INTRODUZIONE L'Italia è, geograficamente, un'unità, almeno nel nome; la catena delle Alpi rende ciò indiscutibile. Essa ...
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INTRODUZIONE L'Italia è, geograficamente, un'unità, almeno nel nome; la catena delle Alpi rende ciò indiscutibile. Essa non costituisce tuttavia una unità omogenea. L'Italia è ed è sempre stata un insieme di regioni, e ciascuna regione è un insieme di unità minori. Alcune di queste sono antichissime, ed hanno conservato la propria identità ed una sorta di coesione interna anche sotto i governi più forti, quali l'Impero Romano e lo Stato Italiano di questo secolo. Ancor oggi, l'italiano è una seconda lingua che la maggior parte dei bambini deve apprendere come tale; il dialetto che parlano a casa è così diverso in alcune parti dell'Italia da poter venir classificato come una lingua a sé. Un italiano, prima di essere un italiano è un milanese o un napoletano; o, molto spesso, identifica l'essere italiano con l'essere milanese o napoletano. Che questo sia un problema fondamentale è simboleggiato dal fatto che il Partito Comunista Italiano non chiama il suo quotidiano « Umanità », o « Avanti », o « Verità », come in altre parti d'Europa, ma l'Unità, indicando, almeno in parte, la necessità di rendere l'unificazione italiana una realtà, parallelamente a qualsiasi progresso verso il socialismo. E’ in un tale contesto che lo studio dell'Italia durante l'Alto Medioevo può risultare utile anche agli storici contemporanei. Poiché il periodo che va circa dal 500 al 1000 è quello in cui, nell'intervallo fra la Repubblica Romana ed il 1815, vennero fatti gli unici seri tentativi di trasformare l'Italia in una qualche sorta di entità politica indipendente, ed in cui si verificò in effetti il globale definitivo falli mento di tali tentativi, che naufragarono alla fin fine sugli stessi scogli esistenti oggi: la persistente cruciale importanza di identità e problematiche locali. Soltanto per pochi decenni l'Italia tutta fu parte di un singolo stato indipendente: approssimativamente dal settimo decennio del v secolo al quarto decennio del VI; ma la gran parte della penisola (due terzi, circa) costituì in qualche modo uno stato unico per la maggior parte dell'Alto Medioevo, e i re italici, ostrogoti, longobardi e franchi, furono ricchi e potenti. Tuttavia, il regno che ebbero a governare non costituiva un'entità coerente più di quanto lo sia l'Italia moderna, e per le stesse ragioni, rese maggiormente valide da una economia sottosviluppata e da cattive comunicazioni: le località italiane erano assolutamente dissimili e possedevano ciascuna una propria storia e un proprio sviluppo. Tali problemi accomunano tutta l'Europa medievale; l'interesse dell'esperienza italiana sta nel relativo successo che ebbero molti di quei re. La frantumazione dell'Italia non era affatto inevitabile, tranne forse per quanto riguarda la separazione da essa del Meridione, che costituisce ancor oggi il problema politico italiano più spinoso; e vi furono parecchi momenti nell'VIII e IX secolo in cui sembrò che i tentativi centralizzanti di alcuni sovrani potessero aver esito positivo... seinbrò quasi che avessero e,iettivamente successo. I1 loro fallimento deve pur quindi essere spiegato, ed è altrettanto interessante. L'Italia dell'Alto Medioevo non è stato vista tradizionalmente nell'ambito di questi problemi. L'Italia del periodo che intercorre fra la caduta dell'Impero Romano d'Occidente e il sorgere dei comuni non è certo un campo di studi semplice, e se ne è trattato qualche volta con un po' di imbarazzo. L'invasione dell'Italia da parte dei Longobardi nel 568, non molto tempo dopo che 1'Impero d'Oriente l'aveva con difficoltà sottratta agli Ostrogoti, spezzò effettivamente l'unità politica dell'Italia nel suo insieme. L'altra forma politica « naturale » italiana, la città-stato indipendente, fece la sua riapparizione soltanto al sorgere di Amalfi e di Napoli nel secolo IX e di altre città più famose del nord e del centro nel secolo XI. Per gli storici del tempo passato, quel periodo intermedio non pareva conformarsi ad alcuna chiara regola. L'Italia, culla di cultura e di civiltà, mostrava pochissimo dell'una e dell'altra in quei secoli, tranne che per una considerevole sofisticazione dell'apparato legale, e per l'occasionale presenza di scrittori dallo stile pretenzioso, con vere capacità letterarie (come Paolo Diacono) o senza (come Liutprando
da Cremona). L'Italia, centro mercantile del Mediterraneo antico e medievale, pareva aver perso temporaneamente contatto col mare, mano a mano che un porto dopo l'altro lungo le coste del Tirreno e dell'Adriatico fu abbandonato e chiuso. D'altra parte, pareva che l'Italia fosse passata sotto il controllo dei guerrieri barbari del nord germanico, che vi introdussero le forme della loro società: l'economis chiusa, la curtis, il fendalesimo. Sembrà che l'Italia fosse divenuta parte dell'Europa settentrionale, per svilupparsi lungo linee nord-europee, finoché giungessero a liberarla i fondatori dei comuni e i primi imprenditori del capitalismo mercantile. Lo storico belga Henri Pirenne fornì l'analisi economica classica di un'Europa il cui centro di gravità s'era spostato dal Mediterraneo al Reno, dopo la chiusura del Mediterraneo operata dagli Arabi... ma già scrittori italiani della generazione precedente a quella di Pirenne avevano dipinto un fosco quadro di un'Italia dvisa e feudale, dove la campagna s'era resa indipendente dalla città, pur se e in conseguenza del fatto dhe la città s'era fatta rurale quanto la campagna. Anche se ci si sarebbe potuto aspettare che un tal quadro inducesse almeno ad una analisi attenta delle parti del paese non cadute in mani germaniche, quelle aree furono in realtà studiate assai poco, con l'eccezione della Roma dei Papi. La storia del diritto e delle istituzioni costitul il tipo principale di letteratura storica prima della seconda guerra mondiale, e il suo peculiare orientamento contribul a distorcere ancor più l'immagine complessiva. Tali tendenze raggiunsero l'apice in Italia nell'epoca fascista, con il suo forte, pur se per noi ironico, elemento di anti-germanismo. In quell'epoca pochi studiarono l'Italia dell'Alto Medioevo. Del periodo dei re longobardi, che ebbero sempre particolarmente a soffrire di questa tradizione storiografica, Gabriele Pepe poteva scrivere nel suo Il Medioevo Barbarico d'Italia (1941) ancor oggi in commercio: I duccento anni che vanno dal 568 al 774... costituiscono uno di quei secoli ideali che Vico diceva a infelici », se non è il più infelice della nostra storia; né il ferreo secolo x, né l'età della Controriforma, né la reazione tra il 1821 e il 1848, ci danno tanta pena, tanta impressione di morte, come questi duecento anni. Dopo la morte di Gregorio I, le tenebre sono più profonde; quella luce di vita politica ed economica che viene dalle città bizantine è anch'essa offuscata da spiriti selvaggi e di sangue, da crudeltà, da tendenze anarchiche. Nessuno potrebbe descrivere oggigiorno l'Italia dell'Alto Medioevo, o una quslche sua parte, in tali termini negativi. Abbiamo abbandonato lo sprezzo moralistico del periodo di cui Pepe fu un tardo, anche se energico, retore. Nel dopoguerra la storia altomedievale italiana ha vissuto una sorta di rinascenza. I1 1948 è una data significativa; vi fu stampato il memorabile studio di Gianpiero Bognetti, che fece parte di un'analisi contemporaneamente storica ed architettonica della chiesetta longobarda di S. Maria di Castelseprio, tra Milano e Varese, situando quella chiesa su un ampio e dettagliato sfondo di storia politica e religiosa dei secoli v, VI e VII t. Oggi opere eccellenti su quel periodo non mancano, e per la maggior parte sono ovviamente in italiano, ma un grande aiuto è anche venuto dal riaccendersi del tradizionale interesse tedesco per la storia italiana: studiosi inglesi e francesi sono senz'altro meno numerosi ma hanno pur reso un certo numero di importantissimi contributi. Alcune sintesi generali, basate su lavori recenti, stan pure cominciando ad apparire, e la più notevole fra queste è quella contenuta nei contributi di Giovanni Tabacco e Philip Jones alla vasta opera a più mani Storia d'Italia, pubblicata da Einaudi nel 1974. Tuttavia, non c'è ancora stato un tentativo di fornire una monografia dello sviluppo dell'Italia in quegli anni. Ci son modi più eff1icaci di considerare la storia italiana altomedievale che non vedervi lo splendore riflesso del passato e del futuro. Pochi storici cercheranno mai di negare che la grande cultura 1
Cfr. bibliografia (B6-c).
italiana abbia avuto ben pochi nomi illustri fra Gregorio Magno e Pier Damiani, o che ci siano poche opere architettoniche notevoli tra San Vitale a Ravenna e la cattedrale di Pisa; ma quel periodo durò cinque secoli, secoli di sviluppo e di sperimentazione come tutti gli altri, e non tanto bui in Italia quanto lo furono in molte altre parti dell'Europa contemporanea. Un primo modo è già stato indicato. Pur se di rado completamente unito, lo stato italiano soprawisse al crollo dell'Impero Romano d'Occidente. L'Italia rimase, concettualmente, un'unità. Paolo Diacono, scrivendo negli ultimi anni del secolo VIII, ne elencò le diciotto provincie, dalle Alpi alla Corsica, la Sicilia e la Sardegna2. Fu come se nulla fosse mutato in tre secoli. E' vero che una tale impressione deriva largamente dal fatto che la terminologia di Paolo era molto antiquata: potrebbe facilmente appartenere al VI secolo, o ad epoche ancor più antiche (considerando che era inaccurata anche secondo i modelli del VI secolo). In queI brano, Paolo ignorò scrupolosamente qualsiasi sviluppo successivo a quei tempi, eccetto che per brevi allusioni a Bobbio (il monastero di Colombano, fondato nel 612) e a Pavia, nuovo nome di Ticinum, che sostituì il nome vecchio allorché la città divenne capitale dell'Italia longobarda. Comunque, il concetto di Paolo dell'unità italiana sussisteva nonostante la divisione politica. Che fosse un concetto condiviso dai sovrani può essere constatato facilmente nelle attività dei più forti di loro, da Liutprando (712-44) a Lodovico II (844-75), le cui intenzioni di occupare l'intero territorio son più che evidenti. Questo concetto dell'Italia come entità ancor definibile è sottolineato dalla somiglianza soggiacente alle formazioni politiche della penisola. La più importante delle quali era il Regno Italico, centrato sulla pianura padana ed esteso verso sud fino a dove arrivava la potenza del suo re; ma ci fu anche una lunga fila di stati minori sparsi qua e là per l'Italia dopo il 568, l'Esarcato attorno a Ravenna (fino al 750), le terre governate dai Papi, le città sulla baia di Napoli, e gli stati longobardi nel sud, che vari re cercarono di integrare nel Regno Italico, ma che per lo più rimasero indipendenti. Tutte quelle entità conservarono una posizione e una consapevolezza pubblica, basate nella maggior parte dei casi sulle stesse fondamenta su cui si appoggiava il Regno Italico: il reticolo di città. Le città erano vecchie. Molte di loro, in effetti, erano più antiche dello stesso Impero Romano. Erano depositarie nella sostanza della coscienza pubblica e delle responsabilità dell'Impero, e mantennero tali caratteristiche per tutto l'Alto Medioevo. Ci sono, quindi, ascendenze dirette dei comuni nella Repubblica Romana. Lo stato italiano conservava la struttura cellulare dell'Impero. Inizialmente, le implicazioni di ciò furono positive per lo stato, in quanto l'Impero era stato forte e centralizzato. Ma quando lo stato cominciò a cedere nel secolo x, la sua struttura costitul un elemento sfavorevole, poiché gli interessi di ciascuna città non si amalgamavano affatto nel governo centrale; l'Italia si trovò ad essere cosl una congerie di località con per di più interessi locali generalmente cristallizzati attorno a singole città. Esisteva già un vitale reticolo di città-stato molto prima che lo stato centralizzato abbandonasse la scena politica italiana. I temi che verranno sviluppati nel corso di questo libro affrontano quattro livelli. Primo, l'eredità dello stato romano, la sua continuazione sotto i re germanici, ed il finale cedimento nel x secolo. Secondo, le località che formavano la vera base spontanea per lo sviluppo della storia dell'Italia; le loro differenze regionali, geografiche, economiche, e la loro interrelazione dal punto di vista economico. Terzo, la città ed il suo sviluppo, anch'essa retaggio della romanità, ma fondata su una società locale di cui seguiva i mutamenti; la sua relazione col territorio; e gli aspetti sociali tipici di ciascuna città, come l'alfabetizzazione e l'importanza della legge scritta. Quarto, l'importanza schiacciante nell'economia, nella società e persino nella politica italiane della proprietà terriera, fatto ben noto e comune a tutta l'Europa Occidentale medievale, ma pur degno di venir sottolineato. Le stesse città dipendevano largamente dalle proprietà terriere dei loro abitanti, piuttosto che, per 2
Historia Langobrdorum, 2, 14-24 (cfr. capitolo 2, nota 1).
esempio, dal commercio, come più avanti verrà chiarito. E' questa dipendenza della classe aristocratica dalla terra, e, più esattamente, dalla coltivazione affidata a propri dipendenti, che assumerò a tratto distintivo della società « feudale », piuttosto che la caratteristica più circoscritta dell'esistenza di feudi e vassallaggio; i feudi almeno erano relativamente rari in Italia nel nostro periodo. Aggiungerei inoltre un quinto elemento, il rapporto tra l'Italia urbana e le zone montagnose non urbanizzate che occupano l'interno dell'Italia peninsulare, come illustrazione della forza istituzionale delle città di pianura. Lo studio di questo aspetto, però, è ancora alle fasi iniziali, e non si può quindi ancora trattarne con la completezza che meriterebbe. Ovviamente, questi temi non includono tutti gli elementi dello sviluppo storico dell'Italia in questo periodo. In parte ne è responsabile lo spazio. I1 Meridione italiano, quindi, non riceverà tanta attenzione quantao il Nord; pur se in questo caso altre ragioni sono una relativa scarsezza di materiale storico, e la mia relativa ignoranza di molti fra gli sviluppi altomedievali nell'Italia a sud di Napoli. Ragioni simili, da aggiungersi a una effettiva differenza di esperienze storiche, precludono la considerazione delle isole, Sicilia e Sardegna (e in effetti, anche la Corsica, in moltissimi aspetti più italiana delle prime due). Un'altra notevole lacuna riguarda una considerazione della Chiesa come istituzione indipendente e dello sviluppo culturale nelle sue forme medievali tradizionalmente accettate: la cultura ecclesiastica, le belle arti e l'architettura. Preferisco vedere la Chiesa nel suo contesto sociale, e in tale ambito apparirà in questo libro. I1 papato, che è stato comunque piuttosto impropriamente considerato nel passato il vero simbolo della Chiesa e della cultura italiane (a tutto detrimento della reputazione di ingegni capaci e meritevoli quali Giovanni X e Benedetto VIII), è stato in gran parte tralasciato. In quanto simbolo di valore internazionale, la sua storia non rientra nei fini di questo libro; in quanto centro in grado di mettere a fuoco lo sviluppo locale di Roma e della campagna romana, presenta lo svantaggio dell'estrema atipica peculiarità dello sviluppo di Roma come città; in quanto carica rivestita da molti grandi capi spirituali dell'Europa altomedievale, come Gregorio I, Adriano I, Nicola I, e Silvestro II, traviserebbe l'obiettivo di un libro che mira primariamente a considerare gli uomini nel tèmpo piuttosto che al di fuori di esso. Inoltre, il papato rappresenta un'eccezione nella storiografia altomedievale italiana, perché un numero non piccolo di studi gli sono stati dedicati. I temi trattati in questo libro son condizionati anche sotto un altro profilo: dalla natura delle testimonianze relative all'epoca. Gli italiani del nostro periodo non erano bravi storici; in realtà erano, con poche eccezioni, cattivi storici. Persino gli anglo-sassoni quasi analfabeti sono stati serviti meglio dalle storie e dalle cronache contemporanee, rispetto agli italiani. Fra la metà del VI secolo dove si arrestano le storie di Procopio (e Procopio era ben poco italiano) e l'XI secolo, c'è così poca letteratura storica che basta appena a riempire un solo volume. Nel Monumenta Germaniae Historica, Ia celebre miniera di informazioni e fonti storiche, i testi relativi alla Gallia merovingia riempiono otto volumi. L'unico volume relativo all'Italia, però, lo Scriptores Rerum Langobardicarum et Italicarum, copre l'intero periodo dal VI al X secolo, e agli autori ivi contenuti (Paolo Diacono, Agnello, Andrea da Bergamo, Erchemperto, Giovanni da Napoli e alcune opere più brevi) c'è ben poco da aggiungere oltre alle biografie dei Papi nel Liber Pontificalis, il Chronicon Salernitanum, e l'Antapolosis di Liutprando da Cremona. Ad eccezione del Liber Pontificalis, che tratta principalmente di Roma, nessuna di queste opere e di lunghezza notevole. Alcune di queste, in particolare il testo di Andrea da Bergamo, rivelano un uso assai ingenuo del passato storico (si veda, più oltre). Inoltre le notizie sull'Italia riportate in testi non italiani, dopo Procopio, sono viziate da una notevole scarsità di informazioni, se si eccettuano gli annali dei Franchi dei secoli VIII e IX. In contrasto con la penuria in campo letterario, siamo ricchissimi di fonti documentarie. Questi non iniziano in epoche cosl remote come accade per la Francia e la Renania (esclusa la serie di papiri
ravennati conservatisi risalenti ai secoli V, VI e VII), ma forniscono una buona documentazione su alcune parti dell'Italia almeno a partire dal secolo VIII (Lucca, Farfa, Brescia), e su molte altre a partire dal secolo IX (Milano, Verona, la maggior parte dell'Emilia, la Valle del Volturno, Napoli), e aumentano progressivamente di volume. I fini prettamente specifici di singoli documenti ed il loro contesto assolutamente regionale sottolineano l'aspetto locale della storia italiana, ovviamente. E' possibile ricostruire una società alquanto intricata, a livello locale, grazie alla varietà di documenti. Viceversa, se si cerca di stabilire l'attività dei sovrani sulla esdusiva base di diplomi reali, così come ci si trova spesso a dover fare, si ottiene un'impressione piuttosto arida del governo centrale; e per capire come i due poteri interagiscono fra loro bisogna spesso ricorrere alle supposizioni. Un tal problema, per quanto riguarda il nostro periodo, è insolubile. D'altra parte, siamo fortunati ad avere una buona raccolta di leggi risalenti al VII, VIII e IX secolo, accresciuta senza molta coerenza, più tardi, dai vari imperatori tedeschi; e, inoltre, in parecchie centinaia di cause legali risalenti fino all'VIII secolo si può vedere come una tale legislazione abbia influenzato alcuni particolari tipi di controversie. Ciò può dimostrare se non altro come lo stato riuscisse a penetrare in alcuni aspetti della società: in effetti, la consapevolezza, nel popolo, dell'attività legislativa dello stato era considerevole. Questo tipo di letteratura completa l'elenco delle tre principali fonti letterarie per lacstoria dell'Italia altomedievale. Esistono altri tipi di fonti letterarie, ma quantitativamente son poco significative. Un'eccezione è data dal gruppo di raccolte di epistole papali, e in particolare quelle di Gregorio I (590-604) e di Giovanni VIII (873-82), che, iniziando dal settimo decennio del VI secolo, si susseguono piuttosto consistentemente, con almeno due o tre lettere per regno, e, a volte, come accade per Adriano I (772-95), più numerose. Non tutte le lettere si riferiscono alI'Italia (in quanto opposta a Roma e alle zone circonvicine da un lato, ed il resto dell'Europa dall'altro), ma ciò avviene per una buona quantità di esse, e nel caso dei tre papi summenzionati, le lettere formano un elemento di prova importantissimo per quanto concerne l'Italia nel suo insieme nei tre periodi. Infine, I'archeologia sta cominciando a divenire un elemento testimoniale significativo, relativamente all'arco di tempo in questione. Non si può più ignorare l'opera degli archeologi medievali italiani come insignificante o mal svolta. Sono stati recentemente condotti scavi molto importanti che stanno già producendo risultati notevoli, permettendoci di aggiungere Luni, Genova, vari altri luoghi in Liguria e in Lombardia, Capaccio Vecchia in Campania, e varie località del Lazio, del Molise e della Sicilia, ai dassici scavi compiuti prima degli anni Settanta: Ventimiglia, Castelseprio, Torcello, e la serie di cimiteri dei primi longobardi quali Castel Trosino e Nocera Umbra. Pur se mancano ancora, per quel che riguarda il periodo dhe va dal VII al x secolo, scavi esaurlenti e rivelatori in qualche città importante o grosso paese, così che il materiale probante che getta luce sul nostro periodo ne è in parte ridotto, userò fonti archeologiche allorché le due discipline (archeologica e letteraria) s'incontreranno. Che una panoramica di questo tipo possa essere in qualche modo condotta è di per sé una prova di come sia progredita negli ultimi tre decenni la storiografia italiana, soprattutto per quanto concerne lo sviluppo di studi regionali altomedievali in grado di controbilanciare la ferratissima tradizione di studi locali sull'Italia dei comuni e successiva. Ma, più ancora che lo studio dell'Italia realizzato da Kenneth Hyde, Politics and Society in Communal Italy 1000-1350 (trad. it. T1 Mulino 1977), il mio libro dovrà inevitabilmente scontrarsi con molte lacune nella ricerca. Di conseguenza, una gran parte delle argomentazioni qui contenute sono, e possono soltanto essere, congetturali, soprattutto quando giungono alla complessità del X secolo e alle tenebre del secolo XI, che, oltre ad essere un secolo i cui documenti legali italiani sono ancora in gran parte inediti, manca ancora di buoni studi locali (tra le eccezioni: i classici studi su Milano di Violante, su Lucca di Schwarzmaier, e sul Lazio
di Toubert)3. Va sottolineato dhe, qui come altrove, la necessità, tipica di un libro di tal sorta, di generalizzare, fa sì che molti dettagli vadano perduti e molte eccezioni restino ignorate. Ma la panoramica è indispensabile. La storia dell'Italia nell'Alto Medioevo rimane quasi totalmente sconosciuta anche agli Italiani, benché l'Italia e la storia italiana abbiano allora avuto influenza formativa in Europa. Quando l'Italia è studiata—specialmente quando è studiata da stranieri o spesso vista come un'appendice dell'Europa settentrionale. Qui, almeno, costituirà il tema centrale, studiata indipendentemente. Ci sono dei problemi innegabili in una storia scritta da uno straniero, più particolarmente nella mancanza di comprensione dell'ambiente e del contesto sociale del paese preso in esame. Ci sono comunque, come spero, alcuni vantaggi: un maggior disinteressamento, una maggior facilità di generalizzare sull'esperienza multiforme di un popolo. Ho tentato di scrivere in questo spirito, e ho voluto in particolare concentrarmi su un approccio tematico, per così dire, sull'Italia altomedievale, per aiutare tali generalizzazioni. Sta al lettore giudicare ın quale mısura sia riuscito.
3
Cfr. bibliografia (B3-f).
ELENCO DEI SOVRANI Imperatori romani Onorio (393-423) Costanzo III (421) Giovanni (423-5) Valentiniano III (425-55) Petronio Massimo (455) Avito (455-6) Maggioriano (457-61) Libio Severo (461-5) Antemio (467-72) Anicio Olibrio (472) Glicerio (473) Giulio Nepote (473-80) Romolo Augustolo (475-6) Odoacre, (476-93) Re ostrogoti Teodorico (490-526) Atalarico (526-34) Amalasunta (5345) Teodato (534-6) Vitige (536-40) Ildibaldo (540-1) Erarico (541) Totila (541-52) Teia (552) Re longobardi Alboino ([560] 568-72) Clefi (5724) Autari (584-90) Agilulfo (590-616) Adaloaldo (616-26) Arioaldo (626-36) Rotari (636-52) Rodoaldo (652-3) Ariperto I (653-61) Pertarito (661-2, 672-88) Godeperto (661-2) Grimoaldo (662-71) Garibaldo (671-2) Cuniperto (679-700) Alachi (circa 688-9) Liutperto (700-1) Raginperto (700-1) Ariperto II (701-12)
Ansprando (712) Liutprando (71244) Ildeprando (735-44) Rachi (744-9, 756~7) Astolfo (749-56) Desiderio (757-74) Adelchi (759-74) Re franchi (I = imperatori) Carlomagno (774814, I 800) Pipino (781-810) Bernardo (812-7) Lodovico il Pio (I 81340) Lotario (817-55, I 824) Lodovico II (840-75, I 850) Carlo il Calvo (875-7, I 875) Carlomanno (877-9) Carlo il Grosso (879-87, I 881) Berengario I (888-924, I 915) Guido (889-95, I 891) Lamberto (891-8, T 892) Arnolfo (8946, I 896) Lodovico III (900-5, I 905) Rodolfo (922-6) Ugo (926-47) Lotario (931-50) Berengario II (950-62) Adalberto (950-62) Imperatoti germanici fino al 1039 Ottone I (962-73) Ottone II (973-83) Ottone III (983-1002) Arduino, re (1002-15) Enrico II (100424) Corrado Il (102439) Principi di Benevento fino al 981 Arichi II ([ 758], 77487) Grimoaldo III (787-806) Grimoaldo IV (806-17) Sicone (817-33) Sicardo (833-9) Radelchi I (839-51) Siconolfo (839-49) (Principe di Salerno 849-51) Radelgario (851-3) Adelchi (853-78) Gaideri (878-81)
Radelchi II (8814, 897-900) Aione (88491) Orso (891-2) Occupazione bizantina (892-5) Guido IV di Spoleto (895-7) Atenolfo I (900-10) Landolfo I (90043) Landolfo II (943-61 ) Pandolfo I (943-81)
Capitolo primo L'EREDITÀ DI ROMA Molte caratteristiche dell'Italia altomedievale sono state in qualche modo, legittimamente o illegittimamente, ereditate da Roma; ne discuteremo lungo l'intero libro. Due, comunque, vanno considerate subito in quanto quinte e ribalta di ciò che seguirà: prima cosa, il paesaggio; seconda, la storia politica ed amministrativa del tardo Impero e del regno ostrogoto, dalla cui struttura si sviluppò l'ossatura degli stati italiani altomedievali. I Romani non possono rivendicare il paesaggio italiano come prodotto della loro storia; le sue caratteristiche fondamentali son più antiche di qualsiasi società. I Romani, però, lo alterarono più di quanto non fecero altre società sino almeno al secolo XVI e probabilmente al XIX. Non che i Romani siano stati in possesso delle tecniche necessarie per affrontare le avversità del loro ambiente (abbastanza spesso quelle tecniche ci mancano tuttora), ma ebbero a loro disposizione ottocento anni per lasciare, con la forza, una propria impronta, e molti dei durevoli lineamenti dell'Italia risalgono a loro in parte notevole: le colline disboscate ed erose del sud, la centuriazione (che sopravvive nei campi ancora nettamente squadrati di molte pianute italiane), la « coltura promiscua » di cereali, viti e olivi, e forse, soprattutto, il reticolo di strade e di città ancor oggi per la massima parte vitali. I1 paesaggio non fu del tutto addomesticato attraverso l'impatto con Roma, come si vedrà in seguito, ma quando si leggono gli scrittori latini verrebbe da credere che i Romani dessero tale fatto per certo. L'Italia, cosi come il resto del Mediterraneo, tende a sembrare sospetto samente uniforme nei testi romani. Gli elenchi itinerari la configurano unicamente come una rete di linee e di punti: strade e città, « moneta corrente » dell'Impero. Le differenze regionali dell'Italia romana vanno desunte da allusioni frammentarie nella Geografia di Strabone e nella Storia Naturale di Plinio; le descrizioni della campagna sono di solito puramente convenzionali. Persino una`narrazione dettagliata quale la Storia delle Guerre Gotiche di Procopio, scritta nel sesto decennio del VI secolo, non fa quasi alcuna allusione a montagne o foreste (malgrado la considerevole importanza strategica di queste); si potrebbe pensare, e a volte è stato proprio pensato, che le foreste dell'Alto Medioevo furono una specie di nuova invenzione, un ritorno ai tempi precedenti la romanità. Sarebbe un'esagerazione. Gli scrittori romani, nostra principale fonte, rappresentavano essenzialmente una élite urbana; amavano idealizzare la campagna, e recarvisi il meno possibile 1. D'altra parte, i nostri testi medievali più antichi consistono per la massima parte di atti di transazioni di terra, con scarne descrizioni di casolari, colture e confini: stilizzati, pur se non idealizzati. La terra incolta e non disboscata di cui fanno menzione, cosl come le montagne ed i fiumi, risaliva ai tempi dei Romani. il in un tale contesto che risulta utilissimo segnalare gli esiti ottenuti dai Romani nell'edilizia, nel disboscamento e nell'idraulica; si configura un ambiente profondamente differenziato: fertile e arido, agricolo e pastorizio, montagnoso e piano, i freddi inverni del nord e le aride estati del sud. Di questi contrasti, il più importante è quello fra montagna e piapura. La prosperità delle varie regioni italiane in epoche preindustriali era virtualmente una funzione matematica del loro livello medio sul mare. I Romani fecero dell'Italia una società urbana, una scacchiera di centinaia di territori urbani, ma non riuscirono ad eliminare il contrasto tra le città ricche ed importanti della pianura padana e le minuscole città con territori angusti lungo gli Appennini. 1
Si paragoni l'atteggiamento di Cassiodoro, Variae (MGH A.A., 12), 8. 31, 33 (in particolare 8.33.4).
L'Italia è composta dalla grande pianura settentrionale, cinta di montagne, e dalla lunga cresta appenninica della penisola, nell'Italia centrale e meridionale, affiancata da pianure e colline (si veda la sezione dedicata alle carte geografiche). La parte pianeggiante a nord è costituita dalle valli del Po, dell'Adige e del Reno, difficilmente distinguibili alle loro imboccature, e dei fiumi minori del Veneto. Costituisce da molto tempo la zona più ricca dell'Italia, e ne è stata il centro politico, il punto focale, sin dal v secolo d.C., anche quando la capitale fu Roma. Le sue città sono state sin dal tardo Impero le maggiori città italiane: Milano, Pavia, Verona, Ravenna; soltanto Roma e Napoli son riuscite a competere con loro o a superarle, all'inizio del tempo qui considerato. Le Alpi dominano la pianura, apparentemente invalicabili; i loro ripidi pendii nascondono tuttavia molti passi accessibili, e questi sono ancor meglio transitabili sull'altro versante, dove le Alpi scendono più dolcemente. L'Italia è stata spesso invasa, nell'epoca che trattiamo, attraverso questi passi, e la loro esistenza spiega parte dell'importanza delle città che si trovano alla loro imboccatura: Torino e più tardi Ivrea per i passi occidentali, Milano e Verona per quelli al centro, Aquileia e Cividale del Friuli per quelli orientali. Ma ancor più importanti per quel che riguarda la storia interna dell'Italia appaiono gli Appennini sul margine meridionale della pianura padana, giacché essi taglian fuori il nord dal resto dell'Italia. Gli Appennini sembrano meno imponenti delle Alpi, sulla carta geografica, e sono per lo più soltanto metà di quelle in altezza. Eppure hanno costituito una barriera importantissima. Anche là dove sono più bassi, a nord di Genova e di Perugia, hanno separato società totalmente differenti. La storia di Pavia e quella di Genova, per esempio, pur se le città son distanti soltanto un centinaio di chilometri, non mostrano quasi niente in comune nel nostro periodo. I1 controllo dei passi appenninici era importante quanto quello delle Alpi, e giustifica la rilevanza di città quali Lucca e Spoleto, o, più a sud, Benevento. Gli Appennini, cosl come le Alpi, hanno dato unità alla pianura padana. La pianura aveva i suoi contrasti: le terre ricche attorno a Milano e Verona, gli altopiani distanti del Piemonte, e le paludi del Po, che spaccavano l'Emilia dando sicurezza e isolamento a Ravenna; ma la pianura padana rimase il nucleo centrale del regno italico fino alla fine del nostro periodo, allorché la penisola s'era ormai da molto scissa in vari stati. La penisola è dominata dagli Appennini. I suoi contrasti interni sono cosl grandi che è quasi impossibile fare generalizzazioni: ad est, una sottile striscia di costa fertile che corre giù lungo tutta l'Italia da Rimini alle pianure e ai tavolati pastorizi delle Puglie; ad ovest, una serie di valli fluviali, fertili frecce puntate verso l'interno: in Toscana le valli del Serchio, dell'Arno e dell'Ombrone; nel Lazio del Tevere e del Garigliano; in Campania del Volturno e del Sele; ciascuna con la sua diversa storia, sempre più esplicita fino a che diventarono i nudei degli stati peninsulari del X secolo. La cresta montagnosa corre lungo la costa orientale, relegandola così ai margini della storia, con l'eccezione della Puglia. Dove s’allarga maggiormente giunge a sfiorare anche la costa occidentale, tra il Lazio e la Campania, classico spartiacque fra l'Italia centrale ed il sud. Ma le valli e gli altopiani della Toscana e del Lazio, a nord di-quello spartiacque, non formano una unità singola. Le valli son qui separate da terreni collinari e macchie desertiche, le colline metallifere ad ovest di Siena, il Monte Amiata a sud, e cosI via. Nessuno è mai riùscito a dare una forte impronta a quei terreni che contribuiscono, con la stessa efficacia degli Appennini, a distanziare e tener separate le aree più ricdle e più urbanizzate dell'Italia centrale. I1 sud ha contrasti ancor maggiori, come si vedrà nel capitolo sesto. Questo tipo di differenziazione è il punto di partenza per le divergenze storiche dell'Italia pianeggiante. Colline e montagne son poi anche quelle diverse le une dalle altre. Con l'eccezione di alcune città chiuse fra gli acquitrini del Po e le lagune adriatiche, ogni città italiana è in vista delle montagne. I montanari hanno cercato di non conformarsi alle regole sociali e politiche della pianura, pur se gli abitanti di questa, in particolare i romani, hanno di solito preferito ignorare tale tendenza e hanno fatto di tutto per mitigarla. Meno facili da controllare furono le
differenziazioni economiche: le montagne erano la roccaforte dell'economia pastorizia, e le pianure coltivate erano di solito a corto di carne. Ai tempi della pax romana, e anche prima, i greggi transumanti attraversavano le pianure diretti ai pascoli estivi nei terreni paludosi lungo le coste. Certamente diminuirono nei momenti turbolenti dell'Alto Medioevo, ma le strade rimasero aperte sino ai secoli XVI-XVII, con la seconda grande epoca della transumanza2, Solo alcune parti degli Appennini furono dedicate completamente al pascolo (probabilmente le alte valli del Sangro e del Trigno, per esempio); ma la coltivazione per uso locale, nel resto delle montagne, recò un danno ancora maggiore al potere delle terre basse, dato che permetteva l'indipendenza completa dalle valli. I1 controllo effettivo sulle genti di montagna da parte degli abitanti delle pianure poteva derivare soltanto dalla proprietà terriera, ed è poco probabile che i proprietari terrieri di pianura abbiano esteso sistematicamente i loro possedimenti verso le montagne, almeno fino alla fondazione dei grandi monasteri benedettini, tra il VII e il IX secolo: Bobbio, Monte Amiata, Farfa, Montecassino, S. Vincenzo al Volturno, S. Clemente in Casauria. Le montagne erano, e sono, selvagge. Le stesse pianure rimasero parzialmente incolte nel periodo romano. I Romani le disboscarono in gran parte: Papa Gregorio Magno dovette chiedere ai suoi nemici longobardi a Benevento legname da costruzione calabro quando, nel 598, fece riparare le basiliche romane di San Pietro e di San Paolo.3 Più difficile fu eliminare le paludi, sparse qua e là lungo una gran parte delle piane costiere e di molti fiumi. L'apparato idraulico e l'arginamento dei fiumi richiedevano cure continue, e le piene dei fiumi divennero gradualmente più minacciose mano a mano che si cominciò a disboscare il fondovalle. In ogni caso, molti dei grandi fiumi italiani erano indomabili con le tecniche romane. La pianura padana non fu mai pulita degli acquitrini e delle boscaglie di sterpi. Sidonio Apollinare, scendendo lungo il Po fino a Ravenna nel 467, si abbandonò al lirismo scrivendo della vita animale e della vegetazione: Ho ispezionato il Lambro bordeggiato di falaschi, l'Adda celeste, il veloce Adige, il lento Mincio, [...] risalendo un po' le loro acque in ciascun caso; avevano argini adorni di boschetti di quercia e di acero. Un concerto di uccelli vi cantava dolcemente [...] ogni cespuglio era un tumulto di gemme lungo i fianchi dei fiumi sul tiepido terreno impregnato di acqua4. Oggi il Po non giunge a Ravenna, e l'Adige non ne è un tributario; neppure gli italiani moderni lo hanno pienamente controllato. Di certo i Romani non avevano finito di bonificare le paludi accessibili nelle pianure, alla fine dell'età romana. In testi ostrogoti, nel 507-11 si trovano ancora progetti di bonifica, non molto riusciti, per la verità, per la pianura a nord di Spoleto e le Paludi Pontine fra Roma e Napoli 5. Gli insediamenti romani tendevano ad evitare i fondovalle, e sembrano esser stati più fitti nelle pianure elevate e nelle colline che costeggiavano le zone montuose. Ciò che non appare chiaro è l'espansione dei terreni paludosi e delle sterpaglie in pianura alla fine dell'epoca romana, quando (possiamo ritenere) il complicato sistema idraulico dell'Impero cominciò a venire trascurato, e nella quale (come si è pure soliti ritenere) la popolazione cominciò a diminuire. Una qualche considerevole espansione ci deve essere stata, ma è difficile quantificarla. A parte alcune zone prosciugate artificialmente, come il Ferrarese e la piana fiorentina, ci sono scarsi 2
F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II (tr. it. Torino 1976), pp. 73 ss.; P. Toubert (B3-f), pp. 269-73; F. Sabatini, La regione degli altopiani maggiori d'Abruzzo (Roccaraso, 1960). 3
4 5
Gregorio Magno, Epistolae, 9. 126 (MGH Epp. 1-2). Sidonio Apollinare, Epistolae, 1. 5. Variae, 2. 21, 32, 33.
elementi sull'abbandono di terreni estesi, alla fine dell'Impero. La zona costiera toscana e laziale, ad esempio, era abitata all'epoca degli Etruschi e disabitata verso il 1100; ma i suoi tratti meridionali erano già parzialmente spopolati e forse malarici prima del tardo Impero, mentre zone a nord erano ancora prospere nell'VIII secolo, e avrebbero perso i propri abitanti, probabilmente, solo durante gli attacchi degli Arabi nel secolo IX6. I1 ritmo dell'abbandono delle campagne non coincide esattamente con i mutamenti politici; non si vede d'altro canto perché dovrebbe. E se si è esagerato nel descrivere il disboscamento e il controllo sulle campagne durante l'epoca romana, si è anche esagerato per quanto riguarda il declino dell'agricoltura e l'abbandono della campagna nell'Alto Medioevo. I Romani, in effetti, seppero meglio affrontare il paesaggio italiano, e in modo più duraturo, costruendo strade; se gli ostacoli naturali dell'Italia non potevano venir controllati, potevano almeno essere aggirati e ignorati. Le grandi strade consolari rimasero la principale rete di comunicazione italiana via terra sino all'awento della ferrovia, senza quasi alcuna aggiunta, eccettuata la Via Francigena tra Piacenza e Roma, nuova arteria che costruì la costiera Via Aurelia allorché la costa toscana venne abbandonata dopo 1'800. Queste strade erano usate dagli eserciti, che si potevano muovere attraverso l'Italia con grande agio e convenienza (per loro stessi...). Altrettanto poteva fare l'amministrazione imperiale, attraverso un complicato reticolo governativo di cavalli da posta e di stalle (il cursus publicus), che comprendeva persino il reclutamento forzato di imbarcazioni lungo i fiumi maggiori (al quale ricorse Sidonio per il suo viaggio lungo il Po). Funzionari e istruzioni governative potevano attraversare l'Italia abbastanza velocemente. Gli amministratori carolingi fecero poi la stessa cosa, pur se in maniera meno organizzata. I1 traffico privato invece era meno comune lungo tali strade, se si eccettuano i senatori amici dei funzionari romani, che sfruttavano illegalmente il cursus publicus, e i mercanti di merci facilmente trasportabili, soprattutto beni di lusso. La maggior parte della popolazione, quando doveva viaggiare, trovava più economico e più conveniente il tragitto per mare, se la cosa era possibile. E il traffico su larga scala, come quello di generi alimentari, era proibitivamente costoso lungo le vie di terra. Si doveva sempre ricorrere alle navi, fino a dove esse potevano giungere, e di conseguenza era conveniente soltanto lungo la costa e nella pianura padana dove molti fiumi erano navigabili: Brescia, Mantova, Cremona e Parma avevano tutte i loro porti. Le carestie locali erano la norma in Italia, come altrove nel mondo romano, e la stessa organizzazione amministrativa del tardo Impero poteva fare ben poco per alleviarle, pur se Teodorico fece notevoli tentativi per ovviarvi all'inizio del vı secolo. Chi speculava sui cereali accumulava spesso profitti enormi7. Durante l'inverno cessavano più o meno completamente i traffici sia per mare sia per terra, con la neve che sbarrava gli Appennini e le tempeste nel Mediterraneo. Si comprende che la geografia ha avuto un ruolo determinante nella storia italiana. Le organizzazioni statali potevano adempiere alle loro funzioni essenziali senza troppi ostacoli creati dalle condizioni geografiche (eccetto forse negli Appennini meridionali), ma le regioni italiane su cui il loro governo si esercitava sono state quasi sempre ben circoscritte e con pochi legami permanenti fra di loro. Ciò accadde persino durante l'Impero Romano, e non è mai cessato, fino alla metà di questo secolo. Allorché le organizzazioni statali si indebolivano tendevano a perdere il controllo proprio su quegli elementi che mantenevano unita l'Italia. Quando crolla l'organizzazione statale, l'Italia stessa si frantuma.
6 Plinio il Giovane, Epistolae, 5.6. 1; Rutilio Namaziano, De Redito Suo ; l'occupazione della costa toscana nell'VIII secolo può esser vista in numerosi documenti in Memorie e documenti per servire all'istoria di Lucca, v, 2, a cura di D. Barsocchini (Lucca, 1833).
7
L.C. Ruggini, Economia e società (Bs-c), Parte II, passim.
Questa tendenza poi si cristallizza nell'altra grande eredità socioeconomica romana, la città. La costituzione dell'Impero Romano si basava tradizionalmente su città-stato o municipia semiindipendenti, governate da curiae o amministrazioni cittadine locali. Pur se verso l'anno 400 la cosa si era ridotta a poco più che un mito opprimente (in quanto 1'> delle amministrazioni cittadine riposava sulla loro capacità di far fronte alle pesanti tassazioni imposte dal tardo impero), l'identità locale delle città persisteva, e agiva come duraturo punto focale per i territori che tradizionalmente facevano capo ad esse. Alcuni di questi territori rimangono quasi inalterati all'interno- dei moderni confini di provincia. Quando lo stato italico fini col venir meno, a nord, nei secoli X e XI, il reticolo delle città gli sopravvisse e lo rimpiazzò. Le città-stato sostituirono anche parecchi stati regionali della penisola, laddove le città erano abbastanza forti da poterlo fare. L'Italia quale entità non soprawisse, ma la persistenza e la permanenza di città italiane costituisce una delle caratteristiche cruciali e peculiari della storia altomedievale. Come si vedrà, è un elemento costitutivo di ogni aspetto particolare che verrà di seguito qui trattato. L'anno 476, che tradizionalmente data la « caduta dell'Impero Romano d'Occidente », non coincise con alcun'importante rottura nella storia italiana, e ancor meno in quella dell'Impero d'Occidente. Affermarlo oggi è divenuto quasi un luogo comune, ma è ancora necessario. La deposizione in quell'anno, ad opera di Odoacre, di Romolo Augustolo, ultimo imperatore d'Occidente, non ha provocato alcun commento nei cronachisti occidentali. Per esempio, nelle cronache della Consularia Italica l'unica differenza è nella terminologia: la serie di imperatori diventa ora una serie di re (barbarici)8. Solo alcuni scrittori residenti nella capitale dell'Impero d'Oriente, Costantinopoli, interpretarono il cambiamento nel tono apocalittico suggerito dai termini « caduta dell'Impero d'Occidente ». Gli Italiani, che vivevano più da vicino l'esperienza, non ne furono granché scossi. L'olocausto ebbe luogo in Italia durante la grande epoca delle guerre, 535-605: i cambiamenti d'squilibrio verificatisi durante i governi germanici, prima Odoacre (476-93) e poi i re ostrogoti (490-553), apparvero, per contrasto, insignificanti. Ovviamente nacquero fenomeni nuovi. Anziché da un sovrano romano preposto all'intero Occidente, gli Italiani ebbero a dipendere da un sovrano germanico della sola Italia (che comprendeva la Dalmazia, e le Alpi Centrali, la Rezia Romana), così come accadde per la Spagna o la Gallia dei Visigoti, o l'Africa dei Vandali. Odoacre ed il suo grande successore, l'ostrogoto Teodorico (490-526), si ritennero senz'altro pari agli altri re germanici. Ma verso il 476 lo stesso Impero d'Occidente s'era ristretto alla sola Italia e territori dipendenti, e la soggezione politica a condottieri militari barbari non rappresentava alcuna novità. Fin dai tempi di Arbogaste, nel penultimo decennio del IV secolo, ce n'era stata una sequela ininterrotta—Stilicone, Saro, Ricimero, Gundobaldo—che si mescolarono a condottieri militari romani, quali Costanzo, Ezio e Oreste, che si distinguevano per la razza esclusivamente. E la conquista dell'Italia da parte dei barbari fu fondamentalmente diversa da quella da loro operata altrove. I Visigoti e i Vandali conquistarono le frange dell'Impero d'Occidente, rompendo il sistema governativo romano; Odoacre invece si impadronì del potere centrale con un colpo militare senza quasi spargimento di sangue, continuando nelle apparenze a riconoscere un imperatore d'Occidente rifugiatosi in Dalmazia, Giulio Nepote (m. 480), e cercando pure il riconoscimento da parte dell'imperatore d'Oriente Zenone della propria qualifica di suo viceré in Occidente (Zenone temporeggiò, ma non gliela riconobbe)9. La vita politica italiana proseguiva senza esserne particolarmente influenzata. 8
Consularia Italica, in MGH A.A., 9. La teoria di M.A. Wes secondo cui il senatore romano Simmaco avrebbe dato gran risalto al 476 (B3-a) [per queste abbreviazioni cEr. Ia bibliografia a p. 247] è controbattuta da B. Croke, The chronicle of Marcellinus in its contemporary and historiographical context, Oxford, tesi per il Ph. D., 1978, capitolo 5. 9 Malchus, frammento 10 (Fragmenta Historicorum Graecorum, IV, a cura di K. Muller, Parigi, 1851); cfr. A.H.M. Jones, The constitutional position of Odoacer and Theoderic (A3-a).
Tale vita politica s'era concentrata verso il v secolo in due luoghi: Roma e Ravenna. Roma costituiva il simbolo dell'Impero, la patria del Senato; Ravenna sostitul Milano nel 401 come sede dell'amministrazione civile. Gli imperatori vivevano di solito a Ravenna, pur se parecchi di loro (particolarmente fra il 450 e il 476) le preferirono Roma. I re germanici fecero base esclusivamente a Ravenna, uscendone solo per visite uíliciali. Teodorico celebrò i suoi decennalia a Roma nel 500, con tutti i fasti imperiali, i giochi, il trionfo, le ricostruzioni e distribuzioni gratuite di grano10. Roma e Ravenna rimasero in opposizione più o meno permanente: il passato e il presente, l'autorità e il potere, estrinsecazione geografica della vecchia tensione fra Senato e Imperatore... pur se dopo il 400 1'Imperatore era divenuto figura meno importante che non quelle del potere esecutivo, cioè l'amministrazione civile e l'esercito. L'esercito, che verso la metà del V secolo era in maggioranza germanico, tendeva a favorire un'amministrazione civile efficace, in quanto esso doveva far conto su un governo capace di raccogliere le tasse che lo mantenevano in vita. Non aveva una base geografica stabile, ma i suoi centri erano nelle città settentrionali (considerando che il nord era più facilmente soggetto alle invasioni) e aveva stretti rapporti con Ravenna. I1 contrasto sotterraneo fra Senato e amministrazione era di duplice natura. Innanzitutto, il Senato tendeva a considerarsi la fonte legittima di ogni autorità nello stato tardo romano, dipendente soltanto dalI'Imperatore. Per definizione, continuava ad esserlo: il possesso di incarichi amministrativi era pressoché l'unico requisito di ammissione degli aspiranti al Senato, e in realtà il periodo fra il 425 (al piu tardi) e il 490, e in particolar modo il regno di Odoacre, vide i maggiori incarichi dello stato controllati in modo permanente dalle grandi famiglie senatoriali, soprattutto i Decii, gli Anicii e i Petronii. Tali senatori riuscirono persino, certe volte, a ottenere l'incarico imperiale, con Petronio Massimo (455) e Anicio Olibrio (472), pur se per brevi periodi. Tuttavia, le due gerarchie non coincidevano. Il prefetto del pretorio, maggior carica amministrativa, non era necessariamente il senatore più importante, poiché l'importanza all'interno del Senato derivava dal possesso dei titoli di console e di patrizio, in forza di una tradizione formale che risaliva sino ai tempi della Repubblica Romana. Il prefetto non godeva del prestigio che tale tradizione offriva; era però infinitamente più potente. Teodorico, la cui forza si basava saldamente sull'esercito ostrogoto, fece rivivere la tradizione, risalente al IV secolo, di nominare nuovi ricchi, con adeguate capacità, in cariche importanti, e affidò a volte degli incarichi ai Goti. Nel 510 giunse a nominare un nonromano nell'incarico di prefetto di Roma (l'influente orientale, Artemiodoro)11. I membri del Senato che non appartenevano all'amministrazione dovettero trovare la cosa assai significativa. Come si vedrà, i senatori continuarono a rivestire posizioni preminenti a Ravenna, ma lì le regole non erano le stesse che a Roma. In secondo luogo, e più importante, gli interessi delle due gerarchie erano in conflitto. L'amministrazione civile era responsabile per la raccolta delle imposte fondiarie in Italia, ivi incluse quelle sulle proprietà dei senatori. La scarsa disponibilità dei ricchi e potenti a pagare quell'imposta fu una delle fondamentali debolezze dell'Impero nelV secolo, poiché essa serviva per sovvenzionare la difesa in un periodo in cui i barbari occupavano la Gallia, la Spagna e l'Africa. Allorché l'Impero si restrinse all'Italia, l'esercito non diminuì proporzionalmente, e le altre principali voci della spesa pubblica, la stessa burocrazia centrale e l'approvvigionamento di Roma, continuarono a gravare soltanto sull'Italia. La tassazione era pesante, ma non eHicacemente raccolta (se non tra i poveri). Tassazioni supplementari su transazioni commerciali si rivelarono insufEcienti a coprire la spesa pubblica. Come conseguenza, l'esercito finì col ribellarsi per motivi pecuniari, spingendo, nel 476, Odoacre al potere e domandando in cambio un terzo delle proprietà fondiarie italiane. La riluttanza a pagare, da parte del Senato, fu in parte responsabile della rivolta, poiché la proprietà terriera nelle 10 11
Anonymus Valesianus (MGH A.A., 9), 65-7; Cassiodoro, Chronica (MGH A.A.,11), 1339. Variae, 1. 42-4.
mani dei senatori era considerevole. Ma fu alquanto meno facile evitare l'insediamento terriero dei barbari, di quanto non fosse stato l'evitare di pagare le imposte. D'altra parte, le proprietà terriere dei senatori non si trovavano per la maggior parte nelle zone in cui i barbari s'erano maggiormente insediati. L'influenza del Senato sembra essere stata particolarmente grande nel v secolo: stava comunque scemando. I maggiori senatori nella prima metà del v secolo, quali i Simmachi e Petronio Massimo, avevano entrate medie di più di 5000 libbre d'oro all'anno: nel terzo decennio del v secolo il padre di Petronio spese 4000 libbre d'oro per finanziare sette giorni di giochi pretori del figlio. Tale ricchezza, però, dipendeva dai possedimenti terrieri oltremare, soprattutto in Africa e in Sicilia. La conquista germanica rese la conservazione di tali sparsi possedimenti sempre più diffícile. I Vandali si erano insediati in Africa- e tra il 467 e il 477 occuparono anche la Sicilia, fino a quando Odoacre la riebbe indietro con un trattato. I senatori mantenevano le proprie ricchezze, ma nel periodo ostrogoto si trovarono messi via via nell'ombra dall'amministrazione civile, che sotto Teodorico ricominciò con successo la raccolta delle imposte. E' forse significativo che Fausto, probabilmente il più prestigioso senatore favorevole ai Goti dell'inizio del VII sècolo, e prefetto del pretorio per l'Italia nel 507-12, non siadivenuto famoso, come Petronio, per la stravaganza nella ricchezza, ma per la (pure tradizionale) caratteristica senatoriale della corruzione e della cupidigia12. Si conoscono poco i dettagli delle rendite senatoriali, ma certamente le spese dei senatori andavano diminuendo. Essi erano sempre meno disposti a spendere denaro per costruire e ricostruire monumenti pubblici che abbellissero Roma. Un'eccezione fu quella del tradizionalista Simmaco, che ricostrul il teatro pompeiano verso il 510, e che venne rimborsato dal grato Teodorico. La maggior parte delle nuove costruzioni, a Roma, è ora opera dei re (Odoacre, per esempio, rimise in ordine il Colosseo) e, sempre più, della Chiesa13. Nel loro confronto, il Senato stava certamente perdendo terreno. E diventava sempre più difficile per l'Italia mantenere due separate gerarchie civili. Fino ad ora la Chiesa non è apparsa in questa panoramica. Abbiamo trattato soltanto di Roma e Ravenna. In entrambe le città la politica continuava ad essere questione di decisa pertinenza laica; il che non signiíica che gli uomini della chiesa non vi avessero ruoli importanti (non fu certo questo il caso del vescovo di Roma). Alcuni dei vescovi e dei papi del v secolo conquistarono una rilevanza internazionale, fra tutti Leone I (440-61) e Gelasio ~ (492-ó). Ma non erano i papi a controllare Roma, bensì, ancora, il Senato. La burocrazia ecclesiastica stava solo allora cominciando a raggiungere quella coerenza interna che avrebbe retto la sua potenza nei secoli seguenti. Soltanto verso la metà del VI secolo, mentre il Senato veniva decimato dalla guerra e dall'emigrazione verso Costantinopoli, il papa (allora Vigilio, figlio e fratello di prefetti pretoriani) divenne una forza di~amica. In questo aspetto, però, Roma non era rappresentativa di tutta l'Italia. Si può dir ben poco, in riguardo a questo periodo, circa le differenze regionali nella struttura italiana tra una zona e un'altra, ma le sedi del Senato e delI'amministrazione civile erano ovviamente atipiche. Almeno per ciò che concerne l'Italia settentrionale, e particolarmente Milano e Pavia, i contrasti sono abbastanza chiaramente documentati. I senatori rappresentavano l'aristocrazia romana, non l'aristocrazia italiana. Le città avevano le loro nobiltà, ma fuori Roma queste non erano di solito molto ricche e influenti. Questo dato generale si spiega in parte da sé, in quanto i ricchi tendevano a comprarsi un accesso al Senato, ma l'esempio più noto di tal fenomeno, la famiglia dei Cassiodori, provinciali dei Brutii (Calabria), all'epoca del proprio maggiore esponente, Senatore Cassiodoro`(circa 487-582), passò gran parte del proprio tempo a Roma e Ravenna. Le nuove famiglie senatorie persero le proprie radici e divennero proprietari terrieri assenteisti: Cassiodoro tornò nella propria città, Squillace, solo al ritiro dalla vita 12 13
V Petronio Massimo: Olympiodoro, frammento 44 (frag. Hist. Gr., IV). Fausto: Variae, 1. 35, 3. 20, 27. Variae, 4.51; A.Chastagnol (B3-a).
politica. A nord le famiglie emergenti erano in numero certamente rninore. Gli aristocratici locali avevano probabilrnente possedimenti territoriali in zone limitate, che raramente sconfinavano dalla pianura padana. Comunque, la Chiesa si era già ben stabilizzata al nord ed era divenuta alquanto influente nelle città, e già nel v secolo stava accumulando proprietà terriere attraverso donazioni pie. A Milano aveva tratto bene~ci soprattutto nel tempo in cui quella città si era fregiata del titolo di capitale e Ambrogio era vescovo, alla fine del IV secolo: la Chiesa milanese, in effetti, fu tra le più ricche. Anche a Pavia i vescovi ebbero grande peso, almeno dall'epoca di Epifanio (467-497). I due vescovi sunnominati; come pure altri fra cui Ennodio di Pavia (513-21) e Dazio di Milano (c. 52852) si fecero portavoce delle proprie città, vere e proprie guide politiche: difensori delle popolazioni da tassazioni eccessive, dall'ingiustizia e persino dagli eserciti nemici. Ebbero anche funzione di rappresentanti dello stato. Epifanio esegul varie ambasciate per conto di imperatori e di re; Ennodio scrisse panegirici per Teodorico; Dazio vendette cereali per conto dello stato durante la carestia del 535, essendo l'unico uomo di cui il prefetto pretoriano Cassiodoro si Edava. La determinazione dei prezzi era di tradizionale eompetenza dell'amministrazione cittadina, ma i vescovi le si aíliancarono sempre di più14, così il prestigio della Chiesa andava equiparandosi a quello del consiglio cittadino, l'organo che rappresentava i proprietari terrieri della città. La collettività degli aristocratici, di Milano, per esempio, poteva ovviamente contare su una ricchezza di gran lunga maggiore di quella dei vescovi, ma la chiesa era divenuta un proprietario terriero ben più consistente di qualsiasi singolo proprietario terriero laico, e il suo potere ne usciva di conseguenza ampliato: Milano e Pavia sono esempi tipici, tra le città principali dell'Italia settentrionale e di parte della stessa Gallia. Difficile è stabilire se anche nelle città del centro e del sud; forse, fuori dalla pianura padana, i vescovi non avevano ancora accumulato abbastanza terra da poter giocare un ruolo simile. Ma più in là nel tempo tutte le città italiane avrebbero avuto nel vescovo il loro rappresentante. I1 potere vescovile dovette sopportare un certo contraccolpo durante l'invasione longobarda, ma ai consigli cittadini venne inferto un colpo mortale. Con la notevole eccezione, sembra, di Napoli, questi ultimi non riuscirono a giungere al secolo VII e i vescovi si ritrovarono, da un punto di vista istituzionale, privi di concorrenza. I loro rivali secolari dopo il VII secolo, duchi, castaldi e conti, furono per lo più nobili locali, il cui ruolo ufEiciale era di rappresentanti del governo centrale, e non locale. L'unica carica propriamente cittadina fu quella di vescovo. Sullo sfondo di queste tensioni nelle strutture sociali, la politica del tardo Impero venne a configurarsi per lo più come risultato dell'attrito fra ambiziosi imperatori e ambiziosi condottieri, attrito che almeno dopo il 408 (quando fu sconfitto Stilicone, magister militum dell'Imperatore Onorio) si risolse sempre a favore dell'esercito. La cosa non sorprende: l'esercito aveva sempre determinato la politica di Roma. La sola novità del v secolo fu che a comandare non ci fu più l'imperatore. L'ultimo imperatore-soldato, Teodosio I, morì nel 395. I suoi successori, con brevi eccezioni fra il sesto ed il settimo decennio del v secolo, non intervennero nelle questioni militari. (I re ostrogoti, più tardi, avrebbero sofferto della stessa fatale emorragia di potere allorché, nel 526-36, non ebbero il comando dell'esercito.) Quegli imperatori furono tutti figure piuttosto secondarie, se si eccettua il breve regno del più vitale di loro, Maggioriano (457-61). I1 periodo è meglio illustrato attraverso la carriera dei condottieri militari Ezio e Ricimero, al loro apogeo rispettivamente nel 429-54 e nel 456-72. Ezio fu l'ultimo personaggio a godere di prestigio sia in Italia che in Gallia e l'ultimo che si oppose efficacemente agli invasori barbari dell'Impero, ricorrendo ai mercenari Unni contro i Visigoti e agli alleati Goti contro gli Unni. Il suo assassinio nel 454 fu uno shock per i cronachisti come non sarebbero stati i fatti del 476. La strategia messa in pratica da Ezio non è stata ancora definitivamente delineata, ma sembra più che probabile che egli abbia sostenuto una fazione pro-Gallia del Senato contro almeno alcuni gruppi di senatori italiani che mal sopportavano i costi
14
Ruggini, op. cit., è lo studio fodamentale per l’Italia Settentrionale; pp. 330-5 sui vescovi. Ennodius, Vita Epifani (MGH A.A., 7 pp. 84-109)per Epiphanius; Variae 12. 27 per Datius
delle sue guerre15. E’ certo che nel confuso periodo seguito alla sua morte, ci fu della rivalità tra le due aree geografiche, particolarmente durante il breve regno dell'Imperatore Avito (455-ó), importante senatore gallico, sostenuto da un esercito gallico e infine deposto dopo avere subito una sconfitta durante una scaramuccia a Piacenza contro un esercito italiano comandato da Ricimero. E' difficile seguire la rivalità tra le due etnie, oltre il 456, d'altro canto la Gallia e l'Italia già percorrevano strade diverse; dopo la caduta di Maggiorino nel 461 la storia dell'una aveva pochi rapporti con quella dell'altra. I Visigoti e i Burgundi espandevano sempre più i loro territori nella Gallia, mentre l'Impero era già quasi esclusivamente una realtà italiana. Ricimero era stato uíficiale di Ezio, ed era nipote di un re visigoto. Per quinclici anni cercò di consolidare in Italia la propria forza, accanto ad un imperatore condiscendente, non potendo assumere il trono in prima persona, in quanto germanico e (probabilmente) eretico ariano. Nonostante vari tentativi, non trovò mai un re che fosse contemporaneamente senza ambizioni e gradito all'imperatore d'Oriente. Significativamente, per due volte (456-7 e 465-7) governò da solo, in qualità di patricius e diretto rappresentante dell'imperatore d'Oriente, ruolo che Odoacre cercò per sé nel 47616 . Ma Odoacre fu rifiutato, e governò col titolo di re; il romanizzato Ricimero non sarebbe mai probabilmente riuscito a scegliere quella via, e dovette quindi continuamente accettare imperatori che determinavano una condizione di instabilità. La storia politica del v secolo è per molti versi quella di una costante e fallita ricerca di un sistema politico stabile che fosse al tempo stesso legittimo e militarmente eílìcace. Odoacre regalò all'Italia quattordici anni di pace. La sua soluzione fu, se non altro, più duratura di quella di Ricimero, ma soltanto Teodorico, che ottenne il riconoscimento dell'Imperatore d'Oriente, risolse in pieno il problema, e la sua soluzione, dipendendo dalla volontà dell'imperatore d'Oriente, venne essa stessa a cessare di funzionare quando l'Oriente negò, nel 535, quel riconoscimento dando inizio alle Guerre Gotiche. Odoacre fu efficace ma debole. L'esercito era compatto attorno a lui, giacché con un terzo delle terre italiane aveva, per la prima volta in un secolo, un sostentamento materiale sicuro, ma era un esercito piccolo. Odoacre corteggiò il Senato con grandi blandizie, offrendo alti incarichi a molti suoi importanti esponenti. Alcuni lo sostennero sino alla fine, ma la maggior parte di essi venne meno quando gli Ostrogoti, sotto Teodorico, invasero l'Italia nel 489, con l'incoraggiamento dell'Imperatore Zenone. I vescovi di Milano e di Pavia, che rappresentavano il nord, si schierarono immediatamente dalla parte di Teodorico. Nel 493, dopo quattro anni di guerra, Teodorico prese Ravenna e uccise Odoacre. Teodorico era a guida di mna popolazione che contava forse cento o centoventi migliaia di persone, con un esercito permanente di circa venticinque o trenta migliaia di soldati, stando a calcoli recenti17: un numero esiguo paragonato alla popolazione italiana complessiva, che giungeva a parecchi milioni di abitanti, ma grande abbastanza per dare all'Italia una forte base militare. Teodorico, diversamente da Odoacre, non aveva bisogno dell'appoggio dei senatori, pur se lo desiderava. Egual cosa, ma in minor grado, accadeva per il riconoscimento da parte dell'Impero d'Oriente, che comunque fu concesso nel 497 quando Anastasio I accettò che l'Italia non facesse più parte dell'Impero. I modelli di Teodorico furono Traiano e Valentiniano I, i due maggiori imperatori militari, e le sue attività politiche somigliarono molto a quelle dell'ultimo
15
B.L. Twyman, Aetius and the aristocracy (A3-a); ma per alcuni cambiamenti nei dettagli riguardanti i gruppi, cfr. F.M. Clover, The family and early career of Anicius Olybrius (A3-a), pp. 182-92. 16 Cfr. E. Sestan (Bl), pp. 202-3; A.H.M. Jones , Later Roman Empire (A3-a), p. 245. Per le vicende storiche fino al 565, cfr. le note in E. Stein (B3-a). 17
K. Hannestad, Le forces militaires d'après la Guerre Gothique de Procope, «Classica et Medievalia», 21 (1960), pp. 136-83. I calcoli si riferiscono al 530 circa, ma con buona approssimazione possono ritenersi validi anche per il 490 circa.
di quei due18. Di certo egli fu il governante più forte che l'Italia ebbe dopo la morte di Valentiniano nel 375. Lungi dal configurarsi come una rottura della continuità, il suo dominio pare piuttosto la restaurazione di una continuità che per un secolo era rimasta interrotta. Una tale impressione è rafforzata dalla documentazione relativa al suo regno, giacché il periodo ostrogoto è il primo di cui sia penenuta una buona documentazione, dopo la morte di Valentiniano. Tale documentazione deriva in gran parte dalla notevole raccolta di lettere ufficiali conosciuta come Variae, scritta da Senatore Cassiodoro durante il suo periodo di attività politica fra il 507 e il 537, ma anche da una gran varietà di altri materiali: storie, agiografie, lettere, opere filosofiche. Appare chiaro dalle Variae che quello di Teodorico fu un governo efficace: che le tasse venivano pagate, anche (pur con qualche difEcoltà) dai senatori; che alcuni esempi, almeno, dell'enorme corruzione tipica del tardo stato romano, vennero eliminati; che la pace interna venne mantenuta; e che le guerre non solo venivano vinte ma erano condotte con popolazioni straniere. Procopio, che ebbe a combattere nell'esercito bizantino contro gli eredi di Teodorico, lo considerò l'equivalente morale di un imperatore, e varie fonti sottolineano la stima goduta fra i Goti e i Romani. Pare che nel 500 promettesse al Senato e alla popolazione di Roma di non interferire con le loro leggi; e questo scrupolo diretto a conservare le tradizioni romane è la ragione principale per cui gli Ostrogoti, una volta spodestati dalle Guerre Gotiche, non lasciarono quasi traccia del loro governo in Italia, tranne forse la monumentale tomba di Teodorico a Ravenna19. Teodorico cercò di accattivarsi il Senato. Certo ci fu sempre un gruppo di senatori che preferì evitare il contatto con la corte barbara ariana, ma pochissimi dei senatori passati alla storia si tennero al di fuori degli incarichi amministrativi. Nel 522, il filosofo Boezio, uno dei capi di questo gruppo tradizionalista, venne onorato col privilegio, assolutamente privo di precedenti, di entrambi i consolati td'Oriente e d'Occidente) per i propri giovanissimi figli, e accettò il titolo di magister o~iciorum di Ravenna. A torto o a ragione, pare che egli abbia usato la sua posizione per difendere gli interessi del Senato contro il resto dell'amministrazione, e nel 523-4 fu prima imprigionato e poi condannato a morte; Teodorico, consciamente o inconsciamente, imitò ancora una volta Valentiniano, reprimendo violentemente l'opposizione dei senatori tradizionalisti. Boezio venne accusato di avere complottato con l'imperatore d'Oriente, e che fosse vero 0 no nel suo caso, resta il fatto che nel decennio seguente alla sua morte l'accusa si dimostrò vera al riguardo di altri senatori. Il Senato si divise fra i pro-Goti e anti-Goti; quando gli stessi Goti si spaccarono al loro interno, dopo la morte di Teadorico nel 526, il regno ne risultò decisamente indebolito. La fazione pro-Goti del Senato pare la più interessante. E' quella su cui esiste una documentazione maggiore, poiché i suoi membri ebbero parte attiva nell'amministrazione civile e figurano nelle Varide. Non fu affatto un gruppo omogeneo, e le carriere in reciproco conflitto di alcuni dei suoi membri indicano molto chiaramente le diverse correnti esistenti nella politica del regno ostrogoto. Dobbiamo iniziare da Liberio (circa 465-555), straordinariamente longevo, come il più giovane contemporaneo Cassiodoro, e titolare di cariche ammini strative per circa sessantacinque anni. Tenne prima alcuni incarichi sotto Odoacre, e fu uno degli ultirni amministratori ad abbandonarlo. Teodorico lo nominò subito prefetto pretoriano (493-500), e lo incaricò di insediare i Goti su quel terzo di possedimenti italiani lasciati vacanti dai meno numerosi seguaci di Odoacre. Ci sono giunte due diverse descrizioni laudative del successo di Liberio, ad opera di Ennodio e di Cassiodoro, in cui sembrerebbe che la cosa fosse avvenuta in pace ed armonia, « i vittoriosi non desideravano altro, gli sconfitti non si considerarono puniti ». Comunque siano andate le cose, nelle numerose documentazioni in nostro possesso non risultano esserci tracce di dissàpori, tranne forse nel Sannio, 18
19
Anon. Vales., 60. Anon. Vales., 66, 69; Procopio, Guerra, 6. 6.
dove si stabill un gran numero di Goti. Sembra che Liberio abbia eseguito l'espropriazione di proprietà per l'insediamento dei Goti, operazione di cruciale importanza in qualsiasi occupazione barbarica, con grande perizia. Ciò risulta ancor più rilevante se si ricorda che la conquista ostrogota fu la prima vera e propria conquista barbarica in Italia, molti decenni più tardi che in altre provincie dell'Occidente. Lasciato l'incarico di prefetto pretoriano, Liberio continuò ad avere una grande autorità e nel 510 circa divenne prefetto del pretorio per la Gallia (cioè la Provenza, che Teodorico occupò nel 508). Anche in questo incarico, di tipo più militare, sembra aver avuto eguale successo. Lo tenne fino al 533-4 circa, trovandosi in tal modo assente durante la crisi conseguente all'arresto di Boezio e per tutto il regno di Atalarico, nipote e successore di Teodorico (526-34). Durante quel regno, cominciarono a generarsi alcune tensioni fra i Goti, in quanto Atalarico era minorenne e la madre reggente, Amalasunta, era troppo romanizzata per poter risultare gradita ai più militareschi fra i Goti. Alla morte di Atalarico, Amalasunta sposò il cugino Teodato (re, 534-ó), per rafforzare il proprio potere di regnante, ma Teodato era un suo vecchio nemico e finl col metterla in prigione e, nel 535, la fece uccidere. Mandò alcuni ambasciatori che spiegassero le sue azioni all'imperatore d'Oriente, Giustiniano, e fra questi scelse, a capo della spedizione, Liberio. Liberio svelò le malefatte di Teodato e rimase in Oriente. Gli anni 534-5 segnarono la seconda crisi del regno degli Ostrogoti. Se Teodorico aveva perso il sostegno dei tradizionalisti al Senato nel 523-4, Teodato perse quello dei legittimisti fra gli amministratori nel 534-5. Significativamente, Liberio assunse subito incarichi ufficiali in Oriente. Fu prefetto d'Alessandria alla fine del quarto decennio del VI secolo e, nel 550-2, a ottantacinque anni di età, guidò eserciti in Sicilia ed in Spagna. Tornò in Italia nel 554, alla fine della guerra,e mori a Rimini, dove ancora è conservato il suo epitafio ;20Cassiodoro Senatore resistette più a lungo di Liberio. Il padre, Cassiodoro il vecchio, aveva rivestito cariche pubbliche sotto Odoacre ed era passato sotto Teodorico fino dal 490, divenendo prefetto del pretorio (circa 503-7); Cassiodoro Senatore fu quaestor nel 507-11, magister oD~iciorum nel 523-7, succedendo a Boezio, e prefetto del pretorio nel 533-8. Come stè visto, egli apparteneva a una famiglia delle province e forse anche una famiglia di nuovi ricchi (pur se è di~cile stabilirlo); ad ogni buon conto il nome Senatore, quand'anche non rarissimo, appare un po' troppo goffo, per un membro del Senato. I1 bagaglio culturale di Cassiodoro era certo quello tipico di ogni nobile istruito del tardo mondo romano, come è dimostrato facilmente da una lettura delle Var~ae. I1 termine civilitas, per non citare che l'esempio più owio, è una pietra di paragone costante nella sua rettorica: lo usa, in quella forma o in varianti, più di quaranta volte nelle Variae. Ma il successore di Boezio nell'incarico poté difficilmente mantenersi molto fedele al gruppo di Boezio stesso, e va osservato che al momento della partenza di Liberio, Cassiodoro reggeva l'incarico di prefetto del pretorio, che conservò per i primi tre anni di guerra. L'aristocrazia romana non aveva ancora abbandonato completamente i Goti. Soltanto dopo il 538, Cassiodoro lasciò l'Italia per Costantinopoli; Giustiniano non gli offerse alcun incarico. Se ne tornò, come Liberio, alla fine della guerra, e passò la vecchiaia nel Bruzio. Qui egli fondò Vivarium, che si segnala, nonostante la breve durata (la seconda metà del VI secolo), come uno dei centri ~monastici più importanti dell'Alto Medioevo per la copia di testi classici21. Teodorico sembra aver pensato che il sistema migliore per tenere in vita la civiltà romana fosse di continuarla inalterata. Aveva la stessa opinione in merito alla cultura dei Goti, soprattutto riguardo alle tradizioni dei guerrieri, e fece del suo meglio per evitare che i Goti venissero romanizzati22. Apparentemente riusci bene anche in questo. Il legame tra Goti e Romani ebbe a rimanere esclusivamente politico, nonostante le affermazioni di Cassiodoro nel suo panegirico su Liberio per cui « le due nazioni, vivendo assieme, si uniranno ». Ma Teodorico non impedì alla propria cerchia 20
Cfr., in generale, J. Sundwall, Abhandlungen (B3-a), pp. 133-6; in particolare, Variae, 2. 15, 16; Ennodius, Epistolae (MGH A.A., 7), 9. 23. Per Amalasunta, Procopio, Guerra, 5. 734; per il Sannio, Variae, 3. 13. 21 In generale, Sundwall, op. cit., pp. 106-7, 154-6; in particolare, Variae, 1. 3, 4; 9. 24, 25 (e passim). 22 Variae, 1. 24, 38; Anon. Vales., 61; Procopio, Guerra, 5. 2.
di assorbire valori romani, e sia Amalasunta che Teodato ebbero una cultura notevole. Teadorico rimase il tipico eroe-guerriero, ma i suoi successori non lo erano già più. I Goti cominciarono, non senza ragione, a inquietarsi poiché i loro sovrani erano così alienati dalla società gotica che pare progettassero segretamente ti mettere l'Italia nelle mani dell'Imperatore. Uccisa Amalasunta, Giustiniano dichiarò guerra, dando inizio ai vent'anni delle Guerre Gotiche (535-54). Quando il suo esercito, grudato da Belisario, risalì dalla Sicilia nel 535-ó, Teodato venne deposto e sostituito da un guerriero, Vitige (536-40). Da quel momento in poi, ogni figura di sovrano parve coincidere sempre più con l'ideale del barbaro rozzo e ineducato. Come s'è visto, Cassiodoro durò solo altri due anni: fece comunque in tempo ad assistere alla condanna a morte di senatori romani a Ravenna. Alcuni altri senatori, però, non persero affatto il proprio potere. Cetego, presidente del Senato, considerato come un sostenitore dei Goti, fu obbligato a lasciare Roma nel 545. E non si sa cosa sia successo di Cipriano, l'accusatore di Boezio, che aveva fatto crescere i propri figli fra i Goti, o di suo fratello Opilione, che aveva difeso Teodato a Costantinopoli nel 534 quando questi era stato accusato da Liberio, pur se è possibile che Opilione sia morto a Roma poco prima del 550. Mano a mano che la guerra crebbe in ferocia, la spaccatura si approfondì. Totila, l'ultimo Bran re degli Ostrogoti (54152), ebbe un solo uíEciale romano, il quaestor Spino, oscuro personaggio proveniente da Spoleto23. Questa descrizione del rapporto e della sempre più grave spaccatura fra Goti e Romani ha però un difetto grosso ancorché consacrato dalla tradizione: tiene conto soltanto dell'atteggiamento delle aristo«azie di Roma e di Ravenna. Altre aristocrazie possono essere state caratterizzate da simili contrasti; per esempio, la grande nobiltà napoletana si oppose a Belisario nel 536; ma, al contrario, Dazio, di Milano, supplicò Belisario d'aiutarlo nel 53724. La popolazione nel suo insieme avrà il molo di protagonista nei successivi capitoli, ma l'impatto dei Goti su di essa va discusso qui, benché non sia facile individuarlo. Certo i Goti non si diffusero omogeneamente in Italia, pare che si siano concentrati a nord del Po, particolarmente attorno a Verona e Pavia (dove si trovano i due palazzi di Teodorico, gli unici due fuori Ravenna), e negli Appennini centrali, il Piceno e il Sannio settentrionale (corrispondenti alle Marche e all'Abruzzo di oggi)25. I1 resto della penisola pagava la tertia, la terza parte gotica, sotto forma di imposta. Non v'era motivo per cui la presenza dei Goti dovesse pesare Esicamente sulla maggior parte degli Italiani. Ai tempi di Teodorico, essi potevano anzi aver provato un certo sollievo al pensiero della pace che garantiva, sollievo temperato, senz'altro, e con giustificazione, dal risentimento per il gravame di tasse che egli impose. Va detto però che i Goti ridussero le tasse in tempi di carestia, mentre i Bizantini (come verranno qui chiamati, per evitare confusioni, i Romani d'Oriente), quando cominceranno a rioccupare l'Italia, non faranno proprio nulla per ridurre le tassazioni, e Procopio afferrna anzi che nel 541 i Bizantini giunsero a pretendere tasse arretrate non versate ai Goti durante la prima parte della guerra o prima di essa. Né i Goti né i Bizantini che presero il loro posto introdussero modifiche sostanziali alle strutture sodali. Forse perciò non sorprende che quando la guerra scoppiò il popolo non provasse grandi entusiasmi. Nel 536 le genti di Napoli non erano neanche certe di qual parte volessero sostenere e gli abitanti di Roma furono una parte in causa piuttosto restia durante l'assedio posto alla città dai Goti nel 536-7, il primo di una serie di quattro26. L'impressione è che i Goti ed i Bizantini abbian combattuto per tutti i venti anni della guerra in mezzo ad una popolazione che non vi partecipava minimamente. ~ alquanto dubbio che a quella popolazi~ne interessasse qualcosa di diverso dalla pace tout court: e non riuscirono ad ottenerla. Le guerre gotiche ebbero sulla società un impatto certo maggiore della pace, ed in tale contesto è situato l'unico mutamento sociale attribuibile agli Ostrogoti. Durante la tarda romanità, gli schiavi 23
Ibid., 7. 40. Per Cipriano e Opilione, cfr.. Sundwall, op. cit., pp. 110-1, 142-3; Variae, 8. 16, 17, 21, 22; Anon. Vales., 85-6; Procopio, Guerra, S. 4. Per Catego, ibid., 7. 13. 24 Ibid., S. 8-10; 6. 7. 25 Cfr. V. Bierbrauer (B3-a) 26 Per. Ie tasse: Procopio, Guerra, 7. 1. Per Napoli: ibid., 5. 8-10. Per Roma ibid., S. 20.
tendevano a fuggire dalle proprietà fondiarie in cui erano tenuti; durante la guerra trovarono una direzione in cui scappare, e numerosissinu nel quinto decennio del VI secolo, raggiunsero le file dell'esercito di Totila che volentieri li accolse. Nel 546 un senatore della Lucania, Tulliano, armò gli schiavi facendone un reparto dell'esercito bizantino. Totila prometteva possedimenti dei padroni a coloro che si ribellavano ed il suo comportamento è stato visto come una « rivoluzione sociale » contro il Senato, ma una spiegazione più convincente individua nei meccanismi reattivi instaurati dalla guerra la responsabilità di tale scelta. Di norma, gli Ostrogoti non avevano alcun interesse a interferire nelle gerarchie sociali italiane, la loro stessa aristocrazia possedeva fondi, probabilmente come diretta conseguenza dell'insediamento originario. Nel 553, Ranilo, una nobile di stirpe gota, donò terreni situati nei pressi di Urbino e di Lucca alla Chiesa di Ravenna, e con quelli donò anche gli schiavi, « se in questi tempi barbarici i fuggitivi possono essere ripresi ». Non c'è motivo di supporre che Totila avesse opinioni molto diverse: era sua consuetudine, quando aveva il controllo su proprietà senatoriali riscuotere direttamente le rendite lasciando i contadini dov'erano 27 Gli eventi bellici riempiono quasi quattro volumi delle storie di Procopio, e non possono venir descritti qui se non in un rapido proElo. Belisario si fece progressivamente strada, risalendo la penisola fino al Po, nel 535-40, e occupò Ravenna, mentre Vitige si ritirò in Oriente come semplice patrizio imperiale. Ma al nord i Goti elessero nuovi re, il terzo dei quali, Totila, con efficaci e fulminee campagne militari tra il 542 e il 550, riconquistò tutta l'Italia e la Sicilia eccezion fatta per alcune città costiere (fra cui Ravenna) protette dalla flotta bizantina. Soltanto un potente esercito, condotto da Narsete, riuscl a sconfiggere Totila nel 552, il successore di lui, Teia, lo stesso anno, e un esercito franco-alemanno che sosteneva i Goti nel 554. Ma neanche allora i bizantini riuscirono a controllare le terre a nord del Po, che erano state dominate per lo più dai Franchi fuoriusciti dalla Gallia all'inizio del quinto decennio del secolo VI, pur se a Pavia, Verona e Brescia continuavano a funzionare presidI militari dei Goti. Entro il 561 Narsete aveva riconquistato anche il nord, ma il breve dominio franco, non va dimenticato: è l'inizio di una lunga tradizione di interventi dei Franchi in Italia. Le guerre devastarono l'Italia. La conquista e la riconquista imperversarono sull'intero paese, pur se alcune zone ebbero meno a patirne: la Toscana, probabilmente anche le terre a nord del Po (eccetto Milano), almeno dove i Franchi non avevano arrecato danni troppo notevoli. Le aree in cui più si combatté furono l'Emilia, il Piceno, l'Umbria e la Campagna Romana, chiavi strategiche dell'Italia tra Roma e Ravenna (e quelle aree rimasero più tardi gli unici territori bizantini nel settentrione italiano longobardo). Procopio descrive carestie tremende sin dal 538. Nel 556 papa Pelagio I afferma che i propri possedimenti italiani sono disabitati28. I Goti scomparvero come nazione. Owiamente molti di loro devono essere rimasti nei primitivi insediamenti, soprattutto a Ravenna la nomenclatura gotica e le proprietà fondiarie in mano ai Goti continuarono per molto tempo a sussistere. Ancor nel 769 il proprietario terriero bresciano Stavile si descriveva come « soggetto alla legge dei Goti »29. Ma i Goti non rispuntarono più come entità politica, e la loro cultura archeologica svani senza lasciar traccia; i Longobardi che s'insediarono nelle loro aree non ne ripresero pressoché alcun elemento. Sotto altri aspetti, comunque, è probabile che l'Italia si sia sollevata abbastanza velocemente. L'area attorno a Ravenna fu una delle principali zone di battagliá, eppure i papiri ravennati della sesta e settima decade del VI secolo testimoniano di ben poche 27 Cfr. Stein, op. Cit., II, pp. 569-71 e i riferimenti ivi citati, seguendo L.M. Hartmann (Bl), I, pp. 305-6 e i riferimenti ivi citati. Diversamente: G. Tabacco, La storia politica e sociale (Bl), pp. 37-8, e Procopio, Guerra, 7. 6, 13. Ranilo: JO. Tjader, Die nichtliterarischen lateinischen Papyri Italiens, I (Lund, 1955), n. 13.
28
Procopio, Guerra, 6. 20; Pdagius in MGH Epp., 3. pp. 72-3 L. Schiaparelli (curatore), Codice diplomatico longobardo (Roma, 1929-33) che d'ora in poi apparirà come « Schiaparelli »), n. 228; cfr. L. Schmidt, Die letzien Ostgoten, « Abbandlungen der Prenssischen Akademie der Wissenschaft, Philosophische-historische Klasse », 1943, n. 10, pp. 3-15, pur se non è affatto vero che tutti i nomi da lui elencati appartengano a dei Goti. 29
distruzioni. La desolazione totale dell'Italia in quegli anni è stata sicuramente esagerata. Comunque la guerra era soltanto agli inizi. Gli anni 554-68 costituiscono un breve intervallo nell'arco dei settant'anni di una guerra che riprese nel 568 con le invasioni dei Longobardi e continuò, con qualche interruzione, fino al 605. Pur se l'Italia medicò le proprie ferite dopo il 605, come aveva già iniziato a fare durante la breve pace, non c'è dubbio che il colpo era stato forte. Si vedrà quanto nei prossimi capitoli. Gli anni 554-68 segnano una svolta, ed è alquanto utile stabilire alcuni dei mutamenti politici cruciali dell'epoca delle guerre, in un momento in cui la documentazione è ancora abbastanza buona. Nel 554 Giustiniano emise una Prammatica Sanzione allo scopo di riconfermare l'Italia nel nuovo e legittimo posto di provincia più occidentale dell'Impero 30Ogni concessione fatta agli Ostrogoti doveva essere rispettata, tranne quelle decise da Totila. La proprietà fondiaria doveva essere ristabilita secondo l'assetto del 490, con particolare riguardo per il capovolgimento delle misure prese alla fine della prima metà del secolo VI. Gli schiavi dovevano tornare presso i loro padroni. Le imposte arretrate dovevano venire pagate per metà, e trascorso un lasso di cinque anni. I giudici civili dovevano presiedere i processi civili sostituendosi all'esercito e spettava ai vescovi e ai nobili di ciascuna regione nominarli. Quest'ultimo prowedimento, in realtà, ebbe ben poco effetto: l'esercito aveva amministrato la giustizia in quelle parti dell'Italia che controllava sin dalla quarta decade del secolo VI; le amministrazioni civili gli erano del tutto subordinate e continuarono ad esserlo. Nell'Italia degli anni 554-68 ci furono prefetti pretoriani, ma non ne conosciamo i nomi. L'Italia era governata da Narsete, comandante in capo. Si è già visto come fosse impossibile per l'Italia mantenere due gerarchie civili, e quel che era rimasto del Senato scomparve e verso il 600 non sussisteva più come organismo a sé. Molti senatori non tornarono più indietro da Costantinopoli, divenuta ora la capitale, e gli altri s'affossarono fra i più anonimi ranghi dell'aristocrazia italiana. Ma verso la fine del secolo VI anche l'amministrazione civile cominciò a declinare per importanza, e venne inghiottita dall'amministrazione militare. I Goti non avrebbero mai fatto una cosa del genere, poiché il loro esercito era troppo distinto, anche etnicamente. L'influenza dell'esercito bizantino dopo la riconquista fu comunque ben maggiore del controllo eseguito dall'esercito dei Goti sull'amministrazione. L'Italia, immiserita, poteva a malapena mantenere un'unica gerarchia, civile ~o militare che fosse, e durante il secolo VII l'esercito giunse gradualmente, sia nei territori longobardi che in quelli bizantini, a coincidere con la stessa aristocrazia fondiaria. L'Italia altomedievale fu molto più semplice dell'Italia tardoromana, pur se (come si vedrà) non completamente diversa.
30
In Cortus iuris civilis, III (a cura di R. Scholl e W. Kroll, 6' ed., Berlino, 1954), appendici 7 e 8; cfr. T.S. Brown (A3b).
Capitolo secondo IL REGNO ITALICO, 568-875: CONTINUAZIONE E CONSOLIDAMENTO AL NORD Il Regno Longobardo I Longobardi dominano la storia italiana altomedievale, e la loro improvvisa apparizione in Italia dalla Pannonia (I'attuale Ungheria) nel 568 segna tradizionalmente una rottura nella storia italiana. Dal 568 in poi, l'Italia dovette subire quasi quattordici secoli di disunione, in quanto gli stessi Longobardi non conquistarono mai l'intera penisola. Essi iniziano, quindi, la lunga storia italiana di particolarismi e occupazioni da parte di potenze straniere. D'altra parte, a partire dal 600 circa, occuparono due terzi dell'intera penisola, e dalla fine del VII secolo forse i tre quarti di essa, e sin dai regni di Grimoaldo e di Liutprando (rispettivamente: 66271 e 712-44), il compatto Regno Longobardo, che comprendeva la maggior parte dell'Italia settentrionale e la Toscana, ebbe supremazia politica sui ducati longobardi degli Appennini meridionali, Spoleto e Benevento, e sugli avamposti romanobizantini, aventi per centri Ravenna, Roma, Napoli e le estremità meridionali della terraferma italiana (cfr. carta geografica 2). Le istituzioni politiche longobarde vennero mantenute praticamente in toto dai Franchi, dopo la conquista di Carlomagno nel 774, e la loro fisionomia longobarda era assai più decisa di quanto non lo fossero state ostrogote le istituzioni di questo popolo. All'origine, certo, molte di esse risalivano ai Romani, anche alcune dai nomi germanici, come si vedrà, ma vennero risistemate dai Longobardi ricorrendo (con aiuto romano) a frammenti più antichi, proprio come accadde per la costruzione, da parte dell'imperatore Costantino, della chiesa di S. Lorenzo fuori le mura, a Roma, eretta utilizzando materiali di templi demoliti. Gran parte dei progressi compiuti dalla storia dell'Italia medievale possono esser fatti risalire in un modo o nell'altro al periodo longobardo, e questo apparirà nel libro una sorta di punto di partenza. Ma molto più che una rottura storica, l'invasione longobarda segna una rottura storiografica. A partire dal 568, e ancor più dopo il 610, i materiali si diradano moltissimo, riprendendo nuovamente solo con l'avvio delle serie di documenti medievali all'inizio dell'VIII secolo. (L'eccezione, in questo vuoto, è Ravenna, con i suoi papiri del VII secolo e la competente cronaca locale di Andrea Agnello. In merito, si veda il capitolo terzo.) La nostra fonte principale è la storia longobarda di Paolo Diacono, scritta nell'ultima decade dell'VIII secolo, ma anch'egli dovette confrontarsi con la scarsezza di materiali, e la sua opera è di conseguenza piuttosto breve (circa 140 pagine in folio)1. Paolo fu un critico intelligente e uno scrittore dallo stile attraente, ed era in grado di correggere il latino delle sue fonti (che comprendevano Gregorio di Tours), ma aveva un senso semplicistico del passato. Nella sua storia, il senso del passato si riduce a una sorta di orgoglio per la passata prodezza dei Longobardi, venato dal desiderio di rendere i Longobardi pagani più violenti che fosse possibile, cosl da far risaltare il contrasto con i loro discendenti cristiani, e in particolare il re Liutprando. Egli offuscò o eliminò fenomeni che potevano risultare imbarazzanti, come l'arianesimo longobardo, o l'opposizione papale al suo eroe Liutprando. La sua affidabilità è spesso sospetta, e le sue prove devono 1
Ed. in MGH S.R.L., pp. 4S-187; di seguito: « Paolo, H.L.».
venir frequentemente soppesate con cautela. Oltre a lui, la fonte principale è la legge longobarda, in particolare l'Editto di Rotari del 643 (388 capitoli) e la legislazione di Liutprando (152 capitoli). Nei casi in cui ci siano altre fonti alternative, così come accade per il tardo secolo VI, si tratta generalmente di frammenti contraddittori e confusi, quasi tutti provenienti dall'esterno del regno longobardo e ad esso ostili. Come conseguenza di tale scarsezza di fonti, la storiografia relativa al periodo longobardo consiste, più che in ogni altro periodo della storia italiana, in una miniera di opposte teorie formulate da storici moderni. Gli storici degli ultimi 150 anni hanno suggerito più o meno ogni possibile opposta interpretazione del tardo VI secolo e del VII, ricorrendo a generosissime interpretazioni delle fonti probanti. Gli storici del periodo ostrogoto tendono ad assumere atteggiamenti che, nell'insieme, convergono. Per quanto riguarda il periodo longobardo, invece, la storia tende a diventare, alquanto apettamente, una congerie di teorie di singoli storici. Una proporzione notevole di quanto qui segue è fatta necessariamente di congetture. La storia dei primi Longobardi, prima del 568, non ha rilievo diretto per l'Italia. Basti dire che si trattava di una popolazione germanica, come i Franchi, e che parlava una lingua imparentata con l'antico alto tedesco. I1 primo a parlarne, localizzandoli lungo il basso Elba, fu Tacito; successivamente si mossero verso quella che è oggi la Bo mia, quindi nell'Austria inferiore, infine, all'inizio del VI secolo (circa 527 ) s'insediarono nella provincia romana di frontiera della Pannonia. Per quanto potessero ricordare, erano stati sempre governati da un re, per lo più della famiglia Lething, almeno fino al 547, quando l'ultimo re di quella dinastia, Waltari, ebbe per successore il proprio tutore Audoino, padre di Alboino. Procopio li definisce cattolici nel 548, allorché Audoino sollecitò l'aiuto di Bisanzio contro i Gepidi ariani, che i Longobardi infine sconfissero nel 567 con l'aiuto degli Avari2. Tal cattolicesimo era inizialmente limitato certamente alla corte e ai suoi fedelissimi, e nel 568 il re era già divenuto ariano e, secondo il punto di vista bizantino, un eretico; ciò comunque indica che i Longobardi, al tempo di Giustiniano, facevano parte dell'orbita bizantina. Anche i legami conseguiti attraverso i matrimoni dei re del VI secolo fino ad Alboino sembrano indicare che la popolazione rientrava in un vasto ambito centro-europeo di mutuo sostegno, sotto l'egemonia dei Franchi. I Longobardi non arrivarono dal nulla, né si trattò di semplici barbari selvaggi allo stadio primitivo. Avevano occupato per quarant’anni una provincia romana. Avevano anche incluso nel proprio sistema politico un'intera serie di titoli militari romani, quali dux e comes, e probabilmente agivano formalmente in qualità di confederati romani. Narsete, quando distrusse Totila, chiese ad Audoino un contingente militare, e l'ottenne, ma, trovandolo troppo violento ed indisciplinato, lo rispedì presto indietro3. D'altra parte, quando Alboino invase l'Italia tenne sotto il proprio controllo sia il grande e disparato esercito che la popolazione, dal S68 fino al suo assassinio nel 572. Ovviamente, la disciplina non è un indice particolarmente utile o significativo di romanizzazione (e ancor meno della civilizzazione), ma nei primi anni i Longobardi sono descritti quasi esclusivamente in base a termini militari. Non abbiamo a disposizione altri criteri. Gianpiero Bognetti vide nell'invasione di Alboino un « piano organico e generale », una strategia su vasta scala. Alboino vantava legami franco-austrasiani tramite la 2
Procopio, Histories, 7. 34. Cfr. J. Werner Die Langobarden in Pannonien (Monaco, 1962, e ibid., Die Heriunit der Bajumaren... in Zur Geschschte der Bayern, a cura di K. Bosl (Darmstadt, 1965), pp. 2143. Per la storia dei Longobardi fino al 590, cfr. L. Schmidt (B3-b). 3 Procopio, Histories, 8. 25, 33.
prima moglie e, con una conversione tattica all'Arianesimo nel 565 circa, sperò di ottenere l'appoggio dei Goti ariani dell'Italia settentrionale, che erano stati appena schiacciati da Narsete nel 561. Alboino avanzò lentamente e apparentemente senza opposizioni attraverso la pianura padana nel 569, lasciando duchi nelle maggiori città, in particolare il nipote Gisolfo a Cividale del Friuli; quindi assediò Pavia, la prima città che gli fece resistenza, per tre anni (569-72). Durante questi tre anni, cominciarono le complicazioni, poiché contingenti di predatori longobardi iniziarono a spargersi sulle Alpi penetrando nella Borgogna dei Franchi (negli anni 569-75), e verso il 571 i Longobardi stanno già formando ducati per un lungo tratto verticale della penisola, a Spoleto (sotto Faroaldo) e Benevento (sotto Zotto), senza avere apparentemente occupato i territori intermedi. Bognetti ha suggerito delle spiegazioni: l'invasione della Borgogna fu il risultato dell'alleanza con Sigeberto d'Austrasia, mentre i ducati della penisola furono in effetti costituiti dai Bizantini come presídi contro Alboino in punti strategici, in quanto sia Spoleto che Benevento controllavano importanti passi appenninici. Questa seconda ipotesi pare molto verosimile, non altrettanto la prima. In ogni caso, l'assassinio di Alboino, forse con la complicità bizantina, mise fine al « piano organico », e durante il resto del secolo regnò il caos4. Il successore di Alboino, Clefi, fu pure assassinato nel 574, e nei seguenti dieci anni, durante il cosiddetto interregno, i Longobardi rimasero senza re. Paolo Diacono sostiene che a governarli c'erano trentacinque duchi, pur se il numero sembra davvero troppo alto5. Ne nomina soltanto cinque, quelli di Pavia, Bergamo, Brescia, Trento e Cividale, per la maggior parte vicini al Trentino, ossia alla zona in cui visse una delle sue principali fonti, Secondo di Non. Possiamo aggiungere Torino, Spoleto e Benevento, con sicurezza, ma per altri si possono soltanto fare supposizioni. Entro 1'VIII secolo, i Longobardi ebbero ducati o loro equivalenti in tutte le città romane del nord e della Toscana, ma non si può ancora affermare che ad ogni città corrispondesse un ducato. Quanto a questo, non si può nemmeno essere certi che i Longobardi controllassero determinate zone, poiché i Bizantini mantennero certamente dei presidi in alcuni luoghi importanti dell'Italia del nord: sul Lago di Como fino al 588, a Susa (sulla principale via verso la Borgogna) finché i Franchi la presero nell'ottavo decennio del VI secolo, nella valle di Non fino alla decade seguente, e a Cremona fino al 603. L'interregno costituisce una delle maggiori difficoltà della storiografia longobarda. Di solito lo si vede come il contrassegno della barbarie e dell'atavismo dei Longobardi; l'abbandono della monarchia è un evento quasi privo di paragone nella storia dei regni romano-germanici e se ne deduce che evidentemente non dovevano essere troppo legati a tale forma. Tuttavia, non era proprio cosa normale, neanche per i Germani dei tempi di Tacito, abbandonare la monarchia nel bel mezzo di una guerra, che in questo caso continuò anche dopo la morte di Clefi: il primo contrattacco bizantino si ebbe sotto Baduario nel 57S, e fu un clamoroso insuccesso. Altre spiegazioni dell'interregno paiono più probabili. Ne sono state suggerite parecchie. La più soddisfacente l'ha offerta ancora Bognetti, affermando che i duchi longobardi 4
G.P. Bognetti, « Santa Maria foris portas di Castelseprio e la storia religiosa dei Longobardi » (d'ora in avanti: S.M.C.) in Eta Longobarda (d'ora in avanti: E.L.) (Milano, 19668), Il, pp. 71ss.; ibid., Tradizione Longobarda e politica Bizantina nelle origini del ducato di Spoleto, E.L.., Ill, pp. 441-7S; ibid., La rivalità tra Austrasia e Burgundia..., E.L., IV, pp. 559-82. 5 Paolo, H.L., 2. 32.
potrebbero essere stati invitati alla ribellione e disgregati dalle offerte bizantine di denaro. Menandro, il principale cronachista bizantino per la settima e ottava decade del secolo VI, nota che nel 577 l'imperatore Tiberio II sborsò ai Franchi 30.000 libbre d'oro perché muovessero guerra ai Longobardi, e ai Longobardi perché trattassero la pace. Anche nel 579 mandò denaro a singoli duchi longobardi perché si ribellassero. E in realtà, nelle fonti del VI secolo giunteci, particolarmente le lettere di Gregorio Magno, troviamo i nomi dei Longobardi che combatterono contro Bizantini, così come, e quasi in egual misura, di quelli che combatterono a loro fianco. Uno di questi ultimi, Droctulfo, nella tomba erettagli a Ravenna, si meritò un'iscrizione celebrativa alle sue gesta eroiche: « terribile d'aspetto ma d'animo nobile, aveva lunga barba e ardito cuore. Amò sempre i fasti ed il nome di Roma e fu lo sterminatore della propria gente ». Etnicamente, Droctulfo era uno Svevo, e la confederazione longobarda comprendeva un gran numero di gruppi etuici diversi—Sassoni, Gepidi, Bulgari, Sarmati, Svevi, Turingi, Romani, Pannonici— e i Sassoni possono venir considerati come un gruppo in sé omogeneo, stando alle nostre fonti. Una tale mescolanza non ha certo aiutato la coesione politica dei Longobardi in quel periodo. Spoleto e Benevento si erano già certamente ribellate a Bisanzio, e potevano diffondere il caos nella penisola. D'altra partc, verso il 580 i Bizantini avevano « comperato » il duca del Friuli, Grasulfo, probabilmente il più potente duca del settentrione. Si deve almeno ammettere che l'ottavo e il nono decennio di quel secolo devono essere stati così caotici, sia per i Longobardi che per i Romano-Bizantini, che l'uso intelligente di denaro bizantino potrebbe essere ben stato la causa dell'abbandono temporaneo della monarchia longobarda6. Ma anche se le cose andarono così, si trattò di fenomeno temporaneo. Nel 584, di fronte alle invasioni franco-austrasiane provenienti dal nord, i duchi longobardi si riunirono ed elessero Autari, figlio di Clefi, loro re. Se quanto afferma Paolo è vero, dovettero avere intenzioni politiche ben ferme, visto che ciascun duca cedette al re metà delle proprie sostanze, denaro e possedimenti per renderlo forte baluardo della monarchia. Certo è che sin da allora i re in Italia poterono contare su una base di vasta proprietà fondiaria, che durò fino all'XI secolo. Darmstadter calcolò che in Lombardia e in Piemonte questa consisteva di un decimo e più della totale area fondiaria7. Autari è presentato come un re energico, giovane e romantico, ma si sa poco di lui. Sopravvisse a tre invasioni franche in sei anni, e morì nel 590 dopo avere appena stabilito un'alleanza con i Bavaresi, attraverso le nozze con la principessa bavarese Teodolinda. Poco prima della morte, emise un editto anticattolico. Gregorio Magno (che fu eletto Papa in quello stesso anno) ne ritenne la morte un segno della giustizia divina, ma Dio sembra esser stato dalla parte di Autari: l'ultima invasione franca, del 590 consistette in un doppio attacco, coordinato con i Bizantini e destinato a spazzar via i Longobardi, ma non ebbe successo. I Longobardi si barricarono nelle città, senza opporre resistenza, ma i Franchi e i Bizantini non riuscirono a congiungere le forze e infine iFranchi se ne tornarono indietro. I Bizantini ne furono oltraggiati, ma probabilmente i Franchi non avevano alcun vero desiderio di eliminare i Longobardi. A1 contrario, ottennero quasi certamente la supremazia sull'Italia settentrionale, secondo la tradizione impostasi verso la metà del secolo VI. Autari pagava loro il tributo, e pur se una fonte afferma che il suo successore Agilulfo (590-616) avrebbe 6
Paolo, H.L., 3. S-7, 19; Menandro, Historia, 25, 29 (a cura di B.G. Niebuhr, Corpus Scriptorum Historiac Byzantinae, I, Bonn, 1829, pp. 327-8, 331-2). 7 Paolo, H.L., 3. 16; P. Darmstadter (B3-b), p. 5.
sborsato una somma di denaro per liberarsi da esso, è possibile trovare i Longobardi, ancora nel terzo decennio del secolo VII, tra le file dell'esercito franco contro il re degli Slavi Samo, assieme agli Alemanni che erano certamente una popolazione tributaria dei Franchi8. Dopo il S90, i Bizantini si rassegnarono momentaneamente alla sopravvivenza dei Longobardi, e cominciarono a consolidarsi nelle aree geografiche in cui erano confinati. Le loro élite militari finirono con lo stabilirvisi con potere sia politico che economico, a fianco delle gerarchie episcopali di Ravenna, Roma e Napoli (si veda il capitolo terzo). A partire dal 590 anche fra i Longobardi cominciò a delinearsi una maggiore coesione politica. Autari tenne soprattutto un atteggiamento difensivo, ma Agilulfo, privo di minacce da parte dei Franchi, passò all'attacco, occupando o rioccupando parecchie città lungo il Po, e minacciando Roma nel 593-4. Verso il 605, la serie di tregue concordate fra le due parti si cristallizzò in una pace permanente, che i re longobardi avrebbero infranto solo due volte nei successivi 120 anni. Da questo momento, fu possibile una ripresa dell'Italia. Per Agilulfo ciò significava il consolidamento del potere centralizzato dello stato longobardo, e Paolo lo descrive mentre ottiene la resa o la sottomissione di almeno otto duchi (la fonte di Paolo, Secondo, si trovava presso la corte di Agilulfo, e ciò rende Paolo testimone affidabile di questo regno). Entro il 603, anche Gisolfo II del Friuli, il ducato politicamente più autonomo di tutto il nord, venne a patti. Più a sud, Agilulfo fu o meno ambizioso o meno fortunato. Pare che verso la fine del suo regno fosse riuscito a stabilirsi in Toscana, pur se nel 603 Gregorio Magno ci indica l'esistenza là di un duca indipendente lombardo, Cillanne, in guerra con Pisa (che per breve tempo fu autonoma). D'altra parte, Spoleto e Benevento ebbero vite politiche del tutto indipendenti, anche se Paolo afferma che il duca Arichi I di Benevento (591-641) era un friulano messo al potere da Agilulfo: così, per esempio, il duca Ariulfo di Spoleto, che nel 592 minacciò per conto proprio Roma, si rifiutò di aiutare Agilulfo a fare la stessa cosa nel 5939. Certamente Agilulfo concesse ai ducati meridionali una autonomia de facto, e per tale aspetto fissò la situazione politica per un secolo e mezzo a venire, con la breve eccezione del regno di Grimoaldo. Il regno longobardo non incluse il sud, e la storia del mezzogiorno è diversa, come si vedrà nel capitolo sesto. A1 nord, però, Agilulfo riuscì ad avere il riconoscimento della propria supremazia da parte di tutti gli altri potenti gruppi longobardi, e su questa base cominciò a consolidare lo stato, che per la prima volta comincia a prender forma nelle nostre fonti. Lo fece anche imitando accuratamente forme e cerimonie romane e bizantine, e sicuramente si servì di consiglieri e ministri romani, fra i quali Secondo di Non. Sulla decorazione in oro d'un elmo ritrovato in Toscana appare una sua immagine, fiancheggiato da guerrieri longobardi ma pure da angeli che portano insegne recanti la parola victoria. Un'iscrizione ce lo presenta con i titoli romaneggianti di grat(ia) d(e)i, vir glor(iosissimus), rex totius Ital(iae). E, imitando Autari, egli usò certamente il titolo romano e ostrogoto di flavius. Nel 604 volle che il proprio figlio Adaloaldo, già battezzato cattolico, venisse presentato come re nel circo
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Autari: Gregorio Magno, Epistolae (MGH Epp., 1-11), 1. 17. Per i Franchi: Paolo, H.L., 3. 17; Fredegar, Chronicon, ıv, 43, 68 (MGH Scriptores Rerum Merovingicarum = S.R.M., III). 9
Per i Duchi: Paolo, H.L., 4. 3, 8, 13, 18, 27; Gregorio Magno, Epp., 2. 33, 45; 13. 36.
romano di Milano (alla maniera degli imperatori a Costantinopoli), al cospetto di ambasciatori provenienti dalla Francia10. E’ chiaro che Agilulfo, utilizzando una serie piuttosto eclettica di immagini, mirava a dare al suo regno una patina di romanità. Bognetti lo ha visto come una figura eroica, il guerriero ariano (o pagano) che cercava di romanizzare e cattolicizzare la sua corte e la sua eredità simile in molti modi al Teodorico di un secolo prima e, come Teodorico, suscitando l'ira nazionalistica germanica sui propri successori, così da far iniziare una serie di colpi di stato religiosi e guerre civili che durarono nell'assieme dal 626 al 690. L'interpretazione di Bognetti mi sembra però molto azzardata. In ogni caso, l'intera vicenda della storia religiosa dei Longobardi va discussa, pur se brevemente. I Longobardi erano sicuramente per la maggior parte pagani al momento del loro arrivo in Italia nel 568, pur se conosciamo poco circa le loro pratiche: i sacrifici resi alla testa di un capro, come racconta Gregorio Magno, o in un tempietto nel bosco, secondo quanto dice Giona di Bobbio (che scrisse nel quinto decennio del VII secolo), o tirando frecce contro una pelle appesa ad un albero, come nella vita di Barbato del secolo IX riguardante il vescovo di Benevento vissuto nell'ottava decade del secolo VII11. Ma sovrapposta a ciò, almeno per una parte dell'aristocrazia, c'era la religione cristiana. Dalla metà del VI secolo furono in gran parte cattolici, ma sin da Alboino cominciarono ad essere ariani, almeno a corte. Sappiamo che Autari fu attivamente ariano. Può darsi lo sia stato anche Agilulfo: di certo non fu cattolico, pur se gran parte della sua corte lo fu; Aricaldo (626-36) e Rotari (636-52) lo furono certamente. Dei re più tardi non sappiamo se qualcuno fu ariano, ma Grimoaldo probabilmente si (66271). Adaloaldo (616-26), Ariperto (652-61) e i successori di Grimoaldo furon tutti cattolici. Bognetti sostiene che ci sia stata una grande frattura tra elementi « progressisti », che desideravano introdurre il cattolicesimo alla corte longobarda e della società, e i gruppi di guerrieri nazionalisti e tradizionalisti, che usavano l'arianesimo di Alboino e Autari come pietra di paragone. Agilulfo poté circondarsi di cattolici, come la moglie Teodolinda, o Agrippino vescovo di Como, o l'irlandese Colombano (che fondò nel 613 il monastero di Bobbio), in quanto nell'Italia settentrionale il cattolicesimo si ricollegava allo scisma dei Tre Capitoli (un conflitto sull'ortodossia di tre trattati di teologia, che nascondeva tensioni interne alla chiesa d'oriente, e tra l'Imperatore di Bisanzio e il Papa di Roma) fin dal 551 e si opponeva quindi sia al papato che ai Bizantini. Però, quando, sotto Adaloaldo e la madre reggente Teadolinda, si manifestarono tendenze atte a por fine allo scisma, i nazionalisti longobardi cominciarono ad agitarsi. E quando nel 626 l'imperatore d'Oriente Eraclio iniziò a vincere nelle sue guerre contro i Persiani, rendendo in tal modo più palpabile la minaccia bizantina, i Longobardi, allarmati, sostituirono prestamente ad Adaloeldo un ariano, Arioaldo. Da quel momento in poi, ogni qualvolta i Longobardi ebbero un re cattolico, ogni sua attività fu indebolita dal pericolo di una rivolta dei tradizionalisti, come accadde nel 661-2, e poi ancora nel 688, quando il duca ribelle di Trento, Alachi, giunse, senza rimanervi molto, al trono. Alcuni dei problemi relativi all'affresco di questo periodo scendono in dettagli particolarissimi, che non sono rilevanti per la nostra narrazione. I1 quadro che 10
Paolo, H.L., 3. 16; 4. 30; O. von Hessen, Secondo contributo all'archeologia Longobarda in Toscana (Firenze, 1975), pp. 90-7; E.L., III, p. 525. 11 Gregorio, Dialoghi (a cura di U. Moricca, Roma, 1924), 3. 28; fonas, Vitae Columba„s (a cura di B. Ktusch, MGH S.R.M., IV, Hannover, 1902), 2. 25, Vita Barbati (in MGH S.R.L.), p. S67.
Bognetti offre, però, è quello di gruppi ben definiti, legati a consapevoli ideologie politiche, e sarebbe cruciale per la nostra analisi se fosse vero; esso non è tuttavia totalmente attendibile. Innanzitutto c'è l'assenza di prove attestanti qualche particolare fervore religioso durante l'epoca longobarda. All'editto anti-cattolico di Autari abbiamo già fatto riferimento: si limitò a proibire ai Longobardi di battezzare cattolicamente i propri figli. Comunque, fra i seguaci di Autari ci furono dei cattolici, e Gregorio ne nomina uno12. In avvenimenti di cui siamo a conoscenza si possono vedere Arioaldo e Rotari che rispettano, se non altro, i diritti della Chiesa di Roma sui cattolici in territorio longobardo. Della sensibilità religiosa di Grimoaldo non sappiamo assolutamente niente, pur se Paolo, la nostra maggior fonte in questioni del genere, non è giunto mai ad ammettere che alcuno dei suoi re sia stato ariano con l'unica eccezione di Rotari. I re del tardo secolo VII e dell'VIII, divenuti ormai chiaramente cattolici, non mostrano zelo maggiore dei re ariani. Lo stesso uso della Chiesa come strumento politico per il rafforzamento dello stato, cosa ricorrente tra le monarchie alto medievali, è del tutto assente sino ai tempi della conquista franca13. Alboino si convertì all'arianesimo per evidenti motivi politici, e l'ultimo re che sostenne l'arianesimo in modo attivo morì nel 590, soltanto venticinque anni più tardi. Non si trattò di un periodo sufficientemente lungo perché si installasse fra i Longobardi la coscienza del valore potenziale dell'arianesimo come vessillo del nazionalismo. Un secondo problema è costituito dal fatto che il colpo di stato del 626, in cui fu rimosso Adaloaldo, venne aiutato dai vescovi cattolici del regno longobardo, come possiamo apprendere da una lettera indignata di Onorio I14. La cosa non apparirebbe molto strana se fosse vero che Adaloaldo aveva ricusato lo scisma dei Tre Capitoli, come ha sostenuto Bognetti; ma abbiamo troppo poche prove per affermarlo. D'altro canto, il fatto che sia i vescovi (cioè i Romani) sia i Longobardi contribuissero alla caduta di Adaioaldo, e che il Papa e l'esarca la deplorassero, mostra che contro Adaloaldo non erano schierati soltanto i nazionalisti longobardi. Paolo afferma che Adaloaldo impazzì; è possibile. Oppure, così come era successo con Amalasunta e Teodato un secolo prima, può essere che avesse progettato una totale riconciliazione con Bisanzio sul piano politico. Ma in ogni caso, supporre che ci fosse un raggruppamento irredentistico fra i Longobardi, in forza di un'ideologia religiosa coerente e dell'assunzione del ruolo di custodi della politica, pare superfluo e anacronistico. Paolo ci fornisce un'unica prova della consapevolezza politica dei Longobardi: quando nel 663 il nuovo re Grimoaldo tornò al suo ducato di un tempo, Benevento, per combattere un'invasione bizantina, molti Longobardi (fra cui il suo reggente, Lupo, duca del Friuli) conclusero che non ne sarebbe tornato più, e abbandonarono la sua causa15. Ciò non quadra molto con la visione politica internazionale che Bognetti suggerisce come tipica dei nazionalisti del 626. Personalmente, preferisco considerare l'alternanza di credo religioso nei re del VII secolo come l'indice non della centralità della religione per i Longobardi, bensì della quasi totale irrilevanza del personale schieramento religioso all'interno di un sistema politico assolutamente secolare. Diversamente dai Franchi, i Longobardi non ebbero 12
Epp.. 7. 23. Cfr. O. Bertolini, I vescovi del regnum langobardorum al tempo dei Carolingi (B3-c). 14 MGH Epp., III, p. 694. 13
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Paolo H L 5 7 1 R
bisogno della Chiesa per rafforzare il proprio stato. Piuttosto, poterono far ricorso, come vedremo, a parecchi residui delle istituzioni della tarda romanità. D'altra parte, nelle nostre fonti è possibile scorgere due diverse correnti all'interno della monarchia del secolo VII, che possono venir collegate, con cautela, a fedi religiose: da un lato, la tradizione di Agilulfo, della corte cattolica con legami col cerimoniale e la cultura romani e bizantini, seguita dai discendenti del fratello di Teodolinda, Gundoaldo, la dinastia bevarese, che governò più o meno dal 652 al 712; da un altro lato, quella che potrebbe venir definita la tradizione « del paese», la monarchia di uomini che avevano cominciato col titolo di duchi e s'erano legati alla corte attraverso matrimoni: Arioaldo, Rotari e Grimoeldo. Le due tendenze non si cristallizzarono in raggruppamenti politici; rappresentarono solo un contrasto fra le origini sociali degli uomini che erano nella posizione di giungere al supremo potere dell’organizzazione statale. Tuttavia, Rotari e Grimoaldo, almeno, agirono diversamente rispetto ai Bavaresi. Promulgarono leggi e contribuirono alla legislazione longobarda. L'Editto di Rotari del 643 costituisce l'esposizione più sistematica e su più ampia scala delle consuetudini germaniche giunta sino a noi e proveniente da un regno germanico, con la sola esclusione dei Visigoti16. Ma il codice dei Visigoti è fortemente influenzato dal diritto rornano in generale. L'Editto di Rotari, viceversa, è romano solo per quel che riguarda il linguaggio, certe affermazioni basilari sulla proprietà (e, fino a un certo punto, il molo e la figura pubblica dello stato), e la sua inclusività. Entra attentamente nelle sfere della corte e dell'esercito, della compensazione per le ferite, della proprietà fondiaria e delle responsabilità (in misura minore), l'eredità, il matrimonio, la schiavitù, i crimini agricoli e la procedura legale. Rotari s'accontentò per lo più di esporre le consuetudini, pur se di tanto in tanto ammise specificatamente di aver alterato qualche usanza, cosi come fece nell'aumentare la compensazione monetaria nel caso di ferimenti per rendere più onorevole la rinuncia alle falde. Redasse invece una serie il più possibile vasta, con l'aiuto dei suoi consiglieri, delle usanze longobarde e vi appose il suo nome. Si trattò di una cosa di stile tipicamente germanico, e costituì una maniera per accaparrarsi prestigio del tutto diversa da quella di Agilulfo. Inoltre, ebbe a cadere nel contesto della prima guerra longobarda d'aggressione dopo quattro decadi, nella quale Rotari conquistò gran parte dell'Emilia e l'intera costa ligure. Ma la cosa fu resa possibile grazie alla organizzazione statale risalente ad Agilulfo, all'interno di un sistema amministrativo di origine romana che poté fornire il personale (sicuramente romano) necessario per raccogliere e redigere 388 articoli di legge, e che poté considerare l'Editto, una volta steso, un codice scritto parallelo al codice romano, e suscettibile di mutamenti (con le aggiunte di Grimoaldo e quelle dei sovrani dell'VIII secolo). Rotari non fu educato a corte e fu un ariano, ma non si oppose alla tradizione di Agilulfo; costruì su di essa. In modo simile, Cuniperto (679-700) migliorò l'amministrazione, e accrebbe l'importanza della capitale longobarda, Pavia; ma uno dei cardini della sua amministrazione fu il codice formulato da Rotari e Grimoaldo. Le due tradizioni, anziché opporsi, paiono integrarsi.
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A cura di F. Bluhme in MGH Leges, IV O F. Beyerle, Leges Langobardorum (Witzenhausen, 1962). D'ora in poi si farà riferimento alle leggi con i nomi dei re.
Grimoaldo giunse al potere nel 662 strappandolo ai due figli di Ariperto I, Godeperto e Pertarito, iniziatori di una guerra civile che segnò le origini di un conflitto sanguinoso sfociato in una serie di violenti colpi di stato tra i loro discendenti (completamente cattolici) nel 701-2. Grimoaldo era duca di Benevento, pur se figlio di Gisolfo II del Friuli. La cosa è interessante perché indica i rapporti di parentela fra ducati situati ai poli opposti dell'Italia, nonostante l'indipendenza de facto di Benevento. Ma il fatto che un duca di Benevento si potesse sentire sufficientemente parte del sistema politico longobardo da reclamarne la corona suggerisce qualcos'altro. Ci furono molti colpi di stato nella storia dei Longobardi: dieci o undici, per non nominare che quelli che ebbero successo. A volte si interpreta ciò come un segno della debolezza politica dei Longobardi. Quanto fosse forte lo stato lo si vedrà fra poco, ma la tendenza a prendere il potere con un colpo di stato non è un segno della disgregazione dei Longobardi ma, al contrario, della sostanziale coesione del sistema politico. Max Gluckman in uno dei testi classici di introduzione all'antropologia sociale ha mostrato come la ribellione compiuta da gruppi che rispettano i confini di un sistema politico può rafforzare, piuttosto che minare, un tale sistema.17Ha fatto l'esempio degli Zulù, nel cui stato le comunicazioni etano cosl difficili che sarebbe stato facile per i vari sovrani locali mantenersi indipendenti. Invece, quei sovrani potevano, ribellandosi, aspirare al titolo reale, e le periodiche guerre civili, scoppiate attorno a candidati rivali in lizza per il regno unitario, rafforzarono quell'unità. In modo simile, è possibile vedere come l'indipendenza dei duchi longobardi all'interno del regno sia stata distrutta da Agilulfo e come, dopo il regno di questi, non si trovino più duchi alla ricerca dell'indipendenza. Diversamente, essi cominciarono ad aspirare al trono, con Arioaldo di Torino nel 626, Alachi di Trento nel 688 circa, Rotari di Bergamo nel 702 circa, Rachi del Friuli nel 744, Desiderio di Brescia nel 756, e altri. I1 fatto che anche Grimoaldo abbia compiuto questo tentativo nel 622 sta a indicare che per certi aspetti anche Benevento poteva essere coinvolta in tali esperienze pur se eccezionalmente. Grimoaldo lasciò suo figlio Romoaldo come duca indipendente, e fu solo nel quarto decennio dell'VIII secolo che Liutprando sottomise il sud al controllo reale Se ne può dedurre che, nonostante il legame ereditario con la dinastia bavarese che perduro con qualche interruzione fino al 712, il sistema politico longobardo permetteva a coloro che, sia ariani sia, sempre più, cattolici, ritenevano di poter raccogliere attorno a sé forze militari e politiche sufficienti a conquistare il potere, di esplicare pienamente le proprie personali ambizioni. Ciò può produrre una debolezza nel sistema politico, ma non necessariamente, e nel caso dei Longobardi non la produsse18. Argomenti simili potrebbero essere addotti in merito ai problemi sulla successione tra i Visigoti in Spagna nel secolo VII. La corte reale e la costruzione dello stato costituivano la base del potere reale longobardo. Entrambe si reggevano su una capitale, Pavia, dove si trovava il palatium reale o curtis regia. Non è che Pavia avesse avuto sempre quel ruolo (Alboino probabilmente le preferì Verona, e Agilulfo Milano), ma verso il 620 fu più o meno accettata come la città principale, e lo rimase per quattro secoli. Venne arricchita di edifici monumentali che esprimessero quel suo ruolo: il palazzo stesso, di origini ostrogote, un'intera serie di chiese fondate da re e regine a partire almeno dalla metà 17 18
M. Gluckman, Custom and Confict in Africa (Oxford, 1959), pp. 28ss., 43-7. Cfr. R Schneid« (B3-b), pp. 5-63, 24-58.
del secolo VII, e uno dei pochi complessi termali che si sappia funzionante in quel secolo. Se non fu modellata esattamente su Costantinopoli, lo fu sul modo in cui quella città era concepita, e, più direttamente, su Ravenna. Eccettuando la Toledo dei Visigoti e la Aquisgrana di Carlo Magno (che fu per poco tempo capitale), non ebbe alcun parallelo nell'Europa occidentale. Sin dai tempi di Cuniperto in poi, è possibile rintracciare una successione di grammatici che vi han risieduto, con lo stesso Paolo Diacono sotto Desiderio attorno al 760, e divenne probabilmente già allora il centro degli avvocati e dei notai, anche fuori dai confini della corte reale vera e propria19 L'organizzazione centrale dello stato era chiaramente di derivazione romana. Esistevano alcune cariche cerimoniali appartenenti di certo alla tradizione longobarda, marpabis, scilpor, scaJard, antepor, stolesaz, molte delle quali sono difficilmente definibili pur se sappiamo che lo stolesaz era il tesoriere (incarico particolarmente importante alla corte di Benevento, che imitò le tradizioni longobarde), e il marpabis è a volte chiosato come strator o stalliere. Ma dall'epoca in cui cominciamo ad aver documenti della corte, cioè dal regno di Liutprando, non sono tanto quelle figure che incontriamo, quanto incarichi di chiara origine romana, maiordomus, vesterarius, camerarius, actionarius, e in particolare il referendarius e tutta una serie di notari di corte. Questi ultimi erano incaricati di redigere i diplomi reali, registrazioni formali di decisioni e doni del re, che venivano stilati prima dal referendarius. I1 maiordomus e gli altri avevano incarichi pubblici, sia domestici che amministrativi, a Pavia, ma funzionavano anche da rappresentanti, almeno parziali, del sovrano nel resto dell'Italia, come una sorta di missi carolingi. Era a loro che venivano sottoposti casi giuridici difficili nelle province. Liutprando inviò il maiordomus Ambrosio nella primavera del 715 e il notarius e missus reale Gunteramo nell'estate dello stesso anno a sentire le prime discussioni dell'interminabile disputa relativa ai confini tra le diocesi di Siena e di Arezzo20. Tutti quei funzionari pubblici, con l'aiuto degli stratores, davano udienza anche a Pavia. Tali funzioni giuridiche rendono difficile separare i singoli compiti di ciascuno di loro, tanto che i funzionari di palazzo, in modo simile ai duchi e ai gastaldi delle province, sono spesso chiamati semplicemente iudices. Ma a Pavia formavano comunque un gruppo ben definito, potenzialmente disponibile per chiunque avesse bisogno della ratificazione reale di un atto giuridico o desiderasse appellarsi contro una decisione della magistratura. I re o i loro più vicini rappresentanti dovettero ratificare molti atti giuridici assai banali, nei nostri testi dell'VIII secolo, quali la copia autentica di una concessione fondiaria fatta da un notabile toscano durante il regno di Astolfo, o una piccola alterazione di dettagli nel testamento di Gisolfo strator di Lodi nel 759. Nel 771 i tre proprietari di una chiesetta privata nei pressi di Lucca si appellarono al re in una disputa legale col vescovo Peredeo, Desiderio ingiunse a Peredeo di riconsiderare le loro istanze e di riconosere i loro diritti, cosa che il vescovo fece21. I1 re mantenne in uso ~ànche molte prerogative e molti oneri del tardo stato romano: la zecca, ia determinazione dei prezzi, la conservazione delle mura cittadine22. La presenza di Pavia quale forza politica nel 19
D.A. Bullaugh, Urban change in Early Mediaeval Italy: the example of Pavia (5-b); E. Ewig, Residence et Capitale pendant le haut meyen age, « Revue Historique», CCXXX (1963), pp. 3647; CR. Bruhl, Fodrum, Gistum, Servitium regis (d’ora in poi: F.G.S.) (Colonia, 1968), pp. 368-75. 20 Schiaparelli, 19, 20;CR. Bruh1 (curatore), Cod. Dsp. Long., III (di seguito: Bruhl) (Roma, 1973), nn. 12, 13. Per i funzionari: F.G.S., pp. 377-80. 21 Schiaparelli, 137,163, 255. 22 Per le zecche: Rotari 242 (solo Benevento aveva una zecca indipendente). Per la determinazione dei prezzi: Memoratorium de Mercedibus Commacinorum
regno fu senz'altro efficace. Una cosa soltanto contraddistingue nettamente il regno longobardo dal tardo Impero e dallo stato degli Ostrogoti: non riscosse imposte fondiarie. Di certo i re ricevettero abbondanti proventi dalle tasse sulle attività commerciali, dazi di importazione, imposte sulle vendite e dazi portuali, fra i quali è pressoché impossibile distinguere chiaramente: datio, teloneum, siliquaticum, ripaticum, portaticum, tutti con radici tardo romane. Poterono anche beneficiare di manodopera di corvée (angaria, scuvide o utilitates), da parte probabilmente di uomini liberi romani e longobardi23. Ma gli imperatori avevano considerato tutte queste tassazioni come banalità in confronto all'imposta fondiaria, che era stata la vera fonte di sostentamento dello stato. Nel caso in cui quell'imposta sia rimasta in vigore in epoca longobarda, ciò può esser successo solo in modo frammentario e irrilevante. Ad esempio, in un diploma di Carlomagno del 792 si fa riferimento a una decima versata in precedenza allo stato dalla chiesa di Aquileia; se il peso di quelle tasse fosse stato però rilevante e normale, ne avremmo senz'altro qualche cenno in altri documenti24. La mancanza di un'imposta fondiaria, però, muta l'intero rapporto fra stato e società. L'imposta era stata essenziale per il funzionamento di intere attività sociali, quali il mantenimento dell'esercito. Aveva costituito senz'altro la voce di maggior peso finanziario per contadini e proprietari terrieri, e la sua raccolta annuale aveva segnato certamente il momento in cui lo stato gravava maggiormente sulla società. Non deve sorprendere che sia scomparsa durante le invasioni longobarde, considerata la difficoltà che c'era sempre stata a riscuoterla. Sopravvisse però nell'Italia bizantina. L'esercito longobardo trovò invece il proprio sostentamento dall'insediamento diretto sulle terre (cfr. pp. 92 ss.). Ma ciò significò che, per quanto romane fossero le forme dello stato longobardo, il suo peso istituzionale era molto diverso. Se si eccettuano proventi straordinari, quali bottini di guerra o confische legali, le risorse finanziarie dello stato derivavano ora quasi esclusivamente dalla sua stessa proprietà fondiaria. Così che la proprietà fondiaria diventò in questo periodo più che uno strumento per ottenere il potere e l'influenza politici, come era stato con i Romani, il potere politico vero e proprio. L'esercito venne ora organizzato localmente, come una sorta di dovere pubblico, sotto il controllo dei duchi. Tuttavia, i duchi tendevano a rappresentare anche i maggiori proprietari privati di terreni nei rispettivi loro territori, e avevano i propri dipendenti; verso il 750 l'obbligo di fornire forze militari fu già misurato secondo la proprietà fondiaria. Per cui il modello sociale, pur se inserito in una struttura politica che doveva le sue linee generali alla tarda romanità, era già divenuto ampiamente « feudale ». Fintantoché l'Impero poteva riscuotere le sue imposte esso rimaneva ipso facio un'istituzione potente e sovrastante. Dall'epoca longobarda in poi lo stato ebbe a dipendere per la sua stessa esistenza, più esplicitamente e direttamente, dal consenso: il consenso dei suoi sostenitori più potenti, i duchi (e, più tardi, i conti) e gli altri proprietari terrieri. Per il momento, in ogni caso, non aveva alcuna difficoltà ad ottenere quel consenso. I re (con l'eccezione di Grimoaldo) non sembrano aver dovuto essere troppo generosi con i loro sostenitori per ottenere il loro appoggio, diversamente da quanto accadde per altri sovrani dell'Alto Medioevo. Solo a partire dal 900, da quando cioè il potere statale cominciò a venir meno, i sovrani presero a rilasciare grandi concessioni di terra. Nel frattempo, la sopravvivenza di un sistema MGH Leges, IV, pp. 176~0. Per le mura di cinta cittadine V. Fainelli (curatore) Codice Diplomasico Veronese, I (venezia, 1940), n. 147. 23 Brühl, 19, 27, 43, 44 24 MGH Dipl. Kar., I, n. 174; cir. P.S. Leicht, Studi sulla proprietà fondiaria nel medioevo, II (Padova, 1907), pp. 47-54 per il materiale ma non per le conclusioni.
legale complesso che si basava sui centri di potere regi, e su un equilibrio di forze nei centri minori, la città, costituiva la base più sicura per l'egemonia dei re longobardi, come vedremo nei capitoli seguenti. L'amministrazione locale longobarda era pure, in massima parte, di derivazione romana. I1 regno risultava da un complesso di circoscrizioni locali che corrispondevano, nella maggior parte, ai territori cittadini e alle diocesi ecclesiastiche romani. A controllarli c'erano duchi e gastaldi, che vivevano nelle città, rafforzando così il predominio che le città avevano sempre avuto sui territori circostanti. A volte si verificavano cambiamenti, quasi sempre chiaramente motivati. La difesa dei confini locali era il motivo principale, e produceva grandi ducati come il Friuli, o in altre aree una proliferazione di distretti amministrativi basati su castra, roccaforti difensive, come Castelseprio e Sirmione ai piedi delle Alpi, e un'intera catena di castra negli Appennini toscani ed emiliani a controbilanciare le difese appenniniche bizantine25. Laddove i confini fra territori di singole città venivano a mutare, le città che perdevano appezzamenti tendevano a fare resistenza, così che i re dovevano risolvere le dispute, come accadde tra Parma e Piacenza (almeno quattro volte fra il 626 e 1'854) e tra Siena e Arezzo. In quest'ultimo caso, i confini amministrativi di Arezzo non s'erano veramente estesi; tuttavia, all'inizio del VII secolo, durante una lunga vacanza di vescovi a Siena, la diocesi di Arezzo era giunta a includere una ventina di chiese senesi. I vescovi senesi considerarono una tal cosa un'anomalia intollerabile e vennero appoggiati dai propri gastaldi. Liutprando stette dalla parte di Arezzo, e così accadde anche per una serie di re e di papi, pur se un giudizio contrario espresso da papa Leone IV nell'850 ingarbugliò tanto la disputa da impedirne la soluzione per molti secoli26. Ovviamente, in qualità di duchi furono nominati i capi militari dell'esercito di Alboino, collocati subito in singole città, e presto incaricati anche di responsabilità civili. I gastaldi, invece, pare fossero originariamente gli amministratori locali del fisco reale (cioè le entrate del re, derivanti allora quasi esclusivamente da terreni). Per Rotari di certo le due funzioni pubbliche coesistono nella stessa città e anzi egli le usa come meccanismi di appello27. Ma sotto Agilulfo si nota che i gastaldi rimpiazzano i duchi nelle città ribelli, e in Toscana la maggior parte delle città (tranne Lucca e Chiusi) sembrano non avere avuto mai alcun duca. Nei ducati meridionali, i gastaldi costituivano gli unici rappresentanti politici locali, ma erano però totalmente sottoposti ai duchi che reggevano il governo centrale a Spoleto e a Benevento. I1 ruolo duplice dei gastaldi sembra essersi cristallizzato a Siena tanto che nel 715 coesistettero due gastaldi. Non si può sapere con certezza se la netta separazione dei poteri fu una caratteristica diffusa; ma a Lucca, almeno, la curtis regia ovvero il centro politico-amministrativo locale era geograficamente separato dalla curtis ducalis, la corte del duca, e a Brescia, nel 759-60, il re Desiderio distinse nei suoi diplomi tra la proprietà del re (curtem nostram), la proprietà ufficiale del duca (curtis ducalis) e la proprietà personale da lui posseduta, o affidatagli, quando si trovò duca in quella città
25
V. Fumagalli, L'amministrazione periferica dello stato nell'Emilia occidentale in età carolingia (B3c). 26 Tutti i documenti sono riuniti convenientemente in U. Pasqui, Documenti per la storia della città di Arezzo nel medioevo, I (Firetue, 1890). 2s Rotari 234. 27
Rotari 23-4
sotto Astolfo28. Duchi e gastaldi godettero entrambi di un considerevole rispetto locale e mostrarono grande impegno nelle vicende locali, ma è significativo che, con rare eccezioni, non sia possibile ripercorrere dinastie degli uni o degli altri. Agli inizi ne ebbe una il Friuli, ma essa si perse nel quarto o quinto decennio del secolo VII. La stessa Spoleto mutò dinastia parecchie volte, subendo di solito le pressioni dei re. Soltanto Benevento continuò indisturbata (sotto l'ex dinastia friulana), almeno sino al regno di Liutprando. Per quanto riguarda ambiti di minore ampiezza delle città-territorio, d'altra parte, la confusione è estrema. Le leggi alludono a funzionari pubblici minori, gli sculdabis, il centenarius e il lecanus. Si sono fatti vari tentativi di organizzarli in gerarchie verosimili con verosimili circoscrizioni; in generale però non s'è avuto alcun successo. Non c'è alcun motivo per credere che avessero nell'Italia longobarda le stesse funzioni che adempivano altrove. In alcuni casi, tali funzionari devono avere avuto responsabilità locali: è chiaro che Liutprando lo dà per scontato nelle sue leggi, e di tanto in tanto troviamo riferimenti a decani e centenari, responsabili forse per i villaggi toscani e i territori relativi. Più a nord, comunque, non si riesce a trovarne tracce nel periodo longobardo. Nel ducato di Spoleto pare che entro il gastaldato di Rieti gli sculdabes abbiano avuto incarichi ufficiali, ma solo nella cerchia del gastaldo, e non fuori di quella città29. La relativa omogeneità del governo centrale e dell'amministrazione cittadina sparisce completamente a livello locale. Non si può dire se ciò fosse risultato del caos delle guerre gotiche e longobarde o se invece sia soltanto la più antica prova documentata in nostro possesso di contrasti ancor più remoti. L'unità locale base dello stato longobardo fu essenzialmente la città con il territorio che la circondava; essa costituiva una struttura cellulare, in parte risultato della volontà di Alboino di lasciare il governo delle città ai duchi, ma soprattutto continuazione della tradizionale ripartizione sociale e geografica dell'Italia. Soddisfatta la coerenza a questo principio, il problema delle unità minori pare aver contato poco. Con l’VIII secolo, tale quadro politico si consolida. Grimoaldo sconfisse l'ultimo tentativo bizantino di riconquistare territori longobardi, sotto l'imperatore Costante II nel 663, e ne seguirono sessant'anni di pace, con l'eccezione di alcune espansioni dei Beneventini (Taranto e Brindisi nel penultimo decennio del VII secolo, la Valle del Liri nel 702 circa). La dinastia bavarese si distrusse da sé attraverso una serie di colpi di stato a catena tra il 701 e il 712, e nel 712 il suo ultimo re, Ariperto lI (701-12), venne spodestato da Ansprando. Ansprando morì quello stesso anno, e gli successe il figlio Liutprando (712-44). Liutprando e i tre principali suoi successori, Ratchis (7449), Astolfo (749-56) e Desiderio (757-74) mostrano identità individuali e atteggiamenti sottilmente differenti. Diviene così possibile una storia politica30. I1 padre di Liutprando era stato il tutore di Liutperto (700-2), figlio di Cuniperto, ed era salito al potere con l'aiuto militare del duca dei Bavaresi. In senso politico era chiaramente l'erede di Cuniperto, tuttavia non rientrava nella tradizione dinastica della corte di Pavia, e per quel che riguarda le sue gesta si mostrò più un seguace di Rotari 28
29
Per Siena: Brühl, 13; Brescia: Brühl, 31, 33. Cfr. F.G.S., pp. 365,-6.
Liutprando 44; Schiaparelli, 19, 86, 184; E. Saracco Previdi, «Lo sculdahis nel territorio longobardo di Rieti » (B3-c). 30 Per la storia dell'VIII secolo, cfr. L.M. Hartmann (Bl) II;. Bertolini (B6-b).
e Grimoaldo. Con Liutprando venne a configurarsi nella sua completezza la sintesi delle due tendenze della monarchia longobarda nel VII secolo. I1 suo primo gesto, nel 713, fu di rivedere le disposizioni del codice di Rotati in merito all'eredità. La rapidità della revisione è sintomatica: ci deve essere stata una considerevole pressione popolare a favore di maggiori diritti ereditari per le donne e della legittimazione delle donazioni lasciate alla Chiesa. Liutprando stesso ne accenna in una notizia del 733 in cui si lamenta dell'avidità dei funzionari reali, e si chiede perché non s'accontentino delle concessioni di cui già godono. I provvedimenti sembrano avere avuto un riscontro immediato; quasi le prime donazioni alla Chiesa di cui ci sia giunta notizia, seguono subito nel 71431. L'importanza della legittimazione esplicita di atti giuridici da parte dei re dimostra quanto fossero forti l'autorità del re e della legge, come vedremo nel capitolo quinto. Dimostra altresì l'influsso del diritto romano, poiché questi mutamenti andavano nella direzione della pratica legale romana. I Romani costituivano la gran maggioranza degli abitanti dell'Italia longobarda, ma cominciano a spuntare solo nelle fonti che documentano il regno di Liutprando, pur se alcuni s'eran già notati nel VII secolo, come Pietro figlio di Paolo, l'aiutante di Adaloaldo, e la nobildonna romana Teodota, di cui s'innamorò Cuniperto alle terme32. I1 rapporto fra Romani e Longobardi verrà discusso più avanti, ma possiamo notare fin d'ora come Liutprando fosse stato influenzato dal diritto romano. Non però in modo indiscriminato: elementi romani ebbero a inserirsi in una cornice legale fermamente longobarda. Il resto della legislazione sull'eredità, ad esempio, rimase totalmente longobardo. Così ancora, nel 731, Liutprando: rese il combattimento conosciuto come « giudizio di Dio » un avvenimento dal valore accuratamente circoscritto: « poiché non siamo sicuri sulla verità del giudizio di Dio, e abbiamo saputo di molti che hanno perduto la loro causa ingiustamente; ma, poiché esso rientra nelle tradizioni della nostra gente longobarda, non possiamo proibire del tutto la legge che lo autorizza »33. Sentimenti nobili, tipici della nazionalità dei giudizi ad hoc di Liutprando; essi sono comunque fermamente soggiogati alle norme del diritto longobardo. Questa cornice Longobarda tradizionale che circondava ogni innovazione legale fu l'elemento caratterizzante della versione di Liutprando della sintesi del VII secolo. Liutprando legiferò durante l'intero suo regno, con l'eccezione degli ultimi nove anni, aggiungendo 152 articoli all'Editto (158 se includiamo anche i sei capitoli della notitia de acioribus regis, che nella sua essenza si configura come precorritrice del capitolare carolingio). Per il resto egli tenne sotto fermo controllo i suoi duchi e, dopo il 126, attaccò con una certa sicurezza tutte le altre potenze della penisola. Nel 726-7 invase l'Esarcato e l'occupò per intero con la sola eccezione di Ravenna; quando se ne ritirò, mantenne sotto il suo controllo le zone più occidentali. Nel 732-3, nel 740 e nel 743 ne rioccupò le altre parti, compresa, stavolta, Ravenna. Nel 733 scese verso il sud, e mise il nipote Gregorio al potere a Benevento. Nel 739, in reazione ad un’alleanza a lui ostile fra Spoleto, Benevento e il papato, espulse il duca di Spoleto e occupò quattro città appartenenti a Roma, prima di tornarsene a nord per aiutare Carlo Martello nella guerra contro gli Arabi in Francia. Nel 742 tornò nel sud e cacciò via i duchi sia di Spoleto che di Benevento, tornando a nord solo nel 743 per occupare; Ravenna: All'improvviso, per la prima volta dopo sessant'anni, il potere militare longobardo dimostrava di non avere alcun rivale in Italia. Al tempo di Rachi, Spoleto 31
Liutprando 1-6 e Notitia de actoribus regir, 5; Schiaparelli, 16, 18 (I'unica precedente donazione è la 14, del 710). 32 33
MGH Epp., III, p.694; Paolo, H.L., 5.37. Liutprando 118.
viene assorbita entro la cornice del regno: le sue pratiche notarili dipendono sin da allora da Pavia, e i re acquisiscono il diritto di alienare le proprietà dei duchi. Tra il 751 e il 756 Astolfo eliminò addirittura la figura del duca34. Come conseguenza, Spoleto sarebbe stata incorporata saldamente nell'Impero Carolingio. Anche Benevento, almeno parzialmente, fu assoggettata a Pavia, pur se in questo caso solo come conseguenza del riconoscimento della supremazia del settentrione, rafforzata dalla capacità degli eserciti settentrionali di spodestare in qualsiasi momento i suoi duchi. Cosa intendesse fare Liutprando delle parti bizantine dell'Italia è meno certo. Non sembra avere avuto progetti di occupazione territoriale permanente in merito ai possedimenti romani, e, nel 744, dietro richiesta del papa Zaccaria, evacuò Ravenna. Pare avesse riconosciuto un'esistenza indipendente e legittima all'Esarcato, pur se non ai ducati longobardi. Quando giunse al potere Astolfo, le cui idee erano alquanto differenti, l'equilibrio internazionale delle forze era mutato. Ildeprando successe allo zio Liutprando, ma fu destituito quasi subito da Rachi del Friuli (744). Rachi pare aver seguito la politica di Liutprando, attaccando Roma e Ravenna, e poi ritirandosi. Le sue quattordici leggi del 746 rientrano nelle tradizioni di Liutprando. I1 problema che maggiormente afflisse il suo regno è quello dell'abuso di potere da parte degli iudices (duchi e gastaldi) e dell'opposizione illegale nei loro confronti. Non si trattava di un problema nuovo per i re longobardi (o per i loro predecessori): sia Rotari che Liutprando lo affrontarono nelle loro leggi, e Rachi stesso usa termini tardo-romani, quali patrocinium, nella propria analisi della situazione35. In effetti, i re longobardi, come tutti i sovrani medievali, erano praticamente impotenti dinanzi all'abuso di potere da parte dei loro rappresentanti locali (quello che Rachi definisce il favoritismo nei confronti di dipendenti, parenti, amici, o persone che sborsavano denaro), in quanto il loro potere locale era basato proprio su quei rappresentanti. Si può dire che almeno qualche tentativo venne fatto, come indicano le leggi; e, per esempio, Liutprando cacciò Pemmo (padre di Rachi) dal ducato del Friuli, per aver questi trattato iniquamente il patriarca di Aquileia36. Quel che queste leggi non mostrano è la presunta insicurezza vissuta da Rachi di fronte alla crescente inquietudine civile; inquietudini di tal sorta erano comuni nella società altomedievale. Più serie furono le misure che egli prese soprattutto contro la Francia37, per proteggere i confini dalle infiltrazioni di nemici e di spie, e dalla fuga di informazioni segrete e di persone. La Francia fu sempre più potente del regno longobardo, anche durante l'eclissi politica dei Merovingi nel tardo VII secolo, e i Longobardi fecero bene attenzione a rimanere in rapporti amichevoli. Dopo il regno di Agilulfo, le due potenze si mantennero alleate, con l'unico intervallo dell'invasione dei Franchi nel 662 (a favore del re esiliato Pertarito), fino al regno di Liutprando. Come s'è visto, Liutprando e Carlo Martello combatterono assieme contro gli Arabi. Quando nel 740 il papa Gregorio III chiese l'aiuto dei Franchi contro Liutprando, questo gli fu negato. Ma il papato aveva sempre più bisogno dei Franchi contro i Longobardi, in quanto gli imperatori bizantini, sia per differenze religiose che per le guerre in Oriente, non erano più disposti a venire in aiuto di Roma. Dopo la morte di Carlo Martello nel 741, il papato 34
D.A. Bullough, The writing-office of the dubes of Spoleto in the eighth century (A3-b) Rotari, prologo; Liutprando 59; Rachi 1,10,11,14. 36 Paolo, H.L., 6. 51. 37 Rachi 9, 12, 13; anche Astolfo 4, S. Cfr. G. Tangl, Die Passvorschrif des konigs Ratchis (B3-b). 35
e i Franchi avviarono un ravvicinamento che portò al riconoscimento papale della dinastia carolingia come dinastia reale in Francia, nel 752. Era più che logico che Rachi se ne preoccupasse: la Francia era anche la patria tradizionale degli esuli longobardi e avrebbe potuto, volendo, aiutarli. Nel 749 egli si ritirò nel monastero di Montecassino, dopo essere stato destituito (probabilmente con un colpo di stato) dal suo energico fratello Astolfo. I problemi si acuirono. Come abbiamo detto, Astolfo assorbì completamente Spoleto. Nel 751 occupò Ravenna, con tutta l'intenzione di rimanervi, come si può vedere dalle testimonianze relative alle edificazioni (poi interrotte) da lui intraprese in qella città. Nel 752 chiese il tributo dei Romani, e il controllo sui castra della campagna romana. Dopo il fallimento dei negoziati, il papa Stefano II si rivolse ai Franchi. Nel 755 (o 754) i Franchi, guidati da Pipino III, attaccarono; Astolfo li affrontò in una battaglia campale e perse. Dentro l'assediata Pavia firmò l'accordo coi Franchi, cedendo al Papa tutto l'Esarcato (contro il desiderio dei ravennati, che certo preferivano il dominio dei Longobardi piuttosto che quello del Papa). A seguito della rottura della pace, nel 756, Pipino invase nuovamente il regno longobardo e si giunse a un nuovo accordo. Entro l'anno Astolfo morì.38 In generale gli storici hanno giudicato severamente Astolfo, vedendolo esclusivamente con gli occhi dei suoi nemici. La storia di Paolo si ferma al 744, e del resto la sua ipersensibilità in merito ai cattivi rapporti fra re longobardi e papato lo avrebbe reso poco affidabile per il periodo seguente. Ci restano soltanto gli annali dei Franchi e il Liber Pontificalis romano, analisi condotte con animo per nulla amico. Quest'ultimo non lesina le parole nell'esprimere la sua opioione su Astolfo: il più malvagio, il più feroce, spaventoso, empio, blasfemo, son tra gli epiteti più laconici. In realtà, Astolfo stava solo portando alle loro logiche conclusioni le linee politiche di Liutprando. Si può dire unicamente che ebbe la sfortuna di regnare in un momento in cui i Franchi si mostrarono disposti a intervenire, poiché i Franchi erano invincibili. Non fu neanche in vera opposizione nei confronti del papa, dal punto di vista religioso. Nel 7S2, nel bel mezzo delle sue campagne militari, delegò Roma a decidere in merito alla terza fase della controversia fra Siena e Arezzo, affermando che la cosa non era di sua competenza. Neanche Liutprando era giunto a ciò. Le sue leggi mostrano preoccupazioni assai simili a quelle di Rachi, con forse l'aggiunta significativa di una legge che castigava la tendenza dei potenti a fuggire dai doveri militari. I Longobardi, probabilmente, erano assai meno pronti dei Franchi allo stato di guerra permanente: parecchi aristocratici longobardi, come è noto, fecero testamento prima di scendere in campo contro Pipino, e questo non contribuì certo all'efficacia di Astolfo contro i Franchi39. I1 regno di Desiderio (757-74) ha tutta l'aria di un commento in appendice sull'intera situazione. All'inizio, Desiderio cominciò, con l'appoggio papale, vincendo una guerra civile contro Rachi, riapparso momentaneamente da Montecassino per reclamare il trono. Dapprima visse nell’ombra dell'alleanza franco-papale, pur se ciò non gli impedì di controllare almeno Spoleto e Benevento. Dopo il 768, la morte di Pipino e
38
Per Astolfo, cfr. Ia biografia sotto la voce « Astolfo » in Dizionario biografico degli Italiani, Iv (Rorna, 1962), pp. 467-83. 39
Astolfo 7; Pasqui, n. 11; Liber Pontificalis, ı (a cura di L. Duchesue, Roma, 1886), pp. 441-S4; Schiaparelli, 114, 117.
una difficile successione a Roma gli dettero l'opportuoità di riaffermarsi, ma i re longobardi ormai erano in trappola. In un'epoca di più Netti confini (i Longobardi avevano persino introdotto i passaporti), i Longobardi non potevano accettare tranquillamente l'esistenza dello stato pontificio nel centro dell'Italia. Ma, quando Desiderio fu forte abbastanza da poterlo attaccare (nel 772-3), a Roma c'era un papa della forza di Adriano I (772-94), e il figlio di Pipino, Carlomagno, era unico re in Francia. Carlomagno, piuttosto controvoglia, invase l’Italia nel 773 e sconfisse un esercito longobardo ai piedi delle Alpi. Tra l'autunno 773 e il giugno 774 assediò Pavia e Verona, e quindi, entrando trionfalmente in Pavia, s'incoronò re. I1 regno longobardo cadde per la semplice ragione che la logica geografica imponeva a qualsiasi re longobardo ambizioso di opporsi al pontefice in un momento in cui il più forte esercito d'Europa era pronto a combattere dietro richiesta del papato. D'altra parte Desiderio, nelle sue attività interne, pare esser stato tanto fiducioso e sicuro quanto ogni suo altro predecessore. Di certo ebbe un'opposizione all'interno: il cognato di Astolfo, Anselmo, abate di Nonantola, si rifugiò a Montecassino nel 760 circa, e tornò solo dopo la conquista franca; e un documento reale del 772 elenca nove nobili infideles, uno dei quali, Augino, se n'era scappato proprio in Francia. Ma tutto ciò avrebbe avuto ben poco peso se i Franchi fossero rimasti neutrali; conflitti di quel tipo non costituivano alcuna novità. Inoltre, nel 773-4, la gente si raccolse attorno a Carlomagno, e gli Spoletani cacciarono via il duca Teodicio che stava dalla parte di Desiderio. Adriano stesso; scelse Ildeprando, come suo successore.40 Ma tale prontezza nello scendere a patti con i Franchi non può essere considerata una causa della caduta di Desiderio, poiché ebbe luogo solo dopo la sconfitta militare dell'esercito longobardo, quando gli italiani si resero conto che Desiderio aveva i giorni contati. I1 regno longobardo era militarmente più debole di quello dei Franchi, ma Carlomagno ereditò uno stato forte e bene organizzato.
Il Regno Carolingio Carlomagno fu in Italia nel 773-4 per meno di un anno. Pavia cadde in giugno; prima della fine della stagione delle campagne militari egli se ne tornò al nord, a combattere in Sassonia. Ciò istituì una tradizione che perdurò per tutto il periodo in cui vi furono re d'Italia: governo d'oltralpe significò monarca assente. Carlomagno ritornò solo quattro volte prima della sua morte nell'814 (776, 780-1, 786-7 e 800-1, quando gli venne dato il titolo simbolico di imperatore da papa Leone III), ma cinque anni sono notevoli quando si pensa a ciò che fecero alcuni dei suoi successori, e derivò dal suo desiderio di stabilizzare una parte dell'impero appena conquistata. In ogni caso, i Longobardi non gli provocarono molti guai. Adriano I gli scrisse per avvertirlo di un complotto, nel 775, fra diversi duchi longobardi e l'imperatore bizantino, ma quando esso scoppiò nel 776 solo uno o due duchi vi erano effettivamente coinvolti, e il loro capo, Rodgaudo del Friuli, cadde durante la battaglia. Carlomagno avrebbe potuto prendere l'occasione per allontanare dal loro incarico tutti i duchi longobardi, ma preferì aspettare che morissero per sostituirli con conti franchi, e almeno un vecchio ribelle, Aione, venne perdonato nel 799 e reinsediato, e il figlio di questi, Alboino, 40
Brühl, 44, Liber Pont., I, pp. 495-6.
divenne pure lui conte, durante il regno seguente. I ribelli longobardi persero i loro possedimenti, che furono confiscati, ma i loro parenti più fedeli conservarono le proprie terre. Di tanto in tanto venivano portati in Francia alcuni ostaggi, fra cui i vescovi di Lucca, Pisa e Reggio Emilia, e probabilmente il fratello di Paolo Diacono, Arichis, ma verso il 780 erano stati rilasciati quasi tutti. Può darsi comunque che l'esercito di Carlomagno abbia tenuto un atteggiamento meno cauto: nel 776 egli dovette emanare un capitolare riguardante le conseguenze di una seria carestia, causata probabilmente dalle invasioni militari 41 Da quel momento, il regno longobardo divenne un regno dipendente dall'impero franco, e le sue istituzioni cominciarono a mutare lentamente. Verso 1'814, i duchi longobardi erano divenuti conti, per lo più franchi o alemanni; missi franchi sedevano, in qualità di messaggeri del re, alle corti locali. Ma l'influsso delle popolazioni settentrionali in Italia fu piuttosto lento, e alla morte di Carlomagno era appena agli albori. La politica locale e le corti locali non mutarono molto d'aspetto durante la dominazione carolingia. Rimasero in piedi sia le strutture sociali italiane che le norme che governavano l'attività politica. Ciò accadde in parte anche perché si trattava di norme non dissimili da quelle dei Franchi: l'Italia e la Gallia si erano sviluppate in direzioni molto simili, fino a un certo punto, almeno. Per esempio, nel 774 Carlomagno cedette due valli alpine strategicamente importanti, la Valtellina e la Valcamonica, ai monasteri franchi di San Dionigi e San Martino di Tours, compiendo le uniche grandi donazioni di terra regia durante il suo regno. Si trattò di una classica azione politica franca. Tuttavia, gli ultimi re longobardi s'erano comportati esattamente allo stesso modo con i monasteri da loro patrocinati, cosa che accadde per esempio quando i re friulani Rachi e Astolfo incoraggiarono i Friulani a fondare i monasteri importanti, anche strategicamente, di Sesto, Nonantola e del Monte Amiata42. La politica rimase, sotto i Carolingi, quella che era stata sotto i Longobardi: una politica basata sulla proprietà fondiaria. La conquista franca non apportò grandi modifiche alla mappa dell'Italia. Ovviamente, Carlomagno aveva conquistato solo il nord ed il centro dell'Italia, il regno longobardo e il ducato di Spoleto. Spoleto: rimase parte del regno italico (come cominciò a venir chiamato), pur se gran parte delle sue attività rimasero pressoché del tutto indipendenti. I papi conservarono lo stato pontificio che si trovava fra quei due territori, il vecchio Esarcato di Ravenna e il ducato di Roma. Tuttavia, i Carolingi mantennero di fatto il potere su d tutto quel territorio, con l'eccezione del retroterra romano, e dopo la fine del IX secolo Ravenna stessa divenne una parte permanente del regno. A sud, Benevento conservò la sua indipendenza. I1 duca Arichi II (758-87), genero di Desiderio, si dichiarò princeps, principe, nel 774, ed emanò diciassette leggi come aggiunte al codice longobardo, attribuendo a qesti due gesti un valore di sfida a Carlomagno. Benevento conservò una tradizione legittimista longobarda per altri tre secoli, fino alla conquista normanna della fine del secolo XI. Carlomagno, spronato da Papa Adriano (che reclamava delle terre meridionali), invase Benevento nel 787. Arichi chiese l'aiuto bizantino, ma morì. Il suo erede, Grimoaldo III, non fu che un 41
Per i ribelli: MGH Dipl. Kar., I, nn. 112, 187, 214; il capitolare 776 in MGH Capitularia, I, n. 88; cfr. E. Hlavitschka (B3-c), pp. 23ss., J. Fischer (B3-c), pp. 7-17. Hlawitschka e Fischer offrono le migliori analisi politiche del periodo carolingio.
42
MGH Dipl. Kar., I, nn. 81, 94; per paralleli longobardi, cfr. K. Schmid, Zur Ablosung der Langobardenherrschaft (B3-b), pp. 6-29.
ostaggio in mani franche. In cambio della sua liberazione, Grimoaldo ebbe il compito imbarazzante di sconfiggere, l'esercito di sostegno bizantino che era arrivato nel 788, capeggiato da suo zio Adelchi, figlio di Desiderio. Grimoaldo (787-806) riconobbe la sovranità franca, ma essa rimase puramente nominale. Lo si vede agire sempre come un governante indipendente; combatté varie guerre contro i Franchi, e coniò le proprie monete43. Sin dai regni di Arichi e Grimoaldo, in realtà, c'è sufficiente materiale documentario da permetterci di considerare Benevento come un'entità indipendente, e, eccettuati occasionali interventi franchi (particolarmente fra 1'866 e 1'873), la sua storia rimase del tutto distinta. Ciò fu ancor più vero per quel che riguarda i territori minori rimasti ai Bizantini nell'Italia meridionale; Napoli, Amalfi, e le zone greche di Otranto e della Calabria; di tutti questi si parlerà a parte nel capitolo sesto. A scrivere la storia politica dei primi settant'anni dell'Italia carolingia si fa presto. Nel 781 Carlomagno incoronò il suo figliolo di quattro anni, Pipino, re d'Italia (781-810), e dopo di allora vi passò ben poco tempo. Pipino fu a capo di un'amministrazione autonoma ma non indi. pendente, con un mutevole stuolo di guardiani: il cugino Adalardo di Corbie prima, poi i beiuli (tutori) Waldo di Reichenau (circa 783-90) e Rotchild (circa 800). Eserciti guidati da Pipino annientarono gli Avari nel 796 e sottrassero Chieti a Benevento nell'80144. Quando mori Pipino, Adalardo ricomparve, come tutore del giovane figlio di quello, Bernardo (812-7). Nell'814, tuttavia, Lodovico il Pio, ultimo figlio sopravvissuto di Carlomagno, divenne unico imperatore. Lodovico, che aveva tre figli propri, teneva in scarso conto i diritti del nipote. Nell'817 divise l'amministrazione dell'Impero: il figlio maggiore ebbe l'Italia con il titolo di imperatore; Bernardo, anche se non destituito apertamente, non fu preso in considerazione. Si ribellò contro Lodovico, col sostegno di parecchi segusci franchi del padre, e col sostegno anche, o la simpatia, di non pochi tradizionalisti in Italia della Francia. La rivolta falli, e Lodovico fece accecare Bernardo che morì per le ferite riportate 45. Nell'822-4' il figlio di Lodovico, Lotario, fu visto per la prima volta in Italia (mentre Lodovico il Pio non vi si recò mai). Minorenne come i suoi due predecessori, fu rappresentato da Wala, il fratello di Adalardo. Dei Carolingi che furono per qualche tempo in Italia, Lotario (817-55) fu il meno italiano. Rimase nel paese per la maggior parte della decade 831-841, ma principalmente perché Lodovico il Pio ve l'aveva effettivamente bandito. L'Italia servi a Lotario come base militare e politica per le sue awenture a nord; diversamente dal proprio figlio Lodovico II e dallo stesso Carlomagno, Lotario non visse molto nelle dttà, preferendo le grandi tenute reali come Corteolona o Aureola, cosi come fecero i re franchi nell'Europa del nord 46. E, distinguendosi anche in questo sia dal successore che dal predecessore, Lotario non nominò alcun longobardo in incarichi ecclesiastici o secolari. Le nomine che egli dedse, tuttavia, non suggeriscono antagonismo coi Longobardi (Leone, uno dei suoi più intimi consiglieri, era longobardo), ma soltanto la totale dipendenza dell'Italia dagli interessi dei Franchi. Quando nell'834 ebbe luogo la rottura con Lodovico, Lotario dovette mettersi alla ricerca di proprietà e incarichi 43
Per i dettagli, cfr. O. Bertolini, Carlomagno e Benevento (B3-e). Annales regni Francorum in MGH Saipt. rer. Germanicaram, s.a. 796, 801; cfr. D.A. Bullough, Baiuli in the Carolingian regnum Langobardorum (A3-c). 45 Cfr. T.F.X. Noble, The Revolt of King Bernard of Italy (A3-c); H. Houben, Visio cuiusdam pauperculae mulieris, Zeitschrift fur die Geschichte Obertheins, CXXIV (1976), pp. 3142. 46 F.G.S., pp. 401-2. 44
per i propri sostenitori settentrionali, e che comportò la maggiore ondata di immigrazione nordica in Italia di tutto il periodo carolingio. Lotario secolarizzò una porzione notevole delle proprietà ecclesiastiche per concedere feudi ai propri sostenitori, in perfetto stile franco, in aggiunta alle terre confiscate agli uomini di Lodovico che Lotario espulse dall'Italia. Pur se molti dei sostenitori di Lotario morirono nella pestilenza dell'836-7, quando, alla morte di Lodovico nell'840, Lotario lasciò l'Italia, l'influsso franco sulla penisola aveva raggiunto il suo apice. Contemporaneamente, l'Italia mostrava già segni di uno sviluppo in direzioni diverse da quelle del resto dell'impero dei Franchi. I Franchi giuntivi con Carlomagno vi erano insediati già da una generazione, e avevano cominciato a mettere radici. E i capitolari del regno di Lotario, in particolare quelli dell'825 e del1'832, costituirono i primi esempi di legislazione massiccia, dopo il 774, priva di un inílusso predominante delle leggi di Francia. In questa direzione avrebbe continuato poi Lodovico II, divenuto imperatore d'Italia nell'850. La descrizione della politica italiana in questo periodo, per quanto concerne le attività dei re, risulta monotona e banale. Ciò è in parte dovuto al fatto che l'Italia aveva uno status ambiguo, né indipendente né totalmente parte integrante dell'impero franco, con monarchi minorenni o assenti per la maggior parte del tempo. Ma è ancor più dovuto alla quasi totale mancanza di storiografia indigena relativa al periodo carolingio, con le sole eccezioni dei materiali riguardanti Benevento e delle storie vescovili delle città romano-bizantine di Roma, Ravenna e Napoli. Tra l'interruzione improvvisa della storia di Paolo Diacono nel 744 e l'inizio di quella di Liutprando da Cremona nell'888, non abbiamo altro che irrilevanti frammenti. I1 principale è costituito dalla storia di Andrea da Bergamo, scritta come seguito di Paolo Diacono nel penultimo decennio del IX secolo. Ci offre un quadro abbastanza dettagliato e ben documentato dell'ultima decade del regno di Lodovico II, e illustra i problemi sorti dopo la sua morte nell'875. Ma per quanto riguarda la storia precedente si dimostra stranamente mal informata. Rachi e Astolfo vi sono nominati come legislatori, e il numero delle loro leggi è fornito con cura, ma a parte ciò, Andrea « non si ricorda delle loro gesta, ma, per sentito dire, furono entrambi coraggiosi, e i Longobardi durante i loro regni non ebbero paura di nessuno ». Gli informatori franchi di Andrea si sono addirittura dimenticati di Pipino III. Le guerre degli anni 773-6 e la rivolta di Bernardo sono divenute leggende popolari, come è pure successo per la mediazione dell'Arcivescovo di Milano, Angilberto, fra Lodovico e Lotario. Non vi si legge d'altro: nel testo di Andrea, fra 1'833 e 1'863 l'Italia sembra non aver vissuto nessun avvenimento importante47. Andrea è certamente un cattivo storico, ma la sua ignoranza è significativa. I re franchi, fino a Lodovico II (che regnò soltanto in Italia), non parvero effettivamente agli Italiani sovrani del loro paese. Le loro guerre in Italia, contro gli Slavi ad est, i Longobardi a sud, gli Arabi sulle coste, sono ricordate soltanto dai cronachisti franchi. L'amministrazione italiana, come si vedrà, giungeva ovunque, ma i suoi sovrani venivano dimenticati. I1 solo modo di governare l'Italia propriamente comportava il vivervi di persona, e solo Lodovico II, fra tutti i sovrani carolingi indipendenti, lo fece; solo lui riuscì a dare una impronta nuova al regno. D'altra parte, fu proprio durante il governo incolore dei primi Carolingi che la sofisticazione del sistema amministrativo raggiunse il vertice. L'efficienza dello stato 47
Andrea, Historia (in MGH S.R.L., pp. 221-30), cc. 3-7.
cominciò a venir meno soltanto durante il regno di Lotario poiché, eccettuando il decennio 831-41, egli fu in pratica un monarca assente. L'amministrazione continuò ad essere basata essenzialmente sui modelli longobardi che Carlomagno aveva trovato già nel 774: la gerarchia di funzionari pubblici basata su duchi e gastaldi nelle città, e l'amministrazione centrale di Pavia. Quei modelli; erano retti ancora dal principio della proprietà terriera, la chiave che s piega tutto il potere politico post-romano. I dazi, le corvées e i servizi richiesti dai re longobardi vennero richiesti ancora dai Carolingi e dai loro successori, e sono ancor meglio documentati, ma continuavano a rappresentare una piccola parte delle entrate e dei fondi del re, tranne per quanto riguarda il servizio più importante richiesto, quello del contributo militare48. La politica della proprietà fondiaria è stata menzionata come un problema dei Longobardi, ma fu nel periodo carolingio che cominciò a venir chiaramente documentata, e alcuni conflitti locali fanno capolinO nella nostra documentazione. I re dell'Europa altomedievale ebbero principalmente due diversi, ma correlati, tipi di problemi, per stabilire il loro potere: il problema del consenso e quello del controllo. In parole povere, il re doveva riuscire a far si che l'aristocrazia fosse d'accordo con le sue azioni e lo aiutasse in quelle; ma contemporaneamente aveva bisogno di conservare una qualche autorità sulle azioni dei nobili nei loro rispettivi territori. In Francia, i Carolingi (almeno dopo Carlomagno) ebbero poca fortuna relativamente al secondo problema, e per quel che riguarda il primo dovettero cedere gran parte delle loro proprietà sotto forma di doni oppure feudi. In Italia le cose andarono più facilmente. L'attiva monarchia longobarda aveva stabilizzato il potere del re a un livello abbastanza alto, che permetteva di ottenere l'appoggio dell'aristocrazia in cambio di doni relativamente esigui. La pratica venne conservata dai Carolingi. I re donarono raramente appezzamenti di terra, e solo di piccole dimensioni. Lo stesso Lotario, al momento di insediare i suoi sostenitori in Italia nell'834, agì con prudenza, dando loro terre della Chiesa anziché proprie. La documentazione in nostrO possesso tende a dare più spazio alle registrazioni di donazioni alla Chiesa, che non di benefici a vassalli laici (possessi feudali ), e questo contribuisce sicuramente ad attenuare la proporzione dei benefici. Ma la proprietà « feudale » non raggiunse mai quote signifcative in Italia e, almeno nel IX secolo, appare chiaro come la generosità del re, in Italia diversamente che in Francia, non abbia mai minato seriamente la proprietà fondiaria reale49. L'effetto che ciò ebbe sulle classi più elevate sarà messo a tema nei capitoli seguenti, ma un risultato immediato va discusso subito. I re che non distribuirono consistenti quantità di terreni si trovarono in una posizione alquanto debole al momento di affidare ai loro protetti una supremazia fondiaria locale, quando desideravano farlo. Perché una protezione dei reali franchi (soprattutto verso i conti) si trasformasse in vera e propria egemonia franca in aree locali erano necessarie tre generazioni. Se i re non insediavano i loro protetti in qualità di proprietari terrieri, la possibilità di questi di influenzare gli equilibri di potere era alquanto limitata. I re potevano agire sulla distribuzione e ridistribuzione degli incarichi pubblici, e lo fecero; ma non fu mai 48
F.G.S., pp. 421-51; MGH Dipl. Kar., I, nn. 132, 134, e III, n. 91 per alcuni esempi di redditi e pedaggi; Honorantiae Civitatis Papiae in MGH S.5., 30. 2, pp 1450 9 per una lunga lista riguardante i secoli X e Xl. 49
Darmstadter, op. cit., pp. 16-24 MGH Dipl. Kar., lII, n. 40 per una secolarizzazione operata da Lotario.
facile, per esempio, controllare le illegalità di un conte nella sua contea, se egli era un sostenitore leale ed efficace del sovrano. Sin dal quarto decennio del secolo IX, cominciò ad esser difficile anche impedire che il figlio succedesse al padre nell'incarico. I Carolingi affrontarono tale problema in tre principali maniere: con l'intervento diretto e il rafforzamento delle gerarchie dei funzionari, particolarmente attraverso le leggi; con mezzi più specifici e mirati, soprattutto l'uso massiccio di missi; e con l'uso politico della Chiesa per bilanciare il potere locale dell'aristocrazia laica. Non v'è alcun dubbio che i Carolingi ritenessero compito loro intervenire nella società più capillarmente di quanto avevan fatto altri sovrani altomedievali. La loro legislazione, o « capitolari », comprende, nell'edizione classica, due volumi in folio di testo in latino. Re e imperatori emanarono decreti amministrativi su una gran varietà di argomenti, imponendoli a Longobardi, Romani e Franchi, senza tener minimamente conto delle leggi dei singoli gruppi etnici. Nell'832, ad esempio, Lotario promulgò due capitolari in Italia. Nel primo, legiferò sulle nomine e le assegnazioni relative alle chiese battesimali; lo spargimento di sangue in chiesa; i diritti legali degli ebrei; il vilipendio alla magistratura; le cospirazioni suggellate dal giuramento; l'oppressione dei poveri; l'inosservanza delle disposizioni imperiali; il rifiuto di accettare denaro in corso legale; la coniatura di denaro falso; la normativa relativa alle testimonianze; e il costo della redazione di documenti. Nel secondo, impartì istruzioni ai suoi missi per indagare su un campo altrettanto vasto: le dotazioni monastiche; l'organizzazione delle zecche, e le frodi locali inerenti al conio; pesi e misure antichi, e l'usura; il giusto giudizio; come agire con chi non avesse giurato fedeltà al re; il disprezzo della proprietà e dei palazzi del re; il godimento di benefici reali e di terre del fisco; il restauro delle chiese; le recenti depredazioni della proprietà ecclesiastica; la cospirazione il mantenimento di ponti e di strade50. La lista fornisce un esempio abbastanza rappresentativo delle principali preoccupazioni dei re carolingi in Italia. A nord delle Alpi, il quadro era un po' diverso, ma non di molto. Nel capitolo quinto verrà discusso un esempio particolarmente sorprendente di intervento, il tentativo carolingio di mantenere un intero gruppo sociale di piccoli proprietari terrieri cosI ch`e servissero nell'esercito e partecipassero alle corti locali. Come riuscissero i Carolingi a mettere in pratica tali decreti è un problema assai più serio. In Francia essi venivano promulgati oralmente, e può essere messa in dubbio la conoscenza generale della loro esistenza In Italia, invece, troviamo riferimenti espliciti in documenti, ed è probabile che una classe aristocratica alfabeta ne fosse abbastanza bene informata. Responsabili per la messa in pratica erano i conti locali, operanti nella rete delle città italiane. I Carolingi fecero grande affidamento sui propri conti, e si può constatare come la responsabilità comitale si sia progressivamente estesa in tutto il IX secolo a molti territori alpini o appenninici che erano rimasti indipendenti dall'autorità delle città durante il periodo longobardo. Vi erano poi vari tipi di funzionari legali non totalmente dipendenti dai conti ed ancora legati alle città. Fra questi i più importanti furono gli scabini, generalmente piccoli proprietari terrieri, che avevano il compito di far funzionare i tribunali, strumento fondamentale del governo carolingio e considerevole fonte di entrate51. Ma ad esercitare un ruolo 50
MGH Capitularia, Il, nn. 201-2. V. Fumagalli, Un territorio piacentino nel secolo nono, QP, XLVIII (1968), pp. 25-31 per la carriera di un funzionario locale; ibid., art. cit., n. 26, e A. Castagnetti, Distretti fiscali auttonomi... (B3-c) per le unità amministrative rurali. 51
politico e direttivo predominante erano i conti, come conseguenza anche del loro ruolo di capi militari locali, ed è più che probabile che molte delle leggi emanate da Lotario nell'832 venissero violate dai conti o dai loro vassalli, in particolare quelle volte a limitare la spoliazione di proprietà ecclesiastiche e l'oppressione dei poveri. :È per tal ragione che Lotario emanò istruzioni parallele ai suoi missi per indagare sulla loro applicazione. I missi, messaggeri del re, non costituivano un'innovazione carolingia. Già i re longobardi avevano spedito i loro rappresentanti a controllare l'attività di singoli duchi e a giudicare importanti controversie legali. Ma i Carolingi fecero dei missi una caratteristica fondamentale del loro governo; il missus divenne l'organo rappresentativo del governo centrale nelle province. Se un conte ne sfidava l'autorità, sapeva che ne sarebbe seguita una rappresaglia militare. Questo è almeno il modo in cui il sistema funzionava secondo quanto ci dicono i capitolari, ma i testi legali tendono a idealizzare le istituzioni. I1 governo carolingio, in realtà, non funzionava in modo così limpido; ricorreva piuttosto a una serie di misure ad hoc, che si controbilanciavano a vicenda. Parlare di una « istituzione dei missi » significa dire in modo formale che i re carolingi spedivano di continuo emissari che rettificassero le depredazioni dei potenti e degli altri emissari. In tal modo Carlomagno inviò dei baiuli con Pipino per accertarsi che l'Italia fosse governata giustamente; ma abbiamo notizie di uno di essi, Rotchild, soltanto grazie alle illegalità che commise. Nell'anno 800 circa, per esempio, espulse l'abate Ildeperto dal monastero di San Bartolomeo a Pistoia e affidò questo in fendo al bavarese Nebulung, finché non arrivarono altri missi a rettificare il suo gesto. La biografia del missus Wala fornisce un resoconto drammatico di come le diverse circoscrizioní giudiziarie e le aristocrazie locali italiane cospirassero per impedire che per esempio una vedova ottenesse da lui giustizia52. Nei casi in cui i missi erano anche conti, cosa non rara, i conti su cui investigavano ricevevano non di rado un trattamento privilegiato. In ogni caso, però, non si dovrebbe esser troppo severi nel giudicare i funzionari carolingi; i re possono essersi sì lamentati per l'oppressione subita dai deboli, ma non sembrano averla considerata una cosa cosi insopportabile, poi, se non quando veniva minacciata la capacità dei deboli di prestar servizi militari. Per lo più, lo stato non s'aspettava grandi gesti d'onestà e di giustizia da parte dei suoi sudditi, e in tale ristretto ambito si può dire che alcuni missi abbiano servito i loro padroni con tutta l'onestà necessaria. La carriera di uno di questi, Leone, che firmò documenti con una sua caratteristica formula tra 1'801 e 1'841, è stata messa in luce da Donald Bullongh in un'accurata indagine documentaria53. Cominciò come vassallo al seguito del conte di palazzo Ebroardo, un Alemanno; fra 1'812 e 1'814 e nel terzo decennio di quel secolo fu con Adalardo e Wala, tipici emissari carolingi. Allora veniva nominato spesso con l'epiteto di missus, e fu testimone alle redazioni di documenti o a processi in luoghi tanto distanti quanto lo sono Roma, Spoleto, Pistoia, Reggio e Milano. Verso 1'823-4 fu nominato probabilmente conte di Milano. Nell'837 una cronaca lo descrisse come
52
C. Manaresi, I placiti del « regnum Italiae », I (di seguito: « Manaresi ») (Roma 1955), n. 25; Paschesius Radberbls, Epitaphium Arsenii, 1. 26 (a cura di E. Dilmmler, Phil. und hist. Abh. der Konigl. Akad. der Wiss. zu Berlin, II, (1900). 53 D.A. Bullaugh, Leo qui apud Hlottarium magni loci habebatur et le goourernement du Regnum Italiae a l'époque carolingienne (B3-c).
tenuto « in grande stima» (magni loci) da Lotario, e organizzatore di alcune attività inerenti alla guerra fredda fra Lotario e il padre. Entro 1'844 il figlio Giovanni gli era succeduto come conte di Milano, al cui territorio aggiunse Seprio. Leone fu un amministratore di professione, con quarant'anni di servizio, e sotto governanti non altrettanto duraturi. Non è che si possa precisamente ritrarlo in una qualche categoria all'interno del « sistema governativo », ma assieme ai suoi meno conosciuti colleghi contribui a dare vera continuità ed efficacia al governo italiano. Era evidentemente originario del posto. Bullaugh ha pensato, probabilmente giustamente, che fosse un longobardo, pur se con parentele franche. Comunque non fu un aristocratico grande proprietario terriero, com'erano i principali conti, fu attivo in ogni sfera del governo carolingio. La sua carriera indica quanta autorità poteva avere il governo centrale italiano. Leone, privo di prestigio familiare, poteva fare moltissimo semplicemente con l'autorità conferitagli dalla sanzione di Pavia. Probabilmente già i re longobardi avevano fatto ricorso a uomini del suo tipo; Lodovico II avrebbe rinvigorito questa tradizione, affidandosi in gran misura a personaggi sconosciuti. il però significativo che la contea di Leone fosse cosI vicina a Pavia. Come funzionario pubblico locale privo di possedimenti propri, i suoi poteri sarebbero stati assai minori. Le contee di frontiera (o « marche »), in particolare, venivano affidate di regola a membri della Reichsadel, la nobiltà imperiale. Solo questi possedevano la base fondiaria privata e il potere militare necessari per mantenere l'autorità in quelle zone. L'altra forza che i Carolingi cominciarono a sfruttare fu quella della Chiesa. I Longobardi non avevano mai usato la Chiesa nelLa gestione del potere. Adeguandosi alla tradizione romana (diversamente dai Bizantini), cercarono di tener separate le faccende secolari da quelle ecclesiastiche; non che ignorassero completamente la politica ecclesiastica, abbiamo visto come fondassero monasteri in contesti politici, e l'aristocrazia aveva fatto la stessa cosa. Carlomagno favori questi monasteri nel tentativo di far accettare Ia sovranità franca in Italia54. Ma Carlomagno e ancor più i suoi successori andarono ben più in là: il clero, e particolarmente i vescovi, divennero strumento di governo. Gli stessi capitolari franchi, a differenza delle leggi longobarde, trattarono ampiamente di faccende ecclesiastiche. In Francia, ciò costituiva pratica comune, e il rilevare la diffusione di tale pratica in Italia segna l'assimilazione del paese alle tradizioni di governo franche. Gli stessi vescovi, però, erano di solito longobardi, tranne quelli più importanti, quali Ratoldo di Verona sotto Lodovico il Pio e soprattutto Angilberto II di Milano e Giuseppe di Ivrea sotto Lotatio e Lodovico II. L'importanza di questo predominio longobardo deriva dalle posizioni dei vescovi nelle strutture di potere delle città italiane.55 Come s'è visto nel capitolo primo, i vescovi e le loro chiese, sin dal quinto secolo, avevano avuto in alcune città grandi possedimenti terrieri. La conquista longobarda impedì dapprima che quei possedimenti s'estendessero ancora di più (tranne che nelle città romanobizantine, dove la progressione continuò indisturbata), ma verso 1'VIII secolo, nella gran parte delle città per le quali abbiamo una documentazione, il vescovo costituiva la maggior figura di proprietario terriero. Lucca, influenti famiglie locali fornirono una catena quasi ininterrotta di vescovi dal secondo decennio dell'VIII secolo sino al 1023. Il potere locale dei vescovi era nella maggior parte dei luoghi strettamente collegato alle famiglie più importanti della zona. I vescovi si 54 55
Schmid, Ablosung..., pp. 33-5. Cfr. oltre a Fischer, Bertolini, arf. cit., n. 14 e G. Tabacco, La storia politica e sociale (B1), pp. 88ss.
trovavano al centro della vita politica ad ogni livello eccettuato quello statale. La scomparsa di questa eccezione sotto i Carolingi pare logica, e s inserisce bene non solo nella pratica dei Franchi, ma anche nell'ambito delle implicazioni conseguenti alla Cooperazione politica fra Carolingi e papato che sostituì l'inimicizia del periodo longobardo e controbilanciò la tendenza ad attribuire ogni incarico secolare ai Franchi. Gli aristocratici longobardi furono sempre più esclusi dalla rete del patronato statale: tra 1'814 e 1'875 si possono rintracciare solo due o tre conti l.ongobardi. Questi accentrarono la loro attenzione sul potere locale, all'in- terno del quale il ruolo più importante era quello di vescovo. I re avevano il potere de facto di scegliere i vescovi, e Lotario e Lodovico II lo esercitarono spesso. Lotario scelse sempre dei Franchi, Lodovico di solito dei Longobardi. In altri periodi, però, i vescovi furono eletti localmente, e rimasero il centro delle strutture di potere urbane. Franchi e Alemanni presero a diffondersi in tutta l'Italia e quando coprivano il rango di conti via via ne ereditavano gli incarichi e agivano con sempre maggiore indipendenza. Ma, per la maggior parte, quando i vescovi venivano scelti localmente non erano presi da famiglie franche. Sarebbe sbagliato vedere in ciò un'opposizione etnica tra Franchi e Longobardi; è più che altro un segno che i franchi non riuscirono quasi mai a inserirsi profondamente nlle strutture sociali locali. In virtù dei loro incarichi, vescovi e conti erano tuttavia effettivamente in potenziale opposizione. Entrambe le cariche prevedevano il controllo di grandi quantità di terra e, con la nuova importanza attribuita dai Carolingi ai vescovi, le due funzioni cominciarono ad entrare in contrasto. I conti attaccarono spesso le proprietà episcopali, o per avidità o, sempre più, per autodifesa. I vescovi avevano spesso poteri giudiziari e sempre più, durante il rx secolo, godevano di immunità nei confronti dei conti. Questa fu in parte una scelta politica di alcuni Carolingi, che davano forse peso al contributo morale dei vescovi alla politica, pur se i vescovi non opprimevano i deboli meno dei conti56. D'altro canto essi coprivano cariche non ereditarie; e lo stato forse anche comprese che un equilibrio locale del potere andava a suo vantaggio. Fintantochè le rivalità locali si bilanciavano, lo stato sarebbe sopravvissuto e sarebbe stato forte. Quando però uno di questi funzionari di elevato grado (o una famiglia) emergeva vittorioso in una città, come accadde in moltissime località fra 1'880 e il 920 circa, la coesione dello stato ne era minacciata. La comprensione di una tale politica locale è fondamentale per capire la storia italiana, e a partire dal IX secolo è possibile seguirla in parecchie località. Due esempi, Brescia e Lucca, ne sottolineeranno alcune implicazioni. Brescia costituisce un buon esempio del potere derivante da una grande proprietà terriera, e particolarmente rappresentabile è la storia della famiglia dei Supponidi. Il primo membro di quella famiglia di cui si sappia qualcosa è un franco, Suppone I, conte di Brescia nell'817, che contribuì a domare la rivolta di Bernardo. Forse in premio gli fu data Spoleto nell'822, mentre il (probabile) figlio Mauringo conservò Brescia, presto diventando pure lui duca di Spoleto, nell'824. In quegli anni e nelle decadi seguenti i Supponidi si costruirono un patrimonio fondiario consistente in tenute sparse in tutta l'Italia settentrionale, grazie probabilmente ai vari tradizionali mezzi: doni e feudi reali, appropriazione di terra comitale, acquisizioni, estorsioni. Un altro membro della famiglia, Adelchi I, fu conte di Parma nel quarto decennio del secolo IX, di Cremona, forse, nell'841 e, ancora una volta, di Brescia. Quest'asse Lombardia orientale-Emilia 56
Cfr. Capitularia, n, 213 c. 4, 221 c. 13. Per i poteri giuridici dei vescovi, cfr. H. Keller, Der Gcrichisort in oberitalienischen... Stadten (B3-c), pp. 540.
occidentale rimase, più o meno, un centro di interessi della famiglia dei Supponidi, e quando la famiglia raggiunse il massimo splendore con il matrimonio fra la supponide Angilberga e Lodovico II, ella ottenne dal marito altre terre in quei territori, come mostra chiaramente il testamento di lei nell'87957. Da allora ritroviamo spesso i Supponidi conti di Brescia, Piacenza e Parma. I più importanti fra loro, Suppone II e il cugino Suppone III, sotto Lodovico II coprirono incarichi anche altrove: Suppone II a Parma, Asti e Torino; Suppone III (1'archiminister e consiliarius di Lodovico) nuovamente a Spoleto. Non controllarono mai pienamente quelle città; non ne avevano bisogno, tale era il raggio del loro influsso; a Brescia spartirono il controllo con i vescovi, e con il ricco monastero di San Salvatore (più tardi Santa Giulia), fondato da Desiderio, e governato di solito tramite principesse reali. Tra i vescovi ci furono il franco Notting (844-63), altro aiutante di Lodovico II, e, prima, il longobardo Ramperto (circa 825-44), che contribuì alla fama di parecchie chiese locali attraverso miracoli e reliquie ed il sostegno politico dell'Arcivescovo di Milano Angilberto. Queste istituzioni mostrano un complicato intreccio di legami, specialmente San Salvatore, che fu sotto il patrocinio sia dei vescovi che dei conti. G]i stessi duchi del Friuli, strettamente imparentati con i Supponidi (e con i Carolingi), mandarono le loro figlie in quel monastero; e sia i Supponidi che i vescovi di Brescia sostennero lealmente la fazione germanica e friulana durante le dispute per la successione che nacquero dopo la morte di Lodovico II nell'875. Non esiste traccia di rivalità tra quelle forze, a Brescia. Il motivo sta probabilmente nel fatto che avevano vari legami in tutta l'Italia settentrionale e che operavano su una scala che sconfinava dai limiti di una singola città. Ciò spiega anche perché si rifiutarono di ricorrere alle mutevolissime alleanze che caratterizzarono i decenni seguenti all'875. I Supponidi, in particolare, abbisognavano di uno stato forte, in quanto la loro proprietà fondiaria si estendeva in così tanta parte del nord che solo lo stato poteva garantire la pace di cui avevano bisogno per conservarla. Non è forse una coincidenza che essi scomparvero, come famiglia, nelle stesse decadi della metà del secolo X che videro la frantumazione dello stato italico. Altre famiglie avevano dimensioni simili, pur se non arrivarono ad essere tanto importanti quanto i Supponidi. Una rete fragile e insieme complessa di proprietà fondiarie si stendeva sulla maggior parte dell'Italia settentrionale, in un equilibrio precario che era sostenuto dalla forza dello stato mentre gli consentiva di essere forte. Ludovico poteva affidare ai Supponidi una miriade di incarichi, perché essi avevano bisogno di lui. A loro volta, essi non dovevano dirigere le loro ambizioni verso un controllo territoriale di singole contee, ma solo sulla carica di conte, in qualsiasi contea. Le famiglie i cui interessi si limitavano a una sola contea erano invece assai più pericolose, pur se più deboli, per la coesione interna del regno. I pericoli apparvero più chiaramente in questo periodo lungo i confini del regno italico, nelle tre grandi « marche » del Friuli, della Toscana e di Spoleto, che sommate assieme costituivano più di un terzo dei territori italiani. I1 termine « marca » è appropriato, ma comparve tardi, e suggerisce una omogeneità fra le tre zone superiore 57
G. Porro-Lambertenghi, Codex diplomaticus Langobardiae (d'ora in avanti: “Porro”) (Torino, 1873), n. 270. Gli editti conservatici di Lodovico per Angilberga riguardano la stessa regione: cfr. sotto, n. 65. Per i Supponidi, Hlawitschka, op. cit., pp. 299-309; per Brescia: G.P. Bognetti in Treccani Storia di Brescia (Brescia, 1963), pp. 449-83.
alla realtà. I1 Friuli e Spoleto costituivano, ovviamente, vecchie unità longobarde, e i loro sovrani erano generalmente chiamati conti o, ancora, duchi, fino al penultimo decennio del IX secolo. La marca toscana si venne a formare all'inizio del secolo IX. Entro la metà di quel secolo in tutte e tre il potere si trasmetteva per via ereditaria e si verificò un'autonomia de facto sotto le tre famiglie regnanti: gli Unruochingi, i Bonifaci e i Guideschi, come vengono chiamate oggi (ma non allora). Si trattava di tre delle maggiori famiglie appartenenti alla nobiltà imperiale franca, con interessi in diversissime aree dell'Impero, ma, per quanto riguardava l'Italia, basati esclusivamente sulla marca che controllavano. Ne risultò che non ebbero alcun motivo strutturale per usare il loro potere locale al fine di rafforzare lo stato italico. Le tre famiglie sfruttarono fino in fondo le proprie opportunità, ma in modi diversi. Gli Unruochingi friulani, coi loro stretti legami di parentela con i Carolingi, ebbero la reputazione di sudditi leali. I Bonifaci toscani cooperarono con i Franchi fino alla morte di Lodovicó II, dopodiché presero a cuore soprattutto la propria autonomia. I Guideschi di Spoleto conservarono i loro legami con l'oltralpe, ma si trovarono a governare il ducato più distante; sin dall'inizio s'interessarono soprattutto alla propria autonomia e alle faccende di Benevento, e resistettero a qualsiasi re che cercasse di esercitare un qualche controllo su di loro58. La creazione di questo tipo di potere si può meglio osservare a Lucca. Nell'812-3, il bavarese Bonifacio I Vi fece la comparsa in qualità di conte. Diversamente dai suoi predecessori, sembrò controllare la maggior parte delle contee lungo la valle dell'Arno. I1 figlio Bonifacio II gli successe e nell'828 è ricordato nell'incarico di difensore della Corsica. Condusse una flotta a combattere gli Arabi e razziò addirittura l'Africa59. La difesa per mare era stata responsabilità dei conti di Lucca sin dall'ottava decade dell'VlII secolo, e con l'accrescersi degli attacchi arabi, fu logico che l'autorità comitale toscana venisse a rafforzarsi. Documenti lucchesi ci mostrano come il conte accumulasse poteri anche a livello locale. I1 vescovo di Lucca, che per almeno un secolo aveva rappresentato la figura più prestigiosa nella città, perse il controllo sul notariato urbano nel secondo decennio del IX secolo, e ne seguì una serie di vescovi meno importanti (fra cui due franchi) fino alla metà del secolo, quando fu nominato vescovo Geremia, appartenente a una importante famiglia del luogo e scelto dietro consiglio di Lodovico II. I conti di Lucca non poterono controllare direttamente i vescovi, in quanto questi ultimi possedevano proprietà troppo vaste e avevano tutta una rete di legami locali, ma limitarono l'autorità episcopale alle sole faccende ecclesiastiche. Se alcuni vescovi di Lucca raggiunsero maggior prestigio, non lo ottennero dentro la città, bensì in qualità di missi del re a livello nazionale, come quando il vescovo Gherardo I guidò un esercito in Calabria per conto di Lodovico II nell'870. Nell'833 Bonifacio II si espose nella difesa di Lodovico il Pio e venne spodestato da Lotario; dovette cosl ritirarsi nelle sue terre nella Francia meridionale. Anche i possidenti italo-franchi maggiormente coinvolti nelle vicende italiane avevano proprietà al di fuori dell'Italia. Quando però, nell'864, Everardo del Friuli divise le sue terre (che s'estendevano dal Belgio al Veneto) fra i propri eredi, ne impose 58
Per le marche in generale, A Hofmoister, Markgrafen und Marigrafschaiten im italianischen Konigrcich (B3-c). 59 Annales regam Francorum' s.a. 828; H. Keller, La formazione della marca di Tuscia in Atti del 5° Congresso internazionale (B3-f), pp. 117-33 e note, e H.M. Schwarzmaier tB3-f), per la marca toscana in generale.
esplicitamente la ridistribuzione qualora guerre civili causassero perdite. La proprietà fondiaria su scala europea fu sicura solo fintantoché durò l'unità dell'Impero e a partire dall'843 essa prese a disgregarsi. Quando tornò la pace, Bonifacio era già morto; ma il figlio Adalberto I (84686) divenne il sovrano di quella che era allora a volte definita la marca toscana, un agglomerato delle contee settentrionali di quella regione, ed ebbe un potere paragonabile a quello di un vicerè. I processi non ebbero più luogo alla corte del re ma a quella di Adalberto sin dalla metà del secolo. Ben poche potenze secolari poterono fiorire nei suoi territori se non rientravano sotto il suo controllo. Dopo 1'875, quando alla morte di Lodovico II seguirono le guerre civili, Adalberto e il figlio Adalberto II (886-915) governarono quello che diventò effettivamente uno stato indipendente: Adalberto II non si curò nemmeno di prender parte a molte di quelle guerre, e dai suoi documenti cominciarono a scomparire le datazioni fondate sugli anni di regno. Il potere di Adalberto II si basò sicuramente sull'appropriazione del fisco toscano, a favore della propria famiglia, pur se non sappiamo con esattezza quando ciò avvenne. I1 suo non fu, comunque, solo il potere privato di un grande proprietario terriero; Adalberto esercitò anche il controllo sul meccanismo pubblico dello stato. La sua posizione personale fu tanto forte da consentirci di affermare che l'indipendenza della Toscana durante il suo regno non dimostra tanto la debolezza dello stato, ma ne rappresenta piuttosto la continuazione su scala ridotta. Come si vedrà, la coesione toscana sopravvisse effettivamente a quella dello stato italico stesso. Adalberto e i suoi successori governarono in un'area geografica omogenea e abbastanza grande, nella quale il reticolo statale carolingio poteva funzionare nella stessa maniera in cui aveva funzionato per i re. In contee minori, o in aree montagnose come Spoleto, l'affermarsi di una indipendenza simile portò al collasso, come si vedrà negli ultimi due capitoli. Nell'844 Lodovico II venne inviato in Italia da Lotario, e nell'850 (in qualità di imperatore) si mise a governare senza il controllo del padre. Da quel momento non lasciò più l'Italia, nemmeno dopo la morte di Lotario nell'855 e, pur se imperatore, non ebbe alcun interesse o influsso nell'Europa del nord. Fu comunque il primo e ultimo carolingio a coglier l'occasione di governare l'Italia come avevano fatto i re longobardi. I1 re che vi si provò successivamente, Ugo (926-47), si accorse che era ormai troppo tardi. Lodovico fu generalmente accettato dalla sua aristocrazia per la forza e l'autorità di cui godeva, tranne forse a Spoleto. Abbiamo già esaminato l'intelaiatura di quel potere, l'intrico di autorità centrale, gerarchia di funzionari e rivalità urbane. Lodovico ritenne che quel sistema si fosse indebolito a causa di vari decenni di vacanza, ma che potesse ancora costituire la base d'azione per il potere di un re attivo e deciso com'egli era. Lodovico consolidò il controllo sulle strutture interne del regno e quindi, seguendo l'esempio degli ultimi re longobardi, cercò di estendere la propria autorità, intervenendo negli stati del meridione60. Alla fine del quinto decennio del secolo, Lodovico dette istruzioni ai vescovi perché indagassero nelle proprie diocesi su abusi ecclesiastici o secolari. Nell'850, in un sinodo episcopale e due capitolari, stilò un catalogo delle osservazioni dei vescovi e mise in atto dei rimedi. I1 sinodo di Pavia costituì la prima importante occasione pubblica. A presiedere vi furono Lodovico, Angilberto II di Milano, Teodemaro 60
Per Lodovico, P. Delogu, Strutture politiche e ideologia nel regno di Lodovico II (B3-c); H. Keller., Zur Struktur der Konigsterrshaft (B3-c), pp. 152-5.
patriarca di Aquileia, e l'arcicappellano Giuseppe vescovo di Ivrea. Ma l'avvenimento di quell'anno è costituito dai capitolari. Trattano quasi esclusivamente di problemi attinenti la violenza, l'abbandono e l'oppressione. Nel Capitolare 213 i ladri assaltano mercanti e pellegrini; i malvagi assaltano ville e viandanti; alcuni proprietari cospirano con quelli. I potenti, laici o ecclesiastici, vivono alle spalle del popolo, ne confiscano i cavalli, ne usano i pascoli; i palazzi reali giacciono nello squallore, e gli edifici pubblici devono essere restaurati, per essere degne dimore di ambasciatori stranieri (eco interessante questo delle Variae di Cassiodoro: si veda p. 113); il ponte sul Ticino a Pavia deve essere ricostruito; i missi pretendono troppi doni e favori dal popolo61. Quel capitolare offre una immagine da manuale dello squallido stato di abbandono in cui l'Italia era caduta con i Carolingi, e non v'è da dubitare che molti di quei problemi fossero endemici, particolarmente, come s'è visto, lo sfruttamento da parte dei potenti. In tale campo Lodovico giunge quasi ad ammettere la sconfitta: se vengono portati via i cavalli, questi devono venire almeno pagati al prezzo equo; i missi possono continuare a pretendere i loro tributi, fintantoché sono quelli in uso. Ma il ponte a Pavia è ricostruito; e nei capitolari più tardi non si parla più di ladri. La lista insolitamente dettagliata delle illegalità pare un segno della serietà delle intenzioni di Lodovico, e i suoi rimedi han tutto l'aspetto di misure efficaci. Quel che si riesce a sapere sulle attività di Lodovico indica che egli riusci a stabilire un livello considerevole di controllo politico. Nell'853, Geremia vescovo di Lucca, con l'aiuto di due diplomi imperiali, allora promulgati, ristabilì i suoi diritti su terre dal suo predecessore date in locazione, apparentemente a seguito di pressioni, ad alcuni laici. Nell'860 vari missi imperiali investigarono sull'impossessamento illegale di terre imperiali attuato dal conte di Camerino, Ildeperto e lo annullarono62. Lodovico stesso cominciò a organizzare un gruppo di cortigiani e amministratori col quale governare l'Italia direttamente. Ricorse ai grandi potenti del regno di Lotario, Giuseppe d'Ivrea, Angilberto di Milano, Notting di Brescia ed Everardo del Friuli, ma dopo le loro morti preferì affidarsi a personaggi relativamente sconosciuti, di propri cappellani personali, consiliarii, e vassalli; gli unici nomi di prestigio furono quelli di Suppone II e Suppone III, parenti della propria moglie. Sotto Lodovico, venne anche un po' a diminuire la burocratizzazione del governo di Pavia. I grandi incarichi di arcicappellano e arcicancelliere sparirono, temporaneamente. Lodovico e Angilberga (in qualità di consors regni, regina consorte), divennero essi stessi i capi del governo, e gran parte di questo si spostava attraverso il regno con loro, di città in città. Da ciò potrebbe sembrare che Lodovico volesse contrastare l'influsso dei grandi nobili, ma quasi certamente la cosa non avvenne. Nelle contee i figli continuarono a succedere ai padri. Lodovico cercò soltanto di controllarne le attività in modo un po' più vigile, e ricorse meno a loro nel governo centrale. Probabilmente usò la Chiesa per controbilanciare il potere di alcuni, e ci risulta che egli abbia nominato un gran numero di vescovi (di solito longobardi), prendendoli in larga misura fra i propri fidi, nella Toscana di Adalberto63. Ma il fondamento della sua politica, il fisco, non fu seriamente minacciato dalla nobiltà, e pare che Lodovico abbia lasciato in pace gli aristocratici a lui leali. Probabilmente fu ancor meno generoso dei suoi predecessori per quel che riguarda le concessioni di terre reali; fra tutti i laici, Suppone III è l'unico 61
Capitularia, Ir, 213; cfr. anche 209-12, 228. Manaresi, 57, 65. 63 Fischer, op. cit., pp. 68-76. 62
per il quale i documenti testimonino una vera e propria donazione di terreni; e gli unici beneficiari di grandi doni furono Angilberga e i due monasteri reali di San Salvatore a Brescia e San Clemente di Casauria 64 Lodovico accontentò la sua aristocrazia in un altro modo: con l'avventura militare. Nell'866 Lodovico promulgò un capitolare in cui richiamava alle armi per una campagna militare contro Benevento, con clausole specifiche relative agli obblighi militari, e con un elenco dei missi destinati a rimanere in patria ad organizzare la difesa e la chiamata alle armi locale in dodici diverse aree del regno65. Pare che quasi tutta l'aristocrazia lo abbia accompagnato. Lodovico era già intervenuto prima nel sud: era stato a Roma parecchie volte, e aveva condotto eserciti contro gli Arabi nell'846 e nell'848. Nell'848 aveva anche contribuito a por fine alla guerra civile a Benevento, che da allora in poi rimase divisa fra i principati di Benevento e Salerno (con Capua come terza forza quasi indipendente). Nell'866 era sceso a sud per scacciare gli Arabi sotto Sawdan (ovvero « il Sultano ») da Bari, dove erano insediati sin dall'847. Quel che si stava esattamente verificando nel caos politico dell'Italia meridionale verrà discusso nel capitolo sesto; i tre stati longobardi erano soltanto tre tessere di un intarsio politico che includeva gli stati neoindipendenti di Napoli, Amalfi e Gaeta, il rinnovato inílusso bizantino che si sprigionava dalla Calabria, l'intervento di Roma e Spoleto appartenenti ali'orbita franca, e ovviamente gli Arabi. Lo scopo della spedizione di Lodovico era di allontanare questi ultimi, ma è quasi fuor di dubbio che egli intendesse anche estendere il proprio potere negli stati frammentati del sud, usando la forza del più potente esercito italiano di quel secolo. Gli stati meridionali lo accolsero bene e con cautela. Gli stessi Bizantini collaborarono, in quanto si sentivano pure loro minacciati: all'inizio della seconda metà del secolo gli Arabi avevano conquistato la maggior parte della Sicilia. Sfortunatamente per Lodovico, ci vollero quasi cinque anni perché Bari cadesse, e ciò accadde solo per merito di un blocco navale attuato dagli Slavi e dai Bizantini nell'871. Lodovico se ne accreditò il merito, almeno agli occhi dei Franchi, tuttavia non lasciò il sud. La sua presenza laggiù rese possibile ciò che era pressoché impossibile: un'alleanza di Beneventani, Salernitani, Napoletani e Spoletani contro di lui; fonti successive includono tra gli alleati anche il Sultano arabo. Nell'agosto 871 Lodovico venne fatto prigioniero da Adelchi di Benevento, tenuto nella città per un mese, e lasciato libero soltanto dietro giuramento di non vendicarsi. E’ difficile, per noi, renderci conto dell'impatto negativo provocato dall'imprigionamento a Benevento, ma esso rovinò il prestigio di Lodovico. Per controbilanciarne gli esiti egli dovette farsi reincoronare imperatore. Ma non poteva, ora, ricambiare l'ostilità degli stati meridionali. Pur se tornò nel sud nell'872-3, la sua battaglia lì era perduta. I principi longobardi si schierarono dalla parte dei Bizantini, che li ripagarono nel decennio seguente, sottraendo loro quasi la metà dei territori, compresa l'intera Puglia. Alla fin fine i beneficiari delle campagne militari di Lodovico furono proprio i Bizantini. I1 massimo che Lodovico poté fare per dimostrare il suo potere fu allontanare Lamberto di Spoleto per il ruolo da lui sostenuto nella faccenda dell'871, e di sostituirgli Suppone III. Lamberto tornò a 64
Suppone: J.F. B;Bohmer e E. Mùhlbacher, Regesta Imperii, I (2A alizione, Innsbruck, 1908), n. 1243; Angilberga, Brescia, Casauria: Dn. 1183-1272 passim. 65 Capitularia, II, 218.
Spoleto nell'876, dopo la morte di Lodovico. In tal modo sparirono anche le ultime vestigia del successo di Lodovico. Le fonti riguardanti gli ultimi anni del regno di Lodovico hanno un timbro apocalittico. Andrea ci racconta che il vino ribolliva nei tini durante la vendemmia dell'871, di inondazioni, siccità, invasioni di cavallette nell'872-3 e, nell'875, di una cometa, chiaro simbolo delle « grandi tribolazioni » che sarebbero seguite alla morte di Lodovico, privo di figli, prima del cinquantesimo anno, nell'agosto 87566. Ma non si riesce a dimostrare che la posizione interna, al nord, di Lodovico si fosse indebolita, eccetto per quanto concerne l'evento curioso di una petiziOne presentatagli da un gruppo di nobili, mirante a farlo divorziare dalla moglie in favore, pare, della figlia del conte di Siena67. Ad ogni buon conto, Ludovico era demoralizzato. E alla sua morte la fatale debolezza del regno, ossia l'assenza di un erede maschio, apparve chiaramente. I suoi due zii, in Francia e in Germania, accampavano eguali diritti. La disputa per la successione che ne risultò, durò più o meno trent'anni, e portò come conseguenza al crollo dello stato. Come mai la cosa sia accaduta, lo si vedrà nel capitolo settimo, ma non si può capirla ragionando soltanto in termini politici. Fu il risultato di mutamenti strutturali e congiunturali che interessavano i livelli più profondi della società e dell'economia italiane.
66 67
Andrea, Historia, cc. 17-8. Annales Bertiniani s.a. 872 (a cura di G. Waitz, MGH Scripiores rerum Germanicarum).
Capitolo terzo ROMANI, LONGOBARDI, FRANCHI E BIZANTINI Gli Ostrogoti svanirono senza lasciar traccia; non fu cosi per i loro successori. Verso l'anno 900, l'Italia era divenuta una complicata mescolanza etnica. La massa della popolazione era romana d'origini, pur se i Romani appaiono raramente come tali nelle nostre fonti. A1 loro fianco troviamo i Longobardi, in ogni livello sociale, ma particolarmente nell'aristocrazia; e nell'aristocrazia compaiono anche immigrati più recenti: Franchi e Alemanni, e alcuni Burgundi e Bavaresi. Anche nelle aree italiane mai conquistate dai Longobardi troviamo nuovi arrivati, stavolta dal Mediterraneo orientale. L'Italia bizantina, però, costituiva il margine occidentale di un Impero che manteneva legami ininterrotti col suo passato romano, e nell'Esarcato del VII e del1,VI1I secolo è difficile distinguere i Romani indigeni da quelli immigrati. Soltanto nelle province meridionali bizantine del X e dell'X secolo i Greci si distinsero etnicamente, come vedremo in un prossimo capitolo. I1 miscuglio di popolazioni costituisce il miglior contesto in cui trattare due problemi inerenti alla continuità nella storia sociale dell'Italia. I1 primo tema è relativo alla rottura verificatasi nel VI secolo; fino a che punto cioè l'occupazione longobarda abbia distrutto la struttura sociale italiana, confinando la massa dei Romani nei ceti più bassi del contadinato, e provocando una sorta di tabula rasa su cui la storia, per cosi dire, riprendesse da zero il proprio corso. La seconda questione, indissolubilmente legata alla prima, è quella della continuità dei quadri e degli uomini costitutivi dell'aristocrazia durante i vari mutamenti politici in Italia. Entrambi questi problemi sono stati spesso descritti come cambiamenti rivoluzionari all'interno della società italiana. Ma a me non pare ci siano effettivamente stati. Per tutto il periodo altomedievale, le fondamentali strutture sociali italiane e i modelli dell'aristocrazia furono così saldamente collegati all'economia che le intrusioni di popolazioni nuove non apportarono grandi modifiche. L'invasione longobarda e le guerre che seguirono, fra il 568 e il 605, furono certamente un disastro per l'Italia. Come abbiamo visto, gli italiani non avevano fatto in tempo a riprendersi dalle Guerre Gotiche che vennero sprofondati in un'esperienza altrettanto violenta e ancor più caotica. Gli osservatori del VI secolo non sentirono il bisogno di dimostrare che i Longobardi erano barbari e distruttori, gens nefa?'dissima, nelle parole di Gregorio Magno; la cosa era più che evidente. Le popolazioni di alcune città situate in luoghi vulnerabili, come Orvieto e Civita Castellana lungo il Tevere, si spostarono in cima alle colline per sfuggire agli assalti. Nella gran parte delle città che avrebbero costituito i ducati di Spoleto e Benevento, l'episcopato scomparve totalmente per almeno due secoli. Inoltre, i primi anni dell'invasione longobarda furono anche anni di pestilenze e carestie; queste si ripeterono spesso, accompagnate da altri disastri naturali, inondazioni e apparizioni di draghi, fino alla fine del VI secolo. E’ come se l'Italia fosse stata visitata contemporaneamente da tutti e quattro i cavalieri dell'Apocalisse1. I1 violento impatto coi Longobardi ci è descritto molto chiaramente nelle opere di Gregorio di Tours, Mario di Avenches e Gregorio Magno, che vissero in territori ripetutamente attaccati dai Longobardi, o ebbero 1
Paolo, H.L., 2. 4, 26; 3. 23-4; Mario di Avenches, Chronicon (MGH A.A., 11) s.a. 569-71, 580; cfr. Ruggini, op. cit., pp. 466-89, per un elenco completo delle calamità sino al 700.
contatti con quelle aree. I1 destino degli sventurati abitanti dei territori italiani che i Longobardi effettivamente controllavano venne ritenuto ancor più terribile. Nell'Italia longobarda i Romani scompaiono praticamente dalla storia, tanto che nel XIX secolo si poté sostenere che erano stati ridotti tutti in schiavitù. Nello stesso VIII secolo, laddove inizia la nostra documentazione, troviamo rarissimi riferimenti a loro: tre o quattro menzioni nelle leggi longobarde, due o tre in documenti sopravvissuti. Noi intendiamo riferirci a tutti gli abitanti dell'Italia longobarda con l'epiteto di 'Longobardi'; le nostre fonti certo ce lo permettono. Ma sappiamo che la gran massa degli Italiani deve esser stata etnicamente romana. Presumendo (con scarse prove) che ci furono molti più Longobardi di quanti erano stati gli Ostrogoti, circa duecentomila, i Longobardi non possono avere costituito più del 5-8% della popolazione nelle zone occupate, e la percentuale può anche essere stata inferiore. La storiografia relativa al destino-dei Romani è immensa, e non è basata su quasi alcuna buona documentazione. Tra la morte di Alboino ed il regno di Agilulfo, i contemporanei ci offrono informazioni minime. L'Italia longobarda fu praticamente un paese chiuso, pur se molti dei suoi primi duchi erano disposti a negoziare con i Bizantini. La sola storia che si stesse scrivendo nell'Italia dei primi Longobardi era quella di Secondo di Non, che sembra essersi trovato in una parte piuttosto isolata del Trentino, durante i primi anni dell'invasione longobarda; solo durante il regno di Agilulfo egli entrò a far parte della corte reale, con un maggior accesso a informazioni attendibili. L'historiola, o piccola storia, di Secondo non ci è giunta, ma è stata usata da Paolo Diacono per la sua Storia Longobarda della fine del secolo VIII. Paolo è la nostra unica fonte dettagliata, ma egli scrisse due secoli dopo gli avvenimenti, e usò materiali che, se si eccettua Secondo, non sono particolarmente attendibili per quel che riguarda la storia interna dell'Italia longobarda del tardo VI secolo: testimoni ostili come Gregorio di Tours e Gregorio Magno, e occasionali tradizioni orali riguardanti Alboino e Autari. Escluso Paolo, non v'è alcuna testimonianza scritta dell'Italia di allora. I1 nostro solo altro materiale è costituito, da una parte dall'archeologia cimiteriale, e dall'altra dalle estrapolazioni a ritroso desunte dalla società come si presenta nei testi del1'VIII secolo. Inoltre, Gregorio Magno, a Roma, ci ha descritto in modo assai valido i contrastanti atteggiamenti dell'Italia romano-bizantina nei confronti dei Longobardi. Due brani di Paolo sono tradizionalmente considerati testi-chiave: Costui [re Clefi] uccise molti uomini potenti, fra i Romani, con la spada, e altri [o: gli altri] mandò in esilio dall'Italia. [...] [Dopo la sua morte,] in quei giorni molti nobili romani furono uccisi per avidità. Gli altri vennero spartiti per hespites e obbligati a essere tributati, cosi che dovettero versare un terzo dei loro raccolti ai Longobardi. Il secondo brano è assai più breve, ed appare nel mezzo di un'esaltazione della felicità dell'Italia sotto Autari: « Ma gli oppressi vennero spartiti fra i Longobardi in qualità di hospites »2. I due brani non sono oscuri da un punto di vista linguistico: la parola hospites è di certo imparentata con hospitalitas, l'uso secondo il quale alcune tribù, fra 2
Paolo, HL., 2. 31-2; 3. 16. Per un commento tipicamente pessimista e intelligente, cfr. Bognetti, S.M.C., pp. 110.41; per controbilanciarlo: G. Fasoli, Aspetti di vita economica e sociale nell'ltalia del secolo 7 (Bs-c), pp. 109-16.
cui gli Ostrogoti e i Burgondi, s'impossessavano di una porzione dei terreni (un terzo o due terzi) per il mantenimento degli eserciti. Tuttavia appaiono criptici per chi intende considerarli come una sorta di accurata guida sociologica. Nel primo testo, il termine alii (« altri ») significa che tutti i romani potenti sopravvissuti vennero esiliati, o che solo una parte di essi lo furono? E reliqui («il resto ») indica gli altri nobili, o il resto della popolazione? Su questi problemi non è possibile dare una risposta. Pur se questi brani furono fedelmente riportati da Secondo, cosa che non è certa, e pur se Secondo, al sicuro nella sua remota valle di montagna, ne seppe davvero molto sugli eventi relativi agli insediamenti longobardi, cosa altrettanto incerta, i testi non riescono a dirci in modo sufficientemente dettagliato cosa accadde ai Romani e, in particoIare, secondo quale protocollo (se mai ce ne fu uno) i Longobardi organizzatono i propri insediamenti, e fino a che punto la classe dei proprietari fondiari romani sopravvisse. La tendenza degli storici ad interpretare l'impatto Iongobardo in modo assolutamente pessimistico, può venir controbilanciata dalle testimonianze più indirette a nostra disposizione. Come abbiamo visto, Gregorio Magno considerò i Longobardi quasi una astratta forza di pura distruzione (almeno fino a che egli non costituì legami diplomatici con i cattolici della corte di Agilulfo). Ma ci sono indicazioni secondo Ie quali non tutti i suoi concittadini erano d'accordo con lui. Nel 592, i cittadini di Sovana, nefla Toscana meridionale, promisero di arrendersi pacificamente ad Ariulfo di Spoleto. Nel 595, Gregorio si lamentò del fatto che in Corsica le richieste dei giudici e degli esattori erano così irragionevoli che i proprietari terrieri cercavano di passare dalla parte dei Longobardi. Nel 599 pare qualcosa del genere succedesse anche a Napoli: « gli schiavi di varr nobili, il clero di molte chiese, i monaci di vari monasteri, gli uomini di molti giudici si sono arresi al nemico ». I contadini di Otranto avrebbero fatto la stessa cosa se i tribuni locali non avessero cessato di sfruttarli3. Ovviamente, quei comportamenti riflettevano teazioni diverse. E’ ben difficile che i contadini sull'orlo della fame si lasciassero impressionare dalla reputazione dei Longobardi in merito allo sfruttamento dei proprietari terrieri. Ma i cittadini di Sovana cercarono probabilmente di evitare uno sconvolgimento sociale, piuttosto che assecondarlo. E i proprietari terrieri corsi non possono aver creduto che i Longobardi avessero l'intenzione di spogliarli delle loro proprietà e delle loro vite. L'esistenza di tali atteggiamenti può venir certamente bilanciata da testimonianze opposte di difese lunghe ed eroiche di città contro gli attacchi longobardi, e di occasionali rivolte contro il dominio longobardo. La reazione romana ai Longobardi fu incoerente ma significativa. Fu la reazione di una popolazione civile che cercò di evitare i guai provocati da una guerra lunga e caotica. Troviamo simili esempi di resistenza e di resa durante le Guerre Gotiche del quinto decennio del secolo VI o durante la conquista araba della Siria nel quarto decennio del secolo VII. I Longobardi erano violenti e barbari, ma almeno non imponevano tasse. Per molti, venir conquistati da loro era meno grave che venir da loro combattuti. Come s'è visto, alcuni capi longobardi furono disposti ad accordarsi individualmente con i Bizantini ed a combattere al loro fianco. Questa sorta di compromesso si diffuse probabilmente, almeno per un certo periodo di tempo, fra la popolazione romana dell'Italia. Quanto meno, non siamo in grado di sostenere che i Longobardi abbiano perseguito una politica di sistematica espropriazione delle classi che detenevano la proprietà fondiaria, e la pratica, meno sistematica, di massacro e asservimento del contadinato. 3
Gregorio, Epp., 2. 33; 5. 38; 9. 205; 10. 5.
Le altre nostre fonti sono di solito più tarde, ma vanno tutte in una direzione, quella di una rapida fusione culturale fra Longobardi e Romani. Ciò, come si vedrà, deve aver comportato una complessa mescolanza della società, che sarebbe stata impossibile se l'occupazione longobarda fosse stata radicale come la si è dipinta. E’ stato spesso sostenuto che i Longobardi s'insediarono in libere comunità di guerrieri staccate dalla popolazione romana, e i ritrovamenti archeologici parvero confermarlo4. La maggior parte dell'archeologia « longobarda » consiste nel rinvenimento di luoghi di sepoltura contenenti oggetti longobardi di metallo del VI-VII secolo, simili a quelli ritrovati nella Pannonia degli inizi del secola VI, dove i Longobardi furono stanziati fino al 568. Complessi cimiteriali (compresi all'interno delle centinaia che costituiscono i siti più vasti, quali Nocera Umbra in Umbria e Castel Trosino vicino ad Ascoli Piceno), contenenti oggetti in metallo nella maggior parte delle tombe, han tutto l'aspetto di singoli cimiteri per singole comunità longobarde. D'altra parte, se si eccettuano i più antichi cimiteri del nord, una gran percentuale della ceramica ritrovata in tali tombe è molto più simile sia nella forma che nel materiale a ceramica grezza tardo romana. Forse i Longobardi imitarono i Romani: è evidente una qualche sorta di mescolanza di culture. E, in efletti, un uomo o una donna che indossino una fibula di stile longobardo non sono necessariamente longobardi, così come una famiglia di Vercelli che possegga una Toyota non è necessariamente giapponese; i reperti artigianali non sono guide sicure delle origini etniche5. La mescolanza stilistica dei manufatti, d'altra parte, è una spia del contatto fra le culture. In uno dei rari scavi completi di un luogo d'insediamento del periodo longobardo, la fortificazione di confine di Invillino, nelle Alpi friulane, i ricercatori hanno trovato una tale mescolanza, con un gran predominio di manufatti « romani », nonostante le caratteristiche militari del luogo. Contatti sociali tra Longobardi e Romani sono suggeriti anche dalla scoperta di cimiteri « longobardi » dentro le città o nella loro immediata periferia, ad esempio a Fiesole, Brescia e Cividale6. Pare che i Longobardi abbandonassero ben presto la loro lingua, forse prima del 700. I prestiti che si ritrovano nell'italiano si riferiscono per lo più ad oggetti umili (di solito agricoli): greppia, melma, bica, schifo, gualdo. A1 tempo di Paolo i Longobardi avevano anche già abbandonato i loro vecchi modi di vestirsi e pettinarsi, che egli poté ritrovare soltanto grazie ai dipinti murali del Palazzo di Monza: capelli lunghi separati nel mezzo, abiti di lino simili a quelli degli Anglosassoni, con strisce multicolori. Adottarono invece gli usi romani sia per i vestiti che per le calzature e i pantaloni7. Un tal progresso indica l'influsso culturale romano sui Longobardi, che non sarebbe potuto avvenire se i Longobardi avessero avuto contatti sociali con i Romani esclusivamente in qualità di padroni, con i fittavoli, o di soldati, con la popolazione civile sottomessa. Esso pare invece comportare una fusione dalla base di proporzioni piuttosto ampie.
4 Così pensava F. Schneider (B3-b), pp. 155-64, 177ss. (con i Romani sopravvissuti); S.M.C., pp. 141-9 (senza di essi). 5 Nella Grancia (prov. di Grosseto), da ottanta tombe (di cui circa dieci con oggetti di metallo longobardi) è stata trovata un'arma soltanto. se si trattava di defunti longobardi, certo non si trattava almeno di soldati. Cfr. O. von Hessen, Primo contributo alla archeologia longobarda in Toscana (Firenze, 1971), pp. 53-80. Per le ceramiche: I. Baldassare, Le ceramiche delle necropoli longobarde di Nocera Umbra e Castel Trosino, « Altomedioevo », I (1967), pp. 141-85. 6 G. Fingerlin et al., Gli scavi nel castello longobardo di Ib1igo Invillino (B3-6). Per i cimiteri nelle città: SM, XlV (1973), pp. 1136-41; xv (1974), pp. 1118s., 112S. 7 Paolo, H.L., 4. 22; B. Migliorini, Storia della lingua italiana (Firenze, 19S8), pp. 79-80.
La fusione è ancor più evidente nelle fonti dell'VIII secolo. L'onomastica per esempio, mostra una mescolanza assolutamente asistematica di forme longobarde e di forme romane. Uno dei documenti più antichi in nostro possesso, relativo a Fortonato, un proprietario terriero lucchese dal chiaro nome romano, e risalente al secondo decennio dell'vIII secolo, elenca anche i cinque Egli di lui: Benetato è un nome romano, ma Bonualdo, Rodualdo, Radualdo e Baronte sono indiscutibilmente nomi longobardi. Altre famiglie mostrano simili mescolanze. In casi estremi si trovano elementi longobardi e romani nello stesso nome, come accade per Daviprando (a Lucca nel 774) o Pauliperto (nella cerchia di Carlomagno nel 788). Giovanni Tabacco ha mostrato come i nomi longobardi superano quelli romani (quasi il doppio) nei documenti del regno longobardo relativi a proprietari terrieri e soldati; ma le sue conclusioni, secondo le quali gli elementi etnici longobardi dominavano completamente quei gruppi, sono piuttosto ridimensionate dal fatto che anche un gran numero di schiavi avesse nomi longobardi8. Non è possibile che i Longobardi fossero diventati l'intera popolazione; dobbiamo dedurne che l'influsso culturale dei loro usi relativi all'onomastica aveva penetrato la società romana da cima a fondo. La mescolanza fra Romani e Longobardi si può rintracciare chiaramente nel campo del diritto. I1 diritto romano continuò ad esistere. I1 diritto longobardo lo menzionò raramente, ma i re legiferarono soltanto per i loro sudditi longobardi; le allusioni fatte da Liutprando al diritto romano dimostrano che esso era stato mantenuto in vigore con pari importanza. I1 diritto individuale longobardo cominciò ad essere influenzato dal diritto romano nell'VIII secolo, ma solo marginalmente (cfr. pp. 62-63). D'altra parte, i pochi Romani che si dichiararono esplicitamente tali nell'VIII secolo avevano adottato tutti usanze che appartengono propriamente solo alla legge longobarda, come accadde a Felex di Treviso, il quale cedette delle proprietà alla figlia nel 780, accettando in cambio « un fazzoletto, come launigild, secondo la legge romana ». Ma il launigild era concetto tipicarnente longobardo, che si riferiva allo scambio di doni, ovvero al contro dono che rendeva valido il primo secondo la legge longobarda9. La cosa non deve sorprendere molto. I1 diritto romano scritto si dev'essere fossilizzato dopo il 568, per gli abitanti dell'Italia longobarda, e i re legiferavano solo per i Longobardi, mentre la legislazione romana diveniva inadeguata ad affrontare la situazione radicalmente nuova dello stato longobardo. L'unica soluzione era quella di prendere a prestito il diritto altrui, e quello longobardo era il più accessibile. Tali prestiti devono essere stati molto comuni, infatti non è possibile distinguere tra una tradizione legale longobarda ed una romana nei documenti che si riferiscono ad atti giuridici di italiani di ogni livello sociale. Ma l'influsso non fu comunque unidirezionale. Le leggi che governavano i rapporti interpersonali nel secolo VIII sembrano avere avuto uno stampo decisamente longobardo. Le leggi sulla proprietà, invece, rimasero saldamente romane. Gianpiero Bognetti pare avere sostenuto a volte anche il concetto longobardo di proprietà, di possesso diretto (gewere), di solito da parte di una collettività (fara: si veda qui di se. guito a pp. 152ss.), si sostituì talmente al sistema romano della proprietà che qualsiasi 8
Per Fortonato: Schiaparelli, 16. Per i nomi misti: Schiaparelli, 287, Chronicon Salernitanum, c. 25 (a cura di U. Westerbergh, Stoccolma, 1956). Per gli schiavi: cfr., per esempio, Schiaparelli, 154. G. Tabacco, Dai possessori dell'età carolingia agli esercitali dell'età longobarda (B4), pp. 228-34. 9 Storia del diritto italiano. Il diritto privato, III, a cura di P.S. Leicht (Milano' 1948), pp. 193-4; cfr. Rotari, 175.
proprietario terriero residente lontano dalle sue terre fu automaticamente spodestato dal codice longobardo. Ma ciò è davvero eccessivo. Ernst Levy ha dimostrato che la legge tardoromana sulla proprietà era già così simile al concetto di genere che quest'ultimo pottebbe essersi addirittura formato per l'influsso della prima. Fin dal codice di Rotari, la proprietà terriera è interamente privata e basata, pare, su norme legali romane. Nelle documentazioni dei secoli VI-II e IX in nostro possesso, le forme della proprietà sono, salvo rarissime eccezioni, totalmente romane. Le forme meglio documentate di possesso, proprietà e affittanza sono strettamente imparentate ai concetti giuridid tardoromani, e quasi identiche alle forme in vigore allora a Ravenna, dove non si può presumere vi fosse un influsso longobardo10.I1 perdurare del concetto romano di proprietà sembra più logico se si postula anche il perdurare di proprietari romani. Abbiamo già osservato altri aspetti dell'influsso romano sui Longobardi: la nozione longobarda dello stato e del suo ruolo amministrativo, per esempio; la distinzione fra pubblico e privato. E, in parte come risultato del perdurare della tradizione amministrativa romana, l'aristocrazia longobarda si trasferì nelle città e seguì i modelli delI'aristocrazia urbana dell'Impero. E’possibile verificare ciò sin dai primi anni dell'insediamento: già verso il 574, un gran numero di città romane ebbero duchi longobardi; nel 585, quando i Franchi invasero l'Italia, le città furono le roccaforti naturali dei Longobardi. Come s'è visto, ci sono testimonianze archeologiche della presenza dei Longobardi nelle città. All'inizio, tale occupazione delle città può essere stata esclusivamente militare. Ma già durante il regno di Cuniperto, quando Paolo finalmente ci fornisce un resoconto abbastanza dettagliato, a Brescia, e probabilmente a Pavia, Vicenza e parecchie altre città, vi sono cittadini che sono aristocratici longobardi senza alcuna carica ufficiale11. L'attrazione della vita urbana e le sue conseguenze economiche verranno discusse in un prossimo capitolo; ma tutto ciò sarebbe stato inconcepibile senza la continuità della presenza dei cittadini romani e dell'ideologia urbana che essi perpetuarono. Anche nelle città, poi, diventa impossibile, a partire dal secolo VIII, distinguere i Longobardi dai Romani. L'invasione longobarda dell'Italia fu ovviamente violenta, ma ciò accadde in parte proprio perché fu disorganizzata. Ogni regione deve averne ricevuto una diversa impressione. L'insediamento longobardo variò in intensità: più forte attorno a Milano e Pavia, Brescia e Verona, e nel Friuli; meno forte nell'Emilia occidentale e attorno a Lucca; quasi inesistente più a sud. Cominciano ad apparire anche differenze regionali non direttamente dovute ai Longobardi. Sin dal 700, nei documenti e contratti in nostro possesso, ogni area italiana ha le proprie tradizioni e caratteristiche locali, la sua particolare gerarchia sociale, le sue formule legali, i suoi pesi e le sue misure. Ciò può indicare lo sviluppo separato di diverse località dopo il 568, o, più probabilmente, la prima chiara testimonianza deLte profonde divergenze locali che i Romani non avevano mai sradicato. Ma indica anche che era improbabile una riorganizzazione sistematica della società da parte dei Longobardi. La maggior parte del contadinato, la massa della società, era e rimase romana: un singolo documento pistoiese del 767 allude addirittura ai fittavoli col nome di romani. Ma i Longobardi ebbero pure 10
Bognetti, S.M.C., capitolo 1. 8; La proprietà della terra, E.L., IV, pp. 76ss. Ma cfr. E. Levy (4), pp. 87-99, 187ss. Per alcune eccezioni: per esempio Schiaparelli, 49 (730). 11 Paolo, H.L., 2. 32; 3. 17; 5.38-9.
schiavi propri, i liberti e i semiaffrancati, come mostra l'editto di Rotari, e questi, come si vedrà, vennero assorbiti all'interno delle classi inferiori romane. L'infiusso romano sulla società dell'VIII secolo implica la sopravvivenza in misura rilevante delle dassi di proprietari terrieri romani, dai proprietari di piccoli fondi ai grandi proprietari dimoranti in città. Un chiaro esempio di quest'ultimo gruppo è rappresentato dal nobile pavese Senatore, figlio di Albino, che fondò un monastero a Pavia nel 714 con terreni donatigli in parte dal re12. L'insediamento longobardo non produsse, quindi, un mutamento radicale della struttura sociale. Certamente, molti proprietari terrieri romani furono spodestati per avidità, come afferma Paolo, ma ne devono essere sopravvissuti abbastanza da assicurare il predominio dell'ideologia romana relativa alla proprietà nei secoli seguenti, così come accadde per le caratteristiche romane nel sistema governativo monarchico di cui si è visto nel capitolo precedente. La pretesa parità fra legge romana e legge longobarda affermata da Liutprando mostra che non vi era necessariamente distinzione fra ranghi sociali derivante dall'essere longobardi e romani, pur se non v'è dubbio che la maggior parte dei Romani erano contadini dipendenti e che una gran percentuale dei Longobardi non lo era. In alcuni luoghi può anche darsi che i Longobardi praticassero il sistema a cui fa riferimento Paolo, della bospitalitas, ma non ci è possibile verificarlo. Non furono comunque tanto numerosi da distruggere le gerarchie sociali italiane, e la loro veloce fusione con i Romani deve suggerirci che non riuscirono a farlo. Quando arrivarono i Franchi, Longobardi e Romani erano assai più simili gli uni agli altri di quanto essi non lo fossero nei confronti degli invasori settentrionali. La caratteristica della società longobarda che era, e rimase, unicamente longobarda fu l'ideologia del popolo guerriero connessa con l'immagine di una società di uomini liberi e di aristocratici. Tabacco ha mostrato come nelle leggi di Liutprando, «soldato» (exercitalis, o l'equivalente longobardo latinizzato arimannus) è usato come equivalente di « proprietario » e di «uomo libero » (liber homo). ciò non significa che i tre termini fossero esatti sinonimi. C'eran già nell'VIII secolo degli uomini liberi che avevano perduto le loro proprietà o che non ne avevano avuta mai alcuna (cfr. pp. 141 ss.), e non erano sempre sottoposti all'obbligo del servizio militare (cfr. pp. 177 ss). Né fu vero che i proprietari dovessero essere necessariamente longobardi. Ma Tabacco sostiene che nell'insieme lo erano, poiché i re presumevano (come accadde spesso, anche nel periodo carolingio), che « Longobardo » e « proprietario libero e armato » significassero più o meno la stessa cosa. Lo stato, il regnum Langobardorum, pur se romano in ogni suo lineamento, era quel che il suo nome diceva: dei Longobardi e basta. Non vi è indizio di un'imponente assimilazione giuridica e militare di una libera popolazione romana da parte dei Longobardi. Dunque, lo sconvolgimento delle condizioni del possesso alla fine del VI secolo fu più vasto e radicale di quanto l'annientamento dell'aristocrazia romana già facesse supporre13. Sotto tale aspetto, lo stato longobardo ottenne senz'altro un'indiscutibile vittoria ideologica; i Romani divennero socialmente marginali ad ogni livello. Ma Tabacco 12 13
Per il nome romani: Schiaparelli, 206. Per il senatore: Schiaparelli, 18. Tabacco, La storia politica e sociale, cit., p. 62; cfr. « Dai possessori... », Cit.
deve essersi sbagliato nel desumere da ciò l'allontanamento dell'aristocrazia romana, e ancor meno del contadino proprietario di terre. La proprietà terriera fu nell'VIII secolo l'unico criterio che distinguesse in pratica il rango sociale. Ma, in un periodo in cui lo stato è forte e influente, il rango sociale dipende quasi completamente, nelle sue forme, dalla struttura e dall'ideologia dello stato stesso. Un proprietario terriero romano non avrebbe trovato vantaggioso comportarsi come Boezio. Status sociale e onori dipendevano dalla capacità di combattere, e probabilmente di professare l'adesione alla legge longobarda. Nel Medio Evo era possibile mutar le leggi abbastanza facilmente... cosa da cui derivò, senz'altro, la scomparsa degli Ostrogoti. E da ciò derivò anche, nel XII secolo, la rapida vittoria (poco più di due generazioni) del diritto romano, modifcato, sul diritto longobardo. La 'franchizzazione' dell'aristocrazia romana nella Gallia del VI e VII secolo è cosa risaputa e ben documentata: dapprima nel costume (il servizio militare, e la crescente violenza del comportamento di cui si lamenta Gregorio di Tours), poi nell'onomastica, infine nel diritto. Nell’VIII secolo c'erano solo Franchi a nord della Loira. La trasformazione pacifica dell'aristocrazia nell'Italia bizantina è altrettanto evidente, come si vedrà. Trasformare l'intera forma della società aristocratica e dei suoi valori, per una ideologia dominante è più facile di quanto non ritenga Tabacco. Viceversa, mutano meno facilmente le realtà economiche relative alla proprietà fondiaria. Al tempo del regno di Astolfo, a quanto sembra, il criterio determinante gli obblighi delle prestazioni rnilitari era divenuto la proprietà pura e semplice, indipendentemente dalla matrice etnica14. E, pur se persistette l'immagine longobarda del guerriero armato e libero, nel periodo carolingio la prestazione militare cominciò ad escludere gradualmente i poveri, come si vedrà. L'occupazione franca, dopo il 774, non venne ad alterare questo predominio longobardo, pur se contribuì alla fusione fra Longobardi e Romani in quanto popolazioni italiane indigene: gli Italiani. Un formulario del secolo XI esprime la prossimità nella procedura legale dei Longobardi e dei Romani in contrasto con quella degli invasori nordici. Negli atti di vendita dei terreni, ad esempio, i Longobardi e i Romani dovevano allegare un documento contenente certe formule che esplicitavano gli obblighi legali derivati dall'assunzione della somma pattuita. Inoltre, per i venditori franchi, visigoti, alemanni, bavaresi e burgundi c'era l'obbligo di « porre il contratto per terra, e gettare su di esso un coltello [con l'eccezione dei Bavaresi e dei Burgundi], un bastone segnato, un guanto, una zolla di terra, il ramo di un albero, e un calamaio ». I1 formulario include anche elaborazioni abbastanza tarde, ma sappiamo che Franchi e Alemanni eseguirono tali riti, come risulta da contratti del IX secolo15. La nuova immigrazione fu per due terzi franca, e per circa un terzo alemanna (particolarmente a Verona); gli altri gruppi costituirono entità assai inferiori. Abbiamo già visto come i Carolingi nominassero dei Franchi in incarichi ufficiali della gerarchia secolare. I conti e la maggior parte dei missi furono per lo più franchi nell'Italia settentrionale fino alla metà del X secolo, ma i Longobardi riapparvero presto nella Toscana meridionale e a Spoleto, dove i Franchi non si insediarono mai. Un insediamento di piccoli aristocratici e di soldati franchi nella fascia di terra in 14
15
Astolfo, 2, 3.
MGH Leges, IV, p. 595; cfr. R. Bordone, Un'attiva minoranza etnica nell'alto medioevo (B3-f). Hlawitschka (B3-c) rappresenta il testo fondamentale per capire l'insediamento franco.
fondo ai maggiori passi alpini fra Pavia e Verona, e in altre zone strategiche (Asti, Piacenza, e in minor misura Lucca), per lo più aristocrazia rurale, è ben documentato. Di raro li troviamo nelle città, se non nelle loro vesti di funzionari, e a ciò è dovuto in parte il fatto che i Franchi, con l'eccezione delle famiglie più prestigiose, non ebbero influsso locale sufficiente a divenir vescovi. I vescovi non eletti dai re provenivano generalmente da farniglie longobarde. All'interno delle classi dei proprietari terrieri, i Longobardi (e i Romani) superarono di gran misura i Franchi (e gli Alemanni); nelle classi inferiori, probabilmente, i Franchi erano del tutto assenti. Ma, come s'è visto, per i Longobardi l'essere in pochi non costituì uno svantaggio due secoli prima, quando erano essi diventati il gruppo sociale predominante. Tuttavia, come s'è detto nel capitolo precedente, i Carolingi non franchizzarono lo stato, ma solo i suoi funzionari, particolarmente nel governo locale e nel comando degli eserciti. I Longobardi, se non si ribellavano, non erano privati delle loro terre. Sin dalla penultima decade dell'VIII secolo figurano come vassalli alla corte del Re Pipino. Non furono più i maggiori benefciari del favore del re, e ciò indeboli forse la loro posizione, soprattutto durante il regno di Lotario, ma a partire da Lodovico II i Longobardi ricominciarono a godere dell'interessamento reale. Per esempio, gli Aldobrandeschi furono una famiglia longobarda di Lucca: dopo l'800, cominciarono ad accumulare proprietà nella Toscana meridionaie, comprandole o affittandole, stabilendo una base per un forte potere locale protetto dai rivali dalla distanza, proprio negli anni in cui gli aristocratici longobardi godettero del minimo appoggio da parte del re. In tal modo, la famiglia si trovò in posizione eccellente allorché Lodovico volle controbilanciare il potere di Adalberto I nella Toscana settentrionale: Geremia divenne vescovo di Lucca, suo fratello Eriprando missus imperiale, e il terzo fratello, Ildebrando, conte. Successivamente Geremia cedette o aífittò ai suoi fratelli tutta la proprietà episcopale nella Toscana meridionale, permettendo loro di stabilire una potenza familiare immensa che durò cinque secoli16. Né si trattò, con gli Aldobrandeschi, di un caso isolato. Gran parte della « nuova » nobiltà della Toscana del x secolo può venir fatta risalire alle famiglie Iongobarde del secolo VIII grazie all'eccezionale documentazione che abbiamo della Lucca altomedievale. La stessa cosa valse, per lo più, per gli aristocratici longobardi settentrionali del X secolo. I quadri delle dassi superiori rimasero longobarde, in particolare quelle relative alla posizione di arimanni, i liberi guerrieri, pur se tale rango includeva allora anche dei Franchi. Le potenti famiglie comitali francesi si trovarono a doversi infiltrare entro una cornice ancor essenzialmente immutata dai tempi dei re longobardi. I1 perno dell'attività sociale rimaneva la città, diversamente da quanto accadeva al nord delle Alpi, e le riforme amministrative carolinge contribuirono a rafforzare tale tendenza. Laddove le famiglie franche non si inurbavano, come accadde nella maggior parte dei casi, divenivano socialmente marginali. Giacché i Carolingi non cercarono di alterare le fondamenta ideologiche e le basi materiali dello stato, le famiglie aristocratiche longobarde non dovettero divenire franche per sopravvivere, come era accaduto ai loro predecessori (e forse antenati) romani. Anche se avessero dovuto farlo, alcuni degli elementi basilari della struttura sociale, quali la tendenza degli aristocratici ad inurbarsi, sarebbero sopravvissuti.
16
Cfr. il breve resoconto in G. Rossetti, Società e istituzioni nei secoli 9 e 10: Pisa, Volterra, Populonia, 5° Congresso, cit., pp. 296ss.
Lo sviluppo sociale dell'Italia bizantina conferma alcune osservazioni già fatte su Longobardi e Franchi. Le principali zone italiane che i Longobardi non riuscirono mai a conquistare pienamente furono 1'Esarcato di Ravenna (o meglio, Esarcato e Pentapolis) ed il ducato di Roma. Venezia, l'Istria e Napoli furono pure esenti da tali occupazioni, come accadde per le zone più greche del sud, di cui si parlerà nel capitolo sesto. L'Esarca era il governatore civile e militare dell'Italia sin dal tardo secolo VI, speditovi da Costantinopoli e mutato con grande frequenza. L'Italia era distante dalle province centrali dell'Impero, e se ai governanti locali fosse stato concesso troppo tempo per ambientarsi, avrebbero potuto finire col ribellarsi—come in effetti accadde nel 619 e nel 651. I Romani e i Ravennati non erano sudditi facili, poi, e seri disordini locali si verificarono più di dieci volte fra il 600 e la conquista dell'Esarcato da parte di Astolfo nel 75117. La struttura sociale delle aree bizantine per le quali abbiamo una migliore documentazione, Ravenna, Roma e Napoli, discendeva direttamente da quella di Roma, senza alcuna rottura del tipo causato in altri luoghi dagli insediamenti longobardi. Verso l'anno 700, però, era mutata fino ad essere irriconoscibile ed assomigliava, piuttosto, a quella dello stato longobardo. Per almeno un aspetto importante, la somiglianza era superficiale: nell'Esarcato lo stato continuava ad imporre le tasse, e con quelle manteneva un'amministrazione complessa e un esercito (pur se dopo la metà del secolo VII la paga che l'esercito riscuoteva in Italia era probabilmente molto bassa in confronto alle rendite che riceveva dai terreni di sua proprietà). Le tasse erano piuttosto alte, almeno agli inizi. Le proprietà della chiesa di Ravenna in Sicilia ai tempi dell'arcivescovo Mauro (642-73) rendevano 50.000 modia di grano (e altro reddito in natura), e 31.000 solidi d'oro. Di questi ultimi, ben 15.000 se ne andavano in tasse18. D'altra parte, è assai probabile che proprietari terrieri meno responsabili fossero in grado di evadere le tasse (come accadde nel V secolo) e ciò sembra particolarmente probabile per i soldati. L'Italia bizantina, diversamente dalla tarda romanità, non manteneva una gerarchia militar-amministrativa distinta dall'aristocrazia civile. La struttura dello stato si era semplificata, e l'élite al potere completamente militarizzata. Tale processo era iniziato fin dai tempi degli Ostrogoti, come si è visto nel capitolo primo; dinanzi alle pressioni delle invasioni longobarde, divenne ancor più rapido. I capi dei numeri, o unità militari, divennero predominanti figure sociali, i senatori si trasferirono a sud, in Sicilia, dove si trovavano ancora nel VI secolo, e ad oriente, a Costantinopoli. Verso la fine del VI secolo, la Curia, il consiglio cittadino, non esisteva più in alcuna città bizantina del nord, eccetto forse Ravenna. Solo a Napoli, che non dovette temere alcuna seria minaccia longobarda fino alla fine del secolo VI, la militarizzazione della società si compì piuttosto tardi. Gregorio Magno descrive le fazioni delle città che si distinguevano a seconda della loro associazione od opposizione ai vescovi, in una tradizione tipicamente tardoromana19. Napoli era città prospera, e la sua base rimase essenzialmente civile. I soldati costituivano una minoranza, e la Curia sopravvisse fino al X secolo, pur se già nell'VIII secolo il comandante militare, console (o duca), fu il governante incontrastato di Napoli.
17
Per l'Esarcato: A. Guillou (B3-b), e particolarmente T.S. Brown, The Church of Ravenna and the imperial administration in the 7th century, e il suo libro di prossima pubblicazione (A3-b). 18 Agnello, c. 111 19 Gregorio, Epp., 2. 12, 18; 3. 1, 2, 60; 9. 47, 76.
Mano a mano che i vertici della società bizantina corrispondevano sempre più ai vertici militari, l'aristocrazia civile perdeva il proprio status. Pur continuando ad esistere, in quanto la distinzione fra gerarchia civile e gerarchia militare venne scrupolosamente mantenuta, i suoi membri più autorevoli penetrarono tra i ranghi dell'esercito. Viceversa, soldati di tutti i ranghi militari, ricorrendo ai loro legami con la ricca rete di protezionismi, basata sul sistema fiscale, che copriva l'intera amministrazione (e, come si vedrà, anche la Chiesa), riuscivano facilmente a divenire proprietari terrieri, tramite acquisti, matrimoni, aífitti o mezzi meno leciti. Verso il 700, la maggior parte dei grandi proprietari terrieri era costituita da militari. L'esercito del tardo secolo VI era di provenienza in massima parte orientale, e la sua origine sociale è evidente nei testi a nostra disposizione. Nel 591, Tzita, appartenente al numerus dei Perso-Armeni, era sposato con un'appartenente alla classe dei proprietari terrieri (suo suocero Felice era defensor della chiesa di Ravenna)20. L'onomastica, come era accaduto nell'Italia longobarda segul questi infIussi. Nel secolo VII, quasi la metà dei nomi registrati nei documenti ravennati sono di origine orientale. Le complesse regole dell'onomastica del l'Impero Romano svanirono. Oltre a questi nomi orientali (e ad alcuni residui di nomi goti), c'erano molti che si chiamavano semplicemente Stefano, Giovanni o Sergio, con i nomi dei santi. Diventa piuttosto difficile seguire la storia delle famiglie nel secolo VII, come succede anche per l'Italia longobarda, pur se gli antenati di tribuni o giudici di nome Giovanni, nella Ravenna dell'VIII secolo, avrebbero potuto essere aristocratici ravennati del secolo VI, i Melminii o i Pompilii. Tale sviluppo nell'onomastica è di certo collegato in qualche modo con la militarizzazione della gerarchia sociale, poiché nell'esercito l'onomastica non era mai stata cosl complessa; comunque, esso non indica una vasta immigrazione orientale. Né i nomi orientaleggianti del VII secolo, né quelli derivati dai santi nei secoli VII e VIII, indicano l'affermarsi di famiglie nuove, pur se ve ne furono senz'altro alcune. Non è possibile d siano mai stati molti orientali in Italia; di certo costituivano una porzione di popolazione inferiore di gran lunga persino a quella costituita dai Longobardi nell'Italia longobarda. Nel VII secolo, in effetti, anche se il numero dei nomi orientali continuava ad essere piuttosto alto, l'immigrazione era già cessata. I Bizantini ebbero bisogno di tutti i soldati che poterono reperire per le guerre contro i Persiani e contro gli Arabi. I1 reclutamento militare in Italia tornò ad avere base locale: nuovi numeri vennero costituiti in città italiane, Rimini, o Fermo, o Nepi. Ma l'influsso militare orientale aveva già avuto i suoi effetti. L'intera terminologia dell'organizzazione sociale si era militarizzata: gli abitanti di Comacchio, alla frontiera, venivano chiamati milites, « soldati », persino dai Longobardi; l'intero corpo cittadino triestino veniva definito un numerus nel caso giudiziario di Rizana nell'804. La militarizzazione dell'immagine sociale ha notevoli paralleli con l'Italia longobarda, in cui i governanti locali erano duchi, e i comuni uomini liberi avevano titoli militari quali vir devotus. La popolazione di Siena nel 730 venne definita un esercito (exercitus)21 L'esercito longobardo e la sua gerarchia compenetravano l'intera società, proprio come l'esercito bizantino, ma ciò non significa, in nessuno dei due casi, che 20
21
G. Marini, I papiri diplomatici (Roma, 1805), n. 122.
LM. Hartmann (BSb), pp. 123-4, per Comacchio; Manaresi, 17, per Trieste; Schiaparelli, 50, per siena.
l'intera società servisse nell'esercito. Nell'Italia bizantina, in effetti, l'esercito era divenuto una vera élite di professionisti, e i Triestini, a Rizana, come si vedrà, stavano solo appellandosi contro la prestazione militare da rendere ai loro nuovi padroni franchi, e solo in teoria costituivano un numerus. Questi mutamenti della terminologia dimostrano soltanto una trasformazione dell'orientamento, e fino a un certo punto dell'ideologia, dei ranghi sociali più elevati. I capi della gerarchia sociale avevano incarichi diversi, diverse funzioni e diversi nomi dei loro predecessori. Ma la base di quella leadership continuava ad essere la terra, e almeno alcune delle principali famiglie delI'Italia bizantina devono essere ancora state le stesse che nei secoli V e VI, anche se sotto diverse mascherature, pur se ci furono alcune famiglie nuove, sia orientali che indigene. Il fatto che una tal completa trasformazione potesse avvenire pacificamente dovrebbe dimostrare che qualcosa del genere avrebbe potuto verificarsi anche tra i Longobardi. In entrambi i casi l'aristocrazia civile romana cessò di essere politicamente influente. Alcuni dei suoi membri affondarono, espropriati (almeno nell'Italia longobarda), esuli a Costantinopoli o in Sicilia, o incapaci di conservare il possesso di proprietà sparse in troppe zone teatro di guerra. Molti altri, però, scamparono divenendo membri di questa nuova élite, accanto ad aristocratici militari bizantini o longobardi, o a semplicissimi soldati affermatisi in battaglia: fusioni attuate spesso con matrimoni, dopo dei quali le differenze d'origine cessavano di contare. Per un altro aspetto, la società del VII secolo a Ravenna, Roma e Napoli, fu diversa da quella dell'Italia longobarda (anche se le città longobarde sarebbero giunte agli stessi risultati in due o tre secoli): il ruolo della Chiesa. Si è visto come nell'Italia settentrionale tardoromana i vescovi divenissero importanti elementi dell'amministrazione civile. Con i Longobardi cessarono di esserlo, e anche quando i Longobardi accettarono il cattolicesimo rimasero politicamente marginali, almeno a livello nazionale. Nelle città bizantine, però, ciò non accadde. A Roma i Papi possedevano già vastissime terre e, col crollo del Senato, si assunsero decisamente il governo della città nel VI secolo, mantenendo la popolazione con distribuzioni di grano. Anche gli arcivescovi di Ravenna avevano cominciato ad accumulare terreni, in particolare successivamente a parecchie generosissime concessioni imperiali (in alcuni casi come corrispettivi di prestiti), dal 550 in poi. Nel VII secolo l'arcivescovo fu secondo soltanto all'Esarca, nd potere; di solito i due collaboravano strettamente, con reciproco vantaggio (diversamente dai conti e dai vescovi catolingi, e diversamente da Papa ed Esarca, con le loro tempestose relazioni). Gli enormi possedimenti del Papa e dell'arcivescovo rappresentavano direttamente un potere politico ed economico vastissimo. Rappresentavano anche, però, l'occasione per esteso clientelismo. Dal VII secolo in poi, sia a Ravenna che a Roma, gli aristocratici militari cominciarono a prendere in affitto terreni della Chiesa. In alcuni casi la Chiesa non aveva scelta. L'alternativa al concedere un terreno in affitto (per una cifra fissa, sovente nominale, per diverse generazioni), spesso era la perdita totale di esso, ma queste concessioni in affitto comportavano l'acquisizione di un appoggio politico, che a volte veniva esplicitamente richiesto per iscritto nel contratto22. Una famiglia nobile era in grado di accumulare una notevole proprietà fondiaria tramite i contratti di aditto, in un'epoca in cui in altre parti d'Italia i contratti d'affitto erano concessi soltanto al contadinato. In tal modo la Chiesa si legava strettamente alle fortune politiche dei suoi nuovi aristocratici affittuari. Gli arcivescovi di Ravenna furono 22
Agnello, c. 152.
spesso scelti nell'ambito di quelle famiglie; e così cominciò ad accadere anche un po' più tardi, dal 750, per i Papi. A Napoli, a partire dal tardo secolo VIlI, solo una o due famiglie prevalsero, fornendo di solito dalle loro file sia il vescovo che il duca console; a volte, come accadde con Stefano II (754-800) e soprattutto con Atanasio II (876-898), la stessa persona copri entrambe le cariche23. Ovviamente, Napoli aveva un territorio piccolo, e offriva poche occasioni perché si potesse costruire una complessa rete di famiglie nobili. Le famiglie della fine del secolo VI persero probabilmente la loro base fondiaria allorché i Longobardi conquistarono il resto della Campania. Le altre città-stato bizantine dei secoli VIII e IX ed oltre mostrarono simili sovrapposizioni di incarichi laici ed ecclesiastici all'interno delle famiglie principali: a Gaeta, ad Amalfi, e anche a Venezia, con l'egemonia nel IX secolo della famiglia dei Partecipazio, che divenne la più antica grande dinastia veneziana. In tutta l'Italia bizantina, infatti, l'importanza della Chiesa si specchiava negli stretti legami di questa con la gerarchia sociale cittadina. Nell'VIII secolo, anche in alcune città longobarde, cominciò a rivelarsi un fenomeno simile; i vescovi di Bergamo e di Lucca erano ben visibilmente degli aristocratid. Quando, nel IX secolo, le chiese cominciarono ad affittare i loro terreni agli aristocratici, I'intero fenomeno diviene visibile. Col X secolo, come si vedrà, gli affittuari dei terreni della Chiesa costituirono la nuova aristocrazia, e divennero spesso vescovi loro stessi, come era successo a Ravenna nel secolo VII. Lo stato bizantino in Italia fu più complesso del suo vicino longobardo-carolingio. Ciò appare benissimo nel caso giuridico di Rilana nell'804, nel quale gli abitanti dell'Istria e delle sue nove città, recentemente conquistate dai Franchi, si lamentano per le imposizioni introdotte dal nuovo governatore, il duca franco Giovanni. Elencano i privilegi goduti precedentemente, e i doveri precedentemente prestati allo stato bizantino. E invece, Giovanni stera impadronito di terre, aveva modificato le usanze, e s'era arrogato diritti fiscali. Tra le altre cose, gli Istriani si videro sottratti i loro diritti di pesca nel mare e di pascolo nelle selve pubbliche. Le loro gerarchie di funzionari, le posizioni di tribuno, domesticus, vicarius, e hypatus (console), erano state eliminate o assunte da Franchi; alcuni Istriani furono obbligati a servire personalmente nell'esercito, assieme ai propri schiavi; Giovanni aveva cominciato a pretendere lavori di corvée alla maniera franca, e continuava a chiedere tributi fiscali (344 solidi mancusi dalle nove città) che teneva per sé. A tutti questi obblighi noi siamo forzati con la violenza, e mai era accaduta cosa del genere ai nostri avi; i nostri parenti e vicini, a Venezia e nella Dalmazia, che sono ancora sotto il dominio greco, come noi fummo prima, ci deridono. Se l'imperatore Carlo ci aiuta, possiamo sopravvivere; se non ci aiuta, per noi è preferibile la morte alla vita. Giovanni, nel difendersi, sostenne che la cosa era successa in gran parte per il fatto ch'egli non era a conoscenza delle usanze dell'Istria, e che ovviamente avrebbe fatto ammenda e non avrebbe più imposto lavori di corvée. Se poi lo fece o no, è per noi sconosciuto24. I1 quadro che si ottiene da quel caso giuridico, con tutti i suoi complicati dettagli, è quello di un Franco spietato e incolto che pesta rozzamente i 23 24
Giovanni Diacono, Gesta episcoporum neapolitanorum, c. 42 (S.R.L., p. 425). Manaresi, 17; resoconto e commento in Guillou (B3-b), pp. 294-307.
suoi piedi su un organismo dall'equilibrio delicatissimo, retto dalle convenzioni sociali, almeno nella forma in cui la memoria degli Istriani le idealizzava deliberatamente. Ma alcune cose erano già mutate: i 344 solidi, se costituivano il residuo dell'imposta fondiaria, rappresentavano una frazione di quella romana. Sotto tale punto di vista lo stesso stato bizantino si era semplificato. Gli incarichi che gli Istriani avevano perduto avevano i loro equivalenti nello stato longobardo-carolingio, pur se con una gerarchia meno comp]icata. Le strutture della società, che esamineremo nei prossimi due capitoli, erano verso l’800 più o meno le stesse dalle due parti dei confini, in Italia. Le linee di sviluppo erano pure simili, anche se la velocità dello sviluppo variava da un posto all'altro. E in nessuna delle due parti venne a introdursi nel tessuto sociale qualche differenza dovuta all'immigrazione. Se alcuni immigrati si sostituirono a singoli Romani, non alterarono comunque le strutture socioeconomiche della vita italiana. Solo insediamenti di massa avrebbero potuto farla e di questi, come si è visto, non ve ne furono. L'economia italiana altomedievale era in ogni suo importante aspetto l'erede diretta di quella dell'Impero.
Capitolo quarto LA CITTÀ E LA CAMPAGNA
La città Nel regno d'Italia, vale a dire l'Italia settentrionale e la Toscana, durante l'Impero c'erano stati alcune centinaia di municipia. Più di tre quarti di essi esistevano ancora funzionanti nel 1000. Ben pochi di quelli che erano stati abbandonati sembra siano stati sedi vescovili nel tardo Impero. Erano quindi probabilmente in un avanzato stato di decadenza ancor prima dell'inizio del periodo in esame. Dal 400 al 1000 si può notare una continuità urbana quasi completa, ininterrotta a tutt'oggi: di cinquanta capoluoghi di provincia moderni nella stessa area, trentacinque erano città sotto l'Impero. L'Italia settentrionale e centro-settentrionale nei due millenni passati è rimasta una società urbana senza interruzioni. Per tutto quel periodo le città predominavano politicamente, socialmente ed economicamente sui territori rurali. Si potrebbe obiettare, ed è stato obiettato, che si tratta solo di un problema di definizione. L'identità della città, sia nell'Impero sia nell'alto Medioevo, era definita amministrativamente: la presenza di un consiglio municipale, di un duca, di un conte, di un vescovo; la sola presenza di mura talvolta sembra abbia comportato la definizione giuridica di città. Tali città avrebbero potuto essere vuoti agglomerati, o piccoli insediamenti di contadini, come spesso furono (e talvolta sono ancora) nell'Italia del Sud e in quella centro-meridionale. Ma c'era forse una densità urbana in alcune zone meridionali quattro volte quella della pianura padana, in un contesto ben più povero. Una base territoriale così limitata spesso significava che tali città non erano che villaggi, con solo una cattedrale nel loro punto centrale. Offrivano poca resistenza in caso di guerra o di invasione. Meno della metà delle città romane del Sud continuarono ad esistere nei secoli VI e VII, anche come sedi vescovili (cfr. p. 192). La persistenza geografica delle città del Nord contrasta chiaramente con tutto ciò. Tuttavia ciò non indica solo una maggiore continuità amministrativa o ecclesiastica. Nel Nord si può vedere una vera società urbana che funziona per tutto il periodo nelle città delle quali si ha documentazione, come Ravenna, Lucca, o Milano, e si può pensare sia altrettanto per la maggior parte delle altre. Ciò ovviamente presuppone una chiara definizione economica di città. Suggerirei la seguente per il tipo di società mediterranea pre-industriale che stiamo analizzando: un centro abitato relativamente popolato, distinto funzionalmente dagli altri centri circostanti, con almeno tre delle caratteristiche che seguono: maestri e artigiani (specialmente), una concentrazione di proprietari terrieri, un ruolo amministrativo e religioso importante ed un mercato di rilievo. Queste caratteristiche saranno esaminate a fondo più oltre. Certamente, alcune città sono sparite. Talvolta furono distrutte in guerra e non più occupate (Brescello sul Po, dopo essere stata bruciata nel 586 e nel 603, fu probabilmente abbandonata per vari secoli ma ciò era insolito). Ben più tipico fu il lento decadimento e l'abbandono di città in aree marginali. Ad esempio, sulla costa ligure, quantunque capoluogo di contea e sede vescovile fino al X secolo ed oltre, Luni sembra fosse già in fase di decadenza nel tardo Impero, quando il suo foro fu spogliato dei marmi. Uno scavo recente ha dimostrato l'esistenza di capanne in legno sul foro e nella zona monumentale circostante e sembra che nell'VIII secolo la maggior parte delle attività fosse limitata alla zona circostante la cattedrale. Questo
declino colpisce ancor più se si pensa che Luni era per i romani il punto d'arrivo e di smercio di quello che chiamiamo oggi marmo di Carrara. Ma nel tardo Impero si smise di tagliare marmo quando si resero disponibili molti blocchi dei templi ormai in disuso delle città romane. Luni era situata su una fascia costiera paludosa direttamente comunicante con un territorio formato da valli isolate e da ripide colline, retroterra troppo povero e scarsamente popolato per fungere da base adeguata per la vita della città a meno che non vi fosse il supporto di qualche altra attività economica. Quando i Longobardi, che non conquistarono Luni fino a circa il 640, occuparono la maggior parte del suo retroterra e mutarono il sistema viario in modo da evitare la città, le diedero il colpo di grazia. Alcune città decaddero come Luni. Altre cambiarono ubicazione, come Ventimiglia o Altino, i cui abitanti si trasferirono a Torcello e poi a Venezia. Ma furono casi atipici. La tipica città romana sopravvisse; e sopravvive ancora 1. L'aspetto fisico delle città del primo medioevo è in se stesso una prova della loro continuità. Indubbiamente, non erano troppo appariscenti. La monumentalità e l'alto livello tecnologico dell'architettura tardo-romana dopo il VI secolo non ebbe segruto. I templi e gli edifici civici tardo-romani furono per lo più lasciati andare in rovina, o usati come cave. Le chiese che furono costruite dopo il 600 erano piccole, anche le opere di grande prestigio come S. Salvatore in Brescia o S. Maria in Cosmedin a Roma, sebbene questo possa essere almeno parzialmente addebitato ad un cambiamento nello stile architettonico, poiché esse erano di certo ricche negli interni. Sembra che l'edilizia privata spesso sia stata realizzata in legno, arretrata rispetto alla strada, con un cortile anteriore e un giardino posteriore, forse più simile ad una città giardino in sfacelo che non agli isolati di Pompei. In molte città esistono tracce di colture agricole interne alle mura (in particolare vigne). Alcuni storici hanno riconosciuto in questo la 'ruralizzazione' della città. Tuttavia ciò è un'esagerazione. Città e campagna non erano certamente del tutto differenziate, i contadini potevano` vivere nella città e uscire per andare a coltivare la campagna, come ancora avviene nell'Italia meridionale. Ma le città fungevano da punti focali della campagna, e la vita urbana era in genere del tutto diversa dalla vita rurale, molto similmente a quanto succedeva nell'antichità. I1 primo elemento che definisce la città è la cinta muraria. Erano mura romane, quantunque conservate dai re Longobardi e successivamente dalle stesse amministrazioni cittadine. Nel 739 un autore anonimo scrisse un panegirico della città di Milano, descrivendone le glorie. In primo luogo venivano le mura: Attorno al perimetro ci sono torri con alte guglie, rifinite all'esterno con grande cura, e all'interno abbellite da edifici. Le mura sono larghe dodici piedi; l'immensa fondazione è fatta di blocchi squadrati, completati elegantemente nella parte superiore da mattoni. Lungo le mura ci sono nove cancelli meravigliosi, ben protetti da catenacci e chiavi, davanti ai quali si ergono le torri dei ponti levatoi. Con simili difese, non sorprende molto che la gente abitasse nelle città durante le guerre del VI secolo, né che i governi successivi le abbiano mantenute. Le mura 1
Per Luni: B. Ward-Perkins, Luni (A5-b); cir. G. Schmidt, Città scomparse e città di nuova formazione in Italia, Sett., XXI (1973), pp. 503-617, per molti dati comparativi.
davano identità alla città sotto ogni aspetto. Le davano anche una configurazione specifica. La disposizione romana delle strade era in genere ad angolo retto (e spesso allineate con i campi squadrati della campagna); il quadrato formato dalle mura cristallizzò quest'aspetto. Le due strade principali di queste città prevedevano due cancelli alle estremità e si incrodavano al centro, in genere al foro. La semplice conservazione delle mura romane rese questa disposizione planimetrica permanente. Ma in molte città italiane è pervenuta fino ad oggi una disposizione planimetrica quasi totalmente quadrata: Torino, Albenga, Piacenza, Milano, Cremona, Brescia, Verona, Bologna, Firenze, Lucca sono solo alcune voci di un lungo elenco. E’ vero, ciò è talora possibile in città con una popolazione abbastanza limitata (Aosta ne è un esempio), specialmente se le strade, come in Italia, sono ritenute una proprietà pubblica; ma da tanti esempi si possono trarre conclusioni più generali. A Lucca nell'890 due contratti d'affitto ci mostrano una fila di cinque case, tutte che si affacciano direttamente sulla strada, nel centro della città. Qui, almeno, la pianta stradale mostra decisamente una continuità nella densità dell'insediamento2. Milano non aveva soltanto le mura. « L'edificio nel foro è assai bello, e il sistema viario ha pavimentazione solida; l'acqua per le terme scorre in un acquedotto ». Siamo qui riportati al mondo tardo-romano. L'acquedotto deve essere stato oggetto di particolare orgoglio, dato che ne erano rimasti pochi nell'VIII secolo (a Roma, Napoli, forse Brescia, probabilmente a Pavia; e in pochi altri luoghi). D'altro canto il foro era ancora presente nella maggior parte delle città. Nell'antichità era stato il centro politico, ove si riuniva il consiglio della città, ed il punto focale dell'edilizia civica. Nell'alto Medio Evo, aveva due antagonisti, il palazzo reale e la cattedrale, simboli dei due maggiori poteri di ogni città, lo stato e il vescovo. I1 foro perse il suo molo politico diretto con la scomparsa del consiglio cittadino nel VI secolo, quantunque sia restato un centro economico, e ivi si svolgesse ancora il mercato. E’ ancora così oggi, in molte città. Tuttavia solo raramente il foro rimane al centro della città. I1 palazzo o residenza reale spesso fu costruito su di esso o nelle vicinanze, ma l'importanza del palazzo diminuì col crollo dello stato italiano nel x secolo. D'altro canto la cattedrale raramente era costruita nelle sue vicinanze: come ultimo edificio tardo-romano importante essa era, in genere, posta al limite della città romana. L'influenza tel vescovo nella città fece crescere sempre di più l'importanza del complesso della cattedrale. A Milano, la cattedrale fu costruita nel IV secolo, nella vasta area aperta a nord-est della città, compresa entro le mura da un ampliamento recente delle mura stesse Nel IX secolo era già diventato un punto politico importante: il primo testamento dell'arcivescovo Ansperto, nell'879, allude all'asemblatorio, punto d'incontro dei cittadini, posto di fronte alla cattedrale, ove oggi è ubicato il centro della città moderna, la Piazza del Duomo. I1 vecchio foro continuò ad esistere, e fu noto sotto il termine di mercatum; dal 952 aveva bancarelle fisse (per la maggior parte proprietà del principale monastero suburbano di S. Ambrogio). Nel X secolo e dopo, il prezzo delle case attorno al mercato e vicino alla zecca era elevato3. Ma Milano, come si vedrà in seguito, era un centro commerciale importante. Altrove, il foro diventò meno importante in un tempo più breve. A Brescia il foro è oggi in una tranquilla zona residenziale della città vecchia; perse la sua importanza prima che il capitolium romano, che ancor oggi lo domina, fosse destinato ad usi diversi 2
Versum de Mediolano civitate, in MGH Poetae, I, pp. 22-66 per Lucca, Barsocchini 965-6 (890). Cfr. P-A. Février, Permanence et héritages de l'antiquité dans la topographie des villes (Bs-b). 3 Porro, 287 (879); MGH Dipl. Ottonis, I, n. 145 (952); G Violante (B3-f), pp. 109-15 per i prezzi.
(quantunque sia rimasto certamente un mercato). I1 centro della città moderna e medioevale è a cavallo dell'asse delle mura romane, a fianco e di fronte alla cattedrale. Questi spostamenti del centro all'interno delle città dell'alto MedioEvo mostrano chiaramente la stretta relazione fra potere politico, status sociale, ed edifici. Di per sé era una tradizione romana. Cassiodoro scrisse, a proposito dello splendore dei palazzi di Teodorico: « Sono i piaceri del nostro potere, l'immagine appropriata dell'Impero... sono in mostra perché ricevano l'ammirazione degli ambasciatori, e dal loro aspetto si giudica il loro signore ». Tre secoli più tardi, Lodovico II diceva più o meno la stessa cosa: « Gli edifici pubblidci che in ogni città erano stati costruiti da molto tempo per adornare il nostro stato, devono essere ricostruiti per i nostri scopi, decorosi e adatti alle ambasciate straniere che vengono alla nostra presenza »4. Ben lo sapevano i costruttori di chiese. L'edificio ecclesiastico fu il diretto successore della costruzione e ricostruzione monumentale della città romana. Nel I secolo Agrippa pose il suo nome sul portico del Pantheon a Roma. Così nel tardo Impero i donatori dei pavimenti musivi nelle chiese avevano il loro nome posto nell'elenco all'interno della porta assieme alla misura, espressa in piedi, del mosaico donato. Alcune chiese presero persino nome dal loro fondatore, come S. Maria Theodota a Pavia e San Pietro Somaldi da Sumuald, a Lucca. Agnello scrisse gran parte della sua storia di Ravenna unicamente partendo dalle iscrizioni dei donatori presenti nelle chiese della città. I1 vescovo Giacomo di Lucca (m. 818) pensò che sul suo epitaffio bastasse ricordare solo le fondazioni e donazioni di cui era autore; nessuna frase piamente retorica. I vescovi facevano le donazioni maggiori, come era giusto, non solo per le loro responsabilità religiose, ma poichè in genere erano, nella città, i proprietari terrieri più ricchi. I1 numero delle chiese di nuova costruzione nelle città, nel periodo in esame, è uno dei segni più chiari della prosperità degli abitanti e della loro disponibilità a spese ingenti. A Pavia si sa dell'esistenza di circa quarantacinque chiese prima che fosse saccheggiata nel 924 dagli Ungari. Prima del 900 a Lucca se ne sono ricordate cinquantasette. Chiunque volesse affermare il proprio status sociale, lo faceva costruendo una chiesa. L'Imperatore Giustiniano si lamentava nel contesto bizantino che gli uomini erano così desiderosi di essere ricordati come fondatori di chiese che spesso non provvedevano neppure agli addobbi o alla manutenzione delle chiese stesse 5. Le uniche differenze rilevanti tra questo comportamento e la munificenza civica tardo-romana risiedevano nel fatto che un campo sociale ben più vasto, non solo le autorità civiche, poteva partecipare alla dotazione delle chiese nell'alto Medio Evo, e che furono costruite più chiese allora che edifici civici nella tardaromanità. Ne consegue che, anche per minor ricchezza degli aristocratici dell'alto Medio Evo, le chiese erano piuttosto piccole e non appariscenti in paragone ai monumenti tardoromani. Lucca, la città alto-medievale italiana meglio documentata, mostra chiaramente queste caratteristiche. La conservazione della sua pianta romana pressoché perfetta e le facciate dei suoi edifici della fine del IX secolo, indicano che conservò almeno ad un certo livello la densità di costruzione romana. Le sue chiese erano distribuite in modo abbastanza uniforme nella città; non c'erano aree aperte evidenti; esistono 4
5
Variae, 7. 5; MGH Capitularia, II, 213 c. 7.
D.A. Bullough, Urban change in Early Mediaeval Italy (A5-h), pp. 99ss., 119-29; Barsocchini 1759 (818); Giustiniano, Novella 67 (Corprus Iuris Civilis, nı); cir. M. Mauss, The Gift (Londra, 1951), pp. 3145; T. Veblen, The Theory of the Leisurc Class (Londra, 1924) capitolo quarto.
testimonianze che le case fossero costruite in legno, mattoni e pietra; la pietra è il materiale da costruzione più evidenziato. Tra il 700 e il 1100 le case a due piani aumentano sempre più; e nel x secolo, persino la sporadica casa-torre. I1 palazzo reale (curtis regia) e la zecca erano vicini al foro, nel centro; il complesso della cattedrale era nell'angolo sud-est della città. A Lucca, tuttavia, la capitale della Toscana, il palazzo del duca (curtis ducalis) fuori le mura diventò ben più splendido, sollevando la gelosia di Lodovico III nel 905; quando re Ugo depose il marchese verso il 930, pose li il palazzo reale. I1 palazzo ducale non era l'unico edificio di Lucca fuori dalle mura. Oltre un terzo delle chiese e metà delle case citate nei documenti di Lucca anteriori al 1000 risultavano essere all'esterno della cerchia muraria. Secondo i documenti una fascia suburbana circondava Lucca fin dall'inizio dell'VIII secolo; alcuni agglomerati, nel X secolo, avevano preso il nome di borgo (burgus). Un'elevata percentuale della popolazione di Lucca viveva fuori mura e tali insediamenti risalgono alle prime tracce storiche. Lucca era un centro importante, e cresciuto forse troppo in fretta, ma molte altre città devono essersi espanse fuori dalle mura ben prima della fine del periodo in esame6, Elemento chiarificatore sono anche le attività degli abitanti di Lucca. Sempre dai primi testi in nostro possesso rileviamo la presenza di una serie di mercanti ed artigiani di generi di lusso, orefici, calderai, dottori, sarti, costruttori, monetieri. Tutti sono citati come residenti nella città stessa e nelle sue immediate vicinanze. Alcuni erano anche proprietari terrieri, come, ad esempio, Giusto l'orefice di porta S. Gervasi nel 729, il quartiere della porta di S. Gervasio (molte città conoscevano suddivisioni interne; i quartieri di Ravenna si scontravano persino in battaglie simboliche ogni domenica pomeriggio. Un mastro costruttore dell'Italia settentrionale, Natale, acquistò dei terreni a sud di Lucca nel 787-8, e nell'805 diventò cosi ricco da fondare una chiesa urbana7. Tuttavia nella città non abitavano solo mercanti e artigiani, vi erano anche aristocratici. Nell'VIII secolo oltre metà dei venti maggiori proprietari terrieri presenti a Lucca e nel suo territorio sembra abitassero in città. E ciò esclude i terreni delle chiese urbane, e soprattutto la cattedrale, che con tutta probabilità possedeva la maggior parte dei terreni della zona. Anche le terre dello stato erano amministrate da dentro la città. I terreni sotto il controllo di cittadini o di istituzioni dovevano già—o ancora—costituire una parte rilevante dell'intera Lucchesia. In un contesto geografico più limitato, la popolazione rurale forse si serviva del mercato di Lucca anche per lo scambio delle sue eccedenze. Lucca predominava socialmente ed economicamente sul suo territorio sotto qualsiasi aspetto, in modi sostanzialmente invariati rispetto a quelli del mondo romano, e che in seguito non sarebbero cambiati granché. Sottolineo qui la proprietà terriera urbana piuttosto che il commercio urbano, e lo faccio deliberatamente. Le città romane non erano principalmente centri commerciali; erano centri politico-amministrativi fondati sulla tassazione delle campagne, ed avevano peso socio-economico in quanto i grossi proprietari terrieri dell'Impero vivevano quasi tutti all'interno di esse. Solo così, col potere d'acquisto dello stato e dell'aristocrazia, iniziarono ad essere presenti gli interessi commerciali. In pochissime città occidentali, in genere grandi porti come Ostia, e forse in nessun'altro posto, il commercio era cosi preponderante sotto ogni aspetto, e in linea di massima, questo 6
Cfr. H.E Schwarzmaier (83-f), pp. 14-70, I. Belli Bersali, La topografia di Lucca nei ss 8-11 (B5-b). Lodovico III: Liutprando da cremona, Antapodosis (MGH S.S. der Germ., nuova edizione a cura di J. secker), 2. 39. 7 Schiaparelli, 69 (739); Barsocchini, 216, 221, 322 per Natalis. Per Ravenna: Agnello, cc. 12-9.
valeva per l'Italia anche nei secoli XII e XIII. Genova e Venezia erano, ovviamente, centri quasi esclusivamente commerciali, ma si trattava di eccezioni. Città più piccole dell'interno, più tipiche dei comuni, come Mantova, Arezzo o Parma, erano sempre controllate dai proprietari terrieri. E anche centri commerciali come Milano e Cremona, con traffici fiorenti, erano città basate in egual misura sulla proprietà fondiaria. Non dobbiamo di conseguenza identificare una rottura storica nella base economica delle nostre città, ora proprietà fondiaria ora commercio (non consideriamo qui l'industria (ora aristocrazia ora borghesia. Le città antiche (secondo Weber) erano centri di consumo, non di produzione e gravavano sulla campagna; lo stesso vale, entro limiti più ridotti, per le città dei secoli XII e XIII. Il commercio nel periodo centrale del Medio Evo, quantunque avesse smesso di essere del tutto dipendente dal potere d'acquisto dei proprietari terrieri italiani, era per lo più scambio internazionale di generi di lusso. Di certo la maggior parte della popolazione raramente acquistava tali merci, non vi fu mai grande commercializzazione nell'agricoltura dell'Italia medievale, e la popolazione della campagna era coinvolta nel commercio solo in quanto ultimo destinatario di pratiche monopolistiche e relativarnente alla determinazione dei prezzi, che erano calcolati a scapito della campagna per giovare ai mercati e alle botteghe urbani. Si è già visto ampiamente come la struttura politica ed amministrativa del regno longobardo e di quello carolingio che gli successe sia rimasta urbana, anche per conseguenza della tradizione romana della pubblica amministrazione. La Chiesa pure era nettamente urbana, con l'eccezione del sistema dei monasteri rurali, alcuni di questi corredati di tenute estese, che cominciarono a sorgere nell'VIII secolo. Anch'essi venivano volutamente fondati in zone remote al fine di evitare il contatto con la società secolare, cioè, per eccellenza, la società urbana. I proprietari terrieri rimasero, come abbiamo visto a Lucca, cittadini; è il caso di Taldo, il gasindio (dipendente) del re, figlio di Teuderolfo, cittadino di Bergamo che fece testamento nel 774 (mentre Desiderio assediava Pavia). I1 suo essere cittadino (o quello di suo padre) sembra sia stato un titolo, proprio come il suo status di gasindio. Distribuì una lunga serie di proprietà a tredici chiese (le donazioni maggiori a due chiese urbane) e ordinò al vescovo di vendere tutto il resto alla sua morte8. Può non sembrare inevitabile che i proprietari terrieri dovessero abitare nelle città; i vantaggi materiali dell'appartenenza istituzionale al corpo cittadino erano scomparsi con la centralizzazione del sistema fiscale alla fine del III secolo. I1 sistema longobardo di patrocinio statale su base urbana quantunque forte, non poteva gareggiare con quello centralizzato, basato sulle tasse, del tardo Impero. E qualsiasi studente dell'Europa dell'inizio del Medio Evo conosce bene la deurbanizzazione di gran parte dell'occidente durante i regni germanici. Lellia Ruggini ha sostenuto che i proprietari terrieri italiani lasciarono le città anche durante le dominazioni ostrogote, tuttavia la sua documentazione, si riferisce solo al Bruzio (moderna Calabria), zona marginale da sempre9. La deurbanizzazione della parte occidentale fu per lo più limitata a quelle regioni, come la Britannia e la Gallia settentrionale, che meno avevano subito l'influsso di Roma. La Gallia meridionale, almeno nelle sue parti agricole fiorenti, rimase urbana; cosl fu per gran parte della Spagna; Le classi superiori, romane e germaniche, della frangia mediterranea dell'Europa occidentale 8 9
Schiaparelli, 293. Variae, 8. 31; Ruggini, Italia annonaria, pp. 301-11, 350-9.
continuarono a pensare che la vita urbana fosse il principale obiettivo sociale. Si è visto che i Longobardi si erano insediati in città già nel VI secolo, senza dubbio sotto l'influenza romana, che era meglio rappresentata dalla autorità ininterrotta dell'episcopato. Continuità amministrativa significava che tutte le cariche importanti rimanessero cittadine, quantunque non fossero diminuite dall'epoca del tardo Impero. E l'attrattiva della vita cittadina era essa stessa una forza che si perpetuava da sé. L'occasione per gli aristocratici di misurarsi con i loro pari era più facile in un contesto urbano—se qualcuno costruiva una chiesa in città, altra gente poteva materialmente vederla. Non vi erano più ragioni economiche determinanti per abitare in città, ma il vivervi per tutta una serie di valori che continuavano a sussistere, aveva un suo fascino. La preminenza ideologica della vita urbana in Italia nell'alto Medio Evo e chiara, e il soprawivere di istituzioni dello stato e della chiesa nelle città contribul a dare solidità all'attività economica, anche se questa aveva basi meno solide che non sotto l'Impero. C'erano nobili di campagna, particolarmente negli Appennini, che non erano mai stati del tutto romanizzati nell'antichità. Al decadere dello stato italiano nel nord, anche alcune delle più forti famiglie aristocratiche si ruralizzarono come si vedrà. In un certo senso l’XI secolo in Italia, malgrado il suo fiorire economico e l'espansione urbana, vide al livello più basso la supremazia politica delle città, ma di per sé ciò mostra l'importanza della persistenza delle città come centro amministrativo dello stato fino ad almeno il x secolo. E anche nell'XI secolo, come dimostra il sorgere dei comuni, il bilancio è a favore della città. I1 sistema clientelare amministrativo, ecclesiastico e aristacratico, basato sulla proprietà terriera, è sotteso a tutte le altre attività urbane. Anche i poveri della città ne potevano usufruire: dar da mangiare ai poveri era, fin dal tempo dei Romani, una prova di munificenza civica, e questo ruolo fu assunto in vasta misura dai vescovi. Gregorio Magno e i suoi successori a Roma nell'VIII secolo, la consideravano una delle destinazioni privilegiate delle rendite derivate dalle loro tenute10. Ma il commercio e il lavoro artigianale, basati sulla domanda aristocratica, erano un processo più vitale, e, nel suo sviluppo mercantile, l'Italia del primo Medio Evo era ben più progredita di ogni altra parte dell'occidente cristiano eccetto il sud arabo della Spagna. I commerci presero l'avvio in modo deciso sotto la protezione e con la mediazione dello stato—altra tradizione romana. Rotari pose i mercati stranieri sotto la propria protezione. Liutprando (o Grimoaldo) sanci regole dettagliate, fissando i prezzi per la corporazione dei costruttori, i magistri commacini, riguardo lavori specifici: copertura dei tetti, costruzione di muri, dipintura a calce, costruzioni di tramezze e finestre, scavo di pozzi. Ratchis e Astolfo imposero la licenza a tutti i mercanti— i mercanti erano inaffidabili e privi di vere radici; potevano commerciare con i nemici e le loro merci potevano essere rubate. I re indubbiamente consideravano fissi i valori dei beni, quantunque la gente fosse spesso incline ad aumentarne i prezzi, specie in tempi di carestia o al passaggio degli eserciti. I Carolingi emanarono leggi per salvaguardare il giusto prezzo delle merci, in particolare delle derrate alimentari. Queste erano usanze ben radicate nella società medievale, anche i comuni conservarono tali leggi. Di certo i prezzi cambiarono, ed anche il prezzo del terreno aumentò enormemente alla fine del 10
Giovanni Diacono, Vita Gregorii, 2. 24-30 (Migne, PL 75); Liber Pont., I, p. 502; cfr. « Papers of the British School at Rome », XLVI (1978), pp. 173-7.
x secolo, ma il concetto di prezzo di mercato 'liberamente determinato', non era accettabile per la maggior parte degli italiani. Per prineipio i prezzi erano legati ai bisogni sociali11. Lo stato non s'interessava al commercio solo per via della pace sociale. I mercanti potevano far la guerra; nel 750 Astolfo promulgò una Iegge per determinare quali tipi di armi i mercanti più o meno importanti dovessero portare quando fossero chiamati a servire nell'esercito. E i mercanti pagavano dazi al governo, che poteva ricavarne un gettito notevole. Liutprando e i re che gli successero stipularono trattati con le genti dei territori bizantini lungo l'Adriatico, prima con quelli di Comacchio, poi con Venezia, determinando quanto dovessero pagare ad ogni porto lungo il Po ed ai suoi affluenti: a Mantova, alla bocca del Mincio, ai porti di Brescia, Parma, Cremona, alla conduenza dell'Adda, Piacenza, e a quella del Lambro12. Anche i luoghi di mercato dovevano pagare dazi. Infatti quasi tutto ciò che si sa dei mercati nel periodo in esame deriva da donazioni dei dazi sui mercati fatte alle chiese sotto gli ultimi Carolingi e i loro successori. Prima dei Carolingi dobbiamo ipotizzarne l'esistenza. I1 resoconto più dettagliato di tali entrate è in un testo dell'inizio dell'XI secolo noto col titolo di Honorantiae Civitatis Papiae, in cui si descrive una situazione dell'inizio del X secolo, quantunque alcuni dettagli debbano essere successivi. Elenca le tasse dovute dai mercanti venuti in Italia attraverso le Alpi; le regalie particolari dovute alle autorità e al palazzo di Pavia dal re d'Inghilterra e dal doge di Venezia per compensarle con i dazi dovuti dai loro mercanti; le percentuali da pagare ai monetieri pavesi e milanesi in cambio delle operazioni di conio, e le quote che essi dovevano al palazzo; le tasse dovute dai cercatori d'oro dei fiumi dell'Italia settentrionale, dai pescatori, cuoiai, dai fabbricanti di sapone di Pavia, e così di seguito13. Queste professioni sono tutte organizzate in ministeria che a molti storici sono sembrati discendere dalle corporazioni dell'Impero o dalle schelae dell'Italia bizantina. Ciò non è mai stato dimostrato e non v'è continuità nel contesto sociale di tali organizzazioni: lo stato controllava tutta la struttura amministrativa delle corporazioni sotto l'Impero, ed è molto opinabile lo abbia fatto anche dopo il 568. Ci deve essere stata almeno la continuità dell'addestramento sistematico e della qualificazione dell'artigianato nel periodo che analizziamo, e già nell'VIII secolo si trova documentazione sui magistri, maestri artigiani, in diversi settori-costruzioni, ferro, notariato. Ciò che sappiamo dell'artigianato proviene da fonti disparate, sempre in via indiretta: cessione di diritti da parte dello stato, acquisizione di terreni da parte di artigiani affermati, liste di testimoni. Tuttavia abbiamo testimonianza di una vasta gamma di commerci già nei secoli VIII-IX: artigiani dell'oro, argento, rame, ferro; fabbricanti di pellami, sapone, stoffe, costruttorì civili e navali. C'erano anche estrazioni minerarie: sale, oro (come si è già visto) e argento al vescovo di Volterra furono dati nell'896 dal marchese di Toscana i proventi fiscali derivanti dalle miniere di Montieri14. 11
Rotari 367, Grimoaldo/Liutprando, Memoratorium de mercedibus magistri Commacinorum, Ratchis 13, Astolfo 4-6; MGH Capitularia, I, 28 c. 4, 88, II, 217 c. 10 Cfr. G. Duby (B5-a), pp. 48-70; K. Polanyi, CM. Arensberg, H.W. Pearson, Trade and Market in the Early Empires (Glencoe, Illinois, 1957), pp. 243-70 12 Astolfo 3; L.M. Hartmann (B5-b), pp. 1234; MGH Dipl. Karol., I, n. 132 Capitularia, II, 233-41. 13
Honorantiae, MGH S.S., 30. 2, pp. 1450-9; per i meseieri, U. Monneret de Villard, L'organizzazione industriale nell'Italia longobarda (B5-6) rimane ancora un classico; per i mercati: F. Carli (B5-a). 14 l testo è andato perduto; cfr. F. Schneider (B3-b), p. 268 n., e ibid., Bistum und Geldwirtschalt, QF, VIII ( 1905), pp. 81-2.
Le linee fondamentali dell'attività commerciale italiana erano probabilmente state delineate in vista del commercio del sale poiché il sale è la merce più antica. E’ sempre stata un bene necessario, specie nei climi caldi. I1 sale italiano veniva dalla costa: le lagune adriatiche, le piane di Vada a sud di Pisa, la foce del Tevere. I1 traffico da Vada a Lucca e Pisa può essere ricostruito hn dal 760 (esistono anche testimonianze nel v secolo) e fu all'origine dell'attività marittima di Pisa. Ma il commercio del sale adriatico, ben più visibilmente, era la base di tutto il commercio dell'alto Medio Evo nel Nord. La gente di Comacchio alla foce del Po, nell'VIII secolo, portava sale nel Nord. All'inizio del IX secolo i cremonesi cominciarono a prendere parte a tale attività, e presto comprarono barche per commerciare in proprio. Lo si sa in quanto nell'852 reclamarono senza successo l'esenzione dei dazi a favore del vescovo nel porto di Cremona, esordio di due secoli di dispute sempre più accese fra il vescovo e i cittadini di Cremona15. Altre città hanno forse avuto uguale sviluppo. Comacchio, piccola città dipendente dal suo monopolio, forse ne risentì. I1 centro che ne beneficiò fu Venezia, l'isola di Rialto, ove il duca bizantino della costa adriatica aveva trasferito di recente la propria residenza. All'inizio del IX secolo i veneziani cominciarono ad assumere il controllo del tratto terminale della rotta commerciale bizantina, assicurandoselo nell'889 quando assediarono e diedero alle fiamme Comacchio. Ma Venezia, ultimo collegamento del Nord Italia con Bisanzio, era in posizione favorevole per far entrare in Italià ben numerose merci oltre il sale. Presto queste aumentarono di volume ed importanza. I mercanti veneziani a Pavia al tempo delle Honorantiae presentavano doni ufficiali al ciambellano del re, doni che rispecchiavano la varietà delle loro mercanzie: una libbra di pepe, cannella, galanga (una radice aromatica) e zenzero; e un pettine d'avorio, uno specchio o accessori di bellezza per la sua sposa. Importavano anche oggetti d'arte e stoffe bizantine; la controparte comperava schiavi, grano e tessuti italiani. Gran parte di questi scambi avevano base a Pavia. Metà dei vescovi del regno vi avevano casa, e questa funzionava come deposito delle merci oltre che come base per accedere a corte. I Veneziani, anche la più alta aristocrazia, privi di entroterra agricolo, erano praticamente forzati ad esercitare il commercio. Già nell'829 il doge di Venezia, Justinianus (Giustiniano Partecipazio) quantunque proprietario terriero in terraferma nel regno d'Italia, fece riferimento nel suo testamento ad un investimento di 1.200 libbre di solidi « liquidi, se non vanno perduti lungo il viaggio per mare », primo riferimento nella storia medievale all'investimento di capitali. Su di esso i Veneziani si basarono nei secoli successivi. Nel 992 avevano occupato la maggior parte della costa dell'Adriatico ed avevano ottenuto privilegi commerciali immensi dall'imperatore d'oriente. Dal 995 erano in posizione da poter bloccare gli sbocchi sull'Adriatico delle altre città d'Italia. I1 loro futuro aveva solide basi16. I porti principali del regno d'Italia, Pisa e Genova, divennero tali nell'XI secolo, quantunque almeno Pisa vantasse una ininterrotta tradizione marinara a partire dal VII secolo e anche da prima. Le città dell'interno offrono indici migliori dello sviluppo commerciale ed urbano dei secoli IX e X, in particolare Milano. Milano non è particolarmente ben documentata prima dell'ottocento, ma di lì in poi, in gran parte 15 16
Manaresi, 56.
Honorantiae c. 5; Colice diplomatico Padovano, a cura di A. Gloria (Venezia, 1877), n. 7 (829); cfr. G. Luzzatto (Bs-b), pp. 4-16.
attraverso gli archivi del monastero di S. Ambrogio, la documentazione inízia ad aumentare velocemente. Nel IX secolo osserviamo all'opera lo stesso modello di sviluppo di Lucca, con artigiani benestanti e mercanti che acquistano terreni. Alcuni mercanti erano protetti dal monastero di S. Ambrogio e citati come tali nei documenti (anche S. Giulia di Brescia aveva simili protetti, ed aveva anche ottenuto da Lodovico II l'esenzione fiscale per uno di loro, Januarius, nell'861). Dalla fine del IX secolo in poi tali menzioni crescono di numero. Nel 900, il commercio a Milano fioriva; dopo la metà del X secolo i prezzi degli immobili aumentarono vertiginosamente. Accade ora che famiglie rurali si trasferiscano in città: due famiglie da Cologno, ad est della città, nella prima metà del X secolo; una di Trivulzio, a sud, i discendenti di Ingo, dal 970 in poi. Gli 'Ingonidi' persero il controllo della maggior parte delle loro terre a favore di mercanti e monetieri della città, non appena vi si stabilirono. Tale mutamento di situazione venne perfezionato attraverso i matrimoni, essi infatti si sposarono all'interno di quei gruppi sociali: ancora mercanti, giudici, le classi professionali17. Il mescolarsi di attività professionali e commerciali—possiamo aggiungere anche ecclesiastichc era caratteristica di tutto lo strato medio nella popolazione della città, fascia che divenne capace di azione autonoma nel secolo successivo associandosi con la classe ben più potente dell'aristocrazia terriera. I1 commercio non era la base principale del cambiamento sociale di Milano, ma di certo aveva maggior peso che a Lucca. Era per lo meno un elemento nella crescita dello status della città, che sottendeva un'espansione abbastanza rapida della popolazione di Milano. La nuova importanza sociale dei mercanti indicava tuttavia meno il riconoscimento dell'esistenza di un benessere commmerciale come fonte di status sociale, che non l'abilità e il desiderio di mercanti affermati di acquistare terreni. La terra era ancora la base del potere politico. In questa discussione, in un certo senso siamo andati troppo in là. La Milano della fine del x secolo era situata in un contesto assai diverso da quello di un secolo prima: l'intera struttura politica era mutata. Gli interessi del nuovo strato sociale, quello dei mercanti (non si poteva ancora parlare di classe) potevano in alcune città, specialmente Cremona, inddere sull'equilibrio fra vescovi e aristocrazia laica nel mondo carolingio e post-carolingio, ma lo si capirà meglio nell'ultimo capitolo, quando le vicende saranno esaminate in un contesto politico. Ciò è importante in quanto fra gli storici c'è una forte tendenza ad isolare la crescita commerciale e le attività dei mercanti dalla società che li circonda; a considerare, per così dire, la pula anziché il grano. Ma l'attività dei membri di un gruppo marginale, a prescindere da quanto abbiano in mano il mondo futuro, è incomprensibile al di fuori del contesto sociale globale. Artigiani e mercanti erano strettamente inseriti nella società e ne subivano il controllo, dal momento che essa comperava i loro prodotti. E, ancora alla fìne del x secolo, avevano stretti legami con lo stato. I monetieri, ad esempio, la cui attività era uno dei ministeria delle Honorantiae, non erano artigiani indipendenti: rappresentavano lo stato, battendo moneta per esso sotto licenza, soggetti a regole rigide in merito al peso e all'autenticità delle loro coniazioni. La concentrazione dell'attività commerciale a Pavia, in particolare nel secolo a cavallo dell'anno 900, era solo il risultato degli interessi e delle necessità dell'apparato amministrativo statale, e dopo che il palazzo venne incendiato nel 1024 la città perse velocemente terreno rispetto a Milano, che forse era rimasta la più grande città del Nord sin dall'antichità, e 17
Violante (B3-f), pp. 115-34; G. Rossetti, Società e istituzioni nel contado Lombardo (B3-t), pp. 17282; Porro, 211 per Brescia.
che pertanto era un nodo commerciale più ricco. Forse il commercio sarebbe potuto esistere in forma abbastanza fiorente senza che lo stato vi partecipasse, specie agli inizi del commercio internazionale che prese awio nel x secolo con il diminuire delle scorrerie arabe; ma era ancora per la maggior parte, dipendente dal potere d'acquisto e quindi dal rango sociale dell'aristocrazia. Non vi è alcun vantaggio nel trattare l'Italia del x secolo come precursore della « rivoluzione commerciale » avulsa da ogni contesto sociale ed economico.. Non è neanche detto che aiuti la comprensione definire l'Italia una « economia del denaro », anche se il denaro era, almeno nel 700, facilmente ottenibile, ed usato per la maggior parte delle transazioni di cui esiste traccia. A1 di fuori del mercato urbano, la maggior parte dei commerci avveniva in contesti sociali entro i quali non era determinante l'uso del denaro come mezzo di scambio, sia in mercati locali, sia, addirittura, al di fuori dei mercati. La maggior parte della popolazione era al di fuori di questo commercio internazionale; come i signori terrieri, viveva esclusivamente della terra.
Agricoltura e mutamenti sociali nella campagna La campagna era tanto primitiva quanto la città era sofisticata. Gli aratri appaiono solo occasionalmente nelle nostre fonti, ma zappe, vanghe, sarchie sembra siano stati gli unici attrezzi accessibili alla maggior parte dei contadini. Buona parte dell'Italia era ancora coperta da foreste o paludi e, sebbene il periodo fra l’VIII e l'XI secolo sia stato il periodo del disboscamento medievale in Italia, non portò a variazioni delle tecniche. Non ci furono grandi sviluppi tecnologici nell'agricoltura italiana altomedievale, a parte il rapido affermarsi del muIino ad acqua, caratteristica tipica di ogni villaggio dal 1100. L'unica eccezione di rilievo fu costituita dalla Sicilia araba, al di fuori del campo di studio di questo libro, ove fra il IX e il XII secolo fu iniziata tutta una serie di nuove colture ed introdotta una sofisticata rete d'irrigazione. Nel primo capitolo ho dato risalto alla diversità geografica dell'Italia romana. L'Italia alto-medievale non era meno differenziata, e, dall'VIII secolo in poi la relativa precisione dei documenti ne fa risaltare ai nostri occhi il contrasto. L'uso della terra, l'alimentazione, l'insediamento, il sopravvivere di contadini liberi, la condizione dei possessori, il cambiamento della struttura delle grandi aziende possono variare totalmente fra i territori delle diverse città, fra zone montane e zone pianeggianti, fra valli vicine. Anche all'interno di un territorio le differenze sono enorrni—fra le pianure coltivate più elevate e le colline della provincia di Parma e le foreste di quercia delle paludi del Po a nord, o i pascoli di argilla e le foreste di faggio degli alti Appenníni a sud. Talvolta si hanno prove sufficienti per collegare a tali contrasti le differenze di struttura sociale. Gli storici e, ancor più, gli archeologi italiani hanno lavorato parecchio su queste differenze, in particolare nell'ultimo decennio. Un breve studio come questo non esaurirà l'argomento; voglio solo delineare il problema nclle sue linee fondamentali e nella sua evoluzione. Ma le eccezioni sono presenti, ad ogni istante. Alcune di queste analisi generali si applicano anche all'Italia meridionale, ma nel capitolo sesto verranno esaminate proprio le caratteristiche tipiche del sud. L' effettivamente possibile che i contadini fossero la classe che meno risenti della fine dell'Impero e delle guerre del VI secolo. L'aristocrazia romana dei proprietari terrieri fu parzialmente sostituita da quella longobarda; i Longobardi di livello inferiore (compresi gli schiavi) s'insediarono sui terreni a fianco di schiavi romani e di coloni.
Tuttavia essi erano relativamente pochi rispetto alle dassi agrarie romane; e, di fronte alla realtà della vita economica in Italia, gli agricoltori longobardi persero la propria identità. Si è visto che i Longobardi avevano adottato le leggi romane sulla proprietà terriera; con 1'VIII secolo non v'è più modo di distinguere i Longobardi dai Romani in base alle loro azioni. Queste realtà economiche furono semplicemente le reazioni tradizionali dei contadini romani verso il loro ambiente. I contadini non si dedicano ad esperimenti agricoli—hanno troppo da perdere. E anche la devastazione della guerra non sembra far gran differenza sul modo col quale i sopravvissuti coltivano la terra, una volta ricostruite le loro scorte di grano da semina o ripiantate le vigne distrutte. Guerre e catastrofi possono sminuire lo status di indipendenza dei contadini, se questi si pongono sotto la protezione dei signori (volontariamente o no) per avere da loro i mezzi di sostentamento; ma essi continueranno a coltivare la terra nello stesso modo. E nel VI secolo, come si è visto, i proprietari terrieri erano anch'essi molto vulnerabili. it anche possibile che alcuni contadini siano sfuggiti al loro controllo. Le testimonianze dell'VIII secolo rivelano con certezza la presenza di piccoli proprietari terrieri in numero superiore a quanti in genere si pensi esistessero nel tardo Impero. Ovviamente alcune cose cambiarono. La tassa sul terreno, che aveva provocato l'abbandono delle campagne, cessò d'essere applicata nella maggior parte d'Italia, e quei pochi progetti economici su vasta scala cui lo stato partecipava, scomparvero definitivamente. I1 sistema di bonifica delle valli del Po e dell'Arno cessò; la ceramica africana che domina nei siti archeologici tardo-romani, comprese le masserie e i villaggi agricoli, non fu più disponibile in Italia subito dopo la fine del VI secolo (con grande svantaggio per i nostri studi sugli insediamenti alto-medievali; finora abbiamo ben pochi tipi di ceramica come guida per i due secoli che seguono). Ma senza un calo improvviso e massiccio della popolazione, del quale non v'è prova o spiegazione possibile, non ci si possono aspettare grandi cambiamenti nell'agricoltura contadina del prisno periodo medievale18. L'agricoltura contadina consisteva, almeno nelle pianure italiane, nella triade fondamentale mediterranea formata da grano, vino e olio integrato da fagioli e frutta che in genere crescevano nei piccoli orti cintati che ogni contadino alto-medievale coltivava. Questa struttura non era cambiata molto dai tempi romani; Cesare non si era preoccupato di dare carne alle sue truppe fino a quando, nel 52 a.C., esse non stavano per morire di fame nella Gallia centrale. Da allora le cose non erano cambiate tanto. Che gli Italiani dell'alto medioevo vivessero in questo modo si vede bene da testi dell'VIII secolo scritti in luoghi diversi del Lazio, della Toscana e della pianura Padana, che elencano le razioni giornaliere date ai poveri da associazioni benefiche collegate a chiese di fondazione privata. Tali scritti possono considerarsi esempi di una specie di « norma» nelle diete dei contadini, almeno com'era idealizzata dai proprietari terrieri; l'inventario dei cibi è probabilmente accurato, quantunoue le diete vere abbiano potuto avere grandi variazioni nella quantità. A Lucca nel 764 Rixsolfo indicò come razione giornaliera per una persona un pane di frumento, un quarto d'anfora di vino, e la stessa quantità di un miscuglio di fagioli e farina di panico « ben pressata e condita con grasso o con olio ». Altre erano molto simili, sebbene spesso si preferisse il lardo all'olio e il miscuglio (chiamato pulmentario) talvolta comprendesse anche un po' di carne. Questa alimentazione assunta per anni e anni, doveva risultare noiosissima. Fra i poveri, l'uso della carne era limitato ad occasioni particolari, e per questo scopo ogni famiglia contadina aveva qualche animale, forse un maiale, una 18
Guide generali si possono trovare nelle opere di P.J. Jones elencate nelle sezioni bibliografiche A5-a, Bs-c; più di recente, La storia economica (Bl), pp. 1555-1681.
vacca e una gallina; ciò bastava anche per i regali annuali di animali vecchi di un anno che si solevano fare assieme ai canoni in natura o denaro nei contratti dei secoli VIII e IX19. Queste diete sono l'unica testimonianza di ciò che la gente mangiava; ma abbiamo una documentazione maggiore riguardo la distribuzione dell'uso agricolo del suolo in Italia, e questa distribuzione come si vedrà era diretta principalmente a soddisfare le necessità di una economia contadina. La struttura si perpetua: una preponderanza assoluta di terreno arabile (specie nelle zone pianeggianti) e di vigne (specie nelle colline). I prodotti dei terreni arabili, come si può vedere nei canoni, erano per lo più diversi tipi di cereali. In Toscana predomiriava il frumento; nella pianura Padana, la segale era più comune. I cereali inferiori erano molto meno diffusi, quantunque sia possibile che i signori si prendessero i migliori tipi di cereali, lasciando ai loro affittuari quantità maggiori di avena e miglio. In genere gli Italiani seguivano il sistema dell'alternanza delle colture, ma possono talora aver coltivato legumi (piselli e fagioli) nell'anno del maggese. Se è così, è un uso abbastanza sofisticato del terreno, ma è in contrasto con i raccolti scarsi che si possono calcolare in base ad alcuni archivi del x secolo dell'Italia settentrionale, specie da quelli di S. Tommaso di Reggio, che non sempre raggiunsero il rapporto 3 ad 120. Gli uliveti e la cultura specializzata dell'olivo in paragone erano rari, sebbene parecchi monasteri dell'Italia settentrionale avessero terreni sui laghi italiani dove hanno coltivato ulivi forse anche per la vendita sui fianchi delle colline rivolti a sud (in quantità forse maggiore che non oggi). Più comune, particolarmente in Toscana, era la « coltivazione promiscua »; la coltivazione di olive e cereali sullo stesso terreno, pratica che fino a poco tempo fa, per tutta una serie di motivi, veniva considerata un segno distintivo della sofisticazione agricola. Anche le viti spesso devono essere state fatte crescere in modo promiscuo. L'e spressione terra vitata o terra cum vineis superposita, terra arabile con vigneti, è comune, specialmente in Toscana e nel sud. La vite, tuttavia, era fatta crescere sola in tutta l'Italia, e dopo il x secolo, specie nell'Italia centrale, si trovano contratti di pastinatio con gli affittuari che provocano un cambiamento nello sfruttamento agricolo, da terreno da cereali (o terra incolta) a vigneti. In questi casi i proprietari terrieri devono aver considerato le viti come raccolto commerciale. Tali contratti sono solo una piccola parte delle locazioni giunte fino a noi. Generalmente sembra che i proprietari si siano accontentati di avere una percentuale dei tipi di prodotto che i contadini coltivavano per sé, base della loro alimentazione, e ciò significa che cereali e vino erano richiesti in quantità non trascurabili. I Longobardi, con l'esperienza di vita nelle foreste dell'Europa centrale, valutavano l'allevamento più della maggior parte dei contadini romani. I1 codice delle leggi di Rotari, pur trattando anche i reati agricoli (furto di frutta, danneggiamento o taglio di viti, coltivazione di terreno altrui), tratta estesamente i problemi legali dell'economia agricola mista e di quella puramente pastorale. Si trovano pene per ferite ad animali 19
Schiaparelli, 194; cfr. 218, 2g3; Barsocchini, 231, 273; Mem. de Mac. Com. S; Liber. Pont., I, pp. 501-2; Cesare, Guerra Gallica, 7. 17.
20
M. Montanari, Cereali e legumi nell'alto medioevo (Bs-c); V. Fumagalli, Rapporto tra grano seminato e grano raccolto nel polittico del monastero di S. Tommaso di Reggio, R.S.A., vl (l966), pp. 360-2.
provocate da rami di siepi sporgenti, per furto di una cavezza, per morti provocate da cavalli, uccisione di vacca gravida, danni provocati da animali su terreno altrui o nelle strade del paese, furto di verro (con provvedimento speciale nel caso di sonorpair, il capobranco di un insieme di oltre trenta animali) e così via21. Da ciò si è spesso concluso che il periodo longobardo fu l'epoca d'oro dell'allevamento e dell'economia silvo-pastorale, e che il ritorno all'agricoltura si ebbe solo con i grandi riassetti dei suoli del IX secolo. Ciò è improbabile. Rotari legiferava per il suo popolo; ma pochi erano i contadini longobardi, e questa parte del codice forse aveva poca importanza nel contesto generale dell'Italia. La maggior parte della pianura italiana continuava ad essere coltivata allo stesso modo di prima, e ciò significava per i suoi abitanti una alimentazione fondamentalmente vegetariana. Tuttavia al di fuori delle zone coltivate d'Italia, nelle paludi del Po o negli alti Appennini, prevaleva un regime più pastorale. All'epoca romana le montagne e le paludi erano collegate da transumanza sistematica fra i pascoli in quota estivi e quelli invernali nella pianura. Ciò è meno evidente nel nostro periodo ma certamente esisteva ancora il contrasto fra l'agricolutra e pastorizia. Nel 772 Desiderio donò a S. Salvatore in Brescia 4.000 iugera (1050 ettari) di foresta nella bassa emiliana, chiaramente delimitati da alberi contrassegnati; quale terreno incolto poteva avere poco valore se non per l'allevamento di porci. S. Salvatore, sotto il nuovo nome di S. Giulia, lasciò una documentazione sistematica delle rendite delle sue proprietà, un « polittico », che risale circa al 900. Calcoli recenti delle risorse agricole degli aílittuari di S. GiuIia, assieme a quelli del monastero appenninico di Bobbio (i cui polittici risalgono all'862 e all'883) indicano rendite così basse che sembra probabile siano stati aiutati dalla pastorizia. La maggior parte degli affittuari pare esser vissuta con una media di 100 chilogrammi di cereali all'anno—in alcuni casi meno di 64 chilogrammi, ben al di sotto del minimo vitale. Questi dati possono essere visti come indicativi di una minore importanza dei cereali nelle zone marginali, in montagna e nella bassa pianura, ove la terra era per lo più proprietà di monasteri; ma ciò non può spiegare tutti i risultati che ancora oggi non sono chiariti. Gli schiavi domestici di S. Giulia, tuttavia, il più delle volte insediati nella zona centrale coltivata della Lombardia, venivano nutriti esclusivamente con cereali in quantità fino a sei volte quella degli aífittuari, se i dati del polittico son esatti22. Non si può dire quanta parte d'Italia per esempio nell'800 fosse tenuta a pascolo, boscaglia, palude o bosco non coltivato; forse la maggior parte del terreno che si trova a quota superiore ai 500 metri eccetto la maggior parte delle valli di montagna; al di sotto di questa quota soltanto i terreni vicini ai grandi fiumi, e alcuni dei terreni più sterili in collina, come nella Toscana centrale o nelle Murge in Puglia, sebbene ci fossero certamente anche fasce di terra boschiva sulle zone di maggior insediamento delle pianure particolarmente del nord. Tuttavia nel IX secolo, forse anche nell'VIII, si cominciano a vedere segni di dissodamento sistematico, per lo più ad opera dei monasteri, sebbene questa preminenza sia forse imputabile al miglior stato di conservazione dei loro archivi. Ad esempio Nonantola disboscò la foresta di Ostiglia 21
22
Rotari 284-358.
Per le foreste: Bruhl, 41 (cfr. anche Brahl 24). Per i polittici: Inventari (B21. Cfr. M. Montanari, L'alimentazione contadina nell'alto medioevo (Bs-c) per le cifre. L'archeologia aiuterà presto a risolvere questo problema; cfr., per esempio, G.A.M. Barker, Dry Bones, Papers in Italian Archaeology, I (A5-c), pp. 35-49.
sul Po a partire dall'inizio del IX secolo; a metà del secolo la gente tornava nei dintorni della città di Brescello, e a partire dalla fine del x secolo troviamo ancora traccia di una famiglia laica di proprietari terrieri, il casato di Canossa, che organizzò il disboscamento nella stessa area. Nell'Appennino centrale, a nord di Roma, anche Farfa è impegnata nel disboscamento, forse in gran parte basato sul lavoro di contadini pionieri indipendenti dei secoli VIIl e IX23. E' questa attività, diretta verso le grandi foreste o verso i boschi delle zone da tempo oggetto di insediamenti (ove la documentazione è pet lo più costituita da casuali riferimenti e occasionali toponimi), che segna il vero dinamismo economico dell'Italia alto medievale più che l'aumento del commercio internazionale di lusso. Sembra che esso vada collegato con una crescita demografica; per lo meno la suddivisione dei poderi in affitto, e l'aumento dei prezzi dei terreni comuni alla fine del X secolo hanno portato gli storici a concludere che la popolazione aumentava. E’ oggi impossibile dire se i contratti d'aíffitto favorevoli concessi ai coltivatori pionieri da parte dei monasteri—assieme ad un leggero sgravio dei gravami impo sti ai servi concessionari di quasi tutta l'Italia—fossero la causa di una maggiore prosperità e quindi di famiglie più numerose, e se la pressione della popolazione fosse essa stessa la spinta al disboscamento che si rese visibile solo al suo diminuire (se fu così) dopo il 950. L'archeologia in futuro forse potrà darci indizi circa la pressione sulle risorse, ma attualmente vi sono troppo pochi reperti per avere una risposta. L'archeologia tuttavia ci è più utile ed è in grado di fornirci notizie sugli insediamenti altoınedievali, prima dei cambiamenti nell'habitat che presero l'avvio all'inizio del x secolo, noti generalmente col termine incastellamento e che portarono alla preponderanza di insediamenti compatti in alcune parti d'Italia, e ad una concentrazione parziale di insediamenti entro e attorno centri fortificati, in altri luoghi. Si pensa che l'habitat dell'Italia romana sia stato sparso e ciò è avvalorato sia da ricerche archeologiche, che riscoprono ville e masserie sparse, sia da ricerche storiche, che descrivono la campagna romana come formata non da villaggi, ma da unità fondiarie, massae e fundi, insiemi frammentari di proprietà che in genere prendevano il nome da qualche precedente proprietario, come massa Firmidiana o fundus Domitianus. Non è chiaro come ciò funzionasse sotto l'aspetto sociologico—ad esempio è difficile dire come i contadini inserissero le loro proprietà in questo contesto, a meno che i fundi non fossero molto piccoli. I1 latino classico ha una parola per villaggio, vicus, e nei nostri testi si possono trovare vici che mal si adattano a questa struttura, ma non è certo se fossero modi alternativi di organizzare il territorio o solo nuclei insediativi isolati (uno o due sono stati scoperti dagli archeologi). Sotto i Longobardi troviamo un quadro chiaro di villaggi in Italia, chiamati indifferentemente vici, loci, casalia, villae e con altri nomi locali più tipici. Essi si sostituirono a massae e fundi come unità dell'organizzazione territoriale (quantunque queste ultime abbiano continuato ad essere usate fino ai secoli X e XI nelle zone che prima erano state bizantine nel centro e nel nord); i territori dei villaggi essendo definiti geograficamente, furono certamente più flessibili e permanenti rispetto alle unità fondiarie. E' tuttavia assolutamente poco chiaro cosa significasse questo 23
Cfr. Ie opere di V. Fumagalli nella sezione bibliografica B5-c; P. Toubert (B3-f), pp. 339-48 e note citate.
cambiamento per i contadini. I villaggi potevano essere ad un capo o all'altro del più ampio spettro dei tipi di insediamento, da nuclei accentrati, anche fortificati, a case così sparse che i confini tra i territori dei villaggi erano diflicili da conservare; sembra che talvolta non si potessero neanche distinguere gli abitanti dei diversi villaggi. L'agricoltura mediterranea non richiede grande cooperazione, dato che sono relativamente pochi gli animali da far pascolare liberi su terreno, fondamento usuale della cooperazione, ma un informale aiuto ad hoc era senza dubbio dato dagli abitanti del villaggio. Cesario d'Arles, negli anni attorno al 510, descrisse l'aiuto dato dai vicini e dai congiunti ad un uomo che ripristinava un vigneto, in una parte della Gallia molto simile all'Italia. Tuttavia, in zone da pascolo l'azione comunitaria era più importante, e nel IX secolo si vedono diversi villaggi situati in tali zone agire in modo collettivo nelle cause. Come questi villaggi si siano sviluppati dal periodo romano, o, anche, se siano realmente sempre esistiti, è un problema che solo gli scavi archeologici ci potranno aiutare a definire nell'immediato futuro24. Possiamo essere sicuri sulle alterne fortune di diversi strati di contadini, e dei loro rapporti con i proprietari terrieri, in quanto su tali argomenti la documentazione è ricca: lo schema generale è abbastanza noto. Nel tardo Impero la produzione schiavistica dei secoli I e II era già sparita, e sono documentati rapporti fra proprietario terriero e concessionario che diverranno caratteristici dei secoli successivi, assieme alla permanenza di coltivatori proprietari. I1 meccanismo di equilibrio fra le due forme è di didicile comprensione. Spesso si è pensato che i coltivatori proprietari siano stati assorbiti da grandi aziende, ma di certo alcuni sopravvissero, particolarmente in montagna. I1 termine tardoromano colonus poteva significare sia libero concessionario sia coltivatore proprietario, e spesso c'è ambiguità fra le due accezioni. Lo stato tassava ambedue ed esigeva anche dai proprietari indipendenti che abitassero sul fondo. Tuttavia non vi era motivo che i coloni abitassero sempre sul fondo. La legislazione tardo-romana è piena di lamentele riguardo alla partenza di coloni (ma per dove?) e il conseguente abbandono dei terreni (agri deserti) che erano un'alta percentuale della terra agricola che andava perduta alla fine dell'Impero. Talora s'impiegavano ancora schiavi per coltivare direttamente i fondi dei loro padroni, ma erano allora casati, alloggiati nelle case coloniche come concessionari servili. Sarebbe impossibile generalizzare in merito al modo di coltivazione dei fondi del periodo tardo-romano. Nel territorio di Padova attorno al 550 gli affittuari (coloni) della Chiesa di Ravenna erano già obbligati ad eseguire pesanti lavori manuali sui dominici dei loro padroni, da uno a tre giorni alla settimana (e pagavano un canone di denaro, e regalie di miele, lardo e pollame). Questa è la prima testimonianza che si conosca in qualsiasi luogo, e l'ultima per due secoli, del sistema bipartito, noto in Inghilterra col termine « manorial system » e in Italia come sistema curtense: dominico coltivato col lavoro diretto degli affittuari e una serie di terreni coltivati da affittuari tenuti a prestare opera oltre che a pagare il canone. Certo nell'Italia del VI secolo non era un sistema universale. Gli amministratori dei beni pontifici in Sicilia al 24
C Klapisch-Zuber, Villaggi abbandonati... (Bs-c), pp. 317-26; « Archeologia Medievale», v (1978), pp. 495-503; Pap. Brit. Sch. Rome, XLVII (1979). Caesarius Arles, Sermones, I, 67, a cura di G. Morin (Corp. Christ. Ser. Lat., CIII, 1953).
tempo di Gregorio Magno (590-604) non richiedevano prestazioni d'opera dai loro rustici, quantunque pretendessero molte altre cose. Nei primi anni di pontificato Gregorio mandò parecchie lettere ai suoi rappresentanti onde correggerne gli abusi. Sembra che in Sicilia ai contadini venisse in genere richiesto di pagare come canone l'equivalente in cereali di una cifra fissa, che variava col prezzo dei cereali stessi. Gli amministratori erano disposti a mantenere artificiosamente bassi questi prezzi, e a richiedere misure esagerate di cereali in cambio del loro denaro, oltre a diritti supplettivi e regali di nozze. Arrivavano fino ad espropriare i propri vicini. Tuttavia la prestazione obbligatoria di mano d'opera è totalmente assente; gli affittuari pagavano solo canoni. Per parecchi secoli successivi questa sarebbe rimasta una caratteristica del sud. Si deve qui infine valutare un altro aspetto connesso ai possedimenti di Gregorio: gli affittuari dei fondi di Gregorio erano sia uomini liberi che schiavi, ma sembra che tutti fossero legati alle terre avute in concessione, ed avessero canoni fissati da consuetudini. Già attorno al 590 anche all'esterno delle aree « curtensi » d'Italia, si riscontra la fusione fra liberi e non liberi, che viene generalmente considerata la base dello strato di concessionari nella società contadina medievale25 I Longobardi, come si vede nell'editto di Rotari, avevano una triplice classificazione della società: l'uomo libero, l'aldius, e lo schiavo. L’aldius in genere tradotto con vago termine di « semi-liberò », era per sempre sotto la protezione del suo padrone, ed era vincolato a servirlo; lo schiavo era, almeno all'inizio, soltanto un bene. Questa classificazione, come quella romana, cominciò a perdere vigore di fronte alla relazione economica fra proprietario terriero e affittuario. In particolare, gli aldii cominciarono a sparire. Vengono citati occasionalmente nei testi del IX secolo, come dipendenti privilegiati, specialmente come corrieri. Talora gli affittuari rivendicarono l'appartenenza alla categoria degli aldii di fronte alla giustizia (la miglior condizione dei non liberi) per salvaguardare la natura consuetudinaria del loro diritto. I liberi e gli schiavi longobardi divennero molto simili a quelli romani, quantunque il libero longobardo fosse molto più indipendente del colonas romano: non era legato al fondo, aveva la responsabilità di prestare servizio militare e di comparire in tribunale, e almeno al tempo di Rotari era ancora, in teoria, su un piano di legale parità con l'aristocrazia. I1 termine colonus quindi significava solo affittuario. Nel 727 gli sviluppi futuri già si palesano in una legge di Liutprando che esordisce: Se un libero, che vive da libellarius (titolare di documento d'affitto) su un terreno altrui, si rende responsabile di omicidio e fugge, il proprietario del fondo sul quale vive l'omicida ha un mese di tempo per trovarlo; (se non lo trova deve pagare metà del valore dei beni mobili dell'omicida)26. I liberi longobardi si stavano trasformando in locatari, e ciò non aveva solo effetti economici; era anche una diminuzione del loro status. I contratti dell'VIII secolo spesso contenevano clausole che stabilivano che i locatari erano legati alla terra e, con questa legge, i loro padroni gia si assumevano notevoli responsabilità nei loro riguardi. I1 loro status cominciava ad avvicinarsi a quello dei concessionari non liberi. 25
Tjader, Papyri Italiens, n. 3; Gregorio, Epp., 1. 39a, 42; 2. 38. J.C. Percival, Seigneurial aspects of Late Roman estate management, « English Historical Review », LXXXIV (1969), pp. 449-73, propone una suggestiva analisi di tutto il materiale riguardante il periodo iniziale.
26
Liutprando 92; cfr. Rotari 41-137 per la triplice divisione sociale.
Questo declino della posizione di molti liberi fu, come si vedrà, uno degli aspetti cruciali dello sviluppo della società italiana dall'VIII secolo in poi. Al di fuori del contesto delle leggi longobarde, ancora una volta, è impossibile dire se questa gente fosse longobarda o romana e la questione non sembra rilevante. Le suddivisioni sociali dei Longobardi si amalgamarono completamente con quelle romane. Nell'VIII secolo, quindi, ritroviamo le caratteristiche che esistevano nel tardo impero, quantunque esse siano ora meglio documentate. Troviamo, in gran quantità liberi coltivatori proprietari. Sopra di loro troviamo proprietari terrieri di diverse dimensioni, dal coltivatore con qualche appezzamento dato in affitto a terzi, fino al latifondista. Anche i più grandi, come Gisolfo strator di Lodi con una tenuta ad Alfiano (in provincia di Cremona) del valore di qualche cosa come 9.000 solidi, non erano paragonabili alle principali famiglie senatoriali del tardo impero27. Sotto di loro c'erano affittuari liberi a vari livelli di dipendenza: alcuni che avevano terreni in proprietà e anche in affitto; alcuni con obbligo di prestazione d'opera, altri senza; alcuni (almeno dopo l'800) soggetti alla giustizia privata del loro padrone. A1 livello ancora inferiore c'erano coloni non liberi con obblighi (nella maggior parte dei casi) più pesanti, quantunque fissati da consuetudini. Alla base della società alcuni schiavi, intesi come beni (servi praebendarii) che lavoravano sul dominico del padrone o in incarichi domestici, sebbene il loro numero andasse diminuendo. Conduttori e schiavi formavano la grande maggioranza della società italiana del periodo in esame. Tuttavia sono relativamente poco menzionati e per lo più presentati dal punto di vista dei loro padroni, esito inevitabile ma sfortunato delle lacune nella documentazione alto medievale. Con i secoli VIII e IX la divisione in due parti delle curtes era diventata comune nella maggior parte dell'Italia del Nord e del Centro (come si è fatto notare non fu mai caratteristica del sud ove gli affittuari si limitavano a pagare canoni). Alcune di queste curtes, in particolare quelle monastiche, godevano di una notevole organizzazione. La struttura interna della coltivazione in affitto (con o senza apporto di lavoro manuale) era la base di tutte le relazioni socio-economiche in quella che si può chiamare società 'feudale'. Queste strutture erano diventate dominanti nell'intera società, eccetto in qualche parte dell'Appennino, ove la signoria terriera non era ancora del tutto insediata, e nell'Italia bizantina ove il sistema fiscale dello stato bizantino forniva modi alternativi di assorbire le eccedenze agricole con vantaggio dei ricchi. Tuttavia come funzionasse in realtà il sistema si vede meglio attraverso alcuni esempi concreti. Si può cogliere la vera complessità di questi schemi analizzando le differenze locali. Per cominciare, si osservi il villaggio di Varsi nell'Appennino Parmense, non troppo distante dalla città (circa quaranta chilometri da Parma), ma posto in collina, in posizione sicura. E’al centro di una serie di documenti fra loro collegati della metà dell'VIII secolo, conservatisi in quanto sono tutti transazioni riferite alla chiesa di Varsi, S. Pietro, e ai suoi rettori. Nel 735 sette persone donarono o vendettero piccoli appezzamenti a S. Pietro in casale Cavalloniano. I1 terreno più grande era circa di duemila metri quadrati, il più piccolo settanta metri quadrati. Due anni dopo, uno di questi sette, Munari Eglio di Gemmolo, con due suoi fratelli, vendette altri due campi 27
Schiaparelli, 137, 155, 226.
nella stessa località alla Chiesa. In modo simile la Chiesa accumulò per sé terreno nella stessa Varsi. Nel 736 Ansoaldo e sua moglie Teotconda vendettero tre appezzamenti di terra arabile vicini al lago di Varsi, confinanti coi terreni di altri quattro gruppi di persone. Nel 737 i due figli di Godilani vendettero quattro appezzamenti 'con alberi' lungo la strada che conduceva al lago, anch'essi confinanti col terreno di altre cinque persone, alcune delle quali legate da parentela. Esistono documenti simili che risalgono al 742, 758 e 774; ogni volta S. Pietro o laici del luogo ricevevano o acquistavano piccoli appezzamenti. Nel 753 Ambrogio, figlio di Marioni, confermò con un documento la libertà di Domoaldo, precedentemente schiavo, che era stato ricevuto in S. Pietro. Nel 762, Ansoaldo, zio di Lopoaldo rettore di S. Pietro, riconobbe di aver occupato illegalmente alcune terre di Lopoaldo, ma Lopoaldo, « considerata la liberalità che si deve ai congiunti », non gli fece pagare la multa di venti solidi. Ansoaldo gli diede due tremisses, ed un appezzamento con vigne in regalo28. Varsi non era una società particolarmente ricca. L'entità delle sue transazioni, come si può vedere, era modesta. Molti degli uomini citati nei documenti erano exercitales, longobardi liberi, ma sembra che siano stati tutti contadini proprietari; neanche casualmente sono citati gli affittuari Come testimoni si presentano uomini dei villaggi limitrofi, ma nessuno di zone cosl lontane come la pianura. Fra i testimoni compaiono un artigiano, un costruttore e un notaio e la maggior parte dei documenti sono scritti da un chierico locale, Maurace. Era una società stabile. Molti villaggi simili a Varsi divennero maggiormente dipendenti dalla Chiesa nello spazio di una generazione, più o meno, ma S. Pietro di Varsi, sebbene aumentasse in modo consistente i propri terreni, non ottenne mai più di uno o due appezzamenti alla volta. Questi terreni erano in alcuni casi confinanti, segno chiaro di un certo tipo di accumulazione, ma spesso non lo erano. Nessuna famiglia cedeva tutte le sue terre alla Chiesa; molte famiglie appaiono discontinuamente in questi testi; non vi è traccia di alcuna che sia andata in rovina. Varsi era una società degli Appennini; in contrasto ad essa si vede Gnignano nella pianura longobarda, a metà strada fra Milano e Pavia. Qui abbiamo una serie di documenti interessanti che si estendono dal 798 all'856, conservati nell'archivio di S. Ambrogio di Milano. Nei documenti più antichi del 798 e 824, Walperto di Gnignano e suo figlio Leone di Siziano (un villaggio vicino) cedettero alcuni appezzamenti al loro amico (o creditore), l'orefice Arifus di Pavia. Nell'833 queste praprietà, passate a Vigilinda, moglie di Arifus come dono di nozze, furono vendute per quaranta denarii ad un importante ecclesiastico milanese, Guntzo, che le cedette ad un cittadino suo amico, l'aristocratico alemanno Hunger, figlio di Hunoarch. Entrambi, Guntzo e Hunger, si davano da fare per procurarsi terreni a Gnignano. In un documento del1'836 Hunger elencò le case coloniche di Gnignano che aveva acquistato da persone diverse, ed una vasta proprietà che Paolo, un notaio di Pavia, gli aveva venduto l'anno prima per diciassette libbre di argento coniato. La maggior parte di questi terreni era destinata, dopo la morte dei parenti diretti di Hunger, a diventare proprietà del monastero di S. Ambrogio. Nell'840 ciò era in gran parte già avvenuto, malgrado le proteste di un abitante del luogo, Rodeperto, forse un protetto di Hunger, che in quell'anno riconobbe i diritti del monastero sulla terra. Verso l'850 Guntzo 28
Schiaparelli, 52, 54, 59, 60, 64, 79, 109, 129, 159, 291.
possedeva ancora terreni a Gnignano, ma nell'856, dopo la sua morte, il monastero di S. Ambrogio (per conto del quale Guntzo aveva agito in qualità di patrocinatore) ne aveva anch'esso riunito una notevole quantità. A quel punto il monastero di S. Ambrogio era indubbiamente diventato il principale proprietario a Gnignano. I documenti antichi che non menzionano Guntzo e Hunger si riferiscono a terreni che S. Ambrogio ottenne da altre famiglie, come quelli che Rachinfrit di Gnignano e suo fratello affittarono ad un ecclesiastico nell'832, e quelli che Teutpaldo di Gnignano, che non aveva figli, vendette nell'839. La terra di S. Ambrogio per la prima volta è documentata confinante con terreni di altri proprietari nell'832; in precedenza i confini portavano i nomi di piccoli proprietari terrieri laici citati nei contratti precedenti. Verso 1'850, invece, sembra che la terra di S. Ambrogio sia stata onnipresente nel centro abitato, assieme alle terre di altre due chiese, S. Vittore in Meda e S. Stefano in Decimo. L'unico proprietario laico che ancora rimaneva nell'850 e del quale si abbia notizia era un certo Bavo, figlio di Rotari, affittuario di S. Vittore nell'856, ma anche proprietario terriero indipendente (con suoi propri affittuari) menzionato in tre atti dell'851-ó, forse l'ultimo che sia vissuto a Gnignano29. Le caratteristiche sociali di Gnignano ovviamente stavano mutando velocemente in questo mezzo secolo tanto quanto quelle di Varsi erano state fisse. I possessi delle quattro o cinque famiglie proprietarie locali note erano dapprima mescolati con le terre di artigiani cittadini di Pavia, e nell'arco di una generazione, attraverso i buoni offici di due importanti aristocratici milanesi, queste quattro o cinque famiglie locali si ridussero ad una; il resto andò alle chiese. Ciò può non essere tipico di altri paesi attorno a Milano, in quanto la mole di documenti di Gnignano è insolita, e S. Ambrogio potrebbe non aver ottenuto altrettanti successi in paesi privi di documentazione archivistica. Chiaramente, però, all'inizio del IX secolo, c'era la tendenza alla costituzione di una notevole proprietà fondiaria ecclesiastica. Altro chiaro elemento di contrasto con Varsi è l'esistenza di affittuari. Non è chiara l'entità e l'importanza sociale dei proprietari terrieri di Gnignano, sebbene, almeno alcuni, fossero collegati ad artigiani importanti. Bavo, l'ultimo che sopravvisse, appare in un ruolo decisamente minore come conduttore-coltivatore di alcune sue terre. Ma questi proprietari locali, persino Bavo, avevano i propri conduttori, sia affittuari liberi che avevano in affitto singoli terreni, sia (forse) conduttori servi nelle case coloniche (casae massariciae). Probabilmente la maggior parte della popolazione del villaggio fu sempre formata da conduttori, frammisti a proprietari locali. Alcuni di loro dipendevano da questi proprietari, ed altri, in numero sempre crescente, da chiese esterne. E’ quindi realistico dire che dall'inizio del IX secolo in Gnignano i conduttori, invece di pagare canoni localmente, dovevano corrisponderli a proprietari esterni, quanto dire che i proprietari terrieri locali perdevano le loro terre a favore della Chiesa. Nel caso di Gnignano sono invece assenti i contratti di fitto fatti dai conduttori; della Lombardia ne sono rimasti ben pochi di questo periodo. E’ soprattutto dai polittici che si può vedere il tipo di canone che i conduttori pagavano in questa parte d'Italia. Ad 29
Porro, 66, 105, 114, 117, 120, 127, 128, 133, 135, 137, 172, 191, 197, 199. 137
esempio cito di segruto parte di qucllo di Bobbio dell'862-883, canone della tenuta posta a Travo, trenta chilometri a sud-ovest di Piacenza. (In dominico) 60 media di cereali possono essere seminati ogni anno, 18 anforas di vino possono essere raccolte in una buona annata, ed 11 carri di fieno. C'è un bosco per 40 porci, ed un mulino... Ci sono 11 1ibellarii (conduttori per contratto) e 19 massarii (affittuari per consuetudine); danno un terzo del loro grano, per un totale di 223 modia, un terzo del loro vino (80 anforas), 7 solidi, 74 galline e uova. I libellarii fanno 24 giornate lavorative obbligatorie all'anno; i massarii tutte quelle che vengono loro ordinate. Non si sa di alcun abitante di Travo che non fosse conduttore di terreni di Bobbio, e forse il paese era più omogeneo di Gnignano, ma non tutti i conduttori vivevano a Travo, poiché nell'835 i possedimenti venivano descritti come ‘Travo e i suoi territori dipendenti'. Le case coloniche erano probabilmente sparse attorno ai villaggi vicini. I canoni sono certamente abbastanza tipici per fornire indicazioni di ciò che era normale in Lombardia. Questi tre esempi mostranc la gamma di testimonianze che gli atti ci possono dare, ed evidenziano i contrasti che si possono trovare in zone diverse, ma anche nella stessa zona, in Italia. Comunque c'è una uniformità importante, ed è norma quasi ovunque in Italia: la frammentazione della proprietà. Sia a Varsi che a Gnignano, la proprietà era sparsa in vaste zone. Anche a Travo, un territorio apparentemente coerente, i conduttori abitavano anche in altri paesi. Per lo più i proprietari terrieri non avevano tenute poste in un unico lotto di terreno, che costituisse un unico villaggio o anche parte di esso. Invece tendevano ad avere, nel migliore dei casi, il centro dei loro possedimenti in un villaggio, e le case dei conduttori sparpagliate in vari altri villaggi. I conduttori stessi, come i coltivatori diretti di Varsi, avevano poderi- formati da diversi appezzamenti sparsi in uno stesso villaggio, o spesso in più d'uno, e molti di quest; campi solevano essere molto piccoli. Teuprando e sua moglie Gumpranda fondarono una chiesa urbana a Lucca nel 764 e le lasciarono una serie di proprietà che avrebbero dovuto essere una base fondiaria sufficiente al suo mantenimento. Queste proprietà erano formate da una casa colonica con terre annesse a Sesto, dieci chilometri a nord di Lucca, un'altra sulla costa, venti chilometri a nord-ovest, un'altra a circa settanta chilometri più in giù lungo la costa con un quarto delle terre (ci si domanda se i tre fratelli di Teuprando abbiano conservato il resto), un quarto di un'azienda a circa cinque chilometri a nord-ovest di Lucca, un quarto di un bosco di ulivi sulle colline vicino a Sesto, ed altri tre campi sparsi nelle pianure a nord e ad est della città. E’ una proprietà di questo tipo che i campi apparentemente sparsi di Varsi e Gnignano suggeriscono; e questa distribuzione casuale è il prodotto di molte generazioni di spartizioni ereditarie30. La frammentazione ebbe molte conseguenze, la più ovvia che i contadini dovevano spostarsi maggiormente per coltivare i loro terreni. La terra veniva spartita scrupolosamente fra eredi dello stesso asse, fino al più piccolo campo. Ciò aveva delle implicazioni sulla cooperazione economica all'interno della famiglia, come si vedrà. L'indebolirsi del controllo sugli affittuari se vivevano in case isolate a distanza di parecchi chilometri è un elemento che si ripresenta. La conseguenza che qui voglio evidenziare è la grande difficoltà insita in qualsiasi pianificazione economica. I 30
Per Travo: Inventari, pp. 136, 157-8, Codice diplomatico di S. Colombano di Bobbio, a cura di C. Cipolla (Roma 1918), n. 36. Per Teuprando: Schiapareli, 178.
proprietari terrieri secolari non potevano tener unite le loro aziende per più di due generazioni al massimo, dato che ogni azienda era divisibile. Chiese e monasteri videro aumentare le proprie tenute come prodotto di donazioni estemporanee e di vendite, e anche a Gnignano, ove il monastero di S. Ambrogio raggiunse una certa supremazia, le sue terre erano frammiste ad altre di altri proprietari. I1 consolidamento fu vana speranza, eccetto che nei casi poco frequenti in cui una chiesa era venuta in possesso della quasi totalità di una zona. I proprietari, per la maggior parte, non potevano controllare ciò che i loro conduttori coltivavano sui lotti di terreno, in quanto non sempre questi lotti erano facilmente separabili dalle terre di altre proprietà. E in una società eome quella di Gnignano, ove i singoli campi e conduttori venivano trasferiti da un proprietario all'altro come merci, la rigida struttura dell'azienda bipartita deve essere stata molto diflicile da conservare. Né fu sempre facile reperire mano d'opera da conduttori che vivevano a distanze dell'ordine di venti chilometri dal centro del fondo. il possibile che un piccolo proprietario terriero con solo alcuni conduttori abbia coltivato il suo dominico da sé (o con schiavi), oppure si sia basato unicamente sui canoni, affittando il dominico in lotti. Travo, in paragone, era chiaramente molto più organizzato; e invero sembra che l'eccezione ad un sistema cosl frammentato fosse la società dei polittici di Bobbio e S. Giulia, e di altri monasteri i cui polittici si conservarono solo in parte, o sparirono del tutto31, Qui, almeno, abbiamo notizie sistematiche del volume dei canoni, dei servizi di lavoro pesante, ed anche di raccolti destinati alla vendita; per non parlare della vendita sistematica delle eccedenze. Bobbio da cinquantasei tenute ricavava 5679 modia (forse 9.600 stai) di cereali, 1.640 anfore di vino, 2.886 libbre di olio, 1.590 carri di fieno, 5.500 maiali ed una varietà di prodotti diversi come ferro, nocciole, pollame e canoni in denaro. Questi sono redditi di un certo livello, prodotti di tenute organizzate come Travo, con una curtis, centro della tenuta (in linguaggio monastico cella), punto focale del dominico nel quale i conduttori prestavano la loro opera, che variava da parecchi giorni alla settimana ad alcune settimane all'anno. Gli unici esempi reperibili di interi villaggi sotto un unico signore provengono da tali proprietà monastiche (e più raramente episcopali). Questi paesi erano quasi certamente, per la maggior parte, terre fiscali date alla Chiesa dal re, talvolta in zone boscose o sottopopolate, che i monasteri del IX secolo cominciavano a dissodare. Tuttavia sarebbe eccessivo pretendere che questi monasteri avessero una visione d'insieme dell'organizzazione delle loro proprietà. I canoni di Bobbio variavano da paese a paese per tipo ed entità; e cosl le prestazioni d'opera. Esso aveva due tipi diversi di conduttori, libellarii e massarii, ognuno con obblighi diversi pur all'interno dello stesso fondo o villaggio. I tipi di canone, sebbene fossero un ammontare enorme per ogni tipo di prodotto, sono chiaramente in ogni caso quelli tipici dell'agricoltura della sussistenza della zona di provenienza. Anche i grandi monasteri si trovavano di fronte ad un compito quasi impossibile se volevano sistematizzare le loro proprietà, a meno che non avessero organizzato essi stessi il dissodamento della terra, situazione che tende sempre a produrre maggiore uniformità. E i grandi monasteri erano pochi. La maggior parte dei terreni era proprietà di istituzioni ben più piccole, o di nobili laici, che in genere avevano una proprietà terriera estremamente frammentata. Ne segue che è più utile analizzare le strutture economiche di base della società come costituite non da aziende, ma da unità di coltivazione contadina, case coloniche o casae massariciae, 31
Cfr. Hartmann (B5-b), pp. 42-73; G. Luzzatto, I servi delle grandi proprietà ecelesiastiche (B5-c), particolarmente pp. 47ss., 70-4.
e da piccole proprietà di proprietari terrieri contadini. I canoni e gli obblighi dei conduttori, quantunque, fossero spesso pesanti, erano ben più estranei alla vita del conduttore di quanto non fossero in altre zone dell'Europa del Nord, ove intere collettività contadine avevano obblighi nei riguardi di un solo proprietario. In Italia, il centro amministrativo di un fondo poteva distare chilometri dai casali periferici. Anche se esisteva un diritto di esigere prestazioni d'opera all'interno del paese, spesso il diritto si riferiva a terreni tanto frazionati quanto quelli del conduttore stesso, e spesso tali conduttori erano gli unici nel paese ad essere dipendenti dai loro padroni terrieri. La maggior parte dei paesi, come Gnignano all'inizio della serie dei suoi atti, era un miscuglio di proprietari contadini, piccoli proprietari fondiari, ed affittuari di tutta una serie di signori. Il paese stesso, e ancor più la famiglia erano punti focali ben più importanti della maggior parte delle aziende. Di rado i proprietari terrieri riuscivano ad influire sui processi di produzione; i canoni erano in genere fissati per tradizione, e rari i raccolti commerciali. Con alcune importanti eccezioni, quali ad esempio l'organizzazione del dissodamento, l'agricoltura era attività dei soli contadini. I1 periodo dalla fine dell'VIII alla fine del X secolo vide due processi contraddittori: l'indebolimento della posizione sociale e politica dei contadini liberi e l'indebolimento delle strutture economiche delle aziende, e quindi della base economica della classe dei proprietari terrieri. A conclusione del capitolo questi due fatti verranno esaminati separatamente. Si è visto che i re dei secoli VIII o IX erano propensi a promulgare leggi contro l'oppressione dei poveri. Lo stato era occupato principalmente a conservare la posizione pubblica del libero, il suo accesso alla giustizia e (in particolare) il suo servizio nell'esercito. Questi diritti stavano già indebolendosi per i conduttori liberi che diventavano sempre più legati ai loro signori. Si è visto l'inizio di questo sviluppo nella legge di Liutprando sui libellarii. Nell'813 un capitolare diede ai proprietari terrieri la responsabilità di fare in modo che i loro dipendenti prestassero servizio allo stato, schiavi, aldii, e libellarii, « che fossero sempre stati o fossero da poco diventati conduttori », tutti allo stesso modo. Non tutti i libellarii erano ex-proprietari; la parola significava soltanto « conduttore, colui che ha diritto per contratto scritto », ed è solo dopo 1'800 che diventa comune. Nell'Italia alto-medievale c’erano sempre stati conduttori liberi, ma solo col nono secolo diventò normale la conferma dei loro contratti con i proprietari terrieri per mezzo di accordi scritti. I1 termine tradizionale di conduttore nell'Italia longobarda, libero o no che fosse, era massarius, e questo vocabolo continuò ad essere usato per tutto il periodo in esame (e dopo il 774, assieme al termine franco manens). I libellarii dovevano essere liberi, in quanto chi non era libero non poteva fare contratti; talvolta, come a Bobbio, erano contrapposti ai massarii debitori di maggior lavoro servile e, in qualche fondo, di canoni inferiori. In altre zone non si può distinguere fra i due: i massarii spesso appaiono come autori dei contratti, e i libellarii spesso dovevano canoni e obblighi pesanti pari ai massarii. I1 contratto scritto dava forse ai conduttori garanzia maggiore dei diritti per consuetudine, ma non necessariamente dava loro uno status superiore32, Ma se non tutti i libellarii erano per nascita liberi, molti lo erano certamente. Anche i polittici che in generale non si occupano dell'origine dei conduttori, fanno riferimenti casuali ad essi; cosi a Porzano a sud di Brescia, nelle tenute di S. Giulia, quattordici 32
MGH Capitularia, I, 93 c. 5 (813); P.S. Leicht, Livellario nomine (B5-c).
uomini liberi avevano ceduto le loro proprietà alla curtis per riaverle in cambio di una giornata lavorativa alla settimana. Anche i contratti, talvolta, lo dicono espressamente. Nel 765 nel territorio di Chiusi, Bonulus vendette tutte le sue proprietà a Guntefrido; le riprese in aílitto in cambio di dodici giornate lavorative all'anno in qualità di conduttore vincolato. I contratti del monastero toscano medievale di Monte Amiata erano quasi tutti di questo tipo, dall'804 in poi. Perché i proprietari liberi abbiano agito così non è mai chiaro; talvolta, certamente, a causa di dissesti economici, quando il cibo e la protezione di un signore sembrava valere la cessione delle loro terre; spesso, certamente, come risultato della violenza o della coercizione del signore in questione: Monte Amiata era di gran lunga il proprietario più potente nel raggio di molte miglia di campagna intorno33. La Chiesa ottenne anche terreni per motivi meno direttamente economici, per mezzo di pii lasciti. Re ed aristocratici fondavano chiese e monasteri, o donavano terreni a quelli già esistenti, per carità e col desiderio di salire in prestigio. Anche i meno ricchi e perfino i poveri facevano elargizioni. Non è facile distinguere i motivi: carità, prestigio, disperazione, coercizione, ma si può tentarlo quando, come è comune, i donatori davano alla Chiesa una parte del loro terreno equivalente, sembra, alla quota che sarebbe spettata ad un ulteriore figlio. Quando i donatori davano tutta la loro terra spesso si può vedere dal testo che non avevano discendenti diretti, come nel caso di Guinifredo da Pistoia e dei suoi figli che, nel 767, lasciarono tutti i loro averi alla Chiesa che avevano fondato « non avendo figli o figlie o parenti cui si possa lasciare la nostra proprietà o i nostri diritti ». Talora sbagliarono, come Goderisio di Rieti, che fu citato in tribunale nel 791 per aver occupato i terreni dei monaci di Farfa che egli stesso aveva loro donato. Egli spiegò: « E’ vero che ho donato questa proprietà al monastero, ma dopo ebbi figli ed ora né io né i miei figli possiamo vivere, l'indigenza mi opprime ». L'VIII secolo fu l'epoca d'oro di queste donazioni, apparentemente autorizzate dalla legge di Liutprando che legalizzava le donazioni alla Chiesa nel 71334. Dopo i primi decenni del IX secolo (in modo diverso da luogo a luogo) esse diventarono molto meno comuni. Le ragioni non sono chiare, e alcuni storici concludono che ciò avvenne in quanto non c'erano più proprietari terrieri piccoli o medi; erano diven. tati tutti conduttori. Si tratta di una visione un po' pessimistica, in quanto gli autori delle donazioni più cospicue erano privi di prole, ed è difficile vedere come i loro eredi sarebbero diventati dei libellarii; è invece più probabile che le chiese d'Italia siano diventate così ricche, sommerse da queste donazioni, da non venire più considerate oggetto di lasciti. L'obbligo della corresponsione delle decime alla Chiesa, istituito da Carlomagno, può anche aver diminuito la popolarità della Chiesa fra i poveri. Solo in alcune zone piuttosto remote, come Monte Amiata e nei dintorni di Farfa, le donazioni continuarono. Qui, come è stato detto, si può pensare ad una coercizione, e col 900 i due monasteri erano praticamente gli unici proprietari nelle vaste zone di campagna che li circondava. La Chiesa accrebbe le sue proprietà come conseguenza fortuita di pie donazioni e tramite deliberate espansioni; dal IX secolo poteva anche avválersi del diritto delle decime per indebolire l'indipendenza contadina. Anche gli aristocratici laici 33
Inventari, p. 63 per Porzano; Schiaparelli, 192; W. Kurze, Codex Diplomaticus Amiatinus (Tubinga, 1974) e la recensione di B. Andreolli, R.S.A. XVII (1977), pp. 139-40. 34 Schiaparelli, 206; Manaresi, 8; Liutprando 6.
estorcevano la terra ai più deboli o la accettavano da coloro che soffrivano la fame, in cambio di protezione. I piccoli proprietari divennero sempre più dipendenti dai loro vicini benestanti per tutto il IX secolo, e ancor più nel X, quando i signori si arrogarono alcune prerogative dello stato. Tuttavia non tutti vennero assorbiti senza colpo ferire come accadde con i contadini dell'Amiata; alcuni si difesero, alcuni anche passarono all'attacco. Infatti la resistenza contadina è vecchia quanto l'editto di Rotari, ove la cospirazione e la sedizione di 'gente rustica' e di schiavi è punita con condanne pesanti35. Nel periodo carolingio, tuttavia, sono documentati una serie di casi giudiziari nei quali i contadini affermano i loro diritti, in genere senza successo. Questi casi furono molto vari. A Milano nel 900, undici uomini di Cusago (dieci chilometri ad ovest della città) reclamano di essere arimanni liberi, e non aldii, anche se prestavano opere per la curtis di Palazzolo, proprietà del conte di Milano; infatti avevano piccole proprietà a Bestazzo oltre a quelle per le quali prestavano lavoro manuale obbligatorio. I1 legale del conte chiamò tredici « uomini nobili e timorati di Dio » per dimostrare che gli uomini di Cusago erano aldii, ma tutti giurarono che gli uomini di Cusago avevano ragione. Questo caso mostra chiaramente quanto vuluerabili fossero i piccoli proprietari di fronte alle pretese dei loro vicini infiuenti e dei signori terrieri; questo è uno dei pochissimi casi in cui vinsero. Nell'845, il monastero veronese di S. Maria in Organo portò in tribunale i suoi presunti schiavi nella contea di Trento, che rifiutavano di pagare il canone e di lavorare, ed affermavano di essere liberi. Quando Lupus Suplaiopunio ed altri sette dissero di essere proprietari liberi secondo la legge e che prestavano opera tramite un accordo di commendazione (protezione), S. Maria concesse loro la libertà ma con successo si appropriò della loro terra in base al fatto che i loro servizi venivano prestati per la terra stessa. In questo caso S. Maria aveva rinunciato ad ottenere lavoro manuale in cambio di protezione, avvenimento assolutamente inconsueto, per ottenere la proprietà dei terreni dei suoi protetti, e per affermare (senza successo) che essi erano suoi schiavi. A Pavia nell'880, due uomini di Oulx nelle Alpi piemontesi tentarono di riaprire un processo precedentemente abbandonato, che riguardava la loro libertà personale, affermando di « essere stati sottomessi con la forza », e non è da sorprendersi che anch'essi persero. Porse gli uomini di Oulx erano già affittuari del monastero di Novalesa, e stavano tentando di porre un confine fra conduzione libera e servile, confine importante per quei conduttori che desideravano evitare imposizioni e punizioni arbitrarie. Ci sono parecchi casi giudiziari simili riguardanti Milano e Pisa36. Questi rappresentano, ovviamente, un diverso livello di resistenza rispetto a quello dei proprietari liberi di Cusago, o anche di Trento, ma i due gruppi hanno somiglianze evidenti. È interessante che molti di questi casi provengano da zone montane, e parecchi vengano da zone ove i monasteri avevano di recente ottenuto terre da altri proprietari, specialmente dal fisco, e in un momento in cui pare tentassero di porre le loro terre in modo più deciso sotto un controllo centrale. Quest'ultimo punto è chiarissimo nel caso della gente della Valle Trita, una zona molto remota dell'Appennino abruzzese, dove alcuni valligiani furono rivendicati come schiavi dal monasteto di S. Vincenzo al Volturno dopo la cessione ad esso di terreni fiscali da parte del re Desiderio. Gli uomini ribadirono il loro status, 35
Rotari 279-80 Manaresi, 110, 112 (per cusago), 49 (per Trento), 89 (per Oulx), 9, 34; cfr. ariche i dati forniti da B. Andreolli, Contratti agrari e patti colonici nella Lucchesia (B5-c), pp. 12s-7. Per Limonea, cfr. n. 38. 36
affermando che le terre erano di loro proprietà, in cinque cause fra il 779 e 1'872; talvolta fu necessaria tutta la forza dello stato carolingio per farli comparire al processo37. Non si può affermare che il monastero abbia sempre vinto; le decisioni del tribunale venivano chiaramente disattese in modo sistematico e la fine della serie di dispute coincide con un secolo di debolezza del controllo su tutte le proprietà del monastero. Qui, poi fallì un tentativo da parte del monastero di S. Vincenzo di sottomettere contatini di zone remote, che erano debitori al re di una dipendenza forse solo molto formale, alla struttura fondiaria della proprietà terriera monastica. Nel Nord questi monasteri ebbero maggior súccesso: S. Maria in Organo a Trento; S. Ambrogio nelle vertenze in Valtellina e a Limonta sul lago di Como; Novalesa in Val di Susa. Queste cause sono parallele a quella di Cusago in quanto mostrano opposizioni precostituite all'aumentO del potere dei latifondisti e della organizzazione del fondo. Può darsi che riguardino per lo più casi di zone montane in quanto i contadini di zone marginali hanno relazioni economiche più strette e quindi sono in grado di opporre maggior resistenza. Ma persero, eccetto il caso di Cusago e forse quello di Valle Trita: i monasteri aumentarono i loro terreni, i proprietari liberi divennero conduttori, i conduttori liberi persero la libertà. E nel x secolo, anche i proprietari liberi ancora esistenti spesso divennero soggetti alla giurisdizione dei loro vicini ricchi, come si vedrà. Mentre questi processi un po' alla volta diminuivano i diritti dei liberi, la struttura interna delle grandi aziende in espansione stava anch'essa mutando. Come altrove in Europa, alla posizione dell'uomo libero che andava indebolendosi corrispondeva un miglioramento della posizione dei servi. Nelle cause di Limonta dell'882-957, gli schiavi pretesero dal monastero di S. Ambrogio la libertà, o almeno lo status di aldii, come gli uomini di Oulx avevano già richiesto. Concesso lo status, si lamentarono che il monastero di S. Ambrogio aveva aumentato i doveri fissati dalle consuetudini, aggiungendo, in particolare, l'obbligo di raccogliere e frangere le olive. I1 monastero di S. Ambrogio, significativamente, non affermò di avere il diritto di aumentare gli oneri che gli dovevano gli schiavi; portò invece come testimoni i notabili locali per dimostrare che gli obblighi erano sempre esistiti. Le consuetudini, almeno in teoria, erano fisse, anche per gli schiavi. La schiavitù stessa stava sparendo. La fusione di liberi e schiavi nella vasta gamma della classe dei conduttori portò alla fine ad un prevalere di uomini liberi, diversamente che in altre zone d'Europa, ove i conduttori persero la loro libertà. Molti dei contratti del IX secolo sembra siano fatti con conduttori schiavi che erano stati liberati. Le manomissioni diventarono più frequenti; sempre più spesso gli schiavi comperarono la loro libertà. Alla fine degli anni 990, Ottone III tentò di limitare questi cambiamenti con un capitolare speciale « sugli schiavi che agognano la libertà », ma ciò ha certo esercitato scarsa influenza. Dall'inizio dell'XI secolo la schiavitù divenne sempre meno comune38. I1 motivo per il quale i conduttori come classe divennero liberi, e non restarono schiavi, era senza dubbio dovuto al fatto che i proprietari terrieri cominciarono ad affittare le loro proprietà senza richiedere lavoro manuale; sparirono i legami 37
In Manaresi, ma con maggiore completezza in « Chronicon Valturnense », a cura di v. Federici (Rorna, 1925-38), n. 23, 24, 25, 26, 55, 71, 72. 38
Per Limonta: Porro, 314, 417, 427 (Manaresi, 117, 122), 625; cfr. A. Casta gnetti, Dominico e massaricio a Limonta (B5-c); per il contesto europeo: RH. Hilton, Bondmen Made Free (Londra, 1973), pp. 66ss. Per Ottone MGH Constitutiones, I, n. 21.
personali diretti che rafforzavano la posizione di servitù. Lo sviluppo è già visibile in Toscana alla fine del IX secolo, e anche in alcune tenute di Bobbio e S. Giulia. Col X secolo, la corvée servile fu ovunque rara. Nelle grandi tenute monastiche esso poteva continuare, causa la volontà dei monasteri che volevano impie gare concessionari per il dissodamento. Altrove, era la conclusione lo gica dell'incoerenza dell'organizzazione di territori molto frammentari proprietà di laici e di vescovi. Quando i modelli esistenti venivano tra sformati incessantemente dalle divisioni ereditarie fra l'aristocrazia laica: e dalle donazioni casuali che ancora venivano fatte alle chiese, e co gli inizi di cessioni di fondi della Chiesa su vasta scala a piccoli nobili i legami necessari per il lavoro dei domini signorili non poterono più essere mantenuti. Le aziende divennero ora gruppi di case di conduttori, e nulla di più. I contratti con conduttori liberi per la durata di una vita, tre generazioni, o perpetui, comuni nell'VIII secolo, divennero meno frequenti, e sempre più vennero stipulati per periodi fissi in particolare per ventinove anni. Ciò anche evidenziava e aiutava l'in dipendenza sempre maggiore dei conduttori. E sempre più i proprietari terrieri volevano canoni in denaro. Nell'VIII secolo già molti canoni erano in denaro, assieme a canoni in natura (cereali, vino, olio, uova, animali) e lavoro—quantunque i canoni in denaro, che rappresentavano uno status superiore per i conduttori, venissero richiesti meno frequentemente assieme alle prestazioni d'opera. Nel IX secolo, e ancora più nel X, i canoni erano sempre più in denaro, spesso assieme a un canone parziario in vino e olio, ma quasi mai in altre merci39. I canoni in denaro, ovviamente, erano generati da necessità specifiche dei proprietari terrieri, dato che il commercio con zone lontane diventava sempre più comune, ma indicano anche altri due fatti: l'abilità dei contadini che vivevano dei prodotti della terra di ottenere denaro in cambio delle eccedenze, e l'esclusione totale dei proprietari terrieri da qualsiasi controllo su ciò che veniva fatto sulle campagne. I1 contadino, fino a che riusciva ad ottenere tre, o otto, o dodici denari all'anno, li Lero o no che fosse, poteva da allora sfruttare la sua terra senza chieder nulla al padrone. Con la fine del X secolo, c'è qualche testimonianza per cui egli poteva vendere terreni già affittati ad altri conduttori. A questo punto, il 'sistema curtense' era evidentemente spezzato. Anche se i coltivatori liberi erano ancora costretti e assorbiti in grandi aziende, queste riguardo al territorio erano diventate soltanto organizzazioni sparse ad ombrello per la riscossione dei canoni. Sembra che alla fine del X secolo nell'Italia centrale e settentrionale i proprietari terrieri avessero perso il controllo economico reale sulla campagna, a livello del suolo. L'attività dei contadini nello scambio delle eccedenze è difficile da documentare, ma in qualche modo deve essere esistita a lungo. Si è visto che l'unità economica fondamentale in Italia era la piccola proprietà. Ogni famiglia contadina coltivava, per quanto poteva, un'ampia gamma di prodotti base nell'ambito di quanto riusciva a fare da sola. Ma geograficamente l'Italia non è omogenea e raccolti diversi meglio crescevano in zone diverse, in particolare le vigne in collina e i cereali in pianura. Malgrado l'esistenza di una agricoltura promiscua si possono già notare queste differenze nel periodo alto medievale. Gli squilibri dovevano essere compensati con lo scambio. Alcuni prodotti dell'artigianato, come la ceramica e il cuoio, venivano Violante (B3-f), pp. 76ss., 91ss.; Andreolli, art. cit.; G. Rossetti, Società e istituzioni Pisa, Volterra, Populonia, 5° Congresso cit., pp. 259-72, P.J. Jones in Italian Estate (A5-c) G. Cherubini, Qualche considerazione... (B5-c), pp. 55-63. 39
quasi certamente acquistati, sebbene se ne abbiano scarse prove; cosi, avveniva, naturalmente, anche per il sale. E’ per questi motivi che i proprietari terrieri trovano conveniente nel x secolo farsi pagare diritti per piccoli mercati locali, che il commercio di lusso difficilmente avrebbe raggiunto. Non sempre si usava denaro in queste operazioni. I Longobardi per la maggior parte coniarono un solo tipo di moneta d'oro, il tremissis (la terza parte del solidus) che certamente valeva troppo rispetto al valore delle merci oggetto della maggior parte degli scambi locali. Alla fine dell'VIII secolo, i Carolingi lo sostituiscono col denarius d'argento (un dodicesimo del solidus) in teoria più adeguato a scambi su piccola scala (in Lucchesia nel IX secolo sembra che un maiale valesse dodici denarii, e un montone sei denarii; in Francia nel 794, se il paragone è utile, il prezzo del pane era fissato ad un denarius per dodici pagnotte di frumento da due libbre, o quindici di segale, venti di orzo, o venticinque di avena). Anche così, un'unica moneta di tale taglio è troppo scomoda per le transazioni in denaro corrente, quali possiamo figurarceli. Le transazioni economiche devono essersi svolte facendo riferimento al denaro piuttosto che servendosene come mezzo di scambio. In una società tradizionale ove le relazioni sociali ed economiche sono molto strette, all'interno delle quali gli scam bi avvengono fra persone che si conoscono, ciò non è difficile come sembra40. I1 denaro era facilmente accessibile alle popolazioni italiche di tutti i livelli sociali; non era però poi tanto utile. Forse i contadini consideravano le monete merce ottenuta vendendo prodotti che probabilmente sarebbero finiti sui mercati cittadini; le monete sarebbero poi state usate per pagare i canoni. D'altro canto i proprietari terrieri, operando sui mercati cittadini su scala ben più ampia, senza dubbio si sarebbero serviti del denaro in modo più chiaramente 'commerciale'. Tutto ciò è assolutamente teorico. Ma si può riconoscere come la società consuetudinaria basata su rapporti economici tradizionali, all'interno della quale era inserito lo scambio locale, esercitasse il suo controllo sui valori. Si è visto che i re volevano mantenere 'prezzi equi'. In alcuni casi erano anche pronti ad intervenire ed eliminare vendite 'inique', come dopo la carestia italiana del 776. I valori potevano diventar molto stabili, con considerevoli divari da regione a regione. Lo si vide, ad esempio, nell'813, nell'imbarazzo dei periti che stavano trattando uno scambio di terreni fra i monasteri di Nonantola e S. Salvatore di Brescia; il costume di Brescia era di valutare la terra meno di otto denarii per iugum, ma quella di Nonantola la valutava almeno tre solidi per iugum. Si dovette chiamare Adalardo di Corbie per raggiungere un compromesso. Nessuno pensò che le forze di mercato potessero venir usate, o che esistessero quanto meno forze di mercato riguardo alla valutazione della terra, malgrado le vendite dei terreni fossero frequenti41. In Italia lo scambio era strettamente connesso al contesto sociale nel quale avveniva. Simili legami socioeconomici fra contadini a livello di scambi, sono anch'essi un altro elemento della separazione fra proprieri terrieri e società contadina.
40
Per i prezzi: Andreolli, art. cit., p. 118, MGH Capitularia, I, 28 c. 4. Cfr. K. Polanyi, Primitive, archaic and modern economics (New York, 1968), pp. 175203; M. Godelier, Rationality and irrationality in economics (Londra, 1972), pp. 252-303; W.A. Christian, Person and God in a Spanish Valley (Londra, 1972), Pp. 168-171; P. Grierson, Problemi monetari nell'alto medioevo, «Boll. della societa pavese di stor. pat. », LIV (1954), pp. 67-82. 41 MGH Capitularia, T, 88; Porro, 88.
Questa separazione raggiunse il massimo attorno al 1000, quando le prestazioni d'opera erano in pratica sparite, lasciando per lo più una classe di conduttori che dovevano quasi ovunque canoni solo in denaro, e a volte in natura. L'azienda bipartita era pressoché scomparsa. I grandi proprietari terrieri non erano capaci di stabilizzare e di concentrare, e ancor meno di razionalizzare, le loro proprietà. Infatti con la crescita di una nuova classe di piccoli nobili basata sull'affitto di vasti terreni, spesso ad un canone nominale, i proprietari maggiori (specie le chiese) avevano meno controllo di prima sulle proprie terre. Nella campagna iniziò la violenza, non appena i più piccoli fra questi signori tentarono d'imporre i loro poteri sui contadini. I contadini, come i signori, talora furono capaci di utilizzare diritti giurisdizionali secondari e di usare nuove unità territoriali fortificate dei secoli X e XI, i castelli, per rafforzare il proprio potere e fondare dei 'comuni rurali' a fianco di quelli urbani. Ma di nuovo andiamo oltre ciò che ci eravamo prefissati; questi sono sviluppi che sarebbero potuti avvenire solo alla caduta dello stato, come si vedrà nel capitolo settimo. Solo a metà dell'XI secolo, nel contesto del movimento di riforma, le chiese sarebbero riuscite a ristabilire il controllo sulle proprietà rurali, e col sorgere dei comuni urbani esse ed altri proprietari cittadini cominciarono a farsi strada si stematicamente nella campagna, agendo da mediatori fra i contadini e il mercato cittadino, e servendosi di quelle posizioni per riguadagnare il controllo sui contadini. Dai secoli XII e XIII i contadini pagarono nuovamente i canoni in natura, cosicché il guadagno derivante dall'espansione dei mercati urbani andava ai proprietari terrieri. Le città non avevano bisogno di relazioni commerciali con la campagna; solo di cibo. Lo sviluppo dei progressi commerciali dei secoli XII e XIII, infatti, significherà il capovolgimento anche della più modesta penetrazione degli scambi commerciali nella società rurale42.
42
Cfr. C. Violante, Stadi sulla cristianità medioevale (Milano, 1975), pp. 328-39; L.A. Kotel'nikova, Mondo contadino e civiltà in Italia (Bologna, 1975), pp. l9ss.
Capitolo quinto SOLIDARIETÀ, GERARCHIA E DIRITTO
La Parentela e i Tribunali Si è visto il sopravvivere per molti secoli in Italia di una classe di contadini liberi, talora piccoli proprietari e altre volte concessionari, parallelamente a complesse gerarchie di proprietari terrieri, alcuni locali, alcuni abitualmente assenti dalle proprie terre, e in gran parte abitanti in città. I1 potere dei proprietari terrieri era considerevole ma non sufficiente a controllare la vita economica dei vari villaggi e parimenti insufficiente a dominarne la vita sociale. E’ facile vedere che gli abitanti liberi di villaggi come Varsi furono completamente indipendenti dalle pressioni esterne, eccetto che per le pubbliche richieste dello stato, quali il servizio nell'esercito. Ma anche gli abitanti di villaggi come Gnignano, ove predominavano i grandi proprietari, non sentirono particolarmente l'influenza dei loro padroni sulla vita quotidiana, in particolare in quanto non vivevano più entro il villaggio. L'aumento del potere economico dei grandi proprietari nei secoli VIII e IX certamente rafforzò l'importanza sociale delle gerarchie e delle signorie, come si vedrà nella seconda parte di questo capitolo. Ma i problemi quotidiani delle comunità contadine, cooperazioni su piccola scala, tensioni, l'eliminazione di differenze, venivano raggiunte in maniere diverse, tramite legami sociali fra eguali e quasi-eguali, in particolare quelli basati su relazioni di parentela e di famiglia. L'intera immagine dello stato carolingio e longobardo si basava sulla importanza dei liberi, specialmente in quanto soldati, ma anche come partecipanti a varie responsabilità e istituzioni pubbliche quali i tribunali. Ciò non impedì agli strati più deboli di venir oppressi da quelli più forti, ma significava che almeno le attività pubbliche erano piuttosto ben documentate, e che i re avevano interesse ai loro destini. Significava anche che, almeno in teoria, i membri liberi della società avevano tutti pressoché lo stesso status, ricchi e poveri. Sebbene ciò non sia mai stato vero in realtà, significa almeno che non si può tracciare una divisione tra gli appartenenti alla società aristocratica e a quella non aristocratica dei secoli VIII e IX; e i tipi di parentela documentati in Italia in questo periodo sembra siano stati caratteristici di tutti i livelli della società libera. Le famiglie aristocratiche avrebbero iniziato solo nell'XI secolo ad assumere caratteristiche anche formalmente diverse, come si vedrà nell'ultimo capitolo. E’ impossibile esser certi che gli uomini non liberi avessero modelli di vita sociale simili. Di rado i documenti in nostro possesso trattano questo aspetto della società; la sua esistenza, e l'entità incerta, devono servire da filtro a tutto ciò che viene esposto in questo capitolo. Comunque ci sono indizi che negli strati non liberi almeno i concessionari, e forse anche gli schiavi domestici, avessero legami sociali non diversi da quelli delle classi inferiori della società libera. In questa parte verranno discussi i più importanti di questi legami sociali, la parentela, oltre ad altri tipi di solidarietà organizzata a livelli meno complessi, il consortium ed il villaggio stesso. In tutte le società tradizionali la parentela è importante, e si suole porla in antitesi sotto questo aspetto alle società moderne, ove le attività pubbliche dei cittadini vengono regolate da leggi e dalle strutture della giustizia. Comunque l'Italia alto medievale era socialmente molto precoce, e l'impatto della legislazione e dell'attività giudiziaria era anch'esso considerevole. Alla fine del presente capitolo verrà trattato questo impatto e alcuni dei contrasti fra legge e solidarietà parentale, cosi come appaiono all'osservatore moderno; gli stessi italiani alto-medievali non sembra siano stati poi tanto turbati da tali contrasti. Une delle più note caratteristiche dei Longobardi è che erano suddivisi in vasti raggruppamenti di parenti, le farae. Alboino invase l'Italia in fara, e quando elevò suo nipote Gisolfo a duca del Friuli gli permise di scegliere le farae da tenere con sé. Paolo chiosa la parola 'cioè, generazione o
lignaggio', ed il termine 'lignaggio' è forse la traduzione migliore. I toponimi che incorporano tale parola sembra indichino il primo stadio dell'insediamento longobardo, dato che la parola cade in disuso dopo un'unica citazione nel codice di Rotari. Una di queste, negli Appennini abruzzesi, è la suggestiva 'Fara filiorum Petri', un nome già latinizzato di lignaggio, che giunge in questa forma fino ai giorni nostri. Gregorio Magno fece riferimento a gruppi dell'esercito longobardo (di fatto mercenari bizantini) chiamati Grisingi e Gaugingi, e anche questi possono essere nomi di farae in questo caso non del tutto latinizzati; -ing è un comune suffisso germanico occidentale, spesso usato come segno distintivo di una stirpe. Rimane sfortunatamente oscuro cosa esattamente significasse farae, o quale ne fosse la consistenza. Ciò che successe alla farae è altrettanto oscuro. Come si disse, Rotari usò la parola una sola volta, quando fece riferimento al diritto di un uomo di 'migrare' in un'altra parte del regno con la sua fara. Altrimenti, si riferì alla 'stirpe' (parentilla) intendendo un gruppo di persone rispetto al quale un longobardo avrebbe potuto far valere diritti ereditari, fin tanto che fosse l'erede più vicino e potesse dar nome a tutti i suoi parenti intermedi1. La parentilla era vasta, si estendeva per sette generazioni, ma sembra non abbia avuto alcuna funzione reale. Come corpi effettivi, Rotari faceva riferimento a gruppi più piccoli di parentela (parentes) che si riunivano per attività legali o quasi legali, per prestare garanzia, per giuramenti purgatori (il giuramento formale a favore del buon nome e dell'innocenza di un uomo accusato), e per faide. La faida non veniva considerata dagli abitanti dell'Europa altomedievale, anche dai re, un processo di degrado quale talvolta è stato severamente giudicato dagli storici moderni. E’ regolata e le è insita la tendenza a ristabilire la pace, in quanto la gente coinvolta volente o nolente nella contesa, spesso con legami con ambo le parti, in genere non vuole dedicare la maggior parte del suo tempo al combattere. In tutte le società le faide famose che durano a lungo sono atipiche per definizione, infatti attirano l'attenzione di tutti proprio perché non vengono risolte. Ciò è in genere possibile solo in casi di antagonismo e gravità eccezionali, e di solito anche quando i partecipanti vivono abbastanza lontani gli uni dagli altri da poter evitare il contatto sociale, o in luoghi che presentano complessità sociale, come le città; le grandi faide italiane sono state quasi tutte urbane (si pensi a Montecchi e Capuleti). La falda può verificarsi in molte comunità tradizionali e su piccola scala, ed il Mediterraneo è sempre stato sotto questo profilo una zona calda. I1 sorgere potenziale della faida sottende tutti gli interessi contadini tradizionali per la solidarietà e la pace familiare2. Anche i re longobardi davano valore alla pace, tuttavia non consideravano la violenza, se non entro la corte del re, offensiva dei principi della società civile. Essi tentarono di limitare l'accadere delle faide, di prevenirne il sorgere ad ogni banalità, Rotari aumentò l'indennità di danni, per rendere più onorevole la sua accettazione, aumentando così le possibilità della soluzione della lite stessa. Ma questa era parte del costume longobardo, e i diritti fondamentali di ogni longobardo di aderirvi non potevano essere negati. Si è visto che Liutprando mantenne il duello (che di per sé, per lo più, è una versione rituale e limitata della faida), malgrado i suoi dubbi che esso fosse uno strumento di giustizia, ed i Carolingi persino ne aumentarono leggermente l'importanza. Tuttavia è ironia che si apprenda la maggior parte di quanto se ne sa dalla legislazione delle corti reali che guida e limita le modalità delle faide. Le fonti sono poche e a parte racconti occasionali di vendetta in Paolo Diacono, Liutprando di Cremona, o specialmente nel Chronicon Salernitanum, non si ha traccia di contese importanti fino alle cronache del periodo dei comuni ed oltre. Tuttavia l'esistenza della contesa e la sua legittimità viene affermata in tutte le fonti che la citano. 1
Mario d'Avenches, Chronicon (MGH A.A. II, s.a. 569, Paolo, H.L., 2. 9; Rotari 153, 177. In opposizione a S.M.C., pp. 39-40n., cfr. H.H. Meinhard, The patr linear principle in early Teutonic Kingship, Studies in Social Anthropology, a cura dt J. Beattie, R.G. Lienhardt (Oxford, 1975), pp. 23-6. 2
M. Gluckman, op. cit., capitolo primo; J.M. Wallace-Hadrill, The LongHaired Kings (Londra, 1962), pp. 121-47; cfr. M. Hasluck, The Unwritten Law in Albania (Cambridge, 1954) per alcuni esempi, e E. Gellner, Saints of the Atlas (Londra, 1969), pp. 104-25, per giuramenti.
La struttura del gruppo familiare nella società longobarda era patrilineare, i cosidetti legami 'agnatici'. Quando una figlia si sposava, si sposava entrando in una nuova famiglia (Liutprando metteva in guardia contro il matrimonio in una famiglia con la quale si fosse in lotta) e si doveva pensare a particolari misure precauzionali per evitarne lo sfruttamento. Se dopo il matrimonio la donna avesse venduto terreni, la sua stessa famiglia d'origine avrebbe dovuto testimoniare che lo aveva fatto di sua volontà, liberamente, e che non vi era stata costretta dal marito e dalla famiglia di questi; documenti simili sono comuni nell'X secolo. Questo sistema di discendenza per linea maschile contribuì alla definizione delle famiglie, in quanto l'uomo o la donna potevano essere membri di un solo gruppo familiare; esso era strettamente connesso all'eredità. Quando un uomo aveva bisogno che la sua parentela giurasse per lui in una cerimonia di giuramento purgatorio, doveva presentare i membri del suo casato nell'ordine della successione, facendoli venire, se necessario, da ogni parte del regno. Anche nella faida, l'unico uomo che aveva diritto di vendicare un uomo morto era il figlio, sebbene nel caso non avesse figli ma solo figlie il diritto passasse ad un gruppo meno definito di propinqui o proximi parentes, parenti stretti. La contesa, essendo per natura un fatto più spontaneo, non poteva essere controllata in modo severo quanto il giuramento rituale3. Queste erano norme longobarde, in quanto facevano parte del diritto longobardo; anche i romani avevano un sistema patrilineare, ma la legge dell'Impero non riconosceva risoluzioni private come la faida. Tuttavia vi sono tracce che i Romani almeno sentissero la necessità di vendicare la morte di un congiunto. I1 manuale giuridico dell'Italia del VIl secolo, la Summa Perusina, afferma esplicitamente « se avete vendicato la morte di un congiunto, ne diventerete erede ». Forse questo testo riflette le usanze di Roma sotto l'Esarcato4. Nell'Italia longobarda, si possono fare solo ipotesi. Si è visto che i Romani nell'Italia longobarda avevano fatto propri elementi della solidarietà di gruppo longobarda quali il launigild, che con 1'XI secolo divenne parte della legge territoriale del regno longobardo; non è improbabile abbiano riconosciuto anche la`faida, anche se non ci è possibile dimostrarlo. In questo mondo le donne avevano una posizione pubblica di poco conto. I Longobardi (a differenza dei Romani) le consideravano sempre soggette all'uomo dalla nascita alla morte; al padre, al fratello, al marito e al figlio a seconda dei casi. Raramente potevano possedere terreni, se non come eredi o vedove, e anche in questi casi il loro controllo era limitato per legge. Le uniche donne longobarde legalmente indipendenti erano le badesse dei conventi, forse poiché avevano assunto parte della legge romana nei loro voti. L'Italia dell'alto medioevo non fu probabilmente mai particolarmente piacevole per le donne. Solo occasionalmente, nella nobiltà più alta, alcune donne dotate di carattere eccezionalmente forte riuscirono ad assumere qualche carica politica, specie in periodi d'instabilità. In genere erano le vedove di uomini importanti senza eredi adulti come Teodolinda fra i Longobardi, e più occasionalmente mogli influenti di uomini in vita, come Angilberga, moglie di Lodovico II. Il X secolo vide molte di queste figure: Berta, vedova di Adalberto II di Toscana, Ermengarda, vedova di Adalberto d'Ivrea, Villa, moglie di Berengario d'Ivrea, e più notevole di ogni altra, Marozia, che governò Roma dal 928 al 932. In modo significativo, Liutprando di Cremona, il loro cronista, non volle trovare altra spiegazione della loro importanza se non estrema licenziosità, unico motivo cui potesse pensare per spiegare il loro incomprensibile controllo sull'uomo; il loro potere metteva in crisi l'intera sua immagine del mondo5:E meglio vedere in loro il punto focale della continuità dinastica (come eredi, o custodi di figli piccoli) in un secolo nel quale diventava sempre più importante per l'aristocrazia la 3
4
Lineprando 13, 22, 61, 119.
Summa Perusina, 6. 35. 10 a cura di F. Patetta (Roma, 1900), cfr. P.S. Letcht, Vindictam facere, « Scritte Varie », II, 2 (Milano, 1949), pp. 363-6. 5 Liutprando, Antap., 2. 48, 55-6; 3. 7-8, 445; 5. 32.
consapevolezza della discendenza. Tuttavia esse erano atipiche. Per noi la maggior parte delle donne sono soltanto nomi, nominali padrone di terre alienate dagli uomini delle loro famiglie, o le controparti con le quali gruppi di famiglie avevano fatto alleanze per mezzo di matrimoni. Non è noto cosa in realtà facessero o pensassero. La base della solidarietà parentale fu senza dubbio la cooperazione nelle attività economiche. il molto più probabile che si volesse vendicare la morte di un proprio cugino se lo si aiutava a potare le viti e se lui aiutava a raccogliere le olive. Finora abbiamo considerato la teoria della faida all'interno della parentela ma la faida è rara. Ben più comune è la cooperazione economica, e questa è meglio documentata. Quando Lopichis, il bisnonno di Paolo Diacono, unico di tutti i suoi fratelli, scappò dalla prigionia dopo un'incursione avara e tornò (con l'aiuto di un lupo addomesticato) alla sua casa distrutta, la ricostruì con regali della sua gente (consanguineorum et amicorum). Questo era uno dei compiti della parentela6. Si è già vista la frammentazione della terra in Italia causata dalle suddivisioni ereditarie. Era ed è tipico dei proprietari dividere ogni zolla fra i propri figli (le figlie ricevevano in eredità terreni solo se non vi erano figli maschi). Ma l'altra faccia della medaglia è che non era previsto che tali eredi coltivassero le terre separatamente, almeno per una generazione, e talvolta anche di più. Infatti non sempre era necessario dividere la terra immediatamente alla morte del padre; parecchie leggi longobarde trattano le norme che stanno alla base della proprietà comune fra fratelli. Nel periodo longobardo, questa indivisione permaneva solo, nella maggior parte dei casi, fino alla morte di uno dei fratelli o fino a che questi non volessero separarsi in modo più formale. Tuttavia, coi secoli X e XI, erano ancora più comuni i terreni indivisi fra cugini e talora parenti anche più lontani. Non suddividere almeno posponeva la necessità di determinare parti giuste, operazione suscettibile di generare acredine, e sempre complessa. Un documento lucchese del 762 elenca parte del processo col quale il vescovo Peredeo alla morte del fratello divise le proprietà di questi con il nipote Sunderad; circa trenta appezzamenti vengono accuratamente scorporati e riuniti, e ciò era solo parte della loro proprietà fondiaria. Ma per separare totalmente i beni di Peredeo da quelli di Sunderad sarebbe stato necessario scambiare le terre, per avere blocchi indipendenti di proprietà, cosa che certamente i due eredi non riuscirono a fare. Tali scambi sono in effetti ben rari nei documenti italiani. Un primo esempio si ha nella zona collinare sopra Parma, nell'alta valle di Varsi, nel 770, quando Audeperto, figlio di Auderat diede la sua proprietà in un villaggio in cambio di quella di suo zio e dei suoi cugini posta in un altro villaggio. Sembra che Audeperto si sia separato dalla sua gente, almeno in senso fisico. Comunque è forse più interessante il fatto che i suoi parenti, Artemio e i nipoti Rodeperto, Gumperto, Asstruda e Paltruda, mantenessero le proprie terre ancora indivise; qui l'eccezione era Audeperto. Stiamo trattando due diversi livelli sociali, in quanto Peredeo e Sunderad erano aristocratici importanti, mentre Artemio e Audeperto erano non più che proprietari terrieri di scarsa importanza, e forse contadini proprietari, ma il problema di divisione e cooperazione era lo stesso7. La parentela era la forma più comune di solidarietà orizzontale, non tuttavia l'unica. Gli schiavi, ad esempio, venivano considerati dalla legge come privi di parentela, e quando furono liberati in massa, i gruppi di colliberti che ne derivarono venivano considerati come aventi gli stessi obblighi di un gruppo di parenti. Tuttavia anche gli schiavi avevano talvolta qualche parente individuabile. In merito esistono ancora due testi notevoli di Arezzo, della fine dell'XI secolo, che elencano alcuni degli schiavi domestici (compresa una famiglia di cuochi) del monastero di S. Fiora e S. Lucilla, ed in particolare cinque generazioni di discendenti di un certo Pietro, vivente attorno al 950, tramite le sue tre figlie, Lucica, Gumpiza, e Dominica, che sono descritte come tutte unite da parentela 6
Paolo, H.L., 4. 37. Rotari 167, Liutprando 70; Schiaparelli, 161 (cfr. 154), 249; cfr. J. Davis, Land and Family in Pisticci (Londra, 1973), pp. 107-45. 7
(propinquitate). Cinque generazioni costituiscono una parentela vasta sotto qualsiasi aspetto, e sorge il sospetto che le dimensioni di tale parentela siano proprio il risultato delle documentazioni di proprietà del monastero; ma quando un membro dell'ultima generazione, Giovanni figlio di Rusticello, reclamò la libertà in un pubblico tribunale nel 1080 (senza successo), furono presenti anche i suoi parenti servi. La maggior parte dei legami in queste genealogie di schiavi erano individuati per discendenza maschile; la struttura del gruppo era identica a quella degli uomini liberi. Non mancavano neanche i legami fra gli schiavi domestici e i liberi. Uno o due uomini liberi si sposarono all'interno delle famiglie servili (alcuni schiavi, infatti, erano stati una volta liberi, ed erano schiavi soltanto in quanto non potevano pagare le penalità stabilite dalla legge per assassinio e furto; potevano avere anche parenti liberi). Per quanto ne so, questi testi sono unici, e gettano una luce su qualcosa che altrimenti è del tutto oscuro. Ma è improbabile che la` situazione sulla quale fanno luce non avesse rispondenza altrove8. Per lo più ci si riferisce in modo generico ad altri gruppi collettivi col termine consortes o consortia. Consors nel latino classico significava 'socio' o 'comproprietario', spesso 'co-erede', e queste accezioni costituiscono la base del suo significato nell'Italia alto-medievale, come altrove in Europa, con diverse sfumature in contesti diversi. Nell'Italia dell'VIII secolo significava raramente 'parente' o 'co-erede', e in genere definiva il socio non parente in una attività economica. Ma nei secoli seguenti la differenza fra parenti e consortes diminui, e spesso ci si riferisce a parenti e a eredi col termine di consortes. I1 significato della parola, tuttavia, verteva ancora sulla comproprietà o sull'uso cooperativo della proprietà, mantenendo anche il suo significato di 'cooperazione fra non parenti'. il in questo contesto che ci si riferisce talvolta ai membri della comunità del villaggio col termine consortes. Si è visto nel precedente capitolo che i villaggi che si univano in azione collettiva erano in genere posti in zone marginali, con qualche attività economica cooperativa come base della loro attività, quale la pastorizia. Gli uomini di Limonta si autodefinivano consortes, ma qui probabilmente la base economica era l'essere tutti sottomessi al monastero di S. Ambrogio. Un esempio in cui emerge l'attività collettiva di tutto un villaggio o area si ha in un caso giudiziario dell'824, quando i consortes di Flexum, senza successo, contestarono al monastero di Nonantola i diritti di pesca e pastorizia nelle vicinanze del loro territorio, anche se questi diritti erano stati garantiti al villaggio dal re Liutprando. Flexum si trovava nelle paludi del Po, ed i suoi abitanti erano ancora piccoli proprietari, che lottavano per mantenersi indipendenti dalle violazioni monastiche. E’ del tutto possibile che in tali zone la solidarietà del villaggio fosse più importante della parentela, o almeno avesse pari importanza, e, per contro, I'assenza di una comunità di villaggio potente in zone abitate fosse uno degli elementi che in Italia dava alla forza della parentela la sua ragione d'essere, dato che era l'unico principio di organizzazione esistente. Di certo gli 'eredi e consortes' presenti negli atti dei secoli X e XI altrove in Italia erano piuttosto diversi dai consortes di Flexum. Tali consortes erano, per la maggior parte, estensioni del gruppo familiare, modificazioni più o meno artificiali della sua estensione. Quando nell'XI secolo e successivamente, le famiglie aristocratiche instaurarono relazioni contrattuali all'interno del gruppo familiare per salvaguardare i nuclei territoriali ed alcune forme di attività economica collettiva, queste relazioni furono conosciute anche come consortia. La loro esistenza fa notare come permanga importante la relazione di parentela come principio organizzativo di quasi tutta la società9. La legislazione reale mostra che i re vedevano nella faida e nel giuramento purgatorio espressioni valide della legge, ricorsi informali basati non sulla presentazione formale di prove e decisioni di giudici, ma sul confronto di gruppi familiari e su accordi circa la determinazione delle compensazioni. La faida e i fatti ad essa analoghi sono tradizionalmente legati ai crimini di violenza e onore. I casi giudiziari che si conoscono, tuttavia, per lo più ebbero per oggetto la terra e lo status 8 9
Pasqui, Arezzo, cit., 292-3, 240. G. Salvioli, Consortes e colliberti (B4); Manaresi, 36.
legale. Raramente erano associati a qualche compromesso e mediazione che si possa collegare alla faida. Alcuni esempi dovrebbero darcene l'idea. Nel 762 Alperto di Pisa e sua cognata Rodtruda (che aveva come procuratore Tasso) comparvero al tribunale reale di Pavia. Tasso affermò che Alperto illegalmente occupava la terra del suo defunto fratello Auriperto, che l'aveva lasciata in testamento alla Chiesa. In risposta a ciò Alperto mostrò il suo contratto, nel quale Auriperto e lui si erano accordati di nominarsi vicendevolmente eredi nel caso uno di loro morisse senza prole, come era accaduto ad Auriperto. Tasso rispose affermando, in primo luogo, che l'atto era solo una copia, e quindi priva di valore legale; in secondo luogo, che non era concorde con i tipi di donazione previsti dalla settantatreesima legge di Liutprando; in terzo luogo, mostrò un altro atto (anch'esso copia) col quale Auriperto aveva lasciato le sue terre per testamento alla Chiesa, inficiando cosi il primo atto. Alperto chiese con sorpresa evidente: « Ma, Tasso, se la mia copia non ha valore, com'è possibile che la vostra ne abbia? ». Tasso, con gesto teatrale, comunicò che il suo atto era stato controfirmato da re Astolfo, e quindi aveva pieno valore. Alperto perse la causa10. Ad un certo punto durante il regno di Liutprando, a Como o nelle vicinanze, Lucio si presentò in tribunale reclamando il riconoscimento legale della sua libertà che era stata posta in discussione (con violenza) da parte di Totone di Campione. Lucio esibì l'atto in suo possesso fatto al tempo di Cuniperto, che dimostrava che era stato messo in libertà dai parenti di Totone col rituale del giro attorno ad un altare di chiesa. Ma questo rituale ebbe validità legale solo dal 721, con la ventitreesima legge di Liutprando; quindi l'atto che era antecedente alla legge decadde. Lucio non poté neppure dimostrare di essere stato ritenuto Libero per i trent'anni precedenti il caso giudiziario, (il pagamento del suo affitto e i suoi obblighi in lavoro avrebbero potuto essere stati effettuati sia da schiavi che da uomini liberi). Quindi il suo diritto decadde, in quanto la trentennale rinuncia annullava la pretesa di un uomo di avvalersi degli effetti di tale diritto11 Talora, quando non si avevano testimonianze scritte, la corte poteva avvalersi di testimonianze orali; se ne è visto l'esempio nel capitolo quarto, nei casi fra proprietari e concessionari, alcuni dei quali trattano istanze nelle quali le chiese richiedevano testimonianze in aggiunta ad atti, e rendevano gli atti privi di valore quando si riscontrava la morte dei testimoni. Un caso di minore ingiustizia è forse quello di Gundi, moglie di Sisenando, un franco che nell'873 viveva nell'Abruzzo orientale. I1 legale imperiale Maione affermò ch'ella aveva preso i voti dopo la morte del primo marito, contrariamente alla deposizione di Sisenando che aveva affermato di averla sposata legittimamente. Maione trovò un vescovo ed altri quindici testimoni che giurarono che ella si era fatta suora; sia lei che la sua proprietà furono assoggettate a confisca da parte dello stato. Talora sorgevano problemi legali più sottili. Nel 912 Ageltruda vedova dell'imperatore Guido richiese la restituzione di terre che aveva dato alla Chiesa in un atto ancora esistente, contro le proteste del vescovo di Piacenza, che accusava la falsità dell'atto. Riuscì a dimostrare ciò non sulla base della sua inautenticità, ma dimostrando che la chiesa beneficiata, S. Croce e S. Bartolomeo in Persico, non era mai stata costruita, e così l'atto perse valore12. L'elenco potrebbe continuare. Quasi tutti i casi giudiziari sono interessanti ed illuminanti. Ce ne sono circa dodici del periodo longobardo, e qualcosa come 260 nella raccolta di placiti di Cesare Manaresi, casi giudiziari regi, del periodo fra il 774 e il 1000; Manaresi ne saltò parecchi, e ne escluse un gran numero in quanto non furono oggetto di giudizio da parte di funzionari del re. Hanno tutti stile diverso, almeno fino a che si precisano le procedure rituali ed i metodi di archiviazione dei casi verso 1'880, ma si assomigliano in un punto molto importante: la 10
Schiaparelli, 163. Schiaparelli, 81. 12 Manaresi, 76 (cfr. 82, 84), 124. 11
preoccupazione per la lettera della legge, e per il significato letterale dell'atto, quando ciò non fosse in contrasto con la legge. Da ciò è chiaro che non avevano molto a che fare con la faida. Faide e testimonianze giurate forse non ricorrevano tanto negli atti scritti; e spesso non interessavano le chiese, archivi principali dei documenti. E, come si disse, il tipo di diatriba che ci viene tramandato per iscritto sotto forma di casi giudiziari non è tanto quello che avrebbe generato la faida. Non ve ne sono per furto o per atti violenti, malgrado l'attenzione che venne data a questi fatti nel codice longobardo. Una piccola percentuale fa vedere la Chiesa che esercita i suoi diritti di giudicare i reati carnali dei suoi chierici. Un gruppo un po' più grande è costituito da dispute inerenti lo status, dispute che abbiamo esaminato nel precedente capitolo. Tuttavia, la gran parte dei casi che ci sono giunti è relativa ai terreni. Dopo tutto la terra è oggetto della maggior parte degli atti scritti. Certamente Rotari capì che il giuramento purgatorio poteva essere usato nelle dispute relative alla proprietà, come infatti spesso capitava nei casi giudiziari dell'Europa del Nord e soprattutto nell'Inghilterra anglo-sassone. Ma già permetteva che un documento potesse essere usato come prova prima facie per dimostrare l'esistenza di una vendita controversa di un terreno, se esisteva un simile documento (i contratti erano molto meno comuni nel VII secolo). Nel 746 Rachi diede a ciò maggior forza. I venditori in malafede erano pronti a giurare che non era stato loro pagato l'intero prezzo di una vendita, anche se questa aveva dato origine ad un contratto: « ciò sembra a noi e ai nostri giudici severo; ...con tale giuramento possono toglierci qualsiasi cosa ». Quindi nessun giuramento poteva inficiare un contratto steso in modo corretto13. La testimonianza scritta era la base della maggior parte dei casi giudiziari. Il suo corollario era il prevalere della legge scritta. Rotari, come altrove i legislatori germanici, dava forma scritta alle consuetudini (talvolta aggiornandole); quantunque a differenza di molti altri tentasse di metterle tutte per iscritto, in 388 capitoli. I1 suo tentativo è alla base di tutte le legislazioni successive, direttamente fino al Liber Papiensis dell'inizio dell'XI secolo, compilazione della scuola di legge di Pavia di tutte le leggi reali longobarde e post-longobarde, con chiose globali, rimandi, ed esempi di casi tipici, un lavoro notevole e sofisticato, e modello del ripristino, un secolo più tardi, del diritto romano e canonico. La legge reale scritta sempre più veniva considerata suprema in ogni campo. Liutprando permise che nei contratti la legge scritta fosse superata solo con l'accordo delle due parti—e da ciò escludeva la legge sull'eredità. Lodovico II asserì categoricamente: « nessuno dovrebbe osare giudicare solo con la propria volontà, ma dovrebbe mettere in pratica nella maniera più ampia la legge scritta. Ciò che non è oggetto di legge scritta dovrebbe venirci sottoposto per una nostra decisione ». Nella maggior parte dei paesi la legge medievale evolveva lentamente, dalla pubblicazione regia di consuetudini tradizionali si giungeva alla volontà del re di prevalere sopra ogni legge. Comunque in Italia, poco più di due secoli dopo Rotari, tutte le leggi avevano assunto forma scritta, almeno agli occhi dei re14. Queste, ovviamente, erano le pretese dei re, ma sembra siano state largamente rispettate da ItaliciLongobardi, Romani e Franchi. L'ampiezza del rispetto fa notare la forza dell'egemonia dello stato in Italia. Ciò, forse, richiede anche qualche spiegazione, in quanto l'Italia fu certamente unica nell'Europa occidentale per forza e diffusione della legge scritta nei secoli VIII e IX. I1 punto fondamentale qui importante è l'alta percentuale degli abitanti del regno d'Italia, almeno quelli appartenenti alle classi più alte, che possono essere definiti colti. Per loro legge scritta e significato letterale degli atti avevano un significato ben preciso. Ce lo si può aspettare dal clero e dalle classi professionali cittadine: scrivani, notai, avvocati, medici, ma lo si riscontra anche fra uomini comuni, specie dopo l'inizio del IX secolo. La testimonianza ci viene dalla percentuale di 13
Rotari 359, 227, Rachi 8 Liutprando 91, MGH Capitularia, II, 219 c. 5. Per alcune implicazioni: cfr., per esempio, L. Nader, Law and Culture in Society (Chicago, 1969), pp. 69-91 Per alcuni paralleli: cfr. C.P. Wormald, Lex Scripta and Verbam Regis (A4).
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persone che come testimoni firmarono, anziché porre una croce in calce agli atti. Negli atti di Lucca dei secoli VIII e IX, la percentuale delle firme aumenta fino a livelli notevoli. Nel decennio dopo il 760, la prima decade durante la quale gli atti diventarono numerosi, il 47 per cento dei testimoni già apponeva la propria firma; questa percentuale attorno all'820 era salita al 62% e con 1'ultima decade del secolo era già giunta all'83%. Clero e professionisti attorno al 760 firmavano già per il 69%; attorno all'890 questo dato era salito al 100%. Anche la gente comune, quantunque mostri una percentuale dell'11 per cento attorno al 760, raggiunse il 7796 attorno all'89015. Solo persone di una certa levatura testimoniavano negli atti, e questi dati possono essere assunti come significativi solo per gli uomini della classe dei proprietari terrieri, ma per quelle classi i dati sono decisamente alti, e, in quel momento, ben più alti che altrove in occidente. Inoltre l'aumento nel secolo IX deve fornire qualche indicazione dell'effetto pratico che l'interesse della Rinascenza Carolingia per l'istruzione ebbe in Italia sulle classi superiori urbanizzate. Essere capaci di firmare col proprio nome e aggiungere una breve formula di testimonianza non è, ovviamente, un criterio molto selettivo di alfabetismo. In alcuni contesti oggi (ove la capacità di apporre una firma è il requisito essenziale per accedere a molti lavori) non sempre comprova la capacità di leggere. Ma nel secolo IX, quando il concetto d'istruzione era totalmente diverso, la capacità di scrivere deve per lo meno implicare la comprensione del significato di legge scritta e testimonianze scritte, anche se tale persona 'funzionalmente alfabeta' non era in grado di leggere speditamente, per non parlare poi di leggere Virgilio per diletto. In effetti, alcune persone d'eccezione lo potevano fare. Everando del Friuli, morto nell'866, con testamento divise la sua biblioteca fra i propri figli. Possedeva oltre cinquanta libri: bibbie, vangeli, opere liturgiche; il commentario di Agostino ad Ezechiele, i suoi sermoni, la Città di Dio; le vite di Martino di Tours, gli scritti dei Padri Orientali e di Apollonio; opere di Isidoro, Fulgenzio, Martino di Braga, Basilio di Cesarea, Orosio; due trattati sui principi, del IX secolo, le Gesta regnum francorum, il Liber Pontificalis, un bestiario, la cosmografia di Aethicus, De Retus Bellicis, e sette codici di leggi, quelli dei Franchi salici e ripuari, degli Alemanni, dei Bavaresi, dei Longobardi, e i codici romani di Teodosio II e Alarico. Pochi proprietari terrieri, se ve ne furono, avrebbero pensato di imitare Everardo, ma la Rinascenza Carolingia ebbe anche su di loro qualche effetto, svolgendo il ruolo lento ma utilissimo di promotrice di una qualche forma d'istruzione16. Il fatto che i testi scritti avessero un qualche significato e una qualche utilità per gli Italiani è ampiamente dimostrato dal numero di atti tuttora esistenti: varie centinaia nell'VIII secolo, per lo più originali; parecchie migliaia nel secolo IX. La legge era considerata parte integrante di tali testi. Non di rado, chi stendeva gli atti (o gli scrivani) mostra di conoscere i termini specifici delle leggi: parecchie formule comuni negli atti italiani citano la specifica legge cui l'atto fa riferimento. In un atto della zona di Pistoia dell'880, la suora Roteruda, facendo una donazione legalmente dubbia ad un certo Vidulprando, cita parola per parola tutta la centounesima legge di Liutprando. In genere, gli atti non sembra potessero prevedere procedure non ancora sancite dalla legge. Si è visto re Liutprando districarsi nella sua legge per legittimare le donazioni alla Chiesa nel 713, la serie degli atti in nostro possesso praticamente inizia da tale data. Nella classe dei proprietari terrieri almeno, fu molto forte l'influenza del diritto reale e della legislazione17. Questi comportamenti certamente derivavano dalle tradizioni romane così come l'uso di una ampia legislazione e dell'atto scritto. Si è visto come l'influsso romano agisse sul contenuto di alcuni 15
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Da Batsocchini. Gli esempi si riferiscono in ciascun caso a più di 300 testimoni riguardanti una sessantina di atti.
Per il testamento di Everardo P. Riché, Les bibliotbèques de trois aristocrates laies carolingiens, «Moyen Age», LXIX (1963), pp. 96-101. Cfr. D.A. sullough, Le scuole cattedrali e la cultura dell'ltalia settentrionale (B6-c). 17 F. Brunetti, Codice Diplomatico Toscano, II, n. 1 (Firenze, 1833), erroneamente datato 774; F. sinatti d'Amico, L'applicazione dell'Edictum... in Tuscia, 5° Congresso, cit., pp. 745~81.
aspetti della legge longobarda, in particolare la legge sulla proprietà. L'osservanza della legge scritta e una regolamentazione delle testimonianze discendevano parimenti da Roma, tuttavia il solo rispetto non bastava a ricreare la forza enorme del sistema giuridico tardo-romano, basato su atteggiamenti nei confronti della legge che riconfermeremmo oggi: la differenza fra penale e civile, il fine disinteressato della decisione del giudice (con possibilità di appello) oltre a procedure in teoria meno familiari, quali la tortura sistematica dei testimoni. Lo stato era a quest'epoca longobardo e franco-longobardo, e i Longobardi, sebbene acculturati e sofisticati, erano ancora un popolo germanico, che non aveva interesse a ristabilire l'apparato coercitivo dello stato tardoromano, essenziale per il funzionamento della legge tardo-romana. E’ a questo punto che la sopravvivenza apparentemente contraddittoria della faida diventa spiegabile. I procedimenti formali derivanti dal periodo romano erano limitati ad ambiti specifici della legge che si sono già esaminati: proprietà e status. In altri ambiti, particolarmente ove una parte cercava soddisfazione per un torto subito per violenza, furto o insulto, si usavano i metodi tradizionali della comunità germanica, che difficilmente facevano ricorso allo stato. La mescolanza di procedura formale ed informale, di prova e compurgazione, forse è meglio evidenziabile in una legge di Lodovico II contro le cospirazioni in latrocini, che appartiene alle disposizioni generali per ristabilire l'ordine pubblico nell'850. Se qualcuno era sospettato o correva voce facesse parte di una cospirazione, poteva discolparsi col giuramento purgatorio di dodici uomini, e nel caso non potesse, doveva sottomettersi alla penalità prevista (si trattava normalmente di una transazione, metà andava alla vittima e metà allo stato). Tutta la popolazione locale doveva, se ne era in possesso, fornire le prove al tribunale in un interrogatorio sotto giuramento18. Lo stato interveniva per eliminare l'illegalità in una zona; ma tutti gli abitanti del luogo sospetti dovevano ancora all'interno della comunità sottoporsi agli usuali procedimenti del giuramento purgatorio, e l'unico cambiamento operato da Lodovico in questo campo fu la possibilità di raddoppiare i testimoni giurati necessari all'accusato per farsi dichiarare innocente. Questo è il metodo che Lodovico ritenne necessario per risolvere ciò che chiaramente era un grave problema sociale, e avrebbe potuto funzionare; il problema non si ripresentò nelle sue leggi successive. Forse una società transalpina sarebbe ricorsa a ordalie per integrare le accuse della comunità. Lodovico invece fece ricorso ad una inquisizione, una sorta di raccolta dei fatti, simile al Grand Jury inglese e americano; le ordalie in Italia erano piuttosto rare, a parte i duelli. Quando sull'appoggio di leggi scritte intervenivano i re, essi avevano il problema di assicurarsi che lo stato avesse la forza d'imporre i giudizi che non erano accettati dalla parte perdente, in particolare quando chi soccombeva era persona influente e potente. (Quante volte i giudici abbiano emesso giudizi contrari a persone potenti è, forse, un altro discorso, di certo i re dovevano legiferare troppo spesso contro sentenze corrotte o interessate per dimostrare che lo stato era decisamente efficace). Non è facile capire con quali mezzi lo stato riuscisse a fare ciò. I casi giudiziari di cui ci sono giunti gli atti presentano soltanto i giudizi, e non ci dicono come (e se) furono messi in pratica. Forse è significativo che nei nostri testi gli unici gruppi che contestarono e protestarono contro le decisioni dei tribunali sono alcuni contadini che persero cause inerenti il loro status e i loro diritti; appartenevano a gruppi sociali che erano stati esclusi dall'assetto politico longobardo-carolingio. Nella classe dei proprietari terrieri non sembra che il disposto dei tribunali sia stato rifiutato; le decisioni erano apparentemente accettate anche se non erano a favore. Se è proprio così, allora si rafforza l'impressione dell'autorità dello stato longobardo e carolingio in Italia se paragonata alle altre nazioni europee, e ciò deve essere fondamentalmente collegato alla più ampia egemonia dello stato su una classe colta superiore. Ci sono alcuni esempi fra i casi pervenutici di parti vincenti che fanno concessioni a quelle perdenti, a volte, presumibilmente, in base alla consapevolezza che non sarebbero riuscite ad esercitare i loro diritti reali, anche se avevano l'appoggio formale dello stato, senza il consenso della parte perdente. 18
MGH Capitularia, II, 213 c. 3.
Il monastero di Farfa nel 750 riuscì a provare che il prete Claudiano aveva avuto il diritto di donare una chiesa al monastero; dimostrò che il documento presentato dai nipoti di questi, che dichiarava che Claudiano reggeva la chiesa soltanto come rappresentante della famiglia, era tecnicamente invalidato davanti alla legge (mancava un elenco di testimoni). Ma nel 751 Farfa donò una piccola tenuta ai nipoti, che sarebbe tornata al monastero alla loro morte, in cambio della loro sottomissione al giudizio forse anche Farfa pensò che la sua vittoria fosse non tanto equa. Tipico esempio di un tale riscatto è un caso giudiziario del 859, nel quale il monastero milanese di S. Ambrogio dimostrò che Lupus non aveva diritto al beneficio che reclamava a Cologno Monzese, ma poi gli concesse altra terra19. Casi simili divennero sempre più numerosi fino al secolo XI e oltre, e di certo índicano la posizione debole nella quale talvolta si trovavano i monasteri, soggetti alla coercizione da parte dei loro locatari/vassalli, o per lo meno ad arbitrati segreti. Ma il compromesso aveva luogo dopo la sentenza; non faceva parte del procedimento giudiziario. Quantunque i vincitori delle cause talvolta abbiano dovuto constatare l'inefficacia delle loro vittorie, l'uso del compromesso come parte della causa stessa fu assai raro; e così erano il giuramento purgatorio (sebbene fosse usato a Lucca nell'840 per mancanza di testimoni) e il duello20. Tuttavia il duello veniva mantenuto dai Carolingi come mezzo estremo se le prove offerte dalle parti erano prive di consistenza e non abilitavano quindi il giudizio. I1 procedimento fu molto esteso da Ottone I nel Capitolario di Verona del 967, che, nonostante l'allarme di molti ecclesiastici e dei successivi commentatori di leggi di Pavia, permise di mettere in dubbio l'autenticità degli atti attraverso l'uso del duello, portando, come lamentarono i giuristi, a « duelli per proprietà possedute da un centinaio d'anni... e alla morte di chi le possedeva »21. Con questa legislazione lo stato in parte abbandonò il ruolo di fonte del diritto che aveva precedentemente assunto. Ottone e molti dei suoi consiglieri erano germanici, estranei alla tradizione italiana. Attorno al 960 lo stato era debole, e sotto molti aspetti aveva rinunciato alle proprie funzioni in favore di unità sufficientemente decentralizzate, tali da poter lasciare alle comunità i risarcimenti legali. Ma nelle cause dei 150 anni successivi al 967 l'interessante non sono i giudizi per duello, quanto il loro basso numero: meno di una dozzina in 320 casi giudiziari, fra il 967 e il 1100 nella raccolta di Manaresi. L'idea di giustizia assoluta amministrata dallo stato si trasferì alle città d'Italia; la ereditarono i comuni, insieme con il giudizio per duello. Essi sapevano che lo stato era la fonte del diritto, e quando nel XII secolo reclamarono una statualità de facto, lo fecero in gran parte con la legislazione. I1 duello e anche la faida fecero parte di quel diritto per secoli.
Gerarchia e clientela: aristocrazia Finora in questo capitolo si è contrapposta la solidarietà della fami glia e della comunità di villaggio alla nozione di giustizia associata agli interessi dello stato. Potrebbe sembrare che il potere delle aristocrazie sia stato escluso. La tendenza, nei secoli VIII e IX, dei proprietari terrieri laici ed ecclesiastici verso l'espansione delle loro proprietà a discapito dei vicini meno importanti potrebbe, tuttavia, esser vista come un venir meno delle solidarietà delle comunità finora esaminate. Marc Bloch, uno dei più grandi storici medievisti, pensava fosse stato proprio così: egli vide la 'società feudale in Francia e Germania sostituirsi ad una più vecchia società, un po' più ugualitaria, basata su legami di parentela, in gran parte a causa della inadeguatezza di tali legami, nel X secolo e 19
Regesto di Farfa II (a cura di I. Giorgi, U. Balzani, Roma 1879) nn. 25, 31; Porro, 208. Sul compromesso Manaresi, 97; sulla testimonianza a discarico Manaresi, 44. Cfr. i comrnenti di J. van Velsen in M. Gluckman (curatore), Idees and Procedures in African Customary Law (Oxford, 1969), pp. 137-49. 21 MGH Constitutiones, I, n. 13 e i commenti in Liber Papiensis, MGH Leges, IV, Pp. 568-80. Cfr. A. visconti, La legislazione di Ottone I, A.S. Lombardo, LIII (1925), pp. 40 73, 221-51. 20
successivamente. Le solidarietà di parentela potrebbero essersi rafforzate man mano che lo stato si disgregava ed il potere delle signorie diveniva più consistente, ma la maggior parte delle funzioni di parentela furono assorbite dal vincolo feudale. Tuttavia lavori più recenti, rispetto all'opera di Bloch, hanno evidenziato aspetti diversi. Si pensa oggi che le famiglie abbiano sempre avuto un ruolo importante nell'organizzazione della società feudale, e che il loro ruolo si sia accresciuto allorché le gerarchie feudali si sostituirono allo stato. Inoltre la parentela assumeva importanza tanto più grande quanto più elevata era la posizione sociale del singolo; più vasto era il campo di azione del singolo, più egli aveva bisogno dei parenti. Parentela e aristocrazia certamente potevano essere in tensione; è questo l'argomento di fondo di una vasta parte della letteratura sulla Francia del XII secolo, ma la società era abbastanza complessa da poterle fare coesistere salvo casi particolari. Come si è visto, in Italia, parentela e famiglia sembrano aver rivestito la più notevole funzione nella vita quotidiana e nella solidarietà locale; clientela e dipendenza divenivano invece significative su scala maggiore e per la mobilità sociale. L'individuo poteva emergere col servizio prestato al suo signore. La sua necessità di porsi sotto la protezione di un signore poteva anche mostrare la sua disgrazia. La parentela, sorta di vincolo orizzontale, era estremamente importante quando ci si metteva in contrasto tra pari: la clientela, sorta di vincolo verticale, quando l'opposizione era contro i potenti (salvo che quest'ultimi non fossero proprio i signori del singolo). Fin da tempi molto remoti si può vedere la coesistenza di ambo gli assi nel regno longobardo: la legge di Rotari sulle farae, gruppo di parenti corporati assieme, tratta per esempio del destino delle donazioni che 'un duca od ogni uomo libero' ha fatto ad un uomo al suo servizio che ora vuole emigrare con la sua fara. Questi assi coesistono ancora oggi: Jeremy Boissevain ha dimostrato come i vincoli familiari e la protezione siano fra loro complementari nella mafia siciliana moderna. La struttura frammentaria della proprietà terriera e del potere locale che erano una caratteristica così rilevante nell'Italia dei secoli VIII e X (e successivamente), e il sopravvivere del concetto di obbligo pubblico in tutto il periodo oggetto del presente studio, forse fecero in modo che la clientela fosse una forza meno dominante che non nella Francia feudale, ma essa rimase uno dei vincoli fondamentali22. La dipendenza e le gerarchie sono soggetti ovviamente a cambiamenti più cospicui che non gli schemi della parentela finora descritti; ciò avviene in quanto sono più strettamente collegati alle mutevoli strutture dello stato. Una parte di questo dinamismo è più apparente che reale, l'affermarsi ed il cadere di certe famiglie, ad esempio, o le variazioni nella terminologia dell'aristocrazia, ma una parte è genuina, specialmente in quanto lo stato stesso muta. Finora nel mio scritto l'aristocrazia ha avuto un ruolo dominante, senza che io abbia tentato di definire esattamente cosa essa fosse. Si è esaminata la relazione fra famiglie potenti e stato sotto i Carolingi; il modo in cui l'ideologia dei singoli governanti d'Italia poteva modificare titoli e nomi dei proprietari terrieri d'Italia; la tendenza ad urbanizzarsi delle classi superiori e le architetture che li ospitavano; il possesso da parte di famiglie aristocratiche di aziende costituite, per lo più, di gruppi di proprietà piccole e disperse. L'elemento comune fu sempre la proprietà fondiaria. La terra, in misura quasi esclusiva (tralasciando i mercanti occasionali e meno occasionali) dava benessere e quindi status e potere. Questo è l'elemento di maggior peso nell'identità delle classi superiori. I modi in cui la terra e i suoi coltivatori venivano sfruttati potevano cambiare, come anche il modo in cui il possesso di terreni si tramutava, come si vedrà, in potere politico; ma continuava ad essere il primo passo verso la nobiltà. Paolo Diacono succintamente ne fece il punto in una poesia degli anni dopo il 780, una supplica a Carlomagno a favore di suo fratello Arichi, ostaggio in Francia: nobilitas periit miseris, accessit aegestas, o, assai meno succintamente: « la nobiltà non si cura dei poveri; al suo posto è subentrata l'indigenza ». I Longobardi e i loro successori attribuivano scarsa importanza 22
M. Bloch, La società feudale (Torino 19774); Rotari 177; J. Boisservain, Patronage in Sicily, «Man», New Ser., u. s. I (1966), pp. 18-33.
ad una 'nobiltà di sangue', lo status di nobile non persisteva se disgiunto dal possesso di terre; l'uso da parte di Paolo del termine nobilitas è davvero molto vago, e 'eminenza', o 'notabilità', sarebbero vocaboli più adatti23. La mobilità sociale era del tutto possibile in Italia per i fortunati come per i meno fortunati: anche per i Carolingi. I discendenti in linea maschile di re Bernardo, nel x secolo si stabilirono in Italia come mediocri conti di Parma e Sospiro (nonché distinti conti di Vermandois in Francia). Le famiglie si adattarono abbastanza facilmente ai cambiamenti economici. La terra non era l'unico criterio per l'affermazione dell'arıstocrazia. Altre due erano le variabili di rilievo: i reciproci atteggiamenti degli aristocratici e l'intervento dello stato, la protezione regia. Per essere aristocratico bisognava essere riconosciuto tale dagli altri; la corsa allo status, fra le classi alte delle città nel periodo tardo romano ed alto medievale è evidente negli edifici che in esse furono costruite, come si è già visto. L'attrazione era forte anche per quelli, come i vescovi e gli abati, che erano, almeno in teoria, estranei a tutte le gerarchie laiche. Tuttavia il patrocinio reale era la chiave della affermazione politica. Sebbene le gerarchie fossero basate sul possesso di terreni, in ogni gerarchia i livelli erano dati dagli incarichi pubblici, senatori o prefetti sotto l'Impero, tribuni o duchi sotto i Bizantini, duchi, conti, o marchesi nel regno longobardo-carolingio. Tutta l'organizzazione della nobiltà era determinata dalla ideologia e dall’orientamento dello stato. I re erano in grado di dare ai proprietari terrieri status e potere così ampi, per lo più attraverso le cariche pubbliche, che nessuno poteva sottrarsi al patrocinio reale con facilità, né poteva misconoscere il potere che da ciò i re ottenevano. La tensione fra proprietà terriera ed interessi dello stato, fra potere privato e pubblico, favorì ampiamente lo stato. All'inizio del IX secolo l'equilibrio a Benevento cominciò a mutare, e all'inizio del X secolo anche nel regno d'Italia, fino a che verso la fine del X secolo, il sistema era totalmente cambiato e lo stato stesso aveva pressoché cessato di esistere nella sua vecchia forma. Nell'ultimo capitolo di questo libro esamineremo come ciò avvenne, mentre qui consideriamo le precondizioni del fenomeno: il mutare dei caratteri delle classi più elevate. Certamente i Longobardi possedevano una qualche gerarchia sociale quando giunsero in Italia. Ne osserviamo la cristallizzazione durante i primi decenni di occupazione, con lo stabilirsi dei duchi longobardi nelle città, ed il loro enorme potere nel periodo dell'interregno. Alcuni di questi duchi discendevano da celebri casate. Rotari, in apertura dell'Editto, elencò tutti i suoi sedici predecessori come re dei Longobardi. Non tutti questi re erano imparentati fra loro, così, per i re di ogni nuova genus (famiglia o clan, molto probabilmente fara), egli dava il nome della stirpe—Audoino, ex genere Gausus, o Arioaldo, ex genere Caupus, o il genas di Rotari stesso, gli Harodo; qui egli aggiunse l'elenco di undici suoi antenati per linea maschile. Tali personaggi erano, in un certo senso, nobili per nascita; ma anche così i raggruppamenti non detenevano quel solido potere che, ad esempio, era in mano alle sei nobili stirpi citate nel codice legale bavarese dell'VIII secolo, stirpi preminenti, la cui importanza è indiscussa nella storia bavarese. Mai i nomi ricorrono fra i Longobardi, né compaiono alla ribalta altri cognomi fino alla situazione ben diversa che si verifica nell'XI secolo. Le stesse leggi non menzionano affatto una aristocrazia, ma solo guerrieri liberi, chiamati indifferentemente liberi homines, exercitales e arimanni. Essi erano la base formale e pubblica dello stato longobardo. Nelle leggi l'unica testimonianza di un qualche tipo di gerarchia è data dal fatto che per la composizione della vertenza per l'omicidio di un uomo libero non viene stabilita l'entità dell'indennizzo; deve essere pagato in angargathungi, termine longobardo glossato in latino come 'secondo la qualità della persona', e affine al gethynge anglosassone, 'onore'. Si tratta di un criterio specifico di status, ma è estremamente vago. Non ci è possibile dare un quadro coerente delle gerarchie longobarde dei secoli VI e VII. Tutto ciò che si può dire è che le differenze di status probabilmente davano luogo a suddivisioni differenziate dei terreni e del bottino all'epoca dell'invasione. Duchi, gastaldi e i proprietari terrieri più ricchi senza dubbio erano per la maggior parte le persone più importanti fra i Longobardi nel periodo antecedente il 568. I1 significato reale 23
MGH Poetae, I p. 48; cfr. D.A. Bullough, Europae Pater, >, LXXXV (1970) p. 76.
dei termini di 'qualità' o 'onore' in Rotari era probabilmente' comunque, collegato all’estensione della proprietà terriera posseduta da un singolo individuo. Ciò diventò esplicito nell'VIII secolo, in quanto nel 750 Astolfo suddivise i potenziali coscritti esclusivamente in base alla proprietà: quelli che avevano otto o più concessionari, quelli che ne avevano sette, quelli che non ne avevano ma possedevano quaranta iugis (dieci ettari) di terra, e i minores homines che ne avevano ancora meno. Anche i Longobardi utilizzano titoli, presi in prestito dai Romani, quali vir devotus e vir magnificus, ma è difficile dimostrare che essi volessero dire qualcosa di più preciso che 'soldato' e 'uomo importante' rispettivamente. La precisione dei titoli che aveva accompagnato la complessità dello stato tardo-romano e le sue varie gerarchie aristocratiche era a questo punto scomparsa24. All'inizio della documentazione a noi disponibile, nell'VIII secolo, le persone importanti sono chiaramente tutte proprietari terrieri. Ne abbiamo già menzionati alcuni, quali Taldo di Bergamo (vivente nel 774) e Gisolfo di Lodi (morto attorno al 759). Taido era un gasindo reale e Gisolfo uno strator (sua figlia Natalia fu dapprima moglie di un altro gasindius, Alchi vir magnificus, e successivamente moglie di Adelperto anteper regine; un suo parente, Arichi, era stato gastaldo di Bergamo). Ambedue avevano posizioni importanti a corte. Gisolfo, per lo meno, era un funzionario del re—i gasindii avevano un ruolo meno importante quali dipendenti del re, come si vedrà. La loro posizione divenne parte del loro titolo, e di certo contribuì allo status personale. Arichi di Bergamo non era più gastaldo quando venne citato in un atto del 769, ma il testo fa ancora riferimento al suo incarico precedente. La carica contemplava il possesso di terreni; quantunque teoricamente questi terreni passassero a chi succedeva nella carica, in pratica i funzionari potevano appropriarsi di parte di essi o darne parte ai dipendenti, come lamentava Liutprando. Funzionari senza scrupoli potevano anche trarre guadagni dalla 'vendita della giustizia', come appare dalle leggi di Rachi25. E, infine, i funzionari erano i più comuni destinatari del patrocinio reale sotto forma di donazioni di terreni. La carica forniva dunque dei vantaggi, anche se non era di per sé indizio di appartenenza all'aristocrazia. Non si può dubitare di trovarsi di fronte ai massimi livelli dell'aristocrazia longobarda quando leggiamo questi atti: i registri con le loro testimonianze risuonano di gasindii e viri magnifici. Ma la base economica principale non era tanto costituita dalle cariche quanto dalle proprietà terriere familiari. I1 testamento di Taido chiarisce questo aspetto. Come dipendente reale, aveva un legame particolarmente stretto col re, ma il suo testamento trattava quasi esclusivamente di terreni avuti in eredità da suo padre. Non vi è in esso neanche un solo riferimento a terre acquisite in qualsiasi altra maniera, e in particolare a nulla ricevuto dal re. Ciò è forse un po' eccezionale, e, in numerosi atti e leggi si trovano riferimenti a donazioni di terre reali a laici. Queste donazioni, di certo, molto spesso venivano fatte a funzionari e gasindii, come le donazioni di Astolfo a Desiderio quando era duca di Brescia26, comunque generalmente esse avvenivano in favore di persone che già possedevano terreni. La proprietà terriera non solo era l'elemento principale di accesso alla posizione di funzionario, ma anche all'attenzione del re. Ovviamente i re potevano donare terre ai loro favoriti, a prescindere dal precedente status di costoro, e alcuni dei funzionari di Pavia avevano probabilmente retaggi oscuri. Molto raramente si hanno testimonianze di re che abbiano elargito terre, tuttavia un'eccezione è costituita da Gregorio Greco, giullare di Liutprando, che ricevette in dono dal re della terra vicino a Bologna. I professionisti della corte del re, come i referendarii e i notai, funzionari che qualche volta forse avevano umili origini, non stesero atti che ci siano pervenuti. L'unico per cui abbiamo documentazione, Gaidoaldo, dottore di Liutprando e Astolfo, aveva vaste
24
Rotari, Prologo e 48, 74; Lex Baiwariorum, 3. 1 (MGH Leges, v, 2); Astolfo 2. Schiaparelli, 293 per Taldo (e forse Porro, 80 per le parentele); Schiaparelli, 137, 155 e 226 per Gisolfo; Liutprando 59 e Notitia 5, Rachi 10. Cfr. Ie opere di G. Tabacco elencate nella bibliografia, sezione B4, in particolare La connessione tra potere e possesso..., pp. 146-64, 207-28. 26 Rotari 167; Bruhl, 31; Schiaparelli, 28 per un probabile non-funzionario 25
terre di famiglia, ed era di fatto uno dei maggiori proprietari terrieri della Toscana longobarda27, Fu questa posizione, piuttosto che la sua abilità di medico, che inizialmente lo alzò al rango di aristocratico. L'affermazione di Paolo della nobiltà come opposto della povertà fu scritta proprio in queste decadi. I1 patrocinio reale favorì dunque principalmente chi già era proprietario terriero. Inoltre le donazioni del re non erano particolarmente generose, e raramente eguagliavano la proprietà che un uomo già aveva. Grimoaldo, come tramanda Paolo Diacono, fece notevoli donazioni all'esercito di Benevento, che nel 662 lo aveva aiutato a prendere il trono; ad alcuni che rimasero presso di lui diede enormi possedimenti. Ciò può essersi reso necessario per dare basi materiali a quelli che avevano terre molto lontano, ed è l'ultimo esempio di donazioni liberali di re che si conosca in Italia fino all'inizio del secolo X28. I re successivi fecero notevoli donazioni alle chiese, ma anche allora, non dell'entità di quelle dei re franchi, e sembra che i laici venissero soddisfatti con alcune case coloniche, un bosco, una striscia di terra incolta, occasionalmente con un'intera azienda, e certo le gratifiche inerenti le funzioni pubbliche. Forse per questa ragione gli aristocratici longobardi non ci colpiscono per la loro ricchezza. Otto case coloniche costituivano per Astolfo il criterio dell'importanza politica. Taido e Gisolfo possedevano ben di più, nulla comunque di paragonabile alle proprietà tipiche di un senatore romano o a quelle che avrebbe avuto, nel secolo successivo, un aristocratico imperiale franco. Le terre di questi però erano sparse quanto quelle dei Supponidi. La proprietà terriera di Taldo era formata da otto tenute e circa dieci case coloniche in quattro diverse zone, in comproprietà con i suoi due fratelli. Difficilmente si può considerarle come ricchezza personale, ed ogni porzione era già divisa in tre: la frammentazione sarebbe stata più grande e l'entità della proprietà anche minore nella generazione successiva. Le sostanze e la ricchezza dei re offuscavano completamente una simile proprietà terriera. Quantunque la posizione e la vicinanza al re non portassero grandi benefici materiali, almeno davano maggior potere politico. In questo consistevano, soprattutto, le regalie dei re longobardi ai propri aristocratici ed era meno costoso dei terreni. Da tale stato di cose si evince come i re longobardi patrocinassero i loro aristocratici, esso mostra tuttavia anche che i re che non creavano nuove nobiltà con donazioni, inevitabilmente dovevano avvalersi della nobiltà preesistente. Forse il legame fra proprietari terrieri e re non era particolarmente solido, ma non si spezzò. Senza dubbio ciò avvenne per la ricchezza ed il potere dello stato e per la relativa mancanza di centri di potere che gli si opponessero. Un ulteriore rafforzamento veniva dal senso che i re, e in parte le classi più alte, avevano della natura pubblica del regno, eredità romana lasciata allo stato longobardo: la funzione pubblica dava potere e status di per sé, indipendentemente dalle sostanze private che un funzionario già aveva e che poteva illegalmente ottenere. Un simile concetto della cosa pubblica è sempre presente in tutta la legislazione longobarda. Nondimeno lo stato era basato su fondamenta meno sicure rispetto a quelle del tardo Impero. Non poteva più, anche se ne fosse stato capace, basarsi su servizi disinteressati. Erano ormai necessari legami più personali. Le gerarchie pubbliche basate sullo status e sulla proprietà terriera erano rafforzate dalla nobiltà e dai legami personali fra gente di posizione sociale diversa. Questi legami esistevano già all'epoca di Rotari, nell'VIII secolo furono ampliati. I gasindii reali appaiono nelle leggi e negli atti in nostro possesso: compagni o dipendenti dei re, legati al re da fidelitas, obbligati a fedeltà da giuramento. Liutprando ne fa menzione nella sessantaduesima legge, del 724, quando aggiornò la legge di Rotari sulla compensazione per l'assassinio e definl la 'qualità della persona' in modo più preciso. I1 'più piccolo' exercitalis valeva 150 solidi, il 'primo, 300 solidi. Ma in merito ai gasindii se ne deduce che se veniva ucciso anche il più infimo appartenente a tale casta, la sua morte doveva venir compensata con 200 solidi, « dato che è ovvio che è a nostro servizio », e la cifra arrivava ai 300 solidi per il più importante. I1 legame personale 27
28
Gregorio, Dipl. Kar., I, 183. Galdoaldo: Paolo, H.L., 5. 1.
Schiaparelli, 203, Brnhl, 26 (p. 156).
diretto fra gasindius e re aveva importanza per Liutprando e i suoi successori. La frode perpetrata dagli amministratori di Liutprando era considerata grave, ma gravissima quando perpetrata da uno dei suoi fideles: > 28. Senza dubbio la preminenza di proprietari ecclesiastici è dovuta solo alla natura degli archivi; gli aristocratici romani e della Campania devono aver fatto la stessa cosa all'interno dei loro territori. Così devono aver fatto anche gli abitanti di quelle zone (che devono esser state la maggior parte) ove le singole famiglie non possedevano estensioni cospicue, in quanto talora sembra che gruppi di contadini fossero gli unici proprietari entro i castelli. Con la metà dell'XI secolo, quasi tutta l'Italia a sud della Toscana sembra sia stata dominata da questi castelli (sebbene la data e il completamento dell'incastellamento di certo variasse da luogo a luogo, e in certe zone esso non si sia mai verificato). La spinta all'incastellamento fu tradizionalmente pensata come effetto del pericolo d'invasioni arabe, ma tale processo non cominciò prima della sconfitta degli Arabi al Garigliano nel 915. I1 contesto socio-politico fu certamente la crescita di immunità e la devoluzione dei poteri pubblici che segnavano il declino dello stato. Pandolfo I legittimò la costruzione dei castelli di S. Vincenzo, forse un po' dopo, nel 967; nel 962 Ottone I aveva già concesso al monastero completa giurisdizione sui suoi affittuari29. A Roma gran parte della spinta a tale localizzazione e alla politica da poco instaurata della costruzione di castelli fu ad opera di Alberico figlio di Marozia, che governò Roma come capo laico dello stato negli anni 932-54 in qualità di 'senatore di tutti i Romani' e patrizio, e, dal 936, come principe, sul modello dell'Italia del sud. Alberico 28
Regesto Sublacense , a cura di L. Allodi, G. Levi (Roma, 1885), n. 200; pp. 322-3 per simili testi nel Lazio.
29
C. Vult., 124, 115.
C. Vult ., 109; cfr. Touberr,
tuttavia non intendeva esercitare un controllo sulla disintegrazione del territorio di Roma, come aveva fatto Pandolfo a Capua. Infatti in Campania pochi erano i poteri pubblici locali da esercitare, ed i conti al confine del territorio romano erano in paragone deboli. Comunque ad Alberico non interessava particolarmente la natura pubblica del potere locale; Roma e la sua nobiltà avrebbero controllato la campagna, in forma pubblica o privata. Alberico si accertò che conti e monasteri fossero soggetti ai suoi seguaci (che comprendevano parecchi abati riformatori, anche Odone di Cluny, oltre a famiglie nobili importanti) riconoscendo implicitamente che essi stavano per assumere il controllo delle loro proprietà nel miglior modo possibile: costruendo castelli. Non avevano esplicitamente il diritto di esercitare privatamente la giustizia. I signori si procuravano tali poteri in modo più graduale, e giunsero a fruirne solo all'inizio dell'XI secolo. Ciò fornisce un contesto alla crescita di castelli nell'entroterra di Roma; non spiega tuttavia l'incastellamento, lo spostamento da zone limitrofe d'intere popolazioni entro le nuove fortificazioni. Una risposta sta nel fatto che i testi relativi all'incastellamento disponibili molto spesso sono associati al dissodamento. I terreni incolti del territorio che Farfa dominava vennero dissodati dall'VIII secolo in poi, ed i castelli erano associati ad una riorganizzazione definitiva della proprietà terriera ed anche, apparentemente, delle forme dei campi, maggiormente collegata al completamento di tale dissodamento. I1 monastero di S. Vincenzo e Montecassino, più all'interno verso le montagne, avevano ancora intere zone non dissodate, e parte dei documenti relativi all'incastellamento del monastero di S. Vincenzo non prevedono affitti per i primi tre o quattro anni, per dare una possibilità agli affittuari di aumentare i propri raccolti30. Questa teoria si adatta a gran parte degli Appennini del sud, e tien conto del fatto che l'incastellamento fu molto meno massiccio nelle pianure, che erano già state dissodate, e ove la proprietà terriera era molto più frammentata. Non soddisfa del tutto come spiegazione, dato che non si può pensare che ogni fondatore di castello sia stato impegnato in opere di dissodamento o nella riorganizzazione fondiaria quasi imprenditoriale visibile a Farfa e Subiaco, e non spiega perché le nuove fondazioni dovessero essere necessariamente collegate ad insediamenti compatti, ma è quanto di meglio si può fare attualmente. Risolvere definitivamente questo problema è al momento impossibile; si dovranno studiare in dettaglio più zone prima di poterlo sviscerare. Lo stabilirsi di gruppi di famiglie in proprio, circondate da mura, non sempre rappresentava un chiaro aumento del controllo che i signori esercitavano su di loro. I canoni erano fissi per contratto, e spesso bassi, specie negli alti Appennini ove i monasteri avevano interesse ad attirare colonizzatori, che talora venivano da zone molto distanti ed erano anche uomini con un certo status. I1 canone annuo di un modius di grano, uno di orzo, e due di vino per casa, più un maiale per ogni undici o venti famiglie, ad esempio,- era pressoché normale. per gli affittuari del monastero di S. Vincenzo31. Questi contratti d'affitto, e ogni altra norma dei castelli, presto divennero usanza. Sembra stato difficile cambiare tutto ciò, e non è facile trovare signori che abbiano tentato di farlo. Al contrario, gli abitanti di questi castelli raramente tentarono di aumentare i loro diritti e di ottenere autonomia; i loro signori 30
Per es. C. Vult., 92, 167.
31
Per es. C. Vult., 109, 110, 164.
erano troppo influenti. Ne risultò la situazione opposta: i piccoli nobili, talora forse essi stessi i più fortunati abitanti del castello, cominciarono ad essere i signori dei singoli castelli, spesso proprio vivendovi all'interno, titolari nominali di affitti da parte dei loro signori ecclesiastici. In questi casi gli abitanti comuni dei castelli certamente persero parte della propria indipendenza sociale anche quando i tributi economici non diventarono più pesanti. I soli abitanti di villaggio nel sud che ottenevano libertà collettive frequentemente erano sudditi del Catepanato Bizantino, il più potente e meno privatizzato di tutti gli stati del sud. Si possono ancora aggiungere alcuni dei castelli di Montecassino, la cui militarizzazione eccezionale fu forse la base per rivendicazioni di autonomia più frequenti, e con miglior esito che altrove. Ma in tutto il sud, il villaggio fortificato portò con sé stabilità di occupazione e del diritto di possesso, e status libero; vantaggi non piccoli, in un momento in cui la proprietà terriera era tanto solida in montagna e in collina ove tali villaggi predominavano. Solo al nord, ove la proprietà fondiaria era più frammentata, i contadini talora potevano ottenere di più, raggiungendo l'apice in alcuni posti, alla fine dell'XI secolo, all'inizio del comune rurale.
Capitolo settimo LA DISGREGAZIONE DELLO STATO
Mutamenti politici ed istituzionali nell'Italia del Nord 875-1024 Lodovico II (844-75) fu un sovrano potente che poteva agire a piacimento all'interno del proprio regno e distruggere ogni oppositore. Gli imperatori germanici che governarono in Italia dopo il 962, come Ottone I o Enrico II, erano altrettanto potenti; i loro oppositori, pur più forti di quelli di Lodovico, non durarono di più. Ottone o Enrico certamente ebbero poco potere per controllare quanto succedeva in Italia a livello locale, se non per mezzo di procedimenti giudiziari su vasta scala, ma chi attribuisse a Lodovico un potere ben più diretto sarebbe uno studioso assai ottimista. Tutti i re medievali dovevano agire entro schemi stabiliti dagli atteggiamenti di chi li serviva, persone alle quali il potere reale veniva delegato. Fra 1'875 e il 962, tuttavia, questi schemi cambiarono radicalmente. Lodovico aveva governato per mezzo d'un complesso insieme di istituzioni—la burocrazia dello stato, missi, conti e vescovi nelle città—che strutturavano la loro attività politica attorno al re, e tendevano ad equilibrarsi reciprocamente a vantaggio del re. Con la fine del X secolo, esser conte non era molto diverso da essere un qualsiasi proprietario terriero; la burocrazia dello stato si stava dissolvendo; gli interessi dell'aristocrazia ecclesiastica e laica erano diretti verso le proprie basi di potere, e certo non a favore dello stato. Gli Ottoniani potevano destituire vescovi e anche papi, innalzare nuove nobili famiglie in modo tradizionale, ma il fondamento del loro potere era germanico e non italico. Come re d'Italia erano pressoché privi ti potere tiretto d'ogni tipo. Nel 1024, gli abitanti ti Pavia insorsero e diedero alle fiamme il palazzo reale ivi situato; topo di ciò l'Italia, come stato, quasi non esisteva. Va tuttavia sottolineato che questi cambiamenti non rappresentavano il trionfo dello sfacelo sull'organizzazione, dell'anarchia sull'ordine. Furono cambiamenti nella sete del potere, piuttosto che nel potere stesso1. Le forze locali acquistarono indipendenza; piccoli nobili, villaggi e città guadagnarono autonomie di tipo diverso; il governo centrale fu sostituito da una serie di piccoli poteri. Come e perché ciò successe è uno dei problemi più interessanti e complessi della storia dell'Italia medievale. Ciò verrà trattato da due punti di vista: il primo, le ampie linee dello sviluppo politico e del cambiamento istituzionale; il secondo, le mutue relazioni fra questi e le strutture in mutamento nei contesti locali. Scindere i due è in un certo senso improprio, ma è l'unico modo di trattare questi cambiamenti in un modo relativamente coerente. Nell'875 Lodovico II morì. Gli successero vari Carolingi per lo più assenti dal regno italico. Quando l'ultimo di questi, Carlo il Grosso, fu rovesciato nell'887, i marchesi di Spoleto e Friuli combatterono una serie di disordinate guerre civili che si protrassero quasi per due decadi, rese più difficili da pretendenti esterni della Provenza e della Germania, fino al 905. I1 periodo 875-905 ha una certa omogeneità. E’ più utile considerarlo come teatro di un'antitesi continua fra due fazioni dell'aristocrazia italiana laica ed ecclesiastica; una parte favorevole ai re con collegamenti coi Franchi o coi Burgundi, l'altra favorevole ai Germani. Lodovico II non lasciò eredi. Gli unici pretendenti erano i suoi zii, Carlo il Calvo e Lodovico il Germanico, che rispettivamente furono a capo dei territori oggi chiamati Francia e Germania. Fra quelli a favore di Carlo v'erano anche Ansperto, arcivescovo ti Milano, e i vescovi e conti dell'Italia di nord-ovest. I seguaci di Lodovico comprendevano Berengario del Friuli, la sua stirpe, i Supponidi, Wibod, vescovo di Parma (il più importante sede episcopale di Lodovico Il nei suoi ultimi anni), e i vescovi dell'Italia di nord-est. In questo caso il confronto era per lo più geografico. I membri più interessati in ambo le parti avevano 1 Come osserva G. Rossetti, Formazione e caratteri delle signorie di castello... (B3-d), p. 308. Per esposizioni di carattere generale relative al periodo 875-962: Hlawitschka (B3-c), pp. 67-94, Hartmann (Bl), III, 2, Mor (Bl), G. Fasoli (B3-d). La migliore analisi fino al 905: P. Delogu, Vescovi, conti e sovrani nella crisi del regno italico (B3-d).
forti legami personali oltralpe con la Francia-Burgundia e la Germania, rispettivamente. Tutti i re e i pretendenti del periodo fino al 905 possono essere collegati con l'una o l'altra fazione. Carlo il Calvo (875-7), Bosone di Provenza (pretendente nell'879), Guido di Spoleto (889-94), Lamberto (891-8) e Lodovico III di Provenza (900-5) avevano l'aiuto della fazione pro-franca; Carlomanno (877-9), Carlo il Grosso (879-87), Berengario I del Friuli (888-924), e Arnolfo (894-7), di quella pro-germanica. Con una tale pletora di sovrani in rapida successione, che morirono quasi tutti senza discendenza maschile, le possibilità di cambiare partito e di sfruttare le rivalità reali erano notevoli, e molti vi si dedicarono. Tuttavia il nucleo dell'appoggio di ogni fazione rimase considerevole, e geograficamente quasi costante, col Piemonte e la Lombardia a favore dei Franchi, Veneto e Friuli a favore dei Germanici, e l'Emilia che esitava incerta. Toscana e Spoleto per lo più rimasero estranee. Carlo il Calvo e Carlomanno fecero solo brevi visite in Italia. Carlo il Grosso rimase in Italia per quasi tutto il periodo 879-886, ma è difficile dimostrare che effettivamente egli abbia fatto qualcosa. I1 papa Giovanni VIII (873-82) lo attirò a Roma con l'offerta del titolo imperiale nell’881, ma non riuscì a persuaderlo ad imitare Lodovico II e a combattere contro gli Arabi. I1 titolo di imperatore, dato per la prima volta a Carlomagno nell'800 e portato dai sovrani in Italia quasi costantemente dall'817, fu un utile elemento di prestigio nelle lotte per avere l'appoggio al potere in questi anni: Guido nell'891 e Arnolfo nell'894 ricavarono da ciò particolari benefici. Carlo il Grosso ne aveva bisogno principalmente come elemento aggiuntivo al suo potere europeo; dopo 1'884 tutti i Carolingi adulti di diretta discendenza maschile erano morti e Carlo fu l'erede di tutti i regni di Carlomagno. Egli fece abbastanza poco ovunque in Europa, ma la sua inattività in Italia è un fatto curioso trattandosi del paese ove trascorse effettivamente quasi tutto il suo periodo di regno. Al contrario, la politica italiana degli anni attorno all'885 fu dominata da lotte fra Berengario del Friuli, il massimo fautore laico di Carlo, e Liutvardo vescovo di Vercelli, suo arcicappellano e arciministro, che cadde nell'886. Non deve davvero sorprendere che quando Carlo venne rovesciato i potenti italiani eleggessero re Berengario, particolarmente in quanto Berengario era egli stesso un carolingio per linea femminile. Il periodo dopo 1'887 è una continuazione di quello degli anni 875-87, quantunque vi fossero più candidati fra cui scegliere dopo che i Carolingi avevano cessato di essere l'unica famiglia reale avente diritto alla successione, e quindi vi furono più guerre. Berengario era appoggiato principalmente dalla fazione germanica; la fazione franca, guidata da Anselmo arcivescovo di Milano, sarebbe stata invece pronta a scegliere Guido (III) di Spoleto. Guido aveva notevoli ambizioni; i Guideschi marchesi di Spoleto, sebbene pronti a difendere la loro autonomia (Guido si era ribellato contro Carlo il Grosso nell'883), appartenevano ad una delle massime famiglie della nobiltà imperiale, e sembra che Guido nell'887 abbia avuto per breve tempo idea di ottenere il regno di Francia e Lorena. Ritornando in Italia con i suoi seguaci francoburgundi, in antitesi a Berengario nell'889 fu eletto re, lo sconfisse e lo relegò in quella che doveva rimanere la solida base di Berengario in tutte le difficoltà che sarebbero seguite, il nord-est. Nell'891 Guido assunse il titolo d'imperatore, primo fra i non-Carolingi, ed emanò capitolari, per la prima volta ovunque in Europa per un decennio. Guido intendeva chiaramente governare nella maniera carolingia, come fece suo figlio Lamberto, che legiferò nell'898. Questa intenzione gli guadagnò il sostegno persino di vecchi valorosi pro-germani come Wibad di Parma. Tuttavia, a prescindere dall'attività legislativa, sembra che Guido non abbia fatto molto; ne fu impedito dalla prima invasione germanica di Arnolfo nell'894, e dalla morte improvvisa nello stesso anno. Nominalmente Arnolfo scese in Italia in seguito alla richiesta di Berengario e del papa Formoso (891-6), ma intendeva governare l'Italia direttamente, come imperatore. I1 prestigio imperiale attirò verso di lui i fautori di ambo le fazioni durante le sue due invasioni, 894 e 895-6, ma nell'896 ebbe un collasso e si ritirò, lasciando i suoi seguaci alla mercede di Berengario e Lamberto.
Lamberto morì nell'898, lasciando Berengario unico re. Nell'899 tuttavia, comparvero in Italia dell'est i cavalieri ungari nella prima di una serie di invasioni che sarebbero durate fino a circa il 9502. L'esercito di Berengario fu da loro annientato. Berengario, infatti, in quarant'anni di campagne militari, in base a quanto risulta dai cronisti, non vinse una sola battaglia. Le scorrerie degli Ungari nella pianura Padana cominciarono ad essere rivaleggiate, circa alla stessa epoca, dagli attacchi arabi in Piemonte dai loro baluardi di Provenza. Nel 900 i potenti del nord-ovest, guidati ora dagli Anscaridi, marchesi d'Ivrea, famiglia burgunda insediata da Guido, si ribellarono ed elessero re Lodovico di Provenza. Lodovico andò a Roma e fu incoronato imperatore, ma gli alleati vennero meno e se ne andò nel 902. Quando nel 905 ritornò, Berengario lo catturò e lo fece accecare, quindi fino al 922 Berengario governò senza opposizioni. Nel 915 si fece incoronare anche imperatore, ma seguì con riluttanza gli aspetti più grandiosi dell'ideologia carolingia. I suoi interessi erano saldamente limitati dai confini dell'Italia, e dalle scelte del potere diretto entro tali confini. Con Lamberto la tradizione di stendere capitolari sparì. Tutti questi re ed i loro successori o non erano italiani o erano governanti di marche italiane. Ciò aveva portato alcuni storici a concludere che lo stato italiano era già tanto debole che solo uomini dotati di una base di potere esterno avevano la forza di governarlo. E' di certo vero che i marchesi fossero i più forti aristocratici italiani; ma la preferenza accordata a re forestieri fu inizialmente solo il prodotto del legittimismo carolingio (dopo 1'875, tutti i Carolingi erano stranieri), e dopo 1'898 fu il risultato del desiderio delle popolazioni italiche avere stranieri neutrali che non potessero creare rivalità interne, così come Berengario di Friuli aveva fatto con Guido di Spoleto. Solo dopo il 940 gli indigeni furono troppo deboli per governare l'Italia, e da allora si verificarono notevoli cambiamenti. Non sembra che le classi superiori italiane abbiano preferito gli stranieri in quanto tali; semplicemente riconoscevano i vantaggi che potevano trarne. Sebbene tutti questi re stranieri fossero franchi per discendenza, risultarono decisamente stranieri. Dopo 1'887 i Franchi in Italia cominciarono a considerarsi italiani più che Franchi. Pertanto i fautori di Berengario affermarono (in modo specioso) che egli era un uomo del luogo, diversamente da Guido con il suo esercito burgundo. In modo simile, uno di questi Burgundi, Berengario II, attorno al 940 avrebbe avuto fautori che lo additavano come rappresentativo degli interessi italiani contro i protetti provenzali di Ugo di Arles. I1 concetto della coerenza del regno italiano rimaneva forte. Fu abbastanza forte perché Guido di Spoleto reputasse valido lottare per esso dopo che le sue più ampie ambizioni erano fallite, malgrado l'atavica diversità fra la politica di Spoleto e quella del Nord Italia, prima e dopo la breve impresa di Guido. Da notare, l'unico aristocratico italiano che rimase lontano dalle lotte di potere nel nord fu l'unico marchese che non tentò di assumere il trono, Adalberto II di Toscana (886-915), che continuamente cambiò fazione fra 1'887 e 905, e talora (come negli anni 887-9) non riconobbe nessuno come re. Altri notabili, laici e specialmente ecclesiastici, sembra volessero un unico re d'Italia ed uno stato stabile e solido. Non avevano tutti la stessa idea su chi dovesse governare e la cambiavano spesso. Di certo le guerre civili dimostrano che valeva ancora la pena combattere per avere il regno, ma come era successo dopo l'840 per Benevento, le lacerazioni della guerra civile resero tali regni ancora più fragili, Nel primo periodo dello stato carolingio uno dei primi elementi ad indebolirsi fu la burocrazia. I1 gruppo personale di amministratori professionisti che guidava lo stato a metà del IX secolo cessò di esistere. Al contrario i più importanti rappresentanti del re erano potenti che godevano della sua fiducia, Bosone di Provenza sotto Carlo il Calvo, Liutvardo di Vercelli sotto Carlo il Grosso, Ardingo vescovo di Brescia sotto Berengario. Questi furono, non deve sorprendere, rappresentanti principali dei due avversi gruppi politici. Gli amministratori dell'apparato di Pavia all'inizio furono meno coinvolti, ma nel 927 avrebbero assunto un ruolo politico rilevante quando 2
Cfr. G. Fasoli, Le incursioni ungare in Europa nel sec. x (Firenze, 1945).
alcuni di loro tentarono senza successo un colpo di mano contro il nuovo re, Ugo3. Sempre più i circoli governativi italiani si trovavano divisi. I re non potevano fare affidamento su di una base sicura d'appoggio incondizionato, pur controllando la maggior parte dell'Italia. Dovettero fare concessioni. Guido e Lamberto, malgrado il prograrnma espresso nei loro capitolari contro saccheggi da parte dei potenti, come aveva fatto Lodovico II, non erano in posizione tanto forte da rendere operanti le proprie leggi. Anche i loro seguaci più fedeli erano tentati di tradirli a favore di Berengario di Friuli, quando i re prendevano provvedimenti troppo severi contro le loro illegalità. Quasi tutto ciò che si sa delle attività concrete dei re dell’epoca è dato dalle concessioni di terra e di diritti legali fatte ai loro sostenitori laici ed ecclesiastici. Esse raggiunsero il culmine negli anni 90222, anni di incondizionato dominio di Berengario I. Berengario visse il passaggio fra potere ed impotenza. Prima del 902 un re fortunato avrebbe potuto ristabilire lo stato centralizzato di Lodovico II. Dal 902 in poi, in qualche centinaio di diplomi che sono stati conservati, Berengario alienò terra fiscale, fortificazioni, diritti sulle mura di città, potere giuridico, dazi, ed altre immunità, come ricompense dirette, su scala più vasta di ogni altro re italiano della storia. Si è affermato in modo del tutto credibile che le istituzioni pubbliche dello stato sotto Berengario fossero così deboli che nessun re futuro sarebbe stato in grado di ristabilirle. Perché Berengario lo abbia consentito costituisce la base per capire gli sviluppi di quegli anni4. I1 contesto immediato era la minaccia degli Ungari. Negli atti con i quali Berengario consentiva la costruzione di castelli spesso erano presenti frasi sul pericolo ungaro. I1 castello di Sperongia fu dato al monastero di Tolla nel 903 «dato che era stato fondato per l'uso del monastero contro la persecuzione dei pagani e di altri saccheggiatori ». Nel 912 S. Maria Teodota a Pavia ottenne il permesso di costruire castelli ovunque nelle sue proprietà « per far fronte alla persecuzione e all'invasione da parte dei pagani »5. Gli Ungari se n'erano andati nel. 900, ma erano ritornati nel 904 e poi nel 921-4. Berengario sapeva di non poter radunare un esercito contro di loro e ancor meno difendere l'intera popolazione dalle loro scorrerie frequenti ed imprevedibili. In realtà, la sua fama militare era così modesta che ogni invasione ungara provocava una rivolta contro di lui. Si è visto nel capitolo quinto che sotto i Carolingi il servizio pubblico nell'esercito tendeva sempre più a definirsi per mezzo di clientele di aristocratici preposti a cariche, lentamente privatizzandosi. Queste clientele avevano guadagnato terreno durante le guerre civili, e sotto Berengario la concessione di diritti di fortificazione a persone private da un lato riconosceva uno sviluppo irreversibile, dall'altro lo cristallizzava. La difesa privata si sostituì agli obblighi pubblici dell'epoca carolingia. Berengario concesse al diacono Audeberto il diritto di costruire il castello di Nogara in territorio fiscale sulla pianura di Verona nel 906, con un'ampia concessione di dazi doganali, diritti sui mercati ed una completa immunità giudiziaria. Verso il 920` l'abbazia di Nonantola aveva acquistato metà del castello, e la si vede parte in un accordo con venticinque dei suoi abitanti che specifica i loro obblighi di difenderlo e di corrisponderle un basso affitto in denaro (1 denarius annuo per famiglia) in cambio di case, terreni, pascoli, ed il diritto di raccogliere legna in una vicina foresta « dato che non osiamo far legna per i nostri focolari in qualsiasi altro luogo, per paura dei pagani ». La difesa era ora oggetto di contratto privato fra proprietari ed affittuari. Quando a metà dell'XI secolo Nogara divenne il centro di un potere laico, gli obblighi di difesa si sarebbero ancor più limitati all'aristocrazia militare6. 3
4
Liutprando, Antap., 3. 39-41. Cfr., per il declino della burocrazia, Keller, Konigsterrschaft (B3-c), pp. 155-204.
Per le erasformazioni del tardo secolo X e per quella qui esposta: Rossetti, Formazione, cit., pp. 243-309; e Tabacco, La storia politica e sociale (B1), pp. 113-37, capolavoro di sintesi; cfr. anche idem, La dissoluzione medievale dello stato (B3-d), pp. 397-413 5 I dipiomi di Berengario I (di seguito: «D.B.I »), a cura di L. Schiaparelli (Roma, 1903), nn. 38, 84. 6 D.B.I 65, 88, 117 (= Manaresi, 125, 128); G. Tiraboschi, Codice Diplomatico Nonantolano (Modena, 1785), nn. 78, 85; cfr. Rossetti, Formazione, cit., pp. 270-86.
Castelli come Nogara hanno una rassomiglianza ovvia con quelli che si sono visti negli Appennini centrali e meridionali, con abitanti affittuari liberi che dovevano canoni fissi ed obblighi di difesa. Più diffuse al Nord, erano invece fortificazioni più piccole con pochi abitanti stabili, che servivano solo come luoghi di rifugio, e sempre più da centri amministrativi e giudiziari delle tenute private. La maggior parte dei villaggi non apparteneva ad un singolo proprietario e così un signore non poteva fondare molto facilmente un castello per occupazione permanente da parte di tutta la popolazione di un villaggio, come invece nel sud potevano fare molti signori7. L'incastellamento, processo di costruzione del castello, ebbe quindi effetto diverso sui caratteri insediativi nelle diverse zone del nord. Tuttavia, per la maggior parte, specialmente in pianura, i nuovi castelli erano soltanto un'aggiunta allo schema del villaggio concentrato o disperso di ogni zona. Raramente si sostituirono ai centri delle precedenti popolazioni; talora erano costituiti soltanto da nuove mura poste attorno a tali centri. I castelli continuarono ad essere costruiti nei secoli XI e XII, raramente con l'approvazione del re, divenendo un aspetto comune nella struttura sociale di ogni regione. Molto vari erano i legami di potere locale che essi istituirono e ridessero, come si vedrà nella parte successiva. Il punto chiave delle concessioni di Berengario era che non si poteva fare più affidamento sulle responsabilità pubbliche collettive degli abitanti del regno. Ciò spiega ampiamente l'indifferenza di questi verso le tradizioni ideologiche carolingie; non avevano più grande significato. Di fronte ad una minaccia militare reale ed imprevedibile, e all'impopolarità di Berengario tra l'aristocrazia, tutta l'egemonia di cui tradizionalmente godevano i re d'Italia andò in frantumi. Le più note concessioni di Berengario sono gli atti di incastellamento, con la loro dimostrazione di debolezza militare e le vaste immunità giudiziarie che nella campagna spezzarono la coerenza della giurisdizione comitale; inoltre egli alienò ampie parti del fisco, la cui entità era forse pari ad un terzo di tutti i benefici fiscali noti dell'intero periodo dal 700 al 1000, almeno in Lombardia e Piemonte8. Berengario, per la prima volta in Italia, ebbe la necessità di fare donazioni sistematiche onde ottenere e mantenere l'appoggio dei notabili del regno. E un aspetto di queste concessioni è particolarmente chiaro: gran parte di esse andava a favore della Chiesa, soprattutto a favore dei vescovi. Ciò è congruo all'usanza carolingia di equilibrare il potere di conti e vescovi, in quanto i conti controllavano le clientele militari sulle quali Berengario aveva perduto autorità. Tuttavia i vescovi non erano più deboli politicamente, con il loro seguito di affittuari e vassalli e i loro vasti territori. Le concessioni di Berengario e quelle dei suoi successori spostarono l'equilibrio in modo deciso e permanente a favore dei vescovi. Ciò era più facilmente riconoscibile nelle città. Si cominciavano a concedere ai vescovi entro le loro città pieni poteri comitali, limitando quelli dei conti alla campagna. Guido nell'891 concesse questi poteri al vescovo di Modena, e Lodovico III a quello di Reggio nel 900. Berengario aggiunse Bergamo e Cremona; ne seguirono molti altri. Dopo il 962, Ottone I e i suoi successori concessero poteri comitali ad alcuni vescovi anche in aree fino a cinque miglia attorno alla cinta muraria9. Verso la fine del secolo, i vescovi dominavano nella maggior parte delle città dell'Emilia e del Veneto, e in molte di quelle della Lombardia. Solo quelle del Piemonte e della Toscana rimasero prevalentemente laiche. I1 contesto di queste concessioni era spesso esplicito. Nel 904 al vescovo di Bergamo furono concesse le mura di Bergamo, ed il diritto di ricostruirle con l'aiuto dei cittadini e 7
Un'eccezione significativa si trova in D.B.I 76, dove ventinove proprietari di Novara o aree limitrofe si uniscono per costruire un castello sulle loro proprietà e per abitarvi insieme. 8
Dalmstadter (B3-b), pp. 5, 26-31. V. Fumagalli, Vescovi e conti nell'Emilia occidentale (B3-d); Rossetti, Formazione, cit., pp. 286-305; Keller, Gerichisort (B3-c), pp. 32ss. 9
dei rifugiati scappati agli Ungari, assieme ai pieni diritti comitali nella città; Bergamo aveva appena fatto fronte, con difficoltà, ad un assedio da parte degli Ungari. Berengario citava « la grande incursione dei selvaggi Ungari » quale motivo delle sue concessioni, ma anche, con pari peso « la notevole pressione del conte e dei suoi funzionari »10. D'allora in poi i re presero quasi sempre le parti dei vescovi nelle dispute fra conti e vescovi. I vescovi sembrava fossero meno partigiani politicamente, e quindi meno pericolosi, dei conti. In genere provenivano da famiglie nobili e comitali, ma le loro cariche non erano ereditarie, e a differenza dei conti non erano caratterizzati dalle loro responsabilità militari. Col procedere del secolo, tutta la struttura del potere comitale nell'Italia del nord era stata trasferita. Le città erano in mano ai vescovi. Anche in campagna l'autorità comitale fu scalzata dalle immunità, a favore dei territori della Chiesa, e sempre piu, dei castelli che si stavano trasformando in basi autonome di concentrazioni del tutto nuove di autorità e potere. Re quali Berengario, e dopo di lui Ugo, sembra abbiano trattato le grandi famiglie comitali come i loro principali nemici e si siano dati da fare in modo abbastanza consistente per scalzarne il potere. Gli effetti di questo trasferimento di autorità furono complessi e a lungo termine pericolosi per lo stato, man mano che la società diveniva sempre più localizzata. I re del X secolo certamente furono consci di tutto ciò, ma consideravano che valesse la pena tentare: tramite concessioni potevano ottenere la fedeltà dei nuovi poteri locali. Di certo Berengario e i suoi successori impedirono un particolare fenomeno: l'emorragia del pubblico potere nelle mani dell'aristocrazia laica, come avvenne in Francia e Benevento. E' vero che, con l'XI secolo, la carica di conte era ormai assimilata alla proprietà privata di famiglie comitali e spesso fu concessa in beneficio dai re. Tuttavia da quell'epoca i poteri ufficiali dei conti furono ben più deboli. Città e castelli erano i nodi indipendenti dell'autorità pubblica, quantunque nei castelli questa autorità venisse privatizzandosi nelle mani di proprietari laici. I1 potere nella campagna fu quindi troppo frammentato per offrire una alternativa al potere che il vescovo aveva nella città. Ai re, avendo questi dato tale potere ai vescovi, veniva spesso chiesto di confermarlo nei regni successivi; la loro autorità veniva ancora riconosciuta. Può darsi che Berengario non abbia potuto impedire il crollo dell'autorità dello stato, ma almeno poté, tramite le sue concessioni, decidere in quali mani dovesse passare la propria autorità, ed ottenere adeguati riconoscimenti dai suoi protetti. Sotto questo aspetto i vescovi erano senza dubbio più degni di fiducia dei conti. Come si è visto, le città erano i centri che più tutelavano la sopravvivenza dei legami pubblici della società libera. Per la maggior parte i vescovi non furono capaci di conservare una egemonia privata sulla società cittadina del nord, sotto l'aspetto socio economico ciò era troppo complesso, e lí le fonti del potere erano troppo forti. Essi non potevano far altro che assumersi ruoli di patrocinatore ed arbitro giudiziario, e sperare di sopravvivere senza che il loro potere venisse contestato. Ma ciò non era dovuto al governo episcopale. E' dubbio che una città sufficientemente fiorente (come lo erano quasi tutte le città del nord) avesse potuto diventare passivamente possesso privato di una famiglia laica come avveniva nel sud, anche se i conti avessero mantenuto il controllo sulle loro città. Nel 1014 i cittadini di Mantova ottennero da Enrico II un diploma che riconosceva i loro diritti pubblici e le loro proprietà dando loro l'immunità contro tutti i funzionari laici e i vescovi. Mantova non era una città che avesse mai ricevuto una immunità episcopale, ed i suoi conti erano membri della casa di Canossa, la famiglia più influente del regno, che usava la città come base. Tuttavia i suoi cittadini avevano mantenuto abbastanza senso di coerenza da opporsi ai Canossa ed ottenere questo diploma di immunità, ed anche erano sufficientemente coscienti della loro posizione pubblica da autodefinirsi arimanni11. Altrove la concessione di diritti ai vescovi aveva invece potuto 10
11
D.B.I 47.
MGH Dip. Heinrici II, n. 278, cir. Tabacco, Liberi del re (B4), pp. 167-82. Fu alquanto difficile per i Mantovani resistere a Bonifacio di Canossa, ma cfr. anche Dip. Heinrici, III, n. 356.
far sorgere il problema della separazione politica della campagna dalla città, in quanto la relegazione dei conti alla campagna e la frammentazione dell'autorità rurale crearono una forte aristocrazia rurale con diritti giudiziari per la prima volta in Italia. I 'conti rurali' che i comuni urbani del XII secolo dovettero conquistare, uno ad uno, avevano solo due secoli. Altre conseguenze di queste concessioni reali furono meno ambigue. I poteri ufficiali dei conti, quantunque esercitati in modo da non ispirare fiducia, erano almeno poteri pubblici concessi loro dai re, e per principio potevano essere revocati, o concedendoli via via ai vescovi, o spodestando la famiglia che li esercitava. Tuttavia una volta concessi ai vescovi, i poteri erano decisamente perduti. Talvolta i re potevano reclamare terre che avevano dato alla Chiesa, ma quando lo stato aveva ceduto la sua autorità su di un territorio tramite un diploma che dava immunità giudiziaria, esso non poteva più rientrarne in possesso. Una città comitale aveva ancora al suo interno il vescovo come contrappeso indipendente; nella città episcopale non vi era alcuna forza equilibrante. D'allora in poi lo stato era direttamente dipendente dalla benevolenza dei vescovi. I re che tentarono di sottrarsi a questa dipendenza, come fece il capo della 'reazione feudale', Arduino d'Ivrea (1002-15), caddero. E la relativa neutralità politica dei vescovi, tanto rassicurante per i re in difficoltà, non andava tutta a vantaggio di quest'ultimi. I vescovi erano funzionari appartenenti ad una gerarchia diversa; se lo stato cadeva, il loro incarico avrebbe mantenuto lo stesso status. I1 loro potere era diverso da quello delle grandi famiglie laiche del IX secolo quali i Supponidi, che avevano terre sparse in tutta la pianura Padana. Le proprietà episcopali raramente si estendevano oltre i confini della diocesi stessa, e non avevano bisogno della protezione di uno stato forte. Da allora, anche la proprietà laica, con qualche notevole eccezione, era limitata ad aree geografiche più piccole. I problemi politici divennero più localizzati. Man mano che ciò avveniva l'esistenza stessa dello stato divenne a poco a poco sempre più marginale. Le conseguenze politiche non tardarono a mostrarsi. Berengario aveva governato per oltre quindici anni senza opposizioni mentre si avviavano questi sviluppi. Il suo secondo successore, Ugo di Arles (926-47) si accorse che essi erano ormai irreversibili. La sua assunzione al trono segnò un nuovo passo nei cambiamenti politici italiani. Berengario nel 920 aveva introdotto mercenari ungari per rafforzare le proprie forze militari indebolite, ma ciò spinse i potenti del nord-ovest a sfidarlo, invitando Rodolfo II, re di Burgundia (922-6). Nel 923 Berengario fu sconfitto a Fiorenzuola e si ritirò a Verona; nel 924 gli Ungari incendiarono Pavia, e poco dopo, forse in conseguenza di ciò, Berengario fu assassinato. Tuttavia, nel 925, gli italici si ribellarono anche contro Rodolfo e lo sconfissero, offrendo la corona a Ugo conte di Provenza, che s'instaurò nel 926. I1 periodo che va dal 922 al 924 è l'ultimo in cui si può vedere il nord diviso per fasce geografiche. Fino alla sua morte Berengario continuò ad essere appoggiato in Emilia e nel Veneto. Ugo iniziò il suo regno con forti sostegni, tuttavia presto riscontrò che nessuno di questi appoggi era incondizionato. I1 regno di Ugo segna l'inizio di una crisi generale nell'egemonia reale. Egli poteva fare affidamento su troppo poche forze. Ugo volle esser un monarca attivo. Un attivo re carolingio legiferava e tentava di verificare se le leggi erano osservate, si sforzava di controllare se vi fosse uso illecito del potere dei suoi funzionari. Ciò però non era più possibile. Un re non poteva intervenire direttamente in questioni locali senza che questo intervento si tramutasse in un'impresa politica. Le attività di Ugo sembra si siano piuttosto limitate al patrocinio o alla distruzione di particolari individui e famiglie nel tentativo di rafforzare la base di fedeltà del suo potere. Anche se siamo in possesso di una descrizione storica del regno di Ugo—la massima parte dell'Antapodosis di Liutprando da Cremona—sembra che questi non abbia fatto altro, e sembra che neanche Liutprando si aspettasse qualcosa di diverso. Lo scopo più evidente di Ugo fu di porre sotto il suo più stretto controllo le marche italiane, come non lo erano mai state fin dall'875. Durante il regno di Berengario il Friuli aveva cessato di esistere, ma
Toscana e Spoleto erano totalmente autonome; anche Ivrea, creata da Guido, era diventata una forza potente. Nel 931 Ugo depose il suo fratellastro Lamberto di Toscana e lo fece accecare. I1 vero fratello di Ugo, Bosone, divenne marchese, solo per essere poi a propria volta destituito da Ugo nel 936, e sostituito dal figlio illegittimo di quest'ultimo, Uberto. Nel 928 egli nominò suo nipote Teobaldo marchese di Spoleto e nel 932 tentò di estendere il proprio controllo su Roma sposando colei che vi esercitava il dominio, la senatrix Marozia, ma in questo caso Alberico, figlio di Marozia, lo cacciò e stabilì una propria egemonia. Nel 936, alla morte di Teobaldo, Ugo impose a Spoleto Anscario II d'Ivrea, e il conte di Milano Berengario, fratello di Anscario, divenne marchese d'Ivrea. Tuttavia, nel 940, mutò la sua politica verso la casa di Ivrea e rovesciò Anscario. Nel 941 Berengario d'Ivrea fuggì presso Ottone I in Germania e Ugo ne abolì la marca. Da questo semplice schema risulta assolutamente chiaro che la soluzione abitualmente scelta da Ugo in merito al problema della fedeltà consisteva nel dare cariche ai membri della sua stessa famiglia. Bosone e successivamente Uberto governarono la Toscana; nel 943 ad Uberto fu data anche Spoleto; Bosone fratello di Uberto divenne vescovo di Piacenza e arcicancelliere; al cugino di Ugo Manasse, arcivescovo di Arles, furono date le diocesi di Verona, Mantova e Trento, oltre alla nuova marca di Trento. Quest'ultima donazione somma in sé una notevole gamma di cariche (Liutprando dedicò un intero capitolo alla presa in giro di Manasse che le aveva accettate tutte, contro il diritto canonico)12, ma sottolinea la preoccupazione di Ugo di far fronte al principale pericolo esterno, l'invasione dalla Germania. La nomina di Manasse nel 935 segui all'incursione fallita di Arnolfo di Bavaria nel 934, su richiesta del conte e del vescovo di Verona, Milone e Raterio. Milone rimase in carica come conte, ma Raterio fu deposto ed imprigionato a Pavia, ove scrisse il suo primo importante lavoro letterario, i Praeloquia, per giustificare le proprie azioni (ritornò a Verona come vescovo negli anni 946-8, e poi ancora negli anni 962-8). Ugo avvertì chiaramente che tale tradimento dimostrava come solo i suoi congiunti fossero sostenitori fidati; la violenza e l'aggressività di Ugo nel reclamare i propri diritti di re senza dubbio eliminò dall'area dell'aristocrazia laica potenziali sostenitori. In risposta Ugo li penalizzò ancor più. Negli ultimi anni del suo regno, ad esempio, sembra non vi siano stati conti in Emilia. Lì Ugo faceva affidamento solo sui vescovi, quantunque almeno uno, Guido da Modena (circa 943-67), diventasse anch'egli un acerrimo nemico13. Quando Berengario d'Ivrea varcò le Alpi nel 945 con un piccolo esercito germanico, Ugo perse i suoi sostenitori. Milone e Manasse, i difensori di frontiera, immediatamente si schierarono con Berengario (a Manasse fu promesso l'arcivescovado di Milano), e tutta l'aristocrazia del Nord, per lo più nominata da Ugo, lo seguì o rimase neutrale. Berengario prese il potere e assunse il titolo di summus consiliarius, sommo consigliere, e attese la morte di Ugo, che avvenne nel 947. Lotario figlio di Ugo, già associato al regno, morì improvvisamente nel 950, e Berengario si fece incoronare re. Nel 945 Berengario d'Ivrea spinse con il suo operato l'aristocrazia italiana a rifiutare l'unico tipo di re autoritario che il sistema politico italiano consentiva ancora. Ugo era violento e interferiva, ma ciò avveniva solo perché la società lo aveva già tanto emarginato che qualsiasi intervento dall'alto sembrava una interferenza, e ogni rimozione di conte o vescovo dalla carica sembrava un gesto di arbitrio da parte sua. Non solo l'Italia era diventata un sistema di signorie private, anche il potere pubblico si era evoluto a favore dei poteri locali, isolando il re. Nel 945, Ugo non era debole. La sua proprietà fiscale era ancora vasta, malgrado le concessioni fatte da Berengario I (o da lui stesso), e la sua proprietà personale era notevole. In un mondo 'feudalizzato' più privato come quello della Francia del X secolo, Ugo paradossalmente avrebbe potuto trovarsi in posizione migliore per governare di quanto non fosse in Italia. Ma i potenti schierati con Ugo non avevano per la maggior
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Liutprando, Antap., 4. 6-7. Fumagalli, Vescovi, cit., pp. 182-9
parte ottenuto le terre da lui e gli unici legami nei suoi riguardi erano legami privati di fedeltà personale. Questi erano diventati ora inadeguati. Quando Ugo si trovò in difficoltà, tutti i suoi sostenitori sparirono, Berengario Il fu lasciato solo al comando di una struttura di potere politico in pratica priva di valore. Berengario fece una sola azione in linea con le tradizioni pubbliche del regno, un gesto appropriato a questo periodo non eroico, quando tassò tutto il regno con una tassa in denaro testatica, per la prima e ultima volta dall'invasione longobarda, per evitare un attacco ungherese nel 947. Questa tassa, nella stessa tradizione del tributo danese di Carlo il Calvo nell'877 in Francia, e del danegeld anglosassone della fine del X secolo, finì per lo più nel tesoro personale di Berengario (se si può credere alle cronache di Liutprando), ma Berengario non aveva peso politico sufficiente per tentare di esigerla ancora, ed il gesto si fermò lì14. Berengario II governò sotto la minaccia dell'invasione germanica anche più di quanto non avesse fatto Desiderio, due secoli prima. Ottone I, stabilito il controllo sul suo impero germanico, comparve in Italia negli anni 951-2, e si autoproclamò re. Berengario dovette recarsi in Germania per venir riconosciuto re sotto la protezione di Ottone, mantenne tale rango fino agli anni 961-2, quando Ottone finalmente si annesse l'Italia e fu incoronato imperatore. Ma lo stato di Berengario era allora diverso da quello di Desiderio. Qualunque azione Berengario intraprendesse per rafforzare il proprio potere sollevava nuove opposizioni, in particolare da parte della Chiesa. Come Ugo, egli si accorse che l'unica risorsa efficace era l'aggressione. Le tradizionali risorse del regno si ridussero rapidamente, il polo più importante dell'autorità pubblica, il tribunale comitale, sembra sia totalmente sparito durante il regno di Berengario. Dopo il 922, la zona in cui gli atti ufficiali giudiziari avevano avuto luogo si era già ristretta fino a comprendere poco più che le zone centrali della pianura Padana, l'Emilia occidentale e la Lombardia orientale. Fra il 945 e il 962 non ve ne è menzionato alcuno15. Verso il 962 il regno indipendente d'Italia di fatto era caduto. Ottone I tentò una restaurazione temporanea che per lo più venne accettata dalle popolazioni italiche. Dopo tutto, Ottone fu per lo meno politicamente neutrale verso i potenti d'Italia rivali fra loro. Ma, elemento assai più importante, aveva un esercito forte che l'infedeltà italiana non poteva intaccare, ed era militarmente invincibile, non solo al Nord, ma anche a Roma (ove rovesciò papi ostili, il figlio di Alberico, Giovanni XII nel 963, e Giovanni XIII nel 972) e a Capua-Benevento16, Ottone elevò varie nuove famiglie alla nobiltà, come gli Obertenghi e i Canossa. Reinstaurò contee, (ma anche concesse maggiori poteri ai vescovi) e insediò nuovamente le corti giudicanti. Nel 967 promulgò anche leggi, quantunque le popolazioni fossero meno entusiaste riguardo ciò, ma lo stato di Ottone era un qualche cosa di artificiale, sostenuto solo dalla sua forza militare esterna. Quando i sovrani della Germania, dopo la sua morte nel 973, restarono fuori dall'Italia fino al 996, l'amministrazione centrale non poté continuare nella sua attività come aveva fatto sotto i primi Carolingi. Sotto Ottone I, i tributi statali descritti nelle Honorantiae Civitatis Papiae venivano ancora riscossi da Gisolfo, ciambellano di re Ugo. Alla fine degli anni 980, suo nipote fu rimosso dalla carica ed i beni dello stato cominciarono ad essere venduti o dati via. Può darsi che questo processo si sia arrestato mentre Ottone III governava a Roma (996-1002), ma riprese con i suoi successori. L'abbandono dei diritti fiscali del governo centrale da parte dello stato dopo circa il 990 è concorde col lento diminuire del controllo pubblico sul governo locale fin da circa il 900. Spiega anche l'incendio del palazzo di Pavia da parte della popolazione nel 1024, in quanto anche la gente 14
Liutprando, Antap., 5. 33. Gli Ottoniani raccoglievano il fodrum, un equivalente in denaro al diritto di ospitalità regia, ma è discutibile che si possa definirlo una vera e propria tassa: cEr. F.G.S., pp. 534-77.
15
Manaresi, 132-44; ne avvengono solo 140-1 a Lucca (alla presenza di Ugo) e 137 ad Asti. Per la storia dopo il 962, in generale: Hartmann (B1), IV; Mor (B1); per quella successiva al 1002: C. Violante in Storia d'Italia, I (B3-d). 16
di Pavia, a lungo privilegiata da esenzioni, non sentiva che lo stato fosse più di alcun vantaggio17. Enrico II (1004-24) fu ancora abbastanza influente da distruggere senza combattere il re che l'aristocrazia italiana aveva incoronato nel 1002 per opporglielo, Arduino d'Ivrea, non trovando necessario di doversi recare in Italia. Dopo il suo regno, tuttavia, la forza militare degli imperatori germanici non fu accompagnata da una significativa risposta positiva di alcuna parte dei sudditi italiani; lo stato era ormai diventato una istituzione irrilevante. I seguaci di Corrado II (1024-39) e dei suoi successori furono potenti (e più tardi città) che chiedevano un aiuto esterno germanico per realizzare i propri interessi privati locali, piuttosto che seguaci armati sostenitori delle tradizioni del regno. I sovrani successivi al 1024 regnarono nel vuoto; la storia d'Italia si faceva altrove. La nuova aristocrazia e la crescita dell'autonomia urbana Ben poche delle famiglie aristocratiche importanti del 1000 lo erano state anche un secolo prima. Gli Arduinici di Torino, gli Aleramici del Piemonte meridionale, gli Obertenghi degli Appennini del nord ovest, i Gisalbertingi di Bergamo, i Canossa delle paludi del Po, le famiglie comitali di Toscana (Guidi, Cadolingi, Gherardeschi) erano nuovi arrivati, i protetti di Ugo e di Ottone I. Di queste le prime due erano famiglie di recente immigrate dal nord, tutte le altre erano longobarde. Le grandi famiglie franche del periodo carolingio erano pressoché totalmente scomparse, ne rimanevano solo poche, che governavano su singole contee, come i Bernardingi a Parma, o concentrate in zone limitate, come i Berardenghi ad est di Siena. Le famiglie 'nuove', quantunque in molti luoghi da lungo tempo insediate nelle rispettive località, in precedenza non avevano legami con lo stato, né ricordo delle ambizioni carolingie. Chiunque avesse voluto ricreare l'autorità dello stato carolingio avrebbe avuto da loro poco appoggio. Ciò tuttavia fu meno significativo di quanto non sembri. Gli interessi locali di queste famiglie erano conseguenza non tanto della loro visione ideologica, ma dell'organizzazione della loro proprietà terriera. Per la maggior parte essi erano membri dei ranghi inferiori della nobiltà tardo e post carolingia che avevano fatto strada, vassalli e affittuari di vescovi e potenti carolingi, le cui basi fondiarie originali erano state la distribuzione dei contratti d'affitto e le conseguenti clientele. Non erano proprietari di grandi tenute sparse, ma di terreni concentrati all'interno di aree più piccole, ove i più vasti interessi del regno erano meno visibili. Anche quando erano oggetto di ampia protezione reale, come lo erano, sembra, gli Obertenghi sotto Ottone I, le loro terre rimasero fortemente concentrate in una sola regione, e sebbene coprissero cariche pubbliche il loro potere per lo più non era per nulla basato sulle loro cariche. Di certo le cariche portavano con sé terreni, come era sempre avvenuto, ma non davano grande accesso all'autorità pubblica, in quanto, come si è visto, i poteri pubblici dei conti erano ora decisamente frammentati e ridotti e il titolo di conte o di marchese dopo il 1000 divenne poco più di un attributo allo status personale18. Queste variazioni possono essere viste meglio tramite esempi: primo, l'Emilia, una terra abbastanza tipica del Nord Italia, e oggetto di notevoli studi recenti, in particolare di Vito Fumagalli; secondo, la Toscana, esterna al flusso principale degli sviluppi delineati in questo capitolo, regione ove la forza dello stato durò più a lungo. La famiglia dominante nell'Emilia carolingia fu quella dei Supponidi, precedentemente legata, come si è visto, ai destini di Brescia. Sotto molti aspetti furono l'archetipo di una famiglia di uomini del re nel secolo IX, e durante le guerre civili rimasero del tutto fedeli a Berengario I loro parente. Tuttavia ad un certo punto ruppero con lui; Bosone (probabilmente conte di Parma) nel 913 si ribellò, e suo fratello Vilfredo di Piacenza nel 922 poté essere dalla parte di Rodolfo II. Dopo il 925 si sente parlare poco di loro. L'ultimo membro della famiglia di cui si abbia notizia, Suppone IV conte di Modena, viene citato per l'ultima volta nel 942. Sembra siano spariti, e di per sé ciò non 17
Cfr. F.G.S., pp. 502-14. II Piemonte, roccaforte dell'aristocrazia laica irredentista, può aver costituito una eccezione, ma anche lì il potere pubblico ebbe a declinare; cfr. G. Sergi (B3-f). 18
deve sorprendere; abbastanza spesso le famiglie nobili si estinguono, se sono vincolate alla discendenza maschile. Ma per un lungo periodo la loro ampia base di potere deve essere stata difficile da mantenere, attraverso vari decenni di guerra civile e suddivisioni temporanee del regno. Esse dipendevano strettamente dal potere associato all'esercizio di cariche pubbliche, potere che aveva cominciato a dissolversi man mano che Berengario aveva iniziato ad alienarlo. Inoltre l'ostilità di Berengario può averle indebolite in modo più diretto. All'epoca del regno di Ugo, gli ultimi membri della famiglia sembra abbiano cominciato a concentrarsi in una sola provincia, quella di Modena, ove Ardingo zio di Suppone IV era anche vescovo. Come sempre Ugo era diffidente nei loro riguardi, e li forzò anche a concedergli terreni. Chiaramente il loro potere era in declino ben prima che fisicamente sparissero19. In Emilia Berengario aveva tuttavia altri protetti, e queste famiglie cominciarono ad ottenere vescovadi e contee nei primi decenni del secolo. Erano tutti del luogo. La famiglia longobarda 'da Gorgo' (dal nome del nuovo castello di Gorgo vicino al Po) sotto Berengario diede un vescovo ed un conte a Piacenza e un vescovo a Reggio. Fu nel territorio del vescovo Guido di Piacenza che Berengario combatté la sua ultima battaglia di Fiorenzuola nel 923. E’ possibile che Ugo sia stato diffidente anche nei riguardi dei da Gorgo (nei suoi ultimi anni non c'erano conti di Piacenza) tuttavia la famiglia sopravvisse e, collegata ad altre famiglie simili quali quella franca dei Gandolfingi, dominò l'Emilia occidentale verso la fine del X secolo, con la protezione degli Ottoni. I da Gorgo e i Gandolfingi in origine erano piccole famiglie di vassalli e funzionari della campagna emiliana, lontanissimi dai Supponidi come si può immaginare, ma già sotto Berengario stavano assumendo uno status equivalente al loro, ed in media sopravvissero più a lungo di loro. E’ importante il fatto che molti membri siano poi stati nominati vescovi. Le cariche episcopale e comitale, quantunque istituzionalmente in opposizione, erano diventate alternative parimenti valide per le ambizioni della famiglia (sebbene, ovviamente, le famiglie longobarde si fossero rivolte all'episcopato almeno fin dal secolo VIII). Durante il regno di Berengario delle due la carica episcopale era anche la più stabile. Malgrado nella città di Piacenza continuassero a governare conti, il vescovo Guido era una figura ben più importante di suo fratello Raginero conte, e la figura più potente dell'Emilia a metà del secolo di certo fu Guido vescovo di Modena e abate di Nonantola, prima traditore di Ugo, poi di Berengario II (del quale era stato arcicancelliere), infine, con meno successo, traditore di Ottone I. Solo una delle più importanti famiglie dell'Emilia—la casata dei Canossa—scelse di basare il suo potere sulla detenzione della carica comitale20. La storia dei Canossa, breve ma drammatica (la loro discendenza maschile si estinse nel 1055, e quella femminile nel 1115) dimostra quali cambiamenti una famiglia intraprendente potesse operare all'interno del nuovo ordine sociale. I1 loro capostipite fu Adalberto-Atto, membro di una famiglia longobarda della piccola nobiltà, forse dei confini appenninici del territorio di Lucca, e oppositore attivo di Berengario II. Ottone I lo ricompensò con le contee deboli di Reggio e Modena, e più tardi di Mantova. Sembra che Adalberto-Atto abbia trascorso il periodo 960-970 riunendo vasti lotti di terreno nelle paludi del Po, spesso scambiandoli con tenute più piccole e sparpagliate nelle zone della pianura da tempo disboscate. Le paludi divennero il centro di potere dei Canossa. Gli Appennini (ove è situata Canossa stessa) erano un po' meno importanti, e la pianura, centro di proprietà terriera altrui, ancora meno. I Canossa capirono che il dissodamento e un potere stabile e coerente (o signoria, per usare il tipico termine italiano) erano una via sicura verso il potere politico, e già nei primi decenni del secolo XI l'avevano conseguito in modo palese. Da allora il nipote di Adalberto-Atto, il feroce Bonifacio, (marchese circa del 1013-52) esercitò gran parte del potere derivante dalla proprietà da Cremona e Mantova 19
Per l'Emilia: Fumagalli, Vescovi, cit., e Terra e Società (B3-f), pp. 80-123. I diplomi di Ugo e di Lotario (a cura di L. Schiaparelli, Roma, 1924), n. 78 (945) per le donazioni fatte al re. 20 Fumagalli, Le origini di una grande dinastia fendale (B3-f); R. Schumann (A3-f), pp. 55-8. Per gli Obertenghi, caso molto simile alla periferia dell'Emilia, manca uno studio moderno; cfr. Schumann, pp. 60-4.
fino ai confini della Toscana, e il patronato del re aumentò ancora tale potere. Ereditò dal padre il titolo di marchese, titolo che sembra non abbia portato con sé status ufficiale, ma Bonifacio era in posizione favorevole per essere fatto marchese di Toscana da Corrado II nel 1027. Bonifacio dai castelli rurali governò le sue terre con fermezza (solo nella città di Mantova aveva un palazzo). Suo zio e suo fratello erano vescovi, ma l'influenza dei Canossa sulla maggior parte delle città avveniva dall'esterno. Questo controllo rurale può essere stato lo sfondo di una grossa rivolta contro Bonifacio da parte, sembra, dei cittadini e della piccola nobiltà della valle Padana, che egli dovette sconfiggere in una battaglia campale nel 1021. Certamente i Canossa ebbero un destino eccezionale, solo gli Obertenghi e gli Aldobrandeschi nella Toscana meridionale erano altrettanto attivi nelle zone rurali. Essi dimostrarono che era possibile un potere rurale indipendente, se questo si basava su zone non urbanizzate come le paludi e le montagne, anche nell'Italia del nord. I Canossa, tuttavia, non avrebbero potuto ottenere lo stesso risultato sotto i Carolingi. I1 rifiuto della città poteva avvenire solo fra la fine dell'amministrazione carolingia, che si basava sulla città, e l'inizio del potere dei comuni urbani. Anche allora ciò ebbe luogo ad opera di poche famiglie importanti. L'incastellamento e quanto restava delle cariche poterono essere la base di un vero potere rurale, ma le dignità più importanti, l'episcopato ed il suo sistema di patronato, rimasero sotto il controllo delle città. La Toscana ebbe uno sviluppo abbastanza diverso21. Si è visto Adalberto Il restare estraneo alle guerre civili del nord ed evitare qualsiasi ostilità da parte dei re, dopo una fuga fortunosa nell'898 quando, senza successo, provocò una rivolta contro Lamberto. Adalberto governò la marca toscana in modo autonomo come aveva fatto suo padre, con propria capitale a Lucca. Ben pochi dei diplomi di Berengario hanno per oggetto la Toscana, e nessuno di essi tratta l'incastellamento. Adalberto tenne i poteri pubblici della marca sotto il proprio controllo, ma il crescere d'importanza di famiglie minori continuò a Lucca nelle terre fiscali ed episcopali. E anche prima della morte di Adalberto nel 915 cominciarono ad apparire castelli privati, senza diplomi o minacce di Ungari che li giustificassero. I castelli del primo periodo furono episcopali; i vescovi erano molto potenti, anche all'interno del forte dominio laico della Toscana. I vescovi di Lucca avevano un castello a S. Maria a Monte, a sud-est di Lucca, fin dal 906, ed uno a Moriano a nord dal 915. Presto ne seguirono altri. Essi, per la maggior parte, erano baluardi del vescovo per proteggere ed amministrare le sue proprietà e non erano ancora associati ad immunità giurisdizionale; solo attorno al 1070 Moriano appare negli atti come centro di giurisdizione civile esercitata dal vescovo sulla zona circostante22. Dal 915 l'erede di Adalberto fu un minore, Guido (915-30). Berengario I, per la prima volta influente in Toscana, fu forse responsabile di un nuovo sviluppo a partire dal 920; con l'istituzione dei conti nelle città della Toscana, creava dei rivali o delle forze equilibranti il potere dei marchesi: i Cadolingi e i Guidi a Pistoia, seguiti attorno al 940 dai Gherardeschi a Pisa e, più tardi, a Volterra. Queste famiglie erano longobarde, e apparentemente orientate verso la città. Sembra siano stati tra i vassalli del re e dei marchesi quelli di maggior successo, e presto si stabilirono come famiglie dominanti della regione, subito dopo i marchesi. Tuttavia i loro possedimenti non erano visibilmente concentrati nei territori di una sola città (territori che erano più piccoli di quelli del Nord), ma fra loro collegati in tutto il Nord della Toscana. Solo dopo la fine del secolo X apparirono famiglie ben più piccole e più localizzate. Queste erano per lo più rurali e basate su castelli. La coerenza politica della Toscana tenne più a lungo che al Nord, sebbene fossero già presenti le basi della sua caduta. Re Ugo, che rovesciò Lamberto fratello di Guido e ristabilì le cariche reali, 21
Schwarzmaier (B3-f), pp. 193-261, e articoli di Schwarzmaier, Keller, Rossetti in 5° Congresso, cit.; la marca toscana includeva la Toscana settentrionale e centrale soltanto. 22 Barsocchini, 1098, 1161; F. Bertini, Memoric e documenti, IV Appendice, n. 84.
non distrusse la marca. Uberto figlio di Ugo (936-circa 969) fu lasciato a capo della marca, e suo figlio Ugo (969-1001), acceso sostenitore degli Ottoni, ristabilì la Toscana come unità organizzata, ampliando effettivamente i suoi poteri di marchese, e sforzandosi, secondo Pietro Damiani, di governare giustamente23. La Toscana evitò lo sfacelo soprattutto perché evitò la maggior parte delle interferenze dal nord. I marchesi governarono dalle ricche città della valle dell'Arno, e conservarono vaste tenute fondiarie, come dimostrano alla fine del secolo le donazioni di Ugo, che non aveva prole, ai monasteri. Ma alla morte di Ugo, il suo stato presto scomparve. I Canossa, marchesi negli anni 1027-1115, ereditarono solo il suo titolo come nel nord, il loro potere era per lo più ristretto alle loro proprietà terriere. L'egemonia del marchese sparì, Lucca e Pisa combatterono una guerra nel 1004, i Cadolingi iniziarono a creare una signoria rurale fuori Pistoia, ed altri li seguirono. Presto la Toscana si assimilò al nord. I Lucchesi odiavano Bonifacio di Canossa quanto lo odiavano gli Emiliani, e nel 1081, ad opera di Enrico IV, riuscirono ad eliminare le sue 'perverse consuetudini' e quanto restava del marchesato e della infrastruttura reale all'interno della città24. L'esempio della Toscana dimostra come una piccola parte del regno d'Italia potesse, in modo del tutto adeguato, assumersi i poteri tenuti prima dallo stato senza indebolirli; anzi, secondo gli schemi del X secolo, rafforzandoli. La marca toscana era concentrata su zone fortemente urbanizzate, e ciò deve spiegarne la sopravvivenza. Nessuna altra parte del regno ebbe una storia simile, per quanto è possibile vedere oggi. Le famiglie aristocratiche nell'Italia del nord e in Toscana mutarono ben poco la loro struttura alla caduta dello stato, particolarmente quando le si consideri in paragone agli evidenti mutamenti nella struttura familiare della Francia e della Germania nei secoli X e XI. Ad esempio queste ebbero sempre struttura patrilineare, e a ciò si attennero anche le famiglie franche, come dimostrò Winigis conte di Siena quando nel1'867 fondò il monastero di Fontebona e lo annesse in modo perpetuo alla propria discendenza per linea maschile. L'accresciuta importanza della discendenza per linea maschile che si nota nel resto d'Europa non sarebbe stata molto visibile in Italia25. Di conseguenza non ci si dovrebbe aspettare che la struttura della famiglia cambiasse molto alla caduta dello stato. La base dell'aristocrazia era e rimase la terra, ed il modo in cui distribuiva il suo potere terriero era tanto importante per essa nell'800 quanto nel 1100. Le famiglie nobili spartivano l'eredità nel1'800, e continuarono a farlo anche nell'XI secolo. Le strategie della proprietà terriera non cambiarono, e, come s'è visto si estesero anche al possesso per affitto ed ai benefici. Unica novità fu un senso via via più sviluppato che i membri della famiglia ebbero della coerenza ed identità della propria stirpe. I cognomi fecero la loro comparsa nell'ultimo decennio del X secolo in Toscana, e con la metà dell'XI secolo erano diffusi, sebbene nel nord fossero ancora inconsueti. Gli uomini interessati al passato cominciarono quando era possibile a far risalire le proprie origini fino ad antenati carolingi. Questa base concettuale fu rafforzata dalla nuova tendenza al formarsi di nuclei farniliari, attorno a monasteri patrimoniali, pievi e castelli. Questi erano punti fissi, più di quanto non lo fossero le tenute. Un monastero patrimoniale, o una pieve potevano essere sotto il controllo di un gruppo di consanguinei vasto quanto tutto un lignaggio, se necessario. Non occorreva suddividere la proprietà, quantunque ciò potesse accadere. La terra donata alle chiese da singoli membri di famiglie non era soggetta a divisione, e poteva essere anche aumentata con donazioni da parte di estranei qualora la Chiesa avesse prestigio religioso sufficiente. I1 controllo familiare sulle pievi fu una evoluzione del X secolo; i monasteri in mano di una famiglia iniziarono ad essere comuni ai primi anni dell'XI 23
Ugo: cfr. nota 21, e A. Falce, Il Marchese Ugo (B3-fl; Pietro Damiani, De Principis Opificio, ıı, 3-5, in Migne, P.L, 145 cc. 827-30. 24 MGH Dip. Heinrici, IV, n. 334. 25 Cartulario della Berardenga, a cura di E. Casanova (Siena, 1927), n. 53; cfr. P. Cammarosano (B3-f). La miglior panoramica analitica di questi sviluppi si trova in C. Violante, Quelques caractéristiques des structures familiarles..., Famille et Parenté (B41, pp. 87-151, in contrasto con tutta una scuola di storici influenzati da K. Schmid, in particolare Zur Problematik von Familie, Sippe u. Geschlecht.... Zeitsch. f.d. Gesch. des Oberrbeins, 105 (1957), pp. 1-62.
secolo, dopo una interruzione quasi assoluta di due secoli26. Ma i castelli, nuovo sviluppo caratteristico di questo periodo, erano i punti focali. Come elementi di proprietà essi erano soggetti a divisione; tuttavia, come basi di giurisdizione territoriale, avevano solidità maggiore. Nel IX secolo, come si è visto, i proprietari terrieri cominciarono ad acquisire giurisdizione privata per reati minori e diritto di causa sui loro affittuari. Coi castelli dei secoli X e XI, tale giurisdizione fu estesa a tutto il territorio sotto l'autorità del castello, che questo territorio fosse o meno proprietà di chi teneva il castello. In particolare, famiglie meno importanti iniziarono verso la fine del X secolo a basare interamente il loro potere territoriale su tale controllo, e tentarono di fondare i diritti giuridici dei castelli, con il possesso su tutto il territorio del castello, per creare una stabile signoria territoriale, similmente a quanto avveniva nella stessa epoca nel nord della Francia. Anche allora però vigevano le regole dell'eredità divisibile, queste signorie, una volta stabilitesi, cominciarono anch'esse a spaccarsi. Fu in risposta a ciò che le famiglie presero ad unirsi tramite contratti formali in consortia che controllavano il nucleo centrale, almeno, della proprietà in loro possesso, il castello in campagna e sempre più la casa turrita in città. Ciò produsse una certa stabilità. L'interazione fra la forza dell'eredità divisibile e il contratto di consortium continuò a caratterizzare i legami della famiglia nobile fino alla fine del Medio Evo. Non tutte le grandi famiglie aristocratiche né i ricchi potenti ecclesiastici cercarono di legare a sé le proprietà fondiarie e i castelli, tanto saldamente quanto fecero i loro vassalli ed affittuari, nobiltà inferiore. Come risultato, alcuni di loro iniziarono, attorno al 1000, a perdere controllo sulle loro terre a vantaggio dei vassalli27. Si è visto come il clero attivo della fine del X secolo si accorse che i propri affittuari avevano iniziato ad insediarsi sulle proprietà della Chiesa fino ad escluderne di fatto l'autorità. Le clientele militari dell'inizio del X secolo cominciarono sotto gli Ottoni ad essere riconosciute come strato distinto dell'aristocrazia, con interessi diversi da quelli dei grandi proprietari terrieri, e con denominazioni diverse, che variavano da luogo a luogo: secundi milites nel Nord, lambardi in Toscana; a Milano, ove immenso era il potere conferito dalla proprietà terriera dell'arcivescovo, vi erano due categorie, i capitanei (con le pievi come loro centri) e i loro vassalli, i valvassores. Anche i loro castelli erano diversi. I castelli dell'inizio del X secolo furono fondati in zone ove la proprietà fondiaria era complessa, e tale rimase. I castelli erano relativamente grandi, e alcuni proprietari di castelli persino sfruttarono la popolarità di lotti edificabili all'interno delle mura barattandoli e vendendoli a prezzi elevati28. I castelli del secolo successivo, baluardi della piccola nobiltà, spesso erano molto più piccoli e per lo più servivano da sede familiare. Erano i punti focali di politiche molto più aggressive di organizzazioni proprietarie. Anche alcuni dei nuovi nobili più importanti erano aggressivi (i Gandolfingi ne furono un esempio); altri ne subirono le conseguenze. Così avvenne per i contadini. Come all'epoca della crescita del sistema feudale, i contadini iniziarono ad opporre resistenza, talora con successo. Si è visto che il sistema curtense si era pressoché disintegrato, attorno al 1000; il mutamento andava dal versamento di canoni in denaro, all'abbandono della prestazione obbligatoria di lavoro, alla graduale scomparsa della schiavitù. Spesso gli affittuari avevano il diritto di vendere terreni loro affittati, e molti erano anche diretti proprietari29. I contadini proprietari indipendenti non avevano cessato di esistere (in realtà, alcuni dei più intraprendenti riuscirono a raggiungere i gradi della piccola nobiltà). Quantunque i proprietari terrieri non avessero per nulla perduto la loro autorità, fu una società contadina sempre più aperta quella che i proprietari dei castelli tentavano di controllare tramite il potere locale dato dalle nuove unità di giurisdizione. L'entità delle tasse pretese da alcuni 26
Per esempio, per la Toscana, W. Kurze, Monasteri e nobilta nella Tuscia altomedievale, 5° Congresso, cit., pp. 33962. Soltanto i maggiori aristocratici franchi, quali Adalberto I e Winigis, fondarono monasteri nel IX secolo in Toscana. 27 Cfr. Ie opere di Violante in bibliografia, particolarmente Storia d'Italia, I, pp. 80-6 28 Come, per esempio, nel castello di Brivio nelle vicinanze di Bergamo, nel 968 (Porro, 706). 29 Per un esempio, E. Conti (B3-f), pp. 1546.
proprietari di castelli fu davvero considerevoIe, e gli obblighi ricacciarono molti coltivatori in uno stato di dipendenza. Altri, al contrario, sembra abbiano goduto di indipendenza ed unità tali da non essere assoggettati, specialmente in zone ove le giurisdizioni del castello minacciavano la proprietà terriera di altri aristocratici, come anche l'indipendenza dei contadini. Un particolare meno importante è che si può osservare questa coesione in una serie di diplomi imperiali che confermano i diritti dei contadini; forse lo stato avvertiva quanto i contadini la minaccia di un potere privato non controllato. Nel 970 Ottone I concesse esenzioni daziarie agli affittuari di S. Maria in Organo, nel villaggio di Zago nel Veronese. Nel 983 i contadini (che possedevano terre) di Lazise sul lago di Garda ricevettero da Ottone II diritti di pesca. Gli schiavi del monastero di S. Ambrogio a Bellagio, vicino a Limonta, ottennero da Ottone III diritti di pascolo nel 998. A quindici schiavi di S. Antonino in Piacenza, dei quali si conosce il nome, fu concessa nello stesso anno l'immunità daziaria. In questi casi i contadini avevano garantiti dallo stato diritti pubblici, anche se per lo più dipendevano da proprietari monastici: alcuni monasteri si reggevano ancora saldamente sulle loro proprietà, e i documenti che li riguardano sono più numerosi di quelli relativi alla nobiltà laica. Simili diritti collettivi, sebbene piccola parte dell'economia contadina, furono la base su cui si costituì la possibilità di agire collettivamente da parte di una comunità che poteva essere davvero sparsa. Come nel IX secolo, la resistenza contadina fu dapprima meglio organizzata ai margini della società italiana ma, quando nel 1058 I'abbazia di Nonantola concesse in un atto agli abitanti del castello di Nonantola la libertà da fitti eccessivi e da ogni aggressione (eccetto che nell'esercizio dei suoi diritti giudiziari), fu aperta la via verso il comune rurale dei secoli XII-XIII 30. L'altro punto focale dell'autonomia dopo la caduta del potere dello stato fu la città. Le città avevano agito come collettività, per lo meno in modo informale, fin dalla fine del secolo VII, e i cittadini di Milano dall'879 ebbero un luogo per radunarsi di fronte alla loro cattedrale. Per vari secoli il vescovo aveva agito, come si è visto, da fulcro della politica della città. La sua carica era la maggiore carica urbana cui potessero aspirare le famiglie importanti della città. Quando i re del X secolo diedero ai vescovi diritti comitali nelle città, essi si ritirarono da una sfera politica che era stata sempre dominata dall'episcopato. Ma le prime responsabilità di ogni vescovo erano nei riguardi della sua Chiesa e della sua città, non verso lo stato, e quando lo stato cessò di far notare la sua presenza molti vescovi non lo seguirono, salvo i vescovi imperiali più ambiziosi, come quello germanico elevato alla carica da Ottone III, Leone di Vercelli (998-1026), o, in modo più ambiguo, Ariberto II di Milano (1018-45). Le città cominciarono a sviluppare politiche molto più localizzate, e le rivalità fra città cominciarono ad essere più chiaramente visibili, a partire dalla guerra fra Pisa e Lucca nel 100431. E' chiaro che da un lato la cessione del governo della città ai vescovi era un passo logico nello sviluppo politico urbano, ma essa non era totalmente a vantaggio del vescovo. Le città non erano collettività che potessero essere controllate facilmente, in specie le più importanti famiglie cittadine che erano, per lo più, anche i massimi proprietari terrieri rurali. Essendoci un unico vescovo da eleggere ogni volta, una sola famiglia lo poteva proporre. E se la gerarchia clericale funzionava secondo propri schemi etici, come cominciò a diventare più comune nell'XI secolo, i vescovi potevano non essere scelti all'interno delle famiglie aristocratiche. Le famiglie della città non avevano altro modo di raggiungere potere ufficiale e status, ora che le cariche dello stato si erano allontanate dalle città. Sempre più intensa diventò la lotta fra fazioni, in assenza di simili sbocchi, e 30
MGH Dip. Ottonis I, 384, II, 291, III, 265, 268. Per Nonantola: L.A. Muratori, Antiquitates Italicae, III (Milano, 1740), pp. 241-3. Cfr., in generale, Tabacco, La storia politica e sociale, pp. 153-67 e i riferimenti citati, L.A. Kotel'nikova, O formakh obscinnoy organizatzii severoital'yansbovo krest'yanstva v 9-12 vv, « Sredniye Veka », XVII (1960), pp. 11640 e altri riferimenti citati. 31 Le guide migliori sono costituite dalle opere della Fasoli citate nella bibliografia (B4); danno informazioni su distinte storie di città.
cominciò solo a trovar soluzione con lo sviluppo del governo comunale indipendente e quindi delle nuove cariche urbane alla fine dell'XI secolo. Questo sviluppo, rispetto al quale la storia precedente dell'Italia medievale è sembrata a troppi storici solo un preludio, non è oggetto del presente studio. Ma le complessità dell'autonomia urbana furono in gran parte il prodotto della fine dello stato, ed alcune di esse sono di rilievo. Le.signorie episcopali sulle città erano di per sé molto simili alle signorie private laiche basate sui castelli. Spesso i diplomi reali che le garantivano erano quasi identici. Anche l'elemento più simbolico delle città, le mura, talora veniva concesso un po' alla volta ai privati. Berengario I donò parte delle mura di Pavia al monastero di S; Maria Teodota nel 913, e Ottone II fece la stessa cosa a Como nei riguardi di un mercante urbano, Bariberto, nel 98332. Ma anche le città del nord Italia più soggette alle signorie mantennero alcune istituzioni pubbliche, come si è visto nel caso di Mantova, poiché erano troppo complesse per controllarle con qualsiasi altro mezzo. Il germe del comune era insito in queste istituzioni e nei professionisti che le governavano, giudici e notai. Questi gruppi erano già ben affermati nel secolo VIII, e con l'XI secolo erano diventati famiglie dominanti e influenti collegate in modo inscindibile alle attività della burocrazia clericale e della nuova classe dei mercanti proprietari terrieri. Anche l'aristocrazia urbana terriera reputava già necessario venir associata a questi gruppi e diventa difficile parlarne separatamente. Essi divennero i cittadini importanti dei secoli X-XI, i cives, che in genere compaiono nei documenti pervenutici senza alcuna altra descrizione. I cives assistevano il vescovo di Mantova nel funzionamento delle zecche che gli erano state date nel 945 da Lotario; i cittadini di Genova erano i recettori di un atto di libertà da parte di Berengario II nel 958, primo atto pervenutoci che riguardi un corpo cittadino33. Talvolta i cittadini erano divisi in varie categorie sociali: maiores, mediocres, e minores, o (come a Cremona nel 996) « tutti i cittadini liberi di Cremona, ricchi e poveri ». Che preciso significato avessero questi strati sociali in termini economici e in questo periodo è del tutto oscuro; tuttavia i capi dei cittadini appartennero sempre agli strati professionali e alla aristocrazia terriera. Parte di quest'ultima, talvolta, veniva distinta rispetto ai cittadini col termine di milites, vassalli episcopali, ma raramente si può vederli in opposizione rispetto alla loro controparte civile (Milano costituisce l'eccezione più chiara). E neppure erano le uniche persone che combattevano. Le sollevazioni delle città dell'XI secolo indicano che la gente comune era pronta a combattere e con ciò aveva dimestichezza. Nel contesto urbano, partecipare attivamente alla lotta non era diventato un fatto ristretto ad una elite, e, nell'affermazione dell'identità civica, i poveri erano per lo più ancora pronti a seguire i ricchi. Le sollevazioni non furono un preludio necessario o immediato al comune, ma più chiaramente mostrano la forza che l'identità civica cominciò ad assumere allorché le città divennero centri politici autonomi. Dopo la metà del secolo X divennero ben più frequenti. Tutti i cittadini di Verona si unirono per opporsi al vescovo Raterio nel 968. Nel 983 i Milanesi cacciarono l'arcivescovo Landolfo II dalla città, e per tornarvi egli dovette fare molte concessioni all'aristocrazia civica. I Cremonesi nel 1037 (o prima) si ribellarono al vescovo, e, secondo le parole di Corrado II « lo cacciarono fuori dalla città con gran ignominia lo spogliarono dei suoi beni, e distrussero fino alle fondamenta una torre del castello... Demolirono anche le mura della città vecchia fino alle fondamenta, e costruirono un'altra cinta muraria, più grande, contro il Nostro stato ». I Cremonesi erano stati in cattivi rapporti con i loro vescovi, specialmente in merito ai pedaggi fluviali per i mercanti cremonesi, fin dall'852, ma col 996 le dispute erano già giunte a coinvolgere tutto il corpo cittadino. Ottone III, raggirato da loro, emise un diploma che garantì loro diritti e complete immunità, quantunque lo individuale. Forze più grandi come lo stato, almeno all'inizio, s'imposero su ognuna di queste località dall'esterno. Per ciascuna forza autonoma dell'XI secolo esistevano 32 33
D.B.I, 90; Dip. Ottonis II, 312. Dip. Lotario, I (paragona con D.B.I, 12); Dip. Berengario II, 11 (edito nello stesso volume).
lunghe tradizioni storiche; la solidarietà e coesione delle loro ideologie furono il prodotto della caduta dello stato, non la sua causa. L'idea di un unico popolo o di un singolo stato, la gens Langobardorum di Paolo Diacono, il regnum Italicum di Liutprando di Cremona, durò quanto lo stato. E' solo dopo la caduta dello stato che fu sostituita, nelle menti delle classi dominanti italiane, dall'esplicito affermarsi delle fedeltà locali. Comunque, in un altro senso, almeno non deve sorprendere che lo stato sia caduto di fronte a queste nuove forze locali. Lo stato longobardo e quello carolingio furono monumenti alla forza dell'ideologia dell'Impero romano, per i quattro secoli dopo la sua scomparsa verso la metà del VI secolo. I Longobardi e i Carolingi tentarono di governare per mezzo di istituzioni pubbliche su vasta scala, senza l'appoggio economico del sistema fiscale dell'Impero che le aveva prodotte. Avevano origini radicate nella terra, in un mondo nuovo nel quale la proprietà terriera era l'unica chiave di accesso al potere; e così era anche per i loro delegati, duchi, conti e vescovi, e la terra dei loro delegati fu indipendente dall'autorità reale, o presto lo diventò. La forza più efficace che permise ai re di mantenere il controllo sul proprio regno fu semplicemente il consenso dell'aristocrazia all'ideale pubblico dello stato romano che i re usavano, e, come conseguenza di questo consenso, il fatto che le classi proprietarie terriere strutturarono la loro azione politica attorno allo stato. I1 sistema di patrocinii dello stato fu, dopo tutto, per loro estremamente vantaggioso. Malgrado ciò, le attività private di queste persone minarono lentamente il potere pubblico dello stato e ben poco poté fare lo stato per fermare questo processo. Lo stato poteva mantenere il consenso; ma il vero controllo, parte altrettanto importante dell'ideologia dell'Impero, era più difficile. Il fatto che lo stato sopravvisse solo con il consenso delle classi superiori fu riflesso, anche, nel fatto altrettanto importante che lo stato fece sempre semplicemente sentire la propria presenza in strati diversi di contadini, la fascia più ampia della società se non come forza coercitiva distante. La composizione politica dello stato longobardocarolingio interessava solo l'aristocrazia, e non era importante per nessun'altra categoria sociale. Al massimo si potrebbe affermare che il controllo dello stato era più efficiente nel Nord Italia e in Toscana che non nel Sud, o altrove in Europa, per lo più per la complessità delle città del Nord Italia e delle proprietà terriere attorno ad esse, che consentiva allo stato di sfruttare le rivalità locali e di intervenire, e diminuiva la possibilità di ogni singola famiglia di giungere al controllo locale e di rendersi autonoma dallo stato. Ma l'intervento locale richiedeva l'uso di una politica della proprietà terriera, e questa politica non era pubblica, ma privata. Lo stato sfruttò anche i legami privati di dipendenza, ma nel fare ciò li rafforzò. Al momento della crisi, all'inizio del X secolo, questi legami, saldamente basati sulla proprietà terriera, si dimostrarono più forti dell'ideologia pubblica dello stato. In questo senso il X secolo (o, nel Sud, il IX secolo) vede la vittoria dei poteri locali sullo stato, in quanto i legami privati di società, dipendenza personale, comunità, e la coercizione dei contadini, erano a base locale. Anche le istituzioni pubbliche si decentrarono, in città e castelli. L'ideologia dello stato unico venne sostituita dalla forza reale della società locale. L'Italia si frantumò. Le unità regionali seguirono vie diverse (quantunque spesso su linee parallele) rafforzate da un senso crescente della loro singola identità. Sarebbero occorse l'ideologia del nazionalismo romantico del XIX secolo e le trasformazioni socio-economiche della Rivoluzione Industriale per costringerle a congiungersi di nuovo.
BIBLIOGRAFIA Abbreviazioni A.S… BISI MGH
Migne, PL QF RSI SM Sett.
Archivio Storico Bollettino dell'Istituto Storico Italiano per d Medio Evo Monumenta Germaniae Historica (A.A.: Auetores Antiquissimi; S.S.: Scriptores; S.R.L.: Scriptores rerum Langobardicarum; Dipl: Diplo mata, o Carolingia (Kar.) o Germanica (distinta con il nome dell'imperatore); Epp.: Epistolae) J-P. Migne, Patrologia Latina Quellen und Forsclungen aus italienischen Archiven und Bibliotehen Rivista Storica Italiana Studi Medievali Settimane di Studi (Spoleto) Nota introduttiva
La seguente bibliografia rispetta la divisione del volume originale in sezione inglese e sezione non inglese, con alcune modifiche per renderla meglio utilizzabile in Italia, anche a fini di studio e di ricerca. Essa non è completa; una bibliografia completa esula dagli scopi di questo libro ed è quasi impossibile da compilare, a causa della sorprendente varietà di riviste locali italiane e del lungo interesse per l'Italia mostrato dall'intero mondo accademico internazionale e in particolare, per il nostro periodo, dai tedeschi. Per facilitare la consultazione e i rinvii, sia la sezione inglese (A) sia quella non inglese (B) sono state suddivise nelle parti seguenti: 1. 2.
3. 4.
5.
Opere d'ordentamento e di carattere generale Storia politica (a) Tarda Romanità e Ostrogoti (b) Italia Longobarda e Bizantina (c) Italia Carolingia (d) Italia Post-Carolingia e Impero Germanico (e) Italia Meridionale (f) Studi Locali Storia sociale Storia economica (a) Generale (b) Studi Urbani (c) Studi Rurali Chiesa e cultura (a) Storia della Religione (b) Papato e Roma (c) Cultura
I riferimenti a sezioni diverse sono indicati in forma abbreviata, per esempio: (B3-d) anche nelle note i rimandi bibliografici sono fatti utilizzando la forma abbreviata.
A. Bibliografia scelta di opere in inglese 1. Note d'orientamento e di carattere generale La maggior parte degli studi cospicui sull'Italia altomedievale non è di lingua inglese. Gli unici argomenti per i quali gli studi di lingua inglese possono in qualche modo competere con i migliori studi stranieri sono il periodo romano-ostrogoto, il papato e, recentemente, gli insediamenti umani e i ritrovamenti archeologici. Per altri aspetti, le lacune vanno colmate con analisi frammentarie mediocri, o con brevi sezioni in opere dedicate ad altri argomenti. Le sole eccezioni a tale penuria sono le opere di Donald Bullough, che trattano principalrnente dell'Italia carolingia. 2. Storia politica (a) Tarda Romanità e Ostrogoti L'opera fondamentale, in qualsiasi lingua, su tale argomento è AX.M. Jones, The Later Roman Empire, 3 voll. (Oxford, 1964). La narrazione più completa in inglese è J.B. Burv, History of the Later Roman Empire, 2 voll., II ed. (Londra, 1923), precedente a Stein (B3-a), ma di simili caratteristiche. Per la storia sociopolitica sino al 425 è basilare J. Matthews, Western Aristocracies and the Imperial Court (Oxford, 1975). I volumi II e III di Prosopography of the Later Roman Empire (Cambridge) costituiranno il più importante strumento di ricerca nei prossimi decenni. Per il periodo sino al 490, un'analisi prosopografica e testuale estremamente minuziosa sta producendo alcuni risultati: J. Matthews, Continuity in a Roman Family: the Rufii Festii ot Volsinii, «Historia», XVI (1967), pp. 484-509; B.L. Twyman, Aetius and the Aristocrary, «Historia», XIX (1970), pp. 480-503; FM. Claver, The Family and Early Career of Anicius Olybrius, « Historia », XXVII, (1978), pp. 169-96; M. McCormick, Odeacer, the Emperor Zeno, and the Rugian uictory legation, «Byzantion», XLVIl (1977), pp. 212-22. Sul periodo ostrogoto vi è pure A.H.M. Jones, The constitutional position of Odoacer and Theoderic, « Journal of Roman Studies », LII (1962), pp. 126-30. Il governo di Teodorico viene discusso da W.G. Sinnigen, Comites consistoriani in Ostrogothic Italy, «Classica et Mediaevalia», XXIV (1963), pp. 158-65; Administrative shifts ot competence under Theoderic, « Traditio », xxr (1965), pp. 4Só-67. Cfr. anche Aó-c. (b) Italia Longobarda e Bizantina Sull'archeologia longobarda vi è oggi I. Kiszely, The Anthropology of Lombards (Londra, 1979). Buoni risultati sono dati dall'attento esame di un dettaglio della storia amministrativa longobarda: D.A. Bullongh, «The Writing-office of the dukes of Spoleto in the 8th century », in idem (a cura di), The Study of Mediaeval Records (Oxford, 1971), pp. 1-21. Ravenna è studiata oggi in modo migliore, con importanti nuove opere di T.S. Brown, The church of Ravenna and the imperial administration in the 7th century, «English Historical Review», XCIV (1979), pp. 1-28, e Gentlemen and officers. Imperial administration and aristocratic power in Byzantine Italy 554-800 (Londra 1982). (c) Italia Carolingia Sull'amministrazione carolingia, cfr. D.A. Bullough, Baiuli in the Carolingian regnum Langobardorum and the career of abbot Waldo (1813), « English Historical Review », LXXVII (1962), pp. 625-37; idem, The counties of the regnum Italiae in the Carolingian period, 774-888: a
topographical study. 1, « Papers of the British Schocl at Rome », XXIII (1955), pp. 148-68; K.F. Drew, The immunity in Carolingian Italy, « Speculum », XXXVII (1962), pp. 182-97. Vi sono inoltre alcuni contributi storici di tipo più narrativo: T.F.X.. Noble, The Revolt of King Bernard of Italy, SM, XV (1974), pp. 315-26; C. Odegaard, The Empress Engelberge, « Speculum », XXVI (1951), pp. 77-103. (d) Italia Post-Carolingia e Impero Germanico Non c'è pressoché nulla di importante in questa sezione. C'è comunque qualche opera qualitativamente pregevole riguardante il periodo successivo al 1000; cfr. il libro di J.K. Hyde, Politics and society in communal Italy, 1000-1350 (Londra, 1975), trad. it. Bologna 1977. (e) Italia Meridionale Vi sono uno o due testi curati con introduzioni e commenti in inglese: U. Westerbergh, Chronicon Salernitanum (Lund, 1956), e idem, Beneventan 9th century poetry (Stoccolma, 1957) che include utili commenti sulla storia del secolo IX; M. Salzman, The Chronicle of Ahimaaz (New York, 1924). Sulla Sicilia araba c'è anche A. Ahmad, A history of Islamic Sicily (Edimburgo, 1975). Cfr. anche A5-b. (f) Studi Locali C'è uno studio locale su larga scala in inglese, R. Schumann, Auttority and the Commune. Parma 833-1133 (Parma, 1973). Sulla Milano del secolo XI, alla fine del periodo da noi esaminato, cfr. H.E.J. Cowdrey, Archibishop Aribert of Milan, «History», LI (1966), pp. 1-15; The papacy, the Patarines, and the cturch of Milan, « Transactions of the Royal Historical Society », V serie, 18 (1968), pp. 2S48. La storia vescovile di Lucca è discussa in E.G. Ranallo, The bisbops ot Lucca from Gherard I to Gherard II (868-1003), 5° Congresso (B,), pp. 719-35. 3. Storia sociale Mold udli rilievi sulla storia sociale dell'intero periodo sono fornid da CE. Boyd, Tithes and parishes in Mediaeval Italy (Ithaca, 1952). Sul diritto, importand per una comprensione della storia legale italiana sono due studi sul diritto altomedievale in generale: il fondamentale E. Levy, West Roman Vulgar Law, The Law of Property (Filadelfia, 1951) e lo stimolante articolo di C.P. Wormald, Lex Scripta and Verbum regis, in Early Mediaeval Ringship, a cura di P.H. Sawyer e IN. Wood (Leeds, 1977), pp. 105-38. Sulla struttura della famiglia, cir. D. Herlihy, Family Solidarity in Mediaeval Italian History, in R.S. Lopez e V. Slessarev (curatori), Economy, Society and Government in Mediaeval Italy (Kent, Ohio, 1969), pp. 173-84; D.O. Hughes, Urban Growth and Family Structure in Mediaeval Genoa, «Past and Present», I.XVI (1975), pp. 3-28. Sulle donne, D. Herlihy, Land, Family and Women in Continental Europe 701-1200, «Traditio», XVIII (1962), pp. 89-120, rileva differenze internazionali. 4. Storia economica
(a) Generale Buone sono le introduzioni della Cambridge Economic History: P.J. Jones, « Italy » in I, 2. edizione (1966), pp. 340-431, sul secolo XIII ma con osservazioni preziose sulla storia deU'agricoltura in tutto il Medio Evo; CE. Stevens, « Agriculture and rural life in the Later Roman Empire », ibid., pp. 92-124; R.S. Lopez, « The Trade of Mediaeval Europe—the South », II (1952), pp. 257-354. Su problemi dell'economia altomedievale in generale, cfr. P. Grierson, Commerce in the Dark Ages: a critique of the evidence, « Transacdons of the Royal Historical Society», v serie, 9 (1959), pp. 12340. L'alquanto parziale B. Hindess e P.Q. Hirst, Precapitalist Modes of Production (Londra, 1975) contiene importanti analisi. (b) Studi Urbani Su antiche città: AH.M. Jones (A3-a), completato dai propri articoli in The Roman Economy (Oxford, 1973), pp. 1-60. Su città altomedievali: D.A. Bullaugh, Social and Economic Structure and Topography in the Early Medieval City, Sett., XXI (1973), pp. 351-99; P-A. Février, Towns in the Western Mediterranean, in M.W. Barley (curatore), European Towns (Londra, 1977), pp. 31542. Si tratta di opere di carattere generale, che mettono in primo piano il materiale italiano. Analisi specifiche di aspetti della topografia urbana italiana sono M. Cagiano de Azavedo, Northern Italy, in Barley, pp. 475-84, e il fondamentale articolo di DA. Bullough, Urban change in Early Mediaeval Italy; the example of Pavia, «Papers of the British Schocl at Rome», XXXIv (1966), pp. 82-131. Per l'archeologia della città abbandonata di Luni, cfr. B. Ward-Perkins, Luni: the decline and abandonment of a Roman town in Blake (cfr. sotto, A5-r), pp. 313-21. Sul commercio, oltre R.S. Lopez e I.W. Raymond, Mediaeval trade in the Mediterranean world (Londra, 1955) e Lopez (A5:a), c'è R.S. Lopez, An aristoaacy of money in the Early Middle Ages, « Speculum », XXVIII (1953), pp. 1-43 sugli zecchieri, e due articoli di A.O. Citarella su Amalfi, The relations of Amalfi with the Arah world hefore the crusades, «Speculum», XLII (1967), pp. 299312, e Patterns in Medieval Trade - The Commerce of Amalh before the Crusades, «Journal of Economic History», XXVIII (1968), pp. 531-55. Utile anche A.R. Lewis, Naval power and trade in the Mediterranean, SOO-1100 (Princeton, 1951). Essenziale è A. Guillou, Production and profts in the Byzantine province of Italy, « Dumbarton Oaks Papers », XXVIIl (1974), pp. 89-109. (c) Studi Rurali P.J. Jones, An Italian estate, 900-1200, «Economic History Review», VII (1954), pp. 18-32 tratta degli sviluppi nel territorio di Lucca. Idee interessanti si possono anche trovare in alcuni articoli generali di D. Herlihy, Agrarian revolution in Southern France and Italy, 801-1150, « Speculum », XXXIII (1958), pp. 2341; History of the rural seigneury in Italy, 751-1200, « Agricultural History », XXXIII (1959), pp. 58-71; Treasure hoards in the Italian economy, «Economic History Review», x (1957), pp. 1-14. L'archeologia medievale sta compiendo passi enormi in Italia oggi, e un contributo sostanziale viene offerto dagli scavi e dalle ricognizioni sul campo da parte di archeologi britannici. In generale, HM. Blake, T.W. Potter e DA. Whitohouse (curatori), Papers in Italian Archaeology, I (Londra, 1978), presenta recenti indagini, specialmente l'articolo importante di Blake, Mediaeval pottery: technical innovation or economic change?, pp. 435-73. Per ricerche sul campo, cfr. T.W. Potter, The changing landscape of South Etruria (Londra, 1979), C.J. Wickham, Historical and topographical notes on Early Mediaeval South Etruria, «Papers of the British School at Rome»,
XLVI (1978) pp. 132-79 e XLVII (1979) pp. 66-95, e G.W. Barker (curatore), A Mediterranean Valley (Cambridge, 1983). 5. Chiesa e cultura (a) Storia della Religione La guida migliore in questo campo è Boyd (A4), pur se tratta solo una parte dell'argomento. (b) Papato e Roma Per Roma abbiamo in effetti sin troppe opere in lingua inglese da elencare Per esposizioni di carattere generale, cEr. J. Richards, The popes and the papacy in the early middle ages, 476-752 (Londra, 1979). La storia territoriale del papato è trattata in modo soddisfacente da P. Partuer, The lands of St. Peter (l~ondra, 1972). Tutti questi libri contengono bibliografie. Per argomenti più specifici, cfr. P A. Llewellyn, The Roman Church in the 7th century, « Journal of Ecclesiastical History », xxv (1974), pp. 363-80; idem, Constans II and the Roman Church, «Byzantion», XLVI (1976), pp. 120-60; D.H.. Miller, The Roman Revolution of the 8th century, «Mediaeval Studies», XXXVI (1974), pp. 79-133; J.T. Hallenbeck, The Lombard party in 8th century Rome, SM, XV (1974), pp. 951-66; B. Hamilton, Monastic revival in the 10th century Rome, « Studia Monastica », IV (1962), pp. 35-68. Come biografia, F. Homes Dudden, Gregory the Great, 2 voll. (Londra, 1905), non è stata ancora completamente superata. (c) Cultura Per il periodo ostrogoto, abbiamo A. Momigliano, Cassiodorus and the Italian culture of his time, « Proceedings of the British Academy », XLI (1955), pp. 207-45; se ne veda l'ampia bibliografia per altre opere su questo periodo. Per la cultura precarolingia, cir. M.L.W. Laistner, Thonght and Letters in Western Europe 500-900 (Londra, 1957). Per un aspetto dell'ideologia urbana nel secolo VIII e di periodi successivi, cfr. J.K. Hyde, Medieval descrittions of cities, « Bulletin of the John Rylands Library», XLVIII (1966), pp. 308-40. Per la cultura nel Meridione, cfr. Westerbergh (A3e). B. Bibliograia scelta di opere in altre lingue 1. Opere d'orientamento e di carattere generale Gli Ítaliani sono più consapevoli dei propri presupposti ideologici di quanto non lo siano i Britannici. Di conseguenza, molti articoli e libri di questa bibliografia includono analisi di tradizioni storiografiche e di criteri metodologici. La recente opera storica collettiva, Einaudi Storia d’Italia (Torino, 1974), costituisce il contributo recente più evidente, e comprende anche le migliori introduzioni alla storia sociopolitica e sociocconomica altomedievale, G. Tabacco, «La storia politica e sociale », II, pp. 5-167, e P.J. Jones, « La storia economica », Ll, pp. 14691681. Altre esposizioni di carattere generale sono più interessate ad aspetti politici, soprattutto quella di Vallardi; i volumi rilevanti sono G. Romano e A. Solmi, Le dominazioni barbariche in Italia (Milano, 1940-5), oggi piuttosto superato, e C.G. Mor, L'età feudale (Milano, 1952). Una nuova serie, pubblicata da UTET, con minori ambizioni ma pure comprendente indagini recenti, è anche in corso, e ne è apparso il volume Il, V. Fumagalli, Il regno italico (Torino, 1978), sui secoli IX e X.
L'unica storia di carattere generale scritta da un solo autore e riguardante l'intero nostro periodo è LM. Hartrnann, Geschichte Italiens im Mittelalter, 4 voll. (Gotha, 1900-23), che resta un classico. Una panoramica introduttiva è quella di G.L. Barni e L. Fasoli, L'Italia nell'alto medioevo (Torino, 1971). E. Sestan, Stato e nazione nell'alto medioevo (Napoli, 1952), contiene interessanti osservazioni sugli sviluppi italiani sino all'800 circa. Per le tendenze e le scuole moderne su questo periodo, l'approccio più semplice consiste probabilmente nel seguire i riferimenti a importanti autori quali Bognetti, Violante, Tabacco, Fumagalli, nella bibliografia che segue. Sotto l'egida del Centro Italiano di Studi sull'Alto Medioevo, si organizzano congressi annuali a Spoleto sull'alto medioevo europeo, i cui atti vengono pubblicati come Settimane di Studio. Sono questi i luoghi migliori ove cercare contributi recenti. Il Centro organizza anche altri congressi meno regolari sull'Italia, i Congressi Internazionali di Studio sull'Alto Medioevo; sono spesso di minor qualità, con l'eccezione del quinto congresso, dedicato alla Toscana altomedievale (Spoleto, 1973). Bibliografie: sulla storia economica, l'articolo di Jones, già citato, offre la bibliogrfia più completa immaginabile; la serie dell'UTET offrirà bibliografie aggiornate di carattere generale. 2. Fonti I Monumenta Germaniae Historica (MGH) offrono normalmente le migliori edizioni di fonti tardoromane (Auctores Antiquissimi), di esposizioni storiche narrative (Scrittores), di editti di imperatori germanici e carolingi (Diplomata); lettere, poesie, ecc. Le Fonti per la storia d'Italia (Roma, 1887-), costituiscono l'equivalente italiano per quei testi che non trattano specificamente dei periodi di dominazione transalpina, soprattutto gli editti dei re longobardi indigeni e di quelli postcarolingi, e altre collezioni nazionali di contratti e di casi giudiziari (U. Manaresi (curatore), Placiti [Roma, 1955-]). Per raccolte locali di documenti, cfr. I'elenco in Fumagalli (B,), pp. 306-7, in particolare la serie Regesta Chartarum Italiae (Roma, 1914-), G. Porro-Lambertenghi, Codex Diplomaticus Langobardiae (Torino, 1873), e D. Barsocchini, Memorie e documenti per servire all'istoria di Lucca, v (Lucca, 183741). Per i polittici l'edizione di base è ora Inventari altomedievali di terre coloni e redditi, a cura di A. Castagnetti et al. (Roma 1979). A partire dal secolo XI, la raccolta fondamentale di fonti si trova nella seconda vasta edizione di Muratori, Rerum Italicarum Scrittores (Bologna, 1900-). 3. Storia politica Per un'introduzione generale, cfr. Tabacco e Hartmann (B1). (a) Tarda Romanità e Ostrogoti E. Stein, Histoire du Bas-Empire, 2 voll. (Bruges, 1949-59) resta l'esposizione migliore e più dettagliata fino al 565. In particolare, il periodo antecedente al 476 manca di analisi più recenti, se si eccettua M.A. Wes, Das Ende des Kaisertums im Westen des romischen Reiches (L'Aia, 1967). Cfr. anche K.F. Stroheker, Der politische Zerfall der romischen Westens in Idem, Germanentum und Spatantike (Stoccarda, 1965), pp. 88-100. Per quanto concerne l'aristocrazia, sono basilari le opere di J. Sundwall, Westromische Studien (Berlino, 1915) e Abbandlungen zur Geschichte des ausgehenden Romertums (Helsinki, 1919), con A. Chastagnol, Le Sénat romain scus le règne d'Odoacre (Bonn, 1966). Sul 476, la guida più intelligente è A. Momigliano, La caduta senza rumore di un impero nel 476 d.C., RSI, LXXXV (1973), pp. 5-21.
Per gli Ostrogoti, W. Ensslin, Theoderich der Grosse (Monaco, 1947) resta importante; chi conosce il russo potrebbe provare Z.V. Udal'tsova, Italiya i Vizantiya V. VI veke (Mosca, 1959), che, nonostante il titolo, riguarda quasi completamente il periodo ostrogoto. Sull'archeologia degli insediamenti ostrogoti, cEr. V. Bierbrauer, Die ostgotischen Grab- und Schatzfunde in Italien (Spoleto, 1975). Sull'economia del periodo ostrogoto (e dei secoli IV e v), cfr. Ruggini (B~c). (b) Italia Longobarda e Bizantina Su tutta la storia politica post-romana: per le entrate dei monarchi, C.R. Brnhl, Fodrum, Gùtum, Servitium Regis (Colonia, 1968); P. Darmstadter, Das Reichsgut in der Lombardei und Piemont 568-1250 (Strasburgo, 1896); F. Schneider, Die Reichsvermaltung in Toscana (5681268), I (Roma, 1914). Per le biografie politiche, il Dizionario Biograico degli Italiani (Roma, 1960-) ha raggiunto solo il volume della lettera C, ma un numero sorprendentemente alto di personaggi politici altomedievali ha nomi che iniziano con le lettere A o B. Sui Longobardi, lo storico classico è G.P. Bognetti, le cui opere sui Longobardi sono raccolte nella maggior parte in L'Età Longobarda (4 voll., Milano, 1966~8). La raccolta comprende una vasta gamma di articoli, specifici o generici; arguti o azardati; idee di prima, seconda e terza mano su vari argomend; nel vol. Il, « S. Maria di Castelseprio e la storia religiosa dei Longobardi », costituisce il testo principale; cfr. poi, come esposizioni introduttive, nel vol. I, « Longobardi e Romani » e « Il gastaldato longobardo »; nel vol. IlI, « I ministri romani dei re longobardi», « Processo logico e integrazioni delle fonti nella storiografia di Paolo Diacono », « I loca sanctorum », e « Tradizione longobarda e politica bizantina nelle origini del ducato di Spoleto »; nel vol. IV, « La proprietà della terra », « L'editto di Rotari come espediente politico », e « La continuità delle sedi episcopali ». Per i Longobardi precedentemente al 568: J. Werner, Die Langobarden in Pannonien (Monaco, 1962). L'archeologia longobarda è discussa, regione per regione, in una serie di elenchi in SM, da XIV (1973) in poi. Per l'artigiano metallurgico in Italia dei Longobardi, cfr. S. Fuchs, Die Langobardùchen Goldblatthreaze (Berlino, 1938); S. Fuchs e J. Werner, Die langobardischen Fibeln aus Italien (Berlino, 1950); per la cerarnica, O. von Hessen, Die langobardische Keramik aus Italien (Wiesbaden, 1968). Su alcuni dei principali siti archeologici: R. Mengarelli, L a necropoli barbarica di Castel Trosino, « Monumenti Antichi », XII (1902), 145-380, e P. Pasqui e R. Paribeni, La necropoli barbarica di Nocera Umbra, « Monumenti Antichi», xxv, (1918), 13~352; C. Fingerlin, J. Garbsch, J. Werner, Gli scavi nel castello longobardo di Ibligo-Invillino, «Aquileia Nostra», XXXIX (1968), 57-135. Per la toponomastica, E. Gamillscheg, Romania Germanica, II (Berlino, 1936) costituisce un punto d'inizio. Un'esposizione storica narrativa si trova in Bognetti, « S. Maria», citato sopra; L. Schrnidt, Geschichte der deutschen Stamme: die Ostgermanen (2° edizione, Monaco, 1934), fino al 590; G. Fasoli, I Longobardi in Italia (Bologna, 196S). Per i Longobardi e il Papato, cfr. B.; comunque molti preziosi articoli su tale aspetto e sulla storia religiosa longobarda in generale sono raccolti in O. Bertolini, Scritti scelti, 2 voll. (Livorno, 1968). I rapporti franco-longobardi sono discussi in G. Tangl, Die Passvorschrilt des Konigs Ratchis, QP, XXXVIII (1958), pp. 1-66; K. Schmid, Zur Ablosung der Langobardenherrschalt durch die Franben, QP, LII (1972), pp. 1-35. Del ducato di Benevento fino al 744 si discute in F. Hirsch, Il ducato di Benevento sino alla caduta del regno longobardo (tr. di un testo tedesco, Roma, 1890).
Paolo Diacono è oggetto di una vasta storiografia, per lo più di cattiva qualità; le guide migliori sono Bognetti, Processo logico, citato sopra, ed E. Sestan, La storiografia dell'Italia longobarda: Paolo Diacono, Sett., XVII (1969), pp. 357-86. Sullo stato longobardo, I'introduzione migliore è di C.R. Brahl, Zentral- und FinanzverwaNung im Franben und im Langobardenreich, Sett., xx (1972), pp. 6194. Cfr. anche Bognetti, passim; P.S. Leicht, Gli elementi romani nella costituzione longobarda, « A.S. Italiano », LXXXI (1923), pp. 524; C.G. Mor, I gastaldi con potere ducale nell'ordinamento pubblico longobardo, I Cong. Internaz. di Studi Longobardi (Spoleto, 1952), pp. 409-16; R. Schneider, Konigswahl und Konigserbebung im Frùhmittelalter (Stoccarda, 1972). Per l'amministrazione locale, cfr. sezione (c), qui sotto. Per la prosopografia, cfr. J. Jarnut, Prosopografische und sozialgeschichtliche Studien zum Langobardenreich in Italien (Bonn, 1972). Per l'Italia bizantina: A. GuiDou, Régionalisme et indépendence dans l'empire byzantin au 7 siècle (Roma, 1969) per Ravenna, e A. Simonini, Autocefalia ed esarcato in Italia (Ravenna, 1969). Per Agnello, G. Fasoli, Rileggendo il Liber Pontificalis di Agnello Ravennate, Sett., XVII (1969), pp. 457-95. Per tutta la documentazione ravennate e per altri materiali, J-O. Tjader, D i e nichtliterarischen lateinischen Papyri Italiens, I (Lund, 1955). Per l'Umbria, S. Mochi Onory, Ricerche sui poteri civili dei vescovi nelle città umbre (Roma, 1930); per Venezia, R. Cessi, Venezia Ducale (Venezia, 1940); per Roma, cEr. Bó-b. (c) Italia Carolingia (Cfr. anche (f)) Introduzioni basilari sono E. Hlavvitschka, Franken, Alemannen, Bagern und Burgander in Oberitalien 774-962 (Friburgo, 1960); J. Fischer, Konigium, Adel und Kirche im Kànigreich Italien 774-875 (Bonn, 1965); P. Delogu, Strutture politiche e ideologia nel regno di Ludovico II, BISI, LXXX (1968), pp. 137-89. Per il governo centrale, cfr.: D A. Bullough, Leo qui apud Hlottarium magni loci habebatur et le gonvernement du Regnum Italiae à l'époque carolingienne, « Le Moyen Age », LXVII (1961), pp. 22145; H. Keller, Zur Struktur der Kànigsherrschalt im karolingischen und nachiarolingischen Italien, QP, XLVII (1967), pp. 123-223; idem, Der Gerichtsort in oberitalienischen und tosianischen Stadten, QF, XLIX (1969), pp. 1-71; O. Bertolini, I vescovi del Regnum Langobardorum al tempo dei Carolingi, Vescovi e diocesi in Italia nel medioevo (Padova, 1964), pp. 1-26; F. Manacorda, Ricerche sugli inizi della dominazione dei Carolingi in Italia (Roma, 1968), per lo più sui capitolari. Per il governo locale, V. Fumagalli, Città e distretti minori nell'Italia Carolingia. Un esempio, RSI, IXXXI (1969), pp. 107-17; idem, L'amministrazione periferica dello stato nell'Emilia occidentale in età Carolingia, RSI, LXXXIII (1971), pp. 911-20; A. Castagnetti, Distretti fiscali autonomi o sottoscrizioni della contea cittadina? La Gardesana veronese in epoca Carolingia, RSI, LXXXII (1970), pp. 73643; P. Delogu, L'istituzione comitale nell'Italia Carolingia, BISI, LXXIX (1968), pp. 53-114. Per i margravi, A. Hofmeister, Markgrafen und Marigralschaiten im italischen Konigreich, in « Mitteilungen des Instituts fùr osterreichische GeschichtforscLung, Erganzungsband», VII (1906), pp. 215435. Per la Toscana, cfr. sezione (f); per Spoleto, E. Taurino, L'organizzazione territoriale della contea di Fermo nei secoli 8-10, SM, XI (1970), pp. 659-710; E. Saracco Previdi, Lo sculdahis nel territorio longobardo di Rieti, SM, XIV (1973), pp. 627-76. Per lo stato carolingio ed i suoi abitanti, cfr. Tabacco (B`).
(d) Italia Post-Carolingia e Impero Germanico Cfr. Mor (B,); Hlawitschka, Hofrneister, Keller (B3-c). Il testo più importante è S. Pivano, Stato e chiesa da Berengario I ad Ardaino 888-1015 (Torino, 1908); anche G. Fasoli, I re d'ltalia 888-962 (Firenze, 1949). Per la storia politica sino al 905, P. Delogu, Vescovi, conti, e sovrani nella crisi del regno italico, « Annali della scuola speciale per archivisti e bibliotecari dell'Università di Roma », VIII (1968), pp. 3-72. Per il secolo XI, C Violante, L'età della riforma della chiesa in Italia, UTET, Storia d'Italia, I (Torino, 1959); e, per il movimento delle città all'indipendenza, F. Fasoli, Dalla «civitas» al comune nell'Italia settentrionale (Bologna, 1969), e W.W. Goetz, Le origini dei comuni italiani (tr. di un testo tedesco, Milano, 1965), che sono le guide migliori ai problemi molto complessi. Pivano ha individuato la tradizione della presa di possesso di città da parte di vescovi nel secolo X, e di questa si son fatte di recente varie buone analisi, soprattutto E. Dupré Theseider, Vescovi e città nell'Italia precomunale, Vescovi e diocesi in Italia (Padova, 1964), pp. 55-109; V. Fumagalli, Vescovi e conti nell'Emilia occidentale da Berengario I a Ottone I, SM, XIV (1973), pp. 137-204; G. Rossetti, Formazione e caratteri delle signorie di castello e dei poteri territoriali dei vescovi sulle città nella Langobardia del s. 10, «Aevum», XLVIII (1974), pp. 1-67; C. Manaresi, Alle origini del potere dei vescovi sul territorio esterno delle città, BISI, LVIII ( 1944), pp. 221-328, consiglia cautela. A. Solmi, L'amministrazione finanziaria del regno italico nell’alto medioevo (Pavia, 1932) e C.R. Brilhl, Das Palatium von Pavia und die Honorantiae Civitatis Papiae, 4° Cong. Int. di Studi sull'Alto Medioevo (Spoleto, 1969), pp. 189-220, discutono del declino di Pavia come capitale; G. Tabacco, La dissoluzione medievale dello stato nella recente storiografia, SM, I (1960), pp. 397-446 pone la frantumazione dell'Italia all'interno di un contesto internazionale. La maggior parte delle analisi relative a questo periodo consiste di opere sulla storia locale, elencate nella sezione (f). (e) Italia Meridionale Per Bisanzio, I'opera panoramica più importante rimane ancora J. Gay, L'Italie méridionale et l'empire byzantin (Parigi, 1904). Per alcune analisi della società e delle istituzioni, cfr. V. von Falkenhausen, Untersuchangen ùber die byzantinische Herrschalt in Suditalien (Wiesbaden, 1967); A. Guillou, Studies on Byzantine Italy (Londra, 1970), raccolta di articoli, per lo più in francese; idem, Italie méridionale byzantine ou Byzantins en Italie méridionale?, « Byzantion », XIIV (1974), pp. 152-90. C'è una traduzione italiana, di carattere devozionale, della vita greca di S. Nilo: G. Giovanelli, Vita di S. Nilo (Grottalerrata, 1966). I territori bizantini indipendenti del sud hanno tutti trattazioni storiche, di vario pregio. Le migliori sono dovute a G. Cassandro e N. Cilento, nei loro contributi alla Storia di Napoli, II (Napoli, 1969), che costituisce il punto di partenza per la storia napoletana. Cfr. anche, per Gaeta, A. Leccese, Le origini del ducato di Gaeta (Gubbio, 1941), e, per Amalti, M. Berza, Amalfi preducale, « Ephemeris Dacoromana», VIII (1938), pp. 349-444. Sulla Sardegna: E. Besta, La Sardegna Medioevale (2. edizione, Palermo, 1908-9). L'unica opera dedicata agli Arabi a Bari è G. Musca, L'emirato di Bari (Bari, 1964). La Sicilia prearaba viene discussa da M.I. Finley, Storia della Sicilia antica (Bari, 1979). L'opera fondamentale sulla Sicilia araba, comunque, è ormai un vero e proprio classico: M. Amari, Storia dei musulmani di Sicilia, 3 voll. 2° edizione (Catania, 1933-9).
Sull'Italia meridionale longobarda, N. Cilento, Italia meridionale longobarda (2' edizione, Milano, 1971) costituisce l'approccio iniziale migliore, e il suo Le origini della signoria capuana (Roma, 1966), sulla Capua del IX secolo, costituisce pure il miglior studio recente riguardante una località del sud. Benevento è oggetto di una pregevole analisi di R. Poupardin, Les institutions politiques et adminùtratives des principautés lombardes (Parigi, 1907), e praticamente da nessun altro da allora, comunque cfr. H. Belting, Studien zum beneventanischen Hof im 8. Jht, « Dumbarton Oaks Paperis », xvr (1962), pp. 141-93. Salerno è studiata in modo più esauriente; per una panoramica, cfr. M. Schipa, Storia del principato longobardo di Salerno (Napoli, 1887); per una storia socioreligiosa, R. Ruggiero, Principi, nobiltà e la chiesa nel Mezzogiorno longobardo (Napoli, 1973), che esamina un solo monastero salernitano; per la città vera e propria, cEr. P. Delogu, Mito di una città meridionale (Napo]i, 1977), testo davvero stimolante. Per i rapporti tra nord e sud, cfr. O. Bertolini, I papi e le relazioni politiche con i ducati longobardi di Spoleto e di Benevento, « Rivista di storia della chiesa in Italia », VI (1952), pp. 1-46, VIII (1954), pp. 1-22, IX (1955), pp. 1-57 per. il periodo longobardo; idem, Carlomagno e Benevento, in H. Beumann (curatore), Karl der Grosse, I (Msseldorf, 1965), pp. 609-71; parecchi articoli in 3° Cong. Int. di Studi sull'Alto Medioevo (Spoleto, 1959); R. Ruggiero, Il ducato di Spoleto e i tentativi di penetrazione dei franchi nell'Italia meridionale, « A.S. per le province Napoletane, LXXXIVEXXXV (1966-7), pp. 71-116. Il X secolo ha ricevuto attenzione assai minore; cfr. il 3° Congresso, succitato, e Mor (B'). Questo accade anche per la storia interna degli stad longobardi: per esempio, non c'è nessuna trattazione adeguata relativa a Pandulfo I; per l'inizio di un'analisi dello smembramento di Capua-Benevento, cfr. F. Scandone, Il gastaldato d'Aquino dalla metà del s. 9 alla fine del s. 10, « A.S. per le province Napoletane », XXXIII (1908), pp. 720-35, XXXIV (1909), pp. 49-77; A. de Francesco, Origini e sviluppo del feudalesimo nel Molise, ibid., XXXIV, pp. 43260, 640-71; xxxv (1910), pp. 70-98, 273-307. (f) Studi Locali In questa categoria rientra la maggior parte della migliore storiografia italiana recente, riguardante in particolare il periodo posteriore al 900 ma anche, in maniera crescente, per il secolo IX. Queste opere riguardano in genere due o tre secoli, e molti aspetti della storia sociale, economica e politica, come pure della storia religiosa. Parecchie opere storiche collettive su singole città contengono importanti studi del periodo da noi trattato: storia di Milano, II (Milano, 1954) e Storia di Brescia, I (Brescia, 1963) includono alcune delle cose migliori di Bognetti; Verona ed il suo territorio, I-II (Verona, 1964) e Storia di Genova, II (Genova, 1941) presentano utili materiali. Per il Piemonte, si è lavorato molto, recentemente, riprendendo la tradizione troppo trascurata dei maestri degli inizi del secolo, come Gabotto; a ciò ha contribuito sostanzialmente il periodico locale torinese, Bollettino storico-bibliografico subalpino (BSBS), dove sono apparsi per esempio vari importanti articoli su Asti, in BSBS, [XXIII (1975), una serie di preziosi articoli sugli insediamenti in Piemonte, di A.A. Settia, apparsi sin dall'inizio degli anni Settanta, R. Comba, La dinamica dell'insediamento umano nel Cuneese (sec. 10-13), BSBS, LXXII (1973), pp. 511-602. Per l'insediamento alemanno ad Asti: R. Bordone, Un'attiva minoranza etnica nell'alto medioevo, QF, LIV (1974), pp. 1-57. Per la storia politica, cfr. G. Sergi, Una grande circoscrizione del regno italico: la marca aduinica di Torino, SM, XII (1971), pp. 637-712. Per la Lombardia, la documentazione è maggiore e gli studi tendono ad essere più corposi. C. Violante, La società milanese nell'età precomunale (Bari, 1953) costituisce uno dei classici del
settore; per uno studio locale paradigmatico, su Cologno Monzese, cfr. G. Rossetti, Società e istituzioni nel contado lombardo, I (Milano, 1968). Per Mantova: P. Torelli, Un comune cittadino in territorio ad economia agraria (2 voll. Mantova, 1930-52). L'Emilia è al centro di molte opere di V. Fumagalli, in particolare Le origini di una grande dinastia feudale. Adalberto-Atto di Canossa (Tubinga, 1971) e Terra e società nell'Italia padana (2^ edizione, Torino, 1976) che inquadra la storiografia recente. Per la Toscana, la miglior panoramica recente si trova nella raccolta di articoli in 5° Cong. Int. di Studi sull'Alto Medioevo (Spoleto, 1973), in particolare quelli di Keller, Schwarzmaier, Tabacco, Rossetti, Kurre, Belli Barsali. Sulla marca, poi, cfr. gli articoli in Dizionario Biografico degli Italiani, sotto le voci Adalberto, Bonifacio; e i libri di A. Falce, La formazione della marca di Tuscia (Firenze, 1930), Il marchese Ugo di Toscana (Firenze, 1923) e Bonifacio di Canossa, I (Reggio, 1927). Su aree più ristrette, cfr. G. Volpe, Toscana medievale (Firenze, 1964) per Luni e Volterra; H.M. Schwarzmaier, Lucca und das Reich bis zum Ende des 11 ten Jhts (Tubingen, 1972), con la recensione (in italiano) di H. Jakobs in QF, LIV (1974), pp. 471-82; E. Conti, La formazione della struttura agraria moderna nel contado fiorentino, I (Roma, 1965); P. Cammarosano, La famiglia dei Berardenghi (Spoleto, 1974); tutti questi studi sono di buona qualità. Su Spoleto e i dintorni di Roma, cfr. P. Toubert, Feudalesimo mediterraneo. Le strutture del Lazio medievale (Milano 1980), uno dei libri più importanti e notevoli riguardanti la storia italiana apparsi in questi ultimi anni; cfr. le recensioni di H. Hoffmann in QF, LVII (1977), pp. 145 e di V. Fumagalli in RSI, LXXXVIII (1976), pp. 90-103. Sul sud, si veda sopra (B3-e); su Roma, si veda sotto (B6-b). 4. Storia Sociale Cfr., ancora una volta, Tabacco (B,). Ho indicato nella sezione precedente (B3-f) le analisi di regioni e località italiane; qui di seguito si troveranno trattazioni più generali. La storia sociale italiana è stata tradizionalmente dominata da storici delle istituzioni legali, e per molto tempo rimase la storia delle istituzioni sociali, più che della struttura sociale. Le svolte decisive si ebbero con il libro di Violante su Milano (B3f) e con G. Tabacco, I liberi del re nell'Italia carolingia e post-carolingia (Spoleto, 1966) sulle prestazioni di servizio da parte dei liberi carolingi, che dettero una direzione nuova all'argomento. Le opere successive al 1953 nella sezione precedente e al 1966 in questa sezione tendono a contenere riferimenti e terminologie più sofisticati da un punto di vista sociologico, pur se alcuni dei testi dedicati maggiormente alle istituzioni legali, soprattutto quelli di P.S. Leicht e G. Salvioli, rimangono di grandissimo valore. Come introduzioni, si possono indicare due opere che per molto tempo hanno costituito gli studi fondamentali, P.S. Leicht, Studi sulla proprietà fondiaria nel medioevo, 2 voll. (Padova, 1903-7) e F. Schneider, Die Entstetung von Burg und Landgemeinde in Italien (Berlino, 1924). Per il periodo longobardo, I'organizzazione militare è stata al centro degli studi storici. Opere recenti includono O. Bertolini, Ordinamenti militari e strutture sociali dei Longobardi in Italia, Sett., xv (1967), pp. 429-629; P.M. Conti, Devotio e viri devoti in Italia da Diocleziano ai Carolingi (Padova, 1971); e, molto innovativo, G. Tabacco, Dai possessori dell'età carolingia agli esercitali dell'età longobarda, sm, x, 1 (1969), pp. 221-68; idem., La connessione tra potere e possesso nel regno franco e nel regno longobardo, Sett., xx (1972), pp. 133-68 e 207-28. Cfr. anche A.I. Nieussychin, Die Entstetung der abbangigen Banernschait (tr. dal russo, Berlino, 1961).
Per i Carolingi, cfr. Tabacco, Liberi del re, cit. sopra, e idem, Il regno italico, 9-lls., Sett., xv (1967), pp. 763-90. Sul feudalesimo italiano, P.S. Leicht, Il feudo in Italia nell'età carolingia, Sett., I (1953), pp. 71-107; per il declino dei liberi nel periodo carolingio, cfr. anche V. Fumagalli, Le modificazioni politico-istituzionali in Italia sotto la dominazione carolingia, Sett., XXVII (1979) pp. 293-338. Gli aspetti sociogiuridici dell'incastellamento godono di una vasta storiografia, a partire da P. Vaccari, La territorialità come base dell'ordinamento giuridico del contado nell'Italia medievale (1921; 2' edizione Milano, 1963). Cfr., in particolare, F. Cusin, Per la storia del castello medievale, RSI, I (1938), pp. 492-541; G. Fasoli, Castelli e signorie rurali, Sett., XIII (1965), pp. 531-67; G.P. Bognetti, Terrore e sicurezza sotto re nostrani e sotto re stranieri, in Storia di Milano, II (B3-fl, pp. 80841. Cfr. anche (B3-f) per i castelli come elemento della storia locale, e (Bs-c) per i mutamenti dell'insediamento. Per la storia sociale della città, cfr. Fasoli e Goetz (B3-d) e due altri articoli di Fasoli, Che cosa sappiamo delle città italiane nell'alto medioevo?, « Vierteljahrsschrift fur Sozial- und Wirtschaftsgeschichte», XLVII (1960), pp. 289-305; (con R. Manselli e G. Tabacco) La struttura sociale delle città italiane dal 5 al 12 secolo « Vortrage und Forschungen », XI (1966), pp. 291320. Come istituzioni legali, G. Mengozzi, La città italiana nell'alto medio evo, 2° edizione (Firenze, 1931). Per la struttura familiare dell'aristocrazia, Famille et Parenté, a cura di G. Duby e J. Le Goff (Roma, 1977), costituisce oggi un punto di partenza, in particolare per l'articolo di Violante. Per il consortium in questo periodo, G. Salvioli, « Consortes e colliberti», Atti e memorie di storia patria per le provincie modenesi e parmensi, III ser., 2 (1884), pp. 183-223. Per i monasteri familiari, cfr. Cammarosano (B3-f) e Kurze in 5° Congresso (B3-f) e gli altri articoli di Kurze sui monasteri toscani, particolarmente Der Adel und das Kloster S. Salvatore all'Isola, QF, XLVII (1967), pp. 446-573. Sul diritto, si vedano le panoramiche introduttive di P.S. Leicht, Il diritto italiano preirneriano (Bologna, 1933), e l'opera in molti volumi Storia del diritto italiano (ultime edizioni, Milano, 194150). F. Schupfer, Il diritto privato dei popoli germanici con speciale riguardo all'ltalia, 4 voll., 28 edizione (Roma, 1914), è ancora utile, pur se molto prolisso. Dopo un certo intervallo, I'analisi dettagliata del testo legale del codice longobardo è ripresa: ad esempio, P.L. Falaschi, L a successione volontaria nella legislazione longobarda, « Annali della facoltà giuridica: Università degli studi di Camerino», XXXIV (1968), pp. 197-300. Più fedele è l'analisi del rapporto fra diritto e società: per un inizio in tal senso, cfr. F. Sinatti d'Amico, L'applicazione dell'edictum regnarn langobardorum in Tuscia, in 5° Congresso (B3-f), pp. 745-81. Per una massa di idee su svariati problemi, P.S. Leicht, Scritti vari, 3 voll. (Milano, 1942-9).
5. Storia Economica (a) Generale Il punto di partenza è costituito da P.J. Jones (B,), con altri articoli nella stessa serie, in Einaudi Storia d'Italia, v e Annali, I (Torino, 1973, 1979). Molto materiale recente è apparso nelle Settimane di Studio, in particolare VI (la città), VIII (il denaro), XIII (I'agricoltura) e XXII (la topografia urbana). La miglior panoramica succinta si trova in G. Luzzatto, Storia economica
d'Italia. Il Medio Evo (Firenze, 19672). Sui problemi dell'economia altomedievale in generale G. Duby, Le Origini dell'economia europea. Guerrieri e contadini nel medio evo (Bari, 1978). Ci sono alcune panoramiche generali di storia economica sui singoli periodi che mettono in connessione fra loro materiali urbani e rurali. Una delle migliori è P.S. Leicht, Operai, artigiani e agricoltori in Italia, 6-16ss. (Milano, 1946). F. Carli, ll mercato nell'alto medioevo (Padova, 1934) costituisce un classico nel suo genere e la migliore introduzione allo studio dei vari tipi di scambio nel nostro periodo. Per il periodo romano-ostrogoto, ci sono Hannestad e Ruggini, che vanno più giustamente elencati in (B5-c), poiché danng particolare rilievo all'agricoltura; per il periodo longobardo, c'è Fasoli (B,-c) e E. Bernareggi, Il sistema economico e la monetazione dei Longobardi nell'Italia superiore (Milano, 1960). F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II (2 voll., Torino) è un testo cruciale per il Mediterraneo di qualsiasi epoca. (b) Studi Urbani Per singole città cfr. (B3-f). Per un'introduzione essenziale alla topografia, con riferimenti a materiali più specifici, cfr. P-A. Février, Permanence et kéritages de l'antiquité dans la topographie des villes de l'occident durant le haute meyen age, Sett., XXI, pp. 41-138. Un modello di topografia urbana si trova in I. Belli Barsali, La topografia di Lucca nei ss. 8-11, 5° Congresso (B3-fl, pp. 461554. Per la storia economica delle città di una particolare regione, la Campania, cfr. I'importante articolo di G. Galasso, Le città campane nell'alto medioevo, « A.S. per le pro. vincie Napoletane», LXXVII (1959), pp. 9-42, LXXVII (1960), pp. 9-53; per altro materiale sulla Campania, cir. (B3-e). Per Venezia, cfr. le sezioni iniziali in G. Luzzatto, Storia economica di Venezia (Venezia, 1961). Tuttavia, è ancora difficile scrivere la storia economica di singole città e regioni, in quanto la documentazione relativa al nostro periodo è quasi assente. Per la storia del commercio in senso stretto, assieme a Carli, si possono scegliere vari articoli di LM. Hartmann, Zur WirtschaltsgeschicAte Italiens im frùfen Mittelalter. Analehten (Gotha, 1904), in particolare per il commercio lungo il Po; e A. Schaube, Storia del commercio dei popoli latini del mediterraneo sino alla fine delle Crociate (tr. dal tedesco, Torino, 1915). Sull'industria, c'è l'articolo fondamentale di U. Monneret de Villard, L'organizzazione industriale nell'Italia langobarda durante l'alto medioevo, « A.S. Lombardo », v ser., 46 (1919), pp. 1-83, con un'aggiunta su Magistri Commacini nel numero 47 (1920), pp. 1-14, argomento che ha suscitato una vasta controversia: cir. Ia sintesi di M. Salmi, Magistri Comacini o Commàcini, Sett., XVIII (1970), pp. 409-24. Sul denaro, vi è un'ampia e diffusa bibliograba tecnica, che inizia anche questa da Monneret de Villard; cfr. P. Grierson, Bibliographie numismatique (BruxeRes, 1966), pp. 76-78, 104-110; tutta l'opera di Grierson sull'Italia (scritta in varie lingue) è raccolta oggi in Dark Age Numismatics (Londraj, 1979). (c) Studi Rurali E’ interessante osservare come una gran percentuale delle migliori analisi sull'economia del nostro periodo riguardi l'agricoltura e la vita rurale, mentre la storia agraria del periodo dei comuni e postcomunale italiano è molto più rada. In generale, si veda la problematica posta in P.J. Jones, L'Italia agraria nelI'alto medioevo, Sett., XIII (1965), pp. 57.92. G. Salvioli, Città e campagne prima e dopo il mille (Palermo, 1901) è ancora sorprendentemente interessante. E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano (Bari, 1961), in modo curioso, per l'allora responsabile del Partito Comunista Italiano per l'agricoltura, si basa per lo più sulle arti e sulla letteratura. In tempi più recenti, una serie di articoli di V. Fumagalli mostrano un interesse di carattere generale, pur se basati su prove empiriche provenienti dall'Emilia.
Sul dissodamento e il riassetto delle terre: Note per una storia agraria alto medioevale, SM, IX (1968), pp. 359-78, Storia agraria e luoghi comuni, ibid., pp. 949-65, Colonizzazione e insediamenti agricoli nell'occidente alto-medioevale: la Valle Padana, « Quaderni Storici », XIV (1970), pp. 319-38, e parecchi altri articoli più dettagliati apparsi sull'importante rivista sull'agricoltura, « Rivista di storia dell'agricoltura » (RSA), soprattutto in VI (1966) e VII (1967); sugli affitti fondiari: Coloni e signori nell'ltalia superiore dal1'8 al 10 secolo, SM, X, 1 (1969), pp. 42346, I patti colonici del’Italia centrosettentrionale nell'alto medioevo, SM, XII (1971), pp. 34353, Precarietà dell'economia contadina e affermazione della grande azienda fondiaria nell'Italia settentrionale dall'8° all'11° secolo, RSA, XV (1975), pp. 3-27. Per il periodo tardo romano-ostrogoto: L.C. Ruggini, Economia e società nel l'Italia Annonaria: rapporti fra agricoltura e commercio dal 4° al 60 secolo d.C. (Milano, 1961), libro complesso e affascinante ma non del tutto convincente; ne appare una buona sintesi in idem, Vicende rurali dell'Italia antica dall'età tetrarchica ai Longobardi, RSI' LXXVI (1964), pp. 261-86. Come alternativa, cfr. K. Hannestad, L'evolution des ressaurces agricotes de l'Italie du 4m. au 6m. siècle de notre ère (Copenhagen, 1962). Per i Longobardi, cfr. Bernareggi (B~b); G. Fasoli, Aspetti di vita economica e sociale nell'Italia del secolo 7°, Sett., v (1957), pp. 103-59; P. Toubert, L'Italie rurale aux 8'-9' siècles. Essai de typologie domaniale, Sett., xx (1972), pp. 95-132. Per i Carolingi, cfr. G. Luzzatto, I servi nelle grandi proprietà ecclesiastiche dei secoli 9 e 10 (Pisa, 1910), ristampato in Dai servi della gleba agli albori del capitalismo (Bari, 1966), e divenuto un classico. Sugli affitti fondiari: P.S. Leicht, Livellario nomine (1905), ora in Scritti Vari, II, 2 (Milano, 1949), pp. 89-146, pure fondamentale, da porre a fianco degli articoli di Fumagalli, citati sopra, e degli articoli su Lucca, citati sotto. Per Bobbio, alcuni materiali appaiono in Hartmann (Bsb). Sul periodo postcarolingio, ci sono meno opere di carattere generale, se si eccettuano gli articoli di Fumagalli già citati; ma cfr. G. Luzzatto, Mutamenti nell'economia agraria italiana dalla caduta dei Carolingi al principio del s. 11, Sett., II (1954), pp. 601-22, G. Cherubini, Qualche considerazione sulle campagne dell'Italia centro-settentrionale, RSI, LXXIX (1967), pp. 111-57, e L.A. Kotel'nikova, I contadini italiani nei ss. 10-13, RSA, XV (1975), pp. 29-80. Kotel'nikova ha scritto vari articoli in russo, alcuni dei quali con sinossi in italiano, soprattutto in «Sredniye Veka» X (1957), pp. 81-100, XVII (1960), pp. 116~0; cfr. anche A. Lioublinskaia, Les travaux et les problèmes des médiévistes soviétiques, SM, IV (1963), in particolare pp. 73344. Su singole regioni: per il nord, cfr. Comba e Fumagalli in (B~-f); A. Castagnetti, Dominico e massaricio a Limonta nei secoli 9 e 10, RSA, VIII (1968,~, pp. 3-20. Sull'Italia centrale, cfr. Conti e Toubert in (B3-f); per Lucca, due importanti articoli sugli affitti fondiari sono stati scritti da R. Endres, Das Kirchengut im Bistum Lucca von 8. bis Jbt, «Vierteljahrsschrift fur Sozial- und Wirtschaftsgeschichte », XIV (1917), pp. 240-92; B. Andreolli, Contratti agrari e patti colonici nella Lucchesia dei secoli 8 e 9, SM, XIX (1978), pp. 69-158. Sull'Italia meridionale, il punto di partenza è A. Lizier, L'economia rurale dell'età prenormanna nell'Italia meridionale (Palermo, 1907), un capolavoro di sintesi, senza una parola di troppo; cfr. anche M. Del Treppo, La vita economica e sociale in una grande abbazia del Mezzogiorno: S. Vincenzo al Volturno nell'alto medioevo, « A.S. per le province Napoletane » LXXIV (1955), pp. 31-110; Guillau (B3-e); e vari articoli in russo di M.L. Abramson, anche questi accompagnati di
solito da sinossi in italiano, in «Vizantiyskiy Vremennik», n~ (1953), pp. 161~93, e « Sredniye Veka », XXVIII (1965), pp. 18-37, XXXI (1968), pp. 155-79, XXXII (1969), pp. 77-96. Sull'alimentazione contadina, cfr. vari articoli recenti in «Studi medievali»: G. Pasquali, Olivi e olio nella Lombardia prealpina, XIII (1972), pp. 257-65; A.I. Pini, La viticoltura italiana nel medioevo, xv (1974), pp. 795-884; M. Montanari, L'alimentazione contadina nell'alto medioevo, XVII (1976), pp. 115-72; idem, Cereali e legami nell'alto medioevo, Italia del nord, secoli 9-10, RSI, LXXXVII (1975), pp. 439-92. L'effetto dell'incastellamento sugli insediamenti è stato oggetto di importanti lavori negli anni più recenti; cfr. I'elenco già vecchio di C. KlapischZuber, Villaggi abbandonati ed emigrazioni interne, Einaudi Storia d'Italia, v (1973), pp. 311-64. Cfr. anche gli articoli in « Quaderni Storici », XXIV (1973); R. Francovich, Geografia storica delle sedi umane: i castelli del contado arentino nei ss. 12 e 13 (Firenze, 1973); Settia, Conti e Toubert (B3-f); T. Mannoni et al., ll castello di Molassana, «Archeologia Medievale», I (1974), pp. 11-53; I. Ferrando Cabona, A. Giardini, T. Mannoni, Zignago I, « Archeologia Medievale », v (1978), pp. 273-374. L'archeologia medievale costituisce una disciplina in rapida espansione in Italia, e in una forma o nell'altra quasi ogni lavoro confluisce in « Archeologia Medievale ». Per gli scavi di una importante cittadina del sud, cfr. Caputaquis Medievale, I, di P. Delogu et al. (Salerno, 1976), e i volumi in corso, su Capaccio Vecchia.
6. Chiesa e Cultura (a) Storia della Religione A questo proposito sono molto utili vari volumi delle Settimane di Studio: IV (1956) sul monachesimo, VII (1959) sulla Chiesa fino all'800, XIV (1966) sulle conversioni, e XXIII (1975) sul simbolismo. Gran parte della sezione (B3) riguarda anche la storia religiosa, in quanto 1'episcopato, in particolare, ha sempre avuto in Italia un importante ruolo politico. Bognetti e Bertolini (B3-b) han dato particolare peso alle questioni religiose e alle conversioni e riconversioni degli abitanti dell'Italia. Gli studi più importanti degli effetti delle invasioni sulle istituzioni della Chiesa italiana sono contenute in L. Duchesne, Les éuéches d'Italie et l'invasion lombarde, « Mélanges d'archéologie et d'histoire », XXIII (1903), pp. 83-116, XXV(1905), pp. 365-99; F. Lanzoni, Diocesi d'Italia al principio del s. 7 (Faenza, 1927). Quanto a un'epoca più tarda, l'episcopato è discusso durante il convegno su Vescovi e diocesi in Italia nel medioevo, s. 9-13 (Padova, 1964). Ultimamente, le pievi sono state analizzate in A. Castagnetti, La pieve rurale nell'Italia padana (Roma, 1976) che contiene una vasta guida bibliografica; cir. anche Toubert (B3-f). (b) Papato e Roma Per un'esposizione di carattere generale, cfr. P. Llewellyn, Roma nei secoli oscuri, (Bati, 1975). Panoramiche basilari di carattere storico-politico sono O. Bertolini, Roma di fronte a Bisanzio e ai Longobardi (Bologna, 1941) e P. Brezzi, Roma e l'impero medioevale (Bologna, 1947), che appartengono alla stessa collana e si dividono l'argomento nell'anno 774; E. Caspar, Geschichte des Papsstums, 2 voD. (Tubinga, 1930-3), con idem, Das Papsstum unter frankischer Herrschalt (Darmstadt, 1956).
Per Roma e il Papato all'inizio del v secolo, cfr. il poderoso studio (in francese) di C. Pietti, Roma Christiana, 2 voll. (Roma, 1976). Sulla topografia urbana, in riguardo soprattutto ad epoche successive, cfr. F. Castagnoli et al., Topografia e Urbanistica di Roma (Roma, 1958). Sull'amministrazione di Roma, L. Halphen, Etudes sur l'administration de Rome au Moyen-age 751-1252 (Parigi, 1907). Per uno studio della campagna romana, la base topografica è stata posta molto tempo fa da G. Tomassetti, La Campagna Romana, antica, medioevale e moderna, 4 voll. (Roma, 1913); cfr. anche, ancora una volta, Toubert (B3-f), che costituisce oggi anche lo studio più aggiornato della politica territoriale papale dopo il 900. La storiografia relativa alla Chiesa Romana è immensa; ma i libri citati sopra, assieme a quelli elencati nella parallela sezione di testi in lingua inglese, offrono una buona introduzione, e posseggcno quasi tutti vaste bibliografie.
(c) Cultura Per questo problema, la documentazione è più diffusa di quanto non accada di solito. Per un'introduzione, si veda Settimane di Studio, in particolare XXII (1974), sulla cultura in generale, ma anche X (1962) sulla Bibbia, XVII (1969) sulla storiografia, e XIX (1971) sull'istruzione. L'istruzione è anche l'argomento di un importante articolo di D.A. Bullough, Le scuole cattedrali e la cultura dell'Italia settentrionale prima dei comuni, in Vescovi e Diocesi (B6-a), pp. 111-43. Sulla cultura letteraria, cfr. anche A. Petrucci, Scrittura e libro nell'Italia alto medievale, SM, X, 2 (1969), pp. 157-213 per il secolo VI, assieme a A. Momigliano, Gli Anicii e la storiografia latina del 6° s. d.C., « Rendiconti de D'Accad. Naz. del Lincei, classe di sc. morali, stor. e filol. », 8°, XI (1950), pp. 279~97, e, fra le molte opere su Boezio, P. Courcelle, La consolation de philosophie dans la tradition littéraire (Parigi, 1967); Tjader (B3-a) dà pure molti ragguagli su questo periodo. La guida migliore all'intero periodo fino all'800 è P. Riché, Educazione e cultura nell'Occidente barbarico (Roma 1966). Per Paolo Diacono, cEr. (B3-b). La cultura toscana è analizzata in A. Petrucci, Scrittura e libro nella Tuscia altomedievale, ss. 8-9, 5° Congresso (B3-f), pp. 627-43, che contiene una buona bibliografia relativa alla letteratura e agli scritti in generale del secolo VIII. Per la cultura del Napoletano, cfr. Cilento in Storia di Napoli (B3-e); per il Salernitano, cfr. Delogu (B3-e) e M. Oldoni, Interpretazione del Chronicon Salernitanum, SM, X, 2 (1969), pp. 3-154. Importanti discussioni sull'arte e l'architettura si trovano in F.W. Deichmann, Ravenna, Haupstadt des spatantiken Ahendlandes (Wiesbaden, 1969-); G.P. Bognetti et al., Santa Maria di Castelseprio (Milano, 1948), da cui ebbe origine anche l'importante opera di Bognetti sulla storia religiosa dei Longobardi (cfr. B3-h). Sull'insierne dei problemi relativi alla storia dell'arte italiana fra il 550 e 1'800, la miglior panoramica è H. Belting, Probleme der Kunstgeschichte Italiens im Frèhmittelalter, «Frahmittelalterliche Studien», I (1967), pp. 94143, con biblio. grafia completa. Il ritrovarnento di una nave, affondata al largo della costa siciliana, che conteneva i pezzi architettonici più importanti di una chiesa bizantina prefabbricata del VI secolo, è discusso in G. Agnello, Il ritrovamento subacqueo di una basilica bizantina prefabbricata, «Byzantion», XXXII (1963), pp. 1-9.
Nota supplementare (maggio 1962) Non mi è stato possibile apporre cambiamenti se non minori al testo del libro per l'edizione italiana, né a quello della Bibliografia. Qui, però, mi sembra opportuno aggiornare la sezione bibliografica,
che presento nello stesso formato e più o meno nello stesso ordine della bibliografia originale. Parecchie cose stanno avvenendo nella storia italiana dell'alto medioevo in questi anni, e non voglio pretendere di essere stato sistematico. Come prova di ciò, ho aggiunto alcuni saggi importanti che avevo ignorato, oppure dimenticato di accludere nella bibliografia originale. Chiudo l'elenco all'inizio dd 1982 circa. Tabacco (Bl) è adesso ottenibile separatamente in edizione tascabile, Egemonie sociali e strutture del potere nel medioevo italiano (Torino, 1979), con una nuova introduzione storiografica. UTET Storia d'Italia I (Torino, 1980) è ora uscito, con saggi di P. Delogu sui longobardi, A. Guillau sull'Esarcato, e G. Ortalli su Venezia, sulla stessa scia del vol. II (Bl), e con bibliografie ottime. Un lavoro recente sulla tarda Antichità è quello di W. Goffart, Barbarians and Romans AD 418-584 (Princeton, 1980), non convincente, specialmente sui longobardi, ma affascinante. C'è un nuovo libro sugli ostrogoti, T.S. Burns, The Ostrogoths (Historia: Einzelschrift, Wiesbaden, 1980). I1 6° Congresso internazionale di studi sull'alto medioevo (Spoleto, 1980) è utile specialmente come repertorio dell'archeologia longobarda recente, in modo notevole per i contributi di Bierbraner, von Hessen, Broggiolo e Lusuardi, Mannoni e Messiga. Per i longobardi, si vedano anche le nuove sintesi politiche in Delogu, sopra, e H. Frohlich, Studien zur langobardischen Thronfolge (Tubingen, 1980). Una discussione di una delle poche zone ben documentate nei confronti della storia locale precarolingia si trova in C.J. Wickham, « Economic and social institutions in northern Tuscany in the 8th century» in idem et al., Istituzioni ecclesiastiche della Toscana medioevale (Galatina, 1980), pp. 7-34. Per il periodo postcarolingio, si vedano le discussioni importanti dell'economia, società, istituzioni feudali in Structures féadales et frodalisme dans l'occident méditerranéen (Roma, 1980) di Tabacco, Bordone, Sergi, Nobili, Fumagalli, Fasoli. Nuove analisi regionali includono tre libri sull'Italia settentrionale: H. Keller, Adelsterrschalt und stadtische Gesellschalt in Oberitalien (9-12 Jht.) (Tubingen, 1979), principalmente su Milano, che mostra come siano veramente complessi i cambiamenti sociali quando disponiano di documentazione adeguata; J. Jaraut, Bergamo 568-1098 (Wiesbaden, 1979, o, in italiano ma più diflicile da ottenere, Bergamo, 1982); P. Racine, Plaisance du X à la fin du XIII siècle (Paris, 1980). Sulla Toscana il testo più recente sulle aristocrazie precomunali è I ceti dirigenti in Toscans nell'età precomunale (Pisa, 1981). Un'analisi utilissima della società carolingia e precarolingia nel SabinaRietino è R.R. Ring, The Lands of Farfa (Wisconsin, 1972). C.J. Wickham, Studi sulla società degli Appennini nell'alto medioevo (Bologna, 1982) dà informazioni sull'Abruzzo prenormanno. Di gran lunga la migliore discussione dello smembramento di Capua-Beneventoè l'articolo di J.-M. Martin in Structures téodales sopra, pp. 553-86; vedasi anche l'articolo di Taviani su Salerno nello stesso volume. Per la storia legale del periodo longobardo, devo segnalare il libro, importantissimo ma trascurato (almeno da me), di F. Sinatti d'Amico, Le prove giudiziarie nel diritto longobardo (Milano, 1968). Un'analisi eccellente della vendetta, con rilievo che va ben oltre il suo periodo e luogo, è J. Wormald, «Blood feud, kindred and government in Early Modern Scotland », Past and Present LXXXVII (1980), pp. 5497. Sulla storia economica: gli articoli di P.J. Jones sono adesso riuniti (e quelli in inglese tradotti) in Economia e società nell'Italia medievale (Torino, 1980). Pavia come città ha un'introduzione storico-archeologica nuova, P. Hudson, Archeologia urbana e programmazione della ricerca:
l'esempio di Pavia (Firenze, 1981). Sulla costruzione urbana nell'Italia tardo romana-altomedievale si veda lo studio importante di B. Ward-Perkins, From Classical Antiquity to the Early Middle Ages: Urban Public Spending in Italy (di prossima pubblicazione). Una valida guida allo studio dei processi di scambio nelle città alla fine del nostro periodo sono gli articoli di G. Garzella e M.L. Ceccarelli Lemut nel loro Studi sugli strumenti di scambio a Pisa nel medioevo (Pisa, 1979). La nuova base per capire la storia rurale dell'Italia si trova in Medioevo rurale, a cura di V. Fumagalli e G. Rossetti (Bologna, 1980), con un insieme di articoli cruciali su tutti gli aspetti del tema. I primi articoli di Fumagalli (B5-c) sono adesso per lo più riuniti in Coloni e signori nell'Italia settentrionale, ss. VI-XI (Bologna, 1978); vedi anche il suo « Strutture materiali e funzioni nell'azienda curtense», Archeologia medievale VII (1980) pp. 21-9, e G.F. Pasquali, «I problemi dell'approvvigionamento alimentare nell'ambito del sistema curtense », Arch. med VIII (1981), pp. 93-116, concentrato sull'organizzazione della produzione di S. Giulia di Brescia. Un bello studio comparativo dell'organizzazione territoriale della Padania longobarda e ex-bizantina è A. Castagnetti, L'organizzazione del territorio rurale nel medioevo (Torino, 1979). Molto è stato scritto di recente sull'alimentazione, specialmente il vasto ampiamento di M. Montanari dei suoi articoli precedenti (B5-c) in L'alimentazione contadina nell'alto medioevo (Napoli, 1979), che rimarrà a lungo 1'introduzione fondamentale all'argomento e pure, con il lavoro di Fumagalli, sulla storia agraria in generale; si vedano anche, sull'alimentazione, I'articolo di Montanari in Medioevo rurale pp. 79-97, e 1'insieme di Archeologia medievale VIII (1981). Un articolo che ho trascurato nel 1979 è C.R. Whittaker, «Agri deserti», in M.I. Finley (a cura di), Studies in Roman Property (Cambridge, 1975), pp. 137-63, che si oppone, convincentemente, all'idea della loro importanza. La storia e l'archeologia dell'habitat è ora oggetto di parecchio lavoro. Per sintesi, vedi A.A. Settia in Medioevo rurale, pp. 157-99, la migliore sintesi storica per il Nord; C.J. Wickham, La terra di S. Vincenzo al Volturno e il prob1ema dell'incastellamento in Italia centrale (di prossima pubblicazione), un'analisi per il Centro con bibliografia; e due convegni, Archaeology and Italian Society, a cura di G.W. Barker e R. Hodges (Oxford, 1981), e Convegno internazionale. Castelli: storia e archeologia, a cura di R. Comba, A.A. Settia (Firenze, 1982). Per scavi, vedi le notizie e le schede in Archeologia medievale. Nel contesto della storia ecclesiastica, molto lavoro importante è stato pubblicato di recente sulle pievi. I tre saggi più significativi sono C. Violante, « Pievi e parrocchie nell'Italia centrosettentrionale durante i secoli XI e XII » in Le istituzioni ecclesiastiche della «societas christiana», la 6' settimana della Mendola (Milano, 1974), pp. 643-799, che infatti comincia nel X secolo e prima, il libro citato di Castagnetti; e Settimane di studio XXVIII (1980), specialmente i contributi di Violante, Fonseca, Settia. C'è una nuova biografia di Gregorio Magno: J. Richards, Consul of God (London, 1980). Per finire, alcune traduzioni. Schneider (B3-g) è tradotto come L'ordinamento pubblico nella Toscana medievale (Firenze, 1975); Schneider (B3-g) come Le origini dei comuni rurali in Italia (Firenze, 1980); von Falkenhausen (B3-e) come La dominazione bizantina nell'Italia meridionale dal IX all’XI secolo (Bari, 1978).