RICHARD MONTANARI LE RAGAZZE DEL ROSARIO (The Rosary Girls, 2006) Per DJC Cuor forte rompe cattiva sorte Domenica delle Palme, ore 23.55 C'è una tristezza invernale in lei, una radicata malinconia che vela i suoi diciassette anni, una risata che non esprime mai pienamente nessun tipo di gioia interiore. Forse non c'è. Se ne vedono sempre, per strada; quella che se ne va da sola, i libri stretti al seno, gli occhi a terra, sempre naufraga tra i suoi pensieri. È quella che cammina qualche passo dietro le altre ragazze, contenta di accettare le rare briciole di amicizia che loro le gettano. Quella che passa per tutte le pietre miliari dell'adolescenza facendo la babysitter. Quella che rifiuta la propria bellezza, quasi fosse facoltativa. Si chiama Tessa Ann Wells. Ha l'odore dei fiori appena recisi. «Non ti sento», dico. «... ilsignorecconté», fa la vocetta dalla cappella. A sentirla, pare che io l'abbia svegliata, cosa possibilissima. L'ho presa venerdì mattina presto, e adesso è quasi mezzanotte di domenica. Ha pregato nella cappella, senza sosta, più o meno. Non è una cappella ufficiale, beninteso, soltanto uno sgabuzzino riadattato, ma c'è tutto quello che serve per riflettere e pregare. «Così non va», dico. «Lo sai che è fondamentale ricavare un senso da ogni singola parola, no?» Dalla cappella: «Sì». «Pensa a quanta gente nel mondo sta pregando in questo preciso istante. Perché Dio dovrebbe ascoltare chi è insincero?» «Non c'è motivo.» Mi chino verso la porta. «Vorresti che il Signore ti mostrasse questo genere di disprezzo, il giorno dell'estasi?» «No.»
«Bene», rispondo. «Quale decina?» Lei impiega qualche istante a rispondere. Nell'oscurità della cappella, bisogna procedere a tentoni. Infine risponde: «La terza». «Comincia da capo.» Accendo quello che resta dei ceri. Finisco il mio vino. Contrariamente a quello che molti credono, il rito dei sacramenti non è sempre un impegno solenne, ma piuttosto, molto spesso, motivo di gioia e di festeggiamento. Sono sul punto di ricordarlo a Tessa quando, con chiarezza, eloquenza e rigore, lei ricomincia a pregare. «Ave Maria, piena di grazia, il Signore è con te...» Esiste un suono più bello della voce di una vergine in preghiera? «Tu sei la benedetta tra le donne...» Do un'occhiata all'orologio. È appena passata la mezzanotte. «E benedetto è il frutto del tuo seno, Gesù...» È ora. «Santa Maria, madre di Dio...» Prendo la siringa ipodermica dall'astuccio. L'ago brilla alla luce delle candele. Lo Spirito Santo è qui. «Prega per noi peccatori...» La Passione è cominciata. «Adesso e nell'ora della nostra morte...» Apro la porta ed entro nella cappella. Amen. PARTE PRIMA 1 Lunedì, ore 3.05 C'è un'ora che conoscono intimamente tutti quelli che si svegliano per incontrarla, un momento in cui l'oscurità si spoglia del manto crepuscolare e le strade si fanno immobili e silenziose, un momento in cui le ombre si riuniscono, diventano una cosa sola, si dissolvono. Un momento in cui chi soffre dubita dell'alba. Ogni città ha il suo quartiere, il suo Golgota al neon. A Philadelphia, si chiama South Street.
Quella notte, mentre quasi tutta la Città dell'Amore Fraterno dormiva, mentre i fiumi scorrevano silenziosi verso il mare, il mercante di carne passò veloce per South Street come un vento asciutto, rovente. Fra la 3rd e la 4th Street si aprì un varco attraverso un cancello di ferro battuto, percorse un vicolo stretto ed entrò in un club privato di nome Paradise. I rari avventori sparsi per la stanza incontrarono il suo sguardo, quindi distolsero subito gli occhi. Nello sguardo del mercante vedevano un portale sulle proprie anime annerite e sapevano che, se l'avessero affrontato anche solo per un momento, la comprensione sarebbe stata troppo grande da sopportare. Per chi conosceva la sua attività, il mercante era un enigma, ma non un mistero di quelli che si è ansiosi di risolvere. Era un uomo grosso, alto ben più di un metro e ottanta, dal portamento marcato, con mani rozze che promettevano di fare i conti con chi lo contrariava. Aveva capelli color del grano e freddi occhi verdi, occhi che al lume di candela mandavano scintille di cobalto vivo, occhi capaci di comprendere l'orizzonte in un solo sguardo, senza perdere nulla. Sopra l'occhio destro aveva una lucida cicatrice irregolare, una cresta di tessuto filamentoso a forma di V rovesciata. Indossava un lungo soprabito di pelle nera, teso contro i muscoli compatti della schiena. Ormai erano cinque notti di fila che andava al club, e quella notte avrebbe incontrato il suo compratore. Non era facile combinare appuntamenti al Paradise. Lì non si facevano amicizie. Il mercante si sedette in fondo all'umida stanza seminterrata, a un tavolo che era implicitamente diventato il suo. Anche se il Paradise era frequentato da giocatori di ogni oscura sorta e di qualsiasi pedigree, il mercante apparteneva chiaramente a un'altra razza. Le casse dietro il bar diffondevano Mingus, Miles, Monk; al soffitto c'erano sudice lanterne cinesi e ventilatori a pale coperti di carta adesiva imitazione legno. Bruciavano coni d'incenso al mirtillo, sposandosi al fumo delle sigarette, ingrigendo l'aria di una grezza dolcezza fruttata. Alle tre e dieci, due uomini entrarono nel club. Uno era il compratore; l'altro, la sua guardia. Entrambi incontrarono lo sguardo del mercante. E seppero. Il compratore, che si chiamava Gideon Pratt, era un tipo tracagnotto, dai capelli radi, vicino ai sessant'anni, con le guance arrossate, occhi grigi e inquieti, e una mascella cascante come cera fusa. Indossava un abito in tre pezzi, di taglia sbagliata, e aveva le dita contorte dall'artrite. L'alito era fe-
tido. I denti, giallo ocra e scarsi. Dietro di lui camminava un uomo più grosso, perfino più grosso del mercante. Portava occhiali a specchio e uno spolverino di denim. Faccia e collo erano decorati da un complesso reticolo di ta moko, i tatuaggi tribali dei Maori. Senza una parola, i tre si riunirono, quindi si diressero verso un magazzino in fondo a un breve corridoio. Il retro del Paradise era angusto e caldissimo, ingombro di scatoloni di liquore scadente, con un paio di scrivanie metalliche graffiate e un divano lacero e ammuffito. Da un vecchio juke-box sfarfallava una luce blu carbonio. Una volta dentro la stanza, chiusa la porta, l'uomo grosso, noto col nomignolo di Diablo, palpò sbrigativamente il mercante in cerca di armi o microfoni, nel tentativo di stabilire una gerarchia di potere. Nel mentre, il mercante notò il tatuaggio di tre parole alla base del collo del Diablo. Diceva: BASTARDO A VITA. Notò anche il calcio cromato di una Smith & Wesson alla sua cintura. Soddisfatto che il mercante fosse disarmato e privo di congegni spia, Diablo si allontanò, si mise dietro Pratt, incrociò le braccia e rimase a guardare. «Che cos'hai per me?» domandò Pratt. Il mercante valutò l'uomo prima di rispondere. Erano giunti al momento cui si arriva in ogni transazione, l'istante in cui il fornitore deve scoprire le carte, esporre le sue merci sul velluto. Il mercante s'infilò lentamente la mano nel soprabito di pelle - niente mosse furtive - e ne estrasse un paio di polaroid. Le porse a Gideon Pratt. Entrambe le foto ritraevano adolescenti nere, completamente vestite, in posa allusiva. Quella di nome Tanya era seduta sulla veranda di fronte alla sua casa a schiera e mandava un bacio al fotografo. Alicia, sua sorella, era in posa da vamp sulla spiaggia di Wildwood. Mentre Pratt esaminava le foto, le sue guance si fecero paonazze per un istante e il respiro gli s'inceppò nel petto. «Proprio... stupende», disse. Diablo lanciò un'occhiata alle istantanee, senza mostrare nessuna reazione. Tornò a fissare il mercante. «Come si chiama?» domandò Pratt, sollevando una foto. «Tanya» rispose il mercante. «Ta-nya» ripeté Pratt, separando le sillabe, quasi a ravvisarvi l'essenza della ragazza. Restituì l'altra foto e guardò quella che aveva in mano. «È
adorabile», aggiunse. «Un tipo malizioso. Si vede.» Pratt toccò la fotografia, facendo scorrere dolcemente il dito sulla superficie lucida. Sembrò perso, abbandonato a una qualche fantasticheria, poi si mise la foto in tasca. Tornò di colpo al presente, alla faccenda del momento. «Quando?» «Adesso», replicò il mercante. Pratt reagì con sorpresa e soddisfazione. Non se l'aspettava. «Lei è qui?» Il mercante annuì. «Dove?» «Vicino.» Gideon Pratt si sistemò la cravatta, si aggiustò il panciotto sopra lo stomaco sporgente, si lisciò i pochi capelli che gli restavano. Trasse un respiro profondo, ritrovando il proprio asse, quindi fece un cenno verso la porta. «Vogliamo...?» Il mercante annuì di nuovo, poi guardò Diablo come a chiedere il permesso. Diablo attese qualche istante, per consolidare ulteriormente il proprio status; poi si fece da parte. I tre uomini uscirono dal club e attraversarono South Street verso Orianna Street. Proseguirono lungo Orianna, sbucando in un piccolo parcheggio tra gli edifici. Nel parcheggio c'erano due veicoli: un furgone arrugginito coi vetri affumicati e una Chrysler ultimo modello. Diablo alzò una mano, avanzò rapido e guardò dentro i finestrini della Chrysler. Si voltò, annuì, e Pratt e il mercante si avvicinarono al furgone. «Ha il denaro?» chiese il mercante. Gideon Pratt si toccò la tasca. Il mercante lanciò un'occhiata all'uno e all'altro, poi infilò la mano nella tasca del soprabito e ne estrasse un mazzo di chiavi. Prima di riuscire a inserire la chiave nella portiera del passeggero, lasciò cadere a terra il mazzo intero. Pratt e Diablo abbassarono istintivamente lo sguardo, distratti per un momento. Nell'istante seguente, accuratamente calcolato, il mercante si chinò a raccogliere le chiavi. Invece di prenderle, chiuse la mano intorno al palanchino che in precedenza aveva sistemato dietro la ruota anteriore destra. Quando si alzò, roteò sui tacchi e scagliò la sbarra d'acciaio al centro della faccia di Diablo, facendogli esplodere il naso in un denso vapore scarlatto di sangue e cartilagine frantumata. Il colpo era stato assestato con preci-
sione chirurgica e con potenza perfettamente calcolata, per mutilare e mettere fuori combattimento, ma senza uccidere. Con la mano sinistra, il mercante prese la Smith & Wesson dalla cintura di Diablo. Sbalordito, disorientato, agendo d'istinto e irrazionalmente, Diablo aggredì il mercante, col campo visivo ormai annebbiato dal sangue e da lacrime involontarie. Il suo movimento in avanti incontrò il calcio della Smith & Wesson, sferrata con tutta la considerevole forza del mercante. Il colpo fece schizzare nell'aria fredda della notte sei denti di Diablo, che finirono a terra, ticchettando come altrettante perle cadute. Diablo si piegò sull'asfalto butterato, gemendo per lo strazio. Da guerriero, si girò e si mise in ginocchio, esitò, quindi alzò gli occhi, in attesa del colpo mortale. «Corri», disse il mercante. Diablo esitò, riprendendo a respirare con rantoli incostanti e fradici. Sputò una boccata di sangue e muco. Quando il mercante alzò il cane dell'arma e gli appoggiò la canna sulla fronte, Diablo ritenne saggio obbedire. Con grande sforzo, si alzò, barcollò lungo la strada verso South Street e scomparve, senza mai staccare gli occhi dal mercante. Il quale, allora, si voltò verso Gideon Pratt. Pratt cercò di assumere una posa minacciosa, ma non era il suo forte. Stava affrontando un momento temuto da tutti gli assassini, il brutale computo dei propri crimini contro l'uomo, contro Dio. «C-chi sei?» domandò Pratt. Il mercante aprì lo sportello posteriore del furgone. Con calma vi posò la pistola e il palanchino e prese una spessa cintura di cuoio. Con quella pelle robusta si avvolse le nocche. «Tu sogni?» domandò. «Come?» «Tu... sogni?» Gideon Pratt, stupito, non rispose. Il detective Kevin Francis Byrne, della Squadra Omicidi della polizia di Philadelphia, era incerto su quella reazione. Seguiva le tracce di Gideon Pratt da molto tempo e lo aveva attirato verso quel momento con precisione e cura, una prospettiva che aveva invaso i suoi sogni. Gideon Pratt aveva stuprato e ucciso una ragazza di quindici anni di nome Deirdre Pettigrew a Fairmount Park, e il dipartimento aveva quasi rinunciato a risolvere il caso. Era la prima volta che Pratt uccideva una delle sue vittime, e Byrne sapeva che non sarebbe stato facile stanarlo. Aveva
investito qualche centinaio di ore del suo tempo e molte nottate di sonno pregustando quel preciso istante. E ora, mentre l'alba non era che una flebile voce nella Città dell'Amore Fraterno, mentre Kevin Byrne faceva un passo avanti e assestava il primo colpo, era arrivata la sua ricompensa. Venti minuti dopo erano al Jefferson Hospital, in una saletta di emergenza chiusa da una tenda. Gideon Pratt esattamente al centro, Byrne da un lato, un internista di nome Avram Hirsch dall'altro. Pratt aveva in fronte un bozzo della forma e della dimensione di una susina marcia, un labbro insanguinato, un livido di un viola intenso sulla guancia destra e il naso probabilmente rotto. L'occhio destro era quasi chiuso tanto era gonfio. Il davanti della camicia, prima bianca, era marrone scuro, incrostato di sangue. Guardando quell'uomo - umiliato, avvilito, disonorato, catturato - pensò al suo partner della Omicidi, un intrepido bestione di ferro che rispondeva al nome di Jimmy Purify. A Jimmy sarebbe piaciuto da matti, pensò Byrne. Jimmy amava quei personaggi di cui a Philly* sembrava esserci un assortimento infinito. I professori di strada, i profeti tossici, le battone dal cuore di marmo. Ma, soprattutto, al detective Jimmy Purify piaceva acchiappare i cattivi. Peggiore era l'uomo, più Jimmy si godeva la caccia. E nessuno era peggiore di Gideon Pratt. Avevano rintracciato Pratt attraverso un fitto labirinto d'informatori, lo avevano seguito lungo le vene più oscure del mondo occulto di Philadelphia, nei giri dei club privati e della pornografia infantile. Gli avevano dato la caccia con la stessa determinazione, la stessa fermezza e lo stesso rabbioso proposito con cui erano usciti dall'Accademia tanti anni prima. Ed era proprio così che piaceva a Jimmy Purify. Lo faceva tornare ragazzo, diceva. Ai suoi tempi, Jimmy era stato ferito due volte, investito una volta, picchiato un numero incalcolabile di volte, ma alla fine era stato il triplo bypass a metterlo KO. Mentre Kevin Byrne era così piacevolmente impegnato con Gideon Pratt, James «Artiglio» Purify riposava in una camera postoperatoria del Mercy Hospital, con tubi e flebo che strisciavano fuori dal suo corpo come i serpenti della Medusa. La buona notizia era che la prognosi di Jimmy sembrava positiva. Quella cattiva era che Jimmy credeva di poter tornare al lavoro. Si sbagliava. Nes-
suno tornava mai, dopo un triplo. Non a cinquant'anni. Non nella Omicidi. Non a Philadelphia. Mi manchi, Artiglio, pensò Byrne, sapendo che quel giorno, più tardi, avrebbe conosciuto il suo nuovo partner. Non è proprio lo stesso senza di te, amico. Non lo sarà mai. Byrne era lì quando Jimmy era caduto, a neanche tre, impotenti metri di distanza. Era vicino alla cassa di Malik, un buco di baretto fra la 10th Street e Washington Square. Stava facendo il pieno di zucchero ai loro caffè, mentre Jimmy faceva il filo alla cameriera, Desiree, una bellezza dalla pelle color cannella, più giovane di Jimmy di almeno tre stili musicali e svariati chilometri fuori dalla sua portata. Desiree era l'unica vera ragione per cui si fermavano da Malik; certo non era per il cibo. Un minuto prima, Jimmy era appoggiato al bancone, parlando a raffica con la ragazzina, il sorriso più radioso del mondo. Un minuto dopo era a terra, il viso contorto dal dolore, il corpo irrigidito, le dita delle grosse mani accartocciate. Byrne aveva congelato nella memoria quell'istante come pochi altri nella sua vita. Durante i suoi vent'anni in polizia, era diventata quasi una routine accettare i momenti di cieco eroismo e d'incosciente coraggio delle persone che amava e ammirava. Era perfino arrivato ad accettare i gesti di ferocia insensata e casuale compiuti e subiti da estranei. Quelle cose facevano parte del lavoro: l'altissima ricompensa di chi perseguiva la giustizia. Erano i momenti di nuda umanità e debolezza della carne, tuttavia, che lui non riusciva a eludere, erano le immagini del corpo e dello spirito tradito che scavavano un solco sotto la superficie del suo cuore. Quando aveva visto quell'uomo grande e grosso sul pavimento melmoso del locale, quel corpo che faceva a pugni con la morte, il suo urlo silenzioso stroncato tra le mascelle, Byrne aveva capito che non avrebbe mai più guardato Jimmy Purify nello stesso modo. Oh, gli avrebbe voluto bene, com'era arrivato a volergliene in quegli anni, e avrebbe ascoltato i suoi racconti improbabili, e, per grazia divina, si sarebbe ancora meravigliato della flessuosa agilità di Jimmy davanti a un barbecue in certe torride domeniche estive di Philly, e senza pensarci o esitare un istante, si sarebbe preso un proiettile nel cuore per quell'uomo. Tuttavia aveva capito immediatamente: quello che avevano fatto insieme - quell'ardita discesa nelle fauci della violenza e della follia, notte dopo notte - era finito. Per quanto ciò colmasse Byrne di rammarico e rimpianto, ecco qual era la realtà di quella lunga, terribile notte.
La realtà di questa notte, però, delineava un'oscura compensazione nella sua mente, una delicata simmetria che - lui lo sapeva - avrebbe dato pace a Jimmy Purify. Deirdre Pettigrew era morta, e a Gideon Pratt avrebbero fatto il servizio completo. Un'altra famiglia era straziata dal dolore, ma stavolta l'assassino si era lasciato dietro il suo DNA, sotto forma di pelo pubico grigio e ciò l'avrebbe spedito nella stanzetta piastrellata dello SCIGreene, il carcere di massima sicurezza. Lì, se Byrne avesse avuto voce in capitolo, Gideon Pratt avrebbe fatto conoscenza con un gelido ago. Naturalmente, visto come funzionava il sistema giudiziario, c'erano cinquanta probabilità su cento che Pratt, se condannato, si prendesse l'ergastolo senza condizionale. Se fosse andata così, Byrne conosceva abbastanza gente in carcere per portare a termine il lavoro. Si sarebbe fatto restituire un favore. In ogni caso, la sabbia nella clessidra era agli sgoccioli per Gideon Pratt. Il suo nome era rimasto nel cappello. «L'indiziato è caduto da una rampa di scalini di cemento mentre cercava di sfuggire all'arresto», chiarì Byrne al dottor Hirsch. Avram Hirsch lo mise per iscritto. Sarà anche stato giovane, però era del Jefferson Hospital. Aveva già imparato che, molto spesso, i predatori sessuali erano anche parecchio maldestri e tendevano a inciampare e cadere. Talvolta avevano pure qualche osso rotto. «Non è vero, Mr Pratt?» domandò Byrne. Gideon Pratt si limitò a guardare fisso davanti a sé. «Non è vero, Mr Pratt?» ripeté Byrne. «Sì», fece Pratt. «Lo dica.» «Mentre stavo fuggendo dalla polizia, sono caduto da una rampa di scale e mi sono ferito.» Hirsch mise per iscritto anche quello. Kevin Byrne scrollò le spalle e domandò: «Le sembra che le lesioni di Mr Pratt siano compatibili con una caduta da una rampa di scale di cemento, dottore?» «Assolutamente», replicò Hirsch. E scrisse ancora. Andando in ospedale, Byrne aveva avuto uno scambio d'idee con Gideon Pratt e gli aveva infuso una convinzione: ciò che lui aveva subito in quel parcheggio era soltanto un assaggio di ciò che avrebbe potuto aspettarsi se avesse accusato un poliziotto di averlo aggredito. Aveva inoltre informato Pratt che, al momento, aveva tre testimoni disposti a firmare una
dichiarazione in cui si diceva che avevano visto l'indiziato inciampare e cadere dalle scale mentre veniva inseguito. Tutti cittadini irreprensibili. Per giunta, Byrne gli aveva svelato che il viaggio dall'ospedale alla centrale di polizia era breve, ma sarebbero stati i minuti più lunghi della sua vita. Per chiarire il concetto, aveva accennato ad alcuni attrezzi nel retro del furgone: il seghetto elettrico, lo spezzacostole chirurgico, le cesoie elettriche. Pratt aveva capito. E ormai era a verbale. Pochi minuti dopo, quando Hirsch tirò giù i pantaloni e la biancheria macchiata di Pratt, quello che Byrne vide gli fece scuotere la testa. Gideon Pratt si era rasato il pelo pubico. Pratt si guardò l'inguine, poi guardò Byrne. «È un rituale», spiegò Pratt. «Un rituale religioso.» Dall'altra parte della stanza, Byrne esplose. «Che sia una crocifissione, allora, faccia di merda! Che ne dici, facciamo una corsa giù al BricoCasa a prendere un po' di scorte religiose?» In quel momento, Byrne incontrò lo sguardo dell'internista. Il dottor Hirsch annuì, come a dire che avrebbero comunque prelevato il campione di pelo pubico. Nessuno poteva radersi a tal punto. L'altro colse il senso di quello sguardo e lo prese al volo. «Se pensavi che la tua piccola cerimonia ci avrebbe impedito di prelevare un campione, sei ufficialmente uno stronzo», dichiarò. «Come se ci fosse qualche dubbio.» Portò la faccia a pochi centimetri da quella di Gideon Pratt. «E poi, non dovremmo far altro che trattenerti finché non ricrescono.» Pratt guardò il soffitto e sospirò. Chiaramente, non ci aveva pensato. Byrne era seduto nel parcheggio della centrale di polizia, a tirare il freno di quella lunga giornata, sorbendo un Irish coffee. Il caffè era quello robusto dello spaccio degli sbirri ed era fasciato di Jameson Irish Whiskey. Il cielo era limpido, nero, senza nuvole sopra una luna di stucco. La primavera mormorava. Lui aveva rubato qualche ora di sonno nel furgone in prestito che aveva usato per attirare Gideon Pratt in trappola, poi aveva restituito il mezzo al suo amico Ernie Tedesco. Ernie aveva una piccola macelleria a Pennsport. Byrne si toccò la cresta di pelle sopra l'occhio destro. La cicatrice era calda e duttile sotto le dita e parlava di un dolore che, per il momento, era
assente, uno spettro di sofferenza divampata per la prima volta molti anni prima. Abbassò il finestrino, chiuse gli occhi e sentì cedere le travi della memoria. Nella sua mente, in quel recesso oscuro dove s'incontrano desiderio e repulsione, in quel luogo dove tanto tempo prima infuriavano le gelide acque del fiume Delaware, vide gli ultimi istanti della vita di una ragazza, vide il silenzioso orrore dispiegarsi... ... vede il dolce viso di Deirdre Pettigrew. È piccola per la sua età, ingenua per il suo tempo. Ha un cuore gentile e fiducioso, un'anima al riparo. È una giornata torrida, e Deirdre si è fermata a bere a una fontana del Fairmount Park. Un uomo siede sulla panchina accanto alla fontana. Le dice che una volta aveva una nipotina all'incirca della sua età. Le racconta che le voleva molto bene e che la sua nipotina è stata investita da un'auto ed è morta. Che cosa triste, commenta Deirdre. Gli dice che un'auto aveva investito Ginger, la sua gatta. È morta anche lei. L'uomo annuisce, nell'occhio gli spunta una lacrima. Lui spiega che ogni anno, il giorno del compleanno di sua nipote, viene al Fairmount Park, il luogo preferito del mondo, per sua nipote. L'uomo si mette a piangere. Deirdre mette il cavalletto alla bici e si avvicina alla panchina. Appena dietro la panchina ci sono folti cespugli. Deirdre offre all'uomo un fazzolettino... Byrne sorseggiò il caffè, accese una sigaretta. La testa gli pulsava, le immagini ormai spingevano per uscire. Aveva cominciato a pagarle a caro prezzo. Negli anni si era curato in molti modi, legittimi e no, convenzionali e tribali. Quelli legittimi non erano serviti. Era andato da decine di medici, aveva ascoltato tutte le diagnosi... Finora, la teoria prevalente era: «emicrania con aura». Ma le sue aure non erano descritte da nessun testo. Le sue aure non erano luminose linee curve: una cosa del genere, lui l'avrebbe accolta con gioia. Le sue aure racchiudevano mostri. La prima volta che aveva avuto la «visione» dell'assassinio di Deirdre, non era stato in grado d'inserirvi il volto di Gideon Pratt. Il volto dell'assassino era una macchia indistinta, un abbozzo sbiadito di male. Quando Pratt era entrato al Paradise, Byrne aveva saputo. Infilò un CD nel lettore, una sua personale antologia di blues classici. Era stato Jimmy Purify a iniziarlo al blues. E a quello serio: Elmore James,
Otis Rush, Lightnin' Hopkins, Bill Broonzy. Gli sbarbatelli alla Kenny Wayne Shepherds meglio non nominarli nemmeno, a Jimmy. All'inizio, Byrne non distingueva il grande Son House dalla marca di caffè Maxwell House. Ma avevano rimediato le tante lunghe serate al Warmdaddy's e al Bubba Mac's sul lungofiume. Ora, dopo le prime due battute, tre al massimo, sapeva distinguere un blues del Delta, di Beale Street, di Chicago, di St. Louis e tutte le altre sfumature del blu. Il primo brano sul CD era My Man Jumped Salty on Me di Rosetta Crawford. Com'era stato Jimmy a dargli il conforto del blues, così era stato Jimmy a rimetterlo al mondo dopo l'affare Morris Blanchard. Un anno prima, un giovane ricco di nome Morris Blanchard aveva assassinato a sangue freddo i suoi genitori, li aveva fatti fuori con un solo colpo in testa per ciascuno, con un Winchester 9410. O almeno così aveva creduto Byrne, ci aveva creduto profondamente e totalmente, come qualunque cosa che aveva imparato a considerare vera in due decenni di quel lavoro. Aveva interrogato il diciottenne Morris cinque volte, e ogni volta la colpa era sorta negli occhi del ragazzo come un'alba violenta. Byrne aveva più volte ordinato alla Scientifica di setacciare l'auto di Morris, la sua stanza al campus, i suoi vestiti. Non avevano mai trovato un solo capello, una fibra, un'unica goccia di fluido che confermassero la presenza di Morris in quella stanza nel momento in cui i suoi genitori venivano fatti fuori da quel fucile. Sapeva che l'unica speranza di ottenere una condanna era la confessione. Quindi lo aveva torchiato. Parecchio. Ogni volta che Morris si voltava, Byrne era là: ai concerti, al bar, a studiare nella McCabe Library. Si era perfino sorbito un malefico film d'essai intitolato Eating, seduto due file dietro Morris e la sua ragazza, solo per tenerlo sul chi vive. Il vero lavoro da poliziotto, quella sera, era stato rimanere sveglio durante il film. Una sera, aveva parcheggiato davanti all'alloggio di Morris, proprio sotto la finestra del campus dello Swarthmore College. Ogni venti minuti, per otto ore filate, Morris aveva socchiuso le tende per vedere se Byrne era ancora lì. Lui era stato attento a tenere aperto il finestrino della Taurus, e il brillio delle sue sigarette faceva da faro nel buio. Morris era stato attento a mostrargli il dito medio ogni volta che sbirciava dalle tende scostate. Il gioco era continuato fino all'alba. Poi, verso le sette e mezzo, invece di andare a lezione, invece di precipitarsi giù per le scale e gettarsi alla mercé
di Byrne, balbettando una confessione, Morris Blanchard aveva deciso d'impiccarsi. Aveva lanciato un pezzo di cavo da traino intorno a un tubo nel seminterrato dell'edificio, si era spogliato completamente e, con un calcio, aveva fatto cadere il cavalletto. Un ultimo vaffanculo al sistema. Incollato al petto con del nastro adesivo aveva un biglietto che indicava Kevin Byrne come suo tormentatore. Una settimana dopo, il giardiniere dei Blanchard era stato trovato in un motel ad Atlantic City, in possesso della carta di credito di Robert Blanchard e con alcuni abiti insanguinati nella sacca da viaggio. Aveva subito confessato il doppio omicidio. La porta nella mente di Byrne era stata chiusa a chiave. Per la prima volta in quindici anni, si era sbagliato. Gli antisbirri erano partiti all'attacco. Janis, la sorella di Morris, aveva intentato una causa civile per danni conseguenti alla morte del congiunto contro Byrne, il dipartimento, la città. La causa in sé non era gran cosa, ma il suo peso era cresciuto in maniera esponenziale fino a minacciare di spezzarlo. I giornali lo avevano preso di mira, diffamandolo per settimane con editoriali e articoli. Ma se l'Inquirer, il Daily News e il CityPaper lo avevano messo sui carboni ardenti, alla fine erano passati ad altro. Erano il Report un fogliaccio giallo che amava spacciarsi per stampa alternativa e che in realtà era poco più di un tabloid da supermercato - e un pezzo di merda particolarmente odoroso di giornalista chiamato Simon Close che l'avevano presa sul piano personale oltre ogni ragionevolezza. Per settimane, dopo il suicidio di Morris Blanchard, Simon Close aveva scatenato una polemica dopo l'altra su Byrne, sul dipartimento, sullo Stato di polizia che regnava in America, per chiudere con un profilo dell'uomo che Morris Blanchard sarebbe diventato: un misto tra Albert Einstein, Robert Frost e Jonas Salk, a dar retta a lui. Prima del caso Blanchard, Byrne aveva seriamente considerato l'idea di mettere un freno a tutto e di andarsene a Myrtle Beach, magari avviando un proprio servizio di vigilanza come tutti gli altri sbirri bruciati, con la volontà incrinata dalla ferocia della vita urbana. Lui aveva fatto il suo tempo, come interlocutore del Circo degli Zucconi. Ma quando aveva visto il cordone di dimostranti di fronte alla Roundhouse - con tanto di slogan arguti tipo POLIZIOTTO CACASOTTO -, aveva capito di non poterlo fare. Non poteva uscire di scena in quel modo. Aveva dato troppo alla città per essere ricordato così.
Dunque era restato. E aveva atteso. Un nuovo caso gli avrebbe permesso di risalire la china. Byrne scolò il suo Irish coffee, si mise comodo sul sedile. Non c'era ragione di andare a casa. Lo aspettava il tour completo, di lì a poche ore. E poi, ultimamente, nel suo appartamento si sentiva quasi un fantasma, uno spirito cupo che infestava due stanze vuote. Non c'era nessuno che sentisse la sua mancanza, lì. Guardò le finestre della centrale di polizia, il bagliore ambrato della luce sempre ardente della giustizia. Gideon Pratt era lì dentro. Byrne sorrise, chiuse gli occhi. Aveva preso il suo uomo, le analisi lo avrebbero confermato, e un'altra macchia sarebbe stata lavata via dai marciapiedi di Philadelphia. Kevin Francis Byrne non era il principe della città. Era il re. * Nomignolo di Philadelphia. (N.d.T.) 2 Lunedì, ore 5.15 Questa è l'altra città, quella che William Venn non immaginava affatto nel contemplare la sua «verde città agreste» tra i fiumi Schuylkill e Delaware, sognando colonne greche e palazzi di marmo che sorgevano maestosi tra i pini. Questa non è la città dell'orgoglio, della storia, della visione, il luogo in cui è stata creata l'anima di una grande nazione, ma piuttosto una parte di North Philadelphia in cui spettri viventi aleggiano nelle tenebre, con occhi vuoti e pavidi. Questo è un luogo vile, un luogo di fuliggine, feci, cenere e sangue, un luogo ove gli uomini si nascondono agli occhi dei loro figli e rinunciano alla propria dignità per una vita di dolore implacabile. Un luogo in cui gli animali giovani diventano vecchi. Se all'inferno esistono i bassifondi, di certo sono così. Ma, in questo luogo spaventoso, crescerà qualcosa di bello. Un Getsemani in mezzo all'asfalto crepato, al legno marcio, ai sogni infranti. Spengo il motore. C'è silenzio. Lei è seduta di fianco a me, immobile, come sospesa in questo istante, il
penultimo della sua giovinezza. Di profilo, sembra una bambina. Ha gli occhi aperti, ma non si muove. C'è un momento nell'adolescenza in cui la bambina che un tempo saltellava e cantava con trasporto si sbarazza, infine, di quel modo di fare e rivendica la sua femminilità; un momento in cui nascono segreti, una quantità di conoscenze clandestine, da non rivelare mai. Succede in momenti diversi per ragazze diverse - a volte a dodici o tredici anni appena, a volte non prima dei sedici o dopo ancora -, eppure succede, in ogni cultura, in ogni razza. Non è un momento preannunciato dal primo sangue, come molti credono, ma piuttosto dalla consapevolezza che il resto del mondo, in particolare i maschi della specie, all'improvviso le vedono in maniera diversa. E da quel momento in poi la bilancia del potere si sposta, e nulla sarà più come prima. No, lei non è più vergine, ma tornerà a esserlo. Alla colonna ci sarà una sferza e da quel flagello verrà la resurrezione. Scendo dal veicolo e guardo a est e a ovest. Siamo soli. L'aria della notte è gelida, anche se i giorni sono stati insolitamente caldi, per questa stagione. Apro la portiera del passeggero e le prendo la mano. Non donna, non bambina. Certo non un angelo. Gli angeli non dispongono del libero arbitrio. Tuttavia la sua bellezza è conturbante. Il suo nome è Tessa Ann Wells. Il suo nome è Maddalena. È la seconda. Non sarà l'ultima. 3 Lunedì, ore 5.20 Buio. Il vento portava gas di scarico e qualcos'altro. Un odore di vernice. Di cherosene, forse. E, sotto, rifiuti e sudore umano. Un gatto miagolò, poi... Silenzio. Lui la stava conducendo per una strada deserta. Lei non poteva urlare. Non poteva muoversi. Lui le aveva iniettato un
farmaco che le faceva sentire braccia e gambe fragili, di piombo; e la mente era velata da una lievissima nebbia grigia. Il mondo passava accanto a Tessa Wells in un baluginio di colori attutiti e di sagome geometriche solo intraviste. Il tempo si arrestò. Si congelò. Lei aprì gli occhi. Erano dentro. Scendevano scale di legno. Odore di urina e di carne in scatola andata a male. Lei non mangiava da molto tempo e quell'odore le fece rivoltare lo stomaco. Un filo di bile le salì in gola. Lui la mise ai piedi di una colonna, sistemandole il corpo e gli arti come se fosse una specie di bambola. Le mise qualcosa in mano. Il rosario. Il tempo passò. La mente di lei andò di nuovo alla deriva. Aprì gli occhi ancora una volta quando lui le toccò la fronte. Avvertì la forma di croce che lui vi aveva tracciato. Dio mio, mi sta ungendo? D'improvviso, i ricordi le accesero in testa un bagliore argenteo, un rapidissimo riflesso della sua infanzia. Ricordò... ... cavalcare per la Chester County e il vento che mi pungeva la faccia e la mattina di Natale e il cristallo di mamma che catturava le luci colorate dall'enorme albero che papà comprava tutti gli anni e Bing Crosby e quella canzone sciocca sul Natale hawaiano e il suo... Ora lui le era di fronte e stava infilando un grosso ago. Parlava in un lento, monotono... Latino? ... mentre faceva un nodo allo spesso filo nero e lo tirava forte. Lei sapeva che non sarebbe uscita da lì. Chi si sarebbe preso cura di suo padre? Santa Maria, madre di Dio... Lui l'aveva fatta pregare in quello stanzino per tanto tempo. Le aveva sussurrato all'orecchio le parole più orribili. Lei aveva pregato perché lui finisse. ... prega per noi peccatori... Lui le alzò la gonna sulle cosce, poi fino alla vita. Cadde in ginocchio e le allargò le gambe. La metà inferiore del corpo di lei era completamente paralizzata. Ti prego, Dio, fa' che finisca.
... adesso... Fa' che finisca. ... e nell'ora della nostra morte... Poi, in quel luogo umido e putrido, quell'inferno in terra, lei vide brillare la punta d'acciaio del trapano, sentì il ronzio del motore e seppe che le sue preghiere venivano finalmente esaudite. 4 Lunedì, ore 6.50 «Cocoa Puffs.» L'uomo la guardò, truce, la bocca atteggiata in un ghigno giallo e tirato. Era poco distante da lei, ma Jessica sentiva il pericolo irradiarsi da lui, sentiva all'improvviso l'odore penetrante del proprio terrore. Mentre lui la bloccava con uno sguardo irremovibile, Jessica sentiva lo spigolo del tetto avvicinarsi alle sue spalle. Allungò la mano verso la fondina ma, naturalmente, era vuota. Si frugò le tasche. Sinistra: qualcosa che sembrava un fermacapelli e un paio di monetine. Destra: aria. Fantastico. Mentre volava giù avrebbe avuto tutto il necessario per tirarsi su i capelli e fare un'interurbana. Decise di fare ricorso all'unico randello che avesse mai usato in vita sua, all'unico strumento spaventoso che fosse quasi sempre riuscito a ficcarla nei guai e a tirarla fuori: le parole. Però, invece di qualcosa anche solo vagamente brillante o minaccioso, riuscì soltanto a balbettare con voce tremolante: «Come?» Il teppista ripeté: «Cocoa Puffs». Quelle parole sembravano tanto incongrue quanto lo era la scena: una giornata abbacinante, un cielo terso, gabbiani bianchi che formavano una pigra ellisse. Sembrava una domenica mattina, però Jessica sapeva che non era così. Nessuna domenica mattina poteva sostenere un pericolo così grande, né evocare tanta paura. Nessuna domenica mattina l'avrebbe sorpresa in cima al Palazzo di Giustizia Penale nel centro di Philadelphia, con quel gangster terrificante che le veniva incontro. Prima che lei potesse parlare, il delinquente ripeté un'ultima volta: «Ti ho preparato i Cocoa Puffs, mammina». Ciao. Mammina?
Jessica aprì lentamente gli occhi. Il sole del mattino filtrava da tutte le parti con stiletti acuminati che le penetravano nel cervello. Non era affatto un gangster. Era sua figlia Sophie, di tre anni, che le stava appollaiata sul petto, con la camicia da notte celeste che metteva in risalto il colorito acceso di rubino delle guance, con un tornado di riccioli castani e al centro, come l'occhio di un ciclone, il visino rosa. Tutto si spiegava. Jessica capì il motivo di quel peso sul cuore e perché la voce dell'uomo del suo incubo ricordasse un po' quella del pupazzo Elmo. «I Cocoa Puffs, tesoro?» Sophie Balzano annuì. «Che c'entrano i Cocoa Puffs?» «Ti ho preparato la colassione, mammina.» «Davvero?» «Ah-ha.» «Tutta da sola?» «Ah-ha.» «Ma che bambina grande!» «Eh, sì.» Jessica esibì la sua espressione più seria. «Cosa ti ha detto mamma riguardo all'arrampicarsi sugli armadietti?» Il viso di Sophie fece una serie di manovre evasive; la piccola stava cercando d'inventare una storia capace di spiegare come aveva tirato fuori i cereali dagli armadietti più alti senza arrampicarsi sul piano della cucina. Alla fine, lei si limitò a guardare la madre, spalancando gli occhioni castani e, come sempre, la discussione finì lì. Fu costretta a sorridere. Già immaginava l'Hiroshima in cui doveva essersi trasformata la cucina. «Perché mi hai preparato la colazione?» Sophie alzò gli occhi al cielo. Non era ovvio? «Devi fare colazione, il tuo primo giorno di scuola!» «È vero.» «È il pasto più 'mportante della giornata!» Sophie, naturalmente, era troppo piccola per afferrare il concetto di lavoro. Fin dalla sua prima incursione nella scuola materna - un costoso istituto del Center City District che si chiamava Educare -, ogni volta che la madre usciva di casa per un periodo di tempo prolungato, Sophie lo interpretava come un andare a scuola. Mentre il mattino si affacciava alla soglia della coscienza, la paura cominciò a dissolversi. Nessun criminale aveva messo Jessica alle strette, uno scenario onirico che le era divenuto fin troppo familiare negli ultimi
mesi. Lei stringeva tra le braccia la sua bellissima bambina. Si trovava nel suo alloggio di due camere, pesantemente ipotecato, di Northeast Philadelphia; nel garage c'era la sua Jeep Cherokee, pesantemente rateizzata. Al sicuro. Jessica allungò la mano e accese la radio, mentre Sophie le dava un grosso abbraccio e un bacio ancora più grosso. «Si sta facendo tardi!» disse, poi scivolò giù dal letto e schizzò come un razzo attraverso la stanza. «Su, mamma!» Guardando la figlia svanire dietro l'angolo, Jessica pensò che, in ventinove anni, non si era mai sentita tanto grata di poter salutare un nuovo giorno; mai tanto lieta di liberarsi dall'incubo che aveva cominciato a perseguitarla il giorno in cui aveva saputo di essere stata assegnata alla Squadra Omicidi. Era il suo primo giorno da acchiappakiller. Sperava fosse l'ultimo con quel sogno. Per qualche ragione, ne dubitava. Detective. Anche se aveva trascorso quasi tre anni nell'Unità Auto e aveva sempre portato il distintivo, sapeva che erano i reparti più scelti del dipartimento Antirapina, Narcotici e Omicidi - a conferire vero prestigio a quel titolo. Da quel giorno, lei faceva parte dell'élite. Degli eletti. Fra tutti gli agenti col distintivo dorato della polizia di Philadelphia, gli uomini e le donne della Squadra Omicidi erano considerati alla stregua di divinità. Non si poteva aspirare a una posizione più elevata tra le forze dell'ordine. Era vero che i cadaveri potevano saltar fuori nel corso di ogni indagine, dalle rapine ai furti con scasso, dai traffici di droga finiti male alle liti domestiche sfuggite al controllo... Però ogni volta che non si riusciva a sentire il polso di qualcuno, gli agenti prendevano il telefono e chiamavano la Omicidi. Da quel giorno, lei avrebbe parlato per coloro che non potevano più parlare per se stessi. Detective. «Vuoi un po' dei cereali di mamma?» domandò Jessica. Era a metà della sua enorme ciotola di Cocoa Puffs - Sophie aveva versato quasi tutta la scatola -, che si stava rapidamente tramutando in una sorta di stucco beige zuccheroso. «No, glaccie», fece Sophie, con la bocca piena di biscotto. La bambina era seduta di fronte a lei al tavolo della cucina, colorando
vigorosamente quella che sembrava una versione arancio di uno Shrek con sei gambe e infilandosi in bocca dei biscottini alla nocciola, i suoi preferiti. «Sei sicura? Sono proprio, ma proprio buoni.» «No, glaccie.» Accidenti, pensò Jessica. Quella bambina era testarda quanto lei. Ogni volta che Sophie si metteva in testa qualcosa era irremovibile. E ciò, naturalmente, era un bene e un male. Era un bene perché significava che la figlia di Jessica e Vincent Balzano non si arrendeva facilmente. Era un male perché lei già immaginava i diverbi con la Sophie Balzano adolescente. Al confronto, l'Operazione Desert Storm sarebbe sembrata una baruffa tra lattanti. Ma adesso che lei e Vincent si erano separati, Jessica si domandava come quel fatto avrebbe influenzato Sophie a lungo termine. Era dolorosamente chiaro che la bambina sentiva la mancanza del papà. Guardò a capotavola, dove Sophie aveva apparecchiato il posto di Vincent. Certo, come posate aveva scelto un piccolo mestolo da minestra e una forchetta per la fonduta, ma era l'impegno a contare. Negli ultimi mesi, ogni volta che Sophie s'impegnava in qualcosa che prevedeva uno sfondo familiare - compresi i tè del sabato pomeriggio nel giardinetto, eventi mondani cui di solito partecipava il suo serraglio di orsi, paperi e giraffe di peluche -, aveva sempre preparato un posto per il padre. Sophie era abbastanza grande da capire che l'universo della sua piccola famiglia era sottosopra, ma anche abbastanza piccola da credere che la magia di una bambina potesse sistemare tutto. Quella era una delle mille ragioni per cui a Jessica si stringeva il cuore ogni giorno. Aveva appena cominciato a formulare un piano per distrarre Sophie e raggiungere quindi il lavandino con la sua zuppiera piena di porcheria al cacao quando squillò il telefono. Era Angela, una cugina prima di Jessica. Angela Giovanni aveva un anno meno di lei ed era la cosa più vicina a una sorella che lei avesse mai avuto. «Ehi, detective Balzano della Omicidi», fece Angela. «Ehi, Angie.» «Hai dormito?» «Oh, sì. Due ore piene.» «Pronta per il grande giorno?» «Non proprio.» «Tu mettiti la tua corazza su misura e andrà tutto bene», esclamò Angela.
«Se lo dici tu. È solo che...» «Cosa?» Il timore di Jessica era così indistinto, così generico, che lei faticava a dargli un nome. Le sembrava davvero di essere al suo primo giorno di scuola. Di asilo. «È solo che questa è la prima cosa della mia vita che mi abbia fatto paura.» «Ehi!» sbottò Angela, dando fondo al suo ottimismo. «Chi ha finito il college in tre anni?» Era un vecchio ritornello, però a Jessica non dispiaceva. Non quel giorno. «Io.» «Chi ha vinto il concorso al primo tentativo?» «Io.» «E chi ha legnato di santissima ragione Ronnie Anselmo per averle fatto la mano morta durante Beetlejuice?» «Sarei sempre io», rispose Jessica, anche se ricordava che non le era dispiaciuto troppo. Ronnie Anselmo era un gran bel tipo. Comunque, i principi erano principi. «Esatto. La nostra piccola Cuor di Leone», disse Angela. «E ricorda quello che diceva la nonna: Meglio un uovo oggi che una gallina domani.»* Jessica riandò alla sua infanzia, alle vacanze a casa della nonna a Christian Street a South Philadelphia, agli aromi di aglio, basilico, Asiago e peperoni arrostiti. Ricordò la nonna che sedeva sulla minuscola veranda in primavera e in estate, i ferri da calza in mano, la coperta di lana apparentemente infinita che si arrotolava sul cemento immacolato, sempre verde e bianca, i colori dei Philadelphia Eagles, a riversare le sue arguzie su chiunque l'ascoltasse. Quella la diceva sempre: Meglio un uovo oggi che una gallina domani. La conversazione prese il ritmo di una partita a tennis con domande sulla famiglia. Tutti stavano bene, più o meno. Poi, come da copione, Angela disse: «Sai, lui ha chiesto di te». Lei sapeva perfettamente chi era il lui di cui parlava Angela. «Ah, sì?» Patrick Farrell era un medico del pronto soccorso al St. Joseph's Hospital, dove Angela lavorava come infermiera. Patrick e Jessica avevano avuto una storia breve e piuttosto casta prima che lei si fidanzasse con Vincent. Lo aveva conosciuto una sera in cui lei, in veste di sbirro in divisa, aveva portato al pronto soccorso un ragazzo della zona che si era fatto saltare due dita con una M-80. Lei e Patrick erano usciti insieme qualche vol-
ta, per un mesetto. Jessica frequentava Vincent, all'epoca, agente in divisa lui pure, del Terzo Distretto. Quando Vincent le aveva fatto la proposta e Patrick aveva dovuto decidere se impegnarsi, quest'ultimo aveva indugiato. Poi, dopo la separazione, lei si era chiesta all'incirca un miliardo di volte se non si fosse lasciata scappare quello buono. «Si sta struggendo, Jess», disse Angela. Era l'unica persona a nord di May berry a usare parole come «struggersi». «Non c'è niente di più straziante di un bell'uomo innamorato.» Riguardo al «bell'uomo», sua cugina aveva certamente ragione. Patrick apparteneva a quella rara razza irlandese bruna: capelli scuri, occhi blu, spalle larghe, fossette. Mai visto nessuno stare tanto bene col camice bianco. «Sono sposata, Angie.» «Non così sposata.» «Digli solo che... lo saluto», disse Jessica. «Solo questo?» «Sì. Per ora. In questo momento, un uomo è l'ultima cosa che mi serve.» «Credo siano le parole più tristi che io abbia mai sentito», commentò Angela. Jessica rise. «Hai ragione. È decisamente patetico.» «Tutto pronto per stasera?» «Oh, sì.» «Lei come si chiama?» «Pronta?» «Colpisci pure.» «Favilla Munoz.» «Caspita. Favilla?» fece Angela. «Favilla.» «Cosa sai di lei?» «Ho visto un video del suo ultimo incontro. È una femminuccia.» Jessica faceva parte di una piccola ma agguerrita accolita di pugili donne di Philly. Una cosa cominciata per scherzo nelle palestre della Police Athletic League, quando lei cercava di perdere il peso acquistato in gravidanza, si era trasformata in una faccenda seria. Con un palmares di tre vittorie su tre, tutte per KO, Jessica cominciava a guadagnarsi qualche buona critica. Neppure il fatto d'indossare calzoncini di raso rosa opaco con le parole JESSIE LA FURIA cucite in vita nuoceva alla sua immagine. «Ci sarai,
vero?» domandò. «Ci puoi giurare.» «Grazie, cuginotta», fece Jessica lanciando un'occhiata all'orologio. «Senti, devo correre.» «Anch'io.» «Ho ancora una domanda da farti, Angie.» «Spara.» «Perché sono diventata uno sbirro, me lo ripeti?» «Facile: per molestare e sgommare.» «Otto in punto.» «Ci sarò.» «Bacioni.» «Bacioni a te.» Jessica riattaccò e guardò Sophie. La piccola aveva deciso che era una bella idea unire i pallini del suo vestito a pois con un pennarello Magic Marker arancione. Come diavolo sarebbe arrivata alla fine di quella giornata? Dopo aver cambiato Sophie e averla depositata a casa di Paula Farinacci - una manna di babysitter che abitava a tre porte da Jessica ed era anche una delle sue migliori amiche -, tornò a casa, col tailleur giallo chiaro che cominciava già a sgualcirsi. Quand'era nell'Unità Auto poteva vestirsi in jeans e pelle, con magliette e felpe, ogni tanto un tailleur pantalone. Le piaceva come stava la Glock sul fianco dei suoi migliori Levis scoloriti. Piaceva a tutti gli sbirri, francamente. Ma ora doveva assumere un aspetto un po' più professionale. Lexington Park era una zona sicura di Northeast Philadelphia, confinante con Pennypack Park. Ci abitavano anche parecchi rappresentanti delle forze dell'ordine, dunque non si commettevano molti furti a Lexington Park. I topi d'appartamento sembravano affetti da una patologica avversione per i proiettili a punta cava e i rottweiler sbavanti. Benvenuti a Sbirrolandia. Entrate a vostro rischio e pericolo. Prima di arrivare al vialetto di casa, sentì il rombo metallico e seppe che era Vincent. In tre anni all'Unità Auto aveva sviluppato un orecchio finissimo per i motori, sicché quando la rauca Harley Shovelhead del 1969 di Vincent girò l'angolo e si fermò ruggendo sul vialetto, lei capì di non avere affatto perduto la sensibilità ai pistoni. Vincent aveva anche un vecchio
furgone Dodge ma, come quasi tutti i motociclisti, non appena il termometro superava i quattro gradi - e spesso anche prima -, lui cavalcava il suo bestione. Come detective della Narcotici in borghese, Vincent Balzano godeva di assoluta libertà d'azione, riguardo al suo aspetto. Con la barba di quattro giorni, la giacca di pelle scorticata e gli occhiali da sole Serengeti, sembrava molto più un bandito che uno sbirro. I capelli castani scuri erano più lunghi di quanto lei li avesse mai visti e raccolti in una coda di cavallo. L'onnipresente crocifisso d'oro che portava al collo con la catenina d'oro lampeggiava nel sole del mattino. Jessica era sempre andata pazza per il tipo moro e spavaldo. Scacciò quel pensiero e assunse un'aria dura. «Cosa vuoi, Vincent?» Lui si tolse gli occhiali da sole e domandò con calma: «A che ora se n'è andato?» «Non ho tempo per queste stronzate.» «È una semplice domanda, Jessie.» «È anche una cosa che non ti riguarda.» Sapeva di ferirlo, ma in quel momento non le importava. «Sei mia moglie», cominciò lui, quasi a volerle insegnare l'ABC della loro vita. «Questa è casa mia. Ci dorme mia figlia. Mi riguarda, cazzo.» Dio mi guardi dal maschio italoamericano, pensò Jessica. Esisteva in natura una creatura più possessiva? Gli italoamericani facevano apparire ragionevoli i gorilla di montagna. Gli sbirri italoamericani erano anche peggio. Come lei, Vincent era nato e cresciuto per le strade di South Philadelphia. «Oh, adesso ti riguarda? Ti riguardava, quando ti sbattevi quella puttana? Eh? Quando ti sbattevi quella culona di una befana tinta del South Jersey?» Vincent si stropicciò il viso. Aveva gli occhi rossi, la postura lievemente fiacca. Era chiaramente reduce da un lungo giro. O forse da una lunga notte trascorsa a fare altro. «Quante volte mi devo scusare, Jess?» «Ancora qualche milione, Vincent. Allora saremo troppo vecchi per ricordare come mi hai tradito.» Ogni reparto ha le sue fan, le sue «groupie» degli sbirri che, non appena vedono una divisa o un distintivo, provano l'irresistibile impulso a sdraiarsi e ad allargare le gambe. La Narcotici e la Buoncostume ne vantavano il numero maggiore, per ovvie ragioni. Ma Michelle Brown non era una fan del distintivo. Michelle Brown era una relazione. Michelle Brown si era
scopata suo marito in casa sua. «Jessie.» «Ho bisogno di questa merda, oggi, vero? Ne ho proprio bisogno.» Il viso di Vincent si ammorbidì, come se lui avesse appena ricordato che giorno era. Aprì la bocca per parlare, ma Jessica alzò una mano, fermandolo. «No. Non oggi», gli disse. «Quando?» La verità era che non lo sapeva. Sentiva la sua mancanza? Disperatamente. Glielo avrebbe fatto capire? Neanche tra un milione di anni. «Non lo so.» Con tutti i suoi difetti - ed erano una marea - Vincent Balzano sapeva quando fermarsi, con sua moglie. «Forza, lascia almeno che ti dia un passaggio.» Sapeva che lei avrebbe rifiutato, considerando la capigliatura da strega che avrebbe avuto dopo un viaggio sull'Harley fino alla Roundhouse. Ma lui le rivolse quel maledetto sorriso, quello con cui se l'era portata a letto la prima volta, e lei quasi - quasi - cedette. «Devo andare, Vincent», concluse. Passò di fianco alla moto e proseguì verso il garage. Per quanto fosse tentata di voltarsi, resistette. Lui l'aveva tradita e adesso era lei a sentirsi una merda. Che c'è di sbagliato in questa immagine? Mentre lei traccheggiava intenzionalmente con le chiavi, tirandole fuori, finalmente sentì la moto partire, girarsi, rombare in tono di sfida e svanire in fondo alla strada. Dopo aver avviato il motore della Cherokee, compose il 1060. La KYW le disse che la I-95 era intasata. Lanciò un'occhiata all'orologio. Aveva tempo. Per andare in centro, avrebbe preso Frankford Avenue. Uscendo dal vialetto, vide un'ambulanza davanti alla casa degli Arrabiata, dall'altra parte della strada. Ancora. I suoi occhi incontrarono quelli di Lily Arrabiata, e la donna le fece un cenno di saluto. Come al solito, Carmine Arrabiata aveva avuto il suo falso infarto settimanale, evento consueto, a memoria di Jessica. Era arrivato al punto che il Comune non mandava più le ambulanze di pronto soccorso. Gli Arrabiata dovevano chiamare ambulanze private. Il gesto di Lily aveva due significati: uno, dire buongiorno; l'altro, comunicare a Jessica che Carmine stava bene. Almeno per un'altra settimana, circa. Dirigendosi verso Cottman Avenue, Jessica pensava allo stupido litigio
appena avuto con Vincent, e a come una semplice risposta alla sua domanda iniziale avrebbe subito posto fine alla discussione. La sera prima, lei aveva partecipato a una riunione, per la campagna di raccolta alimentare cattolica, insieme con un vecchio amico di famiglia, il piccolo Davey Pizzino in tutto il suo metro e cinquantacinque. Era un appuntamento annuale al quale lei partecipava da quand'era adolescente, la cosa più lontana che esistesse da un convegno romantico, ma non occorreva che Vincent lo sapesse. Davey Pizzino arrossiva davanti alle pubblicità dei detergenti intimi. Davey Pizzino, a trentotto anni, era il più anziano uomo vergine vivente a est dei monti Allegheny. Davey Pizzino se n'era andato alle nove e mezzo. Ma il fatto che Vincent l'avesse probabilmente spiata le aveva fatto perdere le staffe. Pensasse pure quello che voleva. Avvicinandosi al centro della città, Jessica osservava i quartieri cambiare. Non le veniva in mente nessun'altra città con una personalità tanto nettamente divisa tra degrado e splendore. Nessun'altra città stava aggrappata al passato con maggiore orgoglio, o pretendeva il futuro con maggior fervore. Vide una coppia di coraggiosi patiti del jogging farsi strada lungo la Frankford, e le cateratte si spalancarono. Un torrente di ricordi e di emozioni la inondò. Aveva cominciato a correre con suo fratello quando lui aveva diciassette anni; lei era una tredicenne lunga e secca, frettolosamente montata con gomiti aguzzi, scapole sottili e rotule ossute. Per il primo anno, non aveva avuto la minima speranza di stargli al passo o di tenere il suo ritmo. Michael Giovanni era alto un metro e ottanta e pesava ottanta chili snelli e muscolosi. Nel calore dell'estate, sotto la pioggia di primavera e con la neve d'inverno, facevano jogging per le strade di South Philadelphia; Michael, sempre qualche passo avanti; Jessica, sempre sforzandosi di resistere, sempre ad ammirare in silenzio reverente la grazia del fratello. Una volta era riuscita ad arrivare prima di lui in cima alle scale di St. Paul's, il giorno del suo quattordicesimo compleanno, e Michael non aveva mai messo in dubbio la propria sconfitta in quella gara. Lei sapeva che lui l'aveva lasciata vincere. Un cancro al seno aveva portato via la loro madre quando lei aveva sol-
tanto cinque anni e, da quel giorno, Michael si era occupato di tutti i ginocchi graffiati, di tutti gli struggimenti, di tutte le angherie subite dai bulletti del quartiere. Jessica aveva quindici anni quando Michael era entrato nei Marines, seguendo le orme del padre. Ricordava com'erano stati orgogliosi quando lui era tornato a casa in alta uniforme per la prima volta. Tutte le amiche di Jessica erano disperatamente innamorate di Michael, dei suoi occhi color caramello, del suo sorriso disinvolto, e della sicurezza con cui sapeva mettere a loro agio vecchi e bambini. Tutti sapevano che sarebbe entrato in polizia alla fine della sua missione all'estero, seguendo anche in quello le orme del padre. Lei aveva quindici anni quando Michael, in servizio nel Primo Battaglione, Undicesimo Marines, era stato ucciso in Kuwait. Suo padre, veterano tre volte decorato del corpo di polizia, un uomo che portava ancora nel taschino della camicia la tessera d'internamento della sua defunta moglie, quel giorno aveva chiuso completamente il suo cuore, territorio che ora percorreva soltanto in compagnia della nipote. Benché piccolo di statura, Peter Giovanni era stato alto tre metri, in compagnia di suo figlio. Jessica aveva fatto gli studi preparatori di giurisprudenza e doveva quindi entrare alla facoltà di Legge, ma la notte in cui avevano ricevuto la notizia della morte di Michael, lei aveva capito: sarebbe entrata nella polizia. E ora, nel dare inizio a quella che era essenzialmente una carriera del tutto nuova in una delle squadre omicidi più rispettate di tutti i dipartimenti del Paese, la facoltà di Legge sembrava un sogno relegato nel regno della fantasia. Forse un giorno. Forse. Quando Jessica arrivò al parcheggio della Roundhouse, si rese conto di non ricordare nulla. Assolutamente niente. Tutte le regole di procedura, le prove, gli anni in strada... Le si era tutto volatilizzato dal cervello. È diventato più grande, il palazzo? si domandò. All'ingresso, intravide il proprio riflesso nel vetro. Indossava un tailleur piuttosto costoso e le sue migliori scarpe funzionali da poliziotta. Una notevole differenza rispetto ai jeans strappati e alle felpe che prediligeva da studentessa alla Tempie, in quegli anni sconsiderati prima di Vincent, prima di Sophie, prima dell'Accademia, prima di tutto... quello. Senza un
pensiero al mondo, rifletté. Ora il suo mondo era fondato sull'angoscia, modellato dall'ansia, sormontato da un tetto bucato ricoperto di trepidazione. Benché fosse entrata molte volte in quell'edificio e probabilmente sarebbe riuscita a trovare la fila degli ascensori a occhi bendati, tutto le pareva estraneo, come se lo vedesse per la prima volta. Gli oggetti, i suoni, gli odori si mescolavano tutti nel folle luna park di quell'angolino del sistema giudiziario di Philadelphia. Fu il bel volto di suo fratello Michael che Jessica vide stringendo la maniglia della porta, un'immagine che sarebbe tornata a farle visita molto spesso nelle settimane seguenti, quando le cose su cui aveva fondato la sua esistenza sarebbero state ridefinite come pazzia. Jessica aprì la porta ed entrò, pensando: Guardami le spalle, fratellone. Guardami le spalle. * In italiano nel testo. (N.d.T.) 5 Lunedì, ore 7.55 La Squadra Omicidi del dipartimento di polizia di Philadelphia aveva sede al primo piano della Roundhouse, il palazzo amministrativo della polizia - il Police Administration Building, spesso abbreviato in PAB -, all'incrocio fra la North 8th Street e Race Street, ed era chiamato così per via della forma rotonda della sua struttura a tre livelli. Perfino gli ascensori erano tondi. Ai criminali piaceva far notare che, dall'alto, l'edificio ricordava un paio di manette. Quando si verificava una morte sospetta, ovunque nella contea, si finiva sempre lì. Dei sessantacinque detective della squadra, pochissimi erano donne. Una situazione che gli alti papaveri desideravano disperatamente cambiare. Tutti sapevano che in un dipartimento politicamente sensibile come quello di Philadelphia, a venire promossa non era necessariamente una persona; molto spesso veniva promosso un dato statistico, il rappresentante di qualche proiezione demografica che ce l'aveva fatta. Jessica lo sapeva. Ma sapeva anche di avere alle spalle un'eccezionale carriera in strada e di essersi guadagnata il posto alla Omicidi, anche se ci era arrivata qualche anno prima del canonico decennio di lavoro. Si era
presa la sua laurea in diritto penale; era stata un'agente in divisa più che competente e si era guadagnata due encomi. Se doveva fare a capocciate con qualcuno della vecchia scuola, così fosse. Era pronta. Non si era mai tirata indietro se si trattava di combattere, e non avrebbe cominciato adesso. Uno dei tre responsabili della Omicidi era il sergente Dwight Buchanan. Se i detective della Omicidi davano voce ai morti, era Ike Buchanan a dar voce a quelli che davano voce ai morti. Quando Jessica entrò nella sala di ritrovo, Ike Buchanan la vide e le fece cenno di avvicinarsi. Il turno di giorno cominciava alle otto, sicché a quell'ora la stanza era gremita. Buona parte dell'ultimo turno di notte era ancora là - situazione non insolita - e ciò rendeva un groviglio di corpi quel già angusto spazio semicircolare. Lei salutò con un cenno del capo gli agenti seduti alle scrivanie, tutti uomini, tutti al telefono, e tutti ricambiarono il saluto con altrettanti cenni freddi e frettolosi. Lei non faceva ancora parte del club. «Venga», disse Buchanan, tendendole la mano. Jessica gliela strinse, poi lo seguì, notando che lui zoppicava leggermente. Ike Buchanan si era preso qualche proiettile durante le guerre tra bande di Philly alla fine degli anni '70 e, secondo la leggenda, aveva sopportato una dozzina di operazioni e un anno di dolorosa riabilitazione prima di rimettere la divisa. Uno degli ultimi uomini di ferro. Lei lo aveva visto col bastone, qualche volta, ma non quel giorno. Orgoglio e fegato, da quelle parti, erano più che un lusso. Talvolta erano il collante della catena di comando. Ormai vicino ai sessant'anni, Buchanan era secco come un'acciuga, solido come l'acciaio ed esibiva bianche sopracciglia cespugliose nonché una folta nuvola bianca di capelli. Il volto era arrossato e butterato da quasi sei decenni d'inverni di Philly e, se l'altra leggenda rispondeva al vero, da più Wild Turkey di quanto gli sarebbe spettato. Lei entrò nel piccolo ufficio e si sedette. «Sgombriamo il campo dalle minuzie.» Buchanan socchiuse la porta e si mise dietro la scrivania. Jessica vide che cercava di nascondere l'andatura zoppicante. Sarà anche stato uno sbirro decorato, ma era sempre un uomo. «Sì, signore.» «Le sue esperienze?» «Sono cresciuta a South Philadelphia», rispose Jessica, sapendo che Buchanan sapeva già tutto, che quella era una formalità. «Tra la 6th Street e
Catharine Street.» «Scuole?» «Ho frequentato la St. Paul's. Liceo alla Nazarene Academy. Studi universitari alla Tempie.» «Si è laureata alla Tempie in tre anni?» In tre e mezzo, pensò Jessica. Ma chi li conta? «Sì, signore. Diritto penale.» «Notevole.» «Grazie, signore. È stato molto...» «Viene dal Terzo?» domandò. «Sì.» «Le piaceva lavorare per Danny O'Brien?» Cosa avrebbe dovuto rispondere? Dire che era un prepotente, un misogino e una stupida testa di cazzo? «Il sergente O'Brien è un buon agente. Ho imparato molto da lui.» «Danny O'Brien è un uomo di Neandertal», sentenziò Buchanan. «Quella è soltanto una delle scuole di pensiero, signore», replicò Jessica, facendo del suo meglio per trattenere un sorriso. «Allora mi dica. Perché si trova qui, in realtà?» «Non sono sicura di aver capito la domanda», disse lei, prendendo tempo. «Faccio lo sbirro da trentasette anni. Stento a crederci, ma è così. Ho visto un sacco di brava gente, un sacco di brutta gente. Dentro la legge e fuori di essa. Una volta ero come lei. Pronto a sfidare il mondo, a punire il colpevole, a vendicare l'innocente.» Buchanan si girò, la guardò in faccia. «Perché è qui?» Calma, Jess, pensò lei. Ti sta lanciando una patata bollente. «Sono qui perché... Perché credo di poter essere utile.» Buchanan la fissò per qualche istante. Indecifrabile. «Lo credevo anch'io, alla sua età.» Jessica non capiva se lui la stesse trattando con sufficienza. L'italiana che era in lei saltò fuori. La ragazza di South Philly saltò fuori. «E, mi scusi, signore, lei è stato utile?» Buchanan sorrise. Buon segno, per lei. «Non sono ancora andato in pensione.» Bella risposta, pensò lei. «Come sta suo padre?» domandò lui, cambiando marcia al volo. «Si sta godendo la pensione?»
In realtà, stava dando i numeri. L'ultima volta che Jessica si era fermata davanti a casa sua, lui era fermo accanto alla porta a vetri e guardava il suo minuscolo giardino con un pacchetto di semi di pomodoro Roma in mano. «Moltissimo, signore.» «È un brav'uomo. Era un grande poliziotto.» «Gli riferirò le sue parole. Gli farà piacere.» «Il fatto che Peter Giovanni sia suo padre non le sarà né d'aiuto né d'intralcio, qui dentro. Se mai dovesse procurarle fastidi, venga da me.» Neanche morta, cazzo. «Certo. La ringrazio.» Buchanan si alzò, si sporse verso di lei, la inchiodò col suo sguardo intenso. «Questo lavoro ha spezzato molti cuori, detective. Spero che il suo non sia tra quelli.» «Grazie, signore.» Buchanan guardò alle spalle di Jessica, verso la sala di ritrovo. «A proposito di cuori spezzati.» Lei seguì il suo sguardo, rivolto all'uomo grosso vicino al banco degli incarichi, intento a leggere un fax. Poi entrambi si alzarono e uscirono dall'ufficio. Mentre gli si avvicinavano, lei valutò l'uomo. Era sui quarant'anni, alto quasi un metro e novanta, sui centodieci chili, massiccio. I capelli erano di un castano chiaro, gli occhi verde sottobosco, le mani grandi; aveva una cicatrice spessa e lucida sopra l'occhio destro. Anche se non avesse saputo che si trattava di uno sbirro della Omicidi, lei lo avrebbe indovinato. Rispondeva a tutti i parametri: vestito buono, cravatta dozzinale, scarpe che non vedevano il lucido da quand'erano uscite di fabbrica, più il trio classico di odori: tabacco, mentine e una lieve traccia di Aramis. «Come sta il piccino?» domandò Buchanan all'uomo. «Dieci dita alle mani, dieci ai piedi», rispose lui. Jessica conosceva il codice. Buchanan stava chiedendo come andava un caso in corso. La risposta del detective significava: Tutto bene. «Riff Raff, ti presento la tua nuova partner», esclamò Buchanan. «Jessica Balzano», disse, tendendo la mano. «Kevin Byrne. Piacere», replicò lui. Quel nome portò indietro Jessica di un anno. Il caso Morris Blanchard. Tutti gli sbirri di Philly avevano seguito il caso. La faccia di Byrne aveva tappezzato l'intera città; era stata in TV, sui quotidiani e sulle riviste locali. Era sorpresa di non averlo riconosciuto. Al primo sguardo, sembrava cinque anni più vecchio dell'uomo che lei ricordava.
Il telefono di Buchanan squillò e lui si congedò. «Piacere mio», rispose lei. E alzò le sopracciglia. «Riff Raff?» «È una lunga storia. Ci arriveremo.» Si strinsero la mano e, in quel momento, Byrne fece caso al nome. «Sei la moglie di Vincent Balzano?» Gesù Cristo, pensò Jessica. Quasi settemila sbirri in polizia, e si poteva farli stare tutti in una cabina telefonica. Applicò una pressione leggermente maggiore alla sua stretta di mano. «Solo di nome», gli rispose. Kevin Byrne recepì il messaggio. Fece una smorfia, sorrise. «Capito.» Prima di lasciarle la mano, lui trattenne il suo sguardo per qualche secondo come soltanto un veterano riusciva a fare. Jessica sapeva tutto. Sapeva del club, dell'indole territoriale delle squadre, di come gli sbirri stavano uniti e si proteggevano. Quand'era stata assegnata all'Unità Auto, doveva dare prova di sé quotidianamente. Dopo un anno, però, poteva girare coi migliori. Dopo due anni poteva fare un'inversione a J su cinque centimetri di ghiaccio compatto e mettere a punto una Shelby GT al buio. Quando colse lo sguardo di Kevin Byrne e glielo rilanciò, accadde qualcosa. Non era del tutto sicura che fosse una cosa buona, ma gli fece capire che non era una pivella arrivata lì soltanto perché era una bella donna. Le loro mani si staccarono nel momento in cui il telefono suonò al banco degli incarichi. Byrne rispose, si appuntò qualcosa. «Siamo sulla ruota», disse poi. La ruota era il ruolino degli incarichi per i detective della pattuglia operativa. Jessica si sentì mancare. Da quanto tempo era entrata in servizio? Quattordici minuti? Non doveva esserci un periodo di grazia? «Ragazza morta a Crack Town», aggiunse lui. Forse no. Byrne fissò Jessica con uno sguardo a metà tra il sorriso e la sfida. «Benvenuta alla Omicidi.» «Come fai a conoscere Vincent?» domandò Jessica. Dopo essere usciti dal parcheggio, erano avanzati in silenzio per qualche isolato. Byrne guidava la Ford Taurus d'ordinanza. Era lo stesso silenzio imbarazzato che si percepiva durante un appuntamento al buio, e quello, sotto molti aspetti, lo era. «Un anno fa abbiamo beccato un trafficante a Fishtown. Lo cercavamo da un pezzo. Lo volevamo per l'omicidio di uno dei nostri. Un autentico bastardo. Portava un'accetta alla cintura.» «Affascinante.» «Eh, già. Comunque il caso era nostro, ma la Narcotici aveva organizza-
to un acquisto per stanare quel cazzone. All'ora stabilita, verso le cinque di mattina, siamo in sei, quattro della Omicidi e due della Narcotici. Scendiamo dal furgone, controlliamo le Glock, sistemiamo i giubbotti antiproiettile, ci prepariamo a sfondare la porta. Sai com'è la prassi. All'improvviso, Vincent sparisce. Ci guardiamo intorno, dietro il furgone, sotto. Niente. Un silenzio di tomba, poi di colpo sentiamo: A terra... A terra... Mani dietro la schiena, pezzo di merda! Da dentro la casa. Viene fuori che Vincent era partito, entrando dalla porta, e gliel'aveva messa nel culo a quel tizio prima che noialtri fossimo riusciti a muoverci.» «Sembra proprio da Vince», commentò Jessica. «Quante volte ha visto Serpico?» domandò Byrne. «Mettiamola così: ce l'abbiamo sia in cassetta sia in DVD.» Lui rise. «Che elemento.» «Lasciamo perdere.» I minuti successivi furono tutti un botta e risposta a base di chi conosci, dove sei andato a scuola, chi hai beccato. E quello li riportò al discorso sulla famiglia. «Allora è vero che Vincent è stato in seminario?» domandò Byrne. «Per circa dieci minuti», rispose Jessica. «Sai com'è, in questa città. Se sei maschio e italiano, hai tre possibilità: seminario, polizia o cantiere edile. Ha tre fratelli, tutti nell'edilizia.» «E se sei irlandese, fai l'idraulico.» «Esattamente», fece Jessica. Anche se Vincent cercava di atteggiarsi a tipico spaccone di South Philly, aveva preso una laurea alla Tempie con storia dell'arte come materia complementare. Nella libreria di Vincent, accanto al Repertorio farmaceutico, Droga e società e Il gioco dell'Antidroga si trovava una copia consunta della Storia dell'Arte di H.W. Janson. Non era tutto Ray Liotta e superstizioni placcate in oro. «Allora, che è successo alla vocazione di Vince?» «Lo conosci. Ti pare che fosse fatto per una vita di disciplina e obbedienza?» Byrne rise. «Per non parlare del celibato.» No comment, pensò Jessica. «Quindi siete divorziati?» domandò Byrne. «Separati», precisò lei. «E tu?» «Divorziato.» Era un ritornello ben noto, tra gli sbirri. Se non eri tra i divisi, stavi per arrivarci. Jessica avrebbe potuto contare le coppie felici sulle dita di una
mano, avanzando pure un anulare senza anello. «Però!» esclamò Byrne. «Cosa?» «Stavo solo pensando... Due piedipiatti sotto lo stesso tetto. Accidenti.» «Non dirlo a me.» Jessica aveva conosciuto fin dall'inizio le complicazioni di un matrimonio tra due distintivi: l'orgoglio, gli orari, le pressioni, il pericolo... Ma l'amore, sapete, ha quel modo di offuscare la verità, modellandola a nostro piacimento. «Buchanan ti ha fatto il suo discorsetto: 'Perché sei qui?'» domandò Byrne. Lei si sentì sollevata di non essere l'unica. «Già.» «E tu gli hai detto che sei qui perché vuoi essere utile, giusto?» La stava punzecchiando? Vaffanculo. Alzò lo sguardo, pronta a mostrare un po' di artigli. Lui stava sorridendo. Lei lasciò correre. «Cos'è, la risposta standard?» «Be', è meglio della verità.» «Qual è la verità?» «La vera ragione per cui siamo diventati sbirri.» «E sarebbe?» «Tre cose tre: pasti gratis, nessun limite di velocità e la licenza di spaccare impunemente le ossa agli stronzi palloni gonfiati.» Jessica rise. Non l'aveva mai sentita esprimere in modo così poetico. «Be', diciamo soltanto che non ho detto la verità, allora.» «Che hai detto?» «Gli ho chiesto se lui pensava di essere stato utile.» «Oh, cacchio», fece Byrne. «Oh, cacchio, cacchio, cacchio.» «Che cosa?» «Hai risposto per le rime a Ike il primo giorno?» Jessica rifletté. Sì, credeva di averlo fatto. «Credo di sì.» Byrne rise, si accese una sigaretta. «Noi due andremo d'accordo.» Il lotto 1500 della North 8th Street, all'incrocio con West Jefferson Street, era una desolata sequenza di lotti abbandonati e case a schiera devastate dalle intemperie: verande sghembe, scalini sgretolati, tetti incurvati. Sui profili dei tetti, i cornicioni disegnavano contorni ondulati di pino bianco fradicio; i dentelli erano marci come ghigni sdentati. Due auto di pattuglia sfrecciarono di fronte alla casa che era la scena del
crimine, a metà del lotto. Un paio di agenti in divisa stavano a guardia delle scale, entrambi con la sigaretta nascosta tra le mani a coppa, pronti a gettarla e spegnerla col piede all'arrivo di un superiore. Aveva cominciato a scendere una pioggia sottile. Le nuvole a ovest, di un viola carico, minacciavano tempesta. Dall'altra parte della strada, tre ragazzini neri con gli occhioni spalancati saltellavano da un piede all'altro, nervosi, emozionati, come se dovessero fare pipì, con le nonne che ronzavano intorno, chiacchierando e fumando, scuotendo la testa di fronte all'ennesima atrocità. Per i bambini, però, non era una tragedia. Era come una puntata di Cops dal vivo, con un pizzico di CSI ad aumentare l'intensità drammatica. Dietro di loro indugiavano due adolescenti ispanici, stesse felpe Rocawear col cappuccio, baffetti sottili, Timberland slacciate e immacolate. Osservavano con distacco lo svolgersi della scena, per collegarla ai racconti che avrebbero sentito più tardi, quella sera. Stavano abbastanza vicini al palcoscenico per osservare, ma abbastanza lontani per confondersi con lo sfondo della tela urbana con qualche rapida pennellata, se avessero intuito di poter essere interrogati. Eh? Cosa? No, amico, stavo dormendo. Spari? No, amico, avevo le cuffie a palla. Come molti edifici nella strada, la facciata di quella casa a schiera aveva del compensato inchiodato sull'ingresso e sulle finestre, nel tentativo di chiudere fuori i tossici e i barboni. Jessica tirò fuori il taccuino, guardò l'orologio, annotò l'ora di arrivo. Scesero dalla Taurus e si avvicinarono a uno degli agenti, coi distintivi in vista, proprio nel momento in cui Ike Buchanan comparve sulla scena. Ogni volta che c'era un omicidio e due responsabili erano di turno, uno si recava sulla scena del crimine e l'altro restava alla Roundhouse a coordinare le indagini. Anche se Buchanan era l'ufficiale di più alto grado, il palco era tutto di Kevin Byrne. «Cosa abbiamo, in questa bella mattina di Philly?» s'informò Byrne con una discreta cadenza dublinese. «Cadavere di minore, femmina, nel seminterrato», rispose l'agente, una nera ben piantata sulla trentina: AGENTE J. DAVIS. «Chi l'ha trovata?» domandò Byrne. «Mr DeJohn Withers.» Indicò un nero scarmigliato, chiaramente un senzatetto, fermo sul bordo del marciapiede. «Quando?» «Stamattina, a una certa ora. Mr Withers è un po' confuso in proposito.»
«Non ha consultato il suo palmare?» L'agente Davis si limitò a sorridere. «Ha toccato niente?» chiese Byrne. «Dice di no», rispose la Davis. «Ma era laggiù a rovistare in cerca di rottami, perciò chi lo sa?» «Ha chiamato lui?» «No, probabilmente non aveva spiccioli», disse la Davis. Altro sorriso d'intesa. «Ci ha fatto segno di fermarci, abbiamo chiamato noi via radio.» «Non lo mollate.» Byrne lanciò un'occhiata alla porta d'ingresso. Era sigillata. «Quale casa è?» L'agente Davis indicò la casa a schiera sulla destra. «E come entriamo?» L'agente Davis indicò la casa a schiera sulla sinistra. La porta d'ingresso era divelta. «Si attraversa da lì.» Byrne e Jessica passarono attraverso la casa a nord della scena del crimine, una proprietà abbandonata e saccheggiata da tempo. I muri erano sfregiati da anni di graffiti, butterati da decine di buchi a forma di pugno nel cartongesso. Jessica notò che non era rimasto neppure un oggetto di un qualche valore. Mascherine degli interruttori e delle prese di corrente, rubinetti, fili di rame, perfino il battiscopa erano spariti da un pezzo. «Qui c'è un serio problema di feng-shui», commentò Byrne. Lei sorrise, ma un po' nervosamente. La sua prima preoccupazione, al momento, era non cadere nel seminterrato dalle travi marce. Uscirono da dietro e scavalcarono la rete metallica per raggiungere il retro della casa del crimine. Il minuscolo cortiletto, adiacente a un vicolo che passava dietro il caseggiato, era assediato da arnesi e pneumatici abbandonati, completamente invaso da alcune stagioni di erbacce e sterpaglia. Sul retro della proprietà recintata c'era una casetta per cani, a fare la guardia al nulla, la catena arrugginita nella terra, la ciotola di plastica colma fino all'orlo di acqua piovana sudicia. Un agente in divisa venne loro incontro alla porta di servizio. «Sgombrate la casa?» domandò Byrne. «Casa» era un termine molto sommario. Almeno un terzo del muro posteriore della struttura era sparito. «Sì, signore», rispose lui. La sua targhetta diceva: R. VAN DYCK. Aveva poco più di trent'anni, biondo vichingo, muscoli pompati e massicci. Le braccia tendevano la stoffa della giacca. Diedero le loro informazioni a quell'agente, che teneva il registro della
scena del crimine. Entrarono dalla porta di servizio e scesero le strette scale che portavano al seminterrato. Il primo ad accoglierli fu il tanfo. Anni di muffa e legno marcio gareggiavano con gli odori dei prodotti di scarto umani: urina, feci, sudore. E, in fondo, una laidezza che faceva pensare a una tomba aperta. Il seminterrato era lungo e stretto, e rifletteva la disposizione della casa a schiera soprastante, all'incirca quattro metri e mezzo per sette metri e mezzo, con tre colonne portanti. Puntando la torcia sullo spazio circostante, Jessica vide che era ingombro di cartongesso putrescente, preservativi usati, fiale di crack, un materasso semidistrutto. Un incubo investigativo. In quel sudiciume umido c'era forse un migliaio d'impronte di piedi sbavate; nessuna, a prima vista, abbastanza intatta da risultare utile. E, lì nel mezzo, c'era una bellissima ragazza morta. La giovane era seduta sul pavimento al centro della stanza, le braccia avvolte a una delle colonne portanti, le gambe divaricate ai due lati del pilastro. Sembrava che, a un certo punto, un precedente inquilino avesse cercato di trasformare i pilastri di sostegno in colonne di stile dorico, con un materiale che poteva essere polistirene. Anche se le colonne avevano un capitello e una base, l'unica trabeazione era una putrella arrugginita in alto e l'unico fregio un tableau di marchi distintivi delle gang e oscenità dipinte con lo spray da cima a fondo. Su una parete c'era un murale, sbiadito da tempo, che probabilmente rappresentava i sette colli di Roma. La ragazza era bianca, giovane, sedici o diciassette anni. Bionda capigliatura ribelle tagliata appena sopra le spalle. Indossava una gonna scozzese, calzettoni marroni al ginocchio e una camicetta bianca sotto un golfino marrone scollato a V col logo di una scuola. Al centro della fronte aveva una croce tracciata con un materiale scuro, gessoso. A una prima occhiata, Jessica non riuscì a ravvisare una causa di morte immediata, nessuna ferita d'arma da fuoco o da taglio. La testa della ragazza era reclinata a destra, ma lei vedeva quasi tutta la parte anteriore del collo, e non parevano esserci segni di strangolamento. E poi c'erano le mani. Da un metro di distanza, sembravano giunte in preghiera, ma la realtà era molto più sinistra. Jessica dovette guardare due volte per assicurarsi che gli occhi non le stessero giocando un brutto scherzo. Osservò Byrne: lui aveva notato le mani della ragazza nello stesso momento. I loro sguardi s'incontrarono scambiandosi la muta consapevolezza del fatto che non si trattava di un comune omicidio dettato dall'ira o di un
banale delitto passionale. Sempre in silenzio, si comunicarono pure che, per il momento, non avrebbero fatto illazioni. L'orribile certezza di quanto era stato fatto alle mani della ragazza poteva attendere il medico legale. Jessica rifletté che la presenza della giovane, nel mezzo di quella bruttura, era così fuori posto, così stridente... Una rosa delicata che si era aperta un varco attraverso il cemento ammuffito. La luce fioca che entrava a fatica dalle finestrelle a tramoggia catturava i suoi capelli chiari e l'avvolgeva in un fievole chiarore sepolcrale. Soltanto una cosa era chiara: la ragazza era stata messa in posa, e quello non era un buon segno. In novantanove omicidi su cento, l'assassino cerca di allontanarsi dalla scena del crimine il più in fretta possibile, e di solito ciò è un bene per gli investigatori. Di solito è in atto il concetto di «sangue facile»: chi vede il sangue perde la testa, lasciando dietro di sé tutto il necessario per essere incriminato, per dirla in termini scientifici. Chiunque si soffermi a mettere in posa un cadavere sta facendo una dichiarazione, sta offrendo una muta, arrogante comunicazione alla polizia che indagherà sul delitto. Arrivarono due agenti della Scientifica e Byrne li salutò dal fondo delle scale. Qualche istante più tardi, Tom Weyrich, uno degli anziani dell'Ufficio del medico legale, arrivò col suo fotografo al seguito. Ogni volta che una persona moriva in circostanze violente o misteriose, o si decideva che, più avanti, poteva essere necessaria la testimonianza di un patologo in tribunale, le foto per documentare la natura e la misura delle ferite o delle lesioni esterne facevano parte della normale procedura. L'Ufficio del medico legale aveva il proprio fotografo specializzato; quand'era necessario scattava fotografie della scena di omicidi, suicidi, incidenti mortali. Era di servizio giorno e notte, sempre pronto a intervenire in qualunque punto della città. Il dottor Thomas Weyrich era vicino ai cinquant'anni, meticoloso in ogni aspetto della sua vita, fino alla piega impeccabile dei suoi Dockers marrone chiaro e al taglio perfetto della barba sale e pepe. Si avvolse le scarpe in sacchetti di plastica, s'infilò i guanti e si avvicinò con cautela alla giovane. Mentre Weyrich si occupava dell'esame preliminare, Jessica restò accanto alle pareti umide. Aveva sempre pensato che la semplice osservazione di persone capaci di far bene il proprio lavoro fosse più istruttiva di qualsiasi libro di testo. D'altra parte, sperava che il suo atteggiamento non venisse interpretato come reticenza. Byrne colse l'occasione per tornare di sopra
e consultarsi con Buchanan per determinare la via d'entrata della vittima e del suo assassino - o dei suoi assassini - oltre che per dirigere gli interrogatori informali. Jessica valutava la scena, cercando di rapportarla alla sua esperienza. Chi era quella ragazza? Cosa le era successo? Com'era arrivata laggiù? Chi era stato a fare tutto ciò? E, per quello che valeva, perché? Un quarto d'ora più tardi, Weyrich lasciò il corpo, segno che i detective potevano avvicinarsi e dare inizio alla loro indagine. Kevin Byrne tornò. Jessica e Weyrich gli andarono incontro in fondo alle scale. «Abbiamo un'ora di morte presunta?» chiese Byrne. «Non c'è ancora rigor mortis. Verso le quattro o le cinque di stamattina, direi.» Weyrich si liberò dei guanti di gomma. «Che mi dici della causa?» «Collo spezzato, sembra. Dovrò vederla sul tavolo, per esserne sicuro.» «È stata uccisa qui?» «Impossibile stabilirlo, a questo punto. Ma io direi di sì.» «E le mani?» Weyrich s'incupì. Diede un colpetto al taschino della camicia. Jessica vide la sagoma di un pacchetto di Marlboro. Naturalmente il medico non avrebbe fumato sulla scena del crimine, nemmeno su quella scena, ma il gesto le disse che una sigaretta era garantita. «Sembra un bullone con dado d'acciaio», disse l'uomo. «È stato fissato post mortem?» intervenne Jessica, sperando in un sì. «Direi di sì», rispose Weyrich. «Pochissimo sangue. Ci tornerò su oggi pomeriggio. Allora ne saprò di più.» Weyrich li guardò e non trovò altre domande urgenti. Mentre saliva le scale estrasse la sigaretta, che all'ultimo gradino era accesa. Il silenzio s'impadronì della stanza per qualche istante. Molto spesso, sulla scena di un omicidio, se la vittima è il membro di una gang colpito dal proiettile di un rivale, o un duro steso dietro il bancone di un bar da un altro duro, lo stato d'animo dei professionisti incaricati d'investigare, esaminare e ripulire dopo la carneficina è di energica cortesia, a volte perfino di spensierata arguzia. Umorismo da forca, battute un po' indecenti. Non quella volta. Tutti, in quel luogo orribile, svolgevano il proprio compito con cupa determinazione, con una comune fermezza che diceva: Questo è sbagliato. Byrne ruppe il silenzio. Sollevò le mani, coi palmi al cielo. «Pronta al
controllo identità, detective Balzano?» Jessica trasse un profondo respiro, concentrandosi. «Okay», rispose, sperando di non sembrare titubante come si sentiva. Immaginava quel momento da mesi, ma, ora che era arrivato, lei era impreparata. Infilandosi un paio di guanti di lattice, si avvicinò cauta al corpo della ragazza. Naturalmente aveva già visto un certo numero di cadaveri quand'era in servizio in strada e nell'Unità Auto. Una volta aveva fatto la guardia a un morto, sul sedile posteriore di una Lexus rubata, con una temperatura di trentacinque gradi, sulla Schuylkill Expressway, cercando di non guardare il corpo che sembrava gonfiarsi di minuto in minuto nell'auto soffocante. In tutti quei casi, sapeva che avrebbe passato l'indagine a qualcun altro. Ora era il suo turno. Qualcuno le stava chiedendo aiuto. Di fronte a lei, c'era una ragazza morta le cui mani erano state imbullonate insieme in una preghiera eterna. Jessica sapeva che il corpo della vittima, a quello stadio, aveva parecchio da offrire, quanto a indizi. Non si sarebbe mai più trovata tanto vicina all'assassino: al suo metodo, alla sua patologia, alla sua forma mentis. Jessica spalancò gli occhi, i sensi in massima allerta. Tra le mani della ragazza c'era un rosario. Lei sapeva bene che il rosario cattolico era una coroncina di grani che formavano un cerchio, con un crocifisso pendente, composta in genere di cinque serie di grani chiamate decine, ciascuna fatta di un grano più grande e dieci grani piccoli. In corrispondenza del grano grande, si recitava il Padre Nostro; sui più piccoli, l'Ave Maria. Avvicinandosi, Jessica vide che quel rosario era fatto di grani ovali di legno nero intagliato, con al centro quella che sembrava la Madonna di Lourdes. Il rosario era avvolto intorno alle nocche della ragazza. Sembrava un oggetto ordinario, economico, e, osservandolo più da vicino, lei si accorse che mancavano due delle cinque decine. Esaminò con dolcezza le mani della ragazza. Le unghie erano corte e pulite, e non mostravano segni di lotta. Niente rotture, niente sangue. Sotto le unghie non sembrava esserci materiale, ma le avrebbero sigillato le mani in ogni caso. Il bullone che le trapassava le mani entrava e usciva nel centro del palmo ed era di acciaio galvanizzato. Sembrava nuovo ed era lungo circa dieci centimetri. Jessica guardò da vicino il segno sulla fronte della ragazza. Lo sbaffo formava una croce blu, come la cenere del Mercoledì delle Ceneri. Lei era
tutt'altro che devota, però conosceva e osservava le principali festività cattoliche. Il Mercoledì delle Ceneri era passato da quasi sei settimane, eppure il segno era fresco. Sembrava fatto di una sostanza gessosa. Infine guardò l'etichetta sul rovescio del golfino della ragazza. Capita che le tintorie lascino un talloncino col nome del cliente, intero o abbreviato. Non c'era niente. Si alzò, un po' tremante, ma convinta di aver svolto un esame adeguato. Almeno in fase preliminare. «Nessun segno d'identificazione?» Byrne era addossato alla parete, gli occhi acuti scrutavano la stanza, osservavano, assorbivano. «No», replicò Jessica. Byrne fece una smorfia. Quando la vittima non veniva identificata sulla scena, le indagini si allungavano di ore, a volte anche di giorni. Tempo prezioso che non si sarebbe più recuperato. Jessica si allontanò dal corpo mentre gli agenti della Scientifica davano inizio alla loro cerimonia. Si sarebbero infilati nelle tute Tyvec monouso e avrebbero suddiviso lo spazio in una griglia, scattando fotografie dettagliate e girando un video. Quel luogo era una capsula Petri di subumanità. Probabilmente lì dentro c'erano le impronte di ogni derelitto di North Philly. La Scientifica sarebbe rimasta lì tutto il giorno. Sino a notte fonda, probabilmente. Lei si avviò su per le scale, ma Byrne rimase indietro. Lei lo aspettò, in parte per sapere se lui intendeva affidarle qualche altro incarico, in parte perché in realtà non voleva stare in prima fila a dirigere l'indagine. Poco dopo, ridiscese un paio di scalini e sbirciò nel seminterrato. Kevin Byrne era in piedi accanto al corpo della giovane, a testa bassa, con gli occhi chiusi. Si sfiorò la cicatrice sopra l'occhio destro, poi abbassò la mano all'altezza della vita e intrecciò le dita. Dopo qualche istante, aprì gli occhi, si fece il segno della croce e si avviò verso le scale. In strada si era radunata più gente, per curiosare, attirata dalle luci intermittenti della polizia come una falena dalla fiamma. Il crimine visitava spesso quella parte di North Philly, ma non cessava mai d'irretire e affascinare i suoi abitanti. Uscendo dalla casa, Byrne e Jessica si avvicinarono al testimone che aveva trovato il corpo. Pur essendo una giornata coperta, Jessica divorò la luce del giorno come qualcuno che stesse morendo di fame, grata di tro-
varsi fuori da quella tomba umidiccia. DeJohn Withers poteva avere quarant'anni o sessanta; impossibile dirlo. Non aveva neanche un dente inferiore e ben pochi denti superiori. Indossava cinque o sei camicie di flanella e un paio di sudici pantaloni con tasconi sui lati, gonfi di chissà quale misterioso bottino urbano. «Quanto devo restare qui?» chiese. «Ha qualche impegno pressante, per caso?» replicò Byrne. «Non devo parlare con voi. Ho fatto quello che dovevo fare, il mio dovere civico, e adesso vengo trattato da criminale.» «Questa è casa sua, signore?» domandò Byrne, indicando la casa del delitto. «Nossignore», rispose Withers. «Allora lei è colpevole di effrazione e violazione di domicilio.» «Mica ho fatto un'effrazione.» «Però è entrato.» Withers cercò di assimilare quel concetto, quasi che effrazione e violazione fossero in qualche modo inseparabili, come «country & western». Rimase in silenzio. «Ora, sono disposto a passar sopra a questo grave crimine, se lei risponderà ad alcune domande», dichiarò Byrne. Withers si guardò le scarpe, sconfitto. Jessica notò che aveva uno stivaletto sfondato al piede sinistro e una Air Nike al destro. «Quando l'ha trovata?» chiese Byrne. Withers fece una smorfia. Tirò su le maniche delle innumerevoli camicie, scoprendo braccia sottili e coperte di croste. «Vi sembra che abbia un orologio?» «C'era luce o buio?» «Luce.» «L'ha toccata?» «Cosa?» Withers abbaiò, con autentica indignazione. «Non sono mica uno schifoso pervertito.» «Si limiti a rispondere alla domanda, Mr Withers.» Withers incrociò le braccia, attese un momento. «No, non l'ho toccata.» «C'era qualcuno con lei quando l'ha trovata?» «No.» «Ha visto qualcun altro qui intorno?» Withers rise, e Jessica si beccò in pieno una folata del suo alito. Mescolando maionese andata a male e uova sode vecchie di una settimana e con-
dendo il tutto col gas per gli accendini, l'odore sarebbe stato più piacevole. «Chi è che viene quaggiù?» Bella domanda. «Lei dove abita?» s'informò Byrne. «Attualmente sono al Four Seasons», replicò Withers. Byrne represse un sorriso. Tenne la penna a un paio di centimetri dal taccuino. «Sto alla My Brother's House, la casa famiglia. Quando hanno posto», replicò l'uomo. «Potremmo avere ancora bisogno di parlarle.» «Lo so, lo so. 'Non lasciare la città.'» «Gliene saremmo grati.» «C'è una ricompensa?» «Soltanto in cielo», disse Byrne. «Io mica ci vado, in cielo», commentò Withers. «Cerchi di farsi trasferire, quando arriva in purgatorio.» Withers si accigliò. «Quando lo portate dentro per la dichiarazione, voglio che sia perquisito. E fate l'inventario di tutte le sue cose», ordinò Byrne alla Davis. Gli interrogatori e le dichiarazioni dei testimoni si facevano alla Roundhouse. Gli interrogatori coi senzatetto erano brevi, in genere, a causa del fattore pidocchi e delle dimensioni di scatola da scarpe delle stanze. Di conseguenza, l'agente J. Davis squadrò Withers dalla testa ai piedi. La smorfia sul viso della donna gridava: Devo toccare questo ammasso infettivo? «Prendetegli anche le scarpe», aggiunse Byrne. Withers stava per obiettare quando Byrne alzò una mano e lo fermò. «Gliene daremo un paio nuovo, Mr Withers.» «Meglio che siano buone. Cammino parecchio. Queste ho appena finito di ammorbidirle.» Si rivolse a Jessica. «Possiamo estendere i sondaggi, ma secondo me ci sono buone probabilità che la ragazza non vivesse in questo quartiere», affermò, benché non ce ne fosse bisogno. Era difficile credere che qualcuno vivesse ancora in quelle case, figurarsi una famiglia bianca con la figlia iscritta a una scuola confessionale. «Andava alla Nazarene Academy», spiegò lei. «Come lo sai?» «Dalla divisa.» «Allora?»
«Ce l'ho ancora nell'armadio. Ci ho studiato, la Nazarene è la mia alma mater.» 6 Lunedì, ore 10.55 La Nazarene Academy era la più grande scuola cattolica femminile di Philadelphia, con più di mille studentesse dalla prima all'ultima classe del liceo. Situata in un campus di trenta acri a Northeast Philadelphia, era stata aperta nel 1928 e da allora aveva diplomato diversi luminari della città, tra i quali capitani d'industria, politici, medici, avvocati e artisti. Gli uffici amministrativi di altre cinque scuole diocesane avevano sede alla Nazarene. Quando Jessica la frequentava, era la prima scuola della città, dal punto di vista accademico, e vinceva tutti i certami scolastici cui partecipava: quelle imitazioni di quiz delle televisioni locali in cui un gruppo di quindicenni e sedicenni afflitti da problemi ortodontici sta seduto intorno a tavoli ornati di bandierine snocciolando le differenze tra vasi etruschi e greci o tracciando la cronologia della guerra di Crimea. D'altro canto, la Nazarene era anche sempre risultata ultimissima in ogni certame atletico cui avesse preso parte. Un record imbattuto e, molto probabilmente, imbattibile. Per questo le sue studentesse erano note, tra i giovani di Philadelphia, come le Nazasceme. Quando Byrne e Jessica entrarono dall'ingresso principale, le scure pareti smaltate e la modanatura a ghirlanda, abbinate all'aroma dolce e pastoso del vitto dell'istituto, riportarono Jessica in prima liceo. Anche se era sempre stata una brava studentessa e di rado si era messa nei guai - nonostante i numerosi tentativi ladreschi di sua cugina Angela -, l'aria rarefatta dell'ambiente accademico e la prossimità dell'ufficio del preside la colmarono di un vago, indistinto timore. Aveva una nove millimetri al fianco, aveva quasi trent'anni, e stava morendo di paura. Sarebbe stato sempre così, pensò, entrando in quello spaventoso edificio. Attraversarono l'atrio verso l'ufficio della direzione proprio alla fine dell'ora, e centinaia di ragazze in gonna scozzese si riversarono nei corridoi. Il rumore era assordante. Jessica, in prima liceo, era già alta un metro e settanta e pesava cinquantasei chili, dati che grazie al cielo erano rimasti inalterati, chilo più, chilo meno... chilo più, soprattutto. All'epoca, lei era
più alta del novanta per cento delle sue compagne. Ora sembrava che metà delle ragazze fossero alte come lei se non di più. Seguirono lungo il corridoio un gruppetto di tre ragazze fino all'ufficio della direzione. Guardandolo, Jessica cancellò gli anni. Una dozzina di anni prima, la ragazza sulla sinistra, quella che diceva la sua a voce un po' troppo alta, sarebbe stata Tina Mannarino. Tina era stata la prima a farsi la manicure alla francese, la prima a portare di nascosto una bottiglia di liquore alla pesca alla riunione natalizia. Quella robusta accanto a lei, che si arrotolava la gonna in vita per sfidare la regola secondo cui l'orlo deve trovarsi a non più di due centimetri dal pavimento quando ci s'inginocchia, sarebbe stata Judy Babcock. Secondo gli ultimi aggiornamenti, Judy, ora Mrs Pressman, aveva quattro figlie. E tanti saluti alle gonne corte. Jessica sarebbe stata la ragazza sulla destra: un po' troppo alta, troppo spigolosa e sottile, sempre ad ascoltare, guardare, osservare, calcolare, timorosa di tutto senza mai darlo a vedere. Cinque parti erano atteggiamento, una parte acciaio. Ora le ragazze giravano coi lettori MP3 invece che col Walkman. Ascoltavano Christina Aguilera e 50 Cent invece di Bryan Adams e Boyz II Men. Si sdilinquivano per Ashton Kutcher invece che per Tom Cruise. D'accordo, forse per Tom Cruise si sdilinquivano ancora. Tutto cambia. Ma nulla cambia mai. Jessica notò che neppure in direzione era cambiato molto. Le pareti erano ancora smaltate di un color guscio d'uovo tenue, l'aria profumava ancora di un misto di lavanda e cera spray al limone. Incontrarono la direttrice, suor Veronique, una sessantenne col fisico da uccellino, rapidi occhi azzurri e movimenti ancora più rapidi. Ai tempi di Jessica, la direttrice era suor Isolde. Suor Veronique avrebbe potuto essere la gemella della suora più anziana: robusta, pallida, col baricentro basso. Si muoveva con la determinazione che può derivare soltanto da anni trascorsi a mantenere la disciplina e a stare alle costole delle ragazze. Si presentarono e si sedettero di fronte alla scrivania. «Cosa posso fare per voi?» domandò suor Veronique. «Temo che potremmo avere brutte notizie su una vostra studentessa», cominciò Byrne. Suor Veronique era cresciuta all'epoca del Concilio Vaticano I. A quei tempi, l'idea di guai in un liceo cattolico corrispondeva di solito a furtarelli, fumo, alcolici, forse una gravidanza ogni tanto. Ora era inutile azzardare
ipotesi. Lui le porse la Polaroid col volto della ragazza in primissimo piano. La suora diede uno sguardo alla foto, poi distolse rapidamente gli occhi e si segnò. «La riconosce?» chiese Byrne. Suor Veronique si costrinse a guardare nuovamente la foto. «No, temo di no. Ma abbiamo più di mille studentesse. Circa trecento nuove, quest'anno.» Attese un istante, poi si chinò e premette un pulsante dell'interfono sulla scrivania. «Vuole chiedere al dottor Parkhurst di venire nel mio ufficio?» Era evidentemente scossa. La voce le tremava un poco. «È...» «Sì. È morta», confermò Byrne. Lei si segnò di nuovo. «Com'è... Chi potrebbe... Perché?» riuscì a dire. «Le indagini sono appena all'inizio, sorella.» Jessica si guardò intorno: l'ufficio era molto simile a come lo ricordava. Tastò i braccioli consumati della sedia su cui sedeva, domandandosi quante ragazze vi si fossero appollaiate nervosamente negli ultimi dodici anni. Dopo qualche istante, entrò un uomo. «Vi presento il dottor Brian Parkhurst. È il nostro capo consulente scolastico.» Brian Parkhurst era un uomo sui trent'anni, alto e magro, con lineamenti fini, capelli biondo-rossicci tagliati cortissimi e una sbiadita traccia delle fitte lentiggini infantili. Vestiva in modo tradizionale: giacca sportiva di tweed grigio scuro, camicia classica blu di cotone e mocassini lustri con frange e nappine. Non portava la fede al dito. «Queste persone sono della polizia», spiegò suor Veronique. «Io sono l'agente Byrne. E questa è la mia collega, l'agente Balzano.» Strette di mano. «Come posso aiutarvi?» domandò Parkhurst. «Lei è il consulente scolastico?» «Sì, sono anche lo psichiatra della scuola.» «È un medico?» «Sì.» Gli mostrò la Polaroid. «Dio mio», fece l'uomo, impallidendo. «La conosce?» chiese Byrne. «Sì. È Tessa Wells.» «Dovremo metterci in contatto con la famiglia.»
«Naturalmente.» Suor Veronique impiegò ancora un istante per ricomporsi, poi si mise al computer e pigiò qualche tasto. In un attimo, il curriculum scolastico di Tessa Wells apparve sullo schermo, insieme coi suoi dati personali. La suora contemplò lo schermo quasi fosse un necrologio, quindi pigiò un tasto e mise in funzione la stampante laser nell'angolo della stanza. «Quando l'ha vista l'ultima volta?» chiese Byrne a Brian Parkhurst. L'uomo rifletté. «Giovedì, credo.» «Giovedì scorso?» «Sì. Era passata da me per discutere le domande d'iscrizione al college.» «Che può dirci di lei, dottor Parkhurst?» Brian Parkhurst si concesse qualche istante per riordinare le idee. «Be', era molto brillante. Un tipo un po' silenzioso.» «Una brava studentessa?» «Molto», rispose Parkhurst. «Aveva la media dell'otto, se non erro.» «Era a scuola venerdì?» Suor Veronique pigiò qualche tasto. «No.» «A che ora cominciano le lezioni?» «Alle sette e cinquanta», spiegò Parkhurst. «E a che ora si esce?» «In genere verso le due e quarantacinque», disse suor Veronique. «Ma a volte le attività interne ed extracurricolari tengono qui le studentesse fino alle cinque o alle sei.» «Faceva parte di qualche club?» La suora pigiò altri tasti. «Faceva parte del Baroque Ensemble. È un piccolo gruppo di musica da camera. Ma s'incontrano soltanto ogni due settimane. La settimana scorsa non c'erano prove.» «S'incontrano qui, a scuola?» «Sì», rispose suor Veronique. Byrne tornò a rivolgersi al dottor Parkhurst: «C'è nient'altro che può dirci?» «Be', suo padre è molto malato. Cancro ai polmoni, credo.» «Vive in casa sua?» «Sì, credo di sì.» «E la madre?» «È deceduta», rispose Parkhurst. Suor Veronique porse a Byrne la stampata con l'indirizzo di Tessa Wells.
«Sa chi fossero le sue amiche?» domandò lui. Brian Parkhurst parve ancora riflettere attentamente prima di rispondere. «Così su due piedi, non so. Lasciatemi chiedere in giro.» Il lieve ritardo nella risposta di Brian Parkhurst non sfuggì a Jessica; e neppure a Byrne, se era bravo quanto lei sapeva. «Probabilmente torneremo tra qualche ora.» Byrne porse a Parkhurst un biglietto da visita. «Ma, nel frattempo, se le viene in mente qualcosa, ci chiami, per piacere.» «Lo farò senz'altro», garantì Parkhurst. «Grazie per il tempo che ci avete dedicato», disse Byrne rivolto a entrambi. Quando arrivarono al parcheggio, Jessica osservò: «Un po' troppa acqua di colonia, per essere giorno, non ti pare?» Brian Parkhurst profumava di Polo Blue. Abbondante. «Un tantino. E perché un uomo di trent'anni suonati dovrebbe profumarsi tanto in presenza di ragazzine?» «Bella domanda», fece Jessica. Casa Wells era una malconcia trinity house* sulla 20th Street, vicino a Parrish Street, una sobria casa a schiera tipica delle strade di North Philadelphia, in cui i residenti, di classe operaia, cercavano di differenziare la propria abitazione da quelle dei vicini grazie a piccoli dettagli: le cassette per i fiori, gli architravi intagliati, i numeri decorativi, le tende da sole in colori pastello. Casa Wells aveva l'aspetto di una casa curata per necessità piuttosto che per vanità od orgoglio del proprietario. Frank Wells era vicino ai sessant'anni; un uomo goffo, ossuto, con radi capelli grigi che gli ricadevano sugli occhi azzurro chiaro. Indossava una camicia di flanella con le toppe e pantaloni kaki sbiaditi, con un paio di pantofole di velluto a coste verde marcio. Aveva le mani coperte di macchie brune e il portamento smunto di chi è dimagrito molto e in fretta. Portava occhiali con una spessa montatura di plastica nera, del tipo di quelli che avevano i professori di matematica negli anni '60. Aveva anche un tubicino nel naso, collegato a una piccola bombola di ossigeno su un cavalletto accanto alla poltrona. Frank Wells, come avrebbero saputo, aveva un enfisema all'ultimo stadio. Quando Byrne gli aveva mostrato la foto della figlia, Wells non aveva reagito. O, meglio, aveva reagito non mostrando reazioni visibili. In tutte le indagini sui casi di omicidio, un momento cruciale è quello in cui gli at-
tori chiave - coniugi, amici, parenti, colleghi - vengono informati della morte. Le reazioni alla notizia sono importanti. Pochi sono gli attori tanto bravi da nascondere efficacemente i propri sentimenti nel ricevere una notizia così tragica. Frank Wells l'aveva presa come se fosse sopravvissuto a una vita di tragedie, con un aplomb impietrito. Non aveva pianto, né imprecato, né inveito contro quell'orrore. Aveva chiuso gli occhi per qualche istante, restituito la foto e detto: «Sì, è mia figlia». Erano entrati nel soggiorno, piccolo e ordinato. Al centro c'era un logoro tappeto ovale lavorato a treccia. A ridosso delle pareti, mobili in stile Vecchia America. Da un antiquato televisore a colori nel suo mobiletto, ronzava confusamente un telequiz, a volume basso. «Quando ha visto Tessa l'ultima volta?» domandò Byrne. «Venerdì mattina.» Wells si tolse il tubo dell'ossigeno dal naso e lo lasciò penzolare dal bracciolo della poltrona con lo schienale reclinabile dove stava seduto. «A che ora è uscita?» «Poco prima delle sette.» «Ha parlato con lei, durante la giornata?» «No.» «A che ora arrivava a casa, di solito?» «Verso le tre e mezzo. A volte più tardi, quando aveva le prove col gruppo. Suonava il violino.» «E non è tornata a casa e non ha chiamato?» chiese Byrne. «No.» «Tessa aveva fratelli o sorelle?» «Sì. Un fratello, Jason. È molto più grande. Abita a Waynesburg.» «Lei ha chiamato qualcuna delle amiche di Tessa?» Wells trasse un respiro lento, chiaramente doloroso. «No.» «Ha chiamato la polizia?» «Sì. Ho chiamato la polizia venerdì sera, verso le undici.» Jessica prese nota, per controllare le denunce di sparizione. «Come andava a scuola, Tessa? Prendeva l'autobus?» «Quasi sempre. Aveva la sua auto. Le abbiamo preso la Ford Focus per il compleanno. Le serviva, per le sue commissioni. Ma lei insisteva per pagarsi la benzina, perciò di solito prendeva l'autobus tre o quattro volte alla settimana.» «Il bus della diocesi o quello di linea?»
«Il bus della scuola.» «Dov'è la fermata?» «All'angolo tra la 15th Street e Poplar Street. Ci sono altre ragazze che prendono il bus lì.» «Sa a che ora passa?» «Alle sette e cinque», rispose Wells con un sorriso triste. «Lo conosco bene, quell'orario. Ogni mattina era una lotta.» «È qui l'auto di Tessa?» domandò Byrne. «Sì. È qui davanti.» Byrne e Jessica presero appunti. «Mi scusi, la ragazza aveva un rosario?» Wells rifletté per qualche istante. «Sì. Gliene avevano regalato uno gli zii per la Prima Comunione.» Wells allungò la mano e prese dal tavolo d'angolo una piccola foto incorniciata, porgendola a Jessica. Era un ritratto di Tessa a otto anni, che stringeva tra le mani giunte un rosario coi grani di cristallo. Non era quello che avevano trovato sul suo cadavere. Lei prese un appunto mentre il quiz salutava un nuovo concorrente. «Mia moglie Annie è morta sei anni fa», disse Wells di punto in bianco. Silenzio. «Mi dispiace», mormorò Byrne. Jessica guardò Frank Wells. Vide il proprio padre negli anni successivi alla morte di sua madre, rimpicciolito in ogni senso, salvo che nella capacità di soffrire. Diede uno sguardo in sala da pranzo e immaginò le cene mute, udì lo stridore dell'argenteria liscia sulla melamina sbeccata. Probabilmente Tessa preparava per il padre gli stessi pasti che Jessica aveva preparato per il suo: polpettone con salsa in vasetto, spaghetti il venerdì, pollo arrosto la domenica. Tessa quasi certamente stirava ogni sabato, ogni anno più alta, e alla fine saliva sugli elenchi del telefono invece che sulle cassette del latte per arrivare all'asse da stiro. Tessa, come Jessica, aveva certamente imparato il trucchetto di stirare dal rovescio le tasche dei pantaloni da lavoro di suo padre. Ora, di colpo, Frank Wells viveva da solo. Invece che da avanzi cucinati, il frigo sarebbe stato colonizzato dalla mezza lattina di zuppa, dalla mezza scatola di chow mein, dal sandwich della gastronomia mezzo mangiato. Ora Frank Wells avrebbe comprato le verdure in vaschette monodose. Il latte, mezzo litro per volta. Jessica trasse un respiro profondo e cercò di concentrarsi. L'aria stava diventando nauseante e viziata, densa di una solitudine quasi corporea. «È come un orologio.» Wells sembrava librarsi qualche centimetro al di
sopra della sua poltrona La-Z-Boy, sospeso su una pena fresca, le dita intrecciate in grembo con precisione. Era come se qualcuno gli avesse sistemato le mani così, come se un compito tanto semplice gli fosse estraneo, nella sua cupa angoscia. Sulla parete dietro di lui c'era un collage storto di fotografie: pietre miliari fatte di matrimoni, diplomi e compleanni. In una, si vedeva Frank Wells con un cappello da pescatore che abbracciava un giovane in giacca a vento nera. Il giovane era chiaramente suo figlio Jason. Sulla giacca a vento c'era lo stemma di un istituto che Jessica non riconobbe subito. Un'altra foto mostrava un Frank Wells di mezza età con un elmetto blu davanti al pozzo di una miniera di carbone. «Come, scusi? Un orologio?» domandò Byrne. Wells si alzò, passando con artritica dignità dalla poltrona alla finestra. Studiò la strada. «Come quando tieni un orologio nello stesso posto per anni e anni. Entri nella stanza e, se vuoi sapere che ora è, guardi in quel punto perché lì c'è l'orologio. Guardi in quel punto preciso.» Si toccò per la ventesima volta i polsini della camicia. Controllando e ricontrollando il bottone. «E poi, un giorno, cambi la disposizione della stanza. L'orologio adesso è in un posto nuovo, un nuovo spazio nel mondo. Eppure per giorni, settimane, mesi - forse anche anni - continui a guardare nel posto vecchio, aspettandoti di vedere che ora è. Sai che non è lì, ma guardi comunque.» Byrne lo lasciò parlare. Faceva parte del processo. «Ecco dove mi trovo adesso, agenti. Ecco dove mi trovo da sei anni. Guardo il luogo in cui Annie era nella mia vita, il luogo dov'era sempre stata, e lei non c'è. Qualcuno l'ha spostata. Qualcuno ha spostato la mia Artnie. Qualcuno ha cambiato la disposizione. E ora... Ora, Tessa.» Si voltò a guardarli. «Ora l'orologio si è fermato.» Essendo cresciuta nella famiglia di uno sbirro, avendo assistito al tormento di ogni notte, Jessica sapeva bene che esistevano momenti come quelli, occasioni in cui qualcuno doveva interrogare il parente più stretto di una persona cara assassinata, occasioni in cui rabbia e furia diventavano una cosa selvaggia che si contorceva dentro di te. Suo padre le aveva detto che talvolta invidiava i medici che potevano accennare a una malattia incurabile quando avvicinavano i parenti nel corridoio dell'ospedale, con faccia seria, seriamente affabili. Gli sbirri della Omicidi avevano sempre soltanto un corpo umano straziato, non potevano far altro che ribadire sempre gli stessi tre punti. Mi dispiace, signora, suo figlio è morto di avidità, suo marito è morto di passione, sua figlia è morta di vendetta.
Kevin Byrne si avvicinò lentamente. «Tessa aveva un'amica del cuore, Mr Wells? Qualcuno con cui trascorreva molto tempo?» «C'era una ragazza che veniva a trovarla ogni tanto. Patrice, si chiamava. Patrice Regan.» «Tessa aveva un ragazzo? Usciva con qualcuno?» «No. Lei era... Era una ragazza timida, sapete. Era uscita un po' con quel ragazzo, Sean, l'anno scorso, ma poi aveva smesso.» «Lei sa perché hanno smesso di vedersi?» Wells arrossì lievemente, poi si ricompose. «Credo che lui volesse... Be', sapete come sono i ragazzi.» Byrne lanciò un'occhiata a Jessica, facendole cenno di prendere appunti. Le persone si sentono a disagio quando i poliziotti mettono per iscritto quello che dicono, parola per parola. Mentre lei prendeva appunti, Kevin Byrne poteva mantenere il contatto visivo con Frank Wells. Era gergo da sbirri, e Jessica era contenta che lei e Byrne, pur essendo partner da poche ore, lo parlassero già. «Conosce il cognome di Sean?» domandò Byrne. «Brennan.» Wells girò le spalle alla finestra per tornare alla sua poltrona. Quindi esitò, appoggiandosi al davanzale. Byrne scattò in piedi, attraversò la stanza con poche falcate. Prese Frank Wells per un braccio e lo aiutò a tornare all'imbottitissima poltrona reclinabile. Wells si sedette e si sistemò nel naso il tubo dell'ossigeno. Prese la Polaroid e le diede un'altra occhiata. «Non ha il suo ciondolo.» «Scusi?» fece Byrne. «Le ho regalato un orologio a ciondolo, un angelo, quando ha fatto la cresima. Non se lo toglieva mai.» Jessica guardò la foto sulla mensola, un classico ritratto da studio della studentessa quindicenne. I suoi occhi trovarono il ciondolo d'argento sterling al collo della ragazza. Assurdamente Jessica si ricordò di quand'era molto giovane, di quell'estate strana e disorientante in cui sua madre era diventata uno scheletro e le aveva detto che lei aveva un angelo custode, un angelo che avrebbe vegliato su di lei per tutta la vita, tenendola al sicuro. Avrebbe voluto credere che ciò valesse anche per Tessa Wells. La foto del cadavere rendeva la cosa parecchio difficile. «Le viene in mente nient'altro che potrebbe esserci d'aiuto?» domandò Byrne. Wells rifletté per qualche istante, ma era chiaro che ormai non era più
l'interlocutore di un dialogo; era alla deriva tra i ricordi della figlia, ricordi non ancora tramutati nello spettro dei sogni. «Voi non la conoscevate, certo. Siete arrivati a incontrarla in questo modo terribile.» «Lo so, Mr Wells. Non so dirle quanto ci dispiace», mormorò Byrne. «Lo sapevate che, quand'era molto piccola, mangiava i cereali a forma di letterine soltanto in ordine alfabetico?» Jessica pensò a quanto era meticolosa sua figlia Sophie, a come metteva le bambole in ordine di altezza quando ci giocava, a come sistemava i suoi vestiti per colore. I rossi a sinistra, i blu in mezzo, i verdi a destra. «E poi, se era triste, saltellava. Non è pazzesco? Una volta, aveva più o meno otto anni, le ho chiesto perché. Lei ha detto che saltellava finché non fosse tornata felice. Chi è che si mette a saltare quand'è triste?» La domanda rimase sospesa nell'aria per qualche istante. Byrne la prese al volo e ci mise la sordina. «Una persona speciale, Mr Wells. Una persona molto speciale.» Frank Wells lo fissò con sguardo assente, come se avesse dimenticato che i due poliziotti erano lì. Quindi annuì. «Troveremo la persona che ha fatto questo a Tessa. Le do la mia parola», dichiarò Byrne. Jessica si domandò quante volte Kevin Byrne avesse pronunciato quella frase, e quante volte fosse riuscito a mantenerla. Avrebbe voluto sentirsi così sicura. Byrne, lo sbirro anziano, decise di muoversi. Jessica gliene fu grata. Non sapeva per quanto ancora avrebbe potuto stare in quella stanza prima che le pareti cominciassero a venirle addosso. «Devo farle questa domanda, Mr Wells. Spero che capisca.» Wells lo fissava, il viso come una tela nuda, satura di tristezza profonda. «Le viene in mente nessuno che potesse voler fare una cosa del genere a sua figlia?» Vi fu un opportuno momento di silenzio, il tempo necessario a far emergere il pensiero deduttivo. In verità, nessuno conosceva qualcuno capace di fare quello che era stato fatto a Tessa Wells. «No», si limitò a dire Wells. C'era molto in quel no, naturalmente: tutti i contorni del menù, come diceva il povero nonno di Jessica. Ma, per il momento, rimase inespresso. E mentre la giornata primaverile imperversava fuori dalla finestra del lindo soggiorno di Frank Wells, mentre il corpo di Tessa Wells si raffreddava sul tavolo del medico legale, cominciando già a celare i suoi molti misteri,
quello era un bene, pensò Jessica. Un gran bene, accidenti. Lasciarono Frank Wells fermo sulla soglia della sua casa a schiera, il dolore fresco, rosso e crudo, un milione di terminazioni nervose esposte in attesa dell'infezione del silenzio. Più tardi avrebbe identificato formalmente il corpo. Jessica pensò al tempo che Frank Wells aveva trascorso da quand'era morta sua moglie, quei duemila giorni, suppergiù, in cui tutti gli altri intorno avevano continuato a vivere la loro vita, a ridere, ad amare. Rifletté sulle cinquantamila ore, suppergiù, di sofferenza inestinguibile, ciascuna popolata da sessanta orribili minuti, ciascuno suddiviso in sessanta tormentosi secondi. Adesso il ciclo di dolore ricominciava. Avevano esaminato alcuni cassetti e armadi della stanza di Tessa, senza trovare nulla di particolarmente interessante. Ragazza metodica, organizzata e precisa; perfino il cassetto delle carabattole era ordinato, suddiviso in scatole di plastica trasparenti: bustine di fiammiferi dai matrimoni, biglietti di cinema e di concerti, una piccola collezione di distintivi interessanti, un paio di braccialetti di plastica dell'ospedale. A Tessa piacevano molto i sacchetti di raso. I suoi abiti erano semplici e di media qualità. Sulle pareti c'erano alcuni poster, non di Eminem, Ja Rule o DMX, o di qualcuna delle boy band dell'ultima infornata, ma piuttosto di poco ortodosse violiniste come Nadja Salerno-Sonnenberg e Vanessa Mae. Un economico violino Skylark era appoggiato in un angolo dell'armadio. Avevano ispezionato anche la sua auto senza trovare nulla. Più tardi avrebbero esaminato il contenuto del suo armadietto a scuola. Tessa Wells era una ragazza di famiglia modesta, si prendeva cura del padre malato, aveva buoni voti e nel suo futuro, probabilmente, c'era una borsa di studio per la Penn State University. Una ragazza che teneva i vestiti nei sacchetti della tintoria e le scarpe dentro le scatole. E ora era morta. Qualcuno stava camminando per le strade di Philadelphia, respirando l'aria tiepida della primavera, aspirando il profumo dei narcisi che squarciavano il terreno, qualcuno che aveva portato una ragazza giovane e innocente in un luogo sudicio e putrido, e aveva brutalmente posto fine alla sua vita. Facendo quella cosa mostruosa, quel qualcuno aveva detto: Ci sono un milione e mezzo di persone a Philadelphia.
Io sono una di quelle. Trovatemi. * Molto comuni a Philadelphia nel XVII secolo, le trinity houses erano case per i meno abbienti ed erano chiamate così perché erano disposte su tre piani con un'unica stanza per piano, a simboleggiare la fede, la speranza e la carità. (N.d.T.) PARTE SECONDA 7 Lunedì, ore 12.20 Simon Close, l'astro dei cronisti del principale settimanale scandalistico di Philadelphia, non metteva piede in chiesa da due decenni e anche se, facendolo, non si aspettava esattamente che il cielo si aprisse e un fulmine di giustizia lo squarciasse in due, riducendolo a una montagnola fumante di grasso, ossa e cartilagine, in lui sopravviveva un residuo di senso di colpa cattolico sufficiente a costringerlo, se mai gli capitava di entrare in chiesa, a fermarsi un momento, a intingere il dito nell'acqua santa e a genuflettersi. Nato trentadue anni prima a Berwick-upon-Tweed nel Lake District, l'aspro nord dell'Inghilterra a ridosso del confine scozzese, montanaro canaglia di prim'ordine, Simon non era mai stato tipo da nutrire molta fiducia in alcunché, non ultima la Chiesa. Rampollo di un padre violento e di una madre troppo ubriaca per accorgersene o preoccuparsene, Simon aveva imparato da tempo a riporre la sua fede in se stesso. All'età di sette anni aveva già vissuto in cinque o sei istituti cattolici, dove aveva imparato molte cose, nessuna delle quali rifletteva la vita di Cristo. Dopodiché lo avevano affibbiato all'unica parente disposta a prenderlo con sé, la sua zia zitella Iris che abitava a Shamokin, Pennsylvania, una cittadina circa duecento chilometri a nord-ovest di Philadelphia. Zia Iris aveva portato Simon a Philadelphia parecchie volte, da piccolo. Lui ricordava di aver visto gli edifici altissimi, gli enormi ponti, di aver annusato gli odori della città e di aver sentito il trambusto della vita urbana, sapendo - con la stessa piena consapevolezza con cui sapeva che l'accento del Northumberland gli sarebbe rimasto addosso sempre e comunque - che un giorno avrebbe vissuto lì.
A sedici anni, Simon aveva cominciato a far pratica come galoppino al News-Item, il quotidiano della comunità dei minatori, con l'occhio - come chiunque lavorasse per qualunque giornalaccio a est degli Allegheny - alla redazione locale del Philadelphia Inquirer o del Daily News. Ma dopo due anni a portare pezzi dalla redazione in composizione, giù nel seminterrato, e a scrivere ogni tanto il programma dell'Oktoberfest di Shamokin, aveva visto la luce, un fulgore che ancora non si era offuscato. Una vigilia di Capodanno sferzata dal temporale, nella sede del giornale su Main Street, Simon stava spazzando i pavimenti quando aveva visto un chiarore proveniente dalla redazione. Sbirciando all'interno, aveva scorto due uomini. Il faro del giornale, un cinquantenne di nome Norman Watts, era intento a consultare l'enorme Codice Civile della Pennsylvania. L'uomo che si occupava di arte e spettacoli, Tristan Chaffee, aveva uno smoking scintillante, la cravatta slacciata, i piedi sul tavolo, un bicchiere di Zinfandel bianco in mano. Stava lavorando a un articolo su una celebrità locale, un cantante sopravvalutato di melense canzoni d'amore, una specie di Bobby Vinton dei poveri, che, a quanto pareva, era stato beccato per pornografia infantile. Simon aveva continuato a spazzare, tenendo d'occhio di nascosto i due. Il giornalista serio compulsava oscuri dettagli su appezzamenti di terreno, estratti, espropriazioni, strofinandosi gli occhi, lasciando spegnere con la cenere lunga una sigaretta dietro l'altra, dimenticando di fumare, con frequenti puntate al gabinetto per liberare una vescica che doveva avere le dimensioni di un pisello. E poi c'era il pennivendolo dello spettacolo, che sorseggiava buon vino e chiacchierava al telefono con discografici, proprietari di locali, groupie. La decisione era venuta da sé. Al diavolo le notizie serie, aveva pensato Simon. A me lo Zinfandel bianco. A diciotto anni, Simon si era iscritto al Community College della contea di Luzerne. Un anno dopo la laurea, la zia Iris se n'era andata in silenzio, nel sonno. Simon aveva raccolto i suoi pochi averi e si era trasferito a Philly, rincorrendo finalmente il suo sogno. Per tre anni aveva vissuto della sua piccola eredità, cercando, senza fortuna, di vendere i suoi articoli da freelance ai maggiori rotocalchi nazionali. Poi, dopo altri tre anni a scrivere recensioni di dischi e film da freelance per l'Inquirer e il Daily News e a mangiare la sua parte di spaghetti cinesi in scatola e zuppa al ketchup piccante, Simon era approdato a un impiego
stabile presso un nuovo tabloid intitolato The Report. Aveva fatto rapidamente carriera, e ormai da sette anni scriveva ogni settimana una dissertazione, intitolata «Up Close!», una rubrica di cronaca nera piuttosto sensazionalistica che si occupava di tutti i delitti più scioccanti della città di Philadelphia e, quando l'autore era abbastanza fortunato, delle trasgressioni dei suoi cittadini più in vista. In quei campi, raramente la città lo deludeva. Sebbene il suo posto al Report - «La coscienza di Philadelphia», diceva lo slogan - non fosse l'Inquirer o il Daily News e nemmeno il City Paper, Simon era riuscito a raggiungere le vette del ciclo informativo con un certo numero di servizi importanti, con gran costernazione dei suoi colleghi, di gran lunga meglio pagati, della cosiddetta «stampa autorevole». «Cosiddetta» perché, secondo Simon Close, la «stampa autorevole» non esisteva. Sguazzavano tutti nelle fogne sino al ginocchio, ogni scribacchino con un taccuino con la spirale e il reflusso gastroesofageo, e quelli che si consideravano solenni cronisti del proprio tempo, non erano che grandi illusi. Connie Chung della CNN che passa una settimana a tallonare Tonya Harding* e i «reporter» di Entertainment Tonight che si occupano di casi come quelli di JonBenet Ramsey e Laci Peterson** erano tutto il fumo negli occhi di cui si poteva aver bisogno. Da quando le ragazzine morte erano «intrattenimento»? Da quando le notizie serie venivano buttate nel cesso per dare la caccia a O.J. Ecco da quando. Simon era orgoglioso del suo lavoro al Report. Aveva un buon naso e una memoria quasi fotografica per i dettagli e le frasi ascoltate. Era stato il capofila nella copertura del caso del senzatetto trovato a North Philly con gli organi interni estirpati dal corpo; sempre il primo sulla scena del crimine. Quella volta, Simon aveva corrotto un tecnico del turno di notte all'Ufficio del medico legale con una canna di Thai Stick per una foto dell'autopsia, che, però, sfortunatamente non aveva mai visto l'inchiostro della stampa. Aveva battuto sul tempo l'Inquirer pubblicando la storia di uno scandalo al dipartimento di polizia: un detective della Omicidi aveva indotto al suicidio un ragazzo accusandolo dell'assassinio dei genitori, crimine del quale l'uomo era innocente. Un suo servizio era anche finito in copertina: la storia di un giro di adozioni fasulle in cui una donna di South Philly, proprietaria di un'agenzia ombra chiamata Cuori Teneri, incassava migliaia di dollari per bambini fantasma, mai affidati. Anche se nei suoi articoli avrebbe preferito un mag-
gior numero di vittime e fotografie più raccapriccianti, era stato candidato al premio AAN (Association of Alternative Newsweeklies) per «Cuori Fantasma», il titolo dato al servizio sulle adozioni fasulle. Anche il Philadelphia Magazine aveva denunciato quella donna... Un mese intero dopo il servizio di Simon sul Report. Quando i suoi servizi diventavano di pubblico dominio, alla scadenza settimanale del giornale, Simon li archiviava nel sito del giornale in rete, che vantava ormai quasi diecimila visite al giorno. E così fu che, quando il telefono squillò, verso mezzogiorno, destandolo da un sogno piuttosto vivido che comprendeva Cate Blanchett, un paio di manette in velcro e un frustino, Simon fu colto dallo spavento all'idea di dover tornare a rivisitare le sue radici cattoliche. «Sì», riuscì a biascicare Simon. La sua voce pareva uscire da un tubo di scolo lungo un chilometro. «Tirati su da quel cazzo di letto.» Almeno una dozzina di suoi conoscenti poteva salutarlo in quel modo. Non valeva nemmeno la pena di restituire il colpo. Non così presto. Sapeva chi era: Andrew Chase, suo vecchio amico e congiurato di rivelazioni giornalistiche. Anche se per comprendere Andrew Chase nella categoria «amici» occorreva uno sforzo titanico. Quei due si tolleravano come il pane e la muffa, una sgradevole alleanza che, per il reciproco profitto, poteva produrre occasionali benefici. Andy era un villano, un cialtrone e un insopportabile moralista. E grazie a tali qualità vendeva il suo prodotto. «È notte fonda», protestò Simon. «In Bangladesh, forse.» Simon si levò la cispa dagli occhi, sbadigliò, si stiracchiò. Piuttosto vicino allo stato di veglia. Lanciò un'occhiata accanto a sé nel letto. Vuoto. Di nuovo. «Che succede?» «Una ragazza di una scuola cattolica è stata trovata morta.» Quel vecchio scherzo, pensò Simon. Di nuovo. Da questa parte della notte, Simon Edward Close era un cronista, perciò quelle parole furono un'iniezione di adrenalina nel petto. Ora era sveglio. Il suo cuore prese a fare quel chiasso che lui conosceva e amava, il rumore che voleva dire: «Notizia». Frugò il comodino, trovò due pacchetti vuoti di sigarette, rovistò con le dita nel posacenere finché non agganciò un mozzicone di cinque centimetri. Lo raddrizzò, lo accese, tossì. Allungò la mano, premette RECORD sul suo fido registratore Panasonic con microfono a filo. Aveva da un pezzo abbandonato l'idea di prendere appunti coerenti.
Doveva anzitutto bere il suo primo caffè ristretto della giornata. «Racconta.» «L'hanno trovata sulla North 8th Street.» «Dove, esattamente?» «Al 1500.» A Beirut, pensò Simon. Questo è un bene. «Chi l'ha trovata?» «Un ubriacone.» «Per strada?» «In una delle case a schiera, nel seminterrato.» «Quanti anni?» «La casa?» «Gesù, Andy. È troppo presto, cazzo. Non fare l'idiota. La ragazza. Quanti anni aveva la ragazza?» «Era un'adolescente», rispose Andy. Chase lavorava per il servizio emergenze del Glenwood Ambulance Group da otto anni. Il Glenwood aveva buona parte del servizio ambulanze in appalto per il Comune e, negli anni, le dritte di Andy avevano fruttato a Simon un certo numero di scoop, nonché parecchie indiscrezioni sugli sbirri. Quella sarebbe costata a Simon un pranzo da The Plough and The Star. Se la notizia si fosse guadagnata la copertina, lui sarebbe stato debitore a Andy di un centone extra. «Nera? Bianca? Marrone?» s'informò Simon. «Bianca.» Una bambina bianca sarebbe stata una notizia migliore, pensò Simon. Le bambine bianche morte andavano dritte in copertina, garantito. Ma la scuola cattolica era un gran tocco. Un mucchio di similitudini dozzinali cui attingere. «Hanno già preso il corpo?» «Sì. L'hanno appena rimosso.» «Che diavolo ci faceva una studentessa cattolica bianca da quella parte della North 8th Street?» «E chi sono, Oprah Winfrey? Che ne so?» Simon considerò gli elementi della storia. Droga. E sesso. Così doveva essere. Come il pane e la marmellata. «Com'è morta?» «Non si sa per certo.» «Assassinio? Suicidio? Overdose?» «Be', laggiù c'erano quelli della Omicidi, perciò non è un'overdose.» «Le hanno sparato? L'hanno accoltellata?» «Credo che sia stata mutilata.» Oh, Dio mio, sì! pensò Simon. «Chi è il detective responsabile?»
«Kevin Byrne.» Lo stomaco di Simon ebbe uno scatto, fece una rapida piroetta, poi si fermò. Lui aveva dei trascorsi, con Kevin Byrne. L'idea di fare ancora a cornate con lui lo eccitava e lo terrorizzava nel contempo. «Chi c'è con lui, quel Purity?» «Purify. No, Jimmy Purify è in ospedale», spiegò Andy. «In ospedale? Gli hanno sparato?» «Infarto.» Cazzo, pensò Simon. Niente di avvincente. «Lavora da solo?» «No. Ha una nuova partner. Jessica qualcosa.» «Una donna?» «No. Un uomo che si chiama Jessica. Sei sicuro di essere un giornalista?» «Com'è?» «A dire il vero, è una bomba sexy.» Una bomba sexy, pensò Simon, mentre l'eccitazione causata dalla notizia si dirigeva a sud rispetto al suo cervello. Senza offesa per le tutrici dell'ordine, ma certe poliziotte tendevano a somigliare a Mickey Rourke in tailleur-pantalone. «Bionda? Bruna?» «Bruna. Atletica. Occhioni nocciola e gran gambe. Un pezzo di figliola.» Si metteva bene. Due sbirri, la bella e la bestia, ragazze bianche morte a Crack Town. E lui non aveva ancora tirato su dal letto la prima chiappa. «Dammi un'ora», disse. «Ci vediamo al Plough.» Simon riattaccò e slanciò le gambe oltre la sponda del letto. Abbracciò con lo sguardo il panorama del suo appartamento di tre stanze. Che pugno nell'occhio, pensò. Tuttavia, si spinse a riflettere, era un piccolo pugno nell'occhio, come la casa in affitto di Nick Carraway, quello del Grande Gatsby, a West Egg. Un giorno di questi, avrebbe fatto centro. Ne era sicuro. Un giorno di questi si sarebbe alzato e non sarebbe più stato in grado di vedere dal letto ogni stanza di casa sua. Avrebbe avuto un pianterreno, un giardino, una macchina che non suonava un assolo di batteria alla Ginger Baker ogni volta che lui spegneva il motore. Forse quella era la notizia buona. Prima di poter arrancare fino alla cucina, venne salutato dalla sua gatta, una soriana attaccabrighe color cannella e con un orecchio solo, di nome Enid. «Come sta la mia ragazza?» Simon le fece il solletico dietro l'orecchio
buono. Enid si raggomitolò due volte e, rivoltandosi, gli atterrò in grembo. «Papi ha un articolone bollente, bambolina. Non c'è tempo per le coccole, stamattina.» Enid fece le fusa, comprensiva, balzò a terra e lo seguì in cucina. L'unico apparecchio immacolato dell'intero appartamento di Simon - a parte l'Apple PowerBook - era la sua adorata macchina per il caffè espresso Rancilio Silvia. Era programmata per accendersi automaticamente alle nove, anche se il suo proprietario nonché principale operatore sembrava non farcela mai a scendere dal letto prima di mezzogiorno. Tuttavia, come asserirebbe qualsiasi fanatico del caffè, il segreto di un espresso perfetto è un cestello caldo. Simon riempì il filtro di espresso tostato macinato di fresco e si preparò il primo ristretto della giornata. Diede un'occhiata fuori dalla finestra della cucina al pozzo di ventilazione quadrato tra gli edifici. Se si chinava, piegava il collo a quarantacinque gradi e premeva il viso contro il vetro, riusciva a vedere una scheggia di cielo. Grigio e coperto. Pioggerella leggera. Il sole dell'Inghilterra. Tanto valeva tornarsene nel Lake District, pensò. Ma se fosse stato a Berwick ora non avrebbe avuto questa storia succulenta, giusto? La macchina dell'espresso sibilò e rumoreggiò, scaricando una dose perfetta nella tazzina riscaldata, per diciassette secondi esatti, con una voluttuosa crema dorata. Simon prese la tazza, assaporando l'aroma, inizio di una nuova gloriosa giornata. Ragazza bianca morta, meditò, sorseggiando il ricco caffè bruno. Ragazza bianca morta cattolica. A Crack Town. Splendido. * Pattinatrice americana che, nel 1994, poche settimane prima delle Olimpiadi invernali di Lillehammer, fece aggredire la rivale Nancy Kerrigan. (N.d.T.) ** La «reginetta di bellezza» JonBenet Ramsey, di soli sei anni, fu ritrovata priva di vita nello scantinato della sua casa a Boulder, nel Colorado il 26 dicembre 1996. Un delitto che non ha ancora un colpevole e che continua a suscitare scalpore in America, soprattutto perché, per lungo tempo,
furono gli stessi genitori a essere sospettati di aver commesso il crimine. Laci Peterson, incinta di otto mesi, scomparve invece in California alla vigilia di Natale del 2002; il suo corpo fu poi ritrovato in stato di avanzata decomposizione e il marito venne condannato a morte per l'omicidio. (N.d.T.) 8 Lunedì, ore 12.50 A pranzo si separarono. Jessica tornò alla Nazarene Academy in una Taurus del reparto. Sulla I-95 il traffico era scarso, ma seguitava a piovere. A scuola, scambiò qualche parola con Dottie Takacs, l'autista dello scuolabus che caricava le ragazze del quartiere di Tessa. La donna era ancora decisamente sconvolta dalla notizia della morte della giovane, quasi inconsolabile, ma riuscì a dire che la ragazza non si trovava alla fermata dell'autobus venerdì mattina e che no, non ricordava nessun tipo strano che si aggirasse dalle parti della fermata o lungo il percorso. Aggiunse che il suo lavoro consisteva nel tenere gli occhi sulla strada. Suor Veronique informò Jessica che il dottor Parkhurst si era preso il pomeriggio libero, ma le aveva lasciato il suo indirizzo di casa e i numeri di telefono. Le disse anche che l'ultima lezione di Tessa, il giovedì, era stata Francese II. Se ricordava bene, tutte le studentesse della Nazarene dovevano seguire due anni consecutivi di lingua straniera per avere accesso al diploma. Jessica non fu affatto sorpresa di apprendere che la sua vecchia professoressa di francese, Claire Stendhal, insegnava ancora. La trovò in sala professori. «Tessa era una studentessa meravigliosa», disse Claire. «Un sogno. Grammatica eccellente, sintassi impeccabile. Consegnava sempre i compiti in tempo.» Parlare con Madame Stendhal catapultò Jessica all'indietro di una dozzina d'anni, benché lei non fosse mai stata all'interno della misteriosa sala professori. La sua idea di quella stanza, simile all'idea di molte altre studentesse, era un misto di nightclub, stanza di motel e fumeria d'oppio ben rifornita. Fu delusa scoprendo che, per tutto quel tempo, non era stata che una stanca, ordinaria stanza con tre tavoli circondati da sedie da bar sbeccate, un piccolo gruppo di divanetti a due posti e un paio di bollitori per il
caffè ammaccati. Claire Stendhal era un'altra faccenda. In lei non vi era nulla di stanco o di ordinario, né mai c'era stato: alta ed elegante, una linea da morire d'invidia, pelle liscia e fine come carta di riso. Jessica e le sue compagne erano sempre state follemente invidiose del guardaroba di quella donna: pullover Pringle, tailleur Nipon, scarpe Ferragamo, soprabiti Burberry. I capelli erano striati d'argento, un po' più corti di quanto Jessica ricordava, ma Claire Stendhal, ormai sui quarantacinque anni, era ancora una splendida donna. Si domandò se Madame Stendhal si ricordasse ancora di lei. «Sembrava inquieta, ultimamente?» chiese Jessica. «Be', la malattia di suo padre era un grosso peso per lei, come può immaginare. So che era lei a occuparsi della casa. L'anno scorso era rimasta assente quasi tre settimane per prendersi cura di lui. Non ha mai saltato un solo compito.» «Ricorda quand'è stato?» Claire rifletté. «Se non sbaglio, è stato proprio nel periodo del Ringraziamento.» «Ha notato qualche cambiamento in lei, quand'è tornata?» Dalla finestra, Claire guardò la pioggia che cadeva nel parco. «Ora che mi ci fa pensare, credo che fosse un po' più introspettiva. Forse un po' meno disposta a partecipare alle discussioni di gruppo.» «La qualità del suo lavoro ne ha risentito?» «Per niente. Semmai, era diventata ancora più coscienziosa.» «Aveva qualche amica speciale, nella sua classe?» «Tessa era una giovane educata e affabile, ma non credo che avesse molte amicizie strette. Potrei chiedere, se lo desidera.» «Gliene sarei grata.» Porse a Claire un biglietto da visita. La donna lo guardò di sfuggita e lo infilò nella borsetta, un'esile bustina Vuitton Honfleur. Naturellement. «Diceva di voler andare in Francia, un giorno», aggiunse Claire. Jessica ricordava di aver detto la stessa cosa. L'avevano detto tutte. Non conosceva neanche una ragazza della sua classe che ci fosse andata davvero. «Ma Tessa non era di quelle che fantasticavano di passeggiate romantiche lungo la Senna o delle vetrine sugli Champs-Elysées», continuò Claire. «Sosteneva di voler lavorare coi bambini meno fortunati.» Lei prese qualche appunto, senza sapere bene perché. «Le ha mai fatto confidenze sulla sua vita privata? Magari su qualcuno che la infastidiva?»
«No. Ma le cose non sono cambiate così tanto, sotto questo aspetto, dai tempi in cui lei frequentava il liceo. O da quando lo frequentavo io, se è per questo. Siamo adulti, ed è così che ci vedono le studentesse. In realtà, di solito, non si confidano con noi più di quanto facciano coi loro genitori.» Avrebbe voluto chiedere a Claire di Brian Parkhurst, ma ciò significava seguire soltanto una sua sensazione. Decise di non farlo. «Riesce a pensare a qualcos'altro che potrebbe essere d'aiuto?» Claire rifletté ancora. «Non mi viene in mente nulla, mi dispiace», concluse. «Va benissimo, lei è stata di grande aiuto», la rassicurò. «Però è difficile credere che... Che se ne sia andata. Era tanto giovane», commentò Claire. Jessica aveva avuto lo stesso pensiero per tutto il giorno. Ora non aveva risposte. Nessuna risposta capace di confortare o di bastare. Raccolse le sue cose, lanciò un'occhiata all'orologio. Doveva tornare a North Philly. «È in ritardo per qualcosa?» domandò Claire. Ironica e asciutta. Jessica ricordava benissimo quel tono. E sorrise. Claire Stendhal si ricordava di lei, certo. La giovane Jessica era sempre stata una ritardataria. «Pare che dovrò saltare il pranzo.» «Che ne dice di un panino al bar?» Jessica ci pensò su. Forse era una buona idea. Quand'era al liceo, era una di quelle ragazzine strambe a cui mangiare al bar piaceva davvero. Prese il coraggio a due mani e chiese: «Qu'est-ce que vous... proposez?» Se non si era sbagliata - e se lo augurava di tutto cuore -, aveva chiesto: Che cosa suggerisce? Lo sguardo della sua ex professoressa di francese le confermò che aveva detto bene. O almeno abbastanza bene, per un francese da liceo. «Non male, Mademoiselle Giovanni», approvò Claire con un sorriso generoso. «Merci.» «Avec plaisir», replicò Claire. «E i panini con la polpetta sono ancora piuttosto buoni.» L'armadietto di Tessa era soltanto sei sportelli più in là rispetto a quello che era stato di Jessica. Per un breve istante, la donna fu tentata di controllare se la sua vecchia combinazione funzionasse ancora. Quando lei frequentava la Nazarene, l'armadietto di Tessa apparteneva a
Janet Stefani, direttrice del giornale scolastico alternativo e accanita fumatrice d'erba. Aprendo l'armadietto, Jessica si aspettava quasi di vedere una pipa ad acqua di plastica rossa e una scorta di Girelle. Vide invece il riflesso dell'ultimo giorno di scuola di Tessa Wells, la sua vita come l'aveva lasciata. C'era una felpa con cappuccio della Nazarene appesa a una gruccia, insieme con quella che sembrava una sciarpa fatta a maglia. Un cappello di plastica antipioggia era appeso al gancio. Sul primo ripiano, c'era la tuta da ginnastica, pulita e ben ripiegata. Sotto, una piccola pila di spartiti. Sul lato interno dello sportello, dove quasi tutte le ragazze tenevano un collage di fotografie, Tessa aveva un calendario coi gatti. I fogli dei mesi precedenti erano stati strappati. I giorni erano stati segnati con una crocetta fino al giovedì precedente. Jessica controllò se i libri nell'armadietto corrispondevano all'elenco della classe di Tessa, che aveva preso in segreteria. Mancavano due libri: biologia e algebra II. Dove sono? si domandò. Sfogliò le pagine degli altri libri di testo di Tessa. Nel testo di Comunicazioni c'era un programma di studio su carta rosa shocking. Dentro il libro di teologia - Capire il cristianesimo cattolico - c'erano due scontrini della tintoria. Gli altri libri erano vuoti. Niente appunti personali, niente lettere, niente fotografie. Sul fondo dell'armadietto, c'era un paio di stivali di gomma alti fino al polpaccio. Jessica stava per chiudere l'armadietto, quando decise di prendere gli stivali e rivoltarli. Il sinistro era vuoto. Quando rovesciò lo stivale destro, un oggetto rotolò sul lucidissimo pavimento di legno duro. Un'agendina in pelle di vitello con rifilatura in lamina dorata. Nel parcheggio, Jessica mangiava il suo panino con la polpetta e leggeva l'agenda di Tessa. Le annotazioni erano rare; tra una e l'altra passavano giorni, a volte settimane. Evidentemente, Tessa non era tipo da sentirsi obbligata ad affidare al proprio diario ogni pensiero, ogni sensazione, ogni emozione e interazione. Nel complesso, sembrava una ragazza triste; il lato aspro della vita era la regola, per lei. C'erano annotazioni su un documentario su tre giovani che, secondo lei, come pure secondo gli autori, erano stati ingiustamente accusati di omicidio a West Memphis, nel Tennessee. C'era una lunga nota sul-
la situazione dei bambini affamati nella zona delle miniere degli Appalachi. Tessa aveva donato venti dollari a Second Harvest, un'organizzazione senza fini di lucro che si occupava di aiuti alimentari. C'era una manciata di annotazioni su Sean Brennan. Cosa ho fatto di male? Perché non chiami? C'era una storia lunga, piuttosto commovente, su una senzatetto che Tessa aveva conosciuto. Una donna di nome Carla che viveva in un'automobile sulla 13th Street. Tessa non spiegava come aveva conosciuto quella donna; diceva soltanto quant'era bella Carla e che avrebbe potuto essere una modella, se la vita non le avesse riservato tante avversità. La barbona aveva detto a Tessa che uno degli aspetti peggiori dell'abitare in una macchina era la mancanza di privacy: viveva nella paura costante che qualcuno la osservasse, qualcuno intenzionato a farle del male. Nelle settimane seguenti, Tessa aveva riflettuto a fondo su quel problema, poi si era resa conto di poter essere d'aiuto. La ragazza era andata a trovare sua zia Georgia. Si era fatta prestare la macchina per cucire Singer e, a proprie spese, aveva fatto delle tende per la donna, cortine che si potevano ingegnosamente fissare al tessuto del soffitto interno dell'auto. Era una persona speciale, pensò Jessica. L'ultima annotazione diceva: Papà sta molto male. Sta peggiorando, credo. Cerca di essere forte, ma so che sta soltanto fingendo per me. Guardo le sue mani fragili e penso a quand'ero piccola, a quando mi spingeva sull'altalena. Mi pareva di toccare le nuvole coi piedi! Le sue mani sono tagliate e piene di cicatrici per tutta quell'ardesia e quel carbone. Le unghie sono spuntate per il contatto con lo scivolo di ferro. Dice sempre che ha lasciato la sua anima a Carbon County, ma che il suo cuore è con me. E con la mamma. Tutte le notti sento il suo respiro orribile. Anche se so quanto gli fa male, ogni respiro mi conforta, mi dice che è ancora qui. Ancora papà. Verso il centro dell'agenda c'erano due pagine strappate, poi l'ultimissima annotazione, risalente a quasi cinque mesi prima, che diceva semplicemente:
Sono tornata. Chiamatemi solo Sylvia. Chi è Sylvia? si domandò Jessica. Consultò i suoi appunti. La madre di Tessa si chiamava Anne. Non aveva sorelle. Alla Nazarene non c'era certamente nessuna «suor Sylvia». Tornò a sfogliare l'agenda. Qualche pagina prima della parte che era stata rimossa, c'erano alcuni versi di una poesia che non riconobbe. Jessica guardò ancora l'annotazione finale. La data era del periodo del Ringraziamento dell'anno precedente. Sono tornata. Chiamatemi solo Sylvia. Tornata da dove, Tessa? E chi è Sylvia? pensò Jessica. 9 Lunedì, ore 13.00 In seconda media, Jimmy Purify era già alto un metro e ottanta, e nessuno lo aveva mai definito «secco». Ai suoi tempi, Jimmy Purify poteva entrare nei bar bianchi più tosti di Gray's Ferry senza proferire parola, e la conversazione si riduceva a un sussurro; i tipacci si raddrizzavano sulle sedie. Nato e cresciuto a West Philly, nel «Black Bottom», Jimmy aveva sopportato travagli tanto interiori quanto esteriori e aveva gestito tutto con un autocontrollo e una dignità di strada che avrebbero spezzato un uomo più debole. Ma ora, mentre Kevin Byrne era in piedi sulla soglia della stanza d'ospedale di Jimmy, l'uomo di fronte a lui sembrava l'abbozzo sbiadito di Jimmy Purify, il guscio dell'uomo che era stato. Jimmy aveva perso almeno tredici chili; le guance erano scavate e la pelle era cerea. Byrne si accorse che doveva schiarirsi la gola prima di parlare. «Ehi, Clutch.» Jimmy voltò la testa. Cercò di prendere un'aria accigliata, ma gli angoli della bocca si sollevarono, tradendolo. «Gesù Cristo. Ma non c'è la vigilanza, qui dentro?» L'altro rise. Un po' troppo forte. «Ti trovo bene.»
«Vaffanculo. Sembro Richard Pryor.» «Naa, magari Richard Roundtree», replicò Byrne. «Ma tutto sommato...» «Tutto sommato dovrei essere a Wildwood con Halle Berry.» «Avresti migliori probabilità con Marion Barry.»* «Vaffanculo bis.» «Comunque, detective, non ti trovo bene come lui», disse Byrne, mostrando una Polaroid di Gideon Pratt malconcio e pieno di lividi. Jimmy sorrise. «Accidenti, quanto sono imbranati 'sti tipi», commentò, battendo debolmente il pugno contro quello dell'altro. «È un fatto genetico.» Byrne appoggiò la foto sulla brocca d'acqua di Jimmy. Era meglio di qualsiasi bigliettino di pronta guarigione. Loro due avevano cercato Gideon Pratt per tanto tempo. «Come sta il mio angelo?» domandò Jimmy. «Bene.» Jimmy Purify aveva tre figli maschi, tutti grandi, grossi e massicci, e riversava tutta la sua tenerezza - la poca che aveva - sulla figlia di Kevin Byrne, Colleen. Ogni anno, per il compleanno di Colleen, arrivava per posta un regalo anonimo, vergognosamente costoso. Nessuno abboccava. «Sta preparando una grande festa di Pasqua.» «Alla scuola per sordi?» «Sì.» «Mi sono allenato, sai. Sto diventando piuttosto bravo», disse Jimmy. Tracciò qualche debole segno con le mani. «Che cosa dovrebbe essere?» «Era: 'Buon compleanno'.» «A dire il vero sembrava un po': 'Buon cacciavite'.» «Davvero?» «Eh, sì.» «Merda.» Jimmy si guardò le mani, come se fosse colpa loro. Provò di nuovo la lingua dei segni, senza risultati apprezzabili. Byrne gli sprimacciò i cuscini, poi si sedette, distribuendo il peso sulla sedia. Seguì un lungo, spontaneo silenzio di quelli possibili soltanto tra vecchi amici. Lasciò che fosse Jimmy a venire al dunque. «Allora, ho sentito che hai una vergine da sacrificare.» La voce di Jimmy era arrochita e debole. Quella visita gli aveva già sottratto parecchie energie. Le infermiere del reparto di cardiologia avevano detto a
Byrne che poteva fermarsi per cinque minuti, non di più. «Già», replicò Byrne. Jimmy si riferiva alla sua nuova partner, al primo giorno nella Omicidi. «Quanto va male?» «In realtà, non va per niente male. La ragazza ha un buon istinto.» «La ragazza?» Ahi, ahi, pensò Byrne. Jimmy Purify era un tipo della vecchia scuola, la più vecchia che si possa immaginare. Infatti, come amava ripetere, il suo primo distintivo aveva i numeri romani. Se fosse dipeso da Jimmy Purify, le uniche donne in polizia sarebbero state le vigilesse addette ai parchimetri. «Già.» «È una detective giovane-vecchia?» «Non credo.» Jimmy si riferiva a quei tipi super efficienti che arrivavano in reparto di corsa, trascinandosi dietro gli indiziati, intimorendo i testimoni, cercando di farsi assegnare qualunque lavoro. I «vecchi» - come Byrne e Jimmy - si sceglievano i colpi da sparare. Ci sono molte meno matasse da sbrogliare. Era una cosa che s'imparava o non s'imparava. «È carina?» L'altro non ebbe bisogno di pensarci su. «Sì. È carina.» «Portamela, qualche volta.» «Gesù. Ti fai trapiantare anche l'uccello?» Jimmy sorrise. «Già. E bello grosso, anche. Ho pensato: che cazzo, già che sono qui, tanto vale farsene uno extra-large.» «In effetti, è la moglie di Vincent Balzano.» Gli ci volle un momento per cogliere quel nome. «Quel cazzo di scalmanato della centrale?» «Già, lui.» «Dimentica tutto quello che ho detto.» Byrne vide un'ombra accanto alla porta. Un'infermiera fece capolino e sorrise. Ora di andare. Si alzò, si stiracchiò, diede un'occhiata all'orologio. Un quarto d'ora più tardi avrebbe dovuto incontrare Jessica a North Philly. «Devo filare. Stamattina abbiamo messo mano a un caso.» Jimmy aggrottò la fronte, e Byrne si sentì una merda. Avrebbe dovuto tenere la bocca chiusa. Dire a Jimmy Purify che c'era un caso nuovo sul quale lui non avrebbe lavorato era come mostrare una foto di Churchill Downs a un purosangue in pensione. «Fuori i dettagli, Riff.» Si chiese quanto avrebbe dovuto dire. Decise di vuotare il sacco. «Ra-
gazza di diciassette anni. Trovata in una casa a schiera abbandonata vicino all'incrocio tra la North 8th Street e Jefferson Street.» L'espressione di Jimmy non aveva bisogno di traduzioni: una parte diceva quanto desiderasse tornare all'opera; l'altra parte aveva a che fare con la sua consapevolezza di quanto Kevin Byrne fosse coinvolto in casi del genere. Se ammazzavi una ragazzina mentre c'era lui in servizio, non esisteva un masso grande abbastanza sotto cui nascondersi. «Roba di droga?» «Non credo.» «L'hanno scaricata lì?» Byrne annuì. «Che cosa abbiamo?» Abbiamo, pensò Byrne. Faceva molto più male di quanto avesse creduto. «Non molto.» «Tienimi aggiornato, eh?» Contaci, Clutch. Afferrò la mano di Jimmy, le diede una stretta leggera. «Hai bisogno di qualcosa?» «Una bella sfilza di costolette non sarebbe male. Scrapple** per contorno.» «E una Diet Sprite, giusto?» Jimmy sorrise, con le palpebre che si abbassavano. Era stanco. Byrne andò alla porta, sperando di riuscire a raggiungere la fresca sacralità del corridoio prima di sentirlo, desiderando di trovarsi al Mercy per interrogare un testimone, desiderando che Jimmy fosse proprio dietro di lui, odoroso di Marlboro e Old Spice. Non ce la fece. «Non tornerò, vero?» domandò Jimmy. L'altro chiuse gli occhi, poi li riaprì, sperando che il proprio volto avesse preso un'espressione somigliante alla fede. Si voltò. «Ma certo che torni, Jimmy.» «Per essere uno sbirro, come bugiardo non vali un cazzo, lo sai? Mi stupisce che siamo riusciti a risolvere anche un solo caso.» «Pensa a rimetterti in forze. Tornerai sulla piazza entro il Memorial Day. Vedrai. Faremo il pieno da Finnigan's e leveremo i calici per la piccola Deirdre.» Jimmy lo salutò con un debole cenno, poi girò la testa verso la finestra. Nel giro di qualche secondo, si addormentò. Byrne restò a guardarlo per un minuto buono. Avrebbe voluto dire di
più, molto di più, ma ci sarebbe stato tempo. O no? Ci sarebbe stato tempo per dire a Jimmy quanto la sua amicizia avesse significato negli anni, e che da lui aveva imparato che cos'è realmente il lavoro di polizia. Ci sarebbe stato tempo per dire a Jimmy che la città non era la stessa, senza di lui. Kevin Byrne si trattenne ancora per qualche istante, poi si voltò, s'incamminò lungo il corridoio e raggiunse gli ascensori. Si fermò di fronte all'ospedale, le mani tremanti, la gola serrata dall'emozione. Gli ci vollero cinque giri di rotellina del suo Zippo per accendersi una sigaretta. Non piangeva da tanti anni, ma quella sensazione alla bocca dello stomaco gli fece tornare alla mente il momento in cui aveva visto il suo vecchio piangere per la prima volta. Suo padre era grosso come una casa, un monumento della 2nd Street, un Mummer*** famoso in tutta la città, un autentico campione di lotta con bastoni, capace di trasportare quattro blocchi di cemento da trenta centimetri in cima a una scala senza il contenitore. Vederlo piangere lo aveva rimpicciolito agli occhi del piccolo Kevin - allora aveva dieci anni -, lo aveva reso simile ai padri di tutti gli altri bambini. Padraig Byrne era crollato dietro la loro casa a schiera di Reed Street il giorno in cui aveva saputo che sua moglie doveva essere operata a causa di un tumore. Maggie O'Connell Byrne era vissuta altri venticinque anni, ma all'epoca nessuno lo sapeva. Il suo uomo, quel giorno, si era fermato accanto al suo adorato albero di pesco, tremando come un filo d'erba nella tempesta, e Kevin si era seduto alla finestra della sua camera da letto al primo piano, a guardarlo, e a piangere con lui. Mai aveva dimenticato quell'immagine; mai l'avrebbe dimenticata. Non aveva più pianto, da allora. Ma adesso ne aveva voglia. Jimmy. * Marion S. Barry, nero, è stato sindaco di Washington, D.C., dal 1979 al 1991 e dal 1995 al 1999. È noto soprattutto per essere stato condannato per possesso e uso di sostanze stupefacenti. (N.d.T.) ** Lo scrapple si prepara con ciccioli (scraps) e fegato di maiale cotti nel brodo con spezie, farina tostata di granoturco e grano saraceno. È detto anche «paté di Philadelphia». (N.d.T.)
*** Dal 1° gennaio 1901, i Mummers organizzano a Philadelphia una spettacolare e coloratissima parata di Capodanno. (N.d.T.) 10 Lunedì, ore 13.10 I discorsi delle ragazze. Esiste una lingua più indecifrabile per il maschio della specie? Non credo. Nessun uomo cui sia capitato di ascoltare le conversazioni di giovani femmine, per un tempo lungo o breve, mancherebbe di ammettere che non esiste compito più arduo del tentare di spiegare un semplice tête-àtête tra un gruppetto di adolescenti americane. Al confronto, il codice Enigma della seconda guerra mondiale era uno scherzo. Sono seduto da Starbucks all'angolo tra la 16th Street e la Walnut, il caffellatte che si raffredda sul tavolo davanti a me. Al tavolo accanto ci sono tre ragazze adolescenti. Tra un boccone di biscotto e un sorso di moka al cioccolato bianco, si riversa un torrente di chiacchiere a mitraglia, allusioni e osservazioni così tortuose, così prive di struttura, che non posso far altro per tenere il passo. Sesso, musica, film, sesso, macchine, soldi, sesso, vestiti. Mi sento esausto soltanto ad ascoltare. Quand'ero più giovane, c'erano quattro «basi» ben definite per quanto riguardava il sesso. Ora, se sento bene, ci sono dei «pit stop» nel mezzo. Tra la seconda e la terza, mi par di capire, adesso c'è una seconda «bagnata» che, se non erro, prevede la lingua sul seno della ragazza. Poi c'è la terza «bagnata», che significa sesso orale. Nessuna delle pratiche suddette, grazie agli anni '90, viene considerata vero sesso; piuttosto, un «aggancio». Affascinante. La ragazza seduta più vicino a me ha i capelli rossi, ed è sui quindici anni. I capelli, puliti e lucenti, sono pettinati all'indietro in una coda di cavallo fermata da una fascetta di velluto nero. Indossa una maglietta rosa attillata e jeans beige a vita bassa. Mi volge le spalle e io vedo il taglio basso dei pantaloni che, nella posizione in cui si trova - china in avanti a spiegare qualcosa alle sue due amiche -, rivelano una zona di pelle bianca sotto la parte superiore della cintura di cuoio nera e l'orlo della maglietta. È così vicina - pochi centimetri, davvero -, che individuo le minuscole in-
crespature della pelle d'oca causata dalla corrente d'aria condizionata, i rilievi alla base della spina dorsale. Abbastanza vicina da poterla toccare, in effetti. Continua a cianciare del suo lavoro, di una certa Corinne che è sempre in ritardo e le lascia le pulizie da fare, del suo capo che è un vero imbecille e ha un alito schifoso, e che si crede un gran figo ma sembra quel tipo obeso dei Soprano che si occupa dello zio di Tony, o di suo padre o di quel che è. Come mi piace questa età. Nessun dettaglio è tanto piccolo o insignificante da sfuggire al loro vaglio. Sanno quanto basta da utilizzare la propria sessualità per ottenere ciò che vogliono, ma non hanno idea che l'arma che brandiscono ha un tale, devastante potere d'inibizione sulla psiche maschile. Se soltanto sapessero cosa chiedere, lo avrebbero su un piatto d'argento. L'ironia sta nel fatto che quasi sempre, quando si affaccia in loro quella consapevolezza, non possiedono più la bellezza per perseguire i loro obiettivi. Quasi seguissero un copione, riescono tutte a guardare l'orologio nello stesso momento. Raccolgono la loro robaccia e si avviano alla porta. Non le seguirò. Non queste ragazze. Non oggi. Oggi appartiene a Bethany. La corona sta nel sacchetto ai miei piedi e, benché io non sia un estimatore dell'ironia (l'ironia è un cane che abbaia alla luna pisciando sulle tombe, secondo Karl Kraus), è una beffa non da poco, che il sacchetto sia di Bailey Banks & Biddle* Secondo Cassiodoro, la corona di spine fu posta sul capo di Gesù in modo che tutte le spine del mondo fossero riunite insieme e spezzate, ma io non credo che sia vero. La corona destinata a Bethany è tutt'altro che spezzata. Bethany Price esce di scuola alle due e venti. Talvolta si ferma a un Dunkin' Donuts a prendere una cioccolata calda e un doughnut, seduta in un séparé a leggere un libro di Pat Ballard o Lynne Murray, romanzieri specializzati in storie d'amore con donne grassottelle. Bethany è più pesante delle altre ragazze, sapete, e ciò la mette in un terribile imbarazzo. Acquista su Internet i suoi capi di marca Zaftique e Junonia; si sente ancora a disagio a far compere nei reparti «taglie comode» da Macy's e Nordstrom, per paura di essere vista dalle sue compagne di classe. A differenza di certe sue amiche più snelle, lei non cerca di ac-
corciare l'orlo della gonna della divisa scolastica. Qualcuno ha detto che la vanità fiorisce, ma non dà frutti. Forse, però le mie ragazze frequentano la scuola di Maria e pertanto, nonostante i loro peccati, riceveranno grazia in abbondanza. Bethany non lo sa, ma è perfetta proprio cosi com'è. Perfetta. Salvo per una cosa. E a quella penserò io. * Grande catena di gioiellerie. (N.d.T.) 11 Lunedì, ore 15.00 Trascorsero il pomeriggio a riesaminare il tragitto percorso a piedi da Tessa Wells per raggiungere la fermata dello scuolabus. Bussarono alle porte e in alcune case non ebbero risposta, ma parlarono con una dozzina di persone che conoscevano quelle studentesse cattoliche che prendevano l'autobus all'angolo. Nessuno aveva notato nulla d'insolito, né venerdì, né gli altri giorni. Poi si concessero una piccola pausa. Come spesso avviene, l'ultima fermata si rivelò quella buona. Stavolta fu in una scalcinata casa a schiera con tende verde oliva e un sudicio batacchio d'ottone a forma di testa d'alce. La casa si trovava a meno di mezzo isolato dal punto in cui Tessa prendeva lo scuolabus. Byrne si avvicinò alla porta. Jessica si fermò alle sue spalle. Dopo aver bussato cinque o sei volte, stavano per passare oltre quando la porta si schiuse di un paio di centimetri. «Non compro niente», fece un'esile voce maschile. «Non vendiamo.» Byrne gli mostrò il distintivo. «Che volete?» «Tanto per cominciare, voglio che lei apra la porta più di due centimetri», replicò Byrne con tutta la diplomazia che gli restava, al quindicesimo colloquio della giornata. L'uomo chiuse la porta, sfilò la catenella e spalancò. Era sui settant'anni, indossava un paio di pantaloni di pigiama scozzesi e una giacca da camera color malva sgargiante che poteva esser stata di moda ai tempi della presi-
denza Eisenhower. Ai piedi aveva scarpe da ginnastica slacciate, senza calzini. Si chiamava Charles Noone. «Stiamo parlando con tutta la gente del quartiere. Ha per caso visto questa ragazza, venerdì?» Byrne gli porse una fotografia di Tessa Wells, una copia del suo ritratto del liceo. L'uomo pescò dalla tasca della giacca un paio di quei bifocali che si trovano al supermercato e studiò la foto per qualche istante, spostando gli occhiali su e giù, avanti e indietro. Jessica vide il prezzo ancora incollato nella parte bassa della lente destra. «Sì, l'ho vista», disse Noone. «Dove?» «Andava fino all'angolo, come tutti gli altri giorni.» «Dove l'ha vista?» L'uomo indicò il marciapiede, poi agitò un indice ossuto da sinistra a destra. «Veniva su dalla strada come sempre. Me la ricordo perché sembra sempre che sia via da qualche parte.» «Via?» «Eh. Come su un pianeta tutto suo, capito? Con gli occhi bassi, pensando a chissà che.» «Cos'altro ricorda?» domandò Byrne. «Be', si è fermata un momentino proprio davanti alla finestra. Più o meno dove sta quella signorina.» Noone indicò il punto in cui si trovava Jessica. «Per quanto tempo è stata lì?» «Non l'ho cronometrata.» Byrne trasse un respiro profondo, espirò, la pazienza in equilibrio su un filo, senza rete. «Più o meno.» «Non so», fece Noone. Guardava il soffitto, con gli occhi chiusi. Jessica notò che contraeva le dita: sembrava che stesse contando. Lei si chiese se Charles Noone si sarebbe tolto le scarpe, qualora il numero fosse stato superiore a dieci. Lui tornò a guardare Byrne. «Venti secondi, forse.» «Cos'ha fatto?» «Fatto?» «Mentre era di fronte a casa sua. Che ha fatto la ragazza?» «Non ha fatto niente.» «Stava ferma lì e basta?» «Be', guardava qualcosa in fondo alla strada. No, non proprio in fondo alla strada. Forse più il vialetto dopo la mia casa.» Charles Noone indicò
alla sua destra, il vialetto che separava casa sua dalla taverna all'angolo. «Guardava e basta?» «Sì. Come se avesse visto qualcosa d'interessante. Come se avesse visto qualcuno che conosceva. Ed è arrossita, mi pare. Sa come sono fatte le ragazzine.» «Non proprio. Perché non me lo dice lei?» fece Byrne. In quel momento, il linguaggio del corpo dei due interlocutori cambiò completamente, con quei piccoli movimenti che rivelano alle parti in causa di essere entrate in una nuova fase della conversazione. L'uomo fece un passo indietro quasi impercettibile e si strinse un poco la fascia della giacca da camera, raddrizzando lievemente le spalle. Byrne spostò il peso sul piede destro e sbirciò alle spalle dell'uomo, nella penombra del soggiorno. «Sto soltanto dicendo che è diventata rossa per un secondo, tutto qui», spiegò Noone. Byrne fissò lo sguardo in quello dell'uomo finché Noone non lo distolse per primo. Jessica conosceva Kevin Byrne soltanto da poche ore, ma aveva già visto la fredda fiamma verde di quegli occhi. Byrne passò oltre. Charles Noone non era il loro uomo. «Ha detto qualcosa, la ragazza?» «Non credo», replicò Noone, con una tacca di rispetto in più nella voce. «Ha visto qualcuno su quel vialetto?» «Nossignore. Non ho finestre da quella parte. E poi non sono affari miei.» Sì, certo, pensò Jessica. Vuoi venire giù alla Roundhouse a spiegare perché guardi tutti i giorni le ragazzine che vanno a scuola? Byrne diede all'uomo un biglietto da visita. Charles Noone promise di chiamare se avesse ricordato qualcosa. L'edificio di fianco alla casa di Noone era una taverna abbandonata che si chiamava The Five Aces, una macchia nel paesaggio cittadino, squadrata, di calce e mattoni, a un piano solo; aveva un vialetto che dava sulla 19th Street e su Poplar Street. Bussarono alla porta del Five Aces, ma non ottennero risposta. L'edificio era chiuso con assi di legno e fregiato da strati su strati di graffiti. Controllarono porte e finestre, tutte ben inchiodate e sprangate dall'esterno. Qualunque cosa fosse accaduta a Tessa, non era accaduta lì dentro. Si fermarono sul vialetto e guardarono da un capo all'altro della strada, oltre che sul lato opposto. Erano due le case a schiera da cui si vedeva completamente il vialetto. Bussarono a entrambe. Nessuno dei due occupanti ricordava di aver visto Tessa Wells.
Tornando alla Roundhouse, Jessica mise insieme le tessere del puzzle dell'ultima mattina di Tessa Wells. Venerdì mattina, all'incirca alle sei e cinquanta, Tessa Wells era uscita di casa, diretta alla fermata dell'autobus. Il tragitto compiuto era quello solito: dalla 20th Street fino a Poplar Street, avanti per un isolato, poi attraversava la strada. Verso le sette era stata vista di fronte a una casa a schiera sull'angolo tra la 19th Street e Poplar, dove aveva esitato per qualche istante, forse vedendo qualcuno che conosceva sul vialetto di una taverna chiusa da tempo. Quasi sempre, al mattino incontrava le sue amiche della Nazarene. Alle sette e cinque, l'autobus le caricava e le portava a scuola. Ma venerdì mattina Tessa Wells non aveva incontrato le sue amiche. Venerdì mattina, Tessa era semplicemente scomparsa. Circa settantadue ore più tardi, il suo corpo era stato ritrovato in una casa a schiera abbandonata in uno dei quartieri peggiori di Philadelphia, il collo rotto, le mani mutilate, il corpo abbracciato a una caricatura di colonna romana. Chi c'era in quel vialetto? Alla Roundhouse, Byrne controllò sui database NCIC e PCIC tutti quelli che avevano incontrato. Tutti quelli che potevano essere interessanti, cioè. Frank Wells, DeJohn Withers, Brian Parkhurst, Charles Noone, Sean Brennan. Il National Crime Information Center (NCIC) era uno schedario computerizzato d'informazioni di carattere penale, a disposizione delle forze dell'ordine federali, statali e locali e di altri enti che si occupavano di giustizia penale. La sua versione locale era il Philadelphia Crime Information Center (PCIC). Soltanto il dottor Brian Parkhurst diede qualche risultato. Alla fine del giro, andarono da Ike Buchanan per aggiornarlo sulla situazione. «Indovina chi è schedato?» domandò Byrne. Per qualche ragione, Jessica non dovette pensarci a lungo. «Il dottor Acqua di Colonia?» azzardò. «Esatto», confermò Byrne. «Brian Allan Parkhurst», cominciò, leggendo la stampata. «Trentacinque anni, scapolo, residente in Larchwood Street, area Garden Court. Laurea alla John Carrol University, Ohio; specializzazione alla Penn.» «Quali sono i precedenti? Attraversava la strada senza guardare?» chiese
Buchanan. «Siete pronti? Otto anni fa è stato accusato di rapimento. Ma non c'è stato processo.» «Di rapimento?» ripeté Buchanan, un tantino incredulo. «Faceva il consulente in un liceo ed è venuto fuori che aveva una storia con una dell'ultimo anno. Erano andati via per un fine settimana senza dire niente ai genitori della ragazza. I genitori hanno chiamato la polizia e il dottor Parkhurst è stato beccato.» «Perché non si è proceduto?» «Per fortuna del buon dottore, la ragazza ha compiuto diciotto anni il giorno prima che partissero, e ha dichiarato di essere andata con lui di sua spontanea volontà. Il procuratore distrettuale ha dovuto lasciar cadere tutte le accuse.» «E dov'è successo?» domandò Buchanan. «In Ohio. Alla Beaumont School.» «Che cos'è la Beaumont School?» «Una scuola cattolica femminile.» Buchanan guardò Jessica, poi Byrne. Sapeva quello che i due stavano pensando. «Andiamoci coi piedi di piombo», li ammonì Buchanan. «Uscire con le ragazzine è molto diverso dal fare ciò che è stato fatto a Tessa Wells. Questo sarà un caso di alto profilo, e non voglio accuse di vessazioni da monsignor Palle di Bronzo.» Buchanan si riferiva a monsignor Terry Pacek - molto eloquente, molto telegenico e, direbbero alcuni, militante - portavoce dell'arcidiocesi di Philadelphia. Pacek sovrintendeva a tutti i rapporti coi media riguardanti le chiese e le scuole cattoliche di Philadelphia. Aveva fatto a capocciate parecchie volte col dipartimento, durante lo scandalo dei preti cattolici pedofili del 2002, vincendo tutte le battaglie nelle pubbliche relazioni. Non conveniva fare la guerra a Terry Pacek, a meno di avere tutte le frecce al proprio arco. Prima che Byrne potesse insistere sull'argomento del pedinamento di Brian Parkhurst, il suo telefono squillò. Era Tom Weyrich. «Che succede?» domandò Byrne. «C'è una cosa che dovresti vedere», replicò Weyrich. Lo studio del medico legale era un monolito grigio su University Avenue. Dei circa seimila casi di morte denunciati ogni anno a Philadelphia,
quasi la metà richiedeva un'autopsia, che veniva sempre eseguita in quell'edificio. Erano da poco passate le sei quando Byrne e Jessica entrarono nella sala principale riservata a quello scopo. Tom Weyrich aveva addosso il camice e un'aria di profonda preoccupazione. Tessa Wells era distesa su uno dei tavoli d'acciaio inossidabile, la pelle di un grigio pallido, il lenzuolo azzurro polvere sollevato fino alle spalle. «Si tratta di omicidio», disse Weyrich, affermando l'ovvio. «Shock spinale causato da sezione del midollo.» Infilò una lastra nel pannello luminoso. «La sezione è avvenuta tra C5 e C6.» La sua valutazione iniziale era stata esatta. A Tessa Wells avevano spezzato il collo. «Sulla scena?» domandò Byrne. «Sulla scena», annuì Weyrich. «Qualche livido?» Weyrich tornò al corpo e indicò le due piccole contusioni sul collo di Tessa Wells. «Qui è dove l'ha afferrata, poi le ha piegato la testa verso destra.» «Niente di utilizzabile?» Il medico scosse la testa. «L'esecutore portava i guanti di gomma.» «Che puoi dirci della croce sulla fronte?» volle sapere Byrne. La materia blu e gessosa sulla fronte di Tessa era sbiadita ma ancora visibile. «Ho preso un tampone. È in laboratorio.» «Segni di lotta? Ferite da difesa?» «Niente.» Byrne rifletté. «Se era viva quando l'hanno portata in quel seminterrato, perché non c'erano segni di lotta? Perché non aveva le gambe e le cosce coperte di tagli?» «Le abbiamo trovato nell'organismo una piccola quantità di Midazolam.» «Che roba è?» domandò Byrne. «Il Midazolam è simile al Roipnol. Cominciamo a trovarne sempre di più in circolazione, ultimamente, dato che è ancora incolore e inodore.» Da Vincent, Jessica sapeva che l'uso del Roipnol come droga da stupro programmato cominciava a ridursi, poiché la formula attuale prevedeva che esso diventasse blu se versato in un liquido, mettendo così in allarme l'ignara preda. Ma lasciate fare alla scienza, e rimpiazzerà un orrore con un altro.
«Mi stai dicendo che il nostro killer le ha messo del Midazolam in un bicchiere?» Weyrich scosse la testa. Sollevò i capelli sul lato destro del collo di Tessa. C'era un piccolo segno di puntura. «Glielo hanno iniettato. Ago di piccolo calibro.» Gli occhi di Jessica e di Byrne s'incontrarono. Quello cambiava le cose. Mettere una droga in un bicchiere era un conto; un pazzo che girava per le strade con una siringa era un altro. Quell'assassino non si preoccupava di usare stratagemmi per attirare le sue vittime nella rete. «È particolarmente difficile da somministrare nel modo giusto?» volle sapere Byrne. «Ci vuole qualche nozione per non prendere il muscolo, ma niente che non si possa imparare con un po' di pratica. Un infermiere generico potrebbe farlo senza troppi problemi. D'altronde, al giorno d'oggi si può fare un'arma nucleare con quello che si trova su Internet», commentò Weyrich. «E sul farmaco in sé?» intervenne Jessica. «Idem: su Internet. Mi arriva spam dell'OxiContin dal Canada ogni dieci minuti. Ma la presenza del Midazolam non spiega l'assenza di ferite da difesa. Anche sotto sedativi, l'istinto naturale è di reagire. Nell'organismo non c'era droga sufficiente per metterla fuori combattimento.» «Quindi che cosa sta dicendo?» fece Jessica. «Sto dicendo che c'è qualcos'altro. Dovrò fare altri test.» Jessica notò un piccolo sacchetto sigillato sul tavolo. «Che cos'è?» Weyrich sollevò la busta. Conteneva una piccola fotografia, la riproduzione di un vecchio dipinto. «Ce l'aveva tra le mani.» Estrasse la foto con un paio di pinzette dalla punta gommata. «Era arrotolata tra i palmi. Abbiamo cercato impronte. Non ce ne sono.» Jessica osservò da vicino la riproduzione, all'incirca delle dimensioni di una carta da gioco. «Sa che cos'è?» «La Scientifica ne ha preso una fotografia digitale e l'ha inviata alla capo bibliotecaria del dipartimento di Belle Arti della Free Library», spiegò Weyrich. «L'ha riconosciuta subito. Dante e Virgilio sulla porta dell'Inferno di William Blake.» «Hai qualche idea di cosa significhi?» chiese Byrne. «No, mi dispiace.» Byrne fissò l'immagine per qualche istante, poi la rimise nel sacchetto. Si voltò verso Tessa Wells. «C'è stata violenza sessuale?» «Sì e no», rispose Weyrich.
Byrne e Jessica si scambiarono un altro sguardo. Tom Weyrich non era tipo da pose teatrali, perciò doveva avere una buona ragione per esitare a parlare. «Come sarebbe a dire?» volle sapere Byrne. «Secondo i miei esami preliminari, non è stata violentata e, a quanto posso dire, non aveva avuto rapporti sessuali negli ultimi giorni», rispose Weyrich. «Okay. Per il no siamo a posto. Cosa sarebbe il sì?» Weyrich tentennò, poi tirò giù il lenzuolo sulle cosce di Tessa. La giovane aveva le gambe lievemente divaricate. Quello che Jessica vide le mozzò il fiato. «Dio mio», esclamò, prima di riuscire a impedirselo. Nella stanza cadde il silenzio, i suoi occupanti vivi perduti nei propri pensieri. «Quand'è stato fatto?» domandò infine Byrne. Weyrich si schiarì la gola. Se ne stava occupando da un po', eppure sembrava che pure per lui quella fosse una novità. «Nelle ultime dodici ore.» «Ante mortem?» «Ante mortem» confermò Weyrich. Jessica tornò a guardare il corpo, e l'immagine dell'ultima umiliazione di quella giovane si fissò in un luogo della sua mente dove lei sapeva che avrebbe continuato a vivere per moltissimo tempo. Tessa Wells non soltanto era stata rapita per strada, mentre andava a scuola. Non soltanto era stata drogata e portata in un luogo in cui qualcuno le aveva spezzato il collo. Non soltanto le avevano mutilato le mani con un bullone d'acciaio, giungendole in preghiera. Chiunque avesse fatto quelle cose aveva completato il lavoro con un'infamia che fece rivoltare lo stomaco a Jessica. La vagina di Tessa Wells era stata cucita. E la rozza impuntura, realizzata con uno spesso filo nero, formava un segno di croce. 12 Lunedì, ore 18.00 Se il J. Alfred Prufrock di Thomas Eliot misurava la sua vita con cucchiaini da caffè, Simon Edward Close misurava la propria con le scadenze. Mancavano meno di cinque ore prima che andasse in stampa il numero del
Report dell'indomani. E, stando ai titoli di apertura dei telegiornali locali della sera, lui non aveva niente da riferire. Quando si muoveva tra i cronisti della cosiddetta «stampa autorevole», era un esule. Lo guardavano come si potrebbe guardare un disabile, con compassione fasulla e un surrogato di comprensione, ma anche con un'aria che diceva: Non possiamo sbatterti via dalla festa a calci, ma per piacere non toccare le porcellane. La mezza dozzina di cronisti che si aggiravano intorno alla scena del crimine chiusa dal cordone della polizia sulla North 8th Street lo degnò a malapena di un'occhiata, quando arrivò sulla sua Honda Accord vecchia di dieci anni. A Simon sarebbe piaciuto arrivare un po' più discretamente, ma la sua marmitta - collegata al tubo di scappamento grazie a una recente Pepsi-lattinectomia - insisteva ad annunciarlo in anticipo. Lui riusciva quasi a sentire i sogghigni a mezzo isolato di distanza. Il caseggiato era delimitato dal nastro giallo della polizia. Simon girò l'auto, si diresse verso Jefferson Street, a sinistra della 9th Street. La Città degli Spettri. Simon scese e controllò le batterie del registratore. Si lisciò la cravatta, le grinze dei pantaloni. Aveva spesso pensato che, se non avesse speso tutto in vestiti, forse avrebbe potuto migliorare l'auto o l'appartamento. Ma si giustificava sempre dicendosi che trascorreva la maggior parte del tempo per la strada, quindi, se nessuno vedeva la sua auto o la sua casa, potevano credere che avesse la grana. In fondo, in quell'industria dello spettacolo, l'immagine era tutto, no? Trovò il viale d'accesso che gli serviva, tagliò di lì. Quando vide l'agente fermo dietro la casa - ma non un solo cronista, non ancora, almeno -, tornò verso la macchina e tentò un trucco che aveva imparato da un vecchio paparazzo rinsecchito, conosciuto anni prima. Dieci minuti dopo, si avvicinò all'agente dietro la casa. L'agente, un nero enorme col fisico del giocatore di football, sollevò una manona per fermarlo. «Come va?» domandò Simon. «Questa è la scena di un crimine, signore.» Simon annuì. Mostrò il suo tesserino di giornalista. «Simon Close del Report.» Nessuna reazione. Avrebbe potuto dire: «Il capitano Nemo del Nautilus». «Dovrà parlare col detective responsabile del caso», disse il piedipiatti.
«Naturalmente. E chi sarebbe?» s'informò Simon. «Sarebbe il detective Byrne.» Simon prese un appunto, come se l'informazione gli fosse nuova. «E qual è il nome di battesimo della signora?» Il poliziotto fece una smorfia. «Di chi?» «Del detective Byrne.» «La signora si chiama Kevin.» Simon cercò di mostrarsi opportunamente confuso. Due anni di teatro al liceo, con la parte di Algernon nell'Importanza di chiamarsi Ernesto, in qualche modo aiutavano. «Oh, mi scusi. Avevo sentito che a questo caso lavorava un detective donna.» «Sarebbe il detective Jessica Balzano», disse l'agente, puntualizzando, con una contrazione delle sopracciglia che significava: fine della conversazione. «Grazie molte», disse Simon tornando indietro lungo il vicolo. Si voltò e scattò una rapida fotografia allo sbirro, il quale si mise subito alla radio; ciò significava che, nel giro di un paio di minuti, la zona dietro le case a schiera sarebbe stata ufficialmente isolata. Quando Simon fu tornato sulla 9th Street, c'erano già due cronisti fermi dietro il nastro giallo che chiudeva la strada d'accesso... un nastro giallo che Simon stesso aveva messo lì qualche minuto prima. Quando lui uscì di lì tutto tranquillo, vide i loro sguardi. Simon si chinò e passò sotto il nastro, lo strappò dal muro e lo porse a Benny Lozado, della redazione dell'Inquirer. Sul nastro c'era scritto: DEL-CO ASFALTO. «Va' a farti fottere, Close», disse Lozado. «Prima ceniamo insieme, amore.» Nella sua macchina, Simon frugò nella memoria. Jessica Balzano. Dove aveva sentito quel nome? Prese una copia del Report della settimana precedente, la sfogliò. Arrivato alla misera pagina sportiva, lo vide. Un piccolo annuncio pubblicitario su un quarto di colonna, per un incontro di boxe al Blue Horizon. Un programma tutto femminile. In fondo: JESSICA BALZANO CONTRO MARIELLA MUNOZ.
13 Lunedì, ore 19.20 Si ritrovò sul lungofiume prima che la sua testa avesse l'opportunità o l'inclinazione per dire di no. Da quanto tempo non andava lì? Otto mesi, una settimana e due giorni. Conosceva la risposta tanto chiaramente quanto conosceva la ragione che lo aveva spinto a tornare. Era lì per ricaricarsi, per attingere ancora una volta alla vena di follia che pulsava proprio sotto l'asfalto della sua città. Deuces era una fumeria protetta che occupava un vecchio edificio portuale sotto il Walt Whitman Bridge, vicino a Packer Avenue, a pochi metri dalle rive del Delaware. Il portone d'acciaio era coperto di graffiti delle gang e presidiato da una montagna di scimmione chiamato Serious. Nessuno capitava per caso da Deuces. In realtà, erano più di dieci anni che la gente non lo chiamava Deuces. Quello era il nome del bar, chiuso da un pezzo, nel quale un uomo molto cattivo di nome Luther White si era seduto a bere la notte in cui Kevin Byrne e Jimmy Purify erano entrati, quindici anni prima; la notte in cui due di loro erano morti. In quel punto, era cominciato il periodo oscuro di Kevin Byrne. In quel punto, lui aveva cominciato a capire. Ora era una fumeria di crack. Ma Kevin Byrne non era lì per la droga. Pur essendo vero che, negli anni, aveva flirtato con ogni sostanza nota all'umanità per bloccare le visioni che gli si rimescolavano in testa, nessuna di esse aveva mai preso il controllo. Erano anni che non si trastullava con qualcosa di diverso dal Vicodin o dal bourbon. Era lì per recuperare la struttura mentale. Ruppe il sigillo di una bottiglia di Old Forester, rifletté sulla sua giornata. Il giorno in cui il suo divorzio era diventato definitivo, quasi un anno prima, lui e Donna si erano giurati che avrebbero cenato insieme, come una famiglia, una sera alla settimana. Nonostante i molti ostacoli posti dal lavoro di entrambi, non avevano saltato neanche una settimana in un anno. Quella sera avevano tirato avanti, borbottando per tutta la durata dell'ennesima cena; sua moglie un orizzonte sgombro, le chiacchiere in sala da pranzo un monologo parallelo di domande di circostanza e risposte trite. Negli ultimi cinque anni, Donna Sullivan Byrne era stata l'astro degli
agenti di una delle più grandi e prestigiose società immobiliari di Philadelphia, e i soldi erano piovuti. Non vivevano in una villetta a schiera di Fitler Square perché Kevin Byrne era uno sbirro straordinario. Fosse stato per il suo stipendio, avrebbero abitato a Fishtown. Ai bei tempi andati, durante l'estate del loro matrimonio, s'incontravano per pranzare in centro due o tre volte alla settimana, e Donna gli raccontava dei suoi trionfi, dei suoi rari fallimenti, delle sue abili manovre attraverso la giungla dei depositi a garanzia, dei costi finali, degli ammortamenti, degli arretrati e delle pertinenze. Quei termini avevano sempre fatto velare gli occhi a Byrne - lui non distingueva un punto base da un pagamento a rate fisse - e, nel contempo, lui era sempre meravigliato dell'energia, dello zelo di lei. Era arrivata a buon punto della sua carriera a trent'anni passati da un po', ed era felice. Tuttavia, appena diciotto mesi prima, Donna aveva semplicemente chiuso ogni canale di comunicazione col marito. I soldi continuavano ad arrivare, e lei era sempre una madre straordinaria per Colleen, sempre attiva nella comunità; però, se si trattava di parlare con lui, di condividere qualcosa che somigliasse a un sentimento, un pensiero, un'opinione, era assente. Le mura alzate, le torri armate. Nessun biglietto. Nessuna spiegazione. Nessuna giustificazione logica. Ma Byrne sapeva perché. Quando si erano sposati, lui le aveva assicurato di avere ambizioni all'interno del dipartimento, di essere bene avviato a diventare tenente, forse capitano. E, poi, potevano aprirsi le porte della politica... In cuor suo, lui non ci pensava proprio, senza però mai dirlo apertamente. Ma Donna era sempre stata scettica. Conosceva abbastanza sbirri da sapere che i detective della Omicidi erano tali a vita, che in quella squadra si restava sino alla fine. E poi Morris Blanchard era stato trovato appeso a un cavo da traino. Quella notte Donna aveva guardato Byrne e, senza fargli neppure una domanda, aveva capito che lui non avrebbe mai rinunciato alla caccia, a riprendere in mano la situazione. Era un uomo della Omicidi, non sarebbe mai stato altro. Pochi giorni dopo, lei aveva presentato istanza di divorzio. In seguito a una lunga, lacrimosa conversazione con Colleen, Byrne aveva deciso di non opporsi. Stavano annaffiando una pianta morta da tanto tempo, comunque. Finché Donna non gli guastava i rapporti con la figlia e finché lui poteva vederla quando voleva, andava bene così. Quella sera, mentre i suoi genitori recitavano la pantomima della cena,
Colleen si era seduta disciplinatamente con loro, perduta in un libro di Nora Roberts. Byrne talvolta invidiava il silenzio interiore di Colleen, quel rifugio di bambagia dalla sua infanzia. Donna era incinta di due mesi di Colleen quando lei e Byrne si erano sposati col rito civile. Pochi giorni dopo il Natale di quell'anno, Donna aveva partorito. Quando Byrne aveva visto per la prima volta Colleen, così rosa, raggrinzita e inerme, all'improvviso non era più riuscito a ricordare un singolo istante della sua vita prima di quel momento. In quell'attimo, tutto il resto si era trasformato in un preludio, in una sfocata overture al vincolo che sentiva allora. Aveva capito, come se gli fosse stato impresso sul cuore, che nessuno si sarebbe mai messo tra lui e quella bambina. Né sua moglie, né i suoi colleghi, e che Dio aiutasse quello stronzetto irrispettoso con le braghe flosce e il cappellino di sbieco che si sarebbe presentato per il primo appuntamento. Ricordava anche il giorno in cui avevano scoperto che Colleen era sorda. Era la prima festa del 4 luglio, per la bambina. All'epoca abitavano in un appartamento striminzito, di tre stanze. Era appena cominciato il telegiornale delle undici e c'era stata una piccola esplosione, proprio fuori dalla minuscola camera da letto in cui dormiva Colleen. Istintivamente, Byrne aveva estratto l'arma di servizio, aveva attraversato il corridoio ed era entrato nella stanza della bambina con tre passi da gigante, il cuore che martellava nel petto. Quando aveva spalancato la porta, il sollievo aveva preso le sembianze di un paio di ragazzini, sulla scala antincendio, che tiravano petardi. Con loro avrebbe fatto i conti dopo. L'orrore, tuttavia, aveva preso le sembianze della quiete. Mentre i petardi continuavano a esplodere, a meno di due metri da dove la sua bambina di sei mesi dormiva, la piccola non reagiva. Non si svegliava. Quando Donna era apparsa sulla soglia e aveva compreso la situazione, si era messa a piangere. Byrne l'aveva stretta a sé, sentendo, in quel momento, che la strada di fronte a loro era appena stata lastricata di tribolazioni, e che la paura che lui affrontava ogni giorno in strada era niente, al confronto. Adesso, però, Byrne si ritrovava a invidiare il mondo di calma interiore di sua figlia. Lei non avrebbe mai conosciuto la patina argentea del matrimonio dei suoi genitori, per sempre inconsapevole che Kevin e Donna Byrne, un tempo così appassionati da non riuscire a togliersi le mani di dosso, ora si chiedevano scusa sfiorandosi nello stretto corridoio di casa, come estranei sull'autobus.
Pensava alla sua graziosa, distante ex moglie, la sua rosa celtica. Donna, con la sua misteriosa capacità di bloccargli una bugia in gola con una semplice occhiata, con la sua perfetta sensibilità sociale. Lei sapeva mietere saggezza dal disastro. Lei gli aveva insegnato la grazia dell'umiltà. Deuces era tranquillo, a quell'ora. Byrne si sedette in una stanza vuota al secondo piano. Molte di quelle fumerie erano posti sudici, cosparsi di fiale di crack vuote, rifiuti di fast-food, migliaia di fiammiferi da cucina usati, spesso vomito, a volte escrementi. Di solito, chi si fa di crack non è abbonato ad Architectural Digest. I clienti del Deuces - un oscuro consorzio di sbirri, impiegati statali, funzionari pubblici che non potevano farsi vedere a svicolare per angoli bui - pagavano un piccolo extra per l'atmosfera. Si mise a gambe incrociate sul pavimento accanto alla finestra, volgendo le spalle al fiume. Sorseggiò il bourbon. La sensazione lo avvolse in un caldo abbraccio ambrato, alleviando l'emicrania incombente. Tessa Wells. Era uscita di casa venerdì mattina, in mano un contratto col mondo, la promessa che sarebbe stata al sicuro, che sarebbe andata a scuola, che avrebbe passato il tempo con le sue amiche, riso di qualche battuta stupida, pianto per qualche sciocca canzone d'amore. Il mondo aveva violato quell'accordo. Era soltanto un'adolescente, e la sua vita era già finita. Colleen era appena diventata adolescente. Byrne sapeva che, dal punto di vista psicologico, probabilmente, lui era parecchio in ritardo sulla curva e che, ormai, l'adolescenza cominciava intorno agli undici anni. Era anche ben consapevole di aver deciso da molto tempo di resistere alla propaganda sessuale che partiva da Madison Avenue.* Si guardò intorno. Che ci faceva lì? Ancora quella domanda. Vent'anni sulle strade di una delle città più violente del mondo lo avevano portato lì. Non conosceva un solo detective che non bevesse, che non si fosse disintossicato, che non frequentasse le puttane, che non alzasse le mani sui figli o sulla moglie. Gli eccessi erano conseguenza di quel lavoro e, se non bilanciavi l'eccesso di orrore con un eccesso di passione per qualcosa - fosse pure la violenza domestica -, le valvole stridevano e gemevano finché un giorno non implodevi e non ti infilavi una canna in bocca. Nella sua vita di detective alla Omicidi, lui era stato in decine di saloni, in centinaia di vialetti, in migliaia di lotti abbandonati, mentre i morti senza voce lo aspettavano, come una gouache dai colori piovosi in secondo
piano. Una bellezza così tetra... Non gli toglieva il sonno, la distanza. Era il dettaglio a inquinare i suoi sogni. Ricordava ogni dettaglio di quel torrido mattino d'agosto in cui era stato chiamato a Fairmount Park: il denso ronzio delle mosche, il modo in cui le gambe esili di Deirdre Pettigrew spuntavano fuori dai cespugli, le mutandine bianche zuppe di sangue arrotolate intorno a una caviglia, la fasciatura sul ginocchio destro. Aveva saputo allora, come ogni singola volta in cui aveva visto una bambina assassinata, che lui doveva farsi avanti, non importava quanto la sua anima si sgretolasse, quanto il suo istinto venisse meno. Doveva essere coraggioso al mattino, non importava quanti demoni lo avessero perseguitato nella notte. Nella prima metà della sua carriera era stata tutta questione di potere, d'inerzia della giustizia, di urgenza della cattura. Al centro c'era lui. Ma, a un certo punto, lungo la strada, la cosa era diventata più grande. Al centro c'erano solo le ragazze morte. E ora Tessa Wells. Chiuse gli occhi, sentì di nuovo le acque gelide del Delaware turbinare intorno a lui, il respiro strappato a forza dal petto. Sotto di lui, le auto delle gang - i loro elicotteri da combattimento - andavano a tutta birra. I giri di basso hip-hop scuotevano il pavimento, le finestre, le pareti, salendo dalle strade della città come un vapore d'acciaio. L'ora dei dannati stava per scoccare. Ben presto lui avrebbe camminato in mezzo a loro. I mostri scivolavano fuori dalle loro tane. E, mentre se ne stava seduto in un posto dove gli uomini barattavano il rispetto di se stessi con qualche momento di silenzio torpido, un posto in cui gli animali camminavano eretti, Kevin Francis Byrne sapeva che un nuovo mostro si era destato a Philadelphia, un oscuro serafino di morte che lo avrebbe condotto a un territorio inesplorato, chiamandolo a una profondità alla quale gli uomini come Gideon Pratt si limitavano ad aspirare. * Strada di New York in cui hanno sede le principali agenzie pubblicitarie. (N.d.T.) 14 Lunedì, ore 20.00
È notte a Philadelphia. Sono fermo sulla North Broad Street, guardo verso il centro, verso la figura imperiosa di William Penn, accortamente illuminata in cima al palazzo comunale, e sento il calore della giornata primaverile che si perde nello sfrigolio del neon rosso e nelle lunghe ombre alla De Chirico, ancora stupito dai due volti della città. Questa non è la tempera al rosso d'uovo della Philly diurna, i colori accesi di Love di Robert Indiana* o il Mural Arts Program.** Questa è Philly di notte, una città ritratta con pennellate spesse e violente, un impasto di pigmenti sedimentari. Il vecchio edificio sulla North Broad è stato testimone di molte notti, coi suoi pilastri di gesso a guardia silenziosa per quasi un secolo. In molti sensi, è il volto stoico della città: i vecchi sedili di legno, il soffitto a cassettoni, i medaglioni intagliati, la tela logora dove mille uomini hanno sputato, hanno sanguinato, sono caduti. Entriamo in fila. Ci sorridiamo, alziamo le sopracciglia, ci scambiamo pacche sulle spalle. Sento l'odore di rame del loro sangue. Forse questi uomini conoscono le mie gesta, ma non conoscono il mio volto. Pensano che io sia un pazzo, che balzi fuori dalle tenebre come il cattivo di un film dell'orrore. Leggeranno di ciò che ho fatto, seduti al tavolo della colazione, sull'autobus, alla tavola calda, e scuoteranno la testa e si chiederanno perché. Non può darsi che sappiano il perché? Se si scollassero gli strati di pasta sottile di malvagità, dolore e crudeltà, non può essere che questi uomini farebbero lo stesso, se ne avessero l'occasione? Attirerebbero forse le rispettive figlie nell'angolo buio, nell'edificio vuoto, nel cuore più nero e ombroso del parco? Brandirebbero forse coltelli, pistole e randelli, dando finalmente voce alla loro furia? Spenderebbero forse la moneta della loro ira, per poi scapparsene di corsa a Upper Darby, New Hope e Upper Merion*** al riparo delle loro menzogne? C'è sempre, nell'anima, un conflitto morboso, una lotta tra ripugnanza e bisogno, fra tenebra e luce. La campana suona. Ci alziamo dai nostri sgabelli. C'incontriamo in centro. Philadelphia, le tue figlie non sono al sicuro.
Sei qui perché lo sai. Sei qui perché non hai il coraggio di essere me. Sei qui perché hai paura di diventare me. Io so perché sono qui. Jessica. * Celebre scultura che riproduce la parola LOVE, inaugurata nella John F. Kennedy Plaza di Philadelphia in occasione della festa per il bicentenario dell'America, nel 1976. (N.d.T.) ** Gli oltre 2500 murales che abbelliscono i muri di Philadelphia sono frutto di questo programma, che, dal 1994, ha come scopo quello di pulire la città dai graffiti. (N.d.T.) * Quartieri residenziali di Philadelphia. (N.d.T.) 15 Lunedì, ore 20.30 Scordatevi il Caesar's Palace. Scordatevi il Madison Square Garden. Scordatevi il Grand Hotel MGM. Il posto migliore d'America - del mondo, direbbe qualcuno - per assistere a un incontro di boxe era il Legendary Blue Horizon in North Broad Street. In una città che aveva sfornato gente come Jack O'Brien, Joe Frazier, James Shuler, Tim Witherspoon, Bernard Hopkins - per non parlare di Rocky Balboa -, il Legendary Blue Horizon era un tesoro, e come va il Blue, così vanno le scazzottate, a Philly. Jessica e la sua avversaria, Mariella «Favilla» Munoz, si vestivano e si riscaldavano nella stessa stanza. Mentre aspettava il suo prozio Vittorio, lui stesso un ex peso massimo, per farsi fasciare le mani, Jessica lanciò un'occhiata all'avversaria. Favilla era vicina ai trent'anni, con grosse braccia e un collo largo: sui quarantacinque centimetri, a occhio e croce. Un vero e proprio ammortizzatore. Aveva il naso piatto, tessuto cicatriziale sopra entrambi gli occhi, e una faccia che sembrava in perenne assetto da battaglia: una smorfia costante che di certo serviva a intimidire le avversarie. Son qui che tremo, pensò Jessica. Quando voleva, poteva assumere la posa e il contegno di una mammoletta, una donna indifesa che non sarebbe riuscita ad aprire un cartone del latte senza un uomo grande e grosso che le venisse in soccorso. Quello, sperava Jessica, non era altro che miele per gli orsi.
In realtà, significava: Fatti sotto, bellezza. Il primo round cominciò con quello che i pugili chiamano fase di «studio». Le due donne si davano qualche colpetto di disturbo, avvicinandosi l'una all'altra con cautela. Un paio di prese. Un po' di smorfie e d'intimidazione. Jessica era qualche centimetro più alta di Favilla, ma quest'ultima compensava con la circonferenza. Sembrava una lavatrice coi calzettoni. A metà round, l'azione cominciò a ingranare e il pubblico a partecipare. Ogni volta che Jessica metteva a segno un colpo, la folla, guidata da un contingente di sbirri del vecchio distretto, andava opportunamente in delirio. Quando la campanella suonò la fine del primo round, Jessica si ritirò con correttezza e Favilla sferrò un colpo al busto, chiaramente e intenzionalmente in ritardo. Jessica la spinse e l'arbitro dovette mettersi fra loro. Per quel match, l'arbitro era un nero piccoletto, vicino ai sessant'anni. Jessica pensò che il Comitato Atletico della Pennsylvania avesse ritenuto che non serviva uno grande e grosso per l'incontro, dato che si trattava soltanto di pesi leggeri, e per di più femminili. Sbagliato. Favilla sferrò un colpo al di sopra della testa dell'arbitro, che rimbalzò sulla spalla di Jessica, la quale contraccambiò con un colpo d'attacco forte che centrò Favilla sul lato della mascella. Il secondo di Favilla accorse, insieme con zio Vittorio. Benché la folla le incitasse (alcuni degli incontri migliori nella storia del Blue Horizon si erano disputati tra un round e l'altro), riuscirono a separare le donne. Jessica crollò sullo sgabello e zio Vittorio le si parò davanti. «Brucca sctroncia», borbottò lei attraverso il paradenti. «Devi rilassarti», disse Vittorio. Le estrasse il paradenti, le asciugò il viso. Angela prese una bottiglia d'acqua dal secchio del ghiaccio, tolse il tappo di plastica e la tenne vicino alla bocca di Jessica. «Abbassi il destro ogni volta che tiri un gancio», spiegò Vittorio. «Quante volte dobbiamo tornarci su? Tieni il destro alto.» Diede un colpetto al guantone destro di Jessica. Lei annuì, si sciacquò la bocca, sputò nel secchio. «Fuori i secondi», gridò l'arbitro dal centro del ring. Cacchio, i sessanta secondi più veloci della storia, pensò Jessica. Lei si alzò e zio Vittorio si ritirò lentamente dal ring - quando si hanno settantanove anni, ci si ritira lentamente da qualsiasi cosa - e tolse lo sga-
bello dall'angolo. La campanella suonò e le due avversarie si avvicinarono. Il primo minuto del secondo round fu molto simile all'inizio del primo. A metà, però, cambiò tutto. Favilla lavorava su Jessica alle corde. Jessica colse l'occasione per sferrare un gancio e, come al solito, abbassò la mano destra. Favilla contrattaccò con un gancio sinistro che partiva dal Bronx, attraversava Broadway, poi il ponte, e prendeva la I-95. Il colpo centrò Jessica in pieno mento, stordendola e scagliandola contro le corde. Il pubblico ammutolì. Jessica aveva sempre saputo che prima o poi avrebbe trovato pane per i suoi denti, tuttavia, mentre Favilla Munoz si apprestava a darle il colpo di grazia, vide l'impensabile. Favilla Munoz l'afferrò all'inguine e urlò: «Chi è che ha le palle, adesso?» Mentre Favilla avanzava, preparandosi a sferrare quello che Jessica era certa sarebbe stato il colpo del KO, un montaggio d'immagini sfocate le sfilò nella mente. Come quella volta, durante un intervento per ubriachezza molesta, la sua seconda settimana di lavoro, quando un avvinazzato le aveva vomitato nella fondina. O quella volta in cui Lisa Cefferati l'aveva chiamata: «Giovanni, culo a battipanni» nel cortile di St. Paul's. O quel giorno in cui era tornata a casa presto e aveva visto le scarpe cafone, giallo piscia-di-cane, da supermercato, di Michelle Brown ai piedi delle scale, accanto agli scarponcini di suo marito. In quel momento, la rabbia proveniva da un altro luogo, da un luogo in cui una ragazzina di nome Tessa Wells viveva, rideva, amava. Un luogo ora ridotto al silenzio dalle acque oscure del dolore di un padre. Ecco l'immagine che le serviva. Jessica fece appello a ciascuno dei suoi cinquantotto chili, ruotò la punta dei piedi sul tappeto e fece partire un destro incrociato che prese Favilla sulla punta del mento, girandole la testa per un secondo come una maniglia di porta ben oliata. Il rumore fu tremendo: rimbombò per tutto il Blue Horizon, andando a mescolarsi ai rumori di tutti gli altri grandi colpi mai sferrati lì dentro. Jessica vide lampeggiare la scritta Tilt! negli occhi di Favilla, che rotearono, mostrando il bianco per un istante prima che la donna crollasse al tappeto. «Alzati!» gridò Jessica. «Alzati, cazzo!» L'arbitro ordinò a Jessica di ritirarsi in un angolo neutro, quindi tornò alla sagoma supina di Favilla Munoz e riprese la conta. Ma era una faccenda
puramente accademica. Favilla rotolò su un fianco, come un lamantino spiaggiato. L'incontro era finito. Il pubblico del Blue Horizon scattò in piedi come un sol uomo, con un boato che scosse le travi del soffitto. Jessica alzò le mani al cielo e si esibì nella sua danza della vittoria, mentre Angela correva sul ring e le gettava le braccia al collo. Jessica si guardò intorno. Scorse Vincent nella prima fila della balconata. Aveva assistito a tutti i suoi incontri, quando stavano insieme, ma lei non era sicura che sarebbe venuto anche quella volta. Dopo qualche istante, il padre di Jessica arrivò sul ring, con Sophie in braccio. Naturalmente Sophie non guardava mai Jessica combattere, però sembrava apprezzare la ribalta della vittoria non meno della madre. Quella sera, Sophie indossava il suo completino in pile rosso lampone e la piccola fascia per capelli della Nike, e sembrava un peso minimo anche lei. Jessica sorrise e strizzò l'occhio al padre e alla figlia. Stava bene. Anzi meglio. L'adrenalina si era scatenata e lei si sentiva capace di affrontare il mondo. Strinse più forte la cugina mentre la folla continuava a strepitare, cantilenando: «Balls, Balls, Balls, Balls...» Al di sopra del boato, Jessica gridò nell'orecchio di Angela: «Angie?» «Sì?» «Fammi un favore.» «Quale?» «Non farmi mai più combattere con 'sta gorilla del cazzo.» Quaranta minuti dopo, sul marciapiede di fronte al Blue, Jessica firmò qualche autografo a un paio di dodicenni che la guardavano con un misto di ammirazione e idolatria. Lei somministrò il classico sermone: Non mollate la scuola, state lontane dalle droghe e loro promisero che l'avrebbero fatto. Jessica stava per dirigersi verso la sua auto quando avvertì una presenza vicina. «Ricordami di non farti mai arrabbiare.» La voce profonda proveniva da dietro di lei. Jessica aveva i capelli umidi di sudore, che puntavano in sei direzioni diverse. Puzzava come Seabiscuit dopo una corsa di un paio di chilometri e sentiva il lato destro del proprio viso gonfiarsi fino ad assumere pressappoco le dimensioni, la forma e il colore di una melanzana matura. Si voltò e vide uno degli uomini più belli che avesse mai conosciuto.
Era Patrick Farrell. E aveva in mano una rosa. Mentre Peter portava Sophie a casa propria, Jessica e Patrick andarono a sedersi in un angolo buio del Quiet Man Pub, al piano più basso del Finnigan's Wake, un popolare pub irlandese nonché tana di sbirri all'angolo fra la 3rd Street e Spring Garden, con le spalle rivolte ai grandi magazzini Strawbridge's. Però non era abbastanza buio per Jessica, anche se aveva provveduto a un rapido restauro di faccia e capelli nel bagno delle donne. Stringeva tra le mani uno scotch doppio. «È stata una delle cose più straordinarie che abbia mai visto», dichiarò Patrick. Lui indossava un pullover di cachemire grigio fumo a collo alto e pantaloni sportivi neri con la piega. Aveva un profumo fantastico, e quello era uno dei molti aspetti che trascinavano Jessica indietro, al tempo in cui loro due stavano insieme. Patrick Farrell aveva sempre avuto un profumo fantastico. E quegli occhi. Lei si domandava quante donne, negli anni, fossero cascate a capofitto in quegli occhi di un blu profondo. «Grazie», replicò, invece di dire qualcosa di vagamente arguto o minimamente intelligente. Teneva il bicchiere del whisky premuto sul viso. Il gonfiore era diminuito. Grazie a Dio. Non ci teneva a sembrare la donna elefante, di fronte a Patrick Farrell. «Non so proprio come fai.» Jessica esibì la sua migliore scrollata di spalle alla Oh, sciocchezze. «Be', il difficile è imparare a incassare un colpo con gli occhi aperti.» «Non fa male?» «Certo che fa male. Sai come ci si sente?» «Come?» «Come quando si prende un pugno in faccia.» Patrick rise. «Touché.» «D'altra parte, non riesco a immaginare una sensazione simile a quella che si prova stendendo l'avversaria. Dio mi perdoni, quella parte mi piace da matti.» «Allora lo sai, quand'è quello giusto?» «Il pugno del KO?» «Sì.» «Oh, sì!» esclamò Jessica. «È come quando prendi una palla da baseball
con la parte più grossa della mazza. Te lo ricordi? Nessuna vibrazione, nessuno sforzo. Solo... contatto.» Patrick sorrise, scuotendo la testa come ad ammettere che lei era cento volte più coraggiosa di lui. Ma Jessica sapeva che non era vero. Patrick era un medico di pronto soccorso, e lei non riusciva a immaginare un lavoro più duro. E c'era voluto ancor più coraggio, pensò, quando Patrick, tanto tempo prima, aveva resistito a suo padre, uno dei più celebri cardiochirurghi di Philadelphia. Martin Farrell si era aspettato che Patrick si dedicasse alla cardiochirurgia. Patrick era cresciuto al Bryn Mawr College, aveva frequentato Harvard, aveva fatto l'internato alla Johns Hopkins University e la via della gloria gli si stendeva di fronte, tutt'altro che impervia. Ma, quando la sua sorellina Dana era stata uccisa, in centro, durante una sparatoria tra auto, spettatrice innocente al posto sbagliato nel momento sbagliato, Patrick aveva deciso di dedicare la sua vita al lavoro di traumatologo in un ospedale di un quartiere povero della città. Martin Farrell aveva quasi ripudiato suo figlio. Era una cosa che Jessica e Patrick condividevano: era stata la loro carriera a sceglierli, in conseguenza di una tragedia, e non viceversa. Jessica avrebbe voluto chiedere a Patrick in quali rapporti fosse col padre, ora che era trascorso tanto tempo, ma non voleva riaprire eventuali vecchie ferite. Rimasero in silenzio, ad ascoltare la musica, a cogliere i reciproci sguardi, trasognati come due adolescenti. Qualcuno dei piedipiatti del Terzo Distretto passò a congratularsi con Jessica, boxando con l'aria, avvicinandosi al tavolo con andatura da ubriaco. Alla fine, Patrick passò a parlare di lavoro. Territorio sicuro, per una donna sposata e una vecchia fiamma. «Com'è lavorare in serie A?» La serie A, pensò Jessica. La serie A riesce a farti sentire di serie Z. «Sono soltanto i primi giorni, ma è parecchio diverso dai tempi dell'auto di servizio», rispose lei. «Perciò non ti manca inseguire borseggiatori, far irruzione nelle risse da bar e scortare donne incinte all'ospedale?» Jessica sorrise, un po' malinconica. «Borseggiatori e risse da bar? Non ci ho lasciato il cuore. Per quanto riguarda le donne incinte, ho fatto un punteggio di uno a uno.» «Come sarebbe a dire?» «Quand'ero in un'auto di servizio, un bambino mi è nato sul sedile poste-
riore. Uno l'ho perso.» Patrick si raddrizzò un poco sulla sedia, incuriosito. Quello era il suo mondo. «Come sarebbe ne hai perso uno?» Quella non era la storia preferita di Jessica. Si pentiva sempre di aver sollevato l'argomento. Ma sembrava proprio che dovesse raccontarla. «Era la vigilia di Natale, tre anni fa. Ti ricordi quella tempesta?» Era stata una delle peggiori bufere di neve del decennio. Venticinque centimetri di neve fresca, vento urlante, temperature sotto zero. La città per poco non aveva chiuso i battenti. «Oh, sì», disse Patrick. «Comunque, ero all'ultimo turno. È appena passata mezzanotte, sono in un Dunkin' Donuts a prendere il caffè per me e il mio partner.» Patrick alzò un sopracciglio, come a dire: Dunkin' Donuts? «Non ne parliamo», commentò Jessica, sorridendo. Patrick fece il gesto di sigillarsi le labbra. «Sto per andarmene, quando sento un gemito. Viene fuori che in un séparé c'era una donna incinta. È di sette od otto mesi, e c'è decisamente qualcosa che non va. Chiamo il soccorso, ma tutte le ambulanze sono occupate o sbandate fuoristrada o coi tubi del carburante congelati. Un incubo. Siamo a pochi isolati dal Jefferson Hospital, così la prendo sull'auto di pattuglia e partiamo. Arriviamo fin verso l'incrocio tra la 3rd Street e la Walnut e finiamo su una lastra di ghiaccio, slittando in una fila di auto parcheggiate. Siamo rimaste bloccate.» Jessica sorseggiò il suo whisky. Se raccontare quella storia la faceva star male, concluderla la faceva star peggio. «Ho chiamato aiuto, ma, quando sono arrivati, era troppo tardi. Il bimbo era nato morto.» Lo sguardo di Patrick rivelava che la capiva. Non è mai facile perdere qualcuno, quali che siano le circostanze. «Mi dispiace.» «Già, be', ho recuperato qualche settimana dopo. Il mio partner e io abbiamo fatto venire al mondo un bel bambinone, giù a South. Grosso davvero. Più di quattro chili. Come far nascere un vitello. Mi arriva ancora un biglietto natalizio dai genitori ogni anno. E dopo ho fatto domanda per l'Unità Auto. Ne avevo avuto abbastanza di fare l'ostetrica.» Patrick sorrise. «Dio riesce sempre a pareggiare i conti, no?» «Eh, già», convenne Jessica. «Se ricordo bene, scoppiò un bel po' di follia quella vigilia di Natale, no?» Era vero. In genere, quando arriva una bufera, gli svitati restano dentro.
Ma, per qualche ragione, quella notte gli astri si allinearono, ed erano tutti fuori. Sparatorie, incendi dolosi, aggressioni con rapina, vandalismo... «Abbiamo corso tutta la notte», ricordò Jessica. «Sbaglio o qualcuno ha gettato sangue sulla porta di una chiesa, o qualcosa del genere?» Jessica annuì. «A St. Katherine. Su a Torresdale.» Patrick scosse la testa. «E tanti saluti alla pace in terra, eh?» Dovette convenire con lui. Se però, all'improvviso, la pace in terra fosse arrivata davvero, lei sarebbe rimasta senza lavoro. Patrick sorseggiò il suo drink. «A proposito di pazzia, ho sentito che lavori a quell'omicidio della North 8th Street.» «Dove l'hai sentito?» «Ho le mie fonti», replicò lui, strizzando l'occhio. «Già. Il mio primo caso. Grazie, Signore.» «Brutto come dicono?» «Peggio.» In breve, Jessica gli dipinse il quadro della situazione. «Dio mio», reagì Patrick alla litania di orrori subiti da Tessa Wells. «Ogni giorno penso di averle sentite tutte. Ogni giorno ne sento una nuova.» «Suo padre mi fa davvero pena. È molto malato. Ha perso la moglie pochi anni fa. Tessa era la sua unica figlia», spiegò Jessica. «Non riesco a immaginare che cosa stia passando. Perdere una figlia.» Neppure Jessica ci riusciva. Se mai avesse perduto Sophie, la sua vita sarebbe finita. «Tosto, come primo incarico», commentò Patrick. «Non dirlo a me.» «Stai bene?» Lei rifletté prima di rispondere. Patrick era capace di far domande come quella. Ti dava la sensazione che gli importasse davvero. «Sì, sto bene.» «Com'è il tuo nuovo partner?» Questa era facile. «Bravo. Davvero bravo.» «In che senso?» «Be', ci sa fare con la gente. Sa convincerla a parlare. Non so se sia paura o rispetto, ma funziona. E ho chiesto in giro della sua quota di casi risolti. È fuori concorso.» Patrick guardò in giro per la stanza, poi di nuovo Jessica. Fece un mezzo sorriso, di quelli che le avevano sempre fatto sentire lo stomaco un po' spugnoso.
«Che c'è?» gli domandò. «Mirabile visu», disse Patrick. «Lo dico sempre anch'io», scherzò Jessica. Patrick rise. «È latino.» «E vuol dire? Chi è che ti ha spaccato le ossa?» «Vuol dire: sei meravigliosa da ammirare.» Questi medici... pensò Jessica. Paroline dolci in latino. «Sono sposata»,* replicò Jessica. «È italiano, vuol dire: Se mio marito entrasse ora, sparerebbe in fronte a tutti e due.» Patrick alzò le mani in segno di resa. «Basta parlare di me», disse lei, rimproverandosi tra sé di avere anche soltanto nominato Vincent. Lui non era invitato a quella festa. «Raccontami che stai combinando in questo periodo.» «Be', c'è sempre da fare, al St. Joseph's. Mai un momento di noia», spiegò Patrick. «E poi forse preparo una mostra alla Boyce Gallery.» Oltre a essere un medico coi fiocchi, Patrick suonava il violoncello ed era un pittore di talento. Una sera, quando uscivano insieme, aveva fatto a Jessica un ritratto a pastello. Inutile dire che lei lo aveva accuratamente sepolto in garage. Lei teneva il bicchiere tra le mani. Patrick ne ordinò un altro. Si erano ritrovati completamente, flirtavano con naturalezza come ai vecchi tempi. Lo sfioramento di mani, il contatto elettrico tra piedi sotto il tavolo. Patrick le disse che si era messo a disposizione di una nuova clinica pubblica che stavano aprendo su Poplar Street. Jessica gli disse che pensava di ridipingere il soggiorno. Ogni volta che si trovava in presenza di Patrick Farrell, lei si sentiva un peso morto per la società. Verso le undici, Patrick l'accompagnò alla macchina, che era parcheggiata sulla 3rd Street. Poi arrivò il momento. Lei sapeva che sarebbe arrivato. Il whisky contribuì ad ammorbidirlo. «Allora... a cena la settimana prossima, magari?» domandò Patrick. «Be', io... Sai...» Jessica esitò, tossicchiando. «Solo amici. Nulla di sconveniente», aggiunse lui. «Be', allora lasciamo perdere. Se non è sconveniente, non conviene», scherzò Jessica. Patrick rise di nuovo. Lei aveva dimenticato quanto potesse essere magico quel suono. Era da tanto che lei e Vincent non trovavano più qualcosa di cui ridere. «Okay, certo», concluse, dopo aver cercato invano un'unica ragione per non cenare con un vecchio amico. «Perché no?»
«Splendido», disse Patrick. Si chinò a baciarle dolcemente il livido sulla guancia destra. «Trattamento preoperatorio irlandese», aggiunse. «Domattina starai meglio. Vedrai.» «Grazie, dottore.» «Ti chiamerò.» «Okay.» Patrick le strizzò l'occhio, dando il volo a qualche centinaio di passerotti nel petto di Jessica. Poi lui alzò le mani nel gesto difensivo del boxeur e le allungò ad accarezzarle i capelli. Si voltò e raggiunse la sua auto. Jessica lo guardò andar via. Si toccò la guancia e sentì il calore residuo delle labbra di lui. E non si stupì affatto di scoprire che la sua faccia cominciava già a star meglio. * In italiano nel testo. (N.d.T.) 16 Lunedì, ore 23.00 Simon Close era innamorato. Jessica Balzano era davvero incredibile. Alta, snella e sexy da morire. Il modo in cui si era sbarazzata dell'avversaria sul ring gli aveva dato, forse, la carica più micidiale che avesse mai provato in assoluto, semplicemente guardando una donna. Si sentiva come uno scolaretto, osservandola. Sarebbe stata un materiale ottimo per un articolo. E un materiale ancora migliore per una foto. Lui aveva fatto balenare il sorriso e il tesserino stampa al Blue Horizon, riuscendo a entrare con relativa facilità. D'accordo, non era come entrare al Lincoln per una partita degli Eagles, o al Wachovia Center per vedere i Sixers, comunque Simon provava un senso di orgoglio e risolutezza ogni volta che veniva trattato come uno della «stampa autorevole». Chi scriveva per i tabloid aveva di rado biglietti omaggio, non partecipava mai alle trasferte stampa ufficiali, doveva elemosinare il press kit. Aveva sbagliato a scrivere molti nomi, nella sua carriera, perché non aveva avuto un press kit decente. Dopo il match di Jessica, Simon parcheggiò a mezzo isolato dal nastro giallo della polizia, presso la scena del crimine sulla North 8th Street. Gli unici altri veicoli erano una Ford Taurus parcheggiata all'interno del peri-
metro e un furgoncino della Scientifica. Guardò il notiziario delle undici sul suo Watchman. Il primo titolo era per la ragazza assassinata. La vittima si chiamava Tessa Ann Wells, diciassette anni, di North Philly. Simon aprì subito sulle ginocchia le Pagine Bianche di Philadelphia, la torcia Maglite tra i denti. A North Philly c'erano dodici possibilità: otto erano scritte Welles, quattro Wells. Prese il cellulare e compose il primo numero. «Mr Welles?» «Sì?» «Buonasera, mi chiamo Simon Close. Sono un giornalista del Report.» Silenzio. Poi: «Sì?» «Anzitutto voglio dirle quanto mi è dispiaciuto sapere di sua figlia.» L'uomo inspirò bruscamente. «Mia figlia? È successo qualcosa a Hannah?» Ahi-ahi. «Mi scusi, devo aver sbagliato numero.» Riattaccò, compose il numero seguente. Occupato. Un altro. Stavolta era una donna. «Mrs Welles?» «Chi parla?» «Buona sera, mi chiamo Simon Close. Sono un giornalista del Report.» Clic. Stronza. Il prossimo. Occupato. Gesù, pensò lui. Non dorme più nessuno a Philly? Poi vide il sommario delle notizie su Channel 6. Chiamavano la vittima: «Tessa Ann Wells, 12th Street, North Philly». Grazie, Action News, pensò Simon. Controlliamo. Cercò il numero. Frank Wells, 12th Street. Provò, la linea era occupata. Ancora. Occupato. Ancora. Idem come sopra. Di nuovo. Di nuovo. Accidenti. Pensò di andare fin là in macchina, ma poi successe qualcosa che, come una folgore divina, cambiò tutto. 17
Lunedì, ore 23.00 La morte si era presentata senza invito, e, per punirla, il caseggiato piangeva in silenzio. La pioggia si era ridotta a una bruma sottile, che sussurrava dai fiumi, lustrava il marciapiede. La notte aveva sepolto il suo giorno in un sudario di carta trasparente. Byrne era seduto nella sua auto, di fronte al luogo dell'omicidio di Tessa Wells, sul lato opposto della strada, in preda a una spossatezza che era diventata una cosa viva dentro di lui. Attraverso la foschia, vide un fioco bagliore arancione proveniente dalla finestra del seminterrato della casa a schiera. La Scientifica sarebbe rimasta lì tutta la notte e probabilmente buona parte del giorno successivo. Infilò nel lettore un CD di musica blues. Robert Johnson cominciò a stridere e crepitare dagli altoparlanti, parlando di quel cane infernale che lo insegue.* Ti sento, pensò Byrne. Osservò il breve isolato di fatiscenti case a schiera. Le facciate un tempo graziose languivano sotto il giogo del tempo, delle intemperie e dell'incuria. Fra tutti i drammi, minimi e massimi, che si erano dispiegati dietro quei muri negli anni, sarebbe stato il profumo della morte a persistere. Quando le fondamenta sarebbero da tempo sprofondate nel terreno, la follia avrebbe ancora dimorato lì. Byrne vide un movimento nel campo sulla destra della scena del crimine. Un cane randagio lo osservava, al riparo di una piccola catasta di vecchi pneumatici, preoccupato unicamente del suo prossimo boccone di carne guasta, della sua prossima lappata d'acqua piovana. Cane fortunato. Byrne interruppe il CD, chiuse gli occhi, assorbì il silenzio. Non avevano trovato orme fresche nel campo fitto di erbacce dietro la casa della morte, né rami spezzati di recente tra la bassa sterpaglia. Chiunque avesse ucciso Tessa Wells, probabilmente non aveva parcheggiato sulla 9th Street. Lui sentì che il respiro gli restava chiuso in petto, come la notte in cui si era immerso nel fiume gelido, intrappolato nella carezza della morte insieme con Luther White... Le immagini andarono a sbattere contro la parete posteriore del suo cranio, brutali, turpi, vili. Vide gli ultimi momenti di Tessa.
L'avvicinamento avviene da davanti... L'assassino spegne i fari, rallenta, si ferma lentamente, cautamente. Spegne il motore. Scende dal veicolo, annusa l'aria. Pensa che questo luogo sia maturo per la sua follia. Un uccello rapace è più vulnerabile quando mangia, chino sul suo bottino, esposto agli attacchi dall'alto. Sa di esporsi a un rischio momentaneo. Ha scelto con cura la sua preda. Tessa Wells è la cosa che manca dentro di lui; l'idea stessa di bellezza che lui deve distruggere. La trasporta dall'altra parte della strada, a sinistra, nella casa a schiera vuota. Lì dentro non si muove nulla che abbia un'anima. L'interno è buio, la luce della luna non arriva. Il pavimento marcio è un pericolo, ma lui non si azzarda ad accendere una torcia elettrica. Non ancora. Lei è leggera tra le sue braccia. Lui è colmo di un potere terribile. Lui esce dal retro della casa. (Ma perché? Perché non la lascia nella prima casa?) È sessualmente eccitato, ma non agisce di conseguenza. (Ancora: perché?) Entra nella casa della morte. Porta Tessa Wells giù per le scale nella cantina umida e putrida. (Ci è già stato?) I ratti fuggono precipitosamente, abbandonano spaventati la loro misera carogna. Lui non ha fretta. Lì il tempo non arriva. In quel momento lui ha il controllo totale. Lui è... È... Byrne ci provò, ma non riuscì a vedere il volto dell'assassino. Non ancora. Il dolore si accese con un'intensità folgorante, feroce. Stava peggiorando. Byrne accese una sigaretta, la fumò sino al filtro senza il tormento di un solo pensiero né la benedizione di una sola idea. La pioggia ricominciò a fare sul serio. Perché Tessa Wells? si domandava, girando e rigirando tra le mani la fotografia di lei. Perché non un'altra timida ragazzina? Cosa aveva fatto Tessa per meritarsi quello? Aveva rifiutato le avance di un dongiovanni adolescente? No. Per quanto folle sembrasse ogni nuova infornata di ragazzi, sebbene ogni
generazione accrescesse a livelli iperbolici il livello di furti e violenze, quel delitto andava decisamente oltre i limiti di un ragazzino cui era stato risposto picche. Era stata scelta a caso? Se così era, Byrne sapeva che era improbabile che la cosa finisse lì. Cosa c'era di tanto speciale in quel luogo? Cos'era che lui non riusciva a vedere? Byrne sentì montare la rabbia. Il dolore gli ballava il tango sulle tempie. Spezzò un Vicodin, lo ingoiò senz'acqua. Non aveva dormito più di tre o quattro ore nelle ultime quarantotto, ma che se ne faceva del sonno? C'era del lavoro da fare. Il vento si alzò, agitando il nastro giallo vivo della polizia... Gagliardetti per la grande inaugurazione del Morte Market. Guardò nello specchietto retrovisore; vide la cicatrice sopra l'occhio destro, e il modo in cui brillava alla luce lunare. Ci passò sopra un dito. Pensò a Luther White e al modo in cui la sua calibro 22 luccicava sotto la luna nella notte in cui entrambi erano morti, al modo in cui la canna era esplosa e aveva dipinto il mondo di rosso, poi di bianco, poi di nero, tutta la tavolozza della pazzia, e al modo in cui il fiume li aveva abbracciati entrambi. Dove sei, Luther? Una mano mi farebbe comodo. Scese dall'auto, la chiuse a chiave. Sapeva che sarebbe dovuto andare a casa, ma, in un certo senso, quel luogo lo colmava della determinazione che gli serviva, della pace che provava se stava seduto in salotto durante un fresco giorno d'autunno a guardare una partita degli Eagles, con Donna che leggeva un libro sul divano accanto a lui e Colleen in camera sua a studiare. Forse sarebbe dovuto andare a casa. Ma per trovare cosa? Le sue due stanze vuote? Avrebbe bevuto un'altra pinta di bourbon, guardato un talk-show, magari un film. Alle tre si sarebbe infilato nel letto, in attesa di un sonno che non sarebbe arrivato. Alle sei si sarebbe arreso all'alba pre-sveglia e si sarebbe alzato. Lanciò un'occhiata al bagliore luminoso proveniente dalla finestra del seminterrato, vide le ombre muoversi intente, sentì il richiamo. Quelli erano i suoi fratelli, le sue sorelle, la sua famiglia. Attraversò la strada verso la casa della morte. Era quella, casa sua.
* La canzone cui si fa riferimento s'intitola Hellhound on my trail: I got to keep moving / Blues falling down like hail / And the day keeps on remindin' me / There's a hellhound on my trail (Non posso fermarmi / il blues cade come grandine / e il giorno continua a ricordarmi / che un cane infernale m'insegue). (N.d.T.) 18 Lunedì, ore 23.08 Simon si era accorto dei due veicoli. Il furgoncino bianco e blu della Scientifica riparato al fianco della casa a schiera e la Taurus parcheggiata sul bordo della strada, la Taurus che conteneva la sua nemesi, per così dire: il detective Kevin Francis Byrne. Quando Simon aveva pubblicato la notizia del suicidio di Morris Blanchard, Kevin Byrne lo aveva aspettato davanti a Downey's, un cupo pub irlandese all'angolo tra Front Street e South Street. Lo aveva messo spalle al muro e l'aveva sbatacchiato come una bambola di pezza, infine l'aveva afferrato per il bavero della giacca e l'aveva sbattuto contro un muro. Simon non era un gorilla, però era alto un metro e ottanta per settanta chili e Byrne lo aveva sollevato da terra con una mano sola. Byrne puzzava come una distilleria dopo un'inondazione e Simon si era preparato per il pandemonio. D'accordo, se l'era prese di santa ragione. Chi voleva prendere in giro? Ma, per fortuna, invece di stenderlo a pugni - cosa che, Simon dovette ammetterlo, si sarebbe anche meritato -, Byrne si era fermato, aveva guardato il cielo e lo aveva buttato via come un fazzolettino usato, lasciandolo con le costole doloranti, una spalla scassata e una polo smagliata che non sarebbe mai più tornata a posto. Per penitenza, Byrne si era beccato da Simon un'altra mezza dozzina di articoli caustici. Per un anno, Simon aveva viaggiato con una mazza da baseball Louisville Slugger in macchina e un occhio alle spalle. E lo faceva ancora. Ma tutto quello era storia antica. C'era una piega nuova. Simon aveva un paio di corrispondenti freelance che utilizzava di tanto in tanto, studenti della Tempie University che avevano sul giornalismo le
stesse idee sostenute un tempo da Simon. Facevano ricerche e qualche piantonamento, per una miseria, quanto bastava per continuare a scaricare un po' di musica da iTunes. Quello dotato di un certo potenziale, quello che sapeva davvero scrivere, era Benedict Tsu. Chiamò alle undici e dieci. «Simon Close.» «Sono Tsu.» Simon non sapeva se fosse un'abitudine asiatica o da college, fatto sta che Benedict si presentava sempre col cognome. «Che succede?» «Ha presente quel posto di cui mi ha chiesto, in riva al fiume?» Tsu stava parlando dell'edificio fatiscente sotto il Walt Whitman Bridge in cui Kevin Byrne era misteriosamente scomparso per alcune ore quella sera stessa. Simon aveva seguito Byrne, ma aveva dovuto mantenere una certa distanza. Quando Simon si era allontanato per raggiungere il Blue Horizon, aveva chiamato Tsu, chiedendogli d'indagare. «Allora?» «Si chiama Deuces.» «E cos'è?» «È una fumeria di crack.» Il mondo di Simon si mise a vorticare. «Una fumeria di crack?» «Sissignore.» «Ne sei sicuro?» «Assolutamente.» Simon si lasciò sommergere dalle possibilità. L'eccitazione era incontenibile. «Grazie, Ben. Mi terrò in contatto.» «Bu ke qi. Non c'è di che.» Simon riattaccò, meditando sulla propria fortuna. Kevin Byrne spipazzava. Quello che era diventato un impegno casuale - seguire Byrne per procurarsi una storia - si sarebbe trasformato in una magnifica ossessione. Perché, di tanto in tanto, Kevin Byrne doveva procurarsi la sua droga. E ciò significava che Kevin Byrne aveva un partner nuovo di zecca. Non una dea alta e sexy dagli ardenti occhi scuri e con un destro incrociato potente come un treno merci, ma piuttosto un ragazzo bianco tutto pelle e ossa del Northumberland. Un ragazzo bianco tutto pelle e ossa con una macchina fotografica Nikon D100 e un obiettivo a focale variabile Sigma 55-200mm. 19
Martedì, ore 5.40 Jessica stava rannicchiata in un angolo di una cantina umida e osservava una giovane inginocchiata in preghiera. La ragazza aveva all'incirca diciassette anni: era bionda, lentigginosa, con gli occhi azzurri e innocente. La luce lunare che filtrava dalla piccola finestra gettava ombre brusche sui calcinacci della cantina, creando anfratti e voragini nell'oscurità. Quando la ragazza ebbe terminato di pregare, sedette sul pavimento umido, tirò fuori una siringa ipodermica e, senza cerimonie né preparazione, si ficcò l'ago nel braccio. «Aspetta!» gridò Jessica. Attraversò rapidamente il seminterrato coperto di detriti con relativa facilità, considerando il buio e la confusione. Niente stinchi sbucciati, niente piedi sbattuti. Era come se fluttuasse. Ma, nel momento in cui aveva raggiunto la giovane, questa stava già premendo lo stantuffo. Non sei costretta a farlo, disse Jessica. Invece sì, replicò la ragazza del sogno. Tu non capisci. Sì che capisco. Non ne hai bisogno. Sì, invece. C'è un mostro che m'insegue. Jessica era a circa un metro dalla ragazza. Vide che era scalza; i suoi piedi erano rossi, scorticati e coperti di vesciche. Quando alzò gli occhi... La ragazza era Sophie. O, più precisamente, la giovane donna che Sophie sarebbe diventata. Il corpicino paffuto e le guanciotte della figlia erano svaniti, lasciando il posto alle curve di una giovane donna: gambe lunghe, vita sottile, il seno visibile sotto il lacero golfino scollato a V con lo stemma della Nazarene. Ma era il volto della ragazza ad atterrire Jessica. Il volto di Sophie era tirato e stanco, con ombre di un viola scuro sotto gli occhi. Non farlo, tesoro, la implorò. Dio, no. Guardò nuovamente e vide che adesso le mani della ragazza erano imbullonate l'una all'altra e sanguinanti. Jessica cercò di fare un passo in avanti, ma i piedi parevano congelati a terra, le gambe di piombo. Sentiva qualcosa sullo sterno. Abbassò gli occhi e le vide un ciondolo a forma d'angelo appeso al collo. Poi, di colpo, suonò una campanella. Squillante, invadente, insistente. Sembrava venire dall'alto. Jessica guardò la ragazza-Sophie. La droga aveva cominciato a prendere il controllo del sistema nervoso della giovane: i
suoi occhi rotearono e il capo s'inclinò verso l'alto. Di colpo non vi fu più il soffitto sopra di loro né il tetto. Soltanto il cielo nero. Lei seguì il suo sguardo, mentre la campana martellava ancora attraverso il firmamento. Una spada di luce dorata fendette le nuvole notturne, catturando l'argento del ciondolo, accecando Jessica per un istante, finché... Jessica aprì gli occhi e si rizzò a sedere, il cuore che batteva come un tamburo. Guardò la finestra. Nero pece. Era notte fonda e il telefono stava squillando. A quell'ora arrivavano soltanto cattive notizie. Vincent? Papà? Il telefono squillò una terza volta, senza fornire nessun indizio, nessun conforto. Lei allungò la mano, disorientata, spaventata, tremante, la testa che ancora pulsava. Sollevò la cornetta. «P-pronto?» «Sono Kevin.» Kevin? pensò lei. Chi diavolo è Kevin? L'unico Kevin che conosceva era Kevin Bancroft, il ragazzino strambo che abitava in Christian Street quando lei era piccola. Poi capì. Kevin. Il lavoro. «Sì. Certo. Okay. Dimmi pure.» «Penso che dovremmo sentire le ragazze alla fermata dell'autobus.» Arabo. Forse turco. Una lingua straniera, di sicuro. Jessica non aveva idea di che cosa significassero quelle parole. «Puoi aspettare un secondo?» gli domandò. «Certo.» Jessica fece una corsa in bagno e si spruzzò dell'acqua fredda sul viso. Il lato destro era ancora un tantino gonfio, ma le doleva molto meno della sera prima, grazie a un'ora d'impacchi col ghiaccio quand'era arrivata a casa. E anche al bacio di Patrick, naturalmente. Il pensiero la fece sorridere, il sorriso le fece male alla faccia. Era un dolore buono. Tornò di corsa al telefono, ma, prima che potesse aprir bocca, Byrne aggiunse: «Credo che otterremo di più da loro di quanto ci direbbero a scuola». «Certo», replicò lei, rendendosi improvvisamente conto che Byrne stava parlando delle amiche di Tessa Wells. «Vengo a prenderti tra venti.» Per un momento, lei pensò che lui intendesse venti minuti. Lanciò un'occhiata alla sveglia. 5.40. Intendeva proprio venti minuti. Per fortuna, il marito di Paula Farinacci usciva per andare al lavoro a Camden entro le sei, sicché lei era sveglia. Jessica poteva lasciare Sophie da Paula e avere il
tempo sufficiente per una doccia. «D'accordo. Okay, ottimo. Nessun problema. A presto, allora.» Riattaccò e slanciò le gambe oltre la sponda del letto. Benvenuta alla Omicidi. 20 Martedì, ore 6.00 Byrne la stava aspettando con un caffè abbondante e una ciambella ai semi di sesamo. Il caffè era forte e caldo, la ciambella fresca. Sia benedetto Byrne. Jessica si affrettò sotto la pioggia, s'infilò in macchina e fece un cenno simbolico di saluto. Per dirla con delicatezza, lei non era una persona mattiniera, certo non una persona da sei del mattino. Sperava ardentemente di essersi messa due scarpe uguali. Si addentrarono nella città in silenzio; Kevin Byrne rispettava lo spazio e il rituale di risveglio di lei, rendendosi conto di averle imposto lo shock del nuovo giorno senza tante cerimonie. Lui, d'altro canto, sembrava sveglissimo. Un po' arruffato, ma con gli occhi spalancati e all'erta. Per gli uomini era così facile, pensò Jessica. Camicia pulita, rasatura in auto, una spruzzatina di Binaca spray, una goccia di collirio, pronti per la giornata. Raggiunsero North Philly in un lampo. Parcheggiarono vicino all'angolo tra la 19th Street e Poplar Street. Byrne accese la radio alla mezz'ora. Parlavano della storia di Tessa Wells. Con mezz'ora di attesa, si misero comodi. Di tanto in tanto, Byrne girava la chiavetta per azionare i tergicristalli e gli sbrinatori. Cercarono di parlare delle notizie, del tempo, del lavoro. Il sottotesto continuava a balzare avanti con prepotenza. Le figlie. Tessa Wells era figlia di qualcuno. Quella consapevolezza continuava ad allacciarli all'anima brutale del delitto. Avrebbe potuto essere la loro figlia. «Farà tre anni il mese prossimo», disse Jessica. Mostrò a Byrne una fotografia di Sophie. Lui sorrise. Jessica lo sapeva, che lui aveva un cuore tenero. «Sembra una piccola peste.»
«Due piccole pesti», ribatté lei. «Sai come sono, a quell'età. Si affidano a te per tutto.» «Già.» «Ti manca, quel periodo?» «Me lo sono perso, quel periodo», rispose Byrne. «All'epoca facevo turno doppio.» «Quanti anni ha tua figlia, ora?» «Tredici.» «Ahi, ahi», fece Jessica. «'Ahi, ahi' è un eufemismo.» «Allora... Ha riempito casa dei CD di Britney?» Byrne sorrise ancora, fiaccamente, stavolta. «No.» «Ossignore. Non dirmi che le piace il rap.» Byrne girò il caffè un paio di volte. «Mia figlia è sorda.» «Santo cielo. Mi... dispiace», reagì Jessica, all'improvviso mortificata. «Non è il caso. Tranquilla.» «Cioè... Io proprio non...» «Tranquilla. Davvero. Lei odia la pietà. Ed è molto più dura di te e me messi insieme.» «Io volevo dire che...» «Lo so cosa volevi dire. Mia moglie e io abbiamo sopportato anni di 'mi dispiace'. È una reazione naturale. Ma a essere proprio sincero, devo ancora conoscere una persona sorda che si consideri handicappata. Specialmente Colleen.» Essendo stata lei a intavolare l'argomento, Jessica pensò che tanto valeva continuare. E lo fece, con dolcezza. «È nata sorda?» Byrne annuì. «Sì. Si chiama 'displasia di Mondini'. È una disfunzione genetica.» Il pensiero di Jessica andò a Sophie, che ballava per il salotto al suono di una canzone di Sesame Street. O a Sophie che cantava a squarciagola nella vasca, in mezzo alla schiuma. Come la madre, Sophie era più stonata di una campana, ma ci provava con grande impegno. Lei pensò alla sua bambina sveglia, sana, bellissima e rifletté sulla propria fortuna. Tacquero entrambi. Byrne azionò i tergicristalli e lo sbrinatore. Il parabrezza cominciò a rischiararsi. Le ragazze non erano ancora arrivate all'angolo. Il traffico su Poplar Street s'intensificava. «Una volta la guardavo», cominciò lui, in tono un po' malinconico, come se non parlasse della figlia da un pezzo. Il desiderio di farlo era evidente.
«Dovevo andare a prenderla alla scuola per sordi ed ero un po' in anticipo. Allora ho accostato per fumarmi una cicca, leggere il giornale. Comunque, vedo questo gruppo di ragazzetti all'angolo, sette od otto. Hanno dodici, tredici anni. Non presto loro nessuna attenzione, in realtà. Vanno tutti vestiti come straccioni, no? Braghe cascanti, camicioni appesi, scarpe da ginnastica slacciate. All'improvviso vedo Colleen là ferma, appoggiata al palazzo, ed è come se non la conoscessi. Come se fosse una ragazzina che somiglia a Colleen. Di colpo, tutti gli altri ragazzi m'interessano sul serio. Chi fa cosa, chi ha cosa, chi indossa cosa, che fanno le loro mani, cosa tengono in tasca. È come se li stessi perquisendo tutti.» Sorseggiò il suo caffè, lanciò un'occhiata all'angolo. Ancora nessuno. «Lei se ne sta lì, con quei ragazzi più grandi, sorridendo, chiacchierando nella lingua dei segni, gettando all'indietro i capelli», continuò. «E io penso: Gesù Cristo. Sta civettando. La mia bambina sta civettando con quei ragazzi. La mia bambina che, soltanto qualche settimana fa, montava sulla sua Big Wheel e pedalava per la strada con una magliettina gialla con su scritto WILDWOOD ROBA DELL'ALTRO MONDO, civetta coi ragazzi. Avevo voglia di riempire d'insulti quei coglioncelli arrapati. Poi vedo uno di loro accendersi uno spinello e, cazzo, mi si ferma il cuore. Lo sento proprio che perde colpi nel petto, come un orologio scassato. Sto quasi per scendere dalla macchina con le manette, quando mi rendo conto dell'effetto che farebbe a Colleen, perciò mi limito a guardare. Se lo passavano a vicenda, tranquilli, proprio lì sull'angolo, come se fosse legale, sai? E io guardo. Poi uno dei ragazzi offre lo spinello a Colleen e io sapevo, sapevo, che lei l'avrebbe accettato e fumato. Sapevo che l'avrebbe preso e aspirato una lunga, lenta boccata di quella canna, e di colpo ho visto i successivi cinque anni della sua vita. Erba, alcol, coca, centri di recupero, disintossicazione a Sylvan Springs per riguadagnare voti a scuola, poi altra droga, le pillole, e poi... Poi è successa la cosa più incredibile.» Jessica si rese conto di fissare Byrne, rapita, in attesa della conclusione. Si riprese, lo incitò: «Okay, cosa è successo?» «Lei... ha scosso la testa. Tutto qui. No, grazie. In quel momento avevo dubitato di lei, avevo completamente mancato di fiducia nella mia bambina, e avrei voluto cavarmi gli occhi. Mi era stata data l'occasione di fidarmi di lei, del tutto inosservato, e ho sbagliato. Io ho sbagliato. Non lei.» Jessica annuì, cercando di non pensare che avrebbe dovuto affrontare lei stessa un momento del genere con Sophie tra una decina d'anni. Di certo non era impaziente.
«E all'improvviso ho capito. Dopo tutti questi anni di preoccupazione, tutti questi anni passati a trattarla come se fosse fragile, tutti questi anni a camminare sul marciapiede dal lato della strada, tutti questi anni a far abbassare lo sguardo agli idioti che la guardavano parlare con le mani e la consideravano uno scherzo di natura... Ho capito che era tutto inutile. Lei è dieci volte più dura di me. Potrebbe prendermi a calci in culo.» «I ragazzini sono sempre una sorpresa.» Jessica si rese conto di quanto suonassero inadeguate quelle parole, e di quanto lei fosse completamente ignorante in materia. «Voglio dire, fra tutte le cose che si temono per i propri figli - diabete, leucemia, artrite reumatoide, cancro -, be', la mia bambina era sorda. Tutto qui. A parte quello, è perfetta. Cuore, polmoni, occhi, gambe e braccia, testa. Perfetta. Può correre come il vento, saltare in alto. E ha un sorriso... Un sorriso che scioglie i ghiacciai. Per tutto questo tempo ho pensato che fosse handicappata perché non poteva sentire. Invece ero io. Sono io quello che ha bisogno di un telethon del cacchio. Non mi ero reso conto di quanto fossimo fortunati.» Jessica non sapeva cosa dire. Aveva erroneamente giudicato Kevin Byrne un tipo scafato, che si faceva strada a forza di muscoli nella vita e nel lavoro, uno guidato più dall'istinto che dall'intelletto. Lì c'era in ballo molto più di quanto lei avesse intuito. All'improvviso, si sentì come se avesse vinto alla lotteria, ad averlo come partner. Ma, prima che potesse reagire, due ragazzine raggiunsero l'angolo, gli ombrelli aperti e dritti contro la pioggerella. «Eccole là», disse Byrne. Jessica mise il coperchio al suo caffè e si abbottonò l'impermeabile. «Questo è più terreno tuo.» Byrne fece un cenno in direzione delle ragazze, accese una sigaretta e sprofondò nel comodo - cioè asciutto - sedile. «Dovresti pensare tu alle domande.» Bene, pensò lei. Non c'entra niente col prendersi la pioggia alle sette del mattino, suppongo. Aspettò una pausa del traffico, scese dall'auto, attraversò la strada. All'angolo c'erano due ragazze con la divisa scolastica della Nazarene. La prima era alta, di pelle scura, col reticolo di treccine più elaborato che Jessica avesse mai visto. Era alta almeno un metro e ottanta e di una bellezza sconvolgente. La seconda era bianca, minuta e di ossatura piccola. Entrambe avevano l'ombrello in una mano e fazzolettini di carta appallottolati nell'altra. Entrambe avevano gli occhi rossi e gonfi. Evidentemente
avevano già saputo di Tessa. Jessica si avvicinò, mostrò loro il distintivo, disse che stava indagando sulla morte di Tessa. Loro accettarono di parlare con lei. Si chiamavano Patrice Regan e Ashia Whitman. Ashia era somala. «Avete visto Tessa, venerdì?» domandò Jessica. Scossero il capo simultaneamente. «Non è venuta alla fermata?» «No», disse Patrice. «Faceva molte assenze?» «Non molte. Una ogni tanto», rispose Ashia, tirando su col naso. «Era tipo da marinare la scuola?» «Tessa?» fece Patrice, incredula. «Neanche per idea. Cioè, mai.» «Cosa avete pensato quando non l'avete vista?» «Che non stesse bene o qualcosa del genere», disse Patrice. «O forse era per via di suo papà. Lui è molto malato, sa. Certe volte lei doveva accompagnarlo all'ospedale.» «L'avete chiamata o le avete parlato durante la giornata?» «No.» «Conoscete qualcuno che potrebbe aver parlato con lei?» «No. Non che io sappia», rispose Patrice. «E la droga? Era coinvolta in giri di droga?» «Dio mio, no! Era una specie di suor Maria Antidroga», dichiarò Patrice. «L'anno scorso, quand'è stata assente per tre settimane, le avete parlato spesso?» Patrice lanciò un'occhiata ad Ashia. C'erano segreti sepolti, in quell'occhiata. «Non proprio.» Decise di non insistere. Consultò i suoi appunti. «Voi conoscete un ragazzo di nome Sean Brennan?» «Sì, io lo conosco. Ashia non l'ha mai incontrato, che io sappia», replicò Patrice. Jessica guardò Ashia, che scrollò le spalle. «Per quanto tempo si sono frequentati?» domandò. «Non saprei. Forse un paio di mesi», riferì Patrice. «Tessa lo vedeva ancora?» «No. La famiglia di Sean si è trasferita», rispose Patrice. «Dove?» «A Denver, credo.» «Quando?»
«Non so, circa un mese fa.» «Sai dove andava a scuola Sean?» «Alla Neumann», disse Patrice. Jessica prese appunti. Il taccuino cominciava a bagnarsi. Se lo infilò in tasca. «Hanno rotto?» «Sì. Tessa era parecchio sconvolta.» «Cosa puoi dirmi di Sean? Aveva un brutto carattere?» Patrice si limitò a scrollare le spalle. In altre parole: sì, ma lei non voleva mettere nei pasticci nessuno. «Lo hai mai visto fare del male a Tessa?» «No. Niente del genere. Era soltanto... Soltanto un ragazzo. Sa com'è.» Jessica aspettava altro. Ma altro non arrivava. Passò oltre. «Vi viene in mente qualcuno con cui Tessa non andava d'accordo? Qualcuno che potrebbe averle voluto fare del male?» Quella domanda fece riaprire i rubinetti. Le due ragazze si misero a piangere e a tamponarsi gli occhi. Scossero la testa. «Ha frequentato qualcun altro, dopo Sean? Qualcuno che potrebbe averla infastidita?» Le ragazze rifletterono per qualche istante, poi scossero ancora la testa simultaneamente. «Tessa vedeva mai il dottor Parkhurst a scuola?» «Certo», disse Patrice. «Lui le piaceva?» «Sì, penso di sì.» «Il dottor Parkhurst l'aveva mai incontrata fuori dalla scuola?» continuò Jessica. «Fuori?» «Amichevolmente, cioè.» «Cosa? Come se stessero insieme, o roba del genere?» domandò Patrice. Fece una smorfia al pensiero che Tessa potesse uscire con un uomo decrepito, un trentenne. Come se... «Oh, no.» «Voi ci andate mai per avere assistenza, consigli?» «Certo. Ci vanno tutte», spiegò Patrice. «Di che argomenti parlate?» Patrice ci pensò su per qualche istante. Jessica capì che la ragazza nascondeva qualcosa. «Scuola, più che altro. Domande d'iscrizione al college, test di ammissione, roba così.» «Non parlate mai di cose personali?»
Occhi a terra. Di nuovo. Bingo, pensò Jessica. «Qualche volta», ammise Patrice. «Che genere di argomenti personali?» insistette lei, ricordando suor Mercedes, consulente della Nazarene quando la frequentava lei. Suor Mercedes aveva la corporatura di John Goodman e un cipiglio perenne. L'unico argomento personale di cui si parlava con suor Mercedes era la promessa di non fare sesso prima dei quarant'anni. «Non saprei», fece Patrice, interessandosi nuovamente alle proprie scarpe. «Roba.» «Parlavate dei ragazzi che frequentavate? Cose di questo genere?» «Qualche volta», intervenne Ashia. «Vi ha mai chiesto di parlare di argomenti che trovavate imbarazzanti? O magari un po' troppo personali?» «Non credo. Non che io ricordi, ecco», dichiarò Patrice. Jessica si accorse che la stava perdendo. Tirò fuori un paio di biglietti da visita e li porse alle due ragazze. «Sentite, lo so che è dura... Se vi venisse in mente qualcosa che può aiutarci a trovare chi lo ha fatto, fatevi sentire. O anche solo per parlare. Qualunque cosa. D'accordo? Di giorno o di notte.» Ashia prese il biglietto, rimase in silenzio, le lacrime che ricominciavano a traboccare. Patrice prese il biglietto e annuì. Simultaneamente, come dolenti sincronizzate, le due ragazze sollevarono i fazzoletti appallottolati e si tamponarono gli occhi. «Sono andata anch'io alla Nazarene», aggiunse Jessica. Le due ragazze si guardarono come se lei avesse appena detto di aver frequentato la scuola di magia di Hogwarts. «Sul serio?» domandò Ashia. «Certo. Voi ragazze incidete ancora le scritte sotto il palco del vecchio auditorium?» «Oh, sì», confermò Patrice. «Be', se guardate proprio sotto il montante della scala che porta sotto il palco, sul lato destro, c'è inciso JG E BB 4EVER.» «Era lei?» Patrice osservò il biglietto da visita con aria interrogativa. «Allora ero Jessica Giovanni. L'ho inciso in terza liceo.» «Chi era BB?» s'informò Patrice. «Bobby Bonfante. Andava al Father Judge.» Le ragazze annuirono. Gli studenti del Father Judge erano quasi tutti de-
cisamente irresistibili. Jessica aggiunse: «Sembrava Al Pacino». Le due ragazze si scambiarono un'occhiata, come a dire: Al Pacino? Ma non ha l'età di, diciamo, nostro nonno? «È quel vecchio che c'era nella Regola del sospetto con Colin Farrell?» domandò Patrice. «Un Al Pacino giovane», precisò. Le ragazze sorrisero. Tristemente, ma sorrisero. «E poi è durata 4ever, per sempre, con Bobby?» volle sapere Ashia. Jessica avrebbe voluto dir loro che non succede mai. «No. Ora Bobby vive a Newark. Cinque figli.» Le ragazze annuirono ancora, mostrando profonda comprensione dell'amore e della perdita. Jessica le aveva riconquistate. Era il momento di sospendere. Con loro avrebbe ripreso più avanti. «A proposito, quando cominciate le vacanze di Pasqua?» domandò Jessica. «Domani», rispose Ashia, i cui singhiozzi erano quasi cessati. Jessica si tirò su il cappuccio. La pioggia le aveva già rovinato l'acconciatura, se così si poteva chiamarla, e adesso stava cominciando a venir giù forte. «Posso chiederle una cosa?» disse Patrice. «Certo.» «Perché... è diventata poliziotta?» Ancora prima della domanda di Patrice, Jessica aveva avuto la sensazione che la ragazza le avrebbe chiesto proprio quello. Ma la cosa non semplificava affatto la risposta. Non lo sapeva bene neppure lei. C'era il suo retaggio, c'era la morte di Michael. C'erano ragioni che neppure lei conosceva ancora. Infine disse, modesta: «Mi piace aiutare la gente». Patrice si tamponò ancora una volta gli occhi. «Non le viene mai, insomma, un po' di fifa?» volle sapere. «Sa, stare vicino ai...» Ai morti, concluse mentalmente Jessica. «Sì. Qualche volta», confessò. Patrice annuì, trovando un punto d'incontro con la donna. Indicò Kevin Byrne, seduto nella Taurus dall'altro lato della strada. «Quello è il suo capo?» Jessica lo guardò, tornò a fissare la ragazza, sorrise. «No, è il mio partner.» Patrice assimilò il concetto. Sorrise tra le lacrime, forse comprendendo che Jessica apparteneva soltanto a se stessa, e disse semplicemente: «Fico».
Jessica si scrollò di dosso quanta più pioggia poté e s'infilò in macchina. «Hai qualcosa?» domandò Byrne. «Non proprio», replicò lei, consultando il taccuino. Era fradicio. Lo gettò sul sedile posteriore. «La famiglia di Sean Brennan si è trasferita a Denver circa un mese fa. Dicono che Tessa non frequentava nessun altro. Secondo Patrice lui era un po' una testa calda.» «Vale la pena di guardare?» «Non direi. Farò chiamare il provveditorato di Denver. Per controllare se il giovane Mr Brennan ha fatto assenze, di recente.» «E il dottor Parkhurst?» «Lì c'è qualcosa. Lo sento.» «Che ti dice la pancia?» «Credo che parlino con lui di questioni personali. Secondo me loro pensano che lui vada un po' troppo sul personale.» «Credi che Tessa lo frequentasse?» «Se lo faceva, non l'ha confidato alle sue amiche. Ho chiesto loro del periodo di tre settimane di permesso di Tessa dello scorso anno. Sono diventate un po' strane. A Tessa è successo qualcosa, nel periodo del Ringraziamento, l'anno scorso.» Per qualche istante, l'indagine si arrestò e i loro pensieri distinti seguirono soltanto il ritmo intermittente della pioggia sul tetto dell'auto. Il telefono di Byrne squillò mentre lui avviava la Taurus. Aprì di scatto il cellulare. «Byrne... Sì... Sì... Notevole», disse. «Grazie.» Richiuse il cellulare. Jessica guardò Byrne, in attesa. Quando fu chiaro che lui non intendeva metterla a parte della novità, lei si decise a fare una richiesta esplicita. Se, per carattere, lui era reticente, lei era indiscreta. Se volevano che il loro rapporto funzionasse, avrebbero dovuto trovare un modo di comporre il puzzle. «Buone notizie?» Byrne alzò gli occhi su di lei, come se avesse dimenticato che si trovava in macchina. «Sì. Il laboratorio ha appena trovato una prova. Hanno confrontato un capello con reperti trovati su una vittima. Quel bastardo è mio.» Le riassunse brevemente il caso di Gideon Pratt. Jessica sentiva la passione nella sua voce, il profondo senso di rabbia repressa mentre parlava della morte brutale e insensata di Deirdre Pettigrew. «Devo fare una piccola sosta», disse lui.
Qualche minuto dopo, si fermarono di fronte a un'orgogliosa ma sofferente casa a schiera di Ingersoll Street. La pioggia veniva giù a grandi scrosci freddi. Quando scesero dall'auto e si avvicinarono alla casa, Jessica vide una donna nera fragile, di pelle non troppo scura, sui quarant'anni, in piedi sulla soglia. Portava una vestaglia imbottita e occhiali fumé troppo grandi. I capelli erano avvolti in un foulard africano multicolore; i piedi erano infilati in sandali di plastica bianchi di almeno due misure troppo grandi. Quando vide Byrne, la donna si portò la mano sullo sterno, come se la vista dell'uomo le togliesse la capacità di respirare. Probabilmente, le brutte notizie salivano quelle scale da una vita, e probabilmente uscivano tutte dalle labbra di persone che somigliavano a Kevin Byrne. Uomini bianchi grandi e grossi che facevano gli sbirri, gli agenti del fisco, i padroni di casa. Mentre salivano quei gradini sgretolati, Jessica notò una fotografia sbiadita dal sole, 20 per 25, alla finestra del salotto, una pallida stampa fatta con una fotocopiatrice a colori. Era l'ingrandimento di una foto scolastica che ritraeva una sorridente ragazza nera sui quindici anni. Aveva una spessa fascetta rosa tra i capelli e perline tra le trecce. Portava un apparecchio per i denti e sembrava sorridente nonostante la gran ferraglia che aveva in bocca. La donna non li invitò a entrare, ma, grazie al cielo, c'era una piccola tenda sopra la sua verandina, a proteggerli dal diluvio. «Mrs Pettigrew, questa è la mia partner, il detective Balzano.» La donna fece un cenno con la testa a Jessica, ma continuò a stringersi la vestaglia sulla gola. «Avete...» cominciò. «Sì. L'abbiamo preso, signora. È stato arrestato.» Althea Pettigrew si coprì la bocca con la mano. Gli occhi le si colmarono di lacrime. Jessica vide che la donna aveva un anello al dito, ma la pietra non c'era più. «Cosa... succede ora?» domandò, il corpo vibrante di attesa. Era chiaro che aveva pregato a lungo per quel giorno e che lo temeva. «Questo lo decideranno la procura distrettuale e l'avvocato di quell'uomo», replicò Byrne. «Verrà incriminato, e poi ci sarà un'udienza preliminare.» «Crede che potrebbe...?» Byrne le prese la mano e scosse la testa. «Non uscirà. Farò tutto quello
che posso per assicurarmi che non vada mai più in giro.» Jessica sapeva quante cose potevano andare storte, specie in un caso che poteva finire con la condanna a morte del colpevole. Apprezzava l'ottimismo di Byrne; in quel momento, era il sentimento giusto da comunicare. Quando lei lavorava nell'Unità Auto, era già difficile dire alla gente che avrebbe sicuramente riavuto indietro la propria automobile. «Dio la benedica», disse la donna, poi quasi si gettò tra le braccia di Byrne, mentre i suoi gemiti si tramutavano in singhiozzi veri e propri. Lui l'abbracciò cautamente, come se fosse fatta di porcellana. I suoi occhi incontrarono quelli di Jessica, che dicevano: Ecco perché. Lei alzò lo sguardo sull'immagine di Deirdre Pettigrew alla finestra. Si domandò se, quel giorno, la foto sarebbe stata tolta. Althea si ricompose un poco e disse: «Aspettate qui, d'accordo?» «Certo», disse Byrne. Althea Pettigrew scomparve all'interno per qualche istante, ricomparve, e mise qualcosa in mano a Kevin Byrne. Coprì la mano di lui con la propria, chiudendola. Quando Byrne aprì la mano, Jessica vide quello che la donna gli aveva dato. Era una banconota da venti dollari, parecchio logora. Lui la fissò per qualche istante, un po' sconcertato, come se non avesse mai visto la valuta americana. «Mrs Pettigrew, io... Non posso accettarlo.» «So che non è molto, ma per me significherebbe moltissimo», spiegò lei. Byrne lisciò la banconota, apparentemente cercando di organizzare i propri pensieri. Attese qualche istante, poi restituì i venti dollari. «Non posso. Sapere che l'uomo che ha fatto quella cosa terribile a Deirdre è stato arrestato mi basta come compenso, mi creda.» Althea Pettigrew scrutò il grosso agente di polizia di fronte a sé con un'espressione delusa e rispettosa. Lentamente, con riluttanza, riprese il denaro. Lo mise nella tasca della vestaglia. «Allora deve prendere questo», insisté. Si portò le mani dietro il collo e sganciò la sottile catenella d'argento. Alla catena era appeso un piccolo crocifisso d'argento. Quando lui cercò di respingerla, gli occhi di Althea Pettigrew gli dissero che non avrebbe accettato un rifiuto. Non stavolta. La tenne sollevata finché Byrne non la prese. «Io, ehm... Grazie, signora», fu tutto ciò che riuscì a dirle. Jessica pensò: Ieri Frank Wells, oggi Althea Pettigrew. Due genitori separati da interi mondi e appena qualche isolato, uniti in un dolore e un pa-
timento inimmaginabili. Sperava che avrebbero ottenuto gli stessi risultati per Frank Wells. Anche se probabilmente lui stava facendo del suo meglio per mascherarlo, mentre tornavano alla macchina Jessica notò una certa leggerezza nel passo di Byrne. E ciò nonostante il diluvio e nonostante la crudezza del caso in cui erano impegnati. Lei lo capiva. Tutti gli sbirri lo capivano. Kevin Byrne stava cavalcando un'onda, una piccola increspatura di soddisfazione ben nota ai professionisti dell'ordine pubblico: dopo tanto duro lavoro, le tessere del domino cominciavano a cadere, tracciando un disegno bellissimo, una nitida immagine, priva di margini, detta giustizia. Poi c'era l'altra faccia della medaglia. Prima che potessero salire sulla Taurus, il telefono di Byrne squillò nuovamente. Lui rispose e rimase in attesa per qualche istante, col volto inespressivo. «Dacci un quarto d'ora», disse infine. Chiuse di scatto il telefono. «Cosa c'è?» domandò Jessica. Byrne serrò la mano a pugno, fece per sbatterla contro il parabrezza, si fermò. A stento. Tutte le sensazioni appena provate erano svanite in un istante. «Che cosa?» Lui trasse un respiro profondo, espirò lentamente e disse: «Hanno trovato un'altra ragazza». 21 Martedì, ore 8.25 I Bartram Gardens erano i giardini botanici più antichi degli Stati Uniti: li aveva frequentati Benjamin Franklin e infatti il fondatore del parco, John Bartram, aveva dato a una pianta il nome dell'illustre personaggio. Situati tra la 54th Street e Lindbergh Boulevard, i quarantacinque acri vantavano un paesaggio fatto di prati di fiori selvatici, sentieri lungo il fiume, paludi, case in pietra e masserie. Quel giorno ospitavano la morte. Un'auto di pattuglia della polizia e un'auto civetta erano parcheggiate accanto al River Trail quando Byrne e Jessica arrivarono. Era già stato marcato un perimetro intorno a quello che sembrava un mezzo acro di narcisi. Mentre Byrne e Jessica si avvicinavano alla scena, era facile capire come fosse stato possibile non accorgersi del corpo.
La giovane era distesa supina in mezzo ai fiori di colore intenso; le mani erano giunte in preghiera all'altezza della vita e reggevano un rosario nero. Jessica vide immediatamente che una delle decine di grani mancava. Si guardò intorno. Il corpo era collocato a quattro metri e mezzo dal margine del campo e, salvo per un sentierino di fiori calpestati, probabilmente opera del medico legale, non c'erano vie d'ingresso evidenti al campo. La pioggia aveva certamente lavato via qualunque impronta. Se nella casa a schiera sulla North 8th Street c'era abbondanza di possibilità per le indagini scientifiche, lì fuori, dopo ore di pioggia torrenziale, non ce ne sarebbe stata nessuna. C'erano due detective ai margini della scena del crimine: un ispanico esile, con un completo italiano dall'aria costosa, e un uomo più basso, molto massiccio, che Jessica riconobbe. Lo sbirro col vestito italiano sembrava preoccupato che la pioggia rovinasse il suo Valentino. Almeno quanto stava rovinando l'indagine. In quel momento, se non altro. Jessica e Byrne si avvicinarono, osservando la vittima. La ragazza indossava una gonna scozzese blu marine e verde, calzettoni blu al ginocchio, mocassini di cuoio. Jessica riconobbe quell'abbigliamento come la divisa del liceo Regina, una scuola cattolica femminile di North Broad Street, a North Philly. Aveva capelli nero corvino tagliati a caschetto e, a quanto Jessica poté vedere, una mezza dozzina di piercing alle orecchie e uno al naso, senza gioielli. Evidentemente la ragazza faceva la dark nel fine settimana ma, a causa del rigoroso codice di abbigliamento della sua scuola, in classe non indossava ferraglia. Jessica guardò le mani della giovane; benché non volesse accettare la verità, eccola lì. Le mani erano imbullonate insieme in preghiera. Fuori dalla portata d'orecchio degli altri, si rivolse a Byrne, a bassa voce. «Hai mai avuto un caso come questo?» Byrne non ebbe bisogno di pensarci a lungo. «No.» Gli altri due detective si avvicinarono, portando con sé - grazie al cielo ampi ombrelli da golf. «Jessica, ti presento Eric Chavez e Nick Palladino.» I due salutarono con un cenno del capo. Jessica ricambiò. Chavez aveva il tipico fascino latino: ciglia lunghe, pelle liscia, sui trentacinque anni. Lei lo aveva visto alla Roundhouse il giorno prima. Era chiaramente il fighetto della squadra. In ogni sezione ce n'era uno: il tipo di sbirro che, durante un piantonamento, si portava una gruccia di legno bella grossa, per appendere la giacca dietro il posto di guida, e uno strofinaccio, da infilarsi sotto il col-
letto della camicia quando mangiava il cibo spazzatura che si era costretti a consumare durante i piantonamenti. Anche Nick Palladino era ben vestito, ma in stile South Philly: giacca di pelle, pantaloni sportivi su misura, mocassini lucidi, braccialetto d'oro col nome inciso. Era sui quarant'anni, occhi infossati color cioccolato, lineamenti rocciosi; i capelli neri erano pettinati all'indietro. Jessica aveva già incontrato Nick Palladino; era stato partner di suo marito alla Narcotici prima di passare alla Omicidi. La donna strinse la mano a entrambi. «Piacere di conoscerti», disse a Chavez. «Idem», replicò lui. «Lieta di rivederti, Nick.» Palladino sorrise. Un sorriso denso di pericoli. «Come stai, Jess?» «Sto bene.» «E la famiglia?» «Tutti bene.» «Benvenuta allo show», aggiunse lui. Anche Nick Palladino era entrato nella squadra da meno di un anno, ma era decisamente nel suo elemento. Probabilmente aveva saputo della sua separazione da Vincent, ma era un gentiluomo. Quello non era né il momento né il luogo. «Eric e Nick sono della Sezione Latitanti», aggiunse Byrne. La Sezione Latitanti costituiva un terzo della Omicidi. La Sezione Indagini Speciali e l'Unità Pronto Intervento (la sezione che gestiva i casi nuovi) erano gli altri due. Quando si presentava un caso grosso, oppure ogni volta che la ruota si metteva a girare in modo incontrollabile, tutti gli sbirri della Omicidi erano coinvolti. «Qualche segno d'identificazione?» domandò Byrne. «Ancora niente», rispose Palladino. «Niente nelle tasche. Né borsetta, né portafoglio.» «Andava al Regina», li informò Jessica. Palladino lo scrisse. «È quella scuola sulla North Broad Street?» «Già. North Broad Street angolo Cecil B. Moore Avenue.» «Stesso modus operandi del vostro caso?» domandò Chavez. Kevin Byrne si limitò ad annuire. L'idea, il semplice pensiero di trovarsi di fronte un serial killer, faceva serrare le mascelle a tutti loro e gettava sulla giornata una cappa ancor più pesante. Meno di ventiquattr'ore prima, quello spettacolo era andato in scena nel-
lo scantinato umido e putrido di una casa a schiera sulla North 8th Street, e ora rieccolo lì, in un lussureggiante giardino di allegri fiorellini. Due ragazze. Due ragazze morte. I quattro poliziotti guardarono Tom Weyrich inginocchiarsi accanto al corpo. Lui sollevò la gonna della ragazza, la esaminò. Quando si alzò e si girò a guardarli, il suo volto era cupo. Jessica capì cosa significava. Quella ragazza, morendo, aveva subito la stessa umiliazione di Tessa Wells. Guardò Byrne. Una rabbia profonda montava in lui, qualcosa di primordiale e d'inestirpabile, qualcosa che andava ben oltre il lavoro, il senso del dovere. Qualche istante dopo, Weyrich si unì a loro. «Da quanto tempo è qui?» chiese Byrne. «Almeno quattro giorni», dichiarò Weyrich. Jessica fece due più due e una brina gelata le si posò sul cuore. Quella ragazza era stata abbandonata lì all'incirca mentre Tessa Wells veniva rapita. Quella era stata uccisa per prima. Dal suo rosario mancava una decina di grani. Da quello di Tessa ne mancavano due decine. E ciò significava che, tra le centinaia di domande che aleggiavano sopra le loro teste, c'era un'unica realtà, un unico fatto atroce evidente in quel marasma d'incertezza. Qualcuno stava uccidendo le studentesse cattoliche di Philadelphia. A quanto sembrava, la barbarie era appena cominciata. PARTE TERZA 22 Martedì, ore 12.15 La task force per il killer del rosario fu messa insieme entro mezzogiorno. Di regola, le task force venivano organizzate e autorizzate dai grandi capi del dipartimento, e sempre dopo una valutazione sull'impatto politico delle vittime. Nonostante la retorica secondo cui tutti gli omicidi sono uguali, gli uomini e le risorse si rendono sempre disponibili più rapidamente
quando le vittime sono importanti. Se qualcuno fa fuori trafficanti di droga, membri di una qualche gang o battone è un conto; se vengono uccise studentesse delle scuole cattoliche è un altro. C'è il voto dei cattolici. Entro mezzogiorno, buona parte del lavoro pratico e delle indagini preliminari di laboratorio era già stata avviata. I rosari che le due ragazze tenevano in mano erano identici, reperibili presso una dozzina di negozi di articoli religiosi di Philadelphia. Al momento, gli investigatori stavano compilando un elenco di clienti. I grani mancanti non erano stati ritrovati sulla scena dei delitti. Secondo il rapporto preliminare del medico legale, per praticare il foro nelle mani delle vittime l'assassino aveva usato un trapano con punta in carbonio e anche il bullone usato per congiungere le mani era un oggetto d'uso comune, un bullone a testa tonda galvanizzato di dieci centimetri, reperibile in qualsiasi negozio di ferramenta o di bricolage. Su nessuna delle due vittime erano state trovate impronte digitali. La croce sulla fronte di Tessa era di gesso blu. Le analisi non avevano ancora definito il tipo. Tracce dello stesso materiale erano presenti sulla fronte della seconda vittima. Oltre alla piccola stampa di William Blake trovata su Tessa Wells, c'era un oggetto che la seconda vittima stringeva tra le mani, un piccolo segmento d'osso, lungo all'incirca otto centimetri. Appariva molto affilato, e il tipo o la specie non erano ancora stati individuati. Queste due informazioni non erano state comunicate ai media. E neppure il fatto che entrambe le vittime erano state drogate. Ma ora c'erano nuove prove. Oltre al Midazolam, le analisi avevano confermato la presenza di un farmaco ancora più insidioso. Entrambe le ragazze avevano nell'organismo un farmaco chiamato Pavulon: paralizzava le vittime, ma non aveva nessun effetto sul dolore. I cronisti dell'Inquirer e del Daily News, come pure le televisioni e le radio locali, si erano mantenuti cauti, fino ad allora, nel definire gli omicidi opera di un serial killer, ma il Report, quel fogliaccio da incartarci il pesce, pubblicato in due stanzette striminzite di Sansom Street, non aveva simili pudori. Chi uccide le ragazze del rosario? strillava il titolo sul sito Internet del giornale. La task force si riunì nella sala di ritrovo al pianterreno della Roundhouse. C'erano sei detective in tutto. Oltre a Jessica e Byrne, c'erano Eric Chavez, Nick Palladino, Tony Park e John Shepherd, gli ultimi due provenienti
dalla Sezione Indagini Speciali. Tony Park era un coreano-americano, veterano di lungo corso dell'Unità Speciale Anticrimine. L'Unità Auto faceva parte dell'Unità Speciale Anticrimine e Jessica aveva già lavorato con Tony. Era sui quarantacinque anni, rapido e intuitivo, un padre di famiglia. Lei aveva sempre saputo che sarebbe arrivato alla Omicidi. John Shepherd era stato playmaker della squadra del Villanova nei primi anni '80. Una bellezza alla Denzel Washington, con un tocco di grigio sulle tempie, dall'altezza intimidatoria di due metri, si faceva fare gli abiti, di stile tradizionale, da Boyds in Chestnut Street. Jessica non l'aveva mai visto senza cravatta. Ogni volta che si metteva insieme una task force, si cercava di fare in modo che ogni detective vi portasse una propria competenza unica. John Shepherd funzionava bene «in stanza»: aveva esperienza e capacità negli interrogatori. Tony Park era un mago coi database: NCIC, AFIS, ACCURINT, PCBA. Nick Palladino e Eric Chavez se la cavavano bene in strada. Jessica si domandò quale fosse il suo contributo, sperando non si trattasse soltanto del sesso. Sapeva di essere un'organizzatrice nata, brava a coordinare, riordinare, programmare. Ora sperava di avere l'occasione di dimostrarlo. La task force era guidata da Kevin Byrne. Pur essendo, chiaramente, la persona giusta per quel lavoro, Byrne aveva detto a Jessica che aveva dovuto ricorrere a tutta la sua forza di persuasione per convincere Ike Buchanan ad assegnarglielo. Byrne sapeva che non si trattava di mancanza di fiducia nelle sue capacità, ma piuttosto del fatto che Ike Buchanan doveva pensare al quadro generale, ovvero alla possibilità di un'altra aggressione della stampa se le cose, Dio non volesse, fossero andate storte come nel caso di Morris Blanchard. Ike Buchanan, in qualità di supervisore, avrebbe fatto da tramite coi grandi capi, ma Byrne avrebbe gestito le informazioni e presentato i rapporti. Byrne stava in piedi al banco degli incarichi mentre la task force si riuniva, prendendo tutte le sedie disponibili in quello spazio angusto. A Jessica, Byrne pareva un po' turbato, un po' scombussolato. Lo conosceva da poco, ma non lo riteneva il tipo di sbirro che si lasciava sconvolgere da una situazione come quella. Doveva essere qualcos'altro. Aveva un'aria spiritata. «Abbiamo più di trenta serie d'impronte parziali dalla scena dell'assassi-
nio di Tessa Wells, nessuna dai Bartram Gardens», esordì Byrne. «Ancora nessuna corrispondenza. Nessuna delle due vittime aveva addosso DNA sotto forma di liquido seminale, sangue o saliva.» Mentre parlava, collocava fotografie sulla lavagna bianca alle sue spalle. «Qui la firma dice di studentesse di scuole cattoliche che vengono prelevate direttamente dalla strada. L'assassino pratica loro un foro al centro delle mani con un trapano e le fissa con un bullone e un dado d'acciaio galvanizzato. Usa un filo di nylon spesso, probabilmente di quelli adoperati per le vele delle barche, e cuce loro la vagina. Lascia un segno sulla fronte, a forma di croce, fatto con un gesso blu. Entrambe le vittime sono morte per frattura del collo. La prima vittima trovata è Tessa Wells. Il suo corpo è stato scoperto nel seminterrato di una casa abbandonata all'angolo tra la North 8th Street e Jefferson Street. La seconda vittima trovata, in un appezzamento dei Bartram Gardens, era morta da almeno quattro giorni. In entrambi i casi, il responsabile indossava guanti non porosi. A entrambe le vittime è stata somministrata una benzodiazepina ad azione rapida, il Midazolam, che ha effetti simili a quelli del Roipnol. Inoltre c'era una buona quantità di un farmaco chiamato Pavulon. Al momento, qualcuno si sta occupando d'indagare sulla reperibilità del Pavulon.» «Che cosa fa questo Pavulon?» domandò Park. Byrne scorse il rapporto del medico legale: «Il Pavulon è un paralizzante. Induce paralisi della muscolatura scheletrica. Purtroppo, stando al rapporto, non ha il minimo effetto sulla soglia del dolore». «Dunque il tipo ha colpito e affondato col Midazolam, poi, dopo che le vittime erano state sedate, ha iniettato il Pavulon», concluse John Shepherd. «Probabilmente è andata così.» «Reperibilità di questi farmaci?» intervenne Jessica. «Pare che questo Pavulon stia girando da un po'», replicò Byrne. «Il rapporto informativo dice che è stato usato in tutta una serie di esperimenti sugli animali. I ricercatori credevano che l'animale, non potendo muoversi, non provasse dolore. Non somministravano analgesici né ipnotici. Poi si è scoperto che gli animali soffrivano atrocemente. Pare che il ruolo di farmaci simili nella tortura sia ben noto all'NSA e alla CIA. La quantità di orrore psicologico che si può introdurre è forse la più estrema possibile.» Le implicazioni di quanto stava dicendo Byrne cominciavano a prender forma, ed era una forma raggelante. Tessa Wells aveva sentito tutto quello che il suo assassino le faceva, ma non poteva muoversi.
«Esiste la possibilità di comprare il Pavulon sottobanco, ma secondo me dovremo cercare un contatto all'interno della comunità medica», riprese Byrne. «Persone che lavorano in ospedale, medici, infermieri, farmacisti.» Attaccò un paio di foto alla lavagna col nastro adesivo. «Il nostro uomo lascia anche un oggetto su ogni vittima», proseguì. «Nel caso di Tessa Wells, la riproduzione di un dipinto di William Blake.» Byrne indicò le due foto sulla lavagna, le immagini dei rosari. «Al rosario trovato sulla vittima rinvenuta nei Bartram Gardens mancava una serie di dieci grani, una decina. Normalmente, il rosario è composto da cinque decine di grani. A quello di Tessa Wells ne mancavano due. Non serve fare grandi calcoli; quello che sta succedendo è ovvio, mi pare. Dobbiamo far chiudere baracca a questo pessimo attore, gente.» Si appoggiò alla parete e si rivolse a Eric Chavez, che era il primo responsabile delle indagini sull'omicidio dei Bartram Gardens. Chavez si alzò, aprì il suo taccuino e cominciò: «La vittima dei Bartram Gardens si chiamava Nicole Taylor, diciassette anni. Abitava a Callowhill Street, in zona Fairmount. Studiava al liceo Regina, North Broad Street angolo Cecil B. Moore Avenue. Secondo il rapporto medico preliminare, la causa della morte è identica a quella di Tessa Wells: collo spezzato. Quanto agli altri segni distintivi, anch'essi identici, li stiamo vagliando attraverso il VICAP. Oggi conosceremo i dettagli sul materiale gessoso blu sulla fronte di Tessa Wells. Sulla fronte di Nicole c'erano soltanto lievi tracce, dato che il corpo è rimasto esposto. L'unica ferita recente sul corpo di Nicole si trova sul palmo della mano sinistra». Indicò una foto incollata alla lavagna bianca, un primo piano della mano di Nicole. «Questi tagli sono stati fatti dalla pressione delle unghie. Nei solchi c'erano tracce del suo smalto.» Jessica guardò la foto, premendo inconsapevolmente le unghie corte nella parte carnosa della mano. Sul palmo di Nicole pareva esserci una mezza dozzina d'intaccature a mezzaluna, che non formavano un disegno discernibile. Jessica immaginò che la ragazza avesse stretto il pugno per la paura. Scacciò quell'immagine. Non era il momento della rabbia. Eric Chavez cominciò a ricostruire l'ultimo giorno di Nicole Taylor. Nicole aveva lasciato la palazzina di Callowhill intorno alle 7.20 di giovedì mattina. Era andata a piedi, da sola, lungo North Broad Street fino al liceo Regina. Aveva seguito tutte le lezioni, poi aveva pranzato in mensa con la sua amica Domini Dawson. Alle 2.20 era uscita di scuola, prenden-
do la North Broad Street verso sud. Si era fermata all'Hole World, un salone di piercing. Lì aveva guardato alcuni gioielli. Secondo la proprietaria, Irina Kaminsky, Nicole sembrava felice, anche più loquace del solito. Mrs Kaminsky aveva eseguito tutti i piercing di Nicole e aveva detto che la ragazza aveva messo gli occhi su un bottoncino da naso con rubino e stava risparmiando per comprarlo. Dal salone, Nicole aveva proseguito lungo North Broad Street verso Girard Avenue, poi lungo la 18th Street, ed era entrata al St. Joseph's Hospital dove sua madre lavorava come responsabile delle pulizie. Sharon Taylor aveva riferito agli inquirenti che sua figlia era particolarmente di buon umore perché uno dei suoi gruppi preferiti, i Sisters of Mercy, avrebbe tenuto un concerto al Trocadero Theatre, venerdì sera, e lei aveva i biglietti. In mensa, madre e figlia si erano divise una coppa di macedonia. Avevano parlato del matrimonio di una cugina di Nicole, previsto per giugno, e della necessità che Nicole «sembrasse una signora». Era una battaglia continua tra loro, a causa della predilezione di Nicole per lo stile dark. Nicole aveva dato un bacio alla madre ed era uscita dall'ospedale verso le quattro, dall'uscita che dava su Girard Avenue. A quel punto, Nicole Theresa Taylor era semplicemente svanita. Secondo quanto avevano appurato le indagini, nessuno l'aveva più vista finché il sorvegliante dei Bartram Gardens non l'aveva trovata nel campo di narcisi, quasi quattro giorni dopo. Gli interrogatori informali nella zona dell'ospedale erano in corso. «La madre ne ha denunciato la scomparsa?» s'informò Jessica. Chavez sfogliò i suoi appunti. «La chiamata è arrivata all'1.20 di venerdì mattina.» «Nessuno l'ha vista dopo che è uscita dall'ospedale?» «Nessuno. Ma ci sono le telecamere della sorveglianza agli ingressi e nel parcheggio. Le registrazioni stanno arrivando», spiegò Chavez. «Aveva un ragazzo?» domandò Shepherd. «Secondo Sharon Taylor, sua figlia non aveva nessuno, in questo periodo», rispose Chavez. «E il padre?» «Mr Donald B. Taylor fa il camionista a lunga percorrenza, al momento si trova da qualche parte tra Taos e Santa Fe. Non appena avremo finito qui, andremo a vedere la scuola e cercheremo di procurarci un elenco della sua cerchia di amici», aggiunse Chavez. Non c'erano altre domande, quindi Byrne proseguì: «Quasi tutti conosce-
te Charlotte Summers. Per chi non lo sa, la dottoressa Summers è docente di psicologia criminale all'università di Pennsylvania. Di tanto in tanto presta consulenza al dipartimento nell'elaborazione di profili». Jessica conosceva Charlotte Summers soltanto di fama. Il suo caso più celebre era stato il perfetto profilo elaborato per Floyd Lee Castle, uno psicopatico che andava a caccia di prostitute nella zona di Camden durante l'estate 2001. Il fatto che Charlotte Summers fosse già coinvolta rivelò a Jessica che quell'indagine si era notevolmente ampliata, nelle ultime ore, e forse era soltanto questione di tempo prima che fosse chiamato l'FBI, perché mandasse qualcuno dei suoi uomini o fornisse assistenza nell'indagine scientifica. Tutti i presenti in quella stanza intendevano tenere ben strette le redini prima che saltassero fuori gli uomini in grigio a prendersi tutto il merito. Charlotte Summers si alzò e andò alla lavagna bianca. Più vicina ai cinquanta che ai quaranta, era snella, di aspetto delicato, con occhi azzurri e capelli alla maschietta. Indossava un elegante tailleur gessato con una camicetta di seta color lavanda. «So qual è la tentazione: dare per scontato che la persona da noi cercata sia un fanatico religioso di qualche genere», esordì. «Non c'è ragione di credere che non lo sia. Con un solo avvertimento: non è corretto pensare che i fanatici siano impulsivi o sconsiderati. Questo è un assassino altamente organizzato. Ecco cosa sappiamo: preleva le sue vittime dalla strada, le tiene con sé per un po', quindi le porta in un luogo dove le uccide. Si tratta di rapimenti ad alto rischio. In piena luce del giorno, in luoghi pubblici. Non ci sono segni di lividi da legatura sui polsi e sulle caviglie delle vittime. Ovunque le porti in un primo tempo, non le lega né le incatena. A entrambe le vittime è stata somministrata una dose di Midazolam oltre al paralizzante che ha facilitato la cucitura vaginale. La cucitura è stata eseguita pre mortem, sicché evidentemente lui vuole che le vittime siano consapevoli di quanto sta loro accadendo. E che lo sentano.» «Che significato hanno le mani?» intervenne Nick Palladino. «Forse le mette in posa, perché corrispondano a una certa iconografia religiosa, qualche dipinto o scultura che lo ossessiona. Il bullone potrebbe indicare una mania per le stimmate o per la crocifissione stessa. Quale che sia il significato, questi gesti specifici hanno un senso. In genere, se si vuole causare la morte di qualcuno, si va e lo si strangola o gli si spara. Il fatto che il nostro soggetto si prenda la briga di fare queste cose è di per sé degno di nota.» Byrne lanciò a Jessica un'occhiata che lei interpretò alla perfezione: vo-
leva che indagasse sull'aspetto religioso simbolico. Lei prese un appunto. «Se non aggredisce sessualmente le vittime, qual è lo scopo?» domandò Chavez. «Cioè, con tutta questa furia, perché non c'è stupro? Ha a che fare con la vendetta?» «Potremmo trovarci di fronte a qualche manifestazione di cordoglio o perdita», osservò Charlotte Summers. «Ma è chiaramente una questione di controllo. Lui vuole controllarle fisicamente, sessualmente, emotivamente: i tre campi nei quali le ragazze di quell'età sono più confuse. Forse ha perduto una ragazza a causa di un delitto sessuale a quell'età. Forse una figlia o una sorella. La cucitura della vagina potrebbe significare che è convinto di restituire a queste giovani una sorta di perverso stato verginale, uno stato d'innocenza.» «Cosa potrebbe fermarlo?» chiese Tony Park. «Ci sono molte ragazze cattoliche in questa città.» «Non vedo nessuna escalation di violenza. In effetti, il suo metodo è piuttosto umano, tutto considerato. L'agonia non è protratta. Lui non cerca di portar via la femminilità a queste ragazze... fa l'esatto contrario. Cerca di conservarla, preservarla per l'eternità, se vogliamo. Il suo terreno di caccia sembra essere questa parte di North Philly», continuò Charlotte Summers, indicando un'area evidenziata che comprendeva venti isolati. «Il nostro soggetto è probabilmente bianco, fra i trenta e i quarant'anni, fisicamente forte ma probabilmente non fanatico, in proposito. Non un tipo da body building. È molto probabile che sia stato educato nella religione cattolica, e che sia d'intelligenza superiore alla media, molto probabilmente ha almeno un diploma universitario. Deve avere un furgoncino o una station wagon, forse un qualche tipo di SUV. Questo renderebbe più semplice caricare e scaricare le ragazze dal veicolo.» «Cosa possiamo dedurre dalle posizioni della scena del crimine?» volle sapere Jessica. «A questo punto non ne ho idea, temo. La casa della North 8th Street e i Bartram Gardens sono una coppia di siti tra i meno affini che si possano immaginare», fu la risposta. «Perciò secondo lei sono stati scelti a caso?» chiese ancora Jessica. «No, non credo. In entrambi i casi, la vittima sembra collocata con cura. Sembra proprio che il nostro soggetto non lasci nulla al caso. Tessa Wells è stata incatenata a quella colonna per un motivo. Nicole Taylor non è stata lasciata in quel campo per caso. Questi luoghi sono certamente significativi. In un primo momento, si poteva pensare che Tessa Wells fosse stata
messa in quella casa sulla North 8th Street per nasconderne il corpo, ma io non credo sia così. Nicole Taylor è stata disposta meticolosamente all'aperto qualche giorno prima. Non ci sono stati tentativi di nascondere il corpo. Questo killer agisce alla luce del giorno. È arrogante, vuole mostrarci che lui è più in gamba di noi. Il fatto che abbia collocato oggetti tra le mani delle vittime accredita questa teoria. Chiaramente ci sta sfidando a capire che cosa sta facendo. Al momento, pare che le due ragazze non si conoscessero. Si muovevano in ambiti sociali diversi. A Tessa Wells piaceva la musica classica; Nicole Taylor era una dark. Frequentavano scuole diverse, avevano interessi diversi.» Jessica guardò le foto delle due ragazze, fianco a fianco sulla lavagna. Ricordava gli atteggiamenti di quando andava alla Nazarene: quelle del genere «ragazze pon-pon» non volevano aver niente a che fare con le rockettare e viceversa. C'erano le sfigate che passavano il tempo libero davanti ai pochi computer della biblioteca, le reginette della moda sempre immerse nell'ultimo numero di Vogue, Marie Claire o Elle. Poi c'era il suo gruppo, il contingente di South Philly. In superficie, il collegamento tra Tessa Wells e Nicole Taylor consisteva nel fatto che erano cattoliche e frequentavano scuole cattoliche. «Voglio che scaviate in tutti gli angoli della vita di queste ragazze», ordinò Byrne. «Chi frequentavano, i loro ragazzi, amici, parenti, conoscenti, a quali associazioni appartenevano, dove andavano nel fine settimana, quali film avevano visto, a quale chiesa appartenevano. Qualcuno sa qualcosa. Qualcuno ha visto qualcosa.» «Possiamo tener nascosti alla stampa le mutilazioni e gli oggetti trovati?» domandò Tony Park. «Per ventiquattr'ore, forse. Poi ne dubito.» «Ho parlato con lo psichiatra consulente del Regina», intervenne Chavez. «Viene dagli uffici della Nazarene Academy del nord-est. La Nazarene è la sede amministrativa di cinque scuole diocesane, compreso il liceo Regina. La diocesi impiega un solo psichiatra per le cinque scuole, a rotazione settimanale. Lui potrebbe darci una mano.» Jessica si sentì stringere lo stomaco. Un collegamento tra Regina e Nazarene c'era e adesso lei sapeva quale. «Hanno un unico psichiatra per tutti quei ragazzi?» domandò Tony Park. «Ci sono una mezza dozzina di consulenti, ma lo psichiatra, per le cinque scuole, è uno soltanto», precisò Chavez. «E chi è?»
Mentre Eric Chavez scorreva i suoi appunti, Byrne incrociò lo sguardo di Jessica. Quando Chavez recuperò il nome, Byrne era già fuori dalla stanza e attaccato al telefono. 23 Martedì, ore 14.00 «La ringrazio davvero di essere venuto», disse Byrne a Brian Parkhurst. Erano al centro dell'ampia stanza semicircolare che ospitava la Omicidi. «Se posso essere d'aiuto, qualunque cosa.» Parkhurst indossava una tuta da jogging di nylon nera e grigia e un paio di Reebok che sembravano nuove di zecca. Se era nervoso per essere stato chiamato a parlare con la polizia non si vedeva. Ma, in fondo, pensò Jessica, era uno psichiatra. Se sapeva leggere l'ansia, sapeva anche scrivere la compostezza. «Inutile dire che alla Nazarene siamo tutti sconvolti.» «Le studenti la stanno prendendo male?» «Temo di sì.» Il traffico umano s'intensificò intorno ai due. Era un vecchio trucco: fare in modo che il testimone cerchi un posto dove sedersi. La porta che dava sulla saletta colloqui A era spalancata; tutte le sedie della sala di ritrovo erano occupate. Di proposito. «Oh, mi dispiace.» La voce di Byrne grondava preoccupazione e sincerità. Era bravo anche lui. «Perché non ci sediamo qui dentro?» Brian Parkhurst sedette sulla poltrona imbottita di fronte a Byrne nella saletta colloqui A, una squallida stanzetta in cui gli indiziati e i testimoni venivano interrogati, rilasciavano dichiarazioni, fornivano informazioni. Jessica osservava attraverso il vetro specchiato. La porta della saletta rimase aperta. «Ancora una volta, grazie del tempo che ci dedica.» Nella stanza c'erano due sedie. Una era una poltroncina imbottita da ufficio, l'altra una malridotta sedia pieghevole di metallo. Agli indiziati non andava mai la sedia buona; ai testimoni, sì. Finché non diventavano indiziati, cioè. «Nessun problema», replicò Parkhurst. L'omicidio di Nicole Taylor aveva aperto i notiziari di mezzogiorno, con servizi in diretta su tutte le TV locali. Ai Bartram Gardens c'erano diverse troupe televisive. Kevin Byrne non aveva chiesto al dottor Parkhurst se avesse sentito la notizia.
«Avete fatto qualche passo avanti nelle indagini sull'assassino di Tessa?» domandò Parkhurst in tono pratico, discorsivo. Era il tono che avrebbe potuto usare per aprire una seduta di terapia con un nuovo paziente. «Abbiamo qualche indizio. Siamo ancora alle prime fasi dell'indagine.» «Ottimo», commentò l'altro. Quella parola suonò fredda e in qualche modo stridente, data la natura del delitto. Byrne lasciò che la parola facesse il giro della stanza un paio di volte, per poi posarsi sul pavimento. Si sedette di fronte a Parkhurst e lasciò cadere una cartellina sul malconcio tavolo metallico. «Prometto di non trattenerla troppo», disse. «Ho tutto il tempo che le serve.» Byrne raccolse la cartellina e incrociò le gambe. Aprì la cartellina, attento a celarne il contenuto a Parkhurst. Jessica vide che era un 229, un ragguaglio biografico essenziale. Nulla di minaccioso per Brian Parkhurst, ma non occorreva che lui lo sapesse. «Mi dica qualcosa di più sul suo lavoro alla Nazarene.» «Be', sono soprattutto consulenze nel campo dell'apprendimento e del comportamento», spiegò Parkhurst. «Lei dà consigli agli studenti in materia di comportamento?» «Sì.» «Come mai?» «Tutti i bambini e gli adolescenti hanno problemi da affrontare di tanto in tanto, agente. Nutrono paure legate all'inizio di una nuova scuola, si sentono depressi, molto spesso mancano di autodisciplina, di autostima, di abilità sociali. Di conseguenza, spesso sperimentano droghe o alcol o pensano al suicidio. Io faccio capire alle mie ragazze che la mia porta è sempre aperta, per loro.» Le mie ragazze, pensò Jessica. «Le studentesse cui presta consulenza si aprono facilmente, con lei?» «Mi piace pensarlo», affermò Parkhurst. Byrne annuì. «Che altro può dirmi?» «Parte del nostro compito è individuare potenziali difficoltà di apprendimento negli studenti, ed elaborare programmi per chi rischia una bocciatura. Cose del genere.» «Ci sono molte studentesse che rientrano in questa categoria, alla Nazarene?» domandò Byrne. «Quale categoria?» «A rischio di bocciatura.»
«Non più che in qualsiasi altro liceo confessionale, immagino. Probabilmente meno.» «Perché?» «La Nazarene ha una tradizione di alto rendimento accademico.» Byrne scarabocchiò qualche appunto. Jessica vide gli occhi di Parkhurst errare sul taccuino. «Cerchiamo anche di dare a genitori e docenti i mezzi per affrontare comportamenti disturbanti, incoraggiare la tolleranza, la comprensione, l'apprezzamento delle diversità», aggiunse Parkhurst. Roba da dépliant pubblicitario, pensò Jessica. Byrne lo sapeva. Parkhurst lo sapeva. Byrne cambiò marcia, senza cercare di nasconderlo. «Lei è cattolico, dottor Parkhurst?» «Naturalmente.» «Se permette la domanda, perché lavora per l'arcidiocesi?» «Mi scusi?» «Immagino che potrebbe guadagnare molto di più nel campo privato.» Jessica sapeva che era vero. Aveva telefonato a una sua vecchia compagna di scuola che lavorava nell'arcidiocesi, all'ufficio del personale. Sapeva esattamente quanto guadagnava Parkhurst: 71.400 dollari l'anno. «La Chiesa è una parte importantissima della mia vita, agente. Le devo molto.» «A proposito, qual è il suo dipinto di William Blake preferito?» Parkhurst si appoggiò allo schienale, come cercando di mettere a fuoco Byrne più chiaramente. «Il mio dipinto di William Blake preferito?» «Già. A me piace Dante e Virgilio sulla porta dell'Inferno.» «Be', non posso dire di sapere molto su Blake.» «Mi dica di Tessa Wells.» Quello era un colpo di fucile. Jessica osservò attentamente Parkhurst. Calma piatta. Neanche un tic. «Cosa vorrebbe sapere?» «Ha mai parlato di qualcuno che potrebbe averla infastidita? Qualcuno di cui forse aveva paura?» Parkhurst sembrò riflettere. Jessica non la bevve. E nemmeno Byrne. «Non che io ricordi», dichiarò Parkhurst. «Sembrava particolarmente inquieta, negli ultimi tempi?» «No. C'è stato un periodo, l'anno scorso, in cui la vedevo un po' più spesso di altre studentesse.» «La vedeva fuori dalla scuola?»
Nel periodo della festa del Ringraziamento, per esempio? si domandò Jessica. «No.» «Si sentiva un po' più legato a Tessa che ad altre studentesse?» volle sapere Byrne. «Non direi.» «Però c'era una sorta di legame.» «Sì.» «È cominciata così, con Karen Hillkirk?» Parkhurst arrossì in volto, poi si raffreddò all'istante. Se lo aspettava, era evidente. Karen Hillkirk era la studentessa con cui Parkhurst aveva avuto una storia, in Ohio. «Non è stato come pensa lei, agente.» «Ci illumini», lo invitò Byrne. Alla parola ci, Parkhurst lanciò un'occhiata allo specchio. A Jessica parve di vedere un sorriso quasi impercettibile. Avrebbe voluto levarglielo dalla faccia a suon di schiaffi. Quindi Parkhurst abbassò la testa per un momento, da penitente, come se quella fosse una storia che aveva raccontato molte volte, seppure soltanto a se stesso. «È stato un errore. Io... Ero giovane anch'io. Karen era matura per la sua età. È... successo, tutto qui.» «Era il suo consulente?» «Sì.» «Lei capisce perché qualcuno potrebbe sostenere che lei ha abusato di una posizione di potere, vero?» «Naturalmente. Lo capisco», affermò Parkhurst. «Ha avuto lo stesso genere di relazione con Tessa Wells?» «Assolutamente no.» «Conosce una studentessa del Regina di nome Nicole Taylor?» Parkhurst esitò. Il colloquio cominciava ad accelerare il ritmo e sembrava che il medico cercasse di rallentarlo. «Sì, conosco Nicole.» Conosco, pensò Jessica. Tempo presente. «È stato suo consulente?» domandò Byrne. «Sì. Lavoro con gli studenti di cinque scuole diocesane.» «Quanto conosce Nicole?» «L'ho vista qualche volta.» «Che cosa può dirmi di lei?» «Nicole ha qualche problema con l'immagine di sé. E qualche... proble-
ma in casa», spiegò Parkhurst. «Che genere di problemi con l'immagine di sé?» «È un tipo solitario. È davvero appassionata del fenomeno dark e questo l'ha in un certo senso isolata, al Regina.» «Dark?» «La scena dark, a grandi linee, è fatta di ragazzi che, per un motivo o per l'altro, sono respinti dai ragazzi 'normali'. Tendono a vestire in modo diverso, ad ascoltare generi musicali propri.» «Com'è questo abbigliamento diverso?» «Be', ci sono parecchi stili dark. Il dark tipico, o stereotipico, veste completamente di nero. Unghie nere, rossetto nero, numerosi piercing. Ma certi ragazzi vestono in foggia vittoriana, o industriale, se vogliamo. Ascoltano di tutto, dai Bauhaus a gruppi della vecchia guardia come i Cure e Siouxsie and the Banshees.» Byrne si limitò a fissare Parkhurst per qualche istante, inchiodandolo alla sua sedia. L'altro reagì riassestando il peso sulla sedia e lisciandosi i vestiti. Aspettava Byrne. «Ne sa parecchio di queste cose, a quanto pare», commentò infine Byrne. «È il mio lavoro, agente. Non posso aiutare le mie ragazze se non so da dove vengono.» Ancora «le mie ragazze», notò Jessica. Parkhurst continuò: «In effetti, qualche CD dei Cure ce l'ho anch'io, confesso». Ci scommetto, si disse Jessica. «Ha accennato al fatto che Nicole aveva qualche problema a casa. Che genere di problemi?» indagò Byrne. «Be', tanto per cominciare c'è una storia di alcolismo nella sua famiglia.» «Violenze?» Parkhurst non rispose subito. «Non che io ricordi. Ma, anche se ricordassi, qui si tratta di questioni confidenziali.» «È il genere di cose che le studentesse dovrebbero confidarle?» «Sì, quelle che sono propense a farlo.» «Molte ragazze sono propense a discutere con lei dettagli intimi della loro vita familiare?» Byrne aveva caricato la parola di una falsa enfasi. Parkhurst l'aveva colta. «Sì. Mi piace pensare di essere bravo a mettere i giovani a proprio agio.»
Ora è sulla difensiva, pensò Jessica. «Non capisco tutte queste domande su Nicole. Le è successo qualcosa?» «È stata trovata uccisa stamattina», annunciò Byrne. «Oh, Dio mio.» Parkhurst sbiancò in volto. «Ho visto il telegiornale... Non avevo idea...» Il telegiornale non aveva reso noto il nome della vittima. «Quand'è stata l'ultima volta che ha visto Nicole?» Parkhurst rifletté per alcuni istanti cruciali. «Qualche settimana fa.» «Dove si trovava giovedì e venerdì mattina, dottor Parkhurst?» Jessica era certa che Parkhurst sapesse che il colloquio aveva appena oltrepassato una barriera, quella che separava il testimone dall'indiziato. L'uomo rimase in silenzio. «È soltanto una domanda di routine. Non dobbiamo trascurare nulla», disse Byrne. Prima che Parkhurst potesse rispondere, qualcuno bussò piano sulla porta aperta. Era Ike Buchanan. «Agente?» Mentre si dirigevano verso l'ufficio di Buchanan, Jessica vide un uomo fermo con le spalle alla porta. Era alto poco meno di un metro e ottanta, indossava un soprabito nero e aveva un cappello di feltro nella mano destra. Corporatura atletica, spalle larghe. La testa rasata splendeva sotto le lampade a fluorescenza. Entrarono nell'ufficio. «Jessica, ti presento monsignor Terry Pacek», disse Buchanan. Terry Pacek, con la sua fama di fiero paladino dell'arcidiocesi di Philadelphia, era un uomo che si era fatto da sé, originario delle ingrate alture della Lackawanna County. Terra da carbone. In un'arcidiocesi che aveva quasi un milione e mezzo di cattolici e poco meno di trecento parrocchie, nessuno era un difensore più eloquente o devoto di Terry Pacek. Era diventato celebre nel 2002, durante un breve scandalo sessuale che aveva portato all'allontanamento di sei sacerdoti di Philadelphia, insieme con alcuni altri di Allentown. Naturalmente quello scandalo impallidiva al confronto con quanto era successo a Boston; tuttavia Philadelphia, con la sua numerosa popolazione di cattolici, aveva vacillato. Durante quei pochi mesi, Terry Pacek aveva dominato i media: era stato in ogni talk-show, in ogni radio locale ed era apparso su tutti i giornali. L'immagine che Jessica si era creata di lui, all'epoca, era quella di un pitbull istruito e bravo a parlare. Ora che lo incontrava di persona, non era
preparata a una cosa: al sorriso. Un momento, sembrava la versione ridotta di un campione della World Wrestling Federation pronto a scattare; il momento dopo tutto il suo volto cambiava, illuminando la stanza. Lei capì come quell'uomo avesse affascinato non solo i media, ma anche il vicariato. Ebbe la sensazione che Terry Pacek fosse in grado di scrivere il proprio futuro nei ranghi della gerarchia politica della Chiesa. «Monsignor Pacek.» Jessica tese la mano. «Come stanno andando le indagini?» La domanda era rivolta a Jessica, ma Byrne si fece avanti. «È ancora presto», disse. «È stata predisposta una task force, mi dicono.» Byrne sapeva che Pacek conosceva già la risposta. L'espressione di Byrne rivelò a Jessica - e forse allo stesso Pacek - che l'agente non l'aveva apprezzato. «Sì», disse Byrne. Piatto, conciso, tiepido. «Il soprintendente Buchanan mi ha riferito che avete convocato il dottor Brian Parkhurst.» Eccoci, pensò Jessica. «Il dottor Parkhurst si è offerto di aiutarci nell'indagine. A quanto risulta, conosceva entrambe le vittime.» Terry Pacek annuì. «Il dottor Parkhurst non è indiziato?» «Assolutamente no. È qui soltanto come testimone chiave», lo assicurò Byrne. Per ora, pensò Jessica. Jessica sapeva che Terry Pacek stava camminando sul filo del rasoio. Da una parte, se qualcuno uccideva le studentesse cattoliche di Philadelphia, lui aveva l'obbligo di controllare la situazione, di assicurarsi che all'indagine fosse data un'alta priorità. D'altro canto, non poteva starsene con le mani in mano lasciando che la polizia interrogasse personale dell'arcidiocesi senza un avvocato, o almeno una dimostrazione di sostegno da parte della Chiesa. «Quale portavoce dell'arcidiocesi, lei capirà certamente il mio turbamento di fronte a questi tragici eventi. L'arcivescovo in persona si è messo in contatto con me, autorizzandomi a mettere a vostra disposizione tutte le risorse delle diocesi.» «È molto generoso», commentò Byrne. Pacek porse un biglietto da visita a Byrne. «Se c'è qualcosa che il mio ufficio può fare, la prego di non esitare a chiamarci.»
«Lo farò senz'altro», replicò Byrne. «Per pura curiosità, monsignore, come faceva a sapere che il dottor Parkhurst era stato convocato?» «Dopo che lo avevate chiamato, lui ha telefonato al mio ufficio.» Byrne annuì. Se Parkhurst aveva allertato l'arcidiocesi per un colloquio in qualità di testimone, era piuttosto chiaro che sapeva che la conversazione avrebbe potuto tramutarsi in un interrogatorio. Jessica lanciò un'occhiata a Ike Buchanan. Lo vide guardare dietro di lei e compiere un lieve movimento con la testa, il gesto che si farebbe per dire a qualcuno che quello che sta cercando si trova nella stanza a destra. Jessica seguì lo sguardo di Buchanan nella sala di ritrovo, subito fuori dalla porta di Ike, e trovò Nick Palladino e Eric Chavez. Si dirigevano verso la saletta colloqui A. Jessica comprese il significato di quel cenno. Lasciate andare Brian Parkhurst. 24 Martedì, ore 15.20 La sede centrale della Free Library era la biblioteca più grande della città, situata all'angolo tra Vine Street e la Benjamin Franklin Parkway. Jessica si trovava nella sezione Belle Arti e consultava un'enorme raccolta di tomi d'arte cristiana in cerca di qualcosa, di qualunque cosa che somigliasse al tableau scoperto sulla scena dei due crimini, per i quali non avevano nessun testimone, nessuna impronta digitale e due vittime che, per quanto ne sapevano, non avevano nessuna relazione: Tessa Wells, seduta alla colonna in quel sudicio scantinato sulla North 8th Street; Nicole Taylor, posta su un letto di fiori primaverili. Con l'aiuto di un bibliotecario, Jessica effettuò una ricerca sul catalogo utilizzando diverse parole chiave. Ottenne un numero sterminato di risultati. C'erano libri sull'iconografia della Vergine Maria, libri sul misticismo nella Chiesa cattolica, libri sulle reliquie, sulla Sindone di Torino, l'Oxford Companion to Christian Art. C'erano innumerevoli guide al Louvre, agli Uffizi, alla Tate. Sfogliò volumi sulle stimmate, sulla storia romana in relazione alla crocifissione. C'erano bibbie illustrate, libri sull'arte francescana, gesuita e cistercense, araldica sacra, icone bizantine. C'erano tavole a colori di dipinti a olio, acquerelli, acrilici, xilografie, disegni a penna e inchiostro, murali, affreschi, sculture in bronzo, marmo, legno, pietra. Da dove cominciare?
Quando si ritrovò a sfogliare un libro grosso come un tavolino sul ricamo ecclesiastico, capì di essersi spinta un tantino fuori strada. Provò parole chiave come preghiera e rosario, ottenendo centinaia di occorrenze. Apprese alcune nozioni fondamentali, come il fatto che il rosario è per sua natura Mariano, incentrato su Maria Vergine, e va recitato contemplando il volto di Cristo. Prese tutti gli appunti che poteva. Controllò alcuni dei libri circolanti - molti di quelli che aveva guardato erano testi di consultazione -, poi tornò verso la Roundhouse con la testa affollata d'immagini religiose. Qualcosa in quei libri alludeva all'ispirazione che aveva generato la follia di quei crimini. Lei però non aveva idea di come scovarlo. Per la prima volta in vita sua, rimpianse di non essere stata più attenta durante le lezioni di religione. 25 Martedì, ore 15.30 Il buio era completo, compatto, una notte perenne che ignorava il tempo. Al di sotto dell'oscurità, flebilissimo, c'era il suono del mondo. Per Bethany Price, il velo della coscienza andava e veniva come onde sulla spiaggia. Cape May, pensò attraverso la nebbia densa nella sua testa, mentre le immagini lottavano per venire a galla dagli abissi della memoria. Non pensava a Cape May da anni. Quand'era piccola, i suoi genitori portavano la famiglia a Cape May, pochi chilometri a sud di Atlantic City, sulla costa del New Jersey. Lei si sedeva sulla spiaggia, i piedi sepolti nella sabbia umida. Papà col suo folle costume da bagno hawaiiano, mamma col suo pudico costume intero. Ricordò che andava a cambiarsi nella cabina sulla spiaggia, anche allora tremendamente imbarazzata dal proprio corpo, dal proprio peso. A quel pensiero si toccò. Era ancora tutta vestita. Sapeva di aver viaggiato su un'auto per un quarto d'ora, forse di più. Lui le aveva piantato dentro un ago che l'aveva portata sull'orlo del sonno, ma non proprio tra le sue braccia. Lei aveva sentito i rumori della città intorno a sé: autobus, clacson delle auto, gente che camminava e parlava. Avrebbe voluto urlare per farsi sentire, ma non poteva. C'era silenzio.
Lei aveva paura. La stanza era piccola, forse un metro e mezzo per un metro. Non era affatto una stanza, in realtà. Più un ripostiglio. Sulla parete di fronte alla porta lei aveva tastato un grande crocifisso. Sul pavimento c'era l'inginocchiatoio imbottito di un confessionale. La moquette era nuova; lei aveva sentito l'odore di petrolio della fibra nuova. Sotto la porta, riusciva a vedere un esiguo filo di luce gialla. Aveva fame e sete, ma non osava chiedere. Lui voleva che lei pregasse. Era entrato nell'oscurità, le aveva dato un rosario e le aveva detto di cominciare col Credo. Non l'aveva toccata, sessualmente. Non che lei sapesse, comunque. Se n'era andato per un po', ma ora era tornato. Andava su e giù fuori dal ripostiglio, sembrava turbato per qualcosa. «Non ti sento», disse lui dall'altro lato della porta. «Che cosa diceva papa Pio VI a questo proposito?» «Non... non lo so», rispose Bethany. «Diceva che, senza contemplazione, il rosario è un corpo senz'anima, e la sua recitazione corre il rischio di trasformarsi in una ripetizione meccanica di formule, in violazione all'ammonimento di Cristo.» «Mi dispiace.» Perché stava facendo questo? Era stato gentile con lei, prima. Lei si era messa nei guai e lui l'aveva trattata con rispetto. Il rumore dell'apparecchio si fece più forte. Sembrava un trapano. «Ora!» tuonò la voce. «Ave Maria piena di grazia, il Signore è con te», cominciò lei per quella che era forse la centesima volta. Il Signore è con te, pensò lei, la mente che ricominciava ad annebbiarsi. Il Signore è con me? 26 Martedì, ore 16.00 La videoregistrazione in bianco e nero era sgranata, ma abbastanza chiara da permettere di vedere l'andirivieni nel parcheggio del St. Joseph's Hospital. Il traffico, di autoveicoli e di pedoni, era quello che ci si poteva aspettare: ambulanze, auto della polizia, furgoni per le consegne di ditte farmaceutiche e di forniture mediche. Si trattava soprattutto di dipendenti
dell'ospedale: medici, infermieri, ausiliari, addetti alla pulizia e manutenzione. Da quell'ingresso entravano pochi visitatori e solo una manciata di agenti di polizia. Jessica, Byrne, Tony Park e Nick Palladino erano pigiati nella piccola stanza che svolgeva la doppia funzione di centro di controllo video e saletta di refezione. Alle ore 16.06.03 del nastro, videro Nicole Taylor. Nicole esce dalla porta contrassegnata SERVIZI SPECIALI OSPEDALIERI, esita per qualche istante, poi si avvia lentamente verso la strada. Ha una minuscola borsetta a tracolla appesa alla spalla destra e qualcosa che sembra una bottiglia di succo di frutta o di tè nella mano sinistra. Sulla scena del crimine dei Bartram Gardens non erano state trovate borsette né bottiglie. Arrivando alla strada, Nicole sembra notare qualcosa nella parte alta dell'inquadratura. Si copre la bocca con la mano, forse per la sorpresa, quindi si dirige verso un'auto parcheggiata sull'estremo margine sinistro dello schermo. È una Ford Windstar. Nessun occupante dell'auto è visibile. Proprio mentre Nicole raggiunge il lato del passeggero, un camion per le consegne della Allied Medical s'inserisce tra la telecamera e il minivan. «Merda», esclama Byrne. «Su, su...» La videocassetta indica le ore 16.06.55. L'autista del camion Allied Medical scende dal lato del guidatore e si dirige verso l'ospedale. Qualche minuto dopo ritorna e sale in cabina. Quando il camion si sposta, la Windstar e Nicole sono scomparsi. Lasciano scorrere il nastro per altri cinque minuti, poi lo mandano avanti veloce. Né la Windstar né Nicole erano tornati. «Possiamo riavvolgere fino al punto in cui lei si avvicina all'auto?» domandò Jessica. «Nessun problema», rispose Tony Park. Riguardarono il nastro più volte. Nicole che usciva dall'edificio, camminava sotto la tettoia e si avvicinava alla Windstar. Ogni volta che il camion arrivava a oscurarli, bloccavano l'immagine. «Possiamo zoomare?» domandò Jessica. «Non con questa apparecchiatura. Ma in laboratorio si possono fare tutti i giochetti del caso», replicò Park. L'Unità AV, situata nel seminterrato della Roundhouse, era capace di artifici video di ogni tipo. I nastri che stavano guardando erano copie dell'originale, dal momento che il nastro della sorveglianza veniva registrato a velocità lentissima e ciò rendeva impossibile riprodurlo su un normale vi-
deoregistratore. Jessica si chinò, avvicinandosi al piccolo monitor in bianco e nero. La Windstar aveva una targa della Pennsylvania, che finiva col 6. Impossibile distinguere i numeri, le lettere o le combinazioni precedenti. Se avessero avuto i numeri iniziali della targa, sarebbe stato molto più semplice abbinarla con la marca e il modello dell'auto. «Perché non proviamo a fare un controllo incrociato sulle Windstar con quel numero?» propose Byrne. Tony Park si voltò e fece per uscire dalla stanza. Byrne lo fermò, scrisse qualcosa sul suo taccuino, strappò il foglietto e lo porse a Park. Con quello, Park uscì. Gli altri detective continuarono a guardare il nastro, col traffico che andava e veniva, col personale che camminava pigramente verso il posto di lavoro o se ne allontanava con passo vispo. Per Jessica era straziante sapere che, dietro il camion che le oscurava la vista della Windstar, molto probabilmente Nicole Taylor stava parlando con qualcuno che avrebbe posto fine alla sua vita. Guardarono il nastro altre sei volte, senza riuscire a racimolare nuove informazioni. Tony Park tornò con un'alta pila di tabulati in mano. Era seguito da Ike Buchanan. «Ci sono venticinquemila Windstar registrate in Pennsylvania. Circa duecento finiscono col numero sei», disse Park. «Merda», commentò Jessica. Quindi l'uomo sollevò i tabulati con un sorriso radioso. Una riga era evidenziata in giallo brillante. «Una di esse appartiene al dottor Brian Allan Parkhurst di Larchwood Street.» Byrne scattò in piedi all'istante. Guardò Jessica. Fece scorrere un dito sulla cicatrice che aveva sulla fronte. «Non basta», dichiarò Buchanan. «Perché no?» chiese Byrne. «Da dove vuoi che cominci?» «Conosceva entrambe le vittime e possiamo collocarlo sulla scena in cui Nicole Taylor è stata vista per l'ultima volta...» «Non sappiamo se fosse lui. Non sappiamo nemmeno se lei sia davvero salita su quell'auto.» «Lui ha avuto l'occasione. Forse anche il movente», insistette Byrne. «Movente?» chiese Buchanan.
«Karen Hillkirk», disse Byrne. «Non ha ucciso Karen Hillkirk.» «Non ne ha avuto bisogno. Tessa Wells era minorenne. Forse aveva intenzione di rendere di dominio pubblico la loro storia.» «Quale storia?» Naturalmente Buchanan aveva ragione. «Senti, lui è un medico», continuò Byrne, in tono non troppo convincente. Jessica ebbe la sensazione che nemmeno lui fosse convinto che Parkhurst era il loro uomo. Ma Parkhurst sapeva qualcosa. «Il rapporto del medico legale dice che entrambe le ragazze sono state calmate col Midazolam, poi è stato loro iniettato un farmaco paralizzante. Parkhurst ha un minivan, e anche questo quadra. Combacia col profilo. Lasciamelo piazzare di nuovo su quella sedia. Venti minuti. Se non canta, gli diamo il largo.» Buchanan considerò l'idea per qualche istante. «Se Brian Parkhurst rimette piede qui dentro, sarà con un avvocato dell'arcidiocesi. Lo sai tu, e lo so io. Facciamo ancora un po' di lavoro di gambe, prima di unire questi puntini. Scopriamo se quella Windstar appartiene a un dipendente dell'ospedale prima di metterci a trascinar dentro gente. Vediamo se riusciamo a rendere conto di ogni minuto della giornata di Parkhurst.» Per lo più, il lavoro di polizia è di una noia che indolenzisce testa e culo. La maggior parte del tempo si trascorre a una grigia scrivania malferma con cassetti appiccicosi pieni di carte, il telefono in una mano, il caffè freddo nell'altra. A chiamare gente. A richiamare gente. Ad aspettare che la gente ti richiami. A finire in vicoli ciechi, in strade senza sbocco, da cui uscire scoraggiati. Gli interrogati non vedevano, non sentivano, non parlavano... Per poi scoprire, due settimane dopo, che ricordavano un fatto chiave. Gli investigatori parlano con le imprese di pompe funebri per sapere se quel giorno c'è stata una processione in quella strada; parlano con quelli che consegnano il giornale, coi vigili in servizio davanti alle scuole, con giardinieri, imbianchini, dipendenti del Comune, spazzini. Parlano coi tossici, con le battone, con gli ubriaconi, i trafficanti, gli accattoni, gli ambulanti, con chiunque passi il tempo, per abitudine o per vocazione, all'angolo di strada che interessa loro. E poi, quando tutte le telefonate si sono dimostrate inutili, gli investigatori si mettono a girare in macchina per la città, facendo le stesse domande alla stessa gente, di persona. A metà del pomeriggio, l'indagine si era assestata sui toni di un brusio
letargico, come la panchina di una squadra che sta perdendo 5 a 0 al settimo inning. Le matite picchiettavano, i telefoni restavano muti, si evitava il contatto visivo. La task force, con l'aiuto di una manciata di agenti in uniforme, era riuscita a mettersi in contatto con quasi tutti i possessori di Windstar; due di questi lavoravano al St. Joseph's, uno dei due era un inserviente. Alle cinque, tennero una conferenza stampa dietro la Roundhouse. Al centro della scena c'erano il commissario e il procuratore distrettuale. Vi furono tutte le domande previste, tutte le risposte previste. Kevin Byrne e Jessica Balzano vennero inquadrati e identificati dai media come i capi della task force. Jessica sperava di non dover parlare in TV; fu esaudita. Alle 5.20, erano tornati alle loro scrivanie. Passarono in rassegna le TV locali finché non trovarono una replica della conferenza stampa. Un breve applauso, fischi e grida salutarono il primo piano di Kevin Byrne. La voce fuori campo di un conduttore accompagnava la sequenza dell'uscita di Brian Parkhurst dalla Roundhouse, qualche ora prima. Il nome di Parkhurst venne sbattuto sullo schermo, sotto l'immagine al rallentatore di lui che saliva in auto. La Nazarene Academy aveva richiamato per informarli che Brian Parkhurst era uscito in anticipo il giovedì e il venerdì precedente, e che lunedì mattina era arrivato a scuola non prima delle 8.15. Avrebbe avuto tutto il tempo di sequestrare le due ragazze, sbarazzarsi di entrambi i corpi e rispettare comunque i suoi programmi. Alle 5.30, dopo aver ricevuto la telefonata dal provveditorato di Denver che eliminava definitivamente dagli indiziati Sean Brennan - l'ex ragazzo di Tessa -, Jessica e John Shepherd si recarono al laboratorio della Scientifica, una nuova struttura all'avanguardia, a pochi isolati dalla Roundhouse, all'angolo tra la North 8th Street e Poplar Street. C'erano nuove informazioni. L'osso trovato tra le mani di Nicole Taylor era la sezione di una zampa d'agnello. Appariva tagliato con una lama seghettata e affilato su una pietra cote. Finora le vittime erano state trovate con in mano un osso d'agnello e la riproduzione di un dipinto di William Blake. Quella informazione, per quanto utile, non gettava luce su nessun elemento dell'indagine. «Abbiamo anche alcune fibre di moquette, uguali su entrambe le vittime», dichiarò Tracy McGovern. Tracy era il vicedirettore del laboratorio. In giro per la stanza, si alzarono pugni in segno di vittoria. Avevano una prova. Alle fibre sintetiche si poteva risalire.
«Entrambe le ragazze avevano le stesse fibre di nylon lungo l'orlo della gonna», disse Tracy. «Tessa Wells ne aveva più di una decina. Sulla gonna di Nicole Taylor ne era rimasta solo qualcuna, essendo stata esposta alla pioggia, comunque erano lì.» «È moquette da abitazione? Commerciale? Da automobile?» domandò Jessica. «Probabilmente non da automobile. Direi da abitazione, di prezzo medio. Blu scuro. Ma le fibre erano disposte soltanto lungo l'orlo delle gonne; altrove, sui vestiti, non ne avevano.» «Quindi non erano distese sul tappeto e nemmeno sedute?» «No. Stando alla disposizione, direi...» «Inginocchiate», concluse Jessica. «Inginocchiate», le fece eco Tracy. Alle sei, Jessica era seduta a una scrivania e faceva roteare il caffè ormai freddo nella tazza, sfogliando i suoi libri sull'arte cristiana. C'era qualche pista promettente, però nulla che riproducesse la positura delle vittime sulla scena dei crimini. Eric Chavez aveva un appuntamento per cena. Stava in piedi di fronte al piccolo vetro specchiato della saletta colloqui A, continuando a rifarsi il nodo della cravatta, alla ricerca del doppio Windsor perfetto. Nick Palladino stava telefonando agli ultimi proprietari di Windstar. Kevin Byrne fissava la parete di fotografie come una statua dell'isola di Pasqua. Sembrava rapito, consumato da ogni inezia, intento a vedere e rivedere mentalmente la successione degli eventi. Immagini di Tessa Wells, immagini di Nicole Taylor, istantanee della casa della morte sulla North 8th Street, foto dei narcisi ai Bartram Gardens. Mani, piedi, occhi, braccia, gambe. Fotografie col righello per indicare la scala. Fotografie con la griglia per fornire un contesto. A Jessica sembrava un uomo in stato catatonico. Avrebbe dato lo stipendio di un mese per conoscere i pensieri segreti di Kevin Byrne in quel momento. Il tardo pomeriggio si trascinò verso la sera. E Kevin Byrne era ancora immobile, gli occhi sulla lavagna, da sinistra a destra, dall'alto in basso. All'improvviso staccò l'immagine di un primo piano del palmo sinistro di Nicole Taylor. La portò alla finestra e la tenne sollevata alla luce che ingrigiva. Fissò Jessica, ma sembrava che la trapassasse con lo sguardo. Lei era soltanto un oggetto sulla traiettoria della sua visione chilometrica. Prese da un tavolo una lente d'ingrandimento e tornò alla foto.
«Cristo», disse infine, attirando l'attenzione dei detective presenti. «Non riesco a credere che non l'abbiamo visto.» «Visto che cosa?» domandò Jessica. Era contenta che Byrne finalmente parlasse. Stava cominciando a preoccuparsi per lui. Byrne indicò le dentellature nella parte carnosa del palmo, i segni che secondo Tom Weyrich erano stati causati dalla pressione delle unghie di Nicole. «Questi segni.» Prese il rapporto del medico legale su Nicole Taylor. «Guardate», continuò. «C'erano tracce di smalto per le unghie bordeaux, nei solchi sulla mano sinistra.» «E allora?» chiese Buchanan. «Lo smalto sulla mano sinistra era verde», fece notare Byrne. Indicò il primo piano delle unghie della mano sinistra di Nicole Taylor. «Quello bordeaux era lo smalto sulla destra.» Gli altri tre si guardarono, scrollarono le spalle. «Non capite? Non si è procurata quei solchi stringendo il pugno sinistro. Se li è fatti con l'altra mano.» Jessica cercò di vedere qualcosa nella fotografia, come per esaminare gli elementi positivi e negativi di un disegno di M.C. Escher. Non vide nulla. «Non capisco», disse. Byrne afferrò la giacca e andò verso la porta. «Capirai.» Brian e Jessica erano nel piccolo studio di elaborazione digitale immagini del laboratorio della Scientifica. Lo specialista stava lavorando alla definizione delle fotografie della mano sinistra di Nicole Taylor. Le fotografie della scena del crimine venivano ancora prese su pellicola da trentacinque millimetri e poi convertite in formato digitale, dopodiché se ne poteva migliorare la definizione, si potevano ingrandire e, se necessario, preparare per il processo. In quella fotografia, l'area d'interesse era costituita dalle piccole dentellature a forma di mezzaluna sulla porzione inferiore sinistra del palmo di Nicole. Il tecnico allargò ed evidenziò quella zona; quando l'immagine divenne chiara, i presenti restarono senza fiato. Nicole Taylor aveva lasciato un messaggio. Quei piccoli tagli non erano affatto casuali. «Oh, mio Dio», fece Jessica, mentre la sua prima botta di adrenalina da detective della Omicidi cominciava a ronzarle nelle orecchie. Prima di morire, Nicole Taylor aveva usato le unghie della mano destra per scrivere un nome sul palmo sinistro; la supplica di una ragazza mori-
bonda negli ultimi, disperati istanti della sua vita. Era indiscutibile: quei tagli dicevano P A R. Byrne aprì di scatto il cellulare e chiamò Ike Buchanan. Nel giro di venti minuti, un rapporto giurato d'ipotesi di reato sarebbe stato scritto e sottoposto al capo della Omicidi presso la procura distrettuale. Nel giro di un'ora, con un po' di fortuna, avrebbero ottenuto un mandato di perquisizione per l'abitazione di Brian Allan Parkhurst. 27 Martedì, ore 18.30 Simon Close fissava la prima pagina del Report, che campeggiava orgogliosa sullo schermo del suo Apple PowerBook. Chi uccide le ragazze del rosario? Cosa c'è di meglio che vedere la tua firma sotto un titolo tremendamente provocante? Magari un paio di cosette, il massimo, pensò Simon. E tutt'e due quelle cosette gli sarebbero costate soldi, invece di foderargli le tasche. Le ragazze del rosario. La sua idea. Ne aveva considerate un paio d'altre. Quella aveva fatto il botto. Simon adorava quell'ora della sera. Mettersi in ghingheri prima della caccia. Anche se al lavoro vestiva bene - sempre in camicia e cravatta, di solito un blazer e pantaloni sportivi -, era di sera che i suoi gusti viravano verso il taglio europeo, la fattura italiana, i tessuti ricercati. Se di giorno era Chaps, di notte era un perfetto Ralph Lauren. Aveva provato Dolce & Gabbana e Prada, ma comprava Armani e Pal Zileri. Grazie, Signore, per i saldi semestrali da Boyds. S'intravide allo specchio. Quale donna poteva resistere? C'era un mucchio di uomini ben vestiti a Philadelphia, ma pochi sapevano davvero vestire all'europea con un certo stile. E poi c'erano le donne. Quando Simon si era messo per conto suo, dopo la morte della zia Iris, era stato per qualche tempo a Los Angeles, Miami, Chicago e New York. Aveva anche preso in considerazione, sebbene fuggevolmente, l'idea di vivere a New York, ma dopo qualche mese era tornato a Philadelphia. E anche se le ragazze di Philly erano sexy come quelle di Manhattan, a Philly
le ragazze avevano quel qualcosa che alle newyorkesi sarebbe sempre mancato. Avevi una chance, con le ragazze di Philly. Aveva appena ottenuto la piegolina perfetta al nodo della cravatta quando bussarono alla porta. Attraversò il piccolo alloggio e aprì. Era Andy Chase. Andy, perfettamente felice, terribilmente arruffato. Andy indossava un sudicio berretto dei Phillies a rovescio e un giubbotto blu reale Members Only (Li fanno ancora, i Members Only? si chiese Simon), completo di spalline e tasche con la lampo. Simon accennò alla propria cravatta jacquard bordeaux. «Mi fa troppo gay?» chiese. «No.» Andy si buttò sul divano, sollevando una copia di Macworld e masticando una mela Fuji. «Solo abbastanza gay.» «Va' a cagare.» Andy scrollò le spalle. «Non so come fai a spendere tanto in vestiti. Cioè, te ne puoi mettere solo uno per volta, no? A che serve?» Simon roteò sui tacchi e attraversò il salotto come fosse in passerella. Piroettò, si mise in posa come un indossatore. «Puoi rimirarmi e fare ancora quella domanda? Lo stile gratifica in sé, mon frère.» Andy ostentò un enorme sbadiglio fasullo e diede un altro morso alla sua mela. Simon si versò qualche dito di Courvoisier e aprì una Miller Lite per Andy. «Spiacente, niente noccioline dolci.» Andy scosse la testa. «Sfotti pure quanto vuoi. Le noccioline dolci sono molto meglio di quella merda di fuagrà che mangi tu.» Simon si coprì le orecchie con gesto plateale. Andy Chase lo offendeva fino alle cellule. Si ragguagliarono sui fatti della giornata. Per Simon, quelle chiacchierate erano incluse nei costi generali necessari per fare affari con Andy. Detta e fatta la penitenza, era il momento di andare. «Allora, come sta Kitty?» domandò Simon pro forma, con tutto l'entusiasmo che riuscì a simulare. Povera vaccona, pensò. Kitty Bramlett era stata una minuta, quasi graziosa cassiera al Wal-Mart quando Andy si era innamorato di lei. Trenta chili e tre menti fa. Kitty e Andy si erano adagiati in quell'incubo di matrimonio senza figli, alle soglie della mezza età, fondato sull'abitudine. Cene scaldate al microonde, compleanni all'Olive Garden e un paio d'ingroppate al mese davanti al Tonight Show di Jay Leno.
Piuttosto la morte, Signore, pensò Simon. «È sempre la stessa.» Andy gettò via la rivista e si stiracchiò. Simon intravide la cintola dei pantaloni di Andy. Erano chiusi con una spilla da balia. «Chissà perché, crede ancora che dovresti provare a metterti con sua sorella. Come se lei avesse qualcosa a che fare con te.» Rhonda, la sorella di Kitty, sembrava la gemella di Ollio, ma non era altrettanto femminile. «La chiamerò senz'altro», replicò Simon. «Fa' un po' tu.» Pioveva ancora. Simon avrebbe dovuto rovinarsi il look con un elegante ma tediosamente pratico impermeabile London Fog. Quello era un elemento che aveva urgente bisogno di rinnovo. Comunque era sempre meglio che macchiare di pioggia lo Zileri. «Non sono in vena per le tue stronzate», tagliò corto Simon, accennando alla porta. Andy colse il suggerimento, si alzò e fece per uscire. Aveva lasciato il torsolo della mela sul divano. «Non puoi rovinarmi l'umore, stasera», aggiunse Simon. «Sono bello, ho un profumo fantastico, ho un pezzo da prima pagina in forno e la vita è dolce.»* Andy fece una smorfia: «Che vuol dire 'dolce'?» «Buon Dio», sospirò Simon. S'infilò una mano in tasca, ne estrasse un biglietto da cento dollari e lo porse a Andy. «Grazie per la dritta. Continua così.» «Quando vuoi, fratello», disse Andy. Intascò la banconota, uscì dalla porta e scese le scale. Fratello, pensò Simon. Se questo è il purgatorio, ho davvero paura dell'inferno. Si diede un'ultima occhiata nello specchio a figura intera dentro il guardaroba. Perfetto. La città era sua. * In italiano nel testo. (N.d.T.) 28 Martedì, ore 19.00
Brian Parkhurst non era in casa. E non c'era nemmeno la sua Ford Windstar. I sei detective si disposero a ventaglio nella villetta a schiera a tre piani di Garden Court. Al pianterreno c'erano un piccolo soggiorno e la sala da pranzo; sul retro, c'era la cucina. Tra la sala da pranzo e la cucina, una ripida scalinata portava al primo piano, col bagno e con una camera da letto convertita in studio. L'ultimo piano, costituito un tempo da due piccole camere da letto, era stato ristrutturato in camera padronale. In nessuna delle stanze c'era moquette in nylon blu scuro. L'arredamento era in gran parte moderno: sofà e poltrone in pelle, credenza e tavolo da pranzo in tek. La scrivania dello studio era più vecchia, probabilmente in quercia decapata. Gli scaffali dei libri rivelavano un gusto eterogeneo: Philip Roth, Jackie Collins, Dave Barry, Dan Simmons. I detective notarono la presenza di William Blake: The Complete Illuminated Books. Non posso dire di sapere molto su Blake, aveva affermato Parkhurst durante il colloquio. Una rapida scorsa al libro di Blake mostrò che nulla era stato ritagliato. L'esame di frigorifero, freezer e rifiuti della cucina non rivelò tracce di zampa d'agnello. Il ricettario aveva un segnalibro alla pagina del crème caramel. Negli armadi non c'era nulla d'insolito. Tre completi, un paio di blazer di tweed, sei paia di scarpe eleganti, una dozzina di camicie eleganti. Tutto di stile classico e di buona qualità. Le pareti dello studio ostentavano i suoi tre diplomi superiori: uno della John Carroll University e due dell'University of Pennsylvania. C'era anche un poster ben incorniciato dell'allestimento di Broadway del Crogiuolo di Arthur Miller. Jessica si occupò del primo piano. Passò in rassegna l'armadio dello studio, che sembrava dedicato alle imprese sportive di Parkhurst. A quanto pareva, giocava a tennis e racquetball, oltre a praticare un po' di windsurf. C'era anche una costosa muta da sub. Lei scandagliò i cassetti della scrivania, trovando tutte le scorte previste: elastici, penne, graffette, Tic Tac. In un altro cassetto c'erano cartucce per la stampante laser e una tastiera di riserva. Tutti i cassetti si aprivano senza problemi, tranne quello dello schedario. Lo schedario era chiuso a chiave. Strano, per un uomo che vive solo, pensò Jessica.
Una scorsa rapida ma esauriente del cassetto più alto non rivelò chiavi. Jessica guardò fuori dalla porta dello studio, ascoltò il chiacchiericcio. Tutti gli altri detective erano occupati. Tornò alla scrivania, tirò fuori in fretta i suoi attrezzi. Non si lavora tre anni nell'Unità Auto senza imparare almeno un po' l'arte del fabbro. Nel giro di qualche secondo, l'aveva aperto. Gran parte dei dossier riguardavano la casa e gli affari personali. Cartelle delle tasse, ricevute di lavoro, ricevute personali, polizze assicurative. C'era anche un mucchietto di conti Visa, pagati. Jessica trascrisse il numero della carta di credito. Una rapida lettura degli acquisti fatti non rivelò nulla di sospetto. Non c'erano scontrini di ditte di articoli religiosi. Jessica stava per richiudere a chiave quando vide la punta di una piccola busta di carta marrone che faceva capolino da dietro il cassetto. Allungò la mano più che poteva e tirò fuori la busta. Era stata nascosta fissandola con lo scotch, ma non ben sigillata. Dentro la busta c'erano cinque fotografie. Erano state scattate al Fairmount Park in autunno. Tre di esse ritraevano una giovane completamente vestita, che posava timidamente in finto atteggiamento da donna fatale. Le altre due erano della stessa donna insieme con un Brian Parkhurst sorridente. La giovane gli stava seduta in grembo. La data era dell'ottobre dell'anno precedente. Quella giovane era Tessa Wells. «Kevin!» gridò Jessica verso il pianterreno. Byrne salì in un lampo, quattro gradini alla volta. Jessica gli mostrò le foto. «Figlio di puttana. Ce l'avevamo e l'abbiamo lasciato andare», esclamò lui. «Non preoccuparti. Lo riprenderemo.» Avevano trovato un set di valigie completo, sotto le scale. Parkhurst non era in viaggio. Jessica ricapitolò gli indizi: Parkhurst era un medico. Conosceva entrambe le vittime. Sosteneva di aver conosciuto Tessa Wells solo da un punto di vista professionale, come consulente, tuttavia possedeva sue fotografie personali. Aveva trascorsi di relazioni sessuali con studentesse. Una delle vittime aveva cominciato a scrivere il suo cognome sul palmo della mano, poco prima di morire. Byrne si mise al telefono della scrivania di Parkhurst e chiamò Ike Buchanan. Inserì il vivavoce e riferì a Buchanan quanto avevano trovato. Buchanan ascoltò, quindi pronunciò la parola che Byrne e Jessica aspet-
tavano e speravano: «Prendetelo». 29 Martedì, ore 20.15 Se Sophie Balzano era la più bella bambina del mondo quand'era sveglia, era decisamente angelica nel momento in cui il giorno si faceva notte, un dolce crepuscolo di sopore. Jessica si era offerta volontaria per il primo turno di guardia alla casa di Brian Parkhurst in Garden Court. Le avevano detto di andare a casa, di riposare un po'. Come avrebbe fatto Kevin Byrne. In casa erano rimasti due detective. Jessica sedette sulla sponda del letto di Sophie, a guardarla. Avevano fatto il bagno insieme, con la schiuma. Sophie si era lavata i capelli e messa il balsamo da sola. Nessun bisogno d'aiuto. Si erano asciugate e si erano divise una pizza in salotto. Era contro le regole - bisognava mangiare a tavola -, ma ora che Vincent non c'era, parecchie regole sembravano perdersi per strada. Basta così, pensò Jessica. Mentre preparava Sophie per la notte, si sorprese ad abbracciare la figlia un po' più forte, un po' più spesso. La piccola l'aveva guardata con sospetto, come a dire: Che succede, mamma? Ma Jessica sapeva che cosa stava succedendo. In quei momenti, la presenza di Sophie era la sua salvezza. E ora che Sophie era sotto le coperte, Jessica si permise di rilassarsi, di cominciare a disfarsi degli orrori della giornata. Un poco. «La storia?» chiese Sophie, la vocetta trascinata sulle ali di un grande sbadiglio. «Vuoi che ti legga una storia?» Sophie annuì. «D'accordo», acconsentì Jessica. «Non quella di Hoke», pregò Sophie. Jessica non poté non ridere. Hoke era l'ultimo babau di Sophie. Era cominciato tutto durante una gita al centro commerciale King of Prussia, all'incirca un anno prima, con l'Hulk verde gonfiabile alto quasi cinque metri che avevano eretto per promuovere l'uscita del DVD. Un solo sguardo a quella sagoma gigantesca e Sophie aveva subito cercato rifugio, trepi-
dante, dietro le gambe di Jessica. «Cos'è quello?» aveva domandato la bambina, con le labbra tremanti e le dita strette sulla gonna di Jessica. «È soltanto Hulk. È finto», aveva spiegato lei. «Non mi piace Hulk.» Ultimamente, si era arrivati al punto che qualsiasi cosa verde e alta più di un metro e venti suscitava il panico. «Non abbiamo storie con Hulk, tesoro», la rassicurò la madre. Aveva creduto che Sophie avesse dimenticato la storia di Hulk. Ma evidentemente certi mostri erano proprio duri a morire. Sophie sorrise e si accoccolò sotto le coperte, pronta per un sogno senza Hoke. Jessica andò a prendere la scatola dei libri nell'armadio. Esaminò l'elenco dei candidati tra la letteratura per i più piccini. Il coniglietto in fuga, Grande capo paperotto, Le avventure di Curious George. Jessica sedette sul letto e guardò la costa dei libri. Erano tutti per bambini fino ai due anni. Sophie ne aveva quasi tre. Era davvero troppo matura per Il coniglietto in fuga. Oh, Signore, pensò, sta crescendo troppo in fretta. Il libro in fondo alla pila era Come si mette?, un manuale per imparare a vestirsi. Sophie sapeva vestirsi da sola da mesi, ormai. Era un pezzo che non sbagliava a mettersi le scarpe o non s'infilava la salopette al contrario. Jessica optò per Yertle la Tartaruga, il racconto del dottor Seuss. Era tra i preferiti di Sophie, e anche di Jessica. Cominciò a leggere, narrando le avventure e le lezioni di vita di Yertle e della sua banda sull'isola di Sala-ma-Sond. Dopo qualche pagina, guardò Sophie, aspettandosi di vedere un gran sorriso. Di solito Yertle era un vero spasso. Specie quando diventa Re del Fango. Ma Sophie dormiva già profondamente. Peso leggero, pensò Jessica con un sorriso. Regolò la lampada alla luminosità minima e aggiustò le coperte intorno alla piccola. Rimise il libro nella scatola. Pensò a Tessa Wells e Nicole Taylor. Come avrebbe potuto evitarlo? Aveva la sensazione che quelle ragazze non si sarebbero allontanate dai suoi pensieri coscienti per molto tempo. Le loro madri si erano sedute sulla sponda dei loro letti così, meravigliandosi della perfezione delle loro figlie? Le avevano guardate dormire, ringraziando Dio per ogni respiro che prendevano e che esalavano?
Ma certo. Jessica guardò la cornice sul comodino di Sophie, quella piena di archi, frecce e cuoricini. Conteneva sei fotografie: Vincent e Sophie sulla spiaggia quando la bambina aveva appena compiuto un anno. Sophie portava un morbido berretto arancione e gli occhiali da sole. Le gambette grassocce erano impiastricciate di sabbia umida. C'era una fotografia di Jessica e Sophie nel giardino. Sophie aveva in mano l'unico ravanello che fosse mai uscito dall'orto quell'anno. Sophie aveva piantato il seme, innaffiato la pianta e mietuto il raccolto. Aveva insistito per mangiare il ravanello, anche se Vincent l'aveva avvertita che non le sarebbe piaciuto. Ma, essendo una di poche storie, e testarda come un piccolo mulo, Sophie aveva assaggiato il ravanello, cercando di non fare smorfie. Alla fine era diventata verde in faccia per il sapore amaro e lo aveva sputato nel tovagliolino di carta. Quella era stata la fine delle sue curiosità agricole. La foto in basso a destra ritraeva la madre di Jessica, e risaliva a quando Jessica era molto piccola. Maria Giovanni era spettacolare col prendisole giallo e con la sua piccina sulle ginocchia. Sua madre somigliava moltissimo a Sophie. Jessica avrebbe voluto che Sophie conoscesse la nonna, anche se ultimamente Maria era un ricordo nemmeno troppo limpido, più che altro un'immagine intravista attraverso un blocco di vetro. Spense la luce di Sophie, restò seduta al buio. Jessica aveva lavorato due giorni interi, e già le parevano mesi. Per tutto il tempo che aveva trascorso in polizia, aveva visto i detective della Omicidi come li vedono molti sbirri: avevano un solo lavoro da fare. Gli agenti di divisione si occupavano di una gamma molto più vasta di crimini. Come si suol dire, un omicidio è solo un'aggressione aggravata finita male. Ragazzi, quanto si era sbagliata. Se quello era un solo lavoro, bastava e avanzava. Jessica si chiese, come aveva fatto ogni giorno negli ultimi tre anni, se per Sophie era giusto che lei fosse uno sbirro, che mettesse a rischio la vita ogni giorno quando usciva di casa. Non seppe rispondersi. Andò di sotto, controllò la porta d'ingresso e quella sul retro per la terza volta. O era la quarta? Mercoledì non lavorava, ma non aveva la più pallida idea di che cosa fare. Come poteva rilassarsi? Come poteva pensare alla sua vita quando due ragazzine erano state brutalmente assassinate? In quel momento, non le importava del ruolino dei turni di servizio. Non conosceva nessuno sbirro che ci avrebbe pensato. A quel punto, mezza polizia avrebbe fatto gli stra-
ordinari gratis per beccare quel figlio di puttana. Suo padre aveva sempre organizzato la riunione annuale di Pasqua il Mercoledì Santo. Forse sarebbe servito a distrarla. Sarebbe andata, cercando di dimenticare il lavoro. Suo padre riusciva sempre a farle vedere le cose in prospettiva. Jessica si sedette sul divano, saltò da un canale all'altro della TV via cavo cinque o sei volte. Spense il televisore. Stava per infilarsi nel letto con un libro quando squillò il telefono. Sperava proprio che non fosse Vincent. O forse sperava che fosse lui. Non era lui. «Detective Balzano?» Era una voce maschile. Musica ad alto volume in sottofondo. Ritmo da discoteca. «Chi parla?» domandò Jessica. L'uomo non rispose. Risate e cubetti di ghiaccio nei bicchieri. Era in un bar. «Ultima occasione», disse Jessica. «Sono Brian Parkhurst.» Jessica lanciò un'occhiata all'orologio, annotò l'ora su un taccuino che teneva accanto al telefono. Guardò il display: chiamante anonimo. «Dove si trova?» Aveva parlato con voce acuta e nervosa. Stridula. Calma, Jess. «Non ha importanza», disse Parkhurst. «Be', un po' sì.» Così andava meglio. Tono discorsivo. «Parlo io.» «Va bene, dottor Parkhurst. Davvero. Perché ci piacerebbe molto parlare con lei.» «Lo so.» «Perché non viene alla Roundhouse? Ci vediamo lì. Possiamo parlare.» «Preferirei di no.» «Perché?» «Non sono uno stupido, agente. So che siete stati in casa mia.» Smozzicava le parole. «Dove si trova?» domandò Jessica per la seconda volta. Nessuna risposta. Jessica sentì la musica trasformarsi in un ritmo latino. Prese un altro appunto: Salsa club. «Vediamoci. Ci sono cose che dovete sapere su quelle ragazze», disse Parkhurst.
«Dove e quando?» «Vediamoci al Clothespin. Tra un quarto d'ora.» Di fianco a Salsa club lei scrisse: Quindici minuti, zona municipio. Il Clothespin era la grande scultura a forma di molletta da bucato di Claes Oldenburg in Center Square Plaza, vicinissima al municipio. Ai vecchi tempi, a Philly la gente diceva: Vediamoci all'aquila di Wanamaker, i grandi magazzini ormai scomparsi col mosaico dell'aquila sul pavimento. Tutti conoscevano l'aquila di Wanamaker. Ora c'era il Mollettone. Parkhurst aggiunse: «E venga da sola». «Non ci speri, dottor Parkhurst.» «Se vedo qualcun altro, me ne vado. Non voglio parlare col suo collega.» Jessica non poteva biasimare Parkhurst perché non voleva trovarsi nella stessa stanza con Kevin Byrne. «Mi dia venti minuti», gli disse. La comunicazione s'interruppe. Jessica chiamò Paula Farinacci, che ancora una volta le venne in soccorso. C'era sicuramente un posto speciale per Paula nel paradiso delle babysitter. Jessica avvolse un'insonnolita Sophie nella sua coperta preferita e la trasportò tre portoni più in là. Tornata a casa, chiamò Kevin Byrne al cellulare, trovando la segreteria. Lo chiamò a casa: idem. Avanti, partner, pensò. Ho bisogno di te. S'infilò i jeans, le scarpe da jogging, l'impermeabile. Prese il cellulare, infilò un caricatore nuovo nella sua Glock, allacciò la fondina e si avviò verso il centro. Jessica attese vicino all'angolo tra la 15th Street e Market Street, sotto la pioggia battente. Decise di non piazzarsi proprio sotto il Clothespin, per ovvie ragioni. Non era il caso di essere un bersaglio facile. Guardò in giro per la piazza. C'erano pochi pedoni, per via del temporale. Le luci su Market Street formavano un luccicante acquerello rosso e giallo sull'asfalto. Quand'era piccola, suo padre portava lei e Michael in centro e al Reading Terminal Market a prendere i cannoli da Termini. Certo, il Termini originale di South Philly era a pochi isolati da casa loro, ma c'era qualcosa, prendendo il metrò della SEPTA fino in centro e andando a piedi al mercato, che dava ai cannoli un sapore migliore. Era ancora così. A quei tempi, passeggiavano tranquilli per Walnut Street dopo la festa del Ringraziamento, guardando le vetrine di tutti i negozi più esclusivi.
Non si erano mai potuti permettere nulla di quello che vedevano, ma le bellissime esposizioni sbrigliavano le sue fantasie di bambina. Quanto tempo, pensò Jessica. La pioggia era implacabile. Un uomo si avvicinò alla scultura, strappando Jessica alle sue fantasticherie. Aveva un impermeabile verde, il cappuccio alzato, le mani in tasca. Parve esitare ai piedi della gigantesca opera d'arte, scandagliando la zona. Da dove si trovava Jessica, l'uomo sembrava dell'altezza di Brian Parkhurst. Quanto al peso e al colore dei capelli, era impossibile dirlo. Jessica estrasse l'arma, la tenne dietro la schiena. Era sul punto di farsi avanti, quando l'uomo improvvisamente scese nella stazione della metropolitana. Jessica trasse un respiro profondo e rinfoderò l'arma. Guardò le auto girare in cerchio intorno alla piazza, coi fari che tagliavano la pioggia come occhi di gatto. Chiamò il numero di cellulare di Brian Parkhurst. Segreteria. Provò il numero di Kevin Byrne. Idem. Si sistemò il cappuccio dell'impermeabile. E attese. 30 Martedì, ore 20.55 È ubriaco. Questo mi semplificherà il lavoro. Riflessi rallentati, capacità ridotte, scarsa percezione della distanza. Potrei aspettarlo fuori dal bar, accostarlo, rivelare le mie intenzioni e poi tagliarlo in due. Ci resterebbe di sale. Ma che divertimento ci sarebbe? Quale lezione darei? No, credo che per la gente sia meglio sapere. Mi rendo conto che ci sono buone probabilità che io sia fermato prima di poter completare questo dramma della passione. E se un giorno mi condurranno per quel lungo corridoio, in una camera asettica, e mi legheranno a un lettino, accetterò la mia sorte.
Quando il mio tempo verrà, so che sarò giudicato da un potere assai più grande della comunità della Pennsylvania. Fino ad allora, sarò quello seduto accanto a voi in chiesa, quello che vi cede il posto sull'autobus, quello che vi tiene aperta la porta in un giorno di vento, quello che benda il ginocchio sbucciato di vostra figlia. È la grazia del vivere nell'ombra lunga di Dio. A volte l'ombra si rivela nient'altro che un attaccapanni. A volte l'ombra è tutto ciò che temete. 31 Martedì, ore 21.00 Byrne era seduto al bar, incurante della musica e del baccano proveniente dal tavolo da biliardo. Per il momento, sentiva soltanto il rombo che aveva in testa. Era in una malandata taverna d'angolo di Gray's Ferry chiamata Shotz, la cosa più lontana da un bar di sbirri che lui riuscisse a immaginare. Avrebbe potuto girare i bar degli alberghi in centro, ma non gli andava di pagare dieci dollari al bicchiere. Quello che davvero voleva era qualche minuto ancora con Brian Parkhurst. Se soltanto avesse potuto fare un altro tentativo con lui, avrebbe saputo con certezza. Buttò giù il suo bourbon e ne ordinò un altro. Byrne aveva spento il cellulare poco prima, ma aveva lasciato acceso il cercapersone. Lo controllò e vide il numero del Mercy Hospital. Era la seconda chiamata di Jimmy, quel giorno. Byrne guardò l'orologio. Sarebbe passato al Mercy e, col suo fascino, avrebbe convinto le infermiere di cardiologia a lasciargli fare una breve visita. Non esistono orari di visita, se c'è uno sbirro in ospedale. Le altre chiamate erano di Jessica. L'avrebbe richiamata di lì a poco. Gli serviva soltanto qualche minuto per sé. Ora voleva soltanto la pace del bar più rumoroso di Gray's Ferry. Tessa Wells. Nicole Taylor. Quando una persona viene assassinata, la gente pensa che gli sbirri arrivino sul posto, prendano qualche appunto e se ne tornino a casa, alla loro vita. Niente potrebbe essere più lontano dalla verità. Perché i morti invendicati non restano mai morti. I morti invendicati vi guardano. Vi guardano
quando andate al cinema o cenate con la vostra famiglia, o vi fate un paio di pinte coi ragazzi alla taverna all'angolo. Vi guardano quando fate l'amore. Guardano e aspettano e domandano. Che cosa stai facendo per me? vi sussurrano all'orecchio, piano, mentre la vostra vita procede, i vostri figli crescono e fioriscono, e voi ridete, piangete, sentite, credete. Perché sei fuori a divertirti? vi chiedono. Perché te la godi mentre io sono steso qui sul marmo gelido? Che cosa stai facendo per me? La percentuale di casi risolti di Byrne era una delle più alte della squadra, in parte, come lui sapeva, grazie alla sinergia con Jimmy Purify, in parte per i sogni a occhi aperti che aveva cominciato a fare, per gentile concessione di quattro pallottole uscite dalla pistola di Luther White e di un giretto sotto la superficie del Delaware. Il killer organizzato, per sua natura, si crede superiore alla maggior parte degli individui, ma specialmente alle persone incaricate di trovarlo. Era contro quel compiacimento che Kevin Byrne combatteva e, in quel caso particolare, il caso delle ragazze del rosario, per lui la battaglia stava diventando un'ossessione. Lui lo sapeva. Probabilmente l'aveva saputo fin dal momento in cui aveva sceso quei gradini marci della North 8th Street e visto la brutale umiliazione che aveva colpito Tessa Wells. Ma lui sapeva pure di essere spinto sia dal senso del dovere sia dall'orrore vissuto all'epoca di Morris Blanchard. Si era sbagliato tante volte, all'inizio della sua carriera, però i suoi errori non avevano mai portato alla morte di un innocente. Byrne non sapeva se l'arresto e la detenzione del killer del rosario sarebbero serviti a espiare la colpa, o se lo avrebbero aiutato a pareggiare i conti con la città di Philadelphia, ma sperava che avrebbero colmato il vuoto che aveva dentro. E, dopo, lui avrebbe potuto ritirarsi a testa alta. Certi poliziotti seguono i soldi, certi seguono la scienza, certi seguono il movente. Kevin Byrne si fidava della porta che aveva in fondo alla testa. No, non poteva predire il futuro, né svelare l'identità di un assassino con l'imposizione delle mani. Ma a volte sentiva di potere, e forse era quello a fare la differenza. La sfumatura percepita, l'intenzione scoperta, la via scelta, il filo seguito. Negli ultimi quindici anni, da quand'era annegato, si era sbagliato soltanto una volta. Aveva bisogno di dormire. Pagò il conto, salutò un paio di clienti abituali, uscì nella pioggia inesauribile. Gray's Ferry odorava di pulito. Byrne si abbottonò l'impermeabile e soppesò la sua capacità di guida,
considerati i cinque bourbon. Si dichiarò abile. Più o meno. Quando si avvicinò all'auto, capì che c'era qualcosa di strano, ma non colse immediatamente l'immagine. Poi vide. Il finestrino di sinistra era sfondato e i vetri rotti luccicavano sul sedile del guidatore. Guardò dentro. Il lettore CD e la custodia dei CD erano spariti. «Bastardi. Che città del cazzo.» Girò un paio di volte intorno all'auto, come un cane rabbioso che si morde la coda sotto la pioggia. Si sedette sul cofano, riflettendo sulla follia di denunciare il fatto. Sapeva come va il mondo. Recuperare una radio rubata a Gray's Ferry era tanto probabile quanto vedere Michael Jackson assunto in un asilo nido. Non lo seccava tanto il lettore rubato quanto il furto dei CD. Lì c'era una notevole collezione di classici del blues. Tre anni per metterla insieme. Stava per andarsene quando notò qualcuno che lo guardava dal lotto di terreno abbandonato sull'altro lato della strada. Byrne non riuscì a vedere chi fosse, ma nell'atteggiamento c'era qualcosa che gli rivelò tutto quello che aveva bisogno di sapere. «Ehi!» gridò Byrne. L'uomo se la diede a gambe come una lepre, dietro gli edifici sul lato opposto della strada. Byrne partì all'inseguimento. Byrne sentiva la Glock pesante nella mano, un peso morto. Quando ebbe attraversato la strada, l'uomo era svanito nella cortina di pioggia torrenziale. Cauto e furtivo, Byrne cercò in tutto il lotto coperto di detriti, poi nel vicolo dietro le case a schiera che coprivano l'intero isolato. Non vide il ladro. Dove diavolo era andato? Rinfoderò la Glock, si mosse con circospezione lungo la viuzza, sbirciò verso sinistra. Strada chiusa. Un cassonetto, un mucchio di sacchi d'immondizia, di cassette di legno rotte. Rallentò, infilandosi nel vicolo. C'era qualcuno dietro il cassonetto? Un tuono lo fece girare sui tacchi, col cuore che martellava in petto. Solo. Proseguì, attento a ogni ombra notturna. La smitragliata delle gocce di
pioggia sui sacchi di plastica eclissò per un momento ogni altro suono. Poi, sotto quello della pioggia, udì un mugolio, un frusciare di plastica. Byrne guardò dietro il cassonetto. Era un ragazzo nero, più o meno sui diciott'anni. Alla luce della luna, vide il cappuccio di nylon, la casacca dei Flyers, il simbolo di una gang tatuato sul braccio destro: apparteneva alla JBM, la Junior Black Mafia. Sul braccio sinistro aveva tatuaggi di passeri, di quelli che si fanno in galera. Era in ginocchio, legato e imbavagliato. In faccia aveva i segni di un pestaggio recente. Gli occhi erano rossi di paura. Che diavolo sta succedendo, qui? Byrne avvertì un movimento alla sua sinistra. Prima che potesse girarsi, un enorme braccio lo circondò da dietro. Byrne sentì il gelo di una lama di coltello, affilata come un rasoio, sulla gola. Poi, nell'orecchio: «Non muoverti, cazzo». 32 Martedì, ore 21.10 Jessica attese. La gente andava e veniva, affrettandosi sotto la pioggia, chiamando taxi, correndo verso la stazione della metropolitana. Nessuno di loro era Brian Parkhurst. Jessica infilò la mano sotto l'impermeabile, calibrò il ricevitore rover due volte. All'ingresso della Center Square Plaza, a una quindicina di metri di distanza, un tipo scompigliato uscì dall'ombra. Jessica lo guardò e alzò le mani, a palmi in su. Nick Palladino rispose con una scrollata di spalle. Prima di lasciare la zona nord-est, Jessica aveva provato a chiamare Byrne altre due volte, poi, andando in centro, aveva chiamato Nick, il quale aveva accettato all'istante di reggerle il gioco. La sua grande esperienza di lavoro sotto copertura nella Narcotici lo rendeva l'uomo ideale per una sorveglianza nascosta. Indossava una felpa sformata col cappuccio e pantaloni di cotone macchiati. Per Nick Palladino, era quello il vero sacrificio al lavoro. John Shepherd era sotto l'impalcatura dalla parte del municipio, esattamente sul lato opposto della strada, col binocolo in mano. Un paio di agenti in uniforme stavano di guardia alla fermata della metropolitana di Market Street, entrambi con la foto dell'annuario universitario di Brian Parkhurst, in caso lui spuntasse fuori da quella parte.
Non si era fatto vedere. E non pareva che sarebbe arrivato. Jessica chiamò il commissariato. Il gruppo che stazionava in casa di Parkhurst non riferì di nessun movimento. Jessica si avvicinò lentamente al punto in cui si trovava Palladino. «Non sei ancora riuscita a sentire Kevin?» «No.» «Dev'essere crollato. Aveva bisogno di riposare.» Lei esitò, non sapendo come chiedere. Era nuova in quel club, e non voleva pestare i calli a nessuno. «Ti sembra che stia bene?» «Kevin non è uno facile da capire, Jess.» «Sembra totalmente esausto.» Palladino annuì e accese una sigaretta. Tutti erano stanchi. «Ti parla delle sue... esperienze?» «Vuoi dire di Luther White?» Da quanto Jessica era riuscita a racimolare, quindici anni prima Kevin Byrne era stato coinvolto in un arresto finito male, uno scontro sanguinoso con un indiziato di violenza sessuale di nome Luther White. White era rimasto ucciso; lo stesso Byrne era quasi morto. Era quel quasi a confondere Jessica. «Già», disse Palladino. «No. Non ho avuto il fegato di chiederglielo.» «Se l'è cavata per un pelo. A quanto ho capito, in effetti è stato proprio morto, per un po'.» «Quindi ho sentito bene», replicò Jessica, incredula. «Allora cos'è, una specie di sensitivo o qualcosa del genere?» «Oh, Dio mio, no.» Palladino sorrise e scosse la testa. «Niente del genere. Non pronunciare mai quella parola in sua presenza. Anzi sarebbe meglio che non parlassi mai dell'argomento.» «Perché?» «Mettiamola così: giù alla centrale c'è un detective un po' troppo loquace che una sera, da Finnigan's Wake, gli ha rotto un po' le palle in proposito. Credo che quel tipo usi ancora la cannuccia per mangiare.» «Chiarissimo», commentò Jessica. «È solo che Kevin ha un... sesto senso per quelli veramente cattivi. O almeno ce l'aveva. Tutta la faccenda di Morris Blanchard è stata parecchio dura per lui. Ha avuto torto su Blanchard, e questo fatto lo ha quasi distrutto. So che vuole uscirne, Jess. Ormai è alla soglia dei vent'anni. Solo che non riesce a trovare la porta.»
I due poliziotti guardarono la piazza inondata dalla pioggia. «Ascolta», disse Palladino, «forse non spetta a me dirtelo, ma Ike Buchanan si è messo in una situazione delicata, con te. Lo sai, vero?» «Come sarebbe?» chiese Jessica, anche se ne aveva un'idea piuttosto precisa. «Quando ha messo su questa task force, e l'ha data a Kevin, avrebbe potuto lasciarti da parte. Diamine, forse avrebbe dovuto. Senza offesa.» «Figurati.» «Ike è un tipo combattivo. Tu magari pensi che ti lasci stare in prima linea per ragioni politiche - certo non ti sconvolgerà sapere che un paio di stronzi al dipartimento la pensano così -, ma lui crede in te. Non saresti qui, altrimenti.» Caspita. Come diavolo è cominciato tutto questo? pensò Jessica. «Be', spero di meritarmi tanta fiducia», disse. «Te la caverai benissimo.» «Grazie, Nick. Vuol dire molto per me.» E parlava sul serio. «Già, be', non so nemmeno perché te l'ho detto.» Per qualche ignota ragione, Jessica lo abbracciò. Dopo qualche istante si staccarono, si lisciarono i capelli, tossirono nei pugni e si ripresero da quell'esibizione di emotività. «Allora», riprese Jessica, un po' impacciata, «che facciamo adesso?» Nick Palladino setacciò l'intero isolato: dal municipio verso South Broad Street, alla Center Square Plaza, a Market Street. Trovò John Shepherd sotto la tettoia d'ingresso della metropolitana. John colse il suo sguardo. I due scrollarono le spalle. Pioveva a dirotto. «Che cazzo. Finiamola qui.» 33 Martedì, ore 21.15 Byrne non ebbe bisogno di voltarsi per sapere chi era. I suoni molli provenienti dalla bocca dell'uomo - le sibilanti mancanti, le occlusive distrutte insieme con la voce profondamente nasale - rivelavano che si trattava di una persona a cui era stato asportato un certo numero di denti superiori e a cui avevano recentemente demolito il naso. Era Diablo, la guardia del corpo di Gideon Pratt. «Sta' calmo», disse Byrne.
«Oh, sono calmo, cowboy. Una colomba, sono, cazzo.» Poi Byrne sentì qualcosa di molto peggio della lama fredda sulla gola. Sentì Diablo tastarlo e portargli via la Glock di servizio: l'incubo peggiore di tutta la sfilza di brutti sogni di un poliziotto. Diablo appoggiò la canna della Glock sulla nuca di Byrne. «Sono uno sbirro», dichiarò Byrne. «Ma va? La prossima volta che commetti un'aggressione aggravata, dovresti stare lontano dalla TV.» La conferenza stampa, pensò Byrne. Diablo aveva visto la conferenza stampa, era rimasto ad aspettarlo fuori dalla Roundhouse e lo aveva seguito. «Non ti conviene farlo», lo ammonì Byrne. «Chiudi quella cazzo di bocca.» Il ragazzo legato guardava tra loro due, da una parte e dall'altra, cercando con gli occhi una via di fuga. Il tatuaggio sull'avambraccio di Diablo rivelò a Byrne che apparteneva alla P-Town Posse, un bizzarro conglomerato di vietnamiti, indonesiani e teppisti scontenti che, per una ragione o per l'altra, non avevano trovato posto altrove. La P-Town Posse e la JBM erano nemici naturali, un odio decennale. Adesso Byrne sapeva cosa stava succedendo. Diablo lo stava incastrando. «Lascialo andare. Sistemiamo questa cosa tra noi», lo invitò Byrne. «Questa cosa ci metterà un pezzo a sistemarsi, figlio di puttana.» Byrne sapeva di dover fare una mossa. Deglutì a fatica, sentì il sapore del Vicodin in fondo al palato, percepì la scintilla tra le dita. Diablo fece quella mossa al posto suo. Senza preavviso, senza un pizzico di coscienza, Diablo gli girò intorno, puntò la Glock e sparò al ragazzo a bruciapelo. Un colpo solo, al cuore. All'istante, uno schizzo di sangue, tessuti e frammenti di ossa, colpì lo sporco muro di mattoni, generando un'intensa schiuma scarlatta, e poi si disperse in terra con la pioggia battente. Il ragazzo si afflosciò. Byrne chiuse gli occhi. Vide mentalmente Luther White che gli puntava la pistola addosso, tanti anni prima. Sentì l'acqua gelida mulinargli intorno, mentre affondava sempre di più. Il tuono si schiantava, il lampo saettava. Il tempo strisciava. Si fermò. Non sentendo arrivare il dolore, Byrne aprì gli occhi e vide Diablo svol-
tare l'angolo e sparire. Byrne sapeva che cosa lo aspettava. Diablo avrebbe abbandonato l'arma nelle vicinanze, in un cassonetto, in un bidone, in un tombino. Gli sbirri l'avrebbero trovata. La trovavano sempre. E la vita di Kevin Francis Byrne sarebbe finita. Chi sarebbe venuto a prenderlo? si domandò. Johnny Shepherd? Ike si sarebbe offerto di portarlo dentro? Byrne guardò la pioggia cadere sul corpo del ragazzo morto, trascinando il suo sangue dentro i solchi del cemento. Era incapace di muoversi. I suoi pensieri arrancavano in un sottobosco intricato. Sapeva che, se avesse denunciato il fatto, se l'avesse reso di dominio pubblico, sarebbe stato soltanto l'inizio. I verbali, la Scientifica, i detective, la procura distrettuale, l'udienza preliminare, la stampa, le accuse, la caccia alle streghe degli Affari Interni, il congedo amministrativo. La paura lo invase, lucente e metallica. Il volto sorridente, beffardo di Morris Blanchard danzava dietro i suoi occhi. La città non glielo avrebbe mai perdonato. La città non avrebbe mai dimenticato. Ai suoi piedi c'era il cadavere di un ragazzo nero; nessun testimone, nessun collega. Lui era ubriaco. Un morto nero, il membro di una gang, con tutta l'aria di essere stato giustiziato da un proiettile della sua Glock di servizio, arma sulla quale, al momento, non poteva contare. Per uno sbirro bianco a Philly, l'incubo non poteva farsi più cupo. Non c'era tempo per pensarci. Si acquattò, provò a sentirgli il polso. Niente. Tirò fuori la torcia elettrica, facendo schermo con le mani per nascondere la luce il più possibile. Esaminò il cadavere da vicino. A giudicare dall'angolo e dall'aspetto della ferita d'entrata, sembrava che la pallottola fosse passata da parte a parte. Trovò subito il bossolo e se lo infilò in tasca. Cercò il proiettile in terra, tra il ragazzo e il muro. Rifiuti di fast-food, mozziconi di sigaretta fradici, un paio di preservativi colorati. Nessun proiettile. Sopra la sua testa, in una delle stanze che davano sul vicolo, si accese una luce. Ben presto avrebbe sentito una sirena. Byrne accelerò le ricerche. Buttò in giro sacchi di spazzatura e il tanfo di cibo marcio per poco non lo fece vomitare. Giornali fradici, riviste bagnate, bucce d'arancia, filtri del caffè, gusci d'uovo. Poi gli angeli, dall'alto, gli sorrisero. Vicino alle schegge di una bottiglia di birra rotta, c'era la pallottola. La
raccolse, se la mise in tasca. Era ancora calda. Poi prese una busta di plastica per le prove. Ne aveva sempre qualcuna nella giacca. La rivoltò e l'appoggiò sopra la ferita d'entrata sul petto del ragazzo, assicurandosi di prelevare una bella striscia di sangue. Si allontanò dal corpo, rivoltò nuovamente la busta e la sigillò. Sentì la sirena. Quando si voltò per mettersi a correre, qualcosa di diverso dal pensiero razionale si era impadronito della mente di Kevin Byrne, qualcosa di molto più oscuro, che nulla aveva a che vedere con l'Accademia, col manuale, col lavoro. Una cosa che si chiama sopravvivenza. Si avviò lungo il vicolo, assolutamente certo di aver trascurato qualcosa. Ne era sicuro. All'imboccatura del vicolo, guardò a destra e a sinistra. Deserto. Attraversò di corsa il lotto abbandonato, s'infilò nella sua auto, frugò nella tasca e tirò fuori il cellulare. Squillò immediatamente. Il suono lo fece quasi sobbalzare. Rispose. «Byrne.» Era Eric Chavez. «Dove sei?» domandò. Non era lì. Non poteva essere lì. Pensò alla localizzazione delle chiamate da cellulare. Se si fosse arrivati a quel punto, avrebbero potuto tracciare la provenienza di quella chiamata? La sirena si avvicinava. Chavez la sentiva? «Old City», rispose Byrne. «Che succede?» «È appena arrivata una chiamata. 911. Qualcuno ha visto un tale che portava un corpo su al Museo Rodin.» Gesù. Doveva andare. Subito. Non c'era tempo per pensare. Ecco come e perché la gente veniva presa. Ma lui non aveva scelta. «Sto arrivando.» Prima di andarsene, lanciò un'occhiata nel vicolo, a quella triste scena. Al centro c'era un ragazzo morto, cascato nel mezzo dell'incubo di Kevin Byrne, un ragazzo il cui personale incubo aveva appena fatto breccia nell'alba. 34 Martedì, ore 21.20
Si era addormentato. Fin da quand'era bambino, nel Lake District, dove il rumore della pioggia sul tetto era una ninnananna, il suono del temporale calmava Simon. Fu il ritorno di fiamma dell'auto a svegliarlo. O forse era uno sparo. Era a Gray's Ferry, dopotutto. Guardò l'orologio. Un'ora. Aveva dormito un'ora. Bel campione di vigilanza. Sembrava più l'ispettore Clouseau. L'ultima cosa che ricordava, prima di quel brusco risveglio, era Kevin Byrne che spariva in un baraccio di Gray's Ferry chiamato Shotz, il genere di posto in cui, entrando, devi scendere due scalini. Fisicamente e socialmente. Un decrepito pub irlandese pieno di tipi da notte di Halloween. Simon aveva parcheggiato in una via laterale, un po' per tenersi fuori dalla visuale di Byrne, un po' perché non c'era spazio davanti al bar. La sua intenzione era aspettare che Byrne uscisse dal bar, seguirlo, vedere se s'infilava in qualche stradina buia e si accendeva una pipa da crack. Se tutto fosse andato bene, Simon si sarebbe avvicinato di soppiatto alla macchina e avrebbe scattato una foto del leggendario detective Kevin Francis Byrne con un cannone di vetro da dodici centimetri tra le labbra. Allora Byrne sarebbe stato suo. Simon tirò fuori il suo piccolo ombrello pieghevole, aprì la portiera dell'auto, aprì l'ombrello e sgattaiolò fino all'angolo dell'edificio. Sbirciò in giro. La macchina di Byrne era ancora parcheggiata lì. Pareva che qualcuno avesse spaccato il vetro di sinistra. Oh, Signore. Quel poveraccio ha scelto la macchina sbagliata e la notte sbagliata, pensò Simon. Il bar era ancora pieno di gente. Sentì la soave melodia di un vecchio brano dei Thin Lizzy che scuoteva le finestre. Stava per tornare alla macchina quando un'ombra attirò la sua attenzione, un'ombra che saettava attraverso il lotto abbandonato proprio davanti a Shotz. Anche nella penombra del neon del bar, Simon riconobbe la voluminosa sagoma di Byrne. Che diavolo ci faceva laggiù? Simon sollevò la macchina fotografica, mise a fuoco, scattò qualche immagine. Non sapeva bene perché, ma, quando si segue uno con la macchina fotografica e il giorno dopo si cerca di mettere insieme il collage d'immagini, ogni immagine aiuta a stabilire un orario. Inoltre le immagini digitali erano cancellabili. Non era più come ai vecchi tempi, quando ogni scatto di una 35 millimetri costava bei soldi.
Tornato in auto, aveva controllato le immagini sul piccolo display a cristalli liquidi della macchina fotografica. Non male. Un po' scuro, certo, ma era chiaramente Kevin Byrne che usciva da quel vicolo e attraversava il lotto. In due fotografie, lo sfondo era la fiancata di un furgone di colore chiaro, e il colossale profilo dell'uomo era inconfondibile. Simon si assicurò che sull'immagine fossero stampate data e ora. Fatto. Poi il suo scanner sintonizzato sulle frequenze della polizia - un Uniden BC250D, un modello portatile che più di una volta gli aveva permesso di arrivare sulla scena del crimine prima dei poliziotti - si animò, gracchiando. Simon non riuscì a distinguere i dettagli, ma, pochi secondi più tardi, quando Kevin Byrne partì, capì che, di qualunque cosa si trattasse, Byrne ci era dentro. Girò la chiavetta di accensione, sperando che il suo lavoretto per bloccare la marmitta funzionasse. Funzionò. Non avrebbe rombato come un Cessna in volo mentre cercava di pedinare uno dei detective più esperti della città. La vita era bella. Mise in moto la macchina. E lo seguì. 35 Martedì, ore 21.45 Jessica era ferma nel vialetto di casa sua. La spossatezza cominciava a farsi sentire. La pioggia martellava sul tetto della Cherokee. Lei pensava a quello che aveva detto Nick. L'aveva sfiorata la consapevolezza di non essersi sorbita «il discorso», dopo la formazione della task force, quel colloquio che doveva cominciare con: Senti, Jessica, questo non ha niente a che vedere con le tue capacità di detective... Quel discorso non c'era mai stato. Spense il motore. Cosa voleva comunicarle Brian Parkhurst? Non le aveva detto di voler dire quello che aveva fatto, ma che c'erano cose che lei doveva sapere su quelle ragazze. Che genere di cose? E lui dov'era? Se vedo qualcun altro, me ne vado.
Forse Parkhurst aveva riconosciuto Nick Palladino e John Shepherd come sbirri? Improbabile. Jessica scese, chiuse la Jeep e corse alla porta posteriore, schizzando acqua dalle pozzanghere lungo la strada. Era fradicia. Sembrava fradicia da sempre. La lampadina della veranda sul retro si era bruciata qualche settimana prima e, mentre armeggiava in cerca della chiave di casa, lei si rimproverò per l'ennesima volta di non averla sostituita. I rami dell'acero moribondo scricchiolarono. Bisognava proprio potarlo, prima che quei rami crollassero dentro casa. Di solito era Vincent a occuparsi di quelle cose, ma Vincent non c'era, giusto? È tutto sotto controllo, Jess. Per il momento tu sei la mamma e anche il papà, oltre che il cuoco, il riparatore, il giardiniere, l'autista e il tutore. Aveva la chiave di casa in mano e stava per aprire la porta posteriore quando udì un rumore sopra la sua testa, lo stridore dell'alluminio che si piega, si spezza, geme sotto un peso enorme. Udì anche il fruscio di scarpe con la suola di cuoio sul pavimento e scorse una mano allungarsi verso di lei. Estrai l'arma, Jess... La Glock era nella borsetta. Regola numero uno: non tenere mai l'arma nella borsetta... L'ombra formò un corpo. Il corpo di un uomo. Un prete. Lui chiuse la mano intorno al braccio di lei. E la trascinò dentro il buio. 36 Martedì, ore 21.50 La scena intorno al Museo Rodin era da manicomio. Simon rimase arretrato rispetto alla folla che si andava radunando, allungando il collo per guardare, insieme con gente che non si era lavata. Chissà cos'era ad attirare normali cittadini verso scenari di miseria e caos come mosche su un mucchio di letame, si domandò. Senti chi parla, pensò con un sorriso. Tuttavia, a propria discolpa, sentiva che, nonostante la sua inclinazione per le atrocità e la sua predilezione per il morboso, gli restava uno scampo-
lo di dignità cui aggrapparsi. Ancora salvaguardava quel briciolo di senso di grandezza legato al suo lavoro e al diritto del pubblico a sapere. Piacesse o no, era un giornalista. Si fece strada verso la prima fila di gente. Si tirò su il colletto, inforcò gli occhiali con la montatura di tartaruga, si scostò i capelli dalla fronte. La morte era lì. E c'era anche Simon Close. Pane e marmellata. 37 Martedì, ore 21.50 Era padre Corrio. Padre Mark Corrio era il parroco di St. Paul's dai tempi in cui Jessica era bambina. Si era insediato quando lei aveva all'incirca nove anni. Jessica ricordava che, all'epoca, tutte le donne cadevano in deliquio di fronte alla sua bellezza bruna, commentando che spreco fosse, un uomo simile consacrato al sacerdozio. I capelli scuri si erano fatti grigi come il ghiaccio, ma era ancora un bell'uomo. Però lì sulla sua veranda, al buio, sotto la pioggia, lui era Freddie Krueger. Ecco che cos'era successo: una delle grondaie sopra la veranda si era precariamente inclinata, sul punto di spezzarsi sotto il peso di un ramo zuppo d'acqua caduto da un albero vicino. Padre Corrio aveva afferrato Jessica per sottrarla al pericolo. Pochi secondi dopo, la grondaia si era divelta dal suo sostegno, crollando a terra. Intervento divino? Forse. Ma ciò non impedì a Jessica di farsela addosso per la fifa, per qualche istante. «Scusami se ti ho spaventata», le disse lui. Per poco, Jessica non replicò: Scusami se ti ho quasi spedito all'altro mondo, padre. «Prego, entri», lo invitò, invece. Una volta asciugati, e preparato il caffè, si sedettero in salotto e si sbarazzarono dei convenevoli. Jessica chiamò Paula e le disse che sarebbe andata da lei tra poco. «Come sta tuo padre?» domandò il prete.
«Benone, grazie.» «Non l'ho visto a St. Paul's, ultimamente.» «Non è tanto alto. Forse sta nelle ultime file», ipotizzò Jessica. Padre Corrio sorrise. «Ti piace abitare nel nord-est?» Detto da padre Corrio, sembrava che quella parte di Philadelphia fosse un Paese straniero. D'altra parte, pensò Jessica, per il mondo appartato di South Philly, probabilmente lo era. «Non c'è un panettiere decente», rispose. Padre Corrio rise. «L'avessi saputo, sarei passato da Sarcone.» Jessica ricordò quando mangiava il pane caldo di Sarcone, da bambina. Il formaggio da Di Bruno, le paste da Isgro. Quei pensieri, insieme con la presenza di padre Corrio, la colmarono di una tristezza profonda. Che diavolo ci faceva, lei, in un quartiere residenziale? E, cosa più importante, che ci faceva lì il suo vecchio parroco? «Ti ho visto in televisione, ieri», disse lui. Per un momento, Jessica fu sul punto di dirgli che si era sbagliato. Lei era un'agente di polizia. Poi, naturalmente, ricordò: la conferenza stampa. Jessica non sapeva bene che cosa dire. In qualche modo, sapeva che padre Corrio era passato da lei a causa degli omicidi. Ma non sapeva se era pronta per un'omelia. «Quel giovane è indiziato?» domandò lui. Si riferiva al circo equestre che aveva accompagnato l'uscita di Brian Parkhurst dalla Roundhouse. Era uscito con monsignor Pacek e, forse come salva introduttiva della imminente guerra di pubbliche relazioni, Pacek aveva deliberatamente e teatralmente rifiutato di commentare. Jessica aveva visto il continuo replay della scena tra la North 8th Street e Race Street. Le TV erano riuscite a procurarsi il nome di Parkhurst e sbatterlo sullo schermo. «Non esattamente», mentì Jessica. Al suo prete, già. «Però ci piacerebbe molto parlare ancora con lui.» «Lavora per l'arcidiocesi, ho sentito?» Era una domanda e un'affermazione. Una di quelle cose in cui preti e strizzacervelli sono bravissimi. «Sì. Fa consulenza per le studentesse della Nazarene, del Regina e di altre due o tre scuole.» «Credi che sia responsabile dei...?» La voce di padre Corrio si spense. Evidentemente gli era difficile pronunciare quelle parole. «Non ne sono sicura, davvero», ammise Jessica. Padre Corrio assimilò l'informazione. «È una cosa veramente terribile.»
Jessica si limitò ad annuire. «Quando sento di crimini come questi, devo chiedermi quanto è civile il luogo in cui viviamo. Ci piace pensare di essere diventati illuminati, nel corso dei secoli. Ma questo? È una barbarie», dichiarò il sacerdote. «Io cerco di non pensarci in questi termini. Se penso agli orrori di tutta questa storia, non posso fare il mio lavoro.» Sembrava facile, a dirlo. Non lo era. «Hai mai sentito parlare del Rosarium Virginis Mariae?» «Credo di sì», rispose Jessica. Sembrava una cosa in cui poteva essersi imbattuta durante le sue ricerche in biblioteca, ma, come buona parte di quelle informazioni, si era perduta in un abisso senza fondo di dati. «Perché me lo chiede?» Il prete sorrise. «Non preoccuparti, non voglio farti un quiz.» Infilò la mano nella sua valigetta e ne estrasse una busta. «Penso che tu debba leggere questo.» Le porse la busta. «Che cos'è?» «Il Rosarium Virginis Mariae è una lettera apostolica riguardante il rosario della Vergine Maria.» «Ha qualcosa a che fare con questi omicidi?» «Non lo so.» Jessica diede un'occhiata ai fogli piegati all'interno. «Grazie. Lo leggerò stanotte.» Padre Corrio finì il caffè e guardò l'orologio. «Ne vuole ancora un po'?» domandò Jessica. «No, grazie. Devo proprio andare.» Prima che l'uomo potesse alzarsi, squillò il telefono. «Mi scusi», disse lei. Jessica rispose. Era Eric Chavez. Mentre ascoltava, guardava la propria immagine riflessa sulla finestra nera come la notte. Il buio minacciò di spalancarsi e d'inghiottirla tutta intera. Avevano trovato un'altra ragazza. 38 Martedì, ore 22.20 Il piccolo Museo Rodin, dedicato allo scultore francese, si trova all'an-
golo tra la 22nd Street e la Benjamin Franklin Parkway. Quando Jessica arrivò, sulla scena c'erano già alcune auto di servizio. Due corsie del viale erano bloccate. La gente si stava radunando. Kevin Byrne si appartò con John Shepherd. La ragazza era seduta a terra, la schiena appoggiata al cancello di bronzo che dava sul cortile del museo. Sembrava sui sedici anni. Aveva le mani imbullonate, proprio come le altre. Era di corporatura robusta, coi capelli rossi, graziosa. Indossava la divisa del Regina. Tra le mani aveva un rosario nero, al quale mancavano tre decine di grani. Sul capo, una corona di spine realizzata col filo spinato a fisarmonica. I rivoli di sangue sul volto formavano un delicato reticolo color cremisi. «Maledizione», gridò Byrne, battendo il pugno contro il cofano dell'auto. «Ho diramato un comunicato con la descrizione di Parkhurst», disse Buchanan. «Sul furgone c'è un manifesto.» Jessica lo aveva sentito mentre tornava in centro, il suo terzo viaggio della giornata. «Una corona? Una cazzo di corona?» domandò Byrne. «C'è di meglio», disse John Shepherd. «Come sarebbe?» «Lo vedi quel portone?» Shepherd puntò la torcia verso il portone interno, quello che immetteva nel museo vero e proprio. «Sì, allora?» fece Byrne. «Lo chiamano Porta dell'Inferno. Questo bastardo è proprio un bel soggetto.» «Il dipinto. Il dipinto di Blake», notò Byrne. «Già.» «Ci sta dicendo dove troveremo la prossima vittima.» Per un agente della Omicidi, l'unica cosa peggiore del non avere indizi era essere preso per i fondelli. Sulla scena di quel delitto, la rabbia collettiva era palpabile. «La ragazza si chiamava Bethany Price», disse Tony Park, consultando i suoi appunti. «La madre ne ha denunciato la scomparsa oggi pomeriggio. Si trovava alla stazione del Sesto Distretto quand'è arrivata la chiamata. Eccola laggiù.» Indicò una donna poco meno che quarantenne, con un impermeabile marrone chiaro. A Jessica ricordò una di quelle persone che, traumatizzate
dallo scoppio di un'autobomba, si vedono nei servizi giornalistici dall'estero: perduta, inebetita, svuotata. «Da quanto tempo era scomparsa?» s'informò Jessica. «Oggi non era tornata da scuola. Tutti quelli che hanno una figlia al liceo o al ginnasio sono piuttosto tesi.» «Grazie ai media», commentò Shepherd. Byrne cominciò a camminare su e giù. «Cosa sappiamo di quello che ha chiamato il 911?» domandò Shepherd. Park indicò un uomo fermo dietro una delle auto di servizio. Era sui quarant'anni, elegante nel suo completo blu marine con la giacca a tre bottoni e la cravatta coi colori del club. «Si chiama Jeremy Darnton», spiegò. «Ha detto che stava guidando sui sessanta all'ora. Ha visto soltanto la vittima trasportata sulla spalla da un uomo. Quand'è riuscito ad accostare e a invertire la marcia, l'uomo era sparito.» «Non ci sono descrizioni di quell'uomo?» chiese Jessica. Park scosse la testa. «Camicia o giacca bianca. Pantaloni scuri.» «Tutto qui?» «Tutto qui.» «Tutti i camerieri di Philly sono così», commentò Byrne, e riprese a camminare. «Voglio quest'uomo. Voglio distruggere questo bastardo.» «Lo vogliamo tutti, Kevin. Lo prenderemo», affermò Shepherd. «Parkhurst mi ha giocato. Sapeva che non sarei andata da sola», disse Jessica. «Sapeva che avrei portato la cavalleria. Ha cercato di distrarci.» «E ci è riuscito», commentò Shepherd. Qualche minuto dopo, quando Tom Weyrich si fece avanti per l'esame preliminare, tutti si avvicinarono alla vittima. Weyrich provò a sentire il battito, quindi dichiarò il decesso. Poi le osservò i polsi. Su ciascun polso c'era una vecchia cicatrice, una cresta grigia serpeggiante, un taglio rozzo, laterale, un paio di centimetri sotto la parte terminale del palmo. Negli ultimi anni, in un momento imprecisato, Bethany Price aveva tentato il suicidio. Mentre le luci della mezza dozzina di auto di servizio lampeggiavano sulla statua del Pensatore, mentre la folla continuava a radunarsi, mentre la pioggia aumentava d'intensità, un uomo tra la folla stava a guardare, un uomo padrone di una profonda e segreta conoscenza degli orrori che si stavano abbattendo sulle figlie di Philadelphia.
39 Martedì, ore 22.25 Le luci sul volto della statua sono bellissime. Ma non belle quanto Bethany. I suoi delicati lineamenti bianchi le danno l'aspetto di un angelo triste, radioso come la luna invernale. Perché non la coprono? Certo, se soltanto si rendessero conto di che anima tormentata era Bethany, non sarebbero così sconvolti. Devo ammettere che sento un profondo brivido di eccitazione, qui tra i miei bravi concittadini, guardando tutto ciò. Non ho mai visto in vita mia così tante auto della polizia. I lampeggianti illuminano il viale come per il carnevale. È quasi un'atmosfera di festa. Ci saranno una sessantina di persone ammassate qui. La morte è sempre un'attrazione. Come un ottovolante. Avviciniamoci, ma non troppo. Sfortunatamente, prima o poi tutti ci avviciniamo, che ci piaccia o no. Cosa penserebbero se aprissi il soprabito e mostrassi loro quello che porto addosso? Guardo alla mia destra. Accanto a me c'è una coppia di coniugi. Tra i quaranta e i cinquanta anni, bianchi, benestanti, ben vestiti. «Ha idea di che cosa sia successo qui?» domando al marito. Lui mi guarda rapidamente da capo a piedi. Non costituisco un'offesa, né una minaccia. «Non saprei. Ma credo che abbiano trovato un'altra ragazza», mi risponde. «Un'altra ragazza?» «Un'altra vittima del... maniaco del rosario.» Mi copro la bocca, sbigottito. «Sul serio? Proprio qui?» I due annuiscono con aria grave, soprattutto a causa di un senso d'orgoglio compiaciuto per essere stati loro a darmi la notizia. Sono il genere di persone che guardano Entertainment Tonight e si precipitano al telefono per essere i primi a comunicare ai loro amici il nome del morto illustre del giorno. «Spero proprio che lo prendano presto», dichiaro. «Non lo prenderanno», dice la moglie. Indossa un costoso cardigan di lana bianco. Ha un ombrello costoso. Ha i denti più minuscoli che abbia mai visto. «Perché dice questo?» le chiedo. «Detto tra noi, non sempre i poliziotti sono tra i più svegli.»
Le guardo la linea del mento, la pelle un po' cascante del collo. Lo sa che, in questo preciso istante, potrei prenderle la faccia tra le mani e spezzarle la colonna vertebrale in un secondo? Mi piacerebbe. Davvero. Puttana arrogante e perbenista. Dovrei farlo. Ma non lo farò. Ho del lavoro da fare. Forse li seguirò fino a casa, e andrò a trovarla quando sarà tutto finito. 40 Martedì, ore 22.30 La scena del crimine si estendeva per un raggio di cinquanta metri. Il traffico sul viale si era ristretto a una sola corsia. Due agenti in divisa dirigevano il flusso dei veicoli. Byrne e Jessica guardavano Tony Park e John Shepherd dare istruzioni alla Scientifica. In quel caso, erano loro i detective responsabili, anche se chiaramente il caso sarebbe presto rientrato nella sfera di competenza della task force. Jessica si appoggiò a un'auto di servizio, cercando di decifrare quell'incubo. Diede un'occhiata a Byrne. Era completamente fuori, perso in uno dei suoi trip mentali. In quel momento, un uomo emerse dalla folla e si fece avanti. Jessica lo vide avvicinarsi con la coda dell'occhio. Prima che lei potesse reagire, l'aveva raggiunta. Si voltò, sulla difensiva. Era Patrick Farrell. «Ehilà», fece Patrick. In un primo momento, la sua presenza le parve così fuori posto che Jessica pensò dovesse essere un uomo che somigliava a Patrick. Era uno di quei momenti in cui qualcuno, che rappresenta una certa parte della tua vita, invade l'altra parte della tua vita, e di colpo tutto è un tantino fuori quadro, un tantino inclinato verso l'irreale. «Ciao», fece Jessica, sorpresa dalla propria voce. «Che ci fai qui?» Byrne, poco lontano, rivolse a Jessica uno sguardo preoccupato, come a domandare: Tutto bene? In momenti come quello, vista la ragione per cui erano lì, tutti erano un po' nervosi, un po' meno fiduciosi di fronte a un volto estraneo. «Patrick Farrell, il mio collega Kevin Byrne», lo presentò Jessica, va-
gamente rigida. I due uomini si strinsero la mano. Per una frazione di secondo, Jessica si sentì in ansia per quell'incontro, anche se non sapeva perché. Ansia accentuata da un guizzo momentaneo negli occhi di Kevin Byrne mentre i due si stringevano la mano, un fuggevole sospetto che si dissolse, rapido com'era apparso. «Stavo andando da mia sorella a Manayunk. Ho visto i lampeggianti e mi sono fermato. Temo che sia un riflesso condizionato», spiegò Patrick. «Patrick è medico di pronto soccorso al St. Joseph's», riferì Jessica a Byrne. L'uomo annuì, forse in segno di comprensione per le difficoltà del lavoro di un medico in sala traumi, forse riconoscendo tra loro un tratto comune, di uomini che quotidianamente tentavano di medicare le ferite sanguinanti della città. «Qualche anno fa ho visto un intervento di soccorso sulla Schuylkill Expressway. Mi sono fermato e ho fatto una tracheotomia d'emergenza. Da allora, non sono mai più riuscito a passare davanti alle luci intermittenti senza fermarmi.» Byrne gli si accostò e abbassò la voce. «Se per caso questo tipo dovesse ferirsi gravemente, quando lo prenderemo, e se per caso finisse al suo pronto soccorso, non abbia troppa fretta di rimetterlo in sesto, okay?» Patrick sorrise. «D'accordo.» Buchanan si avvicinò. Sembrava che portasse sulle spalle un peso da dieci tonnellate. «Andate a casa. Tutti e due», ordinò a Jessica e Byrne. «Non voglio vedervi fino a giovedì.» Nessuno dei due obiettò. Byrne sollevò il cellulare e disse a Jessica: «Scusami, per questo. L'avevo spento. Non succederà più». «Non pensarci», replicò lei. «Se vuoi parlare, a qualunque ora, chiama.» «Grazie.» Byrne si rivolse a Patrick. «Lieto di averla conosciuta, dottore.» «Piacere mio», replicò l'altro. Byrne girò sui tacchi, si chinò per passare sotto il nastro giallo e si diresse alla sua auto. «Senti, io resto qui ancora un po', nel caso che serva gente in più per sentire i testimoni.» Patrick diede un'occhiata all'orologio. «Bene. Comunque devo correre da
mia sorella.» Jessica gli toccò il braccio. «Perché non mi chiami più tardi? Non dovrei averne per molto.» «Sicura?» Certo che no, pensò Jessica. «Certo.» Patrick aveva una bottiglia di Merlot in una mano e una scatola di tartufi di cioccolato Godiva nell'altra. «Niente fiori?» chiese Jessica, ammiccando. Aprì la porta d'ingresso e lo fece entrare. L'uomo sorrise. «Non sono riuscito a scavalcare il cancello del Morris Arboretum. Ci ho provato, però.» Jessica lo aiutò a togliersi l'impermeabile gocciolante. I capelli neri erano arruffati dal vento, luccicanti di pioggia. Anche scompigliato e bagnato, Patrick era pericolosamente sexy. Jessica cercò di scacciare quel pensiero, anche se non sapeva proprio perché. «Come sta tua sorella?» chiese. Claudia Farrell Spencer era il cardiochirurgo che Patrick sarebbe dovuto diventare, una forza della natura che aveva soddisfatto tutte le ambizioni di Martin Farrell. Le mancava soltanto di essere un uomo. «Incinta e bisbetica come un barboncino rosa», rispose Patrick. «A che punto è?» «A sentir lei, più a meno al terzo anno. All'ottavo mese, in realtà. È grossa quasi come una jeep corazzata.» «Cavolo, spero che tu glielo abbia detto. Le donne incinte adorano sentirsi dire che sono grosse.» Patrick rise. Jessica prese il vino e i cioccolatini e li mise sul tavolo dell'ingresso. «Vado a prendere dei bicchieri.» Mentre si voltava, Patrick le afferrò la mano. Jessica si rigirò, trovandosi faccia a faccia con lui nel piccolo ingresso. Tra di loro un passato e un presente in bilico; di fronte a loro, un momento che si prolungava. «Meglio che stai attento, Doc. Ho addosso una sputafuoco.» Patrick sorrise. Qui è meglio che qualcuno faccia qualcosa, pensò Jessica. Patrick lo fece. Fece scivolare le mani intorno alla vita di Jessica e l'attirò a sé. Un gesto deciso, ma non aggressivo.
Il bacio fu intenso, lento, perfetto. Dapprima Jessica faticava a credere di stare baciando, in casa sua, qualcuno che non fosse suo marito. Ma poi considerò che Vincent non si era fatto troppi problemi a superare quell'intralcio, con Michelle Brown. Era inutile domandarsi se fosse giusto o sbagliato. Sentiva che era giusto. Quando Patrick la portò sul divano del salotto, le sembrò anche meglio. 41 Mercoledì, ore 1.40 All'Ocho Rios, un localino reggae a Northern Liberties, l'atmosfera si stava rilassando. Ormai, il DJ metteva musica più che altro come sottofondo. In pista c'erano soltanto due o tre coppie. Byrne attraversò il locale e parlò con uno dei baristi, che scomparve da una porta dietro il bar. Poco dopo, un uomo uscì da dietro la tenda di perline di plastica. Allorché quell'uomo vide Byrne, s'illuminò in viso. Gauntlett Merriman aveva da poco passato i quarant'anni. Negli anni '80 aveva volato alto, con la banda Caviale e Champagne: possedeva contemporaneamente una villetta a Society Hill e una casa sul mare nel Jersey. I lunghi dreadlock, striati di bianco anche quando aveva vent'anni, erano celebri nell'ambiente dei locali notturni, come pure alla Roundhouse. Byrne ricordava che Gauntlett, una volta, aveva una Jaguar XJS color pesca, una Mercedes 380 SE color pesca e una Bmw 635 CSi color pesca, tutte contemporaneamente. Le parcheggiava tutte di fronte a casa sua, in Delancey Street, splendenti coi loro vistosi copricerchi cromati e coi gingilli d'oro personalizzati a forma di foglia di marijuana sul cofano, solo per fare impazzire i bianchi. A quanto pareva, non aveva perduto il gusto per i colori. Quella notte indossava un abito di lino color pesca e sandali di cuoio color pesca. Byrne aveva saputo la notizia, ma non era preparato per quello spettro che era diventato Gauntlett Merriman. Gauntlett Merriman era un fantasma. Chiaramente si era preso il pacco con tutti gli optional. La faccia e le mani erano macchiate dal sarcoma di Kaposi, i polsi uscivano dalle maniche della giacca come ramoscelli nodosi. Il vistoso Patek Philippe sembrava sul punto di cadere da un momento all'altro.
Eppure, nonostante tutto, era ancora Gauntlett. Il macho, lo stoico, il rude bwoy* Gauntlett. Anche in quella fase avanzata, voleva far sapere al mondo che il virus gli era entrato nelle vene. La seconda cosa che Byrne notò, dopo il volto scheletrico dell'uomo che attraversava la stanza per raggiungerlo, a braccia aperte, era che Gauntlett Merriman indossava una maglietta nera che proclamava a grandi lettere bianche: NON SONO UN FOTTUTO GAY! I due si abbracciarono. Byrne sentì la fragilità di Gauntlett, come un uccello secco, pronto a spezzarsi alla più lieve pressione. Si sedettero a un tavolo d'angolo. Gauntlett chiamò un cameriere, che portò a Byrne un bourbon e a lui un'acqua minerale. «Hai smesso di bere?» domandò Byrne. «Da due anni. I farmaci, man.» Byrne sorrise. Conosceva Gauntlett piuttosto bene. «Man, mi ricordo quando riuscivi a sniffarti la linea delle cinquanta yarde del Vet.» «All'epoca, riuscivo anche a scopare tutta la notte.» «No, non è vero.» Gauntlett sorrise. «Magari un'ora.» I due si lisciarono i vestiti, sondando la reciproca compagnia. Era un pezzo che non si vedevano. Il DJ mise su un pezzo di Ghetto Priest. «Allora, hai visto che storia?» cominciò Gauntlett, agitando la mano ossuta di fronte al viso e al petto incavato. «Una gran bella porcata.» Byrne non sapeva che dire. «Mi dispiace.» Gauntlett scosse la testa. «Mi sono divertito. Non ho rimpianti.» Bevvero un sorso. Gauntlett tacque. Conosceva la prassi. Lo sbirro è sempre sbirro, il ladro è sempre ladro. «Allora, a cosa devo il piacere della sua visita, detective?» «Sto cercando una persona.» Gauntlett annuì. Fin lì ci era arrivato. «Un delinquentello detto Diablo. Uno stronzo grande e grosso, con la faccia piena di tatuaggi. Lo conosci?» «Sì.» «Hai idea di dove posso rintracciarlo?» Gauntlett Merriman la sapeva abbastanza lunga da non domandare perché. «Sotto il sole o all'ombra?» chiese soltanto. «All'ombra.» Gauntlett lasciò spaziare lo sguardo sulla pista da ballo, in un'occhiata
lunga e lenta, che caricava del giusto peso il favore che stava facendo. «Credo di poterti aiutare in questa faccenda.» «Ho solo bisogno di parlargli.» Gauntlett alzò una mano pelle e ossa. «Il sasso in fondo al fiume non sa che il sole è caldo», sentenziò, con forte cadenza giamaicana. «Ti ringrazio», aggiunse Byrne. Non si preoccupò di raccomandare a Gauntlett di tenerselo per sé. Scrisse il proprio numero di cellulare dietro un biglietto da visita. «Di niente.» Bevve un sorso d'acqua. «Tutto liscio come l'olio.» Gauntlett si alzò dal tavolo, un po' malfermo. Byrne avrebbe voluto aiutarlo, ma sapeva che era un tipo orgoglioso. E trovò l'equilibrio. «Ti chiamerò.» I due si abbracciarono di nuovo. Arrivato alla porta, Byrne si voltò, trovò Gauntlett tra la folla e pensò: Un moribondo conosce il suo futuro. Kevin Byrne lo invidiò. * Forma corrotta di rude boy, letteralmente «ragazzaccio»: appellativo (tutt'altro che dispregiativo) che si attribuiscono i giamaicani seguaci della filosofia rasta e del reggae. (N.d.T.) 42 Mercoledì, ore 2.00 «Parlo con Mr Amis?» s'informò una dolce voce al telefono. «Ciao, amore», disse Simon, calcando l'accento di North London. «Come stai?» «Bene, grazie. Cosa posso fare per lei, stanotte?» Simon utilizzava tre diversi servizi telefonici a domicilio. Per quello, lo StarGals, lui era Kingsley Amis. «Sono terribilmente solo.» «Siamo qui per questo, Mr Amis. Ha fatto il cattivo?» «Molto cattivo. E merito di essere punito.» Mentre aspettava che arrivasse la ragazza, Simon guardò una bozza della prima pagina del Report del giorno seguente. Aveva la copertina, e l'avrebbe avuta finché non avessero preso il killer del rosario. Qualche minuto più tardi, sorseggiando la sua Stolichnaya, scaricò le foto dalla macchina fotografica sul portatile. Dio mio, quanto gli piaceva
quella parte del lavoro, quando tutto l'armamentario era sincronizzato e funzionante. Il cuore prese a battergli un po' più veloce, man mano che le foto apparivano sullo schermo. Non aveva mai usato la funzione motore della sua macchina digitale, che permetteva di scattare fotografie in rapida successione senza resettare. Funzionava perfettamente. Aveva in tutto sei fotografie di Kevin Byrne che usciva da quel lotto vacante di Gray's Ferry, più una manciata d'immagini prese col teleobiettivo al Museo Rodin. Nessun incontro con spacciatori di crack in vicoli bui. Non ancora. Simon spense il portatile, fece una rapida doccia, si versò ancora due dita di Stoli. Venti minuti dopo, preparandosi ad aprire la porta, pensò a chi ci sarebbe stato dall'altra parte. Come sempre, sarebbe stata bionda, snella, tutta gambe. Avrebbe indossato una gonna scozzese, un blazer blu marine, una camicetta bianca, calzettoni alle ginocchia e mocassini. Avrebbe avuto perfino la cartella. Era proprio un ragazzaccio cattivo. 43 Mercoledì, ore 9.00 «Qualunque cosa ti serva», disse Ernie Tedesco. Ernie Tedesco era il proprietario di Tedesco and Sons Quality Meats, una piccola azienda di lavorazione delle carni a Pennsport. Lui e Byrne avevano fatto amicizia anni prima, quando Byrne gli aveva risolto una serie di furti dai camion. Byrne era andato a casa con l'intenzione di fare una doccia, mangiare un boccone e buttare giù dal letto Ernie. Invece aveva fatto la doccia, si era seduto sulla sponda del letto e un attimo dopo erano le sei del mattino. Qualche volta, il corpo dice no. I due uomini si scambiarono la versione macho di un abbraccio: stretta di mano, passo avanti, gran pacca sulla schiena. Lo stabilimento di Ernie era chiuso per ristrutturazione. Quando il padrone se ne fosse andato, Byrne sarebbe stato solo.
«Grazie, amico», disse Byrne. «Come, quando e dove vuoi», replicò Ernie. Varcò il grosso portone d'acciaio e se ne andò. Byrne aveva monitorato le frequenze radio della polizia per tutta la mattina. Non erano state diffuse chiamate su un corpo trovato in un vicolo a Gray's Ferry. Non ancora. La sirena che aveva sentito la notte prima era per un'altra chiamata. Entrò in uno degli spaziosi magazzini frigoriferi, pieno di quarti di manzo appesi ai ganci collegati a binari sul soffitto. S'infilò i guanti e spostò una carcassa di manzo a qualche decina di centimetri dalla parete. Qualche minuto più tardi, aprì la porta esterna, la bloccò e andò alla sua auto. Si era fermato da un demolitore sul Delaware, dove aveva preso una dozzina di mattoni. Tornato in sala lavorazione, impilò con cura i mattoni su un carrello e lo posizionò sotto la carcassa appesa. Fece un passo indietro, studiò la traiettoria. Tutto sbagliato. Risistemò i mattoni, più di una volta, fino a ottenere il risultato desiderato. Si tolse i guanti di lana e ne infilò un paio di gomma. Estrasse l'arma dalla tasca della giacca, la Smith & Wesson argentea che aveva preso a Diablo la notte in cui aveva portato dentro Gideon Pratt. Diede un'altra rapida occhiata in giro. Trasse un respiro profondo, fece due o tre passi indietro e assunse la posa di chi sta per sparare, il corpo di taglio rispetto al bersaglio. Armò la pistola e sparò. L'esplosione fu forte e risuonò tra gli impianti in acciaio inossidabile, rimbalzando sulle mattonelle in ceramica delle pareti. Byrne si avvicinò alla carcassa dondolante, per esaminarla. Il foro d'entrata era piccolo, a malapena visibile. La ferita d'uscita era impossibile da trovare, tra le pieghe di grasso. Come previsto, la pallottola aveva colpito i mattoni impilati. Byrne la trovò sul pavimento, vicino a un tombino. In quel momento, la sua radio portatile prese a gracchiare. Lui alzò il volume. Era la chiamata che stava aspettando, quella che temeva. Un corpo trovato a Gray's Ferry. Byrne riportò la carcassa di manzo dove l'aveva trovata. Lavò la pallottola prima nella candeggina, poi nell'acqua più calda che le sue mani riuscissero a sopportare, quindi l'asciugò. Aveva avuto l'accortezza di caricare la Smith & Wesson con un proiettile blindato. Uno a punta cava avrebbe
portato con sé tracce di fibra, attraversando gli indumenti della vittima; non avrebbe potuto riprodurlo in nessun modo. Non sapeva quanto la Scientifica si sarebbe impegnata per l'omicidio dell'ennesimo membro di una gang, ma doveva comunque stare attento. Tirò fuori la busta di plastica, quella in cui aveva raccolto il sangue la notte prima. Vi aggiunse il proiettile pulito e la sigillò, raccolse i mattoni, esaminò un'ultima volta la stanza e se ne andò. Aveva un appuntamento a Gray's Ferry. 44 Mercoledì, ore 9.15 Le gemme sugli alberi circostanti l'ippovia che si snodava attraverso Pennypack Park sembravano sul punto di scoppiare. Era un sentiero praticatissimo dagli amanti del jogging, e la frizzante mattina di primavera li aveva attirati a frotte. Mentre Jessica trottava, gli avvenimenti della notte precedente le sfilavano nella testa. Patrick se n'era andato poco dopo le tre. Il loro incontro si era spinto pressappoco fino al punto in cui potevano arrivare due adulti consenzienti senza fare l'amore, passo per il quale, come avevano tacitamente consentito, non erano pronti. La prossima volta, pensò Jessica, forse non sarebbe stata così adulta. Si sentiva ancora addosso l'odore di lui. Lo avvertiva sulla punta delle dita, sulle labbra. Ma su quelle sensazioni prevalsero gli orrori del suo lavoro. Accelerò il passo. Sapeva che quasi tutti i serial killer seguivano uno schema, avevano un periodo di attesa tra un omicidio e l'altro. Chiunque fosse l'autore di quei crimini si stava scatenando, era al climax della sua frenesia, di un eccesso che, con ogni probabilità, sarebbe finito con la sua stessa morte. Le vittime non avrebbero potuto essere più diverse tra loro, fisicamente: Tessa era sottile e bionda; Nicole era una dark, coi capelli corvini e coi piercing; Bethany era grassa. Lui doveva conoscerle. Poi c'erano le fotografie di Tessa Wells trovate nell'appartamento di Brian Parkhurst, che lo rendevano il principale indiziato. Aveva frequentato tutt'e tre le ragazze?
Anche in quel caso, restava la domanda più importante: perché lo faceva? Quelle ragazze avevano forse respinto le sue avance? Avevano minacciato di rendere pubblica la cosa? No, pensò Jessica. Doveva esserci un'impronta di violenza nel suo passato. D'altro canto, se lei avesse saputo comprendere la mentalità di un mostro, avrebbe saputo il perché. Tuttavia, chiunque fosse affetto da una patologia di follia religiosa così radicata doveva averla già manifestata. Eppure in nessun database della polizia c'era la benché minima traccia di un modus operandi simile, né nella zona di Philadelphia, né nei dintorni. Il giorno prima, Jessica aveva attraversato in macchina Frankford Avenue nel Northeast, vicino a Primrose Road, ed era passata davanti a St. Katherine of Siena. Quella era la chiesa che era stata imbrattata di sangue tre anni prima. Prese un appunto per ricordarsi d'indagare su quell'incidente. Sapeva di aggrapparsi a una pagliuzza, ma per il momento non aveva altro. Molti casi si reggevano su nessi così tenui. Se non altro, l'autore aveva una fortuna sfacciata. Aveva preso tre ragazze dalle strade di Philly senza essere notato da nessuno. Okay, pensò Jessica. Cominciamo dall'inizio. La prima vittima era Nicole Taylor. Se l'assassino era Brian Parkhurst, loro sapevano dove l'aveva conosciuta. A scuola. Se era un'altra persona, doveva avere incontrato Nicole altrove. Ma dove? E perché l'aveva presa di mira? Avevano interrogato i due proprietari di Ford Windstar al St. Joseph's. Erano entrambe donne, una ultrasessantenne e l'altra madre single di tre figli. Nessuna delle due combaciava molto col profilo del killer. Era qualcuno lungo il tragitto da casa di Nicole a scuola? Quel percorso lo avevano rastrellato a fondo. Nessuno aveva visto qualcuno ronzare intorno a Nicole. Era un amico di famiglia? E, in tal caso, come faceva a conoscere le altre due ragazze? Le tre ragazze avevano medici diversi, dentisti diversi. Nessuna praticava sport, perciò allenatori e istruttori erano fuori discussione. Avevano gusti diversi nel vestire, nella musica, praticamente in tutto. Ogni domanda avvicinava sempre più la risposta a un solo nome: Brian Parkhurst. Quando Parkhurst aveva vissuto in Ohio? Prese mentalmente nota di controllare presso le forze di polizia dell'Ohio se durante quel periodo avevano avuto casi irrisolti di omicidio con un modus operandi simile. Perché
in tal caso... Jessica non concluse quel pensiero perché, in una curva del sentiero, inciampò in un ramo caduto durante il temporale della notte. Cercò invano di ritrovare l'equilibrio. Cadde a faccia in giù e rotolò sull'erba bagnata, supina. Sentì avvicinarsi qualcuno. Benvenuta a Villa Umiliati. Era un pezzo che non faceva un capitombolo. Scoprì che il piacere di trovarsi sul terreno bagnato, in pubblico, non era aumentato con gli anni. Si mosse lentamente, cautamente, cercando di stabilire se ci fosse qualcosa di rotto o, come minimo, di storto. «Va tutto bene?» Jessica alzò gli occhi dal suo privilegiato osservatorio terreno. A domandarlo era stato un uomo che si era avvicinato con una coppia di signore di mezza età, entrambe con un iPod fissato al marsupio. Indossavano tute da jogging all'ultimo grido, quei completi con strisce riflettenti e chiusure lampo sull'orlo dei pantaloni. Jessica, con la sua felpa sfilacciata e piena di bioccoli e le sue Puma tutte consumate, si sentiva una sciattona. «Sto bene, grazie», rispose. Ed era vero. Di certo non si era rotta niente. L'erba soffice aveva attutito la caduta. A parte qualche macchia d'erba e un ego contuso, era illesa. «Sono l'ispettore comunale delle ghiande, sto soltanto facendo il mio lavoro.» L'uomo sorrise, si fece avanti, porse una mano. Aveva una trentina d'anni, biondo, di carnagione chiara, carino, con un'aria da studente. Lei accettò l'offerta, si alzò e si spolverò. Le due donne sorrisero, comprensive. Non avevano mai smesso di saltellare sul posto. Quando Jessica scrollò le spalle come a dire: Un tuffo lo abbiamo fatto tutti, no?, le due proseguirono lungo il sentiero. «Anch'io ho fatto una brutta caduta l'altro giorno», disse l'uomo. «Giù, vicino al gazebo, sono inciampato nel secchiello di plastica di un bambino. Credevo proprio di essermi fratturato il braccio destro.» «Imbarazzante, vero?» «Niente affatto. Mi ha dato la possibilità di essere una cosa sola con la natura», replicò lui. Jessica sorrise. «Un sorriso! Di solito sono molto più imbranato, con le belle donne. Mi ci vogliono mesi, per ottenere un sorriso.» Questa sì che è una balla, pensò Jessica. Comunque sembrava innocuo.
«Le dispiace se corro con lei?» «Io ho quasi finito», ribatté Jessica, anche se non era vero. Aveva la sensazione che quel ragazzo fosse un chiacchierone e, a parte il fatto che non le piaceva parlare mentre correva, aveva già parecchio cui pensare. «Non c'è problema», disse l'uomo. Ma la sua faccia diceva qualcos'altro. Sembrava che lei lo avesse schiaffeggiato. A quel punto, lei si sentì dispiaciuta. Lui si era fermato per darle una mano, e lei lo demoliva senza tante cerimonie. «Ho benzina ancora per un chilometro», gli disse. «Che tipo di andatura tiene?» «Mi piace tenere un'andatura appena al di sotto dell'infarto del miocardio.» Jessica sorrise ancora. «Non so fare la rianimazione cardiopolmonare. Se si porta le mani al petto, temo che dovrà cavarsela da solo», gli disse. «Non c'è problema. Ho la Croce Blu.» Ciò detto, si misero in moto lungo il sentiero con andatura tranquilla, schivando abilmente torte di cavallo, con la luce tiepida e screziata del sole che ammiccava tra gli alberi. La pioggia era cessata per un po' e il sole asciugava la terra. «Lei festeggia la Pasqua?» chiese l'uomo. Se avesse visto la cucina di lei, con cinque o sei kit per colorare le uova, le gelatine zuccherate, gli ovetti e i coniglietti di cioccolato, le caramelline gommose a forma di pulcino, non avrebbe mai fatto quella domanda. «Certo che sì.» «Personalmente la trovo la festa più bella dell'anno.» «Come mai?» «Non mi fraintenda, mi piace il Natale. Solo che la Pasqua è un tempo di... rinascita, direi. Di crescita.» «È un bel modo di vederla», commentò Jessica. «Ah, chi voglio prendere in giro? È solo che sono un maniaco delle uova di cioccolato di Cadbury», concluse lui. «Benvenuto nel club», rise Jessica. Trottarono in silenzio all'incirca per mezzo chilometro, poi svoltarono seguendo una curva morbida e si trovarono di fronte un lungo rettilineo. «Posso farle una domanda?» azzardò lui. «Certo.» «Perché pensa che scelga ragazze cattoliche?» Quelle parole furono un colpo di maglio sul petto di Jessica. Con un unico movimento fluido estrasse la Glock dalla fondina. Girò sui
tacchi, sferrò un colpo col piede destro facendo perdere l'equilibrio all'uomo. In un secondo netto, lo aveva messo faccia a terra, la pistola puntata alla nuca. «Non muoverti.» «Ho solo...» «Zitto, cazzo.» Furono raggiunti da alcuni corridori. L'espressione che avevano in faccia diceva tutto. «Sono un'agente di polizia. State indietro, per favore», ordinò Jessica. Tutti passarono dal trotto al galoppo: vista la pistola di Jessica, scomparvero il più rapidamente possibile lungo il sentiero. «Se mi lasciasse...» «Parlo arabo? Ti ho detto di stare zitto.» Jessica cercò di controllare il respiro. Quando ci riuscì, chiese: «Chi sei?» Non c'era ragione di aspettare una risposta. Inoltre, con un ginocchio sulla nuca di lui e la sua faccia schiacciata sul tappeto erboso, probabilmente una risposta era improbabile. Jessica aprì la tasca posteriore dei pantaloni da jogging dell'uomo e tirò fuori un portafoglio di nylon. Lo aprì. Vide il tesserino stampa ed ebbe ancora più voglia di premere il grilletto. Simon Edward Close. Del Report. Lei gli tenne le ginocchia sulla nuca ancora per un po', e un po' più forte. In momenti come quello le sarebbe piaciuto pesare un quintale. «Sai dov'è la Roundhouse?» domandò. «Sì, certo. Io...» «Bene. Facciamo così. Se vuoi parlarmi, vai lì e passi per l'ufficio stampa. Se la cosa ti è di troppo disturbo, stammi fuori dalle palle.» Jessica allentò di una tacca la pressione sulla testa di lui. «Ora mi alzo e vado alla mia auto. Poi esco dal parco. Tu resterai in questa posizione finché non me ne sarò andata. È chiaro?» «Sì», rispose Simon. Lei gli schiacciò la testa con tutto il suo peso. «Parlo sul serio. Se ti muovi, se fai tanto di sollevare la testa, ti porto dentro e t'interrogo sugli omicidi del rosario. Posso rinchiuderti per settantadue ore senza dover dare spiegazioni a nessuno. Capisci?» «Ga-pe-sch», esalò Simon, che, con un etto di terra bagnata in bocca, faticava ad articolare le parole.
Poco dopo, messa in moto la macchina, mentre andava verso l'uscita del parco, Jessica si voltò a dare un'occhiata sul sentiero. Simon era ancora lì, faccia a terra. Dio mio, che stronzo. 45 Mercoledì, ore 10.45 La scena di un crimine sembra sempre diversa, alla luce del giorno. Il vicolo appariva benevolo e pacifico. A un'estremità c'erano due uomini in divisa. Byrne mostrò il distintivo agli agenti e passò sotto il nastro. Quando i due detective lo videro, lo salutarono entrambi alla maniera della Omicidi: palmo in giù, una lieve flessione verso terra, poi dritto verso l'esterno. Tutto liscio. Xavier Washington e Reggie Payne facevano squadra da tanto di quel tempo che cominciavano a vestirsi nello stesso modo e a finire l'uno le frasi dell'altro, come una vecchia coppia di coniugi, pensò Byrne. «Possiamo andarcene tutti a casa», dichiarò Payne con un sorriso. «Che cosa avete?» chiese Byrne. «Solo un piccolo sfoltimento del pool genico.» Payne scostò l'involucro di plastica. «Ti presento il defunto Marius Green.» Il corpo era nell'identica posizione in cui si trovava quando Byrne lo aveva lasciato, la notte prima. «È una ferita da parte a parte.» Payne indicò il torace di Marius. «Una 38?» domandò Byrne. «Può darsi. Sembra più una 9, però. Non abbiamo ancora trovato il bossolo o il proiettile.» «È della JBM?» chiese Byrne. «Eh, già. Marius era un pessimo attore.» Byrne lanciò un'occhiata agli agenti che cercavano il proiettile. Guardò l'orologio. «Ho pochi minuti.» «Oh, adesso possiamo andare a casa davvero. Lo abbiamo impacchettato.» Byrne fece qualche passo in direzione del cassonetto. La montagnola di sacchi dell'immondizia lo nascondeva. Raccolse un pezzo di legno e cominciò a frugare con quello. Quando fu sicuro di non essere osservato, e-
strasse dalla tasca la busta di plastica, l'aprì, la capovolse e lasciò cadere in terra la pallottola insanguinata. Continuò a curiosare, senza troppa attenzione. All'incirca un minuto dopo, tornò da Payne e Washington. «Ho anch'io il mio psicopatico da prendere», disse. «Ci vediamo in centrale», replicò Payne. «Trovato!» strillò uno degli agenti vicino al cassonetto. Payne e Washington si guardarono, si diedero il cinque e raggiunsero l'agente. Avevano trovato il proiettile. Fatti: il sangue di Marius Green era sul proiettile. Era rimbalzato su un mattone. Fine della storia. Non ci sarebbe stata ragione di guardare più in là o di scavare più a fondo. Il proiettile sarebbe stato chiuso in una busta, etichettato, portato al laboratorio di balistica dove avrebbero emesso una ricevuta. Quindi sarebbe stato paragonato ad altri proiettili trovati sulla scena di altri crimini. Byrne aveva la netta sensazione che la Smith & Wesson presa a Diablo fosse stata usata in passato per altre sgradevoli imprese. Trasse un sospiro, alzò lo sguardo al cielo e s'infilò nella sua auto. Non restava che un ultimo dettaglio: trovare Diablo e dargli il saggio consiglio di lasciare per sempre Philadelphia. Il cercapersone suonò. La chiamata era di monsignor Terry Pacek. Un colpo dopo l'altro. Lo Sporting Club era la più grande palestra del centro, all'ottavo piano dello storico Bellevue, il bel palazzo decorato all'angolo tra North Broad Street e Walnut Street. Byrne trovò Terry Pacek su una LifeCycle. La dozzina di cyclette era collocata su quattro lati, una di fronte all'altra. Erano quasi tutte occupate. Alle spalle di Byrne e Pacek, il calpestio e lo scricchiolio delle Nike sul campo da basket compensavano il frullio dei tapis roulant e il sibilo delle cyclette, come pure i grugniti, i gemiti e i borbottii di quelli più in forma, dei quasi in forma e di quelli che mai sarebbero stati in forma. «Monsignore...» lo salutò Byrne. Pacek non perse il ritmo e non diede segno di essersi accorto di Byrne. Stava sudando, ma non ansimava. Una rapida occhiata al pannello indicò che era già in moto da quaranta minuti e faceva ancora novanta giri al minuto. Incredibile. Byrne sapeva che Pacek era sui quarantacinque anni, pe-
rò era in ottima forma anche per un uomo più giovane di dieci anni. Lì dentro, senza abito talare e collarina, con stilosi pantaloni da jogging firmati Perry Ellis e T-shirt senza maniche, sembrava più un giocatore di football un tantino stagionato che un prete. In realtà, Pacek era un giocatore di football un tantino stagionato. A quanto sapeva Byrne, Terry Pacek deteneva ancora il record del Boston College per il maggior numero di palle bloccate in una sola stagione. Non per niente lo chiamavano il John Mackey gesuita. Guardandosi intorno, Byrne vide un celebre conduttore televisivo che sbuffava e soffiava sullo stairclimber e un paio di consiglieri comunali che complottavano su due tapis roulant paralleli. Si sorprese a tirare in dentro la pancia, imbarazzato. L'indomani si sarebbe messo a regime. Domani, senz'altro. O forse dopodomani. Prima doveva trovare Diablo. «Grazie di essere venuto», esordì Pacek. «Nessun problema», replicò Byrne. «So che ha molto da fare. Non la tratterrò troppo a lungo.» Byrne sapeva che Non la tratterrò troppo a lungo significava, in codice: Si metta comodo, ci vorrà un po' di tempo. Si limitò ad annuire e attese per un momento. Il momento si esaurì, vuoto. Poi: «Cosa posso fare per lei?» La domanda era tanto retorica quanto meccanica. Pacek premette il tasto di stop della cyclette e scese. Scivolò giù dal sellino e si gettò un asciugamano intorno al collo. Benché Terry Pacek fosse molto più tonico di Byrne, era almeno dieci centimetri più basso. Byrne trovò in quel fatto una meschina consolazione. «Mi piace dare un taglio alle pastoie della burocrazia, quand'è possibile», disse il vescovo. «Che cosa le fa pensare che sia possibile, in questo caso?» Pacek lo fissò per alcuni sgradevoli secondi di troppo. Poi sorrise. «Venga con me.» Lo guidò all'ascensore, con cui raggiunsero il terzo piano ammezzato e la relativa pista da jogging. Byrne si sorprese a sperare che quel Venga con me significasse semplicemente: Cammini con me. Camminare, nient'altro. Si avviarono sulla pista moquettata, che richiamava la palestra sottostante. «Come stanno andando le indagini?» domandò Pacek, mentre cominciavano il giro a un'andatura ragionevole. «Non mi avrà fatto venire qui a presentare rapporto...» «Ha ragione. Ho sentito che la scorsa notte hanno trovato un'altra ragaz-
za.» Quello non era un segreto, pensò Byrne. La notizia era stata data anche dalla CNN, quindi sicuramente lo sapevano fin nel Borneo. Gran bella pubblicità per l'ente turistico di Philly. «Sì», disse Byrne. «E ho sentito che il vostro interesse per Brian Parkhurst è sempre alto.» Un eufemismo. «Ci piacerebbe parlare con lui, sì.» «È nell'interesse di tutti, specialmente delle famiglie distrutte di quelle giovani, che questo folle sia preso, e che giustizia sia fatta. Io conosco il dottor Parkhurst, agente. Difficile credere che abbia a che fare con quei crimini, ma non spetta a me decidere.» «Perché mi trovo qui, monsignore?» Byrne non era dell'umore giusto per gli intrighi di palazzo. Dopo due giri completi della pista, si ritrovarono alla porta. Pacek si asciugò il sudore dalla fronte e propose: «Ci vediamo sotto tra venti minuti». Lo Zanzibar Blue era un jazz club e un ristorante chic al piano interrato del Bellevue, subito sotto la lobby del Park Hyatt, nove piani sotto lo Sporting Club. Byrne ordinò un caffè al bar. Pacek entrò, con gli occhi lucidi, il volto arrossato per lo sforzo fisico appena compiuto. «Vodka con ghiaccio», ordinò al barista. Si appoggiò al bancone di fianco a Byrne. Senza una parola, s'infilò una mano in tasca. Porse all'altro un pezzo di carta, sul quale era scritto un indirizzo di West Philly. «Brian Parkhurst possiede un edificio sulla 61th Street, vicino a Market. Lo sta ristrutturando. Adesso è lì», gli rivelò. Byrne sapeva che in questa vita nulla è gratis. Cercò di capire il punto di vista di Pacek. «Perché me lo sta dicendo?» «È la cosa giusta da fare, agente.» «Ma la vostra burocrazia non è diversa dalla mia.» «'Ho agito secondo diritto e giustizia; non abbandonarmi ai miei oppressori'», recitò Pacek, ammiccando. «Salmo 110.» Byrne prese il pezzo di carta. «Le sono grato.» Pacek bevve un sorso di vodka. «Non sono stato qui.» «Capisco.» «Come dirà di aver ottenuto questa informazione?» «Lasci fare a me», tagliò corto Byrne. Avrebbe fatto telefonare alla Roundhouse da uno dei suoi, in modo che la chiamata venisse registrata di
lì a una ventina di minuti. L'ho visto... Quel tale che state cercando... l'ho visto su dalle parti di Cobbs Creek. «Tutti noi combattiamo una battaglia buona», disse Pacek. «Scegliamo presto le nostre armi. Lei ha scelto una pistola e un distintivo; io ho scelto la croce.» Byrne sapeva che non era facile, per Pacek. Se Parkhurst fosse risultato colpevole, le critiche si sarebbero abbattute su di lui, anzitutto perché l'arcidiocesi lo aveva assunto: un uomo che aveva avuto una relazione con un'adolescente ed era in contatto con altre migliaia di ragazzine. D'altra parte, prima il killer del rosario veniva preso - e non solo per il bene delle ragazze cattoliche di Philadelphia, ma per la Chiesa stessa - meglio era. Byrne si alzò dallo sgabello, torreggiando sopra il sacerdote. Lasciò sul bancone un biglietto da dieci. «Vada con Dio», lo salutò Pacek. «Grazie.» Pacek annuì. «Ah, monsignore...» aggiunse Byrne, infilandosi la giacca. «Sì?» «È il salmo 119.» 46 Mercoledì, ore 11.15 Quando arrivò «il discorso», Jessica era nella cucina del padre a lavare i piatti. Come in tutte le famiglie italoamericane, ogni argomento di qualche importanza veniva discusso, sezionato, anatomizzato e risolto in una sola stanza della casa: la cucina. Quel giorno non sarebbe stato diverso. Istintivamente, Peter prese uno strofinaccio e si piazzò di fianco alla figlia. «Ti stai divertendo?» chiese, nascondendo appena sotto l'atteggiamento da poliziotto la vera conversazione che voleva affrontare. «Sempre», rispose Jessica. «La cacciatora di zia Carmela mi riporta indietro nel tempo.» Mentre lo diceva era perduta, per il momento, nel nostalgico ricordo in colori pastello della sua infanzia in quella casa, di quegli anni spensierati, delle riunioni di famiglia col fratello; le compere nata-
lizie alla May Company, le partite degli Eagles in un gelido Veterans Stadium, e la prima volta che aveva visto Michael in divisa: così orgoglioso, così spaventato. Dio mio, quanto le mancava. «... la soppressata?» La domanda del padre la riportò bruscamente al presente. «Scusa, dicevi, papà?» «Hai provato la soppressata?» «No.» «Roba dell'altro mondo. Presa da Chickie's. Te ne faccio un piatto.» Jessica non era mai uscita da una festa a casa del padre senza un piatto. Né lei né nessun altro, a dire il vero. «Vuoi dirmi cosa c'è che non va, Jess?» «Niente.» La parola aleggiò un po' per la stanza, poi crollò in picchiata, come ogni volta che lei la usava col padre. Lui capiva sempre. «Va bene, tesoro, dimmi», la incitò Peter. «Non è niente. Solo le solite cose, sai. Il lavoro», mentì Jessica. Peter prese un piatto e lo asciugò. «Sei nervosa per il caso?» «No.» «Bene.» «Sono molto più che nervosa», precisò Jessica, porgendogli un altro piatto. «Diciamo pure spaventata a morte.» Peter rise. «Lo prenderai.» «Sembra che tu stia trascurando il fatto che non ho mai lavorato a un omicidio in vita mia.» «Te la caverai benissimo.» Jessica non ci credeva ma, in qualche modo, quando il padre lo disse, le sembrò vero. «Lo so.» Esitò, poi riprese: «Posso chiederti una cosa?» «Certo.» «E voglio che tu sia assolutamente sincero.» «È naturale, tesoro. Sono un poliziotto. Dico sempre la verità.» Jessica gli lanciò un'occhiataccia da sotto gli occhiali. «Okay. Uno a zero», fece Peter. «Che succede?» «Tu non c'entri niente con la mia promozione alla Omicidi?» «Proprio niente, Jess.» «Perché se così fosse...» «Cosa?»
«Be', forse pensi che mi stai aiutando, ma non è così. Qui ci sono ottime probabilità che io finisca con la faccia a terra.» Peter sorrise, allungò una mano immacolata e strinse la guancia di Jessica, come faceva sin da quando lei era piccolissima. «Non questa faccia. Questa è la faccia di un angelo.» Jessica arrossì e sorrise. «Dai, pa'. Ho quasi trent'anni, sono un po' troppo vecchia per questi vezzeggiativi.» «Mai», obiettò Peter. Rimasero in silenzio per un po'. Poi, come lei aveva temuto, lui chiese: «Vi sta arrivando tutto quello che vi serve, dai laboratori?» «Be', finora mi pare di sì.» «Vuoi che faccia una telefonata?» «No!» rispose Jessica, con più foga di quanto intendeva. «Cioè, non ancora. Cioè, mi piacerebbe, sai...» «Ti piacerebbe cavartela da sola.» «Già.» «Allora, tu e io ci siamo appena conosciuti?» Jessica arrossì nuovamente. Non avrebbe mai potuto prendere in giro il padre. «Andrà bene.» «Sicura?» «Sì.» «Lascio fare a te. Se qualcuno la fa troppo lunga, chiamami.» «Lo farò.» Peter sorrise e diede a Jessica un tenero bacio sulla sommità del capo, proprio mentre Sophie irrompeva nella stanza con la sua biscugina Nanette, entrambe con gli occhi sbarrati per tutto lo zucchero che avevano ingurgitato. Peter fece un sorriso radioso: «Tutte le mie ragazze sotto lo stesso tetto. Chi sta meglio di me?» 47 Mercoledì, ore 11.25 La bambina ridacchia, inseguendo il cucciolo nei piccoli, affollati giardini di Catharine Street, zigzagando attraverso la foresta di gambe. Noi adulti la guardiamo, aggirandoci incerti nelle vicinanze, sempre vigili. Siamo scudi contro i mali del mondo. Se si pensa alla tragedia che potrebbe abbattersi su una creatura tanto piccola, la mente vacilla.
Lei si ferma un momento, allunga le mani verso terra e raccoglie chissà quale tesoro da bambini. Lo esamina da vicino. Il suo interesse è puro e incontaminato da avidità, possesso o appagamento personale. Cosa diceva Laura Elizabeth Richards, sulla purezza? «La dolce luce della santa innocenza splende come un'aureola intorno al suo capo chino.» Le nubi minacciano pioggia ma, per il momento, una coltre dorata di sole ricopre South Philadelphia. Il cucciolo corre e oltrepassa la bambina, si volta, le mordicchia le caviglie, forse domandandosi perché il gioco si sia fermato. La bambina non corre e non piange. Ha la durezza della madre. Eppure dentro di lei c'è qualcosa di vulnerabile e dolce, qualcosa che parla di Maria. Si siede su una panchina, si sistema pudicamente l'orlo del vestito, si dà qualche colpetto sulle ginocchia. Il cucciolo le salta in grembo e le lecca la faccia. Sophie ride. È un suono meraviglioso. Ma se uno di questi giorni la sua vocetta fosse messa a tacere? Certamente tutti gli animali del suo serraglio di peluche piangerebbero. 48 Mercoledì, ore 11.45 Prima di lasciare la casa del padre, Jessica si era infilata nel piccolo studio che lui aveva nel seminterrato, si era seduta al suo computer, si era collegata a Internet e aveva fatto una ricerca con Google. In breve aveva trovato quello che cercava e lo aveva stampato. Mentre il padre e le zie tenevano d'occhio Sophie ai giardini vicino al Fleisher Art Memorial, Jessica raggiunse un accogliente caffè sulla 6th Street chiamato Dessert. Era molto più tranquillo di un giardino pieno di mocciosi in pieno trip da zucchero e adulti gonfi di Chianti. Inoltre era arrivato anche Vincent e lei non aveva davvero bisogno di un nuovo inferno. Davanti a una Sacher Torte e a un caffè, esaminò le sue scoperte. La sua prima ricerca con Google riguardava i versi della poesia trovata nel diario di Tessa. La risposta era stata istantanea. Sylvia Plath. La poesia si chiamava Elm. Ma certo, pensò Jessica. Sylvia Plath era la santa patrona di tutte le adolescenti malinconiche, la poetessa che si era suicidata nel 1963, all'età di
trent'anni. Sono tornata. Chiamatemi solo Sylvia. Cosa aveva voluto dire Tessa? Aveva poi cercato notizie dell'incidente del sangue gettato sulla porta di St. Katherine in quella folle vigilia di Natale di tre anni prima. Non c'era granché negli archivi dell'Inquirer o del Daily News. Non era stata una sorpresa scoprire che il pezzo più lungo era quello del Report. Scritto nientepopodimeno che dal suo scandalista preferito, Simon Close. Risultò che il sangue non era affatto stato gettato sul portone, ma piuttosto spalmato con un pennello. Ed era successo mentre i fedeli si trovavano all'interno a celebrare la messa di mezzanotte. La fotografia che accompagnava l'articolo ritraeva il portone d'ingresso della chiesa, però non era chiara. Impossibile dire se il sangue sulle ante rappresentasse qualcosa o nulla. L'articolo non lo diceva. Secondo quel pezzo, la polizia aveva indagato sull'incidente, ma, quando Jessica aveva fatto ulteriori ricerche, non aveva trovato nessun seguito alla vicenda. Fece una telefonata e scoprì che, a occuparsi del caso, era stato un detective di nome Eddie Kasalonis. 49 Mercoledì, ore 12.10 A parte il dolore alla spalla destra e le macchie d'erba sulla tuta da jogging nuova, era stata una mattinata molto produttiva. Simon Close si sedette sul divano, meditando sulla sua prossima mossa. Anche se non si era aspettato il più caloroso dei benvenuti quando si era rivelato a Jessica Balzano, doveva ammettere di essere un tantino sorpreso dalla sua reazione violenta. Sorpreso e, doveva di nuovo ammettere, estremamente eccitato. Si era esibito nel suo migliore accento della Pennsylvania dell'est, e lei non aveva sospettato nulla. Finché non l'aveva colpita con quella bomba di domanda. Pescò dalla tasca il minuscolo registratore digitale. «Bene... Se vuoi parlarmi, vai lì e passi per l'ufficio stampa. Se la cosa ti è di troppo disturbo, stammi fuori dalle palle.»
Accese il computer portatile, controllò la posta elettronica (ancora spam: Vicodin, ingrossamento del pene, prestiti favolosi, addio alla calvizie), insieme con la solita posta degli ammiratori («marcisci all'inferno, pennivendolo di merda»). Molti scrittori sono refrattari alla tecnologia. Simon ne conosceva alcuni che scrivevano ancora sui quaderni gialli con la penna a sfera. Altri lavoravano con antiquate macchine per scrivere manuali Remington. Assurdità pretenziose, preistoriche. Per quanto ci provasse, Simon Close non riusciva a capirlo. Forse credevano che così sarebbero entrati in contatto col loro Hemingway interiore, col Charles Dickens che premeva per venire fuori. Simon era digitale da capo a piedi, sempre. Dall'Apple PowerBook alla connessione DSL al telefono GSM Nokia, era al top della tecnologia. Fate pure, pensava. Scrivete sulle vostre tavole di ardesia con una pietra appuntita, per quello che me ne importa. Arriverò prima io. Perché Simon credeva nei due principi fondamentali del giornalismo da tabloid: 1. È più facile ottenere un perdono che un permesso; 2. Meglio essere il primo che essere preciso. Ecco a cosa servivano le correzioni. Accese la TV, girò per i canali. Soap opera, quiz, talk-show urlati, sport. Che noia. Perfino sulla stimata BBC America davano un clone idiota, di terza generazione, di un programma su case da ristrutturare. Forse su AMC c'era un vecchio film. Consultò la guida: Doppio gioco con Burt Lancaster e Yvonne De Carlo. Non male, ma l'aveva visto. E poi era già a metà. Fece ancora un giro del telecomando e stava per spegnere quando, su un canale locale, apparve una notizia dell'ultima ora: omicidio a Philly. Che shock. Ma non era un'altra vittima del killer del rosario. La telecamera stava mostrando qualcosa di completamente diverso, qualcosa che fece battere il cuore di Simon un po' più veloce. Okay, molto più veloce. Era il vicolo di Gray's Ferry. Il vicolo dal quale Kevin Byrne era uscito barcollando la notte prima. Simon premette il pulsante RECORD del videoregistratore. Dopo qualche minuto, riavvolse e fermò l'immagine dell'imboccatura del vicolo, mettendola a confronto, fianco a fianco, con la fotografia di Byrne che aveva sul portatile. Identiche.
Kevin Byrne si era trovato in quello stesso vicolo la notte precedente, la notte in cui un ragazzo nero era stato ucciso con un colpo di pistola. Dunque non era stato un ritorno di fiamma. Era una cosa esaltante, di gran lunga meglio della possibilità di sorprendere Byrne in una fumeria di crack. Simon camminò su e giù per il piccolo salotto qualche decina di volte, cercando d'immaginare il modo migliore di giocarsela. Byrne aveva commesso un omicidio a sangue freddo? Byrne era alle prese con un occultamento? Si trattava di commercio di droga finito male? Simon aprì il programma di posta elettronica, ritrovò una certa calma, organizzò i pensieri e cominciò a scrivere: Caro detective Byrne, quanto tempo è passato! Be', non è del tutto vero. Come può vedere dalla fotografia allegata, io l'ho vista ieri. Ecco la mia offerta: viaggerò insieme con lei e con la sua squisita partner finché non prenderete questo ragazzaccio cattivissimo che ammazza le studentesse cattoliche. Dopodiché voglio un'esclusiva. In cambio di tutto questo, distruggerò le fotografie. In caso contrario, cerchi le foto (sì, ne ho molte) sulla prima pagina del prossimo numero del Report. Le auguro una splendida giornata! Mentre Simon rileggeva - lasciava sempre raffreddare un po' le e-mail più incendiarie, prima di spedirle -, Enid miagolò e gli balzò in grembo dalla cima dell'archivio dove stava appollaiata. «Che succede, piccinina?» Enid sembrava studiare il testo dell'e-mail a Kevin Byrne. «Troppo aspra?» chiese lui alla gatta. Enid rispose facendo le fusa. «Hai ragione, micetta. Non è possibile.» Tuttavia Simon decise che l'avrebbe riletta ancora un po' di volte prima di spedirla. Magari avrebbe aspettato un giorno, soltanto per vedere quanto grossa sarebbe diventata la storia del ragazzo nero morto nel vicolo. Poteva permettersi altre ventiquattr'ore, se ciò significava tenere in pugno quello scimmione di Kevin Byrne. O forse doveva mandare l'e-mail a Jessica.
Geniale, pensò. O forse doveva soltanto copiare le foto su un CD e mandarle al giornale. Pubblicarle e vedere che effetto faceva a Byrne. In entrambi i casi, forse era meglio fare un backup delle foto, per sicurezza. Pensò al titolo, a caratteri cubitali sopra una foto di Byrne che usciva da quel vicolo a Gray's Ferry: «Poliziotto vigilante?» E: «Agente nel vicolo della morte la notte dell'omicidio» sarebbe stata la didascalia. Dio mio, se era bravo. Simon andò a prendere un CD registrabile nell'armadio dell'ingresso. Quando chiuse la porta e tornò verso la stanza, c'era qualcosa di diverso. Forse non proprio diverso, ma fuori centro. Quasi come la sensazione che si prova se si ha un'infezione dell'orecchio interno e il senso dell'equilibrio sembra... un po' alticcio. Si fermò sotto l'arcata che dava sul minuscolo salotto, cercando di definire quella sensazione. Tutto sembrava come lo aveva lasciato. Il PowerBook sul tavolino, con accanto la tazzina vuota. Enid che faceva le fusa sul tappetino vicino alla bocchetta dell'aria calda. Forse si sbagliava. Guardò il pavimento. Vide prima l'ombra, un'ombra che si rispecchiava nella propria. Ne capiva abbastanza d'illuminazione artificiale per sapere che occorrono due sorgenti di luce per gettare due ombre. Alle sue spalle, c'era soltanto il piccolo lampadario sul soffitto. Poi sentì il fiato caldo sul collo, il vago aroma della menta piperita. Si voltò, col cuore improvvisamente in gola. E fissò dritto negli occhi il diavolo. 50 Mercoledì, ore 13.22 Byrne aveva fatto qualche fermata prima di tornare alla Roundhouse a fare rapporto a Ike Buchanan. Si era messo d'accordo con uno dei suoi informatori ufficiali perché lo chiamasse per comunicargli dove si trovava Brian Parkhurst. Inviò quindi un fax all'ufficio del procuratore distrettuale e ottenne un mandato di perquisizione per l'edificio di Parkhurst. Poi chiamò Jessica al cellulare e la trovò in un caffè vicino a casa del
padre, a South Philly. Passò a prenderla. La ragguagliò al quartier generale del Quarto Distretto, all'angolo tra l'11th Street e Wharton Street. L'edificio di proprietà di Parkhurst era un ex negozio di fioraio sulla 61st Street, ricavato a sua volta da una spaziosa casa a schiera in mattoni costruita negli anni '50. La costruzione con la facciata in pietra era a pochi malandati portoni dalla sede del Wheels of Soul, un vecchio, venerando club di motociclisti. Negli anni '80, quando la coca, sotto forma di crack, aveva duramente colpito Philly, era stato il Wheels of Soul MC, più di qualunque organo di tutela della legge, a impedire alla città di finire incenerita. Se Parkhurst portava le ragazze da qualche parte per brevi periodi di tempo, pensò Jessica mentre si avvicinavano alla proprietà, quel posto sarebbe stato l'ideale. C'era un ingresso posteriore abbastanza ampio da far entrare parzialmente un furgone o un minivan. Una volta arrivati, portarono lentamente l'auto dietro l'edificio. L'ingresso posteriore - una grande porta d'acciaio ondulato - era chiuso dall'esterno con un lucchetto. Fecero il giro del caseggiato e parcheggiarono sulla strada, sotto l'El, all'incirca cinque numeri più a ovest. Furono accolti da due auto di pattuglia. Due agenti in divisa sarebbero stati di guardia di fronte alla casa; altri due sul retro. «Pronta?» domandò Byrne. Jessica si sentiva un po' titubante. Sperava che non si vedesse. «Andiamo», rispose. Byrne e Jessica si avvicinarono alla porta. Le finestre sulla facciata erano imbiancate: impossibile vedere all'interno. Byrne sbatté un pugno contro la porta tre volte. «Polizia! Ordine di perquisizione!» Attesero cinque secondi. Lui bussò ancora. Nessuna risposta. Byrne girò la maniglia e spinse. La porta si aprì. I due detective si guardarono negli occhi, poi contarono fino a tre e s'insinuarono all'interno. Nell'ingresso regnava il caos: cartongesso, secchi di vernice, teloni protettivi, impalcature. A sinistra, niente. A destra, scale che portavano al primo piano. «Polizia! Ordine di perquisizione!» ripeté Byrne. Niente. Byrne indicò le scale e Jessica annuì. Lui avrebbe preso il primo piano.
Byrne salì le scale. Jessica avanzò verso il retro dell'edificio, controllando ogni nicchia, ogni sgabuzzino. Gli interni erano ristrutturati per metà. Il corridoio, dietro quello che un tempo era un bancone di servizio, era uno scheletro di montanti aperti, fili elettrici scoperti, condutture dell'acqua in plastica, tubi del riscaldamento. La cucina era stata completamente svuotata. Nessun elettrodomestico. Recentemente tappezzata di cartongesso e nastro adesivo. Sotto l'odore colloso del cartongesso, però, c'era qualcos'altro. Cipolle. Poi, nell'angolo della stanza, Jessica vide un cavalletto per segare il legno. Sopra c'era una ciotola d'insalata mezza mangiata e, accanto, una tazza di caffè piena. Lei v'intinse un dito: il caffè era gelato. Uscì dalla cucina e si diresse con prudenza verso la stanza sul retro della casa. La porta era appena socchiusa. Il sudore le gocciolava giù per il viso, per il collo, fino a striarle le spalle. Il corridoio era caldo e soffocante. Il giubbotto di Kevlar sembrava ancora più stretto e pesante. Jessica raggiunse la porta, trasse un respiro profondo. Col piede sinistro l'aprì lentamente. Vide prima la metà destra della stanza. Una vecchia sedia da tinello, una cassetta degli attrezzi di legno. Fu accolta dagli odori. Fumo di sigaretta rancido, legno di pino nodoso tagliato di fresco. Sotto, c'era qualcosa di brutto, qualcosa di fetido e selvatico. Spalancò la porta con un calcio, entrò nella piccola stanza e vide subito una sagoma. Istintivamente girò sui tacchi e puntò l'arma su quella forma che si profilava contro le finestre imbiancate sul retro. Ma non c'era nessuna minaccia. Brian Parkhurst penzolava da una trave al centro della stanza. La faccia era di un bruno purpureo, le estremità erano distese, la lingua nera ciondolava. Intorno al collo era avvolto un filo elettrico, che penetrava dentro la carne e girava intorno a una trave di sostegno. L'uomo era scalzo e senza camicia. L'odore acido delle feci che seccavano riempì le narici di Jessica. Lei ebbe un paio di conati di vomito. Trattenne il respiro, controllò il resto della stanza. «Niente di sopra!» gridò Byrne. Jessica quasi sobbalzò al suono della sua voce. Udì i passi pesanti di Byrne sulle scale. «Qui dentro», gridò lei. In pochi secondi, Byrne entrò nella stanza. «Oh, cazzo.» Jessica vide lo sguardo di Byrne e vi lesse i titoli: un altro suicidio. Proprio come Morris Blanchard. Un altro indiziato indotto a togliersi la vita. Lei avrebbe voluto dire qualcosa, ma non era il suo posto e non era il mo-
mento. Un silenzio guasto riempì la stanza. Erano stati rispediti al punto di partenza e ciascuno a proprio modo tentava di conciliare quel fatto con tutte le ipotesi contemplate fino ad allora. Adesso il sistema si sarebbe messo in moto. Avrebbero chiamato l'Ufficio del medico legale e la Scientifica. Avrebbero tirato giù Parkhurst, lo avrebbero trasportato all'Ufficio del medico legale, dove avrebbero eseguito l'autopsia, dopo aver notificato il decesso alla famiglia. Ci sarebbe stata una comunicazione ai giornali e una funzione presso una delle migliori imprese di pompe funebri di Philadelphia, seguita da una sepoltura su un declivio erboso. E quello che Brian Parkhurst sapeva, quello che aveva veramente fatto, sempre ammesso che avesse fatto qualcosa, sarebbe rimasto per sempre nell'ombra. Si aggiravano confusi per la sede della Omicidi, come biglie in una scatola di sigari vuota. In momenti come quello, se un indiziato fregava il sistema, suicidandosi, c'erano sempre sentimenti contrastanti. Non ci sarebbero stati pubblici discorsi né ammissioni di colpa. Soltanto un infinito nastro di Möbius d'indiziati. Byrne e Jessica sedettero a scrivanie attigue. Lei catturò lo sguardo di Byrne. «Cosa?» domandò lui. «Dillo.» «Dire cosa?» «Secondo te non è stato Parkhurst, vero?» Byrne non rispose immediatamente. «Credo che sapesse molto più di quello che ci ha detto», disse poi. «Credo che frequentasse Tessa Wells. Credo sapesse che l'avrebbero messo dentro con l'accusa di aver avuto rapporti sessuali con una minorenne, e che si sia nascosto per quello. Ma credo che abbia assassinato quelle tre ragazze? No, non lo credo.» «Perché no?» «Perché non c'era uno straccio di prova. Non una fibra, non una goccia di fluido.» La Scientifica aveva setacciato ogni centimetro quadrato di entrambe le proprietà di Brian Parkhurst, senza risultato. I detective avevano riposto buona parte dei loro sospetti sulla possibilità - sulla certezza, in effetti che nell'edificio di Parkhurst sarebbero state trovate prove scientifiche in-
criminanti. Tutto quello che avevano sperato di trovare lì semplicemente non esisteva. Gli agenti avevano fatto domande a tutti quelli che si trovavano nei dintorni di casa sua e dell'edificio che stava ristrutturando, ma invano. Dovevano ancora trovare la sua Ford Windstar. «Se avesse portato quelle ragazze a casa sua, qualcuno avrebbe visto qualcosa, sentito qualcosa, giusto? Se le avesse portate nell'edificio sulla 61th Street, avremmo trovato qualcosa.» Quando avevano perquisito l'edificio, avevano scoperto un certo numero di oggetti, tra i quali una scatola di ferri vari, contenente un assortimento di viti, dadi e bulloni, nessuno dei quali corrispondeva precisamente ai bulloni usati sulle tre vittime. C'era anche un dosatore di gesso da carpentiere, di quello che si usava per tracciare linee nella fase iniziale d'intelaiatura. Il gesso all'interno era blu. Avevano mandato un campione in laboratorio, per controllare se corrispondeva al gesso blu trovato sulle vittime. Ma, anche se fosse stato così, il gesso da carpentiere si trovava in ogni cantiere della città e in metà delle cassette degli attrezzi di chi ristrutturava case. Pure Vincent ne aveva, nella sua cassetta in garage. «E la telefonata che mi ha fatto?» domandò Jessica. «Perché mi ha detto che ci sono 'cose che dobbiamo sapere' su quelle ragazze?» «Ci ho pensato. Forse c'è davvero qualcosa che hanno tutte in comune. Qualcosa che noi non vediamo», azzardò Byrne. «Ma cos'è successo tra il momento in cui mi ha chiamato e stamattina?» «Non lo so.» «Il suicidio non rientra esattamente nel quadro, giusto?» «Giusto.» «E ciò significa che ci sono buone probabilità...» Sapevano entrambi che cosa significava. Rimasero muti per un po', circondati dalla cacofonia delle attività dell'ufficio. C'erano indagini in corso su almeno una mezza dozzina di altri omicidi, e quei detective avanzavano a piccoli passi. Byrne e Jessica li invidiavano. Ci sono cose che dovete sapere su quelle ragazze. Se Brian Parkhurst non era il loro assassino, allora forse il vero killer, l'uomo che stavano cercando, lo aveva ucciso. Forse perché era finito al centro dell'attenzione. Forse per qualche motivo che aveva senso soltanto all'interno della sua follia patologica. Forse per dimostrare alle autorità che lui era ancora là fuori. Jessica e Byrne non avevano ancora discusso della somiglianza tra i due «suicidi», ma quell'idea permeava l'aria come una nube tossica.
Jessica ruppe il silenzio. «Okay. Se Parkhurst è stato ucciso dal nostro uomo, come faceva a conoscerlo?» «Due possibilità», rispose Byrne. «O si conoscevano, o ha sentito il suo nome alla TV quand'è uscito dalla Roundhouse l'altro giorno.» Un altro punto segnato dai media, pensò Jessica. Vagliarono per un po' l'idea che Brian Parkhurst fosse un'altra vittima del killer del rosario. Ma, anche se lo fosse stata, ciò non li avrebbe aiutati a prevedere quello che sarebbe successo. I tempi, o la mancanza di tempi, rendevano imprevedibili i movimenti dell'assassino. «Il nostro uomo preleva Nicole Taylor dalla strada giovedì», ricapitolò Jessica. «La lascia ai Bartram Gardens venerdì, più o meno nello stesso momento in cui preleva Tessa Wells, che tiene fino a lunedì. Perché questo sfasamento?» «Bella domanda», commentò Byrne. «Poi Bethany Price è stata presa martedì pomeriggio, e il nostro unico testimone ha visto il suo corpo abbandonato nel museo martedì sera. Non c'è nessuna ciclicità, nessuna simmetria.» «Sembra quasi che non voglia fare certe cose durante il fine settimana.» «Potrebbe non essere così inverosimile», disse Byrne. Si alzò, avvicinandosi alla lavagna bianca, ora coperta di fotografie della scena del crimine e appunti. «Non credo che il nostro amico sia motivato dalla luna, dalle stelle, dalle voci, dai cani che si chiamano Sam, da nessuna stronzata del genere. Quest'uomo ha un piano. Io dico che, se scopriamo il suo piano, lo troviamo.» Jessica lanciò un'occhiata alla sua pila di libri della biblioteca. La risposta era lì dentro, da qualche parte. Eric Chavez entrò nella stanza e attirò l'attenzione di Jessica. «Hai un minuto, Jess?» «Certo.» Lui sollevò una cartellina. «C'è qualcosa che dovresti vedere.» «Cos'è?» «Abbiamo fatto un controllo sui precedenti di Bethany Price. Ne abbiamo trovato uno.» Chavez le porse un verbale d'arresto. Bethany Price era stata arrestata nel corso di un'operazione antidroga all'incirca un anno prima, perché trovata in possesso di quasi cento dosi di benzedrina, la pillola dietetica illegale preferita dalle adolescenti sovrappeso. Certamente lo era stata quando
Jessica frequentava il liceo, e così era tuttora. Bethany aveva patteggiato ed era stata condannata a duecento ore di servizio alla comunità e a un anno di libertà vigilata. In tutto ciò non c'era nulla di sorprendente. La ragione per cui Eric Chavez lo aveva portato all'attenzione di Jessica era il fatto che a effettuare l'arresto era stato l'agente Vincent Balzano. Jessica assimilò la notizia e rifletté sulla coincidenza. Vincent conosceva Bethany Price. Stando alla sentenza, era stato Vincent a consigliare il servizio civile in alternativa al carcere. «Grazie, Eric», disse Jessica. «Tienilo pure.» «Piccolo, il mondo», commentò Byrne. «Io mi ci perdo comunque», replicò Jessica, con aria assente, leggendo nei dettagli il rapporto. Byrne guardò l'orologio. «Senti, devo andare a prendere mia figlia. Domattina ricominciamo da capo. Demoliamo tutto e ripartiamo dall'inizio.» «Okay», acconsentì Jessica, ma vide l'espressione di Byrne, la preoccupazione che la tempesta di fuoco scoppiata nella sua carriera dopo il suicidio di Morris Blanchard potesse riaccendersi un'altra volta. Lui posò una mano sulla spalla di Jessica, poi s'infilò la giacca e uscì. Jessica rimase seduta alla scrivania a lungo, guardando fuori dalla finestra. Anche se non voleva ammetterlo, era d'accordo con Byrne. Brian Parkhurst non era il killer del rosario. Brian Parkhurst era una vittima. Provò a chiamare Vincent al cellulare, trovò la segreteria. Chiamò la centrale e le dissero che il detective Balzano era fuori in servizio. Non gli lasciò un messaggio. 51 Mercoledì, ore 16.15 Quando Byrne menzionò il nome del ragazzo, il viso di Colleen diventò multicolore. «Non è il mio ragazzo», disse la figlia a segni. «Ah, okay. Come vuoi tu», replicò Byrne, anche lui a segni.
«Non lo è.» «Allora perché arrossisci?» chiese Byrne, con un larghissimo sorriso. Si trovavano in Germantown Avenue, diretti alla festa di Pasqua della scuola per sordi, la Delaware Valley School for the Deaf. «Non sto arrossendo», fece Colleen, ancora più rossa. «Oh, okay», concluse Byrne, lasciandola in pace. «Qualcuno deve aver lasciato un segnale di stop nella mia macchina.» Colleen si limitò a scuotere la testa e guardò fuori dal finestrino. Byrne notò che le bocchette dell'aria dal lato della figlia soffiavano sui suoi capelli biondi, fini come la seta. Quand'è che erano diventati così lunghi? si domandò. E le sue labbra, erano sempre state così rosse? Byrne attirò l'attenzione di Colleen agitando la mano. «Ehi. Pensavo che foste usciti insieme. Mi sono sbagliato.» «Non siamo usciti insieme. Sono troppo giovane per uscire con qualcuno. Chiedi a mamma.» «Se non era un appuntamento, che cos'era, allora?» Grande alzata d'occhi al cielo. «Erano due ragazzi che vanno a vedere i fuochi d'artificio con un centinaio di milioni di adulti tra i piedi.» «Sono un poliziotto, lo sai.» «Lo so, papà.» «Ho le mie fonti e le mie spie in tutta la città. Informatori segreti, pagati.» «Lo so, papà.» «E ho sentito che voi vi tenevate per mano, eccetera.» Colleen replicò con un gesto che non si trovava nel dizionario della lingua dei segni, ma era notissimo a tutti i ragazzi sordi: le due mani posizionate come artigli di tigre affilati come rasoi. Byrne rise. «Okay, okay. Non graffiare.» Procedettero in silenzio per un po', contenti di stare vicini, nonostante il battibecco. Non capitava sovente che fossero soltanto loro due. La figlia stava cambiando in tutto, era un'adolescente, e quell'idea spaventava Kevin Byrne più di qualsiasi ragazzo di strada armato in un vicolo buio. Il cellulare squillò. «Byrne.» «Puoi parlare?» Era Gauntlett Merriman. «Sì.» «È al vecchio rifugio.» Byrne comprese. Il vecchio rifugio era a cinque minuti da lì.
«Chi c'è con lui?» domandò Byrne. «È solo. Almeno per adesso.» Byrne diede un'occhiata all'orologio e vide la figlia che lo guardava con la coda dell'occhio. Si voltò verso il finestrino. Lei sapeva leggere le labbra meglio di tutti gli altri ragazzi della scuola, probabilmente meglio di alcuni dei sordi adulti che insegnavano lì. «Ti serve un aiuto?» fece Gauntlett. «No.» «Okay, allora.» «Come andiamo?» «I frutti sono tutti maturi, amico mio.» Chiuse il telefono. Due minuti dopo, accostò di fronte alla gastronomia Caravan Serai. Benché fosse troppo presto per la cena, c'erano alcuni clienti sparsi per la ventina di tavoli nella parte anteriore del locale, intenti a sorseggiare il denso caffè nero e mordicchiare la famosa baklava al pistacchio di Sami Hamiz. Sami era dietro il bancone ad affettare l'agnello per quella che doveva essere una notevole ordinazione. Vedendo Byrne, si asciugò le mani e si avvicinò all'ingresso del ristorante, con un sorriso. «Sabah al-hayri, detective. Lieto di vederti.» «Come va, Sami?» «Io sto bene.» I due si strinsero la mano. «Ti ricordi di mia figlia Colleen?» Sami allungò una mano e toccò la guancia di Colleen. «Ma certo.» Quindi salutò la ragazza nella lingua dei segni, e lei rispose rispettosamente. Byrne conosceva Sami Hamiz fin da quando faceva l'agente di pattuglia. Anche la moglie di Sami, Nadine, era sorda, ed entrambi usavano correntemente il linguaggio dei segni. «Credi di poterla tener d'occhio per cinque minuti?» chiese Byrne. «Nessun problema», replicò Sami. La faccia di Colleen diceva tutto. «Non ho bisogno di essere tenuta d'occhio da nessuno.» «Non dovrei metterci molto», disse Byrne a entrambi. «Tutto il tempo che ti serve», concluse Sami, mentre tornava, con Colleen, nel retro del ristorante. Byrne guardò la figlia infilarsi nell'ultimo séparé accanto alla cucina. Arrivato sulla soglia, si voltò ancora una volta. Colleen lo salutò con un gesto svogliato e Byrne si sentì stringere il cuore.
Quando era piccola, al mattino, si precipitava fuori sulla veranda per salutarlo prima che lui partisse per i suoi giri. Byrne aveva sempre rivolto al cielo la muta preghiera di rivedere ancora quel bellissimo volto luminoso. Mentre usciva in strada, scoprì che negli ultimi dieci anni non era cambiato nulla. Byrne si fermò all'altro lato della strada rispetto al rifugio, che non era una casa e neppure, pensò lui, particolarmente sicuro in quel momento. La costruzione era un magazzino basso incastrato tra due edifici più alti in una zona degradata di Erie Avenue. Byrne sapeva che una volta la PTown Posse usava il secondo piano come rifugio. Girò intorno all'edificio e scese le scale fino alla porta del seminterrato. Era aperta. Dava su un lungo corridoio stretto che conduceva a quello che una volta era un ingresso per i dipendenti. Byrne avanzò lungo il corridoio, lentamente, in silenzio. Grosso com'era, aveva sempre avuto piedi leggeri. Estrasse la sua arma, la Smith & Wesson cromata che aveva preso a Diablo la notte in cui si erano incontrati. Percorse l'intero corridoio fino alla scalinata che c'era in fondo, e ascoltò. Silenzio. Nel giro di un minuto, si ritrovò sul pianerottolo della rampa che portava al secondo piano. In cima c'era la porta del rifugio. Udì i suoni attutiti di una radio che trasmetteva rock. Lassù c'era qualcuno, senza dubbio. Ma chi? E quanti? Byrne trasse un respiro profondo e cominciò a salire. In cima alle scale, posò la mano sulla porta e l'aprì. Diablo era accanto alla finestra affacciata sul vicolo tra gli edifici, completamente ignaro. Byrne vedeva soltanto metà della stanza, ma non sembrava che ci fossero altre persone. Quello che vedeva, però, gli diede un brivido improvviso. Su un tavolino, a meno di un metro da Diablo, accanto alla Glock di servizio di Byrne, c'era un mini Uzi automatico. Byrne sentì in mano il peso del revolver, che di colpo gli sembrò una pistola giocattolo. Se avesse fatto la sua mossa senza riuscire a prendersi il vantaggio su Diablo, non sarebbe uscito vivo di lì. L'Uzi sparava seicento
colpi al minuto e non occorreva essere un tiratore scelto per annientare la preda. Cazzo. Dopo qualche istante, Diablo sedette al tavolo, dando le spalle alla porta. Byrne sapeva di non avere scelta. Si sarebbe preso il vantaggio, avrebbe confiscato le armi, avrebbe avuto un piccolo tête-à-tête con Diablo e quel triste e increscioso casino sarebbe finito. Byrne si fece un rapido segno della croce ed entrò. Kevin Byrne aveva fatto appena tre passi nella stanza quando si rese conto del proprio errore. Avrebbe dovuto vederlo. Là, sul lato opposto del locale, c'era una vecchia toeletta, sormontata da uno specchio incrinato. Lì vide la faccia di Diablo, e ciò significava che Diablo poteva vedere lui. I due uomini rimasero paralizzati per quel fortuito istante, sapendo che i loro piani immediati - uno di sicurezza, uno di sorpresa - erano stati modificati. I loro sguardi s'incrociarono, come in quel vicolo. Stavolta entrambi sapevano che, in un modo o nell'altro, le cose sarebbero finite diversamente. Prima, Byrne aveva soltanto intenzione di spiegare a Diablo che sarebbe stato saggio per lui lasciare la città. Adesso sapeva che non sarebbe successo. Diablo schizzò in piedi, Uzi alla mano. Senza una parola, si girò e cominciò a sparare. I primi venti, trenta colpi fecero a pezzi il vecchio divano che si trovava a meno di un metro dalla gamba destra di Byrne, il quale si tuffò a sinistra, atterrando misericordiosamente dietro una vecchia vasca di ghisa. Un'altra raffica da due secondi quasi tagliò in due il divano. Dio mio, no, pensò Byrne, gli occhi serrati, in attesa che il metallo rovente gli lacerasse la carne. Non qui, non così. Pensò a Colleen, seduta in quel séparé, a guardare la porta, ad aspettare di vederlo comparire, ad aspettare che tornasse per poter continuare la sua giornata, la sua vita. Invece lui era inchiodato in uno schifoso magazzino e stava per morire. Gli ultimi proiettili colpirono la vasca. Il frastuono rimase sospeso in aria per qualche istante. Il sudore gli bruciava gli occhi. Poi venne il silenzio. «Cazzo, voglio solo parlare. Questo non è necessario», disse Byrne. Secondo i suoi calcoli, Diablo era a non più di cinque metri da lui. Nel centro esatto della stanza, probabilmente dietro la grande colonna portante. Poi, senza preavviso, partì un'altra raffica. Il fragore era assordante.
Byrne gridò, come se fosse stato colpito, e sbatté il piede sul pavimento di legno, come se fosse caduto. Gemette. La stanza ripiombò nel silenzio. Byrne sentiva l'odore della tela della tappezzeria, bruciata dal piombo rovente a poche decine di centimetri da lui. Sentì un rumore dall'altra parte della stanza. Diablo si era mosso. Il grido aveva funzionato. Stava arrivando per finirlo. Byrne chiuse gli occhi, ricordando la disposizione della stanza. L'unica via per attraversarla era passare per il centro. Avrebbe avuto un'unica possibilità, e doveva coglierla subito. Contò fino a tre, balzò in piedi e sparò tre volte, ad altezza della testa. Il primo colpo prese Diablo proprio in mezzo alla fronte, conficcandosi nel cranio, costringendolo a vacillare, facendogli esplodere la nuca in uno schianto cremisi di sangue, ossa e materia cerebrale che schizzò in giro per mezza stanza. Il secondo e il terzo proiettile lo colpirono alla mandibola e alla gola. Il braccio destro di Diablo scattò verso l'alto, sparando di riflesso. La raffica scagliò una dozzina di colpì nel pavimento, appena qualche centimetro a sinistra di Kevin Byrne. Diablo crollò mentre gli ultimi colpi si schiantavano nel soffitto. E in quell'istante fu finita. Byrne mantenne la posizione per qualche istante, l'arma spianata, apparentemente congelato nel tempo. Aveva appena ucciso un uomo. I suoi muscoli si rilasciarono lentamente e lui tese l'orecchio ai rumori. Niente sirene, non ancora. Mise la mano nella tasca posteriore e ne estrasse un paio di guanti di gomma. Dall'altra tasca prese un sacchetto di plastica con dentro uno straccio unto. Pulì il revolver e lo mise sul pavimento, proprio mentre, in lontananza, si levava il suono della prima sirena. Trovò una lattina di vernice spray e decorò il muro vicino alla finestra di graffiti della Junior Black Mafia. Tornò a guardare la stanza. Doveva muoversi. La Scientifica? Per loro, la cosa non avrebbe avuto un'alta priorità, ma si sarebbero fatti vedere. Per quanto ne sapeva, lui era coperto. Afferrò la Glock dal tavolo e corse verso la porta, attento ad aggirare il sangue sul pavimento. Mentre scendeva le scale sul retro, le sirene si avvicinavano. In pochi secondi fu nella sua auto, diretto al Caravan Serai. Quella era la buona notizia. La cattiva notizia era, naturalmente, che forse si era scordato qualcosa. Si era scordato qualcosa d'importante, e la sua vita era finita.
L'edificio principale della Delaware Valley School for the Deaf era in stile Vecchia America, costruito in pietra grezza. Il giardino era sempre ben curato. Mentre si avvicinavano al giardino, Byrne fu colpito ancora una volta dal silenzio. C'erano più di cinquanta ragazzi di età compresa tra i cinque e i quindici anni, e tutti correvano e davano fondo a più energia di quanta lui ricordasse di aver avuto alla loro età, e tutto nel più assoluto silenzio. Quando lui aveva imparato il linguaggio dei segni, Colleen aveva quasi sette anni ed era già un'esperta. Molte volte, la sera, quando lui le rimboccava le coperte, lei aveva pianto e compianto il suo destino, desiderando essere normale, come i bambini che ci sentono. In quelle occasioni, Byrne si era limitato a tenerla stretta, senza sapere cosa dire; anche se lo avesse saputo, sarebbe stato incapace di dirlo nella lingua di sua figlia. Ma, quando Colleen aveva compiuto undici anni, era successa una cosa strana: lei aveva smesso di desiderare di sentire. Così. Un'accettazione totale e, in un certo modo bizzarro, un moto di arroganza riguardo alla propria sordità, proclamata un vantaggio, una società segreta composta di persone straordinarie. L'adattamento era stato più importante per Byrne che per Colleen, ma quel giorno, quando lei lo aveva baciato sulla guancia ed era corsa a giocare coi suoi amici, il cuore dell'uomo quasi era scoppiato d'amore e orgoglio per lei. Se la sarebbe cavata benissimo, pensò, anche se a lui fosse successo qualcosa di terribile. Sarebbe cresciuta bella, educata, onesta e rispettabile, nonostante il fatto che un anno, il Mercoledì Santo, mentre lei se ne stava seduta tra gli aromi pungenti di un ristorante libanese di North Philadelphia, suo padre l'aveva lasciata lì e se n'era andato a commettere un omicidio. 52 Mercoledì, ore 16.15 Lei, questa, è estate. Lei è acqua. I suoi capelli biondi, quasi bianchi, sono lunghi e raccolti in una coda di cavallo, fermata da un elastico con un occhio di gatto in ambra. Le arrivano fino a metà della schiena, in una cascata luccicante. Indossa una gonna di jeans scolorita e un golfino di lana bordeaux. Ha una giacca di
pelle sul braccio. È appena uscita dalla libreria Barnes & Noble di Rittenhouse Square, dove lavora part-time. È ancora piuttosto magra, ma sembra che abbia messo su peso dall'ultima volta che l'ho vista. Buon per lei. La strada è affollata, perciò ho messo un berretto da baseball e occhiali da sole. Vado dritto verso di lei. «Ti ricordi di me?» chiedo, sollevando per un momento gli occhiali. All'inizio non è sicura. Sono invecchiato, quindi appartengo a quel mondo di adulti che potrebbe significare autorità (e di solito è così). Un po' come a dire... fine della festa. Dopo qualche istante, arriva il riconoscimento. «Certo!» esclama, illuminandosi in volto. «Ti chiami Kristi, giusto?» Lei arrossisce. «Già. Lei ha una buona memoria!» «Come sta andando?» Il rossore si fa più intenso, tramutandosi da riserbo di una giovane donna sicura di sé a imbarazzo di una ragazzina, gli occhi cerchiati di vergogna. «Mah, sa, sto molto meglio, ora. Quello era...» «Ehi», la interrompo, alzando una mano. «Non hai nulla di cui vergognarti. Proprio niente. Credimi, potrei raccontarti certe storie...» «Davvero?» «Ma certo», la rassicuro. Camminiamo per Walnut Street. La sua postura cambia leggermente; ora è un tantino impacciata. «Allora, cosa leggi di bello?» domando, indicando i sacchetti che ha in mano. Lei arrossisce ancora. «Che imbarazzo.» Mi fermo. Lei si ferma con me. «Insomma, cosa ti ho appena detto?» Kristi ride. A quell'età è sempre Natale, sempre Halloween, sempre il 4 luglio. Ogni giorno è il giorno. «Okay, okay», concede lei. Infila la mano nella borsa di plastica ed estrae un paio di riviste di musica e pettegolezzi. «Ho lo sconto.» Sulla copertina di una delle riviste c'è Justin Timberlake. Le prendo la rivista e osservo la copertina. «La roba che ha fatto da solo mi è piaciuta meno di quella dei 'NSYNC. Che ne pensi?» Kristi mi guarda a bocca aperta. «Non riesco a crederci... Lo conosce?» «Ehi, non sono così vecchio!» esclamo, fingendomi indignato. Le resti-
tuisco la rivista, consapevole del fatto che sulla superficie patinata ci sono le mie impronte. Non devo dimenticarlo. Kristi scuote la testa, continuando a sorridere. Proseguiamo lungo Walnut Street. «Tutto pronto per la Pasqua?» chiedo, cambiando argomento piuttosto bruscamente. «Oh, sì. Vado matta per la Pasqua.» «Anch'io», replico. «Cioè, so che è ancora molto presto, ma per me Pasqua vuol dire che sta arrivando l'estate. Qualcuno aspetta fino al Memorial Day, ma non io.» Resto qualche passo dietro a lei, per lasciar passare la gente. Al riparo dei miei occhiali scuri, la guardo camminare, cercando di non farmi notare. Tra pochi anni sarebbe potuta diventare quello che la gente chiama un peperino, una bellezza tutta gambe. Quando farò la mia mossa, dovrò essere veloce. Il vantaggio strategico sarà d'importanza capitale. Ho la siringa in tasca, con la punta di gomma ben fissata. Mi guardo intorno. Con tutta la gente che c'è per strada, perduta nei propri drammi, tanto varrebbe che fossimo soli. Non manca mai di sorprendermi il fatto che, in una città come Philadelphia, si possa passare praticamente inosservati. «Dove stai andando?» le chiedo. «Alla fermata dell'autobus. A casa.» Fingo di frugare nella memoria. «Abiti a Chestnut Hill, giusto?» Lei sorride, alza gli occhi. «Fuochino. A Nicetown.» «È quello che volevo dire.» Rido. Ride. È mia. «Hai fame?» Mentre lo dico, la guardo in faccia. Kristi ha combattuto le sue battaglie contro l'anoressia, e so che domande come questa saranno sempre una sfida, per lei. Trascorre qualche istante e io temo di averla perduta. Non è così. «Mangerei qualcosa», dice. «Ottimo. Facciamoci un'insalata o qualcosa del genere, poi ti porto a casa in macchina. Sarà divertente. Ci possiamo aggiornare.»
Una frazione di secondo di apprensione fa calare un velo scuro sul suo bel viso. Si guarda intorno. Il velo si alza. Lei s'infila la giacca di pelle, dà un colpetto alla coda di cavallo e dice: «Okay». 53 Mercoledì, ore 16.20 Eddie Kasalonis era andato in pensione nel 2002. Ora aveva poco più di sessant'anni ed era stato in polizia quasi quarant'anni, quasi sempre in zona, e aveva visto tutto, da ogni angolazione, sotto ogni luce, avendo lavorato vent'anni in strada prima di passare alla sezione investigativa di South Philadelphia. Jessica lo aveva rintracciato tramite il Fraternal Order of Police, il sindacato di polizia. Non era riuscita a mettersi in contatto con Kevin, perciò era andata da sola a incontrare Eddie. Lo trovò dov'era ogni giorno a quell'ora: in un ristorantino italiano sulla 10th Street. Jessica ordinò un caffè; Eddie un espresso doppio con scorza di limone. «Ho visto parecchie cose, negli anni», esordì Eddie: un evidente preludio alla passeggiata lungo il viale dei ricordi. Un uomo grande e grosso, con umidi occhi grigi, un tatuaggio marinaresco sull'avambraccio destro e le spalle incurvate dall'età. Il tempo aveva rallentato i suoi racconti. Lei era partita con l'intenzione di andare dritto al punto del sangue sulla porta di St. Katherine ma, per rispetto, lo ascoltò. Infine lui inghiottì il suo espresso, ne ordinò un altro e chiese: «Allora, cosa posso fare per lei, detective?» Lei tirò fuori il taccuino. «Ho saputo che lei ha indagato su un incidente a St. Katherine, qualche anno fa.» Eddie Kasalonis annuì. «Il sangue sul portone della chiesa, dice?» «Sì.» «Non saprei cosa dirle al riguardo. Non è stata una grande indagine, a dire il vero.» «Posso chiederle come mai se ne è occupato? Cioè, è parecchio lontano dal suo territorio.» Jessica aveva domandato in giro: Eddie Kasalonis era un ragazzo di South Philly. Fra la 3rd Street e Wharton Street. «Un prete di St. Casimir era appena stato trasferito lassù. Un bravo figliolo. Lituano, come me. Ha chiamato e ho detto che ci avrei pensato io.»
«Cos'ha trovato?» «Non molto, detective. Mentre si celebrava la messa di mezzanotte, qualcuno ha dipinto l'architrave sopra il portone col sangue. Quando i fedeli sono usciti, è gocciolato su una signora anziana. Lei ha dato di testa, ha detto che era un miracolo, ha chiamato un'ambulanza.» «Che tipo di sangue era?» «Be', non era umano, questo posso dirlo. Sangue di un qualche animale. Non ci siamo spinti molto più in là di così.» «La cosa si è mai ripetuta?» Eddie Kasalonis scosse la testa. «È finita lì, a quanto ne so. Hanno pulito il portone, tenuto gli occhi aperti per un po', e alla fine hanno lasciato perdere. Quanto a me, all'epoca avevo parecchio altro da fare.» La cameriera portò il caffè di Eddie e offrì il bis a Jessica, che rifiutò. «È successo in altre chiese?» chiese lei. «Non ne ho idea. Come ho detto, me ne sono occupato per fare un favore. La profanazione delle chiese non era esattamente il mio campo.» «Nessun sospetto?» «In effetti, no. Quella parte del Northeast non è proprio un focolaio di attività delle gang. Ho pestato qualche bullo locale, ho fatto un po' il prepotente. Nessuno si è fatto beccare.» Jessica mise via il taccuino e finì il caffè, un po' delusa che l'incontro non avesse portato a niente. D'altro canto, lei non se l'era aspettato davvero. «Ora tocca a me farle una domanda», disse Eddie. «Certo.». «Come mai le interessa un caso di vandalismo a Torresdale di tre anni fa?» Lei glielo disse. Non c'era ragione di non farlo. Come chiunque a Philly, Eddie Kasalonis era bene informato sul caso del killer del rosario. Non insistette per conoscere i dettagli. Jessica guardò l'orologio. «La ringrazio davvero per il tempo che mi ha dedicato», disse, alzandosi e mettendo una mano in tasca per pagarsi il caffè. Eddie Kasalonis alzò una mano come a dire: Lasci stare. «Lieto di aiutare», replicò lui. Mescolò il caffè, mentre sul suo viso si disegnava un'aria nostalgica. Un'altra storia. Lei attese. «Sa, quando all'ippodromo si vedono i vecchi fantini appoggiati allo steccato a guardare le preparazioni? O quando, passando davanti a un cantiere, si vedono i vecchi carpentieri seduti su una panca a fissare la nuova costruzione che sale? Ba-
sta guardarli per capire che muoiono dalla voglia di rientrare in gioco.» Jessica sapeva dove stava andando a parare. E certo sapeva dei carpentieri: il padre di Vincent era andato in pensione pochi anni prima, e ora se ne stava seduto davanti alla TV, con una birra in mano, a imprecare contro quelle schifezze di ristrutturazioni che si vedevano su Home & Garden Television. «Sì, capisco cosa intende.» Eddie Kasalonis mise lo zucchero nel caffè e sprofondò ancor più nella sedia. «Non io. Io sono contento di non doverlo fare più. La prima volta che ho sentito di questo caso cui lei sta lavorando, mi sono reso conto che il mondo mi ha sorpassato, detective. Il tizio che state cercando? Che diavolo, quello viene da un posto dove io non sono mai stato.» Alzò lo sguardo, inchiodandola coi suoi occhi tristi e acquosi. «E ringrazio Dio di non doverci andare.» Neppure lei avrebbe desiderato andarci. Ma era un po' tardi, per quello. Prese le chiavi, esitò. «Non c'è nient'altro che può dirmi, a proposito del sangue sul portone della chiesa?» Eddie parve considerare se fosse il caso di dire qualcosa. «Bene, glielo dirò. Quando ho guardato le macchie di sangue, il mattino dopo l'accaduto, ho creduto di vedere qualcosa. Tutti gli altri hanno sostenuto che me l'ero immaginato, come si crede di vedere il viso di Maria Vergine tra le chiazze d'olio sul vialetto di casa, roba del genere. Ma io ero sicuro di aver visto quello che credo di aver visto.» «Che cos'era?» Eddie Kasalonis esitò ancora. «Ho pensato che sembrava una rosa», disse infine. «Una rosa capovolta.» Jessica doveva fare quattro soste prima di andare a casa: doveva passare in banca, in tintoria, a prendere qualcosa per cena in un supermercato Wawa e a spedire un pacco alla zia Lorrie a Pompano Beach. La banca, il negozio di alimentari e l'ufficio postale si trovavano tutti nel raggio di un paio d'isolati tra la 2nd Street e South Street. Mentre parcheggiava la Jeep, pensò alle parole di Eddie Kasalonis. Ho pensato che sembrava una rosa. Una rosa capovolta. Lei aveva appreso, dalle sue letture, che la stessa parola rosario aveva origine da Maria e dal giardino di rose. Gli artisti del XIII secolo ritraevano la Madonna con in mano una rosa, non uno scettro. C'era qualche collegamento col suo caso, o era soltanto disperata? Disperata.
Senza dubbio. Tuttavia ne avrebbe parlato a Kevin, per sentire il suo parere. Tirò fuori dal bagagliaio della Jeep la scatola da spedire, chiuse l'auto e s'incamminò. Passando davanti a Così, il ristorante self service all'angolo tra la 2nd Street e Lombard Street, guardò dentro la vetrina e scorse una persona che riconobbe, anche se avrebbe preferito non vederla. Perché quella persona era Vincent. Ed era seduto a un tavolo con una donna. Una donna giovane. Una ragazza, a dire il vero. Jessica vedeva la ragazza soltanto di spalle, ma era sufficiente. Aveva lunghi capelli biondi raccolti in una coda di cavallo. Indossava una giacca di pelle, in stile motociclista. Lei sapeva che di cacciatrici di sbirri se ne trovavano di ogni forma, dimensione e colore. E di ogni età, ovviamente. Per un breve istante, Jessica conobbe la strana sensazione che si prova quando si è in un'altra città e si crede di riconoscere qualcuno: c'è un guizzo di familiarità, seguito dalla consapevolezza che quanto si sta vedendo non può essere attendibile; il che, nella fattispecie, si traduceva così: Che diavolo ci fa mio marito in un ristorante con una ragazza che avrà sì e no diciott'anni? Senza bisogno di pensare, la risposta le tuonò nella testa. Figlio di puttana. Vincent vide Jessica, e la sua faccia le rivelò tutto. Senso di colpa con un velo d'imbarazzo e contorno di sorriso mangiamerda. Lei trasse un respiro profondo, guardò a terra, quindi si rimise in cammino. Non aveva intenzione di essere la donna stupida e furiosa che affronta il marito e l'amante di lui in un luogo pubblico. Mai. Dopo qualche istante, Vincent si precipitò fuori. «Jess, aspetta.» Lei si fermò, cercando di frenare la rabbia; la rabbia non volle saperne. Era una mandria furente allo sbando. «Parlami», le disse lui. «Vaffanculo.» «Non è quello che pensi, Jess.» Lei appoggiò il pacco su una panchina e si voltò di scatto verso di lui. «Cavolo. Come facevo a sapere che lo avresti detto?» Squadrò il marito da capo a piedi. La sorprendeva sempre accorgersi di quanto potesse essere diverso, a seconda dei sentimenti che lei provava in un dato momento.
Quand'erano felici, il suo incedere da malandrino e le sue pose da duro erano tanto sexy. Quando lei era incazzata, le sembrava un teppista, un mafiosetto mancato al quale avrebbe voluto mettere le manette. E, che Dio li salvasse entrambi, in quel momento non poteva essere più incazzata. «Posso spiegare», aggiunse lui. «Spiegare? Come hai spiegato Michelle Brown? Scusa, com'era? Un po' di ginecologia amatoriale nel mio letto?» «Ascoltami.» Vincent afferrò Jessica per il braccio e, per la prima volta da quando si erano conosciuti, per la prima volta nella loro volubile, appassionata storia d'amore, ebbe la sensazione che fossero estranei, due persone che litigano sull'angolo di una strada; il genere di coppia che, quando si è innamorati, si giura di non diventare mai. «Non farlo», lo avvertì. Vincent strinse più forte. «Jess.» «Toglimi... di... dosso... quelle mani... del cazzo.» Non fu affatto sorpresa nello scoprire che aveva stretto a pugno entrambe le mani. L'idea la spaventò un poco, ma non tanto da aprirle. Avrebbe tentato di colpirlo? Sinceramente non lo sapeva. Vincent fece un passo indietro e alzò le mani in segno di resa. La sua espressione, in quel momento, rivelò a Jessica che avevano appena varcato la soglia di un territorio oscuro dal quale forse non sarebbero più tornati indietro. Ma in quel momento non aveva importanza. Jessica non riusciva a vedere altro che una coda di cavallo bionda e il sorriso idiota che Vincent aveva in faccia quando lei lo aveva sorpreso. Prese il suo pacco, girò sui tacchi e tornò alla Jeep. 'Fanculo la posta, 'fanculo la banca, 'fanculo la cena. L'unico suo pensiero era andarsene di lì. Saltò sulla Jeep, mise in moto e schiacciò sul pedale. Quasi sperava che nelle vicinanze ci fosse qualche pivello di pattuglia che decidesse di farla accostare e di romperle i coglioni. Che iella. Mai uno sbirro in giro, quando ti serve. Tranne quello che aveva sposato. Prima di svoltare su South Street, guardò nel retrovisore e vide Vincent ancora fermo sull'angolo, con le mani in tasca, una sagoma solitaria che sfumava sullo sfondo di mattoni rossi di Society Hill. E, con lui, sfumava il matrimonio di Jessica.
54 Mercoledì, ore 19.15 La notte dietro il nastro isolante era un paesaggio di Dalì, erano dune di velluto nero che sfilavano verso un orizzonte lontano. Di tanto in tanto, dita di luce s'insinuavano nel fondo del suo piano visivo, stuzzicandolo con l'idea della sicurezza. La testa gli doleva. Braccia e gambe sembravano morte, inutili. Ma non era la cosa peggiore. Se il nastro sopra gli occhi era irritante, quello sopra la bocca era intollerabile. Per una persona come Simon Close, l'umiliazione di essere legato a una sedia, bloccato con nastro isolante, bendato e imbavagliato con qualcosa che sembrava e aveva il sapore di un vecchio straccio colloso veniva al secondo posto, parecchio distaccata, rispetto alla frustrazione di non poter parlare. Se perdeva le parole, perdeva la battaglia. Era sempre stato così. Da ragazzino, nella Casa Cattolica di Berwick, con le parole era riuscito a levarsi da quasi tutti gli impicci, da tutte le situazioni più spaventose. Non stavolta. Riusciva a malapena a emettere un suono. Il nastro isolante era avvolto stretto intorno alla testa, proprio sopra le orecchie, quindi poteva sentire. Come ne esco? Respiri profondi, Simon. Profondi. Insensatamente, pensò ai libri e ai CD che si era procurato negli anni, quelli sulla meditazione, sullo yoga, sul respiro diaframmatico, sulle tecniche per combattere lo stress e l'ansia. Non ne aveva mai letto uno, e non aveva mai ascoltato quei CD per più di qualche minuto. Aveva cercato una soluzione rapida per i suoi occasionali attacchi di panico - lo Xanax lo infiacchiva troppo per permettergli di pensare lucidamente -, ma nello yoga non si trovavano soluzioni rapide. Ora rimpiangeva di averlo trascurato. Salvami, Deepak Chopra, pensò. Aiutami, dottor Weil. Poi udì la porta del suo alloggio aprirsi dietro di sé. Lui era tornato. Quel rumore lo colmò di una nauseante miscela di speranza e paura. Sentì i passi avvicinarsi, avvertì il peso sulle assi del pavimento. Sentì un odore dolce, floreale. Lieve, ma presente. Un profumo da ragazza. Improvvisamente, il nastro isolante gli fu strappato dagli occhi. Il dolore
esplose come un incendio e gli parve che si strappassero anche le palpebre. Quando i suoi occhi si adattarono alla luce, vide, sul tavolino di fronte a sé, il suo Apple PowerBook, aperto, che mostrava la pagina web del Report. «Mostro insidia le ragazze di Philly!» Frasi e periodi erano evidenziati in rosso. ... psicopatico depravato... ... pervertito macellaio d'innocenti... Dietro il portatile, su un treppiede, c'era la macchina fotografica digitale di Simon. L'apparecchio era acceso e puntato dritto su di lui. Poi Simon udì un clic dietro di sé. Il suo tormentatore teneva in mano il mouse e stava cliccando tra i documenti. Poco dopo apparve un altro articolo. Era un pezzo che aveva scritto tre anni prima, sul sangue versato sulla porta di una chiesa nel Northeast. C'era un'altra frase evidenziata: ... Tu scendi dalle stalle... Simon udì dietro di sé la cerniera lampo di una cartella che si apriva. Qualche istante più tardi sentì una lieve puntura sul lato destro del collo. Un ago. Lottò fieramente per slegarsi, ma invano. Anche se ci fosse riuscito, quello che c'era nella siringa sortì un effetto quasi immediato. Nei muscoli gli si diffuse un'ondata di calore, una piacevole debolezza che, non fosse stato in quella situazione, avrebbe anche potuto apprezzare. La sua mente cominciò a frammentarsi, ad andare verso l'alto. Chiuse gli occhi. I suoi pensieri presero il volo sopra l'ultimo decennio della sua vita. Il tempo saltò, sfarfallò, si fermò. Quando aprì gli occhi, il crudele buffet esposto sul tavolino di fronte a lui gli bloccò il respiro. Per un momento, cercò di evocare per loro un qualunque scenario benevolo. Non ce n'erano. Poi, mentre gli si liberavano le viscere, registrò nella sua mente di cronista l'ultima nota visiva: un trapano a batteria e un grosso ago con infilato uno spesso filo nero. E capì. Un'altra iniezione lo portò sull'orlo dell'abisso. Stavolta lui l'assecondò. Qualche minuto dopo, quando udì il rumore del trapano, Simon Close gridò, ma il suono sembrava provenire da un altro luogo; era un gemito disincarnato che echeggiava contro le umide pareti di pietra di una Casa Cattolica del nord dell'Inghilterra spazzato via dal tempo, un sospiro mesto sopra il volto antico delle brughiere.
55 Mercoledì, ore 19.35 Sophie e Jessica erano a tavola a rimpinzarsi di tutte le leccornie che si erano portate via dalla casa del padre: panettone, sfogliatelle, tiramisù... Non si poteva definire un pasto bilanciato, ma, dato che Jessica aveva saltato il negozio di alimentari, in frigorifero non c'era niente. Sapeva che non era saggio lasciar mangiare a Sophie tanto zucchero a quell'ora, ma la piccola era ghiottissima di dolci, proprio come la madre, e... be', era dura dirle di no. Già da tempo, Jessica aveva concluso che avrebbe fatto meglio a cominciare a risparmiare per i conti del dentista. E poi, dopo aver visto Vincent trastullarsi con Britney, o Courtney, o Ashley o come diavolo si chiamava, il tiramisù era proprio la medicina giusta. Cercò di bandire dai suoi pensieri la visione del marito con l'adolescente bionda. Sfortunatamente, quella visione fu subito rimpiazzata dall'immagine del corpo di Brian Parkhurst, appeso nella stanza calda, dal fetore della morte. Più ci pensava, più dubitava della colpevolezza di Parkhurst. Aveva frequentato Tessa Wells? Forse. Era responsabile degli omicidi di tre giovani donne? Lei non lo credeva. Era quasi impossibile compiere un rapimento e un omicidio senza lasciare tracce. Ma tre? Non sembrava proprio fattibile. Ma allora il P A R sulla mano di Nicole Taylor? Per un fugace istante, si rese conto di essersi caricata di un impegno molto più grande di quanto riuscisse a gestire. Sparecchiò la tavola, depositò Sophie davanti al televisore e fece partire il DVD di Alla ricerca di Nemo. Si versò un bicchiere di Chianti, sgomberò il tavolo della sala da pranzo e vi sparse sopra tutti i suoi appunti sul caso. Ripercorse mentalmente la successione degli eventi. Tra quelle ragazze c'era un collegamento, qualcosa di diverso dal fatto che frequentavano scuole cattoliche. Nicole Taylor, prelevata dalla strada, lasciata in un campo di fiori. Tessa Wells, prelevata dalla strada, lasciata in una casa a schiera abbandonata. Bethany Price, prelevata dalla strada, lasciata al Museo Rodin. La scelta dei luoghi in cui erano stati lasciati i cadaveri sembrava tanto casuale quanto precisa, frutto di un'elaborata messa in scena e insensatamente arbitraria.
No, pensò. La dottoressa Summers aveva ragione. Il loro uomo era tutt'altro che illogico. La collocazione delle vittime era tanto significativa quanto il modo in cui erano state assassinate. Guardò le fotografie delle ragazze uccise e provò a immaginare i loro ultimi momenti di libertà, cercò di trascinare lo svolgersi di quei momenti dal regno del bianco e nero ai colori saturi dell'incubo. Prese la fotografia scolastica di Tessa Wells. Era lei a turbarla più profondamente; forse perché Tessa era stata la prima vittima che aveva visto. O forse perché sapeva che Tessa era la ragazza esteriormente timida che un tempo Jessica era stata, la crisalide sempre ansiosa di uscire dal bozzolo. Entrò in salotto e stampò un bacio sui capelli di Sophie, lucenti, profumati di fragola. La piccola ridacchiò. Jessica rimase a guardare per qualche minuto il film, le favolose avventure di Dory, Marlin e Gill. Poi i suoi occhi trovarono la busta sul bordo del tavolo. L'aveva completamente dimenticata. Il Rosarium Virginis Mariae. Sedette al tavolo della sala da pranzo e diede una scorsa alla lunga lettera, che pareva un'epistola di papa Giovanni Paolo II in cui si ribadiva il valore del santo rosario. Sorvolò sull'intestazione, ma una sezione attrasse il suo interesse, un brano intitolato: Misteri di Cristo, Misteri di Sua Madre. Mentre leggeva, sentì accendersi dentro di sé una fiammella di comprensione, la consapevolezza di aver scavalcato una barriera che, fino a quell'istante, le era stata sconosciuta, una barricata nella quale sarebbe stato impossibile tornare a far breccia. Lesse che c'erano cinque Misteri Dolorosi del rosario. Naturalmente lo sapeva, grazie alla sua educazione scolastica cattolica, ma non ci pensava da anni. L'agonia nel giardino. La flagellazione alla colonna. L'incoronazione di spine. Il viaggio al Calvario con la croce. La crocifissione. La rivelazione fu per lei un proiettile cristallino al centro del cervello. Nicole Taylor era stata trovata in un giardino. Tessa Wells era legata a una colonna. Bethany Price portava una corona di spine. Quello era il piano generale dell'assassino. Ha intenzione di uccidere cinque ragazze.
Per pochi, ansiosi istanti, Jessica parve incapace di muoversi. Trasse un paio di respiri profondi e si calmò. Sapeva che, se aveva ragione, quell'informazione avrebbe modificato profondamente le indagini, ma non voleva esporre la teoria alla task force finché non ne fosse stata sicura. Era importante conoscere il piano, ma lo era altrettanto capire il perché. Una volta capito il perché, ci si sarebbe avvicinati a capire dove l'assassino avrebbe colpito. Prese un blocco e tracciò una griglia. Il frammento di osso di pecora trovato su Nicole Taylor doveva servire a condurre gli investigatori sulla scena del crimine di Tessa Wells. Ma come? Scorse gli indici di alcuni dei libri che aveva preso alla Free Library. Trovò una sezione sulle usanze romane e scoprì che la pratica della flagellazione, al tempo di Cristo, prevedeva un frustino corto chiamato flagrum, al quale spesso erano legate strisce di pelle di lunghezza variabile. All'estremità di ogni striscia c'era un nodo, in cui venivano inseriti aguzzi ossi di pecora. L'osso di pecora significava che ci sarebbe stata una flagellazione presso una colonna. Jessica prendeva appunti il più velocemente possibile. La riproduzione del dipinto di Blake, Dante e Virgilio sulla porta dell'Inferno, trovata tra le mani di Tessa Wells era ovvia: Bethany Price era stata trovata sulla porta che conduceva al Museo Rodin. Le analisi su Bethany Price avevano evidenziato che la ragazza aveva due numeri scritti sui palmi delle mani: sulla sinistra c'era il numero 7, sulla destra il 16. Entrambi erano scritti con un pennarello nero indelebile. 716. Indirizzo? Targa d'auto? Parte di un codice di avviamento postale? Fino ad allora, nessuno della task force aveva avuto idea di che cosa significassero. Jessica sapeva che, se fosse riuscita a scoprire il segreto, avrebbero avuto la possibilità di prevedere dove sarebbe stata collocata la vittima successiva. E loro avrebbero potuto essere lì ad aspettarlo. Fissò l'enorme pila di libri sul tavolo. Era sicura che la risposta si trovava lì, da qualche parte. Andò in cucina, gettò via il vino rosso e mise su una caffettiera. Sarebbe stata una lunga notte. 56
Mercoledì, ore 23.11 La lapide è fredda. Il nome e la data sono oscurati dal tempo e dai detriti. La ripulisco. Laccio scorrere l'indice sopra i numeri incisi. La data mi riporta a un momento della mia vita in cui ogni cosa era possibile. Un momento in cui il futuro brillava. Penso alla persona che lei sarebbe stata, a quello che avrebbe potuto fare della sua vita, a chi sarebbe potuta diventare. Un medico? Un personaggio politico? Una musicista? Un'insegnante? Guardo le giovani e so che il mondo è loro. So che cosa ho perduto. Tra tutti i giorni sacri del calendario cattolico, il Venerdì Santo è forse il più sacro. Ho sentito chiedere: se è il giorno in cui Cristo fu crocifisso, perché è detto «buono»?* Non tutte le culture lo definiscono così. Per i tedeschi è Charfreitag, cioè «Venerdì Doloroso». In latino, si dice Parasceve, che significa «preparazione». Kristi si sta preparando. Kristi sta pregando. Quando l'ho lasciata, ben chiusa e riparata nella cappella, era al decimo rosario. È molto coscienziosa e, dal modo accurato in cui recita le decine, capisco che vuole far piacere non soltanto a me (in fondo, io posso avere influenza soltanto sulla sua vita mortale), ma anche al Signore. Ora la pioggia gelida lustra il granito nero, unendosi alle mie lacrime, inondando il mio cuore colmo di tempeste. Raccolgo la pala, comincio a scavare la terra morbida. I romani attribuivano importanza all'ora che segnalava la fine delle attività della giornata, quando cominciava il digiuno. La chiamavano l'Ora Nona. Per me, per le mie ragazze, l'ora è finalmente vicina. * In inglese, il Venerdì Santo è detto Good Friday, letteralmente «buon venerdì». (N.d.T.) 57 Giovedì, ore 8.05 Il corteo di auto della polizia, con e senza contrassegni, che avanzava
serpeggiando per la strada di West Philadelphia, lucidata dalla pioggia, dove si trovava la casa della vedova di Jimmy Purify, pareva infinito. Byrne aveva ricevuto la chiamata da Ike Buchanan poco dopo le sei. Jimmy Purify era morto. Era andato in arresto cardiaco alle tre del mattino. Mentre camminava verso la casa, Byrne accolse e ricambiò gli abbracci degli altri detective. Di solito, la gente pensa che sia dura per gli sbirri mostrare emozioni - secondo alcuni, la mancanza di sentimenti sarebbe un requisito indispensabile per quel lavoro -, ma tutti gli sbirri sanno come stanno le cose. In momenti del genere, non c'è nulla di più facile. Entrando in salotto, Byrne osservò la donna ferma di fronte a lui, congelata nel tempo e nello spazio dentro la propria casa. Darlene Purify era in piedi accanto alla finestra, con lo sguardo perso ben oltre l'orizzonte grigio. Il televisore blaterava in sottofondo: un talk-show. Lui pensò di spegnerlo, ma si rese conto che il silenzio sarebbe stato di gran lunga peggiore. La TV dimostrava che la vita, da qualche parte, continuava. «Dove mi vuoi, Darlene? Dimmelo e io ci vado.» Darlene Purify aveva poco più di quarant'anni e, negli anni '80, era stata una cantante di rhythm & blues; aveva anche inciso qualche disco con un gruppo femminile chiamato La Rouge. Ora aveva i capelli platinati e la figura, prima esile, aveva ceduto al tempo. «Avevo smesso di amarlo da un pezzo, Kevin. Nemmeno mi ricordo quando. È solo... l'idea di lui, che mi manca. Jimmy. Sparito. Merda.» Byrne attraversò la stanza e la strinse a sé. Le accarezzò i capelli, in cerca di parole. Ne trovò alcune. «Era il miglior poliziotto che abbia mai conosciuto. Il migliore.» Darlene si asciugò gli occhi. Il dolore era proprio uno scultore spietato, pensò lui. In quel momento, lei sembrava una dozzina d'anni più vecchia di quello che era. Lui ripensò a quando si erano conosciuti, in tempi tanto felici. Jimmy l'aveva portata a un ballo della Police Athletic League. Byrne aveva guardato Darlene piroettare con Jimmy, domandandosi come avesse fatto un farfallone come lui a ritrovarsi con una donna come quella. «Lo amava, sai», disse Darlene. «Il lavoro?» «Già, il lavoro. Lo amava più di quanto abbia mai amato me. O perfino i figli, credo.» «Non è vero. È diverso, sai? Amare il lavoro è... be', diverso. Dopo il divorzio ho trascorso ogni giorno con lui. E anche parecchie notti. Credimi,
gli mancavate più di quanto potrai mai sapere.» Darlene lo guardò come se quella fosse la cosa più incredibile che avesse mai sentito. «Davvero?» «Scherzi? Ti ricordi quel fazzoletto col monogramma? Quello tuo, piccolo, coi fiori sull'angolo? Quello che gli hai dato al vostro primo appuntamento?» «Sì... Ma che c'entra?» «Non usciva mai a fare il suo giro senza. Anzi, una notte, stavamo andando a Fishtown per un piantonamento ed eravamo già a metà strada... be', siamo dovuti tornare alla Roundhouse perché lo aveva dimenticato. E, credimi, non conveniva sfotterlo sull'argomento.» Darlene rise, poi si coprì la bocca e ricominciò a piangere. Byrne non sapeva se stesse migliorando o peggiorando le cose. Le posò una mano sulla spalla finché il pianto non cominciò a esaurirsi. Lui frugò nella memoria in cerca di una storia, una qualsiasi. Per qualche ragione, voleva continuare a far parlare Darlene. Non sapeva perché, ma sentiva che, se lei avesse parlato, non si sarebbe rattristata. «Ti ho mai detto di quella volta che Jimmy ha lavorato sotto copertura e doveva fare il prostituto gay?» «Parecchie volte», sorrise Darlene, tra le lacrime. «Raccontamelo ancora, Kevin.» «Be', era un'operazione antidroga, no? Piena estate. Cinque agenti in reparto, e Jimmy viene sorteggiato per fare da esca. Abbiamo riso per una settimana prima che cominciasse, no? Cioè, chi diamine avrebbe mai creduto che quel gran bisteccone di porcello te lo vendesse? Ma, a parte il vendere, chi diavolo lo avrebbe comprato?» Raccontò il resto della storia meccanicamente. Darlene sorrise nei momenti giusti e rise, tristemente, alla fine. Poi si sciolse tra le forti braccia di Byrne, che la strinse per quelli che gli parvero minuti, scacciando con un cenno della mano alcuni poliziotti arrivati per porgere le condoglianze. Alla fine domandò: «I ragazzi lo sanno?» Darlene si asciugò gli occhi. «Sì. Arrivano domani.» Lui si raddrizzò. «Se hai bisogno di qualcosa, di qualunque cosa, prendi il telefono. Non guardare neanche l'orologio.» «Grazie, Kevin.» «E non preoccuparti degli aspetti pratici. Pensa a tutto l'associazione. Ci sarà una processione come quella del papa.» La guardò. Le lacrime tornarono. La tenne stretta e sentì il suo cuore bat-
tere all'impazzata. Darlene era resistente, era sopravvissuta alla lenta morte per malattia di entrambi i genitori. Erano i ragazzi a preoccuparlo. Nessuno di loro aveva la spina dorsale della madre. Erano ragazzi sensibili, molto legati tra loro, e Byrne sapeva che uno dei suoi compiti, nelle settimane seguenti, sarebbe stato sostenere la famiglia Purify. Quando uscì dalla casa di Darlene, dovette guardare da entrambi i lati della strada. Non ricordava dove avesse parcheggiato. Il mal di testa era un pugnale acuminato in mezzo agli occhi. Si toccò la tasca. Aveva ancora tutto il Vicodin della ricetta. Hai già fatto fuori tutto il piatto, Kevin, pensò. Datti una calmata, per la miseria. Si accese una sigaretta, si concesse qualche istante, si orientò. Guardò il cercapersone. C'erano ancora tre chiamate di Jimmy cui non aveva mai risposto. Ci sarà tempo. Infine ricordò di aver parcheggiato in una via laterale. Il tempo di arrivare all'angolo, e ricominciò a piovere. Perché no? pensò. Jimmy se n'era andato. Il sole non osava mostrare la faccia. Non oggi. In tutta la città - nei bar, nei taxi, nei saloni di bellezza, nelle sale riunioni, negli oratori - la gente parlava del killer del rosario, del fatto che un pazzo si accaniva sulle ragazzine di Philadelphia e che la polizia non riusciva a fermarlo. Per la prima volta nella sua carriera, Byrne si sentiva impotente, del tutto inadeguato, un impostore che non poteva guardare al suo salario con un qualche senso di orgoglio o di dignità. Si fermò al Crystal Coffee Shop, un localino aperto giorno e notte che aveva frequentato molte mattine con Jimmy. Una cappa era scesa sui clienti abituali. Avevano saputo. Lui prese un giornale e un caffè lungo, chiedendosi se sarebbe mai tornato. Quando uscì, vide una persona appoggiata alla sua auto. Era Jessica. Quasi gli cedettero le gambe per l'emozione. Questa ragazza... pensò. Questa ragazza è speciale. «Ehilà», disse lei. «Ehi.» «Mi è dispiaciuto, per il tuo partner.» «Grazie», replicò Byrne, cercando di trattenere la commozione. «Era... un tipo unico. Ti sarebbe piaciuto.»
«Posso fare qualcosa?» Lei aveva un certo non so che, pensò Byrne. Un qualcosa che dava un tono sincero a quel genere di domande, non come le stronzate che la gente dice tanto per dire. «No, è tutto sotto controllo.» «Se vuoi prenderti una giornata...» Lui scosse la testa. «Sto bene.» «Sicuro?» «Al cento per cento.» Jessica gli mostrò la lettera del Rosarium. «Cos'è?» «Credo che sia la chiave per entrare nella testa del nostro uomo.» Lo ragguagliò su quanto aveva scoperto e gli raccontò del suo incontro con Eddie Kasalonis. Mentre parlava, vide passare sul volto di Kevin Byrne diversi pensieri; i più importanti erano due. Rispetto per lei come detective. E soprattutto determinazione. «C'è una persona con cui dovremmo parlare prima di dare ragguagli alla squadra», disse Jessica. «Qualcuno che ci permetterà di vedere tutto nella giusta prospettiva.» Byrne si voltò e guardò una volta, brevemente, verso la casa di Jimmy Purify. Tornò a girarsi verso di lei e disse: «Via col rock». Si sedettero con padre Corrio a un tavolino accanto alla vetrina di Anthony's, un caffè sulla 9th Street a South Philly. «Nel rosario ci sono venti Misteri in tutto», spiegò il sacerdote. «Sono suddivisi in quattro gruppi: Gaudiosi, Dolorosi, Gloriosi e Luminosi.» L'idea che il loro uomo stesse pianificando venti omicidi non sfuggì a nessuno dei tre. Padre Corrio non sembrava convinto che le cose stessero così. «Per la precisione», continuò, «ai Misteri sono assegnati certi giorni della settimana. I Misteri Gloriosi si osservano la domenica e il mercoledì, i Misteri Gaudiosi il lunedì e il sabato. I Misteri Luminosi, che sono relativamente nuovi, si osservano il giovedì.» «E i Dolorosi?» chiese Byrne. «I Misteri Dolorosi si osservano il martedì e il venerdì. La domenica durante la quaresima.» Contando i giorni trascorsi dalla scoperta di Bethany Price, Jessica fece un breve calcolo mentale. Non quadrava con l'ordine di osservanza. «I Misteri sono in gran parte celebrativi», riprese padre Corrio. «Ci sono
l'Annunciazione, il battesimo di Gesù, l'Assunzione, la resurrezione di Cristo. Soltanto i Misteri Dolorosi hanno a che fare con la sofferenza e con la morte.» «E ci sono soltanto cinque Misteri Dolorosi, giusto?» fece Jessica. «Sì. Ma ricordate che il rosario non è universalmente accettato. Ha i suoi oppositori.» «Come mai?» «Be', alcuni lo considerano non ecumenico.» «Non sono sicuro di aver capito bene», intervenne Byrne. «Il rosario celebra Maria», spiegò padre Corrio. «Venera la madre di Dio, e alcuni credono che il carattere mariano della preghiera non glorifichi Cristo.» «E qual è il nesso con la nostra situazione?» Il prete scrollò le spalle. «Forse l'uomo che cercate non crede nello stato verginale di Maria. Forse, nel suo modo perverso, cerca di restituire a Dio le ragazze in uno stato del genere.» Quel pensiero diede un brivido a Jessica. Se il movente era quello, allora quando, e perché, lui avrebbe dovuto fermarsi? Cercò nella sua cartella e prese le fotografie dei palmi delle mani di Bethany Price, coi numeri 7 e 16. «Le dicono qualcosa questi numeri?» Padre Corrio inforcò i bifocali e guardò le foto. Chiaramente le ferite causate dal trapano nelle mani della ragazza lo turbavano. «Potrebbero significare molte cose. Non mi viene in mente nulla, così sui due piedi.» «Ho controllato la pagina 716 della Bibbia Oxford Annotated», disse Jessica. «Era a metà del Libro dei Salmi. Ho letto il testo, ma non c'era niente che saltasse all'occhio.» Il prete annuì, ma rimase in silenzio. Era chiaro che il Libro dei Salmi, in quel contesto, non toccava nessun tasto in lui. «E se fosse un anno? L'anno 716 ha qualche significato per la Chiesa, che lei sappia?» s'informò Jessica. L'altro sorrise. «Ho fatto letteratura inglese come materia complementare... Temo che la storia non sia il mio forte. So soltanto che il Concilio Vaticano I si è riunito nel 1869. Ma non sono molto bravo con le date.» Lei diede una scorsa agli appunti che aveva scarabocchiato la notte prima. Ormai era a corto d'idee. «Per caso, avete trovato uno scapolare addosso a questa ragazza?» domandò padre Corrio. Byrne esaminò i suoi appunti. Essenzialmente, uno scapolare era com-
posto di due quadratini di panno, uniti da due lacci o fasce. S'indossava in maniera tale che, quando le fasce erano appoggiate sulle spalle, un segmento ricadeva sul davanti e l'altro sulla schiena. Di solito, gli scapolari venivano regalati per la prima comunione, in un set che comprendeva spesso un rosario, una spilla col calice e l'ostia e una borsetta di raso. «Sì, aveva uno scapolare intorno al collo quand'è stata trovata», confermò. «È uno scapolare marrone?» L'altro tornò a esaminare gli appunti. «Sì.» «Forse è meglio che li osserviate bene», consigliò padre Corrio. Molto spesso, gli scapolari erano racchiusi nella plastica trasparente per proteggerli, come quello trovato su Bethany Price. Su di esso erano già stati eseguiti i rilevamenti, senza trovare impronte. «Perché, padre?» «Ogni anno si celebra una festa dello Scapolare, un giorno dedicato a Nostra Signora del Carmelo. È l'anniversario del giorno in cui la Beata Vergine è apparsa a san Simone Stock e gli ha donato uno scapolare da monaco, dicendogli che chiunque lo indossasse non avrebbe patito il fuoco eterno.» «Non capisco... Perché sarebbe importante?» domandò Byrne. «La festa dello Scapolare si celebra il 16 luglio», spiegò padre Corrio. Lo scapolare trovato su Bethany Price era effettivamente di colore marrone, dedicato a Nostra Signora del Carmelo. Byrne telefonò al laboratorio e chiese se avessero aperto l'involucro di plastica. No, non lo avevano aperto. Lui e Jessica tornarono alla Roundhouse. «Sai, esiste la possibilità che non riusciamo a prendere quest'uomo», disse Byrne. «Potrebbe arrivare alla sua quinta vittima, e tornare a strisciare nel fango per sempre.» Quell'idea aveva attraversato la mente di Jessica, che aveva cercato di non pensarci. «Lo credi possibile?» «Spero di no. Ma è da un po' che ci penso. Voglio soltanto che tu sia preparata a questa possibilità.» Quella possibilità non la convinceva. Se non avessero preso l'assassino, lei sapeva che, per tutto il resto della sua carriera nella Omicidi, per tutto il tempo che le restava da trascorrere in polizia, avrebbe giudicato ogni caso col metro di quello che avrebbe considerato un fallimento. Prima che Jessica potesse reagire, il cellulare di Byrne squillò. Lui rispose. Dopo qualche secondo, chiuse il telefono e allungò la mano sul se-
dile posteriore, in cerca delle luci intermittenti. Le mise sul cruscotto e le accese. «Che succede?» volle sapere Jessica. «Hanno aperto lo scapolare e hanno cercato le impronte», rispose lui. Premette l'acceleratore sino in fondo. «Ne abbiamo una.» Aspettarono su una panca fuori dal laboratorio in cui Buchanan stava esaminando le impronte. Nel lavoro di polizia ci sono attese di ogni genere. C'è quella da piantonamento, quella da verdetto. C'è l'attesa di quando si deve comparire in un tribunale municipale alle nove del mattino, per testimoniare per qualche cazzata come un caso di guida in stato di ebbrezza, e si sale sul banco per due minuti alle tre del pomeriggio, giusto in tempo per cominciare il turno alle quattro. Ma l'attesa di un'impronta rilevata era l'attesa migliore e la peggiore: c'era una prova, ma, più tempo si aspettava, minori erano le probabilità di ottenere risultati utilizzabili. Byrne e Jessica cercavano di rilassarsi. Avrebbero potuto fare diverse altre cose, ma erano ben decisi a non farne nessuna. L'obiettivo principale, al momento, era tenere tranquille la pressione e le pulsazioni. «Posso chiederti una cosa?» azzardò Jessica. «Certo.» «Se non vuoi parlarne, capisco perfettamente.» Lui la guardò, gli occhi verdi quasi neri. Lei non aveva mai visto un uomo tanto sfinito. «Vuoi sapere di Luther White», disse lui. «Be', insomma, sì», replicò. Era così trasparente? Jessica aveva chiesto in giro. I detective erano protettivi, tra loro. I pezzi e i bocconi che lei aveva messo insieme formavano una storia davvero pazzesca. Proviamo a chiedere, si era detta. «Cosa vuoi sapere?» Tutto, fino all'ultimo dettaglio. «Tutto quello che ti va di dirmi.» Byrne scivolò un po' più in basso sulla panca, si assestò. «Ero entrato in polizia più o meno da cinque anni, e da circa due anni ero in borghese. C'era stata una serie di stupri a West Philly. Il modus operandi consisteva nell'aspettare nei parcheggi di posti come motel, ospedali, uffici. L'uomo colpiva in piena notte, di solito fra le tre e le quattro del mattino.» Jessica se ne ricordava vagamente. Faceva il ginnasio, e quella storia a-
veva terrorizzato lei e le sue compagne. «Il colpevole metteva una calza di nylon sulla faccia, guanti di gomma, e portava sempre il preservativo. Non ha mai lasciato un capello, una fibra, una goccia di liquido. Non avevamo niente. Otto donne in un arco di tre mesi, e noi non avevamo niente. L'unico indizio a nostra disposizione, a parte il fatto che l'uomo era bianco e di un'età fra i trenta e i cinquant'anni, era la descrizione di un tatuaggio che aveva sulla gola: un'aquila piuttosto elaborata, che arrivava fin su alla base della mascella. Avevamo interrogato tutti i tatuatori tra Pittsburgh e Atlantic City: niente. Allora, una notte sono in giro con Jimmy. Avevamo appena beccato un indiziato a Old City ed eravamo ancora in divisa. Ci fermiamo per un bicchierino veloce in questo posto, Deuces, sulla banchina 84. Stiamo per andarcene, quando, seduto a un tavolo vicino alla porta, io vedo un tizio con un dolcevita bianco. Sul momento non ci faccio caso, ma, mentre esco, chissà perché, mi giro e la vedo. La punta di un tatuaggio che fa capolino da sopra l'orlo del collo. Un becco d'aquila. Non poteva essere più di un centimetro, no? Era lui.» «E lui ti ha visto?» «Oh, sì. Jimmy e io usciamo. Ci rannicchiamo fuori, contro un basso muretto di pietra, proprio a bordo fiume, pensando di chiamare qualcuno, dato che avevamo pochi uomini e non volevamo rischiare di perdere quel bastardo. Non ci sono ancora i telefoni cellulari, perciò Jimmy va verso la macchina per chiamare rinforzi. Io decido di restare vicino alla porta, pensando: se 'sto tizio cerca di andarsene, io mi butto su di lui. Però, non appena mi giro, eccolo là. Con la sua calibro 22 puntata dritta al mio cuore.» «Come ha fatto a raggiungerti?» «Non ne ho idea. Senza una parola, senza esitazione, fa fuoco. Spara tre colpi in rapida successione. Li prendo tutti nel giubbotto antiproiettile, tuttavia mi lasciano senza fiato. Il quarto colpo mi ha sfiorato la fronte.» Si toccò la cicatrice sopra l'occhio destro. «Sono caduto all'indietro, oltre il muretto, dentro il fiume. Non riuscivo a respirare. Le pallottole avevano incrinato due costole, sicché non potevo nemmeno tentare di nuotare. Ho cominciato a inabissarmi, ero come paralizzato. L'acqua era gelida.» «Cos'è successo a White?» «Jimmy l'ha fatto fuori. Due colpi al torace.» Jessica cercò di fissare quelle immagini, l'incubo di ogni poliziotto: stendere con un'arma un avanzo di galera. «Mentre andavo a fondo, ho visto White infrangere la superficie sopra di
me. Lo giuro, prima di perdere i sensi, per un momento, siamo stati faccia a faccia sott'acqua. A pochi centimetri di distanza. Era buio, l'acqua era gelida, ma i nostri occhi si sono incontrati. Stavamo morendo entrambi e lo sapevamo.» «Poi cos'è successo?» «Mi hanno ripescato, mi hanno fatto la rianimazione cardiopolmonare e tutta la trafila.» «Ho sentito dire che eri...» Per qualche ragione, Jessica aveva difficoltà a pronunciare quella parola. «Annegato?» «Be', sì. Quello. È vero?» «Così dicono.» «Caspita. E per quanto tempo sei stato, ehm...» Byrne rise. «Morto?» «Scusa. Posso affermare con sicurezza di non aver mai fatto questa domanda prima d'ora.» «Sessanta secondi.» «Caspita.» Byrne la guardò: la sua faccia era una conferenza stampa di domande. Allora sorrise. «Vuoi sapere se c'erano bianche luci accecanti, angeli, trombe dorate e un angelo che fluttuava, giusto?» Jessica rise. «Credo di sì.» «Be', nessun angelo. Ma c'era un lungo corridoio con una porta in fondo. Sapevo soltanto di non doverla aprire. Se avessi aperto quella porta, non sarei più tornato indietro.» «Lo sapevi... così?» «Lo sapevo. E, dopo essere tornato indietro, per molto tempo, ogni volta che mi trovavo sulla scena di un crimine, specialmente se era un omicidio, provavo una... sensazione. Il giorno dopo il ritrovamento del corpo di Deirdre Pettigrew, sono tornato a Fairmount Park. Ho toccato la panchina di fronte ai cespugli dov'era stata trovata. E ho visto Pratt. Non conoscevo il suo nome, non vedevo chiaramente il suo volto, però sapevo che era lui. Ho visto come lei lo aveva visto.» «Lo hai visto?» «Non in senso visivo. Però... ho saputo.» Era evidente che tutto quello non era semplice, per lui. «È successo molte volte, per molto tempo. Non c'erano spiegazioni. Non c'era modo di prevederlo. In effetti, ho fatto parecchie cose che non avrei dovuto fare, per cercare di fermarlo.»
«Quanto è durata l'invalidità?» «Sono stato a casa per quasi cinque mesi. Un bel po' di riabilitazione. È lì che ho conosciuto mia moglie.» «Era una fisioterapista?» «No, no. Si stava riprendendo da uno strappo al tendine d'Achille. In realtà l'avevo conosciuta tre anni prima, nella mia zona, ma ci siamo reincontrati in ospedale. Zoppicavamo insieme su e giù per il corridoio. Direi che è stato amore al primo Vicodin, se non fosse una pessima battuta.» Jessica rise ugualmente. «Ti sei mai fatto aiutare da uno psichiatra?» «Oh, sì. Mi sono fatto due anni di tira e molla con lo strizzacervelli del dipartimento. Analisi dei sogni. Sono perfino andato a qualche riunione della IANDS.» «Della cosa?» «L'Associazione internazionale di studi sulla premorte. Non era roba per me.» Lei cercò di assimilare tutto. Non era poco. «E adesso come va?» «Ultimamente non succede più tanto spesso. È un po' come un segnale televisivo indistinto. Morris Blanchard è la prova che non posso più essere sicuro.» Jessica capì che c'era dell'altro, ma sentiva di averlo già forzato abbastanza. «E, per rispondere alla tua prossima domanda», proseguì Byrne, «non so leggere nel pensiero, non so predire la fortuna, non so vedere il futuro. Niente Zona morta. Se potessi vedere il futuro, credimi, ora sarei a Philadelphia Park.» Lei rise di nuovo. Era contenta di aver saputo la storia, tuttavia ne era ancora un po' spaventata. Le storie di preveggenza e roba del genere le avevano sempre fatto un po' paura. Quando aveva letto Shining, aveva dormito con la luce accesa per una settimana. Stava goffamente tentando di cambiare argomento, quando Ike Buchanan uscì di corsa dal laboratorio. Era rosso in faccia e le vene del collo pulsavano. Aveva pure smesso di zoppicare. «Ce l'abbiamo», esclamò, sventolando una stampata di computer. Byrne e Jessica scattarono in piedi e si misero al passo con lui. «Chi è?» domandò Byrne. «Si chiama Wilhelm Kreuz», rispose Buchanan. 58
Giovedì, ore 11.25 Secondo gli archivi della motorizzazione, Wilhelm Kreuz abitava in Kensington Avenue. Faceva il custode di un parcheggio a North Philly. L'Unità Pronto Intervento arrivò sul posto con due veicoli: quattro membri della Squadra Speciale SWAT erano su un furgone nero e quattro dei sei detective della task force li seguivano in un'auto del dipartimento: Byrne, Jessica, John Shepherd ed Eric Chavez. A pochi isolati dalla destinazione, nella Taurus squillò un cellulare. I detective controllarono il proprio telefono. Era quello di John Shepherd. «Sì... Quanto tempo... Okay... Grazie.» Abbassò l'antenna, chiuse il telefono. «Kreuz non si è presentato al lavoro negli ultimi due giorni. Al parcheggio nessuno lo ha visto né ha parlato con lui.» Tutti assimilarono l'informazione in silenzio. C'era un rituale che accompagnava lo sfondamento di una porta, di qualunque porta; un monologo interiore, privato, diverso per ogni agente di polizia. Alcuni riempivano il tempo con le preghiere. Altri con un silenzio assente. E tutto serviva a raffreddare la rabbia, a calmare i nervi. Avevano raccolto informazioni sul soggetto. Wilhelm Kreuz corrispondeva chiaramente al profilo. Aveva quarantadue anni, era un tipo solitario, laureato all'University of Wisconsin. E, benché avesse una lunga fedina penale, non c'era niente che si avvicinasse al livello di violenza o di depravazione degli omicidi delle ragazze del rosario. Kreuz era schedato come colpevole di reati sessuali di livello due, vale a dire che era considerato a moderato rischio di recidività. Si era fatto sei anni a Chester e, al suo rilascio, nel settembre del 2002, si era registrato presso le autorità di Philadelphia. Aveva qualche trascorso di contatti con ragazze di età compresa tra dieci e quattordici anni. Conosceva alcune delle sue vittime, ma non tutte. I detective concordarono che, sebbene le vittime del killer del rosario fossero più vecchie delle precedenti vittime di Kreuz, non c'erano spiegazioni logiche al ritrovamento di una sua impronta digitale su un oggetto appartenente a Bethany Price. Si erano messi in contatto con la madre di Bethany Price e le avevano chiesto se conosceva Wilhelm Kreuz. Non lo conosceva. Kreuz abitava in un appartamento di tre stanze al primo piano di un ma-
landato edificio vicino a Somerset Street. L'ingresso era di fianco a una tintoria chiusa da tempo. Secondo le planimetrie dell'Ufficio urbanistico, al primo piano c'erano quattro appartamenti. Secondo l'Ente per l'edilizia residenziale, soltanto due erano occupati. Legalmente, cioè. La porta posteriore dava su un vicolo che correva lungo il fianco dell'intero caseggiato. L'appartamento che cercavano era sul davanti, con le due finestre affacciate su Kensington Avenue. Un tiratore scelto della SWAT prese posizione dall'altra parte della strada, sul tetto di un edificio di tre piani. Un secondo agente SWAT copriva il lato posteriore dell'edificio, a livello strada. Gli altri due SWAT avrebbero abbattuto la porta con un Thunderbolt CQB, il pesante ariete che usavano quand'era necessario uno sfondamento dinamico, ad alto rischio. Una volta buttata giù la porta, Jessica e Byrne sarebbero entrati, con John Shepherd a coprirli. Eric Chavez si sarebbe posizionato in fondo al corridoio, vicino alle scale. Trapanarono la serratura della porta esterna e guadagnarono rapidamente l'ingresso. Procedettero in fila nel piccolo androne e Byrne controllò le quattro cassette delle lettere. In apparenza, nessuna veniva utilizzata. Erano state forzate da tempo e mai riparate. In terra c'erano mucchi di foglietti pubblicitari, menù e cataloghi. Sopra le cassette c'era una lavagnetta di sughero ammuffita. Alcune ditte locali reclamizzavano la loro mercanzia coi caratteri cubitali ma sbiaditi di stampanti ad aghi, su carta raggrinzita di colori accesi. Le offerte speciali risalivano a quasi un anno prima. Pareva che i distributori di volantini della zona avessero rinunciato da tempo a battere quel posto. I muri dell'androne erano deturpati da graffiti delle gang e da oscenità in almeno quattro lingue. Le scale che portavano al primo piano erano ingombre di sacchi di rifiuti, strappati e sparsi in giro da una composita fauna urbana a due e a quattro zampe. L'ambiente era saturo del tanfo di cibo marcio e di urina. Il primo piano era anche peggio. Sotto l'odore di escrementi, si avvertiva la pesante, acida cappa di fumo di canna. Il corridoio era un passaggio lungo e stretto di assicelle metalliche e fili elettrici penzolanti. Intonaco spellato e pittura a smalto scheggiata pendevano dal soffitto in umide stalattiti. Byrne si avvicinò senza far rumore alla porta di Kreuz e vi appoggiò l'orecchio. Rimase in ascolto per qualche istante, poi scosse la testa. Provò la maniglia. Chiuso. Fece un passo indietro. Uno degli agenti SWAT incontrò lo sguardo della squadra d'ingresso. Il
suo collega, quello con l'ariete, si mise in posizione e cominciò silenziosamente il conto alla rovescia. Era il momento. «Polizia! Ordine di perquisizione!» gridò. Indietreggiò con l'ariete e assestò un colpo secco, proprio sotto la serratura. La vecchia porta schizzò via all'istante dallo stipite, frantumandosi, e si scardinò in alto. L'agente con l'ariete si scostò e il collega della SWAT scivolò dentro, tenendo alto il fucile AR-15 calibro 223. Byrne lo seguì. Poi arrivò Jessica, con la Glock 17 puntata verso il pavimento. Il piccolo soggiorno era subito a destra. Byrne si accostò furtivamente al muro. Furono accolti dall'odore di disinfettante, incenso alla fragola e carne in putrefazione. Una coppia di ratti spaventati sgattaiolò contro il muro. Sui loro musi grigi, Jessica notò del sangue rappreso. Le zampe picchiettarono sul pavimento di legno secco. Nell'appartamento regnava una quiete sinistra. Da qualche parte, nel soggiorno, ticchettava un orologio. Non si sentiva una voce, un fiato. Di fronte a loro c'era la caotica zona giorno. Un divanetto sfondato di legno dorato e velluto, i cuscini sul pavimento. Qualche scatola di pizza Domino's rosicchiata fino all'ultima briciola. Un mucchio d'indumenti sudici. Nessun essere umano. A sinistra, una porta che dava probabilmente sulla camera da letto. Era chiusa. Avvicinandosi, udirono dall'interno della stanza il rumore fioco di una trasmissione radio. Una stazione gospel. L'agente SWAT si mise in posizione, col fucile alto. Byrne si fece avanti, toccò la porta. Era chiusa. Girò lentamente la maniglia, poi spalancò in fretta la porta e indietreggiò. Ora la radio era un po' più forte. «La Bibbia dice che non c'è dubbio, uh, che un giorno tutti, uh, renderemo conto al Signore!» Byrne e Jessica si scambiarono uno sguardo. Con un cenno del mento, lui fece il conto alla rovescia. Irruppero nella stanza. E videro il vero centro dell'inferno. «Oh, Gesù», disse l'agente SWAT. Si fece il segno della croce. «Oh, Signore Gesù Cristo.» Nella stanza non c'erano mobili né arredi di nessun genere. Le pareti erano coperte di carta da parati floreale scrostata e ammuffita; il pavimento
era punteggiato d'insetti morti, di ossicini e di altri rifiuti di fast-food. Gli angoli erano tappezzati di ragnatele; anni di soffice polvere grigia coprivano i battiscopa. La radiolina si trovava nell'angolo, vicino alle finestre che davano sulla strada, finestre coperte da lenzuola strappate e muffite. Due erano gli occupanti della stanza. A ridosso della parete opposta, un uomo era appeso a testa in giù su una croce improvvisata, che sembrava fatta con due pezzi del telaio metallico di un letto. Polsi, piedi e collo erano legati al telaio con filo spinato che gli si conficcava nella carne. L'uomo era nudo ed era stato squartato dall'inguine alla gola; grasso, pelle e muscoli erano tirati sui lati a formare un solco profondo. Lo avevano anche squarciato orizzontalmente lungo il torace, a formare una croce di sangue e di tessuto a brandelli. Sotto di lui, alla base della croce, era seduta una ragazza. I capelli, che forse un tempo erano stati biondi, erano di un intenso color terra di Siena. Era fradicia di sangue, che si era raccolto in una pozza lucente nel grembo della sua gonna di jeans. La stanza era colma del sentore metallico del sangue. Le mani della ragazza erano imbullonate tra loro. Lei teneva un rosario con una sola decina di grani. Byrne fu il primo a riprendersi. Lì dentro c'era ancora pericolo. Scivolò lungo la parete di fronte alla finestra, sbirciò nell'armadio a muro. Era vuoto. «Cessato allarme», disse infine. Non c'erano più minacce immediate, almeno da parte di esseri umani vivi, e i detective avrebbero potuto rinfoderare le armi; eppure esitarono, come se, in qualche modo, potessero annientare con fucili e pistole quella sacrilega visione. Non poteva essere. L'assassino era andato lì e si era lasciato dietro quella scena blasfema, un quadro che certamente sarebbe sopravvissuto nella memoria di tutti loro finché avessero avuto fiato. Una rapida ispezione dell'armadio a muro non diede grandi risultati. Un paio di divise da lavoro, un mucchio di biancheria e di calzini sporchi. Le due divise erano dell'Acme Parking. Sul davanti di una delle camicie da lavoro era appuntata una targhetta con fotografia, che identificava l'uomo appeso come Wilhelm Kreuz. La foto della targhetta corrispondeva a quella segnaletica. Finalmente i detective misero via le armi. John Shepherd chiamò la Scientifica.
«È il suo nome», disse a Byrne e Jessica l'agente SWAT, ancora scosso. La targhetta sulla giacca blu della divisa dell'agente diceva D. MAURER. «Come sarebbe a dire?» chiese Byrne. «La mia famiglia è tedesca», rispose Maurer, facendo del proprio meglio per riprendersi. Era un'impresa difficile per tutti. «Kreuz vuol dire 'croce' in tedesco.» Il quarto Mistero Doloroso è la salita al Calvario con la croce. Byrne uscì di scena per un momento, poi tornò. Diede una scorsa al suo taccuino, in cerca dell'elenco delle ragazze di cui era stata denunciata la scomparsa. C'erano anche le fotografie. Non ci volle molto. Si accovacciò accanto alla ragazza e le accostò una foto al viso. Il nome della vittima era Kristi Hamilton. Aveva sedici anni. Abitava a Nicetown. Lui si alzò. Assimilò la scena atroce che aveva di fronte. In cuor suo, nel profondo delle catacombe del suo terrore, sapeva che ben presto avrebbe affrontato quell'uomo, e che loro due avrebbero camminato insieme sull'orlo dell'abisso. Byrne avrebbe voluto dire qualcosa alla squadra, il gruppo che lui avrebbe dovuto guidare, ma in quel momento si sentiva tutto tranne che un leader. Per la prima volta nella sua carriera, scoprì che non c'erano parole adeguate. Sul pavimento, vicino alla gamba destra di Kristi Hamilton, c'era un bicchiere col logo di Burger King, col coperchio e con la cannuccia. Sulla cannuccia c'erano impronte di labbra. Il bicchiere era mezzo pieno di sangue. Byrne e Jessica camminavano senza meta, all'incirca un isolato verso Kensington Avenue, soli con quelle immagini di stridente follia. Il sole fece una timida, fugace apparizione tra due spesse nuvole grigie, disegnando un arcobaleno sulla strada, ma non sul loro umore. Avrebbero voluto parlare. Avrebbero voluto urlare. Per il momento, rimasero in silenzio, con la tempesta che si agitava dentro di loro. La gente s'illude che gli agenti di polizia possano guardare qualunque cosa, qualunque evento mantenendo un distacco scientifico. Certo, molti sbirri coltivano l'immagine del cuore di ghiaccio; un'immagine fatta per la TV e il cinema. «Sta ridendo di noi», disse Byrne.
Jessica annuì. Non c'era dubbio. Li aveva portati a casa di Kreuz con quell'impronta collocata ad arte. La parte più difficile di quel lavoro, cominciava a capire lei, consisteva nel relegare in fondo ai pensieri il desiderio di vendetta personale. Stava diventando sempre più difficile. La violenza si stava intensificando. La vista del cadavere sbudellato di Wilhelm Kreuz aveva confermato che la cosa non sarebbe finita con un arresto pacifico. La furia del killer del rosario si sarebbe conclusa dopo un assedio sanguinoso. Si fermarono davanti alla casa e si appoggiarono al furgone della Scientifica. Dopo qualche istante, un agente in divisa si affacciò alla finestra della camera da letto di Kreuz. «Detective?» «Che c'è?» domandò Jessica. «Forse è meglio che veniate su.» La donna dimostrava poco meno di novant'anni. Le lenti spesse rifrangevano arcobaleni nella fioca luce a incandescenza diffusa da due nude lampadine sul soffitto del corridoio. Lei era appena dietro la porta, appoggiata a un tutore di alluminio. Abitava a due porte dall'appartamento di Wilhelm Kreuz. Odorava di lettiera per gatti, pomata per l'artrite e salame kosher. Si chiamava Agnes Pinsky. «Dica a questi signori quello che ha appena detto a me», ordinò l'agente. «Eh?» Agnes indossava una vestaglietta lisa color verde acqua, con un unico bottone sbottonato. Il lato sinistro era più in alto del destro, e scopriva una calza elastica al ginocchio e un calzettone di lana blu a metà polpaccio. «Quand'è stata l'ultima volta che ha visto Mr Kreuz?» domandò Byrne. «Willy? È sempre gentile con me», dichiarò la donna. «Fantastico. Quando l'ha visto l'ultima volta?» ripeté Byrne. Agnes Pinsky guardò prima Jessica, poi Byrne, poi ancora Jessica. Sembrava essersi resa conto soltanto in quel momento di parlare con tre estranei. «Come mi avete trovato?» «Abbiamo soltanto bussato alla sua porta, Mrs Pinsky.» «Lui è malato?» «Malato? Perché dice questo?» volle sapere Byrne. «È venuto il suo dottore.»
«Quando?» «Ieri. Ieri il suo dottore è venuto a visitarlo.» «Come fa a sapere che era un dottore?» «Come faccio a saperlo? Che cavolo le prende? Lo so com'è fatto un dottore, non sono mica rimbecillita.» «Sa a che ora è venuto?» Agnes Pinsky fissò Byrne per un tempo di una lunghezza preoccupante. La donna pareva scivolata nei più oscuri recessi della sua mente. Aveva l'aria di chi aspetta con impazienza il resto all'ufficio postale. Le avrebbero mandato un disegnatore per tracciare un identikit, ma le probabilità di ottenere un'immagine utilizzabile erano esigue. Tuttavia, a quanto Jessica sapeva dell'Alzheimer e della demenza senile, certe immagini erano spesso nitidissime. Ieri il suo dottore è venuto a visitarlo. Restava soltanto un Mistero Doloroso, pensò Jessica scendendo le scale. Dove sarebbero andati la prossima volta? In quale quartiere sarebbero arrivati con fucili e arieti? Northern Liberties? Glenwood? Tioga? In quale volto avrebbero scrutato, avviliti e senza parole? Nessuno di loro nutriva il minimo dubbio che, ancora una volta, sarebbero arrivati in ritardo. L'ultima ragazza sarebbe stata crocifissa. Cinque dei sei agenti si riunirono al piano di sopra, nella Lincoln Room al Finnigan's Wake. La stanza era tutta per loro, per il momento chiusa al pubblico. Di sotto, le Corrs cantavano dal juke-box. «Allora, con chi abbiamo a che fare qui, con un vampiro del cazzo?» sbottò Nick Palladino. Era in piedi vicino alle alte finestre che davano su Spring Garden Street. Il Ben Franklin Bridge ronzava in lontananza. Palladino era un uomo che pensava meglio in piedi, dondolandosi sui tacchi, mani in tasca a far tintinnare monetine. «Cioè, datemi il membro di una gang, datemi un delinquente di quartiere con la sua mitraglietta Mac-10, che fredda un altro stronzo per questioni di territorio, per una partita di droga sballata, per l'onore, il codice, quello che vi pare. Quella merda lì la capisco. Ma questo?» Tutti capivano cosa intendeva. Era tanto più semplice quando il movente era scritto su un cartello appeso al delitto. L'avidità era più facile: bastava seguire le impronte dei soldi. Palladino era in vena. «Payne e Washington hanno avuto una soffiata su
quel tizio della JBM, l'altra notte a Gray's Ferry, no? Adesso ho sentito che hanno trovato il colpevole morto su a Erie. Così mi piace, chiaro e limpido.» Byrne serrò gli occhi per un secondo e li riaprì su un nuovo giorno. John Shepherd salì le scale. Byrne fece un cenno alla cameriera, Margaret, che portò a John un Jim Bean liscio. «Il sangue era tutto di Kreuz», li informò Shepherd. «La ragazza è morta per la rottura del collo, come le altre.» «E il sangue nel bicchiere?» domandò Tony Park. «Quello apparteneva a Kreuz. Secondo il medico legale, prima di morire dissanguato, gli hanno dato da bere il sangue con la cannuccia.» «Ha bevuto il proprio sangue», ripeté Chavez, mentre un brivido lo attraversava da capo a piedi. Non era una domanda, soltanto l'enunciazione di qualcosa troppo difficile da comprendere. «Già», confermò Shepherd. «È ufficiale: le ho viste tutte», concluse Chavez. I sei poliziotti cercarono di capire. Gli orrori legati al caso del killer del rosario stavano aumentando esponenzialmente. «Prendete e bevetene tutti, perché questo è il mio Sangue dell'alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati», declamò Jessica. Cinque paia di sopracciglia si alzarono e tutti si voltarono verso di lei. «Ho letto molto, ultimamente», spiegò lei. «Il Giovedì Santo era anche il giorno della lavanda dei piedi. E il giorno dell'Ultima Cena.» «Vorresti dire che questo Kreuz era Pietro, per il nostro uomo?» chiese Palladino. Jessica non poté far altro che scrollare le spalle. Ci aveva pensato. Probabilmente avrebbero passato il resto della notte facendo a pezzetti la vita di Wilhelm Kreuz, in cerca di qualche nesso che potesse diventare un indizio. «La ragazza aveva qualcosa nelle mani?» domandò Byrne. Shepherd annuì. Mostrò la fotocopia di una fotografia digitale. I poliziotti si raccolsero intorno al tavolo ed esaminarono la foto a turno. «Cos'è, un biglietto della lotteria?» fece Jessica. «Già», confermò Shepherd. «Oh, grandioso, cazzo», sbottò Palladino. Tornò alla finestra, con le mani in tasca. «Impronte?» chiese Byrne. Shepherd scosse la testa.
«Possiamo scoprire dov'è stato acquistato il biglietto?» volle sapere Jessica. «Abbiamo già fatto chiamare la commissione. Dovremmo avere notizie da un momento all'altro», spiegò Shepherd. Jessica fissò la foto. Il loro assassino aveva messo un biglietto Big 4 tra le mani della sua vittima più recente. C'erano buone probabilità che non fosse soltanto un gesto di scherno. Come gli altri oggetti, era un indizio riguardante il luogo in cui sarebbe stata trovata la vittima seguente. Il numero del biglietto era illeggibile, coperto di sangue. Significava che il prossimo corpo sarebbe stato trovato in una rivendita della lotteria? Dovevano essercene a centinaia. Era impossibile sorvegliarle tutte. «Questo tipo ha una fortuna incredibile», commentò Byrne. «Quattro ragazze prelevate dalla strada e neanche un testimone oculare. È fatto di fumo.» «Pensi che sia fortuna o che viviamo in una città in cui a nessuno frega più un cazzo?» domandò Palladino. «Se credessi questo, mi farei dare la liquidazione oggi e me ne andrei a Miami Beach», disse Tony Park. Gli altri cinque annuirono. Alla Roundhouse, la task force aveva tracciato una grande mappa dei rapimenti e dei luoghi di ritrovamento. Non c'era nessun disegno chiaro, nessun modo di prevedere o intravedere la mossa seguente dell'assassino. Erano già tornati ai rudimenti: gli assassini seriali partono da casa loro. Il loro uomo viveva o lavorava a North Philly. Casella numero uno. Byrne accompagnò Jessica alla macchina. Si trattennero lì per un po', entrambi in cerca di qualcosa da dire. Era in momenti come quello che Jessica avrebbe voluto fumare. Il suo allenatore alla Frazier's Gym l'avrebbe uccisa solo per averci pensato, ma ciò non le impediva d'invidiare Byrne per il conforto che sembrava trarre da una Marlboro Light. Una chiatta risaliva pigramente il fiume. Il traffico procedeva a singhiozzo. Nonostante quella follia, nonostante il dolore e l'orrore che si erano abbattuti su quelle famiglie, Philly continuava a vivere. «Sai, comunque finirà, sarà brutto», commentò Byrne. Jessica lo sapeva. E sapeva anche che, prima della fine, lei avrebbe pro-
babilmente imparato una nuova, grande verità su se stessa. Avrebbe probabilmente messo a nudo un oscuro recesso di paura, rabbia e angoscia che avrebbe volentieri lasciato nascosto. Per quanto si rifiutasse di crederlo, alla fine di quel viaggio sarebbe stata una persona diversa. Non lo aveva previsto, quando aveva accettato il lavoro, ma, come un treno impazzito, si era trovata a correre a tutta velocità verso il precipizio, e ormai era impossibile fermarsi. PARTE QUARTA 59 Venerdì Santo, ore 10.00 La droga per poco non le fece schizzar via la testa. L'afflusso andò a sbattere sul fondo del cranio, rimbalzò, a tempo con la musica, poi si ripercosse sul collo in triangoli frastagliati, un po' come si taglia il coperchio delle zucche a Halloween. «Da dieci e lode», disse Lauren. Lauren Semanski rischiava la bocciatura in due dei suoi sei corsi alla Nazarene. Sotto minaccia di una pistola, anche dopo due anni di algebra, non avrebbe saputo dire cos'era un'equazione di secondo grado. Non era neanche sicura che l'equazione di secondo grado fosse algebra. Forse era geometria. E, anche se la sua famiglia era polacca, non avrebbe saputo indicare la Polonia su una mappa. Una volta ci aveva provato e la sua unghia scintillante di smalto si era posata da qualche parte a sud del Libano. Negli ultimi tre mesi, aveva preso cinque multe, sia la sveglia digitale sia l'orologio del videoregistratore nella sua camera avevano un 12.00 lampeggiante da quasi due anni, e l'unica volta che aveva provato a fare una torta di compleanno per la sua sorellina Caitlin aveva quasi dato fuoco alla casa. A sedici anni, Lauren Semanski - e lei sarebbe stata la prima ad ammetterlo - non sapeva un mucchio di cose su un mucchio di cose. Ma sapeva riconoscere lo speed buono. «Kryptonite.» Buttò la cannuccia sul tavolino e si distese sul divano. Aveva voglia di ululare. Guardò in giro per la stanza. Tutti bianchi che scimmiottavano i neri. Qualcuno alzò il volume della musica. Sembrava Billy Corgan. I Pumpkins erano giusti, classici. Gli Zwan facevano schifo. «Low-rent!»* strillò Jeff, a malapena udibile sopra la musica, chiaman-
dola con quello stupido nomignolo, fregandosene dei suoi desideri per la milionesima volta. Il ragazzo accennò qualche accordo su una chitarra immaginaria, sbavando sulla sua maglietta dei Mars Volta e ghignando come una iena. Dio, che balordo, pensò Lauren. Carino, ma cetriolo. «Devo filare», strillò lei. «Oh, dai, Lo.» Lui le porse la cannuccia, come se lei non si fosse già sniffata una farmacia intera. «Non posso.» Sarebbe dovuta essere al negozio. Avrebbe dovuto prendere la glassa di ciliegia per quello stupido prosciutto di Pasqua. Come se avesse bisogno di mangiare. Chi aveva bisogno di mangiare? Nessuno che lei conoscesse. Comunque doveva scappare. «Se mi dimentico di passare in negozio, quella mi ammazza.» Jeff fece una smorfia, si chinò sul tavolino di vetro e si fece una pista. Era partito. Lei sperava in un bacio, ma, quando lui alzò la testa, gli vide gli occhi. A nord. Lauren si alzò, prese borsetta e ombrello. Guardò il percorso a ostacoli di corpi che giacevano in vari stati d'ipercoscienza. Le finestre erano coperte di cartoncino colorato. Tutte le lampadine erano rosse. Sarebbe tornata più tardi. Jeff ne aveva avuta tanta che bastava e avanzava per tutto il fine settimana. Lauren uscì in strada, i Ray-Ban ben piantati sul naso. Pioveva ancora avrebbe smesso mai? - ma per lei anche il cielo coperto era un po' troppo luminoso. E poi le piaceva come le stavano gli occhiali da sole. Certe volte li metteva anche di notte. Certe volte anche a letto. Si schiarì la gola, deglutì. Il bruciore dello speed in fondo alla gola le diede una seconda scarica. Era troppo fatta per andare a casa. E comunque era una specie di Baghdad, ultimamente. Poteva farne a meno. Tirò fuori il suo Nokia, cercando di pensare a una scusa plausibile. Le serviva soltanto un'ora per tornare a terra. Problemi alla macchina? Dato che la Volkswagen era in negozio, non funzionava. Un'amica malata? Per piacere, Lo. A quel punto, Nonna B. chiederebbe i certificati ai medici. Cos'era che non usava da un po'? Poca roba. Nell'ultimo mese era stata da Jeff praticamente quattro giorni alla settimana. Quasi sempre fino a tardi. Ce l'ho, eccola! pensò.
Scusa, nonna. Non ce la faccio a venire a casa per pranzo. Sono stata rapita. Ah, ah. Come se gliene sbattesse qualcosa. Da quando i genitori di Lauren avevano fatto la parte dei pupazzi di un crash test, l'anno prima, lei abitava coi morti viventi. 'Fanculo. Se la sarebbe gestita. Guardò un po' le vetrine, sollevando gli occhiali per vedere. I Ban erano fighi e tutto, ma cacchio se erano scuri. Tagliò per il parcheggio dietro i negozi fino all'angolo con la sua strada, corazzandosi per l'assalto della nonna. «Ehi, Lauren!» gridò qualcuno. Lei si voltò. Chi la chiamava? Si guardò intorno. Non vide nessuno, solo qualche macchina e un paio di furgoncini. Cercò d'identificare la voce e non ci riuscì. «Salve?» buttò là. Silenzio. Indietreggiò tra un furgone e un camion della birra. Si tolse gli occhiali e si guardò intorno, girando a 360 gradi. Subito dopo, si ritrovò con una mano sulla bocca. Sul momento pensò fosse Jeff, ma Jeff non avrebbe spinto tanto in là uno scherzo. E quello era troppo poco divertente. Cercò di divincolarsi, ma chiunque le stesse giocando quell'«esilarante» scherzo, era forte. Forte sul serio. Sentì un ago nel braccio sinistro. Eh? Ah, ho capito, stronzo, pensò. Stava per fare al tizio una scena alla Vin Diesel, quando le sue gambe vacillarono e lei cadde contro il furgone. Cercò di restare vigile mentre si afflosciava a terra. Le stava succedendo qualcosa, e voleva prendere nota di tutto. Quando gli sbirri avessero beccato quello stronzo - e l'avrebbero beccato, quello stronzo, poco ma sicuro -, lei sarebbe stata la miglior testimone di tutti i tempi. Prima di tutto, l'uomo odorava di pulito. Un tantino troppo pulito, secondo lei. E poi portava i guanti di gomma. Non un buon segno, basta guardare CSI. La debolezza le salì allo stomaco, al petto, alla gola. Combattila, Lauren. Si era fatta la prima bevuta a nove anni, quando Gretchen, sua cugina più grande, le aveva passato un succo di frutta col vino alla festa del 4 luglio al Boathouse Row. Era stato amore alla prima sbornia. Da quel giorno, aveva ingerito ogni sostanza nota all'umanità e anche qualcuna nota
forse soltanto agli extraterrestri. Qualunque cosa ci fosse in quella siringa, lei poteva reggerlo. I suoni che parevano filtrati con l'effetto wa-wa e le immagini che parevano sciogliersi ai bordi erano merda passata. Una volta era tornata in macchina da Atlantic City sbronza marcia di Jack Daniels e facendosi una canna che era stata tre giorni in formaldeide. Partì. Ritornò. Ora era distesa supina nel furgone. O era un SUV? Comunque si muovevano. Veloce. Le girava la testa, ma non era un bel girare. Era tipo: Sono le tre del mattino e non avrei dovuto farmi l'ecstasy col Nardil. Aveva freddo. Si tirò su il lenzuolo. Non era proprio un lenzuolo, era una camicia, una giacca, qualcosa del genere. Dai recessi più profondi della coscienza, sentì squillare il suo cellulare. Sentì quella stupida suoneria dei Korn, era proprio lì in tasca e lei non doveva far altro che rispondere, come aveva fatto un miliardo di volte, e dire alla nonna di chiamare gli sbirri, e quel tipo l'avrebbero troppo beccato. Ma non poteva muoversi. Le braccia pesavano una tonnellata. Il telefono squillò di nuovo. Lui allungò la mano e cominciò a frugarle nella tasca dei jeans. Erano stretti, e lui faticava a tirar fuori il telefono. Bene. Lei avrebbe voluto afferrargli il braccio, fermarlo, ma pareva muoversi al rallentatore. Lui riuscì a estrarre il Nokia dalla tasca, lentamente, tenendo l'altra mano sul volante, guardando ogni tanto la strada. Da qualche parte, nel profondo, Lauren sentiva la rabbia e il rancore che cominciavano a crescere in una furiosa onda vulcanica. Quell'onda le rivelava che, se non avesse fatto qualcosa, e presto, non sarebbe uscita viva di lì. Si tirò la giacca sopra il mento. Di colpo ebbe un gran freddo. Sentì qualcosa in una tasca. Una penna? Probabile. La tirò fuori e la strinse più forte che poteva. Come un coltello. Quando lui riuscì finalmente a prenderle il telefono dai jeans, lei seppe di doversi muovere. Mentre lui tirava, lei alzò il pugno in un ampio arco e gli conficcò la penna sul dorso della mano destra; la punta si ruppe. Lui strillò e il veicolo oscillò, a sinistra, a destra, mandandola a sbattere prima contro una parete, poi contro l'altra. Dovevano essere saliti sul marciapiede, perché Lauren venne sbalzata in aria bruscamente, per poi crollare di nuovo. Avvertì un forte clic e una gran corrente d'aria. Il portello laterale si era aperto, ma si stavano ancora muovendo. Sentì l'aria fresca e umida turbinare all'interno del veicolo, portando con
sé l'odore dei gas di scarico e dell'erba appena tagliata. L'aria la rianimò un po', domando la nausea crescente. Un pochino. Poi Lauren sentì che la droga riprendeva il controllo. Anche l'effetto dello speed durava ancora. Ma la sostanza che lui le aveva sparato le faceva girare la testa e le ottundeva i sensi. Il vento continuava a sferzare. La terra gridava, proprio sotto i suoi piedi. Le ricordava Il mago di Oz. O il tornado di Twister. Ora correvano ancora più veloci. Il tempo svanì per un momento, poi tornò. Lei alzò gli occhi proprio mentre l'uomo tornava ad allungarsi verso di lei. Stavolta aveva in mano qualcosa di metallico e lucente. Una pistola? Un coltello? No. Era troppo dura concentrarsi. Lauren cercò di mettere a fuoco l'oggetto. Il vento faceva mulinare polvere e detriti nell'abitacolo, annebbiandole la vista, bruciandole gli occhi. Poi vide la siringa che si avvicinava. L'ago sembrava enorme, acuminato, mortale. Non poteva lasciarsi bucare di nuovo. Non poteva. Lauren Semanski raccolse gli ultimi scampoli di coraggio. Si rizzò a sedere, sentì la forza concentrarsi nelle gambe. Spinse. E scoprì che poteva volare. * Letteralmente «affitto basso»; si usa per indicare una persona grezza e meschina. Qui usato scherzosamente per l'assonanza col nome «Lauren». (N.d.T.) 60 Venerdì Santo, ore 10.15 Il dipartimento di polizia di Philadelphia sgobbava sotto il microscopio dei media nazionali. I tre network, come pure la Fox e la CNN, avevano troupe sparse per tutta la città e mandavano aggiornamenti tre o quattro volte per ciclo. Il telegiornale locale trasmetteva a rotazione continua il servizio sul killer del rosario, con tanto di logo e sigletta ad hoc. C'era anche l'elenco delle chiese cattoliche in cui si celebrava la messa del Venerdì Santo; in alcune si tenevano veglie di preghiera per le vittime. Le famiglie cattoliche, specie quelle con figlie - che frequentassero scuo-
le religiose o no -, erano adeguatamente terrorizzate. La polizia si aspettava un notevole aumento nell'uso delle armi contro gli sconosciuti. Erano a rischio soprattutto gli addetti al servizio postale, quelli della FedEx e dell'UPS. Come pure quelli che erano oggetto di qualche rancore. Credevo che fosse il killer del rosario, Vostro Onore. Ho dovuto sparargli. Ho una figlia. Il dipartimento tenne nascosta la notizia della morte di Brian Parkhurst il più a lungo possibile, ma alla fine trapelò, come succedeva sempre. Il procuratore distrettuale aveva tenuto una conferenza stampa di fronte al suo ufficio al numero 1421 di Arch Street e, alla domanda se ci fossero prove che Brian Parkhurst era il killer del rosario, dovette rispondere di no. Parkhurst era stato un testimone chiave. E così girava la giostra. La notizia della quarta vittima li fece uscire tutti dalla tana. Avvicinandosi alla Roundhouse, Jessica vide qualche decina di persone sul marciapiede della North 8th Street, con cartelloni che per lo più annunciavano la fine del mondo. A Jessica parve di leggere, su alcuni cartelli, i nomi GEZABELE e MADDALENA. Dentro era peggio. Anche se tutti sapevano che non ne avrebbero cavato indizi credibili, dovevano ascoltare tutte le dichiarazioni. I Rasputin da film di serie B, i Jason e i Freddy d'ordinanza. Poi c'erano da affrontare i finti Hannibal, i Gacy, i Dahmer e i Bundy. In tutto, c'erano state più di cento confessioni. Su alla Omicidi, mentre Jessica cominciava a mettere insieme gli appunti presi alla riunione della task force, una risata femminile piuttosto stridula dall'altra parte della stanza attirò la sua attenzione. Che genere di svitata sarà mai questa? si chiese. Alzò gli occhi, e quello che vide la raggelò. Era la ragazza bionda con la coda di cavallo e la giacca di pelle. La ragazza che aveva visto con Vincent. Lì, alla Roundhouse. Anche se, guardandola meglio, non era affatto giovane come le era parsa allora. Tuttavia vederla in quell'ambiente era del tutto surreale. «Che diavolo succede?» disse Jessica, a voce abbastanza alta per farsi sentire da Byrne. Gettò i suoi taccuini sul banco. «Cosa?» fece lui. «Vuoi prendermi in giro?» disse lei, cercando invano di calmarsi. «Que-
sta... stronza ha le palle di venire qui e di comparirmi davanti?» Jessica fece un passo avanti, e doveva avere un atteggiamento piuttosto minaccioso, perché Byrne si mise tra lei e la donna. «Ehi! Un momento. Di cosa stai parlando?» chiese lui. «Fammi passare, Kevin.» «No, finché non mi spieghi che succede.» «È la stronza che ho visto con Vincent l'altro giorno. Non posso credere che...» «Chi, la bionda?» «Sì, è la...» «Lei è Nicci Malone.» «Chi?» «Nicolette Malone.» Jessica elaborò l'informazione, senza risultati. «E questo dovrebbe dirmi qualcosa?» «È un'agente della Narcotici. Viene da Central.» Qualcosa nel petto di Jessica si smosse all'improvviso, un lastrone di ghiaccio di vergogna e senso di colpa che la raggelò. Vincent era in servizio. La bionda era una che lavorava con lui. Vincent aveva cercato di dirglielo e lei non aveva voluto ascoltarlo. Ancora una volta, aveva fatto la figura della stronza di prima classe. Gelosia, il tuo nome è Jessica. La task force si preparava a riunirsi. La scoperta di Kristi Hamilton e Wilhelm Kreuz aveva portato a una chiamata dell'FBI alla Omicidi. La task force doveva incontrarsi il giorno seguente con due agenti dell'ufficio distaccato di Philadelphia. Il fattore giurisdizionale, in quei delitti, era stato in questione fin dalla scoperta di Tessa Wells, data la concretissima possibilità che tutte le vittime fossero state rapite, il che ne faceva, almeno in parte, reati federali. Come previsto, si sollevarono le solite obiezioni territoriali, ma senza troppa convinzione. La verità era che la task force aveva bisogno di tutto l'aiuto possibile. L'escalation degli omicidi del rosario era stata rapidissima e ora, con l'uccisione di Wilhelm Kreuz, prometteva di espandersi in zone per cui il dipartimento di polizia di Philadelphia non era proprio attrezzato. C'era una dozzina di tecnici della Scientifica soltanto nell'appartamento di Kreuz a Kensington Avenue.
Alle undici e mezzo Jessica controllò la posta elettronica. Nella casella c'era un po' di spam e qualche messaggio di certe teste di cavolo che aveva beccato quand'era nell'Unità Auto, che le ripetevano le solite invettive, le solite promesse di rivederla, un giorno o l'altro. In mezzo alla solita roba, c'era un messaggio di
[email protected]. Dovette guardare due volte l'indirizzo del mittente. Aveva visto bene: Simon Close, The Report. Scosse la testa di fronte alla sconfinata faccia di bronzo di quel tipo. Perché diavolo quel pezzo di merda pensava che lei volesse sentire ciò che lui aveva da dire, qualunque cosa fosse? Stava per cancellarlo quando vide che c'era un allegato. Lo passò all'antivirus: era pulito. Probabilmente l'unica cosa pulita di Simon Close. Aprì l'allegato. Era una fotografia a colori. Inizialmente ebbe difficoltà a riconoscere l'uomo nella foto. Si domandò perché Simon Close le mandasse l'immagine di un tizio che lei non conosceva. Naturalmente, se avesse capito cosa passava per la testa a un pennivendolo da tabloid, avrebbe cominciato a preoccuparsi per se stessa. L'uomo della foto era seduto su una sedia, col torace avvolto da nastro isolante, che serrava anche avambracci e polsi, legandolo ai braccioli. Gli occhi erano serrati, come se l'uomo si aspettasse di essere colpito o stesse desiderando intensamente qualcosa. Jessica ingrandì l'immagine a dimensione doppia. E vide che quell'uomo non aveva affatto gli occhi chiusi. «Oh, Cristo», esclamò. «Cosa?» fece Byrne. Jessica girò il monitor verso di lui. L'uomo sulla sedia era Simon Edward Close, famoso reporter del principale giornale scandalistico di Philadelphia, il Report. Qualcuno lo aveva incollato alla sedia di una sala da pranzo e gli aveva cucito entrambi gli occhi. Quando Byrne e Jessica arrivarono nei pressi dell'appartamento sulla City Line, c'erano già un paio di detective della Omicidi, Bobby Lauria e Ted Campos. Quando entrarono, trovarono Simon Close esattamente nella stessa posizione della fotografia. Bobby Lauria ragguagliò Byrne e Jessica su quanto si sapeva. «Chi lo ha trovato?» domandò Byrne.
Lauria sfogliò i suoi appunti. «Un suo amico. Un certo Chase. Avrebbero dovuto vedersi per colazione da Denny's sulla City Line. La vittima non si è fatta vedere. Chase lo ha chiamato due volte, poi è passato a vedere se era tutto a posto. La porta era aperta, ha chiamato il 911.» «Avete controllato i tabulati del telefono pubblico di Denny's?» «Non è stato necessario», rispose Lauria. «Entrambe le chiamate erano nella segreteria telefonica della vittima. Il numero del chiamante corrisponde a quello del telefono di Denny's. Tutto regolare.» «Questo è il pezzo di... con cui hai avuto quel problema l'anno scorso, vero?» chiese Campos. Byrne conosceva il motivo della domanda, e sapeva quello che sarebbe seguito. «Già.» La macchina fotografica digitale che aveva scattato la foto era ancora sul treppiede di fronte a Close. Un agente della Scientifica stava rilevando le impronte dall'apparecchio e dal treppiede. «Guarda qua», disse Campos. S'inginocchiò vicino al tavolino e, con la mano guantata, mosse il mouse collegato al portatile di Close. Aprì il programma iPhoto. C'erano sedici fotografie, intitolate in successione KEVINBYRNE1.JPG, KEVINBYRNE2.JPG e così via. Peccato però che nessuna immagine fosse leggibile. Sembravano tutte passate attraverso un programma di elaborazione grafica e imbrattate con un pennello elettronico. Un pennello di colore rosso. Campos e Lauria guardarono Byrne. «Devo chiedertelo, Kevin», disse Campos. «Lo so», replicò lui. Volevano conoscere i suoi spostamenti nelle ultime ventiquattr'ore. Nessuno dei due nutriva il minimo sospetto, però dovevano levarsi quel pensiero. Byrne, naturalmente, conosceva la trafila. «Butterò giù una dichiarazione in centrale.» «Nessun problema», dichiarò Lauria. «Si sa già la causa?» s'informò Byrne, lieto di cambiare argomento. Campos si alzò e andò alle spalle della vittima. C'era un piccolo foro alla base del collo di Simon Close. Probabilmente praticato con la punta di un trapano. Man mano che gli agenti della Scientifica procedevano, divenne chiaro che chiunque avesse cucito gli occhi di Close - e sull'autore del gesto sussistevano pochi dubbi - non si era curato di fare un lavoro tecnicamente pregevole. Lo spesso filo nero trapassava la morbida pelle delle palpebre e arrivava alla guancia, un paio di centimetri sotto l'occhio. Sottili rivoli di
sangue erano gocciolati sul viso, facendolo somigliare a un Cristo. La pelle e la carne erano tirate verso l'alto, insieme col tessuto morbido intorno alla bocca di Close, scoprendone gli incisivi. Anche il labbro superiore dell'uomo era tirato verso l'alto, ma i denti erano chiusi. Da un metro di distanza, Byrne notò qualcosa di nero e lucente proprio dietro i denti anteriori dell'uomo. Tirò fuori una matita e fece un cenno a Campos. «Accomodati pure», disse l'altro. Con la matita, Byrne fece leva delicatamente e aprì uno spiraglio tra i denti di Simon Close. Per un momento, la bocca parve vuota, come se quello che lui aveva creduto di vedere non fosse che un riflesso sulle bollicine di saliva dell'uomo. Poi dalla bocca cadde un oggetto, rotolando prima sul petto di Close, poi sul suo grembo e infine sul pavimento. Produsse un suono lieve, un clicchettio di plastica sul legno duro. Jessica e Byrne lo guardarono rotolare sino a fermarsi. Si fissarono, cogliendo nello stesso istante il significato di ciò che stavano vedendo. Un secondo dopo, gli ultimi grani di rosario mancanti si rovesciarono fuori dalla bocca del morto, come monete da una slot-machine. Dieci minuti dopo, avevano contato i grani di rosario, evitando accuratamente il contatto con le superfici per non alterare eventuali prove scientifiche utili, anche se le probabilità che il killer del rosario si tradisse a quel punto erano alquanto basse. Contarono due volte, per sicurezza. Il significato del numero di grani ficcati in bocca a Simon Close non sfuggì a nessuno dei presenti. C'erano cinquanta grani. Tutt'e cinque le decine. E ciò significava che il rosario per l'ultima ragazza del dramma della passione di quel folle era già stato preparato. 61 Venerdì Santo, ore 13.25 A mezzogiorno, la Ford Windstar di Brian Parkhurst fu trovata parcheggiata in un garage coperto a pochi isolati dall'edificio in cui l'uomo era stato trovato impiccato. La Scientifica aveva trascorso il primo pomeriggio a setacciarla in cerca di prove. Non c'erano tracce di sangue, nulla a indicare che qualcuna delle vittime fosse stata trasportata in quel veicolo. Il rive-
stimento era di color bronzo e non corrispondeva alle fibre di moquette trovate sulle prime quattro vittime. Nel vano portaoggetti c'erano le solite cose: libretto, manuale dell'auto, qualche cartina. Più interessante era la lettera trovata nella visiera parasole e contenente i nomi di dieci ragazze, scritti a macchina. Quattro erano nomi già noti alla polizia: Tessa Wells, Nicole Taylor, Bethany Price e Kristi Hamilton. La busta era indirizzata all'agente Jessica Balzano. Il nome della prossima vittima si trovava in quell'elenco? Poco ma sicuro. Per niente sicuri erano invece il motivo per cui quei nomi fossero in possesso del defunto dottor Parkhurst e il significato da attribuire a tutto ciò. 62 Venerdì Santo, ore 14.45 La lavagna bianca fu suddivisa in cinque colonne. In cima a ciascuna c'era un Mistero Doloroso: AGONIA, FLAGELLAZIONE, CORONA, SALITA AL CALVARIO, CROCIFISSIONE. Sotto ogni intestazione, tranne l'ultima, c'era una fotografia della relativa vittima. Jessica ragguagliò la squadra su ciò che aveva scoperto dalle sue ricerche, da Eddie Kasalonis e da quanto padre Corrio aveva detto a lei e a Byrne. «I Misteri Dolorosi rappresentano l'ultima settimana della vita di Cristo», spiegò. «Benché le vittime non siano state trovate nel giusto ordine, il nostro uomo sembra seguire scrupolosamente la successione dei Misteri. Come certamente sapete, oggi è Venerdì Santo, il giorno in cui Cristo è stato crocifisso. Resta un Mistero soltanto: la crocifissione.» Un'auto di zona era stata assegnata a ogni chiesa cattolica della città. Entro le 3.25, erano arrivati rapporti da ogni angolo. In tutte le chiese l'ora terza - da mezzogiorno alle tre, il periodo che Cristo trascorse sulla croce era passata senza imprevisti. Entro le quattro, si erano messi in contatto con tutte le famiglie delle ragazze presenti sulla lista trovata nell'auto di Brian Parkhurst. Una volta rintracciate le famiglie, e senza provocare eccessivo panico, era stato loro raccomandato di stare in guardia. Alla casa di ciascuna era stata assegnata un'auto per protezione. Perché quelle ragazze si trovassero sull'elenco e che cosa avessero in
comune per esserci finite erano ancora domande senza risposta. La task force aveva provato a fare controlli incrociati a partire dalle associazioni di cui le ragazze facevano parte, dalle chiese che frequentavano, dal colore degli occhi e dei capelli, dall'etnia; non era emerso nulla. Ognuno dei sei detective della task force avrebbe fatto visita a una delle sei ragazze rimaste. Con loro, ne erano certi, avrebbero trovato la risposta a quell'orribile indovinello. 63 Venerdì Santo, ore 16.15 La casa dei Semanski si trovava tra due lotti abbandonati di una strada agonizzante a North Philly. Jessica scambiò qualche parola coi due agenti parcheggiati lì di fronte, poi salì i gradini incurvati. La porta interna era aperta, quella a zanzariera non era bloccata. Jessica bussò. Dopo qualche istante, arrivò una donna. Sui sessant'anni, indossava un cardigan blu bioccoluto e un paio di pantaloni lisi di cotone. «Mrs Semanski? Sono il detective Balzano. Ci siamo parlate per telefono.» «Ah, sì. Io sono Bonnie. Prego, si accomodi.» Bonnie Semanski aprì la porta a zanzariera e la fece entrare. L'interno di casa Semanski sembrava appartenere a un'altra epoca. Forse lì dentro c'erano alcuni pezzi d'antiquariato di valore, pensò Jessica, tuttavia molto probabilmente per la famiglia Semanski non erano altro che mobilia ancora buona e dunque da non gettar via. Sulla destra, c'era un salottino con al centro una stuoia consumata in fibra di agave e un gruppo di vecchi mobili di compensato sagomato. Su una poltrona con lo schienale reclinabile era seduto un sessantenne macilento. Appoggiati a un mobiletto pieghevole metallico, di fianco a lui, c'erano svariati flaconi di pillole di colore ambrato e una caraffa di tè freddo. L'uomo stava guardando una partita di hockey, ma sembrava che esaminasse il fianco del televisore più che lo schermo. Alzò gli occhi su Jessica; lei sorrise, e lui sollevò un braccio scarno in un cenno di saluto. Bonnie Semanski condusse Jessica in cucina. «Lauren dovrebbe essere a casa da un momento all'altro. Oggi non ha scuola, naturalmente. È a casa di amici», spiegò Bonnie.
Erano sedute a un tavolo da tinello rosso e bianco di acciaio cromato e formica. Come tutto il resto lì dentro, anche la cucina sembrava uscita dagli anni '60. Gli unici oggetti che la collocavano nel presente erano un piccolo forno a microonde bianco e un apriscatole elettrico. Era evidente che i Semanski erano i nonni, e non i genitori, di Lauren. «Oggi Lauren non ha telefonato a casa?» «No. L'ho chiamata sul cellulare poco fa, ma c'era la segreteria. Qualche volta lo spegne.» «Al telefono, mi ha detto che è uscita verso le otto di stamattina, giusto?» «Sì.» «Sa dov'era diretta?» «È andata a trovare certi amici», ripeté Bonnie, come fosse un mantra di negazione. «Sa come si chiamano?» La donna si limitò a scuotere la testa. Era chiaro che, chiunque fossero quegli «amici», Bonnie Semanski non approvava. «Dove sono i suoi genitori?» «Sono morti l'anno scorso in un incidente stradale.» «Mi dispiace.» «Grazie.» Bonnie Semanski guardò fuori dalla finestra. La pioggia era diventata un'acquerugiola costante. In un primo momento, Jessica pensò che la donna si mettesse a piangere, ma, guardandola meglio, si rese conto che probabilmente aveva già versato tutte le sue lacrime molto tempo fa. Il dolore, a quanto pareva, si era depositato sulla metà inferiore del suo cuore, e non lo si poteva disturbare. «Può raccontarmi che cos'è successo ai suoi genitori?» «Una settimana prima di Natale, l'anno scorso, Nancy e Carl stavano tornando a casa dal lavoro part-time di Nancy al BricoCasa. Assumevano gente nel periodo delle feste, sa. Non come adesso. Era tardi, ed era molto buio. Probabilmente Carl è andato un po' troppo veloce in una curva... e la macchina è finita fuori strada ed è caduta in un burrone. Dicono che è stata una morte rapida.» Jessica era un po' sorpresa che quella donna non scoppiasse in lacrime. Immaginò che Bonnie Semanski avesse raccontato quella storia tante volte a tanta gente, prendendo così una certa distanza. «Lauren l'ha presa molto male?» chiese.
«Oh, sì.» Jessica scarabocchiò un appunto, prendendo nota dei tempi. «Lauren ha un ragazzo?» Bonnie fece un cenno come per scacciare la domanda. «Non riesco a starci dietro, sono troppi.» «Come sarebbe a dire?» «Sono sempre tra i piedi, a tutte le ore. Sembrano dei senzatetto.» «Sa se qualcuno ha minacciato Lauren, ultimamente?» «Minacciato?» «Qualcuno le ha dato problemi? L'ha infastidita?» Bonnie rifletté per un momento. «No, non credo.» Jessica buttò giù ancora un paio di appunti. «Potrei dare una rapida occhiata alla stanza di Lauren?» «Certo.» La stanza di Lauren Semanski era in cima alle scale, sul retro della casa. Sulla porta c'era un adesivo sbiadito che diceva: ATTENZIONE: SCIMMIA SCHIZZATA. Jessica conosceva il lessico dei tossici abbastanza da sapere che Lauren Semanski, probabilmente, non era «a casa di amici» per organizzare un picnic parrocchiale. Bonnie aprì la porta e Jessica entrò. L'arredamento era di buona qualità, stile provenzale, bianco con inserti dorati; letto a baldacchino, toeletta e scrivania. Le pareti erano di un giallo limone, la stanza lunga e stretta, col soffitto spiovente su entrambi i lati e con una finestra all'estremità opposta. Sulla destra c'erano scaffali a muro; a sinistra un paio di porte nella parete bassa, che davano presumibilmente su un ripostiglio. Le pareti erano coperte di poster di rock band. Grazie al cielo, Bonnie la lasciò sola nella stanza. A Jessica non piaceva l'idea di averla lì a sbirciare mentre ispezionava gli effetti personali di Lauren. Sulla scrivania c'era una serie di fotografie in cornici a buon mercato. Una foto scolastica di Lauren a nove o dieci anni. In una c'erano Lauren e un ragazzino trasandato, davanti a una galleria d'arte. Un'altra era un'immagine di Russell Crowe presa da una rivista. Rovistò nei cassetti del comò: maglioni, calzini, jeans, shorts. Niente di significativo. Nell'armadio, idem. Chiuse la porta dell'armadio, vi si appoggiò, osservò la stanza. Pensa. Perché Lauren Semanski era su quella lista? A parte il fatto che frequentava una scuola cattolica, cosa c'era lì che
combaciasse col puzzle di quelle morti bizzarre? Sedette al computer di Lauren e controllò i suoi siti preferiti. Ce n'era uno chiamato hardratio.com, dedicato all'heavy metal, un altro chiamato snakenet. Però, ad attirare la sua attenzione, fu un sito di nome yellowribbon.org. Sul momento, Jessica pensò che fosse dedicato ai POW/MIA, i prigionieri di guerra e i dispersi in battaglia. Quando si connesse alla rete e cliccò sul sito, vide che riguardava il suicidio di adolescenti. Ero tanto affascinata dalla morte e dalla disperazione, quand'ero adolescente? si domandò. Forse sì. Forse era una cosa che veniva con gli ormoni. Tornata in cucina, scoprì che Bonnie aveva preparato un bricco di caffè. Ne versò una tazza a Jessica e si sedette di fronte a lei. Sul tavolo c'era anche un piatto di wafer alla vaniglia. «Devo farle ancora qualche domanda sull'incidente dell'anno scorso», disse Jessica. «Okay», replicò Bonnie, ma la bocca all'ingiù disse all'altra che non era okay per niente. «Non ci vorrà molto, glielo prometto.» Bonnie annuì. Jessica stava riordinando i propri pensieri, quando un'espressione di orrore sempre più consapevole si disegnò sul volto di Bonnie Semanski. Qualche istante dopo, si rese conto che Bonnie non stava guardando lei, bensì un punto al di sopra della sua spalla sinistra. Jessica si voltò, lentamente, seguendo lo sguardo della donna. Sulla soglia della porta posteriore c'era Lauren Semanski. Aveva i vestiti strappati, le nocche delle dita sanguinanti e scorticate. Aveva una lunga contusione sulla gamba destra e un paio di lacerazioni profonde sul braccio destro. Sul lato sinistro della testa mancava un'ampia chiazza di cuoio capelluto. Il polso sinistro sembrava rotto e l'osso sporgeva dalla carne. La pelle sulla guancia destra era staccata in un lembo sanguinolento. «Tesoro?» disse Bonnie, alzandosi e portando alle labbra una mano tremante. Il suo viso aveva perso ogni colore. «Dio mio, cosa... cos'è successo, bambina mia?» Lauren guardò la nonna, poi Jessica. Aveva gli occhi iniettati di sangue e lucidi. Nel trauma, traspariva un'intensa espressione di sfida. «Quel figlio di troia non sapeva con chi aveva a che fare», dichiarò. Poi Lauren Semanski svenne.
Prima che arrivasse l'ambulanza, Lauren riprese conoscenza e la riperse di nuovo. Jessica fece quello che poteva per evitare che entrasse in stato di shock. Dopo aver appurato che non c'erano lesioni alla colonna vertebrale, l'avvolse in una coperta e le sollevò leggermente le gambe. Sapeva che prevenire lo shock era infinitamente preferibile a curarne gli effetti. Si accorse che la mano destra di Lauren era strettamente chiusa a pugno. Aveva in mano qualcosa, qualcosa con un bordo affilato, un oggetto di plastica. Jessica cercò di distendere delicatamente le dita della ragazza: niente da fare. Non insistette. Mentre aspettavano, Lauren vaneggiava. Jessica si formò un quadro abbozzato di quanto le era successo. Le frasi erano sconnesse, le parole le scivolavano tra i denti. Casa di Jeff. Strafatti. Stronzo. Le labbra secche e le narici devastate di Lauren, insieme coi capelli fragili e con la pelle vagamente traslucida, rivelarono a Jessica che probabilmente la ragazza si faceva di speed. Siringa. Stronzo. Prima di essere caricata sulla barella, Lauren aprì gli occhi un istante e pronunciò una parola che per un momento fermò la rotazione del pianeta. Rosario. L'ambulanza partì, portando Bonnie Semanski all'ospedale con la nipote. Jessica chiamò la centrale e riferì l'accaduto. Un paio di agenti stavano arrivando al St. Joseph's. Jessica aveva dato severe istruzioni ai paramedici di conservare gli indumenti di Lauren e qualunque fibra o fluido, per quanto possibile. In particolare, aveva chiesto loro di garantire l'integrità di prova dell'oggetto che Lauren teneva stretto nella mano destra. Jessica rimase in casa Semanski; andò in salotto e si sedette accanto a George Semanski. «Sua nipote starà bene», gli assicurò, sperando di sembrare convincente, desiderando credere che fosse vero. George Semanski annuì. Continuava a torcersi le mani. Saltava da un canale all'altro della TV via cavo quasi fosse una sorta di fisioterapia. «Devo farle ancora una domanda. Se non le dispiace.» Dopo qualche istante di silenzio, l'uomo annuì di nuovo. Evidentemente,
la pletora di farmaci sul mobiletto gli aveva rallentato i riflessi. «Sua moglie mi ha detto che l'anno scorso, quando i suoi genitori sono morti, Lauren l'ha presa piuttosto male. Può spiegarmi che cosa intendeva?» George Semanski si allungò verso un flacone di pillole. Lo prese, se lo rigirò tra le mani, ma non lo aprì. Jessica notò che era Clonazepam. «Be', dopo il funerale e tutto quanto, dopo la sepoltura, più o meno una settimana dopo, lei si è quasi... Be', si è...» «Si è cosa, Mr Semanski?» George Semanski s'interruppe. Smise di giocherellare con la boccetta. «Ha cercato di uccidersi.» «Come?» «Be', una notte è andata giù in macchina. Ha collegato un tubo flessibile al tubo di scarico e l'ha infilato dentro un finestrino. Ha cercato di respirare il monossido di carbonio.» «E cos'è successo?» «È svenuta sopra il clacson. Bonnie si è svegliata ed è uscita.» «Lauren è dovuta andare in ospedale?» «Oh, sì. Ci è rimasta quasi una settimana.» Le pulsazioni di Jessica aumentarono. Sentì che la tessera del puzzle andava a posto. Bethany Price aveva cercato di tagliarsi i polsi. Tessa Wells aveva nel suo diario una citazione di Sylvia Plath. Lauren Semanski aveva cercato di avvelenarsi col monossido di carbonio. Il suicidio, pensò Jessica. Tutte quelle ragazze avevano cercato di suicidarsi. «Mr Wells? Sono il detective Balzano.» Jessica parlava al cellulare, misurando a lunghi passi il marciapiede di fronte a casa Semanski. «Avete preso qualcuno?» chiese Wells. «Be', ci stiamo lavorando. Devo farle una domanda su Tessa. A proposito dell'anno scorso, nel periodo del Ringraziamento.» «L'anno scorso?» «Sì. Potrebbe essere un po' difficile parlarne, però, mi creda, non sarà più difficile per lei rispondere di quanto lo sia per me domandare.» Jessica ricordò il cassetto delle carabattole nella stanza di Tessa. C'erano braccialetti da ospedale.
«Che cosa vuole sapere sul Ringraziamento?» domandò Wells. «Per caso, Tessa era stata in ospedale in quel periodo?» Jessica restò in ascolto, attese. Si accorse che stava serrando il pugno intorno al cellulare, neanche volesse frantumarlo. Allentò la presa. «Sì», rispose l'uomo. «Potrebbe dirmi perché si trovava in ospedale?» Lei chiuse gli occhi. Frank Wells trasse un respiro sonoro, doloroso. E glielo disse. «Lo scorso novembre, Tessa Wells ha preso una manciata di pillole. Lauren Semanski si è chiusa in garage e ha messo in moto l'auto. Nicole Taylor si è tagliata i polsi. Almeno tre ragazze di questo elenco hanno tentato il suicidio», disse Jessica. Erano tornati alla Roundhouse. Byrne sorrise. Jessica sentì una scossa elettrica per tutto il corpo. Lauren Semanski era ancora sotto sedativi. Finché non avessero potuto parlare con lei, dovevano cavarsela con quello che avevano. Ancora non si aveva notizia dell'oggetto che teneva stretto in mano. Secondo i detective all'ospedale, Lauren Semanski non lo aveva lasciato andare. I medici avevano consigliato di aspettare. Byrne reggeva una fotocopia della lista di Brian Parkhurst. La strappò a metà, ne diede un pezzo a Jessica e tenne l'altro. Tirò fuori il cellulare. Quasi subito ebbero la risposta. Le dieci ragazze dell'elenco avevano cercato di suicidarsi nel corso dell'anno precedente. Jessica si convinse che Brian Parkhurst, forse per penitenza, stesse cercando di dire alla polizia che sapeva perché quelle ragazze erano state scelte come bersaglio. In qualità di consulente, le ragazze gli avevano confidato di aver tentato di togliersi la vita. Ci sono cose che dovete sapere su quelle ragazze. Forse, per qualche logica contorta, il loro uomo stava cercando di finire il lavoro che quelle ragazze avevano cominciato. Quando lo avessero avuto in catene, si sarebbero preoccupati del perché. Una cosa era evidente: il colpevole aveva rapito Lauren Semanski e l'aveva drogata col Midazolam. Tuttavia non aveva previsto che lei fosse piena di metamfetamina. Lo speed aveva neutralizzato il Midazolam. Inoltre era piena di grinta, una combattente. Quell'uomo aveva decisamente scelto la ragazza sbagliata.
Per la prima volta in vita sua, Jessica era contenta che una ragazzina si drogasse. Ma se l'assassino traeva ispirazione dai cinque Misteri Dolorosi del rosario, perché c'erano dieci ragazze sulla lista di Parkhurst? A parte il tentato suicidio, cosa avevano in comune cinque di loro? Si sarebbe davvero fermato a cinque? Confrontarono i loro appunti. Quattro ragazze avevano preso troppe pillole. Tre avevano cercato di tagliarsi le vene dei polsi. Due avevano cercato di suicidarsi col monossido di carbonio. Una aveva infranto un guard-rail con la macchina finendo in un precipizio; l'aveva salvata l'airbag. Non c'era un metodo che collegasse cinque di loro. E la scuola? Quattro ragazze frequentavano il Regina, quattro la Nazarene, una andava al Maria Goretti e un'altra al Neumann. Quanto all'età, quattro avevano sedici anni; due ne avevano diciassette, tre ne avevano quindici e una diciotto. Era il quartiere? No. Associazioni o attività extrascolastiche? No. Appartenenza a qualche gang? Figurarsi. Che cos'era? Chiedi e ti sarà dato, pensò Jessica. La risposta era sotto i loro occhi. Era l'ospedale. Il St. Joseph's era il punto in comune. «Guarda qua», disse. Il giorno in cui avevano cercato di uccidersi, cinque ragazze erano state soccorse al St. Joseph's: Nicole Taylor, Tessa Wells, Bethany Price, Kristi Hamilton e Lauren Semanski. Le altre erano state curate altrove, in cinque ospedali diversi. «Dio mio. Eccolo qui», esclamò Byrne. Era il colpo di fortuna che stavano aspettando. Ma non era il fatto che tutte quelle ragazze fossero state curate nello stesso ospedale a sconvolgere Jessica; e neppure il fatto che avessero tutte tentato il suicidio. Il fatto che aveva portato via tutta l'aria della stanza era un altro. Erano state curate tutte dallo stesso medico: il dottor Patrick Farrell.
64 Venerdì Santo, ore 18.15 Patrick era seduto nella saletta colloqui A. Eric Chavez e John Shepherd si occupavano dell'interrogatorio, mentre Byrne e Jessica osservavano. L'interrogatorio era videoregistrato. A quanto ne sapeva Patrick, lui era semplicemente un testimone chiave in quel caso. Aveva un graffio recente sulla mano destra. Quando avessero potuto, avrebbero grattato sotto le unghie di Lauren Semanski, in cerca di DNA. Purtroppo, secondo la Scientifica, probabilmente non avrebbero trovato granché. Lauren era fortunata ad avere ancora le unghie. Avevano controllato gli orari di Patrick della settimana precedente e, con disappunto di Jessica, avevano scoperto che nulla, in nessuno dei giorni, avrebbe potuto impedire a Patrick di rapire le vittime e abbandonarne i corpi. Quel pensiero la faceva star male fisicamente. Stava davvero prendendo in considerazione l'idea che Patrick avesse qualcosa a che fare con quegli omicidi? A ogni minuto che passava, la risposta si faceva più vicina a un sì. Il minuto dopo cambiava idea. Non sapeva davvero cosa pensare. Nick Palladino e Tony Park stavano andando alla casa di Wilhelm Kreuz con una fotografia di Patrick. Era improbabile che la vecchia Agnes Pinsky si ricordasse di lui; anche se, facendole confrontare alcune foto, aveva scelto la sua, la credibilità della donna sarebbe stata fatta a pezzetti anche da un qualunque difensore d'ufficio. Comunque Nick e Tony avrebbero svolto interrogatori informali a tappeto nella zona. «Non mi sono tenuto al corrente delle notizie, temo», dichiarò Patrick. «Posso capirlo», replicò Shepherd, seduto sul bordo del tavolo di metallo scassato. Eric Chavez era appoggiato alla porta. «Sono certo che, dove lavora, lei vede abbastanza del lato sgradevole della vita.» «Abbiamo le nostre vittorie», disse Patrick. «Quindi sta dicendo che non sapeva che queste ragazze fossero state sue pazienti?» «Un medico di pronto soccorso, specialmente in un'unità traumatologica
del centro città, opera secondo il triage. Si tratta prima il paziente che ha bisogno di cure più immediate. Dopo che i pazienti vengono medicati e mandati a casa, o ricoverati, vengono sempre affidati al loro medico di base. Il concetto di paziente vero e proprio non vale. La gente che arriva in pronto soccorso potrebbe essere paziente di un qualunque medico per un'ora, a volte meno. Quasi sempre meno. Migliaia di persone passano per il pronto soccorso del St. Joseph's ogni anno.» Shepherd ascoltava, annuendo, lisciando con aria assente le pieghe già perfette dei pantaloni. Spiegare il concetto di triage a un veterano della Omicidi era del tutto superfluo. Lo sapevano tutti, nella saletta colloqui A. «Però non ha risposto alla mia domanda, dottor Farrell.» «Quando ho sentito il nome di Tessa Wells, al telegiornale, mi è sembrato familiare. Comunque, sul momento, non l'ho collegato con la possibilità che fosse stata curata al St. Joseph's.» Stronzate, pensò Jessica, con rabbia crescente. La sera in cui avevano bevuto insieme al Finnigan's Wake, loro due avevano parlato di Tessa Wells, «Lei dice 'al St. Joseph's' come se fosse stato l'ospedale a curarla, quel giorno», osservò Shepherd. «Ma c'è il suo nome sulla cartella.» La sollevò per mostrarla a Patrick. «L'archivio non mente, agente. Devo averla curata io.» Shepherd sollevò una seconda cartella. «E ha curato Nicole Taylor.» «Le ripeto, davvero non ricordo.» Una terza cartella. «E Bethany Price.» Patrick lo fissò. Davanti a lui, altre due cartelle. «Kristi Hamilton ha trascorso quattro ore sotto le sue cure. Lauren Semanski, cinque.» «Mi rimetto all'archivio», disse Patrick. «Tutt'e cinque queste ragazze sono state rapite e quattro sono state brutalmente assassinate questa settimana, dottore. Questa settimana. Cinque vittime, ragazze adolescenti, che guarda caso sono passate per il suo studio negli ultimi dieci mesi.» Patrick scrollò le spalle. «A questo punto, capirà certamente il nostro interesse per lei, vero?» «Oh, sicuro. Almeno finché il vostro interesse per me è l'interesse per un testimone chiave. Se le cose stanno così, sarò lieto di fare tutto il possibile per essere d'aiuto.» «A proposito, come si è fatto quel graffio sulla mano?»
Era chiaro che Patrick si era preparato una risposta. Non avrebbe parlato avventatamente. «È una storia lunga.» Shepherd guardò l'orologio. «Io ho tutta la notte.» Guardò Chavez. «E lei, agente?» «Mi sono tenuto libero apposta.» Entrambi tornarono a rivolgere la loro attenzione a Patrick. «Diciamo soltanto che bisognerebbe sempre stare attenti ai gatti bagnati», disse Patrick. Jessica vide il fascino che emanava. Purtroppo per Patrick, quei due detective ne erano immuni. E ne era immune anche lei, in quel momento. Shepherd e Chavez si scambiarono un'occhiata. «Furono mai pronunciate parole più veritiere?» commentò Chavez. «Sta dicendo che è stato un gatto?» domandò Shepherd. «Una gatta. È stata fuori sotto la pioggia tutto il giorno. Stasera, quando sono arrivato a casa, l'ho vista che tremava fra i cespugli. Ho cercato di prenderla: brutta idea.» «Come si chiama?» Era un vecchio trucco usato negli interrogatori. Si parla di una persona collegata a un alibi, e tu gli sbatti subito in faccia una domanda sul nome. Stavolta si trattava di un animale domestico. Patrick non era preparato. «Come?» Tentava di guadagnare tempo. Shepherd lo aveva incastrato. Il poliziotto si avvicinò, guardando il graffio. «Cos'è, una lince domestica?» «Prego?» Shepherd si alzò e si appoggiò alla parete. Il tono era cordiale. «Vede, dottor Farrell, io ho quattro figlie. E vanno pazze per i gatti. Li adorano. Infatti ne abbiamo tre. Coltrane, Dizzy e Snickers. Così si chiamano. Sono stato graffiato, oh, almeno una dozzina di volte negli ultimi anni. E quei graffi non somigliavano affatto al suo.» Patrick guardò il pavimento per qualche istante. «Non è una lince, agente. Solo un grosso soriano.» «Ah», fece Shepherd. E insistette: «A proposito, che tipo di veicolo guida?» Naturalmente conosceva già la risposta. «Ho più di un veicolo. Di solito uso una Lexus.» «LS? GS? ES? SportCross?» Patrick sorrise. «Vedo che se ne intende, di auto di lusso.» Shepherd ricambiò il sorriso. Mezzo, perlomeno. «So anche distinguere un Rolex da un TAG Heuer. E non posso permettermi né l'uno né l'altro.»
«Ho una 2004 LX.» «È un SUV, giusto?» «Credo che si possa chiamare così.» «Lei come la chiamerebbe?» «La chiamerei un LUV.» «Cioè un Luxury Utility Vehicle, giusto?» Patrick annuì. «Ci ho preso!» scherzò Shepherd. «Dove si trova questo veicolo, ora?» Patrick esitò. «È nel parcheggio qui dietro. Perché?» «Semplice curiosità. È una macchina costosa. Volevo solo accertarmi che fosse al sicuro.» «La ringrazio.» «E le altre auto?» «Ho un'Alfa Romeo del 1969 e una Chevy Venture.» «È un van?» «Sì.» Shepherd prese nota. «Dunque, martedì mattina, secondo i registri del St. Joseph's, lei non è entrato in servizio prima delle nove del mattino. È esatto?» Patrick rifletté. «Direi di sì.» «Eppure il suo turno cominciava alle otto. Come mai era in ritardo?» «In realtà ho dovuto portare la Lexus a fare il tagliando.» «Dove l'ha portata?» Qualcuno bussò piano alla porta, che subito dopo si aprì. Sulla soglia, accanto a Ike Buchanan, c'era un uomo alto e imponente, in un elegante completo gessato di Brioni. L'uomo aveva capelli argentei perfettamente tagliati e un'abbronzatura in stile Cancun. La sua valigetta costava più di quanto i due detective guadagnassero in un mese. Abraham Gold aveva rappresentato il padre di Patrick, Martin, in una grossa causa per negligenza colposa, verso la fine degli anni '90. Abraham Gold era tra i più costosi sulla piazza. E tra i più bravi. A quanto sapeva Jessica, Abraham Gold non aveva mai perso una causa. «Signori», esordì con la sua miglior voce baritonale forense, «questa conversazione è finita.» «Cosa ne pensi?» domandò Buchanan. Tutta la task force guardava Jessica. Lei frugò tra i pensieri in cerca non soltanto della cosa giusta da dire, ma anche delle parole giuste per dirla. Si
sentiva davvero smarrita. Fin dal momento in cui Patrick era entrato alla Roundhouse, all'incirca un'ora prima, sapeva che quel momento sarebbe arrivato. Adesso che c'era, non sapeva proprio come affrontarlo. L'idea che un suo conoscente potesse essere responsabile di un tale orrore era già abbastanza brutta; ma che si trattasse di qualcuno che lei conosceva intimamente - o così lei credeva - sembrava immobilizzarle il cervello. Se l'impensabile era vero, se Patrick Farrell era realmente il killer del rosario, che cosa diceva su di lei questo fatto da un punto di vista puramente professionale, cosa rivelava sulla sua capacità di giudicare un individuo? «Credo che sia possibile.» Ecco. L'aveva detto. Naturalmente avevano controllato i trascorsi di Patrick Farrell. A parte un po' d'erba fumata al secondo anno di college e una propensione all'eccesso di velocità nella guida, la sua fedina era pulita. Ora che Patrick aveva ingaggiato un avvocato, avrebbero dovuto intensificare le indagini. Agnes Pinsky aveva dichiarato che forse lui era l'uomo che lei aveva visto bussare alla porta di Wilhelm Kreuz. Un tale che lavorava in un negozio di calzolaio di fronte alla casa di Kreuz pensava di ricordare una Lexus SUV color crema parcheggiata lì di fronte due giorni prima. Non era sicuro. In ogni modo, da quel momento ci sarebbero stati un paio di detective alle calcagna di Patrick Farrell ventiquattr'ore al giorno, sette giorni alla settimana. 65 Venerdì Santo, ore 20.00 Il dolore era acuto, un'onda che montava lenta verso la nuca per poi ridiscendere. Prese un Vicodin, lo trangugiò con l'acqua rancida del rubinetto del bagno degli uomini in una stazione di servizio di North Philly. Era Venerdì Santo. Il giorno della crocifissione. Byrne sapeva che, in un modo o nell'altro, ben presto - forse quella notte stessa - sarebbe tutto finito. E insieme sapeva che lui avrebbe affrontato qualcosa dentro di sé, qualcosa che era lì da quindici anni, qualcosa di oscuro, violento, inquietante. Voleva che fosse tutto in ordine. Aveva bisogno di simmetria. Prima, aveva una fermata da fare.
Le auto erano parcheggiate in doppia fila su entrambi i lati della strada. In quella zona, se la strada era bloccata, non si chiamava la polizia e non si bussava alle porte. Ed era decisamente meglio non suonare il clacson. Semmai, si faceva retromarcia zitti zitti e si cercava un'altra strada. La doppia porta della fatiscente casa a schiera di Point Breeze era aperta e all'interno tutte le luci erano accese. Byrne era sull'altro lato della strada, al riparo dalla pioggia sotto il tendone sbrindellato di una panetteria chiusa. Attraverso il bovindo, riusciva a vedere le tre immagini che ornavano la parete sopra il moderno divano spagnolo in velluto color fragola: Martin Luther King, Gesù, Mohammed Alì. Proprio di fronte a lui, nella Pontiac arrugginita, il ragazzo stava seduto, solo, sul sedile posteriore, del tutto ignaro di Byrne, a fumarsi un sigaro alla marijuana, ondeggiando dolcemente al suono di qualcosa che ascoltava in cuffia. Dopo qualche minuto spense il sigaro, aprì la portiera dell'auto e uscì. Si stiracchiò, tirò su il cappuccio della felpa, sistemò i calzoni. «Ehi», fece Byrne. Il dolore alla testa si era stabilizzato in un sordo metronomo di tormento, che batteva forte e ritmico contro le tempie. Tuttavia pareva che la madre di tutte le emicranie fosse ad appena un colpo di clacson o a un flash di distanza. Il ragazzo si voltò, sorpreso ma non spaventato. Aveva all'incirca quindici anni, alto e smilzo, il fisico adatto a giocare a basket in qualche cortile, ma niente di più. Era firmato Sean John da capo a piedi: jeans full-cut, giacca di pelle imbottita, pile col cappuccio. Il ragazzo studiò Byrne, valutò il pericolo, l'occasione. L'altro teneva le mani bene in vista. «Ehi», si decise a rispondere. «Conoscevi Marius?» domandò Byrne. Il ragazzo lo squadrò una seconda volta. Quel tizio era decisamente troppo grosso per scherzarci. «M.G. era dei miei», disse infine, mostrando per un attimo il simbolo della JBM. Byrne annuì. Quel ragazzo poteva ancora prendere una strada o l'altra, pensò. C'era un'intelligenza che covava dietro i suoi occhi ora iniettati di sangue. Ma lui aveva la sensazione che fosse troppo occupato a conformarsi alle aspettative del mondo. Byrne mise una mano sotto la giacca, abbastanza lentamente da far capire all'altro che non c'era niente di allarmante. Tirò fuori la busta, che era di
forma, dimensione e peso tali da poter contenere una cosa soltanto. «Sua madre si chiama Delilah Watts?» chiese. Più che una domanda era l'enunciazione di un fatto. Il ragazzo lanciò un'occhiata alla casa, al bovindo illuminato. Una donna di colore, magra, scura di pelle, con enormi occhiali da sole antiriflesso e una folta capigliatura ramata, si asciugava gli occhi, accogliendo parenti e amici in lutto. Non aveva più di trentacinque anni. Il ragazzo tornò a guardare Byrne. «Già.» Il poliziotto si mise a giocherellare distrattamente con l'elastico intorno alla busta gonfia. Non aveva mai contato il contenuto. Quando l'aveva presa a Gideon Pratt, quella notte, non aveva ragione di pensare che ci fosse anche soltanto un centesimo meno dei cinquemila dollari su cui si erano accordati. Non c'era motivo di contarli ora. «Questo è per Mrs Watts», disse. Sostenne lo sguardo del ragazzo per pochi, nudi secondi, uno sguardo che entrambi avevano sperimentato, a tempo debito, e che non aveva bisogno d'infiorettature o di note a piè di pagina. Il ragazzo allungò la mano e, con cautela, prese la busta. «Vorrà sapere da parte di chi», mormorò. Byrne annuì. Il ragazzo comprese che la risposta non sarebbe arrivata. Si ficcò in tasca la busta. Byrne lo guardò attraversare la strada con quel passo sussiegoso, entrare in casa, abbracciare alcuni dei giovani che stavano di guardia alla porta. Poi, attraverso la finestra, scrutò il ragazzo che aspettava, in fondo alla breve coda di ospiti. Riconobbe le note di You Brought the Sunshine di Al Green. Si domandò quante volte si stesse ripetendo quella scena, quella notte, in tutto il Paese... Madri troppo giovani sedute in salotti troppo caldi a vegliare un figlio consegnato alla bestia. Con tutti gli errori che Marius Green poteva aver compiuto nella sua breve vita, con tutta l'infelicità e il dolore che poteva aver seminato, quella notte si era trovato in quel vicolo soltanto per una ragione, e quel dramma non aveva niente a che fare con lui. Marius Green era morto, come l'uomo che lo aveva ucciso a sangue freddo. Era giustizia? Forse no. Ma non c'era dubbio che tutto fosse cominciato il giorno in cui Deirdre Pettigrew aveva incontrato un uomo orribile a Fairmount Park. Un giorno finito con un'altra giovane madre che stringeva un fazzoletto di carta umido e appallottolato, in un salotto pieno di amici e parenti. Non c'è soluzione, solo risoluzione, pensò Byrne. Non credeva nel
karma; credeva nell'azione e nella reazione. Byrne guardò Delilah Watts aprire la busta. Superato lo shock iniziale, la donna si portò la mano al cuore. Si ricompose, quindi guardò fuori dalla finestra, dritto verso di lui, dritto dentro l'anima di Kevin Byrne. Lui sapeva che lei non poteva vederlo, che vedeva soltanto lo specchio nero della notte e il riflesso rigato di pioggia del proprio dolore. Kevin Byrne chinò la testa, alzò il bavero e se ne andò nel temporale. 66 Venerdì Santo, ore 20.25 Mentre Jessica tornava a casa in macchina, la radio annunciava un violento temporale. Vento forte, lampi, possibili alluvioni. Alcuni tratti di Roosevelt Boulevard erano già inondati. Lei pensava alla notte in cui aveva conosciuto Patrick, tanti anni prima. Quella notte lo aveva osservato al lavoro nel pronto soccorso, così colpita dal suo tatto e dalla sua sicurezza, dalla capacità di dare conforto a chi arrivava lì in cerca di aiuto. Le persone reagivano positivamente a lui, credevano nella sua capacità di alleviare le loro sofferenze. Il suo aspetto, certo, non guastava. Jessica cercò di pensare a lui razionalmente. Che cosa sapeva davvero di lui? Riusciva a pensare a lui negli stessi termini in cui aveva pensato a Brian Parkhurst? No, non ci riusciva. Ma, più ci pensava, più diventava possibile. Il fatto di essere un medico, il fatto di non poter dare conto delle sue azioni nei momenti cruciali degli orari degli omicidi, il fatto di aver perduto la sorellina a causa della violenza, il fatto di essere cattolico e, ineluttabilmente, il fatto di aver curato tutt'e cinque le ragazze. Conosceva i loro nomi, i loro indirizzi, la loro storia clinica. Jessica aveva guardato ancora una volta le fotografie digitali della mano di Nicole Taylor. Forse Nicole stava scrivendo F A R e non P A R? Era possibile. Infine Jessica lo ammise. Se lei non avesse conosciuto Patrick, sarebbe stata la prima a volerlo arrestare, in base a un solo, immutabile fatto. Lui le conosceva tutt'e cinque.
67 Venerdì Santo, ore 20.55 Byrne era nel reparto di terapia intensiva e guardava Lauren Semanski. Il team del pronto soccorso gli aveva spiegato che Lauren aveva un'elevata quantità di metamfetamina nell'organismo, che ne era una consumatrice assidua e che, quando il suo rapitore le aveva iniettato il Midazolam, questo non aveva sortito lo stesso effetto che avrebbe potuto avere se Lauren non fosse stata piena di un potente stimolante. Anche se non avevano ancora potuto parlarle, era chiaro che le lesioni riportate dalla ragazza erano compatibili con quelle che avrebbe potuto subire una persona che salta giù da un veicolo in movimento. Incredibilmente, nonostante le numerose e gravi lesioni, non era in pericolo di vita, se non per la tossicità delle droghe che aveva in corpo. Byrne si era seduto accanto al letto. Sapeva che Patrick Farrell era amico di Jessica. Sospettava che tra loro ci fosse qualcosa di più di una semplice amicizia, ma avrebbe lasciato che fosse lei a dirglielo, se voleva. C'erano stati così tanti vicoli ciechi e così tante false piste in quel caso, fino ad allora. E lui, poi, non era sicuro che Patrick Farrell fosse l'uomo giusto. Quando lo aveva incontrato sulla scena del crimine, al Museo Rodin, non aveva provato sensazioni particolari. Ma ultimamente la cosa non sembrava avere molta importanza. C'erano buone probabilità che potesse stringere la mano a Ted Bundy senza avere il minimo indizio. Tutto indicava Patrick Farrell. Aveva visto tanti mandati d'arresto eseguiti per molto meno. Prese la mano di Lauren nella sua. Chiuse gli occhi. Il dolore andò a posarsi sopra gli occhi, forte, rovente, micidiale. In breve, le immagini gli esplosero in testa, levandogli il fiato dai polmoni, e la porta in fondo alla sua mente si spalancò... 68 Venerdì Santo, ore 20.55 Secondo gli studiosi, il giorno della morte di Cristo sul Calvario si levò una tempesta, e il cielo si oscurò sulla valle mentre Egli era inchiodato al-
la croce. Lauren Semanski era stata molto forte. L'anno scorso, quando aveva tentato di togliersi la vita, l'avevo guardata e mi ero chiesto perché una giovane così decisa avesse fatto una cosa simile. La vita è un dono. La vita è una benedizione. Perché aveva cercato di gettare via tutto? Nicole era vissuta tra gli scherni dei compagni, con un padre alcolizzato. Tessa era sopravvissuta alla morte lenta della madre e aveva affrontato il lento declino del padre. Bethany era stata oggetto di disprezzo per via del suo peso. Kristi aveva problemi di anoressia. Quando le ho curate, sapevo d'ingannare il Signore. Loro si erano incamminate per una via, e io le avevo deviate. Nicole, Tessa, Bethany, Kristi. Poi c'era Lauren. Lauren era sopravvissuta all'incidente dei suoi genitori soltanto per mettersi in macchina, una notte, e accendere il motore. Aveva portato con sé Opus, il pinguino di peluche che la madre le aveva regalato per Natale durante il quinto anno della sua vita. Oggi aveva resistito al Midazolam. Probabilmente era tornata a farsi di speed. Quando ha aperto il portello stavamo andando più o meno ai cinquanta all'ora. È saltata giù. Come se niente fosse. C'era troppo traffico, non potevo tornare indietro a prenderla. Ho dovuto lasciarla andare. È troppo tardi per cambiare programma. È l'Ora Nona. E anche se Lauren era l'ultimo dei Misteri, un'altra ragazza andrà bene ugualmente, una coi riccioli lucenti e con un alone d'innocenza intorno alla testa. Il vento si alza mentre accosto, spengo il motore. Si prevede un temporale grandioso. Ci sarà un'altra tempesta stanotte, un'oscura resa dei conti dell'anima. La luce dentro la casa di Jessica... 69 Venerdì Santo, ore 20.55 ... è chiara, calda e invitante, un tizzone solitario tra le braci morenti del crepuscolo.
Lui siede fuori in un veicolo, al riparo dalla pioggia. Ha in mano un rosario. Pensa a Lauren Semanski e a come gli è sfuggita. Lei era la quinta ragazza, il quinto Mistero, l'ultimo pezzo del suo capolavoro. Ma Jessica è qui. Lui ha qualcosa da fare anche con lei. Jessica e la sua bambina. Lui controlla gli oggetti che ha preparato: le siringhe, il gesso da carpentiere, l'ago e il filo da velaio. Si prepara a uscire nella notte maligna... Le immagini andavano e venivano, beffandolo con la loro chiarezza, come la visione di un uomo che annega guardando in alto dal fondo di una piscina d'acqua clorata. Il dolore nella testa di Byrne era feroce. Uscì dal reparto terapia intensiva, andò al parcheggio, arrivò alla sua auto. Controllò la pistola. La pioggia scrosciava sul parabrezza. Accese il motore e si diresse verso la superstrada. 70 Venerdì Santo, ore 21.00 Sophie era terrorizzata dai temporali. E Jessica sapeva da chi aveva preso: era un fatto ereditario. Da piccola, ogni volta che sentiva un tuono si nascondeva sotto le scale della loro casa di Catharine Street. Se la cosa si faceva seria, sgattaiolava sotto il letto. Talvolta si portava una candela, finché un giorno non aveva dato fuoco al materasso. Avevano di nuovo cenato davanti alla TV. Jessica era troppo stanca per opporsi. Comunque non aveva importanza. Lei aveva spiluzzicato qualcosa, indifferente a quella banale consuetudine mentre il suo mondo cadeva a pezzi. Aveva lo stomaco in subbuglio per gli eventi della giornata. Come poteva essersi sbagliata tanto su Patrick? Si era davvero sbagliata su Patrick? Le immagini di ciò che avevano subito quelle giovani donne non volevano saperne di abbandonarla. Controllò la segreteria telefonica. Nessun messaggio. Vincent stava da suo fratello. Lei prese il telefono e compose il numero. Be', due terzi del numero. Poi riattaccò. Merda. Lavò i piatti, tanto per tenere le mani occupate. Si versò un bicchiere di
vino, lo gettò via. Si preparò una tazza di tè, lo lasciò raffreddare. In qualche modo, avrebbe tirato avanti fino all'ora di mettere a letto Sophie. Fuori, infuriavano tuoni e lampi. Dentro, Sophie aveva paura. Jessica aveva tentato tutti i rimedi soliti. Aveva proposto di leggerle una storia: niente da fare. Aveva chiesto a Sophie se voleva rivedere Alla ricerca di Nemo: niente. Non voleva neanche guardare La sirenetta: questa era nuova. Jessica le aveva proposto di colorare insieme il libro di Peter Coniglio (no), di cantare le canzoni del Mago di Oz (no), di mettere le decalcomanie sulle uova colorate in cucina (no). Alla fine, aveva semplicemente messo Sophie sotto le coperte e si era seduta vicino a lei. Ogni volta che scoppiava un tuono, Sophie la guardava come se fosse la fine del mondo. Jessica cercava di pensare a tutto tranne che a Patrick. Fino a quel momento non c'era riuscita. Bussarono alla porta d'ingresso. Doveva essere Paula. «Torno subito, amore.» «No, mamma.» «Ci vorrà soltanto...» La luce si spense per un istante, poi tornò. «Ci mancava solo questa.» Jessica fissò l'abat-jour, quasi potesse farla restare accesa con la forza di volontà. Strinse la mano di Sophie, che la serrò in una stretta mortale. Grazie al cielo, la lampada rimase accesa. Grazie, Signore. «Mammina deve andare ad aprire. È Paula. Ti va di vedere Paula, no?» «Sì.» «Torno subito. Stai brava?» Sophie annuì, anche se le tremavano le labbra. Jessica baciò Sophie sulla fronte e le porse Jools, il suo orsetto marrone. Sophie scosse la testa. Allora prese Molly, quello beige. Nossignore. Difficile tenersi al passo: Sophie aveva orsetti buoni e orsetti cattivi. Alla fine accettò Timothy, il panda. «Torno subito.» «Va bene.» Scese le scale e il campanello suonò ancora una volta, due, tre. Non sembrava Paula. «Arrivo», disse. Cercò di guardare attraverso il vetro smerigliato della finestrina sulla porta; era decisamente appannato. Non si vedevano che le luci di posizione
dell'ambulanza parcheggiata dall'altra parte della strada. Nemmeno gli uragani distoglievano Carmine Arrabiata dal suo infarto settimanale. Aprì la porta. Era Patrick. Il suo primo impulso fu di sbattergli la porta in faccia, ma resistette. Per il momento. Gettò uno sguardo alla strada, in cerca dell'auto di sorveglianza; non la vide. Non aprì la controporta. «Cosa ci fai qui, Patrick?» «Jess, devi ascoltarmi.» La rabbia in lei cominciò a montare, duellando con le sue paure. «Vedi, è questo che sembri non capire», gli rispose. «Non devo.» «Jess, dai. Sono io!» Saltellava da un piede all'altro. Era zuppo come un cencio. «Io? E chi diavolo sarebbe io? Hai curato tutte quelle ragazze. Non ti è venuto in mente di farti avanti per fornire questa informazione?» «Vedo tanti pazienti... Non puoi aspettarti che mi ricordi di tutti.» Il vento ululava forte. I due quasi urlavano per farsi sentire. «Stronzate. Le avevi viste tutte da meno di un anno.» Patrick guardò a terra. «Forse è soltanto che non volevo...» «Cosa, farti coinvolgere? Cazzo, mi prendi in giro?» «Jess, se solo tu potessi...» «Non dovresti essere qui, Patrick. Mi metti in una situazione molto imbarazzante. Va' a casa.» «Dio santo, Jess. Non penserai davvero che io abbia qualcosa a che fare con questi... questi...» Bella domanda, pensò Jessica. In realtà era proprio quella, la domanda. Stava per rispondere quando si udì lo schianto di un tuono e la luce cominciò ad abbassarsi. Guizzò, si spense, si riaccese. «Io... non so cosa pensare, Patrick.» «Dammi cinque minuti, Jess. Cinque minuti, poi me ne vado.» Jessica vide nei suoi occhi un mondo di dolore. «Ti prego», insistette lui. Grondava, faceva compassione. Follemente, lei pensò alla pistola. Era nell'armadio nel corridoio di sopra, sull'ultimo ripiano, al solito posto. Stava davvero pensando alla sua arma, chiedendosi se sarebbe riuscita a prenderla in tempo, in caso di necessità. Per via di Patrick. Niente di tutto ciò sembrava reale.
«Posso entrare, almeno?» Discutere non serviva a niente. Lei socchiuse la controporta e una colonna verticale di pioggia s'insinuò dentro. Aprì del tutto. Sapeva che Patrick aveva una squadra alle calcagna, anche se non vedeva l'auto. Era armata ed era protetta. Per quanto ci provasse, non riusciva a credere che Patrick fosse colpevole. Non si trattava di un delitto passionale, di un momento di follia in cui lui aveva perso il controllo e si era spinto troppo in là. Si trattava dell'assassinio sistematico, a sangue freddo, di cinque persone. Forse di più. Se avesse avuto un solo elemento probante, non avrebbe avuto scelta. Fino ad allora... La luce si spense. Di sopra, Sophie gemette. «Gesù Cristo!» proruppe Jessica. Guardò dall'altra parte della strada. Sembrava che in alcune case ci fosse ancora la luce. O erano candele? «Forse è il salvavita», disse Patrick entrando e passandole davanti. «Dov'è il quadro?» Jessica guardò a terra, le mani sui fianchi. Era troppo. «In fondo alle scale del seminterrato», rispose, rassegnata. «C'è una torcia elettrica sul tavolo in sala da pranzo. Ma non credere che noi...» «Mammina!» Un grido dal piano di sopra. Patrick si levò l'impermeabile. «Controllo il quadro e me ne vado. Promesso.» Prese la torcia e andò verso il seminterrato. Nell'oscurità improvvisa, Jessica cercò tentoni le scale. Salì ed entrò in camera di Sophie. «Va tutto bene, tesoro», disse alla bambina, sedendosi sulla sponda del letto. Nella penombra, il faccino della bimba era minuscolo, tondo, impaurito. «Vuoi venire di sotto con mamma?» Sophie scosse la testa. «Sicura?» Sophie annuì. «C'è papà?» «No, amore», rispose Jessica, con una stretta al cuore. «Mamma... va a prendere qualche candela, okay? A te piacciono le candele.» Sophie annuì ancora. Jessica uscì dalla stanza. Aprì l'armadio delle lenzuola vicino al bagno, raggiunse alla cieca la scatola contenente le saponette di alberghi, i campioni di shampoo e di balsamo. Si ricordò di quando faceva lunghi, deliziosi bagni di schiuma con candele profumate sparse per la stanza, all'epoca preistorica del suo matrimonio. Qualche volta c'era anche Vincent. In
quel momento, le sembrava quasi la vita di un'altra persona. Trovò un paio di candele al sandalo. Le tirò fuori dalla scatola e tornò in camera di Sophie. Naturalmente non c'erano fiammiferi. «Torno subito.» Scese in cucina; gli occhi cominciavano ad abituarsi al buio. Frugò nel cassetto delle cianfrusaglie in cerca di una bustina di fiammiferi; ne trovò una. Era del suo matrimonio. Sentì la scritta dorata a rilievo - JESSICA E VINCENT - sull'involucro lucido. Mancava soltanto quello. Se avesse creduto in certe cose, avrebbe potuto immaginare che qualcuno stesse cospirando per farla piombare in una depressione profonda. Si voltò per tornare di sopra quando un lampo si squarciò e si udì rumore di vetri rotti. Sobbalzò. Un ramo si era staccato dall'acero moribondo accanto alla casa, infrangendo il vetro della porta di servizio. «Andiamo sempre meglio», borbottò. La pioggia invase la cucina. C'erano vetri rotti ovunque. «Porca puttana.» Tirò fuori un sacchetto per l'immondizia da sotto il lavandino e prese qualche puntina da disegno dalla lavagna di sughero della cucina. Combattendo contro il vento e le raffiche di pioggia, fissò il sacchetto intorno al buco nella porta, cercando di non tagliarsi con le schegge rimaste. Cosa diavolo doveva succedere ancora? Guardò in fondo alle scale del seminterrato, vide il raggio della torcia danzare nella penombra. Prese i fiammiferi e si diresse verso la sala da pranzo. Cercò nei cassetti della credenza e trovò un assortimento di candele. Ne accese all'incirca una dozzina e le sistemò in giro per la sala da pranzo e il salotto. Tornò di sopra e accese due candele in camera di Sophie. «Meglio?» domandò. «Meglio», confermò la bambina. Jessica allungò una mano e le asciugò le guance. «Tra poco tornerà la luce. Va bene?» La bimba annuì, per nulla convinta. Lei si guardò intorno. Le candele se la cavavano piuttosto bene a esorcizzare i mostri delle tenebre. Diede un pizzicotto sul naso a Sophie e ottenne una risatina. Era appena arrivata in cima alle scale quando squillò il telefono. Andò a rispondere in camera sua. «Pronto?»
In risposta le giunsero un suono cupo e un sibilo ultraterreno, al di sotto del quale si udiva, a malapena: «Sono John Shepherd». Sembrava che la chiamasse dalla luna. «Ti sento malissimo. Che succede?» «Sei lì?» «Sì.» La linea crepitò. «Abbiamo appena sentito l'ospedale», disse lui. «Ripeti!» lo pregò Jessica. La comunicazione era disturbatissima. «Vuoi che ti chiami al cellulare?» «Okay», rispose lei. Poi ricordò: il cellulare era in macchina e la macchina era in garage. «No, lascia stare, vai avanti.» «Abbiamo appena saputo che cosa aveva in mano Lauren Semanski.» Qualcosa che riguardava Lauren Semanski. «Okay.» «Era un pezzo di una penna a sfera.» «Una cosa?» «Aveva in mano una penna rotta», urlò Shepherd. «Del St. Joseph's.» Jessica aveva sentito bene. E non avrebbe voluto. «Come sarebbe a dire?» «Aveva il logo e l'indirizzo del St. Joseph's. È una penna dell'ospedale.» Lei si sentì gelare il cuore in petto. Non poteva essere vero. «Sei sicuro?» «Non ci sono dubbi», replicò Shepherd. La sua voce si stava spezzando. «Ascolta... La squadra di sorveglianza ha perso Farrell... La Roosevelt è tutta allagata fino a...» Silenzio. «John?» Niente. La linea era caduta. Jessica premette più volte il pulsante sul telefono. «Pronto?» Per tutta risposta, un silenzio nero e denso. Riattaccò, andò all'armadio del corridoio. Guardò in fondo alle scale. Patrick era ancora nel seminterrato. Cercò nell'armadio, sull'ultimo ripiano, con un turbine di pensieri in testa. Ha chiesto di te, aveva detto Angela. Estrasse la Glock dalla fondina. Stavo andando da mia sorella a Manayunk, aveva detto Patrick, a pochi metri dal corpo ancora caldo di Bethany Price. Controllò il caricatore: era pieno.
Ieri il suo dottore è venuto a visitarlo, aveva riferito Agnes Pinsky. Inserì il caricatore, armò il percussore. E cominciò a scendere le scale. Il vento fuori continuava a latrare, facendo tremare i vetri incrinati delle finestre. «Patrick?» Nessuna risposta. Arrivò in fondo alle scale, attraversò a passi felpati il salotto, aprì il cassetto della credenza, prese la vecchia torcia. Premette l'interruttore. Niente. Ma certo. Grazie, Vincent. Chiuse il cassetto. Più forte: «Patrick?» Silenzio. La cosa le stava sfuggendo di mano troppo in fretta. Non sarebbe scesa in cantina senza luce. Non se ne parlava proprio. Indietreggiò verso le scale e salì il più silenziosamente possibile. Avrebbe preso Sophie, qualche coperta, l'avrebbe infagottata, portata in soffitta e l'avrebbe chiusa lì dentro. Sophie avrebbe protestato, ma sarebbe stata al sicuro. Jessica sapeva di dover mantenere il controllo di se stessa e della situazione. Avrebbe chiuso la bimba in soffitta, sarebbe andata a prendere il cellulare e avrebbe chiamato qualcuno. «Va tutto bene, tesoro. Tutto bene», rassicurò la piccola. La tirò su, la strinse forte. Sophie aveva i brividi, batteva i denti. Alla luce tremolante della candela, a Jessica parve di vedere una cosa. Di certo si sbagliava. Prese una candela, l'avvicinò. Non si era sbagliata. Là, sulla fronte di Sophie, c'era una croce fatta col gesso blu. L'assassino non era nella casa. L'assassino era nella stanza. 71 Venerdì Santo, ore 21.25 In Roosevelt Boulevard, Byrne accostò l'auto al marciapiede. La strada era allagata. Il cuore gli martellava, le immagini passavano rombando, l'una dietro l'altra: diapositive di un folle mattatoio. L'assassino stava insidiando Jessica e sua figlia.
Byrne aveva guardato il biglietto della lotteria che l'assassino aveva messo in mano a Kristi Hamilton. Dapprima non lo aveva visto. Nessuno l'aveva visto. Quando la Scientifica ebbe ripulito i numeri, divenne chiaro: l'indizio non era il venditore di biglietti, ma il numero. Il laboratorio aveva stabilito che il numero della lotteria Big 4 scelto dall'assassino era 9-7-0-0. L'indirizzo della canonica della chiesa di St. Katherine era 9700, Frankford Avenue. Jessica ci era andata vicina. Il killer del rosario aveva imbrattato la porta della chiesa tre anni prima e aveva tutte le intenzioni di concludere lì la sua aberrante impresa. Intendeva portare Lauren Semanski in quella chiesa e realizzare su quell'altare l'ultimo dei cinque Misteri Dolorosi. La crocifissione. Il fatto che Lauren avesse reagito, fuggendo, lo aveva soltanto rallentato. Quando Byrne aveva toccato la penna a sfera rotta nella mano di Lauren, aveva compreso la destinazione finale dell'assassino e l'identità della sua ultima vittima. Aveva immediatamente chiamato l'Ottavo Distretto, il quale aveva spedito una mezza dozzina di agenti alla chiesa e un paio di auto di pattuglia a casa di Jessica. Byrne sperava soltanto che non fosse troppo tardi. L'illuminazione stradale era spenta, i semafori erano in tilt. Di conseguenza, come sempre accade in simili circostanze, a Philly tutti avevano dimenticato come si guidava. Byrne prese il cellulare e richiamò Jessica: occupato. Provò a chiamarla al cellulare. Squillò cinque volte, poi partì la segreteria telefonica. Avanti, Jess. Accostò a lato della strada, chiuse gli occhi. Per chi non abbia mai sperimentato il greve dolore di una violenta emicrania, non esiste descrizione adeguata. I fari delle auto in arrivo gli scottavano gli occhi. Tra un bagliore e l'altro, vedeva i corpi. Non i profili tracciati col gesso sulla scena del crimine, ma gli esseri umani. Tessa Wells, mentre le collocavano braccia e gambe intorno alla colonna. Nicole Taylor, mentre veniva adagiata nel giardino di fiori vivaci. Bethany Price con la sua corona di lame. Kristi Hamilton zuppa di sangue. I loro occhi spalancati, interrogativi, imploranti. Che imploravano lui. Il quinto corpo non gli era affatto chiaro, ma lui ne sapeva abbastanza
per sentirsi scosso sino in fondo all'anima. Il quinto corpo era quello di una bambina. 72 Venerdì Santo, ore 21.35 Jessica sbatté la porta della camera da letto e la chiuse a chiave. Doveva cominciare dalle immediate vicinanze. Cercò sotto il letto, dietro le tende, nell'armadio a muro, con la pistola spianata. Niente. In qualche modo, Patrick era arrivato al piano di sopra e aveva tracciato il segno di croce sulla fronte di Sophie. Lei aveva cercato di fare una domanda in proposito alla piccola, dolcemente, ma Sophie pareva traumatizzata. Il pensiero faceva star male Jessica, e la infuriava. Ma, per il momento, la rabbia era una nemica. La sua vita era sotto assedio. Tornò a sedersi sul letto. «Devi ascoltare la mamma, d'accordo?» Sophie la fissò, come in stato di shock. «Tesoro? Ascolta la mamma.» La bimba restò in silenzio. «Adesso mamma prepara il letto dentro l'armadio a muro, okay? Come in campeggio, okay?» Sophie non reagì. Jessica si buttò nell'armadio. Spinse tutto sul fondo, strappò dal letto lenzuola e coperta e preparò un letto di fortuna. Le si spezzava il cuore, ma non aveva scelta. Tirò fuori dall'armadio tutto il resto, gettandolo a terra, tutto quello che avrebbe potuto far male a Sophie. Sollevò dal letto la figlia, ricacciando giù le proprie lacrime d'ira e di terrore. Baciò Sophie e chiuse la porta dell'armadio a muro. Girò la chiavetta, se la mise in tasca. Prese la pistola e uscì dalla stanza. Tutte le candele che aveva acceso in casa erano state spente. Fuori, il vento ululava, ma in casa regnava un silenzio mortale. C'era un buio inebriante, un buio che pareva consumare ogni cosa che toccava. Jessica vedeva mentalmente tutto ciò che sapeva presente in quel luogo. Scendendo le scale, pensava alla disposizione del salotto: il tavolo, le sedie, la credenza, il mobile col televisore e con gli impianti audio e video, i divanetti a esse. Era tutto così familiare e
così estraneo nel contempo. Ogni ombra celava un mostro; ogni contorno, una minaccia. Lei aveva passato l'esame al poligono ogni anno da quand'era in polizia, aveva seguito il corso di tiro tattico, ad arma carica. Ma non aveva mai pensato di praticarlo a casa sua, nel suo rifugio dal pazzo mondo esterno. Quello era il posto in cui la sua bambina giocava. E adesso era diventato un campo di battaglia. Posando il piede sull'ultimo gradino, si rese conto di quello che stava facendo: stava lasciando Sophie da sola di sopra. Aveva davvero controllato bene tutto il piano? Aveva guardato ovunque? Aveva eliminato ogni possibile minaccia? «Patrick?» chiamò. La sua voce suonò debole, querula. Nessuna risposta. La schiena e le spalle le si coprirono di sudore freddo che le colò fino alla vita. Poi, più forte, ma non tanto da spaventare Sophie: «Ascolta, Patrick. Ho la pistola in mano. Non ho intenzione di cazzeggiare. Devo vederti, qui, subito. Andiamo in centrale, chiariamo questa storia. Non farmi questo». Freddo silenzio. Soltanto il vento. Patrick le aveva preso la torcia elettrica Maglite, l'unica funzionante della casa. Il vento scuoteva i piantoni delle finestre, dando vita a un basso gemito lamentoso, come di animale ferito. Jessica entrò in cucina, aguzzando la vista nella penombra. Si muoveva lentamente, con la spalla sinistra - il lato opposto rispetto alla mano armata - al muro. In caso di necessità, avrebbe potuto portarsi con le spalle alla parete e ruotare l'arma di 180 gradi, proteggendosi le spalle. La cucina era sgombra. Prima di ruotare intorno allo stipite della porta che dava sul salotto, si fermò e rimase in ascolto, tendendo l'orecchio ai rumori notturni. C'era qualcuno che gemeva? Che piangeva? Lei sapeva che non era Sophie. Ascoltò, cercando di capire da che punto della casa provenisse quel suono. Era cessato. Dallo squarcio nella porta di servizio, Jessica sentì l'odore della pioggia sul terreno d'inizio primavera, di terriccio bagnato. Si fece avanti nell'oscurità e, con un piede, sbriciolò il vetro rotto sul pavimento della cucina. Il vento sferzava, facendo sbattere gli orli del sacco di plastica nero fissato sul buco.
Tornando lentamente in salotto, ricordò che il suo computer portatile era sulla scrivania piccola. Se non sbagliava, e se in quella notte si poteva ancora trovare un pizzico di fortuna, la batteria era completamente carica. Si avvicinò cauta alla scrivania, accese il portatile. Lo schermo si animò, sfarfallò un paio di volte e poi gettò una lattiginosa luce azzurra nel salotto. Jessica serrò gli occhi per qualche istante, poi li riaprì. La luce era sufficiente per vedere: la stanza si aprì davanti a lei. Guardò dietro i divanetti, nel punto cieco oltre l'armadio. Aprì lentamente il guardaroba vicino alla porta d'ingresso. Tutto vuoto. Attraversò la stanza e raggiunse il mobile del televisore. Se non sbagliava, Sophie aveva lasciato il suo cagnolino elettronico in un cassetto. Lo aprì. Il musetto di plastica colorata la fissò. Sì. Jessica gli estrasse dal dorso le batterie e andò in salotto. Le infilò nella torcia; si accese. «Patrick, questa è una cosa seria. Devi rispondermi.» Non si aspettava una risposta, e non la ottenne. Trasse un respiro profondo, si concentrò, e scese, piano piano, le scale del seminterrato. In cantina era buio pesto. Patrick aveva spento la Maglite. A metà strada, Jessica si fermò e fece scorrere il raggio della sua torcia per l'intera stanza, continuando a puntare l'arma. Oggetti normalmente tanto benevoli - lavatrice e asciugatrice, lavabo, caldaia e addolcitore per l'acqua, mazze da golf, sedie da giardino e tutte le altre cianfrusaglie della loro vita - parevano adesso irti di pericoli, emergevano da lunghe ombre. Tutto era esattamente dove lei si aspettava. Tranne Patrick. Continuò a scendere le scale. Alla sua destra, c'era una nicchia cieca, l'incavo che ospitava i salvavita e il quadro elettrico. Illuminò la nicchia meglio che poteva e vide qualcosa che le mozzò il fiato. La centralina telefonica. Non era stato il temporale a interrompere la linea. I fili penzolanti dalla scatola le rivelarono che era stata tagliata. Appoggiò il piede sul pavimento di cemento del seminterrato. Rovistò ancora la stanza con la luce della torcia. Cominciò a indietreggiare verso la parete anteriore, quando per poco non inciampò in qualcosa. Qualcosa di pesante, di metallico. Ruotò su se stessa e vide che era uno dei suoi pesi liberi, il bilanciere da cinque chili. E fu allora che vide Patrick. Giaceva a faccia in giù sul cemento. Vicino
ai piedi c'era l'altro peso da cinque chili. Evidentemente, lui ci era caduto sopra mentre arretrava, allontanandosi dalla centralina. L'uomo era immobile. «Alzati», gli disse. La sua voce suonò stridula e fiacca. Disarmò il cane della Glock. Il clic echeggiò dai muri di calcestruzzo. «Alzati, cazzo!» Lui non si mosse. Jessica si avvicinò e gli diede un colpetto col piede. Niente. Nessuna reazione. Riarmò il cane, tenendo la pistola puntata su Patrick. Si chinò e gli passò la mano intorno al collo. Cercò la pulsazione: era presente e forte. Ma era anche bagnato. Ritirò la mano sporca di sangue. Jessica arretrò. Era tutto chiaro: Patrick aveva tagliato i cavi del telefono e poi era inciampato nel bilanciere, aveva battuto la testa ed era svenuto. Lei afferrò la torcia Maglite sul pavimento accanto a Patrick, corse di sopra e uscì dalla porta d'ingresso. Doveva andare a prendere il cellulare. Uscì sulla veranda. La pioggia continuava a flagellare il tendone. Guardò in fondo alla strada: tutto l'isolato era al buio. Vide la strada piena di rami che parevano ossa. Il vento si alzò con una raffica violenta, infradiciandola in pochi istanti. La strada era deserta. Tranne che per l'ambulanza. Le luci di posizione erano spente, ma Jessica sentì il motore e vide il gas di scarico. Rinfoderò l'arma, attraversò di corsa la strada, sotto il diluvio. Il paramedico era dietro il furgone e stava per chiudere i portelli. Si voltò a guardare la donna che si avvicinava. «Che succede?» domandò l'uomo. Jessica vide la targhetta sulla sua giacca: si chiamava Drew. «Drew, voglio che lei mi ascolti.» «Okay.» «Sono un'agente di polizia. C'è un uomo ferito in casa mia.» «Quanto è grave?» «Non so esattamente, ma voglio che lei mi ascolti. Non parli.» «Okay.» «Il mio telefono è fuori uso e manca la luce. Ho bisogno che lei chiami il 911. Dica che un'agente ha bisogno di assistenza. Mi servono qui tutti i poliziotti possibili, e anche di più. Chiami, poi vada a casa mia. L'uomo è nel seminterrato.» Una gran raffica di vento soffiò sulla strada uno scroscio di pioggia. Foglie e detriti mulinarono intorno ai piedi di Jessica, che scoprì di dover ur-
lare per farsi sentire. «Ha capito?» gli gridò. Drew prese la sua borsa, chiuse i portelli posteriori dell'ambulanza e tirò fuori la radio portatile. «Andiamo.» 73 Venerdì Santo, ore 21.45 Il traffico procedeva a passo di lumaca su Cottman Avenue. Byrne era a meno di un chilometro da casa di Jessica. Sbirciò in alcune strade laterali, e scoprì che erano bloccate da rami e cavi elettrici o troppo allagate per passare. Le auto affrontavano con cautela, praticamente in folle, i tratti di strada inondati. Quando Byrne arrivò nei pressi della strada di Jessica, la sua emicrania aveva raggiunto il massimo splendore. Un clacson gli fece serrare il volante tra le mani. Si rese conto che stava guidando a occhi chiusi. Doveva raggiungere Jessica. Parcheggiò l'auto, controllò la pistola e uscì. Mancava soltanto qualche isolato. L'emicrania ebbe un'impennata quando lui si tirò su il bavero per proteggersi dal vento. Mentre combatteva le raffiche di pioggia, sapeva che... Lui è in casa. Vicino. Non si aspettava che lei avrebbe invitato qualcun altro a entrare. La vuole tutta per sé. Ha progetti per lei e per sua figlia. Quando l'altro uomo è entrato dalla porta d'ingresso, i suoi progetti... 74 Venerdì Santo, ore 21.55 ... si sono modificati, ma non sono cambiati. Anche Cristo ha avuto i suoi ostacoli, questa settimana. I Farisei hanno tentato d'indurLo a bestemmiare. Giuda, naturalmente, lo aveva venduto ai sommi sacerdoti, aveva detto loro dove Lo avrebbero trovato. Cristo non si è tirato indietro. Nemmeno io mi tirerò indietro.
Affronterò l'intruso, l'Iscariota. In questa cantina buia, farò pagare questo intruso con la vita. 75 Venerdì Santo, ore 21.55 Quando entrarono in casa, Jessica indicò a Drew il seminterrato. «È in fondo alle scale, sulla destra», gli spiegò. «Può dirmi qualcosa sul tipo di ferite?» domandò Drew. «Non saprei. È svenuto.» Mentre il paramedico scendeva le scale del seminterrato, Jessica lo sentì chiamare il pronto intervento. Salì in camera di Sophie e aprì la porta dell'armadio a muro. La bambina era sveglia, seduta in mezzo a una foresta di giacche e pantaloni. «Tutto bene, piccina?» Sophie non reagì. «Mamma è qui, tesoro. Mamma è qui.» La prese in braccio e lei le strinse le braccine intorno al collo. Ormai erano al sicuro. Jessica sentiva battere il cuore della figlia. Attraversò la stanza e andò alle finestre anteriori; la strada era inondata solo in parte. Restò a guardare in attesa degli aiuti. «Signora?» Drew la stava chiamando. Jessica andò alle scale. «Qualcosa non va?» «Ehm... Be', non so come dirglielo.» «Cosa?» «Nel seminterrato non c'è nessuno.» 76 Venerdì Santo, ore 22.00 Byrne svoltò l'angolo nella strada buia come pece. Lottando contro il vento, doveva aggirare i grossi rami d'albero caduti sul marciapiede. In alcune finestre scorse luci incerte, ombre saltellanti che danzavano sulle tendine. In lontananza, vide un cavo elettrico che mandava scintille sopra una macchina.
Non c'erano auto di pattuglia dell'Ottavo Distretto. Provò ancora una volta il cellulare. Niente. Era stato a casa di Jessica soltanto una volta. Doveva guardare da vicino, per vedere se ricordava quale casa fosse. Non ricordava. Quella, naturalmente, era una delle zone peggiori per vivere, a Philadelphia. Anche a Northeast Philadelphia. Talvolta sembrava tutto uguale. Si fermò di fronte a una villetta doppia che gli sembrava familiare. Difficile a dirsi, con le luci spente. Chiuse gli occhi e cercò di ricordare. Le immagini del killer del rosario oscuravano tutto il resto, come i martelletti di una vecchia macchina per scrivere, che battevano il piombo sulla lucente carta bianca, con l'inchiostro nero sbavato. Ma lui era troppo vicino per leggere le parole. 77 Venerdì Santo, ore 22.00 Drew aspettava in fondo alle scale del seminterrato. Jessica accese le candele in cucina, poi mise a sedere Sophie su una seggiola. Posò la pistola sopra il frigorifero. Scese le scale. La macchia di sangue sul cemento c'era ancora, ma Patrick no. «Hanno detto che stanno arrivando due auto di pattuglia», riferì l'uomo. «Ma temo che quaggiù non ci sia nessuno.» «Ne è sicuro?» Drew illuminò l'ambiente con la torcia. «Oh, be', a meno che qui non ci sia un'uscita segreta, deve essere salito dalle scale.» Drew puntò la torcia sulle scale. Non c'erano impronte di sangue sui gradini. Infilò i guanti di gomma, s'inginocchiò e toccò il sangue sul pavimento. Se lo strofinò tra due dita. «Dice che un momento fa era qui?» «Sì», rispose Jessica. «Due minuti fa. Non appena l'ho visto sono corsa su e sono uscita sul vialetto.» «In che modo si è ferito?» «Non ne ho idea.» «Lei sta bene?» «Benissimo.» «Okay, la polizia dovrebbe arrivare da un momento all'altro. Loro po-
tranno accomodare tutto.» Si alzò. «Fino ad allora, forse quaggiù saremo al sicuro.» Come? pensò Jessica. Forse quaggiù saremo al sicuro? «La sua bambina sta bene?» chiese l'uomo. Jessica lo fissò. Una mano gelida le strizzò il cuore. «Io non le ho detto di avere una bambina.» Drew si sfilò i guanti e li gettò nella borsa. Nel raggio della torcia, Jessica vide le macchie di gesso blu sulle sue dita e il graffio profondo sul dorso della mano destra. Nello stesso istante si accorse dei piedi di Patrick che spuntavano da sotto le scale. E capì. L'uomo non aveva chiamato il 911. Nessuno stava arrivando. Jessica si voltò e fece per fuggire. Verso le scale. Verso Sophie. Verso la salvezza. Ma, prima che potesse muoversi, dalle tenebre una mano scattò. Andrew Chase era su di lei. 78 Venerdì Santo, ore 22.05 Non era Patrick Farrell. Quando Byrne aveva esaminato i fascicoli in ospedale, tutto si era chiarito. Oltre a essere state curate da Patrick Farrell, al pronto soccorso del St. Joseph's, l'unica cosa che le cinque ragazze avevano in comune era il servizio di ambulanza. Abitavano tutte a North Philly, e avevano tutte utilizzato il Glenwood Ambulance Group. Il primo a prestar loro soccorso era stato Andrew Chase. Chase conosceva Simon Close, che aveva pagato con la vita quella vicinanza. Il giorno della sua morte, Nicole Taylor non stava cercando di scriversi sul palmo P-A-R-K-H-U-R-S-T; stava cercando di scrivere P-A-R-A-M-ED-I-C-O. Byrne aprì il cellulare e provò un'ultima volta a comporre il 911. Niente. Controllò il campo: neanche una tacca. Non c'era segnale. Le auto di pattuglia non sarebbero arrivate in tempo. Doveva andare da solo. Si fermò di fronte a una villetta, cercando di ripararsi gli occhi dalla pioggia. Era quella, la casa? Pensa, Kevin. Quali punti di riferimento aveva notato, quand'era venuto
a prenderla? Non ricordava. Si voltò, guardandosi alle spalle. L'ambulanza parcheggiata davanti. Glenwood Ambulance Group. La casa era quella. Estrasse la pistola, inserì il caricatore e attraversò di corsa il vialetto. 79 Venerdì Santo, ore 22.10 Jessica si affannava in fondo a una nebbia impenetrabile. Era seduta sul pavimento del suo seminterrato. Era quasi buio. Cercò d'inserire entrambi quei dati in un'equazione e non ottenne risultati accettabili. E poi la realtà tornò, fragorosa. Sophie. Cercò di alzarsi, ma le gambe non rispondevano. Non era legata. Poi ricordò: le aveva iniettato qualcosa. Si toccò il collo dov'era penetrato l'ago e le rimase una gocciolina di sangue sul dito. Alla luce fioca, diffusa dalla torcia dietro di lei, la gocciolina cominciò a sfocarsi. Allora comprese il terrore provato dalle cinque ragazze. Ma lei non era una ragazza. Lei era una donna, un poliziotto. La mano le andò istintivamente al fianco: non c'era niente. Dov'era la sua pistola? Di sopra. In cima al frigorifero. Merda. Si sentì nauseata per un momento; il mondo roteava, il pavimento pareva ondeggiare sotto di lei. «Non si doveva arrivare a questo, sai», disse l'uomo. «Ma lei si è opposta. Una volta aveva cercato lei stessa di gettarsi via, ma poi si è opposta. L'ho visto tante volte.» La voce proveniva da dietro di lei. Era un suono basso, misurato, orlato della malinconia di una grave perdita personale. Aveva ancora in mano la torcia. Il raggio danzava e saltellava per la stanza. Jessica avrebbe voluto reagire, muoversi, tentare di colpire; lo spirito era forte, ma la carne era incapace. Era sola col killer del rosario. Aveva pensato che stessero arrivando rinforzi, ma non era così. Nessuno sapeva che erano lì insieme. Immagini delle vittime le balenarono in mente: Kristi Hamilton intrisa di tutto quel san-
gue. La corona di filo spinato sulla testa di Bethany Price. Doveva farlo parlare. «Cosa... vuol dire?» «Loro avevano tutte le possibilità del mondo», rispose Andrew Chase. «Tutte. Ma non le volevano, giusto? Erano brillanti, sane, integre. E a loro non bastava.» Jessica riuscì a guardare in cima alle scale, pregando di non vedere lassù la piccola sagoma di Sophie. «Quelle ragazze avevano tutto, però avevano deciso di gettarlo via. E per che cosa?» si domandò Chase. Il vento ululava fuori dalle finestre del seminterrato. Andrew Chase si mise a camminare su e giù, col raggio della torcia che rimbalzava nell'oscurità. «Che possibilità ha avuto la mia bambina?» Ha una figlia, pensò Jessica. Questo è un bene. «Ha una bambina?» gli chiese, con una voce che suonò distante, come se avesse parlato dentro un tubo metallico. «Avevo una bambina. Non ce l'ha fatta nemmeno a uscire dal portone.» «Cos'è successo?» Le era sempre più difficile articolare le parole. Non sapeva se fosse il caso di far rivivere a quell'uomo una tragedia, ma non sapeva che altro fare. «Tu c'eri.» Io c'ero? Di che diavolo sta parlando? «Non capisco», disse. «Non ci pensare, non è stata colpa tua.» «Colpa mia?» «Ma il mondo era impazzito, quella notte, vero? Oh, sì. Il male si era scatenato per le strade di questa città, ed era scesa una grande tempesta. La mia bambina è stata sacrificata. Il giusto ha raccolto la sua ricompensa.» La sua voce stava salendo di tono e cadenza. «Stanotte saldo tutti i debiti.» Oh, mio Dio, pensò Jessica, mentre il ricordo di quella crudele vigilia di Natale l'aggrediva con un'ondata di nausea. Stava parlando di Katharine Chase. La donna che aveva abortito nella sua auto di servizio. Andrew e Katharine Chase. «In ospedale dicono cose come: 'Oh, non vi preoccupate, potete sempre fare un altro bambino'. Loro non sanno. Non è mai più stato lo stesso per Kitty e per me. Con tutti i cosiddetti miracoli della medicina moderna, non sono riusciti a salvare la mia bambina, e il Signore ci ha negato un altro figlio.» «Non... è stata colpa di nessuno, quella notte. È stato un temporale orribile. Ricorda?»
Chase annuì. «Sì, molto bene. Ci ho messo quasi due ore per arrivare a St. Katherine. Ho pregato la santa protettrice di mia moglie. Ho offerto un mio sacrificio. Però la mia bambina non è mai tornata.» St. Katherine, pensò Jessica. Non si era sbagliata. Chase prese il sacco di nylon che aveva portato con sé e lo buttò a terra vicino a lei. «E tu credi davvero che alla società mancherà un uomo come Willy Kreuz? Era un pederasta. Un barbaro. Era la più bassa forma di vita umana.» Frugò nella sua borsa e cominciò a estrarne vari oggetti, che posò accanto alla gamba destra di Jessica. Lei abbassò gli occhi lentamente. C'era un trapano a batterie. C'era un rocchetto di filo da velaio, un grosso ago ricurvo e un'altra siringa di vetro. «È incredibile quello che ti raccontano certi uomini, come se ne fossero fieri», riprese. «Qualche pinta di bourbon, qualche Percocet, e tutti i loro terribili segreti straripano.» Cominciò a infilare l'ago. Nonostante la rabbia e la furia che aveva nella voce, le mani erano ferme. «E il compianto dottor Parkhurst?» continuò. «Un uomo che sfruttava la sua posizione di autorità per andare a caccia di ragazzine? Per favore! Lui non era diverso. L'unica cosa che lo separava da uomini come Kreuz era il pedigree. Tessa mi ha detto tutto del dottor Parkhurst.» Jessica tentò di parlare, ma non ci riuscì. Tutta la sua paura rimase strozzata. Era prossima a svenire. «Presto capirai», disse Chase. «La domenica di Pasqua ci sarà una resurrezione.» Appoggiò a terra l'ago col filo e si portò a pochi centimetri dal viso di Jessica. Nella penombra, gli occhi dell'uomo sembravano di un rosso bordeaux. «Il Signore ha chiesto ad Abramo suo figlio. E ora il Signore mi ha chiesto il tuo.» Ti prego, no, pensò lei. «È il momento», annunciò Chase. Jessica tentò di muoversi. Non ci riuscì. Andrew Chase salì le scale. Sophie. Jessica aprì gli occhi. Per quanto tempo era rimasta svenuta? Riprovò a muoversi: si sentiva le braccia, ma non le gambe. Cercò di ruotare sul fianco; non ce la fece. Cercò di trascinarsi alla base delle scale, ma lo sforzo era troppo grande. Era sola?
Lui se n'era andato? Ormai c'era un'unica candela accesa. Era sopra l'asciugatrice e gettava ombre lunghe e tremolanti sul soffitto grezzo del seminterrato. Si sforzò di sentire. Tornò ad assopirsi, riprendendo coscienza con un sussulto dopo qualche istante. Rumore di passi dietro di lei. Era così difficile tenere gli occhi aperti. Così difficile. Sentiva braccia e gambe come di pietra. Girò la testa il più possibile. Quando vide Sophie tra le braccia di quel mostro, una pioggia gelida le innaffiò le viscere. No, pensò. No! Prendi me. Sono qui. Prendi me! Andrew Chase posò Sophie a terra, accanto a lei. La bambina aveva gli occhi chiusi, il corpo floscio. Nelle vene di Jessica, l'adrenalina lottava con la droga che lui le aveva iniettato. Se soltanto avesse potuto alzarsi e assestargli un solo colpo, sapeva che gli avrebbe fatto male. Lui era più pesante di lei, ma all'incirca della stessa altezza. Un colpo solo. Con la rabbia e la furia che si agitavano in lei, non le serviva altro. Quando l'uomo si voltò per un momento, lei vide che aveva trovato la sua Glock: la portava alla cintola dei pantaloni. Jessica, fuori dal suo campo visivo, si spostò lievemente verso Sophie. Lo sforzo sembrò spossarla. Doveva riposarsi. Cercò di controllare se Sophie stesse respirando; non riuscì a capirlo. Andrew Chase tornò a girarsi verso di loro. Ora aveva il trapano in mano. «È ora di pregare», disse. Si mise una mano in tasca e ne estrasse un bullone a testa tonda. «Preparale le mani», ordinò a Jessica, chinandosi e mettendole in mano il trapano. Lei sentì la bile salirle in gola: stava per vomitare. «Come?» «Sta soltanto dormendo. Le ho dato una piccola dose di Midazolam. Trapanale le mani, e io la lascerò vivere.» Si tolse di tasca un elastico e lo mise intorno ai polsi di Sophie. Le sistemò un rosario tra le dita. Un rosario senza decine. «Se non lo fai tu, lo farò io. E poi la manderò a Dio sotto i tuoi occhi.» «Io... non posso...» «Hai trenta secondi.» Si protese verso di lei, premette l'indice destro di
Jessica sull'interruttore del trapano, per provarlo. La batteria era ben carica. Il rumore dell'acciaio che roteava nell'aria era nauseante. «Fallo subito, e lei vivrà.» «È mia figlia», riuscì a dire Jessica. Il volto di Chase rimase impietoso, indecifrabile. La luce guizzante della candela gettava lunghe ombre sui suoi lineamenti. Estrasse la Glock dalla cintola, armò il percussore e appoggiò la pistola alla testa di Sophie. «Hai venti secondi.» «Aspetta!» Jessica sentiva le forze svanire, tornare. Le tremavano le dita. «Pensa ad Abramo», la invitò Chase. «Pensa alla determinazione che lo ha costretto all'altare. Puoi farlo.» «Io... non posso.» «Tutti noi dobbiamo fare sacrifici.» Jessica doveva guadagnare tempo. Doveva. «Okay», disse. Chiuse la mano intorno all'impugnatura del trapano. Era pesante e freddo. Provò un paio di volte l'interruttore. Il trapano reagì, la punta in carbonio ronzò. «Portala più vicino», mormorò. «Non ci arrivo.» Chase si avvicinò, sollevò Sophie e la posò a pochi centimetri da Jessica. Coi polsi stretti dall'elastico, le mani della piccola erano giunte in preghiera. La donna sollevò il trapano, lentamente, e lo tenne in grembo per un momento. Ricordò il suo primo allenamento con la palla medica in palestra: dopo due o tre serie, avrebbe voluto lasciar perdere. Era distesa supina sul tappetino, con quella palla pesante in mano, completamente esausta. Ancora una serie? Non poteva farcela. Non sarebbe mai diventata un pugile. Ma, prima che potesse arrendersi, un vecchio incartapecorito peso massimo che stava seduto lì a guardarla (da tempo faceva parte dell'arredamento nella palestra di Frazier: un uomo che aveva retto sino alla fine di un match con Sonny Liston) le disse che a quelli che crollano, quasi sempre, non manca la forza: manca la volontà. Non lo aveva mai dimenticato. Mentre Andrew Chase si voltava per allontanarsi, Jessica fece appello a tutta la sua volontà, a tutta la sua determinazione, a tutta la sua forza. Avrebbe avuto un'unica possibilità di salvare la figlia, e doveva sfruttarla subito. Premette l'interruttore, lo bloccò in posizione ON e spinse il trapa-
no verso l'alto, veloce, con forza. La lunga punta si conficcò a fondo nel lato sinistro dell'inguine di Chase, perforando pelle, muscolo e carne, penetrando urlante nel suo corpo, trovando e facendo a pezzi l'arteria femorale. Un caldo fiotto di sangue arterioso schizzò in faccia a Jessica, accecandola per un momento e procurandole un conato di vomito. Chase urlò per il dolore e barcollò all'indietro, torcendosi su se stesso, con le gambe che cominciavano a cedere, la mano sinistra premuta sopra lo strappo sui pantaloni nel tentativo di fermare l'emorragia. Il sangue gli zampillava tra le dita, nero e lucente come seta nella penombra. Di riflesso, esplose un colpo contro il soffitto e la Glock produsse un rombo assordante in quello spazio ristretto. Jessica si sforzò di mettersi in ginocchio, con le orecchie che ronzavano, ormai sostenuta dall'adrenalina. Doveva mettersi tra Chase e Sophie. Doveva muoversi. Doveva in qualche modo rimettersi in piedi e conficcargli il trapano nel cuore. Attraverso la pellicola scarlatta di sangue che aveva sugli occhi, vide Chase crollare a terra, lasciando cadere la pistola. Con un urlo, l'uomo si tolse la cintura e la strinse intorno all'attaccatura della coscia sinistra, mentre il sangue ormai formava una pozza sul pavimento. Strinse il laccio con un guaito selvaggio, lacerante. Ce l'avrebbe fatta Jessica a trascinarsi fino alla pistola? Cercò di strisciare verso di lui, con le mani che scivolavano sul sangue, lottando per ogni centimetro. Ma, prima che lei riuscisse a colmare la distanza, Chase raccolse la Glock viscida di sangue e si alzò lentamente in piedi. Avanzò inciampando, ormai folle, un animale mortalmente ferito. A poche decine di centimetri da lei. Le agitò la pistola davanti. Il viso era una maschera di dolore mortale. Jessica cercò di sollevarsi; non ci riuscì. Doveva sperare che Chase si avvicinasse di più. Sollevò il trapano con le due mani. Chase venne avanti barcollando. Si fermò. Non era abbastanza vicino. Lei non riusciva a raggiungerlo. Le avrebbe uccise entrambe. In quel momento, Chase alzò gli occhi al cielo e gridò. Quel suono innaturale riempì la stanza, la casa, il mondo, proprio mentre quel mondo tornava a vivere, come una molla fragorosa, scintillante, che scatta all'improvviso. La corrente era tornata.
Di sopra, il televisore si mise a berciare. Accanto a loro, si riaccese la caldaia. Sopra di loro sfavillarono le luci. Il tempo si fermò. Jessica si tolse il sangue dagli occhi e trovò il suo aggressore in quel marasma cremisi. La droga le aveva scombussolato la vista: Andrew Chase era diviso in due immagini, entrambe sfocate. Chiuse gli occhi, li riaprì, adeguandosi all'improvvisa chiarezza. Non erano due immagini: erano due uomini. Chissà come, Kevin Byrne era alle spalle di Andrew Chase. Jessica dovette sbattere le palpebre due volte, per essere sicura. Non era un'allucinazione. 80 Venerdì Santo, ore 22.15 Con tutti i suoi anni in polizia, Byrne si stupiva sempre di vedere, finalmente, le dimensioni, la forma e l'atteggiamento delle persone cui dava la caccia. Di rado erano grossi o grotteschi quanto le loro azioni. Secondo una sua teoria, spesso il volume della mostruosità di una persona era inversamente proporzionale alla sua taglia fisica. Non si discuteva: Andrew Chase era l'anima più disgustosa e nera che lui avesse mai incontrato. E ora che lo aveva di fronte, a un metro e mezzo di distanza, sembrava piccolo, insignificante. Ma Byrne non si sarebbe lasciato placare o ingannare. Andrew Chase non era certo insignificante, nella vita delle famiglie che aveva distrutto. Byrne sapeva di non avere vantaggio su Chase, anche se quest'ultimo era gravemente ferito. Non aveva nessun controllo. La vista di Byrne era annebbiata, la sua mente era un pantano d'indecisione e di rabbia. Rabbia per la sua vita, rabbia per Morris Blanchard, rabbia per com'era finita la storia di Diablo, che lo aveva trasformato in tutto ciò contro cui combatteva. Rabbia per il fatto che, se fosse stato un po' più bravo nel suo lavoro, avrebbe potuto salvare la vita a tutte quelle ragazze innocenti. Come un cobra ferito, Andrew Chase avvertì la sua presenza. A Byrne balenò in mente quel vecchio brano di Sonny Boy Williamson, Collector Man Blues, che diceva: «È il momento di aprire la porta, perché l'esattore è arrivato».
La porta fu spalancata. Byrne modellò con la mano sinistra una forma nota, la prima che aveva imparato quando aveva cominciato a studiare la lingua dei segni. Ti voglio bene. Andrew Chase girò su se stesso, gli occhi rossi e fiammeggianti, la Glock puntata in alto. Kevin Byrne le vide tutte, negli occhi di quel mostro. Ogni vittima innocente. Sollevò la sua pistola. Spararono entrambi. E il mondo, come già aveva fatto una volta, divenne bianco e muto. Per Jessica, le due esplosioni furono assordanti e si portarono via quel po' di udito che le restava. Si rannicchiò sul pavimento freddo del seminterrato. C'era sangue ovunque. Non riusciva a sollevare la testa. Mentre cadeva tra le nuvole, cercò di trovare Sophie in quel mattatoio di carne umana a brandelli. Il suo cuore rallentò, la vista venne meno. Sophie, pensava, spegnendosi. Cuore mio. Vita mia. 81 Domenica di Pasqua, ore 11.05 Sua madre era seduta sull'altalena, e il suo prendisole giallo preferito accentuava le pagliuzze viola intenso degli occhi. Le labbra erano di un rosso scuro, i capelli di un mogano ricco sotto il sole estivo. L'aroma della carbonella appena accesa colmava l'aria, che portava con sé i rumori di una partita dei Phillies. E sotto ogni cosa... Le risatine delle sue cugine, la fragranza dei sigari Parodi, il profumo del vino da tavola.* Si udiva, bassa e frusciante, la voce di Dean Martin che sussurrava Come Back to Sorrento, da un disco in vinile. Sempre in vinile. La tecnologia dei CD non era ancora entrata nella dimora dei suoi ricordi. «Mamma?» chiamò Jessica. «No, tesoro», disse Peter Giovanni. La voce del padre era diversa. Più vecchia, in un certo senso. «Papà?» «Sono qui, piccola.»
Un'ondata di sollievo la travolse. Suo padre era lì. Sarebbe andato tutto bene. No? Lui è un poliziotto, sapete. Jessica aprì gli occhi. Si sentiva debole, completamente esausta. Era in una camera d'ospedale ma, a quanto capiva, non era collegata a qualche macchina e neppure a una flebo. Cominciò, con fatica, a ricordare: il rumore degli spari dentro il seminterrato. Non sembrava che lei fosse stata colpita. Suo padre era ai piedi del letto. Dietro di lui c'era sua cugina Angela. Girò la testa a destra, e vide John Shepherd e Nick Palladino. «Sophie», disse Jessica. Il silenzio che seguì le esplose nel cuore in un milione di pezzi, ciascuno una cometa ardente di paura. Guardò prima un viso, poi l'altro, lentamente, confusamente. Occhi. Aveva bisogno di vedere i loro occhi. Negli ospedali, non si fa che dire cose; di solito, le cose che la gente vuole sentire. Ci sono buone probabilità che... Con la terapia giusta... È il migliore nel suo campo... Se fosse riuscita a vedere gli occhi di suo padre, avrebbe saputo. «Sophie sta bene», disse lui. I suoi occhi non mentivano. «Vincent è giù con lei, in mensa.» Lei chiuse gli occhi; le lacrime presero a scorrere liberamente. Poteva sopravvivere a qualunque notizia, ora. Aveva la gola secca e dolorante. «Chase», riuscì a dire. I due detective la guardarono, si guardarono. «Cosa è successo... a Chase?» ripeté. «È qui. In terapia intensiva. In stato di arresto», rispose Shepherd. «È stato sotto i ferri per quattro ore. La brutta notizia è che se la caverà. La buona è che sarà processato, e abbiamo tutte le prove che ci servono. Casa sua era una capsula Petri.» Jessica chiuse gli occhi un istante, metabolizzando la notizia. Erano davvero bordeaux, gli occhi di Andrew Chase? Aveva la sensazione che lo sarebbero stati, nei suoi incubi. «Il tuo amico Patrick non ce l'ha fatta, però. Mi dispiace», le comunicò Shepherd. La follia di quella notte penetrava lentamente nella sua coscienza. Aveva davvero sospettato Patrick di quei crimini. Forse, se gli avesse creduto, quella sera lui non sarebbe venuto a casa sua. E sarebbe stato ancora vivo. Un'amarezza travolgente si accese dentro di lei, proprio nel profondo.
Angela prese il bicchiere di plastica con l'acqua fredda e portò la cannuccia alle labbra di Jessica. Angie aveva gli occhi rossi e gonfi. Accarezzò i capelli della cugina, la baciò sulla fronte. «Come sono arrivata qui?» domandò Jessica. «La tua amica Paula», spiegò Angela. «È venuta a vedere se da te era tornata la corrente. La porta di servizio era spalancata. È scesa di sotto e... ha visto tutto.» Scoppiò in lacrime. Jessica ricordò. Quasi non riusciva a decidersi a dire il nome. La possibilità, assai concreta, che lui avesse dato la propria vita per quella di lei la straziava nell'anima, una bestia affamata che lottava per uscire. E, in quel grande edificio asettico, non ci sarebbero mai state pillole o medicamenti capaci di guarire quella ferita. «E Kevin?» domandò. Shepherd guardò prima il pavimento, poi Nick Palladino. Quando i loro occhi tornarono su Jessica, erano cupi. * In italiano nel testo. (N.d.T.) 82 CHASE SI DICHIARA COLPEVOLE: CONDANNATO ALL'ERGASTOLO di Eleanor Marcus-DeChant, The Report, redazione Andrew Todd Chase, il cosiddetto «killer del rosario», giovedì si è dichiarato colpevole di omicidio premeditato per otto capi d'imputazione, mettendo fine a una delle più sanguinose stragi nella storia di Philadelphia. È stato subito tradotto nel penitenziario statale di Greene County, Pennsylvania. In seguito a patteggiamento con la procura distrettuale di Philadelphia, il trentaduenne Chase si è dichiarato colpevole degli omicidi di Nicole T. Taylor, 17 anni; Tessa A. Wells, 17 anni; Bethany R. Price, 15 anni; Kristi A. Hamilton, 16 anni; Patrick M. Farrell, 36 anni; Brian A. Parkhurst, 35 anni; Wilhelm Kreuz, 42 anni; e Simon E. Close, 33 anni, tutti di Philadelphia. Simon Close era un cronista di questo giornale. Grazie al patteggiamento, numerosi altri capi d'imputazione, tra i quali rapimento, aggressione violenta e tentato omicidio, sono stati fatti cadere, come pure il ricorso alla pena capitale. Chase è stato condannato dal giudi-
ce Liam McManus del tribunale municipale al carcere a vita, senza possibilità di uscire sulla parola. Chase è rimasto silenzioso e impassibile durante il dibattimento, nel quale è stato rappresentato da un difensore d'ufficio, Benjamin W. Priest. Priest ha dichiarato che, considerata la natura raccapricciante dei delitti e le prove schiaccianti a carico del suo cliente, il patteggiamento era la soluzione migliore per Chase, paramedico del Gleenwood Ambulance Group. «Ora Mr Chase avrà la possibilità di sottoporsi alle cure di cui ha un disperato bisogno.» Gli inquirenti hanno rivelato che la moglie di Chase, Katherine, 30 anni, è stata recentemente internata nella casa di cura per malattie mentali Ranch House a Norristown. Ritengono che tale circostanza possa avere innescato la strage. La cosiddetta «firma» di Chase consisteva in un rosario lasciato sulla scena di ogni crimine, oltre alla mutilazione delle mani delle ragazze uccise. 83 16 maggio, ore 7.55 Nel commercio esiste un principio, la cosiddetta Regola dei 250. Si dice che, nel corso della vita, un individuo faccia conoscenza con circa 250 persone; se si soddisfa un solo cliente, questo può portare a 250 vendite. Lo stesso si potrebbe dire dell'odio. Se ci si fa un solo nemico... È per questo motivo, e forse per molti altri, che sono qui, isolato dai normali detenuti. Subito prima delle otto li sento arrivare. Mi portano nel cortiletto per trenta minuti al giorno a fare un po' di moto, verso quest'ora. L'agente arriva alla mia cella. Allunga la mano tra le sbarre e mi mette le manette. Non è la mia guardia solita. Non l'avevo mai visto prima. Non è un uomo grosso, ma sembra in ottima forma fisica. Ha più o meno la mia stessa taglia, la stessa altezza. Avrei potuto capire che sarebbe stato insignificante sotto ogni aspetto, tranne la determinazione. In questo, siamo certamente simili. Chiede l'apertura della cella. La mia porta scorre, esco. Ave Maria, piena di grazia...
Percorriamo il corridoio. Il rumore delle mie catene echeggia contro le pareti sorde, acciaio che conversa con l'acciaio. Tu sei benedetta fra le donne... A ogni passo risuona un nome. Nicole, Tessa, Bethany, Kristi. E benedetto è il frutto del seno tuo, Gesù... Le pillole che prendo contro il dolore mascherano a malapena lo strazio. Me le portano in cella una alla volta, tre volte al giorno. Oggi le avrei prese tutte, se avessi potuto. Santa Maria, Madre di Dio... Questo giorno è sorto, fremendo, soltanto poche ore fa, un giorno col quale mi trovo in rotta di collisione da moltissimo tempo. Prega per noi peccatori... Mi fermo in cima ai ripidi scalini di ferro come Cristo si fermò sul Calvario. Il mio freddo, grigio, solitario Golgota. Adesso... Sento la mano al centro della mia schiena. ... e nell'ora della nostra morte... Chiudo gli occhi. Sento la spinta. Amen. 84 18 maggio, ore 13.55 Jessica era diretta a West Philly con John Shepherd. Erano partner da due settimane e stavano andando a interrogare il testimone di un doppio omicidio: i proprietari di un piccolo supermercato a South Philly erano stati uccisi da colpi d'arma da fuoco, in stile esecuzione, e buttati nella cantina sotto il negozio. Il sole era caldo e alto. La città si stava finalmente liberando dai ceppi d'inizio primavera e abbracciava quella giornata: finestre aperte, capote abbassate, fruttivendoli ambulanti in attività. Il rapporto conclusivo della dottoressa Summers su Andrew Chase conteneva alcune scoperte interessanti, non ultima una dichiarazione degli operai del cimitero di St. Dominic, secondo i quali il mercoledì di quella settimana era stata dissotterrata una tomba, un lotto appartenente ad Andrew Chase. Nulla era stato rimosso - la piccola bara non era stata toccata -
, ma Charlotte Summers era convinta che Chase si aspettasse davvero la resurrezione della sua bambina, nata morta, la domenica di Pasqua. Secondo la sua teoria, la motivazione che stava dietro la follia dell'uomo consisteva nell'offrire in sacrificio la vita di cinque ragazze per riportare indietro la figlia dal mondo dei morti. Secondo il suo ragionamento perverso, le cinque ragazze da lui scelte avevano già tentato il suicidio, quindi avevano già accolto la morte nella loro vita. All'incirca un anno prima di uccidere Tessa, per lavoro Chase aveva trasportato un cadavere dalla casa a schiera di fianco a quella in cui era stata trovata Tessa Wells, sulla North 8th Street. Molto probabilmente era stato allora che aveva visto la colonna nel seminterrato. Mentre Shepherd parcheggiava in Bainbridge Street, il telefono di Jessica squillò. Era Nick Palladino. «Che c'è, Nick?» gli chiese. «Sentito la notizia?» Dio mio, quanto odiava le conversazioni che cominciavano con quella domanda. Era abbastanza convinta di non aver sentito nessuna notizia che giustificasse una telefonata. «No. Ma dammela con cautela, Nick. Non ho ancora pranzato.» «Andrew Chase è morto.» Da principio, quelle parole parvero rimbalzarle nella testa, come spesso avviene per le notizie inattese, buone e cattive. Quando il giudice McManus aveva condannato Chase al carcere a vita, Jessica aveva dato per scontato che la vita sarebbe durata quarant'anni o più, qualche decennio per riflettere sul dolore e sulla sofferenza che lui aveva inflitto. Non qualche settimana. Stando a Nick, i particolari relativi alla morte di Chase erano un tantino lacunosi, ma pareva che Chase fosse caduto da un'alta rampa di scale di ferro, rompendosi il collo. «Il collo?» gli fece eco Jessica, cercando di scacciare l'ironia dalla propria voce. A Nick non sfuggì. «Lo so, certe volte il karma è uno stronzo col bazooka, eh?» Proprio così, pensò lei. Proprio così. Frank Wells era fermo sulla soglia della sua casa a schiera, in attesa. Sembrava piccolo, fragile, terribilmente pallido. Indossava gli stessi abiti dell'ultima volta che lei lo aveva visto, ma ora sembrava perdercisi dentro
ancora di più. Il ciondolo di Tessa a forma di angelo era stato trovato nel comò della camera da letto di Andrew Chase ed era appena uscito dalla chilometrica trafila burocratica tipica dei delitti che prevedevano la pena di morte. Prima di scendere dall'auto, Jessica lo tolse dalla busta per le prove e se lo mise in tasca. Si guardò nel retrovisore, non tanto per controllare di essere a posto quanto per essere sicura di non aver pianto. Doveva essere forte, lì, un'ultima volta. «Posso fare qualcosa per lei?» chiese Wells. Jessica avrebbe voluto rispondere: Quello che può fare per me è stare meglio. Ma sapeva che non sarebbe successo. «No, grazie», disse. Lui l'aveva invitata a entrare, ma lei aveva rifiutato. Rimasero sui gradini. Sopra di loro, il sole riscaldava il tettuccio di lamiera ondulata. Dall'ultima volta che era stata lì, lei notò che Wells aveva messo una cassettina di fiori sotto la finestra del primo piano. Viole del pensiero di un giallo brillante crescevano verso la camera di Tessa. Frank Wells aveva accolto la notizia della morte di Andrew Chase nello stesso modo in cui aveva accolto quella della morte di Tessa: stoico, impenetrabile. Si era limitato ad annuire. Quando lei gli aveva restituito il ciondolo, le era parso di veder balenare una breve emozione. Si era girata a guardare in fondo alla strada, quasi stesse aspettando un passaggio, per lasciare all'uomo un momento di privacy. Wells si guardò le mani. Tese il ciondolo. «Voglio che lo tenga lei», disse. «Io... non posso prenderlo, Mr Wells. So quanto significhi per lei.» «Per piacere», insistette lui. Le mise il ciondolo in mano e chiuse le mani intorno a quelle di lei. La sua pelle sembrava carta carbone tiepida. «Tessa avrebbe voluto che lo avesse lei. Le somigliava, in molti sensi.» Jessica aprì la mano. Guardò l'iscrizione incisa sul retro: ECCO, IO MANDO UN ANGELO DAVANTI A TE, PER CUSTODIRTI LUNGO IL CAMMINO. Si protese per dare un bacio sulla guancia a Frank Wells. Mentre tornava alla macchina, cercò di controllare le proprie emozioni. Avvicinandosi all'orlo del marciapiede, vide un uomo che scendeva da una Saturn nera, parcheggiata qualche auto dietro la sua, sulla 20th Street. Era sui venticinque anni, altezza media, snello ma muscoloso. Aveva capelli
castani scuri un po' radi e baffi rifilati. Portava occhiali a specchio da aviatore e una divisa marrone chiaro; era diretto a casa Wells. Jessica capì: era Jason Wells, il fratello di Tessa. Lo riconobbe dalla foto sulla parete del salotto. «Mr Wells, sono Jessica Balzano», lo chiamò. «Oh, certo», disse Jason. Si strinsero la mano. «Mi dispiace tantissimo per sua sorella.» «Grazie. Mi manca tutti i giorni. Tessa era la mia luce.» Lei non gli vedeva gli occhi, ma non ce n'era bisogno. Jason Wells era un giovane addolorato. «Mio padre ha un grandissimo rispetto per lei e il suo collega», continuò Jason. «Vi siamo entrambi molto grati per tutto quello che avete fatto.» Lei annuì, non sapendo cosa dire. «Spero che lei e suo padre troviate un po' di conforto.» «Grazie. E come sta il suo collega?» «Tiene duro», rispose, desiderando crederlo. «Mi piacerebbe passare a trovarlo, un giorno. Che ne pensa?» «Certo», replicò lei, pur sapendo che la visita non avrebbe sortito nessuna reazione. Guardò l'orologio, sperando di non sembrare impacciata come si sentiva. «Be', ora devo andare. Mi ha fatto piacere conoscerla.» «Anche a me. Stia bene», la salutò Jason. Jessica andò alla sua macchina, salì. Pensava al processo di ricostruzione che sarebbe cominciato nella vita di Frank e Jason Wells, e nelle famiglie di tutte le vittime di Andrew Chase. Mentre accendeva il motore, comprese. Ricordò dove aveva già visto lo stemma, quello che aveva notato per la prima volta nella fotografia di Frank e Jason Wells sulla parete in salotto, lo stemma sulla giacca a vento nera che indossava l'uomo più giovane. Era lo stesso stemma che aveva appena visto sulla toppa cucita sulla manica della divisa di Jason Wells. Tessa aveva fratelli o sorelle? Un fratello, Jason. È molto più grande. Abita a Waynesburg. Il carcere di Greene County era a Waynesburg. Jason Wells faceva l'agente carcerario al SCI Greene. Jessica lanciò un'occhiata alla porta d'ingresso di casa Wells. Jason e il padre erano fermi sulla soglia. Si stavano abbracciando. Jessica prese il cellulare. Sapeva che l'ufficio dello sceriffo della Greene County avrebbe trovato molto interessante la notizia che il fratello maggio-
re di una delle vittime di Andrew Chase lavorava nell'istituto in cui lo stesso Chase era stato trovato morto. Molto interessante davvero. Guardò un'ultima volta casa Wells, col dito pronto a comporre il numero. Frank Wells la guardò coi suoi occhi umidi, decrepiti. Sollevò una mano sottile in un gesto di saluto. Jessica ricambiò. Per la prima volta da quando lo aveva conosciuto, l'espressione sul volto dell'uomo più anziano non era di sofferenza, di apprensione o di tristezza. Era invece un'aria calma, risoluta, caratterizzata da una serenità quasi preternaturale. Jessica capì. Partì, buttò il cellulare nella borsetta, guardò nel retrovisore e vide Frank Wells incorniciato nel vano della porta. Così lo avrebbe sempre ricordato. Per quel breve istante, lei pensò che Frank Wells fosse finalmente in pace. E, se credete a questo genere di cose, lo era anche Tessa. Jessica ci credeva. EPILOGO 31 maggio, ore 11.05 Il Memorial Day portò sulla valle del Delaware un sole implacabile. Il cielo era limpido e azzurro; le auto che affollavano la strada intorno all'Holy Cross Cemetery erano lustre e messe a punto per l'estate. Una forte luce dorata sfavillava dai parabrezza. Gli uomini indossavano polo colorate e pantaloni kaki; i nonni portavano giacca e cravatta. Le donne avevano prendisole con le spalline sottili ed espadrillas dei grandi magazzini JCPenney in un arcobaleno di colori pastello. Jessica s'inginocchiò e mise i fiori sulla tomba di suo fratello Michael. Piantò la bandierina vicino alla lapide. Abbracciò con lo sguardo la distesa del cimitero; vide altre famiglie piantare le loro bandierine. Alcuni tra gli uomini più anziani facevano il saluto militare. Le sedie a rotelle luccicavano, i loro occupanti erano profondamente immersi nei ricordi. Come sempre in quell'occasione, sulla tremolante piana verde, le famiglie di uomini e donne caduti in servizio si ritrovavano e i loro sguardi s'incontravano con comprensione, con dolore condiviso. Di lì a poco, Jessica avrebbe raggiunto il padre alla tomba della madre e
loro due sarebbero tornati alla macchina in silenzio. Era così che si faceva, nella sua famiglia: si piangevano i morti separatamente. Lei si voltò a guardare la strada. Vincent era appoggiato alla Cherokee. Non era bravo a visitare i cimiteri, ma andava bene così. Non avevano ancora risolto tutto, forse non ci sarebbero mai riusciti, però, nelle ultime settimane, lui era sembrato un uomo nuovo. Jessica disse una preghiera tra sé e si avviò tra le lapidi. «Come se la passa?» domandò Vincent. Entrambi guardarono Peter, le spalle larghe ancora possenti, a sessantadue anni. «È una roccia», rispose Jessica. Vincent allungò una mano a prendere dolcemente quella di lei. «E noi, come ce la passiamo?» Jessica guardò il marito. Vide un uomo addolorato e oppresso dal giogo del fallimento: fallimento nell'onorare i voti matrimoniali, nel proteggere la moglie e la figlia. Un pazzo era entrato in casa di Vincent Balzano, aveva minacciato la sua famiglia, e lui non c'era. Quello era un angolo d'inferno tutto speciale, per un poliziotto. «Non lo so. Però sono contenta che tu sia qui», disse. Vincent sorrise, continuò a tenerle la mano. Jessica non la sottrasse. Avevano deciso di andare da un consulente coniugale; la prima seduta era di lì a qualche giorno. Jessica non era pronta a ricominciare a dividere il letto o la vita con Vincent, però quello era un primo passo. Se volevano superare quella tempesta, l'avrebbero fatto. A casa, Sophie aveva raccolto un po' di fiori e li stava metodicamente distribuendo tra le tombe. Dal momento che non era riuscita a mettersi il vestitino di Pasqua giallo limone che avevano comprato proprio nel giorno della festa da Lord & Taylor, sembrava decisa a portarlo ogni domenica e ogni giorno di vacanza finché non fosse stato troppo piccolo. Sperando che quel giorno fosse ancora lontano. Quando Peter cominciò a dirigersi verso l'auto, uno scoiattolo schizzò via da dietro una lapide. Sophie fece un risolino e cominciò a inseguirlo, l'abitino giallo e i riccioli castani splendenti nel sole di primavera. Sembrava di nuovo felice. Forse bastava. Erano passati cinque giorni da quando Kevin Byrne era stato trasferito dal reparto di terapia intensiva dell'Ospedale dell'University of Pennsylva-
nia. Il proiettile sparato quella notte da Chase si era conficcato nel suo lobo occipitale, mancando di poco più di un centimetro il tronco cerebrale. Aveva sopportato oltre dodici ore d'intervento e, da allora, era rimasto in coma. Secondo i medici, i segni vitali erano forti, ma avevano confidato a Jessica che ogni settimana trascorsa riduceva notevolmente le probabilità che lui riprendesse conoscenza. Jessica aveva conosciuto Donna e Colleen Byrne pochi giorni dopo l'incidente. Tra loro stava nascendo un rapporto che, Jessica lo sentiva, poteva diventare duraturo. Nel dolore o nella gioia? Era troppo presto per dirlo. Aveva anche imparato qualche parola nella lingua dei segni. Quel giorno, arrivando in ospedale per la visita quotidiana, Jessica sapeva di avere molto da fare. Per quanto le dispiacesse andar via, era consapevole che la vita sarebbe andata avanti, come doveva fare. Sarebbe rimasta un quarto d'ora. Sedette sulla sedia nella camera piena di fiori di Byrne e si mise a sfogliare una rivista. Per quanto ne sapeva, poteva trattarsi di Field & Stream o di Cosmopolitan. Di tanto in tanto, buttava un occhio su Byrne. Era molto dimagrito; la sua pelle aveva un intenso pallore grigio. I capelli cominciavano appena a ricrescere. Intorno al collo, lui portava il crocifisso d'argento che gli aveva dato Althea Pettigrew. Jessica indossava l'angelo ricevuto da Frank Wells. A quanto pareva, ciascuno aveva il suo talismano contro gli Andrew Chase di questo mondo. C'erano tante cose che lei avrebbe voluto raccontargli: Colleen era stata scelta per pronunciare il discorso in occasione della fine dell'anno scolastico; la morte di Andrew Chase. Avrebbe voluto dirgli che, una settimana prima, era arrivato alla Omicidi un fax dell'FBI: informava che Miguel Duarte, l'uomo che aveva confessato i delitti di Robert e Helen Blanchard, aveva un conto sotto falso nome in una banca del New Jersey. Lo avevano rintracciato grazie a un bonifico telegrafico ricevuto da un conto offshore appartenente a Morris Blanchard. Morris Blanchard aveva pagato a Duarte diecimila dollari perché uccidesse i suoi genitori. Kevin Byrne aveva avuto ragione fin dall'inizio. Jessica tornò alla sua rivista, a un articolo su come e dove i lucci depongono le uova. Forse era davvero Field & Stream. «Ehi», disse Byrne. A Jessica si rizzarono i capelli in testa nell'udire quella voce. Era bassa,
roca e debolissima, ma c'era. Scattò precipitosamente in piedi, si chinò sul letto. «Sono qui. Sono... qui», gli disse. Kevin Byrne aprì gli occhi, li richiuse. Per un orribile istante, Jessica fu certa che non li avrebbe riaperti mai più. Ma, dopo qualche secondo, lui la smentì. «Ho una domanda da farti», le disse. «Okay», replicò lei, col cuore che martellava. «Certo.» «Te l'ho mai detto perché mi chiamano Riff Raff?» «No», rispose lei dolcemente. Non si sarebbe messa a piangere. No e poi no. L'ombra di un sorriso gli sfiorò le labbra screpolate. «È una bella storia, socia», disse. Jessica gli prese la mano tra le sue. Strinse con dolcezza. Socia. RINGRAZIAMENTI Pubblicare un romanzo è davvero un lavoro di squadra, e nessun autore ha mai potuto contare su una panchina più lunga. Grazie al giudice Seamus McCaffery, ai detective Patrick Boyle, Jimmy Williams, Bill Frazier, Michele Kelly, Eddie Rocks, Bo Diaz, al sergente Irma Labrice, a Catherine McBride, a Cass Johnston e agli uomini e alle donne del dipartimento di polizia di Philadelphia. Qualunque errore riguardante le procedure di polizia è da attribuire a me e, se mai dovessi essere arrestato a Philly, spero che tale ammissione conti qualcosa. Grazie anche a Kate Simpson, Jan Klincewitcz, Mike Driscoll, Greg Pastore, JoAnn Greco, Patrick Nestor, Vita DeBellis, al dottor D. John Doyle, a Vernoca Michael, John e Jessica Bruening, David Najfach e Christopher Richards. Un immenso debito di gratitudine mi lega a Meg Ruley, Jane Berkey, Peggy Gordijn, Don Cleary e a tutta la Jane Rotrosen Agency. Un grazie speciale va a Linda Marrow, Gina Centrello, Rachel Kind, Libby McGuire, Kim Hovey, Dana Isaacson, Arielle Zibrak e alla grande squadra della Random House/Ballantine Books. Grazie alla città di Philadelphia per avermi permesso di creare scuole, oltre che gran caos.
Come sempre, grazie alla mia famiglia poiché vive con me la vita dello scrittore. Sulla copertina può esserci il mio nome, ma su ogni singola pagina ci sono la loro pazienza, il loro sostegno e il loro amore. FINE