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L'ORRIDO PASTO Racconti del soprannaturale (Uncanny Banquet, 1992) a cura di RAMSEY CAMPBELL Indice Premessa di Giuseppe Lippi Introduzione di Ramsey Campbell Oltre i ceppi di Russell Kirk Una distesa di lapidi di Dorothy Kate Haynes Pazza di Alison Prince Il frequentatore delle prime di Henry Normanby La collina e il baratro di Fritz Leiber Incantesimo di Robert Fordyce Aickman La signora in grigio di Donald Wandrei Un granellino di polvere di Walter John de la Mare Versetti diabolici di Ramsey Campbell Il Gorgo di Adrian Ross Premessa Orrido pasto in tempi di quaresima Benché la recente esplosione di libri economici e super-economici, venduti anche in edicola, abbia portato alla luce nuove traduzioni di classici e nuove-vecchie antologie del terrore, un libro come questo Uncanny Banquet merita un discorso a parte. Innanzitutto perché il suo compilatore, Ramsey Campbell, è considerato in Inghilterra il maggior autore vivente di racconti soprannaturali, e poi anche perché il suo contenuto lievemente polemico vuole fare piazza pulita di un micidiale luogo comune: e cioè che le più appassionanti storie macabre siano quelle scritte e pubblicate negli ultimi vent'anni, diciamo da Carrine in qua, e che tutto il resto sia giustamente finito nel dimenticatoio e non ci sia alcun bisogno di disseppellirlo. Uncanny Banquet ("L'orrido pasto", ma più esatto sarebbe dire "Il festino del soprannaturale") costituisce la prova irrefutabile della miopia e della falsità di quelle valutazioni. Nonostante ciò, il libro non vuole essere - come risulta fin dalla nota del curatore - una vetrina della nostalgia: tutt'altro. L'arco di tempo coperto dai racconti è molto ampio e si va dalla prima me-
tà del secolo agli anni Novanta, con scrittori pienamente attivi ancora oggi (lo stesso Campbell, fra gli altri) accanto ad autori ingiustamente dimenticati. La caratteristica fondamentale del nostro banchetto, semmai, è quella d'insistere sulla varietà "sottile" delle portate: pochi spargimenti di sangue, pochi fenomeni paranormali da baraccone, pochi esorcismi a buon mercato e quasi niente isterismi da famigliola-borghese-del-Maine; invece, molte idee originali, molta abilità nella costruzione delle atmosfere, molta "paura" per lettori adulti. Che poi un racconto sia stato scritto nel 1914 e un altro nel 1992, è solo incidentale. La caratteristica saliente del libro è la bontà dei testi, unitamente alla ricerca di quelle radici del genere, di quella tradizione letteraria che per tutto il secolo hanno tenuto viva la scuola del racconto macabro. Tradizione letteraria: una ricerca rara, in tempi di massificazione (e, quindi, di "quaresima" per le iniziative di qualità). Ne sa qualcosa il lettore abituale di narrativa fantastica, questa variante specializzata dell'Homo sapiens che non è una chimera, non è un'invenzione di zoologi medievali ma - incredibile a dirsi! - esiste davvero. Ebbene, questo signore dai gusti paradossali, questo lettore esigente, anzi esigentissimo, che ama estraniarsi dal suo mondo non tanto per smania d'evasione, quanto per necessità fisiologica (è tipica del suo metabolismo la catàbasi...), da tempo è costretto, per saziare i suoi appetiti, a rincorrere le più ignobili contraffazioni e le più turpi bambinate che appaiano nelle vetrine dei librai. Egli - o ella - sa che negli ultimi tempi non c'è stato gran rispetto per il suo genere preferito; che nonostante i progressi dell'editoria e i successi del cinema fantastico la qualità delle scelte è stata spesso negletta; che, insomma, non si è saputo, o non si è voluto separare la lana dalla seta. Questo lettore, o questa lettrice, conosce a menadito la pianticella del weird tale novecentesco; sa che senza M.R. James e Algernon Blackwood non ci sarebbe stato alcun Richard Matheson, e senza Richard Matheson non si sarebbe mai arrivati (per sua stessa ammissione) a Stephen King. Sa che i bestseller degli ultimi anni, in genere, si sono fermati molto più sull'aspetto esteriore della narrativa nera (il sangue, il sesso perverso, le punizioni corporali) che sulla sottigliezza dell'invenzione, cioè sul fantastico puro; e che, per quanto la signora Rose Madder di Bangor, Maine, possa trovare appassionanti le avventure di Dolores Claiborne, nulla di tutto ciò può competere minimamente con le impossibili, stravolte atmosfere magi-
che di La casa sull'abisso, il terrificante capolavoro di William Hope Hodgson. Non solo, ma la spudoratezza di certe posizioni pseudocritiche ed editoriali, dettate dall'ignoranza e da altri interessi, si è spinta al punto da ammantare i propri limitati punti di vista con teorie estetico-formali veramente raccapriccianti: sicché, sul povero lettore che si fosse avvicinato all'ennesima tavola rotonda sull'horror erotico - o sulle bevande preferite dai teenager vampiri omosessuali di Las Vegas - sarebbero piovute argomentazioni del tipo: l'orrore sia calato nel quotidiano! I personaggi siano borghesi o piccolo-borghesi fin nel midollo! La violenza sia didascalica! Il sesso sia finalmente disgustoso! E altre amenità del genere. A fiotti. Ora, se tutto questo è potuto avvenire, è stato anche per ignoranza della tradizione di cui sopra: vale a dire per la mancata educazione ai piaceri di quell'aureo filone che, ereditati dal secolo scorso la passione per il brivido intelligente e il frisson fantastique, corre attraverso il Novecento con una serie di opere eccentriche e spesso poco equilibrate, ma talora geniali per economia dei mezzi, invenzione e qualità del delirio. Il presente volume, che pure non si propone come un affrettato corso di estetica, smuove un po' le acque in tal senso e si offre come una carrellata su tutto l'arco del weird tale novecentesco, dai primi anni del secolo a oggi. (Ma i racconti non sono posti in ordine cronologico: segua il lettore l'itinerario che preferisce, tenendo conto delle brevi note biografiche che accompagnano ciascun autore.) La cosa preziosa, del resto, è che il libro offre testi di elevata qualità ma poco noti, per cui anche il collezionista più avido ne ignorerà parecchi. A questa regola d'oro delle antologie serie L'orrido pasto offre un contributo sostanziale, e siamo certi che si attirerà le simpatie e la gratitudine di molti lettori. Ma veniamo brevemente agli autori, tanto per completare (con qualche ragguaglio bibliografico italiano) le informazioni già fornite nel testo. A parte Henry Normanby, personalità sul conto della quale non siamo riusciti a scoprire ulteriori dati, gli altri sono abbastanza noti. Russell Kirk, scrittore americano nato nel 1918 a Plymouth, nel Michigan, è diventato piuttosto famoso con una serie di antologie di racconti pubblicate, fra gli altri, dalla Arkham House. Di suo, in una raccolta Oscar intitolata Racconti senza respiro, è uscito anni fa il lungo racconto "C'è una lunga strada serpeggiante". Il testo qui scelto proviene da una raccolta personale dell'autore pubblicata nel 1979 (The Princess of All Lands).
Anche Dorothy K. Haynes nacque nel 1918, ma è una scrittrice inglese. Ha pubblicato due antologie di racconti: Thou Shalt Not Suffer a Witch (1949) e trent'anni dopo Peacocks and Pagodas. Alison Prince è una scrittrice inglese contemporanea e il suo racconto è del 1984; quanto a Fritz Leiber (1910-1992), è probabilmente il maggior autore fantastico americano dopo Lovecraft e divide la palma con Ray Bradbury, Theodore Sturgeon e pochissimi altri. Il racconto qui tradotto è del 1942, quando apparve sulla rivista «Unknown», e nel 1947 fu inserito nella raccolta personale Neri araldi della notte. La maggior parte dei racconti macabri di Leiber sono oggi raccolti nel volume-omnibus Occhi d'ombra (Mondadori). Robert Aickman (1914-1981) è considerato uno dei maestri inglesi del dopoguerra; di lui gli Oscar hanno tradotto a suo tempo l'antologia Suspense (Cold Hand in Mine, 1975). Le sue trame, eleganti anche dal punto di vista stilistico, raccontano perlopiù di individui soli e dei loro tormenti. Il racconto qui dato è tratto da una raccolta del 1968, Sub Rosa. Donald Wandrei (1908-1987) è stato poeta e romanziere e condivide con August Derleth il merito di aver fondato la casa editrice Arkham House, cui si devono le prime edizioni dei libri di Lovecraft. Attivo anche nel campo della fantascienza, è ricordato dai lettori italiani soprattutto per il romanzo I giganti di pietra (The Web of Easter Island, 1948) tradotto su «Urania» Mondadori e per un racconto degli anni Venti, "Il cervello rosso". Il racconto qui dato è del 1933 e venne pubblicato per la prima volta sulla rivista «Weird Tales», per essere più tardi inserito nella raccolta The Eye and the Finger (1944). Walter de la Mare (1873-1956) è un notissimo romanziere inglese, autore, oltre che di inquietanti racconti macabri, di fiabe e Storie di animali, come recita il titolo di un suo volume tradotto anche in Italia (Longanesi). A parte il romanzo Memorie di una donna in miniatura (Memoirs of a Midget, 1921), tradotto da Serra & Riva, sono disponibili nella nostra lingua tre raccolte di racconti: L'artigiano ideale (Sellerio), Racconti del mistero (Guanda) e Il rinchiuso (Theoria). Ramsey Campbell, nato a Liverpool nel 1946, ha pubblicato la sua prima antologia di racconti a diciotto anni (The Inhabitant of the Lake and Less Welcome Tenants, Arkham House). Ammiratore di Lovecraft, si è incamminato successivamente su una strada autonoma producendo romanzi e racconti eccellenti come La bambola che divorò sua madre (1976) e le raccolte Demons by Daylight (1973) e Il sesso della morte (Scared Stiff,
Tales of Sex and Death, 1987). Il racconto qui pubblicato è del 1992. Adrian Ross (1859-1933), autore del romanzo che costituisce la vera riscoperta dell'antologia, è lo pseudonimo di Arthur R. Ropes. Con il suo nome d'arte firmò alcuni libretti di opere buffe nonché questo eccellente romanzo dell'orrore, uscito per la prima volta nel 1914. Dedicato all'amico M.R. James, The Hole of the Pit ricorda, per certi versi, le atmosfere del capolavoro di William Hope Hodgson La casa sull'abisso, apparso pochi anni prima (1908). Giuseppe Lippi L'orrido pasto A Kirby e Kay McCauley, con amore un sentimento più antico di tutti noi Introduzione Il racconto del terrore soprannaturale corre il pericolo di perdere il contatto con le proprie tradizioni. Non vanno biasimati i singoli autori, anzi forse non va biasimato nessun autore. Se gli scrittori, ciascuno nel proprio campo, hanno voluto imitare i libri di grande successo, questa loro esigenza non è di per sé riprovevole. Dopotutto devono imparare in qualche modo, così come i loro predecessori impararono da modelli quali H.P. Lovecraft e M.R. James, che a loro volta riconoscevano di avere un debito di gratitudine verso precedenti maestri. E non è una novità che gli imitatori, nella grande maggioranza, si limitino a leggere i grandi del passato, e spesso non facciano neanche questo: troppi epigoni di James e Lovecraft seguono pedissequamente lo stile o i brani virtuosistici degli autori prediletti invece di affrontare il compito più difficile, quello di capire come sono congegnate le storie e come arrivare in modo nuovo a quegli stessi risultati. Oggi che abbiamo la scuola di Stephen King e, più recentemente, quella di Clive Barker, il problema si profila in modo ancora più chiaro e, mi azzardo a dire, più acuto. Ho, infatti, l'impressione che molti scrittori che hanno preso a modello i racconti di Barker e di King non abbiano esperienza di quel genere di letteratura, e che forse non abbiano letto niente che rimandi a loro; è possibile che non conoscano nessuna opera di narrativa
apparsa in anni precedenti alla loro generazione. Ripeto: non è colpa (per esempio) di King e di Barker. In Danza macabra King ha parlato a lungo delle proprie fonti di ispirazione, le più importanti delle quali sono, a mio avviso, i racconti di Richard Matheson; e in passato Barker non è stato riluttante a citare gli scrittori che ammira - Machen e Aickman fra gli altri. E allora perché tanti classici sono trascurati? Non perché non si apprezzi un genere che ha un certo preziosismo: lo dimostra il persistente successo di libri pacati quali (tanto per elencare alcuni da me prediletti) Green Man di Kingsley Amis, Hawksmoor e First Light di Peter Ackroyd, Haunting of Hill House (La casa degli invasati) di Shirley Jackson. Forse dipende dal fatto che è difficile trovare il materiale, e in questo libro ho cercato, se non di porre rimedio a tale situazione, almeno di prestarvi attenzione. Ricordo che un tempo le antologie dell'orrore e del soprannaturale erano costituite quasi esclusivamente da opere dei maestri, il che significava esagerare nel riconoscere il proprio debito di gratitudine. Per ironia della sorte, se ieri le storie-chiave continuavano a essere ristampate, oggi vengono sistematicamente escluse dalle antologie, con il risultato che è difficile trovarle. Se prescindiamo per un momento dall'assurda esosità di alcuni agenti che amministrano i diritti d'autore, viene la tentazione di mettere insieme - e sarebbe relativamente facile farlo - una corposa antologia di questi testi, il tipico volume per il quale vale la pena setacciare i negozi di libri usati. L'orrido pasto, tuttavia, non è un libro di questo genere. Mi auguro che raccolga una serie di racconti non meno belli dei classici accreditati, ma meno conosciuti. Penso che questo libro dimostri che, se mai è esistita un'età dell'oro della narrativa del soprannaturale, tale età non è finita: non pretendo che il mio racconto sia la riprova di ciò, ma forse contribuirà ad arricchire l'insieme. È un libro sia per chi ama il racconto soprannaturale, non quello grossolanamente raccapricciante, sia per chi ha voglia di scoprire se questo genere gli piace. Ramsey Campbell Mersevside, Inghilterra 23 aprile 1992 Russell Kirk Oltre i ceppi (Behind The Stumps, 1950)
Russell Amos Kirk (1918) è, tra i maestri contemporanei di racconti di fantasmi, quello più ingiustamente trascurato, almeno dai lettori inglesi. I suoi racconti, pubblicati dapprima con il titolo di The Surly Sullen Bell, riapparvero in seguito in una collana economica di letteratura gotica, con il titolo Lost Lake: la copertina una delle migliaia del genere - mostrava una dama dalle lunghe vesti in fuga da un castello. Questi racconti, e altri ancora, trovarono una più stabile collocazione in due libri della Arkham House: The Princess of All Lands e Watchers at the Strait Gate. Nel 1977 Kirk ricevette il World Fantasy Award. Alcune successive opere tendono ad avvalorare la sua filosofia di intellettuale americano di destra, come i due romanzi Old House of Fear e A Creature of the Twilight. In "Oltre i ceppi", tratto dalla sua prima raccolta, lo scopo principale di Kirk - scopo assai lodevole - è di farci rabbrividire. Or Satana si levò contro Israele, e incitò Davide a fare il censimento di Israele. I Cronache, 21,1 La contea di Pottawattomie, dopo il taglio della protettiva foresta avvenuto settant'anni fa, è rimasta prostrata come Sansone vinto da Dalila: nuda, impotente, riluttantemente servile. In mezzo alle distese di ceppi marci crescono patate e fagioli; metà delle case abitate sono ancora le capanne di legno abbandonate dai boscaioli che avevano seguito i cacciatori in queste terre. A Pottawattomie non si parla di soldi da quando il bosco venne tagliato; ma qua e là la gente si stringe attorno alle fattorie isolate, o si arrangia nei villaggi in rovina. Un'ambigua bellezza aleggia sulla campagna punteggiata di piccoli laghi, sulle distese di alberi ricresciuti, sugli acquitrini di cedri e gli alti crinali ghiaiosi che si consumano a ogni pioggia, adesso che la loro copertura è scomparsa. Come se su questa gente, sulle loro case e sui loro raccolti fosse stata lanciata una maledizione per l'oltraggio commesso contro la natura, a Pottawattomie tutto va in rovina. Tra la gente rimasta fedele con ostinazione alla terra dei ceppi, alcuni sono i nipoti e i pronipoti degli uomini che distrussero la foresta; altri sono relitti umani gettati su queste distese sabbiose dal torrente della vita moderna, sbalzati fuori della corrente per giacere inerti e ignorati sull'argine
umido. Agricoltori esausti, sparuti, dalla mentalità antiquata, tenaci, assuefatti alla monotonia, amanti della bottiglia al sabato sera, eccentrici di ogni genere; un silenzioso gruppo di mezzosangue negro-indiani, sparsi in capanne e baracche di carta catramata battute dal sole lungo le strade secondarie, lontane dalla capitale della contea o dei piccoli borghi o dove si consuma il fiacco commercio di Pottawattomie: ecco la gente di Pottawattomie. Soltanto da poco sono arrivate le strade decenti; perfino la televisione è troppo costosa per molti di loro; la stessa mano del governo è fiacca davanti a tanta povertà di terreno e di spirito. Ma il controllo dello stato, ciononostante, non è del tutto paralizzato. A Pottawattomie le entrate fiscali sono necessariamente modeste, ma ci sono le strade da mantenere; la caccia ai cervi e la pesca di frodo alle trote da reprimere; i sussidi da distribuire con parsimonia. Nella sede della contea c'è uno sceriffo, che conosce bene l'ambiente; c'è anche un giudice dell'alta corte; e i funzionari amministrativi della contea sono agricoltori e commercianti poco portati a cambiare l'andamento delle cose a Pottawattomie. Fino a oggi, il governo è stato l'ombra di un'ombra. Ma, di quando in quando, l'amministrazione statale e quella federale ficcano il naso con cautela nel fango e nella boscaglia della terra dei ceppi. C'era da fare uno speciale censimento dei terreni agricoli. Giù, nella capitale, era stato redatto un piano che riguardava il livello dei prezzi delle derrate, la quantità potenziale dei raccolti e la tabulazione dei prezzi. Occorreva contare gli ettari a frumento, i maiali e le persone. Gli ispettori raggiunsero tutte le più sperdute fattorie dove si coltivava il frumento; non trascurarono nessun appezzamento a pomodori che avesse almeno due ettari, e non dimenticarono la contea di Pottawattomie. Sempre contro il governo, Pottawattomie; con veemenza contro l'amministrazione che aveva decretato quello speciale censimento! I nuovi controlli, si diceva a Pottawattomie, volevano dire altri moduli inutili, altri viaggi nella capitale della contea, altre tasse, e un intollerabile ficcanasare dentro le pareti domestiche della gente - e nessuno più del povero contadino se la prende a male per questa indiscrezione. E così l'Ufficio regionale del censimento speciale cominciò a incontrare difficoltà a Pottawattomie. Gli incaricati si vedevano sbattere la porta in faccia, nonostante la minaccia di mandati e citazioni; la risposta evasiva era frequente; la reazione violenta non insolita. Dal distretto di Bear City, un villaggio in rovina di duecento abitanti, arrivarono resoconti particolarmente inquietanti. Nonostante l'urgente bisogno dello stipendio garanti-
to dall'incarico, l'ispettore provvisorio si dimise per l'angoscia causata dalla crescente ostilità. La donna che prese il suo posto venne ignorata dalla metà degli agricoltori che aveva tentato di avvicinare. Infastidito, l'Ufficio regionale inviò a Bear City un Intervistatore speciale: Cribben. Gli concessero un'automobile, un cumulo di moduli e una dura lettera di presentazione per il direttore dell'ufficio postale di quella località; e così l'Intervistatore si mise in viaggio verso nord. Essendo l'uomo che era, Cribben si portò dietro la pistola. Un tempo aveva fatto il fattorino per una banca, e in seguito aveva avuto l'abitudine di raccontare così: «Gli altri fattorini tenevano le rivoltelle in fondo alla borsa, e così non avevano la possibilità di tirarle fuori in caso di rapina alla banca. Ma io tenevo la mia calibro 38 a portata di mano. Volevo averla lì, io e quei bravi ragazzi della rapina». Alto, sulla quarantina, diritto come un fuso, ecco Cribben - camminata a mento alto, petto in fuori, articolazioni rigide, una specie di vigorosa sfida all'umanità. Aveva un'aria insopportabile. Subito dopo il tipo spiritoso, quello insopportabile è il più adatto alle responsabilità richieste a un Intervistatore speciale. I corti capelli neri facevano risaltare una testa robusta, ben proporzionata; ma la bocca era petulante, gli occhi emanavano un senso di altezzosa sfida e il mento aveva lineamenti arroganti. Quando parlava, Cribben aveva un modo tutto suo di succhiarsi le guance, assumendo così l'aria di essere capricciosamente deciso: era solito ripetersi, infatti, di essere molto divertente se voleva, in particolare con le donne. Anni prima sua moglie aveva divorziato da lui... a Reno: non era riuscita - e ne era lei stessa stupita - a pensare a un buon motivo per ottenere il divorzio in base alle leggi del loro stato. Cribben viveva in castità, onestà, sobrietà, solitudine. Rideva con il dovuto garbo alle battute degli altri; si sarebbe fatto in quattro per scrivere una bella lettera di raccomandazione; ma, chissà perché, nessuno lo invitava mai o andava a trovarlo. Cribben era un fallimento in tutto - ex ingegnere, ex capoufficio, ex capitano di artiglieria, ex socio di una fonderia. Diceva a se stesso di essere una persona fidata in tutto e per tutto, il che era vero; e diceva a se stesso di aver fallito per la sua immacolata onestà in mezzo a una folla di furfanti, il che era falso. Aveva fallito per la sua pignoleria. «Caporale, a proposito del rapporto di questa mattina: ho notato che hai usato la gomma per cancellare una macchia d'inchiostro, invece del liquido per le correzioni. Fai attenzione, caporale. Noi useremo il liquido per le correzioni. Capito?» Questo è, più o meno, ciò che il pignolo Cribben a-
vrebbe detto - magari con un sorriso, ma in tal caso il sorriso sbagliato; e si sarebbe compiaciuto con se stesso per la propria urbanità. Cribben non si risparmiava; non c'era uomo più metodico, più diligente di lui. Attendibile in ogni piccolo particolare, d'accordo; ma così attento ai particolari che le cose principali andavano a rotoli. I subalterni si dimettevano e leggevano le colonne delle «Richieste di lavoro» piuttosto che sottostare per un'altra settimana a una simile pignoleria; i superiori lo trovavano disperatamente in arretrato col lavoro, intento a tirare avanti, serio serio, in mezzo alle sue ordinate minuzie. Cribben era davvero insopportabile. Sapeva che la maggioranza degli uomini è costantemente imprecisa e spesso disonesta. Aveva ragione naturalmente. Gli uomini di buon senso annuivano e se ne infischiavano; Cribben si tormentava. La sua fonderia andò in rovina perché lui dava fuori di matto se sparivano le chiavi inglesi e i cacciavite. Era convinto che li rubassero gli operai. Era così; ma Cribben non avrebbe mai accettato che quei furtarelli da niente diventassero una voce di spesa fissa. Nell'ostinazione di Cribben ci sarebbe stato qualcosa di nobile, se avesse amato la precisione nell'interesse della verità. Ma per lui la verità era solo un attributo della precisione. In basso, fra quella feccia di uomini falliti, in quel meschino servizio governativo, Cribben ruotava nel vortice del fallimento. Avendo toccato il fondo, che in questo caso era un apprendistato temporaneo da giovane impiegato, Cribben cominciò a risorgere a poco a poco. In quell'uomo pedante, privo di senso dell'umorismo, il vicecapo dell'Ufficio regionale riconobbe l'autentica incarnazione del funzionario pubblico mediocre, e così scelse lui per costringere i riluttanti a compilare moduli interminabili. Cribben diventò un Investigatore speciale, con tutti gli aumenti di stipendio consentiti dal regolamento. Affidargli compiti di supervisore si rivelò sconsigliabile; d'altra parte, all'interno della sua sfera, Cribben era impareggiabile. Fu il trionfo di Cribben. Mai gli era piaciuto tanto il suo lavoro; soltanto il vivissimo desiderio di riorganizzare l'Ufficio regionale secondo un modello più preciso gettava un'ombra sulla sua soddisfazione. L'autorità del governo alle spalle, l'altezzosità del censore nel portamento mentre indagava su una misurazione catastale o faceva domande al richiedente di una concessione governativa: un uomo come Cribben non aveva mai sognato niente di più. Cribben, infatti, era privo di fantasia. E Cribben si mise in viaggio verso nord, per Bear City. Negozi dalle facciate posticce che vendevano tessuti, drogherie e saloon, costruiti generosamente in legno di pino bianco di seconda scelta, quando
il pino costava poco e sembrava inesauribile, stanno in fila, uno dopo l'altro, lungo una larga strada coperta di ghiaia: ecco Bear City. Assomigliano a denti scoloriti nella bocca di un vecchio questi edifici che sorgono fra uno spazio vuoto e l'altro, invaso dall'erba alta, dove incendi fortuiti hanno avuto la meglio sulle case abbandonate. Una di tali costruzioni, con le solite finestre alte e antiquate e i muri di un bianco stinto, fa anche da ufficio postale. Di solito, in paesini come questo, il sabato pomeriggio l'ufficio postale è chiuso. Ma - notò Cribben mentre parcheggiava l'automobile quel sabato pomeriggio, a Bear City, non solo erano aperti una metà dei negozi di tessuti, ma anche l'ufficio postale. Quest'ultimo aveva un'aria ordinata ed efficiente, pensò Cribben avanzando a grandi passi verso la porta. Ciò lo predispose favorevolmente. «Buon giorno» disse Cribben al direttore dell'ufficio postale. «Sono J.K. Cribben, vengo dall'Ufficio regionale. Legga questo, per favore.» Esibì al direttore la lettera di presentazione. Il signor Matt Heddle, direttore dell'ufficio postale, se ne stava dietro la griglia in ferro battuto del vecchio bancone, un relitto d'altri tempi e di città situate più a sud; Jessie, la sua timida moglie, stava dalla parte opposta, al bancone del negozio. Non mancava loro la dignità che proviene dal ricoprire per molto tempo un posto onorevole in una piccola località. Il signor Heddle, con la sua corona di folti capelli bianchi, la maestosa aria pigra, la bella divisa nera e la voce profonda e lenta, faceva di un direttore di ufficio postale di campagna un uomo di cui essere fieri. «Ebbene, le auguro buona fortuna, signor Cribben» disse Matt Heddle con premura, leggendo la lettera di presentazione. Il signor Heddle desiderava continuare a fare il direttore dell'ufficio postale per il resto della sua vita. «Farò tutto quello che posso. Sono dispiaciuto per le seccature che ha avuto l'altro incaricato del censimento.» «Tutta colpa sua» disse Cribben con aria d'importanza. «Togliere ai brontoloni l'occasione di dare seccature - questo è il mio modo di fare. Non scomporsi per la loro arroganza. Ne ho trattata di gente! Caccia fuori le domande, mettili in riga con un'occhiata. Non avrò grane qui.» E non ne ebbe. Nonostante i suoi difetti, Cribben non era né un vigliacco né un pigro. Passava soltanto sei o sette ore al giorno nella stanza che aveva affittato; e, in capo a sei giorni, aveva fatto visita e conquistato quasi tutti i testardi agricoltori nei dintorni di Bear City. I ripari per il bestiame e i silos, le pecore e i manzi, i lavoranti e le figlie timide, le stanze delle case con i gabinetti sul retro - tutto venne debitamente esaminato e registrato
con moduli e ricevute. E quello che non poteva vedere con i propri occhi, se lo faceva dire con sufficiente approssimazione da quelli che metteva alle strette, squadrandoli con fare minaccioso. Cribben era grosso, burbero, testardo e pignolo. Lo stipendio dell'Ufficio regionale se lo guadagnava proprio. Non accettò mai un «no» in risposta, e neppure un «non so». A Bear City si fece odiare così in fretta come non c'era riuscito nessuno prima di lui; e ripagò i nemici con condiscendente disprezzo. Il suo successo fu la conseguenza, in parte, del relativo controllo su di sé: alle persone che affrontava dava l'impressione di frenarsi a stento, di essere lì lì per diventare preda di una rabbia indomabile; pareva un uomo stordito che vacilla su un tronco in mezzo alla corrente di un fiume in piena. Era di una freddezza crudele, sempre - non dava mai in escandescenze, aveva sempre l'aria di trattenersi a fatica. Quale bruto avrebbe avuto l'indifferenza, o la temerarietà, di farlo esplodere? Era più sicuro rispondere alle sue domande e sopportare la sua curiosità. In una fangosa primavera, Cribben condusse la sua automobile di servizio sulle piste irregolari della contea di Pottawattomie, per scovare ogni pascolo e ogni capanna, ogni indiano che avesse occupato abusivamente un terreno, ogni vecchia coppia di miserabili nascosti nei boschi di cedri, ogni vedova che potesse vantarsi di una mucca e di un po' di galline. Venivano numerati, tutti numerati. Quella primavera, c'erano tanti uccelli a Pottawattomie, e alcuni lillà erano fioriti presto, ma Cribben non li degnò di un'occhiata, perché non dovevano essere contati. Non aveva un minimo di immaginazione. Dopo sei giorni così, aveva concluso il suo compito, tranne che per la Sterpaglia. Di tutta Pottawattomie, Bear City era l'osso duro per il censimento speciale, e la Sterpaglia era l'osso duro nella zona attorno a Bear City. Chi viveva nella Sterpaglia, quell'altopiano sterile, eroso dall'acqua e ricoperto dalla boscaglia? È difficile a dirsi. Una mezza dozzina di piccole famiglie, forse di più - gente che si vedeva di rado e di cui ancor meno si parlava, perfino a Bear City. Non aveva soldi per gli sprechi di una città, la gente della Sterpaglia - nessuno di loro, perlomeno, tranne i Gholson; e nessuno aveva mai sentito che un Gholson tirasse fuori un dollaro dal suo borsellino vecchio e sporco per qualcosa che non fosse un sacchetto di zucchero o una bottiglia di schifosissimo whisky. Di soldi i Gholson dovevano averne - se c'erano soldi a Pottawattomie - ma gli restavano appiccicati addosso. Al sabato pomeriggio, una settimana dopo il suo arrivo in paese, Crib-
ben entrò nell'ufficio postale, soddisfatto di sé e infangato. Matt Heddle era lì, e anche Love, che lavorava al garage, ed era già allegro per le libagioni della mattinata. «Stamani ho cominciato con la Sterpaglia, Heddle» disse Cribben con solennità. «Facile come inciampare in una buca. Ho finito con i Robinson e gli Hendry. Ci sono otto bambini dai Robinson, sporchi come vermi.» Diede un'occhiata alla sua mappa. «Domani, allora, comincerò da questo posto chiamato il Mulino della Sterpaglia. La strada ci arriva sì e no. È proprio su un fiumiciattolo, l'Owens. Cosa sa del Mulino, Heddle?» Additò, con il suo robusto e inflessibile indice, un punto della mappa. Il signor Matt Heddle era un brav'uomo, ma non aveva simpatia per Cribben. La gente di Pottawattomie diceva che il signor Heddle era istruito, il che a Pottawattomie significa che un uomo ha tre edizioni dei romanzi di Marie Corelli e due di quelli di Hall Caine, e nel caso di Heddle non si sbagliava di molto. La fame di sapere lo aveva afferrato come accade talvolta a certi uomini patetici che hanno superato la giovinezza, e la sua devozione ai migliori romanzieri dell'Ottocento, unita a un certo acume innato, lo aveva reso assai perspicace. Data la sua indole incorreggibilmente mite, guardò verso il feroce Cribben e gli parve di scorgere in quel volto intollerante la devastazione della solitudine e del dubbio, cosa che l'ispettore speciale non avrebbe mai potuto confessare a se stesso per paura della disperazione. Osservando Cribben, gli disse: «Lasci perdere, signor Cribben. Sono un branco di ignoranti, i Gholson; sono i padroni del Mulino. Lasci perdere. Affonderà nel fango fino alle ginocchia lassù. Controlli gli ettari al catasto e quanto pagano di tasse, e lasci perdere il resto. Ha fatto un gran bel lavoro; nessuno avrebbe potuto pretendere di più» «All'Ufficio regionale non lasciamo perdere le cose» disse Cribben con fare austero. «Ho già guardato al catasto: la proprietà dei Gholson è di duecentodieci ettari. Ma voglio sapere a quale Gholson appartiene la terra.» Matt Heddle cominciò a parlare, esitò, guardò con un'espressione pensosa verso Cribben e quindi disse: «È Will Gholson che paga le tasse». Love, che se ne era rimasto appoggiato alla cassa con un sorriso da saputello sulla faccia, diede una sorsata di whisky e commentò all'improvviso: «Stregaccia e cagnaccia, cagnaccia e stregaccia. Ah! Ha intenzione di mettere lei nel censimento?». «Dave Love, questo non è l'Elite, è l'ufficio postale» disse il signor Hed-
dle con modi gentili. «Qui dentro cerchiamo di comportarci come si deve.» «Sì, Will Gholson paga le tasse» annuì Cribben «ma la terra non è intestata a lui. Il registro delle tasse dice "signora Gholson", solo questo. Non c'è nome di battesimo. Sono così incompetenti i vostri esattori?» «La vecchia Gholson, cagnaccia Gholson, stregaccia Gholson» canticchiava Love. «Ha intenzione di mettere lei nel censimento? È morta e stramorta.» «La madre di Will Gholson, magari, o sua nonna... ecco a chi si riferisce il registro» mormorò Heddle. «Nessuno conosce davvero i Gholson. Non è il genere di persone che si conoscono. Sono un branco di ignoranti; meglio tenersi alla larga. Lei era vecchia, vecchia. L'ho vista morta. Qualcuno di noi andò su per il funerale - l'unica volta che siamo entrati in casa loro. Bisognava andarci per rispetto.» «Per rispetto un corno!» disse Love. «Avevamo strizza a non andarci, così stanno le cose. Nessuno con un briciolo di cervello prende i Gholson per il verso sbagliato.» «Strizza?» sogghignò beffardamente Cribben rivolto a Love. «Sissignore! Era una maledetta strega, e tutta la famiglia è un po' stramba. Un nome di battesimo la vecchia signora Gholson? Al diavolo, qualcuno ha mai sentito di una strega che ha un nome di battesimo?» «Oggi hai cominciato a sbronzarti troppo presto» disse Cribben. Love sbuffò, sogghignò e cominciò a giocherellare con una penna dell'ufficio postale. «Che razza di esattore avete, Heddle, che non toglie il nome di una morta dal registro?» «Be', forse i Gholson volevano lasciarcelo» sospirò Heddle con tono conciliante. «Se ne fecero di chiacchiere! Nessuno vuole immischiarsi con i Gholson. Cani che dormono, signor Cribben.» «Se proprio vuol saperlo» brontolò Love «lei, tanto per dire, malediceva le mucche. Le mucche di quelli che non le piacevano o di quelli che stavano troppo nei pressi. Ai Gholson non piace che i vicini stiano nei pressi.» «Che cosa volete darmi a bere?» Cribben diventò minacciosamente rosso all'idea di essere lo zimbello di uno scherzo: era la cosa che più temeva, intrepido com'era e senza un briciolo di umorismo. «Non sei obbligato a crederci, amico, ma le mucche si rinsecchivano, tutte alla stessa maniera. E a volte morivano. E se non era abbastanza, i Gholson spostavano gli steccati e i paletti di confine. Si allargavano. Adesso hanno la terra che in passato apparteneva a quattro o cinque fattorie.» La signora Heddle, che aveva ascoltato, attraversò il negozio per dire
con la sua voce timorosa: «Hanno spostato i paletti, signor Cribben... i Gholson. E i vicini non li hanno rimessi a posto. Erano istupiditi dalla paura». «Ci vuole più di una mucca malata per spaventare me, signora Heddle» disse Cribben, mentre il rossore gli spariva dalle guance. «Voi gente di qui non sapete muovervi. Cosa non va nelle vostre scuole, che la gente inghiotte questi bocconi? Come assumete i maestri?» «Il Mulino farebbe venire i brividi a un predicatore» disse Matt Heddle con fare pensoso. «Ha un aspetto... il mulino non c'è più, ma la grande vecchia casa è lì, malridotta, insieme agli altri edifici. John Wendover, il boscaiolo, la costruì quando quei terreni diventarono disponibili, ma i Gholson la comprarono dopo che il legname finì. Certi dicono che i Gholson sono del Missouri. Non so. Sono storie... Nessuno conosce i Gholson. Hanno un'altra fattoria giù nel vallone. Ci sono cinque Gholson uomini al momento, ma non so quante siano le donne. È Will Gholson che parla per tutti, e parla quanto un'ostrica.» «Con me parlerà» proclamò Cribben. Matt Heddle si sentì prendere da una sensazione di pietà. Sporgendosi oltre il bancone, mise la mano su quella di Cribben. Poca gente aveva mai fatto una cosa del genere, e Cribben, sbigottito, indietreggiò. «Adesso ascolti, signor Cribben, amico. Lei è un uomo di fegato, e sa il fatto suo; ma io sono vecchio, ed è da un po' che vivo qui. C'è gente che non va d'accordo con nessuno, signor Cribben. Ci ha mai pensato? Gente che non accetta di vivere come vuole lei o come voglio io. Ci ha mai pensato? Alcuni sono troppo buoni, altri troppo cattivi. Nella nostra epoca tutti finiscono col diventare uguali o quasi, e quelli che non ci stanno sono rari; ma ce ne sono ancora in giro. Alcuni sono strani, molto strani. Non possiamo contarli come se fossero un mucchietto di francobolli. Non possiamo cambiarli, non subito. Ma se ne stanno quasi tutti per loro conto; lasciamoli soli, e finiranno per strisciare in qualche tana, lontano dal sole. Che stiano pure; non fanno niente, se non si va a stuzzicarli. I Gholson sono così.» «La legge vale anche per loro come per tutti gli altri» ribatté Cribben. «Oh, la legge è stata fatta per lei, per me, per quelli come noi - non per loro, così come non è stata fatta per i serpenti. Finché lasciano in pace la legge, non si immischi, signor Cribben, non si immischi. Non fanno peggio di un vespaio in fondo a un frutteto, se non li si irrita.» Il signor Heddle era molto serio. «Stregaccia di cagnaccia e cagnaccia di stregaccia» cantava Love sarca-
sticamente. «Oh, Signore, come li ha stregati!» «Ecco lì Will Gholson che esce dall'Elite» bisbigliò dalla finestra la signora Heddle. Un uomo unto e corpulento, con impressionanti sopracciglia che alle estremità avevano dei ciuffi, si allontanava dal bar con una bottiglia in ciascuna delle tasche posteriori. Lurido com'era, non si capiva se avesse la barba lunga o se fosse rasato. Svoltò in direzione di un carro sistemato nei pressi dell'ufficio postale. «Un bel tipo» osservò Cribben, irritato da quegli ammonimenti, mentre il senso di sfida della sua indole stava per avere la meglio. «Faremo due chiacchiere.» Avanzò lungo la strada a grandi passi, con Matt Heddle che andava dietro di lui ansiosamente, e Love, per ultimo, che camminava barcollando. Gholson, accortosi di loro, si volse, smettendo di tirare i finimenti del cavallo. Senza dubbio era un tipo difficile; ma questo eccitava l'animo di Cribben. «Will Gholson» chiamò ad alta voce Cribben con il suo tono da capitano di artiglieria «ho qualche domanda da farle.» Lo guardò fissamente; poi Gholson sputò per terra. Le parole gli uscivano a fatica, un confuso borbottio, come chi lottasse con una lingua che non gli era congeniale. «Lei è quello dei conteggi?» «È esatto» rispose Cribben. «È lei il proprietario della fattoria, Gholson?» Un altro sguardo fisso, più lungo, e una sorta di lenta, triste smorfia. «Va' all'inferno» disse Gholson. «Lasciaci stare.» Qualcosa in quel personaggio sporco di terra, puzzolente di sudore, imboscato ai margini dell'umanità, provocò un moto di repulsione nell'animo di Cribben; la consapevolezza di quell'intima riluttanza attizzò la presunzione e, allungando un braccio poderoso, afferrò Gholson per il bavero della lacera tuta. «Per Dio, Gholson, domani verrò alla fattoria; voglio vederci chiaro. Avrò un mandato e farò quel che devo fare. Stia attento. Ho sentito dire che il Mulino è uno strano posto, Gholson. Stia attento che non lo faccia dichiarare inagibile.» Cribben era bianco per la rabbia, gridava come un ossesso e tremava, tanto era fuori di sé. Davanti a una tale collera, perfino la massa ottusa della faccia di Gholson perse la sua apatia, e Gholson se ne restò fermo nella presa di quell'uomo alto. «Signor Cribben, amico mio» diceva Heddle. Cribben ricordò dov'era e cosa stava facendo; lasciò andare la tuta di Gholson; ma mise il viso contratto vicino a quello di Gholson e ripeté: «Domani. Arriverò domani». «Domani è domenica» fu tutto quello che rispose Gholson.
«Sarò lì domani.» «Domenica non va bene» disse Gholson, quasi lamentosamente. Pareva che Cribben avesse accoltellato quella massa di carne e tirato fuori qualche scrupolo morale. «Sarò lì» gli disse Cribben con un'aria di feroce trionfo. Con cautela Gholson salì sul carro, prese in mano le redini ed esitò, quasi stesse raccogliendo le sue facoltà mentali in vista di un pesante sforzo. «Non lo faccia, signore.» Era un grugnito. «Un uomo che... un uomo che fa l'impiccione di domenica - be', si merita quel che si merita» concluse Gholson, e se ne andò. «Qualcosa che non va, signor Cribben?» domandò Heddle, perché Cribben si era lasciato scivolare sulla panca davanti all'ufficio postale e ansimava in modo convulso. «Prenda qui un goccio» disse Love con premura, porgendogli la bottiglia. Cribben prese un sorso di whisky, sospirò e si rilassò. Estrasse dalla tasca una busta e inghiottì una pillola con un'altra sorsata di whisky. «Cuore?» domandò Heddle. «Sì» rispose Cribben, con tutta l'umiltà di cui era capace. «Non è mai stato un granché. Non dovrei arrabbiarmi.» «Con quel cuore, non vorrà andare su al Mulino... no, non ci andrà» disse serio il direttore dell'ufficio postale. «È una stregaccia, Cribben.» Love gli stava addosso. «Mi ascolta, eh? Le dico che è una stregaccia.» «Love, stai calmo» gli disse il direttore. «Signor Cribben, se proprio vuole andare al Mulino, si porti dietro un paio dei ragazzi dello sceriffo.» Cribben aveva proprio avuto l'intenzione di farsi dare una scorta; ma adesso, maledizione!, se ne sarebbe andato da solo. «Andrò dal giudice per ottenere un mandato» rispose a mento alto. «Ecco quello che mi porterò dietro.» Heddle lo accompagnò fino alla pensione dove Cribben teneva l'automobile. Per tutta la strada non disse nulla, ma quando Cribben si fu messo al volante, si sporse dentro il finestrino con il suo faccione cordiale e benevolo. «A Pottawattomie ce ne sono di vecchie superstizioni, signor Cribben! Ma, sa com'è, quasi tutti vivono nella superstizione. Che altro possiamo fare? Non siamo così svegli per essere diversi. Dietro una superstizione qualcosa di vero c'è. Non so molto dei Gholson, ma dietro alle chiacchiere ci sono i fatti. In certe cose è meglio non immischiarsi.» A questo punto Cribben alzò il finestrino, scosse la testa, accese il moto-
re e se ne andò. Dopotutto, che cosa avrebbe potuto dire, pensò Matt Heddle. Cribben sarebbe andato al Mulino, probabilmente avrebbe preso nota di ogni cosa, avrebbe strapazzato Will Gholson e se ne sarebbe tornato indietro gonfio come un tacchino. Idee confuse... Se almeno qualcuno avesse messo una bella strizza nell'Intervistatore speciale. Ma questo era solo una fissazione da persona antiquata, e Cribben era un uomo tutt'altro che antiquato. Domenica mattina, Cribben risalì in automobile la strada che porta alla Sterpaglia. In tasca aveva una serie completa di moduli e un mandato; Cribben non si portò dietro la pistola, pensando che il suo caratteraccio fosse più pericoloso dei rischi rappresentati dai Gholson. Oltrepassati casupole abbandonate e scheletri di case con il tetto crollato, oltrepassato un pigro fiumiciattolo ostruito da vecchi tronchi, oltrepassate miglia e miglia di terreno boschivo con alberelli che ricrescevano qua e là, Cribben andava avanti. Era una campagna deserta, con neanche un terzo degli abitanti che aveva avuto quindici anni prima, e a quell'ora non c'era in giro nessuno. Nella Sterpaglia non esistevano staccionate di filo metallico; sul margine della strada, per tenerne fuori le mucche, erano ammassati, l'uno sopra l'altro, enormi ceppi, sradicati dai campi con le radici spezzate puntate verso il cielo vuoto. Efficaci simboli di quella regione disboscata erano le staccionate fatte con ceppi spezzati e morti; ma Cribben non aveva tempo per le fantasie. Prima delle dieci stava già incoraggiando la sua automobile a superare quello che restava di una strada di ceppi che si snodava sullo Stagno Lungo; in primavera trenta centimetri di acqua stagnante sommergevano la carreggiata. Ma Cribben passò senza contrattempi, e si trovò in qualche difficoltà solo un po' più avanti, in una zona di terreno umido in mezzo a due proditorie colline di sabbia. La macchina non aveva la trazione posteriore; infuriato, lasciò girare le ruote finché non fece affondare la macchina fino all'asse; allora, calmandosi, proseguì a piedi. Avrebbe chiesto a Love di tirar fuori l'automobile; sarebbe dovuto tornare in paese a piedi, o trovare un telefono da qualche parte, una volta finite le sue faccende. Aveva promesso di presentarsi al Mulino quella mattina, e ci sarebbe stato. Si trovava già a meno di un chilometro e mezzo dalla fattoria. Il sentiero bagnato, che una volta era stato una strada per i boscaioli, lo avrebbe portato dai Gholson, magari costringendolo a fare un giro dell'oca. Ma, consultando la sua mappa, Cribben vide che, procedendo attraverso una distesa di bosco fitto e giovane, avrebbe potuto - con un po' di fortuna
- risparmiarsi un quarto d'ora di camminata. E così imboccò una salita regolare, lasciandosi sulla destra le rovine di una piccola fattoria con i suoi alti abbaini, abbandonata da non molti anni. "Ai Gholson non piace che i vicini stiano nei pressi." Querce, aceri e faggi, ecco il bosco, e sotto i piedi le foglie bagnate di tanti autunni e fra queste spuntavano funghi spugnosi, bianchi come conchiglie. L'acqua gocciolava dagli alberi su Cribben, rigandogli il corto soprabito. Era un bosco tranquillo, molto tranquillo; lo attraversavano le vestigia morenti di un sentiero. Sulla cresta di un crinale il sentiero lo condusse a uno steccato di grossi ceppi. Oltre, c'era un pascolo, disboscato con un'accuratezza eccezionale per quella campagna; e oltre il pascolo, il terreno si abbassava fino a un rapido ruscello, quindi risaliva di nuovo fino a un poggio ripido proprio davanti a lui; e sul poggio c'era il Mulino, a neanche mezzo chilometro di distanza. Tutto intorno alla casa si stendevano i campi dei Gholson, l'opera di anni di enormi fatiche. Quale forza aveva guidato quegli uomini ottusi a simili gesta di vanagloria agricola? Era infatti una splendida fattoria: ogni pendio pericoloso era amorevolmente rafforzato con speroni e cintato per proteggerlo dalle piogge; i massi erano accuratamente accatastati vicino all'ansa del ruscello; le erbacce erano state tutte estirpate. La grande casa quadrata - che era sempre stata di una semplice severità e ora aveva un aspetto desolato a causa delle assi annerite da cui la vernice si era scrostata già da molto tempo - controllava la distesa ondulata dei terreni circostanti. Un'ala bassa, che senza dubbio ospitava cucina e legnaia, era collegata alla facciata settentrionale del vecchio edificio, che pareva avere un'indefinibile mutilazione. Allora Cribben capì in che modo la casa era stata oltraggiata: era quasi cieca. Tutte le finestre sopra il piano terreno erano state accuratamente coperte con assi - non semplicemente coperte, ma i telai delle finestre erano stati tolti e le aperture erano state tappate con assi di legno. Era come se la casa fosse caduta prigioniera dei Gholson, e sedesse, come Sansone, con gli occhi bendati per la vergogna. Di tutto questo si accorse con un solo sguardo; alla seconda occhiata non scorse anima viva da nessuna parte - nemmeno un cane, nemmeno una mucca. Ma uno dei pallidi ceppi ebbe un fremito. Cribben trasalì. No, non era un ceppo: era qualcuno accovacciato accanto allo steccato di ceppi, chino su una radice spezzata, intento a guardare non lui ma la casa. Era una ragazza, scalza, a pochi metri da lui, con un abito di cotone grezzo stampato. Avrà avuto quindici o sedici anni, ed era
davvero brutta, i capelli aggrovigliati; non era quella la campagna in cui potesse sbocciare una rosa selvatica. Non si era accorta di lui. Pur sgraziato com'era, Cribben aveva passato un bel po' di tempo all'aria aperta, ed era capace di muoversi in assoluto silenzio. Avvicinatosi pian piano alla ragazza, disse con un tono che voleva essere cortese: «Allora?». Ah, che razza di urlo le uscì di bocca! La ragazza - un sorriso stentato e compiaciuto le aleggiava sulle labbra - era stata intenta a osservare la facciata cipca del Mulino con tale intensità che le parole di Cribben dovettero sembrarle la voce dal roveto ardente; si girò di scatto e gridò, mentre dal suo viso si dileguava ogni barlume di intelligenza, finché non cominciò a capire che si trattava solo di uno sconosciuto vicino a lei. Benché Cribben non fosse una persona sensibile, quell'accesso parossistico di terrore lo toccò fin quasi alla pietà; prese dolcemente per le spalle la ragazza dicendole: «Va tutto bene. Mi accompagni fino alla casa?». Fece per condurla giù lungo il pendio. A questo punto l'ondata di paura fluì di nuovo sui lineamenti della ragazza che aveva i tratti tipici dei Gholson; si liberò dalla sua stretta e cominciò a bestemmiare verso di lui. Cribben - una vena di perbenismo era insita nella sua indole - restò scandalizzato: la ragazza imprecava istericamente contro di lui con frasi abiette, quasi inarticolate, ma che comprendevano tutto il repertorio delle solite oscenità contadine. Lo respinse e saltò di scatto nel folto del bosco. In quei vasti campi non si muoveva una foglia. Non si alzava il fumo dalla cucina, nel cortile non si sentiva il chiocciare delle galline. Sopra la sua testa un corvo sbatté leggermente le ali, estraneo a quel luogo quanto lo era Cribben; sembrava che intorno al Mulino non esistesse altra forma di vita. Se Will Gholson fosse stato abbastanza pazzo da affacciarsi a una finestra imbracciando un fucile, Cribben sarebbe stato un bersaglio impossibile da mancare, se ne rendeva conto. Ma da dietro le persiane non venne alcun movimento, e Cribben poté fare il giro della casa illeso fino alla porta della cucina. Un attimo di indugio e un'occhiata suggerirono a Cribben che gli animali se ne erano andati tutti, fino all'ultima gallina e all'ultimo gatto. Li avevano portati giù alla fattoria più a valle, per ostacolarlo e ritardare il suo lavoro? Sembrava che anche i Gholson se ne fossero andati tutti. Bussò alla malconcia porta della cucina: solo echi. Non era chiusa; avendo in tasca il mandato, entrò. Se Will Gholson fosse stato dentro, lo avrebbe tirato fuori. Quattro piccole stanze basse - una cucina, un rozzo salotto, un paio di
camere da letto a soqquadro - formavano l'ala della casa e recavano tutti i segni di una fuga frettolosa. Una massiccia porta scorrevole separava il salotto dal corpo quadrato e più vecchio dell'edificio, e la chiave era nella serratura. Be', valeva la pena di fare un tentativo. Cribben, aprendo la porta, guardò dentro: le persiane, nere e logore, erano chiuse e, al piano di sopra, le finestre erano sbarrate con le assi. Andò in cucina, prese una lampada a petrolio, la accese e tornò nelle stanze buie. Soffitti alti più di quattro metri in quei locali freddi, e i residui della prosperità d'epoca vittoriana nei divanetti ammuffiti e negli specchi dorati dalle cornici scrostate; e polvere, polvere. Un posto triste, silenzioso. Cribben, raccomandando ai suoi nervi di comportarsi bene, risalì lentamente l'elegante curva della massiccia scala, mentre il bianco intonaco del muro brillava alla luce della sua lampada. Polvere, polvere. Un largo corridoio e tre camere di dimensioni ridotte con le porte socchiuse, e in ciascuna un letto spoglio; e in fondo al corridoio, una porta che lo chiudeva. Contagiato dal silenzio, Cribben si appoggiò alla porta con cautela cosicché, mentre la apriva, lo scricchiolio dei cardini fu appena percettibile. Tenendo la lampada sopra la testa, entrò. Un cassettone con il piano d'appoggio di marmo, una bacinella da toeletta ricoperta da uno strato di sudiciume, un meraviglioso armadio di quercia - e un incredibile letto vittoriano di palissandro, intagliato e decorato, la cui torreggiante testata proiettava un'ombra sulle lenzuola che coprivano il materasso. Le lenzuola c'erano; e formavano una gobba che aveva la forma di qualcuno rannicchiato sotto. «Su, vieni fuori» disse Cribben, sentendosi la gola arida. Nessuno rispose, e allora tirò indietro le coperte. Ebbe mezzo secondo per sgranare gli occhi prima di lasciar cadere la lampada, mandandola in pezzi. Vecchia, vecchia - quanto vecchia? Era stata di una grassezza spaventosa, riuscì a osservare in quel momento raggelante, ma adesso le malefiche rughe pendevano in pieghe orribili. Orrore! E ancora, malgrado tutto, quel dispotico labbro penduto, quella mascella che sporgeva - capì allora da dove proveniva l'autorità che aveva terrazzato il Mulino e se ne era preso cura. Le palpebre erano abbassate. Ci fu tempo soltanto per cogliere questi particolari prima che la lampada si fracassasse. Ah, perché non l'avevano sepolta? Era morta, morta da molto tempo, morta da parecchie primavere. Senza più luce, Cribben restò rigido, con le dita schiacciate contro le cosce. Gli venne in mente, assurdamente, un'immagine dimenticata della sua infanzia, una stampa a colori nel libro Re Artù: "Lancillotto nella cappella
del mago morto", con il cavaliere che alzava il lembo di un sudario. Mentre quell'immagine svaniva, Cribben diceva a se stesso, senza muoversi, in silenzio ma più e più volte: "La vecchia Gholson, stregaccia, cagnaccia", come se fosse la formula di un incantesimo. Quindi andò a tastoni alla ricerca dell'invisibile porta, ma inciampò nel reticolo protettivo in metallo della lampada spezzata. Nell'oscurità la mente gioca brutti tiri; Cribben sentì di perdere l'equilibrio e capì con orrore che stava per cadere lungo disteso sul letto. Cadde pesantemente sulle lenzuola e rimase immobile, paralizzato dalla repulsione. Quindi si rese conto che sotto di lui non giaceva nessuno. La repulsione si tramutò in un'impellente ansia, e Cribben fece scivolare rapidamente le mani sulle coperte, nella disperata speranza di essersi sbagliato. Ma non era così. Nel letto non c'era alcun corpo oltre al suo. Rannicchiandosi come un cagnone goffo, si accovacciò contro il bordo della testata del letto, mentre sbatteva le palpebre alla ricerca di uno spiraglio di luce che gli mostrasse non importa che cosa. Aveva lasciato la porta socchiusa, e attraverso la soglia guizzò il più tenue dei tenui scintillìi, la vana speranza del sole che splendeva fuori. Adesso che gli occhi di Cribben erano stati per un po' di tempo nella camera, potevano distinguere quello che si stagliava nel vano della porta: il dorso di una poltrona, lo spigolo della porta stessa, la maniglia. E qualcosa si profilò: un naso imperioso, un labbro pendulo, una grande mascella. Tanto bastò, prima che il cuore di Cribben manifestasse la sua ultima, sussultante protesta. Dorothy Kate Haynes Una distesa di lapidi (A Horizon Of Obelisks, 1981) Dorothy Kathe Haynes (1918-1989) nacque e visse a Lanark per tutta la vita, tranne quattro anni trascorsi in un orfanotrofio, un'esperienza descritta nella sua autobiografia, Haste Ye Back. I racconti brevi vennero raccolti in due libri, Thou Shalt Not Suffer a Witch (illustrato da Mervyn Peake) e Peacocks and Pagodas, con qualche sovrapposizione di titoli. I suoi racconti, arguti o macabri che siano, hanno un autentico sapore celtico. Aprirono la tomba di sera, scavando a fondo, oltre le radici dell'erba e le
radici di filamenti sottili aggrovigliati nel terriccio come capelli. L'uomo nella tomba sentì il freddo che sempre precede l'alba. Scalpiccio di passi sul terreno, scricchiolio di rami spezzati, e poi egli si rattrappì mentre l'aria lo incalzava. "Freddo" pensò "fin dentro le ossa"; e cominciò a muovere le ossa, ormai sconnesse, sotto la carne che sapeva essere lì. "Freddo" pensò. Strinse le braccia intorno a sé; c'era un'umidità di rugiada, e provava un senso di debolezza. Ricordava la debolezza, la luce che lentamente si affievoliva e uno strano puntino luminoso che si protraeva, quando ormai lo avevano già lavato, fasciato e si erano inginocchiati vicino a lui. Adesso la luce aumentava di nuovo; si levò a tentoni e si distese per terra come un uccello appena nato, in attesa del giorno per asciugarsi. Il sole sorse con un brillante color rame, e l'angelo sulla cupola della cappella mortuaria si lisciò le ali e le ripiegò quasi fossero chele. Debolmente l'uomo discese lungo il sentiero, ora verso sinistra ora verso destra, alla ricerca dell'uscita. Sembrava che gli ci volesse molto tempo. Quello che ricordava del cimitero risaliva alla sua infanzia, giornate calde fra le lapidi e le margherite, sua madre che lo guardava e sorrideva sull'erba vicino a un cipresso. Gli era sempre piaciuto andare al cimitero. Cielo, aveva pensato, sarebbe stato proprio così - l'erba ben curata, splendide aiuole di fiori, una distesa di lapidi e gli angeli. Forse era questo il paradiso...? Accettò il fatto di essere morto, ricordando la vita che si era rimpicciolita come la cruna di un ago ed era svanita. E allora la Resurrezione? Se l'era sempre immaginata come un gran frullio d'ali e un impetuoso volo di anime che tutte insieme gridavano e svanivano nel sole, ma non si erano sentite le trombe lacerare l'aria, e nulla si era levato dai verdi tumuli. L'angelo sulla cappella mortuaria era rigido contro il cielo immenso; intorno a sé egli non percepiva nulla di celestiale. Nella sua mente si figurava come era stato una volta, un uomo rozzo, rossiccio, con pantaloni da lavoro, una lanugine fulva sulla calvizie. Si passò la mano sugli occhi e si guardò distrattamente intorno. Nel gelo che lo aveva accompagnato durante il risveglio, aveva sentito belati, muggiti e il confuso chiocciare delle galline, e si ricordò come una volta gli fosse stato di conforto sapere che, da morto, sarebbe stato in mezzo ai suoni del mercato del bestiame. Era lì che aveva lavorato; ma quanto tempo fa, non riusciva a ricordarlo. Ecco l'uscita, un piccolo arco nel muro grigio. Si guardò sopra le spalle, come se dovesse chiedere un permesso, ma nessuno lo fermò mentre posava la mano sul chiavistello; non fu trafitto da scintillanti spade di fuoco insanguinate. Uscì appoggiando il piede sul pavimento rosato, e con passo
debole e mansueto superò la casetta del becchino, dirigendosi verso l'asfalto bluastro della strada. Era ancora presto, il sole era basso; se ne andava con il passo pesante e deciso del bambino che si dirige verso casa. Il campo giochi della scuola era inondato di sole, e le finestre gotiche dell'edificio che guardavano in quella direzione erano aperte. Entro le dieci in quel luogo sarebbero echeggiate, come in una chiesa, le cantilene delle tavole pitagoriche, ma ora c'era soltanto il bidello, che fischiettava, con berretto a visiera e uniforme. In fondo alla collina, dove la strada si stringeva, il macellaio ripuliva il pavimento. Camminava all'indietro, vestito di bianco e blu come un marinaio, sulla segatura dorata; l'uomo si fermò, interessato senza una ragione precisa; ma provava anche un senso di inquietudine, nella morte che lo circondava; il grande toro che pendeva in catene, le teste di pecora, le ossa rosa sui grandi piatti - non sapeva dire se si sentisse turbato per l'affinità con gli animali morti, oppure per la pietà. Velocemente si allontanò dalla strada ombrosa spostandosi dove la luce del sole rigava il marciapiede. Che ora era? L'orologio brillava dorato, e la banderuola era piccola come un'ape dorata. Era talmente in alto che dovette piegarsi all'indietro, con gli occhi che si strizzavano il più possibile risalendo lungo la pietra scolorita, oltre i fregi del campanile e le chiazze bianche della pania. Le sette e mezzo. Le nuvole correvano e gli davano le vertigini; gli occhi gli si oscurarono e abbassarono lo sguardo a terra. La strada era deserta, vuota e ridente in tutta la sua orgogliosa distesa; ma gli uccelli erano indaffarati, passerotti bruni e colombe color ardesia che mangiavano e svolazzavano insieme. L'uomo scese verso le squallide case che sorgevano dietro la chiesa. Si controllava così come controlla il dolore un bambino ferito finché non arriva a casa. Lì, i marciapiedi mostravano gli scarabocchi dei giochi del giorno prima; davanti alla soglia delle case i gradini erano consumati nel mezzo. Si fermò in una zona recintata, e se ne restò in ascolto nell'ombra scura. Più in là, sulle scale, sentì sbattere la porta di casa sua, e capì che una bianca scaglia di intonaco si era staccata dalla cappa del caminetto a gas. Gli erano familiari le crepe dell'intonaco, le finestre polverose dei pianerottoli, i tubi del gas che si diramavano dal muro. Quando sua madre fosse venuta alla porta, si sarebbe aggrappato a lei, si sarebbe lasciato andare, avrebbe posato la testa sul suo grembo, si sarebbe avvinghiato alla sua gonna, e avrebbe pianto, pianto, sarebbe rimasto con lei per sempre... Il batacchio aveva la forma di un gatto di ottone con un sorrisetto e un farfallino al collo, ma egli picchiò, con due dita, sulla cassetta della posta.
Nessuno rispose. Si mise a battere più forte, restando in attesa di un rumore di passi dall'interno, e quindi se ne andò. Non voleva disturbare i vicini, non voleva che uscissero con i loro berretti e grembiuloni, sfregando i pomelli delle maniglie mentre sbirciavano. Scese di nuovo le scale, si mise a cercare in cortile, nella lavanderia della casa. Forse sua madre era indaffarata a riempire il secchio del carbone o a vuotare la cenere o a sbattere i tappeti. Gli appariva in mente con tale chiarezza che avrebbe potuto quasi toccarla; ma lei non era lì, e proseguì con il cuore gonfio di amore e di ansia. Si trascinò qua e là, sperando di incontrarla nelle strade. I negozi tiravano fuori le tende avvolgibili, ed egli vagabondò su e giù, memore di altre giornate come quella, della gioia che gli avevano dato, tanto tempo prima. Nessuno gli rivolgeva la parola, e lui non guardava in faccia nessuno. I particolari che andavano ad aggiungersi all'agitazione della sua mente erano quei piccoli piaceri che sua madre gli aveva mostrato, cose segrete: il vetro d'ambra della maniglia di una porta, un solco di luce in un negozio di frutta, una stradina dai ciottoli lisci e levigati dall'acqua del mare; ma si trovava in un vicolo cieco, come un bambino che marinava la scuola... Marinare... che cosa? Non voleva pensarci. La scuola si svuotava, le strade si riempivano del rumore delle grida e dello scalpiccio dei piedi che correvano. I caffè della città erano strapieni, e da lì venivano effluvi che sapevano di carne, di brodo e di crema; e poi venne il pomeriggio. L'orologio della stazione continuava a essere un eterno simbolo; i segnali scattavano, i treni si mettevano in moto; e oltre il muro della stazione e l'abbeveratoio dei cavalli passavano i bambini dell'orfanotrofio, in fila per quattro, con una suora di Carità che li seguiva. Gli stivali le sollevavano il bordo della lunga gonna blu, e il bianco cappello svolazzante assomigliava a una calla. L'uomo voleva parlarle, perché le suore erano donne buone che aiutavano chi si rivolgeva a loro, ma non era in grado di spiegare che cosa lo affliggesse. Il tempo gli sfuggiva, così come la memoria di quello che era accaduto dopo quel presente che si ripeteva. Non riusciva a pensare al di là di quella giornata, con la polvere che soffiava, i contadini che si spintonavano nelle strade le scure mandrie di bestiame con le corna basse, il suono delle sferzate. Non sapeva quello che sarebbe accaduto il momento successivo, ma quando accadde, fu come se qualcuno avesse dato uno scossone alla sua memoria. In un giorno come quello, sua madre lo aveva portato in gelateria, e nella fresca oscurità avevano sorbito il gelato in tazzine di vetro. Fuori, un mendicante aveva soffiato nella sua fisarmonica,
tenendo una sporca cappellata di monetine nel rigagnolo - ed ecco il mendicante, con la testa grigia e sudicia, le mani intrise di sporcizia. «No» aveva detto sua madre non appena lui l'aveva presa per la manica «no, li spenderà tutti per bere», e lo aveva distolto da quella musica lamentosa e dallo sguardo dell'uomo che li seguiva. Gli orfanelli adesso se ne erano andati oltre il portone della cappella, e l'uomo rimase, in un attimo di smarrimento, vicino al polveroso abbeveratoio dei cavalli. La strada si riempiva di un tappeto di velli lanosi e fulvi; una macchina avanzava lentamente dietro di loro, e un'altra e un'altra ancora, tutte nere. Irrigidendosi, l'uomo rimase fermo, guardando il funerale. Anche questo era successo, molto tempo prima. Lui e sua madre erano rimasti sul bordo del marciapiede, senza guardare ma percependo tutto, con la lunga bara nel carro funebre di vetro, le ghirlande di fiori colorati come l'arcobaleno, il corteo della gente in lutto con la faccia gonfia di pianto, senza guardare fuori dal finestrino per non rischiare di trovare piacere durante il percorso in macchina. Aveva dovuto togliersi il cappello... con un gesto rigido; levò la mano, ma le macchine avevano svoltato l'angolo vicino al mercato. Non poteva seguirli. Sua madre non si era mai intromessa quando era in corso un funerale, ma più tardi, una volta finito, si sarebbero avvicinati silenziosamente e avrebbero guardato nelle corone, leggendo, in mezzo ai petali, i cartoncini con il bordo nero. Con fare incerto, come se dovesse far passare il tempo, percorse la strada che conduceva al mercato. Presto le vendite sarebbero finite, i campanacci sarebbero rimasti in silenzio, i recinti del bestiame vuoti, e i bambini sarebbero corsi fuori, negli spazi lasciati liberi, raccogliendo penne e manciate di piume bianche. Il pomeriggio declinava in un incanto che svaniva a poco a poco. Una mucca solitaria faceva risuonare il fienile del suo muggito; alcuni uomini con scope rigide spazzavano l'acciottolato. Non c'era nessuno che conoscesse; nessuno si tratteneva oltre l'orario. La giornata era quasi alla fine, e tutti volevano smettere e andarsene a casa per la cena. Timidamente si passò una mano sulla faccia. La giornata, quella giornata così speciale, stava finendo anche per lui. I lavoratori se ne sarebbero tornati, ciascuno, alla propria casa, si sarebbero lavati sotto il rubinetto, e si sarebbero seduti a tavola vicino a una donna che li aspettava; ma lui non poteva tornare indietro a quella vita. Doveva ancora finire di vivere la sua infanzia, e il passato si era condensato in poche ore luminose che adesso, lente e tristi, trascoloravano nella sera. La casa diventava buia; le barbabie-
tole con l'aceto inacidivano nei piatti, il bollitore fischiava mentre il fuoco si spegneva. E dopo che si fosse lavato e salito nel suo lettuccio, sentendo suo padre che si schiariva la gola e puliva la pipa picchiettandola, la campana del coprifuoco avrebbe battuto le ore, suonando e suonando, e lui avrebbe avuto voglia di piangere, pensando agli inni della sera. "Cambiamento e degrado in tutto quello che vedo attorno a me..." Ma avrebbe trattenuto il pianto perché sua madre, a quell'ora, sarebbe stata stanca e non avrebbe avuto pazienza con lui... Stanco, un poco sconcertato, si allontanò da quei ciottoli sporchi di sterco di mucca e dai mesti muggiti. Dalla parte opposta si trovavano i cancelli principali del cimitero, di ferro battuto sbalzato in oro, con una modesta porticina da un lato per coloro che entravano a piedi; e l'uomo entrò da quella porta, chiudendola dietro di sé come gli aveva insegnato sua madre, da bambino. "Deve essere come entrare in paradiso" aveva pensato; ma il paradiso di certo non era un luogo così malinconico. Non c'erano stati momenti di gioia nella sua giornata, niente che non fosse struggimento e sofferenza per il suo cuore. Se quello era il paradiso, allora sua madre sarebbe venuta senz'altro, nel freddo della sera, camminando vicino alla tomba, frugando in mezzo ai fiori con le sue dita infreddolite e inguantate... Cercò di leggere i cartoncini, ma i suoi occhi erano confusi, ed ebbe bisogno di parecchio tempo per rendersi conto che lei era stata sepolta lì, e che erano stati i suoi funerali che aveva visto nella scia del gregge di pecore. Non provava tristezza pensando al fatto che fosse morta. Avrebbe dormito come aveva fatto lui, sotto le radici e i piccoli ciottoli, ma se fosse stata volontà di Dio, non si sarebbe svegliata fino al giorno della Resurrezione. Pregò perché non si svegliasse. Lui stesso avrebbe dovuto continuare a dormire, ma il freddo mattutino lo aveva svegliato. Si sedette sulla panchina di ferro con scritto RISERVATO AI VISITATORI, e si rannicchiò, stringendo le braccia intorno a sé. Il dolore che provava era stato alleviato un poco, perché aveva capito. Aveva smesso di cercare; forse l'indomani, o uno dei grigi o dorati domani che lo attendevano, la tromba avrebbe suonato, le tombe si sarebbero spalancate e l'eternità sarebbe cominciata... o finita. Rimase seduto a lungo, dicendosi che non c'era nulla di cui avere paura. La mucca solitaria muggì lamentosa nel mercato; in lontananza un treno si trascinava dietro il proprio fischio. L'angelo sulla cupola della cappella mortuaria sbatté le ali contro il cielo verde, quindi le abbassò per dormire,
ma l'uomo sulla panchina non poteva dormire per il gelo. "Freddo" pensò. "Fin dentro le ossa..." Alison Prince Pazza (Loony, 1984) Alison Prince (1931), che intraprese studi artistici, tuttora illustra la maggior parte dei suoi numerosi libri per bambini. Le sue raccolte di storie del soprannaturale comprendono Haunted Children, The Ghost Within e A Haunting Refrain. Nell'ambito della produzione per adulti, il suo libro più recente è uno studio sulla creatività, The Necessary Goat. Negli ultimi anni la classica storia di fantasmi all'inglese ha conosciuto una fioritura nell'ambito della narrativa per ragazzi, grazie ad autori quali John Gordon, Robert Westall, Laurence Starg e Alison Prince (per non parlare della vena macabra e inquietante delle storie di Alan Garner e Diana Wynne Jones, tra gli altri). Quale esempio ho scelto "Pazza", originariamente pubblicato in un'antologia di narrativa per adolescenti. «Mamma» disse Cathy «a scuola Lucy Claythorpe racconta che nella casa comprata da papà ci tenevano chiusa una matta o, come dicevano, una lunatica. Anche le altre ragazze dicono la stessa cosa. La donna urlava, dicono, ma nessuno le faceva caso, perché erano tutti abituati. Le finestre della sua camera erano sbarrate per non lasciarla uscire, e alla fine lei morì, ma nessuno lo venne a sapere.» Era stato un sollievo svelare il segreto. Cathy era curiosa di sapere se la terribile storia fosse vera e, in tal caso, se i suoi genitori ne avessero sentito parlare. «Mia adorata bambina» disse la signora Palfrey «non dar retta ai pettegolezzi.» Era sempre bellissima, pensò Cathy. Bottoni di perle le serravano strettamente intorno alla gola l'alto collo della camicetta, ma non sembrava mai accaldata o agitata. Cathy, che spesso era entrambe le cose, la invidiava. «Tuo padre» continuò la signora Palfrey «ritiene che dovremmo avere una casa più adatta a un uomo come lui, ricco commerciante di ombrelli. Villa Blackstone ha una certa... una certa distinzione.» Cathy pensò a quella casa, in mezzo a un parco cinto dai tassi, al limitare
della città, addossata alla brughiera. Aveva finestre alte, abbaini aguzzi e un sentiero di pietra che conduceva alla porta d'ingresso. Era circondata da un muro, sormontato da una decorazione di punte acuminate in ferro battuto. Sorgeva isolata, non ficcata fra altre case come quella dove abitavano adesso. Ecco che cosa forse intendeva sua madre per "distinzione". Cathy sospirò. «In ogni caso» proseguì la signora Palfrey «la gente nutre superstizioni assurde su chi è semplice di mente. La parola stessa, lunatica, mostra una profonda ignoranza. Deriva dal latino luna. Perciò si pensa che lunatico voglia dire stregato dalla luna. Come se la luna c'entrasse qualcosa!» Scoppiò a ridere, poi il viso si ricompose nell'espressione di un lieve sorriso, imperturbabilmente assennato. «In questa famiglia nessuno è predisposto alla follia» disse. Impulsivamente Cathy gettò le braccia al collo della mamma e la baciò. Era così saggia e gentile - di lei ci si poteva fidare completamente. «Ecco, cocca mia» disse la signora Palfrey, sottraendosi tranquillamente all'abbraccio dopo aver ricambiato il bacio di Cathy. «Su, il tè è pronto in sala da pranzo.» Si alzò con un gesto aggraziato. «Tuo padre dice che dovremmo procurarci una governante-cuoca quando ci trasferiremo nella nuova casa» aggiunse. «Ma dubito che sia davvero necessario.» Cathy sorrise, seguendo sua madre mentre usciva dalla stanza. Ma certo che non era necessaria una domestica che cucinasse. Bella e saggia com'era, sua madre era anche una donna di casa di straordinaria efficienza. Una settimana dopo si trasferirono nella nuova casa. Le scuole erano chiuse per le vacanze estive, con sollievo di Cathy. Era stanca di Lucy Claythorpe che la scherniva dicendole: «Pazza! Sei pazza! Vivi nella casa dei matti!». Da persone come Lucy, cercava di dire a se stessa, non ci si può aspettare che capiscano qualcosa del latino luna. Non era colpa di Lucy se nutriva superstizioni assurde. Ma i suoi sberleffi le facevano male, e Cathy si augurava che, prima della ripresa della scuola, si sarebbe esaurita la novità dei Palfrey che erano andati a vivere a Villa Blackstone. Era molto tardi quando andò a letto. Risistemati nella nuova camera, i mobili avevano un aspetto strano; le tende non erano state ancora appese all'alta finestra i cui davanzali, aveva notato Cathy, portavano i segni di profondi fori per viti, a una distanza di circa dieci centimetri l'uno dall'altro. Sua madre li aveva sfiorati con le dita, mentre esaminava attentamente la carta da parati scolorita. «Rifaremo l'arredamento della camera» aveva
detto. «Ecru e avorio, credo. Molto leggero. Molto elegante.» Si chinò per dare un bacio a Cathy. «Buona notte, tesoro» disse «dormi bene.» Si alzò girandosi per spegnere il lume a gas che sibilava dolcemente sopra il letto di Cathy. «Non occorre che ti alzi molto presto domattina» aggiunse. La sua figura restava ancora distintamente riconoscibile al chiarore lunare che inondava la camera attraverso la finestra priva di tende. «Ti porterò una tazza di tè.» «Grazie» disse Cathy sorridendo. Quindi sua madre uscì. "Che sciocca a preoccuparmi" pensò Cathy mentre fissava il pallido volto della luna, non del tutto rotonda ma con un lato un po' piatto. Non c'era niente di malefico in quella casa. Le sbarre erano state tolte dalla finestra, e sarebbero presto scomparse le tracce delle ultime persone che erano vissute lì. La sola realtà è quello che sta accadendo qui e ora. E tutto va bene. Piena di fiducia, chiuse gli occhi, avvolta dai freddi raggi della luna, e si addormentò. «Ecco il tuo tè.» «Oh!» disse Cathy con voce assonnata. «Grazie.» Era pieno giorno. La donna che stava vicino al letto di Cathy con una tazza e un piattino in mano non era sua madre. Indossava un lungo grembiule bianco sopra un vestito nero, con le maniche sbottonate e arrotolate sulle braccia chiazzate. Dalla cuffia bianca spuntavano capelli ispidi e rossicci, e la faccia era raggrinzita in rughe di collera. Un'enorme voglia violacea si estendeva dall'occhio sinistro giù fino al mento. Cathy la fissò affascinata dall'orrore. «Muoviti» disse la donna con impazienza. «Tirati su e bevi il tè.» «Chi sei?» domandò Cathy. «Dov'è la mamma?» «Non cominciare con le tue stupidaggini» disse la donna. Depose la tazza di tè su un cassettone appoggiato al muro, quindi si girò nuovamente verso il letto. Senza dire altro, afferrò Cathy per le braccia e la mise a sedere, sistemando i cuscini dietro di lei. Cathy urlò per lo spavento e la donna le disse: «Urla quanto ti pare. Sono tutti abituati ormai ai tuoi strilli. Se fossi sana di mente, povera creatura, capiresti che è inutile». Si strinse nelle spalle, quindi riprese la tazza di tè e la cacciò in mano a Cathy. «Adesso bevi» le ordinò. «E non ti azzardare a far pasticci.» Cathy sorseggiò il tè. «È freddo» disse. La donna rise di gusto. «Non si può dare il tè caldo a una mentecatta» disse. «Non vogliamo che ti scotti, ti pare? Anche se mi domando perché no» aggiunse con amarezza.
Cathy bevve il tè freddo con un brivido, quindi spinse via le coperte. Sarebbe andata a cercare sua madre per chiederle di liberarla da quella persona. «E adesso dove credi di andare, signorina?» domandò la donna. Cathy cercò di sfuggirle, ma la donna la afferrò e la buttò violentemente sul letto. Questa volta Cathy urlò, più e più volte, a squarciagola, scalciando e dimenandosi mentre la donna la teneva schiacciata contro il letto, con le braccia immobilizzate sopra la testa. La porta si aprì, ed entrò un uomo. Cathy, dibattendosi, intravide fugacemente un paio di pantaloni scuri, un panciotto e una catena d'orologio, mentre l'uomo avanzava a grandi passi verso la testata del letto. Sentì la donna che abbandonava la presa per permettere all'uomo di infilarle una specie di indumento sopra la testa. Aveva maniche lunghe che parevano non aver fine, come notò Cathy quando la tirarono su in posizione seduta. Le maniche erano incrociate e legate sicché le braccia di Cathy erano tirate strettamente attraverso il petto. Quindi la lasciarono, spietatamente legata come un pacco. «Ecco il tuo tè» disse la madre di Cathy. «Oh!» disse Cathy con voce assonnata. «Grazie.» Era pieno giorno. «Ti senti meglio adesso?» domandò la signora Palfrey, senza sorridere. «Meglio?» domandò Cathy. Sorseggiò il tè. Era squisito e caldo. Chissà perché era contenta che fosse caldo. Il tè era sempre caldo. «Hai fatto un brutto sogno» disse la signora Palfrey. «Hai fatto un tale baccano questa notte che sono dovuta venire a vedere cosa stava succedendo. Ti sei alzata dal letto, ma non credo che fossi sveglia. Quando ho cercato di convincerti di ritornare a letto, ti sei divincolata e hai gridato come una pazza. Ho dovuto chiamare tuo padre.» Cathy aggrottò le sopracciglia con un vago senso di inquietudine. «Non ricordo» disse. «Credo di aver sognato una tazza di tè.» «Spero che non diventi un'abitudine» disse la signora Palfrey con una certa aria di disapprovazione. «Tuo padre non è stato affatto contento di essere stato svegliato in modo così brusco.» Il padre di Cathy aveva un aspetto imponente. Il taglio severo degli abiti, l'odore della pomata che portava sui capelli scuri e l'eco profonda della sua voce contribuivano a suscitare in Cathy un rispetto nei suoi confronti che sconfinava nella paura. «Sono davvero dispiaciuta» disse, sgomenta al pensiero di quello che doveva aver fatto.
«Non parliamone più» le concesse sua madre. Con un sorriso buono Cathy aggiunse: «Probabilmente è un effetto del trasloco. Stanotte le cose non saranno così strane». A letto, quella notte, Cathy fissò il pallido volto della luna, ormai un cerchio quasi perfetto, e si domandò che cosa ci fosse dall'altro lato del sonno. Che cosa era successo la scorsa notte per indurre i suoi genitori a guardarla oggi con aria così seria? E che cosa si acquattava nell'oscurità sconosciuta di un sogno? Tentò con tutte le sue forze di restare sveglia. «Ecco il tuo tè» disse la donna. Cathy aprì gli occhi e levò lo sguardo sulla voglia violacea della faccia. Questo era già successo. Le avevano detto che era stato un sogno. «No» disse. «Non è vero.» «Non cominciare con le tue stupidaggini» disse la donna. «Mettiti seduta.» Cathy sapeva di dover stare attenta. Con fare obbediente, si mise seduta. «Così va meglio» disse la donna. Cacciò la tazza di tè in mano a Cathy e disse: «Bevi». Cathy obbedì. La cosa era molto sgradevole. Opporsi era inutile, lo sapeva. Doveva essere buona e fare quello che le dicevano finché non fosse riuscita a spezzare quell'incubo e tornare alla vita reale. «Che cosa devo fare?» domandò docilmente. La donna rise. «Fare tu, povera mentecatta?» disse con tono sprezzante. «Cosa credi di poter fare? Vestiti, per cominciare, quindi vai a sederti sulla sedia vicino alla finestra. È così che farai, non è vero?» «Oh» disse Cathy «capisco. Grazie.» Porse la tazza vuota alla donna. «Sei in una delle tue giornate buone, eh?» disse la donna sarcasticamente. «E va bene, mia brava signorina, vedi se sei capace di vestirti da sola mentre porto la tazza in cucina. Sarò di ritorno tra un minuto per vedere che razza di pasticcio avrai combinato. Poi ti porterò in bagno.» Uscì, e Cathy sentì la chiave che girava nella serratura. Sulla sedia, vicino alla finestra, c'era una pila di abiti ripiegati. Si alzò e li esaminò: un rozzo vestito grigio, un paio di calze nere pesanti, una maglietta di flanella, un maglione fatto a mano, che un tempo era stato blu ma adesso era sporco e macchiato di tè. I buchi erano stati rammendati in qualche modo con lana di diverso tipo e colore. Sul pavimento, sotto la poltrona, c'era un paio di grosse scarpe nere con le stringhe.
Presa da una specie di fretta disperata, Cathy si sforzò di infilarsi i vestiti, non riuscendo a sopportare l'idea che la donna sarebbe potuta arrivare per aiutarla. Era tutto già abbastanza brutto senza che succedesse anche questo. Gettò uno sguardo sul giardino bagnato di rugiada, mentre si abbottonava l'abito, e si accorse che la finestra era protetta da sbarre verticali di ferro poste a circa dieci centimetri di distanza l'una dall'altra. "Sto sognando" si disse con forza, cercando di reprimere il panico. "Non devo preoccuparmi delle sbarre e neanche dei vestiti che ho addosso. È tutto un sogno. Presto finirà." Mentre voltava le spalle alla finestra, Cathy si passò una mano tra i capelli. Il pettine si sarebbe dovuto trovare sulla toeletta insieme alle spazzole dal dorso d'argento e allo specchio, ma in questa camera l'arredamento era diverso. Vide, appoggiato sopra il cassettone, uno specchio chiazzato qua e là e senza cornice; attraversò la stanza per guardarlo. La faccia che lo specchio le restituiva non era la sua. Cathy sentì che la bocca le si apriva in un grido di silenzioso orrore e, beffardamente, si aprì anche la bocca dell'immagine riflessa, mentre due labbra aride si schiudevano in un viso scarno e gli occhi cerchiati di rosso fissavano stolidamente un mondo privo di significato. I capelli tra le dita della mano rimasta a mezz'aria erano striati di grigio. Cathy si sentì invasa dall'orrore e provò la sensazione che le articolazioni fossero diventate fluide come l'acqua. Disperatamente si ripeté che si trattava soltanto di un sogno. Afferrò lo specchio e lo portò alla finestra con le sbarre dove, nella luce forte del mattino, fissò nuovamente l'immagine sconosciuta del riflesso. E, di nuovo, la faccia che le restituiva ansiosamente lo specchio era quella di una donna demente di mezza età. Con sua sorpresa, Cathy trovò in sé la freddezza per ragionare. Sveglio o dormiente, si disse, da qualche parte in quella casa doveva esserci il mondo reale con i suoi genitori addormentati nel loro vero letto. Non le restava che interrompere quell'incubo, per ristabilire il contatto con la normalità. Valutò attentamente. La donna con la voglia violacea era una specie di carceriera. Doveva distruggerla. Con una parte della sua mente Cathy respingeva violentemente il piano che stava architettando, ma ricordò a se stessa che il suo era soltanto un sogno. La faccia nello specchio lo provava. E quello che si fa in un sogno non è reale. Nessuno avrebbe potuto accusarla, perché gli avvenimenti non si verificavano per davvero. Con molta cura, Cathy mise lo specchio per terra, appoggiandolo alla
parete. Quindi si raddrizzò e lo prese a calci con le scarpe pesanti. Era assai difficile romperlo. Girò attorno allo specchio e tornò ad attaccarlo pestandolo sotto i piedi - e lo specchio si ruppe in frammenti di vetro aguzzi. Dimenticando che nel sogno non poteva ferirsi, Cathy si avvolse la mano nel maglione blu, prima di raccogliere una lunga scheggia. Sentiva il rumore dei passi che salivano le scale. Ritornò di corsa a letto e si rannicchiò sul fianco, con il pugnale di vetro avvolto nel maglione, tenendoselo stretto contro il petto come una bambola sottile e letale. La porta si aprì. «Se ha una crisi di violenza» stava dicendo la donna a qualcuno «dovremo essere in due per tenerla ferma. Sono sicura di aver sentito il rumore di qualcosa che andava in pezzi.» Cathy sperava che la camicia da notte, gettata sullo schienale della sedia, avrebbe nascosto le tracce del vetro rotto. Era strano come si sentiva calma. La mamma sarebbe stata fiera di lei, pensò. «E adesso, che cosa hai combinato?» domandò la donna, piegandosi sopra Cathy e scuotendola energicamente per le spalle. Con furia cieca Cathy la colpì con la scheggia di vetro. Incontrò la resistenza di una spessa manica e colpì più e più volte. In mezzo ai colpi e alle grida, si rese conto, con furore rabbioso e soddisfatto, che il sangue le colava dalla mano. Nel giro di un minuto sarebbe stata libera. Si sentivano alcune voci al pianterreno. Cathy aprì gli occhi e vide che era l'alba. Una luce grigia filtrava nella stanza e gli uccelli cinguettavano. Si drizzò a sedere nel letto. Perché chiacchieravano nel salotto sotto di lei, così presto al mattino? Notò una macchia scura sulla coperta imbottita del letto. La toccò e si accorse che era sangue. Lo spavento e il terrore invasero Cathy come una specie di fatale debolezza, e si appoggiò all'indietro contro i cuscini sentendosi mancare le forze. Che cosa era successo? Cercò di ritornare con la mente all'oscurità del sonno da cui si era appena svegliata, ma finì per sbattere contro un muro che resisteva agli assalti della memoria. Lentamente si alzò dal letto e si mise la vestaglia. Allora vide che lo specchio era in pezzi sul pavimento vicino alla finestra, con la cornice d'argento storta e rotta. Per poco non finì con un piede su una scheggia di vetro lunga e appuntita che si trovava vicino al letto. Presa da una nuova ondata di orrore, si strinse nella vestaglia e infilò i piedi nelle pantofole. Quindi attraversò la camera fino alla porta. Per qualche strana ragione fu contenta di vedere che la porta non era chiusa a chiave, e si chiese il perché del suo sollievo: la porta della sua camera da letto non era mai stata chiusa a chiave.
Cathy scese furtivamente le scale coperte dal tappeto e attraversò l'anticamera, dirigendosi verso la porta del salotto, rimasta socchiusa. Si accovacciò e si mise a sbirciare dalla fessura. Il dottor McClintock stava bendando il braccio del padre di Cathy. La signora Palfrey osservava attentamente, standosene ben ritta in poltrona. Si capiva che aveva dovuto vestirsi in gran fretta, e la massa sciolta dei capelli le cadeva quasi fino all'altezza della vita. Perfino in quel momento, Cathy pensò che aveva una chioma splendida. «Non credo che ci sia pericolo di una setticemia con tagli così netti» osservò il dottor McClintock con il suo piacevole accento scozzese. «Non di solito, perlomeno. Ma con quello che è già successo in questa casa, mi capite, ho la sensazione che occorra raddoppiare le precauzioni. Informatemi immediatamente se notate il minimo segnale di un principio di infezione.» Cathy vide che i suoi genitori si scambiavano un'occhiata. «Che cosa è successo in questa casa?» chiese il signor Palfrey mentre si sedeva con il braccio disteso per ricevere le cure del dottore. Un catino di acqua rossastra giaceva sul pavimento vicino alla sua poltrona. Le mani del dottor McClintock si fermarono improvvisamente. «Non lo sapete?» domandò il dottore intento a fasciare la ferita, alzando lo sguardo. «Oh, cielo! Stupidamente avevo dato per scontato che conosceste la storia, con tutti i pettegolezzi che circolano.» «Noi non facciamo pettegolezzi» disse con voce gelida la signora Palfrey. «Ma adesso che ha toccato l'argomento, dottore, credo che farebbe meglio a dirci che cosa intendeva dire.» Il viso paffuto del dottore si raggrinzì per l'angoscia. Legò la benda con gesto preciso e ne tagliò le estremità, quindi ripose le forbici nella borsa che gli stava accanto. Si appoggiò allo schienale della poltrona e sospirò. «Accadde qualche anno fa» disse. «Come saprete, la casa è rimasta vuota per un po'. La signora Knarr, la governante, una notte venne a bussare alla mia porta, dicendo che il vecchio signor Grayson si era fatto un brutto taglio al braccio e lei aveva paura che morisse dissanguato. Non ero io il medico curante del signor Grayson, mi capite, ma abitavo vicino, e si trattava di un caso urgente. E così la seguii fino a questa casa dove vidi» il dottore rise imbarazzato «un uomo con tagli molto simili ai suoi, signor Palfrey. Lei e sua moglie avete detto la verità - questo lo so - sull'attacco di pazzia, o chissà che altro, di vostra figlia. Dobbiamo decidere immediatamente che cosa fare in proposito.» Cathy, accovacciata vicino alla porta, respirò a fondo. Ma il dottore ave-
va ripreso a parlare. «Nel caso del signor Grayson, però, mi fu raccontata la storia poco credibile di una bottiglia di vino che si era rotta. Poi sopraggiunse la governante dalla cucina e, con grande imbarazzo del signor Grayson, spiegò per filo e per segno come il signor Grayson fosse caduto sul pavimento lucido e si fosse tagliato la mano contro il vetro di una finestra. Ebbi la netta sensazione che entrambi mentissero, e mi domandai perché. Spuntava l'alba quando lasciai la casa. Ero circa a metà del sentiero che porta verso il cancello, quando sentii un ululato che mi fece rizzare i capelli in testa.» «Un ululato?» domandò il signor Palfrey. Sedeva con la manica della vestaglia arrotolata sopra il braccio fasciato, stringendosi il polso con l'altra mano, quasi soffrisse molto. «L'ululato di un cane, intende dire?» «Non era un cane» disse il dottor McClintock. «Mi voltai per guardare verso la casa e là, nella luce incerta dell'alba, vidi una donna alla finestra della camera del piano superiore, proprio quella sopra di noi. Scuoteva le sbarre di protezione e ululava come una belva in gabbia. Non ebbi alcun dubbio che fosse stata lei a provocare le ferite al vecchio signor Grayson. Potevo capire come lui e la sua governante fossero ansiosi di non far sapere che per qualche momento quella creatura era sfuggita al loro controllo. Se fossi stato minimamente indiscreto, la cosa avrebbe avuto una risonanza pubblica notevole.» I signori Palfrey annuirono manifestando la loro comprensione, e Cathy, accovacciata dietro la porta in preda alla disperazione, si sentì scossa da brividi di terrore. «Comunque» continuò più rapidamente il dottore, come se fosse ansioso di concludere il suo spaventoso racconto «il braccio andò in cancrena, e naturalmente un uomo dell'età del signor Grayson non aveva una grande resistenza. Morì nel giro di poche settimane. Al mio posto subentrò il suo medico curante - con mio sollievo, ve lo posso assicurare. Ma il peggio del peggio doveva ancora succedere. La signora Knarr, come potete capire, non era mai stata una donna socievole. Probabilmente soffriva per la voglia sulla guancia sinistra che la sfigurava; fatto sta che viveva come una reclusa. Di conseguenza nessuno si sorprese di non vederla in giro dopo la morte del signor Grayson. Ma un giorno il postino bussò alla porta perché doveva consegnare una busta che era troppo larga per passare dalla fessura, e nessuno gli rispose. Allora sbirciò attraverso l'apertura della cassetta e vide una pila di lettere in disordine sullo zerbino e diede l'allarme. Alla fine la polizia buttò giù la porta e trovò la casa vuota. Quindi scoprirono
quella povera creatura demente che giaceva morta. Sembrava che fosse morta di fame. La governante aveva fatto i bagagli e se ne era andata, lasciando la sventurata prigioniera al suo destino.» La signora Palfrey sospirò e disse: «Che cosa orribile!». Suo marito domandò: «Nessuno denunciò la governante?». «Il destino ha provveduto a fare giustizia» disse il dottore. «La donna comprò una casa isolata nella brughiera con i soldi che aveva avuto dal signor Grayson - in modo non del tutto legale, posso dire - e visse lì sotto un altro nome. Ma la casa venne colpita da un fulmine durante una notte tempestosa, e la governante finì bruciata viva. Le successive indagini rivelarono la sua identità.» «E chi era la disgraziata creatura che viveva al piano di sopra?» domandò il signor Palfrey. «Una persona di famiglia, immagino.» «Era la figlia del signor Grayson» disse il dottore. «Credo che le volesse bene, a suo modo. Ma, invecchiando, finì col dipendere sempre più dalla governante. Sua moglie, da quanto ne so, era morta dando alla luce la bambina - e non è facile trovare domestici che abbiano voglia di prendersi cura di una matta lunatica.» Cathy fece irruzione nella stanza, abbandonando qualsiasi precauzione. «Non dire matta lunatica!» gridò scoppiando a piangere senza controllo. Le lacrime le rigavano le guance. Le parole beffarde di Lucy Claythorpe le erano tornate in mente rendendo l'incubo insopportabile. «Viene dal latino luna, lo ha detto la mamma.» I singhiozzi presero il sopravvento, e Cathy si gettò ai piedi della mamma nascondendo la faccia nel suo grembo. Un piccolo residuo di ragionevolezza nel mezzo della sua mente sconvolta le diceva che era quella la sola sicurezza. Della mamma ci si poteva fidare completamente. Nella stanza regnava un terribile silenzio, e Cathy capì che i suoi genitori e il dottore si fissavano in una sorta di muto dialogo. Si accorse che i capelli le venivano accarezzati con gesto meccanico. Delicatamente il dottor McClintock rimise Cathy in piedi e la fece sedere su una poltrona. «Siediti, Cathy» disse con dolcezza «e non angustiarti, mia cara. Dimmi: hai fatto un sogno questa notte? Ricordi qualcosa?» Cathy lottava. Le tornarono in mente alcune immagini frammentarie. «C'era una donna» disse. «Con una grande macchia viola sulla faccia.» Il dottore sorrise. «Vedi, se te ne stavi ad ascoltare dietro la porta, tesoro, allora hai sentito che parlavo di lei» disse. «Prova ancora. Cerca di concentrarti soltanto su quello che è realmente avvenuto.»
«Sbarre» esclamò con violenza Cathy. Non sapeva se fosse memoria o immaginazione. «Sbarre alla finestra. Qualcuno mi ha portato una tazza di tè.» Era tutto molto sconcertante. Il dottor McClintock guardò i genitori di Cathy. Aggrottavano le sopracciglia e scuotevano la testa. Quindi si girò di nuovo verso Cathy e le disse: «Credo che tu abbia bisogno di una bella dormita, Cathy. Un bel sonno senza brutti sogni. Da quello che ho sentito, di recente hai passato notti molto agitate». Cathy annuì. Le lacrime continuavano a scenderle lungo le guance, e sua madre le passò un fazzoletto. Cathy si asciugò e si soffiò il naso, ma le lacrime non si interruppero. Il dottore stava versando qualcosa da una bottiglia in un bicchierino. «Faremo una bella chiacchierata questa sera, quando ti sentirai meglio» le disse. «Adesso bevi questo.» Le porse il bicchiere, e Cathy bevve, ubbidiente. La madre di Cathy portò il catino in cucina, mentre suo padre parlava con il dottor McClintock di cose che avevano a che fare con i soldi e il lavoro, e che Cathy non capì. Le lacrime continuavano a scorrere, e le sembrava uno sforzo troppo grande cercare di fermarle. Cominciò a sentire le braccia e le gambe molto pesanti. Quasi non si accorse quando la riportarono in camera. Quando Cathy si svegliò, era notte fonda. Si sentiva le membra pesanti e inerti, come se fossero intorpidite. "Che strano" pensò "svegliarsi nell'oscurità con la sensazione che sia mattina." La luna splendeva a tratti attraverso le nubi che passavano veloci. Era perfettamente circolare, come una grande perla, ma si era levato il vento, e in giardino i rami dei tassi si agitavano, proiettando ombre bizzarre sul muro della camera. Ci fu un momento di oscurità quando le nuvole coprirono la luna, poi l'astro tornò a veleggiare sopra le nubi, nitido e sereno, e ricominciò la danza delle ombre. Cathy fissava il grande cerchio bianco che pendeva così serenamente nell'oscurità del cielo. «Luna» disse ad alta voce, indugiando sulla parola. Suonava dolce e calma, come la sua luce. E, all'improvviso, capì tutto. Per la prima volta gli avvenimenti dei sogni apparivano chiari alla sua mente. Rimase a giacere con un senso di orrore, presa dai pensieri. Le persone dell'incubo dovevano essere i fantasmi dei morti, il signor Grayson e la signora Knarr, la terribile governante. Pareva che entrambi trattassero lei, Cathy Palfrey, come la pazza che veniva tenuta prigioniera. Ma perché? Cathy si guardò intorno nella sua camera con le ombre dei tassi che si
muovevano guizzando sulle pareti, e cominciò ad aver paura. Che cosa avrebbe fatto se fosse successo di nuovo? Tentò di scacciare quel pensiero, assicurando a se stessa che non aveva niente da temere perché ormai aveva capito come stavano le cose. Era qui, nel mondo reale. Il sogno non avrebbe più potuto sopraffarla. Oppure sì? Si sentì disperatamente sola e indifesa. «Mamma!» chiamò forte. «Mamma!» Provò un'immensa felicità nel sentire che, in risposta, si era aperta una porta al piano di sotto. Sentì sua madre andare in cucina e quindi, poco dopo, salire di sopra, fermarsi davanti alla porta di Cathy e aprirla. Sentendo la chiave che girava nella serratura, Cathy fu presa dal terrore di veder entrare la donna con la chiazza sulla guancia, perché nella vita reale la sua porta non veniva mai chiusa a chiave. Ma quando la porta si aprì, vide sua madre che se ne stava lì, bella e reale, con in mano una tazza di tè. Le disse, come se si trattasse di una cosa del tutto normale: «Ecco il tuo tè». Cathy emise un piccolo sospiro di sollievo. Sua madre appoggiò la tazza e il piattino sulla toeletta e aggiunse: «Accendo la lampada a gas». Affettuosa e tranquilla, Cathy sorrise a sua madre che, con un movimento aggraziato, si tendeva per accendere la lampada a gas sopra il letto. «Ecco!» disse la signora Palfrey mentre si levava la fiammella. «Così va meglio.» Spense il fiammifero e lo appoggiò con cura in un portacenere sulla toeletta, di fianco alla tazza e al piattino. Quindi, con le mani giunte davanti a sé, fissò intensamente Cathy e disse: «Cara, nel tuo stesso interesse, tuo padre e io crediamo che per un po' sia bene rimettere le sbarre alla finestra della tua camera». Sbarre. Prigionia. Pazzia. All'improvviso le intenzioni del morto signor Grayson e della morta signora Knarr divennero chiare. Volevano che tutto accadesse di nuovo. Avevano condannato Cathy Palfrey a venir imprigionata in quella camera. Cathy ebbe un sussulto di terrore mentre le tornavano in mente le parole beffarde: "Pazza! Sei pazza! Vivi nella casa dei matti!". Nella casa dei matti per sempre. «No» disse Cathy debolmente «mamma, no! Ti prego.» «Potresti farti del male, tesoro» le spiegò sua madre. «Mentre cammini nel sonno, capisci, potresti cadere dalla finestra.» Cathy si rigirò in mezzo ai cuscini per seguire lo sguardo di sua madre che fissava ansiosamente l'alta finestra. La luna piena era velata da nuvole dai bordi argentati che, mentre lei guardava, si spaccarono lasciando filtrare la luce fredda. Allora Cathy urlò per il terrore. Il viso che si rifletteva nel vetro della finestra era chiazzato di ombre scure. Era la governante.
Come una perla, la luna piena se ne stava sospesa nel mezzo di quella faccia spettrale macchiata di viola grottescamente bella in mezzo a tanta bruttura. «No!» gridò Cathy. «No! Vai via! Lasciami sola!» La figura che aveva creduto essere sua madre si protese ansiosamente sopra il letto, con il viso chiazzato di ombre scure mentre i tassi si agitavano nella luce lunare. «Mamma!» gridò Cathy in direzione della porta chiusa, convinta che per qualche ragione sua madre fosse uscita dalla stanza quando era entrata l'orribile sconosciuta. Balzò in piedi continuando a urlare, e spinse lontano da sé quella persona terrificante con tutte le sue forze. La figura barcollò all'indietro, perse l'equilibrio e si aggrappò alla striscia ricamata sulla toeletta, che, scivolando, trascinò giù spazzole, pettini, il portacenere, la tazza di tè ancora caldo - mentre la figura, precipitando attraverso la finestra, cadde in un diluvio di pezzetti di vetro scintillanti, ciascuno dei quali rifletteva un minuscolo, sminuzzato frammento della luna piena. Cathy si coprì la faccia con le mani. Quasi non riusciva a respirare. Dove, oh, dove era sua madre? Come aveva fatto l'orrenda signora Knarr a entrare nella sua camera? Un pizzico di buon senso le suggerì che ai fantasmi non servono le porte. Di sotto, le portefinestre erano aperte. Il padre di Cathy e il dottore erano usciti sul prato correndo. Sbirciando furtivamente attraverso le dita, andò alla finestra e si costrinse a guardare in basso. La donna che giaceva sull'erba illuminata dalla luna fece un movimento, una specie di lenta contrazione, poi giacque immobile. Il pallido volto di sua madre, rivolto verso l'alto, era ancora bello, anche nella morte. Il dottore stava chino su di lei. Levò lo sguardo sul signor Palfrey e scosse la testa. Il padre di Cathy si batté i pugni chiusi contro il petto e rimase con le spalle curve, chiuso in un muto dolore. Quindi, lentamente, alzò la testa e guardò in alto dove stava sua figlia accanto alla finestra in frantumi. «Dottor McClintock» disse digrignando i denti, e la sua voce suonò terribile alle orecchie di Cathy «sia così gentile da andare dal falegname. Se occorre, lo tiri fuori dal letto, e lo porti qui. A quella finestra vanno messe le sbarre. Subito e per sempre.» Di sopra, ritta nella luce della luna, incorniciata dai frammenti appuntiti del vetro, Cathy credeva di piangere. Ma, alle sue stesse orecchie, quel suono sembrava l'ululato di un animale in gabbia. Henry Normanby Il frequentatore delle prime
(The First-Nighter, 1908) Henry Normanby scrisse racconti per il «Grand» e per la «Westminster Gazette», che furono raccolti nel suo unico libro, Destinies (Sisiey's, 1908). Né io né Richard Dalby, che conosce questa letteratura meglio di me, siamo stati in grado di scoprire altro su di lui, ma Normanby merita di essere ricordato per storie macabre come quella qui pubblicata. I Fuori, la notte era tiepida e memore dell'estate, ma la mia stanza era già fredda e umida, benché l'uomo fosse entrato soltanto un momento prima. Aveva portato il suo alito nauseabondo e freddo nella mia casa come aveva fatto nel teatro e in quel momento, come allora, rabbrividii al suo contatto: mi aveva toccato con un dito che pareva di ghiaccio. Contro la mia volontà gli diedi il benvenuto, ma la vista della sua faccia cadaverica e il luccichio dei suoi occhi mi gettarono in un tale terrore che parlai con la testa voltata, girando lo sguardo senza scopo intorno alla stanza, abbassando gli occhi sul piatto, accecandomi a forza di fissare le luci e osservando a destra e a sinistra pur di non incontrare il suo sguardo. Se avessi potuto tapparmi le orecchie alla sua voce con la stessa facilità - anzi, di più - in sua presenza avrei fatto a meno dei cinque sensi, tanto era assoluto e sconvolgente il suo dominio su di me. Parlava con un'inflessione aspra ma calma che spesso si abbassava fino a un rauco bisbiglio, e non si levava mai oltre a un tono rauco. Non che la sua voce mi straziasse le orecchie, ma sembrava modulare un accompagnamento stonato a tutto quello che diceva, una specie di strana e indecifrabile cantilena di sottofondo la cui chiave era nascosta. A essere sincero, non prestavo grande attenzione alla sua conversazione sconclusionata. Il peso di una ospitalità non voluta mi era caduto addosso, e talvolta mi sorprendevo a domandarmi, vedendo languire le nostre conversazioni stiracchiate, perché lo avessi invitato, perché avessi insistito a farlo venire; ma dentro di me ero consapevole che sarebbe venuto, che glielo avessi chiesto o meno. Ero stato seduto accanto a quell'uomo in occasione di tante terribili "prime", senza sapere chi fosse né da dove venisse, e avevamo chiacchierato negli intervalli tra un atto e l'altro in tante occasioni che il suo spirito
sarcastico e la sua conversazione fluente erano quasi diventati un pezzo della mia vita. Mi sembrava di dover sempre stare con lui, sedergli sempre accanto e sempre ascoltare malvolentieri le sue parole. Spingendo con impertinenza il piatto da una parte, la mia mano toccò la pelle fredda e umida del suo polso. Aveva avvicinato la sua sedia alla mia, portando il suo odore umido e malsano più vicino alle mie narici. Impercettibilmente allontanai la mia sedia e il mio bicchiere; senza farsi notare da me, accorciò quello spazio. Per tre volte strisciai via da lui; per tre volte si avvicinò. Avrei potuto ridere del nostro comportamento stravagante, e mentre ci spostavamo intorno al tavolo, inseguendoci l'un l'altro, la sinistra comicità della situazione mi diede l'insolito coraggio che può provare chi ha appena mangiato e si è rincuorato con un po' di vino. I miei occhi vagabondi squadrarono il suo viso, il suo freddo alito mi agghiacciò le guance; per una volta ancora prestavo attenzione alla sua voce. Mi stava raccontando, per l'ennesima volta, la storia di quel drammaturgo che, dopo lunghi anni di fatiche, aveva scritto un dramma splendido, immortale; ma il Destino aveva volto su di esso un'occhiata maligna, e l'opera era morta per vivere nell'aldilà. E da allora il drammaturgo aveva deposto la penna, ed era morto subito dopo. «Andò in scena per una sola sera» disse. Il risentimento contro quell'attentatore alla mia pace cresceva dentro di me. «E tu, suppongo, eri presente alla prima e ultima sera?» «Sì, e con questo?» Gli occhi luccicanti sfavillarono fissando i miei. Non gli avrei risposto. Sapevo, e lo sapeva lui, che qualsiasi dramma, buono, mediocre o brutto che fosse, cui avesse assistito alla prima rappresentazione, seduto di malavoglia accanto a me, era condannato a sparire senza appello. «Conoscevo quell'uomo» disse dopo una breve pausa. «Lo conoscevi?» gli domandai, e la mia memoria fece un salto di mezzo secolo all'indietro nel tempo, all'epoca della sua morte. «Ero suo amico, lo conoscevo meglio di chiunque altro, lessi il suo dramma, gli dissi cosa ne pensavo. Lo sapevi che ha voluto che fosse sepolto con lui nella bara? È proprio così... quel dramma l'ho scritto io.» II Che cosa ci faccio, in nome di tutto ciò che è passato e dimenticato, vicino a questa tomba aperta? Che cosa ho fatto perché le mie mani siano
sanguinanti e insozzate di macchie di terra nera? Nell'oscurità, dalla fossa, salì un odore indefinibile, penetrante e umido. Una zolla di terra umida cadde con un tonfo, e capii, dal rumore attutito dell'impatto, che si era spappolata diventando informe, informe come la cosa che si trovava sotto il coperchio della bara. La mia carne viscida si ritrasse dalla terra più fredda e più viscida della tomba; i miei occhi, impauriti all'idea di guardare nella sinistra tenebra di quella paurosa fossa, non osavano tuttavia distogliersi per volgersi alla rassicurante tenebra del cielo aperto. I piedi bagnati mi si erano congelati, cercavo di fuggire da quel luogo maledetto ma non potevo muovermi. Un momento dopo, al culmine della paura e dell'orrore, mi trovavo aggrappato al bordo scivoloso e irregolare della fossa oblunga e sprofondavo nella sua terrorizzante tenebra. Dall'alto mi franò addosso un po' di terreno argilloso, cadendomi sui capelli e negli occhi; lasciai andare la leva che precipitò con un tremendo tonfo, mentre levavo le mani per ripulirmi. Le viti arrugginite erano uscite dalle loro cavità, e gli orli affilati della bara si erano consumati sino a diventare arrotondati e irregolari. Fu facile sollevare il coperchio, ma dovetti restare a distanza, in disparte, appoggiandomi alla terra umida e scivolosa della tomba. Va segnalato, come prova della mia ossessione, che cercai a tastoni con le mani in quell'orrenda bara. L'occupante non aveva più una forma precisa ed era diventato qualcosa di amorfo. Non era più una forma fredda e muta ma un'orribile massa molle e cedevole. Mentre tastavo, dall'alto continuava a cadere il terreno argilloso, ma il tonfo delle zolle su quella cassa, che rimbombava come se fosse vuota ma era orrendamente piena, non era tanto forte e irregolare quanto il battito sussultante del mio cuore impaurito. Il gocciolio della rugiada dai rami ampi e silenziosi non era nitido quanto lo stillicidio del sangue dalle mie mani torturate. Il suono delle campane dei vivi che battevano lamentosamente le ore tranquille della notte copriva il rumore dei miei piedi che strisciavano sul terreno insidioso. I neri alberi si dileguarono, le bianche lapidi di pietra si mossero, i grandi cancelli di ferro si chiusero sul passato, la strada sparì stranamente in lontananza, le case si misero lentamente in movimento, il ruscello gemette nell'oscurità, le luci si accesero e spensero, le bianche stelle brillarono negli spazi limpidi, e la luna si profilò in lontananza attraverso un velo di foschia. III
Era lì quando entrai nella mia camera, e pensai che non se ne sarebbe più andato e che non mi avrebbe più lasciato. I suoi occhi luminosi incontrarono i miei, e benché non aprisse bocca, capii che voleva farmi scrivere qualcosa. La penna era fra le mie dita senza che l'avessi presa, e la mia mano straziata se ne stava appoggiata sulla carta, insudiciandola di terra e di sangue a ogni movimento del polso. La penna cominciò a muoversi sul foglio, spinta dalla mia incerta pressione. Le luci brillavano, danzavano, sembravano rosse nella nebbia che era penetrata nella mia camera. L'ospite, che continuava a restare benché non glielo avessi chiesto - Dio sa quanto desideravo che se ne andasse - mi fissò con i suoi occhi stranamente luminosi. Un fuoco vivace di legna ardeva e fumava nel caminetto, riempiendo l'aria di vapori fragranti, ma nelle mie narici restava ancora l'odore dell'umidità notturna, di cose terrene e ultraterrene; sui miei occhi si posava il drappo funebre dell'oscurità; nelle mie orecchie risuonava il rumore del legno marcio che cade a pezzi. Chi era quell'uomo perché dovessi ubbidirgli? Perché dovevo scrivere, scrivere e scrivere, ai suoi ordini, con la mano tremante? Se non altro per accorciare il tempo in cui l'ospite sarebbe rimasto seduto con me, rinunciai a fare domande, e scrissi, scrissi. Infine il lavoro fu fatto; tra noi stava una pila di fogli ricopiati. Raccolse le carte umide e ammuffite davanti a sé e le buttò nel fuoco. Le fiamme si alzarono in una vampata di fumo sporco, il fuoco si abbassò e poi riprese vigore quando egli ridusse in cenere i resti carbonizzati. Insieme, perché non provavo più il senso di repulsione di un tempo, sfogliammo le pagine, le mettemmo in ordine e le legammo. Le prime pagine erano macchiate di sangue rappreso e di fango; l'ospite inumidì il fazzoletto nella caraffa e cercò inutilmente di eliminare i segni della mia sacrilega fatica. Era finito. Il grande lavoro era ultimato. Mesi di fatica erano trascorsi nell'arco di poche ore infernali, portando con sé oscurità, terrore morboso, sofferenza e una tomba spalancata. Anni di purgatorio che sarebbero stati calcolati in ricompensa del mio inferno, secoli di dubbio, di attesa e di disperazione. Chinai un poco la testa, quindi la alzai e lo guardai. Il fuoco dei suoi occhi si era estinto fino all'ultimo barlume; le sue mani, che di solito teneva davanti a sé muovendole e sfregandole in continuazione, giacevano con le palme in su, abbandonate sul tavolo in disordine, inerti e senza vita. Aveva un'aria di profonda stanchezza, il suo labbro inferiore pendeva, le palpebre gli si chiudevano, il collo scarno e nervoso era piegato. Proprio mentre lo
guardavo nel grigiore dell'alba, lo sguardo dei suoi occhi divenne opaco e fisso, il naso si assottigliò, la mascella cadde... e capii che il terrore spettrale della mia vita era un ricordo del passato. Non osavo continuare a fissare quel volto cadaverico. Mi alzai e aprii le tende. La luce del giorno non mi mostrò altro che la sedia ammuffita su cui era stato seduto, e l'impronta delle sue dita sottili sulle pagine macchiate di sangue. Fritz Leiber La collina e il baratro (The Hill And The Hole, 1942) Fritz Reuter Leiber, jr. (1910 1992) vinse molti premi per opere di fantascienza e di iantasia, ma a mio avviso la sua narrativa soprannaturale è ancora più degna di nota. La prima raccolta, Night's Black Agents (Neri araldi della notte), che fonde la tradizione inglese e quella americana, porta a perfezione il racconto in cui l'elemento misterioso esprime la vita moderna e al tempo stesso la invade. Le opere successive - i romanzi Conjure Wife e Our Lady of Darkness (Nostra signora delle tenebre), e la raccolta Shadows with Eyes (Occhi d'ombra) - sviluppano ulteriormente questo tema, ma "La collina e il baratro" - dimostrazione di ciò che sa fare un maestro del macabro con un paesaggio di campagna inondato dal sole - appartiene al suo primo libro. Tom Digby si pulì la faccia sulla manica arrotolata della camicia da lavoro e bonariamente mandò al diavolo la sua professione che era quella di misurare l'altitudine con strumenti barometrici. Adesso che era tornato al caposaldo altimetrico, a centosessantotto metri sopra il livello del mare, si era reso conto di quanto fosse ridicolmente sbagliata la sua stima dell'altezza della collina. Aveva ipotizzato che fosse alta circa centoquarantasei metri mentre, in piena vista a una distanza di neanche quattrocento metri, era chiaro che era alta centosettantacinque o forse centosettantasei metri. Bell'affare quella discrepanza! Evidentemente o lui o l'altimetro avevano avuto le traveggole, quando aveva preso le misure. E dal momento che l'altimetro ora stava funzionando piuttosto bene, sembrava che le traveggole le avesse avute lui.
Avrebbe voluto tagliare la corda sul presto per poter pranzare con Ben Shelley a Beltonville, ma aveva bisogno di quella misura per finire le rilevazioni petrolifere. Non era stato capace di individuare da nessuna parte, se non in prossimità della cima di quella collina, il punto di contatto della linea arenario-calcarea che stava cercando. Così prese con sé l'altimetro, uscì dalla zona di fresca ombra del granaio dietro il quale era stato fissato il caposaldo altimetrico, e si incamminò faticosamente. Pensava di riuscire a concludere come si deve quel piccolo lavoro e di arrivare in tempo per l'appuntamento con Ben. Un sorriso comparve sulla sua faccia larga, quadrata e giovanile, e pensò a quando se ne sarebbero stati a chiacchierare e a scherzare assieme. Ben, come lui, faceva parte dell'Ente Nazionale Rilevazioni Geologiche. Campi di frumento alto fino alle spalle, di un verde abbagliante sotto il sole cocente del Midwest, si estendevano dalla collina fino alla linea piatta dell'orizzonte. Cominciava la calma del mezzogiorno. Nugoli di tafani gli ronzarono attorno alla testa quando passò vicino a un mucchio di letame, e scivolò fra le assi di una staccionata grigia e scolorita. Non si muoveva nulla; soltanto una leggera brezza increspava il frumento alcuni campi più in là, e, in lontananza, nella direzione opposta, l'automobile di un contadino sollevava un pigro pennacchio di polvere. La figura imponente di Tom Digby, con la sua aria professionale, era la sola cosa che avesse uno scopo nell'intero paesaggio. Quando ebbe superato la striscia di alte erbacce rinsecchite ai piedi della collina, gettò uno sguardo alla piccola fattoria malconcia da quattro soldi dove si trovava il riferimento altimetrico. Sembrava deserta. Quindi scorse una ragazzina dai capelli stopposi che lo guardava da dietro l'angolo del granaio, e si ricordò di averla notata prima. Tom le fece un cenno con la mano, e ridacchiò quando la ragazzina con un brusco salto all'indietro scomparve dalla vista. A volte i ragazzetti dei contadini sono timidissimi. Quindi cominciò a risalire la collina a passo più svelto, verso il punto in cui gli strati di terreno erano in bella vista. Quando raggiunse la cima, non vi trovò la brezza in cui aveva sperato. Gli sembrò, se possibile, che la calura fosse ancora più soffocante che alla base della collina; si aveva la sensazione che l'aria fosse intrisa di polvere. Si ripulì la faccia, piazzò l'altimetro in un punto pianeggiante, regolò accuratamente la bussola da rilevazione finché l'ago non fu esattamente sulla linea di mezzo della scala di misurazione e quindi cominciò la lettura dei
dati nell'indicatore sottostante. Allora la sua faccia si rabbuiò. Gli venne voglia di mettersi a scuotere lo strumento, anche se sapeva che era del tutto inutile. Imponendosi di lavorare con lentezza e metodo, rilevò una seconda serie di dati. Il risultato fu lo stesso della prima volta. Allora si alzò e diede sfogo al suo stato d'animo concedendosi il capriccio di qualche imprecazione in più, e più vigorosa, ma sempre con la stessa bonomia, della sfuriata cui si era lasciato andare al caposaldo. Pur concedendo che fosse possibile una qualche variazione a seguito del cambiamento nella pressione barometrica durante il breve periodo impiegato per risalire la collina venendo dal riferimento altimetrico, l'altimetro continuava a indicare ancora l'altezza della collina in meno di centotrentasette metri. Neppure un tornado di spaventosa violenza avrebbe potuto giustificare un simile sbalzo di pressione. Non sarebbe potuto andar peggio, si disse con disgusto, se avesse usato un vecchio aneroide di tipo superato. Ma un altimetro, ultimo modello, da cinquecento dollari, non deve fare le bizze. In ogni caso, adesso non ci si poteva fare niente. Evidentemente l'altimetro aveva esalato il suo ultimo accurato rantolo quando si trovava al caposaldo e aveva tirato le cuoia. Avrebbe dovuto spedirlo al costruttore per farlo riparare. E avrebbe dovuto arrangiarsi senza quel dato. Si lasciò cadere per prendere fiato prima di tornare indietro. Osservando la scacchiera di campi che si stendeva sotto di lui e la più ampia scacchiera di appezzamenti intersecati da strade polverose, pensò che ben pochi conoscono le vere dimensioni e i confini del mondo in cui vivono. Guardano le linee rette sulle mappe, e ingenuamente credono che siano davvero rette. Forse sarebbero morti credendo di aver abitato in una contea, mentre accurate rilevazioni avrebbero dimostrato che erano vissuti in un'altra. C'era chi restava sinceramente stupefatto se spiegavi che la linea di Mason-Dixon è più frastagliata della linea di una staccionata, o se spiegavi che è quasi impossibile trovare una mappa attendibile, aggiornata e dettagliata di un certo distretto. Non avevano idea di come i fiumi cambiassero il loro corso, portando pezzi di terreno prima in uno stato e poi in un altro. Non avevano mai percorso una bella strada rassicurante che si perdeva fra le erbacce. Continuavano a credere di vivere in un mondo chiaro e preciso come i grafici di un libro di geometria, mentre tipi come lui e Ben andavano in giro a far combaciare confini e si adoperavano perché un chilometro più un chilometro desse all'incirca due chilometri. E per dimostrare che le colline e-
rano veramente colline e non voragini camuffate. A un tratto gli sembrò che facesse un caldo del diavolo, che l'aria fosse soffocante e che il terreno nudo fosse sgradevolmente ghiaioso. Prese a tormentarsi il colletto e se lo sbottonò ancora di più. Era ora di andare a Beltonville. Un paio di bicchieri di caffè freddo gli avrebbero fatto bene. Si alzò in piedi e notò che la ragazzina era tornata ad affacciarsi da dietro il granaio. Adesso sembrava che lo salutasse, facendogli cenno di avvicinarsi con gesti strani e a scatti; ma probabilmente si trattava solo dell'effetto della foschia di caldo che saliva dai campi. Rispose al saluto, e il gesto gli provocò un'improvvisa sensazione di stordimento. Gli sembrò che un'ombra si levasse sul paesaggio; faceva fatica a respirare. Poi cominciò a scendere dalla collina e ben presto si riprese. "Sono stato un pazzo a salire fin qui senza un cappello in testa" disse tra sé e sé. "Questo sole stronca anche chi è sano come un cavallo." Tuttavia qualcosa continuava a ronzargli per la testa, e se ne accorse quando fu ridisceso in mezzo ai campi di frumento. Non gli piaceva l'idea che la collina l'avesse preso in giro. Gli venne in mente che forse sarebbe riuscito a convincere Ben a tornare sul posto con lui nel pomeriggio, se non aveva nient'altro da fare, e a prendere misure precise con il goniometro e la tavoletta pretoriana. Quando arrivò nei pressi della fattoria, vide che la ragazzina si era ritratta dietro l'angolo del granaio. Le indirizzò un "ciao" amichevole. La ragazzina non rispose, ma non scappò via. Si rese conto che lo stava fissando con un'aria intenta di apprezzamento. «Abiti qui?» le chiese. La ragazzina non rispose. Dopo un po' gli chiese: «Perché vuoi andare laggiù?». «Lo stato mi paga per misurare i terreni» rispose. Era arrivato al caposaldo altimetrico e aveva cominciato meccanicamente a trascrivere i dati, prima di ricordarsi che l'altimetro era fuori uso. «Questa è la fattoria di tuo padre?» le chiese. Di nuovo non gli rispose. Era a piedi nudi, e indossava un vestito di cotone di un blu sbiadito. Il sole le aveva stinto i capelli e le sopracciglia, molto più chiari ormai della sua pelle, con un effetto che faceva venire in mente il negativo di una fotografia. Se ne stava con la bocca aperta. Il viso aveva un'espressione vacua, ma non stupida. Infine la ragazzina scrollò la testa gravemente e disse: «Non dovevi andare laggiù. Potresti non venirne fuori».
«Dimmi un po', di cosa stai parlando?» le chiese con aria divertita ma in tono cortese per non farla scappare via. «Del baratro» rispose. Tom Digby sentì un brivido corrergli per la schiena. "Devo essermi preso un colpo di sole" disse tra sé e sé. «Vuoi dire che c'è una specie di voragine là in fondo?» domandò subito. «Forse un vecchio pozzo o un pozzo nero nascosto in mezzo alle erbacce? Bene, non ci sono caduto dentro. Si trova da questo lato della collina?» Si trovava ancora in ginocchio accanto al caposaldo. La ragazzina ebbe uno sguardo di intesa, misto a una lieve aria di disappunto. Annuì con fare giudizioso e osservò: «Sei proprio uguale a mio papà. Mi ripete continuamente che lì c'è una collina, e che non devo aver paura del baratro. Ma è inutile. So tutto di quel posto, e non ci andrei vicino per niente al mondo». «Dimmi un po', che diamine mi stai raccontando?» Non controllò il tono di voce, e la domanda rimbombò come un tuono. Ma lei non scappò via; rimase a fissarlo con un'aria pensosa. «Può darsi che mi sbagli» osservò infine. «Magari avete ragione tu, papà e tutti gli altri che lì vedete per davvero una collina. Magari Loro ti fanno vedere una collina, per non farti sapere che sono lì. Loro non vogliono essere infastiditi. Io lo so. Ci fu uno che venne qui un paio di anni fa, cercando di scoprire qualcosa su di Loro. Aveva una specie di cannocchiale su un treppiede. Loro lo hanno fatto morire. Per questo non volevo che tu andassi laggiù. Avevo paura che Loro ti facessero fare la stessa fine.» Non fece caso al brivido che continuava a corrergli lungo la schiena, così come, animato da un'automatica avversione scientifica verso la superstizione, non fece caso alla coincidenza tra le fantasticherie della ragazza e gli scarti delle rilevazioni altimetriche. «Chi sono Loro?» chiese in tono allegro. Gli occhi vacui, di un azzurro acquoso, della ragazzina guardarono oltre Tom, come se non vedessero nulla - o vedessero tutto. «Loro sono morti. Ossa. Soltanto ossa. Ma Loro vanno in giro. Loro vivono in fondo al buco; lì si muovono.» «Davvero?» la incitò, sentendosi un po' colpevole nell'incoraggiarla. Con la coda dell'occhio poteva vedere una vecchia Model-T che arrancava risalendo la stradina sconnessa, sollevando nuvole di polvere. «Quando ero piccola» continuò a voce così bassa che Tom faceva fatica ad afferrare le parole «avevo l'abitudine di andare fino all'orlo del baratro e
di guardare Loro dall'alto. C'è un passaggio per scendere, ma non ci sono mai andata. Poi, un giorno, Loro, guardando in alto, scoprirono che li stavo spiando. Soltanto facce bianche e scheletriche; il resto è nero. Sapevo che Loro volevano ammazzarmi. E allora sono scappata via e non ci sono tornata mai più.» La Model-T si fermò gracchiando accanto al granaio, e ne uscì un uomo alto con una vecchia tuta da lavoro blu che, a passi lunghi e rapidi, si avvicinò a loro. «L'ha mandata la direzione della scuola?» gridò in tono accusatorio rivolto a Tom. «Viene dall'ospedale della contea?» Strinse nella sua manona quella della ragazza. Aveva gli stessi capelli sbiaditi e le stesse sopracciglia, ma il colore della faccia era di un rosso mattone. La somiglianza dei lineamenti del viso era notevole. «Ho qualcosa da dirle» continuò con rabbia trattenuta. «La mia ragazzina ha la testa a posto. Sta a me giudicarla, non è così? Che importa se non dà sempre le risposte che si aspettano i suoi insegnanti? Ha una testa fatta a modo suo, giusto? E io sono perfettamente in grado di prendermi cura di lei. Non mi va l'idea che ronziate intorno a chiederle questo e quello, quando io non ci sono.» Quindi l'occhio gli cadde sull'altimetro. Squadrò Tom attentamente, e in particolare osservò i suoi pantaloni da cavallerizzo e gli stivaloni alti con i lacci. «Credo di essermi sbagliato e di aver fatto una figura ridicola» disse prontamente. «Lei è delle ricerche petrolifere?» Tom si alzò in piedi. «Sono dell'Ente Nazionale Rilevazioni Geologiche» rispose. Il modo di fare del contadino cambiò completamente. Si avvicinò; la voce divenne confidenziale. «Ha trovato tracce di petrolio da queste parti, no?» Tom alzò le spalle e fece un largo sorriso di cortesia. Gli era capitato di sentire centinaia di contadini rivolgergli la stessa domanda nello stesso modo. «Non posso dire nulla in proposito. Devo completare la ricerca prima di avanzare un'ipotesi.» Il contadino gli ricambiò il sorriso, con un'aria di intesa, senza ostilità. «Ho capito cosa intende dire» ribatté. «So che i suoi superiori le hanno dato ordine di non parlare. Arrivederci, signore.» «Arrivederci» disse Tom con un cenno di saluto alla ragazzina, ancora intenta a fissarlo, e, girando intorno al granaio, tornò alla sua macchina.
Non appena ebbe deposto l'altimetro sul sedile anteriore di fianco al suo, sentì l'impulso di riprovare a prendere qualche dato. Imprecò di nuovo, questa volta sottovoce. L'altimetro aveva ripreso a funzionare normalmente. "Bene" disse tra sé e sé "ho deciso: tornerò qui e userò un buon goniometro - se non sarà con Ben, lo farò con qualcun altro. Per prima cosa voglio sistemare quella collina." Ben Shelley sorbì le ultime gocce di caffè, si alzò da tavola e si riempì la malandata pipa di radica. Tom gli illustrò il suo progetto. Un poderoso ventilatore dalle pale di legno, in azione sopra le loro teste, piegava le strisce di carta moschicida penzolanti facendole tremolare. «Aspetta un momento» lo interruppe Ben quando aveva quasi finito. «Questo storia mi fa venire in mente una cosa che ti volevo portare. Forse ci risparmierà un po' di fatica.» Frugò nella sua borsa. «Non verrai a dirmi che esiste una mappa della regione e io non ne so niente?» Il tono di indignazione della voce di Tom era scherzoso solo per metà. «All'ufficio mi hanno giurato e stragiurato che non ce n'erano.» «Sì, mi dispiace, ma esiste una mappa» confermò Ben. «Eccola. Un lavoro topografico speciale. Pubblicata soltanto ieri.» Tom afferrò il foglio ripiegato. «Hai ragione» proclamò qualche istante dopo. «Mi sarebbe stata di aiuto.» La sua voce diventò ironica. «Mi domando perché abbiano voluto farne un mistero.» «Oh, sai com'è» disse Ben in tono leggero. «Ci mettono un sacco di tempo prima di pubblicare una mappa. Il lavoro per questa è stato fatto due anni fa, prima che tu entrassi nell'Ente. È una mappa piuttosto insolita, e la persona con cui hai parlato all'ufficio probabilmente non l'ha collegata alla ricerca che fai tu. E si racconta una storia in proposito, che forse spiega perché hanno fatto un po' di confusione.» Tom aveva spinto da parte i piatti e stava esaminando la mappa con attenzione. All'improvviso ebbe un'esclamazione soffocata che fece alzare gli occhi a Ben. Quindi riesaminò rapidamente la mappa e le indicazioni nell'angolo. Poi fissò un punto così a lungo che Ben ridacchiò sottovoce e disse: «Cos'hai trovato? Una miniera d'oro?». Tom gli rivolse un'occhiata seria. «Guarda, Ben» disse scandendo le parole. «La mappa non è esatta. Contiene un grosso errore.» Quindi aggiun-
se: «Sembra che abbiano fatto certe misurazioni alla distanza di un metro, usando un giornale arrotolato come cannocchiale». «Sapevo che non saresti stato contento finché non ci avessi trovato qualcosa di sbagliato» disse Ben. «Non ti biasimo. Cosa c'è che non va?» Tom allungò la mappa verso di lui, indicandogli un circoletto con l'unghia del pollice. «Prova a guardare» gli suggerì. «Cosa vedi in quel punto?» Ben fece una pausa per accendersi la pipa, continuando a scrutare la mappa. Quindi rispose con prontezza: «Un'elevazione di centotrentaquattro metri. E in mezzo c'è stampato il nome... "Il baratro". Siamo poetici, no? Be', cosa sarebbe? Una cava di pietra?». «Ben, stamattina sono stato proprio lì» disse Tom «e non c'è nessuna depressione, ma una collina. E questa misurazione ci dà un dato errato di almeno quarantadue metri. Sciocchezze!» «Ma dai» lo interruppe Ben. «Stamattina sei finito da qualche altra parte. Ti sei confuso. È capitato anche a me.» Tom scosse la testa. «C'è un caposaldo altimetrico a centocinquantasei metri a due passi da lì.» «Sarai capitato in un vecchio caposaldo.» Ben era spiritosamente scettico. «Lo sai, uno di quelli precolombiani.» «Oh, non dire stupidaggini. Ben, stammi a sentire, che ne diresti di tornare lì insieme questo pomeriggio e di prendere le misure con il tuo goniometro? Mi toccherà farlo comunque, prima o poi, adesso che il mio altimetro è fuori uso. E ti proverò che questa mappa pullula di errori. Che ne dici?» Ben introdusse un altro fiammifero nella pipa. Annuì. «D'accordo, ci sto. Ma non arrabbiarti quando ti accorgerai di essere finito nella fattoria sbagliata.» Soltanto quando furono entrati sulla strada maestra, con l'equipaggiamento di Ben sul sedile posteriore, Tom si ricordò di una cosa. «Ben, dimmi un po', non avevi cominciato a dirmi qualcosa su una storia che riguarda questa mappa?» «Non c'è molto da raccontare. Solo che il topografo - un vecchio che si chiamava Wolcraftson - morì di infarto quando era ancora sul campo. In un primo momento pensavano di far rifare il lavoro, ma in seguito, esaminando le carte, scoprirono che le aveva completate. Forse per questo in ufficio non sapevano che esistesse quella mappa.» Tom si stava concentrando sulla strada davanti a loro; erano ormai vicini
allo svincolo. «Sarà capitato più o meno due anni fa?» domandò. «Voglio dire, quando morì?» «Già. O forse due e mezzo. Successe qui nei dintorni, e ci furono stupide chiacchiere. Mi pare di ricordare che un pazzo di investigatore - lo Sherlock Holmes locale - disse di aver trovato tracce di strangolamento o di soffocamento, o qualche altra incredibile assurdità, e che voleva fermare l'aiutante di Wolcraftson. Si capisce che abbiamo messo la cosa a tacere.» Tom non rispose. Gli tornavano in mente certe parole che aveva sentito un paio di ore prima, come se qualcuno avesse acceso un giradischi: "Ci fu uno che venne qui un paio di anni fa, cercando di scoprire qualcosa su di Loro. Aveva una specie di cannocchiale su un treppiede. Loro lo hanno fatto morire. Per questo non volevo che tu andassi laggiù. Avevo paura che Loro ti facessero fare la stessa fine". Scacciò quei pensieri con rabbia. Detestava l'idea di ammettere, anche per scherzo, che esistessero entità soprannaturali. In ogni caso, che cosa cambiavano le parole della ragazzina? Dopotutto, un uomo era morto per davvero, ed era naturale che la sua sciocca immaginazione si inventasse qualche sfrenata fantasia. Naturalmente, doveva ammettere Tom, la bizzarra indicazione sulla mappa era un'ulteriore coincidenza che andava ad aggiungersi alla storia della ragazzina e, in primo luogo, ai dati assurdi dell'altimetro. Ma esistevano poi tutte quelle coincidenze? Forse Wolcraftson aveva dato retta alle chiacchiere della ragazza, preso nota del nome come "Il baratro" e la prima rilevazione era stata una specie di scherzo fatto per se stesso, che avrebbe corretto in seguito. E poi, che cosa sarebbe cambiato, se si fosse trattato di due effettive coincidenze? L'universo è pieno di coincidenze. Qualsiasi collisione tra gli atomi è una coincidenza. Si potevano mettere mille coincidenze una sopra l'altra, si disse, senza per questo convincere Tom Digby a credere nel soprannaturale. Sì, d'accordo, conosceva molte persone intelligenti che si baloccavano con quelle cose. Alcuni dei suoi migliori amici si divertivano a raccontare "storie" e a trastullarsi all'idea di eventi fantastici per il gusto del brivido. Ma la sola emozione che Tom avesse mai ricavato da cose del genere era un senso di ripugnanza che toccava troppo nel profondo per essere divertente. Provava avversione per quella ignoranza primitiva, dettata dalla paura, da cui la scienza aveva liberato lentamente l'uomo, a poco a poco, scontrandosi con la più dura delle opposizioni. Per esempio quella sciocca faccenda della collina. Una volta che si ammet-
tesse che le dimensioni di un oggetto possono non essere reali, seppure per una frazione di millimetro, crollerebbero i fondamenti che sorreggono il mondo. Gli venisse pure un accidente, si disse, ma non avrebbe mai raccontato a nessuno la faccenda delle rilevazioni dell'altimetro. Era proprio il genere di "storia" sciocca con cui Ben, per esempio, avrebbe trovato gusto a baloccarsi. Ben non avrebbe avuto quella soddisfazione. Con un senso di sollievo imboccò la strada per la fattoria. A forza di rimuginare era davvero arrabbiato, arrabbiato con se stesso per essersi preso a cuore cose del genere. Adesso avrebbero sistemato tutto in modo chiaro, da scienziato, senza lasciare punti oscuri che avrebbero consentito a qualche cervello morboso di imbastire chissà che cosa. Condusse Ben al granaio, gli indicò il caposaldo altimetrico e la collina. Ben calcolò l'orientamento, esaminò la mappa, ispezionò nei dettagli il caposaldo, quindi riesaminò la mappa. Infine si girò con un sorrisetto di scusa. «Hai ragione. Questa mappa è bizzarra come un quadro surrealista, almeno per quanto riguarda la collina. Vado in macchina a prendere la mia attrezzatura. Possiamo calcolare l'altitudine dal caposaldo.» Fece una pausa e aggrottò le sopracciglia. «Accidenti! Non capisco come abbia fatto Wolcraftson a prendere un granchio del genere.» «Probabilmente hanno sbagliato a trascrivere qualcosa dalla mappa originale manoscritta.» «Deve essere andata così.» Dopo che ebbero preparato la tavoletta pretoriana e messo il goniometro a cannocchiale sul caposaldo altimetrico, Tom si caricò in spalla l'asta con la livella e le evidenti marcature. «Andrò su e ti farò da aiutante» disse. «Fa' tu stesso le misurazioni. Così non ci saranno battute sarcastiche quando in ufficio li solleverai di peso per aver fatto una mappa simile.» «D'accordo» rispose Ben ridendo. «Non vedo l'ora di farlo.» Tom notò che dal campo lì davanti il contadino veniva verso di loro. Gli fu di sollievo che la ragazzina non fosse con lui. Mentre si incrociavano, il contadino gli ammiccò con aria trionfante. «Conveniva tornare, eh?» Tom non rispose. Ma le maniere del contadino solleticarono il suo senso dell'umorismo; scoprì di sentirsi piuttosto bene, non più irritato, e proseguì in direzione della collina. Il contadino si presentò a Ben dicendo: «Avete trovato tracce di un gran
bel pozzo di petrolio, eh?». Faceva finta di essere un tipo pratico, ma non convinceva. «Non ne so niente» rispose Ben allegramente. «Mi ha rimorchiato fin qui solo per farsi aiutare a prendere una misura.» Il contadino alzò il testone lanciando un'occhiata storta a Ben. «Accidenti, voi dello stato avete le bocche cucite, eh? Be', non preoccupatevi: io so che qui sotto c'è il petrolio. Cinque anni fa un tipo comprò una concessione per trivellare su tutta la mia terra per un dollaro all'anno. Ma poi non si è fatto vedere mai più. Naturalmente so cos'è successo. Le grandi compagnie hanno rilevato tutto. Sanno che qui sotto c'è il petrolio, ma non vogliono trivellare. Vogliono tenere alto il prezzo della benzina.» Come unica risposta, Ben fece un verso evasivo e si mise a caricare la pipa. Quindi guardò attraverso il goniometro in direzione di Tom, senza un motivo particolare. Lo sguardo del contadino andò dalla stessa parte. «Be', è buffo adesso che mi viene in mente» disse. «Proprio lì, in quella stessa direzione, un paio di anni fa è rimasto secco quell'altro tizio.» L'interesse di Ben si acuì. «Un misuratore topografico che si chiamava Wolcraftson?» «Qualcosa di simile. Successe proprio in cima alla collina. Erano rimasti qui a perder tempo tutto il giorno - qualcosa che non andava nelle apparecchiature, diceva quel tizio. Naturalmente sapevo che avevano trovato tracce di petrolio e che non volevano dirlo. Solo verso sera quel vecchio tipo Wolcraftson, come dice lei - portò lì la pertica - l'altro lo aveva fatto già due volte - e si piazzò in cima alla collina. Fu allora che stramazzò. Corremmo su, ma era troppo tardi. Un attacco di cuore. Doveva essersi dimenato per un bel po' prima di morire, perché era tutto coperto di polvere.» Ben fece un verso di approvazione. «Non ci furono indagini?» «Oh, il nostro investigatore fece una figura ridicola, come fa di solito. Ma io mi misi di mezzo e gli dissi come erano andate le cose, e andò tutto a posto. Mi dica, signore, perché non si lascia andare e non mi dice quello che sa sul petrolio qui sotto?» Le proteste di Ben sul fatto di non sapere niente di niente furono interrotte dall'improvvisa apparizione di una ragazzina dai capelli stopposi, che veniva dalla strada. Aveva corso. Ansimò «papà» e afferrò la mano del contadino. Ben si mise al goniometro. Poteva vedere la figura di Tom mentre usciva dall'alta sterpaglia e cominciava a risalire la collina. Quindi la sua attenzione andò a quello che diceva la ragazza. «Fermalo, papà!» diceva tirandolo per un polso. «Non lasciarlo scendere
nel baratro. Loro hanno deciso di farlo fuori questa volta.» «Sta' zitta, Sue!» le sibilò il contadino, con un tono di voce più spaventato che arrabbiato. «Mi caccerai nei guai con la direzione della scuola a forza di raccontare storie bizzarre. Quell'uomo va lì solo per vedere quanto è alta la collina.» «Ma papà, non ti sei accorto?» si staccò da lui e indicò la figura di Tom che risaliva la collina con passo regolare. «È già molto in là. Loro sono pronti per prenderlo in trappola. Se ne stanno rannicchiati nell'oscurità, in silenzio, perché lui non senta le ossa che si sfregano le une contro le altre... papà, fermalo!» Lanciando uno sguardo pieno di apprensione a Ben, il contadino si mise in ginocchio davanti alla ragazzina e la cinse fra le braccia. «Senti, Sue, ora sei grande» prese a dire. «Non voglio sentirti fare questi discorsi. Lo so che li fai per gioco, ma gli altri non ti conoscono bene. Chissà cosa pensano! Non vuoi che ti portino via da me, vero?» Sue si dibatteva nelle sue braccia, cercando di scorgere Tom al di sopra delle sue spalle. All'improvviso, con un movimento repentino all'indietro, si liberò e cominciò a correre in direzione della collina. Il contadino si alzò in piedi e a fatica la seguì chiamandola: «Fermati, Sue, fermati!». "Matti come una coppia di gufi in amore" pensò Ben mentre li guardava correre. "Tutti e due credono che ci sia qualcosa sottoterra. Uno dice petrolio, l'altra dice fantasmi. Butta la moneta e tira a indovinare." Si accorse che in quel frattempo di confusione Tom aveva guadagnato la cima della collina e aveva alzato la livella. Guardò precipitosamente attraverso il goniometro, che era puntato in direzione della cima. Per qualche ragione non vedeva nulla - soltanto oscurità. Tastò lo strumento sulla parte anteriore per controllare se aveva tolto il cappuccio delle lenti. Lo manovrò per un po', sperando che non fosse andato fuori posto qualcosa all'interno del tubo. Quindi, improvvisamente, scorse Tom. Lasciandosi sfuggire un urlo di terrore, fece un salto all'indietro. In cima alla collina, Tom non era più visibile. Ben rimase in silenzio per un attimo. Quindi si mise a correre verso la collina più veloce che poteva. Trovò il contadino che si guardava attorno con aria perplessa nei pressi dello steccato. «Si sbrighi» gli gridò Ben. «Ci sono guai» e saltò lo steccato. Quando raggiunsero la cima della collina, Ben si chinò sul corpo di Tom steso a terra, quindi indietreggiò con un movimento convulso e infine proruppe in un pianto soffocato. Ogni centimetro quadrato della pelle e degli
abiti di Tom erano ricoperti di una sottile polvere grigioscura. E a fianco di una mano cinerea, c'era un piccolo osso bianco. Con ancora nella mente un'orribile immagine, Ben non ebbe bisogno di farsi spiegare da nessuno che quell'osso era di un dito umano. Si coprì la faccia con le mani, lottando per scacciare la visione. Quello che aveva visto, o pensava di aver visto attraverso il goniometro, era stata la sottile figura di Tom, che si divincolava nell'oscurità, in mezzo a pallide figure scheletriche che gli si aggrappavano tutt'attorno e lo trascinavano in un'oscurità ancora più fitta. Il contadino si inginocchiò vicino al corpo. «Morto stecchito» mormorò con voce soffocata. «Proprio come l'altro. Quella roba gli è penetrata fin dentro. Perfino nella bocca e nel naso. Come se fosse stato sepolto nella cenere e poi tirato fuori.» Da dietro i paletti della staccionata, la ragazzina lanciò uno sguardo verso di loro, terrorizzata ma avida. Robert Fordyce Aickman Incantesimo (Ravissante, 1968) Robert Fordyce Aickman (1914-1981) fu, fra i maestri della narrativa del soprannaturale, uno dei più importanti, dei meno imitati e dei più originali. Forse è un omaggio al senso del mistero che aleggia nella sua opera se è stato scritto così poco su di lui. John Clute, comunque, gli ha dedicato un eccellente saggio nel libro Strokes. Le sue storie dell'insolito e dell'ignoto, come Aickman amava chiamarle, furono raccolte in più volumi dei quali, al momento, i meno difficili da trovare sono probabilmente Cold Hand in Mine (Suspense) e The Wine-Dark Sea. Tra i suoi altri libri pubblicati c'è un romanzo, The Late Breakfasters; una novella, The Model; e i due volumi di una autobiografia rimasta purtroppo incompiuta, The Attempted Rescue e The River Runs Uphill. In un saggio di prefazione al racconto "Pages from a Young Girl's Journal", in The First World Fantasy Awards (1977), Aickman scrisse: «Una ragione per cui non desideriamo sopravvivere è che non esiste niente per cui sopravvivere. L'uomo non vive di solo pane, se non altro perché la normale vita quotidiana è per lo più orribile; pensarla diversamente è una grave nevrosi - ed è grave
nevrosi anche pensare che qualcuno pensi diversamente. Se la vita ha un senso, lo ha, e lo ha sempre avuto, grazie alla fede e alla speranza in "un mondo altrove", per usare le parole di Coriolano, o a qualche altra interpretazione. Ignorare questa verità è a nostro rischio e pericolo». Credo che "Incantesimo" non abbia bisogno di ulteriori presentazioni. Conoscevo un tale che aveva cominciato - prima ancora che lo conoscessi - come pittore, ma era passato a occuparsi della redazione di quei libri d'arte costosi e patinati, di cui si dice siano venduti in un numero sorprendentemente alto di copie, ma senza che mai si sappia chi li compri e li legga. Lo incontrai per la prima volta a una festa. La stanza ultramoderna era illuminata solo qua e là da abbaglianti lampade sotto cornici metalliche. L'uomo, che se ne stava in uno degli angoli bui, aveva un'aria schiva e pareva a disagio. Indossava un abito azzurro chiaro, una camicia di un azzurro più scuro e una cravatta che era di un blu quasi nero. Sembrava un tipo arrendevole e fiacco. Mi avvicinai a lui. Notai che aveva una testa lunga e stretta e capelli lisci tagliati sulla nuca con una decisa linea orizzontale. Notai anche una donna con lui, fino ad allora del tutto inosservata, sebbene, una volta messa a fuoco, vedessi che era vestita in modo piuttosto eccentrico. Attaccai discorso e parvero contenti. L'uomo disse qualche frase di circostanza, osservando che non conosceva quasi nessuno degli ospiti, e mi presentò la donna quasi invisibile come sua moglie. Continuò a chiacchierare con foga, ma con una punta di ansia, come per scusarsi di trovarsi in mezzo a tanti misteriosi sconosciuti. Cominciò subito a dirmi che aveva abbandonato la pittura a favore dell'editoria: «Ben presto capii che non sarei riuscito a vendere i miei quadri» disse, usando queste parole o qualcosa di simile. «Troppo surreali.» Che abbia usato questo particolare aggettivo sono sicuro. Mi si impresse nella mente lì per lì. Non aggiunse altri particolari, ma mi parlò dei prezzi che praticava per le sue sgargianti tele da caravanserraglio. Io stesso scrivo un pochino di tanto in tanto, e le cifre da lui indicate mi parvero assai incoraggianti. Evitai commenti del tipo che è il libro senza lettori quello che fa guadagnare (dopotutto, si dice che le traduzioni moderne dell'Iliade e dell'Odissea siano vendute a centinaia di migliaia di copie e che la Bibbia sia il maggiore bestseller di tutti i tempi), e osservai invece che la sua vita doveva essere piuttosto interessante, piena di viaggi e, dopotutto, con molte
cose belle da contemplare. Si dichiarò cordialmente d'accordo e, prendendo un altro Martini da un vassoio lì vicino, mi raccontò con una certa cura per il particolare il suo ultimo viaggio d'affari, che lo aveva portato da qualche parte in America centrale, dove si trovavano strane pitture murali, perfette per le fotografie a colori. Disse che si augurava di non avermi annoiato. «Oh, no» dissi. Per tutto quel tempo sua moglie non aveva aperto bocca. Lo sottolineo come un dato di fatto. Non ne deduco che fosse lei quella che si annoiava. Forse era addirittura affascinata dal racconto. Il silenzio, dopotutto, può significare sia noia sia interesse. Nel suo caso non ho mai scoperto che cosa significasse. Era ancora più fiacca di quanto non lo fosse lui; aveva capelli (per quello che riuscivo a vedere) del colore del grano scuro, raccolti in una crocchia bassa sulla nuca, un viso pallido, allungato come quello del marito, e quegli abiti scuri, un poco bizzarri, di cui ho detto. In quel momento notai che l'uomo aveva un naso piuttosto esile, poco sviluppato. Alla fine l'uomo mi chiese se mi avrebbe fatto piacere andare a cena da loro, a Battersea, e io promisi che ci sarei andato. Si noterà che non faccio nomi. Penso che sia meglio così, perché l'uomo stesso era molto discreto da questo punto di vista, come sarà chiaro in seguito. Senza contare che non entrai mai in rapporti stretti con la coppia. Una cosa, tuttavia, ha avuto senz'altro una certa importanza. Nell'appartamento di Battersea (non si affacciava direttamente sul parco) c'erano alcuni quadri di quell'uomo. Potrei paragonarli, anche se un po' alla lontana, con le ultime opere, un tempo controverse, di Charles Sims, oggi morto. Apparivano confusi alla prima occhiata, persino assurdi; mentre si continuava a osservarli, facevano venire il dubbio, come accadeva con i quadri di Sims, che il pittore in realtà si fosse aperto un varco in direzione di un ordine delle cose profondo e terribile. Sarebbero stati adatti ai quadri di quest'uomo titoli che rientravano nella categoria di quelli prediletti da Sims: "Guarda, sono inciso sul palmo della tua mano" oppure "Non sono forse la luce nell'abisso?". Ma i suoi quadri non avevano titoli: non perché lui si adeguasse alla moda attuale, ma perché, mi parve, non sembrava considerare i suoi lavori come oggetti a se stanti e commerciabili. «Ho capito che non potrei dipingere quello che forse la gente comprerebbe» disse sorridendo sotto il naso sottile. La moglie, seduta su una poltrona rigida e di nuovo vestita in modo bizzarro, non diceva nulla. In realtà pensavo che qualche anticonformista alla moda avrebbe ben potuto fare incetta, per qualche tempo, di quegli strani dipinti, anche se, naturalmente, con motivazioni completamente sbagliate. Feci notare a entrambi che i quadri erano
tra i più efficaci e stimolanti che avessi mai visto, ed ero sincero in quello che dicevo, benché si notasse una certa carenza di professionalità nella tecnica esecutiva. Non sono sicuro che mi sarebbe piaciuto vivere in mezzo a dipinti del genere, come facevano loro, ma questa è un'altra faccenda. Forse, però, do un'impressione esagerata del loro numero: c'erano, credo, tre di quelle opere mistiche in salotto, tutte di notevoli dimensioni; quattro nella camera da letto matrimoniale, nella quale venni condotto per guardarli; e uno in ognuna delle camere da letto piccole per gli ospiti e nel bagno. Erano incorniciati in modo molto approssimativo, perché il loro autore non li prendeva abbastanza sul serio; ed erano appesi alla rinfusa assieme a bozze incorniciate di pagine tratte dai suoi libri d'arte, tutte eseguite con i più moderni metodi di riproduzione fotografica. Andai a cena da loro diverse volte, forse sei o sette; e ricambiai l'invito portandoli al Rovai Automobile Club, che a quell'epoca mi sembrava il posto adatto per simili occasioni, dal momento che vivevo da solo a Richmond. Le cene a Battersea avevano uno schema prestabilito: il mio anfitrione sosteneva la gran parte della conversazione; sua moglie, con indosso i suoi strani vestiti, sembrava parlare ogni volta di meno; il cibo, cucinato da lei, era di qualità ottima anche se un tantino eccessivo; ero trattato con tutti i dovuti riguardi che si hanno per gli ospiti. Da questo, e da altre cose, conclusi che non invitavano spesso. Forse il guaio era che la situazione non aveva nulla di magico. Si aveva la sensazione che chi aveva dipinto quei quadri avesse avuto qualcosa da dire ma che quanto era riuscito a esprimere - forse anche molto - lasciasse un vago senso di delusione. Sembrava felice di accogliermi e dispiaciuto al momento di congedarmi, ma per quanto picchiasse, era incapace di aprire una breccia nel muro che presumibilmente lo imprigionava. E non si poteva dire, come appare chiaro, che sua moglie gli desse una mano in questo. Così almeno pareva. I rapporti umani sono così straordinariamente complessi che non si può mai essere sicuri. La nostra frequentazione, comunque, a poco a poco si estinse, temo, o quasi. L'agonia fu lenta, perché fui io a protrarla. Avevo percepito, quasi da subito, che un mutamento più rapido avrebbe provocato sofferenze, forse anche una lite. Consapevole di quello che facevo (con gli inevitabili - e troppo ristretti - limiti), lentamente strangolai il nostro rapporto. Ne ero rattristato, ma né l'uomo né sua moglie, in effetti, avevano mai toccato nessuna corda dentro o intorno a me ed è meglio troncare nel migliore dei modi possibili i rapporti che non sono qualcosa di vivo, prima che l'infe-
zione arrivi a compromettere una parte troppo grande dei tessuti, danneggiando, quando lo si poteva evitare, le condizioni di vita di una persona. Chi va alle feste o, in altro modo, conosce molta gente, ha spesso occasione di doversi proteggere anche se, facendolo, odia se stesso; proprio come gli uomini sono obbligati a massacrare incessantemente gli animali per la semplice ragione che sono incapaci di sopravvivere, nella maggior parte dei casi, mangiando mele e noci. Non ci fu mai, tuttavia, la morte definitiva del nostro rapporto. Il fatto successivo fu la lettera di uno studio legale. Arrivò a oltre quattro anni dall'ultimo incontro con la coppia di Battersea, come scoprii dando un'occhiata alla mia vecchia agenda; e due anni dopo, credo, l'ultimo cartoncino di Natale che ci eravamo spediti. Nel frattempo mi ero trasferito da Richmond a Highgate. La lettera mi informava che il mio conoscente di Battersea era morto ("dopo lunga malattia" precisavano gli avvocati) e che ero stato nominato esecutore aggiunto delle sue ultime volontà. L'altro esecutore testamentario era sua moglie. Inutile dirlo, era la prima volta che ne sentivo parlare. C'era un lascito che il testatore "si augurava avrei accettato": l'ammontare era di cento sterline. Fui sbalordito da quella cifra, mi spiace dirlo, che pareva riferirsi a una precedente epoca della storia finanziaria della Gran Bretagna. Infine, la lettera mi raccomandava di mettermi in contatto il più presto possibile con gli scriventi o direttamente con la moglie del loro cliente. Brontolai un po', ma quando ebbi raggiunto l'ufficio dove lavoravo prima di sposarmi, scrissi una lettera di condoglianze e nel poscritto suggerii, con tutto il tatto di cui ero capace, di fissare una serata per il primo incontro degli esecutori testamentari. La risposta arrivò immediatamente. In pochissime parole mi si ringraziava per la partecipazione manifestata e mi si proponeva la serata del giorno successivo. Rimandai un appuntamento con la mia fidanzata e mi diressi ancora una volta a Battersea. La mia co-esecutrice - notai - aveva abbandonato il bizzarro modo di vestirsi che aveva prediletto in passato, e indossava un vestito anonimo, addirittura banale, da grande magazzino. Forse era il suo modo di rispondere all'impulso interiore che fino a poco tempo fa induceva i parenti del defunto a vestirsi di nero. Non colsi in lei alcun altro cambiamento. Non sembrava distrutta dal dolore, e neppure turbata; e di cose da dire non ne aveva più di un tempo. Cercai di conoscere le ragioni del decesso, ma non ottenni una risposta chiara, e diedi per certo che si fosse trattato di uno dei soliti brutti mali. Mi disse di non prendermela troppo. Avrebbe
sbrigato lei quello che c'era da fare, e io sarei intervenuto alla fine. Feci notare che, in quanto esecutore testamentario, avrei dovuto vedere una copia del testamento. Con un solo gesto, senza una parola, mi porse l'originale; era rimasto in giro nella stanza. Le disposizioni erano semplici. Si sarebbe dovuto cremare il corpo, e l'intera eredità veniva lasciata alla moglie del testatore, a eccezione delle mie cento sterline; i dipinti del testatore dovevano essere offerti alla National Gallery of British Art; in caso di rifiuto, andavano proposti a una lunga serie - dieci o dodici - di altri musei pubblici; in caso di ulteriore rifiuto, andavano bruciati. In un attimo capii perché ero stato coinvolto nel procedimento delle disposizioni ereditarie. Ero rimasto in ansia fin da quando avevo ricevuto la lettera dello studio legale. Adesso ero terrorizzato. «Non preoccuparti» disse la mia co-esecutrice accennando un timido sorriso. «Ho già sistemato la faccenda quando lui era ancora vivo. Nessun museo ne vuol sapere dei quadri.» «Ma» dissi «in quanto esecutore non posso arrendermi così.» «Guarda le loro lettere.» Tirò fuori un mucchio di incartamenti e me lo mise davanti. «Siediti e leggi.» Prese la sua solita sedia rigida e si sedette, un po' fissandomi, un po' distogliendo lo sguardo; ma senza mettersi a fare altro. Pensai che tanto valeva chiudere quella storia lì per lì, se appena era possibile. Confrontai le lettere con l'elenco nel testamento. Per ogni galleria lì citata esisteva la documentazione; tutte le lettere davano risposta negativa: qualcuna in modo cortese, in tono di scusa; altre no. La corrispondenza copriva un arco di tempo di oltre un anno. Molti funzionari pubblici sono lenti a prendere decisioni e ancora più lenti a prendere impegni. «Lo ha saputo?» chiesi. Un'altra domanda che rimase senza una risposta chiara, perché lei si limitò a sorridere, e in modo vago. Insistere pareva difficile. «Non preoccuparti» ripeté. «Mi occuperò io di bruciarli.» «Non vuoi tenere i quadri!» esclamai. «Forse sei vissuta così a lungo con questi quadri che ormai li conosci fin troppo, ma sono notevoli.» «Come esecutori testamentari non siamo tenuti a ubbidire al testamento?» «Sono certo che, per legge, puoi tenere i quadri.» «Perché non li prendi tu? Tieni presente» aggiunse «che a Kingstone ne abbiamo immagazzinati altri cento.» «Mi manca lo spazio, e me ne dispiace.»
«Neanch'io ne avrò in futuro.» «Mi piacerebbe averne uno, se posso.» «Tutti quelli che vuoi. Ti va di prendere anche i manoscritti? Sono in quella valigia.» Appoggiato al muro c'era un oggetto verde malandato. Penso che mi abbia indotto ad accettare soprattutto la sua indifferenza alquanto sgradevole. Era chiaro come sarebbero finiti i manoscritti se non li avessi presi con me, e non fa piacere pensare che la vita di un uomo scompare in poche fiammate, come il suo corpo. «Quand'è il funerale?» «Domani, ma si svolgerà in forma strettamente privata.» Mi domandai dov'era il corpo. Nella camera matrimoniale? Nella cameretta per gli ospiti? Dalle pompe funebri? «Lui non credeva in Dio, e neppure io.» Da quando la conoscevo, era la prima volta che prendeva l'iniziativa di fare una dichiarazione di tenore generale, seppur di contenuto negativo. Guardai i quadri, compreso quello che mentalmente mi ero scelto. Lei non disse più nulla. Naturalmente, i quadri erano stati dipinti parecchi anni prima; forse prima che il pittore l'avesse conosciuta. Non mi offrì una tazza di tè, non mi diede neppure una mano per trasportare il quadro e la grossa valigia giù per le rampe di scale, sempre numerose nei condomini di Battersea. Mentre tornavo a casa in macchina, pensai che, per quel po' di fatica che dovevo fare, il lascito di cento sterline non era poi così esiguo. Da allora il quadro mi ha seguito dappertutto. Adesso è nella stanza accanto a quella che era dei bambini. Spesso vi entro e lo guardo per cinque o sei minuti, quando la luce è buona. La valigia conteneva, alla rinfusa, i dattiloscritti dei suoi libri d'arte, che parevano redatti direttamente a macchina. Erano pesantemente incisi da correzioni fatte con penne a inchiostro di diversi colori, ma questo non costituiva un problema per me, perché non avevo mai pensato di leggerli. In ogni modo, non li ho mai gettati via. Adesso si trovano nella mia soffitta, ancora nella valigia verde con le sue etichette che risalgono all'Italia di Mussolini. In queste piccole cose il mio povero conoscente vive ancora. Probabilmente aveva pensato che io, più di ogni altro, avessi qualcosa in comune con lui, altrimenti non mi avrebbe prescelto come suo esecutore testamentario. Ma la valigia conteneva qualcos'altro: un testo più breve e personale, battuto su grandi fogli di carta filigranata di marca estera, e stretto da uno
spesso nastro di gomma ormai marcio. È per introdurre questo racconto, così strano e intimo, per spiegare come arrivò a me e come accade che ora venga pubblicato, che ho scritto quello che precede. Mi sembra che diventi sempre più importante il senso dell'assoluta assurdità della vita, perché sempre più si rafforza la pretesa che la vita sia programmata, prevedibile e controllabile. E al posto di assurdità, si capisce, si potrebbe scrivere mistero. Secondo il volere del testamento, un compenso per la pubblicazione spetta alla vedova, che ovviamente è la titolare dei diritti d'autore. Dichiaro che non dovrà fare altro che richiederli. Se penso a quell'ultima sera, il giorno prima del funerale, non sono sicuro che lo farà. Ma si vedrà. Il resto lo lascio alle parole del mio povero conoscente. Ieri sono tornato dopo tre settimane passate in Belgio. Mentre ero lì, ho avuto un'esperienza che mi ha fatto una grande impressione. Penso che possa aver cambiato il mio modo di vedere le cose nel suo complesso; un'esperienza che ha turbato la mia anima, come dice la gente. Comunque sia, sento che probabilmente non la dimenticherò mai. D'altro canto, ho imparato che quello che ricordiamo è sempre ben diverso da quello che è accaduto. E questa è la prima occasione che ho di scrivere un resoconto con tutti i dettagli che sono in grado di ricordare e che mi sembrano di una certa importanza. Sono passati soltanto sei giorni da quell'esperienza, ma me ne rendo conto - già ci sono lacune che vanno colmate dalla mia immaginazione, e distorsioni inconsapevoli fatte a vantaggio della coerenza e del senso degli avvenimenti. È probabilmente un peccato che non abbia potuto fare questo resoconto quando ero ancora a Bruxelles, ma mi fu impossibile. Mi mancò il tempo o, più probabilmente, la voglia, come dicono sempre tutti di me. Ho avuto anche la sensazione di essere in preda a un incantesimo. Mentre me ne stavo nella mia camera a scrivere queste cose, sentivo che mi sarebbe potuto accadere qualcosa di terribile e spaventoso. Si direbbe che la distanza frapposta dalla Manica abbia allentato in misura considerevole l'incantesimo, anche se continuo a sentire quelle trame che mi avvinghiano le mani e la faccia, a vedere quelle bizzarre creature, a udire la voce gracchiante di Madame A. Quando ci penso, scopro di esserne ancora terrorizzato, eppure irresistibilmente attratto come lo fui allora. Ecco quello che si intende per incantesimo nel vero senso della parola. Dal momento che altri forse leggeranno questo scritto, seppure soltanto in un lontano futuro, intendo esporre alcuni fatti fondamentali. Sono un
pittore di ventisei anni: l'età di Bonnington quando morì. Ho una rendita di circa trecento sterline all'anno, che mi permette di dipingere come voglio io o perlomeno me lo permetterà finché vivrò da solo. Finora, da solo, sono stato felice, sebbene se ne addolorino quasi tutti quelli che conosco. Ho avuto molto poco a che fare con le donne, soprattutto perché non ho da offrire nulla che le attragga, e perché detesto il risvolto competitivo del rapporto tra i due sessi. Non sopporto di essere compatito da una donna e, d'altra parte, non sopporto di legarmi a una donna che dovrei essere io a compatire, una donna cioè non abbastanza attraente da essere coinvolta in pieno nella guerra tra i sessi, e quindi accessibile a un tipo come me. Non mi interesserebbe legarmi a una donna che non fosse bellissima. Forse lo devo all'artista che è in me. Non lo so. Sento che potrei volere soltanto quella donna che non vorrebbe me. Non posso dire che la cosa non mi turbi, ma, stando a quello che leggo e sento, sono sorpreso che non mi turbi di più. Mi accorgo di non avere difficoltà a scrivere di queste cose; anzi mi rendo conto che mi fa piacere. Ho la sensazione che potrei scrivere a lungo sui miei sentimenti intimi, anche se questa, naturalmente, non sarebbe la circostanza opportuna, perché ritengo di aver già detto tutto quello che era necessario. Devo trovare un punto di equilibrio tra l'esigenza di chiarezza interiore e il bisogno di esporre i fatti agli sconosciuti che mi leggono. Mi sembra che questo mio scritto, se mai lo finirò, possa essere letto soltanto da me o da uno sconosciuto. Non vorrei che a leggerlo fosse qualcuno che mi conosce intimamente - ammesso che esista una persona del genere. Chissà se mai esisterà. A volte ciò mi spaventa, ma a volte mi rassicura. A questo punto voglio raccontare agli sconosciuti che forse mi leggeranno che i miei genitori morirono entrambi sette anni fa in un incidente aereo. Era stata mia madre a insistere per andare a Parigi in aereo. Ero presente quando mio padre ebbe una discussione con lei. Tra loro le discussioni erano all'ordine del giorno. In ogni caso amavo molto mia madre, anche se era prepotente con me come lo era con mio padre. Non c'è dubbio che questo mi abbia influenzato. Ho paura che una donna possa privarmi della mia indipendenza - forse addirittura uccidermi. E non credo neppure, stando a quello che so, che si tratti di paure campate in aria. In fondo io non amo il mio prossimo. Ho la sensazione di essere incapace di avvicinarmi agli altri, ma quando sono loro ad avvicinare me, spesso l'incontro riesce bene - molto meglio di certi incontri con tipi che non hanno difficoltà a prendere l'iniziativa. Una volta cominciato, sono in grado di
andare avanti a parlare in modo spedito e a volte anche arguto (sebbene dentro di me sia convinto di non avere il senso dell'umorismo), e spesso, se non sempre, mi sembra di fare una buona impressione. Suppongo che questo dovrebbe in qualche modo lusingarmi, ma non penso di esercitare davvero un'influenza su qualcuno. È quasi come se fosse un altro a parlare attraverso di me - incitato da un estraneo, il mio interlocutore. Non sono io quello che parla, e certamente non sono io quello che suscita simpatia. Sospetto seriamente di non essere mai io a parlare, e sono certo che, se mai lo fossi, non susciterei simpatia. Ecco, naturalmente, un altro motivo che rende irragionevole l'idea di vivere con un'altra persona. Qualcosa di simile si verifica con la mia arte. I miei quadri sono visionari e simbolici, e, dal primo all'ultimo, non sembrano dipinti da me ma da un altro. Senza dubbio, mi è difficilissimo dipingere su commissione. Non so fare i ritratti, sono incapace di dipingere all'aria aperta, e indifferente ai vari generi di pittura astratta successivi all'invenzione della fotografia. E inoltre sono debole nel disegno, il che, naturalmente, si direbbe un ostacolo che non lascia speranze. Per dipingere ho bisogno di stare da solo in una stanza, anche se allora posso andare avanti senza smettere giorno e notte, venti ore di fila. Mio padre, assai partecipe della mia vocazione, fece in modo che potessi frequentare una scuola d'arte a Londra. Fu inutile. Non riuscii a combinare nulla, e fu il periodo più infelice della mia vita. Fu l'unica volta in cui mi sentii davvero solo - anche se il peggio, naturalmente, doveva ancora arrivare. Perciò sono quasi del tutto autodidatta o, per meglio dire, sono l'allievo dell'altro che è dentro di me. Mi rendo conto che ai miei quadri manca una vera tecnica (ammesso che possa esistere una tecnica separata dall'ispirazione e dall'invenzione). Avrei smesso di dipingere qualche tempo fa, se non fosse stato che alcuni trovavano nei miei quadri qualcosa di notevole, e mi identificavano con la mia opera, facendomi sentire un po' importante. Se avessi smesso, lo avrei fatto per sempre. Non avrei potuto dipingere, come fanno tanti, soltanto per passatempo o soltanto di domenica. Sono sicuro che presto smetterò - o che mi faranno smettere. Quando lessi delle capacità medianiche di Willi e Rudi Schneider, e di come il dono abbandonò prima un fratello e poi l'altro, mentre entrambi erano molto giovani, capii che qualcosa del genere sarebbe accaduto a me e che avrei finito, come Willi Schneider, a il fare il parrucchiere o qualche altro mestiere. Con questo non intendo dire che nelle mie opere ci fossero elementi medianici. È che in esse c'è una magnificenza che non appartiene al loro autore, come confermeranno i pochi che lo conoscono. È risaputo
che in un solo corpo ci sono molte anime. Devo inoltre riconoscere alcuni "influssi". Forse sembrerà presuntuoso, ma va detto perché spiega quello che sono andato a fare in Belgio e come mai andai a cercare Madame A. Trovo che certe opere, o le opere di certi pittori, abbiano su di me un potente influsso, che è quasi angoscioso in certi casi, ma solo certi quadri e certi pittori, davvero molto rari. In generale l'arte mi lascia abbastanza indifferente, mi spiace dirlo, specialmente quando viene esposta in una mostra pubblica a folle di persone, la maggior parte delle quali, inevitabilmente, è insensibile. Sono sicuro che i quadri dovrebbero appartenere sempre a singoli individui. Credo anche che i dipinti soffrano a morte quando sono condivisi da troppe persone. Non mi piacciono neppure i libri d'arte, con le loro orribili "riproduzioni", ributtanti quando sono a colori, noiose quando in bianco e nero. D'altra parte, mi lascio incantare dai pittori che mi colpiscono; mi lascio incantare dalla loro vita, dai loro pensieri, da quello che riesco a sapere o posso indovinare, dalle loro opere. L'aspetto di un pittore e l'aspetto dei luoghi dove ha dipinto possono, credo, essere molto importanti. Non tengo in alcuna considerazione la teoria secondo la quale contano soltanto il quadro e il modo in cui vi sono stati applicati i colori. Un'idea del genere mi sembra al tempo stesso oziosa e senz'anima. Forse i "miei" pittori sono le uniche, le sole persone con cui sono in intimità. Non credo che riuscirò mai a essere così vicino a una persona viva come lo fui al Magnasco, quando lo vidi per la prima volta. Ma deva precisare nuovamente che questi "influssi" mi sembrano tutt'altro che diretti. Nei miei quadri scorgo poche tracce dei manierismi altrui. L'influsso agisce a un livello molto più profondo. Quanti sostengono la teoria che "soltanto il quadro conta" non capiranno ciò che voglio dire. Ho avuto la possibilità di viaggiare un po' alla ricerca dei miei quadri particolari perché faccio una vita semplice e non spendo quasi nulla. Fu per vedere alcuni quadri che andai in Belgio: non ci andai, inutile dirlo, per i Meraling e i Rubens, per quanto siano belli, ma per le opere dei simbolisti e altri pittori del genere, artisti come William Degouve de Nuncques, Fernand Khnopff, Xavier Mellery, che disse (e chi altri lo ha mai detto?) di aver dipinto il "silenzio" e "l'anima delle cose"; e soprattutto, s'intende, James Ensor, l'affascinante barone. Prima di partire, mi ero dato da fare per mesi per procurarmi un elenco di indirizzi, dal momento che molti dei migliori dipinti di quella scuola si trovavano ancora, per mia fortuna, nelle mani di proprietari privati. Quasi tutti furono gentili con me, anche se parlo molto poco il francese, e durante la prima quindicina di giorni fui total-
mente perso nella mia assoluta felicità. Non tutti i collezionisti diedero segno di apprezzare le opere di loro proprietà, ma naturalmente non me lo aspettavo. Perlomeno erano disposti, quasi tutti, a lasciarmi solo e in pace, cosa che mi è capitata raramente con i collezionisti privati che ancora rimangono in Italia: di costoro molti sembravano pensare di potermi vendere qualcosa; moltissimi facevano una gran confusione; e tutti mi negavano il piacere della solitudine. Un influente personaggio belga, con cui ebbi uno scambio epistolare, mi informò che a Bruxelles viveva ancora la vedova di un certo pittore della scuola simbolista. Neppure a me stesso, alla luce di quello che è accaduto, desidero fare il nome di questo pittore. Lo chiamerò semplicemente A., il defunto A. Le persone informate potrebbero riuscire a identificarlo. Se anche così sarà, non avrà grande importanza nel momento in cui si leggerà questo mio scritto. Se qualcuno lo leggerà prima del previsto, sarà soltanto perché sono morto, e allora la responsabilità della discrezione ricadrà su di loro e non su di me. L'influente personaggio belga, senza fare commenti, mi indicò un indirizzo di Bruxelles, al quale spedii una lettera dall'Inghilterra nel mio francese approssimativo, senza avere serie speranze di ottenere risposta. Forse, però, l'interesse per la vita e la personalità dei "miei" pittori mi suggerì parole più efficaci e persuasive di quanto non pensassi. Mi pareva una bella occasione. Nonostante il mio grande interesse, non avevo mai incontrato nessuno dei miei artisti prediletti e neanche un loro parente o una vedova. Molti pittori, in ogni caso, erano vissuti troppo tempo addietro perché ciò fosse possibile. Se non avessi ricevuto risposta, sarei stato pronto ad aggirarmi intorno alla casa e, in base a quello che avessi visto, a escogitare il modo per entrarci. Ciò si rivelò superfluo. Nel giro di tre giorni ebbi notizie da Madame A. Scriveva con una grafia sciolta e arrotondata, nel mezzo di un ampio foglio di carta blu scuro. La sua lettera faceva pensare a una vignetta umoristica del diciannovesimo secolo, dove si vede una pendola con le molle che saltano fuori all'improvviso. Sarebbe stato difficile leggerla anche se fosse stata in inglese, ma alla fine riuscii a decifrarne la maggior parte. Madame A. diceva di essere vecchissima, di non uscire più di casa da molti anni e di non ricevere visite, ma di essere estasiata all'idea di qualcuno che intraprendeva un viaggio solo per incontrarla: mi avrebbe ricevuto alle sei in punto di una sera che specificò con precisione. Le avevo fornito le date del mio progettato soggiorno in Belgio, ma fui sorpreso dalla sua ri-
solutezza, perché era senza precedenti. I collezionisti mi avevano sempre lasciato la facoltà di decidere la data della visita, e questa mi era spesso sembrata un'imbarazzante responsabilità. Madame A. concludeva la sua lettera domandandomi quanti anni avessi io. Giunto quel giorno, trascorsi il pomeriggio al Musée Wiertz, perché pareva trovarsi proprio nella stessa zona della città in cui era la residenza di Madame A. «L'opera di Wiertz è apprezzata più per il carattere eccezionale dei suoi soggetti che per i meriti artistici» sentenziava, in puro stile Beckmesser, la guida inglese che avevo preso in prestito dalla biblioteca pubblica. Forse, in un certo senso, è vero, ma non lo era per me. Rimasi affascinato dai sepolti vivi, dalle imminenti decapitazioni di Wiertz, dalle immagini livide e cruente con cui rappresentava il mondo "reale" che sicuramente è livido e cruento, ma anche noioso e monotono, cosa che Wiertz non fa capire. Lo stile pittorico di Wiertz mi pare adattissimo a definire l'essenza della realtà. Fui deliziato, inoltre, dal silenzio e dal vuoto dello studio di Wiertz, vasto e inquietante. Gli scarsi riconoscimenti ufficiali da lui ricevuti tengono alla larga il dilettante abituato alle visite turistiche guidate. Sentivo un'ansia crescente in vista dell'incontro con Madame A. Avevo mostrato una certa sicurezza in occasione dei miei incontri con i collezionisti, anche in Italia, ma erano stati considerati transazioni di affari, e non avevo avuto mai difficoltà a nascondere che per me si trattava delle tappe di un'ascesa spirituale. Con Madame A. mi sarei potuto aprire di più e trovare parole, anche se parole francesi, per commenti non puramente convenzionali. Forse, anzi probabilmente, era malata e intrattabile. Era settembre, e sedevo su una panca davanti alla Lotta per il corpo di Patroclo, tutto solo nell'ampio studio, a eccezione di un sorvegliante che se ne stava a borbottare tra sé e sé dietro l'angolo, mentre scendeva la sera e i tanti orologi battevano le ore con suoni lievi o cupi, ricordandomi il mio inquietante appuntamento. La forza della solitudine, non trascurabile nel Musée Wiertz, mi trattenne troppo a lungo. Scoprii di aver sottovalutato la distanza fra Rue Wiertz e la via, in direzione del Boulevard de Waterloo, dove viveva Madame A. Camminai attraverso bellissime strade, per nulla pompose; tranquille, armoniose e vivificate dal senso della storia. Nessun altro quartiere di Bruxelles mi è piaciuto tanto. Mi piacquero le grandi finestre che occupano una parte tanto cospicua della facciata, così diverse da quelle inglesi. Pensai anche che quella sarebbe stata una zona perfetta per trascorrervi la vita.
Non si esita mai a credere che sia possibile continuare a provare in futuro quello che si prova in un determinato momento, bello o brutto che sia; o almeno, quando il momento è bello, che sia possibile restare in quello stesso stato d'animo, se solo si riesce a conservare l'atmosfera e le circostanze di quell'istante. Camminare attraverso quelle strade belle e discrete mi calmò. Mi accorgo di solito che, nell'ultimo tratto di strada, smetto di provare ansia. Madame A. viveva proprio in una tipica casa di quel quartiere: alta solo due piani, bianca ed elegante, con volute rococò nella lunetta sopra una porta d'ingresso di squisita fattura, una porta di giuste dimensioni, abbastanza ampia per una crinolina, abbastanza alta per un ammiraglio, non una semplice fessura verticale per ometti che ci sgusciano di striscio per andare al lavoro. Le case sulla sinistra e sulla destra ripetevano quello stile decorativo con piccole varianti sottili. Sono felice di essere nato in tempo per vedere case del genere, prima che siano demolite o restaurate; fino a quel momento tutto era andato bene. Dalla finestra del primo piano veniva una luce, di un colore conosciuto come oro antico. C'era un campanello e lo sentii squillare. Mi aspettai di veder arrivare qualche inserviente o un familiare, perché mi ero figurato che Madame A. fosse una invalida costretta a letto. Era molto piccola e robusta; aveva quasi la forma di uno gnomo; ma di lei potevo vedere soltanto la sagoma perché si era fatto quasi scuro, l'illuminazione stradale era fioca (grazie al cielo) e non c'era luce nell'atrio. «Entrez» disse Madame A. con la sua caratteristica voce gracchiante. «Entrez, monsieur. Fermez la porte, s'il vous plaît.» Benché gracchiasse, gracchiava come chi è abituato a parlare, se mai parlava, soltanto in tono di comando. Nient'altro, lo intuii subito, le interessava nel contesto di uno scambio umano. Dall'ingresso saliva una scala diritta, priva di tappeto, molto più ampia che in una casa inglese di quelle dimensioni e con una robusta balaustra di legno, appena visibile alla luce di una lampada sul pianerottolo del piano superiore. «Suivez, monsieur.» Madame A. salì arrampicandosi. È la sola parola adatta. Era agile, ma stranamente rozza nei movimenti. Nella luce incerta salì per quelle scale quasi fosse stata un vecchio delle foreste, ma credo che l'età abbia non di rado questo effetto sull'andatura di tutti tranne che delle persone alte.
Quanto a Madame A., direi che era al di sotto del metro e mezzo. La lampada sul pianerottolo si rivelò appesa a una spessa catena dorata e inserita in una lanterna di vetro art nouveau, piena di protuberanze, di un colore oro antico punteggiato di tocchi irregolari cremisi. Seguii Madame A. in una stanza che si estendeva per tutta la lunghezza della casa, con una finestra sulla strada e, di fronte, un'altra che dava sul retro dell'edificio. La porta della camera era già aperta. In piedi, davanti a me, sull'ampia soglia, Madame A. sembrava più tozza che mai. La stanza era illuminata da lanterne simili a quella del pianerottolo e, seppure più grandi dell'altra, la loro luminescenza oro antico restava fioca, e i tocchi cremisi disegnavano chiazze rosse irregolari sulla carta da parati lucente e dorata. I mobili erano art nouveau. Tutto, anche gli oggetti d'uso più comuni, pareva essere finito nel posto più inaspettato; si aveva la sensazione che le cose potessero saltar su dalla gioia, afflosciarsi tristemente, oppure librarsi e involarsi. Si percepiva che gli oggetti erano in tensione. I colori della stanza confluivano in un'armonia individualissima. Non appena fui entrato, restai colpito osservando che il tono generale dei colori aveva qualcosa in comune con quello delle mie opere. Era assai singolare. Alle pareti dorate erano appesi molti quadri, la maggior parte con cornici dorate, e soprattutto c'erano - lo vidi subito - opere del defunto A., come prevedibile, sulle quali non entrerò in dettaglio; ma anche alcuni disegni esoterici sicuramente di Félicien Rops, ancora più strani dei suoi più strani, pensai, mentre mi sedevo in mezzo a loro. Nel grande caminetto art nouveau era acceso il fuoco che rendeva la stanza troppo calda, come accade spesso sul Continente. Nonostante questo, richiusi la porta dietro di me. Così facendo, mi accorsi che dietro c'era una scultura in marmo di una donna, a grandezza naturale, colta nel momento della maternità. Al primo sguardo la riconobbi come l'opera di uno scultore simbolista ben noto per opere di quel genere, ma, una volta ancora, preferisco non fare il suo nome perché intorno a quella particolare scultura aleggiava qualcosa di assai bizzarro - bizzarro anche per me che del parto so solo quello che ho appreso dalle opere d'arte, e non poco proprio dalle opere di quell'uomo. «Mais oui» disse Madame A., vedendo che non riuscivo a distogliere lo sguardo dalla scultura. «C'est la naissance d'un succube.» Ma a questo punto credo sia meglio se smetto di cercar di ricordare quello che Madame A. disse in francese. In primo luogo non potrei ricordarmelo, anche se le sue prime parole, quelle che ho riportato per iscritto, rimangono impresse con chiarezza nella mia mente. In secondo luogo, Madame
A. dimostrò di saper parlare benissimo l'inglese - o piuttosto, forse, come avvertivo stranamente, di parlarlo bene quanto il francese. Qualcosa in lei suggeriva, perfino a una persona semplice come me, che non era nata né in Belgio né in Francia né in Gran Bretagna. Sto cercando di riferire con precisione gli avvenimenti e descrivere con esattezza le mie sensazioni, o perlomeno con la maggior fedeltà possibile. Non fingerò di non aver percepito qualcosa di insolito in Madame A. fin dall'inizio: di nulla, in tutta questa storia, sono più sicuro. E lei se ne stava in piedi, tarchiata, davanti al fuoco caldo e allegro, con le lunghe braccia nude tese, quasi volesse abbracciarmi. Sì, nonostante l'autunno imminente, nonostante il fuoco che avvampava, le sue braccia erano nude; e non solo quelle. Anche le sue gambe pelose erano nude, e per una donna della sua età il brutto abito rosso aveva una scollatura sorprendentemente profonda, che lasciava troppo in vista il seno raggrinzito. Ebbi l'impressione assurda che quell'anonimo lembo rosso fosse tutto quello che indossava, tranne un paio di pantofole dorate che le coprivano i piedini tozzi. E sì che era vecchia; vecchissima, come aveva dichiarato nella sua lettera. La sua faccia era butterata e aveva rughe profonde; il collo aveva perso ogni forma; era ingobbita e piegata sotto il peso del tempo. La voce, benché imperiosa, era quella di una vecchia. Pensai che i suoi capelli neri, radi ma ispidi e irti, fossero tinti. La testa assomigliava a un uovo scuro stantio. Mi fece sedere e sudare davanti al fuoco, invitandomi ad accostarmi sempre di più, e mi offrì insistentemente da bere cognac e acqua. Lei rimase in piedi, e anche così i suoi rugosi zigomi scuri e gli occhi neri stranamente sfuggenti si trovavano quasi alla stessa altezza dei miei. La poltrona su cui mi aveva fatto sedere aveva due alette all'altezza della testa, e ciò aumentava il senso di calore e, di tanto in tanto, mentre parlava, si sporgeva in avanti, metteva una mano su una delle alette e, per trasporto o in segno di fiducia, mi parlava diritto in faccia, avvicinandosi quasi volesse baciarmi. Aveva l'aria di bere molto poco, ma mi indusse a bere più di quanto avrei voluto, decantando le qualità del cognac e anche (per quel poco che ne sapeva, pensai) le capacità e la forza della mia gioventù. La prima domanda che mi fece non appena ci fummo seduti fu: quanti anni avevo detto di avere? E, continuò, ero nato sotto il segno dello Scorpione? Sì, risposi, colpito ma non stupefatto, perché molti hanno queste intuizioni, anche se i materialisti la pensano in tutt'altra maniera. E come lo interpreta, proseguii, sapendo che ciascuno pone l'accento su diversi aspetti. Segretezza e
sensualità, mi rispose gracchiando. Solo la prima, risposi sorridendo. Allora dovrò darmi da fare per risvegliare la seconda, rispose in modo orribile. "Come sono duro e ostile!" pensai. "E al tempo stesso, come sono debole!" Cominciò presto a parlare di arte e dei pittori che aveva conosciuto tanto, tanto tempo prima. Forse pensò che quell'argomento mi avrebbe facilitato il risveglio. Aveva la tendenza a smarrirsi nei suoi racconti lunghi e antichi e a riempire il mio bicchiere, a volte fino a farlo traboccare, mentre ritrovava il filo del discorso. Degno di nota era che non sembrava provare ammirazione o simpatia per gli uomini di cui parlava, molti dei quali erano e sono oggetto della mia particolare devozione. Almeno spero che lo siano ancora: le critiche ostili di qualsiasi tipo, anche se infondate, danneggiano l'oggetto della nostra ammirazione e non c'è nulla che l'ammiratore possa fare per lenire la ferita, anche se la ragione gli dice che la critica è errata. I commenti di Madame A. erano assai poco ragionevoli, e quindi suscitavano ancora più sgomento. Erano battute, insinuazioni e deboli argomentazioni. «X.» diceva «era un uomo assurdo, azzimato e vivace, con una voce da capra.» «Y.!» esclamava. «Fui sua intima amica... finché riuscii a sopportarlo.» «Si ritiene che i quadri di Z. abbiano un significato filosofico ma in realtà sono opere pornografiche, e neppure molto famose.» Dava per scontato che i miei giudizi entusiastici fossero il segno di una grottesca immaturità, e quando la contraddivo, talvolta con successo, perché non aveva molta familiarità con la logica e non era molto precisa sui fatti che riferiva, mi zittiva snocciolando ricordi personali sulle circostanze comiche o ambigue in cui erano stati dipinti certi quadri, o con aneddoti che - così dichiarava - mostravano il pittore com'era veramente stato. «J.» sosteneva «mi amò perdutamente per anni, ma io non avrei saputo che farmene neanche se lui fosse stato un fazzoletto da naso e io avessi avuto il raffreddore. E così anche le altre donne.» Madame A. aveva un bel modo di parlare, ma poiché sapevo che J. (anche se non ne accennammo), pittore di squisite fantasie orientali, si era impiccato per povertà e disperazione, quel suo discorso mi depresse e sconcertò parecchio. Sentivo che in troppi casi, anche se non in tutti - di questo sono sicuro - i suoi acidi commenti erano veritieri. Avvertivo che, veri o falsi che fossero secondo i miei criteri, sarebbero stati tanti (tra i pochi interessati a queste cose) coloro che avrebbero condiviso questi stessi giudizi e che avrebbero dato loro una pa-
tente di verità per voto di maggioranza. Avevo la sensazione, ed era la cosa più triste di tutte, che l'asprezza - come l'ho chiamata - di Madame A. fosse soltanto la manifestazione esagerata di una qualità essenziale della vita che ci trascina tutti in un terreno sassoso, compresi gli artisti, per me eccelse divinità. Come accade spesso, sarebbe stato meglio non sapere. «K.!» gracchiò Madame A. «K. lavorò per tre anni come spia della polizia e fu il periodo più felice della sua vita. Me lo disse lui in persona. Era ubriaco in quel momento - o forse drogato - ma era la verità. E lo può vedere nei suoi quadri se li guarda. Sono i quadri di una persona che si disprezza. Lo sapeva che la moglie di K. lo lasciò? Successe perché con le vere donne era impotente, e lo era stato sempre. Lo sapeva benissimo quando l'aveva sposata. Lei aveva ereditato un po' di soldi e lui era già un cocainomane e Dio sa cos'altro ancora. Quando leggo che i quadri di K. vengono acquistati dal Musée Rovai des Beaux-Arts, mi metto a ridere. Rido e sputo.» E Madame A. fece entrambe le cose. Aveva l'abitudine di tirare l'orlo della scollatura e di abbassarlo ancora di più. Era ormai un riflesso inconscio, un tic. «L.» disse «cominciò a dipingere immensi paesaggi. Era quello che più gli piaceva dipingere. Amava passare giorni e settimane da solo in Norvegia o in Scozia per dipingere quello che gli si presentava davanti, ogni volta su scala più grande. Il guaio era che nessuno voleva acquistare quadri del genere. Erano dipinti abbastanza bene, ma uggiosi, uggiosi. Vedendoli appesi alle pareti del suo studio, non ci si poteva trattenere dallo sbadigliare. Lo dicevano tutti mentre lui sperava che li comprassero. È impossibile figurarsi qualcuno che li compra. Si aveva solo voglia di uscire dallo studio e dimenticarsi di quegli uggiosi dipinti. I quadri di cui parla lei, le Salomè e le Prostitute di Babilonia, non erano quelli che gli piaceva dipingere. Si mise a farli perché accaddero due cose nello stesso momento: L. finì i soldi e incontrò Maeterlinck. Incontrò Maeterlinck solo una volta, ma fu un'esperienza molto importante. Maeterlinck era un uomo di mondo, un uomo affermato, e L. non vedeva perché non avrebbe dovuto essere lo stesso per lui. Ma non era il caso: era un ometto. Non molto tempo dopo abbandonò tutto e diventò un funzionario, come sa, anche se era un po' avanti negli anni per un mestiere del genere.» «No, Madame, non lo sapevo.» «Ebbene, è ancora vivo! Si è preso il ballo di san Vito, qualche genere di malattia che provoca il ballo di san Vito. Avrebbe potuto passarglielo la
"prostituta di Babilonia", ma lui non le è mai andato così vicino da beccarsela. L. è vivo e vegeto - proprio così. Ero solita andare a trovarlo quando ancora uscivo. Gli imprestavo i miei vecchi scritti sull'arte. Ah, les sales Boches» aggiunse Madame A. con noncuranza, come fanno tanti in Francia e in Belgio per forza d'abitudine. Nonostante tutto, credo che i miei occhi si siano illuminati sentendo parlare delle riviste d'arte d'anteguerra. In quel tipo di pubblicazioni si trovano spesso informazioni che non ci sono da altre parti, informazioni del genere per me più prezioso e più coinvolgente. «Ah» gracchiò Madame A. quasi giubilante. «Così va meglio. Si sta abituando a me, non è vero?» Mi afferrò le mani. Aveva ricominciato con il suo fluente inglese. Fu un sollievo. Per un momento aveva pronunciato alcune frasi in una lingua che non ero riuscito a identificare. Non c'era dubbio che si fosse dimenticata di me, o che mi avesse preso per un altro. «Ma lei suda» gridò Madame A. lasciandomi la mano. «Perché non si toglie la giacca?» «Forse» risposi «potrei fare un giro per la stanza per ammirare i quadri.» «Ma certamente. Se lo desidera.» Parlò come se si trattasse di un desiderio notevolmente ridicolo, forse addirittura scortese. Mi allontanai a fatica da lei e procedetti di quadro in quadro. Non disse niente mentre mi muovevo, ma se ne restò lì volgendo le spalle al caminetto, con le corte gambe divaricate epiù che mai un'aria da gnomo. Non posso dire che i suoi occhi mi seguissero con sguardi ironici, perché i suoi occhi erano troppo sfuggenti per una cosa del genere. La luce nella stanza, benché pittoresca, era inadatta all'esame dei quadri. Facevo fatica a vedere. All'estremità della stanza, lontano dalla finestra e lontano dal fuoco, era quasi buio. Mi sembrò assurdo insistere, benché mi sentissi quanto mai deluso. «È un peccato che non sia qui la mia figlia adottiva» disse Madame A. dalla zona illuminata. «Potrebbe occuparsi di lei meglio di me. Preferirebbe lei.» Parlò con un tono di falsa modestia. Non riuscivo a trovare una risposta convincente. «Dove si trova la sua figlia adottiva?» domandai debolmente con fare docile. «Via. All'estero. Insieme a qualche creatura, si capisce. Chi lo sa dov'è?» gracchiò. «E chi lo sa con chi?» «Mi dispiace di non poterla incontrare» dissi senza molta convinzione,
ne sono certo. Ero indignato di non essere stato invitato a un'ora in cui avrei potuto esaminare i quadri alla luce del giorno. «Torni a mettersi qui, monsieur» gridò Madame A., additando con l'indice sinistro la poltrona surriscaldata e quindi battendosi il ginocchio con il palmo della mano, come se stesse chiamando un cagnolino disubbidiente. Era proprio così, pensai. Avevo visto spesso fare quel gesto, anche se non avevo mai posseduto un cane. Mi astenni dal fare commenti e ritornai malvolentieri verso il fuoco che ardeva a tutta forza. Madame A., come ho detto, era imperiosa e nello stesso tempo falsamente modesta. E allora accadde una cosa straordinaria. C'era un vero cane lì nella stanza. Cioè non sono sicuro che fosse un vero cane. Mi limiterò a dire che si trattava di un cane. Sembrava un barboncino nero, tosato, lucido e vivace. Apparve spuntando dall'angolo in ombra alla destra della porta. Sgambettò con fare birichino fino al fuoco, quindi girò parecchie volte in tondo davanti a Madame A. e alla mia destra dove stavo seduto, quindi tornò nell'ombra alla mia sinistra dove ero stato in piedi poco prima. Mi sembrò, mentre lo guardavo, che avesse occhi molto grandi e zampe molto lunghe, forse più da ragno che da barboncino, ma senza dubbio era un effetto delle fiamme. In quel momento c'erano parecchie cose da captare in fretta, ma una cosa mi fu subito chiara: Madame A., come mi resi conto, sembrava non vedere il cane. Aveva lo sguardo fisso davanti a sé, gli occhi privi di espressione come sempre. Mentre guardavo il cane, intuii che stava ancora pensando alla figlia adottiva, ed era persa nei suoi pensieri. Non mi parve strano che non si fosse accorta del cane, rimasto sempre tranquillo: forse era talmente abituata a vederlo girare per casa da non farci più caso. Non riuscivo invece a capire dove si fosse tenuto nascosto il cane per tutto quel tempo in cui ero rimasto nella stanza con la porta chiusa. «Bel barboncino» dissi a Madame A., perché avevo bisogno di spezzare il silenzio, e perché si suppone che gli inglesi amino i cani (benché io sia, relativamente, un'eccezione). «Comment, monsieur?» Riesco ancora a vederla e a sentirla, così com'era mentre parlava. «Un barboncino ben curato» dissi limitandomi fermamente all'inglese. Si girò guardandomi, ma non si avvicinò, come aveva fatto in altri momenti analoghi. «Così lei ha visto un barboncino?» «Sì» dissi, senza che mi sfiorasse il pensiero di qualcosa che non anda-
va. «Un attimo fa. Se non è suo, deve essere entrato da fuori dove è buio.» Il pensiero dell'oscurità non mi abbandonava per via dei quadri, ma, non appena ebbi parlato, sentii un brivido nonostante il fuoco che ardeva. Volevo alzarmi e mettermi a cercare il cane che, dopotutto, doveva trovarsi ancora nella stanza; ma al tempo stesso avevo paura di farlo. Avevo paura di fare qualsiasi movimento. «Spesso appaiono animali qui» disse Madame A. con voce rauca. «Cani, gatti, rospi, scimmie. E ogni tanto anche specie meno comuni. Suppongo che nel frattempo se ne sia andato.» Credo di essermi limitato a restituirle lo sguardo. «A volte mio marito li dipingeva.» Fu l'unico accenno a suo marito, e non mi fu facile capirne il senso. Si abbassò l'orlo del vestito in quel suo modo coatto. «Le racconterò» disse Madame A. «di Chrysothème, la mia figlia adottiva. Lo sa che Chrysothème è la più bella ragazza d'Europa? Non come me. Oh, no davvero.» «Che peccato non aver avuto l'occasione di incontrarla!» dissi, cercando ancora una volta di entrare nello spirito della cosa, ma domandandomi come avrei fatto a filar via, specialmente pensando a quello che era appena accaduto. In quel momento, e per la seconda volta, mi pentii delle mie parole. Ma Madame A. si limitò a gracchiare in tono sognante, con lo sguardo fisso davanti a sé. «Compare qui. Si ferma spesso. Per molto tempo, mi capisce. Non si può pretendere che rimanga ancora di più. Dopotutto, sono ben lontana dall'essere sua madre.» Annuii, benché non mi fosse chiaro a che cosa stessi assentendo. «Chrysothème!» esclamò Madame A., agitando freneticamente le braccia. «Mia Chrysothème!» Fece una pausa, il volto le si illuminò, ma non gli occhi. Quindi si girò verso di me. «Se potesse vederla nuda, monsieur, capirebbe tutto.» Risi imbarazzato, come si fa in questi casi. «Ripeto, monsieur, capirebbe tutto.» Mi balenò alla mente che in qualche modo forse volesse dire più di quanto non sembrasse in un primo momento. Il guaio era che, più che mai, non desideravo comprendere tutto. Lo avevo detto una volta anche a una cartomante che stava in una tenda, una donna dal naso grosso ma bella, quando andavo a scuola. «Le piacerebbe vedere i suoi vestiti?» chiese Madame A. sottovoce. «Ne
tiene qui una parte, per indossarli quando si ferma per restare un po'.» «Sì» dissi. «Mi piacerebbe.» Non so perché lo dissi, ma lo dissi. Visto il tipo che era Madame A., potevo ben dire di avere poca voce in capitolo. Anzi forse nessuna voce. Ma quella volta non feci obiezioni, e fu così per mia scelta. Madame A. mi prese dolcemente per un polso e mi fece alzare dalla poltrona. Aprii per lei la grande porta, e quindi un'altra grande porta che mi aveva indicato. Ce ne erano due sui lati opposti del pianerottolo, e lei additò quella sul lato destro. «Io dormo nella stanza accanto» disse Madame A. sulla soglia, facendo sembrare la parete stessa come un invito. «Quando riesco a dormire.» L'interno della camera era rivestito di pannelli scuri, quasi fino al soffitto. L'angolo di sinistra, dietro alla porta, era occupato da un letto a pannelli, con un copriletto di broccato rosso scuro. Sembrava che occupasse più spazio di un letto singolo, ma non quanto un letto a due piazze. Dai piedi del letto, i pannelli scuri e semplici continuavano, senza decorazioni, fino all'estremità della stanza. Al centro della parete opposta c'era un tavolo da toeletta ricoperto di broccato rosso, assai simile a un altare, soprattutto perché, davanti, mancava la sedia. Sulla destra c'era una finestra, ora coperta con tende di un rosso scuro, di quel genere pesante che, secondo mia madre, serviva solo a raccogliere polvere. Contro il muro, ai lati della finestra, c'erano due grandi cassapanche scure. In alto, sulle pareti, pendevano alcune delle solite lanterne art nouveau, ma il vetro era così scuro che la camera finiva per essere poco più illuminata del buio pianerottolo di fuori. L'unico quadro era appeso sopra la testata del letto nell'angolo dietro la porta. «Che bella camera!» esclamai educatamente. Ma intanto guardavo alle mie spalle per vedere se, attraverso la porta aperta, dall'altra parte del pianerottolo, fosse comparso il cane nero. «Molta gente è morta qui dentro» disse Madame A. «Le due cose più belle sono l'amore e la morte.» Mi inoltrai nella stanza. «Chiuda la porta» disse Madame A. La chiusi. Non c'era segno del cane. Cercai di non pensarci più. «Quasi tutti i suoi abiti sono qui» disse Madame A. Spinse i pannelli che si trovavano ai piedi del letto, e si aprirono due ante; quindi altre due; quindi una quinta. Tutti quei pannelli erano altrettante ante di capienti armadi.
«Venga a vedere» disse Madame A. Sentendomi ridicolo, la seguii. Tutti e tre gli armadi erano pieni di vestiti che pendevano da una sbarra centrale, come nei negozi. Non mi sarei sorpreso di trovarmi davanti a una sfilza di abiti antichi o di sudari in attesa del loro occupante; si trattava, invece, di normali abiti moderni da donna e, per quello che riuscii a capire, di grande eleganza. C'erano indumenti per tutte le occasioni: abiti invernali e abiti estivi, e un gran numero di quei lunghi abiti da sera che si vedono sempre meno. Tutti i vestiti sembravano tenuti con molta cura, come se fossero in attesa di essere venduti. Mi colpì il fatto che forse la verità andava cercata in quella direzione: ossia che gli abiti non fossero mai stati indossati. La stanza stessa non sembrava essere mai stata occupata. Tranne che per i vestiti, aveva più l'aspetto di una cappella che di una camera. Una cappella mortuaria, pensai all'improvviso; con una sfilza di cadaveri composti in pace fra i fiori sul letto-catafalco dietro la porta, stando alla lugubre allusione di Madame A. «Tocchi gli abiti» disse Madame A., leggendomi nel pensiero. «Li tiri fuori; vedrà il segno lasciato dal corpo di Chrysothème.» Esitai. Chi non fa il sarto ha una riluttanza istintiva a toccare gli abiti degli altri, di chiunque si tratti, tanto più se sono abiti di sconosciuti. «Li tiri fuori» ripeté Madame A. con il suo tono imperativo. Presi cautamente una gruccia dalla quale pendeva un vestito. Era un abito da tutti i giorni, un indumento di lana. Perfino in quella fioca luce, si vedeva che era stato indossato. A quel punto cadde il silenzio tra noi; Madame A., mostrando impazienza per la mia timida scelta, tirò fuori un abito da sera da donna in raso chiaro. «Meraviglioso, squisito, incomparabile» esclamò con voce stridula. Penso che, se fosse stata abbastanza alta, se lo sarebbe appoggiato contro il corpo, come fanno curiosamente le commesse di negozio. Ma, visto come stavano le cose, poteva soltanto mostrarmelo tendendo le lunghe braccia, sicché il vestito scivolava, per quasi tutta la sua lunghezza, sul tappeto rosso, come uno strascico. «Si inginocchi e lo osservi.» Esitai. «Si inginocchi» gridò Madame A. in tono più perentorio. Mi inginocchiai e raccolsi l'orlo dell'abito. Adesso che ero chino vicino al pavimento, notai una grande macchia scura che neppure il tappeto scuro era abbastanza scuro da nascondere. «Porti il vestito al viso» ordinò Madame A. Ubbidii. Era una sensazione meravigliosa. Mi sentii avviluppato in una ricca nube serica. Colei che a-
veva posseduto e indossato quell'elegante vestito cominciò, pur restando nella sua vaghezza, a essermi una presenza più definita di quanto non lo fosse Madame A. Madame A. lasciò cadere il vestito e subito ne prese un altro, mostrandomelo come prima. Era di nuovo un abito lungo, di quel tessuto che credo si chiami georgette, ed era screziato in arancione e rosso. L'abito di raso chiaro giaceva sul pavimento in mezzo a noi. «Si inginocchi. Lo calpesti» ordinò Madame A., vedendo che mi preoccupavo di girargli attorno. «Chrysothème approverebbe.» Non me la sentivo di fare una cosa del genere, e girai attorno al vestito di raso fino al vestito di georgette. Non appena lo raggiunsi, Madame A. me lo buttò in testa, sicché impiegai un minuto o due in gesti ridicoli per districarmi. Non potei fare a meno di notare, e non soltanto notare, che l'abito di georgette emanava il più incantevole dei profumi. Il profumo rendeva più reale che mai la persona che l'aveva indossato. Un poco distante, alla mia sinistra, Madame A. aveva steso un terzo abito lungo; questa volta di taffetà blu scuro, molto stretto. «Potrebbe quasi indossarlo lei» chiocciò Madame A. «A lei piace vestire di blu ed è abbastanza magro.» Naturalmente non le avevo detto che mi piaceva vestirmi di blu, ma suppongo che fosse ovvio. Con un piede Madame A. girò una poltrona e ci buttò sopra il vestito, lasciando che il basso corpetto pendesse dallo schienale, con soffice abbandono. «Perché non lo bacia?» domandò Madame A. con lieve tono canzonatorio. In ginocchio ai piedi della poltrona, mi resi conto che le mie labbra erano poco più su del sedile. Rifiutarsi sarebbe stato più assurdo che acconsentire. Chinai la testa e premetti le labbra contro il vestito. Forse Madame A. mi prendeva in giro, ma capivo che tutto il mio interesse era per l'altra donna, quella che aveva indossato quegli abiti. Quando alzai la testa, Madame A. si trovava in piedi su un'altra poltrona (ce ne erano soltanto due nella stanza, entrambe negli angoli, ed entrambe pesanti, scure e decorate). Teneva in mano un abito corto di velluto nero. Non disse nulla, ma confesso che, senza che mi fosse ordinato, mi slanciai verso di lei e premetti la splendida stoffa contro il mio viso. «La luna» mormorò Madame A., additando l'abito di raso chiaro sul pavimento. «E la notte.» Agitò l'abito di velluto nero in su e in giù, di qua e di là. Anche questo aveva un meraviglioso profumo. Lo afferrai per tenerlo
fermo ma era fiacco, inerte nella mia mano. «Le piacciono i vestiti della mia figlia adottiva?» «Sono splendidi.» «Chrysothème ha un gusto infallibile.» Il tono di voce di Madame A. era convenzionale. Io continuavo ad annusare l'abito di velluto. «Dovrebbe vedere la sua biancheria» aggiunse Madame A., quasi a conferma della dichiarazione appena fatta. Andò verso la grande cassapanca che si trovava a sinistra della finestra con le tende e sollevò il coperchio che non era chiuso a chiave. «Venga» disse Madame A. La grande cassapanca era piena di morbida biancheria di vari colori; non in ordine come i vestiti, ma aggrovigliata e buttata apparentemente a casaccio. Credo di essere rimasto in piedi a guardare. E lo stesso profumo usciva con il suo potere ipnotico dalla cassapanca. «Si tolga la giacca blu» disse Madame A., con un tono quasi solenne. «Si rimbocchi le maniche blu e ci immerga le braccia bianche.» Senza fare domande, eseguii quanto mi aveva detto. «Ci immerga la faccia.» Non mi servivano quegli ordini. La fragranza era inebriante di per se stessa. «Li ami, li strappi, li possieda» incitò Madame A. Posso solo dire che feci del mio meglio. Il tempo passava. Cominciai a tremare dal freddo. Dopotutto, venivo da una camera surriscaldata. Mi accorsi di avere i muscoli irrigiditi a forza di stare in ginocchio e, immagino, anche per la tensione nervosa. Riuscii a malapena ad alzarmi in piedi per rimettermi la giacca. Non appena mi fui srotolato le maniche della camicia, notai che mi si erano rizzati i peli degli avambracci. Sembravano induriti e appuntiti. «Il ragazzo in blu!» esclamò Madame A., in attesa che facessi la mossa successiva. La feci. Chiusi il coperchio della cassapanca. «L'altra cassapanca contiene ricordi» disse Madame A. tirando l'orlo della scollatura. Scossi la testa. Tremavo tutto e non sentivo più quel meraviglioso profumo. Quando si ha molto freddo, il senso dell'olfatto viene meno. E in quel momento, per la prima volta, mi accorsi dell'unico quadro della
stanza, appeso sopra l'ampio letto nell'angolo. Nonostante la cattiva illuminazione, mi sembrò familiare. Mi avvicinai e, mettendo un ginocchio sul letto, mi sporsi per osservarlo da vicino. Adesso ne ero certo. Il quadro l'avevo dipinto io. Ma c'erano due cose particolarmente strane. Benché fossi sicuro che il quadro fosse stato dipinto da me (il mio stile sarà limitato, ma è inconfondibile), non ricordavo di averlo dipinto, e c'erano dei particolari che in nessun modo potevano essere di mano mia. Gli artisti, da vecchi, a volte si dimenticano delle loro stesse opere, ma ero sicuro, e lo sono tuttora, che ciò non può succedere a me. I miei quadri non sono del genere che si dimentica. Molto più grave era il fatto che, ad esempio, la figura centrale, che io avrei dipinto come un angelo, aveva qualcosa del pagliaccio. È difficile spiegarne il motivo ma, non appena lo guardai, ne fui certo. Il mio attacco di brividi si stava trasformando in nausea, come capita spesso. Correvo il pericolo di fare ancora di più la figura dello stupido mettendomi a vomitare sul pavimento. «È proprio vero» disse Madame A., osservando il quadro con il suo sguardo vago e parlando come se fosse nell'altra camera. «Non è un pittore. Sarebbe riuscito meglio come netturbino, o come scaricatore al mercato di carne di cavallo? L'ho messo qui perché Chrysothème non si occupa di pittura, non se ne occupa proprio.» Ribattere sarebbe stato assurdo e umiliante. Né potevo essere sicuro che la mia identità fosse chiara nella sua mente. «Grazie, madame» dissi «per la sua ospitalità. Non voglio disturbarla più a lungo.» «Un ricordo» gridò. «Mi lasci almeno un ricordo.» Vidi che teneva in mano un paio di forbici argentee piuttosto grandi. Non avevo nessuna voglia di lasciare una ciocca di capelli a Madame A. Aprii la porta della camera e cominciai ad arretrare. Stavo cercando di trovare una o due frasi per mascherare il mio precipitoso congedo sotto una patina di formalità, ma vidi che, acquattato sull'unica lampada dorata appesa alla catena dorata che scendeva dal soffitto dorato del pianerottolo, c'era un animaletto lanuginoso, così piccolo, che avrebbe potuto essere un insetto scuro e peloso, con occhi chiari insolitamente visibili. E per di più, naturalmente, la porta che dava nella stanza grande e calda alla mia sinistra era ancora aperta. Ne fui sopraffatto. Me la diedi a gambe, precipitandomi giù per le scale ripide e scivolose come un mentecatto. Fui fortunato di non cadere a testa in giù.
«Mais, monsieur!» Armeggiavo disperatamente con le varie maniglie, i chiavistelli, le catenelle del portone. Pareva che non sarei riuscito ad aprirlo. «Mais, monsieur!» ripeteva Madame A. seguendomi con passo pesante. Ma all'improvviso la porta si aprì. Adesso che ero sicuro di non essere in trappola, mi potevo permettere una piccola concessione alle buone maniere. «Buona notte, signora» dissi in inglese. «E ancora grazie.» Fece un debole tentativo di ghermirmi con le grandi forbici argentee. Le forbici luccicarono nettamente nella luce che proveniva dal lampione stradale. Si sarebbe detto che una nonnina tarchiata stesse accompagnando alla porta un bambino con un gesto di scherzosa aggressione. "Va' via" avrebbe potuto dire; oppure "Torna subito": ma non rimasi ad aspettare che Madame A. dicesse una parola in più. Presto mi trovai a camminare, ancora tremante, lungo l'affollato Chaussée d'Ixelles, guardandomi dietro le spalle, ora da una parte ora dall'altra. Nel giro di ventiquattro ore mi resi conto che non esisteva nessun cane, nessun piccolo animale accovacciato sulla lanterna, nessun quadro sopra il letto e probabilmente nessuna figlia adottiva. Questo non c'era quasi bisogno di dirlo. Il problema era, ed è, che questa ovvia verità peggiora le cose. In effetti è qui che comincia il vero problema. Cosa sarà di me? Cosa mi accadrà? Cosa posso fare? Chi sono io? Donald Wandrei La signora in grigio (The Lady In Grey, 1933) Donald Wandrei (1908-1987) è maturo per essere riscoperto come scrittore di racconti del soprannaturale. Le sue prime opere furono sostenute da H.P. Lovecraft; in cambio Wandrei si adoperò per vendere alcuni racconti di Lovecraft ad altre riviste che non fossero «Weird Tales», dove apparivano le opere dell'orrore di entrambi gli scrittori. Dopo la morte di Lovecraft, Wandrei e August Derleth fondarono la Arkham House, la prima e più importante casa editrice specializzata nella narrativa macabra e fantastica. Purtroppo nel 1954, quando «Weird Tales» chiuse i battenti, Wandrei smise di scrivere opere di narrativa. Lascia un romanzo, The Web of Easter Island (I giganti di pietra), un libro di poesia,
Poems of Midnight, e tre raccolte di racconti brevi, The Eve and the Finger, Strange Harvest e il postumo Colossus. Le sue poesie Sonnets of the Midnight Hours erano basate sui suoi incubi ricorrenti, e ho l'impressione che "La signora in grigio" possa essere stato uno di questi. Certamente ha tutte le caratteristiche dell'incubo. Da tutta la vita, dal tramonto al sorgere del sole, quando gli altri dormono, sono perseguitato dalla paura. Fin dalla più tenera infanzia sono stato vittima di sogni terrificanti; e nessun sollievo mi è venuto mai dai medici e dagli psicologi. I medici non hanno trovato disturbi organici, tranne qualche fastidio di poco conto, come ne hanno tutti. La mia vita è stata singolarmente immune da disgrazie, spaventi, tragedie, sventure. Non sono mai stato perseguitato da preoccupazioni finanziarie. Nel mio lavoro ho conosciuto costanti affermazioni. Gli psichiatri hanno passato mesi ad analizzarmi, a scandagliare la mia vita, il mio sviluppo emotivo, la mia mente conscia e inconscia; mi hanno ipnotizzato, sottoposto a un numero enorme di test; sono andati alla ricerca di paure segrete e ossessioni che potessero offrire una spiegazione dei miei incubi, ma invano. Sedativi, oppiacei, diete, viaggi, riposo: tutti questi rimedi mi sono stati prescritti prima o poi, ma inutilmente. Per i medici sono un uomo sano di trentaquattro anni; per gli psichiatri sono una persona mentalmente stabile, normale, equilibrata, che fa sogni straordinari i quali, a seconda dei casi, vengono minimizzati oppure non vengono creduti. Per me questo non è un conforto. Sono arrivato ad avere il terrore delle ore prossime alla notte. Spenderei volentieri il mio patrimonio per essere liberato dalle visioni che si impossessano della mia mente durante la notte, ma i grandi diagnostici d'America e gli psichiatri più in vista d'Europa si sono adoperati invano. Mentre me ne sto seduto qui, scrivendo queste ultime parole, mi sento oppresso da una pacata disperazione; la mia mente è lucida come poche volte lo è stata sinora, nonostante il terrore, la ripugnanza, l'orrore, il disgusto e la paura che sono confluiti nel primo, e credo anche ultimo, profondo sgomento che soltanto pochi minuti fa ha distrutto, e in piena luce del giorno, le speranze che avevo di dare un senso alla vita. L'orribile cosa è accanto a me mentre scrivo; e quando avrò finito di scrivere, la distruggerò. Lasciatemi fare un passo indietro di molti anni. Fin dalla più tenera in-
fanzia, lo ripeto, sono stato vittima di sogni orrendi. Teste decapitate che mi inseguivano rotolando; città con statue colossali e bizzarre; fuochi che divampavano e belve che mi balzavano addosso; cadute in abissi insondabili; ascese verso il cielo da voragini popolate da antiche forze del male; vecchi che aspettavano, aspettavano; voli attraverso l'oscurità eterna spinto dal nulla o da qualcosa che solo io potevo percepire; lo stridio di macchine di tortura contro la mia carne; mostri fatti di fiori e di animali, pesci, uccelli e pietre, legno, metallo e vapori, combinati insieme in un'inverosimile unità; terrei vendicatori; discese nelle regioni della necrofilia; lo sguardo bieco di un occhio senza corpo nel mezzo di pianure sterminate e deserte; un cadavere che si alzava e volgeva verso di me lo sguardo di un amico, con tentacoli e brandelli di carne nera in disfacimento che si contorcevano come spinti da folate di vento; i bambini che scalpicciavano verso di me con strane suppliche; la luce del sole su una collina coperta di querce, una luce maligna, di un colore e un odore indefinibile, pulsante, che instillò in me l'odio irragionevole che è alleato della follia; orchidee che dischiudevano fiorì simili a volti infantili grondanti sangue; morti che tornavano, tornavano sempre; l'orribile momento in cui annegavo, e una cosa grossa usciva dalle profondità del mare per mordermi; fili d'erba miagolanti che facevano avidamente le fusa non appena il mio piede vi si posava sopra; questi e altri innumerevoli incubi, che mi torturavano durante il sonno fin da quando ricordo, instillarono in me una profonda e radicata avversione al sonno. E d'altra parte devo dormire, come tutti i mortali. E cosa dirò di quei sogni ancora più oscuri, di quelle processioni fantasmagoriche che non corrispondevano e non corrispondono a nessuna cosa che conosca? Cosa dirò della città sotto il mare, tutta di marmo rosso e bronzo corroso, con geometrie stranamente curve dove poggiano forme incandescenti quali la terra non ha mai generato? Cosa dirò di colui che sussurra nelle tenebre, e del richiamo di Cthulhu? Io ho visto le sette morti di Commoriom e i ventitré dormienti sui quali, a Carcosa, Hali alza i suoi neri tentacoli. Chi altro ha visto il risveglio dei titani morti, o il colore al di là dello spazio, o l'icore di divinità di pietra? Ecco, ecco i sogni che mi tormentavano e mi svegliavano febbricitante e sudato nelle ore dopo la mezzanotte, e nel silenzio che precedeva il grigiore dell'alba. Ma queste erano cosette da nulla, vecchi sogni, in confronto con quelli recenti. Ora non posso soffermarmi sugli eventi che mi portarono a conoscere Miriam, né sull'amore breve ma senza limiti che ci unì, sull'unione senza
fine che avevamo progettato e sulla sua tragica morte di ritorno da una visita ai genitori, quando, già in vista della città, l'aereo precipitò alla vigilia del nostro matrimonio. Forse l'angoscia di quell'incubo a occhi aperti completò la lenta devastazione che gli incubi notturni avevano già arrecato alla mia mente. Non sono io quello che può dirlo. Miriam era morta; se ne erano andati la sua strana bellezza, il grigio dei suoi occhi, il grigio sommesso del suo carattere, il pallore delle sue guance, lo spirito affannato ed errabondo imprigionato in lei. Pensai a lei come alla signora in grigio, mentre giaceva nel feretro, simile a un personaggio di Poe o a una creatura fantastica del Giro di vite. Bella, irreale, diversa, misteriosamente dolce. Morta, ma non per me. Anche la giornata era grigia, un selvaggio pomeriggio autunnale, con le foglie spazzate dal vento che frusciavano con un suono arido e triste, finché, più tardi, non cominciò a piovere, e il mondo prese un grigiore ancora più spento di prima, mentre il rumore delle gocce che cadevano rivaleggiava con l'urlo delle raffiche di vento e pioggia: io ero solo con la mia solitudine. Quella notte, nel santuario della mia camera, ebbi un sogno. Sognai che Miriam mi veniva incontro, mi prendeva la mano e mi conduceva con sé. Arrivammo a un grande mare limaccioso, di un colore spaventevole che mi sgomentava più del fetore. L'oscurità del mare, la sua consistenza viscida e la generale atmosfera di sfacelo, mi fecero star male ancor prima che ella mi inducesse a entrarvi, così che il contatto con quel liquido mi provocò una doppia sensazione di orrore. Giunti al largo di quel mare, mentre mi dibattevo e i polmoni sembravano soffocarmi, la signora in grigio, che fluttuava luminosa sulla superficie, si girò senza ragione o preavviso, e mi ricondusse indietro. Non fui in grado, al mattino, di spiegare l'orribile sostanza che mi ricopriva, né l'odore mefitico che esalava dalla mia camera. Solo dopo ardui sforzi riuscii a ripulirmi, e fui costretto a bruciare ogni cosa che fosse venuta a contatto con quella sostanza viscida, appiccicosa e nauseante. Quella notte, sognai cieli in fiamme e distese aride con sinistre masse di roccia che sorgevano da vallate desolate dove non viveva nulla e non cresceva nessuna pianta, innalzandosi verso una città ciclopica sospesa nell'aria. E, per molte notti, ritornarono i miei vecchi sogni finché venne il momento in cui rividi la signora in grigio che, mentre dormivo, mi prese per mano facendomi alzare dal letto. Attraversammo pianure di un grigio polveroso finché ella mi condusse a una colonna. In questa colonna abitava un grande verme bianco, anche se non proprio un verme; una cosa grassa, si-
mile a una lumaca, tutta grigia, con la faccia, se così posso chiamare quell'orribile grugno, di una creatura razionale; un viso fornito di corna con una pelle disgustosa, rossa, bianca e grigia che mi faceva vomitare; ma Miriam comandava e io obbedivo. Mi avviai a grandi passi verso la colonna, ed ecco che si aprì, rompendosi. Da quelle rovine emerse il nauseante verme, e io lo raccolsi tra le braccia. Si avvoltolò. A questo punto la signora in grigio mi condusse attraverso quella pianura tremenda e desolata in direzione della mia camera, dove mi lasciò, affidando alla mia cura l'abitatore della colonna. Lei si piegò su di me, e la cosa grigia baciò la signora in grigio con la bocca munita di becco; quindi ella si sporse verso di me, mi accarezzò le labbra e riprese il suo cammino, come una nebbia, senza rumore e senza che la si vedesse fare un passo. Quella mattina provai terrore nello scoprire al mio fianco l'orrenda lumaca gigantesca. Ricordo di essere saltato dal letto e battendola con le molle del caminetto di averla ridotta a una sostanza schiumosa. La avvolsi quindi nelle lenzuola macchiate e la bruciai nella caldaia. Poi feci un bagno e dopo, mentre mi stavo vestendo, sulle mie scarpe vidi una polvere grigia e la paura mi assalì di nuovo. Nel cimitero di Afterglow, dove Miriam era stata seppellita, il terreno sembra ricoperto di cenere; ma né l'erba, benché cresca bella verde, né i fiori di campo, benché crescano alti, hanno domato il terreno; così in primavera il grigio spunta attraverso la vegetazione, e in autunno la polvere traluce sopra le foglie morte e i fili d'erba morenti. Ma non volli andare lì a vedere se c'erano le mie impronte: se le avessi trovate, il terrore del sonnambulismo si sarebbe aggiunto al mio delirio; se non le avessi trovate, la paura si sarebbe fatta più cocente. Dove sono stato? Da dove è venuto il gigantesco verme? Da quella volta, per molte notti, per così tante notti che la perdita di Miriam divenne un dolore sordo in parte dimenticato nel tempo e nella memoria, sognai i vecchi sogni, di fughe, di cadute, di città sommerse dal mare; sogni di tortura, di belve sconosciute e di occhi strappati dalle orbite. Poi la signora in grigio tornò in una notte all'inizio dell'inverno, quando cominciavo a dimenticare, per quanto mi era possibile. Accadde la scorsa notte. Per tutto il giorno era caduta la neve, e il vento di nord-ovest, con un lamento prolungato, la spingeva qua e là trascinandola e sferzandola, mentre i rami degli alberi spogli gemevano e sospiravano lugubremente, così che, mentre la tetra oscurità della sera si avvicinava, finii in preda alla malinconia, e mi depressi al pensiero di Miriam, che era morta. Il gelido urlo
del vento fischiò più acuto, e a quel lamento lontano mi addormentai. E mentre dormivo, ella venne da me per condurmi con sé. Mi condusse attraverso pianure desolate e tra le ombre di una foresta, dove ci addentrammo sempre di più fra tronchi di alberi giganteschi, sempre più alti intorno a noi. Raggiungemmo una caverna ed ella vi entrò; io la seguii, sforzandomi di accostarla, ma incapace di accorciare di un palmo la distanza che ci separava. In quel momento accadde una strana cosa: la caverna sprofondava sempre più ripida fino a diventare verticale, inabissandosi nelle viscere della terra. A questo punto accadde una cosa ancora più strana: cominciammo a sprofondare in una discesa graduale; dovevamo tuttavia fare lo sforzo di procedere, come se camminassimo normalmente, ma l'orizzontale era divenuto verticale. Lentamente riuscii infine ad avvicinarmi a Miriam, finché, dopo un'interminabile discesa, ci fermammo lontano, incredibilmente lontano sotto la superficie della terra. E allora mi trovai nel mezzo di una caverna a volta in cui il soffitto si sviluppava in archi dai raggi amplissimi e dalle immense altezze, mentre le pareti si perdevano in lontananza come le navate di una cattedrale cosmica e sepolta. La seguii lungo la navata di quello spazioso edificio; macabre candele, che si levavano come gigantesche torce ai lati del cammino, agitate da umide folate di vento, gettavano ombre ondeggianti sul pavimento; le grigie vesti di Miriam, i grigi ornamenti mortuari, volteggiavano dietro di lei, lambendomi il viso a mano a mano che diminuiva la distanza tra noi. Quindi arrivammo a una porta di legno nero che, al nostro avvicinarsi, si spalancò, muovendosi senza rumore sui grandi cardini. La signora in grigio entrò, e io la seguii. Ora mi trovavo all'interno di una cripta, dove tre candele rosse, prossime a spegnersi, gettavano un riflesso fioco e sinistro; una era vicina alla testa della morta, una ai piedi, una gettava gocce scarlatte sul suo petto. Lì giaceva Miriam, la signora in grigio, e riposava sopra un marmo eterno. All'altezza della testa, una ciotola piena della melma del mare nero; ai piedi, il verme bianco risorto; le mani, raccolte e incrociate sul petto, tenevano, una, una candela, l'altra, una gardenia la cui fragranza, intensa e virginale, superava l'odore della camera mortuaria. Nel sogno, con la strana logica dei sogni, pensavo che questo fosse naturale e non ebbi paura; mi avvicinai alla signora in grigio, ed ecco, come fui vicino, la ciotola traboccò, ma io la spinsi da parte; il grande verme si levò, ma io lo calpestai, mentre le candele si spegnevano con un ultimo guizzo e la gardenia luccicava di una fosforescenza soprannaturale. Grazie a quella luminescenza, pur debole, vidi che Miriam si muoveva; un sospiro passò
sul suo volto, e io la presi tra le mie braccia. Adesso la gardenia mi indicava la strada con la sua pallida luminescenza; io portavo Miriam attraverso l'oscurità piena di fruscii; il grigio delle sue vesti lambiva le mie caviglie e vi si avvolgeva intorno mentre camminavo. Arrivai, infine, al corridoio percorso dalle folate di vento, alle candele che brillavano di luce incerta, e alla solenne infilata di archi simili a quelli di una cattedrale. Così, con la curiosa illogicità dei sogni, il corridoio verticale scomparve, e continuai a camminare attraverso quel vasto spazio finché non emersi sulla pianura. Si alzò la polvere grigia, ma gli abiti grigi di Miriam ricaddero intorno a me, e la polvere passò. Il cielo era vuoto di stelle. Camminai nell'oscurità, salvo per quel singolo fiore il cui profumo addolciva l'aria, e la cui luminescenza mi mostrava il cammino. Mi aggrappai a Miriam e portai la signora in grigio nella mia camera. Solo pochi istanti fa, mi sono destato dal sogno. Rimasi a fissare, a fissare per l'eternità, mentre intorno a me orbite opprimenti e ruotanti con vortici selvaggi alternavano gelida oscurità a rossi olocausti di fiamme: la mia pace interiore ne fu distrutta, e per sempre. Non sono più per me le strade degli uomini, le mortali abitazioni della terra, le transitorie ed effimere incertezze della vita. Ho scritto, e ora morirò, di mia mano, per mia propria scelta. Al risveglio aprii gli occhi sulla signora in grigio, seduta accanto al mio letto. Nel suo viso c'erano le vestigia di putrefazione della morte; i suoi abiti pendevano laceri e ammuffiti. Ma a distogliermi dalla vita furono queste altre tre cose: la fresca gardenia nelle sue mani; le unghie delle dita, lunghe e gialle, come possono essere soltanto le unghie di chi è morto ed è stato sepolto sei mesi prima; e l'orribile modo in cui le sue mani attorcigliavano il fiore, mentre le sue orbite nere e liquefatte fissavano il loro sguardo su di me! Walter John de la Mare Un granellino di polvere (A Mote, 1896) Walter John de la Mare (1873-1956) è stato uno dei due scrittori che più hanno contribuito a dimostrare l'idea di Robert Aickman, secondo cui la storia di fantasmi è un genere affine alla poesia (l'altro, naturalmente, fu Aickman stesso). A parte il racconto The Return, una vicenda di invasamento demoniaco, notevole per la
sua sottile ingegnosità, le altre storie di fantasmi sono confluite in varie raccolte, la maggior parte delle quali fuori commercio. Sarebbe un grande arricchimento per il settore, se qualche editore le riproponesse in un unico volume. Le prime storie, inclusa "Un granellino di polvere", furono scritte sotto lo pseudonimo di Walter Ramal, e in seguito pubblicate dalla Arkham House in una raccolta intitolata Eight Tales. Nella sua introduzione all'antologia They Walk Again curata dal fratello Colin, de la Mare disse dei racconti di fantasmi: «Per chi ama questi racconti ogni arringa in loro difesa è superflua, e forse nessuna è di grande utilità». Devo aggiungere altro? Mi svegliai dopo aver sognato una raccapricciante lotta contro un geranio gigantesco. Ancora insonnolito, guardai con soddisfazione e contentezza i sussulti e gli strani sobbalzi della testa di mia zia. Mentre sonnecchiava nella sua sedia di vimini, mi faceva venire in mente una bambola orientale addobbata con fiocchi sgargianti. La cuffietta le stava appiattita, pendula e sbilenca, sui riccioli molli; le mani gialle, dalla pelle lucida e inanellate di smeraldi, le giacevano abbandonate in grembo. Mi sedetti sulla poltrona come una specie di ragno satollo, intento a valutare la grigia estensione della sua tela, più placido che malintenzionato nei confronti di quella magra mosca. Un sole assonnato guardava bieco il giardino dal suo volto ardente. Volsi lo sguardo da mia zia al gatto nero. Il verde luminoso dei suoi occhi lampeggiò con pigro disprezzo sulle manovre di un reggimento di moscerini. Nell'arazzo dei miei sogni avevo intessuto anche lui, con sonnacchioso piacere. Poco dopo, infastidita oltre misura, la bestia, balzando in aria, cominciò a sferrare colpi a destra e a sinistra con le zampe anteriori. Mi girai verso mio zio per sorridere con lui davanti a quello strano comportamento e così d'improvviso colsi la sua bizzarra postura. Puntellava la testa calva color malva con la mano destra, e appoggiava il gomito sulle ginocchia a quadretti. Sembrava che osservasse con assorta attenzione uno scarabeo che diligentemente faticava fra caparbi fili d'erba. L'atteggiamento era convenzionale, ma lo sguardo era straordinario: fissava lo scarabeo con il bianco degli occhi. Perché non ci fossero dubbi in proposito, mi lasciai prudentemente cadere sulle ginocchia e dal basso lanciai un'occhiatina alla sua faccia. La bocca era aperta, abbastanza per lasciare intravedere il luccichio dell'oro fra i denti; gli imporporava le guance un rossore debole e puerile; le palpebre,
insolitamente spalancate, non rivelavano due pupille grigie, ma due spietati ovali di un bianco gialliccio. Ero stupefatto. Nel mio stupore tralasciai la discrezione; rimasi in ginocchio nel molle terreno erboso - diventando così un ostacolo insormontabile per lo scarabeo - e riflettei profondamente. Forse il mio sguardo fisso turbò lo zio; forse mi sentì respirare. Sta di fatto che, con inquietante rapidità, i suoi occhi si girarono quasi fossero fissati su cardini ben oliati, e due pupille grigio chiaro, con un insolito luccichio, si fissarono nelle mie. Il rossore delle sue guance si scurì fino a diventare un paonazzo malsano. Digrignò i denti. Mi avvinghiò il polso con il pollice e un dito gelido e, allungando il collo con mossa furtiva, si volse a guardare mia zia. Percettibilmente soddisfatto che lei fosse serenamente abbandonata nel sonno e ancora piegato quasi in due, mi fece cenno di raggiungerlo al di là del prato, vicino ai meli. Questo comportamento misterioso in un uomo di specchiata rispettabilità - oggetto di ammirazione di ogni vedova abbiente dei dintorni, uomo di poderosa vivacità e bellicosa allegria mi diede non poca soddisfazione. Mi congratulai con me stesso per quel suo scivolone, lui così sobrio e controllato. Mi era sempre sembrata una disdetta che quel potenziale Falstaff fosse un santo. Al riparo dei meli, con le guance rosse rese più colorite dai tardivi raggi del sole attraverso le foglie scintillanti, sembrava un peccatore ubriaco come di più non avrei potuto desiderare. Sarei rimasto deluso. «Com'erano?» chiese ansiosamente. «Tutte bianche» dissi ridendo. «Ah! Non ridacchiare, ragazzo mio! Lo vedo, lo vedo che sei ancora un pivello. Le sbronze e le donne: ecco i pensieri di chi ha vent'anni. Non sono ubriaco.» (Il suo atteggiamento metteva a dura prova la possibilità di credergli.) «Un minuto di silenzio, ragazzo mio. Devo vedere come va a finire. Il posto sotto i pini è scuro, e presto la luna scomparirà dietro le nubi. Due minuti!» Dopo di che roteò le pupille, e con i suoi occhi bianchi e ciechi rimase a dondolarsi piano, avanti e indietro, in una striscia gialla di sole. Attraverso il verde degli alberi vedevo il movimento irregolare dei nastri color lavanda di mia zia. Pazientemente, e un po' allarmato, attesi che le pupille di mio zio tornassero a essere visibili. Poco dopo rotearono di nuovo e ripresero la posizione normale. «Ci saranno guai» disse sbattendo le palpebre al sole. «Eppure avanza imperscrutabile.» Con un profondo sospiro mi afferrò il polso. «Il cuore mi cederà un giorno o l'altro» disse. «Senti qui!» Mi mise una mano su una specie di stantuffo all'altezza del taschino dell'orologio. Sul suo viso il blu si era mescolato al rosso. Ri-
tenni opportuno far finta di non capire. «Vedi, ragazzo mio» continuò con la sua voce da asmatico «se tua zia venisse a saperlo, addio pace! Non la smetterebbe di preoccuparsi. Inoltre tua zia non ha fantasia. Perché dovrebbe averne?» si chiese con forza. «Posso aiutarti? Ho sfogliato qualche libro di medicina. Conosco un tipo da Guy's. Potrei, capisci...» «Al diavolo i libri di medicina!» disse mio zio. Questo mi sembrò un sintomo rassicurante. «Non sono un mostro» aggiunse in tono irritato. «La mia carcassa è roba mia. All'inferno! Ascolta, Edmond. Lascia che ti racconti tutto dall'inizio; il fardello si fa greve sulle mie spalle. Soltanto la notte lo spartisce con me. Perfino in questo momento lui percorre i suoi itinerari impraticabili; e io non sono là a vedere. Ridi pure di me, se ne hai voglia, ma non farmi prediche. Siediti, ragazzo mio; tua zia se ne starà buona e tranquilla per altri dieci minuti.» Il suo tono grave mi sconcertava ancor più delle sue bizzarrie. Mi sedetti ai piedi di un melo e appoggiai la schiena contro il suo tronco sbiancato. Mio zio fece la stessa cosa. «Mi ricordo» disse aggrottando le palpebre «mi ricordo di un sogno che facevo spesso quando avevo sei o sette anni, e mi capitava di svegliarmi sudato e tremante. Era un sogno semplice: un sentiero interminabile fra muri di pietra bianca e liscia. Imboccando quella strada, si poteva camminare verso l'eternità, verso lo spazio, verso l'infinito. Mi capisci?» Annuii. «Ricorda, ragazzo mio, che mi costa molta fatica parlarne, preferirei guardare. Il sogno non tornò più dopo che ebbi dodici anni, ma da allora ho fatto altri sogni, altrettanto contrari ai dieci comandamenti. Ho visto cose che la Natura sputerebbe dalla bocca. Eppure tutte si sono congiunte in una interminabile sequenza. C'è una teoria scritta sotto la lettera S in un libriccino che avevo l'abitudine di portare quando cominciai a lavorare in banca, Teoria algebrica del sogno, frutto di un delirio mentale. Mi hai seguito fin qui?» «Sì» dissi. «Bene, lo scorso autunno, verso la fine di ottobre, in un periodo di forti venti, fui tormentato da molte notti insonni. Ormai in pensione dalla banca, non avevo da impegnare la mia mente con calcoli matematici e così, senza aride cifre da stivare in testa, diedi corda ai pensieri. Adesso eccomi con la corda al collo. Il cinque novembre, il giorno di Guy Fawkes (ricordo che tua zia si lamentò per un forte odore di polvere da sparo in camera da let-
to), alle due meno un quarto secondo l'orologio della chiesa di San Simone, me ne stavo sdraiato sulla schiena completamente sveglio. I miei occhi erano naturalmente attratti dal cerchio bianco di luce che la lampada a gas disegnava sul soffitto. Tua zia non dorme se non c'è almeno un barlume di luce in camera. Senza pericolo di raccontare bugie, posso dire che in quel momento non pensavo a niente. È una consuetudine diffusa ma deprecabile. Diciamo allora che i miei pensieri, se ne avevo qualcuno, si fermavano tra la retina e la terminazione del nervo ottico. La teoria è più facile della scienza. All'improvviso, mentre guardavo pigramente, una piccola figura una figurina sottile, simile a un insetto - la vedevo con l'angolo sinistro dell'occhio - attraversò strisciando lentamente un breve tratto del disco luminoso sul soffitto, per scomparire quindi, ancora strisciando, alla mia vista dal lato destro. Con mio stupore le palpebre si misero a sbattere rapidamente, gli occhi cominciarono a muoversi di loro volontà in modo strano e sorprendente. Ti prego di notare che in quel preciso momento scoprii che gli occhi mi avevano ingannato. Forse, ribellandosi contro la fissità insolita e spiacevole dell'insonnia, erano roteati sui loro assi verso l'interno. Non ne conosco il motivo. Sia come sia, ora so che, al di sotto dell'osso frontale, guardavo dentro il mio cranio. Con tutta probabilità il cerchio di luce grigia da me visto era la luce naturale, immagazzinata nei miei occhi, che lampeggiava nell'oscurità. Se era così, avevo scambiato la luce individuale del mio occhio, forse immaginaria, per la luce reale del lume a gas. Questa non è scienza, è senso comune. Tali, intendo dire, furono le mie conclusioni in seguito, dopo avere sperimentato quel fenomeno per molte notti. Per quanto mi sforzassi di vederla da sveglio, la creatura non ritornò più a camminare sul soffitto, per l'ottima ragione che nella mia eccitazione e ignoranza guardavo esattamente nella direzione opposta. Ma invisibile, inavvertita, impensabile, era lì, era sempre stata lì e lì sarebbe rimasta fino a... lo sa il cielo fino a quando.» Mio zio si passò il fazzoletto di cotone sulla fronte, sugli occhi e sulle guance e (non diversamente da come faceva il gatto nero) alzò lo sguardo verso gli squarci di blu fra i rami verdi. «Sembrava che il ronzio di quell'ape acuisse il profumo dei fiori, non è vero?» disse, il fazzoletto appoggiato sulla testa. «E che successe dopo?» chiesi. «Nel corso della notte successiva» continuò mio zio «mentre me ne stavo sdraiato di proposito nella stessa posizione, penso di essermi quasi addormentato. Così mi parve, benché continuassi a sentire tua zia che russa-
va - era il tempo scandito da un orologio onirico. Ecco il cerchio di luce; ecco il lume a gas, le persiane alla veneziana, il supporto intarsiato dell'orologio. Ma quasi impercettibilmente il cerchio di luce cominciava a diventare vago vicino alla circonferenza; mostrava ancora qualche tremolio, ma adesso c'erano lievi segni, macchie permanenti nei punti più bianchi; non era privo di ombre. Afferrai le lenzuola e strangolai i miei pensieri. E ancora, ancora, Edmond, la figurina sottile uscì da est e scomparve a ovest. Guardai. Le forme vaghe al centro si muovevano tremolando, ma senza prendere una forma definibile. Di nuovo osservai la figura che passava, ma ora avanzava più lentamente. Ben presto la circonferenza sembrò ampliarsi. La figura assunse dimensioni e contorni distinguibili. Alla base del disco si rese distinguibile una forma piatta, sotto un'enorme volta grigia (il mio cranio, forse), accendendosi e intensificandosi in tonalità bianche e rosa. Improvvisamente dall'oscurità della base strisciò fuori un filo bianco: strisciava e si contorceva fra masse scure (masse che assomigliavano alla farina vista al microscopio). Subito dopo le masse nere assunsero colore e moto. Improvvisi lampi luminosi colpirono il mio occhio; con un fremito convulso presero vita chiazze che si muovevano lentamente, provocandomi un dolore sordo da farmi sembrare che fossero i bulbi oculari a generarle. Quindi percepii linee flessuose, nastri di una grazia elegante e distese di un verde gradevole e riposante, illuminato da bagliori, vibrazioni e scintillii di luce gialla. Mi sembrava di essere più teso a ricordare che a vedere. Se non mi inganno, benché i miei occhi seguissero quelle visioni con curiosità, riuscivo a prevedere chiaramente quello che sarebbe successo. Le immagini vaghe e distorte svanirono come fumo. E ora guardavo un sentiero bianco, infangato, pieno di orme, sul quale un esercito di alberi neri e verdi montava la guardia. Tutto attorno osservavo splendidi uccelli in volo, fiori che parevano di cera, sgargianti e luminosi. Ragazzo mio, qui non ce ne sono di fiori così. Là terribili mostri si abbandonavano con voluttà al calore, ed esseri di piccolezza inimmaginabile saltavano, si muovevano rapidi o lenti da un ramo all'altro. L'aria vibrava dei loro cinguettii, delle loro fusa, dei loro ronzii; il terreno indurito emanava una fragranza secca. Insetti mostruosi con ali di pipistrello punteggiavano fitti i rami neri. Il profumo del miele faceva venir l'acquolina in bocca; l'asprigno della corteccia resinosa traspariva da sotto il profumo del miele. Nel cuore del sottobosco, verde, stagnante e fetido, lampeggiavano sguardi guizzanti, e balenavano manti di animali, lucidi e lisci. C'era un'atmosfera arcana in quel luogo, e un'angosciosa sensazione: tutto quello che i miei occhi vedevano era mio,
dentro di me - creature mie, create da me. Ma questo so: ero io stesso a ingigantire la scena. Il cielo plumbeo, gli alberi e tutti gli esseri viventi erano un quadro che stava sulla punta di un ago. Dio la sa più lunga di un filosofo tedesco. E così, caro ragazzo, come nel sogno di Giobbe, una figura nuda e familiare (benché il volto fosse distolto da me) si mise a camminare con andatura maestosa sul sentiero battuto da tanti passi. E la figura di quell'uomo mi fece quasi rivivere il terrore del mio sogno d'infanzia. Mi girai verso tua zia in cerca di consolazione, ma non riuscii a vederla. Non mi svegliai neppure. Quindi si affacciò alla mia mente l'orribile pensiero di essere cosciente e sveglio, e con quel pensiero la visione scomparve (rapida fu la sua scomparsa). Seguì un movimento lento e tranquillo dei miei occhi, e immediatamente mi trovai a fissare il volto di tua zia, soave e giovane nel sonno. Nascosi la faccia tra i suoi dolci pizzi, e come un alcolizzato cominciai a lamentarmi ad alta voce. "Che c'è John?" disse tua zia con voce assonnata. "Hai fatto un brutto sogno!"» Mio zio si interruppe di nuovo. «Il nitore dell'aria è meraviglioso» aggiunse sottovoce, annusando la sera. Lo guardai a fatica. «Più un incubo che un sogno» dissi. «Comincia a fare freddo per tua zia» replicò. Quindi, dopo aver sbirciato attraverso i tronchi in direzione della vecchia signora, si avvicinò a me e, in punta di piedi, mi bisbigliò all'orecchio: «Nel giro di otto mesi quella minuscola creatura ha attraversato i secoli. I sogni possono essere così orribili e logici? Io, dirigente di banca, dovrei gridare di notte come una ragazzina, se gli esseri viventi - tutti gli esseri, alberi, rocce, nuvole - del mondo dentro il mio cranio non fossero a mia immagine? Quell'uomo, minuscolo come un granellino di polvere - anche se non si girerà mai per mostrarmi la faccia, ed è inutile che io cerchi di sbirciare - quel granellino di polvere sono io - io, tuo zio. Presto, tua zia si sta svegliando». Mi affrettai a seguirlo fino alla mia sedia. Mia zia si svegliò dal sonnellino un po' irritata. Si lamentò dell'umidità. Ma mio zio, senza dare alla lingua di lei l'occasione di muoversi e al suo umore di inacidirsi, mi insegnò a far sorridere una donna. Rapido a cogliere il momento buono, avvolse uno scialle di lana sgargiante lavorata a maglia intorno alle spalle di mia zia, la sollevò da terra ansando prodigiosamente mentre la piccola signora emetteva un timido gridolino, e trotterellò via con lei verso casa. Li seguii portando due sedie di vimini. Naturalmente intitolai Nervi la storia che lo zio mi aveva raccontato. Eccentrica sarebbe stato un termine troppo leggero per raccontare la verità, se
avessi avuto quell'intenzione. Ma, mentre mi pettinavo, giunsi alla conclusione che sarebbe stato opportuno non riferire a nessuno le confidenze di mio zio, meno che mai a un medico. Se i suoi nervi erano all'origine delle visioni, un paio di dosi di valeriana sarebbero bastate a mettere a posto le cose. Se era pazzo, neppure il più meticoloso dei medici avrebbe potuto curarlo, e l'idea della camicia di forza avrebbe portato mia zia alla morte. Così si dirà che io ne ridevo. Come Sara, in seguito venni rimproverato. Mi stupii di come in passato piccoli gesti e movimenti bizzarri di mio zio fossero sfuggiti alla mia attenzione. Per esempio, durante una cena, mentre teneva in alto un bicchiere di vino e ne controllava la tonalità di colore contro la luce della lampada, chiuse rapidamente gli occhi c'abbassò il bicchiere restando in uno stato di confusione. Mentre offriva a mia zia un po' di budino alla tapioca, le sue pupille sorridenti scomparvero all'improvviso; si buttò sotto il tavolo, presumibilmente alla ricerca del tovagliolo. Non solo; capitava anche, di quando in quando, che bisbigliasse qualche parola, forse che imprecasse, contorcesse le dita, mettendo a volte in grande imbarazzo una cameriera timida e spenta. Questi incidenti, o altri del genere, probabilmente erano accaduti spesso in passato. A tutte queste eccentricità, d'altra parte, mia zia non prestava attenzione, ma con serena e blanda curiosità sorrideva placida. Quando la cena finì, io e mio zio facemmo un giro in giardino. Chiacchierammo in modo discontinuo, ma era chiaro che solo con la lingua mio zio era con me, mentre i suoi pensieri erano occupati dai sogni. Alla fine cominciò a chiedermi ansiosamente come si fosse comportato durante la cena. Io gli dissi la verità. «Caro ragazzo mio» rispose lui amaramente «ho cercato di considerare la tragedia una farsa, ma è inutile. Mi sto impantanando sempre più. Gli occhi si rifiutano di ubbidirmi. Più di ogni altra cosa voglio trascorrere la vita guardando. La situazione sta precipitando. Ho spiato le capriole dei miei pelosi antenati - forse Darwin!... - e non c'era scimmia senza dio che non fosse a mia immagine. Tutte le reincarnazioni del mio Io eterno - pensaci, ragazzo mio - mi passano davanti agli occhi, lo fanno anche ora. Questa turba di creature, delle quali sono il dio e il creatore, si moltiplica come vermi nella spazzatura; le città brulicano di esseri orrendi e deformi, storpi e spregevoli. Ogni pensiero del passato assume forma umana. Qui uno incita alla lascivia, lì un altro infetta l'aria di oscenità. Qui una creatura scarna, vestita di bianco, lotta e ansima per raggiungere la luce. E quella pulce di uomo avanza incurante, da solo, sotto il sole e la luna. Nel sonno e nella veglia, la sua orribile piccolezza, la sua spaventosa lontananza, affliggono
la mia pelle; mi viene la nausea. Ricordo che Farquharson, il cassiere, è diventato isterico (troppa vita, ragazzo mio!). E noi lo abbiamo preso in giro e gli abbiamo ricamato un berrettino da sole. Un berrettino da sole! Pensa un po'!» Mio zio si fermò bruscamente sul vialetto di ghiaia con la faccia rivolta al giardino. Mi sembrò di sentire il lento roteare dei suoi occhi. «Vedo un'enorme città di granito» brontolò. «Vedo sottili spirali di metallo e torri ardite che guardano accigliate l'oscurità delle loro ombre. Da stretti pertugi vengono luci bianche; una nuvola nera emana fumo nelle strade. Non c'è vento, eppure un vento ristagna sopra la città. L'aria ha un odore che assomiglia al rame. Ogni suono ha una risonanza metallica. C'è una luminescenza - una luminescenza che viene dall'oscurità cosmica - una luminescenza immaginata da occhi affaticati. La città è un bubbone greve di clamore e tumulto che si levano sottili e giallognoli nelle anguste vie come polvere in un avvallamento argilloso. La città è cinta da mura così come il dito è cinto da un anello. Il cielo è muto per chi lo ascolta. Laggiù, come il corvo vede le spighe di grano, io vedo quell'uomo, granello di polvere nei suoi abiti neri, ora illuminato da vampate di luce, ora nascosto nella tenebra densa. Le strade brulicano di creature. Sciamano borbottando e camminano come formiche sotto il sole. Le facce sono feroci e circospette, le labbra malevole. Parlano tra loro, additano, osservano. Io continuo a camminare, imperturbabile e rigido. Ma conosco, oh, ragazzo mio, conosco l'alfabeto dei loro spregevoli sussurri, del loro starsene a bocca aperta, del loro gesticolare. L'aria freme, percorsa dal volo di forme nere e alate. Il suono del passo di quell'uomo sul granito scandisce gli attimi che fuggono.» Mio zio si girò e mi prese la mano. «E questo, Edmond, questo è l'uomo d'affari che si affermò in città e rivaleggiò con tutti per l'eccellenza del suo vino. L'uomo che corteggiò tua zia, che generò figli sani, che siede al suo posto in chiesa ed è rispettato. Che simili cose terribili debbano celarsi nel mio cranio! Tu sei il mio figlioccio, Edmond. Le azioni non sono che meri residui e le parole... frivolezze, frivolezze. Che i pensieri siano puliti, ragazzo mio; i pensieri devono essere puliti; sono i pensieri che fanno l'uomo. Forse non avrai mai una cattiva reputazione, eppure potresti essere un furfante. I pensieri, buoni o cattivi che siano, vivono in eterno, e la vita non ha fine.» «Senti un po', zio» dissi «è una cosa seria, lo sai. Devi venire in città a vedere Jenkinson, il neurologo. Un cambiamento d'aria, signore.» «Senti odore di zolfo?» disse mio zio.
Ridacchiai allarmato. In seguito andai a trovare l'uomo che era stato il braccio destro di mio zio, ebbi un colloquio molto franco con lui, senza dirgli niente tranne che mio zio non stava bene e aveva bisogno di attenzioni. Inoltre riuscii a convincere mio zio a dormire da solo per alcune notti. Pensavo che sarebbe stato più sicuro. Ma (povero vecchio!) pareva che avesse un orrore irrazionale della solitudine. «Poterle almeno toccare la mano» diceva. «Non voglio medici con il loro scetticismo, ragazzo mio; lasciami morire come si deve» rispondeva ai miei calorosi tentativi per convincerlo a consultare un medico. Decisi di rispettare la sua volontà. Il giorno successivo parve aver recuperato il suo normale ottimo umore e, benché ogni tanto cadesse in uno stato di assenza, era in una condizione che, alla luce della mia esperienza, era assai diversa da quella degli ultimi mesi. «Ho la sensazione di averti propinato, ieri, quando eravamo in giardino, una gran quantità di sciocchezze» disse attaccando bottone con me dopo colazione. «Il sole era caldo, davvero caldo. Che resti tra noi, eh? Va tutto bene. Ho passato una notte tranquilla; senza incubi. Ah!» In un attimo si nascose gli occhi con la manica. «Ehm, benedetti moscerini! Vieni in giardino, ragazzo mio» disse, smentendosi da solo. Nei pomeriggi di mercoledì, quando mia zia era impegnata nelle visite parrocchiali, e anche in altri momenti se ci capitava l'occasione, io e mio zio ce la filavamo nei boschi oppure ci nascondevamo in una casetta estiva, bizzarra e ammuffita, vicino ai cespugli di uva spina. Lì ce ne stavamo seduti per ore, mentre lui raccontava i fatti e le avventure delle fantastiche creature che affermava di vedere. Forse mi comportai da folle nel dar retta alle sue assurdità, ma chi avrebbe fatto diversamente? Il fascino delle sue visioni era irresistibile. Era piacevole ascoltarlo mentre se ne stava seduto lì, con gli occhi bianchi, il cappello di paglia logoro in testa, in piena estate. A volte tornava sull'esperienza dei sogni fatti; a volte guardava nel suo mondo e mi diceva quello che ci vedeva. E quello che vedeva o fingeva di vedere, lo faceva vedere anche a me. Se anche non mi riferiva tutti i dettagli io, da solo, riuscivo dai semi da lui gettati a raccogliere una messe di visioni esattamente uguali alle sue. Su una cosa si dava sempre la pena di insistere: i tanti esseri, le città bizzarre, tutto quello che mi aveva descritto possedeva un'atmosfera che apparteneva a lui, un colore intellettuale che era suo. Era un creatore inconsapevole, ma era responsabile delle sue creazioni. Sembra una teoria folle! «Vedo che la fine si sta avvicinando; egli percorre sentieri solitari. Oh, se fuggisse e cercasse un nascondiglio! Le
mille, mille creature sparse gli si raccolgono intorno; strisciano seguendo le sue impronte; lo avvolgono nella loro rete. Attraversa villaggi (che credo di aver visto in sogno). La gente si prende gioco di lui per le strade, e i cani abbaiano. Viaggia per città che mi sono al tempo stesso familiari e sconosciute. Il pericolo si nasconde sotto ogni foglia. C'è nell'aria un fragore di terrore e di sciagura.» Mio zio mi trascinava con il suo entusiasmo, e io provavo uno slancio e un fervore quali solo un ragazzo sa sentire; e benché fosse facile vedere che la sua malattia era seria e che le conseguenze avrebbero potuto essere terribili, tuttavia con la gentilezza di una madre e l'intuito di un bambino dissipava con un bacio le ansie che di tanto in tanto assalivano mia zia. Fino alla fine conservò l'amabile rotondità delle guance e il vigore della voce; non raccontò la propria sofferenza e non diede fiato alle trombe per proclamare la propria pena. Persistette a insultare i medici. Se la sua perpetua ilarità era a volte sdolcinata, non fece mai dietrofront e neppure alla fine gli mancarono le battute. Il quindici luglio mia zia venne da sola nel tinello e si avvicinò con un fruscio di vesti a me che me ne stavo seduto vicino alla finestra a crogiolarmi al sole. Sembrava che il sole carezzasse la sua fragilità, che rimanesse impigliato nei suoi vecchi merletti, nelle sue mussole, nei suoi ninnoli. «Temo, caro Edmond, che tuo zio oggi non sia proprio a posto» disse affabilmente. «Sembra che abbia un po' di febbre. Era agitato questa notte, e questa mattina era impaziente con i vestiti. Mi ha allarmata, mio caro.» Proprio allora mio zio entrò nella stanza. Camminava a scatti e andò a sbattere violentemente contro il tavolo. Quando la luce del sole cadde su di lui, notai un livido scuro sulla fronte. Le braccia oscillavano a tempo con il movimento delle gambe; il braccio sinistro in consonanza con la gamba sinistra; il destro con la gamba destra. Barcollando, avanzò verso di me. Mi scansai abilmente. Si sedette su un angolo del divano, nel posto che avevo lasciato libero. Una mosca ronzava sul vetro caldo della finestra. Mia zia stava al mio fianco con la mano sinistra sulla bocca. La testa di mio zio ondeggiava lentamente avanti e indietro. Il sole brillava sul suo viso e sui capelli radi. «Come un raggio di sole» disse. «Come un raggio di sole in inverno, rapido e intenso. Quella pietra è caduta con un tonfo. Un altro fuoco di segnalazione! La città è vivida di fiamme. Non c'è luna stanotte. Corri, corri, corri! Incontrerà quelle facce ammuffite. Una contorsione. Alla gola!» La mano di mio zio si serrò sul cordone della veneziana e si placò. «Edmond, Edmond» cinguettò mia zia.
La veneziana cadde sulla testa di mio zio. Lui la sollevò senza dire una parola, volgendo su di noi occhi sfuggenti, rossi, fiammeggianti. Mia zia si inginocchiò ai suoi piedi e cominciò a dargli pacche sulle mani. Io ruppi la corda del campanello e gli gettai latte freddo in faccia, non avendo acqua sotto mano. «Il tuono romba. I cieli eruttano fiamme; lo vedi - come un verme, come una vespa. Egli sfuggirà; deve farlo, deve. Oh, Dio! A migliaia turbinano, corrono e fuggono come foglie morte nel mio giardino. Selvaggi e folli, implacabili come ghiaccio. Ah! Il grifone di granito! È sotto, è sotto. Guarda la strega, l'immonda strega. L'aria è color pece, a macchie. Il vento freme. Ora brontola il tuono; i loro piedi sono querce fruscianti. Oh, povero me! Girati, piegati, sotto!» La domestica entrò portando un vassoio di carne di rognone. Se ne stava sulla porta fissando mio zio. Mia zia continuò a dargli colpetti sulle mani, gridando lamentosamente: «John, John!». «Ecco!» gridò lui, restando a bocca aperta. «Lo hanno catturato, calpestato, ferito. Io sono catturato. Oh, dove sono gli uomini bianchi dalle gentili facce bianche? Non ci sono uomini bianchi? Nessuno? Le torri di granito si contorcono. Edmond, ragazzo mio, ha girato la faccia - la sua povera faccia bianca, morta. È prossimo alla morte... è andato via, si arrampica. Sono numerosi come uno sciame di api. Guarda, urrà! Urrà!» (I suoi urrà erano deboli come la vibrazione di un cavo nel vento.) «Gli uomini bianchi! Ragazzo mio, sono molto pochi. Ogni pensiero vive per... Siamo negligenti, negligenti. Aggrappati forte alla tua sedia, pallido uomo, simile a un granello di polvere. Non badare alla loro furia selvaggia. Bacia la fredda pietra, granello di polvere, guarda verso il cielo attraverso gli squarci luminosi. Lucy, la tua mano, la tua mano gentile. Tutto è empiamente piccolo.» La cameriera se ne andò. «Ora combattono; si raccolgono a migliaia. Il loro brontolio spaventa la notte. Pallido e livido, putrescente, verde e lascivo. Egli si rannicchia, si agita e suda sulla sua gruccia. L'odore del sangue è acuto sulla lingua. Gli uomini bianchi cadono. Li abbattono sotto i loro passi. Il cielo è scosso. Le guizzanti lingue di fuoco sono nere, perché il cielo è aperto... spalancato. È la luce del giorno. Sento il suono di molti... È giusto. Oh, uomo, granello di polvere!» La lingua di mio zio gli chiocciò in gola. Si fece silenzioso. Il suo corpo si scuoteva spasmodicamente. La mosca ronzava nel sole danzando. Poco dopo, mio zio si alzò in piedi. Con il collo allungato (come se
fosse condotto da una cavezza) attraversò la stanza. Superò le porte a vetri, entrò nella serra. Il profumo caldo e intenso dei fiori lo inseguì e si confuse con quello della carne di rognone. Mio zio continuò a camminare in mezzo ai vasi rossi e uscì in giardino, dove gli uccelli cinguettavano tra le foglie chiazzate e la terra brulicava di insetti. Raggiunse cautamente il sentiero di ghiaia e immediatamente cominciò a correre, e mentre correva, gridava e agitava le braccia nell'aria. La porta si chiuse escludendolo. Io e mia zia lo seguimmo rapidamente. Mia zia arrivò in giardino per prima. Quando saltai in un tratto assolato, lo vidi di nuovo. Correva qua e là nel frutteto, in preda a una smania, impazzito per i colpi che prendeva contro i tronchi e i rami bassi, oscillanti. Saltellava qua e là, da una parte all'altra. Mia zia, appoggiata al mio braccio, accoglieva con un gridolino ogni colpo sordo. Sentivo le domestiche che singhiozzavano in cucina. Non c'era una nuvola che nascondesse il sole. Ferito, battuto e ansimante, tutto a un tratto, nel mezzo di una corsa cieca si fermò immobile e rigido. Si portò le mani alla gola e strinse. Quindi, con il passo incerto di un bambino, si avvicinò a noi a fatica. Senza esitazioni e senza paura camminò sull'erba e sulle aiuole fiorite finché arrivò da mia zia. Si sedette su una bassa panca dicendo: «Lucy, Lucy». Poi tacque. Ramsey Campbell Versetti diabolici (McGonagall In The Head, 1992) Ramsey Campbell (1946) ha sempre dichiarato di essere scrittore di narrativa horror, ma ha contribuito a molte antologie di racconti di fantasmi. I suoi romanzi The Nameless e Obsession contengono episodi tipici delle storie di fantasmi, mentre Midnight Sun è stato favorevolmente accostato alle opere di Blackwood e Machen. Le sue raccolte più recenti, Waking Nightmares e Alone with the Horrors, contengono vari racconti di fantasmi. Secondo Walter de la Mare, «la spettralità dello spettro non conta molto» nella narrativa del soprannaturale, e forse ciò giustifica la storia seguente. Si avviava a diventare cronista. Quel lunedì mattina, come al solito, era giunto presto al lavoro, sperando che il direttore si accorgesse del suo zelo. Al giornale, però, l'ufficio era chiuso a chiave, e così Don rimase a fissare la strada, in quello scorcio di ottobre, attraverso il vapore del suo fiato. Gli
autobus, che portavano in giro parole e facce scarabocchiate sui finestrini appannati, sfilavano in quel quartiere pieno di negozi come una processione di elefanti; ragazze e giovani donne si scambiavano un "brrr", prima di rifugiarsi nei caldi negozi in cui lavoravano. Una mezza dozzina di scolari - i visi illividiti dall'aria gelida - attraversarono la strada sgusciando davanti a un camion carico di lavatrici, e lo stridio dei freni risvegliò nello stomaco di Don una sensazione che sembrava un misto di fame e nausea. "Il reporter Don Drake testimone oculare: il nostro uomo sulla scena della tragedia..." I bambini saltellarono sul marciapiede, lasciando il camion fermo con i freni incandescenti; Tina, impiegata con l'incarico di ricevere i visitatori, balzò fuori dalla Porsche del fidanzato e sculettò nella sua gonna-pantalone a beneficio di Don, mentre indugiava in un ultimo bacio. Tina aprì l'ufficio, accese le luci al neon e corse ad appoggiarsi con il sedere al calorifero più vicino. «Vuoi scaldarmi, Don?» Si tolse la scarpa sinistra e con il piede si massaggiò il polpaccio destro. Il risvolto della gonna-pantalone pareva alludere alle cosce inguainate nelle calze, ma non mantenne la promessa di fargli intravedere un lembo di carne nuda. «Dimmi come» rispose Don. «Sai dov'è il bricco; il caffè è in uno dei miei cassetti.» «Lo sapevo che ti riferivi al caffè» disse mentre la sensazione di disagio gli saliva dall'inguine allo stomaco. Quando sentì battere al vetro della porta, corse ad aprire a Ted Mull, che gettò il cappello di tweed sul bancone e si strofinò il torace vigorosamente prima di sbottonarsi il soprabito. «'giorno, giovane fiore amoroso» disse con voce tonante, piegando il viso e aprendo la bocca come per afferrare qualcosa in volo. «Ce n'è per me?» «Ti riferisci al caffè?» chiese Don. «Cosa ti fa pensare che parlassi a te, presuntuoso?» «Non prendertela con lui, Ted. Sta facendo del suo meglio.» «D'accordo, ce la mette tutta. Posalo sul tavolo, figliolo, e portaci il latte» disse Ted, mentre si pettinava i capelli che gli rimanevano. Il resto della squadra arrivò prima del direttore. Stanley Brad rispose ai saluti bofonchiando un "egh" e mettendo in bella mostra la lingua, esibendone il colore e l'aspetto che aveva quel giorno. Ted Horrocks, non molto più vecchio di Don, batté le palpebre ansiosamente in direzione della porta del direttore, svolgendo dalla sciarpa il collo ossuto. Bernadette Hain, che scriveva la pagina femminile, arrivò per ultima, degnando i suoi colleghi di un'occhiata di sovrana disapprovazione mitigata da un'aria di consape-
vole sopportazione. «Non è quello che io chiamerei un buon giorno» disse. Allo scoccar delle nove fece il suo ingresso il direttore, con il cappotto di astrakhan che gli pendeva dalla manica che si stava sfilando. «'giorno, signor Davenport» disse la squadra della redazione con un coro di voci diverse. «'rno.» Era un saluto che rivelava un umore neutro. «'no» era di cattivo augurio; «'giorno» era il saluto espansivo. Con un gesto della mano respinse l'offerta di caffè fattagli da Don e si avviò verso le altre scrivanie. «Due minuti.» Esattamente due minuti dopo i cronisti, intruppati, entravano in direzione. Un giorno, si era ripromesso Don, avrebbe sentito quello che il direttore aveva da dire durante le riunioni del mattino. Attraverso la porta percepiva soltanto mormorii, che però bastavano a distrarlo da Tina, salvo quando il suo profumo impregnava l'aria. Scoprì lo schermo e la tastiera, poi chiuse la penna a sfera placcata in oro che teneva da parte per quando avrebbe dovuto prendere appunti e l'appoggiò sulla scrivania. Quindi squillò il telefono sulla sua scrivania, e lui si sentì qualcuno. «"News"», annunciò. «Nascite, Matrimoni e Decessi.» «Decessi?» «Purtroppo.» «Purtroppo?» «Decessi.» «C'è un limite di lunghezza?» "Oltre il metro e mezzo potrebbe essere un problema" avrebbe detto Don, se per lui non avesse parlato la sua voce professionale. «Sta a lei decidere, signore» disse. «Il costo è di dieci penny a parola.» «Anche per la poesia?» «Per tutto quello che vuol vedere pubblicato. Me lo può dettare subito, se ha una carta di credito.» «Io... cough.» Un colpo di tosse. «Le darò i miei estremi, quando avrò finito il necrologio. Ha carta e penna?» «Ho tastiera e schermo.» «Oh, povero me! È sicuro che funzionino?» «Ha la mia parola.» «Allora ecco le mie» disse l'interlocutore e dal tono di voce che assunse si sarebbe detto che stesse leggendo cose scritte da un altro. «Oh, papà, noi ti abbiamo avuto per tutti troppo veloce?» Don aveva battuto l'intera frase prima di capire quello che gli veniva
chiesto. «La velocità va bene. "Oh, papà, ti abbiamo avuto per tutti..."» «... per tutti questi anni, «Ma ogni vita deve finire con cough... «... affanni. «Quando entrambi la soglia della vita varcammo, «Dopo quello della mamma fu il tuo il primo viso che contemplammo. «E se eravamo infelici a scuola «Tu ci consolavi, tu cough, cough, cough...» Don aspettò che la tosse si calmasse e ripeté: «Tu ci consolavi, tu...». «... ridevi a squarciagola» disse l'interlocutore con un risentimento che a Don sembrò irragionevole. «E quando gli esami dovevamo dare, «Ci incoraggiavi a... cough...» «... ad andare» disse Don, battendo sulla tastiera e resistendo alla tentazione di chiedere: "Ha altro da dettare?". «Hai dato a ciascuno di noi i soldi per comprare cough, cooouuugh, cough... Per comprare cough...» Don allontanò il ricevitore dall'orecchio per frapporre uno certo spazio tra sé e quello sgradevole suono aspro. A quella distanza la tosse suonava ancora più finta. Quando l'interlocutore ripeté «per comprare», Don tese il braccio per tenere il ricevitore il più lontano possibile, finché non sentì che la voce proseguiva. «... un appartamento, «E ci hai dato anche il supplemento. «Siamo stati anni in ogni classe, «Ed eri tu che pagavi le tasse. «Poi tu e la mamma ci vedeste entrambi sposati, «Prima Sue e quindi il vostro piccolo cough...» Don non poté resistere alla tentazione di digitare "cough" alla fine della frase, che poi cancellò quando rilesse il testo per controllare la punteggiatura, le maiuscole e gli errori di battitura. Non ci sarebbe dovuto essere molto altro da aggiungere, altrimenti avrebbe cominciato a pensare che la telefonata fosse uno scherzo. «Il tuo piccolo...» «... cough... Fred, innamorati» disse l'interlocutore con un sospiro rumoroso. «La mamma teneva i nostri bimbi sulle ginocchia, lì, «e... cough, cough, cough...» Era uno scherzo. "E te ne dava uno quando doveva fare la pipì" Don si sorprese ad ag-
giungere, e si innervosì talmente per aver detto quelle cose ad alta voce che scrisse l'intera frase. «E...» suggerì, passata la tosse, ma subentrò un silenzio non interrotto neppure da un respiro. «E dava...» «Perché non una bara?» «Niente» disse Don, giudicando che dopo tutto la telefonata era seria. «"Sulle ginocchia" stava dicendo, e...» «E di ciascun dicevi che era la tua ranocchia.» Don rimase attonito con il ricevitore per aria prima di digitare la frase. «Andiamo avanti» disse, cercando di non scoppiare a ridere. «Noi ci siamo raccolti ora che non ci sei più, «E i nostri pensieri saranno rivolti a te lassù cough, cough, cough.» Don batté l'ultima parola senza pronunciarla e aspettò che i colpi di tosse finissero. «Da chi viene il messaggio e a chi è diretto?» Dopo un silenzio che sembrò più lungo del necessario perché l'interlocutore prendesse fiato, arrivò la risposta: «A Terence Bernard Moore da sua figlia Sue, dal figlio Fred e dai nipoti cough, cough». «Gemelli, eh?» borbottò Don. «I due ranocchi?» Il silenzio lo rese nervoso, pensando che l'interlocutore lo avesse sentito, finché lui - Fred, presumibilmente - disse: «Speranza e Carità». "Scommetterei che si chiamano Pinocchio e Pastrocchio" disse Don tra sé e sé. E più ad alta voce: «Mi occorrono solo i dati della sua carta di credito». «Un attimo solo.» Don aspettò in mezzo a uno sfogo di tosse pirotecnico e a un fracasso che dava l'impressione di una stanza messa a soqquadro. Alla fine di quel baccano pensò che il telefono fosse stato scaraventato a terra. L'interlocutore, invece, disse in tono aggressivamente contrito: «In questo momento non posso metterci le mani sopra». «Allora temo che sarà troppo tardi per...» «Le manderò un assegno. Entro che ora deve riceverlo?» «Per l'edizione di martedì, domani mattina.» «Lo sto scrivendo adesso. Arrivederci.» «Ma certo» commentò Don quando, interrottasi la comunicazione telefonica, posò le dita sulla tastiera. Sarebbero bastati pochi secondi per cancellare quella tiritera, ma preferiva aspettare fino alla mattina successiva per essere sicuro che fosse davvero uno scherzo, anche se di un tipo complicato. La voce era troppo vecchia, pensò; sembrava quella di chi vuole apparire più vecchio di com'è in realtà. Stava per chiamare Tina per mo-
strarle quella porcheria in versi quando sullo schermo, accanto al riflesso della propria faccia, si profilò quello della faccia del direttore. «Sss» sibilò Don, badando a non dire "Scusi" ma: «Signore?». «La cravatta ci sta stretta, signor Drake, eh? Non riesce a parlare?» «No?» rispose Don, e fu tutto quello che gli venne in mente. «Si rimetta in sesto allora. Non siamo a scuola, siamo nel mondo reale» disse il signor Davenport, osservando Don che si stringeva il nodo. Don era stato eliminato al colloquio con il giornale della concorrenza perché aveva i capelli troppo lunghi, e adesso i peluzzi della nuca rasata si rizzavano sotto lo sguardo inquisitorio dei colleghi. Tutti dovevano accontentare il direttore, si disse. Ted Mull era uscito dall'ufficio interno tuonando: «Ma certo che lo farò, signore; lei può sempre contare su di me» quasi non gli importasse nulla che qualcuno sentisse quella frase servile. Mentre il direttore si dirigeva verso la toilette, Trevor Horrocks balzò in piedi, dicendo affannosamente «Oh... ehm... il signor Dav...» senza ottenere altro risultato che quello di indurre Davenport a ingobbirsi, stringendosi nelle spalle. Don, tutto a un tratto, si sentì meglio. Poteva fare affidamento sulla propria voce professionale, e chiunque, vedendolo alla scrivania, lo avrebbe preso per un cronista. Prima della fine della giornata aveva perso il conto delle nascite e dei matrimoni con cui aveva avuto a che fare, e dei necrologi in versi. Perché la morte faceva venire voglia di scrivere in rima? Forse in quel modo i vivi riacquistavano una sorta di controllo sulla vita, anche se ciò significava ridurre la loro esperienza della morte a qualcosa privo di significato. Quando si avviò verso casa, i negozi stavano abbassando le saracinesche. I palazzi più grandi erano per la maggior parte case di riposo, a eccezione di quella abitata da lui, che era suddivisa in un numero di appartamenti quasi pari al numero dei locali. Salvo che per questo, la differenza principale con gli altri edifici era che in una casa come la sua non c'erano mai visitatori. Le voci dei personaggi dei cartoni animati lo seguirono di televisore in televisore, mentre si precipitava su per le scale consunte, illuminate da lampade a tempo, e affrontava la terza rampa dell'ultimo piano. Svuotò un barattolo di fagioli stufati e salsiccia nella padella sopra il fornello elettrico e riempì il tostapane con tre fette di pane. Mentre consumava la cena, gettò lo sguardo sulle finestrelle delle buste che aveva raccolto nell'ingresso e, dopo aver lavato i piatti, le aprì. Le bollette non erano salate come aveva temuto, anche se lo stipendio di cronista le avrebbe rese
meno gravose. Allineò le buste sulla mensola del camino e cercò di leggere un romanzo umoristico, ma non riuscì a perdercisi dentro, dopo essersi imbattuto nella parola "morto" quattro volte in altrettante pagine: lettere morte, non recapitate; una battuta smorta; un "caro estinto"; un ubriaco da morire. Abbandonò la lettura e, scendendo la collina, si diresse al pub, giusto di fronte al cimitero. Era il locale del Politecnico, dove andava a bere fin dai tempi in cui seguiva il corso di giornalismo. Camminando sulle assi del pavimento di quel posticino tranquillo, invaso dal fumo di una folla degna di un treno di pendolari, gli parve di essere a casa sua. Stava per inghiottire il primo sorso di Letterman's Bitter, quando una mano gli si appoggiò sulla spalla. «Ti stai preparando alla parte?» chiese Paul Prentiss. «E quale sarebbe questa parte?» «Non essere modesto. Ti hanno visto lavorare al tuo giornalaccio. Sembri proprio uno scribacchino.» Don non aveva mai apprezzato l'umorismo pesante e rozzo che accompagnava quella faccia da scolaretto paffuto e piccolotto; ancora meno gli piacque Prentiss quando chiese: «E adesso che storia hai per le mani?». «Attualmente ho per le mani questo bicchiere.» «Capisco le allusioni.» Ma evidentemente il tono di Don non fu abbastanza deciso, perché Prentiss gli offrì un altro bicchiere di birra e ammiccò sopra la sua spalla. «Siete fortunate, ragazze. Due veri giornalisti al prezzo di uno. Incontrate Don Duck, voglio dire Drake.» Don era solito approfittare della mancanza di spazio per limitarsi a fare un cenno con la mano libera senza girarsi. «Su, non tenerti tutte le notizie per te, Don» disse Prentiss. «Che cosa hai in ballo adesso?» Don, che si era scolato il primo bicchierone e aveva l'impressione che la testa stesse per staccarsi dal corpo, capì perché Prentiss lo stava tormentando. «Eri tu, non è vero?» «Il lavoro ti sta prendendo la mano, Don. Io non sono una storia, sono una persona reale.» «Sei stato tu a fingere che ti fosse morto qualcuno. Non dovresti scherzare con i morti.» «Non riescono a star seri? Non ci dici sempre che in ufficio non fai altro che occuparti di morti e affini per quel tuo giornalaccio, mentre i nostri insegnanti pensavano che tu fossi così...» Don tracannò una sorsata di birra amara e ne sputò la maggior parte sulla faccia di Prentiss. «Sei così divertente che non sono riuscito a trattenermi»
disse, mentre Prentiss sputacchiava e si puliva. Si godette lo spettacolo finché il robusto braccio del barista non lo afferrò. «Penso che per questa notte ne hai avuto abbastanza, figliolo. Quanti anni hai?» «Abbastanza per sapere quando qualcuno vuole farmi passare per cretino.» «Ci riesci benissimo da solo» gli gridò Prentiss, mentre Don lottava per raggiungere l'uscita dopo aver svuotato il suo boccale. Come aprì violentemente la porta, il freddo della notte lo colpì in faccia come un getto di acqua ghiacciata. Si inoltrò impettito nella nebbia. "Diverbio tra giornalisti finisce in un gran fracasso" pensò, come se si trovasse di fronte alla scritta sbavata incisa nella lapide di un cimitero. "Perché uno dei due era uno smargiasso". Accettava rime più brutte ogni giorno in ufficio. Prima o poi, ce l'avrebbe fatta a mettere a frutto gli anni passati in biblioteca a studiare su tutte quelle parole. Al mattino si mise ad aspettare davanti al «News». E quando finalmente Tina uscì dalla Porsche, le labbra gli si erano irrigidite e la bocca pareva intasata dal ghiaccio. Tina corse al solito calorifero, e lui la seguì nella scia profumata. «Salve, giovani amanti, cosa mi raccontate? Fatemene uno bello nero.» «Non è ancora arrivato, vero, il signor Der...» «Gagh.» «Ti diverti con poco.» «'giorno.» Don rimase a guardare Tina che smistava la posta, recapitata da un postino che se ne andò fischiettando come una cinciallegra sfiatata. «C'è qualcosa per me?» le domandò infine Don. «Un mucchio.» Nessuna delle lettere e nessuno degli assegni si riferiva alla lunga telefonata del giorno prima. Peccato che non avesse rovesciato una botte intera in testa a Prentiss. Riprese sullo schermo le diciotto righe di versi e stava sogghignando malignamente quando squillò il telefono. Le cancellò, e subito dopo si disse che sarebbe stato meglio aspettare fino alla posta di mezzogiorno, ma non importava: era in grado di ricordarsi i versi parola per parola, come se dallo schermo gli fossero balzati in testa. «Nascite, Matrimoni e Decessi» rispose. Naturalmente la posta di mezzogiorno non conteneva nulla da parte di Fred Moore, e Don sentì che poteva mettersi tranquillo. Il pomeriggio gli
portò soprattutto nascite e matrimoni, il che fu un sollievo. Quella sera, dopo la magra cena, si rannicchiò davanti al televisore di fianco al lavandino per scegliere il canale. Una rassegna di facce in bianco e nero gli sfilò sotto gli occhi, finché scelse una commedia, ma non riuscì a guardarla per molto perché sembrava che i dialoghi non fossero parlati, bensì cantati. «Una sciarada, una sciarada» mormorò più e più volte mentre era a letto, e si addormentò domandandosi come gli fosse venuta in mente quella parola. «Finirai col tirar le cuoia a forza di ciondolare davanti all'entrata» gli disse Tina la mattina dopo. «Com'è il giovane sogno dell'amore oggi? È ora di svegliarsi.» «Hmmm.» «Hmmm.» «'rno.» «Mi scusi sono... il signor Dav...» «Dio ti benedica, amore, ci manca il tuo chiocciare.» «Dio ti benedica, amore, ci manca il tuo chiocciare» confermò Don, ricordando a se stesso di comportarsi in modo professionale, di non mettere parole in bocca all'interlocutore, di non dar retta alle rime che gli si formavano in testa, per quanto fossero tentatrici. L'annuncio sarebbe dovuto uscire l'indomani; dopo di che non avrebbe avuto motivo di essere in ansia, anzi, non aveva motivo di esserlo neanche in quel momento. Quella sera scese al pub, ma attraverso le finestre vide Prentiss in un alone di fiati umani. Attraversò il cimitero, dove sentì l'odore di una tomba scavata di fresco. Benché le lapidi luccicassero cupamente sopra le zolle gelate, non riuscì a distinguere nessuna iscrizione. A letto gli parve di avere la testa carica di parole, ma al mattino la sentì vuota, grazie a... "Ne ho abbastanza" mormorò tra sé e sé, mentre si preparava per andare al lavoro. «Lasciare libero il passaggio, brrr!» Il resto dei saluti si perse nella confusione, mentre alcuni distributori, presentatisi a Tina per ritirare il loro carico di giornali, si sentivano dire di entrare dal retro. Don pensò a tutte le parole che aveva dato alle stampe quella settimana, parole che si diffondevano per la città e cominciavano a svanire nell'istante stesso in cui venivano stampate. Era quasi ora di pranzo, quando qualcuno al telefono gli si rivolse con un tono al quale non era preparato. «È lei il responsabile del contenuto del giornale di oggi?» «Se si tratta di nascita, matrimonio o cough... sì, sono io».
«E allora dov'è mio padre?» Don si fece immediatamente sospettoso. «Il suo nome?» «Il mio nome è Fred Moore, e mio padre era Terence Bernard.» «Mi aspettavo che avrebbe risposto così. Non Paul Prentiss, eh?» «Che dice? Che assurdità sta dicendo?» «Stai calmo, Paul, se non vuoi un'altra birra in faccia. Non hai abbastanza notizie all'"Advertiser" per non tentare di scrivere su di me?» «Ma con chi diavolo crede di avere a che fare?» «Questa volta sei quasi riuscito a cambiare voce, ma non mi prendi in giro. Sei andato avanti troppo tempo l'altra volta: è questo che ti ha tradito. Nessuno al mondo poteva continuare per diciotto righe di quella robaccia senza accorgersene.» «Credo che lei non si renda conto...» «Smettila, Paul, prima che ti venga un attacco di cuore. Forse qualcuno cerca di mettersi in contatto con me.» Don sentì un suono soffocato che gli diceva di essere arrivato in ritardo con il consiglio sull'attacco di cuore; dal telefono giungeva soltanto il suono del segnale di libero. Guardò con un ghigno il ricevitore prima di riappendere, e rimase in attesa della successiva chiamata. In quel momento tutte le telefonate in arrivo passavano per il centralino, interrompendo così Tina nello smistamento della posta di mezzogiorno. Alla fine gli portò un'unica busta che aveva come indirizzo "Ufficio Defunti" scritto con mano tremante. «C'è qualcuno che ti ama» gli disse e ritornò di corsa al centralino, mentre il direttore apriva la porta. «Signor Drake?» «Signor Davenport?» Il direttore fece un cenno indicando oltre la sua spalla con una faccia che pareva una lastra di pietra ed era come sempre accigliata. «Nel mio ufficio, per favore.» Che fosse l'occasione tanto attesa da Don? Cercò di mostrarsi disinvolto e insieme entusiasta, mentre entrava nell'ufficio riservato, dove tutto l'arredamento sembrava impregnato dell'odore della pipa che il signor Davenport stava riaccendendo. Senza invitarlo a sedere, il direttore si accomodò nella sua poltrona, battendo con le ginocchia contro il lato inferiore della scrivania. «Ci piace il nostro lavoro, eh, signor Drake?» «Certamente che ci piace. A me piace.» «Non ha ambizioni altrove?» chiese il direttore sibilando tra i denti e facendo diventare rosso il tabacco nella pipa.
«Altrove, be'...» Se almeno avesse avuto il tono di voce che usava al telefono! In quel momento usava un tono poco adatto. «Ambizioni, ci può scommettere, ma quando dice altrove...» «Proceda con passo lento e misurato, signor Drake. Non cerchi di correre prima di saper camminare.» «Scommetto che lei ha fatto così. Anzi che non ha fatto così.» Il direttore lo fissò al di sopra del fornellino della pipa, incandescente. Alla fine disse: «Allora cos'è che ho sentito a proposito dei suoi annunci?». «Qualcosa di promettente... certamente...» La voce di Don sembrava voler attenersi alle rime. «Riguarda un certo signor Moore» disse il direttore. «Un certo signor Moore? Quale signor Moore?» A Don parve di recitare una filastrocca. Si serrò le labbra con la punta delle dita mentre la voce del direttore si assottigliava. «Un certo signor Moore che ha appena parlato con me; voleva sapere che fine ha fatto il necrologio di suo padre.» «Se le ha detto di avermelo dettato per telefono...» «No, non lui. Suo padre.» «Suo pa...» Don si schiarì la gola sofferente e riprovò. «Suo padre...» «Suo padre ha telefonato per trasmettere il proprio necrologio e mi confermano che è stato lei a riceverlo. Non mi chieda perché lo ha fatto; non sta a noi fare domande. Sapeva di essere in punto di morte, ha detto suo figlio, e subito dopo aver parlato con lei, non ha più smesso di tossire finché non è morto.» L'informazione forse veniva da Paul Prentiss, pensò Don all'impazzata, Prentiss che cercava di passare al «News» notizie false. Un unico punto era chiaro in mezzo a quella confusione di cose incomprensibili che ormai sembrava essere diventato il mondo: chi aveva chiamato non si era lamentato della risposta di Don alla telefonata di cinque minuti prima. «Non abbiamo potuto pubblicare il necrologio» disse Don con ispirazione tempestiva. «Non abbiamo ricevuto il pagamento.» Il direttore lo fissò con l'aria di essere assorto in qualcosa di completamente diverso. «Le conviene accertare come è andata la cosa e informare il figlio.» «Lo farò» promise Don, e stava uscendo dall'ufficio quando il signor Davenport disse: «Prenda questi». «Sto bene, non sono malato» disse Don. «Non ho bisogno di medicinali» e si accorse troppo tardi che il direttore gli stava porgendo l'indirizzo e il
numero di telefono di Moore. Li afferrò e barcollando uscì dirigendosi verso la scrivania dove lo aspettava una busta con un francobollo per stampe, non per corrispondenza. La prese sforzandosi di non strapparla per aprirla. Riuscì a scollare il lembo posteriore. La busta conteneva un assegno da parte di T.B. Moore. Don lo appoggiò vicino al pezzo di carta che gli aveva dato il signor Davenport, quindi li accostò ancora di più nel tentativo di leggerli simultaneamente senza spostare gli occhi. Non appena vide Tina alle prese con una chiamata, afferrò il telefono e chiamò. «Il signor Moore?» «Chi parla?» Grazie a Dio, Don era riuscito a dissimulare la propria voce. «Chiamo da parte dell'Ufficio Nascite, Matrimoni e Decessi. Hanno dovuto pubblicare, cioè lui ha dovuto... insomma posso dire che l'assegno di suo padre ci è pervenuto in questo istante.» «Ma davvero?!» «Ha usato l'affrancatura per le stampe» disse Don, pensando che Moore, se era di cattivo umore come pareva, avrebbe considerato quell'informazione un insulto. «Le posso garantire che l'inserzione di suo padre sarà sul "News" la prossima settimana.» «Lei capirà che se me ne assicuro, ne sarò sicuro.» "Lei fa le rime come suo padre" si trattenne dal dire Don prima di chiudere la comunicazione. Pinzò l'assegno e il pezzo di carta in cima alla pila della corrispondenza e accese il monitor. Sentiva il ritmo del primo verso di T.B. Moore: cough cough, cough cough, cough cough cough cough. Fissò lo schermo bianco e mosse le labbra, e quando il monitor sembrò sul punto di avere un guizzo secondo quel ritmo, Don chiuse gli occhi e tentò di formulare le parole con le labbra. Non funzionò. Non ricordava una sola parola di Moore. Non era urgente, cercò di dire a se stesso. Purché se ne ricordasse prima della settimana successiva, nessuno lo avrebbe scoperto. Ma l'incapacità di ricordare sembrava un buco nel cervello, un vuoto che in tutti i modi volesse essere colmato. Le rime di Moore: se Don si fosse ricordato le rime, il resto sarebbe venuto. Cercò di ricordare perlomeno una rima quando il telefono squillò. Lo afferrò borbottando un saluto, un confuso mormorio fatto di due parole che si accavallarono nell'uscire dalle sue labbra. «Parlo con l'Ufficio Nascite, Matrimoni e Decessi?» «Sì, questo è l'Ufficio Primo e Ultimo Respi...» tossì Don per interrompersi. «Sì.»
«Che cosa ha aggiunto?» «Mi occupo del congiunto e del def...» tossì più forte. «Non è quello che intendevo dire» riuscì a dire. «Posso fare per la prossima settimana un messaggio alla memoria?» «Vuole una giaculatoria?» La donna esitò, e Don poté aggiungere: «Può pagare con la carta di credito o spedire un assegno se, cough, preferisce». La richiedente dettò subito gli estremi della sua carta di credito. «Va bene, è fatto» disse Don. «Dica.» «Anche se da quando ci siamo detti addio tanti anni son passati, «Finché i gradini del cielo non hai affrontati... «Noi pensavamo che mai ci saremmo salutati.» La possibilità di scegliere tra le mille rime che gli erano balzate in mente salvò Don: accavallandosi l'una sull'altra per uscire insieme dalla bocca, gli consentirono di formularle con le labbra senza parlare. Si asciugò la fronte con il dorso della mano dove la peluria si era rizzata. Scrisse il verso. «Dica.» «Pensando a te siamo addolorati.» Don preferiva i propri versi, ma batté i suoi. «Continui.» «Ogni settimana in chiesa accendiamo una candela...» Sarebbe andato tutto per il meglio finché non scriveva le parole che formulava sulle labbra, in silenzio. Bastava che dicesse "continui" alla fine di ogni verso; la sua voce professionale non lo avrebbe tradito. Quando l'interlocutore, finito di dettare, chiese: «Tutto a posto?», Don si limitò a bofonchiare affermativamente prima di chiudere la linea. I suoi colleghi stavano ritornando alle scrivanie, raccontando quello che succedeva nel mondo fuori dell'ufficio. Ogni volta che rispondeva al telefono, Don si abbassava sulla tastiera perché non lo vedessero formulare con la bocca risposte oltraggiose a frasi del tipo: "Non è morta, se ne è andata prima" o "Non c'è mai stata una mamma più dolce", oppure "Siamo felici che ora tu sia in pace". La giornata era al termine, quando Ted Mull, diretto alla toilette, si chinò su di lui mormorando: «Primo segno di pazzia». «Purché non sia asineria» bisbigliò Don guardandolo mentre si allontanava. Lasciare l'ufficio non gli fu di sollievo come sperava. Aveva previsto che sarebbe riuscito a pensare liberamente, una volta rimasto solo, ma si sentì circondato dalle parole. Ogni cosa aveva un nome - strada, casa, lam-
pione, edificio - e i nomi sembravano ammassarsi tra lui e il mondo. Entrò in casa con il verso "La sensazione di avere una chiave" e salì le scale con quello "Il gusto del cibo". Mangiò qualche cucchiaiata di fagioli in scatola, e gli parve di nutrirsi con il gelo della fine di ottobre. Aveva bisogno di calma per poter pensare, ecco il punto - aveva bisogno di bere qualcosa. Non era da giornalisti non bere nulla. Il pub gli sembrò un rifugio contro le gelide parole, ritte nell'oscurità. Il ritrovo non era ancora affollato, e il barista che aveva ordinato a Don di uscire non era di turno. Don si sedette in un angolo con un bicchierone di birra, poi con un secondo, volgendo le spalle al locale per poter bisbigliare. «Morto» ripeté. «Moore deve semplicemente aver detto morto. Nella mia testa è diventato beccamorto, cascamorto.» Si lambiccava il cervello a cercare una rima che fosse la chiave, quando si sentì energicamente toccare sulla spalla da un dito appuntito. In quel momento il ritrovo era pieno di bevitori e di fumo, e Don ebbe la sensazione che la folla gli avesse spinto addosso Paul Prentiss. «Solo una parola prima che tu sia sbronzo» disse Prentiss. «Perché sei uno...» cominciò a dire Don di rimando, ma si portò in tempo la mano sulla bocca. Aveva detto a Fred Moore sia il nome di Paul Prentiss sia dove lavorava, e se non avesse mantenuto la promessa di pubblicare il necrologio, Moore avrebbe senz'altro preso contatto con il giornale rivale. «Non hai dimenticato che ti ho annaffiato?» balbettò. «Ti pagherò i danni. Se tossisci, il bicchiere non finisci. Lascia che te lo riempia, tu...» Prentiss lo fissava divertito, in silenzio. Sapeva, pensò Don: Moore si era già messo in contatto con lui. Il frastuono della folla - troppe, troppe parole - lo travolse. «Tu non puoi sbattermi in prima pagina sul giornale» gridò rivolto a Prentiss, alzandosi in piedi. «Sono qui soltanto per farmi un boccale.» «Lascerei stare il boccale, se fossi in te.» «Ho gli stessi diritti che hai tu, altroché» urlò Don, cercando di divagare per paura di non riuscire a fermarsi. Non aveva tempo da perdere, doveva ricordarsi le parole di Moore prima che Prentiss riuscisse a scoprire che lui le aveva dimenticate. Si fece largo dimenandosi in mezzo alla folla e si lanciò nella notte. Scuro, duro. Fragilità, fatalità. Piante, tremante. Pino, cuscino. Camminare, avanzare. Piangente, dente. Date, incassate. Interrato, coricato. Ossa, fossa. Lontano, baccano... Nessuna di quelle rime gli ricordava i versi di Terence Bernard Moore. Quando non riuscì più a pensare per il freddo,
andò a casa. Se la voragine nel suo cervello stava succhiando la realtà riducendola in parole, allora, se fosse rimasto nell'oscurità assoluta in silenzio, forse si sarebbe creato abbastanza spazio nella sua mente sovraccarica perché la memoria potesse riprendere a funzionare. A un certo punto si addormentò. Doveva aver continuato a fare rime, tuttavia, perché quando la gelida luce del sole lo svegliò, il suo cervello era oppresso da coppie di parole, mentre la realtà circostante gli sembrava più remota che mai. Sarebbe arrivato tardi al lavoro. Si gettò acqua fredda in faccia, rabbrividì indossando gli abiti gelidi, e corse fuori di casa con la faccia irrigidita. Sebbene fosse quasi puntuale, c'era solo Tina: tutti gli altri erano dal direttore. Durante la notte doveva essere successo qualche fattaccio, perché Don poteva sentire il ronzio della discussione nell'ufficio di Davenport. Ted Mull e Bernadette Hain sembravano arrabbiati, e per alcuni momenti di panico Don si sentì certo che fossero inorriditi per qualcosa che aveva combinato lui. «Non hai dormito granché?» disse Tina. «Ho l'aria di un lacchè?» «Non è quello che volevo dire.» «Attenta a non mentire.» «Fa' come ti pare» disse Tina girando i tacchi. «È quello che voglio sperare» protestò Don, mancando quasi il gancio per appendere il cappotto, nella fretta di trovare rifugio alla scrivania. Una volta acceso il monitor, non avrebbe dovuto parlare con chi gli stava attorno. Proprio quando lo schermo si illuminò, si aprì la porta del signor Davenport. «Ah, signor Drake. Siamo arrivati adesso, eh?» «Tutti e due, io e lei, neh?» «Credo di non aver capito una sola parola.» «Vuole che parli a squarciagola» bisbigliò Don a voce bassissima mentre il telefono suonava sulla sua scrivania. Quella chiamata lo aveva salvato, pensò. Premette il ricevitore contro la guancia, e la mascella gli cadde, quasi gli fosse stata tolta di sotto una benda. Cosa si sarebbe sentito costretto a dire? «Parlo con la sezione neonati?» disse una donna. "Non c'è bisogno di essere così ornati." Don formulò la frase muovendo le labbra senza emettere altro suono se non un grugnito di incoraggiamento. «Posso annunciare "un lieto evento"?» "Guarda un po' che accopp..." Don tossì con tanta forza che gli fece male
la gola. «Sì, sì» disse. «A Dee e Desmond Gray, da un figlio allietati...» Don ce l'avrebbe fatta, se fosse riuscito a sfogarsi formulando le parole in silenzio prima di battere sulla tastiera. Restò a bocca aperta guardando lo schermo. Invece della frase dettatagli aveva scritto: "Effetto collaterale di cinque minuti spensierati". Poteva continuare la telefonata e cercar di dedurre dallo schermo quello che il cliente aveva detto per davvero. Ma non sarebbe servito a niente: non avrebbe smesso di fare rime finché non si fosse ricordato delle parole di Moore. «Mi dispiace, c'è una grana. Può richiamare tra un po'...» borbottò coprendo l'ultima parola col baccano che fece nel riattaccare il ricevitore. Mentre lo appoggiava leggermente fuori posto, per non avere altre chiamate, Ted Mull si sporse oltre il monitor verso di lui. Don pensò che Mull si fosse accorto del suo espediente telefonico, ma il cronista gli disse: «Ho sentito quello che hai detto al capo». «Vuoi darmi un altro grattacapo?» Mull chiuse di scatto la bocca, quasi avesse catturato qualcosa. «Non andrai da nessuna parte con quell'atteggiamento, ragazzo mio.» «E allora mi sta bene se va tutto a schifio.» La faccia lucida di Mull si tinse di sfumature diverse di rosa e di bianco, facendo venire in mente a Don una torta di gelato. Bernadette Hain raccontava a Tina lo scempio della notte prima - vandalismo e, a quanto si diceva, il peggio era avvenuto in un cimitero - ma Don non aveva voglia di ascoltare; sarebbero state altre parole per le quali trovare le rime. Si cacciò le dita nelle orecchie, chiuse gli occhi e, quando li riaprì, si trovò solo con Tina. Era quanto di meglio potesse sperare. Non doveva parlarle. Doveva approfittare di quell'occasione prima che Tina o il direttore si chiedessero come mai il telefono di Don aveva smesso di suonare. Una volta che avesse ricostruito i versi di Moore, non avrebbe più sentito la costrizione a trovare rime - senza dubbio sarebbe riuscito a convincere il signor Davenport a dargli un altro incarico. Era Moore che gli riempiva la testa di rime nel tentativo di ritrovare le proprie? L'idea gli sembrò un'ispirazione, ma il cervello di Don era in ebollizione: visitatore rinnovatore, richiamare curare circondare, morto corto, defunto consunto... Forse se avesse pensato a tutte le parole possibili che facevano rima con Moore, morto e defunto, sarebbe uscito da quell'ossessione; forse se le avesse messe tutte per iscritto... Fissava con occhi stralunati lo schermo, convinto di dover completare l'elenco
per chiarirsi le idee, quando una voce disse: «Moore». Don pensava di essere stato lui a parlare ad alta voce finché non notò il nuovo arrivato, un uomo vestito di nero con una lunga faccia chiazzata che sembrava schiacciata fra due folte basette. «Il direttore è occupato al telefono, ma lo avvertirò che lei è qui, non appena sarà libero» gli stava dicendo Tina. «Cosa devo riferire?» «Deve riferire di mio padre. Del suo necrologio che non avete pubblicato. Da stamattina cerco di mettermi in contatto con qualcuno, ma sembra che la linea sia fuori servizio. Voglio vedere il necrologio prima che vada in stampa.» «C'è il signor Drake lì. Don, questo signore vuole parlare con te.» Don sentì le labbra che gli si contraevano. Stavano per aprirsi, stava per parlare: sarebbe stata la fine. Ecco la sua nemesi, il vecchio figlio di Moore, non più il piccolo Fred. "Prima Sue e quindi il vostro piccolo Fred, innamorati" pensò e, muovendo le labbra, ebbe un singulto. "Poi tu e la mamma ci vedeste entrambi sposati..." Tutto a un tratto il necrologio gli tornò in mente come se lo scrivesse in quel momento, ed ebbe paura di non batterlo abbastanza in fretta prima che gli scappasse dalla testa. Rivolse a Fred Moore un sorrisetto spento, gli fece cenno di aspettare finché non avesse finito allo schermo e si girò dall'altra parte, mentre le sue dita cominciavano a correre sulla tastiera. Due righe, quattro, otto, sedici... benché non fossero in ordine, tutte le diciotto righe erano lì, grazie a Dio. Il figlio di Moore si stava schiarendo la voce con forza, ma Don mise le strofe in ordine cronologico prima di girarsi verso di lui. Non si fidava di parlare. Andò al bancone, sollevò la ribalta e invitò Moore a farsi avanti indicandogli la direzione e ripetendo il gesto finché Moore, con aria accigliata, passò dall'altra parte. Offrì a Moore la propria sedia e gli rimase accanto, mentre l'uomo sbirciava lo schermo. «Oh, papà, noi ti abbiamo avuto per tutti questi anni» lesse Moore ad alta voce. Don sentiva il defunto Moore che leggeva le proprie parole. Gli sembrava che ogni riga spazzasse via uno strato di parole morte dalla sua mente. Mentre il figlio pronunciava le parole «e i nostri pensieri saranno rivolti a te lassù», il signor Davenport si affacciò sulla porta del suo ufficio, domandando: «Va tutto bene?». «È lei il direttore?» «Ho questo onore. Posso esserle utile?» Moore puntò un dito sul monitor; si percepì il suono dell'unghia contro
lo schermo. «Provveda a che questo non sia mai pubblicato.» Che importava, si disse Don. Dal momento che i versi gli erano usciti dalla testa, doveva essersene andata anche la sua ossessione. Sentì che stava per avvenire un cambiamento dentro di lui. Il direttore si fece avanti, lanciando occhiate torve allo schermo. «Che succede?» «Ne abbiamo parlato. Sono Fred Moore. Lei non ha pubblicato il necrologio di mio padre, e ora cerca di imbrogliarmi con questo.» «In che senso imbrogliare?» Moore agitò una mano in direzione di Don. «Questo l'ha scritto il suo impiegato. Mio padre non ha mai detto queste scemenze. Come se non ne avessimo passate abbastanza...» Don sentì le rime che gli riaffluivano rapide nella testa. Se non avessero creduto che il necrologio era quello scritto da Moore, non si sarebbe mai liberato di loro. Le labbra si mossero, ma non doveva parlare. Afferrò la penna dalla scrivania, mentre Fred Moore raccontava in tono agitato: «La notte scorsa qualcuno ha tirato mio padre fuori dalla bara e... adesso anche questo». Don fece scattare la punta della penna e si girò alla ricerca di un pezzetto di carta. Non doveva fare la rima con le parole di Fred Moore. Erano le parole di suo padre, signor Moore; mi sono rimaste in testa, sono qui dentro da quando se ne è andato... Prima che avesse il tempo di scarabocchiare qualcosa il signor Davenport gli si mise di fronte. «Sei licenziato.» No, collocato. Mi dia una speranza, non mi porti a una danza, non mi mandi nella mia stanza... Don si premette le mani contro le tempie quasi volesse far schizzar fuori quello che vi si era installato, e sentì la punta della penna che gli grattava la tempia. «Vada a farsi vedere da un dottore se ha tanta voglia di ridere» disse il signor Davenport. Uccidere. Don sentì un dolore acuto alla tempia mentre l'inchiostro si mescolava al sangue. La rima rimbombava sopra ogni altro suono: il ronzio dei monitor, l'ansito degli uomini, l'urlo di Tina. Erano solo brutti versi, non occorreva che li recitasse tutti perché non poteva più parlare. Forse l'aveva fatto, oppure era diventato matto. Adrian Ross Il Gorgo (The Hole Of The Pit, 1914) Adrian Ross era lo pseudonimo di Arthur Reed Ropes (1859-
1933), docente all'università di Cambridge. Nel 1891 cominciò una nuova carriera scrivendo il libretto di un'opera, Joan of Arc, nel filone delle "Savoy-operas", cioè le composizioni di Gilbert e Sullivan, presentate al Savoy Theatre dalla compagnia di D'Oyly Carte. Nei trent'anni seguenti scrisse oltre duemila poesie e i testi di quasi sessanta commedie musicali e farse. Di questa produzione nulla fa prevedere quello che forse è il suo unico titolo di narrativa, The Hole of the Pit (Il Gorgo), pubblicato come romanzo nel 1914 da Edward Arnold e non più ristampato fino a oggi. Benché sia dedicato a M.R. James, amico e collega dell'autore, il libro, che ha una sua spiccata individualità, deve altrettanto a William Hope Hodgson. Soltanto la difficoltà di reperimento gli ha impedito di venire riconosciuto come uno dei primi capolavori della narrativa del tenore. Capitolo I DEL MESSAGGERO CHE VENNE A FARMI VISITA DA MARSHAM Questa è la storia di uno strano e terribile giudizio del Signore degli abissi; e a me e all'unica altra persona che conosce i fatti, è sembrato bene raccontare gli avvenimenti con ordine per informare e mettere in guardia i nostri figli, per mostrare loro che la malvagità ha una fine. Sono infatti necessarie molte esortazioni affinché i giovani non si lascino corrompere dalla sregolatezza di quella vita peccaminosa che da qualche tempo contamina la nostra gente, malgrado i chiari segni della collera di Dio: pestilenze, fuoco, sconfitte inferte dai nemici. Era, come ricordo, l'autunno dell'Anno del Signore 1645 e avevo appena ventisette anni, quando accaddero i fatti che ora riferirò. In verità, fin dai giorni della scuola, ho sempre mostrato più della mia età; e i miei bravi genitori, notando questo e il mio amore per i libri, mi avevano tirato su per avviarmi alla carriera ecclesiastica a Cambridge e si erano adoperati perché io ottenessi un beneficio ecclesiastico da mio cugino, il conte di Deeping. Ma essendo morti di vaiolo sia mio padre sia mia madre nel giro di un mese, fui lasciato libero di scegliere come volevo; e non gradendo gli atteggiamenti dell'arcivescovo Laud, e sentendo un'inclinazione per le dottrine di coloro che venivano chiamati "puritani", evitai di assumere un incarico nel quale avrei dovuto fare violenza o al mio animo o all'autorità
che mi era preposta. Tornai perciò nella proprietà di mio padre, dove avrei dovuto arrangiarmi per vivere come si conveniva a un gentiluomo, o poco meglio. Che fosse saggio starsene lontano dalle diatribe religiose mi fu confermato quando il dissenso sfociò nella guerra civile. Benché impoverito dagli stravizi di suo padre e dai propri, il conte di Deeping, con l'aiuto di qualche disperato ribaldo, sbandati sopravvissuti alle guerre tedesche, radunò una milizia di sfaccendati delle campagne e si precipitò a unirsi al principe Rupert, chiedendomi di seguirlo insieme ai miei contadini, cosa che io non avrei fatto per nessuna ragione. Nello stesso modo non concessi nulla a una fervida lettera di Oliver Cromwell - destinato a diventare così importante (lo avevo conosciuto a Cambridge) - che mi chiedeva di comportarmi da uomo combattendo nelle file del Signore. In verità devo dire che nessuno dei due partiti stava, a mio avviso, dalla parte del Signore, né gli scapestrati sfrenati dell'esercito del re né i santi massacratori del parlamento. E se fossi andato in guerra per una delle due parti in conflitto, mi sarebbe ben potuto capitare di seguire l'infelice esempio del buon Lord Falkland: avrei sempre dubitato della giustezza della mia fazione, avrei brontolato lamentosamente «Pace, pace» e l'avrei infine trovata, la pace, alla maniera di un antico romano, cioè andando incontro alla morte. Assalito da questi dubbi e spinto dalla mia indole riflessiva e schiva, di temperamento timido e poco propenso a vedere spargimenti di sangue, decisi di restarmene appartato, e a quanti vivevano sotto il mio tetto consigliai di fare la stessa cosa. E siccome il luogo dove abitavo era distante dai campi di battaglia e, soprattutto, si trovava a tre giorni di viaggio dalle terre del mio bellicoso cugino, il conte di Deeping, non soltanto sopravvivemmo, ma non fummo neppure molestati dalle due fazioni in lotta. Solo una volta, capitandomi di allontanarmi dalla mia residenza per la distanza di una giornata di viaggio, finii in mezzo a una ventina di soldati in armi, che mi tirarono giù da cavallo e con molta arroganza mi chiesero da che parte stavo, mentre non ero ancora riuscito a capire da che parte stessero loro. Risposi di essere fautore della pace e, mentre facevo il mio nome, il loro ufficiale esibì una lista di persone di quelle parti, alcune marchiate (come si diceva allora) per essere gente malvagia che doveva essere spogliata dei propri beni, e altre per essere gente tranquilla da risparmiare. Tra questi ultimi il comandante generale Cromwell - questo era allora il suo titolo - aveva scritto il mio nome. Così tutto si risolse per il meglio, e la cosa non mi costò nulla di più della birra o del sidro per la truppa e di un'ora di conversazione con l'ufficiale, un uomo devoto e di talento, ma troppo desi-
deroso di citare le Scritture in modo difforme dal loro significato semplice e chiaro. Nell'estate dell'anno 1645 arrivò la notizia dello scontro armato di Naseby e della totale disfatta, come pensava la gente e come i fatti confermarono, del partito del re. Ora, uno di coloro che fuggirono dal campo di battaglia, dopo essersi comportato con coraggio ma non con prudenza, fu mio cugino, il conte di Deeping, con i sopravvissuti delle sue truppe. Non intendeva seguire i rimasugli dell'esercito del re, essendo entrato a un certo punto in urto con il principe Rupert: si era mostrato, a quanto riferitomi, un saccheggiatore troppo rapace anche per lo stomaco tutt'altro che schizzinoso del principe. Si diresse quindi verso la sua residenza, il castello di Deeping a Marsham, e lì successe quello che doveva succedere. Un giorno di settembre, seduto nella mia biblioteca, ero intento a leggere L'esposizione dell'arminianesimo del dottor John Owen, ma, mi vergogno a dirlo, mi stancai presto di quella lettura di argomento religioso; in effetti le discordie del nostro tempo avevano spento in me l'interesse che avevo avuto una volta per le controversie dottrinali. Nel rimettere sullo scaffale il volume del dottor Owen, spinsi indietro un qualche commentario e, cercando di rimetterlo a posto, finii per spostarne altri due. E così, con l'improvvisa rabbia che induce i bambini a dare colpi ai seggioloni e alle sedie che hanno rovesciato, buttai per terra prima gli altri volumi del commentario e poi quelli che avevo spinto all'indietro. Avevano sopra molta polvere, e scrutando nell'oscurità dello scaffale prima di rimettere i libri al loro posto, vidi un volumetto rilegato in cuoio, morbido e sottile, che recava impresso sulla copertina lo stemma araldico della nostra casata. Lo presi in mano e lo aprii alla pagina dell'albero genealogico della famiglia dei conti di Deeping e di altri rami della stessa stirpe. Era scritto con una bella grafia, con gli stemmi molto ben blasonati a colori e in oro; il tutto, come potei giudicare dagli ultimi nomi, risaliva a un'ottantina di anni prima, perché l'albero terminava con il mio bisnonno. Conoscevo tutti questi nomi, o quasi tutti, ma come mi cadde l'occhio sulle pagine, scorsi una serie di versi nel mezzo di un foglio: L'anima ha venduto il signore di Deeping all'angelo caduto; e ha risvegliato ciò che, fisso, si annida nella tenebra dell'abisso. Dalla tenebra uscirà
e l'anima e il corpo gli ghermirà. Fino ad allora non mi ero mai imbattuto in questi versetti sui conti di Deeping, ma ebbero l'effetto di richiamare ricordi di storie e canzoni che avevo sentito sulle ginocchia della balia, e da allora avevo quasi dimenticato. Non avevo mai visto il castello di Deeping, che sorgeva in mezzo agli acquitrini alla foce del fiume Bere, e neppure il villaggio di Marsham, sui fianchi delle colline sopra i piccoli corsi d'acqua del delta. Ma avevo sentito narrare di una maledizione che pendeva sopra la testa dei signori di Deeping, che si era abbattuta una volta, se si può credere alla storia, e si sarebbe abbattuta un'altra volta e mai più. E un giorno in cui io, appena ragazzo, avevo visto mio cugino il conte - un giovane alto, biondo, con una barbetta a punta - cavalcare con mio padre, ero rimasto attonito davanti allo sguardo selvaggio dei suoi occhi e mi erano tornate alla mente le storie che mi aveva raccontato la balia. Rilessi quei versetti minacciosi e, mentre rialzavo gli occhi dalla pagina, il mio domestico bussò alla porta e mi disse che Eldad Pentry, da Marsham, desiderava vedermi. Diedi ordine all'uomo di farlo passare, e quindi entrò il tipo più strano che avessi mai visto. Di bassa statura, magro, dai capelli lisci, con un volto privo di nobiltà, aveva occhi grandi, luccicanti, spalancati, dallo sguardo fisso, quasi fossero puntati su qualcosa di lontano, al di là di quello che gli era dato di vedere. Tranne che per gli occhi, l'aspetto dell'uomo era piuttosto squallido. Era vestito in modo banale, con un abito dai colori smorti, chiazzato di polvere; dalla cintura gli pendeva una grande spada vecchia e rugginosa, di una dimensione più adatta a Golia che a quel mezzo morto di fame. Lo salutai e gli domandai il motivo della sua venuta. «Ho ricevuto un'ambasciata dal Signore per te, Hubert Leyton» disse con voce strana e aspra, senza pensare di togliersi il cappello, dal che capii che era un fanatico appartenente a una delle tante sette che allora fiorivano in gran numero. «Alzati e seguimi, perché sei chiamato a compiere un'opera nella terra di Marsham.» Mi irritava avere a che fare con un uomo che biascicava le parole quasi fossero pezzi di carne, e gli intimai, con una certa durezza, temo, di riferirmi quanto a sua conoscenza con meno citazioni dalle Scritture e con più buon senso. Mi guardò con quei suoi strani occhi, come se vedesse qualcosa alle mie spalle, dove non c'era nulla oltre ai libri e al muro. «Non monterò in collera con te, perché sei lo strumento prescelto» disse
con lo stesso tono di voce aspro e strascicato. «Ascolta, e sentirai quello che mi ha portato qui e per quale ragione io, uomo di pace come te, ho deciso di portare la spada!» Mi pareva piuttosto che fosse la grossa spada a portare lui, vecchia battuta del dotto Cicerone e di chissà quanti altri prima e dopo di lui. Ma restai in silenzio, e Mastro Eldad continuò a darmi chiarimenti. «Quando l'Uomo di Sangue subì la punizione di Israele» disse, facendomi capire immediatamente che parlava della battaglia di Naseby «quel figlio di Satana, tuo cugino, fuggì dal campo di battaglia e venne a Marsham. E trovando che il castello gli era stato sottratto e sequestrato, vi entrò con altri quaranta diavoli peggiori di lui e con una donna peggiore di quei quaranta...» «Una donna!» dissi io interrompendolo. «Che ne è stato della contessa?» Il suo viso si contrasse, sbatté la palpebre e per la prima volta si tolse il cappello. «La signora di Deeping fu a lungo malata» rispose, e notai che ne parlava senza servirsi del linguaggio delle Scritture. «Morì una settimana fa, e nessuno sa come.» «Che il Signore doni la pace all'anima sua!» dissi senza soppesare le parole. «Questa è una preghiera da papisti» rispose guardandomi con viso arcigno, «ma non posso fare a meno di aggiungere "Amen". Sì, e che il Signore, soprattutto, faccia ricadere la sua morte sul malvagio!» «Cosa vuoi dire, uomo?» gridai, perché tutto il suo volto si era fatto scuro per un'improvvisa vampata di collera e di odio. Ma alla mia domanda la sua fronte smise il cipiglio. «Non so nulla» mormorò. «D'altra parte, se due avvoltoi restano soli con una colomba, non c'è bisogno di essere profeti, Mastro Leyton, per sapere quello che accadrà, o quello che è accaduto. E questa donna è una figlia di Satana, questa Gezebele, questa Dalila...» «E, dunque, cosa mi dici di lei?» lo interruppi, perché aveva cominciato a fare l'elenco di tutte le donne malvagie della Bibbia. «Potrebbe ben essere una strega e un'awelenatrice» disse «perché viene dalla terra di tutti gli abominii, dove la Donna Scarlatta siede sui sette colli.» «Un'italiana» esclamai, e lui annuì. «È una brutta storia, ma come posso migliorare le cose recandomi lì con te, Mastro Eldad?» «Puoi aiutarci, Hubert Leyton. Quando tuo cugino il conte venne nel ca-
stello di Deeping in mezzo all'acquitrino, si fortificò là con quaranta furfanti disperati, spergiuri e ubriaconi della sua soldataglia, piazzò cannoni sulle mura e proclamò che le avrebbe difese per il re, anche contro Cromwell in persona. E subito fece sapere a noi di Marsham di portare grano, pecore e bestiame, birra e sidro, burro, formaggio e uova, grandi quantità di pancetta e prosciutti per rifornire il castello in vista dell'assedio. E noi, in preda all'angoscia, pregammo la nostra buona signora di intercedere per noi, cosa che lei fece; ma dopo la morte della signora, lui rimase solo e giurò che avrebbe preso con la forza tutto ciò che gli fosse andato a genio e non avrebbe più prestato orecchio alle nostre suppliche. Allora dissi agli altri: "Ecco, siamo nei guai, e siamo soltanto povera gente, incapaci di misurarci con uomini d'arme; cerchiamo quindi qualcuno della sua casata che prenda le nostre difese. Egli è figlio di Satana e nessuno può parlargli". E tutti dissero che era saggio consiglio, e mi inviarono qui. Ora, perciò, alzati e seguimi, perché dobbiamo andare lontano, e l'uomo ha detto che se entro il settimo giorno non gli portiamo tutto quello che la sua anima concupisce, metterà a ferro e fuoco le nostre case.» Sapevo che non era minaccia vana; ci erano ben noti i fatti delle guerre tedesche; lì il signore di Deeping aveva appreso a combattere ed era probabile che avrebbe superato i suoi maestri. La faccenda non mi piaceva: sapevo che mio cugino era un uomo senza timor di Dio, che non rispettava il prossimo, che dava poco peso alla sua stessa vita e meno di nulla a quella degli altri. E tuttavia lo sapevo fiero del suo nome e del suo casato, dei quali ero adesso l'erede di sangue più prossimo, sebbene non abbia accettato né l'uno né l'altro per una ragione che il mio racconto farà capire. Me ne stavo perciò ancora seduto a riflettere, e anche Mastro Pentry si sedette con i grandi occhi fissi su qualcosa che stava oltre a me. Ma, dopo un po', vedendomi ancora in dubbio, si alzò e, presa la grande Bibbia appoggiata su un tavolino vicino alla finestra, me la gettò davanti, con uno schiocco simile a un colpo di archibugio. «Apri il libro, Hubert Leyton» disse «e il Signore ti mostrerà quello che devi fare.» Non avevo mai avuto una grande opinione di questa forma di divinazione mediante le Scritture, derivata dai pagani che facevano lo stesso con il poema di Virgilio, ma senza dubbio esistevano molte profezie veridiche che attingevano da entrambi i libri, e fra queste anche la profezia sull'ultimo re, Carlo. Ma Mastro Eldad mi convinse, non so dire come; al suo comando aprii il libro a caso e il mio sguardo cadde sul nono versetto del
primo capitolo del Libro di Giosuè, che io e l'uomo leggemmo insieme: «Ecco i miei ordini: sii coraggioso e forte, senza paura, senza timore...». «Questo è per te» disse Mastro Eldad con durezza. «Ora leggiamo quello che è in serbo per me.» Detto questo, voltò le pesanti pagine, e il mio e il suo sguardo caddero su un versetto delle Lamentazioni di Geremia: «Mi han fatto precipitare nella fossa E han posta sopra di me la pietra. Le acque mi han coperto fin sopra il capo, E io ho detto: "Son perduto!".» Trasalii a quelle parole, e mi girai a guardare l'uomo che stava alle mie spalle. Sorrideva, seppure amaramente, e i suoi occhi erano rivolti molto lontano. «Per me è sempre così, quando chiedo un oracolo alle Scritture» disse. «So quello che mi accadrà, eppure vado; tu intendi voltare le spalle?» Gli strinsi la mano, che era dura e secca come pergamena, e dissi: «Mastro Pentry, verrò con te». Capitolo II DELLA NOSTRA CAVALCATA A MARSHAM E DI QUELLO CHE VI TROVAMMO Avrei voluto che quella notte Mastro Eldad restasse nella mia casa, ma egli non volle, adducendo come scusa che dovevamo arrivare almeno un giorno prima che scadesse la settimana di grazia concessa dal conte, perché né mio cugino né la sua soldataglia avrebbero avuto pietà. E così, dopo cena, cercai nel mio guardaroba un vestito più sfarzoso di quello che uso di solito per non avere troppo l'aria dello studioso povero nella casa del ricco nobiluomo, della quale ero l'erede e della quale un giorno sarei probabilmente entrato in possesso; presi anche le camicie merlettate e altre cose, mentre Eldad mi guardava con un sorriso amaro, mormorando che non sapevo nulla dei «mutevoli aspetti degli abiti e dei mantelli». Alla fine gli dissi che mi curavo tanto poco di simili vanità quanto lui, ma non volevo apparire uno straccione davanti a mio cugino o alla donna italiana. Mastro Pentry chinò la testa com'era suo costume, e non disse altro, fino al momento, poco dopo, in cui i cavalli furono pronti; ma il suo - per la verità poco più di un cavallo da tiro - era stanco del viaggio appena fatto. Perciò presi per lui il cavallo che soleva montare il mio domestico, un destriero robusto ma più lento del mio, e così partimmo. Portavo uno spadino italiano alla moda, di lama sottile e leggera, adatto ai trucchi dello spadaccino (mi ero dato la pena di studiare scherma quando ero a Cambridge, per di-
strarre lo spirito dall'impegno delle eccessive letture). Mastro Pentry aveva la spada di Golia e una grande pistola. Ma non avemmo occasione di usare il nostro armamento, dal momento che quei luoghi, come ho detto, erano lontani dal teatro della guerra; perciò tenendo un'andatura adatta per non sfiancare i cavalli, sostando di notte - per tre notti - nelle locande sul nostro cammino, ci trovammo, al mattino del quarto giorno, vicino a Marsham. Fino a quel momento Mastro Eldad aveva parlato poco, e quel poco riguardava le Scritture. Quando gli chiedevo del conte e della donna italiana, non sapeva dirmi nulla che non mi avesse già detto, tranne che mio cugino sembrava invecchiato e che il suo volto era ancora più feroce di prima, e lo era sempre stato molto. Mastro Pentry non aveva mai visto la donna, ma coloro che l'avevano incontrata ne parlavano come di una donna non particolarmente alta né bella, il che lo confermava nella sua idea che fosse una strega. Parlava senza reticenze soltanto di mia cugina, la contessa appena morta, riferendomi del bene fatto nel villaggio e di come, mentre il suo signore era in guerra, avesse passato le giornate in preghiera e in opere di carità, con poche persone attorno a lei oltre a damigella Rosamund Fanshawe, la sua dama di compagnia. Le chiesi di questa dama, e se abitava ancora al castello. Egli mi disse che certamente vi abitava ancora, che era giovane, piuttosto bella e assai gentile, ma temeva che fosse incline ai piaceri carnali, mondani e non avesse un cuore pio; il che, secondo me, voleva dire che si era messa a ridere una o due volte, aveva cantato qualche canzoncina per allietare la contessa e si era stancata dell'esibizione dottrinale di Mastro Pentry. Dal mio compagno venni a sapere poco più di questo finché non arrivammo a destinazione, circa tre ore dopo l'alba, ai piedi di una collina non ripida ma molto lunga; mentre la risalivamo, lasciammo prendere fiato ai cavalli, perché la nostra strada continuava a salire per miglia. Quando arrivammo in cima, Mastro Eldad diede al suo animale un colpo di speroni. Feci lo stesso, e procedemmo veloci finché non passammo in mezzo a un filare di alberi bassi e di cespugli, che da tempo vedevamo profilarsi, neri e irregolari, contro il cielo azzurro. Quindi, tirando le redini, si girò verso di me dicendo: «Guarda lì!». E meno male che mi avvertì di guardare, perché non avevo mai visto un paesaggio più bello, e neppure più strano. Sotto di noi la collina erbosa scendeva ripida, con la strada bianca che si snodava lungo il pendio, simile a una guarnizione di merletto sull'abito di una fanciulla. I fianchi della col-
lina erano altrettante distese di grano dorato, di prati verdi, di splendidi frutteti; tra gli alberi spuntavano alti tetti di paglia, e piccoli avvallamenti si aprivano sui pendii, con ruscelletti e una chiesa dalla torre quadrata che, mi disse Mastro Eldad, era la chiesa parrocchiale di Marsham, ormai rimasta senza parroco dopo la morte dell'ultimo vicario: il conte di Deeping, infatti, aveva altro da fare che nominare preti. Per fortuna, panorami così, ancor più belli nella mattinata di sole, erano frequenti su quelle strade d'Inghilterra, dove la guerra civile non aveva ancora portato soldataglie brutali a incendiare e a saccheggiare nemici e amici. Ma ora apparve la stranezza di quel paesaggio. Attraverso la piana, sotto di noi che stavamo sul fianco della collina, si profilava una specie di albero grigio privo di foglie, simile a una quercia colpita dal fulmine. Guardando di nuovo, vidi che il tronco d'albero era un fiume che scorreva sul fondo di una fenditura grigia e che i rami erano ruscelletti sinuosi, ora a secco, ma che si sarebbero riempiti con l'alta marea. Volgendo ancora più lontano lo sguardo, scorsi una grande distesa acquitrinosa, solcata e percorsa da canali più scuri e chiazzata di verde ogni volta che un poggio lasciava crescere un po' di erba ruvida. Ancora più in là, tutto era grigio, i canali erano più ampi e una sottile nebbia si levava sopra le distese di sale, che si perdevano in lontananza come una visione magica. Non vedevo nulla in modo chiaro tranne, proprio al limitare del mondo, per così dire, il luccichio del mare aperto. Mi pareva che ci fosse qualcosa di spaventoso nell'aspetto del luogo, con il suo grigio deserto di sale che arrivava al bordo dei bei prati e dei campi e tendeva le sue propaggini simili alle braccia di un'idra favolosa o di un mostro del mare. Il sole forte e il vento allegro che cantava tra i cespugli davano risalto a quel grigiore rendendolo ancora più tenebroso, come fa la luce del sole quando si posa su una nuvola di tempesta che avanza nel cielo estivo. Ma da queste fantasie mi riscosse la voce di Mastro Eldad alle mie spalle. «Vedi, Hubert Leyton» disse con il suo tono aspro e lento «la casa del figlio di Satana?» E puntò l'indice ossuto nella direzione in cui la nebbia gravava più fitta sull'acquitrino. Per un momento non vidi nulla, ma subito dopo il vento cambiò direzione, e allora scorsi al sole il luccichio di una banderuola, come un'improvvisa fiamma dorata in mezzo alle volute di fumo. Grazie a quella guida riuscii a scorgere la torre di un campanile, quindi un torrione largo e rotondo all'estremità di una zona d'ombra in mezzo alla nebbiolina, infine una dimora con torrette e un gruppo di edifici
lungo il lato della zona in ombra. Tutt'intorno c'erano ampie distese acquitrinose dalle quali si levavano vapori, e ristagni di acqua immobile. Il riflesso della foschia mi affaticava gli occhi. «Deve essere il castello di Deeping» dissi rivolto a Mastro Pentry. «Come mai riesce a stare in piedi fra queste sabbie mobili e questi terreni friabili?» «Perché i tuoi antenati» rispose con un sorriso amaro «pur non leggendo le Scritture, furono abbastanza saggi da costruire la loro casa su una roccia, dopo che la prima era finita ingoiata dal terreno. Il castello di Deeping sorge su una roccia in mezzo all'acquitrino. C'è soltanto un altro punto di terreno sicuro, al di là del castello, nella direzione in cui punto il dito.» In un primo momento, seguendo la sua indicazione, non vidi nulla, ma non appena i miei occhi cominciarono ad abituarsi al bagliore della foschia, notai, a circa un miglio di distanza dal castello, uno spuntone basso di roccia scura e sul lato le rovine - così mi parvero - di una rozza costruzione. Chiedendomi quale costruzione potesse sorgere su un punto di appoggio così angusto, interrogai Mastro Eldad. «Le vecchie di queste parti dicono che lì, tanto, tanto tempo fa, abitava un santo o un eremita della chiesa di Roma» rispose in tono sarcastico. «E ti diranno che uno dei conti di Deeping, rimproverato dal sant'uomo per la vita degenerata, lo ammazzò e rase al suolo la cella monacale, e che allora il giudizio divino si abbatté su di lui, e il conte e i suoi vennero inghiottiti da un favoloso mostro, un Leviatano. Ecco: là sorgeva, un tempo, il castello di Deeping. Così raccontano.» Mosse rapidamente il braccio intorno e indicò un luogo dove un pezzo di muro, quasi fosse la cima di una torre, era abbarbicato sull'orlo di una scarpata a picco sopra la palude, e sotto c'era una parete di roccia liscia e verticale, come se un dente smisurato avesse strappato con un morso un pezzo di collina. Si vedevano grossi massi franati l'uno sull'altro, mezzo nascosti da erbacce e cespugli, un grigio pendio di terreno ghiaioso e instabile e, poco oltre, in direzione del mare, correva uno dei bracci principali del delta. Il corso d'acqua, in quel momento quasi in secca, aveva una forma strana. Nel mezzo, infatti, c'era una macchia nera, della larghezza di una quindicina di metri, a quanto potevo giudicare, e il fango grigio attorno assomigliava a un ripido imbuto. «Ecco» disse il mio compagno, notando che i miei occhi restavano fissi sulla rovina e sullo spazio sottostante «la macchia nera la chiamano il Gorgo. Da quanto si favoleggia, non ha fondo, e là sotto dorme il Leviata-
no con il vecchio conte e il castello nella pancia, finché non verrà il tempo in cui ne inghiottirà un altro. Ma sono favole delle vecchiette. Abbiamo perso troppo tempo a guardare e a chiacchierare. Andiamo!» Diedi un colpo di redini, e insieme ci avviammo giù per la strada ripida, procedendo con cautela. Sebbene non dessi peso a quella storia, la mia mente ci tornava sopra e ricordava gli antichi versetti che sembravano confermarla. Scendendo, mentre la vista sulla spiaggia e sulla palude si restringeva sempre più, indugiavo a ogni svolta della strada, nel tentativo di gettare uno sguardo sul Gorgo, nero e sinistro sotto le rovine del vecchio castello. Potevo farlo facilmente, perché avevo una cavalcatura migliore, e prima di ogni svolta della strada precedevo Mastro Eldad. Alla fine, alcuni fitti cespugli di rovi nascosero il Gorgo alla mia vista, e quella mattina non lo rividi più, né, a essere sincero, ci pensai più, perché non mi si prospettava di certo un periodo tranquillo. Eravamo giunti ai piedi della collina e avevamo imboccato una stradina incassata, con cespugli di ispidi rovi pieni di more rosse su entrambi i lati, di grandi piante di digitale che crescevano qua e là; non c'era nulla da vedere tranne i terrapieni verdi e il cielo azzurro, tanto che la terra finì per sembrare un luogo tranquillo e felice. A questo punto Mastro Eldad si girò verso di me, mentre cavalcavamo l'uno dietro l'altro a causa della strettezza della strada, e parlò, con la sua voce aspra, così vicino alle mie orecchie da provocarmi una strana irritazione. «Chiamerò a raccolta gli uomini del villaggio, Hubert Leyton, in modo che possano incontrarti e decidere il da farsi. Se desideri restare nella mia casa, sarai vicino alla cappella che abbiamo costruito per i nostri incontri, e là possiamo raccoglierci tutti quest'oggi.» Avevo appreso da Mastro Pentry che egli si era nominato ministro del culto o predicatore per gli uomini di Marsham, e che avevano costruito una conventicola, non badando di utilizzare la chiesa parrocchiale, rimasta ormai vuota. Aveva esercitato, così mi aveva detto, la professione di sarto; ma pensando non appropriato a un messaggero del Vangelo servire le vanità mondane dell'uomo, viveva, in povertà, dei doni che il suo gregge di fedeli si adoperava di procurargli, e dei prodotti dell'orto. Sapevo perciò che non mi aspettava un banchetto, e, da frugale studioso, potevo soltanto sperare che qualche contadino si commuovesse e ponesse riparo alla disposizione di spirito del mio anfitrione. «Da quell'angolo laggiù» disse Mastro Eldad, mentre risalivamo dalla
stradina infossata «vedrai da vicino la mia casa e la cappella.» Mentre parlava, arrivammo a una svolta; da lì il villaggio appariva a portata di mano, arroccato attorno alla chiesa. Mi fermai e mi guardai attorno, perplesso che tutto fosse così stranamente silenzioso, senza che si sentissero il verso roco delle cornacchie, quello squillante dei galli o il muggito delle mucche, come succede sempre nei villaggi. A quanto pareva, non c'erano uomini in giro e neppure donne che cantassero. Mi sentii assalito da un brivido di paura al pensiero che forse eravamo arrivati troppo tardi. Mentre rimuginavo tra me, Mastro Pentry, che si guardava attorno riparandosi con la mano dal sole, gridò accanto a me con voce strana e acuta. «Distrutto! Distrutto! Presto! Presto!» E, così dicendo, diede di speroni al suo cavallo e si precipitò verso il villaggio. Lo seguii domandandomi che cosa gli fosse preso, perché si mise a correre come un pazzo, mulinando le braccia e farneticando. Ma presto capii ogni cosa. Rasentando il villaggio silenzioso arrivò, e io con lui, in uno slargo dove si poteva vedere che c'erano stati due edifici, fatti con la pietra di quei luoghi, di un colore grigio scuro come il ferro. Ma erano rimaste solo le fondamenta, e neppure tutte. In un punto, infatti, un avvallamento bruciacchiato mostrava il luogo in cui prima c'era stato un muro; le pietre, le travi del tetto, il rivestimento di paglia annerito, pezzi di mattonelle erano sparsi sul terreno, come brandelli di carne gettati al pollame perché li beccassero. Mastro Eldad saltò giù da cavallo e si mise a strisciare all'interno di quelle che probabilmente erano le fondamenta della sua cappella. Volsi anch'io lo sguardo a terra, domandandomi che cosa avesse provocato quella distruzione; ma osservando meglio le pietre e annusando l'aria, compresi la violenza che era stata commessa. Lì era stata usata polvere da sparo, e nessuno se non il mio venerabile cugino se ne sarebbe potuto servire. Non sono il cavaliere errante alla ricerca di avventure e assetato di pericoli; e ammetto che il mio primo pensiero andò al benvenuto che avrei ricevuto dal mio gentiluomo, quando mi fossi recato da lui in qualità di ambasciatore di pace. L'indifferente crudeltà che non esitava a sprecare due barili di buona polvere da sparo per distruggere un paio di misere capanne - le avrebbero distrutte con altrettanta facilità un fascio di paglia, una pietra focaia e un acciarino non avrebbe avuto un attimo di incertezza a piantarmi una pallottola nella testa. Ma scacciai quel pensiero e mi avvicinai a Mastro Pentry che, ritornato un po' in sé, borbottava alcuni versetti nei quali Davide maledice i malvagi, i versetti che meno mi piacciono dei Salmi. «Su, Mastro Eldad» dissi prendendogli il braccio e sollevandolo da terra,
finché non fu in piedi con lo sguardo fisso davanti a sé. «È un misfatto diabolico, ma riavrai la tua casetta e il tuo luogo di riunione, te lo prometto, a costo di impegnare la mia casa. Dio voglia che non abbiano fatto di peggio. Andiamo a vedere al villaggio.» «Cosa potevano fare di peggio?» chiese. «La casa del Signore è distrutta, divorata dalle fiamme...» E, così dicendo, riprese a maledire. «Ebbene, ci sono i templi umani del Signore» risposi, conducendolo verso i cavalli «che questi razziatori potrebbero aver distrutto e profanato. Andiamo a salvarli, se siamo in tempo.» Sembrava che le mie parole avessero uno scarso significato per Mastro Eldad. Senz'altro aveva subito un duro colpo, che forse lo aveva intontito; avevo notato più di una volta che gli uomini divorati dallo zelo religioso si curano assai poco dei beni terreni del prossimo. Si riscosse infine e montò sul suo cavallo; così feci io e insieme ci dirigemmo al piccolo borgo di Marsham. Qui tirammo le redini davanti alla locanda del Melo, la cui insegna pendeva orgogliosamente in fuori, ma con buchi neri che attraversavano almeno metà delle sue mele. La porta era sbarrata, e bussammo invano con le mani e con l'elsa delle spade. Alla fine, Mastro Eldad alzò la voce ricevendo in risposta, come suppongo, qualche rumore dall'interno. «John Saunders, John Saunders!» gridò. «Per quanto tempo lascerai questo ministro del Signore fuori dalla porta? Facci entrare; non c'è nessuno, tranne Mastro Pentry e un amico.» Riflettei che se John Saunders era ancora vivo e vegeto, quei richiami lo avrebbero raggiunto, perché la voce di Mastro Eldad non è di quelle che si dimenticano o si ignorano. E in effetti sentii qualcosa che si muoveva all'interno, e dopo un po' le sbarre vennero tolte, i chiavistelli aperti, e John Saunders, il locandiere, apparve sulla soglia. Era un uomo corpulento, dal viso rubicondo e gioviale come un Bacco pagano, ma un gran spavento lo aveva reso pallido e le grosse guance parevano borse pendule. Sobbalzò quando vide il mio cavallo e i miei abiti, quasi temesse di trovarsi di fronte a un nemico; ma Mastro Eldad, smontato da cavallo, lo prese per le spalle. «Parla, codardo! Cos'è successo?» John Saunders cominciò a raccontare una storia incoerente, della quale potei comprendere poco; e ogni volta che Mastro Eldad lo interrompeva con qualche pronta domanda, il locandiere perdeva il filo della storia ed era inutile tornare indietro e cominciare da capo, sicché rinunciai a sperare di apprendere qualche cosa da lui. Ma mentre parlava a vanvera, sentii lo scricchiolio di un cardine dall'altra parte della strada e vidi spuntare, pri-
ma, una testa rossa e, poi, tutto il corpo. Quindi, nel riquadro oscuro del pannello distrutto di una finestra, apparve la faccia pallida di una donna e, uno alla volta, gli abitanti del villaggio vennero fuori, con circospezione, come un gatto che, cacciato in un buco da un cane, si avventura fuori cautamente alla ricerca di latte. In breve Mastro Eldad e io ci trovammo circondati da facce smorte; e mentre il mio compagno spiegava chi fossi e il motivo della mia venuta, trovarono il coraggio per dirci quello che era capitato loro, ma a spizzichi e bocconi, soffermandosi su piccoli particolari e ripetendo la storia più e più volte, alla maniera della gente di campagna che ha spesso pochi argomenti di cui parlare, ma un grande desiderio di fare conversazione. Sembrava che il conte di Deeping, dopo aver concesso un giorno agli abitanti di Marsham per riempire di provviste il suo castello, avesse mandato alcuni suoi uomini a controllare quello che veniva fatto a tale fine; costoro, venuti al Melo a comprar da bere, avevano cominciato a intavolare discorsi cortesi (sono dei furfanti astuti) e così erano venuti a sapere dal garzone dell'osteria del viaggio di Mastro Eldad. Ora mio cugino il conte, non sapendo che Mastro Eldad era venuto a cercare me (e, se lo avesse saputo, non ci avrebbe creduto), era stato preso da una furia diabolica (come appresi poi e come avrei potuto immaginare), pensando che il suo più acerrimo nemico fosse andato a chiedere soccorso agli uomini del parlamento che si trovavano nelle vicinanze. Pertanto senza avvertire la popolazione del villaggio e senza preoccuparsi di sapere se fossero a conoscenza dei piani del loro sacerdote, il conte aveva risalito il fiume un poco prima dell'alta marea con trenta uomini - quasi tutta la sua guarnigione - su tre chiatte e su una scialuppa, e li aveva mandati a saccheggiare grano, farina, burro, formaggio, uova, pancetta e prosciutti dalle case; a Saunders avevano portato via l'intera provvista di birra e sidro. Quindi avevano preso oche e galline e imbarcato sulle chiatte buoi, pecore e maiali. Gli uomini del villaggio erano al lavoro nei campi, tranne il locandiere che non aveva osato dire una parola, il fabbro e un paio di vecchi che non avevano potuto fare niente tranne che maledire i saccheggiatori ed essere da questi derisi. Tra le donne, la maggior parte era fuggita; ma la ragazza della locanda, una poco di buono abituata a parlare con i soldati, sciocca com'era aveva deciso di seguire quei malnati; e la figlia del fabbro, una bella ragazza che tentava di mettere in salvo le oche, fu portata anche lei sulle chiatte. Suo padre, che li inseguiva, aveva dato a uno di loro una martellata in testa, ma, atterrato con il calcio del fucile, era rimasto a terra senza parlare per un'ora.
E così, dopo aver preso ciò che desideravano e continuando a sparare dal fondo delle imbarcazioni perché nessuno potesse seguirli, questi razziatori avevano fatto ritorno al castello di Deeping con la marea; ma prima, il conte in persona era andato fino alla capanna di Mastro Eldad e alla sua cappella, seguito da due dei suoi più fedeli, ciascuno con un barilotto di polvere da sparo. Poco dopo, tornati indietro ridendo, erano montati sulle chiatte, e in quel momento si erano sentite esplosioni, l'una dietro l'altra, un gran rotolare di pietre e si erano viste una grande fiammata e una colonna di fumo che si dilatava tutt'intorno. A quel frastuono e a quello spettacolo gli uomini erano tornati in gran fretta. Alcuni sapevano già quello che era accaduto perché lo avevano appreso dalle donne in fuga. E, arrivati sulla sommità della collina, avevano scorto il luccichio delle armi sulle chiatte nere che scendevano, spinte dalla marea, attraverso il grigio labirinto dei canali e delle sabbie mobili, che nessuno conosceva bene come gli uomini di Deeping. Da quei fatti erano trascorsi due giorni, e gli uomini di Marsham continuavano a tenere le porte sprangate; e quando era salita la marea, avevano nascosto le donne e le bestie che ancora rimanevano, per paura che le truppe tornassero a depredarli, ma non si era più visto nessuno. Questo apprendemmo dagli uomini e dalle donne del villaggio, tra lacrime e imprecazioni che non c'è bisogno di riferire. Capitolo III DEL MIO VIAGGIO AL CASTELLO DI DEEPING Quando terminò il racconto della razzia, e fu un racconto terribile, ci occupammo di verificare che cosa fosse possibile fare. In primo luogo, poiché era ormai quasi mezzogiorno - finché la marea non fosse salita almeno a metà, gli uomini non avevano di che temere dalla soldataglia di Deeping - Mastro Eldad e io, dopo avere sistemato i nostri cavalli, ci rifocillammo. Gli abitanti del villaggio avevano perso la maggior parte delle loro vettovaglie nella ruberia, ma di alcune provviste i razziatori non si erano accorti, oppure le donne erano riuscite a nasconderle frettolosamente non appena avevano scorto le barche. Così mangiammo a sufficienza per gente che cercava solo di sfamarsi, mentre i nostri cavalli avevano spazio in abbondanza nelle stalle vuote. Quindi tornammo insieme al cimitero della chiesa, sopraelevato rispetto al resto del luogo, dove attraverso gli alberi si vedevano chiaramente la breccia aperta dagli uomini fino al fiume e il posto di
approdo più agevole. Fu sistemata una guardia sulla torre della chiesa, per darci un po' di sicurezza, e così ci mettemmo a parlare insieme. Mastro Pentry, come era sua abitudine, parlò per primo con ampie citazioni dalle Scritture, a volte distorcendone stranamente il significato. Il suo parere era di non venire a patti con il figlio di Satana, di sradicarlo e tagliarne i rami insieme a tutti coloro che erano con lui. Non mi stupivano la sua furia e la sua sete di vendetta, ma non sapevo come attuare quel progetto. Non avevamo armi tranne le nostre due spade e la sua pistola. Sarebbe stato vano usare forconi e falci senza poterli prima trasformare in spade e lance, ma il fabbro non era un armaiolo. E io, che avevo letto qualcosa sulle guerre, non potevo confidare nella profezia secondo cui il Signore ci avrebbe messo in mano spade e lance. Si sa che il Signore permette che le cause sbagliate vincano sul campo, come aveva dimostrato il mutar della fortuna durante la guerra civile, o ancor più nella guerra di Germania, nella quale le due parti avevano a turno vinto e perso per affondare poi, entrambe, in una pace ingannevole. Dissi qualcosa del genere agli uomini che mi interpellarono dopo avere ascoltato Mastro Eldad, il quale aveva parlato senza aspettare che glielo chiedessero. Si decise infine che era opportuno cercare di imboccare la strada della trattativa, prima di impugnare le armi. Infatti, se la nostra situazione era disperata qualora avessimo dovuto affrontare gli scherani del conte, la loro non sarebbe stata migliore se una nave da guerra del parlamento o un battaglione a cavallo fossero venuti a scovarli. Non potevano, infatti, che aspettarsi di venire impiccati come ladri e fuorilegge: a nulla sarebbe servito invocare lo stato di guerra per giustificare i saccheggi, verso i quali nessun comandante ha mai mostrato, e a ragione, una grande clemenza. E così, quando ebbi finito di parlare, e nessuno ebbe nulla da aggiungere, tranne Mastro Eldad e il fabbro, fu concordato che un ambasciatore venisse inviato al conte con la proposta di una tregua: avrebbero dato, a lui e ai suoi uomini, un salvacondotto per uscire dal paese, avrebbero garantito l'incolumità del castello e di quanto ivi contenuto, tranne ciò che serviva a pagare per la distruzione della casa di Mastro Eldad e della sua cappella. Ma se avesse rifiutato le nostre condizioni, saremmo stati costretti a chiedere aiuto al signor generale Cromwell, che conoscevo bene e che mi aveva concesso singolari attestati di amicizia. Ora, quest'ultimo fatto era ben noto a mio cugino, perché aveva sentito parlare della lettera di cui ho riferito in precedenza e perciò sapeva bene che se avessi attizzato la disputa, molto probabilmente il signor generale in
capo avrebbe voluto vederci chiaro; inoltre (benché allora non lo sapessi) il conte, in una delle sue scorrerie, aveva saccheggiato una delle salmerie del generale e trucidato uno dei suoi servitori in modo feroce e barbaro. Riguardo alla scelta dell'ambasciatore non c'erano dubbi in proposito, dal momento che tutti, senza eccezione, diedero l'incarico a me; e io non potevo naturalmente rifiutarmi, essendo stato il primo a prospettare quella soluzione. Sapevo inoltre che a nessun altro se non a un uomo del suo stesso rango mio cugino avrebbe prestato orecchio, dati il suo smisurato orgoglio e la sua arroganza; nessun messaggero di bassi natali sarebbe sfuggito a una pallottola, neanche se avesse portato con sé cento bandiere bianche. Perciò queste considerazioni mi spinsero ad accettare un incarico di fiducia, che nessun altro desiderava ricoprire, e io meno di tutti. In primo luogo, dunque, scrissi una lettera al signor generale Cromwell, in cui illustravo le orribili imprese del conte di Deeping, lo ringraziavo per l'amicizia che aveva mostrato nei miei confronti e per lo sdegno che aveva contro gli assassini e i prepotenti, e lo invitavo a mandare subito delle truppe a Marsham per snidare quel covo di malfattori. Consegnai la lettera a Mastro Eldad incaricandolo, se mi avessero imprigionato o trucidato, di scrivere in calce alla lettera quello che mi fosse accaduto e di spedire il tutto con un messaggero fidato sul mio cavallo all'avamposto più vicino dell'esercito del parlamento. E così Mastro Pentry prese lo scritto e a tempo debito fece quello che gli avevo indicato, anche se (come si vedrà) mi sarei ben potuto risparmiare queste fatiche per salvare la mia vita o per vendicare la mia morte, perché le cose erano destinate ad andare altrimenti. Fatto ciò, non restava che recarsi al castello di Deeping, e là incontrare mio cugino. Dovevo attendere che l'alta marea si ritirasse e uscire con la barca durante la fase di riflusso. C'era, sì, la possibilità di arrivare a un attracco in prossimità del castello anche con la bassa marea, ma il percorso era tortuoso, scivoloso e disseminato di sabbie mobili. Chi non avesse conosciuto i luoghi come la faccia di un suo parente prossimo si sarebbe impantanato e si sarebbe perso. In realtà neppure chi conosceva la zona poteva avventurarvisi impavidamente, perché era nella natura di quelle sabbie mutare con una grande marea o una forte tempesta. Ma su una barca avevo poco da temere, abituato com'ero a maneggiare i remi ed essendo resistente nuotatore: in quelle zone il mare era meno insidioso della terraferma. E così arrivammo insieme fino al fiume e trovammo una vecchia barca che le soldataglie del conte si erano lasciate sfuggire, dal momento che era ormeggiata in una piccola cala in mezzo ai salici. Era piccola e inidonea ad
affrontare il mare, ma ci arrangiammo a calafatare le connessure. Quindi presero i miei bagagli e un'asta con un fazzoletto bianco per annunciare il desiderio di armistizio, e li caricarono nella barca con i remi, e quando tutto fu pronto, ormai era passato mezzogiorno, e la marea cominciava a levarsi. Era uno strano spettacolo: il luogo dove ci trovavamo sarebbe potuto essere a leghe di distanza da ogni costa, come mi sembrava guardando il piccolo corso d'acqua nel profondo canalone di grigio terreno argilloso e il fiume che in basso scivolava rapido e silenzioso. L'onda di marea non fu gigantesca come quella che avevo visto risalire il fiume Severn, ma dall'acquitrino prese a venire un ampio sibilo, un fruscio, un mormorio sempre più forte e più vicino, e quindi avanzò una piccola onda, grigia di fango e con una cresta di spessa schiuma gialla, in lotta contro la corrente, mentre altre onde incalzavano rincorrendosi l'una con l'altra come bambini che giocano. Alla fine l'onda di marea ci superò; quando mi guardai attorno, il letto del fiume si era riempito di acqua densa, i pendii grigi e irregolari erano scomparsi e il fremito delle onde lambiva i prati verdi. Aspettammo silenziosi finché l'onda rallentò la corsa, le creste di schiuma gialla e le righe di melma smisero il loro impeto e finirono catturate in mezzo alle canne e alle erbe e cominciarono a indugiare sui pendii. L'ora era giunta: salii sulla barca e gli uomini di Marsham la spinsero nel fiumiciattolo gonfio d'acqua fino all'argine. Quindi, prima che mi lanciassi in mezzo alla marea, l'uno dopo l'altro gli uomini mi diedero benedizioni o avvertimenti, mentre le donne si lamentavano ad alta voce e Mastro Eldad, stringendomi la mano e restando sull'argine, si levò il cappello e parlò con fervore, pregando affinché il mio viaggio potesse avvenire per la gloria di Dio e per la salvezza degli oppressi. «Non aver paura, Hubert Leyton» aggiunse, fissando i suoi strani occhi su di me «perché mi è stato rivelato che la vita ti sarà concessa in cambio di un bottino. Resta in acque profonde e segui il canale principale finché arriverai all'altezza del faro; quindi va' a sinistra costeggiando la spiaggia.» Ma a questo punto si udì un clamore di voci, rese acute dalla paura. «Non da quella parte!» gridò una. «Quel canale porta al Gorgo.» «Nessuno ci passa mai!» gridò una donna. «Non conosci la storia?» Mastro Eldad scosse la testa con aria di disapprovazione, e guardò dall'alto in basso come se fosse l'autentico Golia in mezzo ai pigmei. «Non dar retta alle vecchie favole!» disse. «Vai con nel cuore il timor di Dio, e trionferai sul leone e sul serpente; il giovane leone e il drago saranno schiacciati sotto i tuoi piedi!» E, così dicendo, si appoggiò alla pertica
che aveva in mano e spinse la barca in mezzo al fiume, dove il riflusso della marea e la corrente del fiume turbinavano con piccoli mulinelli di densa acqua grigia e strisce spiraliformi di fango. Misi i remi sugli scalmi e puntai la prua della barca in direzione della corrente; e guardandomi dietro per tenermi nel mezzo del canale, ebbi un rapido scorcio della gente del villaggio, e udii un mormorio di voci, con qua e là ancora qualche grido affannato di «il Gorgo» e ancora «il Gorgo», mentre Mastro Eldad biasimava aspramente il suo gregge con citazioni dalle Scritture. La corrente e il riflusso della marea mi portavano veloci e con poca fatica, da parte mia, salvo quella di governare la barca con un colpo di remo di qua o di là, all'altezza delle anse del canale. Vedevo poco tranne gli argini verdi, ora orlati da una striscia grigia, umida e sempre più ampia, perché la marea si era un po' abbassata. Non passò molto tempo prima che mi voltassi a dare un'occhiata oltre la spalla destra e vedessi, sopra un ammasso di pietre, un pilastro di pietra con un grande canestro di ferro mezzo corroso dalla salsedine, e mi venne in mente che quello doveva essere il faro del quale aveva parlato Mastro Pentry. Volgendo lo sguardo a prua, vidi che il ramo principale della corrente effettuava una svolta decisa verso destra, ma all'altezza di un ampio canale volgeva a sinistra nei pressi della spiaggia, che lì finiva, e al di là del quale si estendeva il groviglio verde e grigio dell'acquitrino. Quello era dunque il percorso che il mio amico mi aveva indicato di seguire per arrivare al castello, evitando la grande ansa del corso d'acqua principale. Da qualche parte nel canale doveva esserci il nero abisso che gli uomini di Marsham chiamavano "il Gorgo". Qualcosa della loro paura mi fece raggelare il sangue, perché non potevo fare a meno di ricordare gli strani versetti che avevo letto nel vecchio libro. Ma, malgrado tutto, girai la prua della barca in direzione del vasto canale mentre passavo vicino al faro, simile allo scheletro marcio e annerito di qualche strano animale. Il riflusso della marea continuava lentamente sopra le acque poco profonde, e io spingevo sui grossi remi con il sole che mi batteva caldo sulla faccia. Ma il vento piacevole che sentivo di tanto in tanto riusciva a rinfrescarmi. A poco a poco la corrente si fece più debole e si esaurì del tutto, il vento cadde e il sole si fece più caldo di prima, sicché fui costretto a riposarmi e asciugarmi la fronte. In quel momento mi accorsi di uno strano odore nell'aria, come di qualcosa di morto portato dalle onde, freddo, immondo, salmastro e disgustoso. Mi guardai attorno sull'acqua, ma non vidi alcuna carcassa galleggiante, come mi aspettavo di vedere; il canale sul quale sta-
vo navigando era scuro e stranamente immobile. Rivolsi lo sguardo in direzione della spiaggia. C'era una striscia di terra argillosa e grigia, quindi un gruppo di massi, simile a una scogliera franata, e in alto, contro il cielo azzurro, una specie di sporgenza irregolare: l'unico frammento superstite del vecchio castello, come sapevo. A un tratto mi venne in mente che probabilmente remavo proprio sopra il Gorgo. Con una certa paura e con una certa impazienza, mi alzai in piedi nella barca e guardai da entrambe le parti. Non c'era nulla che potesse spaventare, tranne l'odore pestilenziale; e questo sembrava salire da una certa melma grigia e luccicante, che galleggiava in chiazze e strisce sull'acqua densa, o pigramente si avvolgevano a spirale attorno a quella zona, e di quando in quando una bolla saliva e se ne restava lì per un po' prima di scoppiare. A chi fosse stato vicino all'acqua come ero io, il Gorgo non appariva così nero come a chi lo guardava dall'alto e da una certa distanza; ma anche da lì potevo vedere che aveva un'ampiezza di circa quindici metri da un capo all'altro, almeno stando alle mie impressioni. In quel momento ero vicinissimo al centro di quello strano posto che, a giudicare dalla melma, pensai si trovasse sopra l'imboccatura di qualche pozzo di bitume, come si legge nella storia di Sodoma e Gomorra. Guardai verso il basso, con il corpo all'indietro per tenere in equilibrio la barca e sporsi la testa oltre la sponda, finché la mia faccia non fu vicina all'acqua, in quel punto priva di fango, trasparente e scura soltanto a causa della profondità. Mi pareva che gli occhi percorressero con lo sguardo quell'insondabile abisso, finché non distinsi più nulla; non mi meravigliava che gli abitanti del villaggio favoleggiassero che l'abisso fosse senza fondo. E così, mentre scrutavo le acque scure, quasi fossero una grande pietra nera di agata, mi parve di scorgere qualcosa che si muoveva e, osservando con maggior attenzione, mi sembrò di cogliere un tentacolo grigio del colore della melma che si tendeva in alto attraverso le tenebre, puntando con moto rapido nella mia direzione. Lanciai un urlo aspro come chi si sveglia da un sogno, e al mio grido quel filo grigio ondeggiò e parve raggomitolarsi sul fondo, sparendo alla vista. Mi dissi che si era trattato soltanto di un grumo di melma in fondo all'acqua e che il compito era di portare la mia ambasciata a Deeping, dove probabilmente sarei stato più in pericolo che sopra il Gorgo. Capivo, però, che l'orrore di quel luogo spaventoso potesse imprimersi nella mente degli uomini di Marsham; e a dire la verità, l'odore del fango e le contorsioni di quel nastro grigio nell'acqua nera mi fecero più paura di quanto avrei voluto confessare a me stesso. E così, chinandomi sui remi, continuai e con un
colpo o due mi trovai fuori dal cerchio oscuro del Gorgo, in mezzo alle ondine danzanti del canale; e con poca fatica raggiunsi il corso d'acqua principale, il quale, come mi aveva detto Mastro Eldad, dopo una grande curva, portava al di là dell'acquitrino. La corrente che aveva ripreso a fluire mi trascinava rapidamente fra argini umidi di sabbia e argilla, in mezzo a isolette sempre più alte sul pelo dell'acqua, ricoperte di erba grigia, o punteggiate di piante di salicornia selvatica. In un attimo colsi il luccichio della banderuola sulla torre del castello, la punta del tetto e le linee severe dei muri. Riflettei che se potevo vedere, potevo anche essere visto, e così presi la bandiera bianca che mi era stata data e la montai ben diritta sulla prua della barca. Non fu misura intempestiva, perché, superata un'altra ansa del fiume, vidi un buon tratto di muro, il luccichio di un elmo metallico e di una punta di picca. Arrivarono due o tre uomini, e uno, correndo lungo il muro, scomparve, come se fosse andato a dare notizia della mia venuta. Vedevo abbastanza bene ora, perché avevo poco da fare, salvo dare qualche colpetto di remi; seduto con la faccia verso prua, procedevo diritto, come un barcaiolo veneziano. La corrente del fiume e il riflusso della marea mi conducevano; il castello si profilava più grande ormai finché non arrivai in un'ampia insenatura, e il castello di Deeping mi si parò davanti sulla sua isola, al di là dell'acquitrino. Il castello non era di grandi proporzioni, circondato com'era dall'acqua. L'isola di roccia sulla quale sorgeva era larga circa quaranta metri e aveva la forma di una pera, con una collinetta nel luogo in cui si innalzava il maschio del castello. Il muro turrito era basso e seguiva l'andamento della costa dell'isoletta, che si innalzava di circa tre metri e mezzo sopra la linea della marea; il muro era alto il doppio di questa misura. In certi punti la roccia era stata erosa dall'acqua; altrove un ammasso di terreno friabile era ammonticchiato contro il muro. L'intero castello era dello stesso colore della roccia, grigio con qualche chiazza di ruggine: era, infatti, stato costruito con la pietra ricavata scavando le cantine e i magazzini. Nella zona più larga dell'isoletta sorgeva la parte destinata a residenza. Risaliva ai tempi della regina Elisabetta, quando ormai era passata la paura di essere aggrediti dai vicini di casa. La dimora era abbastanza accogliente, anche se non grande, con balconi chiusi da vetrate e una torretta con una banderuola colorata. Questo riuscii a vedere, mentre il riflusso della marea e la corrente del fiume mi trascinavano lentamente in quelle profonde acque. Le sentinelle mi osservavano con curiosità, riparandosi gli occhi dal luccichio del
sole sulle onde, finché arrivai a tiro di fucile; allora uno di loro, levando il suo moschetto, ma più per abitudine che per minaccia, lanciò l'avvertimento: «Chi va là?» «Un amico» risposi e proseguii avvicinandomi al muraglione, anche se non vedevo un punto di attracco. «Sei con il re o con i ribelli?» ripeté. «Con nessuno dei due!» risposi seccamente, con un certo sdegno per tanta puntigliosità militaresca in un covo di predoni. «Vengo in pace, come indica questo simbolo.» «Allora navighi sotto le insegne di uno strofinaccio da cucina?» disse con un ghigno diabolico. «Chi è la Signoria Vostra? Che cosa viene a fare?» La mia voce insorse contro l'insolenza ricevuta da quel comune soldato e parlai, temo, troppo duramente per la mia missione di pace. «Quando avrai finito di giocare a far la guerra» gli risposi «riferisci al conte di Deeping che suo cugino Hubert Leyton desidera parlargli.» Il furfante di sentinella borbottò qualcosa nella sua barba rossa, ma un altro dietro di lui si mise a ridere. «Vi ha fatto arrabbiare, amico» disse. «Che bisogno c'è di chiedere la parola d'ordine a un uomo solo, e unica anima per miglia e miglia?» Quindi si rivolse a me che, sotto il muraglione, cercavo con un remo di tenere la mia barca discosta dalla roccia. «Se girate attorno al maschio del castello, signore, vedrete l'ingresso e l'insenatura, e vi porterò dal conte» disse in tono abbastanza gentile, scendendo dal muro. L'altro riprese a camminare avanti e indietro, maledicendo i soldati puritani di Cromwell e i traditori stranieri, mentre io tornavo ai remi, perché l'acqua era troppo profonda per spingere la barca facendo leva sul fondale. Quando ebbi fatto il giro del maschio del castello, si aprì una finestrella, ricavata da una vecchia feritoia ampliata per comodità, e spuntò una testa. E io, guardando verso l'alto senza badare al rumore dell'anta che si apriva, incontrai gli occhi di qualcuno che osservava verso il basso. Era una ragazza, mi sembrò, di circa vent'anni, dai capelli sciolti, scuri e ricci, come si usava allora, e dagli occhi grigi (ma al momento non mi ero accorto del loro colore) e fosche occhiaie di stanchezza e di dolore. Il rumore dei remi nell'acqua l'aveva fatta sobbalzare mentre al mio orecchio giungeva il cigolio della sua finestra. Così per un breve istante restammo immobili, guardandoci l'un l'altra, finché, ricordandomi del rispetto che si deve a
una donna, mi tolsi il cappello facendolo ondeggiare, come voleva la regola della cortesia ma, non ne dubito, con gesto sgraziato. Salutò chinando il capo, arrossendo improvvisamente, e quindi si ritrasse, mentre io, di nuovo ai remi, mi chiedevo chi potesse essere. Ma in verità non era molto difficile da capire, perché Mastro Eldad mi aveva parlato di due donne che si trovavano al castello, e quella non poteva essere una delle ragazze rapite al villaggio, e dell'italiana aveva parlato come di una donna di bassa statura e non bella. Quella che avevo visto, perciò, doveva essere per forza damigella Rosamund Fanshawe, dama di compagnia della signora di Deeping, ormai morta. Girai intorno al gran torrione e vidi una piccola insenatura delimitata da un crinale di roccia aggettante e protetta da opere in muratura. Vi erano ormeggiate le chiatte e le barche della guarnigione, protette da due colubrine piazzate alle feritoie di una torre a barbacane, attraverso la quale un passaggio conduceva sotto il ponte levatoio del castello. Qui si trovavano altri uomini: alcuni erano impegnati a calafatare le chiatte, altri pescavano standosene sulle rocce, altri si aggiravano oziosi, in farsetto di cuoio e calzoni, oppure stivali e calzamaglia. Mentre mi fissavano a bocca aperta, pensai che in tutta la mia vita non avevo mai visto simili furfanti. Lì, infatti, si trovavano non solo i bravi e onesti mascalzoni inglesi, ma il fior fiore dei farabutti di tutte le nazioni. Tra di loro si trovava uno zotico irlandese con una testa impressionante, che per via di certo pesce si azzuffava con un tedesco grande e grosso - la faccia, dove non era coperta dalla barba, era tutta cicatrici - ed entrambi si accanivano sul poco inglese che costui parlottava. Uno spagnolo, che pareva avere le labbra infilzate da grossi baffi, giocava d'azzardo con un italiano dalla pelle scura, la cui mano penzolava verso il fodero del pugnale ogni volta che la partita si metteva male per lui. Ma tutti sospesero le loro occupazioni o i loro svaghi per lanciarmi uno sguardo, per indirizzare qualche sberleffo sulla mia faccia o sul mio abbigliamento, e si guardarono bene dall'aiutarmi a ormeggiare la barca. Mi arrangiai a farlo da solo e, senza dar segno di aver notato quei bricconi, presi i miei bagagli e salii baldanzosamente sul ponte, che si era aperto, e all'interno trovai l'uomo che mi aveva indicato il giro da fare per arrivare lì. Era alto e aveva una bella faccia, tranne che per una cicatrice che gli segnava la guancia; aveva i capelli biondi, ma la pelle era scurita dal sole e dal vento; anche il suo abito era ricco, benché in qualche modo consunto e non appariscente come quello di alcuni degli altri uomini. Portava al fianco
una lunga spada. Parlava bene, seppure con un accento straniero, tanto che lo credetti scandinavo, forse uno svedese, come poi ebbi conferma. Come molti inglesi e scozzesi avevano servito sotto il grande Gustavo di Svezia, così non pochi soldati di fortuna svedesi e tedeschi erano venuti in aiuto a una o all'altra delle fazioni inglesi in lotta. «Benvenuto al castello di Deeping, signor Leyton» disse con una cortesia militaresca che ben gli si addiceva. «Le facce nuove qui non sono numerose, e così dobbiamo essere rudi anche con gli amici. Posso permettermi di presentarmi a voi con il mio indegno nome, Eric Guldenstierna, da Uppsala, abbreviato dai miei uomini come Gulston da Nessunluogo, alfiere delle truppe del mio signore, cioè quello che delle truppe il comandante Cromwell ha risparmiato.» D'impulso strinsi la mano all'uomo per salutarlo, tanto franco e virile era il suo comportamento. Ma subito l'avrei ritratta al pensiero che sicuramente quello svedese aveva aiutato mio cugino in tutte le sue ultime nefandezze e Dio sa chissà in quante altre e peggiori in precedenza. Tuttavia mi dominai e tirai indietro la mano non più in fretta del dovuto. Se i miei occhi dessero a intendere questo intimo travaglio, non lo so; Gulston, se posso chiamarlo così per brevità, fece una piccola risata, non quella di una persona allegra, e girandosi mi fece attraversare il cortile del castello, in parte pavimentato e in parte di roccia viva. Sulla porta della residenza, che era aperta, se ne stava al sole un saraceno con un vestito dai colori vivaci, il quale girò i suoi bulbi oculari bianchi verso di noi e si trascinò pigramente all'interno per annunciare il mio arrivo al conte. Capitolo IV DELLA MIA AMBASCIATA E DI COME FINÌ Il moro ci mise parecchio per portare la sua ambasciata - succede sempre così se quella gente non ha la frusta davanti agli occhi - e per passare il tempo mi misi a chiacchierare con lo svedese. L'uomo parlava bene e ne aveva viste parecchie in vita sua; gli si addiceva la schiettezza militaresca. Eppure mi stupii sentendo, in ogni sua parola, il disprezzo per quello che gli uomini chiamano il bene. Non ebbe elogi per nessuno della sua fazione tranne che per il principe Rupert, e anche di lui rideva come se parlasse di uno stolto, che si faceva scrupolo di non far fuori il suo debole re per subentrargli sul trono. «Quanto alla vostra guerra» disse ridendo in mezzo alla sua barba bion-
da «voi inglesi non sapete neanche quel che vuol dire la parola. Il comandante Cromwell può preparare la sua battaglia bene quanto vuole, e i suoi santi avere spade lunghe quanto le loro prediche, ma dove troverete un vero soldato nei due schieramenti, tranne uno o due di noi che siamo della Germania o dei Paesi Bassi? Fate pure marciare la cavalleria di Cromwell in mezzo a un villaggio e i suoi uomini non bruceranno nemmeno una capanna e non si porteranno via nemmeno una ragazza.» Gli risposi che era quella l'autentica disciplina della guerra introdotta dagli svedesi, così come l'aveva insegnata il grande Gustavo in persona. «Oh, ecco» disse Gulston beffardo. «Quando cominciammo, eravamo anche noi come i soldati di Cromwell, salvo per il fatto che non cantavamo gli inni religiosi con voce nasale. Ma il re era uno stolto, anche se buon combattente, e fuori dalla battaglia il mio uomo era Wallenstein. Se non fosse finito all'altro mondo infilzato sulle picche di qualche furfante di irlandese, sarebbe stato il nostro comandante. Wallenstein non avrebbe mai impiccato un uomo per un borseggio o per aver combinato qualcosa con una o due ragazze. Voi non avete soldati veri, e non ne avrete.» Gli risposi, temo con una certa durezza, che se non avevamo un tale genere di guerrieri tra noi, eravamo forniti di buona corda per ricompensarli a seconda dei loro delitti; ma lo svedese rise di nuovo. «Ho dimenticato» disse «che gli uomini dicono di voi che siete per metà dalla parte di Cromwell ma non la metà che combatte. Vi consiglio di tenere per voi i vostri sermoni quando incontrerete il conte e la Signora. Parlare della corda in casa dell'impiccato potrebbe essere di cattivo auspicio per la vostra degna e pacifica persona.» Lasciai correre quella sua osservazione sarcastica perché ero curioso di saperne di più della signora italiana; così gli chiesi cosa sapeva di lei. Scrollando la folta chioma, lo svedese sorrise acidamente. «Be', quello che so è presto detto» rispose «e quello che non so, ma che immagino, non lo dirò mai. Il suo nome è Fiammetta Bardi; suo padre venne ferito a morte in un tumulto a Ratisbona. Alcuni lo chiamavano un mago, altri uno studioso. Tutto quello che so è che il mio signore e pochi altri di noi l'hanno salvata dal pericolo di finire nel Danubio, e che da allora è stata la compagna del mio signore.» «Sapete anche qualcosa della fine di mia cugina, la contessa?» gli chiesi, vedendo che indagare ulteriormente sull'italiana era fiato sprecato. «So che è morta, poiché è stata appena sepolta» disse Gulston «e so che è stata sepolta, perché io ero lì; di ogni altra cosa potranno informarvi il
conte e la Signora, se così vorranno. E ora vi saluto, perché vedo che sta tornando il messaggero moro.» Detto questo, portò la mano al cappello in un gesto sarcastico di saluto e si avviò all'uscita attraversando il cortile, mentre il moro, venendomi incontro con maggiore alacrità di prima, prese i miei bagagli e mi chiese di seguirlo. La residenza, come ho detto, non era grande, perché coloro che l'avevano costruita avevano avuto poco spazio e pochi mezzi a disposizione. Dall'entrata passai nella sala da pranzo, al momento vuota, dove il sole del pomeriggio gettava un fascio di luce polverosa sulla grande tavola, attraverso la finestra che guardava a occidente. I riquadri superiori della finestra erano decorati con vetri colorati che recavano lo stemma del conte - un castello rosso in campo argento - che ben conoscevo, pur non essendomene mai insignito. Due grandi scranni di quercia intarsiata stavano su una pedana a capotavola, come era costume, per il signore e la signora del castello; e mentre la luce cadeva sulle sedie ebbi la strana visione di un'ombra in abito lungo, con una macchia rossa sul petto, così che mi fermai e gridai con forza: «Chi va là?». Ma mentre dicevo queste parole, mi diedi subito dello stupido, perché si trattava di un gioco di luci sul legno e sul rosso del castello dello stemma. Vedendo tuttavia il moro, mi accorsi che tremava come se avesse un attacco di malaria e che la faccia gli era diventata grigia per il terrore. «Voi, padrone, vedere lei?» chiese incespicando nelle parole. «Pompey vedere lei molte volte!» E, così dicendo, si inginocchiò a fare il segno della croce e a parlare in un gergo che giudicai essere preghiere mescolate con scongiuri pagani, alla maniera degli africani, e non smise di borbottare neppure quando gli ordinai di condurmi dal suo padrone. Mi condusse invece a una porta sull'altro lato della sala che additò con dito tremante; quindi, come feci cenno che poteva andare, strisciò via, continuando a ripetere le sue nenie. La visione, benché sapessi che si trattava soltanto di un'ombra, unita alla paura provocata dal moro, mi aveva scosso stranamente, al punto che indugiai prima di varcare la soglia. Ma mi tornò alla mente il ricordo dei poveri uomini di Marsham assieme alle parole del vaticinio di Mastro Pentry; bussai e mi fu detto di entrare. La sala in cui entrai era piccola e piuttosto scura, rivestita di legno di quercia che si era brunito col tempo. In mezzo c'era un tavolo di quercia; in fondo, un allegro fuoco bruciava nel caminetto. C'erano solo due perso-
ne nella stanza, un uomo e una donna, con le facce rivolte verso il fuoco; ma quando entrai, l'uomo si alzò in piedi e riconobbi mio cugino il conte, anche se cambiato. Era più grande e grosso di quando lo avevo visto l'ultima volta; i suoi capelli avevano striature di grigio; ma quello che soprattutto mi colpì fu lo sguardo selvaggio dei suoi occhi, che passava senza sosta dalla mia faccia agli angoli della camera e cambiava senza ragione apparente dall'ardore della collera all'apatia della disperazione. Mi venne incontro dandomi la mano in un gesto di apparente amicizia. «Benvenuto, cugino!» disse con una voce che ostentava sicurezza e cordialità. «Benvenuto, quale che sia la ragione che ti porta qui. Permettimi di presentarti la Signorina Bardi, una studiosa come te, capace di discorrere di quelle curiose dottrine che fanno la delizia degli uomini di Cambridge.» Mentre il conte parlava, la donna si era alzata dalla sua sedia, e mentre mio cugino proseguiva, ebbi agio di levare lo sguardo su di lei, desideroso di scrutarla per bene e curioso di saggiare la veridicità di quanto mi aveva detto Mastro Pentry. E, come lui mi aveva detto, la Signorina Bardi non era una donna di figura imponente o di particolare bellezza, ma di statura media, ben fatta, come si poteva capire dagli abiti aderenti che indossava. Il viso era esangue; gli occhi, piccoli e ravvicinati, erano a mandorla, al modo degli orientali, di un colore che tendeva al verde, come mi resi conto in seguito, ma lei sembrava riluttante ad aprirli completamente. I capelli, raccolti in una rete dorata, erano folti e rossi come nei quadri veneziani, ma di un colore più brunito, dal che dedussi trattarsi di colore naturale e non artificiale come, stando a quanto racconta chi è andato a Venezia, pare sia quello delle belle veneziane che in genere sono brune. Era avvolta in una veste color rosso scuro con ricami sul collo e, a quanto vidi, non portava gioielli, tranne una grande pietra rossa che le pendeva al collo e che luccicava come un tizzone ardente tra le braci. Mi inchinai a lei e la salutai con qualche parola in italiano, al che le sue labbra, sottili e di un rosso scuro, si dischiusero in un sorriso, e la sua faccia cambiò tanto che per un attimo parve bella. La sua voce era musicale al massimo grado, con un suono come di canto che rendeva anche il suo inglese (che parlava molto bene) una delizia da sentire; e nell'ascoltarla quasi mi dimenticai chi fosse e quanto probabilmente aveva fatto, o ordinato di fare. Mio cugino, il conte, ci guardò con un sorriso che assomigliava a un ghigno. «Ha incantato anche te, cugino Hubert?» chiese ridendo, mentre io sentivo le guance che mi diventavano rosse. «Non arrossire mai, amico mio, e
non prendertela, ma siedi e vuota il sacco. Suvvia, non sta bene raccontare una storia senza berci sopra.» Prese una bottiglia di vino spagnolo che stava al suo fianco, riempì un calice veneziano fino all'orlo e un altro per se stesso, dopo che la Signora lo aveva rifiutato con un gesto delicato delle lunghe dita. «Facciamo un brindisi al re, che tu sia o non sia puritano, e affoga la coscienza!» «Non ce n'è bisogno» dissi. «Brindiamo al re! Che possa essere felicemente e giustamente restituito ai suoi onori!» Quindi vuotai il bicchiere di vino, che era un po' troppo forte per il mio palato. «Un vero brindisi da opportunista!» disse in tono canzonatorio. «Te ne suggerirò uno migliore. Al re, e che sia dannato lo stolto che non sa comandare e non sa obbedire!» «E sia» dissi sorridendo (perché non volevo mandarlo in collera già dal primo momento). «Credo di essere io il realista tra noi due, almeno nella speranza, benché ammetta che hai combattuto bene per il re.» «Ecco» rispose lui, mostrando i denti come fa un cane «nessuno ha combattuto meglio, se anche sono io a dirlo di me stesso. Ma qual è la mia ricompensa? Me ne sto seduto qui nella mia casa come un tasso nella sua tana, in attesa dell'uomo che mi stani e dei cani che mi facciano a pezzi.» A queste parole la donna sospirò con una specie di sconfortata tristezza, ed egli si volse verso di lei. «E ci saranno abbastanza cani per fare a pezzi il gatto acquattato nella tana del tasso, cara mia!» Capii che era venuto il momento di parlare della mia missione e di uscire allo scoperto. «Non c'è bisogno» dissi rapidamente «di pensare a una simile fine, indegna e terribile, per una signora della sua cultura e per un uomo del tuo valore. Sei piuttosto un leone che un tasso, cugino; e io sono il topo della favola, che può cercare di tirarti fuori dalla trappola.» Diede in una risata sonora e rozza. «Davvero un piano da topolino, non ne dubito» esclamò. «Mi proporrai, ci scommetterei, una manifestazione di rassegnata sottomissione per salvarmi l'osso del collo, se canterò i salmi con voce nasale. Ecco la condanna di tutti i furfanti voltagabbana.» E si riempì il bicchiere per svuotarlo immediatamente. Sono per natura ed educazione una persona mite; non sono suscettibile, ma a quella rozzezza mi sentii gonfiare di rabbia. «Mio signore» dissi con tutta la calma di cui ero capace «se tu sai già quello che intendo dire prima ancora che io parli, la mia presenza qui non è richiesta, e non mi resta che accettare la tua similitudine: lasciare il tasso ai
cani, che forse sapranno farsi capire meglio.» A queste parole andò in collera e cercò la spada che giaceva nel fodero sul tavolo; rimasi cautamente dov'ero, maledicendo la sua follia e la mia stoltezza, pronto a ritirarmi se fosse stato necessario. Ma mentre gli occhi di mio cugino vagavano guardandosi attorno nella stanza, incontrarono quelli della donna italiana, e l'effetto mi lasciò attonito: pareva un indemoniato davanti all'esorcista, o una bestia selvaggia davanti al domatore. Il fuoco scomparve dai suoi occhi, la mano lasciò l'impugnatura della spada e, quando riprese a parlare, assomigliava a un bambino sgridato per essere stato maleducato. «Ti chiedo scusa, cugino» disse. «Sono un uomo sfortunato, e le inezie mi fanno arrabbiare. Bevi con me in pegno di perdono, e tornerai a essermi parente e amico.» E riempì di vino spagnolo il mio calice e il suo. Sfiorai il bicchiere con le labbra e lo deposi, mentre lui lo svuotò in un sorso. «Su, vuota il bicchiere!» disse. «Altrimenti penserò che mi porti rancore.» «Non ho rancore» risposi «ma il tuo vino è troppo nobile per il mio povero cervello, mentre io desidero avere il pieno possesso delle mie facoltà mentali per poterti essere utile.» «Va bene, va bene» disse con un sorriso di disappunto. «Berrò io per te.» E stava per riempire ancora il bicchiere, quando la Signora lo guardò di nuovo assottigliando gli occhi. «Non bere più, Filippo mio» disse con la sua voce morbida e melodiosa; lui mise da parte la bottiglia con un gesto astioso e mi fece cenno di proseguire. «Ecco, dunque, di che si tratta» cominciai, soppesando le parole prima di parlare. «Tu ti trovi qui con una compagnia di uomini disperati, braccato nel mezzo dell'acquitrino, finché i seguaci di Cromwell non si ricorderanno di te e verranno a stanarti. Avranno del filo da torcere, senza dubbio, ma la conclusione è inevitabile; inoltre, quanto più li farai penare, tanto minore sarà la loro clemenza. Non sono sicuro che i tuoi soldati non ti volteranno le spalle per salvarsi l'osso del collo, quando vedranno che la partita è persa; e rischi di perdere tutto, se non altro per tradimento. Se invece rispedisci i soldati nei paesi da dove sono venuti, o alle armate del re che ancora resistono, potresti startene tranquillo, senza che nessuno venga qui a darti guai. Oppure, se non vuoi dare l'impressione di sottometterti, puoi andartene nei Paesi Bassi, dove a un soldato non mancano le occasioni di farsi onore e, quando il re fosse rimesso sul trono, troveresti qui tutto come lo hai lasciato.»
Fin qui mio cugino mi aveva ascoltato pazientemente, limitandosi a tamburellare le dita sul tavolo; ma a questo punto cominciò a imprecare. «Maledizione!» gridò. «Ho dato la mia parola di restare calmo, ma questo è troppo! Cosa ne sarebbe della mia dimora e delle mie terre, mentre io muoio di fame nei Paesi Bassi? Trovare tutto come l'ho lasciato, ma certo! Anzi... troverei più di quanto ho lasciato! Troverei una mezza dozzina di bastardi puritani che nasceranno al grasso soldataccio di Cromwell, che sarà diventato il nuovo proprietario del castello di Deeping!» «Non è così» mi affrettai a rispondere. «Sarò io il garante, cugino, e mi occuperò della tua casa. I tuoi affittuari hanno giurato di rispettare il patto che forse stipulerò con te, e io ti invierò le rendite tramite un messaggero fidato. Mi hai chiamato opportunista, ma nessuno può dire che non mantenga la parola data, o che abbia fatto anche un minimo torto. E se gli uomini di Cromwell requisissero il castello - e non vedo come potrebbero farlo - mi adoprerò a spedirti qualcosa delle rendite delle mie proprietà.» Mi guardò a occhi stretti. «E quale sarebbe lo scopo di tutto questo?» chiese sogghignando beffardamente. «Perché non restarmene sicuro a casa a leccare gli stivali del comandante Cromwell per i miei eredi?» «Cugino Philip» gli risposi, benché fosse difficile parlare con calma «quei poveretti di Marsham hanno affidato a me la loro causa, e io ho un vincolo d'onore nei loro confronti. Appartengo al tuo sangue e alla tua stirpe; non desidero vedere il conte di Deeping abbattuto come un ladro in una zuffa da quattro soldi. E sebbene non stia a me avere vincoli d'affetto per la Signora Bardi, mi dispiacerebbe che tanta cultura e tanta intelligenza sprofondassero nel fango o finissero in fumo.» Dissi queste cose per avere l'italiana dalla mia parte, e di sicuro non mentivo, perché la barbara superstizione della stregoneria aveva portato al rogo molte donne, e tutte all'apparenza assai meno streghe della Signora. Mi accorsi che le mie parole l'avevano colpita, perché i suoi occhi si aprirono, anche se nient'altro si mosse sulla sua faccia; e nonostante fosse una persona sfuggente, riuscii a cogliere il suo stato d'animo. La visione del rogo e delle fascine - di sicuro, non terrori infondati - impaurì anche il suo spirito elevato; dall'altra parte, c'erano le fortune, il rischio e la casualità della guerra, delle fazioni, delle scelte, dei complotti; c'era anche il potere di chi riesce a essere il ragno nella ragnatela machiavellica della politica. E così per un po' restammo entrambi con gli occhi fissi sul conte, che sedeva sul suo grande scranno con una gamba accavallata sull'altra, tambu-
rellando con la mano sul tavolo e con gli occhi che si guardavano attorno nella stanza. Pensavo che forse avrebbe capito la saggezza del mio consiglio, perché le sue sopracciglia erano aggrottate con aria meditabonda più che adirata; e senza dubbio era un uomo buono, quando non veniva sopraffatto dalla furia selvaggia. Alla fine si sporse in avanti, aprì le labbra come per parlare e sperai in un assenso al piano che gli avevo prospettato; così pareva ma, fin dalle prime parole, il suo modo di fare cambiò. Gli occhi inquieti fissavano un punto della finestra; il volto era raggelato dalla paura. Le parole che stava per dire gli morirono in gola, e ci furono soltanto mormorii che non riuscii bene a intendere; ma mi sembrò che dicesse: «Perché sei tornata? Non sono stato io a trucidarti! Non conosci pietà nella morte?», e altri bisbiglii del genere, come se parlasse a qualcuno che noi non potevamo vedere. Pensando che mio cugino fosse preda di una qualche forma di pazzia, mi girai verso la finestra, che recava le insegne della casata dipinte sul vetro; e, mentre la luce serale del sole cadeva sul vetro, per un momento mi parve di scorgere una figura bianca con una macchia rossa sul petto. Sapevo tuttavia che si trattava del bianco e del rosso della finestra, come era accaduto prima nella sala da pranzo; e non capivo perché un gioco di luci così banale provocasse tanto turbamento in mio cugino, che borbottava, rannicchiato sul suo seggio. Poco dopo si alzò; gli occhi, spalancati, non fissavano più la finestra e non erano neppure impauriti ma disperati, più simili allo sguardo di un demonio che di un uomo. Mi aspettavo che si sarebbe scagliato con furia contro di me, ma si limitò a suonare con energia un campanello d'argento che stava vicino alla sua poltrona, e il suono tintinnò nel salone adiacente. Non disse nulla finché non entrò Pompey, il moro, al quale parlò a bassa voce nell'orecchio per un minuto, lo congedò e tornò a sedersi in silenzio come prima. Alla fine non potei più resistere. «Cugino Philip» dissi «ti ho esposto il mio piano; posso avere una risposta prima di fare ritorno da coloro che mi hanno inviato qui?» Fece come se non avesse sentito nulla, e stavo per ripetere la mia richiesta, quando al mio orecchio arrivarono i colpi lugubri di un'accetta o di un martello battuti sul legno, al che il conte si mosse sulla sedia, e un sorriso satanico gli comparve sulle labbra. «Hai la mia risposta, cugino» disse con un ghigno. «Ho dato incarico di fare a pezzi la tua barca fino a ridurla in legna minuta da ardere: ci servirà durante le nebbie autunnali. Ho deciso di restare qui, non importa come andranno a finire le cose; e visto che non c'è grande affluenza di gente, sa-
rei lieto di avere il piacere della tua colta compagnia per trascorrere il tempo. Non mi separerò facilmente dal mio solo consanguineo. Sebbene l'invito possa sembrare rude, sappi che è il benvenuto di un soldato.» Aveva parlato con voce pacata, anche se con tono beffardo. Da parte mia, ero infuriato di esser finito, con tutta la mia strategia, prigioniero di mio cugino e dei suoi scherani. Balzai in piedi, fissandolo, e le mani mi corsero all'elsa della spada; ma lui non fece una mossa. «Suppongo» dissi «che tu abbia dimenticato che sono un ambasciatore venuto qui sotto bandiera bianca, e che devo portare una risposta a coloro che mi hanno mandato.» «Ah, già!» sogghignò beffardamente. «Ho dimenticato che eri l'araldo di Sua Maestà Eldad Pentry, per grazia di Belzebù, sputasentenze e predicatore di quei maledetti topi di fogna di Marsham. Stai tranquillo, scrupolosissimo cugino; nel giro di pochi giorni ho intenzione di portare loro, di persona, la mia risposta, e ci sarai anche tu a sentirla. Fino ad allora, e forse in seguito, dovrai essere mio ospite; e dal momento che si avvicina l'ora di cena, incaricherò Pompey di mostrarti la camera.» E quindi scrollò di nuovo il campanello. Non potevo lasciarlo in quel modo, e cercai nuovamente di convincerlo ad ascoltare i miei consigli per mettere in salvo lui e gli altri da una rovina certa. Ma, disperato davanti ai suoi dinieghi, mi girai verso l'italiana e la pregai di unire la sua voce alla mia, pensando che avrebbe avuto un potere maggiore su di lui. Ma alle prime parole gli occhi del conte s'infiammarono di collera, ed egli batté il pugno sul tavolo. «Cosa? Anche tu?» disse alla maniera di Cesare morente a Bruto. «Vuoi spedirmi nei Paesi Bassi, per potermi lasciare e andare con un amante più ricco o per farmi avvelenare da un sicario? No, per Dio! Ho qui con me voi due, e farete la mia stessa fine. Non un'altra parola, cugino, o chiamo Gulston e un plotone di fucilieri per sbatterti contro un muro e giustiziarti come traditore appartenente all'esercito di Cromwell. Se anche sono ormai finito, rimango il signore di Deeping, con uomini ai miei ordini e abbastanza polvere da sparo in serbo per far saltare tutti in aria, quando verrà la fine. E, Fiammetta...» Così dicendo, si girò a guardarla, e lei gli ricambiò lo sguardo con occhi simili a quelli del serpente che cerca di ammaliare un uccello fino a catturarlo. Ma gli occhi di mio cugino non si abbassarono davanti a quelli di lei, com'era accaduto prima. Brillarono stranamente tanto da parere quelli di una belva nell'oscurità, finché non vidi la donna tremare quasi fosse in
preda alla paura e volgere altrove lo sguardo. Entrò Pompey, e il conte, sorridendo alla Signora, gli ordinò di prendere i miei bagagli e di condurmi nella mia camera. Non volevo arrendermi, ma mentre mi sforzavo di parlare, la donna mi ordinò duramente di andare. Capii che era più saggia di me, perché non c'erano dubbi che mio cugino fosse in preda al demonio. E così, con un commiato che passò inosservato a mio cugino, seguii il moro attraverso il salone vuoto, dove i raggi del sole erano intanto saliti, dopo avere lambito le sedie, e avevano raggiunto l'altra estremità del cortile. Nonostante la rabbia per il tradimento di mio cugino e il disappunto per essere caduto in trappola con tanta facilità, nella mia testa risuonavano i vecchi versetti del libriccino: L'anima ha venduto il signore di Deeping all'angelo caduto... Mi tornarono alla memoria gli oscuri abissi del Gorgo, e il nastro grigio che risaliva dalla profondità, serpeggiando. Capitolo V DI DAMIGELLA ROSAMUND FANSHAWE E DELLA MIA CONVERSAZIONE CON LEI Seguii l'indolente Pompey attraverso il cortile, procedendo con passo lento quanto il suo. Il mio cuore era afflitto per l'esito disgraziato della mia ambasciata, e mi sembrava che a causa della mia stessa stoltezza avessi provocato conseguenze disastrose. E d'altra parte, per quanto valutassi la cosa, non riuscivo a pensare come avrei potuto esporre meglio la proposta o comportarmi in modo più saggio. Sicuro era che la decisione stava nelle mani della donna italiana, mia nemica, il cui destino era legato a quello di mio cugino. Non mi era sembrato che il conte l'avesse presa tanto a male, finché non aveva visto qualcosa nella finestra: pareva che da quel momento fosse diventato preda del demonio. Non ero tuttavia in collera con lui come lo sarei stato con uno sconosciuto; mi ero infatti convinto che quell'uomo fosse condannato a essere ribelle e malvagio, come era accaduto con il faraone, il cui cuore era stato indurito da Dio perché non lasciasse partire il popolo di Israele. Compresi, quasi mi fosse stato bisbigliato nell'orecchio, di dover aspettare e sopportare la fine, senza interferire oltre
con l'insondabile volontà di Dio. Perciò, quando arrivai nel mio alloggio, che era costituito da una piccola camera nella torre principale del castello, sbarrata come una cella di prigione ma arredata a sufficienza per chi non dà importanza alle comodità, mi cambiai d'abito senza chiedere aiuto al moro, e guardai fuori dalla finestra verso le paludi, dalle quali il mare si era adesso ritirato, sebbene l'acqua continuasse a lambire i piedi della torre. Il sole, simile a un grande disco rosso, tramontava oltre le colline, le ampie pozze dell'acquitrino sembravano rosse come se lì vi fosse stata compiuta una terribile carneficina; ma nel cielo vagava una grande nuvola dalla forma di un mostro con lunghi tentacoli striscianti e artigli che attraversavano il cielo. La sera era stranamente silenziosa, tranne che per i passi misurati della sentinella e il rumore metallico della sua lancia che veniva battuta sulla pietra al momento di tornare indietro alla fine del suo giro. Così, stanco dei miei stessi pensieri, discesi i consunti gradini di pietra che portavano in cortile, con la speranza di poter parlare con qualcuno, sebbene non fosse ancora ora di cena. Conclusi che gli uomini della guarnigione stavano cenando, perché gli ingressi erano stati chiusi per la notte e non si vedeva nessuno in giro tranne una sentinella da una parte e dall'altra delle mura. Una delle stanze del castello aveva due finestre illuminate e da lì proveniva il suono di voci e di grossolane risate; si udì, a un certo momento, anche il grido di una donna, ma non era di terrore. Indugiai, pensando che forse avrei potuto imbattermi nello svedese o in qualcun altro di quella risma: non mi sbagliavo, perché poco dopo Gulston uscì dalle sue stanze, che si trovavano molto vicino ai locali di guardia, e mi salutò con un fare abbastanza rispettoso. E così ce ne restammo a parlare delle guerre di Germania - argomento che mi pareva meno insidioso di quello dei nostri guai inglesi - e gli illustrai gli stratagemmi militari spiegati da Livio e da Polibio, ed egli si interessava e pareva desideroso di ascoltare, sebbene fosse ignorante. Dalla sua voce (il volto non era visibile nell'oscurità) capivo che il suo disprezzo per me vacillava, sentendomi discutere da erudito di strategia militare. Ebbi tuttavia cura di riferirmi sempre a lui come a una persona di grande esperienza e, senza dubbio, le sue osservazioni erano spesso assai pertinenti. Stavamo discorrendo di come dislocare nel modo più appropriato i lancieri e i fucilieri, quando sentii dei passi che scendevano le scale del castello, e mi interruppi per vedere chi stesse arrivando; ma lo svedese si limitò a ridere. «È solo lo spettro che va a cena» disse sogghignando nella sua solita
maniera. «Il bianco fantasma con il mantello nero, che si siede ma non parla, non beve, e mangia appena. Mi riferisco alla cugina della signora deceduta, damigella Rosamund. Forse vi rivolgerà la parola, perché non siete uno di noi. Quanto a me, sono stufo di lei, anche se molto spesso non la vediamo per giornate intere. Ve la presenterò.» Ma le cose andarono in modo tale che non ebbi bisogno dei suoi buoni uffici, assai poco graditi a damigella Fanshawe. Mentre lei, vedendoci passare di lì, indugiava sulla soglia del castello, un ribaldo ubriacone della banda, mandato a portare la cena alla sentinella, attraversò barcollando il cortile e, scambiandola per una serva o forse troppo ubriaco per riconoscerla, la prese per un braccio e cercò di baciarla. Lei si allontanò bruscamente, lanciando un urlo più di disgusto che di paura; ma lui la seguì, e poiché quello che aveva bevuto si trovava più nella sua testa che nelle sue gambe, la costrinse in un angolo del muro, ed era sul punto di ripartire all'assalto quando corsi in suo aiuto, e prendendo il farabutto per la collottola, lo cacciai via. Al che egli gridò un paio di bestemmie e, sguainando la spada, mi venne contro; damigella Rosamund si mise a gridare invocando soccorso, mentre lo svedese se ne stava a guardare con aria beffarda. Sguainai la spada anch'io, non sapendo se quel furfante fosse uno spadaccino esperto, ma quando mi accorsi di come fosse rozzo nel maneggiare la sua arma, decisi di non colpirlo, ma misi in pratica un trucco che avevo applicato spesso con i miei compagni inesperti di Cambridge. Allontanandomi di qualche passo, feci finta di esporre il petto, e mentre lui correva verso di me, girai la sua lama sotto il mio braccio sinistro e bloccai l'elsa con il fianco, mentre con la destra gli puntavo alla gola la punta della spada: lasciò cadere l'arma e indietreggiò ma, battendo con il tallone in un sasso, finì a terra e lì rimase a bocca aperta. A questo punto Gulston, divertito e sorpreso, si avvicinò a me. «Complimenti, caro il mio seguace di Cromwell!» disse. «A dire la verità, per essere uomo di pace, avete una certa abilità nel maneggiare le armi. Ma perché non avete ucciso il furfante?» E quindi, prendendo a calci l'uomo, ancora annebbiato dall'alcol e dal capitombolo, gli ordinò: «Giles Warner, alzati e dammi la spada!». E quando l'uomo così fece, Gulston lo colpì con violenza sulla mascella con l'impugnatura della spada, così che si sentirono i suoi denti battere, e gli ordinò di rimettere nel fodero la spada e di non sguainarla più, prima di aver imparato a riconoscere la punta dall'impugnatura. Lo condusse quindi ai locali di guardia, lasciandomi solo con damigella Fanshawe.
Era rimasta immobile nell'oscurità, dopo aver mandato il primo grido: aveva capito (mi disse in seguito) che quell'uomo non sarebbe stato in grado di ferirmi. In quel momento mi si avvicinò, mi appoggiò la mano sul braccio, e le sue prime parole mi stupirono, perché sembravano l'eco della domanda dello svedese. «Perché non l'avete ucciso?» mi chiese con durezza, e vidi che i suoi occhi brillavano nell'ombra sotto il cappuccio che le copriva la testa. La fierezza del tono mi colpì stranamente, perché la sua voce, bassa e dolce, pareva poco adatta a pronunciare parole così piene di risentimento e odio, tanto che in un primo momento balbettai, senza riuscire a risponderle. Non sapevo quale rabbia o pena avesse operato in lei. Mi affrettai a dire che quell'uomo altro non era che un ubriacone, un povero furfante, che non meritava di morire per la sua rozzezza, ma lei mi interruppe, esclamando in tono di angoscia: «Oh! Se fossi un uomo, li ucciderei tutti, tutti! Ma voi siete indifferente come loro, e non avete cuore per vendicare un torto!». «Forse» dissi, perché non volevo che mi giudicasse migliore di quello che ero «lo avrei colpito, se non fosse stato così facile, e invero sarebbe bastato che levassi la spada e lui, nell'impeto della corsa, vi si sarebbe infilzato. Sono tuttavia contento di averlo risparmiato, anche se la mia pietà è dettata dal disprezzo. Non si deve spargere sangue per una contesa privata, quando Qualcuno ha detto: "La vendetta sta a me; farò io i conti".» «Oh!» disse lei con voce spezzata, quasi fosse sopraffatta da un singhiozzo. «Voi uomini siete tutti uguali. Quando è offesa una donna, sapete solo consigliare pazienza, elargendole una parolina o una battuta come si fa con un mendicante quando gli si getta una monetina. Ne ho abbastanza di tutti voi.» Ora questo sfogo con me, anche se di certo era il frutto di una mente sconvolta, mi turbò stranamente, perché mi pareva che se l'unica altra persona del castello - non dico virtuosa ma perlomeno non del tutto votata al male - mi fraintendeva a tal punto, si preparava il peggio per entrambi. Inoltre, non so come, mi feriva il cuore che mi considerasse freddo e indifferente alla sua situazione, tanto più che sapevo di essere timoroso nell'animo. Ma mentre stavo per giustificarmi, la grande campana della torre annunciò l'ora della cena e, raccogliendo la lunga veste, ella si affrettò verso la sala, e non ebbi occasione di parlarle finché non fummo entrati. Mio cugino, il conte, condusse la Signora sull'alto scranno alla sua destra, dove era stata solita sedere la contessa e dove, appena poche ore prima, la luce del sole aveva creato l'immagine di un fantasma con il petto in-
sanguinato. Damigella Rosamund la guardò sprezzante mentre si sedeva, e pensai che negli occhi di entrambe si leggeva una profonda ostilità. Ma il conte mi salutò amichevolmente, mi presentò a damigella Fanshawe come un ospite di riguardo, dicendo che mi avrebbe messo a sedere alla destra della Signora, e fece un gran parlare di me come consanguineo e studioso. Neppure l'italiana risparmiò lodi e lusinghe, a intessere le quali aveva un'abilità superiore a quella consueta delle donne, così che mi era difficile ricordare di essere un prigioniero, colto a tradimento. Mi accorsi che gli occhi di damigella Fanshawe si posavano su di me con sdegno, mentre fingeva di dar retta all'ottusa conversazione di Gulston, che era il nostro unico compagno a tavola. Il cibo, piuttosto grossolano, aveva il sapore della cucina da campo, benché fosse servito abbastanza bene da Pompey e da due soldati al servizio del conte; solo lo svedese, avvezzo alla vita dura, mangiò e bevve di cuore, come fa chi prevede di dover aspettare chissà quanto prima di avere l'occasione di mangiare di nuovo. C'era del buon vino di Guascogna e delle Canarie, anche se mio cugino preferiva i vini spagnoli e beveva più di quanto mangiasse, mentre la Signora si limitò a prendere delicatamente un bocconcino, e damigella Rosamund fingeva di mangiare. Di ciò si accorse mio cugino, e immediatamente, con una cordialità che forse non era del tutto finzione (perché il suo umore era mutevole come il vento), andò verso di lei e le versò un bicchiere di vino di Guascogna, brindando alla salute del comune cugino nonché suo onorato ospite: chiamò Pompey perché mi versasse del vino e io potessi rispondere al brindisi. Quindi bevve lui stesso alla mia salute e ordinò alla Signora di fare altrettanto. Ma ella declinò con grazia: in quanto povera straniera, prima che a lei toccava alla mia consanguinea rispondere al brindisi. Lo svedese, dal canto suo, non aspettò che si risolvessero quelle garbate questioni di precedenza, ma con un cenno del capo al mio indirizzo vuotò rapidamente il calice, non appena il conte ebbe portato alle labbra il proprio bicchiere. Mi accorsi che damigella Rosamund era in collera per l'atteggiamento di falsa umiltà e di falso rispetto dell'italiana, e il suo viso, da pallido che era, arrossì nel vedere che gli occhi di tutti erano fissi su di lei. Controllò tuttavia la rabbia e con mano ferma alzò il bicchiere pieno fino all'orlo. «Suppongo, damigella Bardi» disse con freddezza, lasciando cadere le parole lentamente come potrebbe fare un medico con una medicina amara «che, come avete potuto vincere l'umiltà sedendo al posto di mia cugina morta, altrettanto bene riuscirete a bere prima della povera parente del mio signore. Ma non vi ostacolerò in questo, anzi brinderò a mio cugino come
si merita, augurandogli tante altre serate gaie come questa.» Il conte, aggrottando le sopracciglia, mormorò qualcosa, e l'italiana guardò verso damigella Fanshawe a occhi stretti; ma Gulston, prorompendo in una crassa risata, ci invitò a far tintinnare i bicchieri secondo l'usanza tedesca. Al che damigella Rosamund si alzò sorridendo e tese il bicchiere attraverso la tavola, e io feci lo stesso; ma - non so se per sbaglio o di proposito (e lei non volle mai dirmelo neppure in seguito) - batté il suo bicchiere contro il mio con tale forza da romperli entrambi, e il vino rosso fece sulla tovaglia una grande macchia che sembrava sangue. A questo punto il conte balzò in piedi con la faccia alterata come un pazzo e, prorompendo in una sequela di bestemmie e insulti che non riferirei neppure se li avessi intesi chiaramente, afferrò il coltello che gli stava davanti, quasi volesse ammazzare damigella Rosamund, che se ne stava zitta con lo stelo del bicchiere in mano, senza indietreggiare. Ma, prima che avessi il tempo di parlarle o di venirle in aiuto, la Signora lo prese per il polso e fece un cenno a Gulston che gli si accostò e gli tolse di mano il coltello. Il conte in realtà aveva già ripreso il controllo di sé ed era pieno di vergogna per essersi lasciato sopraffare in quel modo dalla furia alla sua stessa tavola - dimostrando, anzi, più vergogna per questa intemperanza che per altre colpe peggiori da lui commesse, perché era assai ospitale come sono sempre gli spendaccioni. «Cugino Hubert, e tu, damigella» disse guardando verso la ragazza che non rispose nulla «da qualche tempo sono molto turbato e basta poco perché mi alteri. Perdonatemi se vi lascio all'improvviso.» Così dicendo, mentre lo sguardo gli cadeva di nuovo sulla tovaglia macchiata, fu preso da un forte tremito, tanto che lo svedese fu contento di aiutarlo ad alzarsi dalla sedia e di accompagnarlo alla porta. La Signora lo seguì, mentre damigella Fanshawe e io, immobili, ci guardavamo l'un l'altra attraverso la tavola; Pompey, con l'aria di chi aveva già assistito a scene del genere, prese con sé la bottiglia di vino spagnolo del signore e lo seguì nel suo appartamento, mentre i due servitori cominciavano a sbarazzare la tavola perché la cena era finita. Damigella Rosamund non si mosse e non parlò finché non ebbero portato via tutti i frammenti di vetro e la tovaglia macchiata, lasciandoci soli. «Mi dispiace per te, cugino» disse. «Nonostante il mio signore questa sera sia sconvolto più del solito, assisterai ad altre sfuriate del genere nei giorni che verranno. Sarebbe stato meglio se fossi rimasta in camera, perché ho la sfortuna di mandarlo in collera. È un peccato che damigella Bar-
di sia stata così rapida, altrimenti lui avrebbe liberato la compagnia della mia presenza per sempre e ti avrebbe lasciato a parlare dei poeti italiani con lei, che trae grande diletto dalla tua cultura.» L'astio con il quale disse questo mi ferì il cuore, e con impeto tesi le braccia verso di lei. «In nome di Dio» gridai «perché mi fraintendi in questo modo? Mi sembra di essere in una prigione oscura, piena di serpenti che strisciano e sibilano, e non so come girarmi. Dio sa che non avevo nessuna voglia di intraprendere questo viaggio; sono venuto spinto dal desiderio di aiutare la povera gente di Marsham nel bisogno, e ho peggiorato ogni cosa con la mia intromissione. Ma le mie intenzioni erano buone. Sono prigioniero come te, cugina; non un adulatore o un parassita, non desidero intrattenere i malvagi in cambio di una ricompensa. Che cosa posso fare? Devo parlare con loro in modo leale per non mettere in pericolo non solo la mia vita, ma altre e migliori vite. Forse sono codardo, ma sono sincero, e se tu mi disprezzi, impazzirò.» Mentre parlavo, in un primo momento continuò a guardarmi con la solita freddezza, e quel suo rancore mi turbò come non era mai avvenuto prima, portandomi quasi alle lacrime. Ma proprio quando disperavo di ottenere la sua fiducia, vidi un meraviglioso cambiamento sul suo viso; gli occhi si fecero più grandi e più scuri; il petto prese a palpitarle quasi le mancasse il respiro. Mi aspettavo che scoppiasse a piangere, e forse sarebbe successo con qualsiasi donna meno nobile di temperamento. Tese le mani verso di me, e io le strinsi con gioia tra le mie. «Cugino Hubert» disse - mi fece piacere che si fosse ricordata del mio nome - «perdonami per aver dubitato di te. In questa casa di assassini, dove gli uomini borbottano negli angoli, non riconosco l'amico dal nemico, le persone vive dai fantasmi o dai demoni; pensavo che tu fossi una spia come lo svedese.» A queste parole le feci segno di tacere, perché la porta delle stanze del conte si aprì piano, e ne uscì Gulston. Ignoro se avesse sentito le sue ultime parole, ma quando si accorse di essere osservato, venne avanti ostentando indifferenza, fischiettando una canzone, mentre Pompey chiudeva la tenda dietro di lui. «Che c'è? Litigate ancora?» chiese; e in effetti, per quello che poteva vedere, saremmo potuti essere nemici o amici, poiché non dubito che l'agitazione del mio animo fosse dipinta sulla mia faccia. A quelle sue parole mi venne in mente che, se egli ci considerava nemici fra noi, era opportuno lasciarlo nel suo errore, perché, a mio parere, nella
sua malizia era più astuto che profondo. Così, sul momento, gli risposi assecondando la sua convinzione, sicuro che lui non avrebbe mai ritenuto un uomo di studi come me abbastanza perspicace da fingere. «Senza dubbio» dissi «non mi metterò a litigare per lo scatto d'ira di una donna, anche se questo mi è costato un boccale di buon vino di Guascogna. Stavo dicendo a damigella Fanshawe che il signore aveva buoni motivi per infuriarsi, e che anche a Cambridge mi capitava di essere colto dalla rabbia vedendo sprecare inutilmente del buon vino. Potremmo averne bisogno durante l'assedio del castello...» E altre storie del genere dissi che non ricordo, e che non merita raccontare, ma che servirono al mio scopo. In un primo momento il viso di damigella Rosamund, che vedevo confusamente alla luce fioca delle candele e che lo svedese, trovandosi alle sue spalle, non vedeva affatto, si indurì e si fece sprezzante all'idea che io osassi rimproverarla, e temetti che sarebbe tornata ad avere la precedente cattiva opinione su di me. Ma, dopo un po', i suoi occhi si illuminarono guardandomi, ed ella sorrise un poco, quasi volesse dimostrarmi che aveva capito la mia strategia. Quindi, parlando con la stessa freddezza di prima e con maggiore astio - che sapevo essere simulato - mi ordinò di tenere per me i miei giudizi su quei furfanti dell'università, e di riservare le scuse a coloro dai quali speravo di ottenere favori. Così dicendo, uscì dalla sala come se fosse su tutte le furie, lasciandomi in compagnia di Gulston. «Non ho forse detto la verità?» mi chiese giocherellando con la barba. «Stasera è una vera bisbetica, eppure mi sorprende che se la sia presa tanto con voi. Se avessimo avuto una ragazza simile nel nostro accampamento in Germania, l'avremmo addomesticata subito, ma il mio signore è molto gentile con le donne, e la ragazzina ha qualche cosa che gli ricorda la signora morta, anche sono pronto a scommettere che non è una santarellina. Farete bene a evitare la compagnia di damigella Rosamund, se non volete trovarvi con la faccia graffiata.» Dal che dedussi che lo svedese aveva cercato di corteggiarla al modo di quelli della sua risma, e che era stato accolto con il benvenuto che posso immaginare. E tale pensiero non accresceva la simpatia che avevo per lui. «Non sono arrabbiato» risposi in tono conciliante «ma dispiaciuto nel vedere tanta ribellione in una persona giovane e bella, e mi piacerebbe convincerla a essere più sottomessa e femminile. Non vorrei che l'aveste offesa, anche se vi ha provocato. È un ostaggio come lo sono io, e si sa che nei luoghi sotto assedio gli ostaggi placano il fervore di aggressione e in casi estremi arrivano addirittura a salvare coloro dai quali sono tenuti pri-
gionieri.» Intese le mie parole nel senso che volevo io e, mentre uscivamo dalla sala, si mise a giocherellare con fare imbronciato con l'elsa della spada. «Allora credete» disse «che ci sarà l'assedio?» «A meno che, contro ogni probabilità, il partito del re non riprenda il sopravvento» gli risposi «i generali di Cromwell verranno senz'altro a sapere di noi e ci muoveranno contro.» «Contro di noi! Voi non siete uno di noi, ma appartenete alla loro fazione, e non avete niente da temere.» «Vi chiedo scusa» dissi ridendo «non ho mai sentito che una palla di cannone abbia la compiacenza di scegliere quando e chi debba colpire, e neppure che gli ostaggi si siano ingrassati, mentre nella guarnigione si faceva la fame. Anzi, temo che sarò mangiato per primo se le provviste finiranno. E non sono neppure un soldato di Cromwell, perché lui in persona mi ha chiesto di servirlo, e io ho rifiutato. Mi lascerebbe perire qui, e mi dimostrerebbe la sua amicizia escogitando per voi e i vostri uomini qualche nuovo modo per uccidervi.» «C'è del vero in quello che dite» disse Gulston, mentre chiudeva la porta del suo alloggio. «Voglio parlarvi di nuovo, ma non ora, perché Pompey è ancora alla porta della sala, e spia la Signora e gli altri per il mio signore, oppure forse spia il mio signore e gli altri per conto della Signora, non so bene. Vi auguro la buona notte!» E con questo se ne andò. Io mi ritirai nel mio alloggio, contento di aver guadagnato un po' di terreno. Accarezzavo la speranza di poter salvare damigella Rosamund e me stesso nonostante mio cugino, e mio cugino nonostante se stesso. Così arrivai alla porta del maschio del castello, dove una torcia ardeva per illuminare la scala, e stavo entrando quando una voce mi chiamò dolcemente dall'ombra. Seppi subito che si trattava di damigella Rosamund. «Non abbiamo che un momento, perché la guardia arriverà molto presto» bisbigliò in fretta. «Ho recitato la parte della bisbetica abbastanza bene, cugino? Abbiamo messo lo svedese fuori strada?» Le dissi che sì, così credevo, e che, secondo me, c'erano due fazioni nel castello e che speravo di cavarci qualcosa di buono. Le chiesi come il conte la trattasse, e se ci fosse una via di fuga. In gran fretta, attenta a non essere sorpresa dalla guardia, mi raccontò che il conte non la trattava male, che la sua cameriera era la figlia del fabbro di Marsham, che aveva sì timore del signore e della Signora, ma soprattutto della Signora, esperta in arti magiche e forse anche in veleni: di
sicuro era stata lei a provocare, con le sue manovre unite alla violenza del conte, la morte della contessa. «Mi hanno detto» riferì fra i singhiozzi «che è morta per uno sbocco di sangue. Da tempo era malata, ma come sia morta non l'ho visto. Ma se non fosse stata assassinata, perché il signore sarebbe stato preso da un attacco di follia alla vista di un po' di vino rovesciato o di un'ombra rosso sangue sulla sedia? Cugino, se non mi porti via da questa casa del demonio, diventerò pazza.» «Ahimè!» le risposi. «La barca con cui sono arrivato qui è stata fatta a pezzetti, e finiremmo nelle sabbie mobili oppure ci perderemmo, se tentassimo di raggiungere a nuoto la terraferma. Ma voglio costituire un gruppetto fra gli uomini della guarnigione, oppure trovare qualcuno che, per denaro o per avere salva la vita, ci aiuti a trovare una barca. Non abbiamo altre speranze, se non affidandoci alle mani del Signore e contando sulla nostra sopportazione.» «Le mani del Signore!» disse lei con tristezza più che con ironia. «Se dobbiamo aspettare che i cieli si spalanchino e il fuoco cada sui malvagi, faremo in tempo a morire di vecchiaia. Non chiedermi di sopportare con pazienza: ho visto che fine hanno fatto la pietà e la tolleranza di mia cugina, la contessa.» Mi addolorava sentire da lei quelle parole di rivolta e volevo indurla a più miti consigli; ma mentre pensavo a quello che avrei potuto dire, sentii un clangore di armi e un passo pesante attraversare il cortile. «Arriva la guardia!» bisbigliò. «Non devono vederci insieme. Buona notte, cugino!» E, prendendomi la mano, si allontanò e risalì in fretta la scala senza fare rumore. Io la seguii a passo lento, cercando a tentoni la strada fino alla mia camera. Quando accesi la luce e mi guardai attorno, notai che la chiave della porta era stata tolta e che non c'era modo di chiuderla dall'interno. Mi consolai dicendomi che una chiave non garantisce l'incolumità in una casa dove tutti, tranne una persona, sono nemici. E così, senza protestare, mi preparai ad andare a dormire, e prima di mettermi a letto, sentii un trapestio di piedi sulle scale, vidi la luce delle torce attraverso una fessura della porta e sentii una chiave che veniva infilata nella serratura e girata. Sapevo di essere prigioniero fino al mattino. Andai alla finestra e la aprii, per vedere se ci fosse una qualche via di scampo, ma le sbarre erano troppo strette per potere sgusciare via e, seppur corrose dal vento marino, erano grosse, robuste e infisse saldamente nel muro. Per un po' indugiai, guardando fuori nella notte, ma le stelle erano velate dalla foschia, e una fredda brezza si levava
dalla terra. Chiusi l'imposta, perché mi parve di sentire l'odore dell'acqua del Gorgo anche se probabilmente si trattava soltanto di alghe o di qualche pesce morto finito contro il muro del castello. Capitolo VI DELLA FINE DI MASTRO ELDAD PENTRY Ho sempre avuto sonni difficili nei letti nei quali non sono abituato a dormire, e la mia prima notte al castello di Deeping fu alquanto agitata, sebbene non ci fossero rumori tranne l'infrangersi delle onde ai piedi del muraglione, e di tanto in tanto il passo della sentinella sul bastione. Bastava un rumore, anche se ero mezzo addormentato, a farmi temere che qualcuno venisse ad assassinarmi. Allora saltavo su sveglio e afferravo la spada, che pendeva dalla testa del letto, prima di accorgermi che non c'era motivo di avere paura, perché mio cugino non aveva bisogno di agire di nascosto se avesse voluto togliermi la vita. E quando infine mi addormentai, sopravvenne un incubo spaventoso e io mi svegliai gridando, anche se non ricordo che cosa mi avesse terrorizzato. Alla fine mi addormentai profondamente e non mi svegliai finché il sole non fu ben alto a oriente sopra l'orizzonte, i una mattinata calma e serena. Mentre mi vestivo di tutta fretta, mi parve che il mondo fosse un posto bello in cui abitare. Inoltre, quando volli uscire, la porta della mia camera si aprì immediatamente e andai in cortile senza che nessuno me lo impedisse. Gli uomini andavano avanti e indietro, portando legna e acqua, oppure si preparavano ad andare a pescare o a cacciare, e pensai che avevano un aspetto meno minaccioso del giorno prima; inoltre, se anche mi notarono, non fecero nessuna battutaccia su di me, dal che dedussi che o il conte li aveva invitati a comportarsi civilmente (e tutti avevano un grande timore del conte), oppure che l'uomo che avevo strapazzato quella notte aveva raccontato chissà che cosa, ubriaco com'era, sulla mia abilità di spadaccino. E così mi misi piacevolmente a camminare avanti e indietro per il cortile, finché Gulston, scorgendomi, uscì e mi invitò a recarmi a far colazione nella sala, dove non c'era nessuno tranne noi due e Pompey per servirci. Parlammo poco per non farci sentire dal domestico e, quando finimmo, tornammo in cortile. Volevo sondare lo svedese circa il piano di avviare trattative con gli uomini di Marsham, ma alla prima parola egli strizzò l'occhio verso la porta della sala, dove Pompey se ne stava al sole e, alzando gli occhi, vidi aprirsi una tenda e apparire alla finestra il viso della Si-
gnora che, accorgendosi di essere vista, ci sorrise e fece un cenno con la testa. Ritenni pertanto opportuno aspettare un'occasione più propizia per conferire con Gulston, sempre che fossi riuscito a fidarmi di lui. Ci mettemmo allora a parlare del più e del meno, finché egli non dirottò il discorso su questioni di scherma, chiedendomi dell'italiano che mi aveva fatto da maestro, e pregandomi di mostrargli alcuni degli stratagemmi di quella scuola con la spada tenuta nella guaina; cosa che ero contento di fare, perché l'italiana non avrebbe avuto sospetti. Dopo che gli ebbi mostrato uno o due passaggi, anche mio cugino uscì per unirsi a noi e mi salutò cordialmente; e quando ci vide all'opera, nulla riuscì a dissuaderlo dall'idea di tirar fuori un paio di fioretti e di provare a tirare amichevolmente con me, mentre Gulston avrebbe fatto da giudice. La tattica del conte era abbastanza buona per un soldato, ma rivelava più forza che perizia, ed era più temeraria rispetto a quella dello svedese, sempre freddo e attento, mentre mio cugino si scaldava facilmente e cercava di disarmarmi disperdendo energie per nulla. Ma era desideroso di apprendere e provava piacere nell'esercitarsi, tanto che io gli insegnai una finta parata e qualche stoccata. Non gli mostrai però il colpo preferito del mio maestro, che io stesso avevo faticato a perfezionare; volevo infatti tenere qualcosa in serbo per difendermi da lui quando fosse stato preda del demonio. Dopo non molto tempo si stancò del gioco, perché era un'anima senza requie, e ritornò nel suo appartamento, e io al mio, essendomi abbastanza accaldato, per riposare ed eventualmente incontrare damigella Rosamund; ma non la vidi fino all'ora di pranzo e non potei parlarle liberamente, trovandomi sempre sotto l'occhio di mio cugino e della Signora, o di uno dei loro servitori. E così discussi volentieri di pittura e di poesia italiana, dei segreti della natura e delle sottigliezze dell'alchimia, sebbene in questo campo avessi più curiosità che conoscenze. E così passò la giornata; le truppe del conte ritornarono con il pesce e con la selvaggina, e non accadde nulla. Non mi ero avvicinato di un millimetro al mio scopo. Solo all'ora di cena ci mettemmo a conversare più liberamente, e mentre il signore parlava del nostro incontro di scherma di quella mattina, esprimendo il desiderio di fare lo stesso la mattina successiva, damigella Rosamund si divertì a sminuire la mia abilità mentre il conte la lodava, per confermarlo nell'idea che i suoi due cugini erano in disaccordo tra loro. E quando disse che ero pazzo a insegnare a un altro il segreto di come usare la spada, risi e risposi che avevo ancora un colpo o due per difendermi all'occorrenza; e a
quelle parole alzai lo sguardo e vidi gli occhi della Signora stranamente fissi su di me, come se nella sua testa stesse rimuginando qualche sottile stratagemma. Tuttavia non disse nulla, e la serata passò senza diverbi, mentre mio cugino era più cordiale del solito. Poi, quando damigella Fanshawe tornò in camera sua e Gulston andò a occuparsi della guarnigione, il conte, anche lui impegnato in qualche faccenda, mi chiese di giocare a scacchi con la Signora. Tra una mossa e l'altra ci mettemmo a parlare, ed ella mi chiese del comandante generale Cromwell, della sua amicizia per me e altre questioni alle quali risposi con sincerità, esagerando forse l'amicizia del comandante nei miei riguardi. Accadde, infatti, che durante tutto il periodo della sua grandezza, Cromwell non trovasse mai l'occasione di ricordare il mio nome, cosa che urtò il mio orgoglio, ma che mi tornò utile quando venne ristabilito sul trono re Carlo, che ora regna. Non giocammo per molto perché mio cugino, di ritorno, disse che doveva andare a riposare presto; così andai in camera mia, e quella notte nessuno chiuse a chiave la mia porta, e gli uomini della guarnigione non fecero il solito fracasso, sicché potei addormentarmi presto e profondamente. Ma sul far dell'alba mi svegliai all'improvviso: la porta era aperta e una mezza dozzina di uomini armati dalla testa ai piedi, con spade e fucili, stavano attorno al mio letto. Mi ordinarono di alzarmi e di andare con loro. Interrogandomi sul senso di quell'ordine, mi alzai e indossai l'abito da viaggio il più in fretta possibile alla luce della torcia che uno di loro reggeva. Quando chiesi loro la ragione di quella fretta, nessuno disse una parola; solo quando feci per prendere la spada, uno di loro mi puntò al petto la canna del fucile e mi ordinò di lasciarla, cosa che feci, perché sarebbe stato inutile discutere con loro. Indossai il mantello, perché l'aria era fredda, e scesi in cortile in mezzo agli uomini, e lì trovai schierata la maggior parte della guarnigione; mio cugino, in mantello di pelle scamosciata e corazza, impartiva gli ordini. Mi passò per la testa il pensiero che forse stava per mettere in pratica la promessa di farmi passare per le armi come traditore, benché non sapessi quale nuovo rancore potesse avere contro di me; ed era un pensiero orribile che da un momento all'altro mi mettessero di fronte a una fila di furfanti pronti a dar fuoco alle polveri. Ma le prime parole di mio cugino dissiparono i miei timori. «Buongiorno, cugino Hubert» mi gridò. «Mi devo scusare con te per aver interrotto il tuo placido sonno, ma il tempo e la marea non aspettano nessuno, e dobbiamo approfittare delle condizioni favorevoli per andare a
portare la nostra risposta a re Eldad I di Marsham e ai suoi devoti sudditi. Anche tu, che sei suo ambasciatore, devi essere presente all'appuntamento.» Quando conobbi le sue intenzioni, cominciai con ardore a protestare, ma mio cugino tagliò corto ordinando agli uomini di mettermi nella barca; così preferii uscire da solo dalla fortezza che essere malmenato dalla sua rude soldataglia. Nel grigiore delle ore che precedono l'alba, notai due chiatte che dondolavano al molo, e un paio di uomini in ognuna. Salii su una di queste sedendomi a poppa, con il mantello sulle spalle. I remi erano già pronti negli scalmi, e sul lato anteriore di entrambe le barche c'erano alcuni barilotti di polvere da sparo, una cesta di viveri e bottiglie di liquore. In breve tempo arrivarono gli uomini, circa due dozzine, e presero posto sulle chiatte, senza parlare; per ultimi arrivarono Gulston e il conte. Il primo salì a poppa dell'altra chiatta, e mio cugino saltò vicino a me e ordinò di spingere al largo. Poco dopo eravamo fuori del porticciolo, mentre la marea montante ci spingeva verso terra facendoci rasentare il muro di cinta del castello. Cercai di parlare con mio cugino, ma non mi rispose, salvo ordinarmi di tacere, perché doveva badare al governo della nave; e in effetti non era un compito facile guidare una grossa imbarcazione lontano dai banchi di fango e dalle secche. Lo svedese, che conosceva quelle acque meno del suo comandante, si arenò con la sua chiatta più di una volta, ma riuscì sempre a disincagliarsi prontamente. Così, a forza di marea e di remi, arrivammo presto in vista della costa, e potei vedere (perché la luce aumentava rapidamente) che puntavamo verso il castello in rovina che sovrastava il Gorgo. A questo punto ci furono dei mormorii, perché parecchi uomini della truppa erano gente del posto che avevano sentito le mamme raccontare la storia di quel luogo e l'avevano riferita agli altri; ma il conte continuò a tenere la direzione che aveva preso. «Hai sentito la storia che le vecchiette raccontano su questo posto, cugino?» mi chiese con voce tranquilla, mentre dirigeva la rotta sopra quel cerchio di acqua nera. «Certo che l'ho sentita» gli risposi «ed è uno strano posto, capace di incutere la paura nel cuore degli uomini. E posso ben dirlo anch'io, perché ci sono passato quando sono venuto al castello.» «E hai visto il mostro?» sogghignò mio cugino. «Qualcosa di strano ho visto, oppure ho creduto di vedere. Era una spe-
cie di serpente grigio che risaliva dalle profondità, ma non mi è successo niente tranne la sensazione di un orribile odore... ecco, come questo.» Ci trovavamo nel mezzo del Gorgo, e percepivo l'odore salmastro e nauseabondo della melma, seppure meno acuto dell'altra volta a causa del freddo. Mio cugino non mi rispose, ma gridò agli uomini nelle barche di smettere di remare e di smorzare ogni rumore di manovra per non farsi sentire. Quando questo fu fatto, gli uomini erano ansiosi di andare avanti, perché erano terrorizzati dall'odore del luogo e dalle profondità tenebrose del Gorgo. Ma prima di dare l'ordine il signore si rivolse a uno degli uomini a lui vicini parlandogli nell'orecchio, e questi improvvisamente gettò un laccio attorno alle mie braccia e lo strinse con forza serrandomele ai fianchi, prima che potessi accorgermi di che cosa stesse facendo. «Perché fai questo, cugino?» chiesi, arrabbiato per l'affronto. «Per salvarti la vita, amico» rispose sogghignando. «Per paura che, pur essendo uomo di pace, ti venga l'idea di sferrare colpi a destra e a sinistra, e così finire con una pallottola in corpo oppure perdere il favore di re Eldad per esserti schierato con il tuo parente. Ora ti metterò un bavaglio sulla bocca, a meno che tu non mi dia la tua parola di gentiluomo di non gridare e mettere in allarme gli uomini di Marsham. Ma se me lo prometti e poi non mantieni la parola, giuro sulla mia spada che ti getterò nel Gorgo con le mie mani.» Gli risposi che preferivo farmi tappare la bocca, perché non volevo in nessun modo contribuire a quell'impresa, neppure con una promessa ottenuta con la forza; ed egli, presa la sua sciarpa, me la legò attorno alla bocca in modo tale che non potessi gridare. Quindi diede l'ordine di continuare a remare, ma silenziosamente, e dopo un paio di colpi di remi fummo oltre il Gorgo, in direzione del faro che si stagliava nero contro una nuvola grigia. E così imboccammo il fiume e, spinti dalla marea, risalimmo la corrente verso il villaggio. Ma le precauzioni di mio cugino risultarono vane, perché Mastro Pentry si era dimostrato più prudente di quanto non avesse pensato il conte. Non appena, infatti, ci avvicinammo al villaggio, la prua della prima chiatta, urtando contro una corda tesa appena sotto il livello dell'acqua, la tirò per un tratto, e subito una campana si mise a suonare su un albero nelle vicinanze della riva. Il conte proruppe in una tremenda bestemmia, e ordinò di tagliare la corda, ma era troppo tardi. «Addosso ai furfanti di Cromwell!» gridò. «Hanno preso una campana dalla chiesa e l'hanno legata a un albero vicino per dare l'allarme! Forza sui remi, uomini!» E, così dicendo, mi tolse la sciarpa dalla bocca e mi invitò
a urlare finché ne avessi avuto voglia. «Non sarebbe meglio tornare indietro, visto che siamo stati scoperti?» dissi. «No!» ruggì il conte. «Mille volte no! Andate avanti, uomini! Diamogli addosso prima che si mettano le giubbe!» Tutte le preoccupazioni per non farsi vedere adesso vennero lasciate da parte, perché dopo la campana si udirono cani che abbaiavano, uomini che gridavano, luci che apparivano confusamente alle finestre. Gli uomini diedero forza ai remi quasi disputassero una gara, e arrivammo speditamente al punto di attracco sotto la chiesa. Qui legarono le barche, mio cugino balzò fuori per primo e si avviò con metà degli uomini verso il villaggio, mentre Gulston tentava un accerchiamento per prendere alle spalle i combattenti; io venni lasciato nella chiatta, con gli uomini di guardia che dovevano tenermi al sicuro, ma che non si mostrarono scortesi. Ubbidirono all'ordine, perché erano del posto e avevano rispetto della nostra casata; anzi, uno di loro mi offrì un goccio di gin olandese, portandomi la bottiglia alla bocca. Non mi dispiacque sentirmi riscaldato in quell'alba gelida. Non riuscivo, però, a stare tranquillo, ma guardavo verso il villaggio per vedere cosa stesse capitando; poteva darsi che qualche soldato di Cromwell si trovasse da quelle parti, e allora mio cugino avrebbe trovato più di quello che cercava. Ma mi fu presto chiaro che la resistenza - se mai ce ne fu - era assai debole e che, come venni a sapere poi, lo stratagemma di Mastro Pentry era servito solamente a dare alla gran parte del suo gregge il tempo di rifugiarsi nei boschi. Quando il conte e i suoi compagni entrarono nel villaggio correndo di casa in casa e urlando, le porte erano aperte, e all'interno non c'era nessuno. Benché cercassero di intercettare i fuggitivi, Gulston e la sua banda riuscirono a fermare solo una vecchia zoppa, che lasciarono andare. Il conte (così mi raccontò Gulston in seguito) era fuori di sé per il fallimento del suo piano e voleva inseguire gli uomini di Marsham fin dentro i loro rifugi; ma lo svedese lo dissuase, dicendo che avrebbero perso la marea e si sarebbero dovuti fermare mezza giornata, mentre gli altri avrebbero sollevato il paese contro di loro e li avrebbero soverchiati per numero. Lo svedese perciò si espresse a favore del ritorno al castello, dopo avere razziato il villaggio. Il conte dovette acconsentire a quel consiglio, palesemente avveduto, e gli uomini si diedero al saccheggio ma il loro fu un raccolto magro, perché una parte del bestiame e delle pecore si trovava nei campi, e un'altra era stata portata nei boschi. Trovarono un po' di pane e di pancetta, e le truppe
si divertirono ad andare a caccia di pollame, ma era ben misera ricompensa. A questo punto il conte fu preso dalla furia e giurò che li avrebbe fatti pagare per avergli sottratto le sue decime. Prese quindi la paglia dai granai e, per farla breve con questa storia atroce, appiccò fuoco a tutte le case e le lasciò bruciare. Alcune cose mi vennero riferite, ma altre le vidi. Una nuvoletta di fumo azzurrino e subito dopo un'altra salirono verso il cielo chiaro che a poco a poco si tinse di giallo. Poi, quando presero fuoco le coperture di paglia dei tetti, il fumo si fece più denso e nero e le fiamme si levarono al di sopra degli alberi. Il rumore delle travi del tetto che si spezzavano mi parve una scarica di fucileria. Arrivarono quindi in ordine sparso gli uomini di mio cugino, a gruppi di due o tre, ridendo e scherzando, con il loro misero bottino. La vista delle case in preda alle fiamme avrebbe ben potuto far impazzire gli uomini di Marsham, perché molti di loro si erano avventurati a rientrare vedendo le truppe che lasciavano il villaggio, e senza dubbio erano ritornati mentre le loro case venivano distrutte dal fuoco. I più prudenti tentarono di domare le fiamme, ma i più audaci, desiderosi di vendetta, piombarono con pietre, falci e forconi sulla retroguardia della squadra dello svedese, che veniva per ultima. I soldati fecero dietro front, e con un paio di colpi misero in fuga gli abitanti del villaggio, che avevano soltanto armi rudimentali e, sicuri di aver spaventato i contadini, si avviarono imprudentemente verso le barche. Ma quando ebbero oltrepassato un fitto boschetto lungo un sentiero infossato che correva accanto alla chiesa, ci furono uno sbuffo di fumo e il rumore di un colpo di fucile. Un uomo stramazzò e, cercando di afferrarsi al terreno, rimase immobile, mentre dal boschetto arrivarono di corsa degli uomini che assalirono furiosamente i saccheggiatori, impauriti dall'improvviso assalto. Innanzi a tutti veniva una strana figura che assomigliava a un antico guerriero uscito dalla sua tomba, perché indossava una cotta che lo copriva dalla testa ai piedi e maneggiava una grande spada; dietro di lui seguivano altri armati di falci e falcetti e, prima che si potesse avere un minimo di ordine, avevano ammazzato ancora un uomo del conte e feriti tre, sicché gli altri arretrarono. Solo Gulston, dando dei codardi ai suoi soldati, strappò di mano a uno di loro il fucile e abbatté un grosso tipo armato di falce che era lì lì per colpirlo; quindi con la spada affrontò il capo del nemico, ma l'arma sfiorò appena l'armatura, e l'altro gli diede un colpo che sarebbe stato mortale per Gulston, se non avesse avuto una piastra di
ferro nel copricapo. Si piegò sulle ginocchia mezzo tramortito. E sarebbe stato trafitto, se mio cugino, balzato di nuovo sulla riva ai primi rumori di battaglia, non avesse sguainato la spada e affrontato l'uomo in corazza. Per un po' si colpirono, si attaccarono, si schivarono, senza ferirsi perché se il conte era più abile come spadaccino, l'altro era protetto di tutto punto. Ma, dopo non molto tempo, l'uomo con l'armatura si sfinì sotto il peso di quello che aveva addosso e si esaurì per lo sforzo di reggere la grande spada, e il signore, accorgendosene, lasciò andare la spada, gli si avvicinò e, con uno sgambetto, lo fece cadere, mentre gli uomini di Marsham - cioè quelli che erano rimasti - fuggirono lungo il sentiero. Mio cugino diede ordine di portare sulle chiatte i morti e i feriti, legò il prigioniero con la corda e lo portò via. Quando al valoroso combattente, caricato nella barca su cui mi trovavo anch'io, venne alzata la visiera dell'elmo, mi apparve la faccia di Mastro Eldad Pentry, rossa per la fatica del combattimento e quasi esausta ma per nulla impaurita. «Mastro Pentry» dissi «mi addolora vederti così e non poterti offrire il mio aiuto.» «Non addolorarti, Hubert Leyton» si affrettò a dire ansimando. «In verità era scritto prima della creazione del mondo che sarei finito così e non altrimenti, e non serve che qualcuno dica parole buone per me. Non mettere a repentaglio la tua vita, perché ho preso la spada e di spada devo perire.» Mentre diceva queste parole, il conte balzò sulla poppa della chiatta su cui ci trovavamo, e diede l'ordine della partenza. Quando caddero sul nemico, i suoi occhi si illuminarono. «Per Dio!» gridò. «Che bell'incontro, Mastro Eldad! Non credevo che sapessi maneggiare la spada bene come l'ago. Dove hai trovato l'armatura di ferro e la cotta? Aspetta - ci sono questo furfante ha rubato dal sepolcro della chiesa l'armatura del terzo conte, il mio antenato. Ecco lo stemma della mia famiglia inciso sul petto della corazza. Non c'era niente di più vile che potesse andare bene a questo cane, sarto e predicatore?» Mastro Pentry si limitò a sorridere, e la sua audacia colse di sorpresa anche me. «Certo» rispose «è facile schernire un uomo legato, facile quasi come assassinare una donna malata.» A quelle parole il conte balzò con la mano sulla spada, ma si sedette di nuovo quando vide che Mastro Eldad non era per nulla impressionato. «Non sporcherò la mia spada con sangue plebeo» disse sogghignando verso il prigioniero. «Tu, cugino, che cosa dici? Quale morte scegliamo per re Eldad? La mannaia è per gli uomini di nobile stirpe, come il conte di
Strafford e l'arcivescovo...» «Sì» disse Mastro Pentry «e magari anche per il loro capo e re.» Al che un soldato lo colpì con violenza alla bocca, ma lui si limitò a ridere. «Lo impiccheremo con indosso l'armatura che ha rubato?» continuò il conte. «Oppure arrostiremo questo maiale nell'armatura finché non diventa croccante?» A queste parole Gulston assentì con grandi risate, e così fecero i soldati stranieri, ma gli inglesi mormorarono. «Dal momento che hai chiesto il mio parere, cugino» dissi sperando contro ogni speranza di poter salvare Mastro Eldad o almeno ottenere un rinvio e fargli avere una morte onorevole «ho sempre letto che in una guerra tra due stati, come è questa, anche se è una rivolta civile, è costume risparmiare la vita di un prigioniero catturato in combattimento leale e aperto, e trattenerlo in vista di un riscatto o di uno scambio di prigionieri, secondo la legge riconosciuta dalle nazioni.» Ma a queste parole mio cugino urlò che ero un pedante. Neppure Mastro Pentry accettò la mia difesa, perché le sue dottrine fanatiche gli erano più care della vita. «Sì, Hubert Leyton» disse, volgendosi a me fra le corde che lo trattenevano «tra i veri uomini e i traditori la lotta è senza quartiere. Tuo cugino è in aperta ribellione contro l'autorità del parlamento d'Inghilterra. Neanch'io lo risparmierei, malgrado la tua intercessione, se fosse lui prigioniero al mio posto.» Il conte rise a quelle parole e ordinò agli uomini di lasciare i remi, sicché le chiatte, trasportate dalla corrente, si trovarono a fianco a fianco. Guardandomi attorno, vidi che eravamo ritornati sul cerchio nero del Gorgo. «Per Dio, mi piace il tuo coraggio» gridò. «Dimmi che morte mi riserveresti, se fossi tuo prigioniero.» Mastro Pentry si guardò attorno e indicò il cerchio sopra il quale ci trovavamo; i suoi occhi erano grandi e luminosi, quasi vedesse qualcosa che a noi restava invisibile. «Ritengo» disse con la sua voce aspra e stridula «che questo posto ti dovrebbe insegnare qualcosa, Philip di Deeping. Qui, se la storia non mente, si trova la tomba del tuo avo, di cui hai ereditato il nome e la malvagità. Ti spedirei a raggiungerlo.» «Ben detto!» esclamò mio cugino, tirandogli la barba. «E questo verrà fatto a te. Voi due, forza, sollevatelo e gettatelo nel mezzo del Gorgo.» Ma i due che sedevano ai lati di Mastro Pentry si ritrassero borbottando,
non perché gli volessero bene o non se la sentissero di assassinarlo, ma perché, essendo di quelle parti, conoscevano la vecchia storia del Gorgo e avevano paura di svegliare il mostro che giaceva lì dentro; terrore che si affrettarono a manifestare con balbettii, combattuti com'erano tra la paura della Cosa che stava nell'abisso e l'ira del loro comandante. Il conte non li ascoltò, ma incaricò altri due che, mercenari delle guerre tedesche, privi di ogni timor di Dio e degli uomini, si prepararono a prendere il prigioniero. Ma questi chiese la grazia di poter parlare, cosa che gli fu concessa fra sberleffi, ed egli si rivolse a me. «Hubert Leyton» disse con ardore, come se non ci fosse nessuno presente, tranne noi due «non temere per la tua sorte, perché mi è stato rivelato che la tua vita ti sarà concessa in cambio di un bottino. Non cercare di vendicare la mia morte, perché, come sai, era destino che fosse così da prima della creazione del mondo. Sicuramente la vendetta si abbatterà sull'uomo di Satana, senza che vi concorra nessun altro. E quanto a te, figlio della perdizione, tornatene dalla tua donnaccia e divertiti con lei, perché il tempo che ti rimane è poco.» Ma quando Mastro Eldad nominò la donna italiana, il conte non si trattenne più, calò la visiera dell'antico elmo, nascondendoci il viso di Mastro Eldad. Spingendomi indietro (perché, legato come mi trovavo, avevo cercato di aiutare Mastro Pentry), diede il segnale ai due soldati che sollevarono la figura di ferro prendendola per le spalle e per i piedi, la fecero dondolare per tre volte e infine la gettarono nel punto più scuro del Gorgo, con un grande tonfo nell'acqua che ricadde nella barca diffondendo intorno puzzo di salmastro e di melma. Quando l'acqua si richiuse e tornò immobile, mi precipitai a guardare oltre il bordo della barca, perché ero convinto che avremmo visto qualcosa di misterioso. Ma non si sentì e non si vide nulla; ed era inutile cercare. Nessuno, neppure un nuotatore eccezionale e non legato, avrebbe potuto riemergere dall'acqua con addosso il peso di una simile armatura. Affiorarono un paio di bollicine, non di più, e alla fine mio cugino ordinò di sciogliere le corde che mi tenevano legato e diede ordine di dirigersi verso il castello, prima di perdere la marea. Mentre gli uomini preparavano i remi, l'acqua, immobile e nera per la sua infinita profondità, si increspò, e parve che una fontana di fango grigio emergesse dall'abisso, accompagnata da un orribile puzzo, e alla fine qualcosa di nero simile a un uomo sorse proprio nel mezzo del Gorgo, sprofondò di nuovo e riemerse ancora più in alto, come una palla che danza
sullo zampillo di una fontana. Gulston, che era lì vicino, cercò di afferrare con una gaffa quel rigurgito del Gorgo, lo tirò verso di lui, e vedemmo che era di ferro. «Ma che piacere» gridò mio cugino. «È quel furfante che torna da noi! Prendilo a bordo, Eric, e facci vedere se è ancora vivo.» Lo svedese, aiutato dai due uomini che si erano incaricati di gettare in acqua Mastro Pentry (gli altri non avevano osato metterci mano), trasportò dentro quella cosa ricoperta di fanghiglia grigia. Ma quando sollevarono la visiera, la faccia era sparita e dentro c'era solo un vuoto nero, e nell'armatura non c'era altro che acqua e fango. Tagliarono le cinghie dell'armatura con i pugnali, aprirono la corazza e i gambali, e ancora niente, finché arrivarono agli stivali di acciaio (era stata un'armatura completa), e nella scarpa destra videro quello che era stato un piede, ma l'osso della caviglia non c'era più e la carne penzolava come le chele di un'aragosta che siano state succhiate. A quella vista tutti fummo assaliti da nausea e brividi, e mio cugino ricadde all'indietro sul suo sedile, simile a un morto. Soltanto io, forse perché non avevo preso parte a quell'assassinio, ebbi la forza di balzare in avanti, di sollevare quell'ammasso putrido di ferro, fango e carne umana al di sopra del bordo della barca e di gettarlo nell'acqua, di nuovo immobile e nera ma non torbida. Gridai agli uomini di mettersi ai remi e di fuggire da quel luogo maledetto. Ma prima che potessimo allontanarci dal Gorgo - gli uomini erano esausti per la paura -, uno dei feriti, credo Giles Warner, quello che aveva insidiato damigella Rosamund e che era stato gravemente ferito con una falce dal contadino ammazzato da Gulston, saltò in piedi nella chiatta mettendosi a urlare come una belva terrorizzata. Così facendo, la fasciatura che aveva intorno alla coscia scivolò, il sangue sprizzò fuori con un getto, ed egli cadde e morì, senza che nessuno ci facesse caso tranne me. Capitolo VII DEL NOSTRO RITORNO E DELLA SEPOLTURA DEI CADUTI La vista di quello che era successo annullò negli uomini di mio cugino, e in mio cugino stesso, ogni capacità di pensare al da farsi. Si è spesso notato, infatti, che in questi casi uomini, anche audaci e abili, sono come marionette, pronti a eseguire gli ordini di chiunque abbia soggiogato i loro animi. Ed era quello che accadeva in quel momento: quei soldatacci, sempre pronti a beffarsi di me per essere uno studioso e un simpatizzante di
Cromwell, ora si piegarono sui remi al mio ordine, e lasciarono che li guidassi dove volevo. Mi venne allora in mente che se avessi ordinato loro di farmi sbarcare, non avrebbero saputo opporsi. Tuttavia non volli tentare quell'azzardo: cosa mi restava da fare sulla terraferma? Mastro Pentry era morto, e il fumo del villaggio di Marsham saliva in una nera nube sopra la collina. I poveracci di cui ero stato lo sfortunato ambasciatore avevano ormai sofferto tutto il male che quel tiranno avrebbe potuto infliggere loro. Non c'era nessuno da aiutare tranne damigella Rosamund, e avrei potuto farlo soltanto rimanendo al castello: se fossi fuggito, avrei recato vantaggio unicamente a me. Perciò non indugiai, ma diressi la barca diritta verso il castello. Non mi consideravo un eroe per avere così deciso: lo strano modo in cui si era compiuta la profezia di Mastro Eldad per quanto riguardava lui stesso mi instillava la solida convinzione che neppure le sue altre parole sarebbero state vane e che la vita mi sarebbe stata concessa in cambio di un bottino. Dopo poco venne meno la possibilità di quella fuga alla quale avevo rinunciato. Lo svedese, infatti, temprato dai pericoli e poco incline a lasciarsi sconvolgere da cose che non poteva vedere o toccare, si riprese d'animo rapidamente e cominciò a imprecare contro i suoi uomini, chiamandoli massa di codardi fanfaroni. A quelle parole mio cugino si mosse scuotendosi come un cane uscito dall'acqua, animato dal desiderio di togliere dagli orecchi la maledizione che ancora li riempiva. Quindi, senza dire una parola, mi strappò di mano il timone e ci condusse verso casa. Alzandomi, mi chinai su Giles Warner, che giaceva in una pozza formata dal suo stesso sangue stranamente mescolato a quella fanghiglia. Non c'era niente da fare: l'uomo era morto stecchito. Mi affrettai a chiudergli gli occhi, che fissavano orribilmente il cielo, e quindi andai a sedermi a prua per poter guardare verso terra, in direzione del villaggio di Marsham dove il fumo ancora saliva verso le nubi. Ma quando volsi gli occhi in direzione della spiaggia, mi parve che il fumo avesse invaso metà del cielo e allora mi resi conto che non si trattava di fumo ma di una nuvola di tempesta che si raccoglieva sulla terra, ancora più nera all'apparenza per il contrasto con la luminosità del sole del mattino intorno a noi. Mentre continuavo a guardare, la linea abbagliante e biforcuta di un lampo apparve fra una collina e l'altra e un rombo di tuono giunse fino a me. L'arrivo improvviso della tempesta, e la stranezza del fenomeno dato che si era in autunno, stimolarono la mia immaginazione, e mi venne quasi da
pensare che potesse trattarsi della vendetta del Signore per gli assassinii e le ruberie che erano stati fatti. La stessa cosa pensarono gli uomini, che seguivano come me l'ingrandirsi della nuvola, e, spinti dalla paura, con forza si piegarono sui remi. Procedevamo quindi velocemente alla volta di Deeping e, quando girammo attorno ai bastioni diretti al porticciolo, i pochi rimasti al castello gridarono verso di noi e andarono ad aprire la chiusa. E, mentre passavamo sotto il maschio del castello, si aprì una finestra e comparve il viso esangue di damigella Rosamund Fanshawe, che si imporporò come i suoi occhi caddero su di me. Subito si ritrasse, lasciandomi un senso di allegria nel cuore, sebbene non sapessi spiegarmene il motivo. Arrivammo così in porto e legammo le imbarcazioni. Per prima cosa, per ordine del conte, i morti - Giles Warner e i due uccisi in combattimento - furono portati dentro e messi a giacere in uno stanzone vuoto finché non avessimo ricevuto disposizioni per seppellirli. Mio cugino, senza dirmi una parola, raggiunse la porta della sua dimora, dove la Signora se ne stava avvolta in un grande mantello orientale, e Pompey le era vicino con una bottiglia di vino e alcuni bicchieri. Il conte, barcollando per la stanchezza e per la fretta del ritorno, svuotò una coppa di vino e se la riempì di nuovo, senza pensare di offrirne un sorso a me che gli stavo vicino o a Gulston, che se la versò da sé senza chiedere il permesso a nessuno. L'italiana, parlando a bassa voce e mormorando nella sua lingua, chiese (suppongo) notizie dell'esito dell'impresa; e il conte, alzando la testa, rispose stancamente: «È morto!», riferendosi, senza dubbio, a Mastro Pentry. A quelle parole la donna arrossì in viso, gli occhi le si spalancarono e brillarono verdi come quelli di un gatto. «Come è morto?» chiese con un sorriso che pareva di piacere; ma il conte non era più in grado di assaporare la gioia della vendetta. «È là dove saremo presto anche noi» mormorò, ma non così a bassa voce che non lo sentissi. «La maledizione sta per abbattersi, Fiammetta; sta per abbattersi!» E a quelle parole le palpebre le ricoprirono gli occhi, e la paura le si dipinse sul volto. Riuscì tuttavia a controllare il terrore, ed era sul punto di parlare quando il cielo si spaccò sopra di noi con una fiammata bluastra, e quindi seguì un tale frastuono che il cielo e il mare sembrarono confondersi rovinosamente. L'arrivo improvviso della tempesta, il terribile lampo e il fragore del tuono mi impressionarono, sebbene avessi notato la nuvola nera che avanzava verso di noi; ma agli altri parve che fosse arrivato il giorno del Giudizio. Alcuni di quei manigoldi si buttarono a terra per la paura; e la sciocca ragazza della locanda del Melo di Marsham, intenta a chiacchierare con al-
cuni uomini della truppa, si mise a correre qua e là strillando che era arrivata la fine del mondo. Nessuno però rimase ferito, e non si trattava della vendetta del Signore, come avremmo saputo subito: infatti mentre la maggior parte di noi era in attesa di qualche spaventosa catastrofe, il lampo successivo divampò sì grande e luminoso ma più lontano, in direzione del mare, e il tuono impiegò del tempo a scoppiare e il suo rimbombo fu più cupo che potente. Poi la pioggia cominciò a cadere a goccioloni, aumentando di intensità, sibilando sulle pietre e costringendoci a correre al riparo, e io ero fra gli altri. Non mi fu facile arrivare alla porta della scala e salire fino alla mia camera; provato com'ero dalle fatiche e dagli orrori di quella mattina, non pensai neanche a togliermi gli abiti, ma mi sedetti alla finestra guardando il velo grigio di pioggia che nascondeva le colline, finché il temporale passò con la stessa rapidità con la quale era arrivato e la luce del sole tornò a splendere sulla terraferma, dove un sottile filo di vapore saliva ancora dalla cicatrice annerita che era stato il villaggio di Marsham. L'aria, soffocante prima dell'arrivo del temporale, si era fatta più fresca, e il vento soffiava da terra mettendomi i brividi, così che mi ricordai di essere fradicio e, dopo essermi cambiato gli indumenti che avevo indosso, scesi nel cortile e mi misi a passeggiare fra una pozzanghera e l'altra, senza vedere anima viva, perché le sentinelle non avevano ancora preso i loro posti. Passeggiai nella corte per una mezz'ora, tenendomi bene al riparo sotto le mura, perché dopo la pioggia l'aria era diventata gelida e umida, e mi pareva che il vento portasse l'odore della melma del Gorgo. Eppure la brezza era caduta, come potevo arguire dalla bandiera sulla torre, afflosciata intorno al pennone. Salii sui bastioni per vedere se ancora c'era fumo sopra Marsham. Ma quando scrutai oltre i bastioni, non scorsi traccia del villaggio e neppure delle colline sullo sfondo perché si era levata una densa foschia sugli acquitrini, che si addensava intorno al castello sebbene non soffiasse un alito di vento e l'aria fosse immobile, gelida e umida. Ebbi l'impressione che il tanfo fosse più acuto. Il sole era velato da una nube bianca, e la distesa paludosa pareva più desolata e vuota del solito. Adesso, mentre guardavo la bruma addensarsi insidiosamente, sentii un rumore di passi sulle scale del maschio del castello, e subito arrivò damigella Fanshawe, con un cappuccio calato sulla testa e con la cameriera, la figlia del fabbro di Marsham. Mi affrettai a ridiscendere in cortile e a salutarla togliendomi il cappello. Ella rispose a malapena al mio saluto ma mi chiese degli avvenimenti di quella mattina, che le raccontai così come ho
già descritto, tranne i fatti che erano seguiti alla morte di Mastro Pentry. Quando ci pensavo, mi sentivo soffocare dal terrore e nelle narici percepivo ancora l'odore del Gorgo, non so se perché indugiasse nella memoria o ne fosse impregnata l'aria. Le raccontai di aver tentato in tutti i modi di salvare il poveretto, e di come egli stesso avesse scelto la modalità della propria morte. Non volevo che damigella Rosamund mi prendesse per un codardo, o mi considerasse riluttante ad aiutare gli amici. Non avevo però motivo di preoccuparmi perché lei stessa, come mi disse in seguito, era contenta del mio coraggio e mi avrebbe elogiato, ma si era trattenuta dal farlo perché sapeva che gli uomini valorosi rifuggono dal sentire esaltare le loro gesta. Dal canto mio avrei avidamente accolto le sue lodi perché sapevo di non essere all'altezza del suo elogio. Ricordo anche che la cameriera, una giovane di bell'aspetto ma con lo sguardo sfuggente per la paura, mi chiese notizie degli abitanti del villaggio. Le dissi, pensando di confortarla, che nessuno era stato ammazzato tranne Mastro Pentry e un tipo alto con la falce che aveva inferto una ferita mortale a Giles Warner. A queste parole ella mi chiese ardentemente notizie dell'uomo, ma sapevo solo che indossava un berretto blu, come avevo visto dalla chiatta. Non appena ebbi detto questo, la ragazza proruppe in un alto grido di dolore, invocò un nome maschile e scoppiò in singhiozzi; e quando damigella Fanshawe cercò di metterle un braccio attorno al collo per confortarla, lei si allontanò da noi come una belva ferita e corse alla porta del castello. Non era difficile immaginare che l'uomo ucciso le era stato caro, probabilmente il suo fidanzato. Damigella Rosamund seguì con lo sguardo la ragazza, gli occhi colmi della più tenera compassione, e le sarebbe corsa dietro se io non l'avessi fermata dicendole che, quando provano questi dolori, le donne preferiscono restare da sole; inoltre mi spiaceva perdere l'occasione di stare con damigella Fanshawe. E così ci mettemmo a parlare di tante cose, che ora non ricordo, finché la vidi improvvisamente sbiancare e barcollare; e se non le avessi messo un braccio attorno alla vita, sarebbe caduta come per uno svenimento. Si riprese e mi chiese scusa per quella che chiamava la sua sciocca debolezza; ma aveva avvertito un malessere e una debolezza afferrarle il cuore, insieme a un cattivo odore nell'aria. In verità l'odore del Gorgo era più forte di prima; e mentre guardavo in alto, scorsi i primi tentacoli di una foschia bianca che si addensava sui bastioni, simili alle braccia di un mostro spettrale che avvolgeva il castello nel suo vapore umidiccio, sempre più denso, pur senza che ci fosse un alito di vento. In breve la
foschia riempì il cortile, facendosi ora più rada, ora più fitta; vi si respirava il senso di un ripugnante disgusto e di un terrore senza forma. «È la foschia che sale dagli acquitrini» dissi, benché la mia voce suonasse vacua e priva di significato; e damigella Rosamund annuì col capo e parlò delle nebbie che circondavano sempre il castello quando l'aria si raffreddava all'improvviso. Ma sapevamo che non era la solita foschia del fiume o del mare; e quando sentimmo strani gemiti nell'aria provai un terribile terrore pensando a quello che sarebbe accaduto, perché mi sembravano i gemiti degli spettri che, secondo la leggenda, vagano sulle paludi dello Stige. Tuttavia quando qualcosa di bianco spuntò da dietro le mura e ruotò sulle nostre teste, vidi che non si trattava di uno spettro ma di un gabbiano e di molti altri che lo seguivano, finché il cortile fu pieno di uccelli, che giravano attorno ai torrioni e sopra le mura, ma senza posarvisi, continuando nel frattempo a mandare il loro grido stridulo e triste, quasi in segno di monito e di dolore per qualcosa che noi non conoscevamo ancora e che volentieri ci avrebbero raccontato. Per alcuni minuti continuarono a volare e a lamentarsi, mentre la foschia aumentava di intensità, finché uno si allontanò improvvisamente e gli altri gli andarono dietro come se fosse scattata una parola d'ordine. Li vedemmo sparire in una nuvola in direzione del mare, perché da quella parte la nebbia era meno densa, e poi si dileguarono continuando con il loro grido. Non ci furono più battiti d'ali nell'aria, sull'acqua o nella palude, dove di solito erano numerosi gli uccelli che si disputavano il cibo con versi striduli. Il gemito e il volo dei gabbiani, simili all'annuncio di un pericolo incombente, ci colpirono stranamente. Sebbene non ne parlassimo, c'era un solo pensiero nella mente di entrambi: quelle creature selvatiche, più vicine di noi ai segreti della terra e delle acque, erano venute ad avvisarci di fuggire da qualcosa di orribile, oppure a gemere su di noi, se non fossimo fuggiti. Ma damigella Rosamund, che in ogni occasione si dimostrava più coraggiosa di quanto siano solite esserlo le donne, e anche gli uomini, scrollò le spalle come per scacciare il fardello della paura, e in tono disinvolto disse che forse qualcosa sulla terraferma aveva spaventato i poveri gabbiani. Andò sui bastioni a vedere, e io la seguii. Ma non c'era nulla da vedere se non la foschia bianca che saliva lentamente sulle paludi, e lo sciabordio monotono dell'acqua ai piedi delle mura, segnata qua e là da una striscia di fango grigio. Mentre ce ne stavamo lì a guardare, senza avere il coraggio di dire a noi stessi il motivo della fuga degli uccelli, dal cortile provennero rumori e
sferragliamenti e, guardando in basso, vedemmo alcuni uomini della guarnigione che venivano avanti parlando tra loro, in tono sommesso e a bassa voce, bestemmiando meno del solito. Dopo di loro veniva Gulston, che mi salutò chiedendomi che cosa facessi lì; quando gli dissi che avevo visto un grande stormo di gabbiani in volo e cercavo di capire che cosa li avesse spaventati, lui replicò: «"Perbacco!" direbbe la Signora. Ho sentito dire che questi uccelli sono le anime dei naviganti annegati, e forse stanno intonando un canto funebre alla loro maniera per i nostri soldati. Stiamo preparando un servizio funebre per onorare le salme degli uomini ammazzati dai vostri amici di Marsham, e Vostra Eccellenza ci farebbe una grazia se volesse essere il nostro cappellano. Abbiamo lasciato i nostri parroci al comandante Cromwell sul campo di battaglia di Naseby, perché era un bagaglio troppo pesante per la fretta che avevamo addosso». Stavo quasi per dirgli di affidare i corpi dei suoi uomini al diavolo che abitava nelle loro anime, tanto mi aveva irritato la sua impudenza; ma non volevo cedere alla collera davanti a damigella Rosamund, che aveva sentito tutto. Ero lì lì per andarmene senza rispondere, quando ella allungò la mano prendendomi per la manica, e vidi i suoi occhi incupirsi e velarsi di lacrime. «Non darai l'addio a questi poveri morti senza una preghiera, non è vero?» disse. «Sono stati malvagi ma non sapevano quello che facevano. Se non li perdoniamo nella morte, se non abbiamo pietà di loro, come potremo chiedere misericordia? Va' con loro, io rimarrò qui e pregherò per le loro anime.» Così dicendo, dominò l'emozione, e l'ombra di un sorriso apparve sulle sue labbra. «Oh, cugino» disse «ho dimenticato che sei un puritano, e mi giudichi una povera papista. Pensi davvero che sia sbagliato pregare per i morti?» Scossi la testa, perché non c'era tempo per rispondere. Avevo sempre ritenuto, da quando avevo cominciato a riflettere su questi temi, che le precedenti malvagie abitudini di certi papisti, usi a fare mercato delle indulgenze di Dio, avevano indotto noi protestanti a essere esageratamente severi nel negare una possibilità di salvezza dopo la morte a coloro che, per gioventù o per ignoranza, non erano riusciti a trovare la via della redenzione. Mi volsi per unirmi agli uomini, e quando girai di nuovo lo sguardo verso damigella Rosamund, la vidi sui bastioni con la testa china tra le mani, intenta (non ne dubitavo) a pregare per le povere anime di quei tre peccatori. Nel frattempo le truppe avevano portato fuori i corpi dei caduti e li ave-
vano avvolti dentro vecchie vele e mantelli usati a mo' di sudari e, dopo averli sistemati su una delle chiatte, prendemmo il largo e ci inoltrammo nella foschia, che non era così densa da impedire di scorgere, di quando in quando, i punti di riferimento. I vapori ondeggiavano stranamente, tanto che a momenti scorgevamo un tratto di acqua chiara, simile a una strada grigia in mezzo a muraglie bianche; in altri momenti eravamo di nuovo avvolti, come in un sudario, da bianca tenebra, mentre respiravamo il freddo odore del Gorgo. E così, fermando i remi quando la foschia era troppo densa e dandoci dentro quando diminuiva, ci avvicinammo alla terraferma. Ma l'intenzione di Gulston non era quella di seppellire i corpi sulla costa, operazione che sarebbe stata troppo pericolosa, perché ora la gente si era sollevata contro di noi, ma puntammo verso un poggio in mezzo agli acquitrini, che era stato spinto in quel punto - un po' oltre il livello massimo dell'alta marea - da qualche antica tempesta, e ora era ricoperto di erbacce e di salicornia. Qui sbarcammo, e alcuni degli uomini si diedero da fare con le vanghe per scavare una tomba nella massa grigia di fango e sabbia; e, bravi come erano a scavare trincee, fecero in poco tempo una fossa, larga abbastanza per metterci tre corpi l'uno a fianco all'altro, ma non profonda, perché in quel terreno si arrivava presto all'acqua. Gli uomini seppellirono i compagni morti con una certa solennità e rimasero in piedi, mentre io recitavo qualcosa dal servizio funebre per i morti, che conoscevo bene poiché avevo un tempo intrapreso la carriera ecclesiastica. Sapendo che genere di uomini erano stati e in quali circostanze avevano trovato la loro fine, non espressi la convinzione che sarebbero risorti; mi limitai a raccomandarli all'infinita misericordia del Signore, che è al di là delle nostre credenze e delle nostre controversie. Notai che alcuni si erano commossi alle mie parole, anche se capivano poco; e un uomo, uno spagnolo, con una faccia scura come il cuoio e segnata dalle cicatrici, mormorò in fretta le sue preghiere con grande devozione. Quando ebbi finito, gli uomini cominciarono a riempire la fossa sopra i corpi, e lo spagnolo si ingegnò a mettere insieme due pezzi di legno che aveva portato con sé, per farne una croce. Io rimasi vicino alla barca a osservare gli uomini così occupati, girandomi di quando in quando per guardare verso la palude, non appena la foschia si diradava. Mentre guardavo, il vento cominciò a soffiare da terra, dapprima leggero, quindi più violento, e la nebbia si mosse in strane forme spettrali; intanto il tanfo del Gorgo arrivava portato dal vento, che diventava sempre più forte, finché dentro di me crebbero la nausea e il freddo. In-
sieme al vento, l'acqua grigia e melmosa, fino a quel momento immobile alla base del poggio, cominciò ad agitarsi e a lambire la riva; e in mezzo allo sciabordio delle onde mi sembrò di sentire un altro suono. Dapprima pareva un sussurro molto distante, ma poi si trasformò nel rumore di un risucchio, come quando l'acqua è attratta in un gorgo o in un tubo, e poiché la foschia era stata in parte spazzata via dal vento, riuscii a vedere, nel canale che conduceva dalla terraferma verso il Gorgo, un vortice o un imbuto d'acqua che appariva qua e là, si formava, scompariva e si riformava in un altro punto, avvicinandosi a poco a poco. Mi domandai di che cosa potesse trattarsi e ne parlai a Gulston, che incitava gli uomini a finire per potersi allontanare da quella palude puzzolente. Ma quando si girò a guardare, i gorghi del canale erano scomparsi, e non si notava nulla tranne l'odore e alcune strisce di fango che galleggiavano davanti a noi. Ridendo, Gulston disse che quelle acque erano piene di gorghi; quindi sputò e mandò una bestemmia contro quell'odore e, prendendo una fiaschetta dalla tasca, me la porse; e poiché non volli bere, ne ingurgitò una sorsata - per pulirsi la gola, come disse lui. Nel frattempo il tumulo era finito, e lo spagnolo, prendendo la rudimentale croce di legno che aveva preparato e togliendosi il cappello, la piantò alla testa della tomba. Stavamo per andarcene quando lo svedese notò che la parte inferiore del tumulo si era sbriciolata e stava in qualche modo affondando, e prendendo la vanga dalle mani di uno dei soldati, vi gettò sopra una palata di fango e sabbia e pareggiò la terra con il piatto della vanga, come fanno i bambini quando costruiscono i castelli di sabbia. Ma, mentre lisciava il tumulo, la parte inferiore si sbriciolò con un rumore profondo come di qualcosa che venga risucchiato, e dove c'era stato un monticello, ora si vedeva un gorgo schiumeggiante di sabbia grigia, acqua e fango. Gulston, balzando indietro con un grido, si appoggiò alla vanga: eravamo tutti a occhi sgranati, mentre il vortice si allargava, il tumulo si sbriciolava e la croce, appena piantata, ondeggiava avanti e indietro fino a inabissarsi con tutto il resto. Allora lo spagnolo si slanciò in avanti come se volesse mettere in salvo la sua opera, ma io lo trattenni appena in tempo: il tumulo che avevamo costruito e i corpi che c'erano sotto erano spariti e restava soltanto un vortice rotante di acqua e sabbia. Mentre guardavamo - lo spagnolo con lo sguardo fisso di chi è impazzito dal terrore, e io dietro di lui a trattenerlo per il braccio - il vortice parve spalancarsi sul fondo e dischiudere un nero abisso e quindi riempirsi con un rigurgito di acqua limacciosa, e nel mezzo del gorgo si vide uno dei cadaveri, privo
di sudario, le mani inerti nella posizione contorta di chi cerca di sfuggire a qualcosa. Il corpo sembrava ferito e solcato da striature di fango grigio, ma nella faccia nuda riconobbi Giles Warner, come lo avevo visto quando era morto. Gli occhi che gli avevo chiuso adesso erano aperti. La visione era insopportabile, ma non riuscivo a distogliere lo sguardo. E mentre lo fissavo, il corpo fu lentamente risucchiato dall'acqua, le strisce di fango sembrarono carpirlo come tentacoli. Quando mi girai, vidi gli uomini che correvano incespicando verso la barca, bestemmiando e gridando per la paura; e se non fosse stato per Gulston, che non aveva perso il controllo di sé, avrebbero lasciato lo spagnolo e me su quel poggio che si andava disfacendo. Raggiungemmo il fianco dell'imbarcazione appena in tempo perché mentre aiutavo lo spagnolo paralizzato dalla paura a salire sul capo di banda e appoggiavo un ginocchio sull'orlo della barca, mi venne a mancare il punto d'appoggio per l'altro piede. Fui ben contento di riuscire ad afferrare l'uomo più vicino e issarmi a bordo. Al posto del tumulo c'era soltanto un'onda, mentre la croce dello spagnolo galleggiava sulle acque. Non vidi altro, perché Gulston ordinò di allontanarsi, e gli uomini si misero a remare, senza preoccuparsi di dove si stessero dirigendo pur di andarsene da quella maledetta tomba. Il vento cadde, la foschia si infittì nuovamente e ci avvolse in un'ombra bianca. Procedevamo alla cieca, toccando nelle secche e tastando con i remi alla ricerca dei canali. Disorientati dalla paura, avremmo vagato a lungo nelle paludi, se Gulston, ricordandosi delle sue pistole, non avesse sparato con una di queste, sicché, poco dopo, rispose un colpo di fucile dal castello, che era più vicino di quanto pensassimo. Sbarcammo di nuovo, e gli uomini sgattaiolarono nei loro alloggi, distrutti dalla paura. Gulston, rimasto con me, cominciò a parlare dello strano gorgo che aveva inghiottito i nostri morti, sostenendo che si era trattato di un cedimento improvviso delle sabbie mobili, come avveniva spesso nelle paludi. Finsi di crederci, come lui stesso fingeva di credere, ma mentre varcava l'ingresso e io lo seguivo, mi volsi verso il porticciolo. La foschia si era alzata un poco, e mi sembrò di vedere un tentacolo o una striscia di fango grigio arrotolarsi a spirale attorno al molo roccioso che proteggeva il porto, e mi parve che sull'orlo del molo qualcosa simile a un dito ci cercasse alla cieca. Mentre guardavo, l'apparizione svanì, e non sono sicuro che non sia stata un'illusione ottica provocata dalla marea. Capitolo VIII
DEL MIO COLLOQUIO CON L'ITALIANA E DI CERTI UOMINI CHE ANDARONO A PESCARE Arrivando nel cortile, vedemmo la Signora sui gradini antistanti il portone dell'antica dimora. Era con mio cugino al fianco, entrambi in silenzio e, mi parve, in ansia, perché il cipiglio del conte era aggrondato come gli succedeva nei momenti di umore nero, e sul volto di lei l'angoscia sembrava mista alla paura. Tuttavia, quando lo svedese e io fummo vicini, ella posò il suo sguardo su di noi e, sorvolando su Gulston quasi fosse uomo di poco conto, mi sorrise e mi salutò con la sua cortesia da straniera, chiedendomi come fosse andata. Per un po' non parlai, trovando difficile scegliere le parole per spiegare quello che avevo visto; e lo svedese si intromise, come era sua abitudine. «È stata una stoltezza mandarci a seppellire i morti in quelle maledette paludi» disse tirandosi la barba. «Avremmo potuto risparmiarci la fatica, perché quando la tomba fu ben scavata e riempita, quelle maledette sabbie mobili si sono aperte e hanno inghiottito tutto, e avrebbero inghiottito pure noi, se non ci fossimo sbrigati. Dio benedica la terra e il mare, dico io, ma che il diavolo si porti questo ammasso confuso di fango che non è né l'una né l'altro.» A queste parole il conte mormorò qualcosa sottovoce e batté una mano sul lato della porta; ma la Signora, fissando lo svedese solo per un attimo con i suoi occhi verdi, li portò nuovamente su di me, quasi volesse strapparmi l'anima. «In verità» dissi, parlando affrettatamente «tutto è andato come lui ha detto; la tomba e il poggio sul quale l'avevamo scavata si sono sbriciolati davanti ai nostri occhi in modo strano. Ci è andata bene se non siamo stati risucchiati noi stessi. Sì, è stato tutto così rapido, che mi sento ancora il terrore addosso.» «Avete visto o sentito qualcos'altro, signori?» chiese la donna in tono brusco, seppur cortese. «Ecco, non ho visto né sentito nulla» mormorò lo svedese scuotendo la testa «ma il qui presente Mastro Leyton ha accennato a gorghi nell'acqua, e non so a che altro.» La Signora mi guardò nuovamente, con gli occhi spalancati, contrariamente al solito, quasi fosse ansiosa di ascoltare. Allora le raccontai dello strano rumore di risucchio, e dei vortici che si muovevano nell'acqua; e quando ebbi finito, ella abbassò le palpebre e chinò la testa, restando pen-
sosa e in silenzio. Nessuno parlò, finché mio cugino alzò la testa, si tirò indietro i capelli nel suo solito gesto e rise ad alta voce, con allegria disperata e falsa. «Bene, ecco fatto!» disse, battendo una mano sulla spalla di Gulston. «Non ci sono più. Vuol dire che avremo meno bocche da sfamare quando il comandante Cromwell verrà a bruciare ogni cosa. In verità» proseguì «ci servirà tutta la nostra scorta di viveri, perché i pescatori oggi non hanno preso neppure un'aringa e non hanno visto una sola pinna di pesce. Forse questi smottamenti di sabbie hanno spaventato i pesci.» A queste parole l'italiana levò lo sguardo. «Spariti anche i pesci? Non me lo avevi detto, Filippo mio.» «Be', mi è passato di mente» disse il conte, con il suo riso senza allegria. «Non aver paura, Fiammetta, torneremo a vedere il pesce in tempo per la cena del venerdì, oppure manderò qualcuno a cercarlo più lontano. Ma non serve parlarne. Venite ad assaggiare il mio barilotto di vino spagnolo, spillato dalla botte questa mattina. Se ci mancherà il pesce, abbiamo scorte di vino e di polvere da sparo nelle cantine. Che altro serve a un soldato?» Gulston non restava mai indietro davanti a una sfida di quel genere, e anch'io stavo per accettare l'invito di mio cugino, ma la Signora, guardandomi con gli occhi socchiusi, assai eloquenti, mi fece capire senza parole che avrebbe desiderato che restassi. Così mi scusai, rispondendo, come era del resto la verità, che era un vino troppo nobile per il mio povero cervello, e il conte, senza stare ad ascoltare le mie scuse, prese Gulston per un braccio ed entrò con lui, dicendo a Pompey di portare una bottiglia. Quando il suono dei loro passi si fu spento sul pavimento di pietra, la Signora scese dal gradino più alto e si sedette un po' più in basso, invitandomi a prendere posto accanto a lei, cosa che feci. Per un po' mi fissò con sguardo acceso, senza parlare, quindi mi chiese all'improvviso: «Signor Uberto, accadono cose strane in terra e in mare.» Risposi che non ero pratico di quelle parti, delle correnti, delle sabbie mobili, delle paludi, dei canali, ma lei mi interruppe con una certa impazienza risentita. «Suvvia!» disse. «Queste cose vanno bene per il Signor Enrico o per la Signorina Rosamunda, ma voi non credete a quello che dite, e non ci crede neppure Filippo. Ditemi quello che pensate. Non sono una ragazzina inglese, che si spaventa ai racconti di streghe. A uno studioso come voi potrei insegnare qualche pratica curiosa. Non ho forse la fama di strega nelle campagne qui attorno?» Risposi qualcosa riguardo ai pregiudizi dei contadini, sempre disposti a
credere che uno straniero sia uno stregone o un mago, ma lei tagliò corto di nuovo. «Non diciamo sciocchezze» replicò con un'irritazione risentita verso se stessa e verso di me. «Il tempo vola, e potrebbe essere troppo tardi. Ditemi quello che sapete e quello che temete.» «C'è una vecchia storia» le risposi «di una Cosa che giace in fondo a un abisso che chiamano il Gorgo. Proprio l'altro giorno, mentre mettevo a posto i libri della mia biblioteca, mi capitò in mano un libro sulla nostra famiglia, dove è scritto in versi...» Recitai i versi, e lei mi chiese di ripeterli per due o tre volte, finché non li ebbe imparati. Ma quando avrei voluto aggiungere che era soltanto una superstizione da vecchiette, lei mi interruppe di nuovo. «Non mentite a voi stesso e a me, Signore. Ci sono strane cose nel mondo che vediamo e nel mondo che non vediamo e ancora più strane, forse, nel mondo che è al confine tra i due. Siamo in grande pericolo. I cannoni del mio signore e i moschetti di questi furfanti sono fuscelli fragili e inutili a difenderci. Ed è un fuscello anche la vostra bella spada, sebbene sia di buon acciaio italiano e voi sappiate come usarla, Signore.» Si era tanto irritata, prima, all'idea di perdere tempo in convenevoli che, quando per un attimo lasciò perdere la faccenda che le stava a cuore per elogiare la mia abilità di spadaccino, non potei fare a meno di sgranare gli occhi per lo stupore, finché lei non rise con grazia. «Ecco, sto divagando dal tema» aggiunse. «Perdonatemi, Signore, ma sono cresciuta in mezzo agli spadaccini, ed è per me una gioia vedere che vi battete con il nostro buon Filippo come uno spagnolo con un toro. Se foste stato italiano, sareste entrato in possesso del vostro patrimonio molto tempo fa. Una parola di collera del mio signore, via i mantelli, una stoccata e una parata, un giro di polso, ed ecco il Signor Uberto conte di Deeping.» Ero stupito che dicesse tante cose oziose, ma avrei imparato in seguito che la Signora non diceva mai una parola senza che ci fosse un fine dietro a questa e, probabilmente, anche più di un fine recondito. Le risposi che non ero quel maestro di scherma che lei mi reputava, e che ritenevo il duello una cosa barbara, incivile e non cristiana, tanto che il re di Svezia, Gustavo, lo aveva giustamente proibito tra i suoi ufficiali. Mentre parlavo, la Signora aprì gli occhi come se fosse reduce da un sogno, e mi interruppe nel mezzo del mio discorso agitando la mano come per scacciar via le mie ragioni. «Basta così, Signore» disse. «Concordo in parte con voi. Il fioretto è una
bella arma, ma il caso gioca troppo nel duello. La stringa allentata di una scarpa, un granello di polvere nell'occhio, e dov'è finito l'artista? Sì, uno studioso come voi ha altre armi. Signor Uberto, su questa casa gravano l'ombra di una grande paura e la malvagità di un nemico senza nome. Che cosa potete fare per salvare voi stesso e noi?» «Non conosco altre armi all'infuori della preghiera, e altro aiuto che non sia l'aiuto dell'Onnipotente» dissi togliendomi il cappello. «Lo sapevo che avreste parlato così» rispose dolcemente, anche se con una punta di irritazione nella voce. «Voi puritani siete sempre i soliti. Ma l'Onnipotente è assai lontano, e ho visto i buoni implorare aiuto e perire come i malvagi. Ci sono altri spiriti, non onnipotenti, ma senza dubbio potenti, più vicini a noi per aiutarci, se si conosce il loro linguaggio.» Stavo per dirle che non credevo nelle suppliche rivolte ai santi, ma a quelle parole mi rimproverò con rabbia. «Dio mìo! Come siete pedanti voi inglesi! Ecco, parlo di altri che non sono i santi, anche se probabilmente si mascherano dietro la santità. Credete che potrei chiedere aiuto alle ossa marce di uno stupido frate, pronto a cancellare la saggezza di un antico testo pur di avere la pergamena sulla quale scrivere in quel gergo che chiamava latino? Qualcuno migliore dei santi mi aiuta, come vedrete... se non avrete paura.» «Non intendo avere rapporti con il diavolo» dissi seccamente, alzandomi dal gradino. «Chi ha parlato del diavolo?» rispose guardando in alto verso di me a occhi stretti. «Per il saggio non esistono né diavoli né santi, ma soltanto poteri e intelligenze capaci di aiutare o di ferire, pericolose per chi li costringe in questo o quel modo, e fatali per gli stolti e i codardi, ma pronti a obbedire a chi usa le parole giuste. Posso fare molto da sola, ma non abbastanza. Uberto, oserete aiutarmi?» Mentre parlava, con un trasporto che non aveva mai mostrato prima, fissò i suoi occhi nei miei e mi prese per il polso: fu come se una catena fosse piombata sulla mia mano e sulla mia volontà. Non so quello che avrei risposto, se mio cugino non avesse spalancato la porta e ci avesse raggiunti. Al rumore della serratura, la donna lasciò la mia mano, e un velo grigio scese, per così dire, sulla luce verde dei suoi occhi. Gulston seguiva il conte; entrambi erano rossi per il vino spagnolo e ridevano rumorosamente. «E dunque, Fiammetta, di che cosa hai chiacchierato per tutto questo tempo?» le chiese prendendola sotto il mento e alzandole il viso, ma lei, guizzando lontano da lui come un serpente, lo guardò sorridendo.
«Parlavamo dell'abilità con la spada e dei trucchi del fioretto» rispose. «Stavo dicendo al Signor Uberto che se fosse stato del mio paese, si sarebbe potuto fare un buon nome e un buon patrimonio grazie alla sua maestria di spadaccino.» A queste parole mio cugino rise rozzamente, e Gulston gli fece eco. «In verità, cugino» disse il conte «non ti avrei creduto uno spadaccino così abile, anche se sei bravo in quest'arma, per essere un puritano. E dimmi, Signora, quale nome e fortuna avrebbe ottenuto il mio congiunto grazie al suo fioretto? Non sapevo che i titoli e patrimoni nobiliari venissero dati ai maestri di scherma, neppure ai più grandi.» Per la rabbia gli occhi dell'italiana si strinsero fino a diventare simili a fessure, mentre lei gli rispondeva: «Signore mio, cosa ne diresti del titolo e delle proprietà del conte di Deeping?». Mio cugino la squadrò e quindi rise di nuovo, ma non era il riso di chi sia compiaciuto. «Ecco, un piano all'italiana! Che ne dici, cugino Hubert? Ci sfideremo al fioretto, senza ottunderne la punta. Tu metti in palio un libro di prediche, io questo castello cadente e le rendite che nessuno mi pagherà. Non sono però poste eque: devo aggiungere anche Fiammetta alla mia?» Parlava scherzosamente, ma vidi dal suo atteggiamento esasperato che mi provocava perché lo prendessi alla lettera. Ma la Signora, avendo dato prova del suo potere, era pronta a lasciar perdere, anche se incollerita per le sue maniere sprezzanti. «Sì, Filippo mio! Il duello sarebbe impari. Il Signor Uberto è un uomo di pace, e gli stratagemmi della scherma gli servirebbero poco ad armi nude. E se anche io valgo poco, sono troppo preziosa per essere la posta in una tenzone.» Il malumore del conte passò ed egli si rivolse a Gulston, che per tutto il tempo era rimasto a fissarci con sguardo vacuo. «Eric» disse mio cugino «gli uomini mi hanno detto che non riescono a prendere il pesce con le loro canne, e che non ci sono volatili nelle paludi. Manda una mezza dozzina di loro su una barca con reti e fucili, e guarda che non tornino indietro a mani vuote.» Sul volto dello svedese l'espressione mutò, ed egli si appoggiò prima su un piede, poi sull'altro. «Mio signore» disse «vorrei pregarti di considerare che gli uomini sono sfiniti dopo le fatiche della giornata; alcuni hanno paura delle paludi, per via di quelle strane sabbie mobili e del puzzo mefitico. Senza contare che la foschia potrebbe infittirsi e far perdere loro l'orientamento in mezzo ai canali.»
Il viso del conte si rabbuiò ed egli proruppe in una bestemmia. «Maledizione! Comando un esercito di donne vecchie? So quello che vuoi dire. Qualche stolto codardo ha propinato ai soldati vecchie favole, e adesso quelli hanno paura delle loro ombre. Manda qualcuno che non era tra gli uomini della spedizione di questa mattina. E che nessuno protesti se non vuole essere scorticato a suon di frustate.» Stringendosi nelle spalle, Gulston ci lasciò senza dire altro. Poco dopo, lo sentivo stanare le truppe dai loro alloggi finché non ne uscirono cinque uomini sbuffando; due portavano i fucili da caccia, gli altri l'attrezzatura da pesca e le esche. Di solito erano contenti di uscire a pesca e a caccia; per loro era quasi una festa; adesso, invece, camminavano di malavoglia, e se non avessero saputo che lo sguardo del padrone era su di loro, e che le sue azioni superavano le minacce, si sarebbero tirati indietro. Uno di loro, ricordo, si girò quando giunse alla porta dello stanzone delle guardie e tornò indietro, come se avesse dimenticato qualcosa, e uscì poco dopo con una grande spada alla cintura; al che il mio signore rise e chiese a quel tizio se pensava di battersi all'ultimo sangue con i merluzzi, ma l'uomo non rispose. Si alzò una brezza che spazzò la foschia in direzione del mare, e un raggio di sole illuminò la torre, finché il pomeriggio sembrò essere tornato al bello, tanto che gli uomini, tutti furfanti scavezzacolli, poco inclini alla malinconia, spinsero la barca con una certa allegria. Mentre uscivano, il conte disse loro che se avessero portato a casa un carico pieno, di pinne o di piume, non sarebbero mancate loro né la birra né l'acquavite per annaffiare quel bottino. E così ci separammo, diretti ciascuno ai propri alloggi; ma prima di raggiungere la mia camera, camminai per un po' sulle mura, e vidi la barca che andava a buona velocità verso il mare a forza di remi e con una piccola vela. Ma, poco dopo, alcune folate di vento portarono la nebbia di nuovo verso terra, e a malapena vedevo la barca, che ormai era poco più di un puntino nero sull'acqua grigia. Non sentii spari, e ne dedussi che non avevano trovato selvaggina. Stanco di guardare la grigia distesa, guadagnai la mia camera e mi sdraiai sul letto, perché ero esausto. Volevo riposare per una mezz'ora, ma non avevo ancora appoggiato la testa sul cuscino che caddi in un sonno lungo, profondo - sarà durato qualche ora - e in un primo momento senza sogni; ma alla fine, credo, feci uno strano sogno, nato, come accade con queste visioni, da quello che avevo visto, sentito e mescolato in maniera bizzarra con altre fantasie. Credevo di essere impegnato in un duello al-
l'arma bianca con mio cugino; a ciascun lato mi stava una figura incappucciata, avvolta nel sudario. Io le vedevo, e sapevo - chissà come - che il conte non le vedeva; e mentre mio cugino si accaniva sempre più nel combattimento, come gli capitava se si accorgeva che ero un osso duro per lui, la figura alla mia sinistra, allungando un braccio, tolse la protezione alla punta del mio fioretto e, puntando un dito lungo e forte al petto di mio cugino, disse con voce femminile, la voce della Signora: «Colpisci! Un uomo morto non ha amici!» usando le parole del signore di Essex nel sollecitare la morte del conte di Strafford. A questo punto mi sembrò che l'altra figura si levasse il cappuccio e sotto apparisse il teschio di un uomo che aveva gli occhi lucenti di Mastro Pentry e, parlando con voce aspra, dicesse: «La vendetta è mia, disse il Signore!». Voleva trattenermi, ma nel sogno facevo saltar via la spada di mio cugino con una rapida parata, e balzando in avanti lo trafiggevo nel petto con la stoccata preferita del mio maestro italiano. Il conte cadde a terra mentre dal petto gli usciva un fiotto di sangue, che assunse la forma di rossi tentacoli viscidi i quali, strisciando sulle pietre, stavano per ghermirmi. Gridai per la paura, e rimbombò un tuono. Mi svegliai con il sudore che mi colava sulla faccia, mentre l'eco del tuono ancora riverberava nell'aria. Quando fui ben sveglio, mi accorsi che era l'imbrunire, e che la nebbia scura entrava attraverso la mia finestra, portando quel tanfo vago e mefitico che conoscevo fin troppo bene, ma mescolato con l'odore della polvere da sparo. Rimasi per un po' incerto, ma non a lungo, perché in quel momento una vampata rossa illuminò le ombre del cortile, si sentì lo scoppio della colubrina vicino all'entrata del castello, e il fumo, mescolato alla nebbia, ondeggiò sulla rocca assumendo strane forme. Assai perplesso, mi misi addosso il mantello e mi precipitai giù per le scale, e il caso volle che mi imbattessi in damigella Fanshawe, anche lei sorpresa e decisa ad andare a vedere. Tendendo una mano, mi afferrò per il mantello chiedendomi di che cosa si trattava, ma non lo sapevo finché, subito dopo, in mezzo alla nebbia si stagliò un'alta ombra che riconobbi per quella dello svedese. Alla mia domanda rispose in poche parole dicendo che i pescatori non erano tornati, e il conte sparava con il cannone per guidarli attraverso la nebbia. Lo lasciai andare e risalii sui bastioni con damigella Rosamund ad ascoltare; poco dopo, sentimmo un colpo di fucile, anche se molto lontano e attutito a causa della nebbia. Ero contento pensando che gli uomini stessero per tornare sani e salvi. In quel luogo solitario e terribile, infatti, anche il peggior ribaldo sembrava un amico: perlomeno aveva fattezze umane. Co-
sì ce ne restammo tremanti nella nebbia gelida, che aumentava di intensità; e alla fine arrivò un altro colpo, in qualche modo più vicino ma ancora molto distante, quindi due o tre colpi di seguito, e quindi il silenzio, e da ultimo un debole grido di voci - gemiti e urla - che tacquero all'improvviso, e nulla più. Di lì a poco, sentii la voce di mio cugino che ordinava agli uomini di disporre un braciere ardente su una delle torri, che fungesse da torcia per guidare verso casa la barca; ordinò anche di suonare la campana del maniero, ma per un'ora o due non ci fu risposta, finché la nebbia si diradò un poco, e la sentinella sulla torre del barbacane gridò di vedere la barca. Allora tutti si affollarono verso i merli del castello e con loro anch'io e damigella Rosamund. Senza dubbio l'annuncio era veritiero, perché vedemmo una macchia nera che lentamente emergeva dalle tenebre della notte muovendosi verso il molo. Il punto nero si fece più grande, ma non c'erano tracce di remi o di uomini. Alla fine la barca urtò pesantemente contro il molo, e gli uomini corsero con le fiaccole per vedere che cosa ne fosse stato dei loro compagni, e chiamandoli. Nessuno rispose, e la nera chiglia venne avanti finché la tremolante luce delle torce, illuminando l'interno della barca, mostrò che era per metà piena d'acqua, con striature di fango lucente, simile a sangue sotto la luce rossastra delle torce. Degli uomini, della loro attrezzatura, delle armi, del pesce o della selvaggina che avevano preso, non c'era traccia; soltanto su un lato dell'imbarcazione era piantata la lama spezzata di una sciabola, infissa profondamente nel legno come se a conficcarla lì fosse stato il fendente di un uomo impazzito dal terrore. La riconoscemmo per l'arma dell'uomo che era tornato indietro per andare a prendere la spada, che gli era servita a poco. Di altri segni che spiegassero la fine di quegli uomini non ce n'era nessuno. Capitolo IX DEL SACRIFICIO DELL'UCCELLO NERO Quando mio cugino ebbe visto la barca e il moncone di spada, unico segno rimasto degli uomini, parve impazzire e, urlando disperatamente, ordinò di preparare tutte le chiatte, intenzionato a vendicarsi su chi aveva commesso quella strage, uomo o diavolo che fosse. Ma nessuno si mosse per eseguire il suo ordine, e quando fu sul punto di montare su una barca, la Signora, trattenendolo per il mantello, gli sussurrò qualcosa. Egli allora
rinunciò al suo proposito, ed ella, girandosi verso Gulston, diede ordine a tutti di rientrare e di sbarrare le porte. Noi obbedimmo, e quando fummo rinchiusi dentro le grandi mura, in qualche modo il terrore diminuì. Gli uomini continuavano però a stare in gruppo e a mormorare, finché l'italiana parlò loro con dolcezza. «È una brutta storia» disse. «Senza dubbio gli uomini, impazziti per la paura o per l'alcol, si sono aggrediti l'un l'altro. I colpi che abbiamo sentito erano certamente quelli della rissa, e i sopravvissuti si sono gettati fuori dalla barca. Non pensi anche tu che sia andata così, Filippo?» A queste parole il conte annuì, ma non disse nulla. Lo svedese, però, credendo a quella storia, disse fra bestemmie e imprecazioni che sapeva della pazzia che prende gli uomini impegnati per lungo tempo in battaglia o travolti in un naufragio. Gli altri si sentirono così in qualche modo rincuorati; vennero raddoppiati i turni di guardia sulle mura, e noi tornammo ai nostri alloggi. Quanto a me, sdraiatomi sul letto così com'ero, con la spada a portata di mano, giacqui inquieto. Corsi a un certo momento alla finestra perché lo sciabordio dell'acqua era aumentato di intensità, sembrava il rumore del risucchio che avevo sentito quella mattina, ma poi per la vergogna rimasi immobile. Accadde inoltre che nell'ora prima dell'alba una delle sentinelle, sparando con il fucile, facesse correre la gran parte di noi alle mura e raccontasse poi la storia di una sagoma nera o di qualcosa che aveva visto agitarsi sopra la superficie del molo. Ma quando accendemmo le torce per andare a vedere, non c'era nulla; e così Gulston lo mise in prigione, promettendogli che l'indomani lo avrebbe punito. Non ci furono altri incidenti, sicché verso mattina mi appisolai e non mi svegliai finché il sole non fu alto. Guardando fuori, trovai una giornata bella e tranquilla; la nebbia indugiava solo negli avvallamenti delle colline in lontananza; sentii gli uomini che si muovevano, e uno di loro intonò una canzone. Quando scesi in cortile per la solita passeggiata, sembrava che tutto andasse avanti come sempre e che gli avvenimenti del giorno prima fossero stati un sogno orribile. Poco dopo, mentre camminavo, percepii dei lamenti che provenivano dalla sala vicina a quella del corpo di guardia, e pensai che si trattasse di uno dei feriti nel combattimento di Marsham. Così quando lo svedese venne avanti, pulendosi dalla barba la schiuma della birra appena bevuta, gli chiesi come stessero i feriti. «Uno si sta rimettendo» mi rispose «ma l'altro va male. La mano con cui impugnava la spada è stata tagliata dalla falce di quel furfante prima che
gli potessi sparare. Gli abbiamo fasciato il braccio, ma credo che morirà, perché non abbiamo chirurghi tra noi. Be', uno di meno per le nostre provviste e un giorno di vita in più per i nostri polli.» Mentre parlava, sentii un chiocciare e vidi avanzare nel cortile alcuni volatili che si trovavano nel castello, mentre la figlia del fabbro di Marsham, al servizio di damigella Rosamund, li chiamava dalla porta della torre e gettava loro briciole e pezzetti di cibo da un paniere che teneva sul braccio. Era davvero una visione piacevole e rassicurante guardare le galline che beccavano in mezzo alle pietre, mentre il gallo, loro signore e padrone, incedeva impettito al sole come un giovane zerbinotto nel suo abito da festa. Così pensava Gulston, perché sospirò un paio di volte e rise, quasi si vergognasse. «Perbacco! Mi sembra di essere a casa di mia madre a Uppsala, quando mi costruivo una spada di legno per guidare alla guerra i ragazzi del vicinato, mentre le domestiche distribuivano pezzetti di pane d'orzo alle galline. Era una bella casa, e davanti al caminetto era stesa la pelle del primo orso da me ucciso. Chissà se ci rimetterò mai piede sopra.» E, così dicendo, sospirò nuovamente, imprecò e se ne andò via con il lungo fodero della spada che gli dondolava contro le gambe, lasciandomi a spartire la signoria del cortile con le galline. Ma quando ebbi fatto un paio di giri, notai la Signora sulla porta che conduceva alla residenza del conte. Vedendomi solo, venne verso di me con passo aggraziato per porgermi il suo saluto e mi chiese che cosa stavo facendo; avendole io risposto che mi limitavo a guardare le galline beccare, mi chiese se ero capace di praticare la divinazione con i volatili come facevano gli antichi. «No» risposi ridendo «non so nulla della divinazione, e temo che potrei essere annoverato tra coloro che se ne fanno beffe insieme al console Claudio, che gettò i sacri volatili in mare, ordinando loro di bere, se non volevano mangiare.» «E così condusse le sue navi e se stesso a una miserabile fine» rispose lei. «Un monito per tutti coloro che disprezzano quest'arte.» Detto questo, si interruppe di colpo e gettò uno sguardo fervido in un angolo del cortile, dove, da parte mia, non vedevo nulla all'infuori di una piccola gallina nera che beccava fra le pietre, appartata dalle altre. Poco dopo, la Signora si girò verso di me, e i suoi occhi brillavano come se avesse trovato un tesoro. «Signor Uberto, vi ricordate che ieri abbiamo parlato dei poteri invisibili e delle arcane arti capaci di evocarli? O mi sbaglio?»
«È vero, ma io non ho mai tenuto in grande considerazione le arti magiche.» «Con tutta la vostra cultura siete davvero sciocco» mi rispose irritata. «Se non avrete paura, potrete vedere qualcosa fra breve.» E di nuovo guardò intensamente la gallina nera. Ma mentre mi domandavo cosa potesse trovarci in una gallina che beccava, l'uomo ferito riprese a lamentarsi e a invocare i suoi santi - un soldato che proveniva da un paese meridionale. Lei mi chiese chi era il malato, e io le raccontai quello che mi aveva detto lo svedese; e quando le descrissi il tipo della ferita, i suoi occhi si spalancarono di nuovo e si illuminarono. «Ah, povero!» disse, ma la voce era meno pietosa delle parole. «La mano destra quasi staccata dal corpo? Andrò a vederlo, e cercherò di alleviare le sue sofferenze con gli insegnamenti di medicina che mi impartì mio padre. Ma prima ditemi: chi si prende cura di queste galline?» Pensando che volesse prendere una gallina per farne del brodo da offrire al malato, le dissi che la domestica di damigella Rosamund badava al pollame - in quel momento la ragazza passò con un'altra cesta di croste di pane ma, vedendo gli occhi dell'italiana fissi su di sé, impallidì, fece una riverenza e se ne restò lì impalata. «Vieni qui, ragazza» disse la signora, e quella avanzò lentamente, a passi strascicati, come chi ha i ceppi ai piedi. «Come ti chiami?» E quando sentì che si chiamava Elisabeth, disse: «Bene, Elisabetta, vedi quella gallina nera? Prendila, vai nella mia camera e aspettami». A quelle parole la ragazza si ritrasse e cominciò a balbettare dicendo di essere la cameriera di damigella Rosamund, e di non avere il permesso di accettare altri incarichi; ma l'italiana tagliò corto. «Chi sei tu, e chi è la Signorina Rosamunda, per dire cosa deve e cosa non deve essere fatto? Fa' come ho detto, o assaggerai la frusta!» Sentire quella straniera parlare con tali accenti a una donna di campagna, libera, che forse non era inferiore a lei per nascita e sicuramente le era superiore quanto a virtù, mi sdegnò. Chiaro e tondo le dissi che la ragazza non era una schiava e che non tolleravo di sentire parlare in quel modo a una donna inglese. Ma la Signora si limitò a ridere, guardandomi con occhi sottili come fessure. «Ma certo» disse «ho dimenticato che questo è il paese della libertà, dove la padrona vale quanto la serva, e il comandante Cromwell è meglio del re. Non userò la violenza e non obbligherò nessuno. Guardami, Elisabetta, e vedrai che non intendo farti del male.»
La sua voce, seppur calma e dolce come il miele, pareva il sibilo di un serpente. La ragazza trovò il coraggio di guardarla in faccia ma, quando i loro occhi si incontrarono, cominciò a tremare e a contorcersi, quasi volesse fuggire via, ma fosse saldamente legata. Io guardai verso l'italiana: i suoi occhi verdi erano fissi, le labbra succhiavano come se strappasse la vita a qualcuno. Le due donne rimasero così per un po', finché la Signora, tendendo l'indice della mano sinistra, lo puntò sulla fronte della ragazza, che rabbrividì con un profondo sospiro. Senza proferire parola, la giovane si mosse lentamente, trascinando i piedi, prese la gallina nera ed entrò attraverso la grande porta. Volse uno sguardo all'italiana con aria afflitta quasi a invocare un atto di grazia che non le fu accordato, e quindi a me, che avrei voluto aiutarla, ma non sapevo come. «Ora andrò dentro a vedere se posso aiutare quel poveruomo» disse la Signora, continuando a sorridere, come se le sue intenzioni fossero diverse dalle sue parole; ma proprio in quel momento damigella Rosamund chiamò dalla scala della torre: «Bessie, Bessie!», e quando nessuno rispose, corse giù alla ricerca della sua cameriera e ci raggiunse. «Chiedo scusa a voi, Signora Bardi, e a te cugino mio» disse facendo un'ironica riverenza all'italiana. «Avete visto la mia cameriera Bessie?» «Per oggi Elisabetta serve a me» rispose la Signora; al che la faccia di damigella Fanshawe arrossì, e lei batté un piede per terra. «Perché?» chiese. «Se non sbaglio, la ragazza è incaricata di servire me. Senza dubbio, se avete bisogno di una donna, c'è la ragazza della locanda, adatta a servirvi, anzi adattissima, visto che ama accompagnarsi con i soldati.» In quel momento ebbi paura di quello che l'italiana avrebbe detto o fatto, sapendo dell'odio esistente tra le due. Ma lei si limitò a sorridere e agitare la mano al suo modo di forestiera, come per scacciar via qualcosa di troppo insignificante perché lei ci facesse caso. «Non darò retta a parole insensate» disse «sapendo che quel pover'uomo ha bisogno di me. È sufficiente che la ragazza sia venuta di sua volontà; non avrà da lamentarsi, se sarà una cameriera fedele. Vuoi avere l'altra al suo posto?» Damigella Rosamund scosse la testa senza dire una parola, e la Signora ci lasciò per entrare nella stanza da dove sentivamo provenire i lamenti. Poco dopo, arrivò un soldato che entrò in casa e da lì uscì insieme a Pompey che portava una scatola, alcune fiale e un piatto pieno di tizzoni. Nel frattempo parlavamo del più e del meno, perché le finestre della camera
erano aperte. Ma quando Pompey entrò con il suo carico e le finestre vennero chiuse, cominciai a riferire a damigella Rosamund degli strani discorsi della Signora, mentre dalla camera dell'uomo malato si udì un terribile grido lacerante, quindi un mormorio in una lingua straniera, di nuovo grida e bestemmie spaventose, tanto che fummo costretti a tapparci le orecchie. Dopo breve tempo le urla si trasformarono in lamenti, quindi ci fu silenzio; e l'italiana uscì sorridendo, tenendo qualcosa avvolto in un fazzoletto, che lasciava cadere gocce rosse sulle pietre, e Pompey la seguiva con altre cose. Non ci degnò di uno sguardo, ma entrò in casa con il passo deciso di chi ha qualcosa da portare a termine. Non ci fu, però, difficile indovinare quello che era successo perché il soldato che era entrato tornò fuori, imprecando sottovoce e rispose alla mia domanda dicendo che la Signora, senza alcuna esitazione, aveva amputato la mano dell'uomo con maggior abilità che se fosse stato un chirurgo, gli aveva fasciato il braccio e lo aveva lasciato che dormiva dopo avergli dato qualche filtro segreto preso da una delle sue fiale. Detto ciò, si allontanò per i fatti suoi, e damigella Fanshawe commentò in tono eccitato: «Stanno succedendo cose strane. Una gallina nera, la mano di un uomo e un'assassina, non ho dubbi! Non puzza di stregoneria, cugino? Che cosa vuole fare alla mia povera Bessie?». Cercai di confortarla, dicendo che avrei parlato al conte affinché nulla di male fosse fatto alla ragazza; e così andammo sui bastioni per guardarci intorno. La marea era alta, e la maggior parte delle paludi era una distesa di acqua grigia, più scura nei canali e abbastanza tranquilla sotto un pallido sole. Ma c'era qualcosa fuori posto in quella tranquillità, un tempo animata dai pesci che saltavano nell'acqua e dalle strida degli uccelli marini in lotta per il cibo. Poco dopo, damigella Rosamund sbiancò in viso e si allontanò perché un odore putrido appestava l'aria; ed era, portato dalla brezza, il tanfo del Gorgo, che ormai conoscevo e temevo. Lei ridiscese dalle mura, e io continuai a camminare per un po', ma non notai nulla tranne, a buona distanza dal castello, un vorticoso sommovimento del mare che si allontanò e con esso l'odore, ma dopo circa un quarto d'ora si ripeterono i mulinelli sulla superficie dell'acqua e si risentì il tanfo, fino a scomparire di nuovo nella stessa direzione di prima. Il fenomeno si ripeté altre volte, poi la marea rifluì e non notai più nulla, e la giornata si consumò stancamente. All'ora di cena ci riunimmo tutti, tranne Gulston e, come avevo promesso, parlai al conte della giovane Elisabeth; e mio cugino, che non sapeva nulla della faccenda, chiese all'italiana che cosa voleva fare della ragazza, convinto che si trattasse di una lite tra donne e seccato, credo, che la Si-
gnora si arrogasse il diritto di dare ordini alla cameriera di una sua parente. Ma la Signora si limitò a sorridere con la solita perfidia e in tono dolce gli rispose che aveva bisogno della ragazza per una faccenda di arti strane, che non le avrebbe fatto del male e che la cosa sarebbe andata a vantaggio di noi tutti; anzi ci invitò ad andare noi stessi, quella notte, se ne avevamo il coraggio, a vedere ciò che si proponeva di fare. La faccenda era di grande importanza e non priva di pericoli né per lei né per gli altri. Mentre così parlava, noi restammo in silenzio, perché quella storia puzzava di stregoneria e di magia nera; anzi mio cugino, che per il suo rango aveva diritto di prendere la parola per primo, aggrottò le sopracciglia e restò seduto con un'espressione cupa, come accade agli uomini violenti davanti a un pericolo che non comprendono. Ma damigella Rosamund, che mostrava sempre un grande coraggio, vedendo che il conte non proferiva parola, si sporse verso di me, attraverso la tavola, e parlò con fervore. «Ho capito in parte la natura di quello che accadrà questa notte» disse. «Non sarà scevro da pericoli per la nostra anima e per il nostro corpo. Ma la ragazza è stata affidata a me: come potrei tirarmi indietro? Signora, ci sarò.» L'italiana non parlò, ma sorrise come sorride un uomo davanti al coraggio dell'avversario. Invero, se anche era una donna diabolica, sapeva apprezzare al pari di un uomo il coraggio e la cultura altrui, non importa di chi fossero. Vedendo questo, non potevo tirarmi indietro, se non altro per non dovermi vergognare, e il conte, scuotendosi dal suo malumore, svuotò un intero bicchiere e affermò solennemente che sarebbe stato con noi. «Noi quattro e la ragazza» disse «e magari il diavolo per arrivare alla mezza dozzina... oppure invitiamo Gulston?» L'uomo entrò nel momento in cui il conte faceva il suo nome, e si sedette al solito posto, con un'aria alquanto turbata. Non volle spiegare la causa del suo ritardo se non dopo avere mangiato e bevuto; allora, spingendo da parte il piatto e guardando in faccia il conte, disse: «È morto. L'ho visto morire e ho sentito la sua confessione, perché nel delirio mi aveva scambiato per un prete. Una vita tremenda, con una dozzina di omicidi, per non parlare di azioni peggiori». «Un assassino, e peggio?» disse la Signora. «Ah, povero!» Ma i suoi occhi brillavano stranamente come per un segreto compiacimento. «Andrò a dormire» disse lo svedese. «Non ho intenzione di assistere ad altre esequie né di giorno né di notte. Credo, Signora, che la vostra chirurgia sia servita a poco.»
«Ho fatto quello che potevo» gli rispose, con gli occhi chini in segno di dolore. «Mi rattrista di non averlo potuto salvare.» Bofonchiando per tutta risposta, lo svedese uscì in fretta e furia dalla sala; e come se ne fu andato, mio cugino le rivolse con lo sguardo la domanda muta: "Devo portarlo questa notte?", e lei scosse la testa. «È un buon soldato» disse lei sdegnosamente «ma ha la testa dura come il cuoio del fodero della sua spada. Signorina Rosamunda e Signor Uberto, vi manderò a chiamare.» Tornammo alle nostre camere, e io mi misi a guardare dalla finestra, per paura di quello che mi sarebbe potuto succedere durante il sonno. Inoltre, un paio di volte, l'odore del fango si fece acuto, e lo strano risucchio, più forte del ritmico sciabordio delle onde contro le mura, mi indusse a scrutare l'oscurità della notte nera e senza luna. Non vidi nulla però; poi, all'incirca mezz'ora prima di mezzanotte, Pompey venne da me e io, presa la spada, uscii. Ma, volgendomi indietro, vidi la piccola Bibbia in greco, che portavo sempre con me in viaggio, e me la infilai in tasca senza pensarci tanto. Sulla scala c'era damigella Rosamund, avvolta in un mantello con cappuccio; insieme seguimmo Pompey fino alla porta della dimora di mio cugino, quindi su per una scala, dove non ero mai salito prima, giungemmo davanti a una porta. Il domestico bussò e subito sgusciò via pieno di paura, senza aspettare che ci fosse aperto. La camera nella quale entrammo era ampia e ricoperta di pannelli di quercia scuriti dal tempo. Il pavimento di quercia era lucidato, ma non c'erano né tappeti né arazzi, né poltrone né mobili, tranne un tavolino di ottone che curiosamente assomigliava a un tripode in forma di serpenti intrecciati, in parte ricoperto da un drappo nero. Sopra ardevano due candele. Sul pavimento c'erano quattro cerchi tracciati con gesso rosso o qualcosa del genere. Uno dei cerchi era più grande degli altri, e in ciascuno c'era la figura chiamata "Sigillo di Salomone"; nella debole luce i caratteri scritti all'interno sembravano in arabo o in altra lingua orientale. Benché sapessi che quello era il normale equipaggiamento dei maghi, ne fui spaventato, pur cercando di non darlo a vedere, e ancora di più mi spaventò l'idea di quello che c'era sotto il velo nero dell'altare di ottone, poiché quel tavolino sembrava proprio un altare. Mio cugino era là in attesa, ma non parlò; non disse una sola parola prima che comparisse la Signora, vestita in modo bizzarro con un lungo abito nero, i capelli sciolti e una corona di foglie sulla testa che la facevano assomigliare a una sibilla dei tempi antichi. «Voi che siete qui» disse «ascoltate! Mettetevi, ciascuno, entro uno di
questi cerchi, e non uscitene se avete cara la vita, qualsiasi cosa vediate o sentiate finché non ve lo dirò io.» E quando ci fummo messi all'interno del simbolo salomonico, ella chiamò: «Elisabetta, vieni da me». A quel comando la ragazza avanzò venendo da una camera interna, vestita con un abito nero di strana foggia, a piedi nudi e con i capelli sciolti, gli occhi fissi come se non vedesse nulla. La Signora la condusse nel cerchio più grande davanti al tavolino. Fatto questo, l'italiana spalancò la finestra, e nell'aria si diffuse l'odore del Gorgo, portato da una leggera brezza; le fiamme delle candele guizzarono. «Ah» disse la signora «eccolo, eccolo, ma possiamo ancora sfuggirgli...» Si avvicinò al tavolo di ottone e tolse il velo: lì era appoggiata, vidi guardando di sottecchi, la mano recisa del soldato morto, lunga, scarna, stranamente scura, con una peluria bruna sul dorso rivolto verso l'alto. Vicino alle dita della mano pose una candela che aveva tenuto vicino al petto, e sul pavimento tra la ragazza e il tripode, un braciere acceso. In piedi nel grande cerchio insieme alla ragazza, la donna gettò sui carboni due manciate di qualcosa simile all'incenso, che divampò con una fiammata fra le volute di un fumo verde e denso e mi fece battere le palpebre e lacrimare gli occhi; la testa mi girava quasi fossi ubriaco di vino. Non so se quello che credo di avere visto dopo non sia stato in parte opera di quel diabolico incenso. «È giunta l'ora solenne del sacrificio» disse, e al suo ordine la ragazza gettò qualcosa di nero sul tavolo di ottone davanti alla mano, e vidi che si trattava della gallina nera scelta quella mattina. L'animale si agitò un poco, ma non emise un suono, e la Signora diede alla ragazza un grande coltello, anzi una spada corta a mezzaluna. In quell'attimo l'orologio della torre batté la mezzanotte e all'ultimo rintocco, l'italiana urlò: «Colpisci!». La giovane tagliò in due l'animale con un colpo solo; il sangue schizzò sul suo abito e sulla mano del morto, e sfrigolò nel braciere. Gettò via il coltello e, rientrata nel cerchio, ritta in piedi quasi fosse in trance, cominciò a cantare uno strano canto o nenia in una lingua che di volta in volta suonava al mio orecchio come ebraico, caldeo, latino, e ogni tanto ricordava la parlata barbara degli schiavi negri nelle piantagioni. Dopo che la ragazza ebbe cantato per un po', arrivò un soffio d'aria attraverso la finestra che spense le candele sul tavolino; non c'era più alcuna luce tranne le fiamme verdi del braciere, che la Signora continuava ad alimentare con l'incenso che prendeva da una scatola. Attizzato dal vento, il fuoco aumentò di vigore, illuminando l'intera stanza, e io guardai verso l'altare di ottone, dove giacevano le due metà della gallina uccisa e la mano dell'uomo morto.
Mentre fissavo, mi parve che la mano fosse diversa da come l'avevo vista: il colore era più scuro; le unghie si erano allungate ed erano a uncino come gli artigli di un uccello; la peluria sul dorso, molto più folta e scura, sembrava quella che ricopre la mano di una scimmia. Prima la mano era distesa inerte, ora era piegata come se si appoggiasse al tavolo, ma non c'era nessun braccio a sostenerla. Poco dopo, nella luce incerta e tra le ombre, parve che qualcosa si muovesse come una treccia di capelli neri agitata dal vento, sempre più grande e nera, ma scompigliata e informe. Quando guardai di nuovo verso la mano, le dita serravano la strana candela, che si accese senza essere toccata dal fuoco, e bruciò con una fiamma verde. A questo punto, la treccia - tale sembrava - cominciò a contorcersi sopra il tavolo fino a celare il corpo dell'uccello, che non vedemmo più; ma un soffio di vento fece volare le piume qua e là nella stanza, simili a fiocchi di neve nera, e intorno si diffuse, mescolato con l'incenso, l'odore di bruciato. E a questo punto la Signora levò la voce per la prima volta in una strana maniera, come un canto, e posso ripetere le sue parole perché parlò in latino, anche se in quello piuttosto barbaro dei monaci, non in quello parlato dai romani. «Cibum potumque Ubi dedi» disse. «Ti ho dato da mangiare e da bere carne e sangue di una vittima nera. E tu cosa darai a me?» Quindi, forse a causa del turbamento delle mie facoltà sensoriali, forse a causa della ragazza che parlava in uno stato di trance, o forse proprio a causa della voce di un demonio, mi sembrò che un cicaleccio stridulo, simile a quello di una scimmia capace di parlare, le rispondesse dall'ombra che aveva l'aspetto di una treccia, dicendo: «Quid vis, domina? Che cosa desideri, signora?». E la fiamma verde della candela si chinò davanti a lei. Restò in silenzio per un po' prima di rispondere, mentre le luci verdi del braciere e della candela nella mano dell'uomo morto disegnavano un tremulo balenio. Sembrò a me e (come appresi) a damigella Rosamund che nell'ombra dell'Apparizione brillasse una luce verde incandescente come di occhi che si volgevano da una parte e dall'altra. Nel silenzio che regnava si percepivano lo scoppiettio delle fiammelle che danzavano nel braciere e, lontano nelle paludi, il mormorio della marea, mescolato con lo strano rumore di risucchio che avevo già sentito. Alla fine la Signora parlò in una lingua che non conoscevo, additando la finestra, e l'Apparizione si mosse un poco nella direzione da lei indicata, ma, per così dire, con riluttanza; e quando la Signora parlò di nuovo e allungò il braccio al di fuori del cerchio al cui interno si trovava, l'ombra si ingrandì, e la lunga treccia di capelli diede una sferzata quasi fosse una frusta, così vicina a me che sulla
guancia sentii il soffio dell'aria mossa, ed era un alito incandescente. La Signora si ritrasse in tempo, e l'Apparizione si avviò alla finestra, ma a metà strada tornò indietro, come ho visto fare alle belve feroci quando il domatore le costringe a fare un salto o un esercizio. Era delle dimensioni di un cane mastino, ma non sono in grado di dire che forma avesse, né come fossero le sue membra, tranne per la mano che teneva la candela. Notai soltanto che, mentre si muoveva avanti e indietro, scansava i cerchi dove eravamo noi, come un gatto che procede elegantemente fra le pozzanghere. Il terrore che avevo avuto per l'Apparizione era in qualche modo diminuito, perché vedevo che si muoveva con riluttanza e paura. Il silenzio durò un momento. La Signora infatti fece segno alla ragazza immobile, e con qualche artificio la indusse a recitare la formula magica che avrebbe dovuto (o almeno così mi sembrò) costringere il diavolo a eseguire i suoi ordini. Come la ragazza pronunciò certe strane parole sconosciute, l'Apparizione raggiunse la finestra, ma lì esitò; finché la Signora chiamò con un cenno la ragazza che, raccolto un bastone o una verga di cui non mi ero accorto, lo puntò verso la finestra, facendo il gesto di voler spingere la cosa. Di quello che successe in seguito non sono in grado di parlare se non in maniera confusa, perché mi pare il sogno morboso di un febbricitante, o la visione di un folle. Mi sembrò che, non appena la giovane uscì dall'anello disegnato sul pavimento e si avvicinò all'Apparizione, questa si gonfiasse fino a diventare una massa enorme e nera che nascose la finestra e cominciò a scuotersi e ruggire come una grande vela lacerata dalla tempesta. Si arrotolò intorno alla ragazza che, gridando una volta sola, cadde. Restammo tutti impietriti dal terrore. Soltanto damigella Rosamund, che finora aveva distolto lo sguardo da quella cosa diabolica, udendo il grido della ragazza, abbandonò il suo posto senza temere per sé e corse alla finestra, dove si contorcevano una tremula luce verde e qualcosa di nero. Nonostante la paura, intervenni ad aiutarla, tentando di sguainare la spada; e mentre cercavo l'elsa, la mia mano capitò sulla Bibbia che avevo in tasca, e la tirai fuori, convinto che fosse un'arma più adatta dell'acciaio per combattere il potere di Satana. Mentre mi lanciavo in avanti vidi la cosa nera e la sembianza di treccia ritrarsi, ondeggiare e indietreggiare davanti a damigella Rosamund, e in quel momento mi accorsi che la giovane cameriera giaceva priva di sensi. Quando fu alla finestra, l'Apparizione crebbe di nuovo fino a incombere sopra la nemica che non aveva paura, grazie alla forza della sua innocenza e purezza. Ma io, che avevo per lei più paura di quanta ne avesse lei stessa, pronunciai ad alta voce il nome di
Dio e, mosso da un'audacia che ignoravo di avere, lanciai il libro contro la cosa nera e il bagliore verde che sembrava un paio di occhi. Con una fiammata e un grande rumore - forse tali soltanto ai miei occhi e alle mie orecchie, forse reali, questo non so dirlo - il braciere si capovolse con violenza, e noi restammo nell'oscurità. Quando la Signora, con la pietra focaia e l'acciaio, accese le candele, c'erano soltanto Bessie che giaceva sul pavimento, la mano del morto e la mia piccola Bibbia. Ma quando ci avvicinammo per soccorrere la ragazza, scoprimmo che era morta, la faccia stranamente nera; sulla sua gola c'erano segni, come se fosse stata strangolata con corde sottili. Allora damigella Rosamund scoppiò in singhiozzi, e il conte, mio cugino, si commosse; ma la donna italiana si scagliò con veemenza e molte parole orribili in italiano che nessuno notò tranne me, contro quella sgualdrina che per la sua stupidità aveva perso la propria vita e la vita di tutti. Non capii quello che disse, ma in seguito ho letto nei libri di magia che nessuno può sfidare i poteri del male se non è puro, come si dice chiaramente nelle storie delle sante vergini, invano insidiate da draghi e diavoli; e di certo in damigella Rosamund c'era la forza dell'innocenza. A tutte queste cose al momento non pensai, ma ordinai alla Signora di smettere il suo linguaggio osceno contro una persona che era morta a causa delle sue stregonerie. Placatasi un po' la sua furia, ella smise di imprecare e rimase accigliata per qualche tempo. Poi, notando che damigella Rosamund, ancora in ginocchio accanto al corpo di Bessie, accennava a levarsi, le si avvicinò e l'afferrò per la manica con gesto concitato. «Signorina Rosamunda, non vorrete aiutarci nell'ora del bisogno e salvarci dalla condanna che grava su di noi? Gli spiriti vi temono, temono soltanto voi tra tutti. Vi insegnerò le parole che danno il potere, e forse servirà, perché non ho mai visto nessuno con tanto coraggio quanto ne avete voi.» In un primo momento damigella Rosamund non rispose ma, raccolta la mia Bibbia dal pavimento, se la mise davanti al petto prima di parlare. «Ho concesso troppo alle vostre arti venendo qui» disse in tono grave. «La colpa del sangue di questa fanciulla ricade in parte sulla mia anima. Se potessi salvare le vite di voi tutti sacrificando la mia, senza commettere peccato, lo farei di mia spontanea volontà. Ma non voglio avere altri contatti con il nemico dell'uomo. Che io subisca pure il giudizio di Dio, per quanto possa essere terribile, ma non voglio perdere l'anima in cambio di pochi giorni di vita terrena.» Così dicendo, aprì la porta e ci lasciò a fissarci l'un l'altro. L'italiana batté le mani con rabbia e si girò verso mio cugino che per tut-
to quel tempo non aveva detto una parola e non aveva fatto un movimento. «Filippo mio, ci lascerai morire tutti per l'orgoglio di una ragazza crudele? Sei tu il padrone; ordina e le farò dire la parola del potere, a costo di frustarla a sangue!» A quelle parole portai la mano all'elsa della spada; e non dubito che, se il conte avesse assentito all'ordine della Signora, sarebbero state le ultime parole della sua vita. Ma non dovevo temere nulla da lui, perché, pur nella sua disperata malvagità, conservava una scintilla di onore, e ancor più di orgoglio per la sua casata. Alzò la mano e parlò con una nobiltà che non avevo mai conosciuto in lui. «Senza dubbio» disse con parole di pesante disprezzo nel suo sfogo «il mondo è davvero alla rovescia se la figlia di un ciarlatano della feccia d'Italia parla di frustare una congiunta mia e di mia moglie morta. Va'» e qui la chiamò con una parola oscena in italiano, che non trascriverò «e prendi la tua carogna con te, prima che ti mandi a raggiungere i tuoi diavoli all'inferno!» A queste parole lei gli si gettò davanti, awinghiandoglisi alle ginocchia e invocando perdono, dicendo che a renderla disperata erano il grande amore per lui e l'ansia per la sua salvezza. Com'era sua abitudine, mio cugino non perdurò in quello stato d'animo, e poco dopo furono di nuovo amici. Quando andammo per sollevarlo, il corpo della ragazza era già annerito e decomposto, sicché non avremmo voluto toccarlo, ma incalzati dalla necessità, ci affrettammo, io e il conte, a gettarlo fuori dalla finestra. In quel momento la marea era al massimo e la corrente forte. Per un po' il corpo galleggiò sull'acqua scura, finché giunsero un alito del tanfo viscido, che ben conoscevo, e il suono di un risucchio e di un gorgo, finché non rimase segno della morta. Ce ne andammo di lì, ma prima la Signora gettò dalla finestra la mano dell'uomo, nera come un pezzo di carbone, l'altare di ottone e gli altri strumenti di stregoneria. «Ho chiuso per sempre con le arti arcane. Ormai la mia anima è perduta!» Capitolo X DEL MIO DUELLO CON IL CONTE E DELLA NOTTE CHE SEGUÌ Senza dubbio c'è del vero nel proverbio che dice che domani è un altro giorno, e saggezza nell'atteggiamento dei vecchi che si rifiutano di giudicare una questione finché non ci hanno dormito sopra. Il nuovo giorno, in-
fatti, spesso porta nuovo coraggio per sopportare, e poche brevi ore di sonno servono a spazzar via l'oscurità dall'anima e dalla mente. Il mattino che seguì quella notte di morte e magia nera era sereno e più luminoso di quanto non sia solito in autunno. Guardando dalla finestra l'alba che si faceva sempre più chiara, mi venne da pensare che come il togliersi gli abiti e il riposare levano dal cuore tanti dolori e pene, così lo spogliarsi della nostra carne consunta e logora e il cadere nel sonno chiamato morte forse conducono al risveglio in un nuovo giorno più radioso del precedente ma non molto diverso, anziché a una gloria o a tormenti troppo grandi rispetto alle nostre piccole azioni. Non ho mai smesso di trovare conforto in questo pensiero, benché non abbia mai incontrato nessun teologo di nessuna chiesa che lo considerasse altro che eresia; e così ho tenuto la mia fantasia per me e per un'altra persona che non mi considererà mai eretico. Quando distogliendo lo sguardo dall'alba lo volsi al cortile del castello, capii che si preparavano novità. I soldati, riuniti in gruppetti, parlavano infervorati tra loro; alcuni ridevano, altri apparivano imbronciati, tutti bestemmiavano. Nell'esercito del re, infatti, le bestemmie erano numerose quanto le citazioni dalle Sacre Scritture in quello di Cromwell, ma ciò avveniva per un'usanza dell'epoca, non già perché gli uni fossero cattivi e gli altri buoni. Un paio di uomini, dislocati sui bastioni, scrutavano ansiosamente in direzione della terraferma proteggendosi gli occhi con il palmo della mano leggermente piegato sulla fronte. Mentre continuavo a osservare, arrivò mio cugino: aveva in mano un cannocchiale, e tutti si scostarono per farlo salire a controllare che cosa ci fosse in vista. Mi vestii in fretta e scesi in cortile; il mio signore, distogliendo lo sguardo dalla terraferma, mi chiamò: «Vieni qui, cugino! Osserva i tuoi amici che stanno arrivando!» Quando fui vicino a lui sui bastioni, guardai verso terra, come avevo visto fare lui, ma non scorsi niente tranne le paludi. Allora gli chiesi dove pensava che si trovassero i miei amici. «Lassù tra le colline, ai limiti del campo visivo» disse lui ridendo. «Hai dimenticato gli occhi in mezzo ai tuoi libri, amico mio?» Volsi lo sguardo verso le colline, come mi aveva indicato, ma invano. Stavo per chiedergli di spiegarsi meglio, quando scorsi un sottile filo di fumo sulla cima della collina più lontana, e glielo dissi. «Sì, sono lì. Hanno acceso i fuochi per cucinarsi la colazione; una bella colazione abbondante sarò io a dargliela. È passato molto tempo da quando
vidi un fumo così sulle colline della Boemia, e capii che Piccolomini o Gallas era in cammino per venire a darci battaglia.» «Allora pensi che quel fuoco sia stato acceso dai soldati?» chiesi. «Se lo penso? Ma certo che è così. Credo che si tratti di truppe a cavallo, con l'ordine del comandante Cromwell di spaccare la testa a quelli che non vogliono combattere e impiccare quelli che si arrendono.» In quel momento qualcuno gli mise una mano sulla spalla, e vide la Signora. «Ah, dimenticavo Fiammetta» continuò. «Per lei non ci saranno il ferro o la corda, ma un altro sbuffo di quel fumo.» La donna sorrise senza benevolenza e strinse gli occhi. «Allora sono arrivate le truppe del parlamento?» chiese rivolgendosi a me. «Si vede il fumo dei fuochi sulle colline» risposi. «È probabile che siano stati accesi dai soldati del parlamento. Arriveranno a Marsham per mezzogiorno.» «E al castello di Deeping per il Giudizio universale» asserì il conte ridendo. «Peccato dover distruggere le loro barche! Mi sarebbe piaciuto trovarmi di fronte qualcuno con parvenza di uomo. Non so come faranno ad arrivare qui.» L'italiana scosse la testa con impazienza. «Che bisogno hanno loro di venire qui?» disse. «Che bisogno abbiamo noi di sapere se verranno o se ne andranno?» «Di sicuro» disse mio cugino «non avresti fatto questa domanda, se fossi stata al seguito del nostro accampamento attraverso mezza Germania e per tutta l'Inghilterra.» E, detto questo, si volse alle truppe, che guardavano verso di lui. «Uomini» disse alzando la voce perché tutti lo potessero sentire «quelle sono le truppe di Cromwell che arrivano per farci fuori tutti, se possono. Non c'è via di fuga, non c'è speranza di scamparla, se non combattendo. Se vi prometteranno salva la vita, manterranno la parola con il capestro. Preparate le armi, e se dobbiamo andare all'inferno, che ci vadano prima loro a scaldarci gli alloggi.» Così concluse il discorso, e i soldati in risposta proruppero in un alto grido e andarono a preparare armi e armature. Il conte tornò a volgere lo sguardo verso la terraferma; ma nel frattempo non c'era più il fumo, poiché gli uomini del parlamento si erano rimessi in marcia; allora ridiscese nel cortile, dove eravamo soltanto io e la Signora. Non aveva più aperto bocca, dopo che lui l'aveva rimbeccata, ma mentre mio cugino parlava ai soldati, mi era sembrato di sentirla borbottare in italiano: «È matto!». Ma a-
desso era tutta sorrisi, e prendendolo per un braccio gli disse: «Filippo mio, se devi combattere contro i soldati di Cromwell, è bene che tu sia pronto con le armi. Perché non prendi un'altra lezione dal Signor Uberto?». Queste sue parole irritarono mio cugino - e probabilmente era questa l'intenzione della donna - perché gli ricordavano che io ero uno spadaccino migliore di lui. Il conte scoppiò in una risata aspra e ordinò a Pompey di portare le spade e quant'altro occorreva, aggiungendo che un po' di scherma avrebbe aiutato a passare il tempo, anche se sarebbe stato di poca utilità nella battaglia. «Voi partigiani di Cromwell non siete leali nei duelli, cugino; prima che io indovini dove colpirvi, mi avrete già tagliato la testa.» Nel frattempo Pompey ci aveva portato le spade, io ne presi una e mi tolsi il mantello; ma quando il conte stava per fare lo stesso, la Signora gli si parò davanti e, prendendo la spada destinata a lui, si mise in posizione di guardia, dicendo: «Filippo, lascia che sia io a cominciare. Chissà se riuscirò a maneggiare un ago tanto lungo». Il conte rise invitandola a battersi. Per un po' andammo avanti con affondi e parate, e io non fui poco sorpreso dalla sua bravura. Sembrava che conoscesse tutti i trucchi che mi aveva insegnato il maestro italiano, e altri ancora, e un paio di volte quasi mi superò, tanto che fui costretto a respingere un attacco con la forza più che con l'arte. Ma si stancò presto o sembrò essersi stancata; i suoi movimenti diventarono più lenti e meno efficaci finché alla fine, affondando una stoccata contro di me, le scivolò il piede e per poco non cadde a terra in avanti. Il suo fioretto, infilzandosi tra due sassi, si spezzò di schianto. Allora gettò a terra l'impugnatura, ridendo della sua stessa sconfitta, e chiamò il conte perché continuasse al suo posto, ed egli, per nulla restio a voler dimostrare di essere più bravo, chiese un altro fioretto, ma Pompey, tremando di paura, gli disse che erano tutti rotti. A questo punto sarei stato felice di concludere l'incontro, ma l'italiana, di tutt'altro avviso, volle che mio cugino incrociasse il suo stocco con il mio fioretto. «Il Signor Uberto non ti farà del male, Filippo, e sono certa che tu non farai del male a lui.» A queste parole le sopracciglia del conte si corrugarono, e io, preso dal timore che la collera si impadronisse di lui, mi affrettai a rifiutare un incontro tanto strano, perché non intendevo rischiare la pelle in un duello del genere. Sebbene non credessi che il conte potesse ferirmi, temevo gli imprevisti dell'incontro: sapevo di uomini feriti gravemente perché gli si era spezzata la spada in mano. Ma il sangue del conte si era surriscaldato, e nulla lo avrebbe soddisfatto se non un duello a spade nude; e quando la Si-
gnora si dimostrò contraria, il conte raccolse il fioretto intatto (lo avevo gettato a terra), lo spezzò sul ginocchio e sguainò la spada, ordinandomi di fare lo stesso, se non volevo essere chiamato codardo. Poiché sembrava che non ci fosse via di uscita, estrassi la spada e mi misi in guardia, con la ferma risoluzione di non ferire mio cugino, e ancor meno di lasciare che lui ferisse me. E così cominciammo un pericoloso gioco. All'inizio il conte fu prudente e da parte mia preferii dare l'impressione di combattere invece di combattere davvero, perché quando attaccavo a fondo, mi ritraevo prima di colpirlo, e gli davo il tempo di mettersi in guardia; e lui faceva lo stesso. Ma, accalorato dallo scontro, spinto dal suo carattere e da un paio di parole di scherno della Signora, la sua scherma, ormai qualcosa di più che un gioco, si fece accanita, seppur non crudele, e dovetti darmi molto da fare per evitare un graffio o peggio. Tra un assalto e l'altro, lo mettevo in guardia dicendogli che avremmo fatto meglio a smettere, altrimenti uno dei due avrebbe rischiato di restare ferito. Probabilmente mi avrebbe ascoltato, se la Signora non avesse riso delle mie parole. A un certo punto prese ad assalirmi con impeto folle, tanto che dovetti fare ricorso a tutta la mia abilità per respingere il suo assalto, e a tutta la mia pazienza per trattenermi dal colpirlo. Era uno spadaccino abbastanza abile per capire che volutamente non infierivo su di lui, e questo lo mandò su tutte le furie. In un affondo lasciò la guardia scoperta e continuò a mettere a dura prova la mia sopportazione, finché non persi la pazienza, e dopo l'ultima parata, con un colpo veloce lo colpii sul braccio, così che una macchia rossa apparve sulla manica della sua camicia. La Signora rise di nuovo, e a quel punto mio cugino, o per il dolore del graffio (perché solo di un graffio si trattava) o per le risate di lei, parve preso dal demonio e si slanciò contro di me, sicché con rammarico mi trovai davanti all'alternativa di colpire o essere colpito. Alla fine, mancandogli il fiato, si fermò ansimando e digrignando i denti. La sosta mi servì anzitutto per prendere fiato io stesso, quindi scusarmi di averlo colpito, pensando di convincerlo a riprendere a combattere come all'inizio. «Cugino Philip» dissi «mi dispiace di averti colpito. Credimi: è stato per caso e senza intenzione da parte mia.» «E perché no?» gridò. «Perché non mi trafiggi, se ci riesci, e metti fine a tutto? Faresti un favore a Cromwell e chissà a quali altri diavoli scatenati; hai la tua damigella Rosamund con la sua faccia pallida, e quel furfante piagnucoloso di Pentry da vendicare. Io sono solo contro tutti voi, e ti or-
dino di accanirti nel combattimento. Che sia un duello all'ultimo sangue, se vuoi, e va' al diavolo!» Mentre lui parlava ansimando tra una parola e l'altra e appoggiandosi al muro, e io aspettavo, mi venne rapido il pensiero che davanti a me c'era un uomo perduto, disperato e desideroso di morire; un uomo per il quale non ci sarebbe stata pietà né in cielo né in terra né all'inferno, un uomo bandito da Dio, dagli altri uomini, dai diavoli. Non c'era più possibilità di salvezza per lui: che importava se a ucciderlo fossi stato io oppure un altro? Poco contava che a farlo fosse un soldato di Cromwell, un traditore fra i suoi uomini, o un mostro degli abissi; l'uccisore sarebbe stato uno strumento nelle mani di Dio, così come la spada lo era nella mia mano, e coloro che cercavano di aiutarlo sarebbero stati partecipi del suo destino. Riflettendo su queste cose, mi preparai ad affrontarlo, vedendo che prendeva l'arma e veniva verso di me con gli occhi scintillanti di odio e di follia. Ero così sicuro della stoccata segreta che mi ero guardato dal mostrargli, che mentalmente presi nota della piega della camicia sul petto, dove lo avrei trafitto dopo un paio di assalti. E poiché la maggior parte di noi è impregnata fino in fondo al cuore dello spirito di Caino, io mi accingevo a prendere alla lettera le sue parole, ma l'italiana, che ci osservava sorridendo, puntò una volta sola il suo sguardo nel mio e con l'indice teso verso il conte disse: «State in guardia, Signor Uberto!». Le parole erano innocue, ma nella sua voce qualcosa diceva: "Uccidilo!". Il dito puntato mi fece venire in mente il sogno terribile nel quale commettevo nella fantasia l'azione che stavo per commettere nella realtà, e mi ricordai che nella visione avevo colpito mio cugino al cuore, e il suo sangue si era trasformato in un nido di serpenti rossi che si attorcigliavano attorno a me. Su quell'istante si fissò la mia mente, ripromettendomi di non fare del male neppure se da quello ne fosse derivato del bene. La spada, che doveva salvaguardare la mia vita o schiacciare un nemico pubblico, non sarebbe diventata un'arma per gli intrighi della figlia del demonio. Così, quando mio cugino, ripreso fiato, tornò all'assalto, gettai la spada per terra e rimasi lì in piedi, dicendo: «Cugino, sono da biasimare per averti colpito e non ti farò altro male. Tu e io siamo gli ultimi della stirpe dei Deeping; non ti ucciderò, e se sarai tu a uccidere me, ucciderai un uomo disarmato». Per un istante pensai che mi avrebbe trafitto, e fui preso dall'orrore mentre tirava indietro la mano, ma si fermò con la punta contro il mio petto e rimase così, barcollante, perché la furia era ancora forte in lui. Non so quello che sarebbe successo, se lo svedese Gulston non fosse arrivato in
tutta fretta, dicendo che si erano visti gli uomini del parlamento cavalcare sulle colline in direzione di Marsham. Dopo che ebbe ripetuto queste cose una seconda volta, mio cugino, con l'aria di svegliarsi da un sogno nefasto, fece scorrere la mano sugli occhi ripetutamente, rabbrividendo; quindi, senza dirci una parola, salì sui bastioni, afferrando, mentre se ne andava, il mantello e il fodero della spada, e lasciando lo svedese a occhi sgranati. Cercai di scusarmi alla meglio con lui, dicendo che avevamo provato qualche colpo a spada nuda perché i fioretti erano rotti e che, avendo accidentalmente ferito il conte, avevo posto fine al combattimento. A questo punto presi anch'io il mantello e il fodero e salii nella mia camera, lasciando Gulston assai perplesso perché, seppur esperto negli stratagemmi della guerra, in altre faccende era piuttosto lento a capire. E forse sarebbe stato meglio per lui se fossi rimasto a chiarirgli le cose, ma ero stanco, privo di energie fisiche e mentali, e desideroso di restare solo. E non ci feci caso quando, gettando lo sguardo sul cortile dalla scala della torre, vidi lo svedese impegnato in un serrato colloquio con la Signora. Anzi, mi affrettai a mettermi fuori portata della sua vista e della sua voce, e mi fermai soltanto quando mi sedetti. In quel momento sentii il gelido soffio del vento che veniva dalla finestra e di tanto in tanto la zaffata fetida del Gorgo. Rimasi lì finché suonò la campana del pranzo e quindi andai negli alloggi del conte. Non accadde altro in quella giornata, ma la Signora era più gentile e cortese del solito, e lo svedese più imbronciato e silenzioso. Pur desiderando ardentemente parlare a damigella Rosamund, non la vidi fino all'ora di cena; ma quando ci alzammo da tavola al calar dell'oscurità, e mio cugino ci augurò con poche parole la buona notte e si ritirò nelle sue stanze, feci in modo di sussurrare a damigella Fanshawe che sarei sceso in cortile dopo il cambio della guardia. Non c'era nulla degno di nota, tranne che con l'oscurità e il flusso della marea l'odore del Gorgo era aumentato, e ci sarebbe stato insopportabile, se non ci fossimo abituati. L'arrivo del nemico a Marsham aveva spazzato via dalla mente dei soldati il ricordo del precedente terrore - nel loro cervello non c'era abbastanza spazio per più di una paura -, e se anche qualcuno non l'aveva dimenticato, faceva di tutto per farselo passare e volgere lo spirito alla nuova battaglia con i vecchi nemici, le truppe di Cromwell. Mio cugino, sebbene sapesse che non c'era da stare in guardia contro un nemico che non poteva raggiungerlo con facilità, era ansioso di predisporre le sentinelle e di piazzare i migliori tiratori alle colubrine del barbacane. Inoltre fu attento, come si addice a un comandante, a proteggere bene i punti delle mura dove un assalto si sarebbe potu-
to verificare più facilmente. Ora, non lontano dalla mia torre, il muro era un poco più basso che altrove, e il terreno acquitrinoso della palude era ammucchiato contro il terrapieno in un tumulo che a uno sguardo ozioso mi parve più alto di come l'avevo visto in precedenza. Su uno sperone del muro c'era un piccolo posto di guardia, con una stretta feritoia che guardava verso la palude, e qui erano state disposte due sentinelle per sparare su chiunque avesse cercato di scalare la rocca. Non appena la sentinella si allontanò per il suo giro di ispezione e furono disposte nuove guardie, scesi in silenzio la scala della torre, e non passò molto tempo prima che damigella Fanshawe mi raggiungesse venendo dalla porta del torrione. La notte era tranquilla e gelida, e la foschia era risalita dalle paludi. Non si udiva alcun suono, tranne lo sciabordio della marea e l'eco dei passi delle sentinelle, ma poco dopo mi sembrò di percepire il rumore del risucchio già notato altre volte, ma debole. Non si sentiva altro tranne i due uomini nel piccolo posto di guardia, che intonavano una rozza canzone militare. Mentre camminavamo nella foschia, raccontai a damigella Fanshawe quello che era accaduto durante la mattina, ma in tono esitante. Non ero, infatti, certo, dentro di me, che lei non mi considerasse debole per aver risparmiato mio cugino, mentre sarebbe bastato un colpo di spada per salvare tutti noi dall'assedio, dalla fame e chissà da quale altro terribile destino. Ma avrei potuto risparmiarmi quelle paure; perché quando le ebbi raccontato tutto fra pause di esitazione, lei rimase a guardarmi per un po' e quindi disse con sincero trasporto: «Hai agito bene, cugino; meglio di come avrei fatto io se mi fossi trovata al tuo posto». La qual cosa io non volevo in alcun modo ammettere, ma ella proseguì: «Molte volte avrebbe meritato di morire, ma non sarai tu il boia, neppure per salvare tutti noi». «Se avessi riflettuto di più sul pericolo che corri tu» dissi, perché non volevo che mi giudicasse migliore di come ero in realtà «forse lo avrei ucciso. Temo che siano stati l'orgoglio e il legame di sangue a trattenermi dal vendicare gli innocenti. La vergogna per averlo risparmiato è di poco inferiore a quella che avrei provato se lo avessi ucciso.» «Prova pure vergogna, se vuoi, cugino» disse lei con un singhiozzo che le si strozzò in gola e che era a metà tra il riso e il lamento «ma io sono orgogliosa di te.» Sentendola dire così, fui più felice di quanto avrei mai pensato che potessero rendermi le parole. Le presi la mano, che era fredda in quella foschia umida, e l'avrei baciata, se un soffio di vento non fosse arrivato sulle
nostre facce. Ella mandò un debole grido e si ritrasse, strappando - ma, credo, senza volerlo - la sua mano dalla mia. Il vento era greve dell'odore pestilenziale della melma, che per poco non fece svenire lei e soffocò me. Dovevano aver percepito lo stesso odore anche gli uomini che si trovavano nella stanzetta della guardia, perché sentii uno che gridava al compagno: «Passami la borraccia, Tom, o quel dannato odore mi avvelenerà». Bevve rumorosamente e, schiarendosi la gola con un grande colpo di tosse, riattaccò un'altra volta con la sua canzone: «Cromwell impiccheremo E la sua zucca pender vedremo. Ecco i segugi della sua scorta, Penzolar a tre a tre, Quando Carlo la sua corte riporta. Urrà a te, nostro buon re!» E l'altro unì la sua voce al ritornello, greve del presentimento di non vedere quella fine. Mentre cantavano, infatti, avevo colto il suono del risucchio già sentito in precedenza, ma ora più forte fino a sembrare il suono vorticoso di un gorgo, e guardando verso il muro, proprio vicino al piccolo posto di guardia, non vidi più fra i merli del bastione la bianca luminescenza della foschia, ma era tutto nero e gonfio in una massa che cresceva sempre di più. A quel punto uno degli uomini, smettendo di cantare, mandò un grande urlo di paura; l'altro, così mi sembrò, continuò a cantare ancora una nota o due, ma poi il canto si tramutò improvvisamente in un orribile urlo strozzato, mescolato a stridori e a uno schianto come di roccia ridotta in frammenti in una miniera. Per un momento rimasi paralizzato dall'orrore di quei rumori; ma subito dopo prevalse il coraggio virile, e lasciando damigella Rosamund che voleva trattenermi, estrassi la spada e salii sui bastioni. Strada facendo, incontrai alcuni soldati che arrivavano di corsa dai loro alloggi, con Gulston che correndo si infilava il mantello e teneva il pugnale tra i denti. Ma prima che potessi raggiungere la porta del posto di guardia, le grida si erano spente. Si sentivano soltanto un mormorio e un suono di risa, che mi spaventarono ancora di più. Mi affrettai ad aprire la porta del bugigattolo, dove ancora ardevano, attaccate alla parete, le torce che i due uomini avevano portato con sé. Per poco non caddi quando entrai. Il pavimento era ricoperto di fango e contro un angolo del muro se ne stava addossato uno degli uomini che can-
tava sottovoce fra sé e mormorava come un demente. Non si vedeva altro; del suo compagno non c'era traccia tranne il fucile e la spada sul pavimento in pietra. La feritoia nel muro, sbrecciata e dentellata ai bordi, era schizzata di fango. Restai a fissare il suo compagno, che mi guardava, rideva e bisbigliava, giocherellando con le dita come un bambinetto. Dopo di me entrarono gli altri, che tuttavia restarono ammucchiati sulla soglia con occhi roteanti nella luce rossa e fioca delle torce. Solo lo svedese, scansando tutti, afferrò l'uomo per le spalle, scuotendolo e ordinandogli di dire dove era andato il suo compagno. Ma quello continuò a torcersi le dita ridacchiando; da ultimo, con una specie di cantilena chiocciò: «La testa di Tom è una mela marcia! La testa di Tom è una mela marcia!». E rise di nuovo. Non disse una sola parola che avesse senso, benché Gulston gli appioppasse uno schiaffone sulla guancia, ma parve che quello non sentisse niente, perché non smise di ridere e di torcersi le mani. Lo portammo via da lì e lo mettemmo sul suo letto, dove giacque ridendo e cantando in preda alla follia fino al canto del gallo, quando ebbe un brivido e morì, senza dire una parola su quello che aveva visto. Capitolo XI DELLA DISPUTA TRA IL CONTE E LO SVEDESE E DI COME ANDÒ A FINIRE Mentre portavamo l'uomo impazzito nei suoi alloggi, arrivò il conte dalla porta del salone, con indosso una veste da camera guarnita di pelliccia e la spada sguainata in pugno. Quando sentì quello che avevo da dirgli, salì fino al piccolo posto di guardia, e da lì sui bastioni, e io lo seguii. Non c'era nulla che non avessi già notato: il fango, la bianca foschia sospesa sull'acqua scura e un silenzio di morte. Non sapevo che cosa pensasse mio cugino e probabilmente non lo sapeva neppure lui, perché il suo volto aveva un'espressione disperata. Rimase a lungo vicino alle mura, finché, protendendo le braccia verso il mare, gridò come se si rivolgesse a un nemico: «Prendi me, allora, se così vuoi!». Ma non c'era nessuno a rispondergli, e non giunse alcun suono tranne il rumore della marea contro le rocce. Girandosi verso di me con l'aria di chi è stanco oltre ogni sopportazione, mi parlò in modo strano. «Cugino, perché non mi hai ucciso questa mattina? Stavi per farlo; sarebbe stato meglio per te e non peggio per me.»
Non sapevo come rispondergli, perché non volevo parlare dell'italiana, in parte perché ero riluttante ad accusarla senza solide prove, ma soprattutto perché conoscevo il suo potere su di lui, e avevo paura che potesse incitarlo a uno scontro peggiore con me. Mi limitai a dire che mi ero lasciato trascinare dalla foga e avevo fatto male a ferirlo; tuttavia mi ero reso conto di ciò che facevo prima che succedesse di peggio e gli avevo chiesto perdono. «Sta scritto» dissi «"Non lasciate che il sole tramonti sulla vostra collera", e benché sia troppo tardi per obbedire a queste parole, non lasciamo almeno che il sole sorga sulla nostra ira.» «Sei sempre il solito puritano» mi rispose, ridendo senza allegria ma non con astio. «Sei migliore dei santi di Cromwell che ora sono a Marsham, pronti a colpire anche chi è disarmato per la gloria di Dio. Se Dio si compiace di quei furfanti, preferisco servire il diavolo.» Gli risposi che, a mio avviso, il Signore non avrebbe mai potuto compiacersi della violenza degli uomini, anche se a volte poteva perseguire il suo scopo con quel mezzo, e sperando che, trovandosi lui in quello stato d'animo, forse sarei riuscito a convincerlo a pentirsi (il suo genio malvagio non gli era al fianco in quel momento), aggiunsi che avevamo più motivo di dubitare dei nostri comportamenti che della bontà di Dio, e che avremmo capito più chiaramente la sua volontà se fossimo diventati migliori anche di poco. «Così come ora vediamo le stelle» conclusi «che hanno continuato sempre a splendere, benché noi non le vedessimo a causa della nebbia.» In quel momento una folata di vento dal mare cacciò la foschia dalla palude, e la notte apparve bella e tranquilla, con le piccole luci delle stelle che danzavano sulla distesa increspata dell'acqua. Pensai di averlo commosso, ma lui non ne diede segno e, distogliendo lo sguardo dalla notte, disse: «Bene, la marea sta rifluendo rapidamente, e nessuno può avvicinarsi a noi nel raggio di un miglio senza essere visto. Perciò a dormire, cugino!». Si allontanò a grandi passi, ordinando alle sentinelle nelle torri di stare all'erta. Nessuno si sarebbe potuto avvicinare al posto di guardia, che ancora puzzava di quei miasmi di morte. Dopo aver percorso su e giù il cortile un paio di volte, non sentendo nulla tranne il richiamo delle sentinelle, mi avvicinai agli alloggi delle truppe e mi giunsero i borbottii dell'uomo impazzito (morì all'alba, come ho detto) e rientrai nella mia camera con l'animo abbattuto. Ne avevo viste di tutti i colori, come si suol dire scherzosamente, e se non fosse stato per il pensiero di damigella Rosamund (un pensiero che spesso mi accompagnava), avrei concluso che il mondo è un luogo turpe e ostile e non sarei riu-
scito ad amare la vita più di come ci riuscisse mio cugino. Il mattino dopo, al risveglio da un sonno breve e tormentato, notai che, a causa della nebbia, la finestra sembrava un buco vuoto. Pensai allora al pericolo che gravava su di noi più che alla speranza di conversare con una persona che correva lo stesso pericolo. Se anche in quel momento la nebbia non portava il solito odore putrido, pareva tuttavia una coltre sotto la quale si nascondeva chissà quale nemico pronto ad assalirci. Non avendo nulla da fare, scesi in cortile e mi misi a camminare come mia abitudine. Non notai nulla tranne le ombre degli uomini che passavano, e quando fermai uno di loro per chiedergli dell'uomo impazzito, mi fu detto che era morto: la cosa mi fece poca impressione. Continuai a camminare, finché la nebbia si alzò un poco, e scorsi il conte che si avvicinava. «Cosa ne dici, cugino Hubert? Riprendiamo il duello?» Al che risposi che non c'erano i fioretti, altrimenti lo avrei fatto volentieri. «Allora» disse sorridendo «prendiamo le spade, ma lasciamole inguainate. Non è giornata per uccidere.» Poiché non avevo nulla contro il suo desiderio, legai il fodero all'elsa perché non potesse scivolare, e lui fece lo stesso. Incrociammo le spade per un po', ma senza impegnarci finché, pensando di farlo contento e anche di allontanare da me la tentazione che avevo avuto, gli chiesi se desiderava che gli mostrassi un nuovo trucco nell'uso della spada. Quando fu pronto, gli insegnai la stoccata che avevo avuto in mente di usare contro di lui, e la difesa contro quel colpo; e dal momento che era esperto nell'arma e veloce nell'osservare, non ci volle molto perché imparasse la mossa bene quasi quanto me. Gli spiegai come prepararsi per quel colpo con un'astuta finta che avrebbe indotto l'avversario, se questi non avesse conosciuto il senso di quel trucco, ad abbassare troppo la mano lasciando la guardia scoperta. Mentre gli facevo questa dimostrazione, la nebbia, ancora fitta su di noi, impediva che qualcuno potesse vedere quello che stavamo facendo; ma poco dopo il vento si rinfrescò e i vapori si diradarono finché il cortile fu illuminato dalla pallida luce del sole. La Signora ci stava guardando dalla porta d'ingresso con Gulston al suo fianco. Mi fermai per augurare loro il buon giorno; la donna annuì con la testa, e lo svedese venne verso di noi con un'aria disinvolta e un'andatura spavalda che non mi parve adatta a lui. «Quest'oggi prendete lezione a spada inguainata, mio signore?» disse, sogghignando nella barba bionda. «Saggia decisione da parte vostra.» A queste parole mio cugino corrugò le sopracciglia e strinse le labbra perché le parole dell'uomo non erano niente in confronto all'insolenza che
c'era nella voce, cosa che mi sorprese. Ma ancora di più mi sorprese la freddezza con cui il conte accolse quelle parole. «Proprio così» rispose il conte, sorridendo allo svedese. «Non commetto sciocchezze per due giorni di fila.» E così dicendo slegò il fazzoletto che aveva messo all'elsa e si rimise la spada al fianco; io stavo per fare lo stesso quando Gulston mi fermò. «Non volete concedermi neanche una briciola del vostro sapere?» disse mostrando nel sorriso una franchezza militaresca. «Non vi abbiamo visto bene con questa maledetta nebbia, ma mi pare che abbiate insegnato al conte un trucco di scherma davvero interessante. Non avreste la bontà di mostrarmelo un'altra volta?» Mentre parlava, lanciò uno sguardo obliquo verso la Signora, che glielo ricambiò. Ero perplesso, convinto che ci fosse un secondo fine dietro alla sua richiesta, e guardai verso mio cugino per avere spiegazioni. Ma lui, ridendo, mi rispose: «Su, Hubert, mostragli il colpo, mostraglielo!». E arretrò di due passi per guardarci. Non potevo indugiare oltre, benché intuissi che c'era sotto qualche sottile intrigo dell'italiana; così mostrai a Gulston la stoccata che mi era stata insegnata, e mi sembrò più bravo di mio cugino nell'apprenderla, sebbene anche il conte avesse dimostrato grandi capacità. «Perbacco, Eric!» gridò questi. «Sei uno spadaccino migliore di quel che pensassi. Non riuscirei a padroneggiare questi stratagemmi italiani neppure dopo una settimana. Ma sono solo un ottuso inglese, come può testimoniare la gentildonna qui accanto. Dacci sotto di nuovo, Gulston!» E a queste parole lo svedese fece una mossa così abile con la sua spada inguainata che arrivai in ritardo a pararla, e venni toccato duramente sul petto mentre il conte e la Signora battevano le mani. A questo punto smisi, dicendo a Gulston che non gli avrei insegnato più nulla, fingendo di essere stato offeso nella mia vanità; inoltre decisi di non mostrargli come parare il colpo, sebbene non sapessi quale danno avrei potuto subirne. Così, dopo che mio cugino ebbe fatto un paio di battute sulla mia sconfitta, e lo stesso ebbe fatto la Signora, ma in maniera più subdola, e io ebbi risposto come meglio potevo (non ero mai pronto a rispondere), restammo a parlare del più e del meno, finché non giunse un soldato dagli alloggi della truppa chiedendo che cosa si doveva fare dell'uomo che era impazzito durante la notte e che adesso era morto. «Ebbene, Gulston» disse il conte «raduna alcuni uomini su una barca: andate a seppellirlo e rendete al poveretto le onoranze che gli spettano. Prendine un paio e finisci prima di cena.»
A queste parole la faccia dello svedese diventò rossa sotto il colore scuro dovuto al sole e al vento; si tirò i baffi nel suo solito modo e restò lì in piedi per un po' prima di rispondere. Allora il mio signore parlò di nuovo con più durezza. «Hai capito? Non è una cosa strana per dei soldati in guerra.» «Certo, ma è una cosa strana qui» rispose lo svedese, decidendosi infine a parlare. «Il signor Leyton qui presente può essermi testimone che, quando seppellimmo gli uomini assassinati a Marsham, siamo quasi stati inghiottiti dalle sabbie mobili o da altra cosa che io non conosco, ma forse voi sì. Allora giurai, e lui mi sentì bene, che non avrei partecipato ad altre sepolture.» Pensavo che mio cugino si sarebbe lasciato andare a un'esplosione di collera; non era infatti solo una questione di aperta disobbedienza: l'atteggiamento dello svedese era più insolente delle sue parole. Ma anche se il conte, come spesso accadeva, era posseduto dal diavolo, quello era il giorno della collera gelida, oppure il suo orgoglio, che era grande, non gli permise di mostrarsi turbato. «Bene» disse ai soldati lì vicino (alcuni altri si erano accostati mentre parlava) «se il vostro alfiere non ha paura di prendersi un raffreddore, sarai tu a seppellire il tuo compagno, e tu, e tu...» E chiamò alcuni di loro per nome. Ma tutti si fecero indietro, divisi tra la paura che avevano del conte e la paura ancora più grande che avevano del pericolo in agguato nelle paludi. Non potevo biasimarli, pensando a quello che avevo visto. «È mio costume» disse mio cugino «non mandare mai nessuno a compiere un'impresa di cui abbia paura io stesso. Cugino, vuoi venire?» L'italiana era rimasta in silenzio mentre Gulston affrontava l'ira del suo comandante, e si era limitata a lanciare uno sguardo socchiudendo gli occhi; ma ora intervenne, consigliando il conte e me di non andare, perché sarebbe stato senza dubbio un rischio per entrambi. A quelle parole, come avrei ben potuto aspettarmi, mio cugino si intestardì ancora di più nel suo proposito e io, per non dovermi poi vergognare, non potevo lasciare che si avventurasse da solo. Così ordinò agli uomini che preparassero il corpo per la sepoltura e lo portassero al porticciolo insieme a un paio di vanghe, cosa che fecero; misero tutto nella barca più piccola e rimasero a guardarci mentre vi prendevamo posto; vennero anche la Signora e Gulston senza che nessuno glielo avesse chiesto. Ma mentre stavamo per mollare gli ormeggi, prima uno e poi un altro dei soldati che erano anche servitori personali del conte salirono nella barca con noi, e mi tolsero di mano i remi mentre io prendevo posto a poppa. Vedendo questo, timoroso di fare la fi-
gura del codardo (come mi sembrò di capire), o forse indotto anche da uno sguardo della Signora, lo svedese bestemmiando entrò nella barca con noi. «Bene, affonda o nuota» disse con una risata storta. «Sono con voi in questa impresa.» E il conte, senza dire nulla, mollò gli ormeggi. Non pareva che avremmo corso pericoli durante quell'impresa, perché l'aria era tersa, il sole brillava sulla palude, la marea era scesa, e perfino le distese grigie erano meno desolate del solito. Mentre io ne ero più che mai turbato, perché sembrava che sotto lo splendore del giorno si nascondesse qualche insidia, gli uomini, rozzi e semplici di natura, non avevano paura, e se non fosse stato per il corpo che portavamo con noi, avrebbero anche riso, come loro abitudine. Mio cugino non pronunciò una sola parola, badando a tenere la rotta nell'ampia distesa di terreno acquitrinoso in prossimità della terraferma, piatto e grigio, privo di nascondigli nei quali potessero celarsi i nemici e senza canali che interrompessero la superficie uniforme; soltanto a una certa distanza si scorgeva una lunga ombra che segnava - così mi parve - il corso di un fossato o canale, simile a una increspatura attraverso la palude. Lo svedese sedeva con aria cupa giocherellando con l'elsa della spada ma senza proferire parola, finché la barca non arrivò al margine della distesa acquitrinosa. All'ordine del signore, i due soldati trasportarono il cadavere fino a un luogo in cui il terreno era piatto e duro e qui cominciarono a scavare una fossa. Noi tre, seduti, li guardavamo intenti alla fatica, sagome scure che si stagliavano contro la palude inondata di sole, segnata solo in lontananza dall'ombra del canale. Mi guardai attorno alcune volte e restai in ascolto ansiosamente, ma non c'erano gorghi nell'acqua e non si udiva neppure il solito rumore di risucchio; nulla di strano si vide, e alla fine gli uomini ci fecero segno di essere pronti. A un cenno di mio cugino ci alzammo, con Gulston dietro di noi, e lasciammo la barca a dondolare, legata con una corda a un paletto che avevamo piantato nel terreno. Arrivammo alla fossa appena scavata; di nuovo mi prestai a officiare, ma con maggiore partecipazione rispetto all'altra volta, perché il soldato che ci accingevamo a seppellire non era perito mentre compiva stragi o razzie, ma nell'adempimento del suo normale servizio giornaliero. Il parossismo di terrore che lo aveva privato della ragione e della vita poteva essere giudicato una punizione terribile e sufficiente per i suoi peccati, non importa quali fossero stati. Recitai le preghiere dei defunti; mio cugino e i suoi rimasero in piedi a capo scoperto in attesa, mentre lo svedese, a capo coperto, si teneva in disparte; quando ebbi terminato, i due uomini ricopri-
rono di sabbia e terra il corpo. Il sole continuava a splendere luminoso, l'aria era calma e immobile, non c'era un fremito di vita nelle paludi, pallide alla luce del sole, tranne che per le striature scure dei canali e, fra queste, la lunga ombra che avevo notato prima in direzione della terraferma e che mi parve (ma scartai quella fantasia insensata) più vicina di come ricordavo. Fatto tutto come andava fatto, mi aspettavo che mio cugino desse l'ordine di andare, e già gli uomini si erano messi le vanghe in spalla, quando il conte li fermò. «Lasciatele lì dove sono» disse. «Forse vi serviranno fra poco.» E mentre gli uomini lo fissavano a bocca aperta, e io mi domandavo che cosa significassero quelle parole (aveva parlato con calma, quasi avesse maturato un proposito), si avvicinò allo svedese, che se ne stava cupamente a qualche passo di distanza, e dandogli un colpetto sulla spalla disse: «Voglio dirti una parola, Eric Guldenstierna. Ti sei dimenticato di avere osato disubbidire a un ordine del tuo superiore poco fa? Cos'è questo se non ammutinamento?». E, così dicendo, tirò fuori una pistola che teneva sotto il mantello. Gulston sussultò e mise la mano sull'elsa della spada; ma quando il mio signore gli disse: «Una mossa e sei morto», ritirò la mano e restò fermo. «Se tu fossi stato un uomo del comandante Cromwell e non uno dei miei, saresti stato ammazzato a colpi di pistola nel cortile del castello, alla prima parola di ammutinamento. Ma noi stiamo dalla parte del re, ed essendo la nostra causa meno santa, siamo meno disposti ad ammazzare un uomo indifeso. E non vorrei neppure rischiare di imbrattare una gentile dama come la Signora con il tuo cervello, anche se probabilmente ha visto cose peggiori. Ma uno di noi due non tornerà a Deeping.» «E allora cosa farete adesso, mio signore?» chiese lo svedese in tono sarcastico. «Mi farete eliminare dal vostro degno cugino e dagli altri due uomini e così vi risparmierete la fatica di massacrarmi?» «Oh, no!» disse il conte con voce carezzevole. «Avrai una possibilità, anche se non te la meriti. Le nostre spade hanno la stessa lunghezza, e Hubert farà da arbitro, e sarà il prete di uno e il traghettatore dell'altro. Che ne dici, cugino?» Non intendevo acconsentire in nessun modo a quella proposta perché, sebbene ritenessi il duello migliore dell'assassinio, ora che ci trovavamo in pericolo mortale, ci saremmo dovuti unire per difenderci, non alzare le mani l'uno contro l'altro. Dissi qualcosa del genere, ma non riuscii a convincere mio cugino.
«Per essere uno studioso non sei un codardo» disse lui «ma sai poco della guerra, altrimenti capiresti che, nel pericolo, la clemenza per l'ammutinato equivale alla morte per l'uomo retto. A questo cane do la possibilità di salvarsi, oppure gli sparo qui su due piedi. Scegli tu.» «In questa faccenda non voglio avere niente a che fare» dissi. «Secondo me non dovresti né uccidere né venir ucciso.» «Allora rimani a guardare e tieni la coscienza al caldo. Se vince lui, lascialo andare libero senza vendicarti. Forza, signore, ci incamminiamo?» E mentre l'altro annuiva senza dire una parola, il conte depose la pistola, si tolse il mantello e la giacca e li lasciò vicino alla barca insieme al fodero della spada, e Gulston fece lo stesso, ed entrambi si avvicinarono al punto in cui era stato sepolto il soldato. «Qui o altrove non importa» sentii dire a mio cugino mentre raggiungevano una striscia di sabbia nuda davanti al tumulo che segnava la tomba. Gulston rispose impugnando la spada, facendo il saluto rituale e mettendosi in guardia. Le lame cozzarono l'una contro l'altra. Io non li avevo seguiti, e non lo avevano fatto neppure i due uomini, poiché non volevo entrare in quella controversia, e i soldati non osavano muoversi senza una parola del loro capo. Rimanemmo vicino alla barca, sul pendio dell'argine, e guardammo verso i due che si trovavano, all'incirca, a un centinaio di passi da noi, e si stagliavano neri contro il colore chiaro della palude; al di là c'era il nastro nero del canale che avevo notato e che sembrava avere lasciato chiazze d'acqua sul terreno perché la luce del sole faceva scintillare qualche pozzanghera qua e là. Ma nel giro di un paio di minuti non ebbi occhi che per i due impegnati in un duello mortale. In un primo momento, lo scontro non sembrava più accanito del duello fatto nel cortile del castello, perché entrambi si muovevano con cautela, e il cozzo e lo stridio dell'acciaio mentre i due attaccavano e paravano assomigliavano al battito di uno strano e grande orologio. Lo svedese era prudente, come sapevo essere sua abitudine; e mio cugino non gli era affatto da meno quanto a freddezza. Sembrava un incontro così equilibrato che, quando si fermarono per prendere fiato, sperai che la disputa potesse concludersi senza spargimento di sangue. Non appena ebbero ripreso fiato, ricominciarono un'altra volta, ma ora lo scontro era più accanito. Quando sentii Gulston bestemmiare, ne dedussi che il conte lo aveva ferito. Ma continuò a combattere con la stessa tenacia e, prevedendo che il duello sarebbe durato ancora per un bel po', io distolsi gli occhi dallo scintillio delle spade per un momento, cercando di riposare lo sguardo sulle acque scure
del canale che sembravano essersi allargate. Ne dedussi che la marea stesse calando. Quando tornai a osservare i duellanti, arrivò all'improvviso la conclusione. Vidi Gulston arretrare leggermente, e l'altro incalzarlo; poi girarono finché lo svedese non ci diede le spalle. Scorsi la sua lama che volteggiava nell'aria con un rapido movimento, e lui che affondava la stoccata che gli avevo insegnato quella mattina. Chiusi gli occhi per un attimo, temendo che mio cugino fosse morto; ma quando li riaprii, lo vidi in piedi con la sua figura nera contro la palude grigia. Gulston indietreggiò, si piegò su un fianco, cadde e lì giacque, mentre il suo uccisore, dopo averlo fissato per un po', si avvicinò lentamente a noi, con la spada sporca di sangue fino all'elsa. In verità, se uno doveva morire, ero contento che il combattimento avesse avuto quell'esito, ma mi turbava il pensiero che la vita di un uomo potesse venir spezzata in quel modo e finire con tanta leggerezza. Non dissi nulla al conte che si rimetteva la giacca, ma mentre ripuliva la spada e la infilava nel fodero, egli chiese: «Sei triste che quel cane sia morto da uomo. Che importa che sia toccato prima a lui che a me? Se tu gli avessi insegnato a parare così come gli hai insegnato la stoccata, ora ci sarebbe lui al mio posto. Be', speriamo di non finire peggio di Gulston. Adesso andiamo a rendergli le onoranze che possiamo». Gli uomini presero le vanghe e tornammo di nuovo nel luogo dove erano state scavate le tombe; lo svedese era caduto a pochi passi di distanza. Ma quando cercai il tumulo e il corpo, non vidi nulla tranne la distesa grigia della palude, e neppure un segno che lì c'era stato un essere umano. Pensando di essermi diretto da un'altra parte, scrutai la distesa grigia, ma ancora una volta non scorsi nulla tranne un luccichio nel terreno e colori simili a quelli dell'arcobaleno, come si vedono nelle pozzanghere quando sopra vi batte il sole. Il canale, o quello che ritenevo tale, era anch'esso sparito, come una macchia di gesso cancellata da una lavagna. Un colpo di vento soffiò verso di noi venendo dalla palude, ed era salmastro e putrido. Allora fui preso da una grande paura e, afferrando mio cugino per un braccio, gli urlai di fare ritorno verso casa; egli raccolse un mantello da terra, vi si avvolse e saltò sulla barca, e noi fummo presto con lui. Gli uomini remavano con forza, benché non ci fossero suoni o indizi di pericolo; e dopo non molto arrivammo al porticciolo. Mio cugino, seduto con il cappello abbassato sugli occhi e il mantello stretto attorno a sé, fu percorso da brividi un paio di volte, come se avesse freddo. Guardandolo (non avremmo potuto fare altro), notai che aveva scambiato il mantello dello svedese
con il proprio, facile errore visto che erano stati appoggiati l'uno accanto all'altro. Mentre ci avvicinavamo al porticciolo, mi sembrò di vedere una donna sul barbacane, che ci osservava, ma poco dopo notai che se ne era andata, e nessuno, tranne le sentinelle, ci venne incontro finché non entrammo nel cortile. Lì ci aspettavano altri uomini, che nulla chiesero ai due compagni, ma si ritrassero da loro. Davanti alla porta degli alloggi del conte c'era damigella Rosamund; i suoi occhi si illuminarono vedendomi e le sue labbra si mossero senza emettere alcun suono. Quindi venne l'italiana e con lei arrivò Pompey che portava una bottiglia e un calice. La donna guardò il mio signore, ancora avvolto nel mantello di Gulston e con il cappello abbassato sugli occhi; essendo i due della stessa altezza e corporatura, mio cugino pareva la controfigura dell'uomo che aveva ammazzato. La Signora non disse una parola, ma riempì il bicchiere di vino e restò in piedi, in attesa, con uno strano sorriso, finché il conte le si avvicinò e, gettando via il mantello, disse: «Guarda, Fiammetta! Non ti sei ancora liberata di me». Mentre egli così parlava, lei si mise a gridare e ad agitare le braccia, senza curarsi del bicchiere che teneva in mano e che finì in frantumi sulle pietre, e il vino rosso si infiltrò negli interstizi come fosse sangue. Vacillando come se stesse per svenire, fece segno a Pompey di soccorrerla; e questi, allungando le braccia verso di lei, lasciò che la bottiglia andasse a raggiungere il bicchiere. La donna però si riprese e, tendendo le braccia verso il conte, si mise a ridere e a singhiozzare quasi fosse uscita di senno, e così continuò finché lui la scosse e a passi pesanti entrò in casa; noi tornammo nei nostri alloggi. Poco dopo ci riunimmo, tutti insieme, a cena; facevamo finta di mangiare e dicevamo cose alle quali nessuno prestava attenzione. La sedia dello svedese era vuota, ma la Paura sedeva a tavola al suo posto. Capitolo XII DELLA POZZA D'ACQUA STRISCIANTE Della conversazione fatta a cena, come ho detto, non ho ricordi e so di non aver parlato molto. Sebbene ritenessi che nell'ultima disputa fosse stato mio cugino dalla parte della ragione e mi rallegrassi che il duello avesse avuto quell'esito, visto che lo scontro era stato inevitabile, la morte dello svedese mi addolorò più di quanto avrei immaginato che potesse dispiacermi la fine di un povero spadaccino. Eravamo un piccolo gruppo, stretto
da molti pericoli conosciuti e sconosciuti, prigioniero su una rocca che probabilmente si sarebbe rivelata costruita sulla sabbia. La fine, improvvisa o lenta che fosse, sembrava certa. Inoltre, da alcune parole scambiate dal conte con uno dei servitori, intuii che le nostre provviste erano agli sgoccioli. La cosa non mi sorprese, perché erano state scialate dissennatamente così come erano state ammassate rapidamente e illecitamente. Ricordavo che Gulston, quando era ancora fedele, ne aveva parlato a mio cugino che, trovandosi in uno dei suoi momenti di collera, non aveva voluto ricevere ordini e aveva detto che il cibo ci sarebbe bastato per il tempo che occorreva. Non appena finito di cenare, mi alzai da tavola, chiedendo il permesso degli altri, e a un cenno di assenso dell'italiana, scesi fino al grande cancello e, trovandolo aperto, con una sentinella su un lato e altri uomini in alto, nella torre del barbacane, mi diressi al molo, in parte di muratura in parte di roccia, che proteggeva il piccolo porto, dove le chiatte agli ormeggi oscillavano sulle lievi onde della marea che, salita al massimo mentre cenavamo e ora in fase di riflusso, lasciava nel ritrarsi le pietre umide e pozze di acqua bassa verso il mare. A mano a mano che mi avvicinavo al limitare dell'acqua, le rocce e le pietre diventavano viscide di fango, come era normale al calo della marea. Scivolai un paio di volte e tornai dove il terreno era asciutto, prima di avere raggiunto un'ampia pozza, vicino alle onde, simile a una lastra plumbea sulla pietra grigia e sul verde delle alghe. Mentre ritornavo sui miei passi (il molo era di dimensioni alquanto ridotte), mi accorsi che damigella Rosamund era dall'altra parte del cancello e, vedendomi, uscì e si mise a passeggiare con me, cosa di cui fui lieto, perché i miei pensieri erano tristi, e mi sollevava il cuore vedere il solo viso che non nascondeva memorie di eventi terribili e non tramava cose peggiori. Mentre andavamo su e giù, mi chiese notizie degli avvenimenti della mattina, e le raccontai della sfida all'arma bianca, della disubbidienza dello svedese e del combattimento; e ogni volta che le riferivo qualcosa, lei chiedeva: «Che cosa diceva la Signora?» oppure: «Che espressione aveva la Signora in quel momento?». Quando le raccontai della strana sparizione del corpo di Gulston e della tomba dell'altro uomo, rabbrividì e mi afferrò il braccio senza accorgersene, così mi sembrò, e mormorando tra sé e sé: «Sarebbe potuto capitare a qualcun altro!». Quelle parole mi fecero piacere, anche se non ero sicuro del loro significato. Ma quando presi a raccontarle che il conte aveva raccolto il mantello
dello svedese al posto del suo e si era infagottato nell'indumento del morto, damigella Rosamund inspirò lungamente e, lasciando il mio braccio, batté le mani dicendo: «Ah! Ora capisco!». Al che, stupefatto, le chiesi cosa volesse dire. «Ma come, cugino Hubert!» disse rapidamente. «Sei uno studioso e non capisci cosa significa tutto ciò? Non hai visto che quando il mio signore si è tolto il mantello dello svedese e si è mostrato, la Signora si è messa a gridare, ha rotto il bicchiere e ha chiamato in aiuto Pompey che ha lasciato cadere la bottiglia, come lei sapeva che lui avrebbe fatto? Non capisci? Il vino era per Gulston, se il conte fosse stato ammazzato, e credo anche per te. Io forse sarei stata risparmiata in attesa di venire sacrificata al diavolo, sempre che questi non sia stanco di una malvagità più grande perfino della sua!» Le sue parole mi fecero rabbrividire, come quando avevo visto sparire, sotto i nostri piedi, in un gorgo di fango, la prima tomba da noi scavata; e benché adesso mi fosse chiaro il senso delle sue parole, non riuscivo a credere a tanta iniquità. «No! No!» le risposi, forse con troppo vigore, temo. «La sua è senz'altro follia! Non mi piace quella donna e non ho nessun motivo per averla in simpatia; ma al suo posto chiunque, buono o cattivo, sarebbe svenuto e avrebbe lasciato cadere, senza accorgersene, le cose che teneva in mano. Ecco, cugina, diamo al diavolo quel che è del diavolo!» Damigella Rosamund, girandosi, mi sorrise con tristezza e commiserazione, come una madre a un bimbo che dice sciocchezze. «Ah, Hubert!» disse lei e in quel momento nessuno dei due notò che non aveva detto "cugino". «Se tu fossi una donna, avresti notato tutto da molto tempo. Non vedi? Non vedi che dietro i suoi occhi da gatto c'è sempre un intrigo, e dietro ce n'è un altro ancora, e dietro il successivo un'intera messe di stratagemmi, uno più oscuro dell'altro? Te lo dico io: ella mangia, beve e respira tradimenti e complotta nel sonno. Guardala! Vuole ucciderci con lo sguardo!» Mentre damigella Rosamund parlava, agitò un poco la mano verso il barbacane, e lì stava in effetti l'italiana, con la mano su una delle colubrine, sempre puntate verso l'imboccatura del porto, in modo da essere pronte contro ogni attacco. Mentre guardavo in alto verso la Signora, ella mi fece un segno come per beffarsi di me, dicendo qualcosa che non capii. Subito dopo, sentii dei passi pesanti sul pavimento di pietra, e il cappello del conte e le sue spalle apparvero sui bastioni; rivolse la parola al soldato che montava la guardia alla colubrina e ne controllò il moschetto: senza dubbio
le sentinelle avevano l'ordine di tenere le micce sempre pronte, come era normale che avvenisse in un luogo sotto assedio. Non vedevo chiaramente le loro facce che, inframmettendosi tra noi e il cielo, si stagliavano scure contro il biancore vuoto. Con la marea si era infatti levata la foschia, ma non troppo fitta, e incombeva con volute e spirali sopra le sponde grigie e le plumbee acque della marea. Mi sembrò di percepire l'odore del Gorgo, ma lo notai appena, perché le narici si erano abituate a quel tanfo, dato che era difficile che passasse un giorno senza sentirne l'alito. Pur senza distinguere i loro visi, osservai la donna che si sporgeva verso il conte e la sentii parlare in italiano, che non conosco. Colsi soltanto la parola drudo, che indica un amante, e pensai che forse intendeva parlare di damigella Rosamund e di me, perché la voce era sarcastica. Anche damigella Fanshawe sembrò cogliere la parola, e avendo qualche conoscenza di italiano, ne intese il significato. Arrossì in viso, e notai che il rossore le si addiceva, cosa che non mi curai di dirle per paura di farla arrabbiare. Si avviò in fretta e cominciò a camminare in direzione del mare allontanandosi dal barbacane, e io dietro di lei, diviso tra il desiderio di starle vicino e la volontà di non dare adito alle malvagie supposizioni dell'italiana. È vero, infatti, che ogni sciocco, vedendo camminare vicini un uomo e una donna intenti a parlare fra loro, ne ride considerandoli innamorati. Pensai che damigella Fanshawe fosse (come accade alla ragazze) più turbata di me dalla malevolenza di quella donna perché, quando la seguii, ella accelerò l'andatura fino a distanziarmi di dieci passi. A quel punto, non volendo angustiarla con una compagnia obbligata, mi fermai e la lasciai proseguire. In quel momento arrivò una folata di vento dal mare, e con essa l'odore freddo e fetido di fango, che era sempre un avvertimento di pericolo incombente. Allora, dimentico di tutto tranne del rischio che stava correndo, ripresi a seguirla, chiamandola perché tornasse indietro. Mentre chiamavo, ella era arrivata proprio a quella profonda pozza d'acqua che si trovava all'estremità del molo e, girandosi per ascoltarmi, scivolò sulle pietre ricoperte di fango ed erba, e cadde in acqua con metà del corpo. Non sembrava che si fosse fatta male, e fece per sollevarsi; nel frattempo, arrivato sul bordo della pozza, allungai la mano per soccorrerla cercando di aiutarla a risalire, e lo stesso fece lei. Ma non appena gliela ebbi afferrata, la mano fu strappata lontano da me, e mi trovai a stringere l'aria. Guardando meglio per capire dove avevo sbagliato la presa, vidi un tratto di roccia umida tra i miei piedi e il margine della pozza, eppure avrei giurato di es-
sermi inoltrato nell'acqua, quando avevo allungato la mano. Pensando tuttavia che la cosa dipendesse da mancanza di abilità, entrai nella pozza e le afferrai la mano che di nuovo mi sfuggì. Osservandola, notai che damigella Fanshawe era impigliata in un groviglio di alghe nere e cercava di strapparlo dalla roccia, ma non riusciva ad avvicinarsi a me, anzi si allontanava. Il suo viso, prima rosso per la caduta e per lo sforzo di risalire, adesso era pallido, e non dubito (come mi confermò in seguito) che il mio fosse ancora più bianco: in un attimo infatti ci eravamo resi conto che quanto avevamo scambiato per una pozza d'acqua fangosa scivolava verso il mare e la trascinava con sé. Mentre guardavo, vedevo la melma viscida ribollire nell'acqua bassa, avvinghiarsi attorno a lei come un fascio di corde e rifluire lentamente sulle rocce verso il mare, con bolle fetide che salivano in superficie. Damigella Rosamund non diceva una parola, e neppure io, in preda al terrore, riuscivo ad aprire bocca; sentivo solo l'italiana che rideva sul barbacane. Probabilmente fu la sua risata beffarda a salvare damigella Rosamund e me. Si riscosse la mia volontà paralizzata e con impeto folle mi gettai nel fango vivo, l'afferrai per le braccia e riuscii a tirarla un poco verso di me. Di più non potevo fare. Non so come, salvo pensare all'aiuto dell'Altissimo, le mie povere braccia trovarono nuova forza per strapparla dai tentacoli dell'abisso. Forse mi furono di aiuto le rocce, taglienti, piene di cirripedi e conchiglie, spezzate in strette fenditure sinuose, sicché la cosa contro la quale lottavamo era ostacolata nel suo cammino; altrimenti saremmo stati risucchiati entrambi in un batter d'occhio. Con i piedi puntati in una spaccatura della roccia, afferrai damigella Rosamund con forza, tanto che le sue braccia ne portarono i segni per parecchi giorni. Ricordo che mi diceva di andarmene e di non morire con lei, e ancora mi sembra di sentire la risata della Signora. In quel momento la Cosa che ci trascinava si mosse per porre rapidamente termine a quella lotta, e con uno strano suono di risucchio cominciò a sollevarsi, grande, grigia, fangosa, all'imboccatura del porto e a crescere attorno a noi come un'onda circolare. E vedendo la sommità dell'onda piegarsi, avanzare e superare il bordo del molo, urlai davanti alla morte e chiusi gli occhi. Alle mie orecchie giunse un possente fragore, mi sentii sfiorare da una folata di vento e spruzzare come da una pioggia. Quando ripresi i sensi, giacevo nel tratto, ora vuoto, che poco prima era stato occupato dalla pozza, e accanto a me giaceva damigella Rosamund, e sopra di noi si arricciava una nuvola di fumo blu.
Mettendomi carponi strisciai un po' verso l'alto; quindi mi rialzai e mi ripulii gli occhi dagli spruzzi. Vidi il barbacane, una colubrina che aveva ancora la bocca fumante, mio cugino lì vicino con lo sguardo fisso, e due o tre soldati che arrivavano con fare incerto, come uomini impauriti. Non si vedeva e non si sentiva colei che ci aveva preparato quella trappola. Non senza fatica arrivammo al cancello, benché il percorso fosse breve. Gli uomini infatti avevano paura di venirci incontro a metà strada, e non si curavano di aiutarci, perché il fango era ancora attaccato ai nostri vestiti. Quando arrivammo nel cortile, vedemmo mio cugino sulla scala che portava al barbacane; i suoi occhi luccicavano. «Bene, cari cugini» disse «se avete voglia di giocare a Piramo e Tisbe, vi consiglio di restare da questo lato del cancello. Qui non ci sono leoni, ma peggio, forse.» Detto questo proruppe in una grande risata, e anche la Signora rise dopo di lui, come un'eco; damigella Fanshawe, arrossendo di nuovo, batté per terra il piede con rabbia ma, ritrovando l'orgoglio, andò verso di lui. «Cugino Philip» gli disse con slancio «non mi costringerai a ringraziarti per avermi salvato la vita, ormai perduta...» e avrebbe aggiunto altro, ma lui la interruppe, come era suo solito. «Sì, sì, non ho bisogno di ringraziamenti, meno che mai da te o dal qui presente Hubert» - avevo accennato a manifestare in qualche modo la mia gratitudine. «Amico mio, tieni per te i tuoi sermoni per quando saranno asciutti. Vai a rimetterti in ordine, o mi pentirò di aver sprecato della buona polvere da sparo per salvarti.» «E quanto a te, Signorina Rosamunda» disse la Signora dalla scala «vuoi che ti mandi una cameriera con un cambio d'abiti? Hai un'aria... come si dice in inglese?... sciatta!» E rise di nuovo. «Signorina Bardi» rispose «forse i soldati potrebbero prendermi per una di quelle che seguivano gli accampamenti nelle guerre di Germania.» E, così dicendo, si avviò verso la sua torre, e io alla mia. Quando ebbi indossato l'abito pulito, fui contento di buttare via gli stivali e le calze, perché l'odore del fango gli si era appiccicato e faceva sembrare la mia camera un cimitero di uomini affogati. Li gettai dalla finestra e li guardai cadere su un punto delle rocce che distava una quindicina di metri dal margine dell'acqua, perché avevo valutato male la gittata del lancio. Quindi mi girai per andarmene, ma prima di arrivare alla porta, sentii un tonfo. Tornato alla finestra, non scorsi nulla; notai soltanto che il fagotto con le mie cose era scomparso.
Capitolo XIII DEL SENTIERO SENZA FINE Adesso che l'orrore di quel fortunato salvataggio aveva abbandonato in qualche modo la mia mente, e il tanfo del Gorgo si era dileguato, mi sentivo più coraggioso, vedendo che l'orrore degli abissi, così incalzante, forse era un essere mortale, e conosceva la paura, sebbene fosse invulnerabile. Quella sera, a cena, mio cugino il conte fu più allegro di quanto l'avessi mai visto, perché almeno per una volta era riuscito a respingere il nemico che assediava il suo castello. Ma davanti agli uomini che servivano a tavola egli spiegò l'intera faccenda dicendo che damigella Rosamund era scivolata, e che lui, pensando che saremmo svenuti nell'acqua gelida, aveva sparato con la colubrina per riscuoterci dal torpore, altrimenti avremmo rischiato di scivolare in acqua e di finire affogati. Noi, intuendo le sue intenzioni, assecondammo il suo umore e accettammo le sue battute, sebbene fossero grossolane e avessero più la rozzezza dell'accampamento che l'eleganza della corte. Ma quando la cena si concluse, e le donne ci ebbero augurato la buona notte e si furono ritirate nei loro diversi appartamenti, il conte mi fece segno di rimanere; dopo che i servitori ebbero sparecchiato la tavola e se ne furono andati, chiuse a chiave la porta dietro di loro e, tornando indietro verso gli scranni a baldacchino sui quali sedevamo, spinse di lato la sua sedia e mi ordinò di restare lì a guardare. Lo vidi chinarsi sul pavimento e, afferrato un anello che non avevo notato in precedenza, sollevare una botola che si mosse facilmente sui cardini, senza fare alcun rumore. Quindi prese una candela dal candelabro attaccato sul muro e, tenendola prudentemente in alto, mi invitò a guardare giù. In un primo momento i miei occhi, abbagliati, non videro nulla tranne l'oscurità, ma poi riuscirono a scorgere in basso un soffitto a volta, scavato nella roccia, e molti barili e barilotti, grandi e piccoli. Pensando che il mio signore volesse mostrarmi le sue cantine di vini e liquori, mi stupii che egli si comportasse con tanta segretezza, salvo che temesse un ammutinamento degli uomini per impadronirsi dei liquori, come era risaputo che accadeva nei luoghi sotto assedio. «In verità, cugino» dissi «hai fatto davvero delle belle scorte, e non c'è pericolo di morire di sete.» Scoppiò in un'aspra risata, richiuse la botola e rimise la candela al suo posto nel candelabro. «Sei il solito studioso ingenuo. Se fossi stato in guer-
ra, sapresti che questi non sono né vini del Reno né cordiali. È una delle scorte di polvere da sparo del comandante Cromwell, cugino, che gli ho strappato sul campo di battaglia di Naseby e ho messo in salvo. È intatta tranne un paio di barilotti che ho usato per riscaldare la casa del tuo amico Mastro Eldad, prima che arrivasse. Se il nostro assediante ha paura della polvere da sparo, come sembrerebbero dimostrare i fatti di oggi, ne avrà a sufficienza per riempirsi lo stomaco. Qui ce n'è abbastanza per mandare i mascalzoni piagnucolosi del parlamento più vicino al cielo di quanto non riuscirebbero ad andarci da soli. Pensavo che avrei affrontato i soldati di Cromwell e i mostri e sarei saltato in aria in buona compagnia, se non avessi potuto evitarlo, ma ora mi fa piacere vedere quello che può fare la polvere da sparo dietro il buon acciaio e la solida pietra, e nutrire il nostro persecutore laggiù» - con gesto brusco indicò con il pollice in direzione delle finestre - «con qualcosa che gradisce meno della carne umana. Che ne dici, cugino? Ci tornerà utile?» Mentre parlava, mi chiedevo come rispondere. Non c'era dubbio infatti che il suo tempestivo colpo avesse scacciato il mostro, se di mostro si trattava, che aveva cercato di trascinare via damigella Rosamund, ma non credevo che si potesse scampare al giudizio di Dio soltanto con la polvere da sparo, e che l'artiglieria del conte potesse tornargli di nuovo utile: non erano forse risultati vani i congegni del diavolo nella vicenda del nobile poema Il paradiso perduto del signor John Milton, da poco elargito agli uomini? Così lo ringraziai, perché era giusto farlo, per il suo tempestivo soccorso, ma in termini concisi, perché cominciava a innervosirsi, quasi si vergognasse della buona azione compiuta. Quindi affrontai la questione delle provviste, che forse (gli dissi) sarebbero scarseggiate prima della polvere da sparo. «Ho letto nelle cronache di guerra» dissi «che i soldati salavano la carne con la polvere da sparo, ma non che si servivano della polvere da sparo come se fosse carne. Se anche sfuggiremo all'assalto dei nemici, uomini o mostri che siano, ma poi moriremo di fame, non per questo ce la vedremo meglio.» «Proprio così!» disse, dandomi una pacca sulle spalle. «Ti nomineremo comandante, Hubert. "Oh, questa erudizione, che cosa meravigliosa!", come si dice nella commedia. Darò gli ordini necessari per le provviste, ora che avremo il tempo di mangiarle.» E con questo mi augurò la buona notte e si avviò verso gli alloggi degli uomini, e io alla mia camera. La marea, per metà calante quando ci eravamo avventurati sul molo (cosa che non avremmo di certo rifatto), adesso era salita e già lambiva i muri
nei punti dove scendevano a piombo. Poiché l'isola sulla quale sorgeva il castello era piccola e interrotta da insenature, chi l'aveva costruito aveva guadagnato spazio costruendo dei contrafforti che affondavano nelle fessure della roccia e non erano mai asciutti tranne quando la marea era bassa. La grande sala del castello (in se stessa non vastissima, ma di gran lunga la stanza più grande) era stata costruita sulla roccia viva, per sfruttare tutto lo spazio possibile, e il muro esterno, che poggiava sui contrafforti, era a picco sull'acqua. A una certa altezza di questo muro c'era una stretta galleria, in cui due uomini sarebbero passati a fatica, ma uno poteva camminare senza difficoltà. Questo passaggio, che alle estremità si apriva sui bastioni, si sviluppava lungo due lati della sala a un'altezza leggermente al di sotto delle grandi finestre. Chi fosse stato in quello stretto corridoio avrebbe potuto vedere nella sala attraverso i pannelli di vetro delle finestre. Il passaggio - credo - era stato costruito perché gli uomini della guarnigione potessero fare l'intero giro delle mura e controllare che nessun nemico irrompesse attraverso la parete della sala, dove non c'erano difese. Tale vigilanza era impossibile dai bastioni se non sporgendosi e rinunciando alla protezione dei bastioni stessi. Ma non era abitudine delle sentinelle fare quel giro di ronda, perché non c'erano torri dove trovare riparo; inoltre (cosa che probabilmente contava di più) mio cugino non voleva che i suoi uomini, con il pretesto del dovere, lo spiassero mentre sedeva a tavola. Attraversando il cortile diretto ai miei alloggi, e rimuginando sulle parole di mio cugino, sorpreso che una piccola vittoria come il mio scampato pericolo potesse rincuorarlo tanto, percepii un debole suono nel silenzio. Avevo smesso di fare caso allo sciabordio delle acque e ai richiami delle sentinelle, che ormai non sentivo più così come non si sente il ticchettio dell'orologio: bastano pochi giorni che già i sensi si ottundono con l'abitudine. Il nuovo suono che sentivo era leggermente più forte dello sciabordio dell'acqua e diverso: assomigliava a uno stridio lento e sommesso, come il suono delle onde su una spiaggia sassosa o il rumore dei ciottoli che rotolano gli uni sugli altri. Mi misi in ascolto e, ritenendo che il suono provenisse dall'estremo della sala, salii sui bastioni e quindi percorsi lo stretto corridoio appena descritto per vedere se riuscivo a individuare l'origine di quel rumore. Nella nostra situazione di pericolo, infatti, una piccola cosa inusitata poteva diventare causa di grande paura. Ma l'eco dei miei passi sul pavimento del corridoio (qui il rimbombo era più intenso che sui bastioni) copriva lo stridio che avevo percepito prima, e non lo risentii neppure quando mi fermai. Soltanto quando arrivai all'angolo del passaggio,
dove girava sull'altro lato della sala, notai che i contrafforti erano qua e là rotti e sbriciolati, come succede alla pietra che resta a lungo esposta all'aria salmastra. La luce non era sufficiente per capire se le erosioni fossero antiche o recenti. Tornai sui miei passi, pensando che alcuni pezzi di muro, caduti per l'usura, sbattessero nell'acqua contro la base del castello; e finché non arrivai alla porta della mia camera, non percepii altri rumori se non quelli soliti. Ricordo soltanto di aver guardato nella sala attraverso la finestra principale, e di aver visto alcuni tizzoni nel camino e l'ombra di un uomo che andava avanti e indietro. Al mattino mi svegliai più tardi del solito perché dopo il pericolo corso il giorno precedente ero più stanco e più scosso di come avrei immaginato, e il castello era già avvolto nella foschia. Mi vestii in fretta e, sentendo parlare e ridere nel cortile, mi affacciai alla porta della scala per vedere chi avesse voglia di ridere in quel luogo sotto assedio; ma vedendo soltanto gli uomini della guarnigione non uscii, poco desideroso di unirmi alla loro allegria, anche se, a causa del comune pericolo e dopo la fine toccata allo svedese, i loro modi rudi e insolenti si erano abbastanza attenuati. Tuttavia quella mattina, così mi sembrò, l'umore del conte, più allegro che nei giorni passati, aveva dato loro il coraggio di mostrarsi spavaldi. È proprio vero il detto: "Quale il padrone, tale il servitore". Me ne restai perciò nell'ombra, sulla soglia, ed essi non mi notarono. Mentre scherzavano tra loro - erano in sette o otto - con un'aria da mascalzoni come se ne trovano per tutta l'Alsazia (mi riferisco al quartiere di Londra così chiamato), saltò fuori quella sciocca della locanda di Marsham, l'unica donna del castello oltre a damigella Rosamund e alla Signora. I soldati probabilmente le lanciarono qualche battuta, e lei rispose scioccamente, come era solita fare, con risolini e parole rozze che ben conosceva, sebbene fosse assai meno rude degli uomini che avevano raccolto le peggiori parolacce in uso in varie contrade, e conoscevano le tremende imprecazioni dei tedeschi e degli olandesi, e il gergo degli accampamenti spagnoli, francesi e italiani, più gradevole come sonorità ma peggiore per volgarità. Fingendo di arrabbiarsi a quelle parole, di cui non capiva quasi nulla (se le avesse capite avrebbe avuto ragione di arrabbiarsi), la ragazza diede a uno degli uomini uno schiaffo sulla guancia, mettendosi a ridere da scioccherella qual era, e questi le rispose che l'avrebbe ripagata scorticandole la faccia con la sua barba, irta e pungente come un cespuglio di rovi; lei allora, fingendosi terrorizzata, scappò, inseguita dall'uomo, sulla scala che conduceva ai bastioni. Lì corse anche il suo rude spasimante, e gli al-
tri, una mezza dozzina, li seguirono per divertirsi; e una delle sentinelle, dopo che lei ebbe superato con un salto la lancia che questi le aveva messo di traverso per farla inciampare, si unì al gruppo degli inseguitori, e così correvano tutti: lei rideva nella corsa, e loro imprecavano e l'incitavano come in una battuta di caccia, finché arrivarono al corridoio che girava attorno alla sala sulla galleria, e qui, uno per uno, scomparvero dalla mia vista, ma continuavo a sentirli gridare, finché la ragazza non mandò un grido spaventoso, che si interruppe all'improvviso dal che dedussi che il suo inseguitore l'aveva raggiunta, benché la sua paura per i rozzi palpeggiamenti dei soldati sembrasse maggiore del normale, visto che vi era abituata. Non sentii inoltre alcun rumore che provenisse dagli uomini che, a giudicare dal tempo trascorso, avrebbero dovuto aver superato l'angolo della sala. Pensai che l'edificio assorbisse i rumori o che i soldati avessero paura di disturbare il conte, assai intrattabile se era di cattivo umore. Restai in attesa che la ragazza e gli altri uscissero sul bastione al di là della sala. Ma, passato un po' di tempo senza che arrivasse nessuno, temetti che potesse essere successo qualcosa di brutto e, seppur poco desideroso di immischiarmi in una faccenda turpe, mi sembrò giusto andare a vedere che alla ragazza non fosse fatto del male. Risalii sul muraglione per la scala, e non trovai altro all'infuori della lancia che la sentinella aveva lasciato cadere per unirsi al resto della compagnia, e proseguii fino all'angolo, e ancora non c'era nulla da vedere. Ma, arrivato alla svolta del passaggio, quando stavo per superare l'angolo, fui investito da una zaffata dello spaventoso odore che ben conoscevo. Lì lì per cadere a terra, proseguii piano, la mano appoggiata sul parapetto, e fu una fortuna, perché non appena girato l'angolo, la galleria era scomparsa, contrafforti compresi, salvo che un paio di pietre logore sul muraglione scivoloso di melma. Della ragazza e degli uomini non c'era traccia. Si impadronì di me un grande terrore misto a debolezza, tanto che facevo fatica a raggiungere i bastioni e a ridiscendere nel cortile; ma mi sforzai di ritornare in basso, sicuro che sarei stato perduto se fossi rimasto lassù, e quando alla fine sentii la roccia sotto i piedi, caddi e lì rimasi per qualche tempo, l'animo invaso dalla paura e dal disperato desiderio che chi ci assediava passasse all'assalto finale e la smettesse di torturarci con il terrore. Finii per invidiare quei poveretti che erano andati incontro alla morte ridendo, e ai quali era stata risparmiata una vita di paura. Non negherò che avrei scelto di seguirli, tanto era forte in me il disgusto della vita, se damigella Rosamund, scendendo dalla scala e vedendomi
strisciare nel cortile, non si fosse avvicinata di corsa, gridando per sapere se ero stato ferito. A quelle parole ritornai in me e, vergognandomi di essere stato così pusillanime, allontanai la sua mano che cercava di alzarmi. Le dissi che nulla mi affliggeva salvo la mia codardia, al che lei rimase stupefatta. Le raccontai allora che la galleria era crollata e che quelli che lì correvano erano affogati miseramente. Non aggiunsi altro su come era avvenuta la loro fine e neppure servivano ulteriori parole, perché lei aveva capito senza bisogno di spiegazioni. Ma quando le raccontai che ero arrivato all'angolo con l'intenzione di seguire gli altri, lei impallidì, si mise a tremare e mi prese per la manica quasi volesse esser certa che ero ancora vivo. Io fui felice di sostenerla, finché lei si riprese e si allontanò da me più in fretta di quanto avrei desiderato. Subito dopo, come se si vergognasse della debolezza di avermi perdonato tanto in fretta, mi disse di andare dal conte a raccontargli l'accaduto. Lo trovai che misurava a lunghi passi la sala (non stava più con la Signora spesso come prima) e gli riferii i fatti così come li avevo raccontati a damigella Fanshawe. Era di cattivo umore perché la sua ultima dimostrazione di ottimismo era stata un fuoco di paglia; ma mentre mi aspettavo di vederlo preda della disperazione, lui esplose in un'aspra risata. «Be', cugino» disse «bella fine per la ragazza e buoni alloggi caldi per i miei uomini. Una morte rapida e allegra è l'augurio che accompagna il brindisi di noi soldati.» Quindi mi chiese maggiori dettagli sul punto in cui era crollata la galleria, e gli dissi che il crollo si era verificato all'estremità della sala in cui ci trovavamo, ma che il corridoio sotto la grande finestra era ancora solido. «Sì» disse, dopo aver rimuginato per un po' «io mi trovavo sopra e ho sentito il grido di quella sgualdrina. Sono sceso per ordinarle di tacere e per vedere se gli uomini erano con lei, dal momento che avevo severamente proibito loro di entrare nella galleria. Ma quando sono arrivato non c'era nulla da vedere o da sentire. Siamo ancora in numero sufficiente per azionare i cannoni, se occorre; ma credo che dovremo voltarli da questa parte. Il duca Bernardo di Weimar mi disse all'assedio di Breisach che un angolo senza protezioni ai fianchi è una porta di entrata per il nemico, che con i suoi cannoni potrebbe spazzar via le difese lungo i lati...» A questo punto rise di nuovo. «Non guardarmi come se fossi pazzo, cugino Hubert» disse. In effetti ero sorpreso che rievocasse simili vicende con il pericolo che incombeva su di noi. «Scommetto la mia vita, che vale meno di niente, che nella tua
ultima ora sarà un frammento in latino o in greco, o la strofa di un salmo (visto che sei un puritano) a risuonare nelle tue orecchie senza scopo. Essere soldato è il mio mestiere, e con gli strumenti del mio lavoro morirò. Le ultime parole saranno quelle dettate dall'arte della guerra. Addio, cugino, prima che ti annoi.» Capitolo XIV DELLA MACCHIA SUL MURO E DELL'ONDA DEL MARE Il mio signore doveva aver seguito il mio consiglio e dato ordine di razionare le vettovaglie, poiché quel giorno, quando ci ritrovammo per la cena, c'era poco da mangiare, anche se non mancava da bere, tanto che l'italiana, sempre raffinata nelle sue abitudini, canzonò il conte per la sua tavola, dicendo di non essere una puritana e di essere stata abituata a cibo migliore, perfino negli accampamenti, offrendosi per scherzo di farci da cuoca. Disse tutto questo con voce pacata, ma i suoi occhi erano irrequieti e non corrispondevano alle sue parole, come se la paura che gravava sul castello avesse toccato anche lei. «Ecco, mia signora» rispose mio cugino «non ci troviamo forse in una fortezza assediata, con poche speranze di salvezza, e non dobbiamo razionare i nostri cibi per l'assedio?» «No, no» lo interruppe lei con finta petulanza «non mi riferivo al poco cibo, ma alla vostra barbara cucina inglese e al vostro barbaro servizio. Signor Uberto, non volete che vi cucini una cena?» Pensai che se l'avessi presa alla lettera, probabilmente non avrei più avuto bisogno di cene su questa terra, ma non lasciai che la mia lingua esprimesse tale timore. Balbettai qualcosa dicendo di essere un semplice studioso, abituato al cibo inglese e a poco anche di quello; aggiunsi che non le avrei permesso di rovinarsi le mani per mettersi a servire me, e cose del genere. «Allora non volete che sia la vostra cuoca e vivandiera, e vi cucini il cibo?» «No, Signorina» disse damigella Rosamud «e neppure che ci versiate da bere.» A quelle parole, che comprese bene, l'italiana corrugò le sopracciglia e strinse gli occhi; quindi appoggiò una mano sul petto, come se stesse cercando qualcosa. Non disse nulla, perché Pompey che, portando un piatto, passava vicino al muro, con un grido di terrore scagliò lontano il vassoio e
cadde a terra vicino alla tavola, afferrando il conte per le ginocchia. Ne fui commosso, perché il viso scuro del ragazzo era terreo per la paura, e lui, attaccandosi a mio cugino, che non lo aveva in simpatia, non si lasciava cacciare. Si mise a balbettare qualcosa su un rumore che lo terrorizzava. E quando il conte, respingendolo a calci, gli ordinò di stare zitto e di descrivere il rumore che aveva sentito, il servitore farfugliò qualcosa su certe maledette pietre che rotolavano dentro il muro. Allora il conte, incollerito, prese il moro per il bavero della giacca e lo schiaffeggiò dandogli del codardo e dello sciocco; ma quando lo lasciò andare, Pompey gridò: «Eccolo! È tornato! Sta tornando di nuovo!». E cadde, quasi fosse stato preso dalle convulsioni, con gemiti e con la schiuma alla bocca. Mentre giaceva a terra, restammo in silenzio per un po'. Non si sentiva alcun suono tranne il rantolo di Pompey, ma poco dopo arrivò un rumore soffocato, come di qualcosa che grattasse contro la pietra, simile a quello che avevo sentito la notte precedente. E aumentò di intensità, finché diventò come un'onda che facesse rotolare ciottoli sul pavimento della sala. Non si vedeva nulla, si sentiva solo il rumore che veniva dal fondo della sala, dal lato che dava sull'acqua, e mi ricordai che all'esterno prima c'era stata la galleria, ora crollata. Restammo seduti in silenzio, mentre i servitori tremavano dalla paura. Soltanto mio cugino Philip, uomo di grande coraggio, balzò in piedi, e andando verso il muro nel punto da cui proveniva il rumore, batté sopra il rivestimento in legno della parete, vecchio e crepato. E quando colpì il legno, imprecò perché si era ferito a una mano, che ora sanguinava. Si portò il pugno alla bocca senza pensarci, come fanno tutti quando hanno un taglio sulla pelle. Ma, sputando, bestemmiò di nuovo ed ebbe un paio di singulti come se avesse la nausea. «Maledizione, non è sangue!» gridò osservando la mano alla luce della lampada. La vide imbrattata di gocce di fango, che avevano un odore orribile; prese allora un fazzoletto e, pulitosi furiosamente la mano, lo gettò lontano. Guardando nel punto dove era stato poco prima, vidi altro fango che colava dalle crepe dei pannelli e che strisciava sul pavimento, mentre il legno si staccava dal muro. Lo chiamai, dicendogli di lasciar perdere il muro, perché intuivo quello che succedeva; ma lui non volle. «No» disse «qui bisogna andare a fondo.» E, afferrando il bordo dei pannelli che erano, come temevo, marci in più punti, ne tolse un grande pezzo, quasi fin sul pavimento, rivelando così la pietra e l'intonaco del muro; presa una lampada, la sollevò per vedere cosa
ci fosse sotto il legno. Vedemmo allora una grande macchia, mentre l'intonaco si staccava sbriciolandosi, come accade nelle case vecchie e cadenti quando l'umidità si insinua nelle crepe. Continuava nel frattempo il rumore di qualcosa che raschiava le pietre, e quando cessava, come faceva a volte, sentivo battere le onde. Ne conclusi che era la fase di alta marea. Ora, vedendo che la turpe mostruosità intorno a noi aveva trovato la strada per entrare nel cuore del nostro baluardo, i servitori rimasero paralizzati, rigidi come statue, e Pompey con un lamento invocò i suoi dèi. Dal canto mio ero molto confuso e incapace di pensare a una via d'uscita; le donne, sedute in silenzio, fissavano lo sguardo vitreo in direzione del muro. Vedevo le loro labbra muoversi, ma non udivo le parole di preghiera di damigella Rosamund e neppure le formule magiche dell'italiana. Solo mio cugino, il conte, mi fece vergognare per il coraggio che dimostrava sempre davanti a un pericolo imminente: prorompendo in un alto grido, disse che con l'alta marea l'umidità si era insinuata nel muro, ed estraendo la spada ordinò agli uomini di portare un braciere, cosa che fecero, atterriti dal padrone e dall'aspetto della parete. Allora, riscuotendomi dallo stordimento e volendo essere di aiuto insieme a lui, presi alcuni ciocchi incandescenti dal caminetto e, posatili sul braciere, lo spingemmo vicino al muro. La fiamma lambiva la pietra, e il fango e l'acqua sibilavano colando dalle fessure; ogni volta che la fiamma si abbassava, il conte chiedeva che venissero aggiunti altri ciocchi, perché l'intonaco e la malta in mezzo alle pietre si sbriciolavano sempre di più e il fango continuava a colare. Mi sembrò (forse altro non era che il guizzo delle fiamme) che le strisce di melma si levassero come serpenti e si tendessero verso di noi, mentre il suono stridulo si accentuava. Pareva davvero che ciò che stava fuori volesse piombarci addosso. Continuammo ad alimentare il fuoco, senza accorgerci che la sala era annerita dal fumo. Gli uomini portavano legna, le donne sedevano e ci guardavano, e tutto sembrava un brutto sogno. Non combattevamo contro un nemico visibile ma contro una macchia sul muro, un rigurgito melmoso, immersi in un silenzio interrotto soltanto dallo scoppiettio del fuoco e dallo stridio di pietre raschiate, e quando questi cessavano, dal fragore delle onde che si frangevano contro la rocca. Se questo fosse durato un'ora, due ore o più, non lo so, e non lo sapeva nessuno. Ricordo soltanto che alla fine gli uomini, ritornando a mani vuote, dissero al conte che la legna era finita; lui, fuori di sé dall'ira e chiamandoli incapaci e sciocchi, ordinò di fare a pezzi il rivestimento in legno
e di metterlo nel braciere, ma era umido e bruciava male. Speravo che la fine arrivasse rapidamente, perché già un paio di volte avevo sentito il rumore come di un assalto, e il fragore di grandi pietre che cadevano nell'acqua. Tuttavia, mentre attendevo il crollo delle nostre difese, cessò lo stridio delle pietre raschiate, si esaurì il flusso di melma e acqua; si attenuò anche il rumore delle onde, perché probabilmente la marea rapidamente scendeva. Quindi damigella Rosamund si alzò dal suo posto, e le sue labbra si mossero senza emettere alcun suono, e io ritenni che ringraziasse il Signore per averci salvati. Il conte, girandosi, chiamò Pompey ordinandogli di portare del vino, ma il ragazzo, senza rispondere, continuava a restare sotto il tavolo, e quando il suo padrone si chinò per tirarlo fuori di forza, il moro rimase lì a terra, immobile sotto i calci e le sberle. Quando gli tastai il petto, lo sentii freddo; la sua faccia era orribilmente contorta dal terrore e la bocca spalancata. Concludemmo che fosse morto di paura, e nascondemmo in fretta il corpo con un drappo, per paura che damigella Rosamund, alzandosi dal suo posto, lo vedesse; al momento infatti la tavola lo nascondeva alla sua vista. Il conte, allontanandosi da lì, andò a sedersi sulla sua grande sedia, con la Signora accanto a sé; aveva la faccia nera per il fumo e non diceva una parola; poi, volgendo lo sguardo sulla finestra a oriente, notò che l'oscurità si era un po' attenuata in quella direzione. Quindi, giratosi verso l'italiana che sedeva cupa vicino a lui, parlò con voce più dolce di quanto gli fosse abituale. «Fiammetta mia» disse «abbiamo visto tante albe insieme, ma questa è l'ultima. Facciamo festa, perché la prossima notte metterà fine alle nostre angosce.» Voltandosi verso di lui, lo guardò con disprezzo: «Perché parli così, Filippo? Non siamo ancora morti, e non sono persona che abbandona la partita prima che sia stata giocata l'ultima carta. Vedremo altre albe insieme, e in luoghi più belli di questa tana in mezzo alle paludi». «È la mia casa e la casa dei miei avi» disse il conte lanciandole un'occhiata torva. «La difenderò finché mi sarà possibile, poi morirò con essa.» «Oh, i tuoi avi, i tuoi avi, con i loro nomi barbari e il loro rozzo orgoglio!» sbottò lei con rabbia. «Chi si darà pena se il tuo castello e i tuoi avi saranno risucchiati nelle paludi? Fango che ritorna fango! Vita! Vita! Sono ancora viva e voglio continuare a vivere. Muori come un topo in trappola, se così vuoi. Io vivrò! Io devo vivere!» Provai grande sorpresa davanti all'impeto della donna, che infine pro-
rompeva. Non si può dire che ella temesse la morte, perché aveva più coraggio di quanto sia nella natura femminile. La sua era una collera di rifiuto al pensiero che andassero perdute la sua abilità, la sua intelligenza sottile, le sue arti arcane. Respingeva l'idea che il filo della sua vita venisse tagliato all'improvviso prima di avere dato piena dimostrazione del suo potere; rifiutava la fine imminente considerandola un'offesa alla sua sovranità, così come re Carlo negava la legittimità del tribunale che lo giudicava. Ma la veemenza della Signora non durò molto, e di lì a poco si mise a supplicare il conte di fuggire da quella prigione prima che crollasse su di noi. Levandosi con aria esausta, le rispose: «Allora, Fiammetta, prendiamo le barche e sbarchiamo in qualche punto che non sia sulla strada dei soldati di Cromwell? È una speranza vana, tuttavia è una speranza per te. Se vuoi vivere, ebbene vivi. Venite, cugino Hubert e cugina Rosamund, e prepariamo un piano prima che la marea salga di nuovo. E portate subito via quella carogna!». Sporco di fuliggine com'era, si mise addosso il mantello e uscì nel cortile, ancora avvolto nella foschia e nel grigiore del primo mattino; noi venivamo dietro insieme a due servitori che portarono il morto negli alloggi degli uomini, in una stanza vuota. Di spazio non ne mancava di certo, dal momento che il nostro numero era molto diminuito. Arrivammo al cancello e alla torre del barbacane, dove ardeva un tripode per gli uomini di guardia. Le sentinelle camminavano chiamandosi le une con le altre, e poco dopo venimmo raggiunti dai due uomini che erano stati con noi nella sala, ai quali il conte aveva imperiosamente ordinato di non dire nulla di quello che era accaduto. Presso il cancello e attorno alle sovrastanti colubrine si trovavano otto o nove soldati, circa la metà di quello che rimaneva della guarnigione; le loro facce, bizzarre alla luce rossa del braciere, avevano un'aria esausta per la paura e lo sfinimento. Ebbi l'impressione che ormai fossimo una compagnia di fantasmi in mezzo alle paludi dello Stige. Quando gli uomini notarono la faccia del conte, sporca di fuliggine e segnata dall'affanno e dalla fatica, ci fu un mormorio fra loro, ma nessuno osò parlare apertamente. Mio cugino fece loro cenno di raccogliersi attorno a lui accanto al cancello; le donne, io, i due servitori, coperti di fuliggine come il loro signore, rimanemmo discosti. Non appena le truppe gli si furono avvicinate, egli parlò loro. «Commilitoni» disse «è una situazione disperata quella in cui ci troviamo, e dobbiamo assolutamente cercare un rimedio estremo. Ci restano po-
ca legna e poco cibo; una milizia dei furfanti di Cromwell occupa il villaggio di Marsham, e noi non siamo abbastanza numerosi per affrontarli; e questo vecchio castello, temo, ha fatto il suo tempo, ed è marcito con l'età e l'acqua salata. Appena questa mattina, la galleria è crollata trascinando alcuni di voi, e questa sera l'alta marea colava attraverso il muro della sala.» A questo punto uno dei domestici stava per aggiungere qualcosa, ma il conte, sentendolo mormorare, si girò verso di lui e gli lanciò una tale occhiataccia che l'uomo ebbe un tremito e rimase zitto. «Cosa ne dite allora?» riprese mio cugino, parlando in modo più amichevole di quello che era solito usare con i suoi uomini, e nel tono del soldato che si rivolge ai commilitoni. «Restiamo qui a morire di freddo e di fame? Ci faremo impiccare e trucidare dai santi del comandante Cromwell, che sono poco distanti? Se una vita potrà riscattare le altre, avranno la mia, e ne sarò contento, ma sapete bene che non esiste pietà per quelli come voi.» A queste parole si udì un mormorio percorrere gli uomini, simile al ringhiare di una muta di cani. Non ne ero sorpreso perché gli uomini del parlamento non si erano mai mostrati teneri, neppure con chi si arrendeva consegnandosi prigioniero. «Bene» disse il conte «abbiamo ancora le nostre armi; non ci manca la polvere da sparo e neanche le barche per il trasporto. Perché non tentare la nostra ultima carta e cercar di approdare sulla terraferma da qualche parte, fuori della portata di quei cani? Se non potremo prenderli di sorpresa, forse riusciremo almeno a unirci a quanti ancora resistono in nome del re, o alla peggio imbarcarci per i Paesi Bassi, dove la paga è buona al soldo sia degli spagnoli sia degli olandesi, gli uni o gli altri che importa? Tenterete la sortita con me?» Alcuni degli uomini dettero il loro assenso, bestemmiando alla loro maniera, ma altri si tirarono indietro, mormorando che un mostro marino infestava le paludi e le acque, e che sarebbero finiti diritti nelle sue fauci. «Che razza di discorso è questo?» chiese il conte in tono sprezzante. «Siete miei commilitoni oppure fragili donnette? Preferite morire di fame in un castello diroccato oppure afferrare le redini della vostra vita e tentare la sortita? E cos'è questo discorso sciocco di un mostro marino? Ecco mio cugino Hubert, uomo di pace e non di guerra, che vi racconterà come si è avventurato in barca non una ma due volte, eppure nulla di male è capitato né a lui né ai suoi uomini. Vi comporterete da codardi nelle stesse circostanze in cui uno studioso di Cambridge sa dimostrarsi coraggioso? Reste-
rete indietro rispetto alle donne? Verrai con me, Fiammetta?» L'italiana annuì, e lo stesso fece damigella Rosamund. Così, a uno a uno, gli uomini, incoraggiandosi a vicenda, promisero di tentare l'ultima sortita con lui, e il conte rispose loro con un sorriso. Con quella sua faccia annerita, al bagliore rosso del braciere mi parve Lucifero in mezzo ai suoi pari. Diede una manata sulle spalle a uno o a due di loro, gridando che erano dei bravi compagni, con i quali valeva la pena di vivere o di morire; e, ormai tutti d'accordo, fece aprire il cancello e preparare le barche, ormeggiate al molo con catene. Si levarono le saracinesche, e gli uomini uscirono. La marea era in fase di riflusso e scesa circa a metà, non più alta di quando damigella Rosamund per poco non era stata trascinata via dalla melma insidiosa. In piedi presso il cancello, li guardavamo affaccendarsi nella fioca luce, perché le fiamme del braciere si erano quasi spente, l'alba era ancora bassa sul mare e la foschia gravava sull'acqua. Vedevo gli uomini sul molo, simili a ombre scure che si stagliavano contro la nebbiolina e il debole chiarore del cielo e le barche nere sull'acqua liscia come olio. Sembrava tutto tranquillo e privo di pericolo, tanto che faticavo a credere di aver lottato per sopravvivere contro una presenza terrorizzante. Poco dopo arrivò un soffio di vento a squarciare la foschia e, lanciando uno sguardo in direzione del mare dove un lembo di cielo grigio e sereno sovrastava la linea plumbea dell'acqua, mi parve di scorgere una massa che si sollevava in lontananza, una visione confusa come quando si guarda attraverso un vetro deformato. Scomparve però mentre aguzzavo lo sguardo; ma dopo qualche tempo pensai di vedere le acque gonfiarsi, più vicino questa volta, in una specie di ondata, e mi tornarono alla mente i racconti dei viaggiatori: come, a causa di un terremoto o per qualche stranezza della marea, un grande maroso, sorgendo dalle profondità marine, avesse spazzato via intere isole nei mari del Sud, o intere città sulle coste del Mar delle Antille. Tirando mio cugino per la manica, gli dissi di guardare ma lui non vide nulla, e neppure io riuscii a scorgere alcunché, quando mi girai di nuovo. Ma pochi istanti dopo, mentre gli uomini ancora si affaccendavano nelle barche e sul molo, qualcosa gonfiò le acque in una enorme massa nera che veniva verso di noi a gran velocità. L'onda non aveva la cresta come al solito, ma era tondeggiante e liscia. Gridai agli uomini per metterli in guardia e il conte soffiò con forza in un fischietto, ma era troppo tardi. Gli uomini lo sentirono e cercarono di guadagnare il cancello, ma la liscia montagna
d'acqua - o altro che fosse - si abbatté sull'imboccatura del porticciolo e travolse il molo. Il tempo di contare fino a cinque, e ci fu soltanto un'onda gonfia, screziata di fango ma senza creste di spuma, che risaliva fino alla soglia del cancello. Sotto i nostri occhi l'acqua fu risucchiata: delle barche, degli uomini e delle banchine non rimaneva traccia, salvo le catene spezzate che pendevano dagli anelli. Nelle orecchie ci risuonava ancora il sibilo stridulo di quella strana onda; poi tutto tornò tranquillo, mentre l'alba saliva lentamente sulla monotona linea dell'orizzonte. Capitolo XV DEGLI STRATAGEMMI DELLA DONNA ITALIANA Non appena rifluì lo strano e orribile rigonfiamento delle acque senza lasciare traccia di barche o di uomini, ma solo catene spezzate e macchie di fango sui sassi, damigella Rosamund fu la prima di noi a parlare, implorando la pietà di Dio per quelle povere anime trascinate tanto improvvisamente davanti al Suo tribunale. Quanto a noi, con vergogna ammetterò di avere avuto troppa paura per me per pensare subito agli altri. Mi ero, infatti, aspettato che la spaventosa massa non si sarebbe fermata nel suo inesorabile impeto prima di averci risucchiati tutti. Non ero neppure in grado, visto che ero cresciuto nella fede puritana, di pregare per quelli che erano morti, benché fossi pronto a seguire quella pratica più di quanto, ad avviso dei miei insegnanti, dovesse fare un buon protestante. E con ciò, con grazia davvero femminile, ella si distolse dalla preghiera rivolgendo il pensiero all'uomo che le era amico, e (ora posso confessarlo) che cercava di essere per lei più che amico, dicendo: «Ah! Mi hai salvata dal pericolo!». «No» dissi «è stato mio cugino Philip che ci ha salvati entrambi.» Sentendo risuonare il suo nome, il conte, che era rimasto vicino al cancello con lo sguardo fisso di chi è distrutto, sospirò profondamente e si girò verso di noi, ma senza vederci, perché i suoi occhi guardavano dentro di lui, e lui parlava con se stesso o con qualcuno che non vedevamo. «Tutti i miei uomini perduti» diceva, ma così a bassa voce che potevamo a malapena udirlo. «Tutti perduti, ma io sono ancora qui, Margaret, sono stato crudele con te, ma tu sei ancora più spietata con me. Ti colpii una sola volta, senza l'intenzione di ucciderti, ma tu mi punisci giorno e notte. Falla finita, donna, e non tornare da me con la macchia rossa sul petto!» Allora damigella Rosamund guardò verso di me, e mi ricordai che la scomparsa contessa di Deeping si chiamava Margaret. Il mio signore con-
tinuava a balbettare, e adesso mi sembrava che la sua visione fosse mutata: si rivolgeva a Mastro Eldad, chiamandolo sciocco e pazzo per essersi presentato con l'armatura dalla quale era stato risucchiato tempo prima, e simili follie, finché la donna italiana che fino a quel momento era rimasta in silenzio, con la testa fra le mani, sollevò il viso, mortalmente pallido nel chiarore dell'alba ma con gli occhi verdi e lampeggianti. «Pazzo!» gli disse in italiano. «Non esiste nessuno oltre ai vivi, la tua santa riposa là dove l'abbiamo spedita, tu e io. Non è stato un colpo accidentale a disfarci di lei, e c'è voluto più dell'uva per far scorrere il suo vino. Io non la vedo e non ne ho paura.» Nel sentire quelle parole, damigella Fanshawe e io ci scostammo dalla donna quasi fosse stata lebbrosa. Era di un pallore mortale. Ma il conte rimase istupidito, come se per lui quelle parole non fossero niente, ma poco dopo con un grande grido, gettando via il mantello e sguainando la spada, fece per lanciarsi contro di lei. Io non trovai nel mio cuore la forza per trattenerlo, ma la donna, senza dire una parola, lo guardò con aria sprezzante. Il conte, dopo aver fatto appena un paio di passi, si immobilizzò e quindi, con una grande bestemmia, gettò la spada sui sassi, la pestò sotto i piedi fino a spezzarla, poi, cingendo l'italiana fra le braccia, la tirò a sé, ridendo in modo strano. «No» disse lui «non ucciderò altre donne. Non aver paura. Vieni, Fiammetta, faremo festa stanotte, una dolce festa, e i nostri invitati saranno allegri con noi. Chiudete le porte, furfanti, andate a fare colazione e poi preparate la sala per la festa. Cenerete tutti con me e con la mia nuova signora, e siate vigili se non volete finire impiccati. A che ora è la nostra adunata?» E volse lo sguardo verso gli uomini che, raccoltisi nel cortile, lo fissavano pieni di stupore. «Quattro... sei... otto furfanti mi sono rimasti» disse. «Noi quattro qui per la tavolata nobile, e a cena un altro ospite, per arrivare a tredici. Gli darete un caloroso benvenuto. Vieni, cugino; facciamo colazione? Non dovremo più razionare il cibo e risparmiare le vivande, ma berremo al sole che sorge e al sole che tramonta, e così buonanotte!» Quando ebbe finito il suo discorso ridendo sgangheratamente, fui certo che la follia si era impadronita di lui, ma non desideravo che ritornasse in sé, perché se mi fossi trovato io, sano di mente, al suo posto (che Dio non voglia) avrei ucciso la donna italiana e me stesso. Ma non volevo dar retta alle stramberie di un folle e neanche ascoltare i suoi deliri. Ho sempre pensato che chi si diverte con queste cose è abominevole, ed è lusinghiero definirlo una bestia perché le bestie provano paura oppure pietà per la follia.
Eppure, in questi nostri terribili tempi, esistono uomini e donne che non si vergognano di dire che se la spassano a vedere i disgraziati di Bedlam. Così, senza una parola, mi avviai verso la torre, per impiegare quel poco di vita che ancora mi restava nella meditazione e nella preghiera; perché, a dispetto della profezia di Mastro Eldad, non contavo di vedere un'altra alba sulla terra, così come non ci contavano i miei nemici. E lo stesso fece damigella Rosamund, e quando il conte chiese alla Signora di stare con lui, questa gli negò la sua compagnia, dicendo che era impegnata in faccende sue. Mi domandai di che cosa si potesse trattare, ma non avevo voglia di chiederglielo, perché adesso mi sembrava di poca importanza, e non avevo più paura né di lei né di altro. In quel momento capii, o avrei capito se mi fossi dato la pena di pensarci, come a volte i codardi diventano audaci, spinti dalla disperazione provocata dalla paura. Raggiunsi le scale che portavano alla mia camera, ma sulla soglia mi voltai a guardare il cortile. Non c'era nessuno, e nella luce incerta della mattina e nel buio delle mura mi sembrò che un'ombra uscisse dagli alloggi degli uomini e salisse verso la grande porta della sala. La sua strana forma ricordava quella di una donna grigia che portasse un grande fardello nero sulle spalle; pensai distrattamente alla donna italiana, e mi chiesi che cosa la tenesse occupata. Ma la donna e il suo carico, che non vedevo chiaramente, scomparvero rapidamente oltre la soglia, e non notai altro. Un'ora più tardi, guardando verso il cortile, osservai una fioca luce rossa alla finestra di una camera che giudicai essere quella in cui la donna italiana compiva le sue stregonerie, e scorsi un paio di sbuffi di fumo. La mattinata trascorse come un sogno spaventoso, e sebbene cercassi di concentrare il cuore e la mente su pensieri pii, non potei calmarmi, irrequieto com'ero. Perfino quando cercai di leggere le Scritture, mi parve che le parole fossero prive di significato come un discorso ripetuto troppe volte, e neppure la preghiera servì a confortarmi. Il mio pensiero andò a damigella Rosamund, che in quel momento, senza dubbio (così credevo), pregava perché potessimo andare incontro alla fine con pia e santa rassegnazione; ed ella (come mi disse in seguito) pensava che io facessi lo stesso, e ciò la confortava nella sua irrequietezza. Va detto a nostra vergogna che, in quella valle di tenebre e di morte nella quale eravamo, i nostri pensieri andavano più alla creatura che al Creatore. Così trascorreva il giorno, senza che il sole filtrasse attraverso la grigia cortina di nebbia e di nuvole nere in direzione del mare. Dei nostri nemici, uomini o mostri che fossero, non c'era segno; il mare era calmo e immobi-
le. Verso mezzogiorno, spinto dai morsi della fame, andai a cercare un po' di cibo, ma mentre entravo nella sala, la porta venne chiusa di colpo, e sentii risuonare colpi di martello, come se un falegname fosse al lavoro, e una voce intonare una canzone militare. La riconobbi per quella del conte, ma era stranamente aspra. Il pensiero della sua follia mi fece passare l'appetito e, allontanatomi, mi misi a passeggiare sui bastioni, perché ero stanco di starmene seduto. Potevo passeggiare quanto mi pareva, perché non c'erano più sentinelle sulle mura, e fare quasi il giro completo dei bastioni, tranne nel tratto in cui la galleria era crollata. Ma potevo ancora percorrerne un pezzo adiacente al salone e guardare nella stanza che, attraverso un pannello di vetro chiaro della grande finestra, pareva una caverna. Non vedevo nulla tranne il guizzo delle fiamme (avevano trovato, chissà dove, un po' di combustibile) e non percepivo altri segni o rumori che non fossero quelli di mio cugino intento al lavoro. Riuscivo a distinguere ben poco sebbene fosse passato il mezzogiorno, perché dalla parte del mare l'oscurità si addensava e saliva in cielo, e pur avendo poca pratica a interpretare i segni, tuttavia prevedevo che si avvicinava una tempesta, anche se non c'era vento e neppure ribollir di onde ma soltanto una massa d'acqua che con moto costante e senza rumore si levava e calava ai piedi della rocca. Ritornando sui miei passi lungo i bastioni, percepii un alito di vento che gemette fra le feritoie, e cadde subito; il soffio era gravido di un fetore salmastro. Guardando nella direzione da cui spirava il vento, scorsi sulle acque scure una striscia di un grigio più chiaro e scioccamente me ne stupii, dicendomi che evidentemente l'assediante non aveva la voglia o l'appetito per farla finita con noi, ormai troppo pochi per respingerlo. La chiazza grigia era immobile, tanto che sperai si trattasse dell'ombra di una nuvola, perché il cielo non era cupo sulle nostre teste. Sentendo l'eco di passi sulle pietre del cortile, guardai in basso e vidi l'ombra di una donna spettrale che si muoveva nella luce fioca con un pesante fardello sulle spalle; quando fu più vicina, riconobbi la Signora che ansimava sotto il peso. Non perché volessi aiutarla, ma perché era contro mia natura restare ozioso mentre una donna trasportava dei carichi, scesi e feci per darle una mano. Ma quando mi resi conto di che carico si trattava, lo lasciai immediatamente: avevo toccato la mano fredda di un morto sotto il mantello che gli era stato messo sopra per ricoprirlo. Scoppiando a ridere e togliendo il mantello, l'italiana mi mostrò il corpo di Pompey, che era morto di terrore sotto i miei occhi. Vergognandomi per la paura dovuta più al pensiero delle trame diaboli-
che che avrebbe potuto ordire la Signora che all'idea di toccare un morto ormai prassi quotidiana - e ritenendo che avesse aperto il suo corpo, come fanno i chirurghi, per scoprire qualche segreto della natura (ero tuttavia sorpreso che potesse pensare alle sue arti in quel frangente), le chiesi che cosa volesse fare del cadavere. «Lo saprete fra breve» disse, continuando ad ansimare per la fatica «se mi aiuterete a portare questo peso in cima ai bastioni e a gettarlo oltre, perché ora con lui ho finito.» Feci come mi aveva chiesto, perché non mi sembrava una colpa, anche se si trattava di un'impresa che non mi piaceva; e senza grande sforzo portammo il corpo in cima alle mura e lo posammo in mezzo a due merli. La donna italiana, fermandosi e prendendo fiato, guardò in lontananza, finché non giunse una rapida folata di vento, portando l'odore che avevo notato prima. Mi parve che la strìscia grigia del mare fosse ancora visibile, sebbene non ne fossi sicuro a causa del grigiore delle nubi che si addensavano. Ma la donna annusò l'aria un paio di volte come un segugio, e girandosi verso di me disse: «Sta bene; gettatelo fuori». E senza altre parole sollevammo il corpo, lo facemmo oscillare avanti e indietro un paio di volte, e alla fine lo gettammo il più lontano possibile nell'acqua. Cadde con il rumore che fa un ragazzo che si tuffa per divertirsi, affondò, ma emerse di nuovo dondolando sulle onde. Rimase così per un po', galleggiando pigramente; ma, dopo non molto, il corpo cominciò a muoversi verso la zona dove avevo visto la striscia grigia. Poco dopo il movimento accelerò come se la corrente spingesse il cadavere con più forza; alla fine riemerse sopra un'onda con la testa scura e le spalle sollevate come un nuotatore, quindi scomparve quasi fosse stato tirato sotto. Se il corpo riemerse ancora, non lo vidi a causa dell'oscurità. Mi girai di nuovo verso la donna italiana, che continuava a fissare intensamente in direzione del cadavere, e le chiesi quale fosse stato il suo scopo nel disfarsi del corpo. «Imprecherete contro di me e contro voi stesso per non averci pensato prima. Signor Uberto, se siete tormentato dai topi, non date loro bocconcini avvelenati? Bene, Pompey farà da bocconcino per oggi. Abbiamo ancora la speranza di uscirne vincitori, se questo diavolo del mare ha uno stomaco come gli altri animali, e non è immortale. E anche se il nostro nemico è più forte degli uomini, abbiamo speranza; perché la mia pozione, se pur non è benedetta da nessun Santo Padre, è stata usata da qualcuno di simile: la formula è dei Borgia.»
Non sapevo se ammirare di più il coraggio della donna o indignarmi per la sua impudenza; così le chiesi, pensando di farla vergognare, se questa pozione era stata preparata per lo svedese e, ne ero certo, per me e per altri. «No, Signor Uberto. Mi conoscete poco se mi pensate così meschina da usare quel veleno per persone di valore come voi e damigella Rosamund.» E pronunciò lentamente il suo nome in tono beffardo. «Voi» continuò «siete una persona che non avvelenerei, se non come ultima risorsa per sopravvivere. Siete uno studioso, Signore, e un abile spadaccino. Sarebbe davvero un peccato sacrificare due rare virtù, una volta tanto riunite in una sola persona. In verità, Uberto» e a questo punto sporgendosi verso di me un poco, mi guardò negli occhi «dentro di voi vive, sprecato, un audace cospiratore. Non vedete, non capite quello che occorre fare; e poi si mettono di mezzo la religione, il dovere o chissà che altro tutte parole vuote - e non si fa nulla. Oh, se aveste colto l'occasione che vi offrivo, e vi foste impossessato di tutto! Sareste il conte di Deeping, signore del castello e di quanto vi è contenuto, uomini e donne, e potreste avere al vostro fianco, come contessa, damigella Rosamund finché non vi sarete stancato di lei, e allora...» Serrò le labbra, ma i suoi occhi parlarono per lei, promettendo non so che cosa. Non fui in grado di risponderle, intimidito com'ero dalla palese malvagità dei suoi intrighi, e nello stesso tempo sopraffatto dalla sottile furbizia della donna e dalla sua freddezza che ben spiegava la sua malvagità, quasi fosse stata una specie di Machiavelli che, descrivendo le azioni compiute da Cesare Borgia, precisava come e perché i vari complotti erano riusciti oppure erano falliti. Poco dopo riprese a parlare con indifferenza. «Sì, ho pensato di servirmi dello svedese. Mi sembrava uomo capace di usare il bastone, se non poteva servirsi della spada» disse con noncuranza. «E voi avete di nuovo mandato all'aria i miei disegni, senza volerlo; e l'arma mi si è spezzata fra le mani.» Non le feci notare come lei mi avesse lusingato per qualche tempo e poi mi avesse ignorato, come si fosse avvicinata e quindi allontanata, ma in seguito mi ricordai di questa e di molte altre cose. «Non fu per mia volontà, senza dubbio, che essi combatterono, come sapete bene» dissi. «Ma se duello ci doveva essere, allora sono contento che non si sia concluso altrimenti.» A queste parole ella esplose con furia. «Oh!» gridò, lanciando in italiano un'imprecazione volgare che non trascriverò. «Se almeno foste stato un po' più saggio o un po' più stupido! Se aveste avuto un pizzico di cervello in più, Uberto, e se lo svedese, dopo
aver ammazzato Filippo, fosse tornato a casa per ricevere il mio benvenuto e una coppa di vino...» «... sarebbe morto» dissi, perché ricordavo quello che damigella Rosamund aveva intuito. «No» disse la Signora con franchezza, come chi, trovandosi all'inferno e non dovendo più fare mostra di virtù, se ne compiace. «Sarebbe stato troppo evidente e scoperto. Sarebbe morto nel giro di un paio di giorni, oppure avrei spinto i soldati ad ammazzarlo quando si fosse ammalato, e avrei incaricato voi di trattare la pace con il parlamento. E quanto alla Cosa che sta lì fuori... chissà se non ci avrebbe lasciati in pace, una volta inghiottito il bocconcino più prelibato. Se almeno avessimo tentato prima con lo stratagemma di oggi...» Si interruppe e mi afferrò con la manica. «Forse ha già fatto effetto. Guardate là, Uberto! Guardate se ci sono segni sull'acqua!» Aguzzai gli occhi, ma il cielo era così nero che sembrava fosse scesa la notte, e non si vedeva nulla tranne le lunghe onde lisce che gonfiandosi emergevano dalla tenebra e lambivano la base della rocca, senza fare schiuma. «Magari fosse morto!» mormorò al mio orecchio. «Magari se ne fosse andato! Se non tornasse stanotte, cosa dovremmo pensare, Uberto, allora?» A questo punto sentii il calore del suo respiro sulla mia guancia. Ma non volli capire il senso delle sue parole e neppure volli rispondere alla sua tentazione. In verità non mi sentivo tentato; forse in gioventù, quando avevo slanci di ambizione e pensavo di avere la stoffa degli eroi di Plutarco, le avrei dato retta più ardentemente. Ma in quel momento mi limitai a prendere alla lettera le sue parole e nulla più, e mi scostai un pochino. «Dobbiamo» dissi «riprendere da dove ci siamo interrotti questa mattina. Dal momento che le barche sono perse siamo come naufraghi: ci costruiremo una zattera e, salpando protetti dall'oscurità della notte, cercheremo di sbarcare in un luogo più sicuro lasciando Deeping a chi ci tiene a restare.» Ella rise, prendendosi gioco di me. «Oh, il saggio studioso!» esclamò. «È di sicuro quello che faremo, e se il conte sceglie di restare qui a vita, o più a lungo, lo accontenteremo, voi e io? No, non dite nulla. Anche lo stolto, quando trova la sua pace, è giudicato saggio: è una delle poche sentenze delle Scritture che ritengo degna di essere ricordata. Ci vedremo a cena, Signor Uberto.» E, così dicendo, se ne andò, lasciandomi a meditare quale diabolico significato avessero le sue ultime parole. Rimasi a camminare sulle mura, ma non c'era niente da vedere tranne
l'oscurità del cielo e il gonfiore dei marosi; di tanto in tanto giungeva una folata che poi cadeva. Cominciai a sentire lo stimolo della fame, perché ero ancora a digiuno quel giorno, ma non riuscivo a decidermi ad andare a chiedere un po' di cibo. Continuai a passeggiare sui bastioni, finché, stufo di quel cielo scuro, scesi nel cortile, e poco dopo uscì damigella Rosamund, tenendo qualcosa tra le mani. «Ti ho visto confabulare con lei» disse con una certa freddezza, mi parve. «Cosa aveva da dirti standoti tanto vicino?» «Più malvagità di quanta pensavo potesse albergare in un uomo o in una donna» le risposi con amarezza, perché mi urtava che credesse a una mia amicizia con l'italiana. «Pensieri più sottili e insidiosi di quelli che potrebbe suggerirci il demonio in persona. Che importa, Rosamund? Ormai siamo come morti, ma se anche non siamo santi - ne sono sicuro per quanto mi riguarda - nell'altro mondo non saremo in compagnia sua e di gente come lei.» Vedendomi debole ed esausto, dimenticò la piccola punta di gelosia che a volte colpisce la più gentile delle donne, e venne da me mostrando quello che teneva in mano: un pezzo di pane avvolto in un tovagliolo. «Perdonami, Hubert» disse con dolcezza «perché io non so perdonare me stessa per averti parlato così. Oggi non hai mangiato e sei affaticato; qui c'è qualcosa che ho tenuto in serbo per te, perché io non sono un eremita, e non posso digiunare così a lungo.» La guardai; il suo viso era pallido e stanco nell'oscurità; gli occhi erano cerchiati da un'ombra. Sapevo che anche lei era a digiuno e che aveva tenuto per me quello che aveva. «No» dissi. «Mangerai anche tu, altrimenti non toccherò nulla.» Spezzai il pane in due, e la invitai a cominciare. Per un po' non volle accettare, dicendo di avere mangiato a sufficienza, di non sentire fame, e altre dolci bugie che perfino le migliori fra le donne sono inclini a raccontare. Solo quando feci il gesto di gettare il pane oltre il muro, ella accettò e fece poi finta di aver ricevuto la porzione più grande. Ci sedemmo all'ombra delle mura e, mangiando e chiacchierando del più e del meno, dimenticammo il pericolo e l'oscurità sempre più incombenti. Nessuno venne a montare la guardia e a disturbarci; solo di quando in quando vedevamo le luci nella stanza delle guardie o nel salone del castello. Dovevano essere gli uomini che bevevano, perché a tratti arrivava il suono incerto di un pezzo di canzone, come se qualche povero disgraziato cercasse di ingannare se stesso fingendosi allegro per dimenticare la paura. Di quello che ci dicemmo non
ricordo nulla, e di sicuro non valeva la pena di farne tesoro. Ne ebbi però grande conforto, e mi parve che fosse finita la paura della morte, che il pericolo e la malvagità fossero cose vane e piccole, come i bizzarri colpi di vento che di tanto in tanto battevano contro i bastioni sopra le nostre teste. Capitolo XVI DELLA FINE DEL CASTELLO DI DEEPING Parlando o, più spesso, standocene zitti, restammo seduti non so per quanto tempo, finché cominciò a cadere la pioggia; allora invitai Rosamund ad alzarsi, perché non volevo che prendesse freddo, benché fosse probabile che saremmo finiti tutti sott'acqua prima di giorno. Ci mettemmo al riparo di una delle torri e rimanemmo lì per un po'. Ma poco dopo si spalancò la grande porta e sentii la voce di mio cugino che mi chiamava. Non volendo che ci vedesse insieme e, irruento com'era, sbottasse in qualche battuta, la lasciai nell'ombra e mi avvicinai alla porta, dicendogli che passeggiavo in cortile, e chiedendogli che cosa potessi fare per lui. «Ebbene, Hubert» disse con l'arroganza che non lo aveva abbandonato «comportati da valoroso questa notte: è quasi ora di cena, e un ospite è in arrivo. Cercherò di essere il più allegro possibile, e anche Fiammetta. Se incontri Rosamund, dille di mettersi l'abito più bello.» Standosene nell'oscurità, Rosamund aveva sentito quelle parole perché il conte le aveva pronunciate a voce molto alta; così quando gli dissi che lo avrei fatto e lui ebbe rinchiuso la porta, tornai da lei e le chiesi che cosa ne pensava. Ero convinto che avremmo fatto meglio a trascorrere in preghiera e penitenza le nostre ultime ore. «No» disse lei «ho già detto le mie preghiere, e non morirei felice se pensassi di non avere esaudito l'ultimo desiderio di mio cugino. Forse sarà una richiesta sciocca, ma non è un peccato. Da quando l'ho sentito piangere per la sua sposa morta questa mattina, l'ho perdonato, come senza dubbio ha fatto anche lei, e mi sono pentita dei tanti pensieri cattivi che ho avuto contro di lui. Non sapeva quello che faceva e non lo sa ora; e se la nostra follia lo può aiutare a finire meglio i suoi giorni, perché non essere folli insieme a lui?» Sentirla parlare così mi confortò il cuore e, senza pensare che non le avevo detto una sola parola d'amore, l'avvicinai a me e la baciai; lei non mi resistette, ma poco dopo mi spinse indietro, dicendo con una voce mista di riso e di pianto: «No, Hubert. Una volta tanto, mi vedrai coraggiosa; giudi-
ca tu se non saprò essere alla pari di Sua Altezza, la Signorina Bardi!». Dette queste parole, se ne tornò in gran fretta nella sua camera, e io nella mia. Poiché ero arrivato portandomi soltanto due vestiti, e uno di questi - il meno elegante - era finito nel fango della pozza strisciante, avevo poco da scegliere. Indossai, tuttavia, le cose migliori che avevo e scesi in cortile. La pioggia era cessata, ma il vento soffiava con folate irregolari; la marea saliva rapidamente come potevo capire dal frangersi delle onde sulle rocce; intorno era tutto nero come la bocca dell'inferno. Quando la campana della cena rintoccò malinconicamente come un presagio di morte sopra la desolazione delle paludi e del mare, mi diressi verso la sala, guidato dalla luce che brillava lì. La porta era aperta come per una festa, e due uomini ci guidavano con la luce delle torce. Entrando nella sala, trovai mio cugino seduto sul grande scranno a capotavola; la sedia accanto a lui era vuota, ed egli indossava la sua migliore tenuta d'armi, scarlatta con guarnizioni dorate e ricami. Il vasellame d'oro e d'argento che gli era rimasto (le guerre e le gozzoviglie lo avevano costretto a fondere gran parte dei metalli preziosi) era per i commensali della tavola nobile, mentre in basso sedevano i soldati - gli otto rimasti -, ciascuno con quel brandello di spavalderia che gli rimaneva, i fucili e le lance allineati lungo la parete. Sul muro, nel punto in cui si trovava la macchia, era stato appeso un grande arazzo; nei candelabri ardevano le candele e facevano uno strano effetto: pareva che tutto fosse stato preparato per una festa. Mio cugino mi invitò a prendere posto, ma io indugiai in attesa di damigella Rosamund. Entrò in quel momento, indossando un mantello che si tolse mentre percorreva la sala; mi sorpresi nel vederla in abiti tanto regali: indossava un vestito di seta verde trapuntato d'oro, dono (mi disse in seguito) della contessa, diventata troppo pia o troppo afflitta per curarsi dell'eleganza. Damigella Rosamund splendeva alla luce delle candele come una dea d'oro. Nei suoi capelli e intorno al collo portava gli antichi gioielli della stirpe dei Deeping, che le aveva regalato la contessa e che il conte le aveva lasciato benché l'italiana desiderasse averli. Le sue sembianze, che ricordavano quelle della cugina morta ai tempi felici, la facevano assomigliare al corpo glorioso che, secondo la promessa dell'apostolo, i giusti avranno nel giorno della resurrezione. Come la vide venire avanti, il conte lanciò un grido tremendo e, sconvolto, l'accolse scambiandola per Margaret, ma non essendo del tutto fuori di sé, presto la riconobbe per la sua congiunta. Volle tuttavia che sedesse accanto a lui, al posto dove era solita sedere la contessa, e ordinò a tutti gli
uomini di alzarsi e di porgerle il saluto; ed ella, volendo compiacerlo, si sedette alla sua destra al posto d'onore, e io accanto a lei. In quel momento fece il suo ingresso l'italiana, anche lei elegante, ma di un'eleganza di altro genere: indossava un abito rosso, con ricami orientali e figure dallo strano aspetto; qui e lì rosseggiavano pietre preziose simili a occhi; un grande gioiello rosso le splendeva sulla fronte. Come arrivò alla tavola e vide il posto d'onore occupato, rimase in silenzio; gli occhi le si rimpicciolirono come quelli di un serpente e si portò una mano al petto. Notandola, il conte volle scusarsi con lei, perché sapeva essere cortese, quando ne aveva voglia. «Signorina» disse «perdonatemi se vi chiedo di sedervi alla mia sinistra questa sera. È l'ultima festa che si terrà al castello e sull'alto scranno deve sedersi una dama della casata. Domani noi due pranzeremo e ceneremo senza di lei, e per molti giorni, forse più a lungo di quanto desidereremmo.» L'italiana, senza dire una parola, si sedette alla sinistra del conte e si mise a giocherellare con i suoi anelli, che erano bizzarri, e alcuni troppo grandi per la mano di una donna. Cenammo, se così si può dire: l'allegria era poca e la voglia di mangiare ancora più scarsa; soltanto i soldati, abituati a una vita dura, e a mangiare quando ci riuscivano, fecero onore alle pietanze, fermandosi tuttavia, di tanto in tanto, per ascoltare. Eravamo a tavola da circa mezz'ora, quando la tempesta, che si era preparata per tutta la giornata, si abbatté sul castello improvvisamente con una grande raffica di vento che colpì le finestre prossime al punto in cui la galleria era crollata. Sibilava attraverso le fessure dei pannelli, e le fiamme delle candele guizzavano; seguirono altre raffiche finché si sentì soltanto un ululato incessante, quasi si fossero scatenati tutti i diavoli attorno a noi. Dopo poco, udimmo il rombo delle acque, il fragore delle onde contro le rocce, i pilastri e la base della rocca, tanto che la sala tremava sotto il loro impeto. Non c'era ancora segno del nemico che temevamo più delle peggiori tempeste, e nessun suono che lo annunciasse, così che la Signora si sporse verso di me, sorridendo. Sapevo quello che aveva in mente. Il conte, notando quel sorriso di disprezzo, fu sopraffatto dall'ira. Gridò che l'ospite era in ritardo, e ordinò di preparare il suo posto sulla tavola bassa, perché non era ospite di nobili natali e altre follie ancora. Quando smise, gli uomini prepararono il posto come lui aveva ordinato (temevano i suoi accessi d'ira), e in quell'attimo ci fu una sosta nel furore della tempesta, e mi sembrò di sentire quel rumore di pietre raschiate che aveva fatto
morire di paura Pompey. Quindi il vento si alzò di nuovo, e le onde ruggirono più alte, ma il suono stridulo si faceva sempre più intenso e vicino. La Signora, smettendo di giocherellare con gli anelli, si toccò di nuovo qualcosa nel petto; aveva la faccia bianca come il tovagliolo. Solo il conte, ridendo alla sua maniera folle, gridava che il nostro ospite stava per arrivare e, riempita una grande coppa di vino, ordinò a tutti di fare lo stesso e di alzarci per dare il benvenuto. Nel frattempo il rumore nel muro era come lo stridore di una macchina che scava la roccia in una miniera. Da sotto l'arazzo che nascondeva la macchia trapelavano rigurgiti d'acqua e strisce di schiuma; la stoffa si gonfiò come una vela; seguì il rumore di qualcosa che crollava, l'arazzo fu lacerato, le pietre rotolarono e il muro si squarciò in un buco irregolare. In preda a una paura mortale gli uomini si misero a urlare e alcuni si gettarono sul pavimento. Il conte, sollevando la coppa, bevve all'indirizzo dell'ospite, e mentre beveva, una grande ondata si abbatté contro il muro; la cresta dell'onda entrò nella sala, trascinando con violenza una massa scura e scagliandola davanti a noi. Quando guardai, scorsi il corpo di Pompey. A quella vista Rosamund, che aveva resistito fino ad allora, si abbandonò con la testa tra le mani e svenne. Pur non curandomi di vivere, decisi che noi due non saremmo morti in quel banchetto infernale. La sollevai dalla sedia e, con una forza che non so da dove mi venisse, me la caricai sulle spalle e fuggii dalla sala; forse fecero lo stesso anche due o tre uomini ma non vi prestai attenzione. So solo che mi ritrovai, sempre reggendo Rosamund, sui bastioni, e mi sembrò che il cortile fosse una grande pozza d'acqua. Il vento mi batteva sulla faccia, tanto che dovetti attaccarmi ai merli per trascinarmi fino alla galleria esterna, adiacente alla sala; le luci all'interno brillavano nell'oscurità, e una sporgenza ci riparava dal vento. Guardai all'interno per capire quando sarebbe arrivata la fine. Vidi mio cugino sulla sedia, e la donna italiana ora seduta accanto a lui. Il conte la tratteneva con un mano; alcuni degli uomini strisciavano a terra, altri - i più sedevano impietriti. Il conte sussurrò qualcosa alla donna, così mi sembrò, e, presa una candela, si chinò verso il pavimento come per raccogliere qualcosa. Ricordai quello che mi aveva mostrato nel sotterraneo e capii che cosa avrebbe fatto. Ma, mentre si chinava, lasciò andare l'italiana, ed ella, afferrato un pugnale che teneva nascosto nel petto, lo colpì alle spalle. Il conte ricadde sulla sedia ferito a morte - mi parve - ed ella si allontanò, lasciando il pugnale conficcato nella sua schiena, e prese a correre lungo la sala. Ma mentre passava accanto al corpo di Pompey, attraverso la breccia
nel muro si avventò una grande massa nera, che le si avvolse attorno ai piedi facendola cadere. Lei si alzò di nuovo e avrebbe raggiunto la porta, ma in quel momento parve che un nastro nero l'avvinghiasse, la trascinasse a terra, le si attorcigliasse intorno allacciandola, mentre lei lottava e cercava di strapparlo. Alla fine vidi soltanto il rosso bagliore del diadema che lei portava sulla fronte e colsi una contorsione nella massa scura. Pur stando male, non riuscivo a distogliere lo sguardo. Quindi vidi che la Cosa nera e viscida si gonfiava e che le pietre cadevano rotolando attorno alla breccia. Arrivò una massa che sembrava un'onda e, senza frangersi, dilagò sul pavimento, inghiottendo gli uomini che giacevano lì vivi o morti, paralizzati dal terrore. L'onda crebbe fino al livello della pedana e superò il gradino: una marea palpitante di melma, priva di forma. Mentre l'onda putrida arrivava a lambire i piedi del conte, questi, benché ferito a morte, si levò e, tenendo con una mano una specie di cordone nero, vi avvicinò una candela. Subito un crepitio di scintille brillò sotto la sua mano e si propagò in basso. Mi tornarono le forze, e riuscii a distogliere gli occhi da quello spettacolo immondo. Spinto da una provvidenziale follia, non già dalla speranza di salvezza, decisi di affrontare la furia della tempesta piuttosto che perire per la follia dell'uomo. Raccolsi tra le mie braccia Rosamund, ancora svenuta e, puntando i piedi sui bastioni, mi lanciai con forza e caddi in acqua. Affondammo, ma lottai per ritornare a galla; investito dalle onde, cercai di allontanarmi dagli orrori del castello. Tenendo tra i denti i capelli di Rosamund che galleggiava sull'acqua, nuotai disperatamente con le mani e i piedi. Ma prima che mi allontanassi molto dalla rocca, pur aiutato dalla rapida corrente della marea, giunse il fragore di un'esplosione che mi fece pensare allo squillo del giorno del Giudizio, e una vampata di fuoco rosso illuminò il mare e la palude; quindi fu di nuovo tutto buio mentre intorno a noi ruggiva il vento, furoreggiavano le onde, pietre e assi di legno cadevano dall'alto. Non fummo colpiti. Ci inabissammo nelle profondità; poco dopo riemergemmo in cima a un'onda possente; fummo spinti in avanti come fuscelli. Afferrai Rosamund tra le mie braccia, e non ricordo altro. Quando ritornai in me, la prima cosa che vidi fu un cielo chiaro indorato dall'alba, e uno sprazzo di bianco sopra di me, e subito un altro. Mi venne da pensare che forse era il paradiso, e che le ali degli angeli si libravano sua di me; sospirai, sentendo che mi mancava qualcosa ma non sapevo che cosa. Ma al mio sospiro una mano mi si posò sulla fronte; un paio d'occhi si frappose tra me e il cielo; capelli umidi e freddi mi accarezzarono la
guancia; labbra tiepide mi sfiorarono la bocca; una voce si sforzò di dire il mio nome, e invece proruppe in singhiozzi. Capii che era Rosamund, e credevo ancora di trovarmi in cielo, finché non si volse a guardarmi, e vidi un muro di pietra irregolare e diroccato intorno a noi, coperto da salicornia ed erbacce; e sentii l'erba umida e la roccia sotto di me. Quella vista mi portò alla memoria il ricordo della notte fino al momento in cui eravamo stati trascinati dalla grande onda. Mi alzai su un braccio per guardarmi attorno. Anzitutto vidi Rosamund, in ginocchio vicino a me; il suo bell'abito era inzuppato d'acqua e lacerato, benché l'oro e le gemme vi brillassero ancora; i suoi capelli sciolti e bagnati sembravano alghe marine. Alle sue spalle vedevo un tratto di acque agitate e di distese grigie interrotte da pozzanghere che brillavano alla luce del sole, mentre stormi di gabbiani bianchi punteggiavano quel grigiore, roteando sopra i canali. Mi trovavo in mezzo alle paludi, ma ero vivo. Guardando di nuovo Rosamund, non mi dispiacque che quello non fosse il paradiso, come lo descrivono le profezie, ma la terra diventata paradiso. Rosamund, prendendomi la mano, la strinse, e per un po' restammo senza parlare. Quando alla fine ripresi del tutto conoscenza, seppur ancora un po' stordito e pieno di ammaccature, ma intero negli arti, le chiesi dove eravamo e come ci eravamo arrivati; ma sapevo che quel luogo altro non era che l'isola dell'eremita, dove, racconta la storia, uno dei conti di Deeping aveva assassinato un sant'uomo. Nelle paludi, infatti, c'erano soltanto due speroni di roccia: il castello e la rocca in rovina. Mentre stavamo seduti in mezzo alle rovine dell'antica cella dell'eremita, Rosamund mi disse di non ricordare nulla di quello che era avvenuto dopo quel mostruoso banchetto nel salone del castello. Svegliandosi all'alba, si era trovata sull'erba dell'isola; il mio braccio la cingeva, ma non sapeva come fossimo arrivati lì. In un primo momento aveva creduto che fossi morto, ma poi sì era accorta che il mio cuore batteva, e mi aveva trascinato faticosamente fino al riparo delle rovine. Allora le raccontai quello che era successo dopo il suo svenimento, quando la grande onda ci aveva travolti entrambi; quindi, inginocchiati sull'erba, ringraziammo Dio, che aveva imbrigliato il mare come un cavallo, perché ci portasse nel luogo da Lui stabilito. Ci mettemmo in cammino, tenendoci per mano, increduli di essere ancora vivi; guardandoci intorno, vidi anzitutto la collina sopra Marsham, il campanile della chiesa e un paio di chiazze bianche vicino al fiume, che senz'altro erano le tende dei soldati.
Ma quando il mio sguardo corse più in là, lungo la spiaggia fino al punto in cui prima c'era il bastione del primo castello di Deeping, simile a un corno roccioso su una scogliera, scorsi soltanto un ammasso di rocce e sassi, che cominciava dalla base di un recente squarcio sul fianco della collina per allungarsi quindi per un tratto; più vicino a noi non c'era il vortice nero del Gorgo, ma soltanto massi bruni e sabbia grigia. Sorpreso di come potesse essere accaduta una cosa simile, trovammo alla fine il coraggio di girarci verso il luogo dove avrebbe dovuto trovarsi il castello. Fino a quel momento non avevamo guardato da quella parte, per paura di ciò che avremmo visto. Ma ecco! Quando girammo gli occhi in direzione del mare dall'altra parte delle paludi, sparite erano le banderuole dorate che brillavano all'alba sulla torre campanaria, spariti erano il tetto della sala, il maschio, i bastioni; restava una grigia distesa irregolare di sabbia e di acquitrini, e qualche spuntone - pezzo di muro o punta di roccia -, nient'altro dove un tempo sorgeva il castello di Deeping. Avremmo potuto credere di aver fatto un terribile sogno, se non fosse stato per i brandelli inzuppati del bel vestito trapunto d'oro che Rosamund indossava. Abbandonando con lo sguardo quella desolazione, ci volgemmo di nuovo verso Marsham, e poco dopo potevamo dire che non solo vedevamo, ma eravamo visti. Arrivarono uomini lungo la spiaggia, agitando fazzoletti e sciarpe, e li sentimmo gridare verso di noi. Non sapevamo però come avremmo potuto raggiungerli o loro raggiungere noi, perché non c'erano barche a Marsham, e delle chiatte del castello non restava più che del castello stesso. Ma, mettendoci alla ricerca di un sentiero, scoprimmo che i canali del fiume, tra l'isolotto roccioso e la terraferma, erano cambiati, e che un passaggio sulle sabbie portava quasi al villaggio. Ci avventurammo, con grande apprensione, inciampando, timorosi delle sabbie mobili, ma il terreno era solido sotto i nostri piedi e alla fine arrivammo vicino alla spiaggia. I soldati, che ormai vedevo chiaramente, non vennero ad aiutarci, perché avevano paura delle sabbie mobili di cui avevano parlato gli abitanti del villaggio, e avevano visto e sentito le fiamme e il crollo del castello durante la strana tempesta di quella notte. Soltanto quando arrivai a tiro di voce e dissi il mio nome, due o tre soldati a cavallo ci vennero incontro nel mezzo del fiume e ci aiutarono a raggiungere la sponda opposta, perché eravamo troppo deboli per lottare contro la corrente. Ora farò un breve riassunto di quello che seguì. Basti dire che i soldati, dapprima diffidenti nei nostri confronti (avevamo in verità uno strano aspetto), non appena ci riconobbero, avendo già sentito parlare di noi dai
contadini della zona, ci dimostrarono grande gentilezza e ci portarono nell'accampamento, dove ci diedero cibo e abiti campagnoli e, una volta che fummo vestiti e sfamati, ci condussero dal loro capitano. Vedendolo, lo riconobbi per l'uomo che mi aveva fermato sulla strada maestra un po' di tempo prima, ed era stato lì lì per spararmi, avendomi preso per un "maligno", come allora si diceva. Quando gli ricordai il nostro incontro, egli rammentò il mio nome, e fu ancora più gentile sapendo che ero amico del generale Cromwell. Volle che gli raccontassi tutta la mia storia, perché lui era venuto a Marsham, avendo saputo che ero in pericolo dal messaggero che era stato inviato sul mio cavallo. E questo mi fu restituito, e io fui felice di riavere l'animale. Mentre mi riposavo e mangiavo, decisi di non raccontare nulla del Gorgo e neppure dei fatti strani e mostruosi accaduti alla nostra compagnia, perché, pensandoci, faticavo a credere che non si fosse trattato di un sogno terribile, e non volevo perdere la stima dell'ufficiale, un uomo pragmatico e ben saldo nelle sue convinzioni. Gli parlai - e Rosamund confermò il mio racconto - della crudeltà del conte, della sua furia contro gli uomini di Marsham, dell'uccisione di Mastro Eldad Pentry, del quale senza dubbio già sapevano o sospettavano. Gli dissi che molti uomini della guarnigione erano caduti, che le barche, a causa di strani incidenti, erano andate perdute, che il cibo era venuto a scarseggiare e che perfino le mura del castello erano marcite. Il conte, in preda alla follia e alla disperazione, aveva dato un'ultima festa, alla quale ci aveva obbligati a partecipare, e infine aveva dato fuoco alle polveri ammonticchiate sotto la sala, distruggendo se stesso e tutti gli altri. Dalla rovina soltanto noi eravamo sopravvissuti, perché una grande onda ci aveva buttati sull'isola dell'eremita. A questo racconto, lineare, verosimile e collimante con quello che sapeva e che aveva saputo del conte, il capitano prestò fede, ma la gente del villaggio aveva le sue idee e, timorosa, non ci considerava esseri mortali. Se, sotto mentite spoglie, oggi andassi lì e chiedessi di me, forse scoprirei che siamo diventati una leggenda, diversa dalla verità, ma non più strana. Ma non avevo voglia, e non ne ho ora, di rivedere Marsham. Prima di andarcene di lì, Rosamund e io riunimmo la gente del villaggio che si era messa a ricostruire case e fattorie e, in presenza dell'ufficiale e delle truppe, dichiarammo che noi, unici eredi nel nostro congiunto il conte di Deeping, ora morto, rinunciavamo ai suoi diritti e al suo nome, e lasciavamo liberi gli affittuari da ogni obbligo in natura o in denaro, e promettemmo di ratificare l'impegno con un documento legale, non appena il paese fosse stato pacificato. Partimmo con le truppe a cavallo, dal momento che a loro
non rimaneva altro da fare, finché arrivammo in città, dove potemmo abbigliarci con vestiti più adatti al nostro rango. E, arrivato nelle mie terre, affidai Rosamund al parroco, un uomo buono e tranquillo, che non parteggiava per nessuna delle due fazioni della Chiesa, finché arrivò il momento in cui ci sposammo. Da quel tempo non ci accadde niente di più strano di quello che accade alla maggior parte degli uomini, e non ci va di parlare di quello che abbiamo visto a Deeping. Sono stato spinto a raccontare questa storia, come ho detto all'inizio, in parte perché sia di ammonimento circa la punizione che spetta ai malvagi, e in parte anche, lo confesso alla fine, con la speranza che l'aver messo tutto per iscritto mi serva a non pensarci più. Sono un uomo che non cerca né i pericoli né i piaceri; che non si sente a proprio agio né in un accampamento né a corte, non importa che sia l'accampamento di Oliver Cromwell o la corte di re Carlo II. Nelle cose comuni della vita, nella nascita e nella crescita, nell'amore, nel matrimonio, nella paternità e nell'educazione dei figli, nella malattia e nella salute, nella morte e nell'immortalità, ci sono sufficienti sorprese, gioie, pene e pericoli per riempire ogni cuore. Ahimè, l'anima di ciascuno di noi, uomo o donna che sia, è come il castello di Deeping, con il suo signore ribelle, i suoi consiglieri malvagi, e il Grande Nemico che attende nel Gorgo. FINE