare e descrivere nei minimi dettagli il volo degli uccelli, nel tentativo di applicare le stesse nozioni alle sue macchine volanti? Aveva un vista pari alla nostra, sviluppata attraverso un addestramento da lui stesso ideato.» Così, mentre fuori, in superficie, avevamo costruito macchine che supplivano alle nostre carenze sensoriali, microscopi, telescopi, amplificatori, altoparlanti, computer... laggiù, a Paradeisos, gli Staurophylakes avevano lavorato per secoli allo scopo di perfezionare le proprie facoltà, affinandole e sviluppandole a imitazione della natura. E questa conquista, come le prove del Purgatorio, aveva aperto loro le porte a un nuovo modo di intendere la vita, il mondo, la bellezza e tutto ciò che li circondava. In superficie eravamo ricchi di tecnologia, là sotto erano ricchi spiritualmente. Questo spiegava il mistero degli inspiegabili furti dei Ligna Crucis, realizzati alla perfezione, senza tracce, senza violenza, senza indizi di sorta. Quale vigilanza avrebbe mai potuto impedire che uno Staurophylax, con le sue capacità sensoriali ipersviluppate, prendesse ciò che voleva dal luogo più sorvegliato del mondo? Lungo le strade il traffico di carri e calessi scorreva placidamente. Nelle piazze e nei giardini la gente si divertiva a fare esercizi da giocoliere con palle e mazze, attività che faceva parte dell'addestramento, in particolare per favorire l'ambidestrismo. Giungemmo quindi alle rive del fiume, largo cinquanta o sessanta metri. Le sponde di roccia irregolare erano rinforzate da parapetti lavorati con motivi di fiori e di palme. Mentre contemplavo le barche che navigavano sulle acque nere del Kolos, appoggiai le dita sul corrimano ed ebbi l'impressione che scivolassero su una macchia d'olio. Ma non era così: il palmo della mia mano era pulito. L'effetto era dovuto alla superficie straordinariamente liscia. Ricordai il blocco di pietra che avevo spinto nello stretto tunnel delle catacombe di Santa Lucia e che scorreva come se fosse ingrassato. Canoe e piroghe scivolavano sulle acque calme del fiume, con una, due e anche tre persone ai remi. Ma le imbarcazioni più pittoresche erano quelle che trasportavano le merci: grossi gusci dalle cui fiancate, come nelle barche greche e romane, uscivano fino a tre file di remi dalle pale corte e larghe. Quelle imbarcazioni, ci spiegò Ufa, erano il principale mezzo di trasporto per persone e cose tra Stauros, Lignum, Eden e Crucis. Stauros era la capitale e la città più grande, con quasi cinquantamila abitanti, mentre Crucis era la più piccola, con ventimila.
«E come mai utilizzate ancora i rematori?» chiesi, scandalizzata. Oltretutto, chi erano quei poveri disgraziati che, condannati alle galere, dovevano passare la loro vita nel ventre oscuro di un'imbarcazione, sudati, sottoalimentati e infermi? «Perché no?» fecero i nostri quattro accompagnatori, stupiti. «È disumano!» protestò Glauser-Röist, non meno scandalizzato di Farag e me. «Disumano? È un lavoro richiestissimo!» ribatté Gete, guardando malinconicamente la barca. «Io ho potuto godere solo di un permesso di tre mesi.» «Remare è un lavoro molto divertente», si affrettò a spiegare Mirsgana, notando i nostri volti corrucciati. «I giovani, ragazzi e ragazze, muoiono dalla voglia di avere un posto sulle barche e ci sono così tante richieste che possiamo concedere solo periodi di tre mesi, come ha detto Gete, a coloro che risultano idonei.» «Dovreste provarlo», intervenne Gete, con il suo sguardo nostalgico. «Il ritmo e i differenti stili di remata, i movimenti sincronizzati, lo sforzo comune, il cameratismo... Con il remo ben stretto tra le mani, bisogna buttarsi in avanti, flettendo le gambe, e poi darsi la spinta all'indietro. È una sequenza che sviluppa una forza prodigiosa nelle spalle, nella schiena e nelle gambe. E poi si conosce gente nuova e si rinforzano i vincoli di amicizia tra le quattro città.» Meglio non aprire bocca, mi imposi, durante questa visita turistica. Le occhiate che scambiai con Farag e Glauser-Röist mi suggerirono che stavano pensando la stessa cosa. Laggiù tutti sembravano felici di fare quello che facevano, anche di svolgere i compiti più duri e sgradevoli. Ma forse, dopotutto, non lo erano poi così tanto. Non potevano essere stati altri motivi, ben diversi, dall'opinione sociale al potere acquisito, a renderli tali? Percorremmo il lungofiume, osservando gli abitanti che facevano il bagno sulla riva. A quanto pareva, tanto il complesso di grotte di Paradeisos quanto le sue acque si mantenevano a una temperatura costante sui ventiquattro-venticinque gradi. L'esperienza dei rematori mi convinse a tacere e a non chiedere come fosse possibile che alcuni di quei bagnanti potessero superare a nuoto le piroghe spinte dalla forza di due o tre persone. C'era molto da imparare, a Paradeisos, c'erano così tante cose da scoprire che avevo la certezza che né io né Farag né Glauser-Röist avremmo potuto denunciare quella gente. Avevano ragione gli Staurophylakes quando affermavano che nessuno che li avesse conosciuti avrebbe potuto fare loro
del male gratuitamente e inutilmente. Come avremmo potuto permettere che orde di poliziotti in uniforme facessero irruzione in quel luogo, ponendo fine a una simile cultura? Senza contare poi che le varie Chiese si sarebbero fatte la guerra per aggiudicarsi la proprietà di quello che era stato e che sarebbe rimasto della Confraternita, o per convertire quel luogo in una curiosità religiosa o una meta di pellegrinaggi. Gli Staurophylakes e il loro mondo sarebbero scomparsi per sempre, dopo milleseicento anni di storia, e sarebbero finiti sotto la lente d'ingrandimento di giornalisti, antropologi e studiosi. Se avevano rubato la Croce, in fondo non avevano che da restituirla. Noi, ed ero certa che Farag e la Roccia la pensassero allo stesso modo, non li avremmo denunciati. Continuammo la nostra tranquilla passeggiata. Stauros contava numerosi teatri, sale da concerto, sale da esposizione, centri di gioco e intrattenimento, musei (di storia naturale, di archeologia, di arti plastiche...) e biblioteche. In queste, nei giorni seguenti e con mia grande incredulità, avrei potuto trovare manoscritti originali di Archimede, Pitagora, Aristotele, Platone, Tacito, Cicerone, Virgilio... oltre a prime edizioni della Astronomica di Manilio, del De Medicina di Celso, della Storia naturale di Plinio il Vecchio e altri incunaboli sorprendenti. In quelle «Sale della Vita», come le chiamavano gli Staurophylakes, erano riuniti oltre duecentomila volumi. E, fatto ancor più curioso, la maggioranza degli abitanti era in grado di leggere i testi nelle loro versioni originali, perché lo studio delle lingue, morte o vive che fossero, era una delle loro attività preferite. «L'arte e la cultura aumentano l'armonia, la tolleranza e la comprensione reciproca», disse Gete. «E questo voi di lassù cominciate a capirlo solo adesso.» Al maneggio di Ufa, il più grande dei cinque nei dintorni di Stauros, cavalli, cavalle e puledri erano liberi nel recinto. Nel magazzino erano a disposizione cavezze, briglie di ogni genere e un'infinità di selle, tutte in cuoio magnificamente lavorato, con strane fasce colorate e staffe di legno. Ufa ci offrì frutta secca e posca, una bevanda che a Paradeisos si consumava in grande quantità, fatta con acqua, aceto e uova. Ci fu spiegato che l'equitazione era uno dei peraltro numerosi sport preferiti a Paradeisos. Il salto, al trotto e al galoppo, era considerato un'arte superiore. I cavalieri che dominavano questa pratica erano molto ammirati. Si tenevano gare di corsa e prove di abilità nelle gallerie e c'era un gioco molto popolare, l'Iysoporta,85 prediletto dai bambini. Ma il lavoro di Ufa, e la sua passione, era di fatto la doma. «Il cavallo è un animale molto intelli-
gente», ci disse, convinto, accarezzando i quarti posteriori di un mansueto puledro che ci si era avvicinato. «Basta insegnargli a capire i segnali delle mani, dei piedi e della voce perché sia in grado di riconoscere i pensieri del cavaliere. Qui non usiamo né speroni né fruste.» Mentre il pomeriggio trascorreva, Ufa si dilungò in una spiegazione sulla necessità di evitare in partenza l'addestramento al salto di cavalli che non fossero stati precedentemente ammaestrati, qualunque cosa ciò significasse. Era suo interesse, in quanto shasta, introdurre l'insegnamento della doma nelle scuole, dato che, come aveva detto, era il modo migliore per conoscere i movimenti naturali dell'animale prima di montarlo o guidarlo. Per fortuna Mirsgana lo interruppe con discrezione, ricordandogli che Khutenptah doveva mostrarci le colture e che si stava facendo tardi. Ufa ci offrì i cavalli migliori del maneggio, ma dato che io non sapevo cavalcare, affidò a me e a Farag un piccolo calesse, a bordo del quale potemmo seguire gli altri fuori città, in una zona in cui si estendevano ettari di orti perfettamente suddivisi a parcelle. Durante il tragitto, finalmente, Farag e io ci ritrovammo soli e non perdemmo tempo a commentare le strane cose che stavamo vedendo. Avevamo bisogno l'uno dell'altra e ricordo di avere passato tutto il viaggio a ridere e scherzare. In realtà, scoprimmo che il calesse era un mezzo di trasporto molto più sicuro dell'automobile, non foss'altro perché per alcuni tratti potemmo distogliere lo sguardo dalla strada senza che accadesse nulla. Khutenptah ci presentò i suoi domini con lo stesso orgoglio con cui Ufa ci aveva mostrato i propri. Era suggestivo vederla passeggiare affascinata tra file di ortaggi, piante da foraggio, cereali e fiori di ogni genere. Glauser-Röist la seguiva con lo sguardo, senza perdersi una parola. «La roccia vulcanica», spiegava lei, «fornisce un'ottima ossigenazione alle radici e un substrato pulito e libero da parassiti, batteri e funghi. A Stauros abbiamo dedicato più di duecento stadi86 di gallerie all'agricoltura. Le altre città ancora di più, perché dispongono di molti tunnel. Dato che Paradeisos non dispone di terreno coltivabile, i primi abitanti dovevano uscire all'esterno per comprare alimenti, o procurarseli tramite gli anuak, con il rischio conseguente di essere scoperti. Perciò studiarono a fondo il sistema impiegato dai babilonesi per creare i loro meravigliosi giardini pensili e scoprirono che la terra non era necessaria...» Solo in quel momento prestai attenzione a ciò che stava raccontando Khutenptah. Farag e io ci eravamo isolati nella nostra conversazione privata e non mi ero resa conto che i miei piedi non poggiavano sulla terra, ben-
sì sulla roccia. Tutti i prodotti coltivati a Paradeisos crescevano in grandi vasi d'argilla che contenevano unicamente pietre. «Con i rifiuti organici della città», continuava a spiegare Khutenptah, «elaboriamo il nutrimento per le piante e glielo forniamo nell'acqua.» «Sono quelle che in superficie sono conosciute come colture idroponiche», commentò Glauser-Röist, soffermandosi a esaminare le foglie verdi di un arbusto per poi allontanarsene soddisfatto. «Tutto ha un aspetto magnifico», sentenziò. «Ma la luce? Il sole è necessario, per la fotosintesi.» «È sufficiente la luce elettrica. Inoltre, favoriamo la fotosintesi con l'aggiunta di certi minerali e resine zuccherose al nutrimento.» «Questo non è possibile», obiettò la Roccia, accarezzando le radici di un melo. «In tal caso, protospatharios», ribatté lei, tranquillissima, «in questo momento stai soffrendo di un'allucinazione e non stai toccando niente.» Lui ritirò rapidamente la mano e (oh, miracolo!) esibì uno dei suoi rari sorrisi, ampio e luminoso. Una novità assoluta. E finalmente ricordai perché Khutenptah mi sembrava familiare. No, non l'avevo mai vista, ma a casa di Glauser-Röist, sul Lungotevere dei Tebaldi, a Roma, avevo notato due fotografie di una ragazza identica a lei. Ecco perché la Roccia era così sconvolto! Poi il capitano e Khutenptah si persero in una complicata discussione sulle resine zuccherose per uso agricolo, isolandosi dagli altri, per cui anche Farag e io, piuttosto scortesemente, ci facemmo da parte. Verso sera tornammo a Stauros. Al termine della lunga giornata di lavoro, la gente passeggiava per le strade e i parchi erano pieni di bambini rumorosi, di osservatori silenziosi, di gruppi di giovani e di giocolieri. La pratica li aiutava a diventare ambidestri ed essere ambidestri li rendeva ottimi giocolieri. Non so se lo sapessero o se lo avessero intuito, ma l'utilizzo indifferente di entrambe le mani per ogni genere di attività potenzia lo sviluppo simultaneo dei due emisferi cerebrali, aumentando in questo modo le capacità artistiche e intellettuali. Infine Mirsgana, Gete, Ufa e Khutenptah ci condussero con fare misterioso nell'ultimo luogo che avremmo dovuto visitare prima della cena al basileion. Nonostante le nostre richieste, rifiutarono di darci spiegazioni, sicché la Roccia, Farag e io decidemmo che fosse più pratico fare i discepoli obbedienti e muti. Le strade erano animate da una vitalità caotica. Stauros era una città senza fretta né tensione, ma vibrava con le pulsazioni di un ecosistema perfet-
to. La gente, quegli Staurophylakes che tanto avevamo inseguito, ci guardava con curiosità: sapevano chi eravamo, ci sorridevano, ci salutavano amichevolmente dalle finestre, dai carri e dai marciapiedi decorati con mosaici. Il mondo alla rovescia, ricordo di avere pensato. O no? Strinsi forte la mano di Farag, perché sentivo che molte cose erano cambiate, e anch'io lo ero, tanto da sentire il bisogno di afferrarmi a qualcosa di saldo e sicuro. Il calesse, svoltato un angolo, entrò di colpo in una piazza immensa. In fondo a essa, dietro un giardino, si ergeva un immane edificio alto sei o sette piani, la cui facciata era costellata di vetrate multicolori e le cui numerose torri erano sormontate da pinnacoli appuntiti. Capii che eravamo giunti a destinazione, alla fine di un lungo cammino che avevamo cominciato alcuni mesi prima, senza prevederne le conseguenze. «Il Tempio della Croce», annunciò Ufa, solenne, attendendo la nostra reazione. Credo che, di tutti i momenti vissuti fino ad allora, quello fu il più emozionante e grandioso. Nessuno dei tre poteva distogliere lo sguardo da quel tempio. Eravamo paralizzati dall'emozione di avere raggiunto, finalmente, l'ultima tappa del nostro viaggio. Ero sicura che neppure nel capitano albergasse l'intenzione di reclamare la reliquia in nome di interessi di cui ormai non ci importava più nulla. Ma la coscienza di essere giunti fino al cuore del Paradiso Terrestre, dopo tanti sforzi, angosce e paure, con l'unica compagnia di Virgilio e Dante Alighieri, era troppo importante per lasciarsi sfuggire anche solo una briciola di sentimenti e sensazioni. Entrammo nel tempio, sopraffatti dalla sua grandiosità. Milioni di ceri facevano brillare i mosaici e le volte, l'oro e l'argento, l'azzurro della cupola. Non era una chiesa comune: le sue decorazioni e condizioni la rendevano veramente eccezionale, una mescolanza di stili bizantino e copto, a metà strada tra la semplicità e l'eccesso orientale. «Prendete», ci disse Ufa, tendendoci dei panni bianchi. «Copritevi il capo. Qui s'impone il massimo rispetto.» Simili ai türban delle donne ottomane, quei grandi veli si mettevano sulla testa, lasciandone cadere i lembi sulle spalle, senza annodarli. Era un'antica forma di rispetto religioso che in Occidente era stata abbandonata da lungo tempo. Era curioso notare che qui anche gli uomini dovevano entrare a capo coperto. E tutti coloro che si trovavano nel tempio, bambini compresi, portavano rispettosamente un velo bianco. E all'improvviso, avanzando lungo l'immensa navata, la vidi, sospesa nell'abside proprio davanti a me: una bella croce di legno. Di fronte a essa
c'era gente seduta sulle panche o su tappeti stesi sul pavimento, alla maniera musulmana, fedeli che pregavano in silenzio o ad alta voce, alcuni che sembravano fare le prove di atti sacramentali e bambini che, divisi in gruppi a seconda dell'età, si esercitavano in genuflessioni di recente apprendimento. Era un modo alquanto particolare di intendere la religione e, più che la religione, lo spazio religioso. Ma gli Staurophylakes ci avevano già sorpreso a sufficienza e non ci stupivamo più di niente. Tuttavia, davanti a noi si trovava la Vera Croce, ricostruita per intero, come segno inequivocabile di ciò che gli Staurophylakes erano e sarebbero sempre stati. «È fatta di legno di pino», ci raccontò Mirsgana, con voce affabile, cosciente della nostra emozione. «Il palo verticale misura quasi cinque metri, la traversa orizzontale due metri e mezzo, e pesa circa settantacinque chili.» «Perché adorate tanto la Croce e non il Crocifisso?» mi venne da chiedere. «Ma certo che adoriamo Gesù!» disse Khutenptah, senza perdere il suo tono cortese. «Però la Croce è anche il simbolo della nostra origine e del mondo che abbiamo costruito con tanto sforzo. La nostra carne è fatta del Legno di questa Croce.» «Perdonami, Khutenptah», mormorò Farag, «ma non ti capisco.» «Non credi forse che questa sia la Croce su cui morì Cristo?» gli chiese Ufa. «Be', no, in realtà no», rispose Farag, titubante, non tanto perché dubitasse della falsità evidente della Croce, quanto per non offendere la fede e le credenze di coloro che ci accompagnavano. «E invece lo è», affermò Khutenptah, sicurissima. «Questa è la Vera Croce, l'autentico Legno Santo. La tua fede è povera, didaskalos, dovresti pregare di più.» «Questa Croce», disse Mirsgana, indicandola, «fu scoperta da Santa Elena, madre dell'imperatore Costantino, nell'anno 326. Noi, la Confraternita degli Staurophylakes, siamo nati per proteggerla nell'anno 341.» «Esatto», confermò Ufa, compiaciuto. «Il primo giorno del mese di settembre dell'anno 341.» «E perché avete aspettato questo momento per rubare i Ligna Crucis in tutto il mondo?» chiese Glauser-Röist. «Perché proprio adesso?» «Non li abbiamo rubati, protospatharios», gli rispose Khutenptah, «erano nostri. La sicurezza della Vera Croce è stata affidata a noi. Molti Staurophylakes sono morti per proteggerla. La nostra esistenza ha senso grazie
alla Croce. Quando ci nascondemmo a Paradeisos, ci restava solo il frammento più grosso del Legno. Il resto era disseminato nelle chiese e nei templi, in pezzi più o meno grandi, a volte solo piccole schegge.» «Sono passati sette secoli», dichiarò Gete. «Era ora di recuperarla e di riportarla alla sua integrità.» «Perché non la restituite?» chiesi, speranzosa. «Se lo faceste, non correreste più alcun pericolo. Pensate a quante chiese basavano la devozione dei propri fedeli sul frammento della Vera Croce in loro possesso.» «Davvero, Ottavia?» chiese Mirsgana, scettica. «Nessuno fa più caso ai Ligna Crucis. A Notre Dame a Parigi, a San Pietro in Vaticano o nella Chiesa di Santa Croce a Gerusalemme li avevano relegati nei rispettivi musei di curiosità, quelli che chiamano tesori o collezioni, in cui si paga per entrare. Centinaia di voci cristiane si levano per proclamare la falsità di questi oggetti e nemmeno i fedeli vi sono più interessati. La fede nelle sante reliquie è molto decaduta negli ultimi anni. Noi inizialmente volevamo solo completare il pezzo di Santo Legno in nostro possesso, una terza parte dello stipes, il palo verticale. Ma, rendendoci conto di quanto sarebbe stato facile recuperare anche gli altri frammenti, non ci abbiamo pensato due volte.» «È nostra», ribadì, ostinato, il giovane traduttore dal sumero. «La Croce è nostra. Non l'abbiamo rubata.» «E come avete organizzato un... recupero su vasta scala da quaggiù?» chiese Farag. «I Ligna Crucis erano dappertutto e oltretutto, dopo i primi fu... recuperi, erano molto ben custoditi.» «Avete conosciuto il sacrestano di Santa Lucia», cominciò a dire Ufa, «e Padre Bonuomo a Santa Maria in Cosmedin, i monaci di San Costantino Acanzo, Padre Stephanos della Basilica del Santo Sepolcro, il pope di Kapnikaréa, il venditore dei biglietti d'ingresso delle catacombe di Kom elShoqafa...» Farag, la Roccia e io ci guardammo a vicenda. I nostri sospetti erano esatti. «Sono tutti Staurophylakes», proseguì il domatore di cavalli. «Molti di noi scelgono di vivere fuori da Paradeisos, per svolgere determinate missioni o per motivi particolari. Naturalmente non è obbligatorio vivere quaggiù. Ma per uno Staurophylax il massimo della gloria e dell'onore è dedicare la propria vita alla Croce.» «In tutto il mondo sono molti gli Staurophylakes», commentò Gete, divertito. «Più di quanti si possa immaginare. Vanno e vengono, passano
qualche stagione con noi e poi tornano a casa. Come Dante Alighieri, per esempio.» «Ci sono sempre stati uno o due di noi nei pressi di un frammento o di una scheggia della Vera Croce», concluse l'incaricata della acque. «Per cui, in realtà, l'operazione è stata molto facile.» Ufa, Khutenptah, Mirsgana e Gete si guardarono l'un l'altro, soddisfatti e, memori del luogo in cui si trovavano, si inginocchiarono devotamente davanti alla Vera Croce, impressionante per le sue dimensioni e per la cura della sua esposizione. Con grande fervore e raccoglimento realizzarono una serie di complesse riverenze e prostrazioni, mormorando antiche litanie del rituale bizantino. Nel frattempo, la presenza di Dio si rafforzò nel mio cuore. Mi trovavo in una chiesa e, comunque fosse, certi luoghi sono sacri, elevano lo spirito e avvicinano al Signore. Mi inginocchiai e cominciai una semplice orazione, ringraziando per essere arrivati fino a lì tutti e tre sani e salvi. Chiesi a Dio di benedire il mio amore per Farag e gli promisi di non abbandonare mai la mia fede. Non sapevo che cosa sarebbe stato di noi e quali piani avessero per noi gli Staurophylakes, ma fintanto che fossi rimasta a Paradeisos sarei venuta ogni giorno a pregare in quel magnifico tempio nella cui abside, appesa a fili invisibili, si trovava la Vera Croce di Gesù Cristo. Sapevo che non era la Croce autentica, che non era quella su cui era morto Gesù, perché la crocifissione era un castigo molto comune e, all'epoca in cui Lui morì sul Golgota, le croci venivano riutilizzate più volte fino a diventare inservibili, dopo di che, erose dai tarli, finivano come legna da ardere nei falò dei soldati. Dunque, la Croce che avevo davanti non poteva essere quella vera. Ma di sicuro era quella trovata da Santa Elena nell'anno 326, sotto un tempio di Venere in cima a una collina di Gerusalemme. Era la Croce che, a frammenti, aveva ricevuto l'adorazione e l'amore di milioni di persone nel corso dei secoli. Era, sì, la Croce che aveva dato origine agli Staurophylakes e, naturalmente, la Croce che mi aveva unito a Farag, il pagano Farag, il meraviglioso Farag. Mentre tornavamo al basileion di Catone per la cena, le luci che illuminavano Paradeisos diminuirono di intensità, producendo l'illusione, non per questo meno suggestiva, dell'imbrunire. Tutti rientravano nelle loro case e i nostri accompagnatori ci salutarono davanti al portale del palazzo, che restava sempre aperto. Glauser-Röist e Khutenptah si accordarono per rivedersi l'indomani mattina poco dopo l'ora prima, quando la città sarebbe tornata a illuminarsi,
nella zona delle coltivazioni. Ufa lasciò il cavallo al capitano, in modo che potesse arrivare fin laggiù. La Roccia, apparentemente, era rimasto molto colpito dall'argomento delle resine zuccherose, e direi anche dalla bella Khutenptah, e voleva approfondire l'argomento. O almeno così disse. Gete si offrì di mostrare a Farag e a me altri luoghi di Paradeisos che non avevamo fatto in tempo a visitare in quel primo giorno. Per cui ci congedammo solo da Ufa e Mirsgana, promettendo però di passare a far loro visita. La cena fu più tranquilla del pranzo e si tenne in una sala diversa, più piccola e accogliente dell'immenso salone di mezzogiorno. L'anziano Catone CCLVII fece di nuovo da anfitrione, accompagnato unicamente dalla shasta Ahmose, che oltre a essere costruttrice di sedie si rivelò una delle sue figlie, e da Darius, shasta dell'Amministrazione e canonarca87 del Tempio della Croce. Candace servì nuovamente a tavola e la musica, una melodia che mi ricordò i canti popolari del Medio Evo, tornò a fare da sottofondo. Mentre si animava un'intensa e complessa conversazione, cercai di mettere in pratica quanto avevo imparato a mezzogiorno riguardo a odori e sapori. Mi resi conto che, per distinguere tanti dettagli e degustarli, bisognava mangiare e bere molto lentamente, come facevano gli Staurophylakes. Ma ciò che a loro risultava facile, grazie alla pratica, a me costava uno sforzo sovrumano, abituata com'ero a masticare e deglutire in fretta. Fui affascinata da una nuova bevanda che si consumava solo la sera, a cena: l'eukras, un decotto di pepe, cumino e anice, veramente delizioso. Catone CCLVII voleva conoscere i nostri progetti per il futuro e ci fece molte domande al riguardo. Farag e io mettemmo bene in chiaro che intendevamo tornare in superficie, ma la Roccia, incomprensibilmente, era dubbioso. «Mi piacerebbe trattenermi ancora un po'», disse, con espressione incerta. «C'è molto da imparare, quaggiù.» «Ma capitano», dissi, allarmata, «non possiamo tornare senza di lei. Non ricorda che metà delle Chiese del mondo stanno aspettando nostre notizie?» «Kaspar, deve tornare con noi», insistette Farag, molto serio. «Lei lavora per il Vaticano. È lei che deve rispondere.» «E intendete portarci allo scoperto?» chiese Catone, con serenità. Quello era un argomento scottante. Eravamo tra l'incudine e il martello e lo sapevamo. Come avremmo fatto a rispettare il segreto degli Staurophylakes, quando, al nostro rientro, saremmo stati crivellati di domande da
Monsignor Tournier e dal Cardinale Sodano? Non potevamo spuntare dal nulla e dire che eravamo stati a giocare a carte dal momento in cui eravamo scomparsi da Alessandria, diciassette giorni prima. «Certo che no, Catone», si affrettò a dire Farag. «Ma dovrete aiutarci a elaborare una storia convincente.» Catone, Ahmose e Darius risero, come se questa fosse la cosa più facile del mondo. «Ci penserò io, professore», si offrì la Roccia. «Ricordi che era la mia specialità. Lo stesso Vaticano ha avuto cura di insegnarmela.» «Torni con noi, capitano», lo supplicai, guardandolo dritto negli occhi grigi. Ma ricordare il suo lavoro in Vaticano rafforzò solo la sua determinazione a trattenersi e Paradeisos. La sua espressione divenne ancora più decisa. «Per il momento no, dottoressa», dichiarò, scuotendo il capo. «Non intendo più continuare a lavare i panni sporchi della Chiesa. Non mi è mai piaciuto farlo ed è ora di cambiare mestiere. La vita mi sta offrendo un'occasione e sarei un imbecille se non ne approfittassi. Non tornerò. Mi tratterrò qui, almeno una stagione. Non c'è niente là fuori che mi interessi e preferisco trascorrere i prossimi mesi lavorando alle colture con Khutenptah.» «E noi che cosa raccontiamo? Come spieghiamo la sua sparizione?» domandai, angustiata. «Dite che sono morto», rispose senza esitazioni. «Lei è impazzito, Kaspar!» esclamò Farag, furibondo. Catone, Ahmose e Darius ascoltavano attenti, senza prendere parte alla discussione. «Vi fornirò un alibi perfetto, che vi metterà al sicuro dagli interrogatori delle Chiese e che mi permetterà di tornare entro pochi mesi senza destare sospetti.» «Possiamo aiutarti, protospatharios», disse Ahmose. «Sono secoli che facciamo queste cose.» «Sei fermo nella tua volontà di restare, Kaspar?» volle sapere Catone, gustando una cucchiaiata di grano macinato con cannella, sciroppo e ciliegie passite. «Sono fermo, Catone», fu la risposta di Glauser-Röist. «Non dico di essere convinto delle vostre idee né delle vostre credenze, ma vi sarei grato se mi concedeste di riposare qui a Paradeisos. Ho bisogno di un luogo in cui riflettere sulla mia vita futura.» «Non avresti dovuto fare ciò che ti disgustava tanto.»
«Tu non comprendi, Catone», ribatté la Roccia con la stessa determinazione. «Lassù la gente non sempre fa il lavoro che le piace. Spesso è l'esatto contrario. La mia fede in Dio è forte ed è ciò che mi ha sorretto negli anni in cui ho lavorato per la Chiesa. Una Chiesa che ha dimenticato il Vangelo e che, per non rinunciare ai propri privilegi, è pronta a mentire, ingannare e interpretare le parole di Gesù a propria convenienza. No, non desidero tornare.» «Potrai restare con noi tutto il tempo che vorrai, Kaspar Glauser-Röist», dichiarò Catone, solennemente. «E voi, Ottavia e Farag, potete partire quando lo desiderate. Dateci, questo sì, qualche giorno di preavviso per organizzare la vostra partenza, e poi potrete tornare alla superficie. Sarete sempre i benvenuti a Paradeisos. Questa è la vostra casa, dacché, se ve lo siete dimenticato, siete Staurophylakes, come attestato dai marchi sul vostro corpo. Vi forniremo contatti all'esterno, in modo che possiate comunicare con noi. E ora, col vostro permesso, mi ritiro a pregare e a dormire. I miei molti anni non mi consentono di fare tardi», si scusò con un sorriso. Catone CCLVII svanì dietro una porta, camminando lentamente con l'aiuto del suo bastone. Sua figlia Ahmose, dopo averlo salutato con un bacio, tornò a unirsi a noi. «Non abbiate timore», disse Darius, osservando le facce di GlauserRöist, di Farag e la mia. «So che siete preoccupati, ed è logico. Le Chiese cristiane sono ossi duri. Ma, con l'aiuto di Dio, andrà tutto bene.» In quel momento apparve Candace, con un vassoio carico di coppe di vino. Ahmose sorrise. «Sapevo che ci avresti portato un po' del vino migliore di Paradeisos», esclamò. Darius allungò subito la mano. Era un uomo sulla cinquantina, dai capelli bianchi e radi e dalle orecchie piccole, così piccole che appena si vedevano. «Brindiamo», cominciò a dire, quando tutti avemmo tra le mani le nostre coppe di prezioso alabastro. «Brindiamo al protospatharios perché sia felice tra noi e a Ottavia Salina e a Farag Boswell perché siano felici ovunque, anche se lontano da noi.» Tutti sorridemmo e levammo i bicchieri. Haidé e Zauditu mi avevano preparato la camera e mi aspettavano, dando gli ultimi ritocchi ai fiori e ai vestiti. Tutto era splendido e la luce delle poche candele accese donava un'atmosfera magica all'ambiente. «Desideri altro, Ottavia?» mi domandò Haidé.
«No, no, grazie», risposi, cercando di nascondere il nervosismo. Mentre lasciavamo la sala, Farag mi aveva chiesto se, una volta lasciati in pace, avrebbe potuto farmi visita nella mia stanza. Non sapevo che risposta dargli, ma gli era bastato il mio sorriso. Perché aspettare ancora? Tutto era deciso e io volevo stare con lui. Spesso, quando lo guardavo, mi passava per la testa l'assurda idea che, se avessi potuto vivere più di una vita, ancora non mi sarebbe bastato il tempo per stare al suo fianco. E allora, perché aspettare? Senza sapere come, a volte certe idee si rivelano in tutta la loro evidenza. E passare una notte con Farag era una di queste. Sapevo che, se non l'avessi fatto, me ne sarei rammaricata per parecchio tempo. E non mi sarei più potuta fidare della nuova Ottavia. Ero perdutamente innamorata di lui e forse per questo non vedevo niente di male in ciò che pensavo di fare. Trentanove anni di castità e astinenza erano più che sufficienti. Dio avrebbe compreso. «Credo che il didaskalos sia impaziente», mi disse l'indiscreta Zauditu. «Va avanti e indietro per la sua stanza come un leone in gabbia.» La stanza di Farag era all'altro capo del corridoio. «Zauditu!» la sgridò Haidé. «Perdonala, Ottavia, è troppo giovane per capire che lassù avete altre usanze.» Sorrisi. Non potevo fare altro, nemmeno parlare. Volevo solo che se ne andassero e che arrivasse Farag. Finalmente uscirono entrambe dalla porta, mormorando: «Buona notte, Ottavia». Andai allo specchio e mi guardai. Non era il mio momento migliore e non ero certo al massimo della forma. La mia testa sembrava una palla da biliardo e le sopracciglia galleggiavano come isole in un mare imberbe. Ma gli occhi brillavano e un sorriso ebete, che non riuscivo a togliermi dalla faccia, si era impossessato delle mie labbra. Mi sentivo felice. Paradeisos era un luogo incomparabile, molto arretrato sul piano materiale ma molto avanti sotto altri aspetti. Lì si ignorava la fretta, l'angoscia, la lotta quotidiana per sopravvivere in un mondo pieno di pericoli. La vita trascorreva piacevolmente e la gente sapeva apprezzare ciò che aveva. Mi sarebbe piaciuto portare via con me da Paradeisos quella meravigliosa capacità di gustare ogni cosa, anche la più insignificante. E pensavo di cominciare la pratica quella notte stessa. Avevo paura. Il mio cuore batteva così forte che sembrava volermi uscire di bocca. Mi scuoteva il petto come un animale in trappola. Non lo fare, Ottavia, non lo fare, mi diceva una vocina nella testa. Ero ancora in tempo a tirarmi indietro. Perché doveva essere proprio stanotte? Perché non l'in-
domani, o al ritorno in superficie? Perché non aspettare di avere ricevuto la benedizione della Chiesa? «Perché non lasciar perdere e non farlo mai?» dissi a me stessa ad alta voce, in tono di rimprovero. Andiamo, Ottavia, cercai di incoraggiarmi. Lo desideri, muori dalla voglia, di che cosa hai paura? Il mio cuore batté ancora più forte e il sudore cominciò a scorrermi sulla pelle. Ci mancava solo quello. Senza che lo sapessi, tutta la vita era stata una lunga attesa di questo momento. E ora, dopo avere sciolto tanti lacci, dopo avere vissuto tante esperienze, dopo essermi lasciata alle spalle la stretta armatura in cui in qualche momento del passato avevo rinchiuso il mio corpo, ora avevo la grande fortuna di avere trovato l'uomo più meraviglioso del mondo, che per giunta desiderava me e darmi il suo amore. Perché avevo tutta quella paura? Farag mi aveva resa libera e aveva atteso con infinita dolcezza che rompessi i legami con la mia vita precedente. Quando mi baciava, sulle sue labbra c'era una chiara promessa, un sentimento così intenso da trascinarmi verso luoghi sconosciuti, come una nave nella tempesta. Se potevo perdermi sulle sua labbra, perché non potevo perdermi nel suo corpo? Tre colpi discreti risuonarono sulla porta. «Avanti», dissi, tra il divertito e l'inquieto. «Non c'è bisogno di tanta cautela. Se vogliono sentirci, ci sentiranno.» «Hai ragione», ammise Farag. «Non riesco a ricordarmi che possono leggerci nel pensiero.» «Non esageriamo!» risposi, andando verso di lui e gettandogli le braccia al collo. Farag era nervoso quanto me, lo si capiva dagli occhi, le cui palpebre battevano incessanti, e dalla voce incerta. Mi baciò lentamente. «Sei proprio sicura di volere che rimanga qui?» mi chiese, precipitoso. Che fine aveva fatto Casanova? «Certo che voglio che tu rimanga», affermai, baciandolo di nuovo. «Tutta la notte. Tutte le notti.» Persi la nozione del tempo e persi anche il mio cuore. Smisi di essere io, smisi di essere l'Ottavia Salina che era esistita fino a quel momento, per convertirmi in un bagliore interminabile di amore e di passione. Mi lasciai portare al letto, anche se non ricordo come, perché il sapore della sua bocca era così intenso da sembrarmi il sapore stesso della vita, concentrato per me sulle labbra di Farag Boswell.
La notte passò e io, unita al suo corpo, fusa pelle su pelle in un lampo sconfinato di eternità, trasformata in un fiume di sensazioni che, come le maree, passavano dalla tenerezza più dolce alla pazzia più furiosa, scoprii che quanto stavo facendo non poteva essere quella cosa così terribile che inspiegabilmente tutte le religioni avevano condannato per secoli. Erano pazzi, o che cosa? Perché doveva essere male scoprire la pienezza e la felicità assoluta possibili in questo mondo? Il suo corpo, forte e agile, divenne tutto ciò che desideravo. Sentivo di diventare qualcosa di nuovo e di palpitante, che avrebbe atteso per sempre quei momenti di amore e follia infiniti. Al principio ero attanagliata dalle corde invisibili dell'insicurezza, ma poi, con la pelle sudata e il cuore sul punto di scoppiare, compresi che in quel letto, oltre a me e a Farag, si erano insinuati i falsi tabù e le ridicole ipocrisie in cui ero stata educata. Fu un pensiero fugace, ma importante. Nuda, mi misi in ginocchio sopra le lenzuola e guardai Farag che, stanco e felice, mi osservava con curiosità. «Sai cosa ti dico, Farag?» «No», rispose lui, con una risata silenziosa. «Ma mi aspetto qualunque cosa.» «Fare l'amore è la cosa più meravigliosa del mondo», affermai con convinzione. Lui ricominciò a ridere in silenzio. «Mi fa piacere che tu lo abbia scoperto», sussurrò, prendendomi per mano e tirandomi a sé. Ma io mi ritrassi e mi sedetti sulle sue gambe, accarezzandogli il petto. Che cosa mi aveva detto Glauser-Röist al principio delle indagini, a proposito delle tribù dell'Africa e dei giovani moderni? Che le scarificazioni avevano una forte componente erotica e che erano un richiamo sessuale? Passando le dita sulle linee tracciate sul corpo di Farag, mi dissi che era possibile che ci fosse una certa verità. «Lo sai che non riesco a immaginare la vita senza di te? So che suona un po' kitsch, ma è così.» «Be', allora stai tranquilla, perché siamo pari.» Era così bello, nudo! «Ti sei accorto che ti amo?» mormorai, chinandomi per baciarlo di nuovo. «E tu?» fece lui. «Ti sei accorta di quanto ti amo io?» «No, mi è sfuggito. Dimmelo di nuovo.» Si sollevò e, prendendomi per la vita, mi baciò più volte, finché il desiderio rinacque potente, come all'inizio. Tornò la magia, i nostri corpi si compresero di nuovo a vicenda e si unirono con la stessa intensità. La notte si accorciò e il nuovo giorno ci sorprese svegli e senza avere dormito. Nelle due settimane che passammo a Paradeisos accumulammo sonno
arretrato per i due mesi successivi. Il tredicesimo giorno della nostra permanenza nel Paese degli Staurophylakes, di ritorno da una gita a Eden e Crucis (a Lignum eravamo già stati un paio di volte), fummo convocati al basileion di Catone per ricevere le ultime istruzioni prima della partenza. I preparativi erano stati curati da una commissione di shasta a cui aveva partecipato anche Glauser-Röist, quando le colture idroponiche e la bella Khutenptah gliene avevano lasciato il tempo. Fummo condotti attraverso corridoi in cui non eravamo mai passati, fino a giungere a un'enorme sala rettangolare dal soffitto altissimo, nella quale, disposti su due file di sedie, ci attendevano tutti gli shasta. Di fronte a noi, sotto un affresco raffigurante lo Staurophylax Dioniso di Dara che, nei panni di un alto dignitario musulmano, bussava alla porta dell'umile casa di Nikephoros Panteugenos portando la reliquia della Vera Croce, Catone CCLVII si appoggiava al suo sottile bastone. Orgoglio e soddisfazione gli si leggevano negli occhi. «Avanti, avanti», ci esortò, vedendoci esitare sulla porta. «Abbiamo messo a posto gli ultimi dettagli. Kaspar, siediti accanto a me, per favore. E voi, Ottavia e Farag, occupate le sedie al centro della sala.» La Roccia si affrettò a sedersi al fianco di Catone, aggiustandosi l'orlo dell'himation come un vero Staurophylax. Era uno spettacolo che meritava di essere visto, il modo in cui si era integrato nella vita quotidiana di Paradeisos. Aveva assimilato ogni cosa con tale rapidità che sarebbe potuto passare in tutto e per tutto per uno di loro. Avevo già commentato con Farag che l'influenza di Khutenptah non doveva essere estranea a quel fenomeno, ma lui, ostinato come un mulo, aveva continuato a sostenere che il capitano stava semplicemente cancellando il proprio passato e inventandosi un futuro. Insomma, faceva sfoggio della sua nuova vita. Comunque fosse, il fatto era che la Roccia cominciava a sembrare uno Staurophylax a denominazione di origine controllata e che, oltre a occuparsi di Khutenptah, delle colture e dei preparativi della nostra partenza, seguiva anche i corsi elementari di educazione impartiti a Paradeisos. «Ve ne andrete di qui domattina, all'ora prima», cominciò Catone. Vidi Mirsgana seduta alla mia destra, nella seconda fila, e le feci un cenno di saluto che lei ricambiò. «Così», continuò Catone, con un sorriso, «conoscerete anche l'esatta posizione di Paradeisos. «Troverete ad aspettarvi un gruppo di anuak che vi
condurranno ad Antioch, dove vi imbarcherete di nuovo con il capitano Mulugeta Mariam per ripercorrere in senso contrario la strada che vi ha portato qui. Mariam seguirà il Nilo fino al delta e vi lascerà in un luogo sicuro nei pressi di Alessandria. A partire da quel momento, non dovrete menzionare Paradeisos se non tra voi due e mai in presenza di altri. A te la parola, ora, Teodros.» Questi, seduto in prima fila sulla sinistra, sí alzò in piedi. «L'ultimo contatto tra i nuovi Staurophylakes» (parlava di noi?) «e le Chiese cristiane ha avuto luogo ad Alessandria il primo di giugno di quest'anno, esattamente un mese fa. Da quel momento, nel mondo esterno non si sa più nulla di Kaspar, Ottavia e Farag. Stando ai rapporti che ci sono giunti, le catacombe di Kom el-Shoqafa sono state esaminate a fondo dalla polizia egiziana, che ovviamente non ha scoperto niente. Per questo, al momento, le Chiese si apprestano a inviare una nuova squadra investigativa che utilizzerà le stesse informazioni raccolte da Kaspar, Ottavia e Farag per riprendere il cammino da dove loro lo hanno lasciato. Naturalmente, il tentativo sarà vano», sottolineò Teodros, con una punta di orgoglio. Indicò prima la Roccia e poi noi due. «Ma ciò che loro tre hanno scoperto ci obbliga a sospendere le prove degli aspiranti fino a quando non potremo riprenderle con sicurezza.» «Perché non le cambiamo o, semplicemente, non le sopprimiamo?» domandò una voce alle nostre spalle. «Dobbiamo rispettare la tradizione, Sisygambis», disse Catone, alzando il capo e abbassandolo subito dopo, poggiando il mento sul palmo della mano. «Pertanto, per i prossimi dieci o quindici anni non ci saranno altre prove», riprese Teodros. «Sono stati già inviati opportuni messaggi perché i fratelli all'esterno cancellino ogni traccia e stiano allerta, in vista di eventuali interrogatori. Le porte verso Paradeisos vengono sigillate in questo stesso istante. Manca solo il passaggio di cui Ottavia e Farag si serviranno per tornare all'esterno. Ma di questo parlerà Shakeb.» Il giovane Shakeb, quello con le mani grassocce cariche di anelli, si alzò in piedi due sedie più in là di quella occupata da Mirsgana, mentre Teodros tornava a sedersi, sollevandosi l'orlo dell'himation con un gesto elegante. «Ottavia, Farag», cominciò Shakeb, rivolgendosi direttamente a noi. Nonostante il viso tondo, era decisamente bello, con occhi neri vividi ed espressivi. «Quando tornerete ad Alessandria, sarà trascorso un mese e mezzo dalla vostra sparizione. Dovrete quindi spiegare dove siete stati e
che cosa avete fatto in questo tempo. E, naturalmente, che cosa sia successo al capitano Glauser-Röist.» La tensione nella sala era palpabile. Tutti erano curiosi di sentire quale menzogna avremmo dovuto sostenere Farag e io, a tutti i costi, per salvaguardare il loro piccolo mondo. «I confratelli di Alessandria hanno cominciato a scavare nelle catacombe di Kom el-Shoqafa un falso tunnel, che termina in un angolo appartato del Lago Mareotis, nelle vicinanze dell'antico Caesarion. Racconterete di essere stati rapiti al terzo livello delle catacombe, di essere stati aggrediti e di avere perso conoscenza appena scorto l'accesso a quel passaggio. Vi forniremo una mappa molto semplice che vi aiuterà a indicarlo. Direte di esservi svegliati in un luogo chiamato Farafrah, il nome di un'oasi nel deserto egiziano, di difficile accesso. Racconterete che il capitano non si è svegliato, che i vostri rapitori vi hanno detto che era morto mentre gli venivano praticate le scarificazioni, ma che non vi è stato consentito di portare via né di vedere la salma. In questo modo lasciamo la porta aperta a un suo eventuale ritorno tra qualche mese. Descriverete il luogo come un villaggio molto simile a quello di Antioch, in modo da evitare contraddizioni. Dal momento che l'oasi di Farafrah non gli assomiglia neppure remotamente, li indurrete a una grande confusione. Non fate nomi, solo quello del beduino che vi portava il cibo tre volte al giorno nella cella in cui eravate rinchiusi: Bahari. Questo nome è piuttosto comune in Egitto, per cui non può servire come pista. Potete descriverlo con le fattezze del capo Berehanu Bekela, anche se dovete ricordare che avrà la pelle più chiara.» Shakeb riprese fiato. «Dopo che i malvagi Staurophylakes vi hanno tenuto prigionieri nella cella per tutto questo tempo», e qui scoppiò un brusio di risate generali, «minacciando ripetutamente di uccidervi da un momento all'altro, finalmente oggi, il primo di luglio, vi hanno nuovamente storditi, per abbandonarvi allo sbocco del tunnel del Lago Mareotis, avvertendovi di non dire una sola parola di quanto era accaduto. Voi, naturalmente, appena saranno finiti gli interrogatori cercherete un luogo discreto in cui vivere, preferibilmente molto lontano da Roma, meglio ancora dall'Italia, facendo perdere le vostre tracce. Noi vigileremo da vicino sulla vostra incolumità.» «Dovremo cercarci un lavoro», commentai, «per cui...» «Per quanto riguarda questo aspetto, noi Staurophylakes vogliamo farvi un regalo d'addio», mi interruppe Catone, alzando una mano. Farag e io notammo che la Roccia ci lanciava un misterioso sorriso. «Poc'anzi ho detto che dobbiamo rispettare le tradizioni», proseguì Ca-
tone. «È così. Ma bisogna anche sapervi rinunciare o rinnovarle. Durante le prove dei sette peccati capitali, come capita a tutti, la vostra vita, Ottavia e Farag, è cambiata in modo irreversibile. Lavori, Paesi, impegni religiosi, credenze, modo di pensare. Tutto si è ribaltato, perché poteste arrivare qui. Ora, là fuori, non vi rimane quasi niente, ma siete disposti a tornare per costruire la vita che volete avere. Farag potrebbe ancora recuperare il suo lavoro al Museo Greco-Romano di Alessandria, Ottavia però non ha più alcuna possibilità di mettere piede nell'Ipogeo del Vaticano. Può contare, certo, su un curriculum accademico che le aprirebbe molte porte, nondimeno... Se vi regalassimo qualcosa che potrebbe permettervi di scegliere con assoluta libertà il vostro futuro?» Notai la pressione della mano di Farag sulla mia e ricordo che i muscoli del mio collo si tesero nell'attesa. La Roccia ci sorrideva così tanto da scoprire le due file di denti. «L'espiazione del peccato dell'avarizia che ha luogo a Costantinopoli cambierà di ubicazione. Chiederemo ai confratelli di quella città che, nei prossimi anni e senza modificarne il contenuto, organizzino la prova dei venti in un'altra sede, di modo che voi possiate scoprire il mausoleo con i resti dell'imperatore Costantino il Grande. Questo è il nostro regalo d'addio. Speriamo vi sia gradito.» Farag e io restammo per qualche secondo senza parole. Poi ci voltammo sconcertati l'uno verso l'altra e ci guardammo. Io fui la prima a saltare: feci un balzo di gioia trascinando il didaskalos con me. Per poco non gli strappai la mano. Avevo rinunciato a Costantino nel preciso momento in cui avevo conosciuto gli Staurophylakes ed ero persino, sorprendentemente, arrivata a dimenticarmi di lui. Tutto era così rapido che la mia mente doveva cancellare il minuto prima per far spazio al minuto successivo. Mi stavano capitando troppe cose interessanti perché perdessi il mio tempo a ricordarmi dell'imperatore. Per cui, quando Catone ci disse che ci regalava la scoperta del mausoleo con le reliquie di Costantino, il cielo si spalancò davanti a me e a Farag: ci veniva servito il futuro su un piatto d'oro. Ci baciammo, ci abbracciammo, ci baciammo ancora e da quella sala destinata a importanti assemblee passammo alla grande sala dei banchetti del basileion, dove Candace e i suoi accoliti avevano preparato un autentico festino per i sensi. La musica suonò alta fino alle prime ore del mattino, e i balli si prolungarono più del necessario. E quando, rallegrati dall'alcool e dall'atmosfera gioiosa, ci lanciammo tutti, shasta, camerieri e noi, per le strade di Stauros
pronti a tuffarci nelle calde acque del Kolos (Catone si era già ritirato da ore nelle sue stanze), scoprimmo che la gente usciva dalle case per unirsi alla festa con un entusiasmo ancora superiore al nostro. Le luci si accesero di nuovo e da ogni parte comparvero bambini e giocolieri. L'ora prima arrivò quando il divertimento era all'apogeo, ma la Roccia e Khutenptah ci avvisarono che era tempo di partire: gli anuak erano arrivati e non potevamo più rimandare. Salutammo centinaia di persone che nemmeno conoscevamo, distribuimmo baci a destra e a manca, senza sapere nemmeno a chi. Alla fine, di nuovo, Khutenptah e la Roccia, con l'aiuto di Ufa, Mirsgana, Gete, Ahmose e Haidé, ci strapparono dalle braccia degli altri Staurophylakes e dai festeggiamenti. Tutto era pronto. Un calesse con le nostre modeste proprietà ci aspettava alle porte del basileion. Ufa si mise a cassetta, in veste di cocchiere, mentre Farag e io prendevamo posto senza lasciare le mani del capitano Glauser-Röist. «Abbi cura di te, Kaspar», gli dissi, dandogli del tu per la prima volta, sul punto di scoppiare in lacrime. «È stato un piacere conoscerti e lavorare con te.» «Non mentire, dottoressa», borbottò lui, celando un sorriso. «All'inizio abbiamo avuto un sacco di problemi, ricordi?» E in quel momento, parlando di ricordi, mi tornò in mente una cosa che volevo chiedergli da tempo. Non potevo andarmene senza saperlo. «A proposito, Kaspar: le uniformi della Guardia Svizzera le ha disegnate Michelangelo? Ne sai qualcosa?» Era importante. Si trattava di una vecchia curiosità insoddisfatta, cui non avrei potuto trovare risposta per mio conto. La Roccia scoppiò a ridere. «Non le ha disegnate Michelangelo, e nemmeno Raffaello, come ha detto qualcuno. Ma questo è uno dei segreti meglio custoditi del Vaticano, quindi non andarlo a raccontare in giro.» Finalmente, dopo tanti anni! «Quelle uniformi da cerimonia così vistose sono opera, in realtà, di un'oscura sarta del Vaticano e risalgono al 1914. Il Papa di allora, Benedetto XV, voleva che i suoi soldati avessero uniformi originali e chiese alla misconosciuta sarta di inventarsi una nuova uniforme di gala. La donna si ispirò ad alcuni quadri di Raffaello in cui apparivano vestiti multicolori con tagli sulle maniche, molto di moda nella Francia del XVI secolo.» Rimasi zitta per qualche secondo, rattristata dalla delusione, e guardai il capitano come se mi avesse appena dato una coltellata. «Allora... non le ha
disegnate Michelangelo?» Glauser-Röist rise di nuovo. «No, dottoressa. Non le ha disegnate Michelangelo, ma una donna sconosciuta nel 1914.» Forse avevo bevuto troppo e dormito troppo poco. Ma mi arrabbiai e feci una smorfia. «Avrebbe fatto meglio a non dirmelo!» esclamai. «E adesso perché se la prende?» domandò sorpreso Glauser-Röist, rivolto a Farag. «Se un momento fa mi diceva che era stato un piacere conoscermi e lavorare con me?» «Lo sai come ti chiama in privato, Kaspar?» se ne uscì d'un tratto GiudaFarag. Gli diedi uno spintone che avrebbe fatto vacillare un elefante, ma lui proseguì imperterrito: «Ti chiama 'la Roccia'.» «Traditore», mormorai, guardandolo fosca. «Non importa, dottoressa», rise il capitano. «Io ti ho sempre chiamata... No, meglio se non te lo dico.» «Capitano Glauser-Röist!» proruppi. Ma in quel preciso istante Ufa sollevò le redini e le lasciò cadere sul posteriore del cavallo. Dovetti aggrapparmi a Farag per non cadere dal calesse. «Me lo dica!» gridai, mentre ci allontanavamo. «Addio, Kaspar!» lo salutò Farag, agitando un braccio in aria, mentre l'altro mi spingeva sul sedile. «Addio!» «Capitano Glauser-Röist, me lo dica!» continuai a gridare, inutilmente, mentre il calesse si allontanava dal basileion. Alla fine, vinta e umiliata, mi sedetti compunta accanto a Farag. «Un giorno dovremo tornare, così glielo potrai chiedere», mi disse, per consolarmi. «Sì. Così potrò ammazzarlo», affermai. L'avevo sempre detto che era un brutto tipo. Come si era permesso di darmi un soprannome? A me? Epilogo Sono passati cinque anni dalla nostra partenza da Paradeisos, cinque anni nel corso dei quali, com'era previsto, fummo interrogati delle polizie dei vari Paesi per i quali eravamo passati e dagli incaricati della sicurezza delle varie Chiese cristiane. In particolar modo, dal sostituto della Roccia, un certo Gottfried Spitteler, anch'egli capitano della Guardia Svizzera, che
non si bevve nemmeno una parola della nostra storia e diventò la nostra ombra. Restammo a Roma diversi mesi, il tempo imprescindibile perché si ponesse fine all'inchiesta e perché io portassi a conclusione le mie questioni in sospeso con il Vaticano e il mio Ordine. Poi partimmo per Palermo, dove trascorremmo alcuni giorni con la mia famiglia, ma la cosa non funzionò, per cui ce ne andammo prima del previsto; anche se, in apparenza, eravamo gli stessi di prima, l'abisso che si era aperto tra me e loro era ormai incolmabile. Decisi che l'unica soluzione era allontanarmene, portandomi a una distanza di sicurezza oltre la quale non avrei sofferto. Dopo di che tornammo a Roma, per prendere un aereo con destinazione Egitto. Butros, nonostante le sue reticenze, ci accolse a braccia aperte. Pochi giorni dopo, Farag riprese il lavoro presso il Museo Greco-Romano di Alessandria. Volevamo destare meno attenzione possibile, adottando, come ci avevano raccomandato gli Staurophylakes, una vita tranquilla e prevedibile. Trascorsero i mesi e nel frattempo mi dedicai allo studio. Mi appropriai della stanza di Farag e mi misi in contatto con vecchie conoscenze del mondo accademico, che non tardarono a propormi offerte di lavoro. Accettai solo, tuttavia, le ricerche, le pubblicazioni e gli studi che potevo realizzare da casa, da Alessandria, e che non mi obbligassero ad allontanarmi da Farag. Imparai un po' per volta l'arabo e il copto e mi appassionai al linguaggio dei geroglifici egizi. Siamo stati felici fin dal principio, assolutamente felici. Mentirei se dicessi il contrario. Ma durante i primi mesi la presenza costante del dannato Gottfried Spitteler, che lasciò Roma per seguire i nostri movimenti e prese in affitto una casa nel quartiere di Saba Facna, proprio vicino a noi, si trasformò in un autentico incubo. Dopo un po', in ogni caso, scoprimmo che il trucco era non prestargli attenzione, ignorarlo come se fosse invisibile. Presto sarà un anno da quando è scomparso completamente dalle nostre vite. Dev'essere tornato a Roma, alla caserma della Guardia Svizzera, finalmente convinto, o forse no, che la storia dell'Oasi di Farafrah fosse vera. Un giorno, quando da poco avevo preso alloggio in Via Moharrem Bey, ricevemmo una visita curiosa. Si trattava di un commerciante di animali che ci consegnò un bellissimo gatto, «regalo della Roccia», secondo il biglietto di accompagnamento. Non ho ancora capito perché Glauser-Röist ci abbia fatto dono di quel gatto dalle enormi orecchie appuntite e dal pelo marrone maculato. Il commerciante, mentre contemplavamo l'animale con
apprensione, ci disse che si trattava di un prezioso esemplare di razza abissina. Da allora, l'instancabile bestiola passeggia per casa come se fosse lui il padrone e ha conquistato il cuore del didaskalos, per non dire il mio, con i suoi giochi e le sue richieste di affetto. Lo abbiamo battezzato «la Roccia», in onore di Glauser-Röist. E ogni tanto, fra Tara, il cane di Butros, e la Roccia, il gatto di Farag, ho la sensazione di vivere in uno zoo. Recentemente ci siamo dedicati ai preparativi del nostro viaggio in Turchia. Sono già cinque anni che abbiamo lasciato Paradeisos e ancora non siamo andati a ritirare il nostro «regalo». È ora di farlo. Stiamo programmando il modo di arrivare accidentalmente al mausoleo di Costantino senza dover passare per la fonte di Fatih Camii. Questo progetto ha monopolizzato il nostro tempo fino a stamattina, quando lo stesso commerciante che ci consegnò la Roccia, il gatto, mi ha portato finalmente una busta con una lunga lettera del capitano Glauser-Röist, scritta di suo pugno. Dato che Farag era al lavoro, ho indossato scarpe e giacca e sono andata al Museo per leggerla con lui. Era tanto che non avevamo notizie del capitano! La Roccia, tuttavia, a giudicare dalla sua missiva, è aggiornatissimo su tutto quello che abbiamo fatto noi. Sa che non siamo ancora andati a Costantinopoli e ci invita a non aspettare oltre, «perché la situazione è molto più tranquilla» e ci comunica che sono ormai quasi cinque anni che vive con Khutenptah. Purtroppo, l'anziano Catone è morto: Catone CCLVII ha lasciato questo mondo da una quindicina di giorni e il nuovo Catone, il numero duecentocinquantotto della lista, è già stato eletto e sarà acclamato ufficialmente tra un mese nel Tempio della Croce, a Stauros. La Roccia si profonde in mille milioni di suppliche perché partecipiamo alla cerimonia, poiché, a suo avviso, Catone CCLVIII sarebbe lietissimo della nostra presenza. Quel giorno, aggiunge, dev'essere il più completo nella vita del nuovo Catone, ma così non sarebbe nel caso non fossimo presenti. Ho alzato lo sguardo dalla lettera, scritta sullo stesso tipo di carta spessa e grezza su cui gli Staurophylakes ci comunicavano le piste per le varie prove, e ho rivolto a Farag uno sguardo interrogativo. «Be', in ogni caso, è interessante. Chi sarà il nuovo Catone? Ufa? Teodros, Candace...?» «Guarda la firma», mi ha detto Farag, tartagliando, con gli occhi sgranati e un sorriso burlone sulle labbra. La lettera del capitano Glauser-Röist, scritta dal capitano Glauser-Röist e con il nome del capitano Glauser-Röist come mittente sulla busta, era firmata da Catone CCLVIII.
Note 1. Eusebio (260-341), vescovo di Cesarea, Historia Ecclesiastica; De Martyribus Palestinae. 2. Le Carceri Giudiziarie, non lontane dal porto di Palermo, sono la prigione più sofisticata e meglio sorvegliata di tutta Italia, nella quale scontano la loro condanna i membri della Mafia. 3. La Leggenda Aurea (Legenda Aurea Sanctorum), scritta in latino tra il 1263 e il 1273 dal beato domenicano Jacopo (o Giacomo) da Varagine (l'odierna Varazze). 4. Foglio piegato una volta su se stesso. 5. A lettere maiuscole arrotondate. Era un metodo di scrittura in uso tra il secolo IV e VIII d.C. 6. Ordine, successione e senso dei movimenti eseguiti dallo scrivano per tracciare le lettere. 7. Nella gerarchia ecclesiastica l'ordine del diaconato viene dopo il presbiterato o sacerdozio. I diaconi svolgono compiti liturgici e amministrativi. 8. Lucio Anneo Seneca, De constantia sapientis II. 9. Valerio Massimo, III 2, 14. 10. Famose guide di viaggio tascabili, edite in Germania dal 1829. 11. Purgatorio, Canto LX, 112-114. 12. Purgatorio, Canto I, 1-6. 13. Purgatorio, Canto VII, 44. 14. Purgatorio, Canto IX, 85-90. 15. Purgatorio, Canto IX, 109-114. 16. Scavatori specializzati nell'aprire le gallerie delle catacombe. 17. Purgatorio, Canto IX, 109-111. 18. Purgatorio, Canto LX, 124-126. 19. Hypnos, il sonno, e Thanatos, la morte. 20. Purgatorio, Canto LX, 131-132. 21. Purgatorio, Canto X, 7-12. 22. Purgatorio, Canto X, 22-27. 23. Purgatorio, Canto X, 112-120. 24. Purgatorio, Canto XI, 1-2 25. Purgatorio, Canto XI, 36. 26. Purgatorio, Canto XI, 49-51. 27. Purgatorio, Canto XII, 91-99.
28. La prima delle beatitudini del Sermone della Montagna, Beati i poveri di spirito... (Matteo, 5,3). 29. Purgatorio, Canto X, 7-12. 30. Purgatorio, Canto X, 24. 31. Famosa frase pronunciata da Galileo nel 1632, dopo che la Chiesa lo obbligò a negare che la Terra girasse intorno al Sole, come affermava Copernico e come lo stesso Galileo aveva dimostrato. 32. Purgatorio, Canto XII, 25, 28, 31, 34. 33. Purgatorio, Canto XII, 37, 40, 43, 46. 34. Purgatorio, Canto XII, 49, 52, 55, 58. 35. Purgatorio, Canto XIII, 1-3. 36. Purgatorio, Canto XIII, 29. «Non hanno vino», con riferimento alle Nozze di Cana. 37. Purgatorio, Canto XIII, 32, 36. 38. Purgatorio, Canto XIII, 37-45. 39. Purgatorio, Canto XIII, 58-60 e 67-72. Quella di cucire gli occhi era pratica comune per domare gli uccelli. 40. Purgatorio, Canto XIII, 7-9. 41. Purgatorio, Canto XIII, 13-15. 42. Marco, 6, 40. 43. Atleta etiope, famoso per la sua abitudine di correre scalzo. Vinse la maratona alle Olimpiadi di Roma del 1960 e di Tokyo del 1964. 44. Purgatorio, Canto XVII, 82-87. 45. Purgatorio, Canto XVIII, 85, 90. 46. Maria corse in visita a sua cugina Elisabetta, appena saputo che era incinta. 47. Purgatorio, Canto XVIII, 97-105. 48. Salmo 118, 25: «L'anima mia aderì al terreno». 49. Purgatorio, Canto XIX, 70-75. 50. Purgatorio, Canto XIX, 79-81. 51. Purgatorio, Canto XX, 4-9. 52. Purgatorio, Canto XX, 135. 53. Publio Papinio Stazio (50-96 d.C). 54. «Passo lungo e bocca corta», regola di base dell'omertà, con cui i mafiosi si ricordano a vicenda la Legge del Silenzio. 55. Nel linguaggio di Cosa Nostra, mafioso rurale. 56. Poppa ricurva delle navi. 57. Ornamenti che pendono dalla corona imperiale.
58. Diadema imperiale ornato a volte di piume di pavone. 59. Purgatorio, Canto XIX, 79-81. 60. Purgatorio, Canto XX, 4-6. 61. Articolo di Douglas Jehl pubblicato sul New York Times e riprodotto da El País, sezione Sociedad, lunedì 22 marzo 1999. 62. Elio Sparziano, Historia Augusta, Antonino Caracalla, 13, 6, 2-4. 63. Il caduceo, bastone coronato da due ali con due serpenti intrecciati, simbolo del dio Hermes, messaggero degli dei dell'Olimpo. 64. Lago dell'Egitto settentrionale, sulla parte occidentale del delta del Nilo. Alessandria si trova nella fascia di terra compresa tra il lago e il Mar Mediterraneo. 65. Il Nilo si forma a Khartoum, in Sudan, dalla confluenza del Nilo Bianco e del Nilo Azzurro. Il Nilo Bianco nasce in Africa centrale e apporta solo il ventidue per cento delle acque, mentre il Nilo Azzurro nasce dal Lago Tana, sull'altipiano etiopico, e apporta il rimanente settantotto per cento. 66. Purgatorio, Canto XXV, 109-117. 67. Purgatorio, Canto XXVI, 19-21. 68. Purgatorio, Canto XXVII, 15. 69. Purgatorio, Canto XXVII, 19-21 e 25-27. 70. Purgatorio, Canto XXVII, 46-54. 71. «Venite, benedetti del Padre mio» (Matteo, 25, 34). 72. Purgatorio, Canto XXVII, 90. 73. Purgatorio, Canto XXVII, 115-118. 74. Purgatorio, Canto XXVII, 127-132 e 139-142. 75. Matteo, 5,8. 76. Saluto greco che significa «Salve!». 77. «Palazzo» in greco. 78. «Professore» in greco. 79. Grado militare bizantino equivalente a capitano. 80. Suonatore di lira. 81. «Tunica» in greco. 82. Tagliatore di pietre preziose. 83. Scrittore e critico d'arte inglese (1819-1900). 84. «Troncato» in greco. 85. Gioco molto popolare a Bisanzio. Due squadre di cavalieri, separati da una linea divisoria, dovevano catturarsi a vicenda quando una pietra, segnata da un lato, veniva lanciata in aria. La pietra decideva quale squa-
dra dovesse partire all'inseguimento dell'altra. 86. A Bisanzio lo stadio equivaleva a un ottavo del miglio romano, vale a dire a circa 185 metri. 87. Il canonarca era il monaco incaricato, nei monasteri bizantini e ortodossi, di dirigere i salmi nella chiesa e di chiamare gli altri monaci all'orazione. FINE