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ISAAC ASIMOV LE GRANDI STORIE DELLA FANTASCIENZA 6 1944 (Isaac Asimov Presents The Great Science Fiction Stories 6: 1944, 1981) A cura di ISAAC ASIMOV & MARTIN H. GREENBERG Indice Introduzione Laggiù, lontano, al Centauro di A.E. Van Vogt Termine ultimo di Cleve Cartmill Il velo di Astellar di Leigh Brackett Sanità mentale di Fritz Leiber Invarianza di John R. Pierce City di Clifford D. Simak Arena di Fredric Brown La tana di Clifford D. Simak Gentileza di Lester Del Rey Diserzione di Clifford D. Simak Quando il ramoscello si spezza di Lewis Padgett Killdozer! di Theodore Sturgeon E mai più nacque una donna di C.L. Moore Introduzione Nel mondo al di fuori della realtà, sul fronte della guerra, le cose cominciavano a migliorare. Il 22 gennaio gli alleati sbarcarono sulla spiaggia di Anzio, in Italia, iniziando una lunga e sanguinosa campagna, mentre il 27 gennaio gli eroici difensori di Stalingrado furono finalmente liberati dall'assedio tedesco a quella città così a lungo martoriata dalla guerra. Il 4 marzo le armate sovietiche dilagarono in Ucraina, e entro il 19 i russi avevano attraversato in forze il Dniester. Nel frattempo, alle Idi di Marzo, le forze americane lanciavano un massiccio attacco al monastero di Montecassino, destinato a diventare uno dei più famosi campi di battaglia della guerra. Montecassino cadde infine il 18 maggio. Entro il 2 aprile le truppe sovietiche entravano in Crimea; il 21 maggio gli alleati finalmente sfondarono la «linea Hitler» in Italia, e il V Corpo
d'Armata statunitense entrava in Roma il 4 giugno. Quarantott'ore più tardi, nel «giorno più lungo», una colossale forza d'invasione alleata diede inizio allo sbarco sulle spiagge della Normandia... la tanto attesa invasione dell'Europa era cominciata. Entro il 27giugno gli alleati avevano conquistato Cherbourg, completa dei suoi parapioggia. Ma i tedeschi avevano ancora in serbo qualche sgradevole sorpresa, come gli inglesi dovettero scoprire il 13 giugno, il giorno in cui la prima V-1, la «bomba ronzante», cadde su Londra. L '8 settembre sarebbe stata seguita dalla prima V-2. Il 20 luglio, alcuni membri dello Stato Maggiore generale tedesco tentarono di uccidere Hitler con una bomba, ma il tentativo fallì. I cospiratori (e molti altri) pagarono quest'insuccesso con la vita. Tre giorni più tardi le truppe sovietiche cominciarono a entrare in Polonia. In Italia, Firenze fu liberata il 19 agosto, mentre Brest-Litovsk cadde il 28 luglio in mano ai russi, che continuavano ad avanzare senza soste. Il 1° agosto a Varsavia la resistenza polacca si sollevò contro gli occupanti tedeschi, ma fu spietatamente schiacciata molto prima che le forze sovietiche raggiungessero la città. In occidente, Parigi fu liberata il 25 agosto, e il 4 settembre gli alleati conquistarono Anversa, il che diede loro un porto importante per i rifornimenti. Una settimana più tardi, le prime truppe americane attraversarono il confine tedesco vicino a Trier, mentre i russi entravano in Jugoslavia il 29 settembre, e in Ungheria il 23 ottobre. In novembre, il presidente Roosevelt fu rieletto, sconfiggendo Thomas Dewey per 3.500.000 voti, e Edward Stettinius sostituì Cordell Hull come segretario di Stato. L'anno terminò con le armate sovietiche e alleate che stavano chiudendo in una morsa la Germania, la quale tentò un'ultima, disperata mossa: un'offensiva nelle Ardenne che fu conosciuta come la «battaglia del Bulge». Nel Pacifico, le forze statunitensi riconquistarono ai giapponesi l'ultima isola delle Salomone il 15 febbraio, mentre gli inglesi lanciavano un'importante offensiva nell'alta Birmania il 28 dello stesso mese. Saipan cadde nelle mani delle truppe americane il 19 giugno... Il 18 luglio il generale Tojo diede le dimissioni da capo dell'intero complesso bellico giapponese. Il 19 ottobre i primi contingenti statunitensi, guidati dal generale MacArthur, sbarcarono nelle Filippine. Entro la fine dell'anno, le forze americane stavano avanzando costantemente attraverso l'arcipelago delle Filippine, mentre la Birmania settentrionale era stata ripulita di ogni invasore giapponese.
Durante il 1944 Ingrid Bergman vìnse l'Oscar per la sua interpretazione in Gaslight, mentre Sumner Welles pubblicò The Time for Decision. L'Accademia Militare degli Stati Uniti si classificò al primo posto fra le squadre universitarie del football americano. The Glass Menagerie di Tennessee Williams fu presentata a Broadway. Clinton, nel Tennessee, divenne il sito del secondo reattore a uranio. Pensive conquistò, di sorpresa, il derby del Kentucky. Carl Jung pubblicò il suo fondamentale Psycology and Religion, mentre i maggiori successi cinematografici dell'anno erano, tra gli altri, Zola, Henry V (protagonista il grande Laurence Olivier), The White Cliffs of Dover, e Lifeboat di Hitchcock. Il campionato di golf degli Stati Uniti fu nuovamente rinviato a causa della guerra. Per la prima volta il chinino fu sintetizzato con successo. Alberto Moravia pubblicò Agostino. I Green Bay Packers vinsero il campionato americano di football. The Condition of the Man di Lewis Mumford ebbe gran successo, come pure The Razor's Edge di Somerset Maugham. Il sergente Frank Parker vinse il campionato di tennis degli Stati Uniti, e Pauline Betz fu la campionessa femminile. Sutherland dipinse «Cristo sulla croce». T.S. Eliot pubblicò Four Quartets e Joe Louis rimase più saldamente che mai sul trono mondiale dei pesi massimi. Fu eseguito il secondo Concerto per Violino di Bela Bartok, come pure l'Ottava Sinfonia di Dimitri Shostakovich. Marty Marion dei St. Louis Cardinals e Hal Newhouser dei Detroit Tigers furono i migliori giocatori rispettivamente della Lega Nazionale e di quella Americana. Bing Crosby vinse l'Oscar per la sua interpretazione di Going My Way, che si prese anche quello per il miglior film. St. Louis impazzì quando i Cardinals sconfissero i Browns, della parte opposta della città, col punteggio di quattro a due, guadagnando così l'accesso alla prima serie. Fu eseguita Herodias, la nuova opera di Paul Hindemith. Il record mondiale ufficioso del miglio fu stabilito, in 4 ' 02" 6, dallo svedese Arne Andersson, che però aveva già al suo attivo un 4' 01" 6... Il comitato internazionale di omologazione non aveva ancora potuto riunirsi a causa della seconda guerra mondiale. La morte portò via Wendell Willkie e Lucien Pissarro. Mel Brooks si chiamava ancora Melvin Kaminsky. Nel mondo reale fu un altro anno ottimo, malgrado le preoccupazioni della guerra e la morte di Captain Future in primavera. Stavano accadendo cose strabilianti: Olaf Stapledon pubblicò Sirius.
Apparvero Renaissance di Raymond F. Jones e The Riddle of the Tower di J.D. Beresford e Esme Wynne-Tyson, come pure World's Beginning di Robert Andrey, che più tardi avrebbe raggiunto la fama in altro campo. Furono proiettati The Lady and the Monster, una delle molte versioni cinematografiche del Cervello Mostro di Curt Siodmak. E un marinaio australiano, A. Bertram Chandler, fece il suo viaggio inaugurale nella realtà in maggio con This Means War. Ma si udiva un lontano frullo d'ali poiché nascevano P.J. Plauger, James Sallis, Bruce Pennington, Stanley Schmidt, George Lucas, Katherine Kurtz, Vernon Vinge, Jack Chalker, David Gerrold, Peter Weston e Vance Aandhal. Ritorniamo a quell'onorato anno 1944 e godiamoci i migliori racconti lasciatici dal mondo reale. Laggiù, lontano, al Centauro Far Centaurus di A.E. Van Vogt Astounding, gennaio Il 1943 fu un anno fecondo per A.E. Van Vogt, un anno che lo vide pubblicare una dozzina o più di ottimi racconti, e anche «The Weapon Makers» (I fabbricanti d'armi), comperso a puntate su Astounding. Il 1944 non fu altrettanto fecondo per lui, anche se cominciò con quello che molti giudicano il suo miglior racconto degli anni di guerra, «Far Centaurus» (Laggiù, lontano, al Centauro). Il tema dei viaggi spaziali della durata di secoli era stato tenuto a battesimo da Robert Heinlein (e forse anche da altri prima di lui) ma il modo in cui Van Vogt sviluppò questo tema fu magnifico. Come Sam Moskowitz ha fatto notare, il 1944 fu anche un anno importante per Van Vogt a livello personale, poiché fu quello l'anno in cui si trasferì in California dove prese a interessarsi a cose che avrebbero finito con l'allontanarlo dalla SF per molti anni. (Gli «interessi» ai quali Marty si riferisce compresero, fra le altre cose, la «dianetica», che distava ancora una mezza dozzina d'anni nel futuro, ma che avrebbe avuto, sulla fantascienza, effetti devastanti. (E sono sicuro
che ci sarà dell'altro da dire sull'argomento nei prossimi volumi). La perdita più triste che possiamo imputare alla dianetica fu, appunto, Van Vogt. Dopo Robert Heinlein, Van Vogt era il più brillante luminare dell'età d'oro, ma mentre Heinlein e molti altri continuarono a splendere fino ai giorni nostri, Van Vogt si dedicò alla dianetica, e continuò ad aderirvi anche dopo che lo stesso John Campbell l'ebbe abbandonata, e come primo, concreto risultato, Van Vogt rinunciò a scrivere fantascienza e si eclissò per molti anni. Che peccato! I.A.) Mi svegliai con un sussulto e pensai: Come la sta prendendo Renfrew? Dovevo essermi mosso fisicamente, poiché il buio mi strinse in una morsa trasudante dolore. Non ho alcun modo di sapere per quanto tempo giacqui in quello straziante deliquio. La prima cosa di cui fui conscio, poi, fu l'energica spinta dei motori dell'astronave. Questa volta ripresi conoscenza lentamente. Giacqui tranquillo, sentendo il peso di tutti quegli anni di sonno, ben deciso a seguire la routine prescritta tanto tempo prima da Pelham. Non volevo perdere i sensi un'altra volta. Giacqui là, e pensai: Che stupidaggine era questa, preoccuparsi per Jim Renfrew? Non doveva uscire dal suo stato di animazione sospesa per altri cinquant'anni. Cominciai a fissare il quadrante luminoso dell'orologio incassato sul soffitto. Aveva segnato, al mio risveglio, le 23 e 12; adesso erano le 23 e 22. I dieci minuti che Pelham aveva suggerito come intervallo ottimale fra la passività e i primi movimenti, erano trascorsi. Protesi, lentamente, la mano verso il bordo del giaciglio. Clic! Le mie dita schiacciarono il pulsante che vi si trovava. Vi fu un lieve ronzio, e il massaggiatore automatico cominciò a lavorare con delicatezza sul mio corpo nudo. Cominciò sfregandomi le braccia; poi agì sulle gambe, e via via sul resto del corpo. Man mano che procedeva, sentivo la delicata untuosità dell'olio, che stillava da esso, penetrarmi nella pelle. Fui sul punto di urlare almeno una dozzina di volte, per il dolore che mi provocava questo ritorno alla vita. Ma entro un'ora fui in grado di rizzarmi a sedere e accendere le luci. La piccola cabina spoglia, fin troppo familiare, richiamò la mia attenzione per poco più di un istante. Mi alzai in piedi. Il movimento doveva essere stato troppo rapido. Barcollai, mi afferrai al sostegno metallico della cuccetta, e vomitai del succo gastrico scolorito.
La nausea passò. Ma mi occorse uno sforzo di volontà per raggiungere la porta, aprirla e avviarmi lungo lo stretto corridoio che portava alla cabina di comando. Laggiù non avrei dovuto far molto, un attimo soltanto, ma una sorta di spasimo affascinante e tremendo mi afferrò, e mi costrinse a farlo: mi chinai sopra il seggiolino del pilota e diedi un'occhiata al cronometro. Indicava: 53 anni, 7 mesi, 2 settimane, 0 giorni, 0 ore, 27 minuti. Cinquantatré anni! Torpidamente, quasi senza accorgermene, il mio pensiero formulò: Sulla Terra, la gente che avevamo conosciuto, i giovanotti con cui avevamo frequentato l'università, quella ragazza che mi aveva baciato alla festa organizzata la notte della nostra partenza... erano tutti morti. O stavano morendo di vecchiaia. Ricordavo molto chiaramente la ragazza: era graziosa, vivace, ma una perfetta estranea, per me. Aveva riso, porgendomi le sue labbra rosse, e aveva detto: «Un bacio anche per il brutto della compagnia». A quest'ora doveva esser nonna. O nella tomba. Gli occhi mi si riempirono di lacrime. Le sfregai via e cominciai a scaldare il barattolo di liquido concentrato che doveva essere il mio primo cibo. Gradualmente, i miei pensieri si fecero meno angosciati. Cinquantatrè anni, sette mesi e mezzo, pensai, cupo. Quasi quattro anni in più di quanti me ne erano stati concessi. Avrei dovuto far qualche calcolo, prima di prendere un'altra dose di Droga dell'Eternità. Venti grammi erano stati calcolati per conservare in vita la mia carne per cinquant'anni esatti. Ma, ovviamente, quella roba era più potente di quanto Pelham fosse stato in grado di valutare dai test sperimentali a breve termine che aveva fatto. Mi sedetti, il corpo teso, gli occhi semichiusi, riflettendo a ciò. All'improvviso mi resi conto di ciò che stavo facendo. E una risata scaturì dalle mie labbra, rompendo il silenzio come una serie di pistolettate, facendomi trasalire. Ma allo stesso tempo, mi rianimò. Cos'avevo intenzione di far lì? Di mettermi a criticare? Un errore di soli quattro anni equivaleva a un centro perfetto, in un arco di tanti anni. Diamine, ero vivo, e giovane ancora. Il tempo e lo spazio erano stati conquistati. L'universo apparteneva all'uomo. Trangugiai la mia «minestra», assaporando ogni cucchiaiata. Feci in
modo che riempisse ogni istante dei trenta minuti previsti. Poi, ristorato e in forze, tornai alla cabina di comando. Questa volta sostai a lungo scrutando gli schermi visivi. Non mi ci volle molto per localizzare Sol, una stella vivida al centro dello schermo di poppa. Mi ci volle più tempo per localizzare Alpha Centauri, ma alla fine riconobbi il suo brillio, un puntino baluginante in quell'oscurità punteggiata di faville luminose. Non persi tempo a tentar di valutare le rispettive distanze. Sembravano a posto. In cinquantaquattro anni avevamo percorso più o meno un decimo dei quattro anni-luce e un terzo che ci separavano dal ben noto sistema solare a noi vicino. Soddisfatto, ritornai negli alloggi. Eccoli qui in bell'ordine, pensai. Pelham per primo. Quando aprii la porta a tenuta stagna della cabina di Pelham, un nauseante odore di carne in putrefazione m'investì le narici. Rantolando, chiusi la porta con un tonfo, e restai, tremante, lì nel corridoio. Il tempo scivolò via, ma la realtà rimase. Pelham era morto. Mi è impossibile ricordare chiaramente cosa feci poi. So che mi precipitai di corsa. Aprii con violenza la porta di Renfrew, poi quella di Blake. L'odore piacevole, pulito, delle loro stanze, la vista dei loro corpi silenziosi sulle cuccette, mi calmò alquanto, e ripresi il controllo di me stesso. Mi sentii profondamente triste. Povero, coraggioso Pelham. L'inventore della Droga dell'Eternità che aveva fatto il più gran tuffo concepibile nello spazio interstellare, ora giaceva morto a causa della sua stessa invenzione. Cos'aveva detto? «Le probabilità che qualcuno di noi muoia sono molto scarse. Ma c'è quello che io chiamo un "fattore mortale" che ammonta a circa il dieci per cento, come effetto collaterale della prima dose di droga. Se i nostri corpi sopravviveranno a questo primo shock, allora assorbiranno senza rischi le dosi successive». Ma il «fattore mortale» doveva essere più grande del dieci per cento. Quei quattro anni in più in cui la droga mi aveva tenuto addormentato... Pieno d'amarezza, andai nella stiva dove prelevai una tela cerata e la mia tuta spaziale. Ma anche così, fu una faccenda orribile. La droga aveva conservato il corpo entro un certo limite, ma c'erano dei pezzi che continuavano a staccarsi mentre lo maneggiavo. Finalmente, riuscii a trasportare la tela cerata e il suo contenuto fino alla camera d'equilibrio, e li sospinsi nello spazio.
Ora, mi sentii incalzato dal tempo. Quei periodi di veglia dovevano esser brevi; ci era consentito consumare, in quegli intervalli di attività, soltanto l'«ossigeno libero» nei corridoi e nelle cabine; quello delle riserve principali era intoccabile. Speciali sostanze chimiche in ogni locale rigeneravano lentamente l'aria «libera» nel corso degli anni, cosicché chi si sarebbe svegliato la volta successiva l'avrebbe trovata fresca e pura. Per una sorta di strana difesa psicologica, avevamo trascurato di prendere in considerazione un'emergenza quale la morte di uno di noi; quando scivolai fuori dalla tuta spaziale, sentii la differenza nell'aria che respiravo. Per prima cosa, andai alla radio. Si era calcolato che mezzo anno-luce era il limite estremo di ricezione delle onde radio, e ormai eravamo vicini a quel limite. In fretta, ma con precisione, stilai il rapporto, poi lo registrai su disco. Infine inserii il disco nel trasmettitore e lo avviai, regolando il dispositivo perché l'operazione fosse ripetuta cento volte. Fra poco più di cinque mesi, i giornali avrebbero sbandierato enormi titoli sulla Terra. Trascrissi il mio rapporto nel giornale di bordo della nave, e vi aggiunsi un appunto per Renfrew. Era un breve tributo a Pelham. Le mie lodi venivano dal cuore, ma c'era un'altra ragione per quella mia piccola aggiunta. Erano stati grandi amici, Renfrew, il genio dell'ingegneria che aveva costruito la nave, e Pelham, il superlativo dottore in chimica, la cui Droga dell'Eternità aveva reso possibile all'uomo intraprendere quel fantastico viaggio nelle immensità dello spazio. Mi pareva che Renfrew, svegliandosi in mezzo al profondo silenzio della nave sfrecciante nel vuoto, avrebbe avuto bisogno di quel mio tributo al suo amico e compagno. E farlo non costava molto, a me, che ero amico di entrambi. Scritto l'appunto, controllai i motori pulsanti, annotai i dati di numerosi strumenti, poi contai cinquantacinque grani della Droga dell'Eternità. Era la dose, il più possibile precisa, per altri centocinquant'anni di sonno. Per un lungo attimo, prima di sprofondare nel letargo, pensai a Renfrew e al terribile shock che lo aspettava, oltre a tutte le altre reazioni giustificate dall'eccezionale situazione in cui ci trovavamo, e che avrebbe colpito così a fondo la sua natura fin troppo sensibile... Mi agitai inquieto, a quella prospettiva. Ancora mi stavo preoccupando, quando sprofondai nell'oscurità. Quasi nel medesimo istante riaprii gli occhi. Giacqui immobile, con un vivido pensiero: la droga! Non aveva funzionato.
Ma la spossatezza che impregnava il mio corpo mi rivelò la verità. Restai disteso, senza batter ciglio, fissando l'orologio sopra la mia testa. Questa volta mi fu più facile seguire le varie fasi della rianimazione ma, anche questa volta, non riuscii a impedirmi di controllare il cronometro, quando mi diressi alla cambusa. Indicava: 201 anni, 1 mese, 3 settimane, 5 giorni, 7 ore, 8 minuti. Sorseggiai il mio brodo superconcentrato, poi ansiosamente mi diressi al giornale di bordo, per consultarlo. Mi è del tutto impossibile descrivere il brivido di eccitazione che mi percorse quando vidi la familiare calligrafia di Blake, e poi, non appena ebbi iniziato a sfogliarlo all'incontrario, quella di Renfrew. La mia eccitazione, però, lentamente svanì man mano leggevo ciò che Renfrew aveva scritto: un rapporto, niente più, dati gravitometrici, un calcolo accurato della distanza percorsa, una dettagliata relazione sul funzionamento dei motori e, alla fine, una stima delle variazioni della nostra velocità, basate su sette differenti fattori. Era uno splendido lavoro matematico, un'analisi scientifica di prim'ordine. Ma non c'era altro. Nessun accenno a Pelham, non una sola parola di commento su ciò che avevo scritto e su ciò che era accaduto. Sì, Renfrew si era svegliato, e se il suo rapporto costituiva la base d'un preciso giudizio, allora avrebbe potuto benissimo trattarsi di un robot. Ma io sapevo che non era così. E, come mi accorsi non appena cominciai a leggere il rapporto di Blake, anche lui lo sapeva. Bill, STRAPPA QUESTO FOGLIO NON APPENA L'AVRAI LETTO! Be', il peggio è accaduto. La sorte non avrebbe potuto darci un peggior calcio nel sedere. Odio pensare a Pelham morto. Che uomo, era, che amico! Ma sapevamo tutti il rischio che avremmo corso, e lui più di chiunque altro. Così, tutto ciò che possiamo dirgli, è: «Dormi bene, carissimo amico. Non ci dimenticheremo mai di te». Ma il caso di Renfrew è assai più grave, adesso. Eravamo già preoccupati per lui. Ci chiedevamo come avrebbe affrontato il suo primo risveglio, e questo anche senza quella sorta di pistolettata al cuore che è la morte di Pelham. E ritengo che già la nostra preoc-
cupazione iniziale fosse giustificata. Come tu ed io abbiamo sempre saputo, Renfrew era uno di quei ragazzi che, sulla Terra, vengon detti «nati con la camicia». Quanti sono, quelli che, come lui, possono vantare un bell'aspetto, denaro e intelligenza, tutt'insieme? Il suo peggiore sbaglio è stato quello di non essersi mai preoccupato del futuro. Con quella sua personalità affascinante, le donne sempre in adorazione, gli uomini pronti a farsi in quattro per lui, gli è rimasto ben poco tempo di preoccuparsi di qualcosa che non fosse l'immediato presente. Quando la realtà lo ha colpito, è stato come la folgore. Lui ha lasciato quelle sue tre ex mogli, e se vuoi il mio parere non erano poi tanto ex, senza rendersi conto che era per sempre. Quella festa d'addio era in grado di far cadere chiunque in una sorta di torpore mentale... e quando si è trattato di affrontare la realtà, svegliandosi cent'anni dopo e rendendosi conto che tutti quelli che lui aveva amato erano avvizziti, morti e divorati dai vermi... be', t'immagini? (Ho deliberatamente esposto le cose in questo modo, perché la mente, per quanto tu cerchi di censurare il discorso, riesce a giungere al punto da qualunque angolatura, per quanto strana e orribile). Sinceramente, contavo molto su Pelham perché agisse come una specie di sostegno psicologico per Renfrew; e sapevamo entrambi che Pelham aveva capito l'importanza della propria influenza su di lui. Quell'influenza dev'essere sostituita. Cerca di trovar qualcosa, Bill, intanto che stai svolgendo le tue attività di routine. Noi dovremo vivere con quel ragazzo, quando ci saremo svegliati tutti e tre alla fine dei cinquecento anni. Strappa questo foglio. Ciò che segue sono le solite faccende tecniche. Ned Bruciai il messaggio nell'inceneritore, esaminai i due corpi addormentati — com'erano immobili, mortalmente inerti! — poi tornai nella cabina di comando. Il Sole, nello schermo di poppa, era ancora una stella assai luminosa, un vivido gioiello incastonato nel velluto nero, uno stupendo, fulgido brillante. Ma Alpha Centauri era ancor più luminosa. Risplendeva sullo sfondo
nero, nello spolverio delle altre stelle. Era ancora impossibile distinguere i soli separati di Alpha Centauri A, B, C e Proxima, ma il loro fulgore unito dava una sensazione di maestosità e reverenza. Un'intensa eccitazione mi afferrò tutto, e fui conscio della gloria di questo viaggio che mi aveva tra i protagonisti, con i miei compagni, i primi uomini diretti alla lontana Centauro... i primi uomini che avevano osato aspirare alle stelle. Perfino il pensiero della Terra, così lontana nello spazio e nel tempo, non riuscì a smorzare la marea di crescente meraviglia, non il pensiero che sette, forse otto generazioni erano nate laggiù dal giorno della nostra partenza, e che la ragazza di cui avevo assaporato le rosse labbra era forse ricordata, oggi, dai suoi discendenti, come la bis-bis-bis-bisnonna... se pure la ricordavano. Quell'enorme abisso di tempo, tutto ciò che implicava, finivano per essere troppo privi di significato per suscitare emozioni. Feci il mio lavoro, presi la terza dose di droga, e tornai a distendermi sulla cuccetta. Il sonno mi afferrò prima che avessi elaborato un qualche piano per Renfrew. Quando mi svegliai, dovunque squillavano i campanelli d'allarme. Giacqui immobile. Non c'era altro da fare. Se mi fossi mosso, sarei caduto in deliquio. Anche se era un'autentica tortura mentale, mi resi conto che, qualunque fosse la natura del pericolo, il modo più rapido per essere in grado d'intervenire era seguire, attimo per attimo, la routine, rispettando ogni particolare. In qualche modo ci riuscii. Il suono dei campanelli passò da uno squillo a un assordante ronzio, ma io continuai a restare disteso finché non giunse il momento di alzarsi. Il fracasso era orrendo, quando passai attraverso la cabina di comando. Ma l'attraversai senza fermarmi e rimasi seduto per mezz'ora a sorseggiare il mio brodo superconcentrato. Mi convinsi che, se quel frastuono fosse continuato ancora per un po', Blake e Renfrew si sarebbero certamente svegliati dal loro sonno. Finalmente, fui libero di occuparmi dell'emergenza. Respirando affannosamente, presi posto sul seggiolino nella cabina di comando, interruppi quei campanelli d'allarme spaccatimpani, e accesi gli schermi. Un fuoco arse verso di me dallo schermo poppiero. Un colossale fuoco bianco, più lungo che largo, e riempiva quasi un quarto del cielo. Mi balenò il terrificante pensiero che dovevamo trovarci a poche miglia da qualche mostruoso sole appena esploso in quella porzione di spazio.
Freneticamente, azionai i misuratori di distanza... e per un attimo fissai, totalmente incredulo, le risposte che comparivano, ticchettando, sul video. Sette miglia! Soltanto sette miglia! La mente umana è davvero qualcosa di bizzarro. Un attimo prima, quando avevo pensato a quell'eruzione di fuoco come a una stella anomala, mi era apparsa come un'unica, indefinita massa incandescente. Ora, d'improvviso, mi accorsi che aveva un profilo solido, un'inequivocabile, precisa forma. Sbigottito, balzai in piedi perché... Era una nave spaziale! Una nave enorme, lunga un miglio. O piuttosto — ricaddi sul seggiolino, soggiogato dalla catastrofe di cui ero testimone, cercando di non farmi travolgere da ciò che vedevo — l'inferno fiammeggiante di quella che era stata un'astronave. Niente che fosse stato vivo poteva ancora esser cosciente in quell'orrore infuocato. L'unica possibilità era che l'equipaggio fosse riuscito a lanciarsi in una scialuppa di salvataggio. Freneticamente, scrutai il firmamento alla ricerca di una luce, di un riflesso metallico, che indicasse la presenza di sopravvissuti. Non c'era nulla. Solo la notte e le stelle e l'inferno della nave in fiamme. Dopo lunghi istanti, notai che era più distante e pareva allontanarsi. Qualunque forza propulsiva avesse uguagliato la sua velocità alla nostra, doveva ora cedere alla furia delle energie che la stavano consumando. Cominciai a scattare fotografie, e mi sentii giustificato ad aprire le riserve di ossigeno. Mentre rimpiccioliva in distanza, quello scafo in miniatura che era stato una nave spaziale a forma di torpedine cominciò a cambiar colore, a perdere la sua bianca, accecante intensità. Divenne una sagoma rosso-fuoco contro un fondale di tenebra. L'ultimo sguardo che potei lanciarle me la mostrò come uno smorto bagliore che sembrava niente più di una nebulosità color ciliegia vista di taglio, come un incendio riflesso da oltre un orizzonte notturno. Fra un'osservazione e l'altra, dovevo pur sempre continuare a fare tutto ciò che era richiesto da me; ora ricollegai il sistema di allarme e molto a malincuore, con la mente che ribolliva di congetture, tornai al mio giaciglio. Mentre giacevo lì in attesa che la dose di droga per l'ultimo tratto del viaggio facesse effetto, pensai: Il grande sistema di Alpha Centauri deve possedere pianeti abitati. Se i miei calcoli erano esatti, ci trovavamo ad appena 1,6 anni-luce dal gruppo principale di soli di Alpha, e un po' più vicini alla rossa Proxima. Qui, c'era la prova che l'universo ospitava almeno un'altra razza dotata
d'intelligenza. Erano dunque in serbo per noi meraviglie che superavano le nostre più eccitanti aspettative. Una serie di brividi anticipatori mi percorse. Fu solo all'ultimo istante, quando ormai il sonno invadeva il mio cervello, che mi resi conto all'improvviso di essermi totalmente dimenticato del problema di Renfrew. Ma non provai alcuna sensazione di allarme, perfino Renfrew avrebbe riacquistato il suo equilibrio, pronto ad agire nel modo migliore, quando si fosse trovato davanti a una complessa civiltà aliena. I nostri guai erano finiti. L'eccitazione doveva aver attraversato intatta quegli ultimi centocinquant'anni, poiché il mio primo pensiero, quando mi svegliai, fu: «Siamo arrivati! È finita la lunga notte, l'incredibile viaggio è concluso. Ci sveglieremo tutti e tre insieme, c'incontreremo di nuovo, e incontreremo anche quella civiltà là fuori. E potremo contemplare da vicino i grandi soli del Centauro!» La cosa strana che mi colpì, mentre giacevo lì esultante, fu che il tempo trascorso mi pareva lungo. Eppure... eppure ero stato sveglio soltanto tre volte, e solo una volta per l'equivalente di un'intera giornata. E nel vero senso della parola, avevo visto Blake e Renfrew — e Pelham — non più di un giorno e mezzo fa. Avevo avuto soltanto trentasei ore di consapevolezza da quando un paio di morbide labbra avevano premuto le mie, per il bacio più dolce della mia vita. Allora, perché questa sensazione che fossero trascorsi millenni, in una angosciosa successione di lentissimi istanti? Perché quest'arcana, vuota consapevolezza d'un viaggio attraverso un'insondabile, interminabile notte? La mente umana si lasciava ingannare così facilmente? Alla fine, ebbi la piena coscienza che io ero stato vivo per tutti quei cinquecento anni, che tutti i miei organi, tutte le mie cellule, erano esistiti, e non era neppure impossibile che certe parti del mio cervello fossero rimaste orribilmente coscienti durante quell'intero, inimmaginabile periodo. E c'era, ovviamente, l'ulteriore fatto psicologico che io ben sapevo, ora, che quei cinquecento anni erano realmente passati, e... Mi resi conto, con un sussulto, che i dieci minuti d'immobilità erano passati. Con cautela, attivai il massaggiatore. Quelle mani imbottite, delicate, lavoravano su di me già da quindici mi-
nuti, quando la porta della mia cabina si aprì, la luce si accese, e lì sulla soglia comparve Blake. Il movimento troppo brusco di girare la testa per guardarlo mi procurò un senso di vertigine. Chiusi gli occhi, e lo udii attraversare la cabina verso di me. Un minuto dopo fui in grado di guardarlo senza vedere macchie confuse. Vidi allora che portava una scodella di brodo concentrato. Restò lì a fissarmi con un'espressione stranamente cupa sul viso. Infine, il suo volto lungo e sottile si distese in un pallido sorriso. «Cialo, Bill», disse. «Ssshh!» aggiunse subito. «Adesso non cercare di parlare. T'imboccherò questa minestra mentre te ne stai ancora disteso. Prima potrai alzarti, tanto più sarò soddisfatto». Era di nuovo cupo in volto, quando concluse, quasi parlando tra sé: «Sono in piedi da due settimane». Si sedette sull'orlo della cuccetta e mi porse una cucchiaiata di brodo. Poi vi fu silenzio, salvo per il fruscio del massaggiatore. Lentamente, l'energia scorse nuovamente attraverso i muscoli del mio corpo, e ad ogni istante che passava divenni sempre più conscio dell'aria tetra di Blake. «E Renfrew?» riuscii infine a chiedere, con voce roca. «È sveglio?» Blake esitò, poi annuì. Si accigliò, mentre si oscurava ancora di più; disse, semplicemente: «È pazzo, Bill. Completamente pazzo. Ho dovuto legarlo. Ora l'ho portato nella sua cabina. È più calmo, ma all'inizio era pazzo furioso». «Ma non sei pazzo tu, per caso?» bisbigliai, alla fine. «Renfrew non è mai stato sensibile a tal punto. Depresso e malato, sì. Ma il solo fluire del tempo e l'improvvisa consapevolezza che tutti i suoi amici sono morti, non possono averlo fatto impazzire». Blake stava scuotendo la testa. «Non è soltanto questo, Bill...» Fece una pausa, poi: «Bill, devi preparare la tua mente alla più forte scossa che abbia mai provato». Alzai gli occhi su di lui, con una sensazione di vuoto dentro di me. «Cosa vuoi dire?» Blake proseguì con una smorfia: «So che ce la farai a sopportarla. Perciò non spaventarti. Tu ed io, Bill, siamo due individui un po' ottusi. Siamo qui perché abbiamo frequentato l'università con Renfrew e Pelham. In fondo, per persone poco sensibili come noi non avrebbe granché importanza atterrare un milione di anni prima di Cristo, oppure dopo. Ci guarderemmo intorno, e diremmo: "Toh, guarda un po' chi c'è?" oppure "Chi era quello pterodattilo con cui ti ho visto ieri sera?" e tu risponderesti: "Non era uno
pterodattilo, ma quella zuccona della moglie di Unthahorsten!"» Bisbigliai: «Vai al punto, Blake. Cosa c'è?» Blake si alzò in piedi. «Bill, dopo aver letto i tuoi rapporti e aver visto le fotografie di quella nave in fiamme, m'è venuta un'idea. Due settimane fa i soli di Alpha erano piuttosto vicini, a soli sei mesi di viaggio con la nostra velocità media di cinquecento miglia al secondo. Ho pensato tra me: "Vediamo se ora riesco a sintonizzarmi con qualcuna delle loro stazioni radio". «Be'» proseguì, con un sorriso sforzato, «ne ho captate un centinaio in pochi minuti. Arrivavano su tutte le lunghezze d'onda, riempivano ogni banda, limpide come il cristallo». Fece una pausa; mi guardò, e mi sorrise, ancora più smorto. «Bill», gemette, «siamo i più grandi idioti della creazione. Quando ho detto la verità, a Renfrew, si è afflosciato su se stesso come un pupazzo di neve al sole». Ancora una volta fece una pausa; ma il silenzio fu troppo per i miei nervi tesi. «In nome del cielo, amico...» cominciai. Poi m'interruppi. E restai lì disteso, immobile. E infine, un lampo di comprensione mi balenò in mente. Il sangue mi rimbombò alle tempie. Alla fine, con un filo di voce, dissi: «Vuoi dire...» Blake annuì. «Già», disse. «È così. E ci hanno già individuati coi loro raggi-spia e gli schermi d'energia. Una nave ci sta venendo incontro». E concluse, cupo: «Spero soltanto che possano far qualcosa per Jim». Un'ora più tardi ero seduto al quadro dei comandi quando vidi un luccichio nel buio. Vi fu un brillio argenteo, che esplose assumendo forma e dimensioni. Un istante dopo un'enorme nave spaziale uguagliò la nostra velocità a meno di un miglio di distanza. Blake ed io ci guardammo. «Non hanno detto», feci, con voce incerta, «che quella nave ha lasciato il suo hangar dieci minuti or sono?» Blake annuì. «Possono fare il viaggio dalla Terra al Centauro in tre ore», spiegò. Questo non me l'aveva ancora detto. Qualcosa accadde dentro il mio cervello. «Cosa?» urlai. «Diavolo, noi abbiamo impiegato cinquecento...» M'interruppi; restai seduto lì, come inebetito. «Tre ore...» bisbigliai. «Come abbiamo potuto dimenticare il progresso umano?» Nel silenzio che seguì, vedemmo un buco nero spalancarsi in quell'immensa parete che ci stava davanti. Dirigemmo la nostra nave in quella caverna. Lo schermo poppiero ci mostrò l'ingresso della caverna che si stava
chiudendo. Davanti a noi balenarono delle luci che si concentrarono su una porta. Mentre facevo adagiare la nostra nave sul pavimento metallico, un volto comparve sul nostro videocomunicatore. «Cassellahat!» mi bisbigliò Blake all'orecchio. «L'unico che, finora, mi abbia parlato direttamente». Colui che ci stava guardando aveva un aspetto distinto, da studioso. Cassellahat sorrise, e disse: «Potete lasciare la vostra nave e uscire attraverso la porta che vedete davanti a voi». Mentre uscivamo con cautela nell'immensa camera, ebbi la sensazione del grande spazio vuoto che ci circondava. Ricordai a me stesso che gli hangar delle grandi navi interstellari dovevano esser fatti così. Ma questo mi dava una vaga sensazione aliena che... I miei nervi! Pensai, brusco. Ma mi avvidi che anche Blake lo sentiva. Ambedue, in completo silenzio, superammo la porta e, percorso un corridoio, entrammo in una stanza grande e lussuosa. Una stanza in cui soltanto un re o un'attrice sul set avrebbero potuto entrare senza batter ciglio. Alle pareti erano appesi splendidi arazzi, o almeno per un attimo mi parve che lo fossero; poi vidi che non erano arazzi. Erano... non riuscii a stabilirlo. Avevo visto arredamenti costosi in alcuni degli alloggi di Renfrew... Ma quei divani, tavoli, poltrone irradiavano un'incredibile gamma di colori come se fossero fatti di luce... Ma no, mi sbagliavo, non era luce. Era... Ancora una volta non riuscii a deciderlo. Non ebbi tempo per un esame più approfondito poiché un uomo abbigliato in modo assai simile al nostro si alzò da una delle sedie. Riconobbi Cassellahat. Venne avanti, sorridendo. Poi rallentò, arricciando il naso. Un attimo dopo, ci strinse in fretta le mani, poi arretrò fino a una sedia a quattro metri o più da noi, e si sedette, teso e sussiegoso. Un comportamento sorprendentemente scortese. Ma fui lieto che si fosse allontanato così tanto da noi, poiché, quando mi aveva stretto la mano così in fretta, avevo percepito una zaffata di profumo che emanava da lui. Un odore vagamente spiacevole, e poi... un uomo che usava profumo in quantità! Rabbrividii. A quali frivole sciocchezze si era ridotta la razza umana? Ci stava facendo cenno di sederci. Presi posto, mentre mi chiedevo: Tutto qui, il nostro comitato di ricevimento? L'uomo, il nostro primo e finora
unico contatto radio, cominciò: «Per ciò che riguarda il vostro amico, devo mettervi in guardia. È il tipo schizoide; i nostri psicologi potranno ottenere un miglioramento solo temporaneo. Una cura permanente richiederà un periodo più lungo, e tutta la vostra collaborazione. Assecondate tutte le iniziative del signor Renfrew a meno che, naturalmente, non prendano una piega pericolosa. «Ma ora...» ci rivolse un sorriso, «... permettetemi di darvi il benvenuto sui quattro pianeti del Centauro. È un grande momento per me, personalmente. Sin dalla prima infanzia sono stato addestrato all'unico scopo di essere il vostro mentore e guida, e sono entusiasta e felice che sia giunto il momento in cui i miei lunghi studi della lingua e dei costumi medioevali americani possano esser messi in pratica, come previsto». Ma in verità non sembrava travolto dalla gioia. Arricciava curiosamente il naso, come avevo già notato, e tutto in lui dava un'impressione di sofferenza. Ma erano state le sue ultime parole a scuotermi più d'ogni altra cosa. «Cosa intende dire», chiesi, «quando dice di aver studiato la "lingua americana"? La gente non parla più la lingua universale?» «Ma sì...» sorrise, «sì, ma la lingua si è evoluta a un punto tale che — sarò sincero con voi — avreste difficoltà a capire anche una semplice parola come "yeih"». «Yeih?» gli fece eco Blake. «Significa "yes", cioè "si"». «Oh!» Restammo seduti, in silenzio. Blake si masticava il labbro inferiore. E infine fu lui che riprese a parlare: «Che razza di posti sono, i pianeti del Centauro? Lei mi ha detto qualcosa, alla radio, sul fatto che la gente... i centri abitati sono tornati alla struttura delle città». «Sarò felice», disse Cassellahat, «di mostrarvi tutte le grandi città che vorrete. Siete nostri ospiti, e molti milioni di crediti sono stati depositati su due conti separati, perché possiate usarli come più vi piace». «Accidenti!» esclamò Blake. «Devo tuttavia avvertirvi», riprese Cassellahat. «È importante che voi non deludiate la nostra gente su voi stessi. Perciò non dovrete mai girare per le strade, o mescolarvi alla folla in nessun modo. I vostri contatti dovranno sempre avvenire tramite la radio, i cinegiornali, o dall'interno di un veicolo chiuso. Se avevate l'intenzione di sposarvi, dovrete rinunciare in maniera definitiva all'idea». «Non capisco», esclamò Blake, perplesso, e parlava per entrambi.
Cassellahat concluse, con fermezza: «È importante che nessuno si accorga che avete un odore fisico nauseabondo. Potrebbe danneggiare gravemente i vostri progetti finanziari». Si alzò in piedi. «E ora... per il momento debbo lasciarvi. Spero non vi dispiacerà se in futuro, in vostra presenza, indosserò una maschera. Vi faccio molti auguri, signori, e...» Si alzò, accennò con lo sguardo dietro di noi e disse: «Ah, ecco il vostro amico». Mi girai di scatto, lo fece anche Blake, e fissammo... «Ciao, gente», esclamò Renfrew, con voce allegra, dalla porta, e poi, con una smorfia: «Siamo stati una bella banda di fessi, no?» Mi sentii soffocare. Gli corsi incontro, gli afferrai una mano, lo abbracciai. Blake stava cercando di fare lo stesso. Quando alla fine lasciammo libero Renfrew e ci guardammo intorno, Cassellahat era scomparso. Il che era senz'altro un bene. L'ultima sua osservazione mi aveva fatto venire una gran voglia di dargli un pugno sul naso. «Oh, bene, eccoci dunque!» esclamò Renfrew. Guardò Blake e poi me, sogghignò, si sfregò le mani giulivo, e proseguì: «Per una settimana sono stato a lambiccarmi, cercando d'immaginare le domande che avrei fatto a questo bel tomo, e...» Si rivolse a Cassellahat. «Cos'è che rende costante la velocità della luce?» domandò. Cassellahat neppure sbatté gli occhi: «La velocità è uguale al cubo della radice cubica di gd», disse, «d è là profondità del continuum spaziotemporale, g la tolleranza totale, o gravità, come direste voi, di tutta la materia in quel continuum». «Come si formano i pianeti?» «Un sole deve mantenersi in equilibrio nello spazio in cui si trova. Emette materia intorno a sé, proprio come una nave getta l'ancora. È un'analogia molto approssimativa. Potrei darvi una completa descrizione matematica, ma dovrei scrivere un bel po' di formule. E io, dopotutto, non sono uno scienziato. Si tratta di fatti che ho saputo fin dall'infanzia, o quasi». «Un momento», intervenne Renfrew, perplesso. «Un sole emette questa materia nello spazio circostante senza nessuna pressione fisica, salvo il suo... desiderio... di equilibrarsi?» Cassellahat lo fissò. «Naturalmente no. La forza... la pressione è molto
potente, ve l'assicuro. Senza un tale equilibrio, un sole cadrebbe fuori da questo spazio. Soltanto pochi soli scapoli sono riusciti a mantenersi stabili senza pianeti». «Pochi soli... che cosa?» l'interruppe Renfrew. Vidi che le parole della nostra guida l'avevano sbalordito al punto da fargli dimenticare tutte le domande che aveva intenzione di snocciolare rapidamente una dopo l'altra. Cassellahat, comunque, fu pronto a rispondere: «Un sole scapolo è una stella molto antica e fredda di classe M. La più calda che si conosca ha una temperatura di novanta gradi centigradi, la più fredda di dieci. Letteralmente, un sole scapolo è un solitario reso capriccioso dall'età. La sua caratteristica principale è che non consente che ci siano né materia, né pianeti, né gas, nelle sue vicinanze». Renfrew restò seduto in silenzio, accigliato e pensieroso. Colsi l'occasione di portare avanti una mia concatenazione di pensieri. «M'interessa molto», dissi, «questa faccenda di qualcuno che conosce tanta roba scientifica senza essere uno scienziato. Per esempio, sulla Terra ai miei tempi, ogni ragazzino capiva il principio del funzionamento dei reattori atomici praticamente fin dal giorno in cui era nato. Ragazzini di otto o dieci anni andavano in giro con giocattoli fatti apposta, li smontavano e li rimontavano. Pensavano in termini di reattori atomici, e ogni nuovo sviluppo in quel campo era per loro una fetta di torta da gustare. «Ora, ecco cosa mi piacerebbe sapere: cos'avete, qui, di equivalente, sotto quel punto di vista?» «La forza adeledicnander», disse Cassellahat. «Ho già cercato di spiegarla al signor Renfrew, ma la sua mente sembra recalcitrare davanti ad alcuni dei suoi aspetti più semplici». Renfrew si riscosse e fece una smorfia: «Ha cercato di convincermi che gli elettroni pensano, e questa non sono disposta a digerirla». Cassellahat scosse la testa. «Non pensano... Non pensano, ma hanno una loro psicologia!» «Psicologia elettronica!» esclamai. «Adeledicnander, niente più», rispose Cassellahat. «Qualsiasi bambino...» Renfrew gemette: «Lo so. Qualsiasi bambino di sei anni potrebbe spiegarmelo». Si rivolse a noi. «È per questo che gli avevo preparato un sacco di domande. Ho pensato che se fossimo riusciti ad avere delle buone basi intermedie, saremmo stati in grado di passare a questa adeledicnander così co-
me fanno i loro bambini». Affrontò Cassellahat: «La prossima domanda, è: Cosa...» Ma Cassellahat aveva guardato il proprio orologio: «Temo, signor Renfrew», l'interruppe, «che se lei ed io vogliamo trovarci sul traghetto per il pianeta Pelham, faremmo meglio a muoverci subito. Potrà farmi le domande strada facendo...» «Cos'è questa storia?» intervenni. Renfrew ci spiegò: «Mi sta per portare in uno dei più grandi laboratori d'ingegneria fra i monti Europa di Pelham. Volete venire anche voi?» «Io no», risposi. Blake scrollò le spalle: «Non mi va affatto l'idea di entrare in una di quelle tute che Cassellahat ci ha fornito, concepite per tener dentro il nostro odore, ma non a tener fuori il loro». E concluse: «Bill ed io ce ne staremo qui a giocarci a poker una parte di quei cinque milioni di crediti che abbiamo alla banca di stato». Cassellahat si voltò verso l'uscita; una profonda ruga solcava la maschera di carne sintetica che portava sul viso. «Trattate con molta leggerezza il dono del nostro governo». «Yeih!» esclamò Blake. «Dunque, puzziamo», fu il commento di Blake. Erano passati nove giorni da quando Cassellahat aveva portato Renfrew sul pianeta Pelham; e il nostro solo contatto era stato una chiamata per radiotelefono, il terzo giorno, da parte di Renfrew, il quale ci aveva detto di non preoccuparci. Blake era in piedi, accanto alla finestra, nel nostro appartamento in un attico della città di Newamerica; io ero stravaccato su un divano. Nella mia mente turbinava una mescolanza di pensieri che andavano dalla pazzia latente di Renfrew a tutto ciò che avevo visto e udito, sulla storia degli ultimi cinquecento anni. Mi alzai. «Arrendiamoci», dissi. «Ci troviamo davanti a un cambiamento nel metabolismo del corpo umano, probabilmente dovuto ai molti cibi esotici, provenienti dalle stelle più lontane, che loro mangiano. Devono anche aver acquistato un olfatto più sensibile, poiché il solo fatto di averci vicini è un'agonia per Cassellahat, mentre noi ci accorgiamo appena dell'odore sgradevole che emana. Ma noi siamo tre, contro miliardi di loro. In tutta sincerità, non vedo per noi grandi prospettive». Non vi fu risposta; perciò tornai a sprofondare nelle mie fantasticherie. Il
mio primo messaggio-radio alla Terra era stato ricevuto; e così, quando la propulsione interstellare era stata inventata, nel 2320 D.C., meno di centoquarant'anni dopo la nostra partenza, si erano resi conto di ciò che sarebbe accaduto, un giorno. In nostro onore, i quattro pianeti abitabili di Alpha A e B erano stati chiamati Renfrew, Pelham, Blake e Endicott. Dal 2320 la popolazione sui quattro pianeti si era talmente infittita che, oggi, un totale di diciannove miliardi d'individui vivevano in spazi sempre più stretti. E questo, malgrado la continua migrazione verso i pianeti di stelle più lontane. La nave spaziale di linea che avevo visto bruciare nel 2511 D.C. era l'unica nave che fosse mai andata perduta sulla rotta Terra-Centauro. Viaggiando alla massima velocità, i suoi schermi dovevano aver reagito alla vicinanza della nostra astronave. Tutti i sistemi automatici si erano accesi all'istante; e poiché a quell'epoca i sistemi difensivi non erano in grado di arrestare di colpo una nave che procedeva nell'iperspazio, ogni motore a reazione, a bordo, doveva essere scoppiato. Oggi, però, un simile disastro non avrebbe più potuto accadere. Tanto grandi erano stati i progressi compiuti coi campi d'energia adeledicnander, che le più grandi navi di linea potevano arrestarsi di colpo in pieno volo, pur procedendo alla massima spinta. Ci avevano raccomandato di non provare nessun senso di colpa per quel disastro, poiché molti dei più importanti progressi nella psicologia elettronica adeledicnander erano stati compiuti proprio come risultato di analisi teoriche compiute su quel disastro. Mi avvidi che Blake si era lasciato cadere, disgustato, su una sedia lì vicino. «Oh, ragazzi, ragazzi», disse, «questa sarà davvero una bella vita per noi. Ci aspettano come minimo altri cinquant'anni da passare come paria in una civiltà in cui non riusciamo neppure a capire come funzionano le macchine più semplici». Mi agitai inquieto. Anch'io l'avevo pensato. Ma non dissi nulla. Blake proseguì: «Devo ammettere che, non appena saputo che i pianeti del Centauro erano stati colonizzati, il mio primo pensiero è stato quello di corteggiare qualche bella fanciulla di quaggiù, e sposarla». Involontariamente, il mio ricordo andò a un paio di labbra rosse che si sollevavano verso le mie. Mi riscossi, e dissi: «Mi chiedo come la stia prendendo Renfrew. Lui...» Una voce ben nota, proveniente dalla porta, m'interruppe: «Renfrew prende le cose magnificamente, ora che il primo shock ha ceduto il posto
alla rassegnazione, e questa a un ben preciso piano d'azione». Quand'ebbe finito, ci eravamo già voltati verso di lui. Renfrew si fece avanti lentamente, sogghignando. L'osservai, incerto su come valutare la sua riacquistata ragionevolezza. Appariva nella miglior forma. I capelli scuri, ondulati, erano perfettamente pettinati. Due vividi, stupefacenti occhi azzurri gli animavano il volto. Era un prodigio fisico, e aveva tutto lo smalto e la spavalderia del protagonista di un film tagliato su misura per lui. E, appunto in tono spavaldo, disse: «Ho acquistato una nave spaziale, ragazzi. Ho speso tutti i miei soldi e anche parte dei vostri. Ma sapevo che mi avreste appoggiato. Giusto?» «Diavolo, certamente!» esclamammo in coro Blake ed io. Blake proseguì da solo: «Qual è l'idea?» «Correggimi se sbaglio», interloquii. «Viaggeremo per l'universo. Vivremo l'intera nostra esistenza esplorando nuovi mondi. Jim, hai davvero trovato qualcosa! Blake ed io stavamo per sottoscrivere un patto di suicidio». Renfrew continuava a sorridere. «In ogni caso, la crociera durerà un bel po'». Due giorni più tardi, senza che Casseliahat sollevasse obiezioni e desse suggerimenti, eravamo nello spazio. I tre mesi che seguirono furono alquanto strani. Per un po', provai meraviglia e sgomento di fronte alla vastità del cosmo. Pianeti silenziosi comparivano all'improvviso nei nostri schermi, per scomparire in un attimo, a immense distanze dietro di noi, lasciandoci nostalgici ricordi di praterie e foreste disabitate, agitate dal vento, di mari deserti e burrascosi. Quelle visioni caleidoscopiche non facevano altro che aggravare il dolore della solitudine, e la consapevolezza, che cresceva lenta ma inesorabile, che quel viaggio non alleviava il peso dell'estraneità che aveva gravato su di noi sin dal nostro arrivo ad Alpha Centauri. Qui non c'era nulla di cui le nostre anime potessero nutrirsi, niente che potesse riempire in modo soddisfacente un solo anno della nostra vita, non parliamo di cinquanta. Osservai questa constatazione nascere in Blake, e attesi il momento di vederla anche in Renfrew. Ma quest'ultimo segno non venne. Ciò mi preoccupò. E poi divenni conscio di qualcos'altro. Renfrew ci stava osservando. Con una sorta di consapevolezza segreta, quasi uno scopo taciuto.
Il mio allarme crebbe, e la perpetua allegria di Renfrew non contribuì ad alleviarlo. Alla fine del terzo mese me ne stavo disteso sulla cuccetta, riflettendo inquieto su tutta quella situazione insoddisfacente, quando la porta si aprì e Renfrew entrò. Impugnava una pistola paralizzante e una corda. Mi puntò addosso la pistola e mi disse: «Mi spiace, Bill. Cassellahat mi ha detto di non correr rischi, perciò rimani fermo mentre ti lego. «Blake!» urlai. Renfrew scosse lievemente la testa. «Non serve», spiegò. «Sono già stato nella sua stanza». Stringeva con decisione la pistola tra le dita, i suoi occhi azzurri erano come acciaio. Potei soltanto tendere i muscoli contro le corde mentre mi legava, e confidare nel fatto che ero il doppio più forte di lui, come minimo. E pensai: Potrò senz'altro impedirgli di legarmi troppo strettamente. Alla fine, si scostò dalla cuccetta e disse: «Mi spiace, Bill». E aggiunse: «Non vorrei proprio dirvelo, ma tu e Blake siete usciti di senno, quando siamo arrivati ad Alpha Centauri. E questa è la cura prescritta dagli psichiatri consultati da Cassellahat. Dovrete subire uno shock grande come quello che vi ha fatto impazzire». La prima volta che aveva nominato Cassellahat non vi avevo fatto attenzione. Ora, nella mia mente balenò un lampo rivelatore. Incredibile, ma a Renfrew era stato detto che... che Blake ed io eravamo pazzi! E in tutti quei mesi si era mantenuto equilibrato per un senso di responsabilità nei nostri confronti. Uno splendido espediente psicologico. C'era però una questione: che razza di shock avremmo dovuto subire? La voce di Renfrew interruppe i miei pensieri: «Non ci vorrà molto, adesso. Stiamo già entrando nel campo di un sole scapolo». «Un sole scapolo?» urlai. Non mi rispose. Nell'istante in cui la porta si chiuse dietro di lui, cominciai a lavorare sulle corde che mi stringevano. Per tutto il tempo pensai: Cos'ha detto Cassellahat? I soli scapoli si mantengono nel nostro spazio grazie a un equilibrio precario... Nel nostro spazio! Il sudore mi colò sul viso, mentre mi raffiguravo noi che precipitavamo in un altro continuum spaziotemporale... Quando finalmente riuscii a districare le mani, sentii la nave che sprofondava. Non ero rimasto legato troppo a lungo perché le corde mi bloccassero la
circolazione. Mi precipitai verso la cabina di Blake, e un paio di minuti dopo eravamo diretti verso la cabina di comando. Renfrew non ci vide finché non gli fummo addosso. Blake gli strappò via la pistola; io lo strappai dal seggiolino del pilota e lo lasciai cadere sul pavimento. Giacque li, senza opporre resistenza, sogghignando. «Troppo tardi», disse infine, sarcastico. «Ci stiamo avvicinando al primo punto d'intolleranza, e non c'è nulla che possiate fare, se non prepararvi all'"urto"». Lo sentii appena. Mi cacciai nel seggiolino e fissai gli schermi. Non si vedeva niente. Ciò mi disorientò per un attimo. Poi vidi gli indici degli strumenti di registrazione. Vibravano come impazziti, registrando la presenza d'un corpo di MASSA INFINITA. Per un lungo attimo fissai sconvolto l'incredibile indicazione. Poi azionai il deceleratore fino in fondo. A quella pressione adeledicnander spinta al massimo, l'apparecchio divenne rigido; ebbi l'improvvisa, fantastica visione di due forze irresistibili in collisione frontale, Rantolando, disinnescai di colpo l'energia. Ma stavamo ancora cadendo. «Un'orbita», stava dicendo Blake, «infilaci in un'orbita!» Con dita tremanti, ne calcolai una pestando sulla tastiera, basando le mie cifre su un sole delle dimensioni, massa e gravità di Sol. Ma lo «scapolo» non ce la consentì. Tentai una seconda orbita, una terza, e altre ancora... e infine un'orbita che ci avrebbe fatto girare intorno perfino all'immensa Antares. Ma l'agghiacciante realtà non cambiava: la nave continuava a tuffarsi sempre più in basso, verso il sole scapolo. E non c'era niente di visibile sugli schermi, neppure una vaga ombra di sostanza. A un certo punto, mi parve di distinguere una vaga macchia confusa, ancora più buia, sullo sfondo della nera distesa dello spazio. Ma le stelle erano scarse in ogni direzione, ed era impossibile esserne sicuri. Alla fine, disperato, schizzai fuori dal seggiolino e m'inginocchiai accanto a Renfrew, il quale non aveva fatto nessuno sforzo per alzarsi. «Ascolta, Jim», lo pregai, «perché hai fatto questo? Cosa accadrà adesso?» Mi sorrise, senza scomporsi. «Pensa», rispose, «a un vecchio, irritabile scapolo umano. Egli mantiene, sì, dei rapporti coi suoi simili, ma vaghi e remoti almeno quanto quelli fra un sole scapolo e le altre stelle della galassia di cui fa parte.
«Da un momento all'altro», aggiunse, «colpiremo il primo punto d'intolleranza. La faccenda funziona a balzi spaziotemporali quantificati, ognuno di quattrocentonovantotto anni, sette mesi, otto giorni e qualche ora». Suonava incomprensibile. «Ma cosa succederà?» lo sollecitai. «Per l'amor del cielo, dillo!» Alzò gli occhi a guardarmi, perfettamente calmo. E, guardandolo a mia volta, feci l'improvvisa, stupita constatazione, che era sano di mente, il vecchio Jim Renfrew era completamente razionale, anzi, in qualche modo più forte, migliore. Disse, senza scomporsi: «Be', ci sbatterà fuori della sua area di tolleranza, e in tal modo ci spedirà indietro...» SOBBALZO! L'improvviso scarto fu d'inaudita violenza. Colpii il pavimento con un tonfo, scivolai, ma una mano, quella di Renfrew, mi afferrò. E tutto fu finito. Mi alzai, conscio che non stavamo più cadendo. Fissai il quadro degli strumenti. Tutte le luci brillavano fioche, tranquille, gli indici erano ricaduti a zero. Mi voltai e fissai Renfrew, e Blake, che in qualche modo si stava risollevando da terra. Renfrew mi parlò, convincente: «Lasciami sedere, al quadro dei comandi, Bill. Voglio far rotta verso la Terra». Lo fissai a lungo, in silenzio; poi, lentamente, mi scostai. Ma restai lì a guardarlo mentre regolava i comandi e azionava l'acceleratore. Poi, a sua volta alzò la testa e mi guardò. «Raggiungeremo la Terra fra circa otto ore», annunciò, «e sarà passato all'incirca un anno e mezzo dal giorno in cui siamo partiti, cinquecento anni fa». Qualcosa cominciò a bombardarmi, dentro il cranio. Mi ci vollero parecchi secondi, prima che accettassi la verità, che, cioè, era il mio cervello a rimbalzare per l'improvvisa comprensione di quel fatto assurdo. Il sole scapolo... pensai, stordito. Nell'escluderci dal suo campo d'intolleranza, ci aveva, semplicemente, fatti precipitare in un periodo di tempo al di là del suo campo. Renfrew aveva detto... aveva detto che funzionava a balzi quantici di... di quattrocentonovantotto anni e sette mesi e... Ma la nave? L'adeledicnander del ventesimo secolo, con questo suo trasferimento nel ventiduesimo secolo, ben prima della sua scoperta, non avrebbe cambiato il corso della storia? Bofonchiai la domanda. Renfrew scosse il capo: «Siamo in grado di capirci qualcosa, noi? Oseremmo forse anche soltanto armeggiare con l'energia grezza dentro quei
motori? Io dico di no. In quanto a questa nave, la terremo per il nostro uso privato». «Mma...» cominciai. M'interruppe: «Senti, Bill», disse, «ecco la situazione: quella ragazza che ti ha baciato (non credere che non ti abbia visto crollar giù come una tonnellata di mattoni) sarà seduta accanto a te, fra cinquant'anni da oggi, quando la tua voce giungerà dallo spazio a riferire che ti sei svegliato dopo la prima tappa del primo viaggio verso Alpha Centauri». E fu proprio così. Termine ultimo Deadline di Cleve Cartmill Astounding, marzo «Termine ultimo» fu la storia più controbattuta dell'anno, anche se non all'interno della comunità fantascientifica. Le congetture dell'autore su alcuni dei punti più delicati della fissione nucleare richiamarono l'attenzione del governo degli Stati Uniti. Le autorità vollero sapere chi aveva fatto trapelare informazioni segretissime dal Progetto Manhattan, che stava allora sviluppando la prima arma nucleare. Vi sono state alcune controversie su ciò che veramente accadde, ma in ogni caso gli agenti del servizio segreto statunitense compirono una visita negli Uffici di John W. Campbell jr., direttore di Astounding (e un'altra visita fecero all'autore del racconto, che viveva a Manhattan Beach). Alcune fonti dicono che si trattava dello FBI, altre del servizio segreto militare. In ogni caso, una volta convinti che tutte le persone implicate nell'affare erano a posto e si erano basate su informazioni di dominio pubblico, chiesero, a quanto pare, che non venissero più pubblicate storie del genere. Al che Campbell — a seconda delle diverse versioni giunte a noi dell'affare — intimò loro di togliersi dai piedi, oppure li convinse che, smettere di colpo di pubblicare racconti sull'energia atomica, avrebbe messo in guardia il nemico, richiamando la sua attenzione sulle ricerche americane e sui loro sviluppi in questo campo. Il racconto è, ovviamente, il più famoso di Cartmill, anche se la sua serie dello «Space Salvage», in Thrilling Wonder, era pure
assai popolare. (Per anni ho ficcato dentro la storia di Cartmill e della visita degli agenti del servizio segreto a Campbell nei miei discorsi. La storia ha sempre avuto successo, specialmente nelle università. Descrivevo Campbell mentre tirava fuori gli articoli sulla scoperta della fissione dell'uranio — liberamente citati e discussi finché gli stessi scienziati non s'imposero l'autocensura, per ovvie ragioni — spiegando che la bomba nucleare era l'inevitabile conclusione di essi. Gli agenti, riflettendoci sopra a lungo, alla fine avevano dovuto ammettere che ciò era vero, ma gli intimarono ugualmente di smetterla di pubblicare storie del genere, ma Campbell ribatté che anche in questo modo avrebbe rivelato in pieno al nemico l'importanza della cosa (almeno, a me l'hanno raccontata così). A questo punto, concludevo, dicendo: «Gli agenti del servizio segreto dovettero sottoporsi a un compito di tremenda difficoltà, giacché Campbell gli chiese di pensare per ben due volte lo stesso giorno». E questo, invariabilmente, faceva scoppiare tutti in grandi risate. I.A.) ASSEMBLAGGIO E DETONAZIONE 12.16. Come affermato nel Capitolo II, è impossibile impedire che s'innesti una reazione a catena quando la massa eccede il valore critico. Poiché vi sono sempre abbastanza neutroni (dai raggi cosmici, da fissioni nucleari spontanee, o da reazioni indotte da particelle alfa nelle impurità) per iniziarla. Così, fino a quando non si desidera avviare la reazione, la bomba dev'essere formata da un certo numero di porzioni separate, ognuna delle quali sia al di sotto della massa critica sia per le piccole dimensioni o per la forma sfavorevole. Per produrre la detonazione, le parti della bomba devono essere messe insieme con estrema rapidità. Nel corso di questo procedimento di assemblaggio, c'è probabilità che la reazione a catena s'inneschi — a causa della presenza di neutroni vaganti — prima che la bomba abbia raggiunto la sua forma più massiccia (più reattiva). In conseguenza di ciò, l'esplosione tende a impedire che la bomba raggiunga la sua struttura più massiccia, e in tal modo l'esplosione stessa diminuisce la sua efficacia al punto da poter essere relativamente inutile. Il problema, di conseguenza, è duplice: (1) ridurre al minimo il tempo dell'assemblaggio; e (2) ridurre al minimo il numero dei neutroni vaganti (predetonazione).
Rapporto ufficiale: Energia Nucleare per Scopi Militari Henry D. Smyth L'intenso fuoco della contraerea esplodeva sopra e sotto lo stormo di bombardieri, mentre sfrecciavano attraverso il cielo notturno del pianeta Cathor. Ybor Sebrof sogghignò mentre, con un'incredibile imbardata, allontanava il suo aliante dalle esplosioni. I bombardieri avevano compiuto la loro missione: l'avevano sganciato vicino a Nilreq, simulando un'incursione per coprirlo. Si era staccato prima che i riflettori falciassero il cielo con le loro lame sottili e abbaglianti. Non avevano neppure sfiorato l'aliante, che portava le loro stesse insegne. Era infatti un aliante nemico, catturato quando le colonne avanzanti di Seilla avevano sorpreso la guarnigione di Namo nel sonno. L'avrebbe abbandonato nel punto di atterraggio; che, poi, il servizio segreto di Sixa si scervellasse per capire com'era arrivato fin là. Sempre che, naturalmente, fosse riuscito ad atterrare non visto. Gli agenti del servizio segreto di Sixa avrebbero avuto anche un altro lavoro da fare. Spiegare quell'incursione di bombardieri che, in apparenza, non avevano sganciato nessuna bomba. Nessuno degli aerei di Seilla era stato abbattuto, e quelli di Sixa non potevano sapere, perciò, che i bombardieri erano vuoti; niente bombe, niente equipaggio, soltanto velocità. Già s'immaginava i titoli sui giornali di domani, udiva i notiziari radio. «Respinti gli incursori. I pusillanimi piloti della Democrazia si son fatti piccoli davanti alla contraerea di Nilreq, e sono fuggiti con la coda tra le gambe». Ma i grossi capi si sarebbero preoccupati. I bombardieri di Seilla avrebbero potuto sganciare un bel po' di bombe, se avessero voluto. Avevano sorvolato impunemente la grande città industriale... perché non vi avevano deposto le loro uova? I grossi capi se lo sarebbero chiesto. Perché? Avrebbero esclamato, guardandosi l'un l'altro. Qual era il motivo di un simile comportamento? Ybor sogghignò. Era lui il motivo. Avrebbe fatto desiderare al nemico che vi fossero state quelle bombe, invece di lui. La possibilità di un fallimento non gli venne mai in mente. Tutto ciò che doveva fare era penetrare nella roccaforte del nemico, trovare il dottor Sitruc, ucciderlo, e distruggere l'arma più devastante della storia. Questo era tutto. Trattenne il rauco respiro quando una casa colonica si profilò a una qualche distanza davanti a lui, e virò di bordo, sullo sfondo scuro di un bosco. L'aliante verdegrigio sarebbe stato invisibile contro lo sfondo, a meno
che degli occhi acuti non ne avessero colto l'ombra al vago chiarore della luna. Ora planava in silenzio, nel lieve mormorio d'una brezza che dialogava con le cime degli alberi. Soltanto il vento e gli alberi videro il suo passaggio. Avrebbero senz'altro conservato il segreto. Atterrò in un campo di mais, che sussurrò la sua aspra protesta quando l'aliante frusciò tra gli steli e le pannocchie. Queste finirono di ondeggiare ormai più in alto dell'apparecchio senza motore, e Ybor decise che nessuno avrebbe potuto scoprirlo finché non fossero comparse nel campo le macchine raccoglitrici. Il cielo... era un problema diverso. Lui non voleva che l'aliante fosse visto dall'alto. Non voleva che ciò accadesse soprattutto nel caso in cui l'avessero intercettato durante il suo viaggio fin dentro alla capitale nemica. Anche l'intelligenza più ottusa lo avrebbe collegato con quel velivolo abbandonato, se fosse stato fermato in quelle vicinanze, per qualunque ragione, e se l'apparecchio fosse stato scoperto già la mattina dopo. Sfilò un lungo coltello dal fodero incorporato nella carlinga, e prese a calar colpi tutt'intorno, finché non ebbe tagliato molte bracciate di grano. Le sparpagliò a caso, senza seguire uno schema, sopra le varie parti dell'apparecchio. Adesso, non sarebbe sembrato un aliante, neppure dal cielo. Fatto questo, avanzò attravèrso la vegetazione che gli arrivava alla spalla, fino all'inizio del bosco. Qui, prese ad avanzare con maggior cautela. Era quasi certo che dentro il bosco fosse nascosta una batteria di cannoni, e doveva evitare che gli artiglieri si accorgessero di lui. Sgusciò attraverso il morbido tappeto vegetale come un gatto, correndo a quattro zampe sotto i rami più bassi, e rialzandosi quand'era possibile. Un acuto odore del pericolo gli invase le narici, e si rannicchiò immobile per analizzarlo a fondo. Formò un'immagine nella sua mente: uomini e petrolio, l'acre fumo di gas esplosi. I serventi di un cannone si trovavano proprio davanti a lui. Ybor si cacciò tra gli alberi. Si mosse poi furtivo dall'uno all'altro, senza produrre più suoni di quanto avrebbero fatto gli uccelli notturni dalle ali ovattate, e si avvicinò all'origine dell'odore. Di tanto in tanto, si fermò, cercando di udire l'eventuale rumore di passi di una sentinella. E poco dopo, lo udì, un morbido pad-pad che si mischiò, con ritmo diverso, a un russare che fu trasportato alle sue orecchie dalla leggera brezza. Un'autentica dimostrazione di coraggio, Ybor lo sapeva, sarebbe stato
aggirare la postazione, lasciando la sentinella inconsapevole del suo passaggio attraverso il bosco. Ma l'abitudine era troppo forte. Doveva distruggere, poiché essi erano il nemico. Si avvicinò sempre più al rumore dei passi. Poco dopo si rannicchiò su un ramo, sopra la linea di marcia della sentinella, sondando l'oscurità con gli occhi e le orecchie. La guardia venne avanti, quasi sfiorandolo, e Ybor la lasciò passare. Le sue orecchie si tesero al massimo, in mezzo al russare che proveniva dalle tende, fino a quando non udì altri passi: le sentinelle erano due. Estrasse il coltello dalla cintura, e attese. Quando la sentinella passò sotto di lui, a passi strascicati, Ybor si lasciò cadere sulle sue spalle, e la pugnalò. Vi fu un lieve rumore. Non molto, ma udibile, nella notte. E bastò ad allarmare l'altra guardia, che chiamò a bassa voce: «Namreh? Cosa è successo?» Ybor grugnì qualcosa, prese l'arma e l'elmo al morto, e lo sostituì nella sua ronda. Marciò con lo stesso ritmo dei piedi del nemico, fino a quando non incrociò la seconda guardia. Ybor azzittì tutte le domande con una fulminea pugnalata, poi rivolse la sua attenzione alle tende. Pochi minuti dopo, era tutto finito. Strinse le dita della prima guardia intorno all'elsa del pugnale, e se ne andò. Pensassero pure che uno dei loro uomini era impazzito e aveva ucciso gli altri, prima di suicidarsi. I loro psicologi ci lavorassero pure sopra. Quando ebbe attraversato completamente la foresta, l'alba aveva fiocamente illuminato il cielo al di là di Nilreq, rivelando il profilo oscuro degli edifici prima confusi in una grande macchia nera. Là, egli avrebbe dovuto agire. Là, forse, stava il suo destino, e quello dell'intera razza. Quest'ultimo pensiero non era per niente esagerato dalla retorica di guerra. Era un fatto nudo e crudo. Non aveva niente a che fare col patriottismo, né con una qualunque filosofia politico-economica. Aveva soltanto a che fare con un fatto specifico: se l'arma, che si trovava in qualche punto della capitale nemica, fosse stata usata, l'intera razza correva senz'altro il rischio di perire fino all'ultimo individuo. Ora cominciava la parte più difficile della missione di Ybor. Fece per uscire dal bosco. Un lieve rumore alle sue spalle lo fece irrigidire per una frazione di secondo, necessaria a identificarlo. Poi, fulmineo, si girò di scatto e si lanciò.
Un attimo dopo seppe che stava lottando con una donna. Ne fu sorpreso, ma non tanto da compromettere la propria efficienza. Un colpo di taglio, e la donna giacque immobile ai suoi piedi. Si erse su di lei socchiudendo gli occhi, incapace di distinguerne bene i lineamenti, lì nella fitta penombra del bosco. Infine, l'oriente si tinse quasi all'improvviso d'una gloria rosso-dorata, e Ybor vide che la donna era giovane. Niente affatto immatura, ma giovane. E quando un raggio di sole si fece strada tra il fogliame, vide che era graziosa. Ybor sguainò il pugnale da combattimento. Era un nemico, e doveva essere uccisa all'istante. Alzò il braccio per il colpo di grazia, e lo tenne lì sospeso. Non poteva conficcarle in corpo la lama. Priva di sensi, sembrava solo addormentata, le labbra socchiuse e le mani abbandonate. Si poteva uccidere un uomo addormentato, ma la natura aveva inciso una profonda avversione, nei suoi istinti, a uccidere una femmina impotente. La donna cominciò a gemere, piano. Poi aprì i suoi grandi occhi castani, dolci come quelli di una cerbiatta. «Mi ha colpito», mormorò, in tono di accusa. Ybor non replicò. «Mi ha colpito», lei ripeté. «Cosa si aspettava?» ribatté Ybor, aspro. «Fiori e confetti? Cosa fa, qui?» «La stavo seguendo», rispose. «Posso alzarmi?» «Sì. Perché mi seguiva?» «Quando l'ho vista atterrare nel nostro campo, mi sono chiesta perché. Sono corsa fuori e l'ho vista che copriva il suo apparecchio, e poi scivolava nel bosco. L'ho seguita». Ybor era incredulo. «Mi ha seguito attraverso quel bosco?» «Avrei potuto toccarla in qualunque momento», annuì lei. «È una menzogna!» «Oh, non deve sentirsi dispiaciuto», disse la donna. Si alzò in piedi con un movimento fluido, sinuoso, portando gli occhi quasi all'altezza dei suoi. Il suo sorriso rivelò due file di denti piccoli e bianchi. «Sono molto brava in questo genere di cose», spiegò, «quasi meglio di chiunque altro, anche se devo ammettere che anche lei è molto bravo». «Grazie», fece Ybor, sbrigativo. «Va bene, sentiamo la storia. Molto probabilmente sarà l'ultima che avrà modo di raccontare. Qual è il suo gioco?»
«Lei parla ynamren come un nativo», osservò la ragazza. Gli occhi di Ybor ebbero un lampo. «Sono un nativo». La donna sorrise, incredula. «E uccide i suoi stessi soldati? Non credo. L'ho vista eliminare l'intera squadra addetta a quel cannone. L'ha fatto in modo troppo freddo ed efficiente. Uno di noi l'avrebbe fatto con odio. Per lei era soltanto una manovra tattica». «Si sta tagliando la gola con le sue mani», l'interruppe Ybor. «Non posso lasciarla andare. È troppo osservatrice». La donna ripeté: «Non credo». Fece una pausa, poi aggiunse: «Lei ha bisogno di aiuto, qualunque sia la sua missione. Io posso offrirglielo». Ybor replicò sprezzante: «È come se mi offrisse d'infilar la testa nella bocca di un leone. Non posso nascondermici. Non ho bisogno di aiuto. Specialmente non da parte di qualcuno tanto impacciato da farsi prendere. E io l'ho presa, bella mia». La donna arrossì. «Lei era completamente assorto nel suo progetto di forzare il bastione nemico. L'ho visto sulla sua strana faccia quando si è diretto verso Nilreq. Ho ansimato un paio di volte, nella speranza che lei sentisse. E lei mi ha sentito. Se l'avessi giudicato mio nemico, non avrebbe udito niente. Salvo, forse, il sibilo del pugnale mentre si conficcava nel suo cuore». «Cos'ha di strano la mia faccia?» chiese Ybor. «Passerebbe del tutto inosservata tra la folla». «Le donne la noterebbero», ribatté lei. «È asimmetrica». Ybor accantonò con una scrollata di spalle quella faccenda personale. Le prese il collo tra le mani. «Devo farlo», disse. «È di assoluta importanza che nessuno sappia della mia presenza, qui. Siamo in guerra. Non posso permettermi di mostrarmi generoso». La donna non oppose nessuna resistenza, si limitò ad alzare lo sguardo su di lui, e a chiedergli: «Ha mai sentito parlare di Ylas?» Le dita di Ybor non si serrarono sulla sua morbida carne. «E chi non ne ha sentito parlare?» «Io sono Ylas», lei disse. «Un trucco». «Nessun trucco. Lasci che glielo dimostri». E quando gli occhi di Ybor si ridussero a due sottili fessure... «No, non ho documenti, è ovvio. Ascolti. Conosce Mult, Sworb e Nomos? Io li ho fatti fuggire». Ybor esitò. Poteva essere Ylas, ma sarebbe stato un colpo di fortuna troppo fantastico imbattersi così presto nella leggendaria eroina che ca-
peggiava la resistenza di Ynamre. Èra quasi al di là dell'incredibile. Eppure, era pur sempre possibile che dicesse la verità. Non poteva trascurare quell'unica probabilità su un milione. «Nomi, soltanto nomi», commentò. «Avrebbe potuto sentirli dovunque». «Nomos ha una cicatrice a forma di mezzaluna sul polso», disse la donna. «Sworb è alto, quasi quanto lei, e ha le spalle leggermente cascanti. Parla così in fretta che a stento si riesce a seguirlo. Mulb è uno sciocco. Ma riesce a cavarsela coi suoi modi ampollosi». Questi, rifletté Ybor, erano ritratti vivi, concisi. La donna approfittò del suo vantaggio. «Sarei rimasta a guardarti mentre uccidevi quegli artiglieri, se fossi un membro leale dell'Alleanza Sixa? Non avrei forse lanciato un grido d'allarme quando hai ucciso la prima sentinella, togliendole l'elmo e l'arma?» C'era logica in questo, pensò Ybor. «Non era forse ovvio per me», proseguì lei, «che eri un emissario di Seilla, visto che sei atterrato nel mio campo di mais? Avrei potuto comunicarlo alle autorità». Ybor le tolse le mani dalla gola. «Voglio trovare il dottor Sitruc», dichiarò. La donna si accigliò, volgendo lo sguardo verso Nilreq, verso le torri che risplendevano dorate nel sole del mattino. Ybor notò, distrattamente, l'immagine vivida di colori che la donna formava, il viso rivolto al sole. Un fiore in boccio che si schiudeva alla radiosità dell'alba. Non che importasse, non aveva tempo per lei. Aveva poco tempo per ogni cosa. «Non sarà certo facile riuscirci», lei commentò. Lui si girò di scatto: «Io ci riuscirò. E presto! C'è poco tempo, ormai». «Aspetta!» La sua voce aveva una durezza che l'obbligò a voltarsi. E sorrise amaro quando vide la pistola che la donna impugnava. Un profondo disprezzo per se stesso cancellò ogni altro pensiero di Ybor. L'aveva avuta in pugno, del tutto indifesa, ma si era lasciato ingannare dal fatto che era una donna, non un nemico armato. Non l'aveva perquisita per una forma di sentimentalismo da adolescente. Davvero, aveva raggiunto il culmine della stupidità, e adesso avrebbe fatto la fine che si meritava. La mano che stringeva la pistola era ferma, e una ferrea decisione brillava cupa negli occhi di lei. «Mi lascio incantare troppo facilmente dalle favole», la donna disse. «Per un po', ho creduto che tu fossi davvero un agente di Seilla. Come sei diabolicamente astuto... tu, e chi ti ha mandato! Avrei dovuto immagi-
narlo, quando quegli aerei sono passati qui sopra. Andavano troppo in fretta». Ybor non disse nulla. Stava cercando di capire. «È stata un'idea brillante», lei prosegui, con voce aspra e amara. «Ti hanno rimorchiato, e sei atterrato nel mio campo. Una strana coincidenza, quando ci si pensa. Mi trovavo in quel cascinale soltanto da tre giorni. Fra tutti i posti, hai scelto proprio quello. Non per caso, no. Tu, e le altre grosse teste del consiglio di Sixa, sapevate che gli aerei mi avrebbero fatto affacciare alla finestra, sapevate che i miei occhi avrebbero colto l'ombra dell'aliante, sapevate che sarei uscita a indagare. Tu hai perfino ucciso sei dei tuoi uomini per smorzare i miei sospetti. Oh, per un po' ci sono cascata». «Parli come una pazza», ribatté Ybor. «Metti via quella pistola». «Quando hai avuto la possibilità di uccidermi e non l'hai fatto», proseguì la donna, «anche i miei ultimi sospetti sono scomparsi. Ancora più sciocca. No, bello mio, non tornerai a riferire dove mi trovo e cosa sto facendo, perché i tuoi tagliagole restino in attesa che io m'incontri con gli altri capi della resistenza, per prenderci tutti. Non sarà così. Tu morrai qui, subito». Un turbine di pensieri si agitò nel cervello di Ybor. Sarebbe stato uno spreco d'energia appellarsi a lei, ripetendole che, se lo avesse ucciso, avrebbe così decretato la distruzione dell'intera specie. Sapeva troppo di retorica. Occorreva qualcosa di più semplice, diretto, qualcosa che la colpisse, penetrando le sue difese. Ma cosa? Il tempo per lui era ormai contato; poteva vederlo nel suo sguardo cupo. «Il tuo ultimo indirizzo», disse, ricordando ciò che Sworb gli aveva raccontato, «era 40 Curk Way. Tu vendevi paste e dolciumi. Sworb ne ha mangiati troppi e si è sentito male... Gli è capitato a bordo del tuo autocarro, mentre lo portavi via, undici minuti dopo mezzanotte». «Centro». La volontà di uccidere lasciò i suoi occhi, mentre ricordava. Restò un attimo soprappensiero. Poi, i suoi occhi ripresero a lanciar scintille. «Non ho avuto notizia che Sworb sia riuscito a raggiungere Acireb sano e salvo. Avreste potuto catturarlo al confine di Enarta, e torturarlo fino a fargli raccontar tutto. Tuttavia», disse infine, soprappensiero, «potresti aver detto la verità...» «L'ho detta», ribadì Ybor, asciutto. «Sono un emissario di Seilla, venuto qui per una missione molto importante. Se non puoi essermi tu di qualche aiuto, devi lasciarmi andare. Subito». «...ma potresti anche aver mentito. Non posso correr rischi. Tu, ora,
camminerai davanti a me attraverso il bosco. Al primo tentativo di aggredirmi, o anche soltanto alla prima mossa che non capisco, ti uccido». «Dove mi porterai?» «Alla mia casa. Dove, altrimenti? Dopo parleremo». «Ora, ascoltami», insisté Ybor, accalorandosi, «non c'è tempo per...» «In marcia!» Si mise in marcia. L'intenzione di Ybor, di coglierla di sorpresa non appena si fossero trovati all'interno del casolare, svanì non appena vide l'omaccione che li fece entrare. Era un bruto dal corpo più possente che Ybor avesse mai visto, il quale torreggiava sopra di lui, anche se la sua statura era molto al di sopra della media. Le braccia di quel gigante erano grosse come le sue cosce, gli occhi gialli piccoli e cattivi. Eppure, per quanto scimmiesco fosse il suo aspetto, quell'enorme individuo si muoveva come un gatto di montagna, con rapidità ingannevole, senza produrre alcun suono. «Sorveglialo», gli ordinò la ragazza, e Ybor seppe che quegli occhi gialli non l'avrebbero lasciato un solo istante. Si lasciò cadere su una vecchia sedia, con una sorta di primitivo schienale a coda di rondine, e seguì con lo sguardo la giovane donna che si affaccendava all'enorme cucina economica. La grande, rustica stanza avrebbe potuto accogliere una ventina di contadini affamati, e quella cucina, coi suoi numerosi fornelli, avrebbe fornito cibi caldi per tutti. «Sarà meglio mangiare», lei disse. «Se non hai mentito, avrai bisogno di tutte le tue energie. Se hai mentito, durerai, sotto la tortura, quel tanto che basta a dirci la verità». «Stai commettendo un errore», cominciò Ybor, scaldandosi, ma subito si fermò quando l'omaccione fece un gesto di minaccia. La donna non impiegò molto a preparare un pasto. Era buono, e Ybor lo mangiò di buon appetito. «Il pasto del condannato», commentò, e sorrise. Una sorta di cameratismo era nato, nonostante tutto, fra loro. Lui era un maschio, non aveva superato da molto la giovinezza, i suoi occhi erano scuri e limpidi, e aveva un fisico robusto ed efficiente. Lei era una femmina allo stadio della maturazione. Quell'incombenza domestica di cuocere un pasto e dividerlo aveva attenuato la tensione fra loro. A sua volta lei, mentre mangiava, gli lanciò un fugace sorriso. «Sei una brava cuoca», commentò lui, quand'ebbero finito. Ogni traccia di calore umano l'abbandonò. Lo fissò, gelida. «Ora, le prove», intimò.
Ybor scrollò le spalle con rabbia. «Credi proprio che porti con me dei documenti che m'identifichino come agente di Seilla? "A chiunque possa interessare. Il latore della presente ha un alto rango nel consiglio supremo di Seilla. Qualunque aiuto possiate dargli, sarà assai apprezzato". Ho con me dei documenti che mi qualificano come un giornalista di Eeras. L'edificio in cui aveva sede il giornale, con tutti i suoi uffici, è andato completamente distrutto, e non c'è alcun modo di controllare». La donna rifletté un momento. «Ti darò una possibilità», disse infine. «Se davvero tu sei un emissario così importante di Seilla, uno dei nostri uomini di Nilreq potrà identificarti. Fai il nome di uno di essi, e noi lo faremo venir qui». «Nessuno di loro conosce il mio aspetto. Il mio volto è stato alterato prima che venissi a compiere questa missione, cosicché nessuno potrebbe tradirmi, neppure accidentalmente». «Sai tutte le risposte, non è vero?» lei lo schernì. «Be', adesso ti porteremo in cantina e ti tireremo fuori la verità. E non morirai finché non l'avremo fatto. In un modo o nell'altro ti terremo in vita». «Un momento», disse Ybor. «C'è un uomo che mi riconoscerà. Ma potrebbe non essere ancora arrivato. Solraq». «È arrivato ieri», disse lei. «Molto bene. Se ti identificherà, sarà sufficiente. Sleyg», esclamò, rivolta al gigantesco guardiano, «conduci qui Solraq». Sleyg rumoreggiò nella profondità della sua gola, ma la donna lo interruppe con un gesto d'impazienza: «Posso arrangiarmi da sola. Vai!» Infilò la mano nella tunica, sfilò la pistola dalla fondina all'ascella, e la puntò contro Ybor, sull'altro lato del tavolo. «Tu resterai seduto, immobile». Sleyg uscì. Ybor sentì una macchina che si metteva in moto, e il ronzio del motore si affievolì rapidamente in distanza. «Posso fumare?» chiese Ybor. «Certo». Con la mano libera, la donna gli gettò un pacchetto di sigarette. Ybor ne accese una, facendo attenzione a tenere bene in vista le mani, la porse a lei, poi ne accese un'altra per sé. «Così, tu sei Ylas», le disse, tanto per rompere il silenzio. La donna neppure lo degnò d'una risposta. «Hai fatto un buon lavoro», Ybor proseguì. «E proprio sotto il loro naso. Devi essertela vista brutta più di una volta». La donna ebbe un sorriso di commiserazione. «Non essere così tortuoso, amico. Nella remota possibilità che tu riesca a fuggire, non avrai ricevuto
da me neanche una briciola d'informazione da poter usare più tardi». «Non ci sarà nessun più tardi, se non uscirò di qui. Per te come per chiunque altro». «Adesso fai il melodrammatico. Ci sarà sempre un dopo, fintanto che ci sarà il tempo». «Il tempo esiste solo nella consapevolezza», replicò Ybor. «Non ci sarà alcun tempo, a meno che la polvere o le rocce non siano consapevoli». «È davvero bello il quadro di rovina e distruzione che stai dipingendo». «Sarà davvero una completa catastrofe, e tu la stai rendendo sempre più ineluttabile ad ogni minuto che passa. Stai riducendo il margine di tempo che potrebbe consentirci di evitarla». La donna sogghignò: «Sono cattiva, eh?» «Anche se mi lasciassi andare in questo momento...» cominciò Ybor. «Cosa che non farò». «...potrebbe risultare impossibile evitare la catastrofe. La nostra mente non riesce a concepire l'inimmaginabile violenza dell'esplosione, che potrebbe distruggere ogni forma di vita animale. Sì, è un quadro strano e terrificante anche solo a pensarci», aggiunse, riflettendo. «Prova a immaginare dei viaggiatori spaziali che, in futuro, avvistino questo pianeta coperto di giungle. Non avrebbe neppure un nome, per loro. Oh, ma lo scoprirebbero, non tutte le tracce della civiltà saranno andate distrutte. Quegli esploratori rovisterebbero tra le rovine sbriciolate e troverebbero qualche frammento della nostra storia. Poi tornerebbero al loro pianeta d'origine, portando con sé il mistero di Cathor. Perché mai tutta la vita animale è scomparsa da Cathor? Troverebbero abbastanza scheletri per sapere quali erano le nostre dimensioni, e la forma, e decifrerebbero i pochi documenti scritti trovati. Ma in nessun luogo troverebbero il più piccolo indizio del perché la nostra civiltà è stata distrutta; in nessun luogo troverebbero il nome di Ylas, la vera causa». La donna si limitò a sogghignare. «Così sarà ridotto Cathor», concluse Ybor. «Non un uccello nel cielo, non un maiale nei porcili. Forse neppure insetti. Mi chiedo», annuì, pensieroso, «se non siano state esplosioni come questa a cancellar la vita su altri pianeti del nostro sistema. Lara, ad esempio. Un tempo, c'era vita su Lara. Lassù la civiltà è forse giunta a un culmine per sfociare in una guerra che ha coinvolto ogni singolo individuo da una parte o dall'altra? Presa dalla disperazione, una delle parti non ha forse cercato di usare un esplosivo disponibile a entrambi, ma incontrollabile, perdendo così il pianeta?»
«Ssh!» gli ordinò la donna. Si era irrigidita e tendeva l'orecchio. Poi sentì anche lui. Un ritmico scalpiccio. Lanciò un'occhiata attraverso la finestra, verso il bosco. «Ynamra», disse. Un sergente guidava una squadra di otto soldati attraverso il campo, in direzione del casolare. Ybor si voltò verso la ragazza. «Devo nascondermi! Presto!» Lei lo fissò freddamente: «Non ho nessun posto». «Ma devi farlo. Come fai a soccorrere i fuggiaschi? Dov'è?» «Forse mi hai catturato», ribatté la donna, cupa in volto, «ma non verrai a sapere nient'altro. La resistenza continuerà». «Piccola sciocca! Sono con te». «È quello che dici tu. Io non ho visto nessuna prova». Ybor non perse altro tempo. Il drappello era ormai alla porta. Con un balzo Ybor raggiunse la parete e vi si accucciò addosso. Si sfilò per metà la giubba, scosse la testa facendosi ricadere i capelli neri sugli occhi, e rilassò il viso, assumendo così l'espressione vaga e informe d'un idiota. Prese a giocherellare con le dita, gorgogliando. Un colpo vibrato col calcio del fucile fece accorrere la donna alla porta. Ybor non sollevò lo sguardo. Storse le dita, le intrecciò, e gorgogliò, come parlando ad esse. «Hai sentito niente la scorsa notte?» volle sapere il sergente. «Niente!» gli fece eco la giovane donna. «Degli aerei. Qualche cannone». «Ti sei alzata? Hai guardato fuori?» «Avevo troppa paura», fece lei, con un fremito. Il sergente sputò con disprezzo. Vi fu un breve silenzio, turbato soltanto dal gorgogliare di Ybor. «Cos'è quello?» sbottò il Sergente. Attraversò la stanza con passo pesante, agguantò una ciocca di capelli di Ybor e gli sollevò la testa con uno strattone. Ybor gli rivolse un sorriso bavoso, da ebete. Gli occhi del sergente irradiarono rabbia e disprezzo. «Un idiota!» ringhiò. Ritrasse la mano di scatto. «Perché non lo uccidi?» chiese alla ragazza. «Resterebbe più da mangiare per te. Oh, ma guardati un po'», fece, come se la vedesse per la prima volta, «niente male, niente male. Verrò a trovarti, dolcezza, una di queste sere». Ybor non si mosse finché non fu ben sicuro che non potevano più udirli. Allora si alzò in piedi e fissò truce Ylas: «Potrei già essere a Nilreq, a quest'ora. Devi lasciarmi andar via da qui. Hanno scoperto quella squadra di
cannonieri, e saranno sul chi vive». Ylas aveva nuovamente la pistola in pugno. Gli indicò con un gesto la sedia. «Vogliamo sederci?» «Dopo tutto questo? Sospetti ancora? Sei una sciocca». «Ah, davvero? Non credo. Avrebbe potuto essere tutta una commedia, per cancellare i miei sospetti. Siediti!» Ybor si sedette. Non aveva più voglia di parlare. Ripensò alla visita dei soldati. Sì, era probabile che quel sergente non l'avrebbe riconosciuto, se si fossero incontrati di nuovo. Comunque, era qualcosa da tenere a mente. Una faccia in più da ricordare. Da evitare. Se soltanto quell'altra grossa scimmia fosse tornata con Solraq! Le sue orecchie, come se gli fosse stata data l'imbeccata, captarono il ronzio d'un motore che si avvicinava. Gli diede una punta di soddisfazione, averlo udito per un intero secondo prima di Ylas. Dopotutto, i riflessi di quella donna non erano poi così pronti. Era Sleyg, da solo. Scivolò dentro col suo passo felpato, da gatto. «Solraq è morto», riferì, «Ucciso ieri sera». Ylas si volse verso Ybor, con un sorriso. E in quel sorriso c'era la morte. «Com'è conveniente per te», gli disse. «Non sembra strano perfino a te, signor agente del servizio segreto di Sixa, di aver scelto, fra tutti gli agenti di Seilla, proprio quello che è morto? Credo che questa faccenda sia durata anche troppo. Portalo in cantina, Sleyg. Questa volta gli strapperemo la verità. Anche se», concluse, rivolta a Ybor, «ti ucciderà». La sedia era fatta come una camicia di forza, con un sistema di morse e cinghie che lo tenevano completamente immobile. Non poteva muovere niente, salvo gli occhi. Ylas l'esaminò. Parve soddisfatta. «Vai a scaldare i tuoi ferri», ordinò a Sleyg. «Per prima cosa», spiegò a Ybor, «ti bruceremo le orecchie, un po' per volta. E se questo non ti avrà stancato troppo, cominceremo a far le cose sul serio». Ybor replicò: «Ti dirò la verità, adesso». La giovane donna sorrise beffarda a queste parole. «Non c'è da stupirsi che abbiate ormai il nemico alle porte. Siete stati cacciati da Aissu a sud, e da Ytal a nord. Adesso vi state ritirando nel vostro stesso territorio, perché siete dei codardi». «Sono convinto che tu sia Ylas», proseguì Ybor, senza scomporsi, «e magrado i miei ordini fossero che nessuno doveva sapere la mia missione,
credo di poterla rivelare a te. Non ho altra scelta. Allora, ascoltami. Sono stato mandato a Ynamre per...» Lei lo interruppe con un gesto rabbioso: «La verità!» «Vuoi ascoltarmi o no?» «Non voglio sentire un'altra favola». «Ascolterai ciò che ho da dire, che tu lo voglia o no. E terrai fermo il tuo gorilla fino a quando non avrò concluso. Oppure avrai la completa distruzione della nostra razza sulla coscienza». Le labbra di lei si piegarono in una smorfia. «Continua». «Hai sentito parlare dell'U 235? È un isotopo dell'uranio». «E chi non ne ha sentito parlare?» «D'accordo. Sto sottolineando un fatto, non una teoria. L'U 235 è stato separato in quantità più che sufficienti per le ricerche preliminari sull'energia nucleare, e cose del genere. L'hanno estratto dai minerali di uranio con nuove tecniche di separazione degli isotopi atomici. Adesso, loro ne hanno quantità misurabili in chilogrammi. Per "loro" intendo gli scienziati di Seilla. Ma non hanno ammucchiato insieme tutta questa quantità, o anche soltanto una cospicua porzione di essa. Perché essi non sono affatto sicuri che, una volta iniziata la reazione, questa si fermerebbe quando l'U 235 si fosse totalmente consumato, in un intervallo di tempo dell'ordine del microsecondo». Sleyg entrò nella cantina. Con una mano reggeva una stufa portatile. Con l'altra, un fascio di aste metalliche. Ylas gli fece segno di deporre tutto in un angolo. «Vai di sopra e fai la guardia», gli ordinò. «Ti chiamerò io». Una scintilla di esultanza guizzò in Ybor. Aveva colto una piccola concessione. «Ora, l'esplosione di mezzo chilogrammo di U 235», proseguì, «non sarebbe troppo insopportabilmente violenta, pur liberando un'energia equivalente a cinquanta milioni di chilogrammi di tritolo. Fatta esplodere su un'isola, potrebbe distruggerla tutta, sradicando gli alberi, uccidendo ogni forma di vita animale, ma anche quelle cinquanta tonnellate di tritolo non turberebbero seriamente il tonnellaggio davvero inimmaginabile che perfino una piccola isola rappresenta». «Presumo», lei l'interruppe, «che tu stia per arrivare al punto. Non mi starai dando, per caso, un'intera lezione sugli esplosivi ad alto potenziale?» «Aspetta. Il guaio è qui. Gli scienziati di Seilla hanno paura che quell'esplosione di energia sia così incomparabilmente violenta, così tremendamente concentrata in uno spazio ristretto, che la materia circostante potrebbe a sua volta esser fatta esplodere. Se riesci a immaginare la furia
di mezzo miliardo dei più violenti lampi che tu abbia mai visto concentrati in uno spazio grande la metà di un pacchetto di sigarette... avrai una sia pur vaga idea di ciò che significa l'iperviolenza concentrata di quell'esplosione. Ma non si tratta semplicemente della quantità di energia, e della spaventosa intensità concentrata in un minuscolo volume. «La materia circostante, incapace normalmente di mantenere una esplosione nucleare autosostentata, potrebbe venir stimolata a esplodere, a frantumare anche i suoi nuclei atomici, sotto l'effetto dell'energia scatenata dall'U 235, liberando anche la propria energia nelle vicinanze immediate. Vale a dire, l'esplosione non coinvolgerebbe soltanto mezzo chilogrammo di U 235, ma anche cinque o cinquanta o cinquemila tonnellate di altra materia. Quanto sarebbe estesa quest'esplosione indotta non è, attualmente, prevedibile». «Vai al punto», disse la donna, impaziente. «Aspetta. Lascia che ti completi il quadro principale. Una simile esplosione sarebbe davvero una cosa seria. Farebbe schizzare un'isola, o una fetta di continente, fuori dal pianeta. Scuoterebbe Cathor da un polo all'altro. Causerebbe terremoti così violenti da provocare gravissimi danni fin sul lato opposto del pianeta, e sbriciolerebbe ogni cosa entro un raggio di almeno mille miglia dal punto dell'esplosione. E intendo proprio ogni cosa. «Così, non hanno fatto l'esperimento. Potrebbero metter fine alla guerra in mezza giornata con bombe all'U 235 controllate. Ma potrebbero metter fine a quest'intera civiltà con una o due bombe incontrollate. Ma, una volta che avessero fabbricato queste bombe, non potrebbero mai sapere se sono del primo, o del secondo tipo, prima di usarle. Fino ad ora, non sono riusciti ad elaborare nessun modo, neanche in teoria, per controllare l'esplosione dell'U 235». «Se stai cercando di guadagnar tempo», dichiarò Ylas, «non ti servirà a nulla. Se avremo visite, ti sparerò là dove ti trovi». «Guadagnar tempo?» gridò Ybor. «Sto facendo del mio dannato meglio per abbreviarlo. Non ho ancora finito. Per favore, non interrompermi. Voglio completarti ogni particolare del quadro. Come mi hai fatto notare, gli eserciti di Sixa vengono progressivamente respinti verso il punto originario da cui sono partiti: Ynamre. Si erano messi in moto per conquistare il mondo, e a un certo momento c'erano arrivati vicini. Ma adesso lo stanno perdendo. Noi, quelli di Seilla, non oseremo mai far esplodere neppure una bomba nucleare sperimentale. Per noi, questa guerra è soltanto una fase, un periodo transitorio; per Sixa è l'intero futuro. Così, la gente di Sixa è dispe-
rata, e il dottor Sitruc ha fabbricato una bomba non con mezzo, ma con otto chilogrammi di U 235. Potrebbe completarla da un momento all'altro. Devo trovarlo e distruggere quella bomba. Se verrà usata, saremo perduti, in un modo o nell'altro. Perderemo la guerra, se l'esperimento avrà successo. Perderemo l'intero nostro mondo, se non lo avrà. Tu sola stai fra l'estinzione della razza o la sua continuazione». Parve che la donna stesse per balzargli addosso. «Tu menti! Distruggerla, hai detto. E come? Portandola fuori su un terreno sgombro e farla esplodere? In un deserto? In cima a una montagna? Non oseresti neppure sganciarla nell'oceano, per paura che esploda. Quando l'avrai in mano, sarà come stringere dieci milioni di tigri per la coda... non oseresti mai lasciarla andare». «Posso distruggerla. I nostri scienziati mi hanno detto come fare». «Esaminiamo un po' l'intera questione», fece la donna. «Hai parecchi punti da spiegarmi. Per prima cosa, mi sembra strano che tu abbia saputo di questa bomba, e noi no. Noi siamo assai più vicini agli sviluppi delle cose di voi, con tremila miglia d'acqua in mezzo». «Sworb», spiegò Ybor, «è un uomo in gamba, anche se può rimpinzarsi troppo di dolci. Ha portato con sé un disegno della bomba. Ascolta, Ylas, ogni istante è prezioso! Se il dottor Sitruc completa quella bomba prima che io la trovi, essa potrebbe venir prelevata in ogni momento e sganciata vicino al nostro quartier generale. E anche se non causerà l'esplosione apocalittica che ho descritto (ma è quasi certo che lo farà), spazzerebbe via la nostra armata meridionale con tutto il suo equipaggiamento, e perderemmo la guerra in mezza giornata». «Ci sono altri due punti che hanno bisogno di esser chiariti», proseguì la donna, con calma. «Perché proprio il mio campo di grano? Ce n'erano molti altri fra cui scegliere». «È stato un puro caso». «Forse. Ma una sfilza di puri casi non diventa sospetta, quando comprende anche la morte di Solraq?» «Non so nulla di ciò. Non sapevo che fosse morto». La giovane donna restò silenziosa. Camminò avanti e indietro per la cantina, le sopracciglia corrugate, fumando nervosamente. Ybor restò seduto, tranquillamente. Non poteva, del resto, far nient'altro. Perfino le sue dita erano imprigionate in ditali. «Sarei per metà propensa a crederti», lei gli disse, infine, «ma considera la mia posizione. Qui noi abbiamo un'efficiente organizzazione. Abbiamo
rischiato la vita, e molti di noi sono morti, nel crearla. So quanto siamo odiati e temuti dalle autorità. Se tu sei un agente di Sixa, e io avevo concluso che lo fossi, dal modo in cui parli la lingua, faresti qualunque cosa, perfino portando alle estreme conseguenze un piano elaborato come potrebbe essere questo, per scoprire i nostri metodi operativi e la lista dei nostri membri. Non posso rischiare tanto lavoro e tante vite su niente, salvo la tua parola». «Considera la mia posizione», ribatté Ybor. «Avrei potuto sfuggirti nel bosco, e anche qui, quando Sleyg ci ha lasciati soli. Ma non ho osato correre il più piccolo rischio. Vedi, è una questione di tempo. C'è una scadenza precisa, anche se ignota. Il dottor Sitruc potrebbe completare quella bomba in qualunque momento, e avvitarvi il detonatore. La bomba potrebbe venir prelevata in qualunque momento, dopo ciò, ed esser fatta esplodere. Se avessi tentato di fuggire, e tu mi avessi sparato — e sono certo che l'avresti fatto — ci sarebbero volute settimane per sostituirmi. Potremmo avere a disposizione soltanto poche ore, ancora». Ylas non era più calma e distaccata. I suoi occhi avevano un'espressione torturata, e le sue mani erano strette come se si stesse spremendo le parole fuori dal cuore: «Non posso permettermi di correre il rischio». «Non puoi permetterti di non correrlo», ribatté Ybor. Un improvviso rumore di passi risuonò sopra le loro teste. Ylas s'irrigidì, lanciò un'occhiata piena di sospetti e di congetture inespresse a Ybor, e uscì dalla cantina. Ybor abbozzò un sorriso agro: non gli aveva sparato, come invece aveva minacciato di fare. Restò seduto, immobile, ma ogni suo nervo era teso, fremente, a fior di pelle. E adesso? Chi era arrivato? Cosa avrebbe significato per lui? Chi stava farfugliando là sopra? Di chi erano quei piedi pesanti? Presto l'avrebbe saputo, poiché i passi si stavano dirigendo verso la porta della cantina; Ylas comparve, precedendo il sergente che era già stato là prima. «Ho l'ordine di perquisire ogni posto, qua intorno», dichiarò il sergente, «perciò chiudi il becco». I suoi occhi si spalancarono quando videro Ybor. «Oh, bene, benissimo!» gridò. «Se questo non è l'idiota di prima... Diiico! Ti sei svegliato!» Ybor trattenne il fiato, e un'idea gli balenò all'improvviso. «Sono stato drogato», disse, cogliendo al volo quell'occasione di scappare. «Ora l'effetto si è esaurito». Ylas corrugò la fronte, cercando di capire (Ybor se ne accorse) il significato delle sue parole. Proseguì, dandole l'imbeccata: «Il servo di questa
ragazza, quell'omaccione là sopra...» «È corso via», disse il sergente. «Lo prenderemo». «Capisco. Ieri sera mi ha assalito nel campo di mais, là fuori, mi ha portato qui e mi ha drogato». «Cosa faceva in quel campo?» «Stavo andando a incontrarmi col dottor Sitruc. Ho informazioni d'importanza vitale per lui». Il sergente si voltò verso Ylas: «Cos'hai da dire, ragazza?» La giovane donna scrollò le spalle. «Un estraneo, nel cuore della notte, cosa avrebbe fatto, lei?» «Allora, perché non hai detto niente, quando sono venuto qui non molto tempo fa?» «Se fosse risultato che era una spia, volevo che la sua cattura andasse a mio credito». «Voi civili...», commentò il sergente, disgustato. «Be', forse è questo il tizio che stiamo cercando. Perché hai ucciso quella squadra di cannonieri?» ringhiò, rivolto a Ybor. Ybor sbatté gli occhi. «Come fa a saperlo? Li ho uccisi perché erano nemici». Il sergente fece un gesto di minaccia con la sua pistola. Il suo volto s'incupì, burrascoso. «Ebbene, sporca spia...» «Un momento!» esclamò Ybor. «Che squadra di cannonieri? Vuol dire l'avamposto di Seilla, naturalmente, a Aissu?» «Intendo la nostra squadra di cannonieri, sorcio, nel bosco là fuori». Ybor ammiccò un'altra volta. «Non so niente di una squadra di cannonieri in quel bosco. Ascolti, deve portarmi subito dal dottor Sitruc. Ecco la mia storia. Sono stato nel territorio di Seilla, e ho appreso qualcosa che il dottor Sitruc deve conoscer subito. L'esito della guerra dipende da questo. Mi porti subito da lui, oppure ne subirà le conseguenze». Il sergente rifletté. «C'è qualcosa di strano, qui», commentò. «Perché l'hai legato così?» «Per interrogarlo», rispose Ylas. Ybor si avvide che la giovane donna aveva deciso di stare al suo gioco, ma non era ancora del tutto convinta. La verità era, come lui le aveva fatto notare, che non poteva permettersi di fare altrimenti. Il sergente sprofondò nelle sue riflessioni al punto che sembrò in catalessi. Poco dopo scrollò il testone. «Non riesco a inquadrare del tutto la cosa», bofonchiò, perplesso. «Tutte le volte che mi sembra di aver afferrato
qualcosa, mi trovo a sbattere contro un muro... Cosa stavo dicendo?» Divenne deciso, minaccioso. «Come si chiama lei?» sbottò, rivolto a Ybor. Ybor non poteva scrollare le spalle. Sollevò le sopracciglia. «I miei documenti dicono che sono Yenraq Ekor, un giornalista. Ma non si lasci ingannare. Darò il mio vero nome al dottor Sitruc. Lui lo conosce bene. Ma stiamo sprecando tempo, uomo!» escplose. «Mi porti subito da lui... Lei è peggio di questa stupida femmina!» Il sergente si voltò verso Ylas: «Ti ha detto perché voleva vedere il dottor Sitruc?» La donna scrollò di nuovo le spalle, fissando ancora perplessa Ybor. «Ha solo detto che doveva assolutamente incontrarlo». «Bene, allora...» il sergente si voltò verso Ybor, «perché vuole vederlo?» Ybor decise di rischiare. Quel babbeo era capace di tenerlo lì per tutta la giornata, facendogli domande senza senso. Raccontò la storia della bomba, quasi come l'aveva raccontata a Ylas. Studiò il viso del sergente, e vide che quanto gli stava dicendo era per lui del tutto incomprensibile Bene! Il soldato, come moltissima gente, non sapeva niente dell'U 235. Ybor passò allora alla fase fantasiosa e sconclusionata del suo discorso. «Così incontrollata», disse, «la bomba potrebbe distruggere l'intero pianeta, ridurlo in polvere all'istante. Quello che ho appreso, è un metodo per controllarla. I Seilla hanno una bomba quasi completata. La useranno per distruggere Ynamre. Ma se potremo usare la nostra per primi, allora saremo noi a distrugger loro. Vede, si tratta di uno schermo antineutroni che ho scoperto mentre mi trovavo come spia nei laboratori di Seilla. Impedirà ai neutroni, liberati dall'esplosione, di schizzare tutt'intorno nello spazio sbriciolando le montagne. Lo sa che un solo neutrone libero può spaccare in due questo pianeta? Il mio schermo invece li confinerà in un'area limitata, e la vittoria sarà nostra. Perciò, faccia in fretta! Il tempo a nostra disposizione potrebbe essere misurato in minuti!» Il sergente assorbì tutto. Non osava non crederci, poiché il quadro distruttivo che Ybor gli aveva dipinto era su scala così vasta che sedici generazioni d'uomini dello stampo del sergente non sarebbero bastate ad afferrarlo tutto. Il sergente si decise. «Ehi!» gridò verso la porta della cantina, e tre soldati entrarono. «Tiratelo fuori da quell'affare. Lo porteremo dal capitano. Portate anche la ragazza. Forse il capitano vorrà farle qualche domanda». «Ma io non ho fatto niente», protestò Ylas.
«Allora non hai niente da temere, bellezza. Se ti lasceranno andare, m'incaricherò io personalmente di te». Il sergente ostentò un orripilante sorriso che avrebbe voluto essere malizioso. Tanto valeva esser fatalistici, rifletté Ybor, mentre aspettava nell'anticamera del dottor Sitruc. Là dentro, poteva senz'altro esserci la morte, per lui, ma anche in tal caso valeva la pena rischiare. Se lui doveva essere la pedina di un gioco così grande — del gioco più grande di tutti, in effetti — allora, che fosse così. Finora, aveva avuto successo. E gli venne in mente, mentre sbirciava le sue due guardie, che il successo finale avrebbe avuto come risultato la sua morte. Non poteva sperare di distruggere quella bomba e uscir vivo da quella fortezza. Quelle uscite rigorosamente sorvegliate avrebbero decretato la sua fine, anche se fosse riuscito ad allontanarsi da questo laboratorio quanto bastava a raggiungere una di esse. Ma... fin dall'inizio non aveva seriamente sperato di uscirne vivo. Era stata fin dall'inizio una missione suicida, lui ben lo sapeva. Ed era stata questa consapevolezza a dare nerbo e sostanza alla sua storia, per ogni altro verso fragile. Il capitano, proprio come il sergente, non aveva osato non credere alla sua storia, ma soltanto per la passione e la frenesia, quasi, con cui l'aveva raccontata, grazie alla sua incrollabile determinazione a impedire la catastrofe finale. Non che, col capitano, avesse cianciato a ruota libera di schermi antineutrone. Il capitano era intelligente, paragonato al suo sergente. Così, Ybor aveva parlato, con lui, di argomenti assai più prosaici e tecnici, come ad esempio il controllo della vampa termica, e aveva reso la cosa convincente quant'era bastato a farsi scortare fin qui da un gruppo di guardie che diventavano sempre più inquiete ed angosciate ad ogni giro delle ruote del furgone. A quanto pareva, qui nei laboratori sperimentali del governo la faccenda della bomba era ben conosciuta, poiché tutte le guardie avevano un'espressione ossessionata, come se sapessero che non avrebbero mai sentito l'esplosione se qualcosa fosse andato storto. Tanto meglio, allora. Se in qualche modo fosse riuscito ad approfittare di questa situazione, come era stato bravo a cogliere ogni circostanza propizia fino a quel momento, avrebbe potuto... potuto... Si scrollò di dosso le congetture. Le guardie balzarono sull'attenti quan-
do una porta interna si apri e un uomo squadrò Ybor. Era un uomo magro, gli occhi scuri e vividi, un volto dalla forma singolare, e un'aria imperiosa. Indossava un camice, e dalle maniche uscivano due mani dall'aspetto agile ed efficiente. «Così, lei sarebbe l'obiettivo finale», disse, in tono sbrigativo, rivolto a Ybor. «Entri». Ybor lo seguì dentro il laboratorio. Il dottor Sitruc gli indicò una sedia scomoda, dallo schienale dritto, sottolineando il suo ordine con una pistola che gli era comparsa all'improvviso tra le mani. Ybor si sedette, e fissò l'altro con sguardo fermo. «Cosa intende dire, con obiettivo finale?» chiese. «Non è piuttosto ovvio?» chiese a sua volta lo scienziato, in tono ironico. «Quegli aerei che ci sono passati sopra la testa la scorsa notte erano vuoti: andavano troppo in fretta. Ho fatto ipotesi tutta la giornata sul loro scopo. Adesso ho capito. Hanno sganciato lei». «Ho sentito qualcosa su quegli aerei, infatti», annuì Ybor, «ma non li ho visti». Il dottor Sitruc sollevò cortesemente le sopracciglia. «Mi spiace ma non le credo. Questa è la mia interpretazione degli avvenimenti: quegli aerei di Seilla avevano un compito preciso, far atterrare un loro agente dentro le nostre linee, con l'incarico di distruggere la bomba a uranio. Ero al corrente da qualche tempo che il comando supremo di Seilla sapeva della sua esistenza, e mi ero chiesto quali iniziative avrebbero intrapreso per distruggerla». Ybor non vide alcun motivo per restare sulla difensiva. «Anche loro stanno fabbricandosi la bomba a uranio», disse, «ma hanno un sistema per controllarne gli effetti. Sono qui per parlargliene, cosicché lei possa applicarlo anche alla nostra bomba. Abbiamo tempo». Il dottor Sitruc replicò: «Ho sentito i rapporti su di lei, stamattina. Lei ha fatto delle dichiarazioni sconsiderate, senza senso. La mia opinione personale è che lei sia un profano, con una conoscenza assai scarsa dell'argomento sul quale è stato invece tanto loquace. Mi propongo di scoprire quanto lei sa, prima di ucciderla. «Oh, sì», aggiunse, sorridendo, «lei morirà in ogni caso. Nella mia attuale posizione, la conoscenza è potere. Se scoprissi che lei sa davvero qualcosa che io non so, voglio esserne soltanto io il depositario. Capisce il mio punto di vista?» «Lei qui è come un dio. È fin troppo chiaro, dall'atteggiamento delle
guardie». «Esatto. Ho il controllo della più grande forza esplosiva nella storia del mondo, e ogni mio capriccio viene obbedito come un ferreo ordine. Se decidessi di farlo, potrei dar ordini anche all'Alto Comando. Non hanno altra scelta, se non obbedirmi. Ora, lei... il suo nome non ha importanza, non me lo dica, non c'è dubbio che sia falso... mi dica ciò che sa». «Perché dovrei? Se in ogni caso dovrò morire, questo io le dico: per me, lei può andare all'inferno. Io so qualcosa che lei non conosce e non ha il tempo di procurarsi da nessun altro, se non da me. Prima che una delle sue spie riesca a farsi strada abbastanza in alto per sapere ciò che io ho appreso, Sixa sarà stata sconfitta. Non vedo alcuna ragione di darle gratis la mia informazione. Gliela venderò in cambio della vita». Ybor fece passare lo sguardo per tutto il piccolo, splendente laboratorio intorno a lui, mentre parlava, e infine la vide. Non era particolarmente grande; le sue dimensioni certo non giustificavano la stilettata di puro terrore che gli trafisse il cuore. Ciò che più lo sconvolgeva, era il fatto che la bomba fosse finita. Era sospesa a un'intelaiatura a prova d'urto. Perfino un massiccio bombardamento non l'avrebbe scossa. Sarebbe stata fatta esplodere quando e dove avrebbe deciso il dottor Sitruc. «Sì, è senz'altro giustificato, se diventa bianco come un lenzuolo», ridacchiò il dottor Sitruc. «Eccola, l'arma più distruttiva che il mondo abbia mai conosciuto». Ybor deglutì convulso. Sì, eccola là. Il mezzo per provocare, letteralmente, la fine: la fine del mondo. Pensò con una smorfia a quegli sciocchi, fanatici, i quali sostenevano ancora che quella guerra sarebbe terminata miracolosamente per un intervento divino: non sarebbero sopravvissuti abbastanza per chiamare quella bomba un miracolo! Che razza di effetto disastroso per la loro dottrina sarebbe stata quell'esplosione, se fossero riusciti a venirne fuori illesi! «Sono impallidito», rispose al dottor Sitruc, «perché la vedo come una forza cieca, incontrollabile. La vedo come la fine di un ciclo, con la morte di ogni forma di vita. Ci vorranno millenni prima che un'altra forma di civiltà raggiunga il nostro livello attuale». «È vero che l'elemento caso entra qui in gioco. Se la bomba dovesse far esplodere la materia circostante per un raggio considerevole, è senz'altro possibile che ogni forma di vita animale venga distrutta in un attimo. Ma se, al contrario, non farà esplodere la materia circostante, noi avremo conquistato il mondo. Io solo... e adesso anche lei... lo sappiamo. L'Alto Co-
mando vede soltanto la vittoria, in quell'arma. Ma basta con le chiacchiere. Lei è pronto a scambiare la sua vita contro l'informazione sul modo in cui controllare l'esplosione. Se lei mi convincerà di possedere davvero questa conoscenza, la lascerò libero. Di che si tratta?» «Questo ci porta a un punto morto», obiettò Ybor. «Io non glielo dirò fino a quando non sarò libero, e lei non mi libererà fino a quando non glielo dirò». Il dottor Sitruc fece una smorfia. «È vero», annuì. «Be', allora che ne dice di questo? Darò alla guardia là fuori un foglio con su scritto l'ordine che le sia consentito di andarsene senza venir molestato dopo che sarà uscito da questo laboratorio». «E cosa mai potrà impedirle di uccidermi qua dentro, una volta che le avrò detto ciò che vuole!» «La mia parola». «Non basta». «Che altra scelta le rimane?» Ybor ci pensò su, e fu costretto ad ammettere che l'altro aveva ragione. Era ineluttabile che prima o poi, in quella faccenda, lui o il dottor Sitruc avrebbero dovuto fidarsi dell'altro. Be', avrebbe cercato di guadagnar tempo. Adesso aveva soprattutto bisogno di tempo. «Scriva quel foglio», disse. Il dottor Sitruc andò alla scrivania e cominciò a compilare il lasciapassare. Ma continuò a lanciare occhiate in direzione di Ybor, il che escluse la possibilità di aggredirlo con successo. Anche il balzo più rapido sarebbe stato fatale, poiché il dottore era a una distanza tale che avrebbe avuto tutto il tempo di sollevare la pistola e sparare. Ybor aveva la sensazione che il dottore fosse un eccellente tiratore. Attese. Il dottor Sitruc chiamò una guardia, gli diede il foglio e ordinò che a Ybor fosse concesso di leggerlo. Ybor lo lesse, annui, e la guardia usci. «Adesso, dunque...» cominciò il dottor Sitruc, ma fu interrotto dal telefono. «Le interesserà sapere», disse poi, «che la ragazza da cui era stato catturato è stata portata via alle guardie che la sorvegliavano da un gruppo di fanatici della resistenza». «Non m'interessa granché», replicò Ybor. «Salvo che... ma sì!» gridò. «M'interessa! Dimostra la mia autenticità. Lei sa quant'è diffusa la resistenza. Ecco ciò che è successo: sapevano che stavo arrivando, conoscevano il mio percorso, e mi hanno catturato. Stavano per torturarmi nella loro cantina. Ho detto la verità a quel sergente. Adesso cercheranno
di rubare la bomba. Se l'avessero, potrebbero dettare le condizioni». Il tutto suonava un po' illogico, ma Ybor si sforzò di mettere nella sua voce tutta la persuasione che poteva. Il dottor Sitruc parve pensieroso. «Che ci provino. Ma adesso, sentiamo». L'aggrovigliata ragnatela di menzogne da lui intessuta ora lo intrappolava. Lui non conosceva nessun sistema per tenere sotto controllo l'esplosione della bomba. Ma il dottor Sitruc non lo sapeva, e finché non avesse saputo di questa sua ignoranza, non gli avrebbe sparato. Lui, Ybor, doveva guadagnar tempo e tenersi pronto alla prima occasione. Aveva guadagnato un punto: se fosse riuscito a valicare quella porta, sarebbe stato libero. Doveva allora varcare quella porta, ma con la bomba... Ma la pistola la stringeva in pugno il dottor Sitruc. «Seguiamo dunque le diverse fasi della reazione», cominciò. «Il controllo!» sbottò il dottor Sitruc. Il volto di Ybor s'irrigidì. «Non faccia il duro. La mia vita dipende da questo. Devo convincerla che so di cosa parlo, e posso farlo soltanto descrivendo tutto dall'inizio. Se continua a interrompermi, allora vada al diavolo». Lo strano volto del dottor Sitruc s'infiammò di collera. Dopo un attimo, però, si placò. Annuì e disse: «Proceda». «L'ossigeno e l'azoto non bruciano... se lo facessero, il primo fuoco su questo pianeta avrebbe fatto saltare l'atmosfera in un'unica, immensa esplosione. L'ossigeno e l'azoto bruciano se vengono riscaldati fino a tremila gradi centigradi, e nel farlo emettono energia. Ma non una quantità sufficiente di energia per mantenere quella temperatura, così si raffreddano in fretta e il fuoco si spegne. Ma se si mantiene quella temperatura artificialmente... be', non c'è dubbio che le sarà familiare il processo per ottenere l'ossido nitrico». «Senza dubbio», fu l'acido commento del dottor Sitruc. «Bene. L'U 235 eleva localmente la temperatura della materia al punto in cui questa, uh, "brucia" ed emette energia. Perciò, diciamo che facciamo esplodere un pizzico di U 235; La materia circostante esplode anch'essa, quando viene portata a una temperatura quasi inconcepibile. Si raffredda in fretta, forse nell'arco di un centomilionesimo di secondo arriva al di sotto del punto di accensione. Poi, forse, passa un intero milionesimo di secondo prima che scenda alla temperatura d'un milione di gradi, e potrebbe trascorrere un minuto o giù di lì prima che divenga visibile nel senso normale della parola. Adesso, la radiazione visibile non rappresenta più di un cen-
tomillesimo della radiazione totale a un milione di gradi... ma anche così, sarebbe parecchie centinaia di volte più brillante del sole. Giusto?» Il dottor Sitruc annuì. A Ybor parve di cogliere una punta di deferenza nel suo annuire. «Questo è semplicemente il ciclo di temperatura dell'U 235, al quale si aggiunge l'esplosione della materia circostante, dottor Sitruc. Immagino di star semplificando eccessivamente la cosa, ma non c'è bisogno che scendiamo nei particolari. Adesso, la cosa più importante è la pressione delle radiazioni. Il puro effetto di velocità, la pressione fisica della luce di tutta quella roba a un milione di gradi, ammonterebbe a tonnellate, e tonnellate, e tonnellate di pressione. Farebbe crollare gli edifici come un vento titanico, se non fosse che il semplice assorbimento di una tale spaventosa energia volatilizzerebbe gli edifici prima che potessero crollare al suolo. Giusto?» Il dottor Sitruc annuì di nuovo. Quasi sorrise. «Bene», proseguì Ybor. Adesso stava entrando nella fase in cui avrebbe dovuto tirare a indovinare, e se avesse sbagliato, non avrebbe avuto una seconda possibilità. «Ciò di cui abbiamo bisogno è uno smorzatore, qualcosa che blocchi la materia circostante. In tal modo potremo limitare gli effetti dell'esplosione alle aree desiderate, e impedire che distrugga le città fin sulla faccia opposta di Cathor. Il metodo per applicare lo smorzatore dipende dall'esatta meccanica di funzionamento della bomba stessa». Ybor si alzò in piedi con calma, e attraversò il laboratorio in direzione dell'intelaiatura che sorreggeva la bomba. Non rivolse neppure un'occhiata al dottor Sitruc: non osò farlo. Gli sarebbe stato consentito di raggiungere la bomba? Una pallottola inaudibile, non percepita, gli avrebbe trapassato il cervello prima di fare ancora un altro passo? Quand'ebbe superato metà distanza, gli parve di aver valicato almeno mille miglia. Ogni passo gli sembrava fatto al rallentatore, e lungo molte leghe. E la bomba era ancora a molte miglia di distanza. Ma riuscì a mantenere costante il passo, combattendo con ogni atomo di volontà il folle desiderio di precipitarsi di corsa alla sua meta, ghermirla e fuggire. Si fermò davanti alla bomba, abbassò il suo sguardo su di essa. Annuì, con aria grave: «Capisco», disse, ricordando i disegni di Sworb e le dettagliate spiegazioni che gli erano state fornite. «Due monoblocchi emisferici di ferro, e fissati ad essi i contenitori arancione in lega di cadmio. E il detonatore — vedo che è innescato — un piccolo recipiente pure in lega di cadmio che contiene un frammento di radium in un contenitore più piccolo
di berillio. E una piccola carica di esplosivo, abbastanza potente, però, da infrangere le pareti di cadmio. Al momento voluto — vuol correggermi se sbaglio? — le due porzioni di ossido di uranio vengono scagliate a unirsi insieme al centro della cavità. Il berillio attivato dal radium spara neutroni dentro la massa... un istante dopo si attiva la reazione a catena, con gli ulteriori neutroni prodotti dall'U 235 che si fissiona. Giusto?» Il dottor Sitruc si era avvicinato ed era ormai alle spalle di Ybor. «Come fa a saper tante cose di questa bomba?» chiese, con una chiara sfumatura di sospetto. Ybor gli lanciò un sorriso noncurante dietro la spalla: «È ovvio, non le pare? Il cadmio blocca i neutroni, e oltre ad essere efficace, è economico. Così, il radium e l'U 235 si tengono separati con sottili pareti di cadmio, fragili così che basti una piccola esplosione a infrangerle, ma robuste quanto basta a poter essere maneggiate con ragionevole attenzione». Il dottore ridacchiò. «Diamine, ciò che lei sta dicendo è proprio vero». Si rilassò, e nel medesimo istante Ybor partì all'attacco. Avvolse la sua corta coda prensile intorno alla canna della pistola del dottor Sitruc, diede uno strappo all'arma, abbassandola, e contemporaneamente il suo pugno si schiantò sul mento dello scienziato. Con l'altra mano si affrettò a strappargli l'arma dalle dita. Prima che il corpo del dottore crollasse sul pavimento, gli vibrò un colpo col calcio della pistola, facendogli perdere completamente i sensi. Poi, fissò per un attimo la figura distesa, esanime ai suoi piedi, socchiudendo gli occhi. Poteva rischiare uno sparo? No, perché le guardie non l'avrebbero lasciato andar via, malgrado il foglio del dottore, senza prima indagare. Be'... Vibrò un altro colpo col calcio della pistola. In ogni caso, il dottor Sitruc non avrebbe costituito una minaccia per un po' di tempo. Ed era appunto un po' di tempo ciò di cui Ybor aveva bisogno. Per prima cosa, doveva uscire di lì. Ciò significava togliere il detonatore alla bomba. Si accostò ancor di più all'intelaiatura; esaminò il detonatore. Cercò di svitarlo: era troppo stretto. Si guardò intorno, alla ricerca di una chiave inglese. Non ne vide nessuna. Restò lì, immobile, mentre sentiva il panico salire in lui... Poteva permettersi di perder tempo a cercare la chiave che gli avrebbe permesso di togliere il detonatore? Se qualcuno fosse entrato, sarebbe stata finita, per lui. No, doveva uscire mentre poteva ancora farlo. E se qualcuno gli avesse sparato, e avesse colpito la bomba, sarebbe sta-
to l'addio a Cathor e a tutto ciò che c'era sopra. Ma non osava aspettare là dentro. E doveva smettere di sudar freddo e di tremare. Afferrò l'incastellatura e s'incamminò con cautela verso la porta. Fuori, in anticamera, le guardie che l'avevano scortato fin là si sbiancarono in volto. Il sangue uscì dai loro volti come l'aria da un palloncino bucato. Rimasero lì, immobili, salvo il lieve tremito delle ginocchia, seguendo con gli occhi Ybor che usciva in corridoio. Senza molestarlo, aveva scritto il dottor Sitruc. E non soltanto non lo molestarono, ma si scostarono da lui. La voce sembrò diffondersi in tutto l'edificio come un gas velenoso sospinto da un'energica brezza. Le porte si spalancavano di colpo, figure indistinte si precipitavano fuori e davanti a Ybor e al suo fardello. Scienziati, guardie, ragazze dalle belle gambe, ragazzi dalle ginocchia nude, tutti correvano via. Dove? si chiese Ybor col cuore in gola. Non c'era un solo luogo sicuro in tutto il pianeta. Per quanto veloci potessero fuggire, per quanto lontano avessero potuto andare, la bomba li avrebbe comunque raggiunti, se lui fosse caduto, o se fosse esplosa accidentalmente. Ma come fare a procurarsi un veicolo, se tutti fuggivano? Magari, sarebbe stato costretto a raggiungere a piedi l'aeroporto, se avesse saputo dove si trovava. Ma, quando fosse uscito all'esterno, fuori dai laboratori, il primo poliziotto all'oscuro dell'esistenza di quella bomba avrebbe potuto fermarlo, confiscargli l'arma, e forse farla esplodere. Doveva restarne in possesso a tutti i costi. Ma il problema, almeno in parte, fu risolto da qualcun altro per lui. Quando emerse dall'edificio, con la gente che continuava a sparpagliarsi in tutte le direzioni, una forma gigantesca uscì da dietro un pilastro e l'afferrò per un braccio. «Sleyg», quasi urlò Ybor, in un misto di spavento e sollievo. «Vieni», disse Sleyg, «Ylas ti vuole». «Fammi arrivare a un aereo!» esclamò Ybor. Gli parve di averlo detto con voce calma, ma gli occhi gialli di Sleyg lo fissarono, ammiccando in modo strano. L'omaccione annuì. Si avviò, con un cenno imperioso. Non pareva che la bomba lo incuriosisse. Ybor lo seguì fino a una piccola auto ferma accanto al marciapiede. Salirono, e Sleyg s'infilò in mezzo al traffico. Così, pensò Ybor, Ylas lo voleva? E perché? Ma lasciò perder subito le congetture, per concentrarsi sulla strada davanti a lui, stringendo la bomba fra le braccia per impedirle di sobbalzare.
Udì un ronzio d'aerei e cercò ansioso con lo sguardo, nel cielo. Gli ci sarebbe proprio voluta un'incursione aerea, adesso, o un colpo che centrasse quell'auto. Gli avevano garantito che non sarebbe stata tentata nessuna incursione fino a quando non fossero stati certi del suo successo o del suo fallimento, ma gli altri ufficiali erano davvero una strana consorteria. Non si sapeva mai cosa gli sarebbe saltato in testa, annullando, magari, gli ordini dati da loro stessi pochi minuti prima. Tuttavia nessuna sirena si mise a suonare, perciò quegli aerei dovevano essere Sixa. Ybor tirò un sospiro di sollievo. L'auto continuò la sua corsa, e Ybor cominciò a lambiccarsi il cervello a proposito della gigantesca figura accanto a lui. Come aveva fatto a sapere, Sleyg, che lui sarebbe uscito proprio in quell'istante dall'edificio? Come sapeva che lui era lì dentro? La resistenza aveva informatori addirittura dentro il laboratorio personale del dottor Sitruc? Ma anche queste illazioni erano inutili, e Ybor le accantonò, mentre Sleyg usciva dalla città, continuando a guidare l'auto in mezzo ai campi di grano. A quanto pareva, i Sixa mangiavano polenta e nient'altro, poiché non si vedeva nessun altro prodotto agricolo. Sleyg lasciò la strada principale, prendendo un sentiero tutto gobbe, e Ybor aumentò ancor di più la stretta sulla bomba. «Prendila con calma», lo ammonì. Sleyg rallentò, obbediente, e Ybor s'interrogò un'altra volta sull'atteggiamento di quell'uomo. Ybor non si sentiva prigioniero, ma neppure gli sembrava d'esser lui a dirigere le operazioni. Quest'incertezza sul suo ruolo lo inquietava. Uscirono su un tratto di terreno spoglio, pianeggiante, al centro del quale c'era un aereo, con le eliche che giravano lentamente. Sleg puntò verso di esso. Arrestò la macchina, invitò con un gesto Ybor a scendere. Con un altro gesto, lo invitò a salire nell'aereo. «Dammi la tua cassetta degli attrezzi», gli disse Ybor, e l'omaccione andò a prenderla. L'aereo aveva le insegne di Sixa. Ma questo non lo avrebbe certo fermato. Usando la bomba come minaccia, avrebbe potuto indurre chiunque a far ciò che lui voleva. Tuttavia, si sentiva sempre più incerto e angosciato. Un attimo prima di metter piede sulla breve rampa, udì uno sparo provenir dall'aereo. Si abbassò d'istinto, ma fu Sleyg a cadere, con un foro netto tra gli occhi. Ybor restò immobile, pronto a scattare. Il portello della fusoliera scivolò di Iato e un volto guardò fuori.
«Solraq!» gridò Ybor. «Credevo tu fossi morto!» «Era ciò che volevano farti credere, Ybor. Vieni dentro». «Aspetta che prendo quegli attrezzi». Ybor porse l'ingabbiatura con la bomba all'uomo dalla pelle scura che lo fissava sogghignando. «Tieni il bimbo», gli disse. «Non mollarlo. Se dovesse piangere, non faresti in tempo a udirlo». Afferrò la cassetta degli attrezzi e salì nell'aereo. Solraq fece un gesto imperioso al pilota, e l'aereo decollò. Ybor si mise cautamente al lavoro sul detonatore, mentre Solraq parlava. «Sleyg era un furbacchione», disse Solraq. «Credevamo fosse una scimmia ottusa, ma stava facendo il doppio gioco, e non era ormai molto lontano dal concluderlo. Ma, poi, sei comparso tu e hai fatto il mio nome perché fosse possibile identificarti. Sleyg si è trovato con l'acqua alla gola, poiché, se tu ci avessi convinto, ti avremmo aiutato nella tua missione, facendoti arrivare al laboratorio del dottor Sitruc e alla sua bomba. E tutto il lavoro di Sleyg, che non era ancora pronto a far rapporto ai suoi mandanti, sarebbe stato vanificato. Così, Sleyg ti ha riferito che ero morto. Poi ha fatto venire i soldati per perquisire il casolare, ben sapendo che ti avrebbero trovato e arrestato. Ma quel sergente donnaiolo gli ha buttato per aria i piani un'altra volta, quando ha deciso di portarsi dietro anche Ylas. Sleyg, comunque, ha tentato di mettere a frutto anche questo imprevisto, riferendo dell'arresto di Ylas agli altri della resistenza: sperava, capisci, costringendo i membri della resistenza a una grande riunione planetaria, di procurarsi così le ultime, preziose informazioni che mancavano al suo rapporto. «Ma, vedi, quel suo rapporto non l'ha mai trasmesso», proseguì Solraq. «Era sorvegliato, e aveva paura di correr rischi. Ylas, infine, ha potuto incontrarmi, e abbiamo avuto uno scambio d'idee, abbiamo perquisito le sue cose e abbiamo trovato le prove del suo doppio gioco. Poi abbiamo organizzato questo appuntamento... nel caso in cui tu fossi riuscito a cavartela. Ylas ha detto a Sleyg dove ti trovavi, e di condurti qui. Io non credevo che ne saresti uscito vivo, ma lei sì, ha insistito che eri troppo abile per restare intrappolato. Be', ce l'hai fatta, e tutto è per il meglio. Non che avrebbe importato molto: se tu avessi fallito, ci saremmo ugualmente impadroniti della bomba, oppure l'avremmo fatta esplodere nel laboratorio del dottor Sitruc». Ybor non si preoccupò di dirgli che non aveva nessuna importanza dove la bomba sarebbe stata fatta esplodere. Era troppo occupato a impedire che scoppiasse là, nell'aereo. Finalmente riuscì a estrarre il detonatore. Invitò
con un cenno Solraq ad aprire lo scomparto delle bombe dell'aereo. Quando le porte pieghevoli si spalancarono davanti ai loro piedi, vi lasciò cadere il detonatore. «Gli abbiamo strappato i denti», commentò, «ma ben presto gli avremo cavato anche i visceri». Svitò i morsetti e staccò dai due emisferi di ferro i contenitori di cadmio. Prese un sottile scalpello dalla cassetta degli attrezzi e praticò un foro prima su un contenitore, e poi sull'altro, e, sempre tenendoli ben separati, ne fece uscire tutta la polvere. Questa, cadendo fuori dall'aereo, ora si stava sparpagliando su un lungo tratto attraverso l'aria, diluendosi. E quelli che, adesso, avrebbero potuto continuare a vivere, non si sarebbero mai accorti di essa. Sarebbero vissuti, perché la guerra sarebbe finita prima che il dottor Sitruc potesse fabbricare un'altra bomba. Ybor alzò la testa. Aveva gli occhi umidi. «Credo sia finita», disse. «Dove stiamo andando?» «Ci lanceremo col paracadute e lasceremo che questo aereo precipiti e s'inabissi, non appena avremo avvistato la nostra nave, cinquanta miglia al largo. Faremo rapporto e riceveremo ordini. Questa missione è compiuta». Il velo di Astellar The Veil of Astellar di Leigh Brackett Thrilling Wonder Stories, Primavera Gli smaglianti racconti di Leigh Brackett giunsero per la prima volta alle riviste di fantascienza nel 1940, e da quel giorno i suoi contributi comparvero regolarmente sulle pagine di Planet Stories e Thrilling Wonder Stories. Molti dei suoi migliori lavori avevano la lunghezza dei romanzi brevi, perciò furono ristampati con scarsa frequenza, ma una raccolta della sua migliore narrativa breve è comunque disponibile col titolo The Best of Leigh Brackett, curata dal suo defunto marito Edmond Hamilton. «Il Velo di Astellar» è una storia indimenticabile sull'amore, e sul prezzo dell'amore, il cui protagonista (stando a Ed Hamilton) è stato ispirato, probabilmente, da Humphrey Bogart. (Tutto dipende, spesso, dal momento in cui càpita. Quando l'attore Ja-
mes Dean morì, gli furono dedicati oscuri trafiletti nelle pagine interne dei giornali. Ma, dopo la sua morte, uscirono un paio di film, e James Dean letteralmente esplose in un «caso» nazionale. Se avesse potuto tornare in vita e morire di nuovo due anni più tardi, avrebbe ricevuto un trattamento completo alla Elvis Presley. Analogamente, quando Leigh Brackett scriveva negli anni quaranta, fu pubblicata soltanto in riviste minori, quali Planet e Thrilling Wonder. Ma la sua reputazione lentamente crebbe, e quando fu una stella di grandezza, era giunta a scrivere soggetti a Hollywood. Se le sue storie degli anni quaranta fossero state scritte, invece, negli anni sessanta, le migliori riviste si sarebbero sbranate fra loro per il privilegio di pubblicarle. I.A.) Precisazione Poco più di un anno fa, Tempo Standard Solare, un razzo postale sfrecciò dentro il condotto ricevitore, al quartier generale dell'Autorità Spaziale Intermondi, su Marte. Conteneva un manoscritto che raccontava una storia così strana e terribile da render difficile credere che una qualsiasi creatura umana sana di mente potesse essere stata capace di crimini così tremendi. Tuttavia, dopo un anno di accurate indagini, si è concluso che la storia è autentica al di là di ogni dubbio, e ora l'ASI ha deciso di renderla pubblica, così come è stata tirata fuori da quel razzo tutto ammaccato. Il Velo — la luce venuta dal nulla per inghiottire le navi — è scomparso. Gli spaziali di tutto il sistema solare, i capitani delle carrette commerciali fino a quelli dei transatlantici di linea, hanno accolto questa notizia come possono farlo soltanto degli uomini che sono vissuti in costante pericolo. Il Velo non c'è più, e con esso buona parte dell'agghiacciante terrore dell'Aldilà Alieno. Ora conosciamo il suo nome completo: il Velo di Astellar. Sappiamo il suo luogo di origine: un mondo messo fuorilegge dallo spazio e dal tempo. Sappiamo il perché della sua esistenza. Grazie a questa storia, scritta dall'anima angosciata di un essere umano, abbiamo saputo tutto ciò... e anche il modo in cui il Velo è stato distrutto. 1 Il cadavere presso il canale
C'era stata una rissa da Madam Kan, sul Canale Inferiore di Jekkara. Un piccolo puzzolente marziano si era preso una bella sbronza di thil, e ben presto quei tirapugni irti di punte metalliche, in uso da queste parti, avevano cominciato a volare, e il piccolo marziano aveva, per così dire, azionato per l'ultima volta il boccaglio dell'autorespiratore. Avevano scaraventato quel poco che restava di lui sui lastroni dell'argine, e quasi lo calpestai. Suppongo che fu per questo che mi fermai — per non incespicare su di lui. E sgranai gii occhi. Il rosso bagliore del sole s'irradiava dal limpido cielo verde. La sabbia rossa sussurrava nel deserto al di là delle mura della città, e l'acqua rossobruna scorreva, lenta e cupa, nel canale. Il marziano giaceva supino, il corpo contorto, la gola lacerata dalla quale spillava un rosso più vivido d'ogni altro rosso, sulle pietre sudice. Era morto. Sì, morto, gli occhi verdi sbarrati. Rimasi accanto a lui, non so per quanto tempo. Il tempo si era fermato. Ora la luce del sole non brillava più, non sentivo la gente che passava, nessun suono... niente! Niente, salvo quel viso morto che mi fissava, Gli occhi verdi, le labbra contratte in un ghigno sui denti bianchi. Non lo conoscevo. Vivo, era soltanto un altro ladruncolo marziano. Morto, era soltanto carne. Morta spazzatura marziana! Era come il tempo non esistesse più. C'era soltanto il volto sogghignante d'un morto. E poi, qualcosa mi toccò. Un pensiero. Come l'improvvisa esplosione d'una fiamma, colpì la mia mente, attirandola come un magnete avrebbe fatto con l'acciaio massiccio. Il pensiero di qualcuno diretto verso di me. Un nauseante orrore, una paura cruda e una pietà così profonda da scuotermi il cuore... Ora fui investito da un turbinio d'immagini che si fusero alle parole. «Sembra Lucifero che pianga il paradiso perduto», diceva il messaggio. «I suoi occhi... oh, Angelo delle Tenebre, i suoi occhi!» Chiusi quegli occhi. Il sudore mi sprizzò, gelido, da tutti i pori, barcollai, poi con uno sforzo riuscii a riportare a fuoco il mondo intorno a me. La luce del sole, la sabbia, il frastuono, l'affollarsi e la puzza della gente, il tuonare dei razzi allo spazioporto, a due miglia marziane di distanza. Tutto a fuoco. Sollevai lo sguardo e vidi la ragazza. Era lì, appena oltre il morto, quasi lo toccava. C'era un giovane con lei.
Mi accorsi appena di lui, in quel momento non aveva importanza. Nient'altro importava, solo la ragazza. Indossava un abito azzurro, e il suo sguardo grigiofumo mi fissava da un volto bianco come un osso scarnificato. La luce del sole e la gente sparirono di nuovo, lasciandomi solo con lei. Sentii il medaglione che portavo al collo bruciarmi la pelle sotto la nera tuta da spaziale. Mi parve che il mio cuore cessasse di battere. «Missy», dissi, «Missy». «Come Lucifero... ma un Lucifero diventato santo», diceva la sua mente. D'improvviso, scoppiai a ridere. Una risata breve e aspra. Il mondo tornò al suo posto e vi rimase, e anch'io. Missy. Missy, stupidaggini! Missy era morta da molto, moltissimo tempo! Erano stati i suoi capelli rossi a ingannarmi. Gli stessi capelli rossoscuri, dritti e folti come la criniera di un cavallo, avvolti intorno al suo bianco collo, e gli occhi grigiofumo. C'erano anche un po' delle sue lentiggini, e il modo in cui un angolo della bocca continuava a sollevarsi, come se non potesse smettere di sorridere. Per il resto, non assomigliava molto a Missy. Era più alta e più ossuta. La vita l'aveva maltrattata un po', e si vedeva. Missy non aveva mai avuto quell'espressione stanca, cupa. Non sapevo neppure se avesse sviluppato un carattere duro, inflessibile, come la ragazza che in quel momento mi stava davanti. Allora, non sapevo leggere il pensiero. Questa ragazza che mi stava fissando aveva un sacco d'idee nella testa che non avrebbe certo voluto far sapere agli altri. Non mi piaceva il fatto che mi avesse colto in uno dei miei rari momenti in cui ero scoperto. «Cosa credete di fare, qui, ragazzini?» chiesi. Il giovane mi rispose. Era molto simile alla ragazza, franco, semplice, e molto più duro, dentro, di quanto sembrasse: un ragazzo che aveva imparato a buscarne, ma continuando lo stesso a combattere. Adesso si sentiva male, era arrabbiato e un po' spaventato. «Pensavamo che in piena luce del giorno non ci fosse pericolo», replicò. «Giorno e notte, è sempre lo stesso in questo buco. Io andrei via». La ragazza, immobile, continuava a fissarmi, senza neppure rendersene conto. «Ha i capelli bianchi», stava pensando, «ma non è vecchio. Non molto più vecchio di Brad, malgrado le rughe. Sofferenza, non età». «Siete scesi dalla Regina di Giove, non è vero?» domandai. Sapevo che era così. La Regina era l'unica bagnarola passeggeri che si trovasse a Jekkara in quel momento. L'unico interesse che provavo dal fat-
to che lei somigliava a Missy... Ma Missy era morta da lungo tempo. Il giovane, al quale la ragazza pensava come Brad, annuì. «Sì», disse. «Siamo diretti a Giove, infatti, alle colonie». Tirò gentilmente la ragazza per il braccio. «Vieni, Virgie. Sarà meglio che torniamo alla nave». Sudavo e avevo freddo. Ero più freddo del cadavere ai miei piedi. Uscii in una risatina cordiale: «Sì», ripetei, «tornate sulla nave, lì è più sicuro». La ragazza non si mosse. E non distolse gli occhi da me. Aveva ancora paura, ma non provava più tanta pietà, adesso, ma aveva ancora la mente rivolta a me. «I suoi occhi ardono», stava pensando. «Di che colore sono? Nessun colore, in verità. Soltanto scuri, freddi e brucianti insieme. Hanno visto l'orrore, e il paradiso...» Lasciai che guardasse dentro i miei occhi. Dopo un po', arrossì, ed io sorrisi. Era arrabbiata, ma non riusciva a guardare altrove, ed io, col mio sorriso, la trattenevo lì, come affascinata... fino a quando il giovanotto la tirò di nuovo, non troppo gentilmente, stavolta: «Vieni, Virgie». Allora, si staccò da me, voltandosi con una grazia angolosa da puledra. Provai la sensazione che qualcuno mi avesse pugnalato allo stomaco, all'improvviso. Il modo in cui teneva la testa... Tornò a fissarmi, accigliandosi, contro la sua volontà. «Mi ricorda qualcuno», disse. «È arrivato anche lei con la Regina di Giove?» La sua voce era come quella di Missy. Più profonda, forse. Più gutturale. Ma ugualmente assai simile. «Sì. Spaziale di Prima Classe». «Allora, forse, l'ho vista lì». Girò distrattamente la fede nuziale che aveva al dito, e corrugò la fronte. «Come si chiama?» «Goat», dissi. «J. Goat». «Jay Goat», ripeté la ragazza. «Che strano nome. Ma non è insolito. Mi chiedo perché m'interessi tanto». «Vieni, Virgie», insisté Brad, asciutto. Non le diedi alcun aiuto. La fissai fin quando non arrossì violentemente e si voltò per andarsene. Lessi i suoi pensieri. Valeva la pena leggerli. La ragazza e Brad si avviarono verso lo spazioporto, fianco a fianco, per far ritorno alla Regina di Giove, ed io inciampai sul marziano morto ai miei piedi.
La sua faccia si era fatta tutta grigia; gli occhi verdi erano vitrei e già infossati. Il sangue si stava annerendo sulle pietre. Solo un altro cadavere. Scoppiai a ridere. Infilai la nera punta del mio stivale sotto la sua schiena incurvata e lo spinsi giù, in quella cupa acqua rossobruna. E continuai a ridere perché il mio sangue era ancora caldo e mi pulsava nelle vene con tanta forza da farmi male. Lui era morto, così lo lasciai andare. Sorrisi al rumore del tonfo e alle increspature dell'acqua, che ben presto si cancellarono. «Sbagliava», pensai. «Il mio nome non è Jay. Soltanto J. Goat, niente più. J, come Judas». Mancavano circa dieci ore marziane prima che la Regina decollasse. Me la spassai ai tavoli del getak, da Madam Kan, che mi procurò un brandy di cactus del deserto davvero speciale, e una ragazza venusiana dagli occhi d'oro e la pelle di smeraldo. Danzò per me, ed era davvero esperta. Non furono davvero dieci ore buttate via, là nei bassifondi di Jekkara. Missy, il marziano morto e quella ragazza, Virgie, sprofondarono nel mio subconscio al quale appartenevano, e non lasciarono dietro di sé neppure un'increspatura. Cose del genere sono come il dolore d'una vecchia cicatrice, quando le dài una strizzata. Ti prende per un minuto, ma non dura. Quelle cose, non sono più importanti. Le cose possono cambiare. Voi, gente ancorata ai pianeti, vi costruite le vostre quattro mura di solidi pensieri, e ci mettete sopra un tetto di convenzioni, e vi convincete che non esista altro. Ma lo spazio è grande, e ci sono altri mondi e modi di vita. Potete impararli. Persino voi. Provate, e vedrete. Terminai quell'ardente, verde brandy. Riempii il cavo tra i seni color smeraldo della danzatrice venusiana con argento marziano, e la baciai, e me ne andai via con una lieve traccia di sapore di pesce sulle labbra, per tornare allo spazioporto. Camminai. Era notte, un venticello gelido faceva frusciare la sabbia e le lune, basse, rovesciavano rivoli d'argento fra le ombre d'un nero inchiostro fra le dune. Vedevo la mia aura irradiar luce, oro pallido sullo sfondo d'argento. Mi sentivo bene. La sola cosa che pensavo, della Regina di Giove, era che il mio lavoro sarebbe presto terminato, e avrei ricevuto una buona paga. Mi stiracchiai con un piacere che non conoscerete mai, ed era meraviglioso sentirsi così vivo.
C'era una grande solitudine, là fuori, nel deserto spazzato dal bagliore delle due lune, a un miglio dallo spazioporto, quando Gallery usci fuori da dietro una torre in rovina che un tempo, forse, era stata un faro, quando quel deserto era un mare. Gallery appariva sconvolto e disperato, lì nelle fogne di Jekkara. Era un irlandese nero, piuttosto ubriaco, e la percezione extrasensoria vibrava in lui come un diapason sensibilissimo. Sapevo che poteva vedere la mia aura. Molto debolmente, e non con gli occhi, ma quel tanto che bastava. Sapevo che l'aveva vista fin dalla prima volta che mi aveva incontrato, quando mi ero imbarcato sulla Regina di Giove, su Venere. Gente come lui la si incontra ogni tanto, per caso. Sono discendenti dei celti, di solito, o zingari, sia terrestri che marziani, e un paio di tribù venusiane. La percezione extrasensoriale è innata in loro. Di solito è qualcosa di grezzo, incontrollato. Ma può darvi qualche fastidio. E adesso mi dava fastidio, appunto, e parecchio. Gallery aveva dieci centimetri di vantaggio su di me, e circa quindici chilogrammi, e il whisky che aveva bevuto era sufficiente a renderlo sprezzante e precipitoso. Aveva dei pugni enormi. «Non sei umano», disse, mellifluo. Sorrideva. Sembrava quasi pronto a far l'amore con me, con quel suo sorriso e quella bella voce vibrante. Il sudore che gl'imperlava il viso lo faceva sembrare, sotto il chiarore lunare, fatto di legno lucidato. «No, Gallery», replicai. «Non più. E da molto tempo». Barcollò leggermente, sulle ginocchia semipiegate. Potevo vedere i suoi occhi. Il gelido bagliore delle lune aveva lavato via l'azzurro, da essi. Era rimasta soltanto la paura, dura e vivida come acciaio. La sua voce suonò ancora morbida, cantilenante: «Cosa sei, allora? E cosa vuoi fare, di quella nave?» «Della nave, niente, Gallery. Soltanto della gente a bordo. E in quanto a ciò che io sono, che differenza fa?» «Nessuna», disse Gallery. «Nessuna. Perché sto per ucciderti. Adesso». Risi, senza produrre alcun suono. Gallery annuì, con quella sua testa nera. «Mostrami pure i denti, se vuoi. Ben presto li mostrerai al cielo del deserto, col tuo cranio fracassato». Aprì le mani. La luce delle lune che passavano veloci nel cielo mi mostrò un crocefisso d'argento in entrambe. «No, Gallery», gli mormorai, «tu puoi anche dire che io sono un vampiro, ma non appartengo a quella razza».
Tornò a chiudere le mani sulle croci e si fece avanti, un lento passo per volta. Udii i suoi stivali crepitare tra la sabbia smossa. Restai immobile. «Non puoi uccidermi, Gallery». Non si fermò. Non parlò. Il sudore gli scorreva giù lungo la pelle. Aveva paura, ma non si fermò. «Morirai qui, Gallery, senza un prete». Non sì fermò. «Cammina fino alla città, Gallery. E restaci nascosto fino a quando la Regina non se ne sarà andata. Sarai al sicuro. Ami gli altri al punto da morire per loro?» Si fermò. Corrugò la fronte come un ragazzino perplesso. Era un pensiero nuovo, per lui. Seppi la risposta prima che la pronunciasse. «Cosa c'entra l'amore? Sono gente, creature umane». Ricominciò ad avanzare. Io aprii gli occhi, li spalancai. «Gallery», dissi. Era vicino. Tanto vicino che sentii l'odore del whisky liscio nel suo alito. Sollevai lo sguardo sul suo viso. Colsi i suoi occhi e li incatenai ai miei, e lui si fermò, lentamente, strascicando i piedi, come se all'improvviso fossero diventati pesantissimi. Continuai a fissarlo. Potevo sentire i suoi pensieri. Erano gli stessi, sono sempre gli stessi. Sollevò i pugni, troppo lentamente, come se stringesse il corpo di un uomo in ognuno di essi. Stirò le labbra, ostentando l'umido luccichio dei denti. Udii il respiro affannoso che vi passava attraverso, rauco e irregolare. Gli sorrisi, e continuai a imprigionare il suo sguardo. Cadde sulle ginocchia. Centimetro dopo centimetro, lottando contro di me, ma giù, sempre più giù. Un uomo grande e grosso, il volto madido di sudore e gli occhi azzurri incapaci di guardare altrove. I suoi pugni si aprirono, le croci d'argento caddero da essi e giacquero, luccicanti, sulla sabbia. La sua testa ebbe un guizzo all'indietro; i tendini del suo collo si tesero, sussultarono, poi all'improvviso cadde sul fianco, immobile. «Il mio cuore», bisbigliò. «L'hai fermato». È il solo modo. Ciò che subiscono da noi è puro frutto dell'istinto... e neppure uno psicochirurgo potrebbe salvarli. Non ne avrebbe il tempo. Non poteva respirare. Non poteva più parlare, ma sentii i suoi pensieri. Raccolsi i due crocefissi dalla sabbia e vi ripiegai sopra le dita delle sue
mani. Riuscì a girare un po' la testa e a guardarmi. Tentò di parlare, ma ancora una volta fu ai suoi pensieri che diedi una risposta. «Nel Velo, Gallery», bisbigliai. «Ecco dove sto portando la Regina». Sbarrò gli occhi, che acquistarono la fissità della morte. L'ultimo suo pensiero fu... be', lasciamo perdere. Tornai a trascinarlo dentro la torre in rovina, dove era assai improbabile che qualcuno lo trovasse per un bel pezzo. Mi rimisi in marcia verso lo spazioporto. Poi mi fermai. Aveva lasciato cadere di nuovo i crocefissi. Giacevano sul sentiero illuminato dalla luce; li raccolsi, pensando di gettarli in mezzo alla sabbia mossa dal vento, dove nessuno li aveva visti. Non lo feci. Restai lì tenendoli in mano. Non mi bruciarono la pelle. Scoppiai a ridere. Appunto, risi. Ma non potei guardarli. Rientrai nella torre e distesi Gallery sulla schiena, con gli avambracci ripiegati sul petto, e gli chiusi gli occhi. Appoggiai un crocefisso su ciascuna delle palpebre e uscii. Questa volta definitivamente. Una volta, Shirina aveva detto che era impossibile capire completamente una mente umana, per quanto bene la si conoscesse. E qui appunto è il guaio. Ti senti bene, ogni cosa procede a meraviglia, poi, tutt'a un tratto si spalanca una botola da qualche parte nel vostro cervello, e voi ricordate. Non accade spesso, e voi imparate a chiuderla in fretta con un calcio. Ma anche così, Flack è il solo, fra noi, che abbia ancora i capelli scuri... tanto per cominciare, lui non ha mai avuto un'anima. Be', chiusi con un calcio la botola su Gallery e i suoi crocefissi, e mezz'ora più tardi la Regina di Giove decollò diretta alle colonie gioviane, e un atterraggio che non avrebbe mai compiuto. 2 Viaggio dentro la morte Non accadde nulla fino a quando non fummo sul bordo esterno della Cintura degli Asteroidi. Avevo tenuto d'occhio le menti dei miei compagni d'equipaggio, e sapevo che Gallery non aveva parlato di me a nessun altro. Non si va in giro a dire alla gente che il tipo che dorme nella cuccetta accanto irradia un bagliore giallo e non è umano, a meno che non vogliate finire con una camicia di forza. In particolare quando si tratta di cose che si percepiscono ma non si vedono, come l'elettricità.
Quando entrammo nella zona pericolosa all'interno della Cintura, furono predisposti turni di sorveglianza alle uscite di emergenza sul ponte passeggeri, ed io fui assegnato ad uno di queste. Andai a prendere la mia posizione. Proprio in cima alla scaletta avvertii la prima debole reazione della mia pelle, e l'aura cominciò a pulsare e a ravvivarsi. Proseguii fino all'uscita di emergenza numero Due e mi sedetti. Non ero mai stato sul ponte passeggeri. La Regina di Giove era una vecchia bagnarola proveniente dal Triangolo Commerciale, riattata per i tragitti nello spazio profondo. In qualche modo non si sfasciava, e questo era tutto. Trasportava un grosso carico di alimenti, indumenti, sementi e altri rifornimenti agricoli, e circa cinquecento famiglie che speravano di potersi fare una nuova vita nelle colonie gioviane. Ricordai la prima volta che avevo visto Giove. La prima volta che un qualunque uomo della Terra aveva visto Giove. Era stato molto tempo prima. Adesso il ponte era stipato. Uomini, donne, bambini, materassi, valige, fagotti e quant'altro volete. Marziani, venusiani, terrani, tutti ammucchiati insieme, che facevano un baccano d'inferno e puzzavano tremendamente, sommando il calore del sole a quello dell'ammassarsi insieme. La mia pelle formicolava tutta e cominciava a raggricciarsi. La mia aura era più che mai intensa. Vidi la ragazza... quella ragazza di nome Virgie, coi suoi folti capelli rossi e le sue movenze da puledra. Lei e suo marito stavano accudendo a un robusto bambino marziano dagli occhi verdi, mentre sua madre cercava di dormire. Stavano pensando entrambi la stessa cosa: «Forse un giorno, quando le cose andranno meglio, ne avremo uno di nostro». Ricordo di aver pensato che Missy mi sarebbe apparsa così, con in braccio nostro figlio, se mai ne avessimo avuto uno. La mia aura pulsò e arse. Osservai i minuscoli mondi che sfrecciavano via, ancora assai lontani dalla nave: erano di tutte le dimensioni, i più piccoli erano ciottoli, i più grandi planetoidi abitabili che avvampavano alla luce del sole ed erano neri come lo spazio sulla faccia in ombra. La gente si affollava agli oblò, ed io presi a fissare un vecchio, in piedi a poca distanza da me. Aveva lo spazio stampato addosso, dappertutto, dal modo in cui sosteneva la magra corporatura e dal profilo coriaceo fino all'espressione di
cane affamato dei suoi occhi che contemplavano la Cintura. Un vecchio spaziale che aveva fatto tanto ai suoi tempi, e ricordava tutto. E poi Virgie si avvicinò. Fra tutte le donne del ponte doveva esser Virgie. Brad era con lei, e Virgie reggeva ancora il bambino. Guardava fuori, e aveva la schiena rivolta verso di me. «È meraviglioso», disse con voce sommessa. «Oh, Brad, guarda!» «Meraviglioso e micidiale», commentò il vecchio spaziale fra sé. Si guardò intorno e sorrise a Virgie. «Il suo primo viaggio all'esterno?» «Sì, per tutti e due. Suppongo che abbiamo entrambi, come si dice, gli occhi pieni di stelle, ma è così strano...» Fece un piccolo gesto d'impotenza. «Lo so. Non ci sono parole per descriverlo». Il vecchio tornò a girarsi verso l'oblò. La sua voce e il suo viso erano senza espressione, ma potevo leggere la sua mente. «Portavo le navi dei rifornimenti al primo insediamento, cinquant'anni fa», disse. «Eravamo in dieci a farlo. Sono rimasto soltanto io». «La Cintura era pericolosa, allora, prima dell'uso dei deflettori Rosson», annuì Brad. «La Cintura», mormorò il vecchio, «ne ha ammazzati soltanto tre». Virgie girò la testa rossa. «Ma allora, cosa...» Il vecchio non l'udì. I suoi pensieri erano lontani. «Sei dei migliori uomini che c'erano nello spazio, e poi, undici anni fa, mio figlio», disse, senza rivolgersi a nessuno in particolare. Una donna in piedi accanto a lui girò la testa. Vidi il profondo, crudo bagliore della paura nei suoi occhi, l'improvviso irrigidirsi delle sue labbra. «Il Velo?» bisbigliò. «È quello che intende, vero? Il Velo?» Il vecchio cercò di farla tacere, ma Virgie intervenne. «Cos'ha da dire, sul Velo?» chiese. «Ne ho sentito parlare vagamente. Cos'è?» Il bambino marziano era assorto a fissare una catena d'argento che la ragazza portava intorno al collo. Ricordo di aver pensato che mi sembrava familiare. Forse, l'aveva addosso la prima volta che l'avevo vista. La mia aura ardeva d'un vivido bagliore dorato. La voce della donna, nel rispondere, sembrò sollevare echi arcani, vaghi, remoti. Ora aveva ripreso a fissare fuori dell'oblò. «Nessuno lo sa», disse. «Nessuno ha mai potuto rintracciarlo volontariamente e analizzarlo. Mio fratello è uno spaziale. L'ha visto soltanto una volta, da grande distanza, che si protendeva fuori dal nulla per inghiottire
una nave. Un velo di luce. Poi si è dissipato e la nave era scomparsa! Mio fratello l'ha visto qui fuori, vicino alla Cintura». «Non ci sono ragioni di aspettarselo qui più che in qualunque altra parte dello spazio», intervenne il vecchio spaziale, brusco. «Ha portato via navi perfino all'interno dell'orbita terrestre. Non c'è alcuna ragione di aver paura». La mia aura ardeva intorno a me come una nube di luce dorata, la mia pelle era percorsa da una sottile corrente. Il bambino marziano dagli occhi verdi diede un improvviso strappo alla catena d'argento e lanciò un grido d'esultanza, alzando entrambe le mani. L'oggetto all'estremità della catena, fino a quel momento nascosto sotto il vestito di Virgie, stava oscillando lentamente. Attirò il mio sguardo e l'inchiodò. Devo essermi lasciato sfuggire un'esclamazione, o qualcosa di simile, poiché Virgie si guardò intorno e mi vide. Non so cosa pensò. Non seppi niente per lungo tempo, se non che avevo freddo, come se un brandello dello spazio nero e morto, là fuori, fosse penetrato in qualche modo attraverso l'oblò e mi avesse toccato. L'oggetto lucente continuò a oscillare all'estremità della catena d'argento, e il bambino dagli occhi verdi lo fissava e anch'io lo fissavo. Poi ci fu il buio, un buio profondo, impenetrabile, e al centro mi trovavo io, immobile, freddo, gelido... gelido! La voce di Virgie mi giunse attraverso il buio, calma, come se niente di tutto ciò avesse importanza. «Ora so chi mi ha ricordato, signor Goat», disse. «Temo di essermi mostrata piuttosto scortese quel giorno, su Marte, ma la rassomiglianza mi aveva lasciato perplessa. Guardi». L'oggetto bianco entrò nella mia corazza di ghiaccio e di oscurità. Era una mano bianca, arrossata, sulle nocche, dal lavoro, che stringeva qualcosa nel palmo. Qualcosa che ardeva d'un'intensa, terribile luce propria. La voce di Virgie proseguì, sempre calma, disinvolta: «Questo medaglione, signor Goat. È antico. Vecchio di quasi trecento anni. È appartenuto a una mia antenata, aveva sposato un giovane spaziale. In quei giorni, naturalmente, il volo spaziale era ancora qualcosa di nuovo e pericoloso, ma questo giovane amava lo spazio almeno quanto sua moglie. Si chiamava Stephen Vance. Questo è il suo ritratto. È per questo che avevo pensato di averla già vista da qualche parte, e le ho chiesto il suo nome. Mi sembra che questa rassomiglianza sia piuttosto sorprendente,
non lo pensa anche lei? «Sì», dissi, «Sì, sì». «Quella ragazza è sua moglie e, ovviamente, la prima proprietaria del medaglione. Lui la chiamava Missy. È inciso dietro al medaglione. Per farla breve, gli si presentò la possibilità di compiere il primo volo da Marte a Giove, e Missy sapeva quanto significasse per lui. Sapeva che qualcosa, in lui, sarebbe morto se non fosse andato, e così glielo permise. Lui non sapeva quanto presto sarebbe arrivato il bambino che ambedue desideravano tanto, perché lei non gliel'aveva detto... Sapeva che lui non sarebbe andato, se avesse saputo. «Così, Stephen fece confezionare due medaglioni, questo, e un altro esattamente uguale. Le disse che avrebbero costituito un legame fra loro, un legame fra lui e Missy che niente avrebbe potuto spezzare. Un giorno, in qualche modo, lui sarebbe tornato da lei, qualunque cosa fosse accaduta. Poi, partì alla volta di Giove. E vi morì. La sua nave non fu mai trovata. «Ma Missy continuò a portare il medaglione e a pregare. Quando morì, lo diede a sua figlia. Divenne una specie di tradizione familiare. Per questo, adesso lo porto io». La sua voce si spense, sonnolenta, con una debole nota di sorpresa. La mano e il medaglione ricaddero, e vi fu una grande immobilità tutt'intorno a me, una grande pace. Sollevai le braccia, portandole davanti al viso. M'irrigidii e cercai di dire qualcosa, parole che avevo preso l'abitudine di dire molto, molto tempo prima. Non vollero venire. Non vi vengono mai quando andate nell'Oltre. Scostai le mani e potei vedere di nuovo. Non toccai il medaglione che portavo al collo. Lo sentivo premuto alla sommità de! petto, come il gelo dello spazio, che mi bruciava. Virgie giaceva ai miei piedi; reggeva ancora il bambino nel cavo del braccio: il volto bruno e tondo del piccolo marziano era rivolto verso il suo, e ancora sorrideva. Brad giaceva accanto a loro, con un braccio disteso su entrambi. Il medaglione ora giaceva sulla dolce curva del seno di Virgie, ancora aperto e rivolto in alto, alzandosi e abbassandosi lentamente al ritmo del suo respiro. Non soffrono. Ricordàtelo: non soffrono. Neppure lo sanno. Dormono e i loro sogni sono felici. Ricordàtelo, per favore! Non uno, fra tutti loro, ha sofferto o ha avuto paura. Ero solo, in quella nave silenziosa. Adesso, al di là dell'oblò, non c'erano le stelle, non c'erano i piccoli mondi che cavalcavano la Cintura. C'era sol-
tanto un velo di luce avvolto stretto intorno alla nave, una morbida ragnatela verde, porpora, azzurro e oro, intessuta su una luccicante trama grigia che non aveva alcun colore, tenuta insieme da fili scarlatti. Come sempre, i flussi di elettricità si affievolivano dentro la nave. La gente dormiva, sull'ampio ponte. Potevo udire il loro respiro, lento e tranquillo. La mia aura bruciava in una sorta di gloria dorata intorno a me, e dentro di essa il mio corpo vibrava e pulsava di vita. Abbassai lo sguardo sul medaglione, sul volto di Missy. Se me l'avessi detto! Oh, Missy, se soltanto me l'avessi detto, avrei potuto salvarti! I capelli rossi di Virgie, lisci e folti sul suo bianco collo. Gli occhi grigiofumo di Virgie, socchiusi e sognanti. I capelli di Missy. Gli occhi di Missy. I miei. Parte della mia carne, parte delle mie ossa, parte del mio sangue. Parte della vita che ancora pulsava dentro di me. Trecento anni. «Oh, se soltanto potessi pregare!» pensai. M'inginocchiai accanto a lei. Tesi la mano. La luce dorata che ne scaturì velò il suo viso. Ritrassi la mano e mi alzai in piedi, lentamente, più lentamente di quanto fosse caduto Gallery quand'era morto. Ora la radiosità del velo permeava l'intera nave. Era nell'aria, in ogni atomo del suo metallo e del suo legno. Io mi mossi dentro di esso, una creatura dorata, luminosa, viva e giovane, in un mondo silenzioso, addormentato. Trecento anni, e Missy era morta, e adesso il medaglione l'aveva fatta ritornare. Judas, Giuda, aveva forse provocato questo, quando la corda gli aveva troncato la vita? Ma Giuda era morto. Camminai in silenzio, avvolto nella mia nuvola d'oro, e i battiti del mio cuore mi scuotevano come pugni. Un cuore giovane. Un cuore giovane e forte. La nave virò lentamente, trascinata fuori dalla sua traiettoria in caduta libera verso Giove. I razzi ausiliari non erano ancora accesi, per l'attraversamento della Cintura. Il Velo si era semplicemente chiuso intorno allo scafo e lo trascinava via senza alcuna difficoltà. È soltanto un'applicazione della forza di volontà. Teletrasporto, la forza della mente e del pensiero amplificata dai cristalli X e puntata come uno stretto fascio di onde radio. La liberazione di energia, quando la forza del pensiero affronta e vince la gravità o l'inerzia di ciò che afferra, si manife-
sta in forma visibile, quella luce che gli spaziali chiamano il Velo. L'impulso ipnotico al sonno viene inviato allo stesso modo, attraverso i cristalli X su Astellar. Shirina afferma che è semplice, uno scherzo da bambini, nella sua matrice spaziotemporale. Tutto ciò che serve, è un punto focale per guidarla, una speciale vibrazione che possa seguire come una fiaccola nella vuota oscurità dello spazio: sì, l'aura che circonda la carne, umana o no che sia, dopo che questa si è immersa nella Nube. Un Giuda, una capra che conduca le pecore al macello. Camminavo nella mia luce dorata. Il piacere di sottili, formicolanti energie divampava nella mia pelle. Stavo tornando a casa. E Missy era ancora viva. Trecento anni, ed era ancora viva. Il suo sangue e il mio, vivi e insieme, in una ragazza chiamata Virgie. E io la stavo portando su Astellar, il mondo che la sua stessa dimensione non voleva. Immagino che sia stato l'arrestarsi della corrente sulla mia pelle a riscuotermi, mezza eternità più tardi. La mia aura era impallidita, ridiventando tenue, smorta. Udii il lieve raschiare del metallo sulla pietra, e seppi che la Regina di Giove aveva compiuto il suo ultimo atterraggio. Ero a casa. Scoprii d'esser seduto sull'orlo della mia cuccetta. Non sapevo come fossi arrivato là. Mi tenevo la testa tra i pugni serrati. Quando li aprii ne cadde fuori il mio medaglione. C'era sangue sui palmi delle mie mani. Mi alzai e camminai attraverso il silenzio, nel bagliore duro, impersonale dell'illuminazione elettrica, fino alla più vicina camera di equilibrio, e uscii. La Regina di Giove giaceva in una culla di roccia, levigata per il logorio. In alto, le grandi porte che davano sul vuoto dello spazio erano chiuse, e gli ultimi echi delle pompe per l'immissione dell'aria si stavano spegnendo contro il basso soffitto della caverna. La roccia, lì, è di un pallido verde translucido, scolpita e levigata fino a diventare di una bellezza da mozzare il fiato, non importa quante volte l'abbiate vista. Astellar è un piccolo mondo, grande metà di Vesta. Sulla superficie esterna non c'è niente, salvo scorie vulcaniche nere, senza neppure una traccia di minerale che possa attirare anche il più scassato dei prospettori. Quando si voglia farlo, è possibile incurvare la luce intorno ad Astellar, cosicché neppure il più sensibile spazioscopio riuscirà mai a trovarlo, e la stessa forza-pensiero che crea il Velo può spostarlo dovunque si vuole che
vada. Ma da quando il traffico attraverso la Cintura si.è fatto intenso, Astellar è stato spostato assai poco. Non c'è più stata necessità di farlo. Attraversai la caverna alla pallida luminosità verde. C'è un'ampia rampa che sale dal pavimento, incurvata come l'ala di un angelo. Flack mi stava aspettando ai piedi di questa, delineato dal lieve bagliore dorato della sua aura. «Ciao, Steve», disse, e guardò la Regina di Giove con quei suoi bizzarri occhi grigi. I suoi capelli erano neri come un tempo lo erano stati i miei, la sua pelle, bruciata dallo spazio, nera e coriacea. I suoi occhi guardavano dal buio come piccole chiazze di luce lunare, fiochi e senz'anima. Conoscevo Flack prima che diventasse uno di noi, e giò lo giudicavo il meno umano degli astellari. «Un buon carico, stavolta, Steve?» chiese. «Già». Cercai di passare oltre, ma mi afferrò per un braccio. «Ehi, cosa ti rode?» fece. «Niente». Me lo scrollai di dosso. Sorrise, e con due rapidi passi mi tagliò la strada. Un uomo grande e grosso, almeno quanto Gallery, e assai più duro, con una mente che poteva affrontare la mia alla pari. «Non darmela a bere, Stevie. Qualcosa non... ehi!» Con un gesto improvviso mi prese il mento e lo sollevò, i suoi occhi slavati riarsero e mi strinsero. «Cos'è?» chiese. «Lacrime?» Mi fissò per un attimo, a bocca aperta, poi cominciò a ridere. Lo colpii. 3 Il salario del male Flack cadde all'indietro, lungo disteso sulla pietra lucente. Feci per superarlo, risalendo la curva della rampa, ma per quanto mi muovessi in fretta, era già tardi. I portelli della Regina di Giove si aprirono dietro di me. Mi fermai. Allo stesso modo di Gallery, nel turbinio delle sabbie di Marte, mi fermai lentamente, come se dei pesi mi trascinassero giù i piedi. Non volevo. Non volevo voltarmi, ma non potevo in nessun modo impedirlo. Il mio corpo si voltò da solo. Flack era di nuovo in piedi. Si era appoggiato alla verde parete scolpita,
e mi guardava. Il sangue gli scorreva giù dal labbro spaccato, lungo il mento. Tirò fuori un fazzoletto e se lo premette sulla bocca, e i suoi occhi non mi lasciarono mai, pallidi e immobili, ardenti. L'aura dorata circondava la sua testa scura, come nel dipinto di un santo. Dietro di lui, i portelli della nave erano spalancati, e la gente cominciava a uscirne fuori. Nella loro nicchia, al quarto livello di Astellar, i cristalli X pulsavano, passando da un grigio pallido a un nero infinitamente profondo e alieno come la nebulosa Sacco di Carbone. Dietro di essi, c'era una mente, mite e gentile, e il carico umano della Regina sentì i suoi pensieri. Uscirono dai portelli con passo fermo, ma senza fretta. Formarono una colonna irregolare e attraversarono il verde, translucido pavimento della caverna, iniziando a salire la rampa. Camminavano con calma, il loro respiro era profondo e tranquillo, gli occhi semiaperti e pieni di sogni. Su, per il lungo e sinuoso nastro di pallida pietra verde, superando Flack, superando me, per entrare nel corridoio, più oltre. Non vedevano nulla, salvo i loro sogni. Sorridevano un po'. Erano felici e non avevano paura. Virgie reggeva ancora il bambino assopito fra le sue braccia, e Brad era ancora accanto a lei. A causa dei movimenti di Virgie, il medaglione si era girato, nascondendo le immagini, mostrandomi soltanto il rovescio d'argento. Li osservai andarsene. Il corridoio oltre la rampa era stato intagliato come un'immensa gemma in un cristallo latteo, ed era intarsiato di metalli che venivano da un'altra dimensione, metalli radioattivi che riempivano le pareti di cristallo e l'aria fra esse di tenui fuochi nebbiosi. Entrarono lentamente nel velo di nebbia e fuoco, e scomparvero. Flack parlò con voce sommessa: «Steve». Mi voltai verso il suono della sua voce. Ogni cosa era come avvolta da un che di strano e sfocato, ma potevo vedere il giallo bagliore della sua aura, il suo scuro, duro profilo delineato sulla pallida roccia verde. Non si era mosso, non aveva distolto la fredda luce dei suoi occhi da me. Avevo lasciato la mia mente nuda, indifesa e seppi, prima ancora che parlasse, che Flack l'aveva letta. Parlò attraverso le sue labbra ammaccate: «Stai pensando che non entrerai più nella Nube a causa di quella ragazza», bisbigliò. «Pensi che ci dev'essere un qualche modo per salvarla. Ma non c'è. E se anche tu potessi, non la salveresti. E entrerai di nuovo nella Nuvola, Stevie. Fra dodici ore, quando verrà il momento, entrerai
nella Nuvola, come il resto di noi. E sai perché?» La sua voce divenne morbida come il toccco di un colombo, il suono di una risata traspariva sotto di essa. «Perché hai paura di morire, Stevie, proprio come il resto di noi. Perfino io, Flack, l'individuo che non ha mai avuto un'anima. Non ho mai creduto in nessun Dio, eccettuato me stesso, e amo la vita. Ma una volta ho guardato un cadavere che giaceva nel vicolo di qualche fogna umana, e l'ho maledetto con tutto il mio cuore, perché, lui, non aveva più paura, ormai. «Entrerai nella Nuvola, perché la Nuvola è tutto ciò che ti tiene in vita. E non t'importerà della ragazza dai capelli rossi, Stevie. Non te ne importerebbe neppure se fosse Missy, in persona, che dà la sua vita per te... perché hai troppa paura. Non siamo più umani, Steve. Siamo andati oltre. Abbiamo commesso dei peccati... peccati che non hanno neppure un nome, in questa dimensione. Non ha importanza in cosa crediamo, o cosa neghiamo. Abbiamo paura. «Paura di morire, Stevie. Tutti noi. Paura di morire!» Le sue parole mi spaventarono. Non riuscii a dimenticarle. Le ricordavo anche quando incontrai Shirina. «Ho trovato una nuova dimensione, Stevie», disse pigramente Shirina. «Piccola, fra l'ottava e la nona. È così piccola che prima d'ora l'abbiamo sempre mancata. Dopo la Nuvola, andremo a esplorarla». Mi condusse nella nostra stanza favorita. Era intagliata in un cristallo così nero e profondo che era come trovarsi nello spazio esterno, e se si guardava abbastanza a lungo, si potevano vedere strane nebulose, lontanissime, e galassie che non erano mai esistite, salvo nei sogni. «Quanto tempo, prima che giunga il momento?» le chiesi. «Un'ora, forse meno. Povero Stevie, sarà presto finita e te ne dimenticherai». La sua mente toccò la mia, con dolcezza, con una dolcezza e un conforto così intimi... infinitamente superiori al tocco delle mani. Lo stava facendo da lungo tempo, alleviando la febbre e il dolore che tormetavano i miei pensieri. Giacevo, senza muovermi, in una cuccetta morbida come bambagia. Potevo scorgere l'ammiccante bagliore di Shirina nel buio senza voltare la testa. Non so come descrivere Shirina. Fisicamente, era abbastanza vicina all'umanità. Le differenze strutturali erano più sottili della pura forma esteriore. Erano... sì... erano armoniose, esotiche, belle in un modo che non può essere descritto a parole.
Lei e la sua razza non avevano bisogno d'indumenti. I loro corpi pigri e sinuosi avevano un rivestimento lanuginoso che non era pelliccia o piume o viticci, ma una combinazione di tutti e tre. Non avevano nessun vero colore. Cambiavano a seconda della luce in un interminabile, affascinante caleidoscopio che andava assai al di là dello spettro visibile a voi umani. Ora, al buio, l'aura di Shirina irradiava come una perla incandescente. Potevo vedere il suo viso, in quella vaghezza luminosa, il suo delicato profilo osseo, curiosamente triangolare, rivestito da una pelle più morbida di quella del petto d'un colibrì, gli occhi d'un nero assoluto, senza fondo, la cresta di antenne sottili, delicate, sormontate da sferette vivide come diamanti avvolti da un diafano velo. I suoi pensieri aderivano a me con dolcezza. «Non c'è bisogno di preoccuparsi, Stevie», m'irradiava. «La ragazza andrà per ultima. È tutto sistemato. Tu entrami per primo nella Nuvola, e non ci sarà la più piccola vibrazione di lei che possa toccarti». «Ma toccherà qualcuno, Shirina», gemetti, «e in qualche modo rende tutto diverso, anche con gli altri. Il tempo non sembra significare molto. È... è come se fosse mia figlia». Shirina replicò paziente, ma con decisione: «Ma non lo è. Tua figlia è nata trecento anni fa. Trecento anni per il tuo corpo, cioè. Per te, non esiste alcun calcolo. Il tempo è diverso in ogni dimensione. Relativamente ad alcune di esse, sono trascorsi per noi mille anni o anche più». Sì. Ricordavo quegli anni alieni. Per il pensiero, le paratie dimensionali non sono una barriera. Vi stendete sotto i cristalli X e li guardate pulsare da un grigio nebbioso a un nero senza fondo. La mente viene risucchiata dal vostro corpo e proiettata lungo un fascio ristretto di vibrazioni esattamente calcolate, e poco dopo vi trovate in un altro spazio e in un altro tempo. Potete impadronirvi di qualunque corpo vi piaccia, per tutto il tempo che desiderate. Potete viaggiare tra i pianeti, i soli e le galassie, soltanto pensandolo. Potete vedere oggetti e creature, far ciò che volete, assaporare esperienze che tutti i linguaggi del nostro continuum spaziotemporale di umani non troverebbero parole bastanti a descriverle. Shirina ed io avevamo vagabondato molto, visto molto, assaporato molto. E gli universi interconnessi sono infiniti. «Non posso fare a meno di preoccuparmi, Shirina», le dissi. «Non vorrei sentirmi così, ma non posso farne a meno. In questo momento sono umano. Sono il semplice, limitato Steve Vance di Beverly Hills, California, sul
pianeta Terra. Non riesco a sopportare i miei ricordi». La mia gola si chiuse. Mi sentivo male ed ero madido di gelido sudore, e più vicino a impazzire di quanto mi fosse mai capitato prima durante tutti quegli anni, il cui numero soltanto Satana conosceva. La voce di Shirina giunse attraverso il buio. Era come il richiamo d'un uccello, un flauto, l'incresparsi dell'acqua sopra una pietra, e non assomigliava a nulla che chiunque di voi abbia mai sentito o sentirà. «Stevie», disse, «ascoltami. Non sei più umano. Non sei stato più umano fin dalla prima volta che sei entrato nella Nube. Non hai più contatti con quella gente di quanti essi ne abbiano con le bestie che allevano per mandarle al macello». «Ma non posso fare a meno di ricordare». «D'accordo. Ricorda pure, allora. Ricorda come sin dalla nascita eri diverso dagli altri uomini. Come istintivamente hai dovuto andar fuori, a veder cose che nessun uomo aveva visto prima di te, a combattere lo spazio stesso, col tuo cuore, la tua nave, le tue mani». Lo ricordavo. Il primo uomo che aveva osato sfidare la Cintura, il primo uomo che aveva visto Giove avvampare in mezzo al suo sciame di lune. «È per questo che quando ti catturammo nel velo e ti portammo su Astellar, ti salvammo dalla Nuvola. Avevi qualcosa di raro, una forza, una visione ampia, un desiderio. Potevi darci qualcosa che noi volevamo, un contatto più facile con le navi umane. E in cambio ti demmo la vita, la libertà». Fece una pausa, e aggiunse, con voce più morbida: «E me stessa, Stevie». «Shirina!» Molte, moltissime cose s'incontrarono e si mischiarono nei nostri pensieri. Emozioni nate dai corpi alieni che avevamo condiviso. Ricordi di battaglie e di bellezza, di terrore e di amore, sotto soli che, dopo, non avevano più fiammeggiato, neppure nel sogno di qualcuno. Non posso spiegarlo. Non ci sono parole. «Shirina, aiutami!» La mente di Shirina cullò la mia come le braccia di una madre. «All'inizio non c'era motivo di biasimarti, Stevie. Eri stato sottoposto a ipnosi, cosicché il tuo cervello fosse in grado di assimilare il cambiamento con gradualità, senza scosse. Ti condussi io stessa nel nostro mondo, come tenendo un bambino per mano, e quando fosti liberato, era passato molto tempo. Eri andato oltre l'umanità. Molto oltre». «Avrei potuto fermarmi. Avrei potuto rifiutarmi di entrare nuovamente
nella Nuvola, non appena seppi cos'era. Avrei potuto rifiutarmi d'essere un Judas Goat che conduceva le pecore al macello». «Allora, perché non l'hai fatto?» «Perché avevo ciò che volevo», dissi lentamente, «e quello che avevo sempre voluto e al quale non avevo mai saputo dare un nome. Il potere e la libertà quali un uomo non aveva mai avuto. Mi piaceva averli. Pensando a te e a tutte le cose che avremmo potuto fare insieme, e anche a ciò che avrei potuto fare da solo, sarei stato pronto a portare l'intero sistema solare dentro il Velo, e che tutto andasse pure in malora». Tirai un sospiro aspro e affannoso, e mi tolsi il sudore col palmo delle mani. «E inoltre, non mi sentivo più umano. Non li avrei maltrattati più di quanto avrei fatto con un cane, quand'ero ancora un uomo. Ma non appartenevo più a loro». «Allora, perché mai sarebbe diverso adesso?» «Non lo so. Lo è, e basta. Quando penso a Virgie che passa sotto i cristalli, e a me che entro nella Nuvola, è troppo». «Hai visto i loro corpi, dopo», disse Shirina, con dolcezza. «Non un solo atomo viene toccato o cambiato, ed essi sorridono. Non esiste una morte più facile e dolce in tutta la creazione». «Lo so», replicai, «lo so. Ma Virgie è del mio sangue». Avrebbe camminato sotto i cristalli X sorridendo, i suoi folti capelli rossi e gli occhi grigiofumo socchiusi e pieni di sogni. Avrebbe ancora avuto quel bambino tra le braccia, e Brad avremme camminato a lei. E i cristalli X avrebbero pulsato e arso con strani fuochi neri, e lei si sarebbe distesa, ancora sorridente, e questo sarebbe stato tutto. Tutto, per sempre, per Virgie e Brad, e il bambino marziano dagli occhi verdi. Ma la vita che era stata nei loro corpi, l'energia per la quale nessun uomo ha un nome, ma che dà respiro, sangue e calore alla carne viva, la suprema vibrazione dell'anima umana... quell'energia vitale si sarebbe innalzata dai cristalli fino alla camera della Nube. E Shirina, e il popolo di Shirina, e gli altri quattro uomini che, come me, non erano più umani, vi saremmo entrati così da poter vivere. L'idea non mi aveva mai colpito prima. Non accade. Sulle prime, sì, ci pensate, ma non significa nulla. Non esiste alcun referente semantico per «anima» o «ego» o «forza vitale». Non vedete niente, non avete alcun contatto coi morti. Neppure pensate molto alla morte. Tutto ciò che sapete, è che entrate in una nuvola radiosa, vi sentite come
un dio, e non pensate all'aspetto umano della cosa, perché non siete più umano. «Non c'è da meravigliarsi che vi abbiano cacciato dalla vostra dimensione!» urlai. Shirina sospirò: «Ci chiamarono vampiri, parassiti, mostri sibaritici che vivevano soltanto per le sensazioni e il piacere. E ci scagliarono nel buio. Be', forse avevano ragione. Non so. Ma non abbiamo mai fatto del male, noi, o spaventato nessuno, e quando penso a ciò che essi hanno fatto alla loro stessa gente, col sangue, la paura e l'odio, sono terrorizzata». Si alzò e venne accanto a me, ardendo vivida come una perla contro lo sfondo oscuro del cristallo color dello spazio profondo. I minuscoli diamanti ardevano sulle sue antenne, e i suoi occhi erano stelle nere. Tesi le mani verso di lei. Le afferrò, e il suo contatto infranse il mio autocontrollo. D'improvviso mi misi a piangere, senza produrre alcun suono. «Giusto o sbagliato che sia, Stevie, adesso sei uno di noi», lei disse, in un mormorio. «Mi spiace che sia accaduto questo. Te l'avrei risparmiato, se mi avessi consentito di immergere nel sonno la tua mente finché non fosse finito. Ma devi capire una cosa. Essi, gli umani, te li sei lasciati alle spalle, e non potrai mai, mai, tornare indietro». Dopo un lungo attimo, parlai: «Lo so, lo capisco». Percepii il suo sospiro e il suo tremito, poi lei si tirò indietro, sempre stringendomi le mani. «È giunto il momento, Stevie». Mi alzai lentamente, poi mi fermai. Shirina. D'improvviso Shirina trattenne il respiro. «Steve, le mie mani! Mi fai male!» Le lasciai. «Flack», dissi, senza rivolgermi a nessuno. «Lui conosceva la mia debolezza. Alla sua radice. Perché, non importa ciò che posso dire, ma io entrerò ancora nella Nube, perché ho paura. È per questo che entro sempre nella Nube, quand'è il momento. Perché ho peccato a tal punto che ho paura di morire». «Cos'è il peccato?» bisbigliò Shirina. «Dio lo sa. Soltanto Dio lo sa». Presi tra le braccia il suo corpo sottile e morbido come quello d'un uccello e la baciai, passando le labbra sulla peluria lucida della sua guancia fino alla piccola bocca rossa. C'era il sottile sapore amaro delle mie lacrime in quel bacio. Poi mi misi sommessamente a ridere. Mi sfilai dal collo la catena col medaglione e li lasciai cadere sul pavi-
mento, e uscimmo insieme, diretti alla Nuvola. 4 Velo di tenebra C'incamminammo lungo i corridoi di Astellar, creature viventi nel cuore d'un immenso gioiello multicolore. Corridoi d'ambra, ametista e cinabro, verde-drago, e del colore grigio della nebbia al mattino, e altri colori per i quali non vi sono nomi in questa dimensione. Gli altri ci raggiunsero, provenienti dalle celle di cristallo in cui avevano trascorso il loro tempo. Il popolo di Shirina, dai dolci occhi di velluto, le corone di antenne dalle punte infuocate. Erano come un arcobaleno vivente nella luce gemmata dei corridoi. Flack, io stesso e gli altri tre — soltanto cinque uomini durante tutto il tempo in cui Astellar era stato nella nostra dimensione, dotati di quel tipo di mente che il popolo di Shirina esigeva — indossavamo le nostre tute nere da spaziali, mentre camminavamo avvolti dalle nostre auree dorate. Vidi Flack che mi guardava, ma evitai d'incontrare il suo sguardo. Giungemmo infine al luogo della Nube, al centro di Astellar. Le austere porte color ebano erano aperte. Al di là di esse vi era una nebbia, come luce solare cagliata, pagliuzze di pura radiosità, vivide e dorate, che danzavano in sinuose traiettorie entro un turbinio di luminosità viva. Shirina mi prese la mano. Seppi che voleva impedirmi di pensare al luogo sottostante, dove, sotto comando ipnotico, gli uomini, le donne e i bambini della Regina di Giove camminavano sotto i cristalli X diretti al loro ultimo sonno. La strinsi forte, ed entrammo nella Nuvola. La luce ci avvolse. Camminavamo su qualcosa che non era roccia, né qualunque altra cosa tangibile, ma una vibrazione d'energia proveniente dai cristalli X, che ci sosteneva come una ragnatela fremente e ondeggiante. E la luce vivente, dorata, aderiva a noi, carezzevole, traboccando sulla pelle in minuscole increspature di fuoco. Ne ero affamato. Il mio corpo si tese, drizzandosi. Camminai sulla vibrante ragnatela d'energia, a testa alta, il respiro bloccato in gola, con ogni singolo atomo della mia carne ringiovanita che palpitava, avvampava, pulsava di vita. Vita! E poi la consapevolezza mi colpì.
Non volevo che lo facesse. Ero convinto di averla repressa, di averla ricacciata per sempre là dove non potesse mai più darmi noia. Pensavo di aver fatto la pace con qualunque anima possedessi ancora o avessi perduto. Non volevo pensare. Ma lo feci. E mi colpì all'improvviso. Come una meteora che si schiantasse contro una nave nello spazio, come la prima vampa nuda del sole quando si oltrepassano le vette del lato buio di Mercurio. Come la morte, l'ultima, suprema prova che non si può evitare o aggirare. Sapevo cos'era quella vita e da dove veniva, e come mi aveva cambiato. Era Virgie, Virgie coi suoi dannati capelli rossi e gli occhi grigiofumo, e la vita di Missy dentro di lei, e la mia. Perché era stata mandata sulla mia strada? Perché avevo dovuto incontrarla accanto a quel marziano morto, sul Canale superiore di Jekkara? Ma l'avevo incontrata. E all'improvviso seppi. Lo seppi! Non ricordo cosa feci. Devo essermi liberato con uno strattone dalla mano di Shirina. Sentii il suo pensiero sorpreso toccarmi il cervello, poi si staccò da me, ed io mi misi a correre attraverso la Nube dorata, verso l'uscita più oltre. Correndo a perdifiato. Alla massima velocità. Devo aver cercato di gridare. Non so. Ero completamente folle. Ma ricordo che perfino allora percepii qualcuno che correva dietro di me, a rapide falcate, nell'accecante fulgore della Nuvola. Mi tuffai nel corridoio, là oltre: era azzurro come l'acqua profonda e immobile, e vuoto. Corsi. Non volevo correre. Un angolo ancora lucido della mia mente gridò verso Shirina per chiedere aiuto, ma lei non riuscì ad attraversare il caos stridente di tutti gli altri richiami. E continuai a correre. E qualcuno mi corse dietro. Non mi voltai. Non m'importava. Me ne accorsi appena. Ma qualcuno mi correva dietro, su lunghe, agili gambe. In fondo al corridoio azzurro ne infilai un altro che era tutto color fiamma, chiazzato di grigio, e in fondo ad esso mi precipitai giù per una rampa curva scavata nell'ambra scura, che scendeva fino al livello sottostante. Il livello dove si trovavano i cristalli X. Mi precipitai giù per quel percorso ambrato, balzando come un cervo inseguito dai cani, in mezzo a un silenzio cristallino che mi rimandava il suono del mio respiro, aspro e lacerante. In fondo, c'era uno slargo circolare dove convergevano quattro corridoi: le pareti, qui, erano d'una profonda sfumatura purpurea, dall'apparenza sconfinata. Quando fui laggiù, dalle imboccature di tre corridoi mi vennero incontro altrettanti uomini. Uomini dai volti giovani e dai capelli bianchi, i corpi
nudi che ardevano dorati sullo sfondo purpureo. Mi arrestai al centro della cavità. Udii un trapestio giù per la rampa, dietro di me, e senza guardare seppi chi era. Flack. Mi aggirò, e mi fissò coi suoi strani occhi gelidi, come se il volto cupo fosse illuminato dal chiarore lunare. Si era procurato, chissà come, un fulminatore e lo teneva puntato contro di me. Non contro la mia testa o il mio cuore, ma più in basso, contro lo stomaco. «Pensavo che avresti potuto perdere la testa», dichiarò, «così, in qualche modo, ci siamo tenuti pronti, nel caso tu avessi tentato qualcosa». Restai immobile. Non provavo alcuna sensazione. Ero al di là di tutto ciò. Ero pazzo — indubitalmente, completamente pazzo; la mia mente continuava ad essere concentrata nel tempo e i cristalli che pulsavano appena oltre la mia portata. «Togliti di mezzo», l'avvertii. Flack sorrise; ma non c'era nessuna allegria nella sua espressione. I tre uomini si fecero avanti, dietro di lui. Guardarono Flack e guardarono me. Niente di ciò che videro fu piacevole, per loro, ma avevano paura. Paura di morire, come tutti noi. Perfino Flack, che non aveva mai avuto un'anima. Ora assunse, a modo suo, l'atteggiamento paziente di chi ha a che fare con un bambino capriccioso. «Vuoi tornare su con noi, Stevie, oppure ti brucio le budella qui, subito?» mi chiese. Guardai quei suoi strani occhi gelidi: «Ti piacerebbe, no?» «Già». Si passò la punta rossa della lingua sulle labbra gonfie. «Già. Ma lascio a te la scelta». «Va bene», dissi, «va bene. Sceglierò». Era pazzo. Gli saltai addosso. Lo colpii subito con la mente. Flack era forte, ma io ero stato cinquant'anni più di lui nella Nuvola, e Shirina mi aveva insegnato molte cose. Raccolsi tutte le mie energie e gliele scaricai addosso, e lui dovette appellarsi a tutta la forza del suo pensiero per respingerle, cosicché, per un secondo, non riuscì a controllare il fulminatore con la sua mente cosciente. Per un riflesso istintivo, scagliò contro di me un torrente micidiale d'energia scarlatta, che mi sfiorò, sfrigolando, quando mi tuffai in basso. Mi bruciacchiò un po' di pelle, ma fu tutto. Cademmo a terra, sbattendo braccia e gambe sulla pietra color porpora. Flack era forte. Più forte di me, fisicamente, e un combattente rabbioso e
sleale. Quasi riuscì a farmi perdere i sensi, ma io gli avevo afferrato il polso con cui stringeva l'arma, e non lo mollavo. Gli altri tre arretrarono un po', sempre circondati dalle loro aure dorate, verso le imboccature dei corridoi, timorosi che il fulminatore potesse sparare e colpirli. Erano convinti che Flack potesse sconfiggermi da solo, e d'altra parte avevano paura. Così, si ritrassero e usarono le loro menti contro di me, cercando di bloccarmi. Non so ancora perché non ci riuscirono. Immagino fosse dovuto a molte cose diverse, gli insegnamenti di Shirina, la mia maggiore età, e il fatto che non c'era niente a cui pensassi consciamente. Era soltanto qualcosa che aveva avuto inizio da qualche altra parte, e stava continuando. A volte vorrei che fossero riusciti a piegarmi. A volte vorrei che Flack mi avesse bruciato là, sulla pietra purpurea. Mi scrollai di dosso i colpi vibratimi dai loro pensieri. Incassai i pugni sferrati dalle grosse mani di Flack, i colpi selvaggi vibrati coi piedi e le ginocchia, e concentrai tutta la mia forza per piegare il suo braccio. Me lo strappai di dosso, lo sollevai, gli girai il polso. Era la fine. Flack sciorinò tutti i suoi numeri, tra il feroce e il patetico, sgranò gli occhi, mostrò furia, dolore, angoscia, ma non gli servì a nulla. Vidi i suoi occhi allargarsi ancora di più sulla sua faccia scura. Li vedo ancora adesso. Spinsi il mio dito sopra il suo e schiacciai il grilletto. Poi mi alzai, e attraversai lo spiazzo. Gli altri tre si scostarono l'uno dall'altro, cauti, e si disposero intorno a me. Uomini nudi che ardevano dorati sulla pietra purpurea. I loro occhi erano duri, brillavano con la stessa follia di un animale preso in trappola. Fulminai il primo trapassandogli la testa proprio mentre i suoi muscoli si tendevano per il balzo. Gli altri due si scagliarono veloci contro di me. Mi buttarono a terra, e il tempo passava, e la gente continuava a camminare, trasognata, sotto i cristalli. Tirai un calcio al mento di uno dei due, e gli ruppi l'osso del collo; l'altro tentò di strapparmi via la pistola. Ma io ero appena uscito dalla Nuvola e lui no. Ero rinvigorito dalla luce che saliva dai cristalli pulsanti. Spinsi indietro le sue braccia e schiacciai di nuovo il grilletto, cercando di non guardare i suoi occhi. E questi erano miei amici. Uomini coi quali avevo bevuto e riso... coi quali, a volte, ero andato in mondi al di là di questo universo. Proseguii lungo un corridoio che aveva il calore di un'alba marziana. Era
vuoto. Io non sentivo nulla, non pensavo. C'era un dolore molto lontano, e sangue nella mia bocca, ma non aveva importanza. Giunsi nel luogo dov'erano i cristalli, e mi fermai. Quasi la metà delle cinquecento famiglie della Regina di Giove vi erano passate sotto. Giacevano immobili sul pavimento e c'era ancora parecchio posto. Gli altri, che venivano dietro di loro, avanzavano senza spingere, un lento, tranquillo fiume di esseri umani, con gli occhi pieni di sogni. I cristalli erano disposti in un ampio cerchio, lievemente inclinati verso l'interno. Pulsavano di un nero che andava al di là della pura tenebra, qualcosa di negativo avvampante e tangibile come la luce del sole. Il particolare angolo d'inclinazione e la diversa sincronia delle facce producevano differenti effetti, proiettando il Velo, o producendo energia motrice, o creando l'ipnosi, o aprendo il passaggio verso un altro tempo e un altro spazio. O succhiando l'energia vitale dai corpi umani. Potevo cogliere il pallido luccichio della forza, al centro, una specie di vortice tra le facce cristalline nere, ardenti, che s'innalzava da quei corpi immoti per salire fino alla camera della Nube, al livello superiore. Potevo vedere i volti dei morti: sorridevano ancora. I comandi erano sull'altro lato. Corsi verso di essi. Dentro di me ero morto, morto come i cadaveri sul pavimento, ma corsi. Ricordo di aver pensato che era divertente correre quando si era morti. Mi tenni all'esterno dei cristalli e mi precipitai con tutte le mie forze verso i comandi. Vidi Virgie. Si trovava ancora molto indietro nella processione, ed era proprio come sapevo sarebbe stata, con Brad accanto a lei, e il bambino dagli occhi verdi ancora fra le sue braccia, addormentato. Virgie, coi suoi lucenti capelli rossi e gli occhi di Missy! Afferrai i comandi e con uno strappo violento li disinnescai. Il vortice luminescente scomparve. Girai la grande ruota esagonale, facendola scattare sul massimo dell'ipnosi, e corsi via, in mezzo ai morti. Dissi ai vivi ciò che dovevano fare. Non dovetti svegliarli. Si voltarono e tornarono indietro ripercorrendo la strada dalla quale erano venuti, precipitandosi di corsa verso la Regina di Giove, ancora sorridenti, ancora senza paura. Tornai alla ruota e la girai, stavolta fino alla tacca contrassegnata dal colore che indicava pericolo. Poi seguii l'ultimo degli umani fuori nel corridoio. Giunto sulla soglia, mi voltai e alzai il fulminatore. Vidi Shirina immobile sotto la bruciante tenebra dei cristalli, a metà
strada dalla parete curva. Sentii la sua mente toccare la mia, poi mi ritrassi, lentamente, come si ritrae la mano da qualcuno che amavate e che è appena nato. La fissai negli occhi. Dovevo farlo. Ma perché feci quel che feci? Cosa poteva importarmi, mai, dei capelli rossi, degli occhi grigiofumo e del sangue diluito in trecent'anni di una ragazza di nome Missy? Non ero più un essere umano. Cosa me ne importava? Eravamo ormai separati, Shirina ed io. Ci eravamo allontanati l'uno dall'altro, non potevamo toccarci, neppure dirci addio. Colsi un'ultima eco del suo pensiero: «Oh, Stevie, c'erano tante altre cose da fare, ancora!» I suoi grandi occhi, neri e luminosi, brillavano di lagrime. Le sue antenne dalle punte come gioielli di fuoco illanguidirono e si abbassarono. Eppure, seppi ciò che stava per fare. All'improvviso, non riuscii più a vedere i cristalli. Non vidi più nulla. Seppi che non avrei voluto veder nulla, mai più. Sollevai l'arma e sparai, alla massima potenza, contro uno dei cristalli sospesi, poi fuggii. Avvertii il mortale, folgorante pensiero di Shirina colpire il mio cervello, e indebolirsi, infrangersi contro qualcosa che si trovava nella sua stessa mente, all'origine. Io continuai a fuggire, una cosa morta che procedeva su piedi di piombo, in un alone di luce dorata. Dietro di me, i cristalli X, brutalmente sbilanciati dal fulminatore, al culmine della sincronia energetica, iniziarono a spaccarsi, a sgretolarsi, e a ridurre in frantumi il mondo di Astellar. Non so molto di ciò che accadde. Corsi e corsi, alle calcagna degli umani ancora in vita, ma ero al di là di ogni capacità di pensare o sentire. Ho vaghi ricordi di corridoi fiancheggiati da celle intagliate in pietre translucide dai colori di gemme, gallerie d'ambra, ametista e cinabro, verdi come i draghi e grigi come le nebbie del mattino, e altri colori ancora, per i quali non vi sono nomi in questa dimensione. Corridoi che si spezzavano e si frantumavano dietro di me, che crollavano, schegge d'arcobaleni infranti. E sopra ogni altra cosa, lo schermo gl'energia dei cristalli X, le cui convulsioni laceravano e distruggevano Astellar. Poi, udii qualcosa nella mia mente, e non con le mie orecchie. La gente di Shirina, che moriva tra le rovine. La mia mente era stordita, ma non abbastanza. Potevo ancora udire. Posso ancora udire.
La Regina di Giove era intatta, e salva. Le vibrazioni che si spostavano verso l'esterno non l'avevano ancora raggiunta. Salimmo a bordo, aprii le grandi porte che si spalancavano sullo spazio, e la lanciai io stesso, poiché il capitano e il secondo ufficiale si erano addormentati per sempre su Astellar. Non guardai la morte di Astellar. Soltanto dopo lungo tempo mi voltai a guardare, ed era scomparso, e al suo posto c'era soltanto una nuvola di polvere luminosa, baluginante alla cruda luce del sole. Regolai il pilota automatico sul quartier generale dell'Autorità Spaziale su Marte e attivai il segnale a largo raggio di richiesta d'aiuto. Poi lasciai la Regina di Giove sulla scialuppa di salvataggio numero 4, ponte B. Dentro questa scialuppa mi trovo adesso, intento a scrivere questo, in qualche punto fra Marte e la Cintura. Non ho visto Virgie prima di andarmene. A quest'ora si saranno svegliati. Spero che la loro vita valga quello che sono costati. Astellar è scomparso. Il Velo è scomparso. Non dovete più averne paura. Infilo questo manoscritto in un razzo postale e ve lo spedirò, così saprete che non dovete più aver paura. Non so perché m'importi tanto che lo sappiate. Non so affatto perché io stia scrivendo questo, a meno che... Sciocchezze, lo so benissimo! Perché mentire? A questo punto del gioco, perché mentire? Ora sono vivo. E giovane. Ma è stata la Nuvola a conservarmi così, e adesso non c'è più, e fra poco diventerò vecchio, troppo vecchio, molto rapidamente, e morirò. E ho paura di morire. In qualche punto del sistema solare ci sarà qualcuno disposto a pregare per me. Quand'ero bambino, mi dicevano che la preghiera aiutava. Voglio che qualcuno preghi per la mia anima, poiché io non posso farlo per me stesso. Se fossi lieto per ciò che ho fatto, se fossi cambiato, forse potrei pregare. Ma sono andato al di là dell'umanità, e non posso tornare indietro. Forse la preghiera non ha importanza. Forse non c'è nulla oltre la morte, soltanto l'oblio. Spero che sia così! Se soltanto potessi cessare di esistere, cessare di pensare, cessare di ricordare. Spero per tutti gli dèi di tutti gli universi che la morte sia la fine. Ma non so, e ho paura. Paura. Judas - Judas - Judas! Ho tradito due mondi, e non potrebbe esserci un inferno più profondo di quello in cui vivo ora. E ho ancora paura. Perché? Perché dovrei preoccuparmi di ciò che è successo? Ho distrutto
Astellar. Ho ucciso Shirina, che ho amato più di qualunque altra cosa nell'intero creato. Ho ucciso i miei amici, i miei compagni — e ho ucciso me stesso. E non ne valeva la pena. Neppure tutto il bestiame umano che prolifera nel sistema solare valeva Astellar, e Shirina, e le cose che abbiamo fatto al di là dello spazio e del tempo, insieme. Perché ho dato a Missy quel medaglione? Perché ho dovuto incontrare Virgie, coi suoi capelli rossi? Perché ho ricordato? Perché me ne è importato? Perché ho fatto quello che ho fatto? Perché mai sono nato? Sanità mentale Sanity di Fritz Leiber Astounding, aprile Malgrado abbia fatto con frequenza assai maggiore la sua comparsa nel campo del fantastico (specialmente Unknown e Weird Tales) durante la prima metà degli anni quaranta, Fritz Leiber ha pubblicato di tanto in tanto anche un racconto di fantascienza. Tuttavia, il suo impetuoso irrompere in prima linea nel mondo della SF avrebbe dovuto aspettare gli anni cinquanta. «Sanità mentale» è interessante a causa del suo punto di vista morale. Anche se molti scrittori di fantascienza erano antimilitaristi e lamentavano la distruttività della guerra, relativamente pochi fra essi permettevano che punti di vista pacifisti parecchio energici emergessero nelle loro storie... dopotutto, venivano pubblicati su riviste che mettevano in misura ragguardevole l'accento sull'azione e l'avventura, con la parziale eccezione di Astounding. Per giunta, la minaccia nazista era così grande e la guerra contro il nazismo così giusta che quasi tutti gli scrittori tendevano a sostenere lo sforzo bellico degli alleati. Nondimeno, Fritz Leiber rimase così sgomento davanti alle distruzioni che la guerra causava, che si scagliò contro gli orrori di tutte le guerre in questo suo convincente racconto, e anche in altri.
(Sottolineo la frase di Marty: «La minaccia nazista era così grande e la guerra contro il fascismo così giusta». È vero. Marty non la visse e sa soltanto ciò che ha letto, essendo allora un giovincello. Io, tuttavia, l'ho vissuta, e ricordo la disperazione e il terrore di quegli anni in cui sembrava che tirannie infami avanzassero inesorabilmente ogni anno di più. Eppure, man mano i tempi si allungavano, la cosa peggiore che Hitler fece, fu quella di far apparire la guerra una cosa necessaria. Quindi dobbiamo rendere grandi onori a coloro che videro, perfino nel colmo di questa particolare situazione, la grande e assoluta verità che la guerra è il male, e lo fecero per di più prima che l'avvento della bomba nucleare rendesse tale fatto lampante a tutti, tranne che alle intelligenze più infime. I.A.) «Entra pure, Phy, e mettiti comodo». La voce squillante — e la porta che si era dilatata all'improvviso — colsero di sorpresa il segretario generale mondiale mentre giocherellava con una bolla di gasoide verdastro, spremendolo nel pugno e osservando le piatte appendici che gli colavano fuori, tra le dita, senza dissiparsi. Lentamente, tortuosamente, girò la testa. Il direttore mondiale Carrsbury fu conscio di uno sguardo che era, allo stesso tempo, goffo, vuoto, scaltro. Di colpo, quell'espressione fu sostituita da un sorriso nervoso. Quell'uomo esile si raddrizzò quel tanto che potevano consentirgli le spalle cascanti, entrò in fretta e si sedette sul bordo estremo d'una poltrona a sagomatura pneumatica. Maneggiò imbarazzato la bolla di gasoide, guardandosi intorno alla ricerca di un buco o di una fessura per i rifiuti. Non ne trovò, e si cacciò frettolosamente la bolla in tasca. Poi bloccò l'inutile agitarsi delle mani stringendole insieme, con fare deciso, e restò immobile, gli occhi fissi al pavimento. Come ti senti, vecchio?» chiese Carrsbury, con voce amichevole. Il segretario generale non sollevò lo sguardo. «Qualcosa che ti preoccupa, Phy?» continuò Carrsbury, in tono sollecito. «Ti senti un po' infelice, o insoddisfatto, per il tuo... ehm... trasferimento, adesso che è giunto il momento?» Il segretario generale continuò a non rispondere. Carrsbury si sporse in avanti, sopra la scrivania semicircolare d'argento opaco e, col suo tono di voce più accattivante, insisté: «Suvvia, vecchio mio, dimmi tutto». Il segretario generale non sollevò la testa, ma ruotò all'insù quei suoi strani occhi remoti fino a quando non furono puntati direttamente su Car-
rsbury. Il suo corpo, scosso da un lieve tremito, parve contrarsi, e le sue mani esangui accentuarono ancora di più la stretta. «Lo so», disse a bassa voce, con uno sforzo, «tu pensi che io sia uno sciocco insensato». Carrsbury si lasciò andare contro lo schienale, costringendo le proprie sopracciglia ad aggrottarsi, perplesse, sotto i suoi capelli argentei. «Oh, non devi fingere d'esser perplesso», continuò Phy, in fretta, adesso che aveva rotto il ghiaccio. «Sai bene quanto me ciò che significa quella parola. Anzi, meglio di me... anche se entrambi abbiamo dovuto compiere ricerche storiche per scoprirlo. «Insensato», ripeté, in tono vago, lo sguardo remoto. «Deviazione significativa dalla norma. Incapacità a conformarsi alle convenzioni basilari che regolano ogni comportamento umano». «Sciocchezze!» esclamò Carrsbury, rianimandosi ed esibendo il suo più caldo e accattivante sorriso. «Non ho la più pallida idea di cosa tu stia parlando. Sei un po' stanco, un po' teso, turbato... è del tutto comprensibile, considerando il fardello che hai dovuto sopportare, e un po' di riposo è proprio ciò che ti vuole per rimetterti, una bella, lunga vacanza, lontano da tutto questo. Ma in quanto a pensare che tu sia... ah, è ridicolo!» «No», insisté Phy, inchiodando Carrsbury con lo sguardo. «Tu pensi che io sia insensato. Tu pensi che tutti i miei colleghi del Direttivo Mondiale siano insensati. Per questo ci fai sostituire da quegli uomini che hai addestrato per dieci anni nel tuo Istituto della Guida Politica... sin da quando col mio aiuto, e con la mia complicità, sei diventato Direttore Mondiale». Carrsbury si ritrasse davanti al tono esplicito e secco con cui era stata fatta questa dichiarazione. Per la prima volta il suo sorriso si fece un po' incerto. Cominciò a dire qualcosa, poi esitò e guardò Phy, quasi con la speranza che continuasse a parlare. Ma Phy aveva ripreso a fissare, ostinato, il pavimento. Carrsbury tornò a lasciarsi andare contro lo schienale. Rifletté. Quando parlò, lo fece con un tono assai più spontaneo, genuino, senza più sfumature melliflue o paternalistiche. «Be', d'accordo, Phy. Ma ascolta, e rispondimi in tutta sincerità. Tu, e gli altri, non sarete assai più felici, una volta che sarete stati sollevati da tutte le vostre responsabilità?» Phy annuì, cupo. «Sì», ammise, «lo saremo... ma», il suo volto si fece teso, «vedi...» «Ma...?» lo sollecitò Carrsbury.
Phy deglutì con sensibile sforzo. Sembrò incapace di continuare. Si era gradualmente afflosciato su un lato della poltrona, e aveva così schiacciato il gasoide che gli stava colando fuori dalla tasca. Le sue lunghe dita gli strisciarono sopra e ripresero bruscamente a impastarlo. Carrsbury si alzò in piedi e girò intorno alla scrivania. La sua espressione accigliata e comprensiva, dalla quale era scomparsa ogni perplessità, non era, però, del tutto genuina. «Non vedo perché non dovrei dirti tutto, adesso, Phy», fece, ostentando sincerità. «In qualche bizzarra maniera, devo tutto a te. E adesso non c'è più nessun motivo di tenerlo segreto... non c'è più nessun pericolo...» «Sì», ammise Phy, con un fugace, amaro sorriso, «ormai da qualche anno non hai più corso il pericolo di un colpo di stato. Se mai ci fossimo ribellati, ci sarebbe stata...» il suo sguardo si appuntò sulla parete opposta, là dove una linea verticale appena accennata tradiva la presenza di una porta, «... la tua polizia segreta». Carrsbury trasalì. Non aveva pensato che Phy lo sapesse. In modo inquietante gli si disegnò nella mente la frase la furberia dei pazzi. Ma solo per un attimo. Un amichevole compiacimento tornò ad avvolgere, esteriormente, la sua figura. Andò dietro la poltrona di Phy e gli appoggiò entrambe le mani sulle spalle spioventi. «Sai, ho sempre provato un sentimento tutto speciale verso di te, Phy», disse, «e non soltanto perché certe tue geniali ispirazioni hanno molto facilitato la mia ascesa a direttore mondiale. Ho sempre sentito che eri diverso dagli altri, che c'erano delle volte, quando...» esitò. Phy si contorse un po' sotto quelle mani amiche. «Quando avevo i miei momenti di buonsenso?» terminò, chiaro e tondo. «Come adesso», disse Carrsbury, con voce sommessa, dopo un cenno del capo che l'altro non poté vedere. «Ho sempre sentito che qualche volta, in una qualche maniera irreale, contorta, tu capivi. E questo ha significato molto, per me. Sono rimasto solo, Phy, terribilmente solo per dieci anni interi. Nessuna amicizia in nessun luogo, neppure tra gli uomini che io stesso ho addestrato nell'Istituto della Guida Politica... poiché ho dovuto recitare una parte anche con loro, tenendoli nell'ignoranza di certi fatti, per timore che tentassero di prendere il potere, scavalcandomi, prima che fossero sufficientemente preparati. Nessuna amicizia, in nessun luogo, salvo per le mie speranze... e per qualche occasionale momento. Adesso che è finita, e che un nuovo regime sta cominciando per entrambi, posso dirti tutto que-
sto. E ne sono contento». Vi fu silenzio. Poi... Phy non mosse la testa, ma una mano magra e sottile strisciò all'insù e toccò quella di Carrsbury. Questi si schiarì la gola. Strano, pensò, che potesse esserci anche soltanto un momentaneo rapporto come quello, fra il sensato e l'insensato. Ma era così. Liberò le mani, tornò rapidamente alla scrivania, si voltò. «Io sono una regressione, Phy», cominciò, con un diverso tono di voce, insolitamente accalorato ed efficiente. «Una regressione a un tempo in cui la mentalità umana era molto più equilibrata. Che il mio caso fosse dovuto soprattutto all'ereditarietà, o a certi insoliti incidenti ambientali, o a entrambe le cose, non è importante. Questo era il punto: era nata una persona in posizione di criticare l'attuale stato dell'umanità alla luce del passato, di compiere un'accurata diagnosi del male e iniziare la cura. Per lungo tempo mi ero rifiutato di guardare in faccia i fatti, ma alla fine le mie ricerche — specialmente quelle nella letteratura del ventesimo secolo — non mi lasciavano alternative. La mentalità dell'uomo era divenuta aberrante. Soltanto certi progressi tecnologici, i quali avevano avuto il risultato di rendere la vita infinitamente più facile e semplice, e il fatto che fosse stato posto termine alla guerra con la creazione dell'attuale stato mondiale, avevano allontanato l'inevitabile crollo della civiltà. Ma solo allontanato... ritardato. Le grandi masse dell'umanità erano diventate quelle che un tempo sarebbero state definite neurotiche senza speranze. I loro capi erano diventati... l'hai detto tu per primo, Phy... insensati. Incidentalmente, quest'ultimo fenomeno — l'assunzione graduale da parte degli aberranti psicotici delle posizioni di guida — è stato ben noto in tutte le epoche». Fece una pausa. Si sbagliava, oppure Phy stava seguendo le sue parole dando segno di una chiarezza mentale maggiore di quanto lui avesse notato prima, perfino in quel segretario mondiale, relativamente non violento? Forse — aveva spesso sognato, nostalgicamente — c'era ancora una possibilità di salvare Phy. Forse, se soltanto fosse riuscito a spiegargli con chiarezza e con calma... «Nei miei studi storici», riprese, «sono presto arrivato alla conclusione che il periodo cruciale è stato quello dell'Amnistia Finale, in coincidenza con la fondazione dell'attuale stato mondiale. Ci hanno insegnato che a quell'epoca furono liberati dalla prigionia milioni di prigionieri politici... e milioni di altri. Ma chi erano questi altri? A questa domanda, la storia che c'insegnano oggi ha dato soltanto una risposta vaga e insulsa. Mi sono imbattuto in grosse difficoltà semantiche, lo confesso, ma ho insistito. Per-
ché, mi sono chiesto, parole come insensatezza, lunaticità, follia, psicosi, sono scomparse dal nostro vocabolario... e i concetti dietro ad esse dai nostri pensieri? Perché mai l'argomento «psicologia anormale» è scomparso dai programmi delle nostre scuole? E, cosa d'importanza maggiore, perché mai la nostra moderna psicologia è così straordinariamente simile, nel suo campo d'indagine, alla psicologia anormale, come la si insegnava nel ventesimo secolo, e soltanto ad essa? Perché mai non ci sono più, come invece c'erano nel ventesimo secolo, istituti per la reclusione e la cura di coloro che sono psicologicamente aberranti?» Phy alzò la testa di scatto. Sorrise nel suo modo contorto. «Perché», la sua voce fu uno scaltro bisbiglio, «adesso sono tutti insensati». La furberia dei pazzi. Ancora una volta questa frase si profilò ammonitrice nella mente di Carrsbury. Ma solo per un momento. Annuì. «Sulle prime, mi ero rifiutato di giungere a quella deduzione. Ma gradualmente ho ragionato sul perché e sul percome ciò era successo. Non era soltanto il fatto che una civiltà altamente tecnologica aveva sottoposto l'umanità a un'eccessiva gamma di stimoli, suggestioni in conflitto fra loro, tensioni mentali, lacerazioni emotive, il tutto sempre più intenso e a un ritmo sempre più rapido. Nei testi psichiatrici del ventesimo secolo vengono fatte osservazioni su una tipica psicosi che deriva dal successo. Un individuo squilibrato continua a funzionare fintanto che combatte contro qualcosa, finché ha una meta per cui lottare. Una volta raggiunta questa meta, va in pezzi. Le sue incoerenze, fino a quel momento represse, salgono in superficie, si rende conto di non saper più ciò che vuole, le sue energie, finora impegnate a combattere qualcosa di esterno, si rivolgono contro lui stesso, e ne viene distrutto. Bene, quando la guerra venne definitivamente dichiarata fuori legge, quando l'intero mondo divenne un unico stato unificato, quando le diseguaglianze sociali furono abolite... vedi a cosa miro?» Phy annuì lentamente. «Questa», disse con un tono di voce bizzarramente remoto, «è una deduzione molto interessante». «Avendo, sia pure con riluttanza, accettato questa fondamentale premessa», proseguì Carrsbury, «ogni cosa mi divenne più chiara. Le fluttuazioni cicliche semestrali del credito mondiale, ad esempio... mi resi subito conto che Morgenstern, delle Finanze, doveva essere un maniaco depressivo con alternanze, appunto, semestrali, oppure un individuo con una duplice personalità, una da scialacquatore e l'altra da usuraio. Risultò che
era vera l'ipotesi del maniaco depressivo. E perché mai il Dipartimento del Progresso Culturale ristagnava? Perché il suo direttore Hobart era marcatamente catatonico. Perché mai la Ricerca Extraterrestre conosceva un simile "boom"? Perché McElvy era un estroverso entusiasta». Phy lo fissò con aria stupita. «Ma è naturale», disse, allargando le sue magre mani, da una delle quali il gasoide scivolò fuori formando un lungo ricciolo verde. Carrsbury gli lanciò un'occhiata penetrante. Rispose: «Sì. So che tu e molti altri avete una certa, distorta consapevolezza delle differenze che esistono tra le vostre... personalità, anche se non ne avete nessuna delle aberrazioni di fondo presenti in tutti. Ma, andiamo avanti. Non appena mi resi conto di come stavano in realtà le cose, il mio destino fu segnato. Da uomo sensato, capace di perseguire, con costanza e continuità, scopi realistici, e circondato da individui le cui inconsistenze e illusioni erano facili da manipolare, ero nella condizione di poter raggiungere, con il tempo e un accorto comportamento, qualunque meta cui volessi puntare. Ero già arrivato a un rango direttivo. Nel giro di tre anni, divenni Direttore Mondiale. Conseguito questo risultato, la portata della mia influenza fu immensamente accresciuta. Come nel famoso detto di Archimede, avevo un punto su cui appoggiarmi per sollevare il mondo. Fui in grado, in vari modi e con diversi pretesti, di promulgare leggi e regolamenti il cui vero scopo era quello di dar sollievo alle sterminate masse di neurotici, riducendo gli stimoli sconvolgenti e introducendo un programma di vita più tranquillo e ordinato. Fui in grado, manovrando i miei compagni dirigenti, e sfruttando al massimo le mie grandi capacità lavorative, di mantenere gli affari mondiali su un binario abbastanza sicuro, per quanto traballante... quanto meno evitando il peggio. E allo stesso tempo fui in grado d'iniziare il mio piano decennale... l'addestramento, in relativo isolamento, di un piccolo gruppo, poi gradualmente accresciuto man mano i più preparati potevano a loro volta diventare istruttori, di potenziali guide attentamente scelte in base alla loro relativa indipendenza da tendenze neurotiche». «Ma questo...» cominciò Phy, piuttosto eccitato, accennando ad alzarsi in piedi. «Ma questo?» si affrettò a chiedere Carrsbury. «Niente», borbottò Phy, scoraggiato, tornando a sprofondare nella poltrona. «Questo, più o meno, completa il quadro», concluse Carrsbury, con voce all'improvviso più sorda. «Salvo per una faccenda secondaria. Non potevo
permettermi di continuare senza una protezione. Troppe cose dipendevano da me. C'era sempre il rischio d'essere spazzato via da qualche scoordinato ma nondimeno efficace rigurgito di violenza, per far fronte al quale nessun comportamento, per quanto accorto, da parte mia, sarebbe bastato, da parte di questa o quella cricca di dirigenti. Così, soltanto perché non riuscii a vedere nessun'altra alternativa, feci un passo pericoloso. Creai», il suo sguardo andò a quella linea quasi invisibile, là sulla parete, «la mia polizia segreta. C'è un tipo di neurosi, o insensatezza che sia, chiamato paranoia, un'esagerata propensione al sospetto che implica mania di persecuzione. Grazie alle tecniche ipnotiche messe a punto già nel ventesimo secolo, inculcai nelle menti di un certo numero di questi sfortunati individui l'idea fissa che la loro vita dipendeva da me, e che io ero minacciato da ogni parte, e dovevo esser protetto ad ogni costo. Un espediente sgradevole, anche se ha servito al suo scopo. Sarò contento, molto contento, quando potrò porvi fine. Tu capisci, non è vero, perché ho dovuto intraprendere questo passo?» Fissò Phy, sollecitando una risposta... e si avvide, con uno shock, che quell'individuo lo guardava sogghignando, vacuo, reggendo il gasoide fra due dita. «Ho fatto un buco nel mio divano e ne è uscito un mucchio di questa roba», spiegò Phy, farfugliando. «Le propaggini di questa roba hanno invaso tutto il mio ufficio. Ho continuato a inciamparci». Le sue dita accarezzarono il gasoide con destrezza, scolpendolo nella forma di un'orrida testa verde, translucida, che poi nuovamente spremette in una massa informe. «Strana roba», commentò. «Liquido rarefatto... o gas a volume costante. È per tutto il mio ufficio, aggrovigliato ai mobili». Carrsbury si lasciò andare contro lo schienale e chiuse gli occhi. Le sue spalle ricaddero. All'improvviso si sentì un po' stanco, bramoso che quel giorno, che pure era quello del suo trionfo, finisse. Sapeva che non doveva sentirsi abbattuto per aver fallito con Phy. Dopotutto, la vittoria più importante l'aveva ottenuta. Phy era soltanto la meno importante delle questioni collaterali. Lo aveva sempre saputo, salvo illudersi per brevi momenti, che Phy era un caso disperato come gli altri. Tuttavia... «Non devi preoccuparti per il tuo ufficio, Phy», gli disse con svogliata gentilezza. «Mai più. Toccherà al tuo successore preoccuparsi di pulirlo. Sai, a tutti gli effetti sei già stato sostituito». «È proprio questo!» Carrsbury sussultò all'improvvisa esplosione di
quella voce. Il segretario mondiale balzò in piedi e si fece avanti a rapidi, frenetici passi. «È per questo che sono venuto a trovarti! È questo che ho cercato di dirti! Non posso venir sostituito così! E nessuno degli altri! Non funzionerebbe! Non puoi farlo!» Carrsbury, con una prontezza nata dalla lunga pratica, si raddrizzò dietro la scrivania, e costrinse i suoi lineamenti ad assumere quell'espressione di calma, sorridente benevolenza di cui, nel profondo di sé, era indicibilmente stanco. «Su, su, Phy», lo sollecitò, con voce ilare e suadente, «tu dici che non posso farlo, e sia pure. Ma non credi che dovresti dirmene il perché? Non credi che sarebbe bello e utile sedersi e ridiscuterne tra me e te, cosicché tu possa spiegarmi?» Phy si fermò, e abbassò la testa, confuso. «Sì, immagino che lo sarebbe», borbottò, ripiombando nel tono basso e forzato. «Immagino di doverlo fare. Immagino che non ci sia nessun altro modo. Avevo sperato, tuttavia, di non doverti dire tutto». L'ultima frase era una mezza domanda. Sollevò lo sguardo su Carrsbury, quasi supplichevole, ma questi scosse la testa, pur continuando a sorridere. Phy tornò indietro e si sedette. «Be'», si decise infine a cominciare, impastando, con espressione triste, il gasoide, «tutto è cominciato quando hai chiaramente dimostrato di voler diventare Direttore Mondiale. Non eri il solito tipo di candidato, ma pensavo che sarebbe stato divertente... sì, e anche vantaggioso in un certo senso». Alzò lo sguardo su Carrsbury. «Sì, hai fatto un sacco di bene, al mondo, in molti modi, ricordalo sempre», lo assicurò. «Naturalmente», proseguì, tornando a fissare per l'ennesima volta il tormentato gasoide, «non esattamente i modi che ti eri immaginato». «No?» sbottò, istintivamente, Carrsbury. Accontentalo. Accontentalo. Il frusto ritornello gli ronzò nella mente. Phy scosse la testa, sempre più triste: «Prendi, ad esempio, quei provvedimenti che hai promulgato per tener calma la gente...» «Sì?» «... sono stati cambiati, strada facendo. Così, la tua proibizione di ospitare ogni forma di letteratura eccitante nei libro-nastri... oh, sulle prime abbiamo provato a diffondere quella roba calmante che avevi suggerito. È stata assai stimolante, per tutti. Si sono fatti beffe, hanno riso. E ben presto, come ho detto, in qualche modo il tuo provvedimento è stato cambiato... è diventato, in questo caso, la proibizione di ospitare, nei libro-nastri,
tutta la letteratura non-eccitante». Il sorriso di Carrsbury si fece ancora più radioso. Per un attimo, un brivido di paura aveva aleggiato ai bordi della sua mente, ma l'ultima affermazione di Phy l'aveva rassicurato. «Passo ogni giorno accanto a parecchi chioschi di lettura», disse, con voce gentile. «I nastri di narrativa posti in vendita sono sempre racchiusi nei contenitori dei più riposanti e placidi colori pastello. E non c'è nessuna di quelle scandalose, provocanti immagini che un tempo si vedevano dappertutto». «Ne hai mai comperato uno, e l'hai ascoltato? Oppure, ne hai proiettato il testo visivo?» gli chiese Phy, quasi in tono di scusa. «Per dieci anni sono stato un uomo molto occupato», gli rispose Carrsbury. «Naturalmente, ho letto i rapporti ufficiali concernenti questa faccenda, e a volte ho dato una scorsa ai riassunti di qualche libro-nastro». «Oh, certo, la documentazione ufficiale», fu d'accordo Phy, lanciando un'occhiata alla parete dietro la scrivania, che ospitava i nastri archiviati. «Vedi, ciò che abbiamo fatto, è stato conservare i contenitori dai colori smorti, tornando però ai vecchi contenuti. Il contrasto ha solleticato la gente. Ricorda, come ti ho detto prima, che parecchie delle tue leggi hanno fatto del bene. Hanno eliminato un bel po' di sciocchezze e di chiasso inutili, tanto per cominciare». La documentazione ufficiale. La frase si attardò in modo sgradevole nelle orecchie di Carrsbury. L'occhiata che anche lui lanciò alle file di nastri dell'archivio, dietro di sé, era impregnata d'un chiaro sospetto. «Oh, sì», proseguì Phy. «Quella proibizione di cedere a impulsi insoliti e indecorosi, con una lista di casi specifici. Entrò in vigore, non c'è dubbio, ma con l'aggiunta di un piccolo codicillo: "a meno che non vogliate veramente farlo". Ciò era parso assolutamente necessario, sai». Le sue dita impastavano più che mai furiose il gasoide. «In quanto al divieto di molte bevande stimolanti... be', in molti luoghi vengono ancora servite, sotto altri nomi, ed è nata l'interessante abitudine di comportarsi nel modo più sobrio, mentre le si beve. E adesso, prendendo in esame la questione delle otto ore di lavoro al giorno...» Quasi involontariamente, Carrsbury si era alzato, dirigendosi verso la parete rivolta all'esterno. Qui, fece un gesto rapido a U con la mano, interrompendo un raggio invisibile. La finestra, per così dire, si accese, e fu come se la parete esterna fosse scomparsa. Attraverso la sua trasparenza
quasi perfetta, Carrsbury scrutò verso il basso, con rabbiosa curiosità, oltre le lisce, scintillanti facciate, fino alle terrazze ed ai viali alberati più sotto. Quel po' di gente che circolava laggiù era tranquilla e ordinata quanto bastava. Ma proprio allora, vi fu un accorrere confuso: un gruppo d'individui, vere marionette visti così di scorcio, si precipitarono fuori da un negozio e cominciarono a tempestare un altro gruppo con quelle che sembravano cibarie. E nello stesso tempo, in un viale alberato laterale, due veicoli a forma di ovoide, due gocce d'argento, a quella distanza, la superficie priva di saldature visibili, iniziarono, gioiosamente, a scagliarsi l'uno contro l'altro. Qua e là, la gente cominciò a correre e ad azzuffarsi. Carrsbury riopacizzò la finestra e si voltò. Quelli laggiù, erano eventi occasionali, si disse, tentando di calmare l'ira che lo aveva preso. Niente che avesse rilevanza statistica. In quei dieci anni l'umanità aveva costantemente proceduto verso il buonsenso, malgrado occasionali ricadute. L'aveva visto coi suoi occhi, aveva seguito il programma giorno per giorno... o almeno, quel tanto che bastava per saperlo. Era stato uno sciocco a permettere che l'incoerente discorso di Phy avesse effetto su di lui... solo i suoi nervi stanchi avevano reso possibile la cosa. Lanciò un'occhiata all'orologio. «Scusami», disse, passando oltre la poltrona di Phy, «mi piacerebbe continuare questa conversazione, ma devo presenziare al primo incontro col nuovo personale della Direzione Centrale». «Oh, ma non puoi!» Phy balzò in piedi e l'afferrò per un braccio. «Semplicemente, non puoi andare... lo sai! È impossibile!» La voce implorante s'innalzò fino a diventare un urlo. Impaziente, Carrsbury cercò di scrollarsi l'altro di dosso. La sottile fessura nella parete laterale si allargò, divenne una porta. Immediatamente, i due smisero di lottare. Sulla soglia era comparso un gigante cadaverico, con un'arma tozza e nera in mano. Una barba nera, disordinata, sfumava in due guance esangui. Il suo volto era un miscuglio di sospetto e fanatica devozione, il primo rivolto, insieme alla bocca dell'arma, verso Phy, la seconda — e gli occhi da sonnambulo — verso Carrsbury. «La stava minacciando?» chiese il barbuto con voce aspra, agitando l'arma in modo significativo. Per un attimo un lampo di rabbia vendicativa balenò negli occhi di Carrsbury. Poi si spense. Cosa mai gli stava capitando? si chiese. Quel povero sciocco lunatico del segretario mondiale non era certo qualcuno da odiare.
«Oh, no, Hartman», replicò, ormai calmo. «Stavamo discutendo di qualcosa, ci siamo eccitati, e abbiamo permesso alle nostre voci di alzarsi. Tutto è a posto». «Molto bene», disse il barbuto, dubbioso, dopo un breve silenzio. Con riluttanza, reinfilò l'arma nella fondina, ma vi tenne la mano sopra e restò immobile sulla soglia. «E ora», disse Carrsbury, divincolandosi, «devo andare». Era salito sul nastro mobile, nel corridoio, percorrendo metà strada verso l'ascensore, quando si rese conto che Phy l'aveva seguito e gli stava tirando timidamente la manica. «Non puoi andartene così», lo implorò Phy, con urgenza, lanciando un'occhiata apprensiva dietro di sé. Carrsbury notò che anche Hartman li aveva seguiti... un sinistro pilastro a due passi da loro. «Mi devi dare la possibilità di spiegarti, di dirti perché, proprio come mi hai chiesto di fare». Accontentalo. La mente di Carrsbury era mortalmente stanca di quel seccatore, ma proprio per stanchezza s'indusse a stare al gioco ancora per un po'. «Puoi parlarmi in ascensore», gli concesse, scendendo dal nastro mobile. La sua mano guizzò nel consueto gesto a U, e un lampo luminoso indicò che, obbediente, la cabina dell'ascensore stava salendo. «Vedi, non è soltanto la faccenda delle norme che proibiscono questo o quello», si affrettò a proseguire Phy. «Ci sono molte altre cose che non hanno mai funzionato come dicevano i tuoi rapporti ufficiali. I bilanci dipartimentali, ad esempio. So che i rapporti mostravano una continua diminuzione dei finanziamenti alle ricerche extraterrestri, ma la verità è che, in questi tuoi dieci anni di carica, essi sono cresciuti di dieci volte. Ovviamente, tu non avevi alcun modo per saperlo. Non potevi esser dovunque nello stesso tempo, e assistere a ogni singolo lancio di razzi superstratosferici». La luce smise di ammiccare. Una giuntura si dilatò. Carrsbury entrò nell'ascensore. Rifletté se mandare o no indietro Hartman. Il povero Phy non costituiva una minaccia. Tuttavia... la furberia dei pazzi. Decise di non rimandarlo indietro. Alzò la mano e attivò il raggio che avrebbe comandato la salita della cabina fino al centesimo e ultimo piano. La porta tornò a chiudersi con uno sbuffo. La cabina, prese a salire immersa nel buio, mentre i numeri dei piani ammiccavano in successione. «E poi, il servizio militare. L'avevi fatto drasticamente ridurre». «Certo che l'ho fatto». Carrsbury era spinto a parlare dalla stessa noia
che l'afferrava. «C'è una sola nazione al mondo. È ovvio che l'unica esigenza militare è, oggi, un'adeguata forza di polizia. Per non parlare dei rischi impliciti nel mettere armi in mano all'attuale popolazione mondiale». «Lo so», la risposta di Phy giunse dalla penombra con un tono colpevole. «Tuttavia è accaduto che, a tua insaputa, il servizio militare si è accresciuto di dimensioni, e recentemente sono stati aggiunti tre squadroni di addetti ai razzi». Cinquantasette. Cinquantotto. Accontentato. «Perché?» «Be', vedi. Abbiamo scoperto che la Terra viene di continuo ispezionata... spiata. Forse da Marte. E da forze con tutta probabilità ostili. Dovevamo tenerci pronti. Non te l'abbiamo detto; temevamo che la cosa potesse... eccitarti». La voce di Phy si spense. Carrsbury chiuse gli occhi. Quanto tempo ancora? Quanto tempo, si chiese, quanto tempo? Si rese conto, con blanda sorpresa, che era bastata quell'ultima ora a far sì che la gente come Phy, sopportata per dieci anni, gli diventasse insopportabilmente stancante. In quel momento, perfino la prospettiva dell'imminente conferenza che avrebbe presieduto, la conferenza che avrebbe dato il via, finalmente, a un mondo del tutto sensato, mancò di eccitarlo. Una reazione al successo? Alla fine della tensione durata dieci anni? «Sai quanti piani possiede questo edificio?» Carrsbury non fu subito consapevole del cambiamento di tono della voce, ma reagì prontamente: «Cento», disse. «Allora», proseguì Phy, «dove ci troviamo adesso?» Carrsbury aprì gli occhi nel buio: Centoventisette, ammiccava la piastra della numerazione. Centoventotto. Centoventinove. Qualcosa di gelido afferrò in una morsa lo stomaco di Carrsbury, gli strattonò il cervello. Gli parve che la sua mente venisse con inesorabile lentezza contorta. Pensò a dimensioni nascoste e a buchi insospettati nello spazio. Qualche vago ricordo della fisica elementare gli danzò tra i pensieri: se fosse stato possibile per un ascensore continuare a muoversi verso l'alto con accelerazione costante, nessuno, all'interno della cabina, avrebbe potuto stabilire se l'effetto che stavano sperimentando era dovuto all'accelerazione o alla gravità... se, cioè, l'ascensore era fermo, immobile, sulla superficie d'un pianeta, o se invece veniva sparato verso l'alto, con velocità sempre crescente, verso lo spazio aperto.
Centoquarantuno. Centoquarantadue. «Come se tu t'innalzassi attraverso la consapevolezza fin dentro a un insospettato reame della mente che si stende più sopra», suggerì Phy, con la sua nuova voce, venata da una traccia d'una cortese risatina. Centoquarantasei. Centoquarantasette. Adesso stava rallentando. Centoquarantanove. Centocinquanta. Si era fermato. Quello, sì, era uno scherzo. Il pensiero fu come acqua fredda sul volto di Carrsbury. Un astuto, infantile scherzo di Phy. Era facile imbrogliare i numeri. Carrsbury cercò a tentoni nell'oscurità. Incontrò la liscia superficie d'una fondina, la coriacea corporatura di Hartman. «Preparati a una sorpresa», lo avvertì Phy, da un punto vicino alla sua spalla. Quando Carrsbury si girò, cercando di aggrapparsi a qualcosa, fu investito dalla vivida luce dei sole, seguita da uno spasimo di vertigine che quasi gli arrestò il cuore. Lui, Hartman e Phy, insieme a pochi, incorporei comandi, erano in piedi sull'aria, cinquanta piani sopra il centesimo che costituiva la sommità del Centro Direttivo Mondiale. Per un attimo, si aggrappò freneticamente al nulla. Poi, si rese conto che non stava precipitando, e i suoi occhi cominciarono a percepire la vaga traccia del soffitto, del pavimento, delle pareti e, subito sotto di loro, il fantasma d'una tromba di ascensore. Phy annuì: «C'è tutto, non dubitare», garantì a Carrsbury, con tono ovvio, quasi distratto. «È solo un'altra di quelle strane, affascinanti idee moderne contro le quali hai legiferato con tanta insistenza... come le nostre scale incomplete e le strade che non portano da nessuna parte. Il Comitato Edilizio ha deciso di prolungare la portata degli ascensori, a scopo panoramico. La tromba è stata realizzata con materiali trasparenti, per non guastare il profilo dell'edificio originario, e garantire una vista panoramica perfetta. Tutto è stato realizzato in modo così perfetto, che è stato necessario installare un sistema elettronico di avvertimento per impedire ai jet e agli altri aerei di passaggio di schiantarsi contro di esse. Le pareti delle cabine sono state poi progettate come le finestre a opacità regolabile... un ovvio dettaglio». Fece una pausa e guardò Carrsbury con aria canzonatoria. «Tutto molto semplice», osservò. «Ma non trovi che ci sia una specie di simbolismo in tutto ciò? Sono ormai dieci anni che passi la maggior parte della tua vita in quell'edificio, là sotto. Ogni giorno hai usato quest'ascensore. Ma non una sola volta hai immaginato l'esistenza di questi cinquanta piani in più. Non
pensi che qualcosa di analogo potrebbe esser vero riguardo alle tue osservazioni su altri aspetti della vita sociale contemporanea?» Carrsbury lo fissò stupidamente, a bocca aperta. Phy si voltò a fissare il puntino nero di un aereo in avvicinamento, che stava diventando sempre più grande. «Guardalo anche tu», disse, rivolgendosi a Carrsbury. «Guardalo con attenzione, perché sta per portarti verso una vita molto più felice e riposante». Carrsbury socchiuse le labbra, se le inumidì. «Ma...» fece, incerto. «Ma...» Phy sorrise. «Hai ragione, non ho finito le mie spiegazioni. Be', avresti potuto continuare a fare il Direttore Mondiale per tutta la tua vita, nell'isolamento del tuo ufficio e le tue migliaia di rapporti su nastro e le tue occasionali chiacchierate con me e gli altri. Ma... il tuo Istituto per la Guida Politica e il tuo Piano Decennale hanno sconvolto le cose. Certo, ne eravamo interessati, allo stesso modo in cui ne eri interessato tu. C'erano delle possibilità, in essi. Speravamo che avrebbero funzionato nel modo giusto. Saremmo stati lieti di ritirarci dalle nostre funzioni, se così fosse stato. Ma così non è stato, e ciò ha praticamente messo fine a tutto l'esperimento». Colse lo sguardo di Carrsbury diretto verso il basso. «No», disse, «temo che i tuoi pupilli non ti stiano aspettando nella sala conferenza al centesimo piano. Temo che siano ancora all'istituto». La sua voce divenne ancor più gentile e comprensiva. «E temo che sia diventato... be'... un genere d'istituto un po' diverso» Carrsbury rimase immobile, oscillando lentamente su se stesso. Gradualmente, i suoi pensieri e la sua forza di volontà stavano riemergendo dall'incubo a occhi aperti che l'aveva paralizzato. La furberia dei pazzi. Aveva trascurato quel vivido avvertimento. Proprio nel momento della vittoria... No! Si era dimenticato di Hartman! Questo era proprio il tipo di emergenza per il quale aveva preparato quella contromossa. Lanciò un'occhiata in tralice al membro più importante della sua polizia segreta. Il gigante nero, indifferente alla loro strana posizione, fissava furiosamente Phy come se fosse qualche mago malvagio dal quale aspettarsi i più abominevoli sortilegi. Ora Hartman divenne conscio dello sguardo di Carrsbury. Indovinò il suo pensiero. Sfilò l'arma scura dalla fondina e la puntò contro Phy senza il minimo tremito.
Le sue labbra si piegarono in una smorfia, tra la barba nera. Da esse uscì un suono sibilante. Poi, gridò: «Lei è morto, Phy! La disintegro». Phy allungò il braccio e gli tolse l'arma di mano. «Questo è un altro caso in cui tu hai completamente sbagliato a valutare l'attuale personalità umana», osservò, rivolto a Carrsbury, con una sfumatura polemica. «Tutti noi abbiamo certi argomenti sui quali siamo alquanto fuori della realtà. Ma è la natura umana. Nel caso di Hartman, era la sua sospettosità — una carenza nel suo modo di ragionare che lo convinceva dell'esistenza di complotti e persecuzioni. Gli hai dato un lavoro che era senz'altro il peggiore, per lui... un lavoro che incoraggiava le sue debolezze. In brevissimo tempo, è diventato incurabilmente irrealistico. E così, per anni non si è mai reso conto di portare una pistola finta». La passò a Carrsbury perché l'ispezionasse. «Ma», aggiunse, «dài a Hartman il lavoro giusto, e funzionerà bene... diciamo, qualcosa che abbia a che fare con la creatività o l'esplorazione. Adattare l'uomo al lavoro è un'arte con infinite possibilità. È per questo che abbiamo messo Morgenstern alle Finanze — per mantenere il credito entro i limiti d'una fluttuazione sicura e prevedibile. È per questo che un euforico entusiasta è stato fatto direttore della Ricerca Extraterrestre... per mantenerla in continua espansione. Perché mai il Progresso Culturale a un catatonico? Per impedire che inciampasse su se stesso per la fretta di avanzare». Si voltò. Confusamente, Carrsbury osservò che l'oggetto volante, un elicottero, era ormai vicino alla cabina dell'ascensore, e avanzava obliquamente verso di essa. «Ma in questo caso, perché...» cominciò, quasi balbettando. «Perché sei stato nominato Direttore Mondiale?» concluse Phy per lui. «Non è sufficientemente chiaro? Non ti ho forse detto, parecchie volte, che indirettamente hai fatto un sacco di bene? Ci interessavi, non capisci? In effetti, eri praticamente unico. Come sai, il nostro principio fondamentale è consentire ad ogni individuo di esprimersi come vuole. Nel tuo caso, ciò comportava lasciarti diventare Direttore Mondiale. Nell'insieme, la cosa ha funzionato molto bene. Tutti se la sono spassata, sono state promulgate un certo numero di leggi costruttive, abbiamo imparato molto... sì, certo, non abbiamo ottenuto tutto ciò che speravamo, ma non ci si riesce mai. Per sfortuna, alla fine siamo stati costretti a interrompere l'esperimento». L'elicottero accostò, fermandosi a contatto con l'ascensore. «Tu capisci, naturalmente, perché questo era necessario?» continuò Phy
in fretta, mentre spingeva Carrsbury verso il portello che si stava aprendo. «Sono certo che puoi capirlo. Tutto si riduce a una questione di buonsenso. Cos'è il buonsenso... oggi, nel ventesimo secolo, in qualunque epoca? L'aderenza a una norma. Il conformarsi a certe convenzioni di base che regolano l'intera condotta umana. Nella nostra epoca, l'allontanarsi della norma è diventata la norma. L'incapacità di conformarsi è diventato il modello del conformismo. È tutto chiaro, non è vero? E ti consente di capire, non è vero, il tuo caso e quello dei tuoi protetti? Durante un lungo periodo di anni tu hai insistito nel voler aderire a una norma, conformandoti a certe tue convenzioni di base. Eri completamente incapace di adattarti alla società intorno a te. Potevi soltanto fingere di farlo, e i tuoi protetti non sarebbero stati neppure capaci di fingere. Malgrado le tue molte accattivanti caratteristiche personali, c'era, ovviamente, una sola scelta per noi». Fermo al portello, Carrsbury si voltò. Finalmente aveva recuperato la voce. Ma era rauca, funzionava a sbalzi. «Vuoi dire che, per tutti questi anni, mi avete soltanto accontentato?» Mentre lo sportello si stava chiudendo, Phy lo fissò, senza rispondere alla domanda. Mentre l'elicottero si allontanava, fece un saluto, agitando la mano che stringeva ancora la verde bolla del gasoide. «Sarà molto piacevole, là dove stai andando», gridò, incoraggiante. «Un comodo alloggio, tutte le attrezzature per la ginnastica, e una completa biblioteca della letteratura del ventesimo secolo per passare il tempo». Seguì il volto pallido e rigido di Carrsbury che guardava fuori dall'oblò panoramico, fino a quando l'elicottero non tornò a ridursi a un puntino. Poi si voltò, si guardò le mani, si accorse del gasoide, lo gettò fuori dello sportello ancora aperto della cabina, seguì per alcuni istanti il suo volo, poi attivò il comando della discesa. «Sono contento di aver visto per l'ultima volta quell'individuo», borbottò, più fra sé che a beneficio di Hartman, mentre la cabina scendeva rapidamente verso il tetto visibile dell'edificio. «Cominciava ad avere un'influenza assai inquietante su di me. In effetti, stavo cominciando seriamente a temere per la mia...» la sua espressione si fece, all'improvviso, vacua, «... per la mia sanità mentale». Invarianza Invariant di John R. Pierce
Astounding, aprile Il dottor John R. Pierce fu per molti anni direttore dei Bell Telephone Laboratories. Malgrado abbia fatto la sua prima comparsa sulle riviste di fantascienza nel 1930, pubblicò assai poca narrativa fantascientifica, una parte della quale con lo pseudonimo J.J. Coupling (che usò anche per alcuni saggi comparsi su Astounding). È il padre di J.J. Pierce, un ex curatore di Galaxy. «Invarianza» è un breve, ma acuto racconto, il suo più importante contributo alla fantascienza. (Marty ed io mettiamo insieme questi libri cominciando col prefissare il numero di storie che potranno ospitare. Marty, poi, ne sceglie il doppio di quante abbiamo deciso d'includerne, e mi spedisce le fotocopie. Io le leggo tutte e le contrassegno, a seconda dei casi, con un OK, con un ?, o con un X. Il primo gruppo è accettato, il terzo escluso, e sul secondo discutiamo. A volte, non posso farci nulla, mi scappa fuori qualche commento fuori dalla regola. Per «Invarianza», ad esempio, il mio contrassegno è stato «Capperi!». A proposito, John R. Pierce è uno di quegli scrittori di fantascienza che è un vero scienziato. Ha attivamente contribuito al lancio dei primi satelliti per telecomunicazioni (certo, un lavoro affascinante per qualche scrittore di fantascienza!) ed è stato lui a coniare la parola «transistor». I.A.) Quello che si sa, in giro, di Homer Green, mi esimerebbe dal descrivervi sia lui che l'ambiente in cui vive. Io ne sapevo di più, eppure era una strana sensazione, che nessuna descrizione fatta da altri può rendere, vestirsi realmente in quel modo primitivo, avventurarsi là dentro, e vederlo coi propri occhi. La casa non è più strana di quanto appaia dalle fotografie. Quand'era circondata dagli altri edifici del ventesimo secolo, la sua peculiare struttura doveva confondersi coi suoi dintorni. Entrare, camminare su quei tappeti, aggirarsi tra quelle poltrone rivestite di morbido, peloso tessuto, vedere arnesi per fumare, vedere e ascoltare una radio primitiva e funzionante (anche se con una varietà di vecchie registrazioni), e sopra ogni altra cosa scaldarsi a vere fiamme che s'innalzavano liberamente nell'aria, tutto ciò mi diede una sensazione d'irrealtà, per quanto fossi preparato. Green sedeva su una poltrona accanto al fuoco, come lo troviamo quasi invariabil-
mente, con un cane ai suoi piedi. È, forse, l'uomo più prezioso del mondo, pensai. Ma non riuscii a scuotermi di dosso la sensazione d'irrealtà che permeava quell'ambiente pur solido, concreto. Anche Green pareva irreale, e provai pietà per lui. La sensazione d'irrealtà non si attenuò mentre mi presentavo. Quanti ce n'erano stati? Non era impossibile saperlo. C'era la documentazione completa. «Mi chiamo Carew, vengo dall'Istituto», dissi. «Non ci siamo mai incontrati prima d'oggi. Ma mi hanno detto che sarebbe stato contento di vedermi». Green si alzò in piedi, mi porse la mano e io la strinsi, obbediente, facendo quel gesto che non mi era per nulla familiare. «Lieto di vederla», mi disse. «Mi ero appisolato, qui. Sa, quel trattamento... è quasi uno shock. Ho pensato di riposarmi per qualche giorno. Spero che sia davvero permanente. «Non vuole sedersi?» aggiunse. Ci sedemmo davanti al fuoco. Il cane, che era balzato su, tornò a distendersi sui piedi del suo padrone. «Presumo che voglia saggiare le mie reazioni», disse Green. «Più tardi», risposi. «Non c'è fretta. È così confortevole qua dentro». Green si lasciava facilmente distrarre. Si rilassò, fissando il fuoco. Io colsi l'occasione al volo, e commentai, in tono cordiale ma deciso: «Davvero, sembra il posto ideale, qui, per chi voglia guardare le cose del mondo con un certo distacco, no? Prenda ad esempio la situazione politica. Quella faccenda tra la Svezia e la Francia...» «Inzuppiamo i nostri pensieri nell'allegria...» rispose Green. Lo fissai, stupito. A giudicare dalle documentazioni, mi sarei aspettato tutt'altra risposta. Ma si rimise subito in carreggiata: «... ma, certo, non si può inzuppare la politica nell'allegria», proseguì. «Al più, la si può esorcizzare, studiandola...» Non mi addentrerò nella conversazione. L'avete letta nell'appendice A della mia tesi: «Uomini e discorsi politici nel Ventesimo Secolo». Come già sapete, fu breve. Ero stato molto fortunato a poter visitare Green di oersona. E ancora più fortunato ad azzeccare l'argomento giusto. Come avrei potuto altrimenti appurare che gli uomini politici del ventesimo secolo erano soliti dire ciò che realmente pensavano? Che in tutta sincerità attribuivano un significato o una rilevanza, nella loro mente, a quelle che a noi sembrano frasi senza significato o irrilevanti? È difficile spiegare un con-
cetto così estraneo a noi; forse un esempio potrebbe essere di aiuto. Così, credereste che un uomo, accusato di aver fatto una certa dichiarazione, potesse rispondere, in tutta serietà: «Non ho l'abitudine di fare dichiarazioni del genere?» Credereste che ciò poteva perfino significare che non aveva fatto quella dichiarazione? Oppure, credereste ulteriormente che, se anche aveva fatto davvero quella dichiarazione, poteva benissimo giudicarla un caso speciale, per cui la sua negazione d'averla fatta non gli sarebbe sembrata un'ambiguità, una falsità? Per me, tutto ciò è senz'altro plausibile, quando mi sforzo d'immergermi nel ventesimo secolo. Ma non l'avrei neppure immaginato, prima di aver parlato con Green. È davvero inestimabile, quell'uomo! Ho già detto che la conversazione, documentata nell'appendice A, è molto breve. Una volta afferrato il concetto di base, non ebbi più alcuna necessità di andare avanti con gli argomenti politici. I documenti del ventesimo secolo in nostro possesso sono assai più completi della memoria di Green... Ciò che a me importava non era la nuda e cruda informazione obiettiva, ma il contatto personale, l'infinita varietà delle combinazioni e delle varianti dell'animo umano, inestimabili per una corretta valutazione delle cause e dello svolgersi dei fatti. Così, ero lì con Green, e la maggior parte della mattinata ancora davanti a me. Come sapete, gli viene concessa completa libertà per l'ora dei pasti, e un solo appuntamento fra un pasto e l'altro, cosicché non vi siano sovrapposizioni. Ero grato a quell'uomo, e comprensivo, e mi sentivo un po' turbato in sua presenza. Volevo parlargli di ciò che più mi stava a cuore. Non c'era alcun motivo perché non dovessi farlo. Ho registrato anche questa conversazione, ma non l'ho pubblicata. Non è certo una cosa nuova. Forse è perfino banale, ma significa moltissimo per me. Forse è soltanto per il ricordo molto personale che ne conservo. Ma ho pensato che vi potrebbe interessare conoscerla. «Cosa l'ha condotto alla sua scoperta?» gli chiesi. «Le salamandre», mi rispose senza esitazioni. «Le salamandre». Il resoconto che mi fece dei suoi famosi esperimenti sulla rigenerazione era, naturalmente, storia già pubblicata. Quante migliaia di volte è stata raccontata? Eppure, giuro di aver colto qua e là delle differenze da quanto è documentato. Le combinazioni possibili non sono quasi infinite? Ma i punti principali furono esposti nell'ordine consueto. Il modo in cui la rigenerazione degli arti nelle salamandre lo portò all'idea di una perfetta rigenerazione delle varie parti di un organismo umano. Come, diciamo, un ta-
glio in grado di rimarginarsi senza lasciare alcuna cicatrice, ma una perfetta replica del tessuto danneggiato. O, meglio ancora, un normale ricambio metabolico in cui, però, i tessuti cellulari venissero sostituiti non imperfettamente, come in un organismo che invecchia, ma in modo perfetto, un numero indefinito di volte. Era stato già ottenuto in certi casi-limite biologici, come nelle colture di embrioni di pollo, in cui il metabolismo sostituisce i tessuti sempre nell'identica forma, invariante. È inquietante pensare la stessa cosa in un uomo. Green aveva un aspetto giovane, giovane quanto il mio. Fin dal ventesimo secolo... Quando Green ebbe concluso il suo resoconto, completo fino all'iniezione che si era fatto quella sera... azzardò una profezia. «Ho grande fiducia», disse, «che funzionerà, indefinitamente». «Funziona, dottor Green», gli assicurai, «indefinitamente». «Non dobbiamo arrischiare giudizi prematuri», mi ammonì. «Dopotutto, sarà pur sempre necessario un periodo di...» «Sa che giorno è oggi, dottor Green?» chiesi. «L'11 settembre», rispose. «1943, se vuole anche l'anno». «Dottor Green, oggi è il 4 agosto 2170», ribattei, con viva emozione. «Oh, senta», disse Green, «se lo fosse davvero, io non sarei qui, vestito in questo modo, e lei non sarebbe li, vestito in quel modo». La posizione di stallo avrebbe potuto durare all'infinito. Tirai fuori il mio comunicatore tascabile e glielo porsi. L'osservò con crescente meraviglia, e fu deliziato quando gli mostrai il proiettore, lo stereo e il biauricolare incorporati. Non era propriamente semplice, comunque, esattamente il tipo di evoluzione, nel campo dell'elettronica, che uno scienziato dell'epoca di Green avrebbe associato col futuro. Green pareva aver dimenticato del tutto la conversazione che aveva portato alla mia esibizione del comunicatore. «Dottor Green», dissi, «questo è l'anno 2170. Questo è il ventiduesimo secolo». Mi fissò perplesso, ma questa volta non parve incredulo. Al contrario, i suoi lineamenti tradirono una strana forma di terrore. «Un incidente?» chiese. «La mia memoria?» «Non c'è stato nessun incidente», replicai. «La sua memoria è intatta, fin dove arriva. Mi ascolti. Si concentri». Poi, glielo riferii, un modo semplice e breve, cosicché i suoi processi mentali non si attardassero. Mentre gli parlavo, mi fissò con un misto di sbalordimento e apprensione. Questo è ciò che gli dissi: «Il suo esperi-
mento ha avuto successo, andando oltre ogni sua ragionevole speranza. I suoi tessuti hanno assunto la capacità di riformarsi esattamente secondo l'identico modello, anno dopo anno. La loro struttura è divenuta invariabile. «Le fotografie e le più accurate misurazioni lo dimostrano, anno dopo anno e, sì, secolo dopo secolo. Lei è esattamente com'era più di duecento anni fa. «La sua vita non è stata priva d'incidenti. Ma piccole ferite, e anche ferite più gravi, non hanno lasciato alcuna traccia, una volta rimarginate I suoi tessuti sono invariabili. «Anche il suo cervello è invariabile, o più esattamente, il numero, la disposizione e la struttura interna delle cellule cerebrali. Un cervello può essere paragonato a una rete elettrica di un dato disegno. La memoria è la rete stessa, le bobine, i condensatori e le loro interconnessioni. Il pensiero cosciente è la risultante dei voltaggi applicati e delle correnti che vi circolano. Questo disegno è assai complesso, ma transitorio... effimero. La memoria — ossia, ciò che ad ogni istante accade, e il suo ricordo — altera continuamente questa rete cerebrale, influenzando tutti i pensieri successivi. Ma la rete del suo cervello, dottor Green, non cambia mai, è invariabile. «Gli altri si adattano a sempre nuovi ambienti, imparano la posizione dei vari oggetti, la disposizione delle stanze... e vi si adeguano inconsciamente, senza attriti. Lei non può. Il suo cervello è invariabile. Le sue abitudini sono legate a questa casa, la sua casa com'era, esattamente, il giorno prima che lei si praticasse il trattamento. È stata conservata identica nell'arco di duecento anni, cosicché lei potesse vìverci senza attriti. E qui dentro lei vive, un giorno dopo l'altro, sempre l'identico giorno... il giorno successivo alla sera in cui lei si è sottoposto al trattamento che ha reso invariabile il suo cervello. «Ma non deve pensare di non dar niente in cambio di tutte queste cure che ci prendiamo per lei. Perché lei, forse, è l'uomo più prezioso che ci sia al mondo. Mattino, pomeriggio, sera: lei ha tre appuntamenti al giorno, quando i pochi fortunati che vengono giudicati meritevoli, o hanno bisogno del suo aiuto, ricevono il permesso di venirla a trovare. «La mia specializzazione è la storia. Sono venuto a vedere il ventesimo secolo attraverso gli occhi di un uomo intelligente di quel secolo. Perché lei è un uomo molto intelligente, brillante. La sua mente è stata analizzata più di quella di chiunque altro, fin nei particolari. Pochi cervelli sono mi-
gliori. Sono venuto a imparare, dal suo cervello, acutamente osservatore, cosa significasse la politica per un uomo del suo periodo. E l'ho appreso da una fonte fresca, nuova, il suo cervello, al quale non si sono sovrapposti, causando cambiamenti, gli anni successivi, per cui si è conservato esattamente com'era nel 1943. «Ma io non sono, dopotutto, granché importante. Gente molto più importante di me viene a trovarla, gli psicologi, soprattutto. Le fanno domande, gliele ripetono in un modo un po' diverso, e osservano le sue reazioni. E ogni esperimento si svolge in condizioni ideali, poiché non viene viziato dal suo ricordo di un esperimento precedente. Quando la sua catena di pensieri s'interrompe, non lascia nessun ricordo dietro di sé. Il suo cervello è invariabile. E questi specialisti, che altrimenti potrebbero trarre soltanto conclusioni generiche da esperimenti grossolani condotti su moltitudini d'individui diversi per costituzione ed esperienza, possono osservare inconfutabili diversità di reazione, su di lei, prodotte anche da minime variazioni negli stimoli. Alcuni di questi studiosi l'hanno sottoposta a sollecitazioni che avrebbero fatto impazzire chiunque. Ma lei non impazzisce: il suo cervello non può cambiare: è invariabile. «Lei è tanto prezioso che, vien fatto di pensare, il mondo non potrebbe progredire senza il suo cervello invariabile. Eppure, non abbiamo chiesto a nessun altro di fare ciò che ha fatto lei. Con gli animali, sì. Il suo cane ne è un esempio. Ma ciò che lei ha fatto, lo ha fatto di sua volontà, e non ne sapeva le conseguenze. Ha reso ai mondo il più grande dei servigi, senza saperlo. Ma noi io sappiamo». Green aveva reclinato la testa sul petto. Il suo volto era turbato, e pareva cercare sollievo nei calore del fuoco. Il cane ai suoi piedi si mosse, e Green abbassò lo sguardo, con un improvviso sorriso sul volto. Seppi che la sua catena di pensieri si era interrotta. I transistori si erano spenti nel suo cervello. L'intero nostro incontro era scomparso dai suoi processi cerebrali. Mi alzai in piedi e uscii furtivo, prima che risollevasse lo sguardo. Forse avevo sprecato quell'ora del mattino che mi era rimasta. City City di Clifford D. Simak Astounding, maggio Clifford D. Simak fece la sua prima comparsa sulle riviste di
fantascienza con «The World of the Red Sun» (Il mondo del sole rosso) in Wonder Stories nel 1931, perciò era un veterano fra gli scrittori di fantascienza, con tredici anni di esperienza, quando «City» fu pubblicato. Malgrado fosse ben conosciuto, non veniva considerato al livello di Heinlein, Kuttner, Van Vogt, e altri. Questa valutazione cominciò a cambiare con i tre racconti di questo libro, e altri che seguirono, e Cliff Simak si rivelò definitivamente negli anni cinquanta come uno dei più grandi talenti di tutta la fantascienza. «City» fu il primo racconto di una serie che, con l'aggiunta di adeguato materiale di collegamento, comparve in forma di libro (come «City») nel 1952, conquistando l'International Fantasy Award nel 1953, sconfiggendo concorrenti della levatura di «Player Piano» di Kurt Vonnegut. Scritto in un'epoca in cui l'impatto dell'urbanizzazione nella vita moderna ancora non incontrava critiche né tra il grande pubblico, né tra gli studiosi di sociologia, pure, il suo generoso perorare in favore della vita pastorale e dei valori rurali ottenne un immenso favore. (Questa è la prima volta che una storia scritta da Cliff compare in questa serie di antologie, così, non ho mai avuto la possibilità, prima d'ora, di dire a Cliff cosa abbia significato la sua opera per me. «The World of the Red Sun» fu un racconto che inchiodò il mio «io» undicenne, quando comparve la prima volta. Era una delle storie che raccontavo ai miei compagni, a scuola, quando si raccoglievano intorno a me per usufruire dell'unico genere di fantascienza che potevano permettersi. E il bello è che soltanto molti anni dopo, quando Cliff divenne mio buon amico, scoprii che era stato lui a scriverlo. E, come Marty ha detto, fu il suo primo racconto pubblicato. Clifford Simak fu uno dei pochi scrittori pre-Campbell che seppe crescere e diventare un grande scrittore dell'«era di Campbell». I.A.) Gramp Steven se ne stava comodo sulla sedia rustica, seguendo con lo sguardo la falciatrice al lavoro, assaporando il dorato calore del sole che s'insinuava tra le sue ossa. La falciatrice raggiunse il confine del prato, chiocciò tra sé come una gallina soddisfatta, piroettò su se stessa e si avviò ad affrontare un'altra striscia. Il sacco che conteneva l'erba tagliata era rigonfio.
D'improvviso, la falciatrice si arrestò, e ticchettò eccitata. Un pannello sul suo fianco si aprì di colpo e un braccio simile a quello di una gru si proiettò fuori. Robuste dita d'acciaio frugarono tra l'erba e ne uscirono, trionfanti, tenendo ben stretta una pietra, lasciarono cadere la pietra in un piccolo contenitore, e tornarono a scomparire d'entro il pannello. La falciatrice gorgogliò, riprese a ronzare, e ripartì, seguendo la striscia d'erba. Gramp la fissò sospettoso, brontolando. «Un giorno», disse tra sé, «quel dannato affare mancherà un sasso, e si farà venire un esaurimento nervoso». Si lasciò andare sullo schienale e fissò il cielo inondato di sole. Un elicottero passò alto sopra di lui. Da qualche parte, dentro la casa, una radio si accese e ne uscì un'esplosione assordante di musica. Gramp, nell'udirla, rabbrividì, e si raggomitolò ancora di più sulla sedia. Charlie, quel dannato ragazzo, si stava dedicando a una ennesima seduta di quegli assurdi contorcimenti che chiamava ballo. La falciatrice passò chiocciando, e Gramp la fissò, scherzosamente, in cagnesco. «Automatica», disse, rivolto a! cielo. «Ogni dannato affare oggi è automatico. Stiamo arrivando al punto che ci si apparta in un angolo con una macchina, le si bisbiglia all'orecchio, e quella scappa via a fare il lavoro». La voce di sua figlia gli giunse dalla finestra, strillando per sovrastare la musica: «Papà!» Gramp si mosse inquieto. «Sì, Betty?» «Adesso, papà, cerca di spostarti quando quella falciatrice arriva lì da te. Non cercare di esser più cocciuto di lei. Dopotutto è soltanto una macchina. L'ultima volta, te ne sei rimasto seduto là, impedendole di tagliare l'erba sotto di te. Non ti ho visto fare neanche un tentativo di muoverti». Gramp non rispose, e lasciò che la sua testa ciondolasse un po', sperando di farle credere che lui dormiva, convincendola a lasciarlo tranquillo. «Papà», strillò di nuovo la donna. «Mi hai sentito?» Capì che non serviva. «Sicuro, ti ho sentito», bofonchiò. «Stavo giusto per spostarmi». Si alzò lentamente, appoggiandosi pesantemente al bastone. Tanto valeva che la facesse sentire dispiaciuta per il modo in cui lo trattava, facendole vedere quanto vecchio e debole lui stava diventando. Doveva andar cauto, comunque. Se Betty avesse saputo che lui non aveva affatto bisogno del bastone, gli avrebbe trovato subito del lavoro da fare; ma, d'altro canto,
se avesse esagerato, sua figlia avrebbe fatto venire quello sciocco del dottore a infastidirlo di nuovo. Brontolando, spostò la sedia di Iato, nella porzione di prato che era stata tosata. La falciatrice, sfiorandolo al passaggio, ridacchiò diabolica, beffeggiandolo. «Un giorno», le disse Gramp, «ti tirerò una sberla e ti farò saltare una rotella o due». La falciatrice gli fece il verso del clacson e proseguì senza scomporsi attraverso il prato. Da qualche parte, sulla strada erbosa, gli giunse uno sferragliare metallico, un tossicchiare intermittente. Gramp, che stava per rimettersi seduto, si raddrizzò e tese l'orecchio. Il rumore gli giunse più forte, il frastuono dell'accensione anticipata di un motore recalcitrante, il rumore di parti metalliche allentate. «Un'automobile!» esclamò Gramp. «Un'automobile, caspita!» Fece per lanciarsi al galoppo verso il cancello, ma all'improvviso ricordò d'essere vecchio e stanco e si limitò a un rapido zoppichio. «Dev'essere quel pazzo di Ole Johnson», disse tra sé. «È l'unico rimasto che abbia un'automobile. È troppo cocciuto per rinunciarci». Era Ole. Gramp raggiunse il cancello in tempo per vedere la vecchia, decrepita e arrugginita automobile svoltare l'angolo sobbalzando, dondolando e scoppiettando, lungo la strada in disuso. Il vapore usciva sibilando dal radiatore surriscaldato, e una nuvola di fumo azzurrastro sgorgava dallo scappamento che aveva perduto la sua marmitta cinque o più anni or sono. Ole sedeva flemmatico al volante, socchiudendo gli occhi, cercando di evitare i punti più scabrosi, anche se era difficile riuscirci, poiché erbacce e rovi avevano coperto la strada ed era difficile vedere cosa si trovava sotto. Gramp agitò il bastone. «Ciao, Ole!» gridò. Ole si arrestò, tirando il freno di emergenza. L'auto rantolò, fremette, tossì, e si spense con un orribile sospiro. «Cosa bruci?» gli chiese Gramp. «Un po' di tutto», disse Ole. «Kerosene, un po' di vecchio olio per trattori che ho trovato in un fusto, un po' di alcool denaturato». Gramp guardò quell'auto veterana con schietta ammirazione. «Bei tempi, erano», sospirò. «Anch'io ne avevo una: era capace di fare cento miglia all'ora».
«Funzionano ancora», replicò Ole. «Se soltanto si riesce a trovare la roba per farle marciare o i pezzi di ricambio. Fino a tre, quattro anni fa riuscivo a procurarmi abbastanza benzina, ma è parecchio tempo, ormai, che non ne ho più vista. Hanno smesso di fabbricarla. Non vale la pena aver benzina, dicono, quando c'è l'energia atomica». «Certo», annuì Gramp. «Immagino che probabilmente sia giusto così, ma non si può annusare l'energia atomica. È la cosa più soave che io conosca, l'odore della benzina che brucia. Tutti questi elicotteri, e le altre trappole, hanno in qualche modo tolto ai viaggi tutto il loro fascino». Sbirciò i fusti e le ceste ammucchiati sul sedile posteriore. «Hai ortaggi?» chiese. «Già», disse Ole. «Un po' di granturco dolce epatate novelle e qualche cesta di pomodori. Ho pensato che forse sarei riuscito a venderli». Gramp scosse il capo. «Non ci riuscirai, Ole. Non li compreranno. La gente si è messa in testa che quella nuova roba idroponica è l'unica sbobba ortofrutticola che sia commestibile. Più igienica, dicono, più saporita». «Non darei un fico secco per tutto quello che fanno crescere in quei loro serbatoi», dichiarò Ole, in tono bellicoso. «Quella roba, per me, non ha il sapore giusto. Come dico sempre a Martha, il cibo dev'essere fatto crescere dal terreno, perché abbia carattere». Abbassò la mano alla chiavetta dell'accensione. «Non so se valga la pena tentare di portare questa roba in città», disse, «visto come mantengono le strade. Ò meglio, come non le mantengono. Vent'anni fa, l'autostrada statale era una striscia di buon cemento, la riparavano a regola d'arte e la spidocchiavano ad ogni inverno. Facevano qualunque cosa, spendevano dei buoni soldi, per tenerla in perfette condizioni. Oggi, semplicemente, se ne sono dimenticati. Il cemento è tutto crepato, e interi tratti sono stati spazzati via dalla pioggia. Ci crescono dentro i rovi. Stamattina ho dovuto scender giù e segare un albero che era caduto di traverso». «È proprio vero», fu d'accordo Gramp. La macchina si animò con un fragoroso scoppio, tossendo e sputacchiando. Una nuvola di denso fumo azzurrastro uscì da sotto. Con un sussulto, si mosse, avviandosi goffa e pesante lungo la strada. Gramp tornò con passo lento e affaticato alla sua sedia, e la trovò gocciolante d'acqua. La falciatrice automatica, avendo terminato il suo lavoro di taglio, aveva srotolato l'idrante e stava annaffiando il prato. Biascicando le più velenose minacce, Gramp aggirò a grandi passi l'an-
golo della casa e prese posto sulla panca, nella veranda posteriore. Non gli piaceva seder là, ma era l'unico posto dove fosse al sicuro da quella macchina scatenata. Tanto per cominciare, il panorama che si godeva da quella panca era alquanto deprimente, poiché dava su una successione di strade vuote, case deserte e giardini incolti invasi dalle erbacce. Comunque, un vantaggio c'era. Da quella panca poteva fingersi un sordo e non udire i richiami sopra la musica indiavolata che la radio stava sfornando a pieno volume. Una voce lo chiamò dal prato, sul davanti. «Bill! Bill! Dove sei?» Gramp si voltò. «Sono qui, Mark. Dietro la casa. Al riparo da quella dannata falciatrice». Mark Bailey aggirò zoppicando l'angolo della casa, la sigaretta accesa che minacciava d'incendiare i suoi baffi cespugliosi. «Un po' presto per la partita, no?» disse Gramp. «Niente partita, oggi», fece Mark. Gramp si girò di scatto a fissarlo: «Te ne vai!» «Già. Mi trasferisco fuori, in campagna. Lucinda ha finalmente convinto Herb. In verità, non gli ha dato requie. Ha sempre insistito che tutti si trasferivano in una di quelle belle tenute in campagna, e non vedeva nessuna ragione perché non potessimo farlo anche noi». Gramp deglutì. «Dove?» «Non lo so di preciso», disse Mark. «Non ci sono mai stato. Su al nord, da qualche parte. Vicino a uno dei laghi. Abbiamo preso dieci acri di terra. Lucinda ne voleva cento, ma Herb ha puntato i piedi e ha detto che dieci bastavano. Dopotutto, una casa e uno scampolo di giardino in città ci sono stati più che sufficienti, tutti questi anni». «Anche Betty ha ossessionato Johnny», disse Gramp, «ma lui tiene duro. Dice che proprio non può farlo. Dice che non gli sembra giusto che proprio lui, segretario della Camera di Commercio e tutto il resto, si allontani dalla città». «La gente è matta da legare», commentò Mark. «Oh, puoi dirlo», ribadì Gramp. «Matta per la campagna, ecco cos'è. Guarda laggiù». Tese la mano verso le strade fiancheggiate dalle case vuote. «Ricordo ancora quando questo quartiere era il più bel gruppo di case su cui avessi mai messo l'occhio. Buoni vicini, erano. C'era un continuo via vai di don-
ne, fra le porte sul retro, per scambiarsi ricette. E quando gli uomini uscivano fuori a tagliar l'erba, ben presto le falciatrici se ne restavano in ozio, perché tutti si radunavano a scambiare quattro chiacchiere. Gente cordiale, Mark. E guarda adesso, com'è». Mark si agitò, incerto. «Devo tornare, Bill. Ho fatto un salto fin qua di nascosto per dirti che stavamo sbaraccando. Lucinda mi ha messo a fare le valige. Si arrabbierebbe se sapesse che sono corso fuori». Gramp si alzò, rigido, e gli porse la mano. «Ti rivedrò? Verrai per un'ultima partita?» Mark scosse la testa. «Temo di no, Bill». Si strinsero la mano imbarazzati, confusi. «Certo che la partita... mi mancherà», disse Mark. «Anche a me mancherà», annuì Gramp. «Non avrò più nessuno, quando te ne sarai andato». «Addio, Bill», disse Mark. «Addio», disse Gramp. Rimase lì, in piedi, gli occhi fissi sul suo amico che svoltava, zoppicando, l'angolo, sentì il gelido artiglio della solitudine allungarsi e toccarlo con le sue dita di ghiaccio. Una terribile solitudine. La solitudine dell'età... dell'età e di chi sente di appartenere a un'epoca superata. Perché lui apparteneva a un'altra epoca. Aveva superato il suo tempo, era vissuto oltre i suoi anni. Gli occhi offuscati, cercò a tastoni il bastone appoggiato alla panca e lentamente si avviò al cancello sconnesso che si apriva sulla strada deserta dietro la casa Gli anni erano passati troppo in fretta. Anni che avevano portato l'aeroplano e l'elicottero di famiglia, lasciando che l'automobile arrugginisse in qualche angolo dimenticato, e che le strade abbandonate andassero in rovina. Anni che avevano praticamente spazzato via la coltivazione della terra, con l'avvento delle colture idroponiche. Anni che, con la scomparsa delle fattorie come entità economiche, avevano portato all'acquisto dei terreni a prezzi stracciati, che avevano mandato la gente di città a sparpagliarsi per le campagne, dove ogni uomo, per un prezzo inferiore a quello di un appartamento in città, poteva concedersi la proprietà di molti acri. Anni che avevano rivoluzionato le tecniche costruttive al punto che le famiglie, semplicemente, lasciavano la loro vecchia casa per la nuova che poteva essere acquistata, nella forma e dimensioni volute, per meno della metà del prezzo di un edificio d'anteguerra, e poteva subire, a un costo mi-
nimo, tutte le modifiche richieste dalla necessità di nuovo spazio, o soltanto per un momentaneo capriccio. Gramp sbuffò. Case che potevano esser cambiate ogni anno, proprio come si cambiavano i mobili. Che razza di vita era quella? Avanzò strascicando i piedi sul sentiero polveroso che era quanto restava di quella che pochi anni prima era stata una frequentatissima strada in un quartiere residenziale. Una strada di fantasmi, ora, si disse Gramp... di piccoli fantasmi furtivi che sussurravano nella notte. Fantasmi di bambini che giocavano, fantasmi di tricicli e carrettini rovesciati. Fantasmi di casalinghe che spettegolavano. Fantasmi di saluti gridati da una casa all'altra. Fantasmi di caminetti accesi e camini fumanti in una notte d'inverno. Piccoli sbuffi di polvere s'innalzavano intorno ai suoi piedi, imbiancandogli il risvolto dei calzoni. Sull'altro lato della strada c'era la casa del vecchio Adams. Adams ne era stato tremendamente orgoglioso, lo ricordava assai bene. Pietra grigia sul davanti e finestre panoramiche. Adesso, la pietra era inverdita per il muschio strisciante e le finestre fracassate si aprivano in un silenzioso, spettrale sghignazzare. Le erbacce soffocavano il giardino e nascondevano il portico. Un olmo spingeva i propri rami contro il frontone. Gramp ricordava il giorno in cui Adams aveva piantato quell'olmo. Per un attimo si arrestò in quella strada coperta di erbacce, i piedi nella polvere, stringendo con entrambe le mani il manico del bastone, gli occhi chiusi. Attraverso la nebbia degli anni udì le grida dei bambini che giocavano, l'abbaiare festoso del cane di Conrad, laggiù, in fondo. E c'era Adams, nudo fino alla cintola, con in pugno il badile, che scavava la buca, e accanto a lui l'olmo, le radici avvolte in una tela di sacco, che aspettava, disteso sul prato. Maggio 1946. Quarantaquattro anni prima. Lui e Adams erano appena tornati a casa, insieme, dalla guerra. Un rumore di passi si udì sulla polvere, e Gramp, sorpreso, aprì gli occhi. Davanti a lui c'era un giovanotto. Un uomo di trent'anni, o forse un po' meno. «Buongiorno», disse Gramp. «Spero», disse il giovanotto, «di non averla spaventata». «Mi ha visto qui fermo», chiese Gramp, «come un dannato imbecille, gli occhi chiusi?» Il giovanotto annuì. «Stavo ricordando», disse Gramp.
«Vive da queste parti?» «Subito in fondo alla strada. L'ultimo, in questa parte della città». «Allora, potrà forse aiutarmi?» «Provi», annuì Gramp. Il giovanotto balbettò: «Be', capisce... si tratta di questo. Sto facendo una specie di... già, potrebbe chiamarlo un pellegrinaggio sentimentale...» «Capisco», fece Gramp. «Anch'io». «Mi chiamo Adams», disse il giovane. «Mio nonno un tempo abitava qui, da qualche parte. Mi chiedo se...» «Proprio lì di fronte», indicò Gramp. E rimasero fermi, in silenzio, a guardare la casa. «Era un bel posto, una volta», riprese Gramp. «È stato suo nonno a piantare quell'albero, subito dopo esser tornato dalla guerra. Ero stato con lui per tutta la durata della guerra e tornammo a casa insieme. Quello fu davvero un gran giorno, per suo...» «Peccato», disse il giovane Adams. «Peccato...» Ma Gramp parve non averlo udito. «Suo nonno?» chiese. «Ne ho perso le tracce da un bel po'...» «È morto», disse il giovane Adams. «Molti anni fa». «Si era lasciato coinvolgere dall'energia atomica», disse Gramp. «Si, proprio così», annuì Adams con una nota d'orgoglio. «Vi si dedicò non appena fu lasciata disponibile per l'industria. Subito dopo l'accordo di Mosca». «Non appena decisero che non avrebbero più potuto combattere una guerra», aggiunse Gramp. «Sì, appunto», fece Adams. «È piuttosto difficile combattere una guerra quando non c'è niente a cui mirare», osservò Gramp. «Certo», assentì Gramp. «Che cosa buffa, è stata. Si poteva agitare sotto il naso della gente la minaccia di tutte le bombe immaginabili, e non si riusciva a spaventarla. Ma è bastato offrirgli della terra a poco prezzo e aeroplani di famiglia, e si sono sparpagliati dappertutto come tanti maledetti conigli». John J. Webster stava salendo a grandi passi gli ampi gradini di pietra del municipio quando quello spaventapasseri ambulante, un fucile sotto il braccio, lo raggiunse e lo fermò. «Come va, signor Webster?» fece lo spaventapasseri.
Webster lo fissò, e riconobbe il volto raggrinzito. «Oh, Levi», esclamò. «Come vanno le cose, Levi?» Levi Lewis sogghignò coi suoi denti sbrecciati. «Oh, abbastanza bene. Gli orti prosperano, e le nuove covate di conigli tra poco saranno a puntino per i nostri arrosti». «Non sei mica immischiato in quella faccenda delle case che ha fatto tanto chiasso?» chiese Webster. «No, signore», dichiarò Levi. «Nessuno di noi occupanti abusivi è immischiato in infrazioni di nessun genere. Siamo gente che rispetta la legge e timorata di Dio, noi. L'unica ragione per cui siamo qui è che non possiamo trovar da vivere da nessun'altra parte. E noi che viviamo in quei posti che altra gente ha abbandonato non facciamo del male a nessuno. La polizia c'incolpa delle ruberie e di ogni altra cosa che accade, sapendo che non possiamo difenderci. Fanno di noi il capro espiatorio». «Sono lieto di sentirti dir questo», replicò Webster. «Il capo vuol bruciare le case». «Se ci proverà», dichiarò Levi, «si troverà ad affrontare qualcosa che non ha preso in considerazione. Ci hanno cacciato fuori dalle nostre fattorie con quei loro serbatoi agricoli, ma non ci cacceranno ancora». Sputò sui gradini. «Per caso, non ha qualche spicciolo che le avanza?» chiese. «Ho appena finito le cartucce, e con quei conigli che stanno venendo su...» Webster si cacciò le dita nel taschino del panciotto e tirò fuori un mezzo dollaro. Levi sogghignò. «È gentile da parte sua, signor Webster. Le porterò una bella porzione di arrosto...» L'abusivo si toccò il cappello con due dita e ridiscese i gradini col sole che luccicava sulla canna del fucile. Webster riprese a salire la gradinata. La seduta del consiglio comunale era in pieno svolgimento, quando entrò nella sala. Il capo della polizia, Jim Maxwell, era in piedi accanto al tavolo. Il sindaco Paul Carter stava parlando. «Non credi di andare un po' troppo in fretta, Jim, nell'esigere una simile linea d'azione nei confronti delle case?» «No, non lo credo affatto», replicò il capo. «Salvo per un paio di dozzine, o giù di lì, nessuna di quelle case è occupata dai legittimi proprietari, o meglio, dai loro proprietari d'origine. Ognuna di esse appartiene adesso alla città, essendo state confiscate per il mancato pagamento delle tasse.
Non sono altro che una minaccia, una fonte continua di preoccupazioni. Non hanno nessun valore, neppure come materiale di recupero. Il legno? Non usiamo più il legno, la plastica è migliore. La pietra? Oggi usiamo l'acciaio, invece della pietra. Non una di quelle case contiene materiale che abbia anche un minimo valore di mercato. «E nel frattempo, stanno diventando il rifugio di piccoli delinquenti e ogni tipo d'indesiderabili. I quartieri residenziali, coperti di vegetazione come sono, costituiscono il nascondiglio ideale per un gran numero di criminali. Quando un uomo si rende colpevole d'un delitto, subito va a nascondersi tra le case... e una volta là dentro, è al sicuro, poiché io potrei mandare là in mezzo anche mille uomini, e quello può benissimo evitarli tutti. «Quelle case non valgono neppure la spesa di abbatterle. Eppure sono, se non una minaccia, un grosso fastidio. Dobbiamo sbarazzarci di esse, e il fuoco è soltanto il modo più economico. Useremo tutte le precauzioni». «E l'aspetto legale?» chiese il sindaco. «Ho controllato. Un uomo ha il diritto di distruggere la sua proprietà in qualunque modo giudichi adatto, fintanto che non danneggia le proprietà altrui. La stessa legge, suppongo, vale per una municipalità». Il consigliere comunale anziano Thomas Griffin balzò in piedi. «Vi alienerete le simpatie di un sacco di gente», dichiarò. «Brucerete un sacco di vecchie case coloniali. La gente ha ancora qualche legame sentimentale...» «Se gliene importasse davvero», ribatté il capo, «avrebbero pagato le tasse e si sarebbero preoccupati di non farle cadere in rovina. Perché mai sono corsi in campagna, allora, lasciando le case abbandonate? Chiedetelo a Webster, qui. Potrà dirvi quanto successo ha avuto, nel suo tentativo d'interessare la gente alle case degli avi». «Stai parlando di quella farsa della Settimana della Vostra Vecchia Casa?» disse Griffin. «È fallita. Com'era naturale che fallisse. Webster li ha bombardati con una propaganda così martellante, che si sono sentiti soffocare. Questo succede quando si ha una mentalità da Camera di Commercio». Il consigliere anziano Forrest King s'intromise, alzando la voce: «Non c'è niente di sbagliato nella Camera di Commercio, Griffin. Soltanto perché tu non hai avuto successo negli affari, non c'è ragione di...» Griffin lo ignorò. «I giorni della continua pressione sulla gente sono finiti, signori. Finiti per sempre. La pubblicità tutta chiasso e volgarità è morta
e sepolta. «I giorni in cui potevate organizzare la giornata del granturco o del dollaro o immaginarvi questa o quella finta celebrazione e tirar fuori bandiere e altre decorazioni e radunare grandi folle pronte a spendere un sacco di soldi, sono finiti da molti anni. Soltanto voi sembra che non lo sappiate. «Il successo di simili imprese era legato sull'attrattiva che esercitavano sulla psicologia e la lealtà civica della folla. Ma non può più esserci lealtà civica in una città che sta morendo sulle sue rovine. Non potete appellarvi alla psicologia di massa quando di masse non ce ne sono... quando ogni uomo, o quasi ogni uomo, gode della solitudine e della libertà di quaranta acri». «Signori», protestò il sindaco, «signori, siamo andati fuori tema». King si rianimò borbottando e calò un pugno sul tavolo: «No, che le cose si dicano chiare e tonde. Webster è lì. Forse potrà dirci cosa ne pensa». Webster si mosse a disagio. «Non credo davvero di aver qualcosa da dire», replicò. «Oh, lasciamo perdere», fece Griffin, e tornò a sedersi. Ma King rimase in piedi, il volto paonazzo, la bocca tremante per la rabbia. «Webster!» urlò. Webster scosse la testa. «Sei venuto qui con una delle tue grandi idee», urlò King. «Avevi intenzione di esporla al consiglio. Vieni avanti, uomo, e di' la tua». Webster si alzò lentamente, con un'espressione dura sulla faccia. «Forse hai la testa troppo dura», dichiarò, rivolgendosi a King, «per capire come mai mi risento per il modo in cui ti comporti». King lo fissò a bocca aperta, poi esplose: «Testa troppo dura! Osi dir questo a me? Abbiamo lavorato insieme, e io ti ho aiutato. Non ti sei mai comportato così, prima... Hai...» «Non ti ho mai detto questo, prima», replicò Webster, senza scomporsi. «No, infatti. Volevo conservare il mio lavoro». «Be', non hai più un lavoro», ruggì King. «Da questo momento in poi, non hai più un lavoro». «Chiudi il becco», disse Webster. King lo fissò, sbalordito, come se qualcuno gli avesse dato uno schiaffo. «E siediti», aggiunse Webster, e la sua voce trapassò la sala come una lama affilata.
King sentì le ginocchia che gli cedevano, e si sedette di colpo. Il silenzio era palpabile. «Ho qualcosa da dirvi», cominciò Webster. «Qualcosa che avrebbe dovuto essere detto molto tempo fa. Qualcosa che voi tutti avreste dovuto capire. Ciò che mi stupisce di più è che debba essere io a dirvelo. Tuttavia, forse, avendo io lavorato facendo gli interessi di questa città per quasi quindici anni, sono la persona più indicata per dirvi la verità. «Il consigliere anziano Griffin ha detto che la città sta morendo sulle sue rovine, e la sua affermazione è giusta. Vi trovo un solo errore, ed è in realtà una sottovalutazione. La città... questa città, e qualunque altra città... è già morta. «La città è un anacronismo. È sopravvissuta alla sua utilità. Le vasche idroponiche e gli elicotteri hanno segnato la sua condanna. All'inizio la città era un luogo tribale, un punto in cui le tribù si univano insieme per mutua protezione. Più tardi, per ulteriore protezione, un muro fu eretto intorno alla città. In seguito, il muro finì per scomparire, ma la città continuò a vivere per i vantaggi che offriva al commercio e ad ogni altro traffico. Ha continuato a vivere fino ai tempi moderni, perché la gente era costretta a vivere vicina ai propri lavori, e i lavori erano in città. «Ma oggi, ciò non è più vero. Con l'aeroplano di famiglia, una distanza di cento miglia è assai piccola, a confronto delle cinque miglia del 1930. Gli uomini possono volare per molte centinaia di miglia per andare al lavoro e tornare alle rispettive case alla fine della giornata. Non c'è più alcun bisogno, per gli uomini e le loro famiglie, di vivere chiusi in una città. «L'automobile diede inizio a questa tendenza, e l'aeroplano l'ha portata alle estreme conseguenze. Perfino nella prima metà del secolo la tendenza era avvertibile — un movimento di allontanamento dalla città, dalle sue tasse e dalla sua mancanza di aria pura, una tendenza a spostarsi verso i sobborghi e gli acri di verde intorno ad essi. Molti sono rimasti così a lungo in città soltanto per la mancanza di trasporti adeguati e di mezzi finanziari. Ma adesso, con l'agricoltura delle vasche idroponiche che ha praticamente azzerato il valore dei terreni, un uomo può acquistare enormi estensioni di terreno, in campagna, spendendo meno di quanto gli sarebbero costati pochi metri quadrati in città, quarant'anni or sono. E con gli aerei alimentati dai motori a energia nucleare non esiste più il problema del costo elevato dei trasporti». Fece una pausa, nel più completo silenzio. Il sindaco aveva un'espressione sconvolta. Le labbra di King si mossero, ma non ne usci una sola pa-
rola. Griffin sorrideva. «Così, cos'abbiamo adesso?» chiese Webster. «Ve lo dico io, cosa abbiamo. Strada dopo strada, isolato dopo isolato, una sterminata successione di case deserte, case dove la gente si è alzata in piedi e se n'è andata via, semplicemente. Perché avrebbero dovuto rimanere? Cosa poteva offrirgli la città? Nessuna delle cose che aveva offerto alle generazioni prima di loro, poiché il progresso aveva spazzato via la necessità dei benefici offerti dalla città. Quando la gente ha lasciato le sue case, ha perduto qualcosa, naturalmente, il valore commerciale della cosa stessa, forse. Ma il fatto di poter acquistare una casa il doppio migliore con una spesa della metà, il fatto di poter vivere come desideravano, di potersi creare, in pratica, una tenuta di famiglia, secondo la miglior tradizione indicata loro dai ricchi di una generazione prima, tutte queste cose erano più importanti del fatto di dover lasciare le loro vecchie case. «E adesso cosa ci rimane? Pochi isolati di uffici, pochi acri d'impianti industriali. Un governo di cittadini pronto a prendersi cura di un milione di cittadini... senza che il milione ci sia. Un bilancio che ha fatto salire talmente le tasse che perfino le imprese commerciali finiranno per trasferirsi, per sfuggire a questa insostenibile pressione. E le confische ci hanno lasciato con un gran numero di proprietà prive di qualunque valore. Ecco cosa ci è rimasto. «E se siete ancora convinti che la risposta possa venire dalla Camera di Commercio, dalle chiassose e volgari campagne pubblicitarie, da questa o quella assurda iniziativa, allora siete pazzi. C'è soltanto una risposta, ed è assai semplice. La città, come istituzione umana, è morta. Potrà ancora dibattersi per qualche anno nell'agonia, ma questo è tutto». «Signor Webster...» cominciò il sindaco. Ma Webster non gli prestò attenzione. «Se non fosse per ciò che è successo oggi», proseguì, «sarei rimasto al mio posto e avrei giocato con voi alla casa della bambola. Avrei continuato a illudere me stesso e voi. Ma esiste, signori, una cosa che si chiama dignità umana». Quel silenzio di ghiaccio fu interrotto da un frusciare di carte e il tossicchiare di qualche ascoltatore imbarazzato. Ma Webster non aveva finito. «La città è fallita», disse, «ed è bene che sia fallita. Invece di starvene qui a piangere sul suo corpo infranto, dovreste alzarvi in piedi e gridare i vostri ringraziamenti perché è fallita».
«Perché, se questa città non fosse sopravvissuta come un fantasma alla sua utilità — come ogni altra città ha fatto — se le città del mondo non fossero state abbandonate, sarebbero state distrutte. Vi sarebbe stata una guerra, signori, una guerra nucleare. Vi siete dimenticati degli anni cinquanta e sessanta? Vi siete dimenticati di quando vi svegliavate, di notte, aspettandovi di udire l'arrivo della bomba, sapendo che non l'avreste udita quando fosse arrivata, sapendo che non avreste mai udito più niente, se fosse arrivata?» «Ma le città sono state abbandonate, le industrie si sono disperse, non ci sono stati più bersagli, e non c'è stata la guerra». «Alcuni di voi, signori», esclamò, «molti di voi, signori, sono vivi, oggi, perché la gente ha lasciato la vostra città». «Adesso, per l'amor di Dio, lasciate che rimanga morta. Siate felici che sia morta. È la cosa migliore che sia accaduta in tutta la storia umana». John J. Webster girò sui tacchi e lasciò la sala. Fuori, sugli ampi gradini di pietra, si fermò e alzò gli occhi al cielo sereno, vide i piccioni che volavano in cerchio sulle torrette e le guglie del municipio. Si scrollò mentalmente, come un cane uscito da una piscina. Era stato sciocco, naturalmente. Adesso avrebbe dovuto dar la caccia a un lavoro, e avrebbe potuto volerci del tempo per trovarne uno. Stava diventando un po' vecchio, per dar la caccia a un lavoro. Ma, malgrado questi pensieri, un motivetto gli salì spontaneo alle labbra. Si allontanò a passo svelto, le labbra increspate, fischiando silenziosamente. Niente più ipocrisie! Basta col restare sveglio la notte, chiedendosi cosa fare... sapendo che la città era morta, sapendo che quello che stava facendo era un lavoro inutile, dovendo guizzare tra la coscienza e il codice morale, peggio di un'anguilla, per accettare uno stipendio che sapeva di non essersi guadagnato. Avvertendo la curiosa, fastidiosa sensazione del lavoratore che sa di svolgere un lavoro improduttivo. S'incamminò verso il parcheggio, diretto al suo elicottero. Adesso, forse, si disse, avrebbero potuto trasferirsi in campagna, come Betty voleva. Forse avrebbe potuto passare le serate a passeggiare su un vasto terreno che gli apparteneva, con un ruscello, magari. Sì, doveva esserci un ruscello, e brulicante di trote. Si fece un appunto mentale: quella stessa sera sarebbe salito fino al solaio, per controllare la sua attrezzatura di mosche artificiali.
Martha Johnson stava aspettando sul cancello dell'aia, quando la vecchia macchina arrivò lungo il sentiero, scoppiettando. Ole ne discese irrigidito, il volto segnato dalla stanchezza. «Venduto niente?» chiese Martha. Ole scosse la testa. Non c'è niente da fare. Non vogliono comperare roba coltivata in fattoria. Mi hanno riso dietro. Mi hanno mostrato pannocchie di mais due volte più grandi di quelle che avevo io, altrettanto dolci e con più file di chicchi. Mi hanno mostrato meloni che quasi non avevano scorza. E per di più con un miglior sapore, mi hanno detto». Tirò un calcio a una zolla, che esplose in polvere. «No, non c'è modo di farcela», dichiarò. «L'agricoltura in vasca ci ha rovinati». «Forse faremo meglio a deciderci a vendere la fattoria», suggerì Martha. Ole non replicò. «Potresti trovar lavoro in un impianto idroponico», Martha suggerì. Ole scosse la testa. «O forse potresti fare il giardiniere», lei insisté. «Saresti un ottimo giardiniere. La gente piena di soldi che si è trasferita fuori, in grandi tenute, ama avere dei giardinieri che si prendono cura dei fiori e di tutto il resto. È più elegante che farlo con le macchine». Ole scosse di nuovo la testa. «Non sopporterei di perder tempo coi fiori», dichiarò. «No, dopo aver coltivato il mais per più di vent'anni». «Forse», disse Martha, «potremmo avere uno di quei piccoli aeroplani. E l'acqua corrente in casa. E una vasca da bagno, invece di essere costretti a fare il bagno nella vecchia tinozza vicino al focolare, in cucina». «Non saprei guidare un aereo», disse Ole. «Ma certo che sapresti», ribatté Martha. «Sono facili da guidare. Diamine, i figli di Anderson non arrivano neanche alle ginocchia di un grillo, e volano, con uno di quegli affari, dappertutto. Uno di loro ha fatto lo stupido, una volta, ed è caduto fuori, ma...» «Devo pensarci», l'interruppe Ole, disperato. «Devo pensarci». Si girò di scatto, saltò uno steccato e si diresse verso i campi. Martha rimase accanto alla macchina e lo guardò allontanarsi. Una lacrima solitaria le corse giù, sulla guancia polverosa. «Il signor Taylor la sta aspettando», disse la ragazza. John J. Webster tartagliò: «Ma non sono mai stato qui, prima. Non poteva sapere che stavo arrivando».
«Il signor Taylor la sta aspettando», insisté la ragazza. Gli indicò la porta con un cenno del capo. C'era scritto: Ufficio per il Riadattamento Umano «Ma non sono venuto qui per trovare un lavoro», protestò Webster. «Non sono venuto a farmi riaggiustare, o qualcosa di simile. Questo non è forse l'ufficio di collocamento del Comitato Mondiale?» «Sì», annuì la ragazza. «Non vuole incontrare il signor Taylor?» «Dal momento che lei insiste», disse Webster. La ragazza fece scattare un interruttore, parlò dentro un intercom. «C'è il signor Webster, signore». «Lo faccia entrare», rispose una voce. Il cappello in mano, Webster varcò la soglia. L'uomo alla scrivania aveva i capelli bianchi, ma il volto di un giovanotto. Gli indicò una sedia con un cenno del capo. «Lei ha cercato un lavoro», disse. «Sì», annuì Webster, «ma...» «Prego, si sieda», disse Taylor. «Se sta pensando a quella scritta sulla porta, se la dimentichi. Non cercheremo di riadattarla». «Non sono riuscito a trovare un lavoro», disse Webster. «L'ho cercato per settimane, ma nessuno mi ha voluto. Così, alla fine, sono venuto qui». «Non voleva venir qui?» «No. Sinceramente, no. Un ufficio di collocamento ha, be'... ha delle implicazioni che non mi piacciono». Taylor sorrise. «Sì, la scelta del nome può non essere stata felice. Lei sta pensando agli uffici di collocamento dei vecchi tempi. I posti dove la gente in cerca di lavoro andava, quand'era disperata. Il governo teneva in funzione questi uffici cercando di trovar lavoro alla gente, perché non diventasse un onere pubblico». «Sono disperato quanto basta», confessò Webster, «ma ho pur sempre un orgoglio che mi ha reso difficile venire. Ma alla fine non c'è stato nient'altro da fare. Vede, sono diventato un traditore...» «In altre parole», l'interruppe Taylor, «lei ha detto la verità. E ciò è stato sufficiente a farle perdere il lavoro che aveva. Il mondo degli affari, e non soltanto qui, ma dovunque nel mondo, non è pronto per quella verità. L'uomo d'affari si aggrappa ancora al mito della città, al mito dell'abile venditore. Col tempo, si renderà conto che non ha bisogno della città, che
il vendere prodotti e servizi davvero utili e al giusto prezzo gli porteranno più guadagni di quanti gliene abbia mai portati la vecchia tecnica del martellamento pubblicitario. «Ma io mi chiedo, Webster, cosa l'ha spìnta ad agire come ha fatto?» «Ero nauseato», spiegò Webster. «Nauseato di veder quella gente andare avanti alla cieca. Nauseato di assistere a tutti quegli sforzi per mantenere in vita una vecchia tradizione che da tempo avrebbe dovuto esser messa da parte. Nauseato dall'entusiasmo civico di King, pronto a sorridere stupidamente quando ogni motivo di entusiasmo era svanito». Taylor annuì. «Webster, lei pensa di essere in grado di riadattare gli esseri umani?» Webster si limitò a fissarlo. «Dico sul serio», proseguì Taylor. «Il Comitato Mondiale lo ha fatto per anni, in silenzio, senza dar nell'occhio. Al punto che molti, fra i riadattati, neppure sospettano di esserlo stati. «I mutamenti che si sono verificati fin dalla creazione del Comitato Mondiale, dalla vecchia organizzazione delle Nazioni Unite, hanno significato molti disadattati. L'avvento dell'energia nucleare nell'industria ha tolto il lavoro a centinaia di migliaia d'individui. Hanno dovuto venire addestrati a nuovi lavori, alcuni con la stessa energia nucleare, altri in campi diversi. L'avvento delle coltivazioni idroponiche ha letteralmente spazzato via gli agricoltori dalle loro terre. Questi, forse, ci hanno posto il problema più grave, poiché, al di fuori delle speciali conoscenze per coltivare le piante e allevare gli animali, non sapevano proprio far nient'altro. E la maggior parte di loro non aveva alcun desiderio d'imparare un.nuovo mestiere. Erano, quasi tutti, amaramente risentiti per la maniera in cui erano stati costretti ad abbandonare il modo di guadagnarsi da vivere ereditato dai loro antenati. Ed essendo individualisti per natura, ci hanno dato il più grosso grattacapo psicologico di ogni altra categoria». «In gran parte sono ancora disoccupati», annuì Webster. «Ce ne sono cento o più che vivono alla giornata nelle case che hanno occupato abusivamente. Sparano ai conigli o agli scoiattoli, pescano, coltivano ortaggi e raccolgono frutta selvatica. Rubacchiano qua e là, e di tanto in tanto mendicano per le strade del centro». «Lei conosce quella gente?» chiese Taylor. «Ne conosco alcuni», disse Webster. «Uno di loro mi porta scoiattoli e conigli ogni tanto. Come compenso, chiede soldi per le munizioni». «Si risentirebbero se si cercasse di riadattarli, non è vero?»
«Violentemente», annuì Webster. «Lei conosce un agricoltore che si chiama Ole Johnson? Ancora attaccato alla sua terra, che si ostina a coltivare?» Webster annuì. «Cosa ne direbbe di tentare di riadattare questo Johnson?» «Mi caccerebbe dalla fattoria», disse Webster. «Gli uomini come Ole, e gli occupanti abusivi», dichiarò Taylor, «sono il grosso problema che ci è rimasto. Tutti gli altri, o quasi, si sono bene adattati, adeguandosi alla realtà presente. Alcuni di essi si lamentano molto del passato, ma si tratta di uno sfogo, o una forma di esibizionismo, niente più. Anche volendo, sarebbe impossibile riportarli al loro vecchio sistema di vita. «Anni or sono, con l'adozione universale dell'energia nucleare nell'industria, il Comitato Mondiale si è trovato davanti a una difficile decisione. I cambiamenti che avrebbero fatto progredire il mondo, dovevano essere attuati gradualmente, per consentire alla gente di adattarsi in modo spontaneo, senza scosse, oppure dovevano essere portati avanti il più rapidamente possibile, lasciando al Comitato il compito di garantire l'indispensabile riadattamento umano? Fu deciso, giusto o sbagliato che fosse, che il progresso avrebbe dovuto venire per primo, indipendentemente dai suoi effetti sulla gente. La decisione, nel suo insieme, si è dimostrata saggia. «Sapevamo, ovviamente, che in molti casi il riadattamento non doveva essere attuato troppo apertamente. In alcuni casi, come in quelli di grossi gruppi di operai che erano stati rimossi dai loro posti di lavoro, fu possibile. Ma in molti casi individuali, come quello del suo amico Ole, non lo è stato. Questi uomini devono essere aiutati a ritrovare se stessi in questo nuovo mondo, ma non devono sapere che vengono aiutati. Farglielo sapere, distruggerebbe la fiducia che hanno in se stessi e la loro dignità, e la dignità umana è la pietra miliare di ogni civiltà». «Ero al corrente dei riadattamenti avvenuti all'interno dell'industria», disse Webster, «ma non avevo sentito parlare dei casi individuali». «Non potevamo dar loro pubblicità, è ovvio», spiegò Taylor. «In pratica, è un'operazione clandestina». «Ma perché lo sta dicendo a me, adesso?» «Perché vorremmo che lei fosse dei nostri. Che, tanto per cominciare, ci desse una mano a riadattare Ole. E poi, magari, guardare un po' quello che si potrebbe fare con gli abusivi».
«Non so...» fece Webster. «Abbiamo aspettato che fosse lei a venire da noi», disse Taylor. «Sapevamo che avrebbe finito per venire. King sarebbe riuscito a mandarle all'aria qualunque possibilità di trovar lavoro. Ha passato parola... lei è sulla lista nera di tutte le Camere di Commercio e di ogni gruppo civico che oggi esista al mondo». «Probabilmente non ho scelta», commentò Webster. «Non vogliamo che lei abbia questa sensazione», obiettò Taylor. «Si prenda un po' di tempo per pensarci, poi torni. Anche se deciderà di non accettare questo lavoro, gliene troveremo un altro... malgrado King». Fuori dall'edificio, Webster trovò una figura simile a uno spaventapasseri che l'aspettava. Era Levi Lewis, senza il sogghigno dai denti sbrecciati, ma sempre col fucile sotto il braccio. «Qualcuno dei ragazzi ha detto che l'avevano vista entrare qua dentro», spiegò. «Perciò l'ho aspettata». «Qual è il guaio?» chiese Webster, poiché il volto di Levi era fin troppo eloquente. «È quella maledetta polizia», disse Levi, e sputò disgustato. «La polizia?» chiese Webster, mentre il cuore gli precipitava nello stomaco. Sapeva fin troppo bene qual era il guaio. «Già», annuì Levi. «Si stanno preparando a scacciarci col fuoco». «Così, il consiglio comunale alla fine si è arreso», fu l'amaro commento di Webster. «Vengo appena adesso dal comando di polizia», dichiarò Levi. «Gli ho detto che faranno meglio ad andarci piano. Gli ho detto che qualcuno si troverà con le budella sparpagliate dappertutto, se ci proveranno. Ho piazzato i ragazzi tutt'intorno, con l'ordine di non sparare finché non saranno sicuri di far centro». «Non puoi far questo, Levi», esclamò Webster, con durezza. «Non posso?» ribatté Levi. «L'ho già fatto. Ci hanno cacciato dalle nostre fattorie, costringendoci a vendere perché non potevamo più guadagnarci da vivere. Non ci cacceranno via un'altra volta. Resteremo qui, o moriremo qui. L'unico modo in cui riusciranno a cacciarci col fuoco sarà quando non ci sarà più nessuno di noi a fermarli». Si tirò su i calzoni, e sputò di nuovo. «E non siamo i soli a pensarla così», ribadì. «Gramp è là fuori con noi». «Gramp!»
«Sicuro, Gramp. Il vecchio che vive con lei. In un certo senso è lui che ha preso in mano la nostra situazione, come nostro comandante generale. Dice che si ricorda un bel po' di trucchi del tempo di guerra, che quelli della polizia non hanno mai visto né sentito. Ha mandato alcuni ragazzi là, al monumento della Legione, a portar via un cannone. E sa dove procurarsi i proiettili adatti, in qualche museo. E ha detto che, quando saremo pronti, faremo sapere che, alla prima mossa della polizia, bombarderemo il centro degli affari». «Senti, Levi, vuoi farmi un piacere personale?» «Ma certo, signor Webster». «Vuoi entrare qua dentro e chiedere del signor Taylor? Insisti per vederlo. E digli che ho già cominciato a lavorare». «Certo che lo farò. Ma lei, dove va?» «Vado al municipio». «È sicuro di non volere che io l'accompagni?» «No», esclamò Webster. «Me la caverò meglio da solo. E, Levi...» «Sì?» «Di' a Gramp di tener ferma la sua artiglieria. Di non sparare, a meno che non sia davvero costretto a farlo... E che, se deve farlo, lo faccia con criterio». «Il sindaco è occupato», disse Raymond Brown, il segretario. «È quello che pensa lei», replicò Webster, dirigendosi verso la porta. «Non può entrare là dentro, Webster!», gridò Brown. Schizzò fuori dalla sedia, aggirò di corsa la scrivania e si scagliò addosso a Webster, tentando di colpirlo. Webster roteò il braccio, colse Brown di traverso sul petto e lo respinse contro la scrivania. La scrivania slittò, Brown agitò le braccia scompostamente, perse l'equilibrio e finì per terra con un tonfo. Webster spalancò la porta del sindaco. Il sindaco tolse i piedi dalla scrivania. «Avevo detto a Brown...» cominciò. Webster annuì. «E Brown me l'ha detto. Cosa c'è, Carter? Hai paura che King scopra che sono stato qui? Hai paura d'esser corrotto da qualche buona idea?» «Cosa vuoi?» sbottò Carter. «A quanto mi dicono, la polizia sta per bruciare le case». «Proprio così», dichiarò il sindaco, virtuosamente. «Sono una minaccia
per la comunità». «Quale comunità?» «Senti, Webster...» «Sai meglio di me che non c'è nessuna comunità. Soltanto pochi di voi politicanti schifosi che se ne stanno qui intorno, così da poter rivendicare la residenza ed esser sicuri di venir eletti ogni anno, intascando lo stipendio. Si è arrivati al punto che, tutto ciò che dovete fare, è votarvi tra voi. La gente che lavora nei grandi magazzini e nei negozi, perfino quelli che fanno i lavori più infimi nelle fabbriche, non vivono dentro i confini della città. Gli uomini d'affari hanno lasciato la città molto tempo fa. Fanno qui i loro affari, ma non ci abitano». «Ma questa è ancora una città!» dichiarò il sindaco. «Non sono venuto a discutere di questo con te», ribatté Webster. «Sono venuto a cercare di farti entrare in testa che avete torto a bruciare quelle case. Anche se non te ne rendi conto, le case rappresentano un rifugio per gente che non ha altra casa. Gente che è venuta in questa città a cercare asilo, che l'ha trovato da noi. In una certa misura, noi ne siamo responsabili». «No, non sono una nostra responsabilità», ringhiò il sindaco. «Qualunque cosa gli càpiti, è sfortuna loro. Non gli abbiamo chiesto noi di venire qui. Non li vogliamo qui. Non contribuiscono in nessun modo alla comunità. Mi dirai che sono dei disadattati. Be', è forse colpa mia? Mi dirai che non possono trovare un lavoro. E io ti rispondo che potrebbero trovare un lavoro, se davvero lo cercassero. C'è del lavoro da fare. C'è sempre del lavoro da fare. Sono stati imbottiti di tutti quei discorsi sul nuovo mondo, e credono che tocchi a qualcun altro trovare il posto adatto per loro, e il lavoro adatto». «Sei il duro individualista di sempre», commentò Webster. «Lo dici come se pensassi che è divertente», guaì il sindaco. «Penso che sia divertente», confermò Webster. «Divertente e tragico... che ci sia qualcuno, oggi, che ancora la pensa così». «Il mondo andrebbe assai meglio, con un po' di schietto individualismo», esclamò il sindaco. «Guarda, ad esempio, la gente che ha fatto carriera...» «Te, per esempio?» chiese Webster. «Potresti anche prender me, come esempio», ammise Carter. «Ho lavorato duro. Ho approfittato di ogni occasione. Ho saputo prevedere, intuire...»
«Vuoi dire che hai leccato gli stivali adatti e calpestato le facce giuste», l'interruppe Webster. «Sei un luminoso esempio del tipo di gente che oggi il mondo non vuole. Hai decisamente un odore di muffa, le tue idee sono stantie. Sei l'ultimo degli uomini politici, Carter, proprio come io ero l'ultimo dei segretari delle Camere di Commercio. Soltanto, non lo sai ancora. Io sì. Io ne sono uscito. Anche se mi è costato parecchio, ne sono uscito, perché dovevo conservare il rispetto di me stesso. Il tuo tipo di politica è morto. È morto perché, se fino ad ora qualunque speculatore dalla voce roboante e una facciata lustra poteva conquistare il potere facendo leva sulla psicologia della massa, adesso non c'è più la massa, e neppure la sua psicologia. Non può esserci la psicologia della massa quando alla gente non importa niente di ciò che accade a qualcosa che è già morto... un sistema politico che si è sfasciato sotto il suo stesso peso». «Esci di qui!» urlò Carter. «Esci di qui, prima che chiami la polizia e ti faccia buttar fuori a calci». «Ti sei dimenticato», disse Webster, «che sono venuto a parlarti delle case». «Non ti servirà a niente», ringhiò Carter. «Puoi startene lì in piedi e parlare fino al giorno del giudizio, per me fa lo stesso. Quelle case saranno bruciate. È deciso». «Ti piacerebbe vedere il centro degli affari ridotto a un ammasso di macerie?» chiese Webster. «Il tuo paragone», ribatté Carter, «è grottesco». «Non sto facendo nessun paragone», replicò Webster. «No?» Il sindaco lo fissò. «Di cosa stavi parlando, allora?» «Soltanto questo», precisò Webster. «Nel preciso istante in cui la prima torcia toccherà le case, il primo proiettile di cannone colpirà il municipio. E il secondo colpirà la First National Bank. Poi, via via saranno centrati gli altri bersagli, dal più grande al più piccolo». Carter restò a bocca spalancata. Poi un impeto di rabbia gli eruppe nella gola. «Non funzionerà, Webster!» gridò. «Non puoi bluffare con me. Una panzana come questa...» «Non è una panzana», ribadì Webster. «Quegli uomini, là fuori, hanno i cannoni. Pezzi prelevati dal monumento alla Legione. E proiettili presi dai musei. E hanno uomini che sanno come farli funzionare. Non che ne abbiano un gran bisogno. Non devono neanche prender la mira: gli basta sparare nel mucchio, quasi a bruciapelo. È come tirar sassi sul muro».
Carter allungò la mano verso il radiotelefono, ma Webster lo fermò con un gesto. «Meglio pensarci un minuto, Carter, prima di perdere le staffe. Sei incastrato. Procedi pure col tuo progetto, e ti troverai con una battaglia fra le mani. Le case potranno anche bruciare, ma il centro commerciale andrà distrutto. Gli uomini d'affari vorranno il tuo scalpo, per questo». Carter tirò indietro la mano. Da lontano giunse il secco crepitio d'un fucile. «Meglio richiamarli», l'ammonì Webster. Il volto di Carter si contorse per l'indecisione. Un altro sparo. Un terzo, un quarto. «Ancora pochi istanti, e sarà troppo tardi», disse Webster. «Non potrai più fermarli». Un tonfo assordante fece tremare le finestre della stanza. Carter balzò in piedi. Webster all'improvviso sentì freddo. Le ginocchia gli si fecero deboli. Ma lottò per mantenere il volto impassibile e la voce calma. Carter stava guardando fuori da una finestra, impietrito. «Temo», disse Webster, «che sia già andata troppo oltre». Il radiotelefono, sulla scrivania, ciangottava insistente, con la spia rossa che lampeggiava. Carter allungò una mano tremante e fece scattare l'interruttore. «Carter», stava chiamando una voce. «Carter, Carter». Webster riconobbe quella voce... il muggito da toro del capo della polizia, Jim Maxwell. «Cosa c'è?» chiese Carter. «Avevano un grosso cannone», esclamò Maxwell. «È scoppiato, quando hanno tentato di sparare. Credo siano state le munizioni difettose». «Un cannone?» chiese Carter. «Soltanto un cannone?» «Non ne vedo altri». «Ho sentito spari di fucili», insisté Carter. «Già. Ci hanno sparato addosso qualche colpo. Hanno ferito un paio dei ragazzi. Ma adesso si sono ritirati in mezzo alla sterpaglia. Non sparano più, adesso». «Va bene», disse Carter. «Cominciate a dar fuoco». Webster fece un passo avanti. «Chiedigli, chiedigli...» Ma Carter spense l'interruttore e il radiotelefono si azzittì. «Cosa volevi chiedere?»
«Niente», disse Webster. «Niente d'importante». Non poteva dire a Carter che era Gramp quello che sapeva sparare coi cannoni. Non poteva dirgli che quando il cannone era scoppiato, Gramp si trovava là. Doveva uscire dal municipio, raggiungere il cannone il più presto possibile. «È stato un bluff, Webster», gli stava dicendo Carter. «Un buon bluff, ma è finito subito». Il sindaco tornò a voltarsi verso la finestra e guardò in direzione delle case. «Niente più spari», commentò. «Si sono arresi in fretta». «Sarai fortunato», ribatté Webster, «se cinque o sei dei tuoi poliziotti torneranno indietro. Quegli uomini armati di fucile sono laggiù in mezzo alla sterpaglia e possono colpire l'occhio di uno scoiattolo da cento metri». Uno scalpiccio risuonò nel corridoio, là fuori, due paia di piedi che si avvicinavano correndo. Il sindaco si allontanò di scatto dalla finestra. Anche Webster ruotò su se stesso. «Gramp!» gridò. «Ciao, Johnny», sbuffò Gramp, fermandosi con una brusca slittata. L'uomo dietro a Gramp era giovane e agitava qualcosa in mano... un fascio di carte che frusciavano rumorosamente nell'aria. «Cosa volete?» chiese il sindaco. «Parecchie cose», rispose Gramp. Restò fermo qualche attimo, per riprender fiato, e disse, tra una sbuffata e l'altra: «Vi presento il mio amico Henry Adams». «Adams?» fece il sindaco. «Certo», disse Gramp. «Suo nonno viveva qui, una volta. Sulla ventisettesima strada». «Oh», esclamò il sindaco, e fu come se qualcuno l'avesse colpito con un mattone. «Vuol dire F. J. Adams». «Può scommetterci gli stivali», replicò Gramp. «Lui ed io eravamo assieme, in guerra. Aveva l'abitudine di tenermi sveglio, la notte, per parlarmi del suo ragazzo a casa». Carter si volse verso Henry Adams: «Come sindaco della città», cominciò, cercando di recuperare un po' di dignità, «le dò il benvenuto a...» «Non è un benvenuto molto apprezzabile», ribatté Adams. «A quanto ho capito, state bruciando la mia proprietà».
«La sua proprietà!» Il sindaco parve soffocare, e i suoi occhi fissarono increduli il fascio di carte che Adams gli agitava davanti al naso. «Già, la sua proprietà», strillò Gramp. «L'ha appena acquistata. Arriviamo proprio adesso dall'Ufficio del Registro. Ha pagato tutte le tasse arretrate, le penalità e tutte le altre cose che voi ladri legali avete congegnato contro quelle case». «Ma, ma...» il sindaco stava cercando le parole, rantolando per respirare. «Non le avrà certo acquistate tutte... Soltanto la vecchia proprietà degli Adams, vorrà dire...» «Tutte le case, dalla prima all'ultima», ribatté Gramp, trionfante. «E adesso», disse Adams, rivolto al sindaco, «se vorrà gentilmente dire ai suoi uomini di smetterla di distruggere la mia proprietà...» Carter si curvò sulla scrivania e armeggiò col radiotelefono, le sue mani sembravano all'improvviso tutte pollici. «Maxwell!» urlò. «Maxwell, Maxwell!» «Cosa vuoi?» urlò Maxwell in risposta. «Smettetela di appiccare quegli incendi!» urlò Carter. «Cominciate subito a spegnerli. Chiamate i pompieri. Fate qualunque cosa, ma spegnete quegli incendi!» «Oh, diavolo» fu il commento di Maxwell. «Vorrei che tu decidessi ciò che vuoi fare, una volta per tutte!» «Fai come ti ho detto», urlò di nuovo il sindaco. «Spegni subito quegli incendi!» «D'accordo», disse Maxwell. «D'accordo. Stai calmo. Ma ai ragazzi non piacerà. Non gli piace farsi sparare addosso per far qualcosa su cui tu, subito dopo, cambi idea». Carter si staccò dal radiotelefono. «Le garantisco, signor Adams», disse, «che si è trattato soltanto di un grosso sbaglio». «Certo», dichiarò solennemente Adams, «un grossissimo sbaglio, sindaco. Il più grosso che lei abbia mai commesso». Per un attimo, i due rimasero a fissarsi dai due lati opposti della stanza. «Domani», disse Adams, «presenterò una petizione alla corte per chiedere l'abrogazione dello statuto municipale. Come proprietario della più grande porzione di terreno compresa entro i confini comunali, sia dal punto di vista dell'area che del valore, sono convinto di avere il diritto legale di farlo». Il sindaco deglutì, poi riuscì, con qualche sforzo, a balbettare:
«Su quale base?» «Sulla base», spiegò Adams, «che non ce n'è più alcun bisogno. Non credo che mi sarà molto difficile dimostrarlo». «Ma... ma... ciò significa che...» «Già», intervenne Gramp, «ciò significa che, come suol dirsi, lei resterà in braghe di tela». «Un parco», disse Gramp, agitando il braccio sopra la distesa incolta che un tempo era stata il quartiere residenziale della città. «Un parco, cosicché la gente possa ricordare come vivevano i loro vecchi». Si trovavano, tutti e tre, sulla Tower Hill, col vecchio serbatoio idrico che incombeva, arrugginito, sopra di loro, i robusti piloni d'acciaio che emergevano da un mare d'erba alta fino alla vita. «Non esattamente un parco», replicò Henry Adams. «Piuttosto un monumento. Un monumento a un'era di vita comunitaria che fra altri cento anni sarà del tutto dimenticata. La conservazione di un certo numero di costruzioni tipiche, sorte per soddisfare certe esigenze e il gusto particolare di ogni singolo individuo. Nessuna schiavitù nei confronti di questo o quel concetto architettonico, ma semplicemente uno sforzo fatto alla ricerca di un modo migliore di vivere. Fra altri cento anni, gli uomini cammineranno fra quelle case laggiù con lo stesso senso di rispetto e di meraviglia che oggi provano quando entrano in un museo. Per loro sarà, in pratica, qualcosa uscito da un'era primeva, una pietra miliare sulla strada per una vita migliore e più piena. I pittori passeranno la loro vita a riprodurre quelle vecchie case sulle loro tele. «Gli scrittori di romanzi storici verranno qui a respirare l'autenticità di quei tempi». «Ma hai detto che intendi restaurare tutte quelle case, riportando prati e giardini esattamente nelle condizioni in cui erano prima», osservò Webster. «Ci vorrà un patrimonio. E, dopo, un altro patrimonio per mantenere tutto in ordine». «Ho anche troppi soldi», replicò Adams. «Davvero troppi. Ricorda che mio nonno e mio padre si son buttati fin dall'inizio nello sfruttamento industriale dell'energia nucleare». «Suo nonno, il miglior giocatore ai dadi che abbia mai conosciuto», esclamò Gramp. «Tutti i giorni di paga, mi ripuliva le tasche». «Ai vecchi tempi», proseguì Adams, «quando un uomo aveva troppi soldi, c'erano molte cose in cui poteva impiegarli. Istituti di beneficenza,
per esempio. Oppure, ricerche mediche o qualcos'altro di simile. Ma oggi non ci sono più istituti di beneficenza. È scomparso quel tipo di struttura sociale organizzata che li teneva in vita. E poiché il Comitato Mondiale sta funzionando bene, c'è denaro in abbondanza per tutte le ricerche, mediche o altre, che chiunque voglia intraprendere. «Non avevo progettato questo, quando sono tornato per vedere la casa di mio nonno. Volevo soltanto vederla, niente più. Me ne aveva parlato tanto. E così pure l'albero che aveva piantato nel giardino, davanti alla casa. E i rosai che aveva coltivato sul retro. «E poi ho visto coi miei occhi l'intero quartiere, deserto. Un fantasma beffardo. Qualcosa che era rimasto indietro. Qualcosa che aveva significato molto per qualcuno, ed era stato lasciato indietro. Quel giorno, immobile davanti alla casa di mio nonno, insieme a Gramp, mi è venuto in mente che la cosa migliore che potevo fare per la posterità era conservare uno spaccato della vita come i loro antenati l'avevano vissuta». Un sottile fil di fumo s'innalzò sopra gli alberi, da qualche punto lì in basso. Webster lo indicò. «E loro?» «Gli abusivi rimarranno», disse Adams, «se lo vorranno. Ci sarà lavoro in abbondanza per loro. E avranno sempre una casa o due a disposizione per viverci. «C'è soltanto una cosa che mi preoccupa. Non posso restar qui di persona io stesso, tutto il tempo. Avrò bisogno di qualcuno che diriga il progetto. Sarà il lavoro di una vita». Fissò Webster. «Dài, Johnny», lo sollecitò Gramp. Webster scosse la testa: «Betty ha messo il cuore su quella tenuta, in campagna». «Ma non dovrai viver qui», obiettò Adams. «Potrai volar qui ogni giorno». Dai piedi della collina giunse un richiamo. «È Ole», gridò Gramp. Agitò il bastone. «Ciao, Ole. Vieni su». Seguirono con lo sguardo Ole che saliva lungo il pendio, lo aspettarono in silenzio. «Volevo parlarti, Johnny», disse Ole. «Ho un'idea. Stanotte mi sono svegliato nel bel mezzo del sonno, e l'avevo in testa». «Su, dilla», lo sollecitò Webster.
Ole lanciò un'occhiata a Adams. «È a posto», lo rassicurò Webster. È Henry Adams. Forse ti ricordi di suo nonno, il vecchio F. J.». «Sì, mi ricordo di lui», esclamò Ole. «Matto per l'energia nucleare, era. Come gli è andata?» «Gli è andata piuttosto bene», disse Adams. «Lieto di sentirlo», fece Ole. «Immagino di essermi sbagliato. Dicevo che non ne sarebbe venuto fuori niente. Lui sognava a occhi aperti tutto il tempo». «Di che idea si tratta?» chiese Webster. «Hai mai sentito parlare di quei ranch trasformati in alberghi per ricchi, non è vero?» chiese Ole. Webster annuì. «Quei posti dove la gente con soldi andava a fingere d'esser dei cowboy. E gli piaceva da matti, perché non è che facessero il vero, duro lavoro dei ranch, ma soltanto cavalcate romantiche e...» «Senti un po'», l'interruppe Webster, «non penserai mica di trasformare la tua fattoria in un ranch di lusso, non è vero?» «Oh, no», disse Ole, «niente ranch di lusso. In una fattoria di lusso, magari. La gente non ne sa molto sulle vere fattorie, oggi, dal momento che, in pratica, non ne esistono più. Ma s'intenerisce sui semi che dormono sotto terra d'inverno, e su quanto sono graziosi i germogli in primavera, e...» Webster fissò Ole. «Ci andranno pazzi, vecchio mio», esclamò. «Si sbudelleranno fra loro, pur di essere i primi a passare le vacanze in una vera, onesta fattoria, come Dio la voleva ai vecchi tempi». Da una macchia di cespugli, ai piedi della collina, scaturì una cosa scintillante che crepitava e gorgogliava e strideva, le lame balenanti e un braccio simile a quello di una gru in frenetica agitazione. «Che cosa...» chiese Adams. «È quella maledetta falciatrice!» guaì Gramp. «Ho sempre saputo che sarebbe venuto il giorno in cui avrebbe perso qualche rotella e sarebbe impazzita del tutto!» Arena Arena di Fredric Brown Astounding, giugno I lettori dei precedenti volumi di questa serie si sono già fami-
liarizzati coi molteplici talenti di Fredric Brown, i cui racconti acuti, arguti, e non di rado profondi, hanno abbellito le pagine di molte riviste di fantascienza e «gialle», durante la sua lunga carriera. La satira e l'ironia erano i suoi punti di forza, e Brown seppe mantenere il suo lavoro a un livello qualitativo invidiabilmente alto, dal racconto brevissimo, fulminante, al romanzo. «Arena» è forse la sua storia più famosa, e lo è giustamente, il resoconto emozionante, e allo stesso tempo profondamente interiorizzato, di un combattimento mortale fra un terrestre e un alieno, con in gioco la sopravvivenza delle rispettive flotte da combattimento. Scritto al culmine della seconda guerra mondiale, questo racconto riesce a essere rispettoso anche nei confronti dell'altro contendente, in un'epoca di guerra totale nel presente dello scrittore: un compito nient'affatto facile. (Uno dei giochi che si possono fare con la fantascienza — o anche con la letteratura in generale — è procedere a ritroso e vedere come uno stesso tema è stato via via trattato. Ciò non vuol dire che lo scrittore B abbia copiato dallo scrittore A di una generazione prima, oppure si sia lasciato consciamente influenzare da lui. Ma è pur vero che una storia di successo lascia un'impronta nella storia letteraria, che influenza le creazioni posteriori. Un racconto assai commovente di Barry Longyear, intitolato «Enemy Mine» — che certamente sarà incluso in questa serie quando raggiungeremo il 1979 — ha posto un umano contro un alieno in una maniera particolarmente sottile... e non ho potuto fare a meno di pensare ad «Arena». I.A.) Carson aprì gli occhi e si trovò a guardare verso l'alto, in una tremolante semioscurità azzurra. Faceva caldo. Lui era disteso sulla sabbia, e uno spuntone roccioso che sporgeva gli faceva male alla schiena. Rotolò sul fianco, scostandosi dalla roccia, e si rizzò a sedere. «Sono pazzo», pensò. «Pazzo... o morto... o qualcosa di simile». Anche la sabbia era azzurra, azzurro-vivo, e non c'era niente di simile a questa sabbia azzurra sulla Terra o su qualcun altro dei pianeti. Sabbia azzurra. Sabbia azzurra sotto una volta azzurra che non era il cielo e neppure una stanza, ma una porzione circoscritta di spazio... in qualche modo lui sape-
va che era circoscritta, finita, anche se non riusciva a coglierne la sommità. Raccolse un po' di sabbia tra le mani e la lasciò scorrere tra le dita. Colò giù, sulla sua gamba scoperta. Scoperta? Nuda. Lui era completamente nudo, e già il suo corpo era madido di sudore per lo snervante calore, macchiato d'azzurro là dove la sabbia l'aveva toccato, appiccicandosi. Ma dove non era sporco di sabbia, il suo corpo era bianco. Rifletté: Allora, questa sabbia è davvero azzurra. Se fosse sembrata azzurra soltanto a causa di questa luminosità azzurra, allora sarei azzurro anch'io. Ma sono bianco, e allora la sabbia è azzurra. Sabbia azzurra. È qualcosa che non esiste. Non esiste nessun posto come questo, dove mi trovo adesso. Il sudore gli sgocciolava sugli occhi. Faceva caldo, caldo come all'inferno. Solo che l'inferno — quello degli antichi — avrebbe dovuto essere rosso, e non azzurro. Ma se quel posto non era l'inferno, allora cos'era? Soltanto Mercurio, fra i pianeti, era caldo così. Ma questo non era Mercurio. E Mercurio si trovava a quattro miliardi di miglia da... Allora, ricordò dove si era trovato prima. In quel piccolo ricognitore monoposto, fuori dell'orbita di Plutone, a esplorare poco meno d'un milione di miglia cubiche su un fianco dell'Armata Terrestre disposta in ordine di battaglia per intercettare gli invasori. L'improvvisa, stridula esplosione spezza-nervi del campanello d'allarme quando il ricognitore rivale — lo scafo alieno — era giunto alla portata dei suoi rilevatori... Nessuno sapeva chi fossero gli invasori, che aspetto avessero, da quale lontana galassia arrivassero, salvo che essa si trovava all'incirca nella direzione delle Pleiadi. Dapprima, sporadiche incursioni contro colonie e avamposti terrestri. Battaglie isolate fra pattuglie terrestri e squadriglie d'invasori; scontri a volte vinti e a volte persi, ma, fino ad oggi, non conclusi mai con la cattura di un vascello nemico. E nelle colonie aggredite, nessuno era mai sopravvissuto per descrivere gli invasori usciti fuori dalle loro navi a combattere, se mai ne erano usciti. All'inizio, la minaccia non era stata giudicata seria, poiché le incursioni non erano state numerose, o troppo distruttive. E, prese singolarmente, le loro navi si erano mostrate leggermente inferiori, come armamento, alle migliori navi da combattimento terrestri, anche se erano un po' superiori
quanto a velocità e a manovrabilità. Un vantaggio, quest'ultimo, sufficiente a dare agli invasori la scelta tra fuggire o combattere, a meno che non fossero circondati. La Terra, comunque, si era resa conto della gravità del pericolo, e aveva costruito la più grande armata spaziale di tutti i tempi. Da molto quell'armata aspettava, ma adesso la resa dei conti era imminente. I ricognitori terrestri, inviati nello spazio esterno, avevano rilevato, a venti miliardi di miglia di distanza, l'avvicinarsi di una immensa flotta, quale, appunto, ci si poteva attendere per la battaglia decisiva. Quei ricognitori non erano mai tornati indietro, ma i loro messaggi radiotronici sì. E adesso l'armata della Terra, tutte le diecimila navi e il mezzo milione di uomini armati fino ai denti, erano là fuori, oltre l'orbita di Plutone, in attesa d'intercettare il nemico e di combattere fino alla morte. E sarebbe stata una battaglia ad armi pari, a giudicare dai rapporti inviati dagli uomini spintisi in avanscoperta oltre quell'immenso abisso di spazio, i quali, prima di affrontare consapevolmente la morte, erano riusciti a inviare dettagliate notizie sulle dimensioni e la potenza di fuoco della flotta nemica. Era in gioco il dominio del sistema solare, ed entrambe le parti avevano un'uguale probabilità di vincere la battaglia. Per la Terra, era l'ultima possibilità di salvezza, poiché si sarebbe trovata, con le sue colonie, alla totale mercé degli invasori, se questi fossero riusciti a sfondare quello sbarramento... Oh, sì. Adesso Bob Carson ricordò. Non che ciò spiegasse la sabbia azzurra e la tremolante semioscurità azzurrastra in cui si era risvegliato. Ma l'assordante stridio del campanello d'allarme, e il suo balzo verso il pannello dei comandi. Il suo frenetico armeggiare mentre si assicurava con la cinghia al seggiolino. Il punto nero che s'ingrandiva sulla piastra video. La bocca arida. La spaventosa consapevolezza che era giunto il momento. Per lui, almeno, malgrado le flotte principali fossero ancora fuori portata l'una dall'altra. Il suo primo, duro assaggio. Nel giro di tre secondi, o meno, sarebbe uscito vittorioso dallo scontro, oppure ridotto in polvere carbonizzata. Morto. Tre secondi... la durata di una battaglia nello spazio. Il tempo sufficiente a contare lentamente fino a tre, poi avevate vinto, o eravate morti. Un colpo solo bastava a liquidare un piccolo apparecchio monoposto come il suo
ricognitore, dallo scarso armamento e la blindatura leggera. Frenetiche, quasi automaticamente, le sue labbra asciutte avevano formato la parola «Uno», mentre manovrava per mantenere quel punto che s'ingrandiva al centro esatto della sottile griglia telemetrica sulla piastra video. L'avevano fatto le sue mani, mentre il suo piede destro era rimasto sospeso sopra il pedale che avrebbe fatto partire la scarica. Un solo vortice d'inferno concentrato che doveva far centro... Non ci sarebbe stato il tempo per un secondo colpo. «Due». Nemmeno si era reso conto di averlo detto. Il punto sulla piastra video, adesso, non era più un punto. Distante solo poche migliaia di miglia, la sua immagine sulla piastra lo mostrava come se fosse a qualche centinaio di metri. Era un piccolo ricognitore, agile e veloce, grande all'incirca come il suo. Uno scafo alieno, senza alcun dubbio. «Tr...» Il suo piede aveva abbassato il pedale, per far partire la scarica... E all'improvviso, l'invasore aveva virato stretto, guizzando fuori dal mirino. Carson aveva freneticamente manovrato per seguirlo. Per un decimo di secondo, il nemico era uscito del tutto dalla piastra video, poi, dopo aver virato, Carson tornò a vederlo, che puntava alla massima velocità verso il suolo. Il suolo? Poteva esser soltanto un'illusione ottica. Doveva esserlo. Quel pianeta, o qualunque altra cosa fosse, che ora invadeva quasi completamente la piastra video, non poteva esser lì. Non era possibile. Non c'era nessun pianeta più vicino di Nettuno, a tre miliardi di miglia di distanza... e Plutone remotissimo, sul lato opposto rispetto al Sole. I suoi sensori! Non avevano mostrato nessun oggetto di dimensioni planetarie, o anche soltanto un asteroide. E continuavano a non mostrarlo. Perciò non poteva trovarsi lì, qualunque cosa fosse quell'immensa cosà verso la quale si stava tuffando, a poche centinaia di miglia sotto di lui. E nella sua improvvisa ansia di evitare di schiantarsi, si era perfino dimenticato del vascello nemico. Aveva acceso i razzi frenanti frontali, e quando la brusca diminuzione di velocità l'aveva sbattuto in avanti, contro la cinghia del sedile, aveva acceso i razzi tutto a destra per una virata di emergenza. Li aveva spinti al massimo, e ce li aveva tenuti, cocciutamente, ben conscio di dover dare tutta la potenza che poteva spremere dai propulsori per impedire alla nave di schiantarsi... anche se sapeva che una simile, tremenda accelerazione gli avrebbe fatto perdere i sensi per qualche atti-
mo. E aveva perso i sensi. E questo era stato tutto. Adesso, era seduto su quella calda sabbia azzurra, completamente nudo ma per il resto illeso. Nessuna traccia della sua nave spaziale ma — se era per questo — neppure nessuna traccia dello spazio. Quell'alta cupola sopra di lui non era il cielo, pur se era impossibile capire cosa diavolo fosse. Si alzò in piedi. La gravità gli parve un po' più alta di quella terrestre. Non molto di più. La sabbia si stendeva, piatta, in tutte le direzioni, poche chiazze cespugliose qua e là. Anche i cespugli erano azzurri, ma di differenti sfumature, alcuni più chiari dell'azzurro della sabbia, altri più scuri. Da un vicino cespuglio scivolò fuori una piccola creatura che assomigliava a una lucertola, ma aveva più di quattro zampe. Anch'essa era azzurra. Di un azzurro vivo. Lo vide, e tornò di nuovo, correndo, sotto il cespuglio. Alzò di nuovo lo sguardo, cercando di decidere cosa mai ci fosse sopra di lui. Aveva la forma di una cupola, ma non lo era. Sembrava tremolare, ed era difficile tenervi puntato lo sguardo. Ma, decisamente, s'incurvava sempre di più fino a raggiungere il suolo, vale a dire la distesa di sabbia azzurra che lo circondava da ogni lato. Lui, non era molto lontano dal centro della cupola. Valutò a occhio di trovarsi a un centinaio di metri dalla parete più vicina, sempre che fosse una parete. Era un grande emisfero azzurro di qualcosa, con una circonferenza di circa duecentocinquanta metri, che sovrastava l'intera distesa di sabbia. Tutto era azzurro lì... salvo una cosa. Si avvide, in quell'istante, di qualcosa di rosso laggiù, vicino alla parete opposta. Più o meno sferico, pareva avere all'incirca un metro di diametro. Era troppo lontano da lui, perché potesse distinguerlo chiaramente attraverso quell'azzurro tremolante. Ma, inspiegabilmente, rabbrividi. Si asciugò il sudore sulla fronte, o cercò di farlo, col dorso della mano. Era forse un sogno, un incubo? Quel calore soffocante, quella sabbia azzurra, quella vaga sensazione di orrore che avvertiva quando fissava quella cosa rossa? Un sogno? No, non ci si addormentava, né ci si metteva a sognare, nel bel mezzo di una battaglia nello spazio. La morte? No, neppure. Se c'era un'altra vita dopo la morte, non sarebbe
stata una cosa priva di senso come quella, fatta di calore azzurro, di sabbia azzurra e di un rosso orrore. Poi, udì la voce... La sentì dentro la testa, non con le orecchie. Non sembrava venire da un punto preciso, ma da ogni direzione. «Vagando attraverso lo spazio e le dimensioni», dissero le parole nella sua mente, «incontro qui, in questo spazio e in questo tempo, due popoli sul punto di scatenare una guerra che sterminerebbe l'uno e indebolirebbe l'altro a tal punto da farlo regredire allo stato selvaggio, al punto da impedirgli di realizzare il proprio destino, precipitando per sempre nella polvere da cui è uscito. Io dico che questo non deve accadere». «Chi... chi sei tu?» Carson non lo disse ad alta voce, ma la domanda si formò nel suo cervello. «Non riusciresti mai a capirlo completamente. Io sono...» Vi fu una pausa, come se la voce cercasse — nel cervello di Carson — una parola che non c'era, una parola a lui sconosciuta. «Io sono la fine dell'evoluzione di una razza così antica che la sua età non può venir espressa in parole che abbiano significato per la tua mente. Una razza fusa in una singola entità, eterna... «Una entità quale la tua razza primitiva potrebbe diventare...» ancora una volta quel brancolare alla ricerca di una parola, «... un giorno. E così pure potrebbe diventarlo quella razza che tu chiami, nella tua mente, gli Invasori. Così, sono intervenuto prima dell'imminente battaglia, una battaglia tra due flotte di forza quasi identica, al punto che ne risulterebbe la distruzione di entrambe le razze. Una delle due deve sopravvivere. Una deve progredire ed evolversi». «Una?» pensò Carson. «La mia o...» «Ho il potere di fermare la guerra, di rimandare gli Invasori nella loro galassia. Ma tornerebbero. Oppure, la tua razza, presto o tardi, li seguirebbe fin laggiù. Solo restando in questo spazio e in questo tempo, sempre vigilante, potrei impedire che le due razze si distruggano l'una con l'altra, e io non posso restare. «Perciò, intervengo adesso. Distruggerò completamente una flotta, senza nessuna perdita per l'altra. Così, una delle due civiltà sopravviverà». Un incubo. Doveva essere un incubo, pensò Carson. Ma sapeva che non lo era. Era troppo pazzesco, troppo impossibile, perché fosse qualcosa di diverso dalla realtà. Non osava far la domanda: Quale delle due? Ma furono i suoi pensieri a
farla per lui. «Sopravviverà la più forte», disse la voce. «Questo non posso... e non voglio cambiarlo. Io interverrò soltanto per farne una vittoria completa, non...» cercò di nuovo le parole, «... non una vittoria di Pirro per una razza semidistrutta, infiacchita. «Dai confini di una battaglia non ancora accaduta ho prelevato due individui, tu e quell'invasore. Vedo nella tua mente che all'inizio della civiltà, all'insorgere dei primi nazionalismi, i duelli fra due singoli campioni per decidere della supremazia fra due popoli, non erano sconosciuti. Tu, e il tuo avversario, vi trovate qui, opposti l'uno all'altro, nudi e disarmati, in condizioni del tutto inconsuete, ugualmente sgradevoli per ambedue. Non c'è limite di tempo, poiché qui non c'è il tempo. Il sopravvissuto sarà il campione della sua razza, e quella razza sopravviverà». «Ma...» La protesta di Carson era troppo inarticolata per esprimersi in parole. La voce rispose ugualmente: «Le condizioni sono esattamente alla pari: il maggior vigore fisico dell'uno o dell'altro dei contendenti non potrà essere un fattore decisivo. C'è una barriera. Lo constaterai. L'intelligenza e il coraggio saranno più importanti della forza fisica. Soprattutto il coraggio, che è la volontà di sopravvivere». «Ma mentre noi lotteremo, qui, le flotte...» «No, voi vi trovate in un altro spazio, in un altro tempo. Finché vi troverete qui, il tempo rimarrà immobile nell'universo che conoscete. Vedo che ti stai chiedendo se questo luogo sia reale. Lo è e non lo è. Proprio come io — per la tua limitata comprensione — sono e non sono reale. La mia esistenza è mentale, non fisica. Mi hai visto come un pianeta; avrei potuto ugualmente apparirti come un granello di polvere o una stella. «Ma, per te, questo posto adesso è reale. Ciò che soffrirai qui, sarà reale. E se morirai qui, la tua morte sarà reale, e la tua sconfitta significherà la fine della tua razza. È sufficiente che tu sappia questo». La voce scomparve. Di nuovo, era solo. Ma non del tutto solo poiché, non appena Carson sollevò lo sguardo, vide che la creatura rossa, quell'orrore rosso che era, lui lo sapeva adesso, l'invasore, stava rotolando verso di lui. Rotolando. Gli parve che non avesse né braccia, né gambe, né lineamenti riconoscibili. Rotolava sulla sabbia azzurra con la rapidità di una goccia di mercurio. E proiettava davanti a sé, in qualche modo che non riusciva a capire,
un'ondata agghiacciante d'odio... nauseabondo, orrido, repulsivo. Carson si guardò intorno freneticamente. Una pietra giaceva sulla sabbia, a poco più di un metro da lui, l'oggetto più simile a un'arma. Non era grande, ma aveva i bordi acuminati, come una scheggia di selce. Una selce azzurra. L'afferrò, si rannicchiò su se stesso per affrontare il nemico. Stava arrivando in fretta, più in fretta di quanto lui potesse correre. Non c'era tempo di pensare in che modo l'avrebbe affrontato. E in ogni caso, come avrebbe potuto elaborare una tattica, contro quella creatura la cui forza, le cui caratteristiche, la cui tecnica di combattimento, lui non conosceva? Rotolava così in fretta da apparire una sfera perfetta. Dieci metri. Cinque. E poi, si arrestò. O piuttosto, qualcosa l'aveva arrestato. D'improvviso, il lato anteriore della sfera si appiattì come se fosse andato a sbattere contro un muro invisibile. Rimbalzò, sì, rimbalzò indietro. Poi, tornò a rotolare avanti, ma più lento, con più cautela. Si fermò un'altra volta, allo stesso punto. Tentò di nuovo, qualche metro più a lato. Sì, c'era una barriera, lì, di qualche tipo. Allora, qualcosa scattò nella mente di Carson. Quel pensiero proiettato in lui dall'entità che li aveva portati in quel luogo. «... il maggior fisico dell'uno o dell'altro non sarà un fattore decisivo. C'è una barriera». Un campo di forza, naturalmente. Non un campo netziano, ben noto alla scienza della Terra, poiché in tal caso la barriera avrebbe crepitato, irradiando luce. Questa invece era invisibile e silenziosa. Era un muro che correva da un lato all'altro di quell'emisfero capovolto. Carson non dovette controllare di persona: lo stava facendo il Rotolante al suo posto. Stava infatti procedendo via via lungo la barriera, cercando in essa un'interruzione che non c'era. Carson fece una mezza dozzina di passi in avanti, saggiando davanti a sé con la mano sinistra protesa. E infine toccò la barriera: sembrava liscia, cedevole, come un foglio di gomma più che una lastra di vetro. Calda al tocco, ma non più della sabbia sotto i piedi. Ed era completamente invisibile, perfino da vicino. Carson lasciò cadere la pietra, appoggiò entrambe le mani contro la barriera, e spinse. La barriera parve cedere, soltanto un po'. Ma si rifiutò di cedere oltre, anche quando la spinse con tutto il suo peso. Gli diede la sensazione di un foglio di gomma sorretto da una lastra d'acciaio: una limitata elasticità, e poi una robustezza invincibile.
Carson si alzò in punta di piedi, arrivando più in alto che poté. La barriera continuava anche lassù. Vide il Rotolante tornare indietro, dopo aver raggiunto l'estremità dell'arena. La sensazione di nausea investì nuovamente Carson, il quale balzò indietro, istintivamente, quando il nemico gli passò davanti, senza fermarsi. Ma la barriera, si arrestava forse al livello del suolo? Carson s'inginocchiò e scavò nella sabbia. Era cedevole, leggera, facile da scavare. Ma, mezzo metro più sotto, la barriera continuava ininterrotta. Il Rotolante stava tornando di nuovo indietro. Ovviamente, non era riuscito a trovare nessun varco nella barriera, né a destra, né a sinistra. Eppure, doveva esserci un modo per passare, pensò Carson. Qualche modo per ingaggiare un corpo a corpo. Altrimenti, in che modo avrebbero potuto combattere? Ma adesso non c'era fretta di scoprirlo. C'erano altre cose a cui pensare, prima. Il Rotolante era tornato indietro e si era fermato sull'altro lato della barriera, proprio davanti a lui, sì e no a un metro e mezzo di distanza. Pareva che lo stesse studiando anche se, per quanto ci provasse, Carson non riuscì a distinguere alcuna traccia di organi sensori, sulla superficie esterna della creatura. Niente che assomigliasse a occhi, orecchie, o anche soltanto a una bocca. C'erano, tuttavia — ora se ne accorse — una serie di solchi, circa una dozzina, e all'improvviso vide due tentacoli sporgersi fuori dai solchi e sprofondare nella sabbia, come per saggiarne la consistenza. Tentacoli di circa tre centimetri di diametro, e lunghi mezzo metro. Erano retrattili, e quando non venivano usati, erano tenuti dentro i solchi. Quando la creatura rotolava, restavano dentro, per cui sembravano non aver niente a che fare col suo sistema di locomozione. Questo, da ciò che Carson poteva giudicare, doveva dipendere da qualche spostamento — come, era impossibile anche soltanto immaginarlo — del suo centro di gravità. Carson rabbrividì, fissando la creatura. Era aliena, completamente aliena, orribilmente diversa da tutto ciò che viveva sulla Terra, e anche dalle altre forme di vita trovate sugli altri pianeti del sistema solare. E in qualche modo, istintivamente, Carson sapeva che la sua mente era aliena almeno quanto il corpo. Ma doveva tentare. Se il Rotolante non aveva alcun potere telepatico, il tentativo era destinato a fallire... eppure Carson pensava che la creatura l'avesse. Pochi minuti prima aveva proiettato qualcosa che non era fisico, quando si era diretta per la prima volta verso di lui. Un'ondata d'odio quasi
tangibile. Se era in grado di proiettare ciò, forse poteva leggergli altrettanto bene la mente, o quanto meno, quanto bastava per il suo scopo. Ostentatamente, Carson raccolse la pietra che era stata la sua unica arma, poi la fece cadere al suolo con gesto di rinuncia, e sollevò le mani vuote, i palmi all'insù, davanti all'alieno. Parlò ad alta voce, sapendo che, se anche le parole da lui pronunciate sarebbero state prive di significato per la creatura che lo fronteggiava, il fatto stesso di pronunciarle avrebbe messo a fuoco nel modo migliore i suoi pensieri. «Perché non può esserci pace tra noi?» disse, e la sua voce risuonò strana in quel profondo silenzio. «L'Entità che ci ha portato qui ci ha detto ciò che accadrà, se le nostre razze combatteranno — l'estinzione dell'una e la regressione alla barbarie dell'altra. L'esito della battaglia, ha detto l'Entità, dipende da ciò che faremo qui. Perché non possiamo accordarci per una pace durevole, la tua razza nella tua galassia, e noi nella nostra?» Carson vuotò la sua mente d'ogni altro pensiero, aspettando la risposta. Giunse, e lo fece barcollare all'indietro. Si ritrasse di parecchi metri, colmo di orrore, davanti alla profondità e all'intensità dell'odio e della bramosia di uccidere che fiammeggiavano nelle rosse immagini proiettate contro di lui. Non come parole articolate — come gli erano giunti i pensieri dell'Entità — ma come ondate successive d'una raccapricciante emozione. Per un attimo, che gli parve un'eternità, dovette lottare contro l'impatto mentale di quell'odio, per liberare da esso la sua mente e cacciar via i pensieri alieni che l'avevano invasa, insozzandola. Aveva voglia di vomitare. Lentamente, la sua mente tornò a schiarirsi, allo stesso modo in cui un uomo, svegliatosi da un incubo, spazza via dal cervello il rigurgito di paura che l'ha invaso. Era ancora in preda all'affanno, e si sentiva debole, ma riusciva a pensare. Fissò il Rotolante. Era rimasto immobile, durante il breve, violentissimo scontro mentale. Ora ruotò di un metro o poco più su un lato, avvicinandosi al più vicino cespuglio azzurro. Tre tentacoli schizzarono fuori dai solchi e cominciarono ad esplorare il cespuglio. «D'accordo», disse Carson, «sarà la guerra, allora». Esibì un sorriso forzato. «Se ho ben capito la tua risposta, la pace non è proprio di tuo gusto». E, poiché dopotutto era giovane, non seppe resistere all'impulso di esclamare, in tono melodrammatico: «Fino alla morte!»
Ma la sua frase, in quel profondo silenzio, suonò assai sciocca, alle sue stesse orecchie. Si rese conto che quel duello era fino alla morte. Non soltanto la sua morte o quella della creatura rossa e sferica, che nella sua mente aveva battezzato «Rotolante», ma la morte dell'intera razza dell'uno o dell'altro di loro. La fine della razza umana, se fosse stato lui a fallire. Ciò lo rese all'improvviso molto umile e quasi timoroso di pensarci. Più che di pensarci, di saperlo. In qualche modo fu certo, e non per pura e cieca fede, che l'Entità che aveva organizzato quel duello aveva detto la verità sui suoi scopi e sui suoi poteri. Non aveva affatto scherzato. Il futuro dell'umanità dipendeva da lui. Era tremendo rendersi conto di questo, e scacciò via subito dalla mente questo pensiero. Ora doveva concentrarsi sui problemi immediati. Doveva ben esserci un modo per attraversare quella barriera, o di uccidere attraverso essa. Mentalmente? Sperò che questo non fosse l'unico modo, poiché il Rotolante possedeva, ovviamente, poteri telepatici assai più forti di quelli appena abbozzati di un essere umano... Oppure no? Ma era forse riuscito, lui, a respingere dalla sua mente i pensieri del Rotolante? Sarebbe stato capace, l'alieno, di respingere i suoi? Se anche la sua capacità di proiettare era più forte, non era possibile che il suo meccanismo ricettivo fosse più vulnerabile? Lo fissò, e si sforzò di focalizzare tutti i suoi pensieri su di lui. «Muori», pensò. «Stai per morire, stai morendo, sei...». Tentò molte variazioni sul tema, le più diverse e tremende immagini mentali. Il sudore gl'imperlò la fronte, e ben presto si accorse che stava tremando per l'intensità dei suoi sforzi. Ma il Rotolante continuò ad esplorare il cespuglio, del tutto impassibile, come se Carson gli stesse recitando la tavola pitagorica. Dunque, quel sistema non funzionava. Si sentiva sempre più debole, a causa del caldo opprimente e dei suoi strenui sforzi di concentrarsi. Si sedette sulla sabbia azzurra per riposarsi, e dedicò tutta la sua attenzione a studiare il Rotolante. Forse, continuando a studiarlo da vicino, avrebbe potuto valutare la sua forza fisica e individuare i suoi punti deboli... imparare cose preziose in previsione del momento in cui si sarebbe scatenato il corpo a corpo. Il Rotolante stava spezzando dei ramoscelli. Carson l'osservò attento, cercando di stimare la fatica che gli costava farlo. Più tardi, pensò, a sua volta avrebbe cercato un cespuglio come quello, sul suo lato dell'emisfero,
e avrebbe spezzato dei ramoscelli di uguale spessore, acquisendo, così, un termine di confronto tra la forza delle sue braccia e quella dei tentacoli dell'alieno. I ramoscelli si rompevano con difficoltà; vide che il Rotolante doveva lottare con ognuno di essi. Notò che ogni tentacolo si biforcava all'estremità in due dita, ognuna con sulla punta un'unghia, o meglio un artiglio. Ma quegli artigli non sembravano particolarmente lunghi e pericolosi. Non più, comunque, delle sue unghie, se le avesse fatte crescere un po'. No, nell'insieme non gli parve che il Rotolante fosse un avversario troppo temibile, nel caso di un corpo a corpo. A meno che, naturalmente, quei cespugli non fossero fatti di un materiale troppo duro. Carson si guardò intorno e, sì, proprio alla sua portata c'era un cespuglio esattamente dello stesso tipo. Allungò una mano e spezzò un ramoscello. Era fragile, facile da spezzare. Naturalmente, il Rotolante poteva aver finto d'incontrare difficoltà, ma lui non lo credeva. D'altro canto, in quali punti era vulnerabile? Come avrebbe potuto ucciderlo, se gli si fosse presentata l'occasione? Tornò a voltarsi verso il Rotolante e a studiarlo. La pelle, o almeno lo strato più esterno, pareva assai coriacea. Avrebbe avuto bisogno di un'arma acuminata. Raccolse un'altra volta la pietra appuntita. Era lunga all'incirca trenta centimetri, sottile, e la punta a un'estremità era abbastanza aguzza. Se si scheggiava come la selce, avrebbe potuto renderla ancora più tagliente. Il Rotolante stava continuando la sua esplorazione. Rotolò fino al cespuglio successivo, alquanto diverso dal primo. Una piccola lucertola azzurra, con tante zampe, come quella che Carson aveva visto prima, sul proprio territorio, sfrecciò da sotto il cespuglio. Un tentacolo del Rotolante schizzò fuori e l'afferrò, sollevandola. Un secondo tentacolo sferzante si aggiunse al primo e cominciò a strappare le zampe della lucertola, con la stessa gelida efficienza con cui, fino a un attimo prima, aveva strappato le foglie al cespuglio. La lucertola lottò freneticamente, lanciando uno strillo acuto, il primo suono che Carson avesse udito, oltre alla propria voce. Carson rabbrividì a quella scena, e avrebbe voluto distogliere lo sguardo. Ma si costrinse a guardare: qualunque cosa avesse potuto apprendere sul suo avversario avrebbe potuto dimostrarsi preziosa. Perfino sapere quanto fosse inutilmente crudele. Soprattutto, pensò, mentre un'improvvisa, frenetica ondata di rabbia saliva in lui, quella sua inutile, disgustosa crudeltà. Ciò, se non altro, gli avrebbe reso piacevole uccidere quella creatura, se e
quando l'occasione gli si fosse presentata. Proprio per questo motivo resistette al disgusto e seguì fino in fondo lo smembramento della lucertola. E fu contento, quando con le zampe per metà strappate, la lucertola smise di squittire e di dimenarsi e giacque, floscia e morta, nella stretta del Rotolante. L'alieno ovviamente non si divertiva più e non strappò le zampe rimaste. Con disprezzo scagliò lontano da sé la lucertola morta, in direzione di Carson. L'animaletto descrisse un arco fra loro e atterrò ai suoi piedi. Aveva attraversato la barriera! La barriera non si trovava più là! Carson balzò fulmineo in piedi, la pietra acuminata stretta in mano, e si scagliò in avanti. Avrebbe sistemato lafaccenda lì, e subito! Con la scomparsa della barriera... Ma non era scomparsa. Lo scoprì nel modo più sgradevole, battendoci contro la testa, e la violenta botta quasi gli fece perdere i sensi. Rimbalzò indietro e cadde. Quando si rialzò, scrollando la testa per schiarirsela, colse con lo sguardo qualcosa che arrivava volando verso di lui, e per schivarlo si gettò lungo disteso sulla sabbia, appiattendosi. Malgrado la sua fulminea reazione, avvertì ugualmente un improvviso, acuto dolore al polpaccio sinistro. Rotolò all'indietro, ignorando il dolore, e si rialzò. Ora vide che era stata una pietra a colpirlo. E vide anche il rotolante che ne stava raccogliendo un'altra, bilanciandola all'indietro fra due tentacoli, pronto a scagliarla di nuovo. Anche questa pietra volò nell'aria verso di lui, ma stavolta fece in tempo a scansarla. A quanto pareva, il Rotolante poteva lanciare diritto, ma senza molta forza e non molto lontano. La prima pietra l'aveva colpito soltanto perché lui era seduto e non l'aveva vista fino a quando ormai gli era quasi addosso. E nel medesimo istante in cui balzava di lato per schivar il secondo proiettile, Carson portò indietro il braccio destro e scagliò a sua volta la pietra che ancora stringeva in mano. Se una pietra, pensò con improvvisa esultanza poteva attraversare la barriera, allora il gioco di scagliar pietre può esser fatto in due. E il robusto braccio destro d'un terrestre... Non poteva certo mancare una sfera d'un metro di diametro a soli quattro metri di distanza... e non la mancò. La pietra schizzò verso il bersaglio a una velocità molto superiore a quella dei proiettili scagliati dal Rotolante, e lo centrò in pieno, ma sfortunatamente lo colpì di piatto e non di punta. Comunque, lo colpì con un tonfo sordo, e gli fece, chiaramente, molto
male. Il Rotolante aveva afferrato un'altra pietra per scagliarla, ma cambiò idea e se ne andò. Quando Carson riuscì a trovare un'altra pietra per lanciarla, il Rotolante era già a quaranta metri dalla barriera e se la filava in fretta. Il secondo lancio di Carson mancò il bersaglio di oltre un metro, e il terzo lancio fu corto. Il Rotolante era fuori tiro... o quanto meno, fuori tiro per un proiettile abbastanza massiccio da nuocergli. Carson sogghignò. Aveva vinto il primo round. Ma... Smise subito di sogghignare quando si chinò a esaminare il polpaccio ferito. L'orlo tagliente della pietra aveva lasciato un taglio profondo, lungo parecchi centimetri. Sanguinava abbondantemente, ma Carson non pensò che fosse arrivato tanto in profondità da troncargli un'arteria. Se avesse smesso di sanguinare da solo, bene. Altrimenti si sarebbe trovato nei guai. C'era comunque una cosa da scoprire, che aveva la precedenza su quel taglio: la natura della barriera. Carson avanzò di nuovo, questa volta con le mani protese; trovò la barriera, poi, tenendo una mano appoggiata contro di essa, vi scagliò contro un pugno di sabbia raccolto con l'altra mano. La sabbia passò. La sua mano, no. Materia organica contro materia inorganica? No, perché la lucertola morta era passata, e una lucertola, viva o morta, era senz'altro materia organica. E la vita vegetale? Carson spezzò un ramoscello e lo spinse contro la barriera. Il ramoscello passò, senza incontrare resistenza, ma quando le dita che stringevano il ramoscello giunsero alla barriera, furono arrestate. Lui non poteva attraversarla, né poteva farlo il Rotolante. Ma pietre, sabbia e lucertola morta... E una lucertola viva? Si mise in caccia fra i cespugli, fino a quando ne trovò una e la catturò. La gettò con delicatezza contro la barriera: l'animale rimbalzò indietrp e corse via, attraverso la sabbia azzurra. Ciò gli dava, quanto meno, una risposta. La barriera impediva il passaggio alle creature vive. Le creature morte e la materia inorganica, invece, la superavano senza difficoltà. Appurato questo, Carson tornò a occuparsi della ferita alla gamba. Sanguinava assai meno, e ciò significava che non doveva preoccuparsi di mettersi un laccio emostatico. Ma avrebbe dovuto trovare un po' d'acqua, sempre che ce ne fosse di disponibile, per lavare la ferita. Acqua! A questo pensiero, si accorse di essere tremendamente assetato. Doveva trovare l'acqua, nel caso in cui quel duello si fosse prolungato
troppo. Zoppicando leggermente, s'incamminò per compiere il giro completo della sua metà dell'arena. Guidandosi con una mano lungo la barriera, s'incamminò verso destra finché non arrivò alla parete curva dell'emisfero. Vista da vicino, era di un azzurro-grigio smorto, e al tatto dava la stessa sensazione della barriera centrale. Fece una prova, lanciandole contro una manciata di sabbia. La sabbia raggiunse il muro e vi scomparve attraverso. Anche il guscio emisferico era un campo di forza. Ma opaco, non trasparente come la barriera. Lo percorse tutt'intorno, fino a quando non incontrò la barriera all'altra estremità, e ripercorse quest'ultima fino al punto di partenza. Non c'era nessuna traccia di acqua. In preda a una crescente preoccupazione, iniziò una serie di zig zag avanti e indietro fra la barriera e la parete emisferica, esaminando minuziosamente tutto lo spazio intermedio. Non c'era acqua. Sabbia azzurra, cespugli azzurri e un calore intollerabile. Nient'altro. Doveva essere la sua immaginazione, si disse rabbiosamente, quel suo soffrire troppo la sete. Da quanto tempo si trovava là? Naturalmente, da nessun tempo, secondo il suo riferimento spaziotemporale. L'Entità gli aveva detto che, là fuori, il tempo restava immobile, mentre lui era nell'arena. Ma i processi fisiologici del suo organismo continuavano lo stesso, mentre lui era là dentro. E dal punto di vista di queste sue funzioni, da quanto tempo era là? Tre o quattro ore, forse. Certo, non tanto tempo da soffrire a tal punto la sete. Ma ne soffriva! Aveva la gola secca, riarsa. Probabilmente a causa dell'intenso calore. Era caldo! A occhio e croce, una cinquantina di gradi. Un calore asciutto, immobile, senza il più piccolo movimento d'aria. Si scoprì a zoppicare sempre più malamente, ed era del tutto esausto, quando finì l'inutile esplorazione del suo dominio. Occhieggiò, nell'altra metà, l'immobile Rotolante, e sperò che costui si sentisse stremato e avvilito quant'era lui. Era probabile che neppure l'alieno fosse troppo a suo agio. L'Entità non aveva detto, forse, che là dentro le condizioni erano scomode e inconsuete in modo equivalente per entrambi? Forse il Rotolante proveniva da un pianeta dov'era normale una temperatura d'una novantina di gradi. Forse adesso stava gelando, mentre lui arrostiva. Forse l'aria era troppo densa per l'alieno, mentre era troppo sottile per
lui... poiché lo sforzo di quella esplorazione lo aveva lasciato col fiato grosso. Ora si rese conto che, qui, l'atmosfera non era molto più densa di quella di Marte. Niente acqua. Ciò significava che il tempo a sua disposizione era strettamente limitato. A meno che non fosse riuscito, presto, a trovare un modo per attraversare la barriera, oppure di uccidere il nemico restando nella sua metà dell'arena, la sete non ci avrebbe messo molto a ucciderlo. Ciò gli diede una sensazione di disperata urgenza. Doveva affrettarsi. Ma si costrinse a sedersi un momento, per riposare, e pensare. Cosa c'era da fare? Niente, eppure tantissime cose. Le diverse varietà dei cespugli, ad esempio. Non parevano promettenti, ma avrebbe dovuto esaminarli, per vedere se c'erano possibilità. E la sua gamba... avrebbe dovuto far qualcosa anche per quella, anche senza acqua per pulirla. Raccogliere pietre, da usare come munizioni. Trovare, fra esse, una pietra che potesse diventare un buon coltello. Adesso la gamba gli faceva piuttosto male: decise, perciò, che doveva venire per prima. Un tipo di cespuglio aveva foglie, o comunque qualcosa che assomigliava alle foglie. Ne strappò una manciata e decise, dopo averle esaminate, di rischiare. Le usò per pulirsi via la sabbia, lo sporco e il sangue coagulato, poi fece un tampone di foglie fresche e lo legò sulla ferita servendosi dei viticci dello stesso cespuglio. I viticci si dimostrarono inaspettatamente solidi e resistenti. Erano sottili e pieghevoli, eppure non riuscì a spezzarli: dovette staccarli dal cespuglio segandoli col bordo tagliente di un pezzo di selce azzurra. Alcuni dei più grossi erano lunghi una quarantina di centimetri, e archiviò nella mente, in vista di una utilizzazione futura, il fatto che un fascio di quelli grossi, legati insieme, avrebbe formato un'ottima corda. Avrebbe certo trovato il modo di utilizzare quella corda. Poi si fabbricò un coltello. Le pietre azzurre si scheggiavano. Da un frammento lungo una quarantina di centimetri, si modellò un'arma rozza ma letale. E coi viticci del cespuglio si fece una cintura di corda nella quale infilare il coltello di pietra, per tenerlo con sé in ogni momento, ma sempre avendo le mani libere. Tornò a studiare i cespugli. Ce n'erano di tre tipi. Uno era senza foglie, secco, friabile; il secondo di legno tenero, che si sbriciolava quasi fosse marcio. All'aspetto e al tocco sembrava un'ottima esca per il fuoco. Il terzo tipo era quello più simile al legno. Aveva foglie delicate, che appassivano
al solo sfiorarle, ma gli steli, malgrado ciò, erano dritti e robusti. Faceva caldo in un modo orribile, insopportabile. Raggiunse zoppicando la barriera. La tastò, per garantirsi che fosse sempre là. C'era. Restò a osservare il Rotolante per un po'. Si teneva a distanza di sicurezza dalla barriera, fuori portata dalle pietre che lui poteva scagliare. Laggiù, nel fondo dell'arena, si stava muovendo qua e là, intento a far qualcosa. Non riuscì a capire ciò che stesse facendo. A un certo momento smise di muoversi, si avvicinò un poco alla barriera e parve concentrare la sua attenzione su di lui. Ancora una volta Carson dovette respingere un'ondata di nausea. Gli scagliò contro una pietra, e il Rotolante si ritirò, riprendendo la sua attività, qualunque cosa fosse ciò che stava facendo. Almeno, poteva costringerlo a mantenere le distanze. Gli sarebbe servito proprio tanto, pensò, amareggiato. Ma passò lo stesso un'ora, e anche quella successiva, a raccoglier pietre di dimensioni ridotte, adatte al lancio, disponendole in parecchi mucchi ordinati, accanto al suo lato della barriera. Ora la gola gli ardeva come se vi bruciasse un fuoco, e Carson faticava a pensare a qualcosa di diverso, salvo l'acqua. Ma doveva pensare ad altre cose. Ad attraversare quella barriera, sotto o sopra di essa, ad attaccare quella sfera rossa e ad ucciderla, prima che il calore e la sete uccidessero lui. La barriera si stendeva fino alla parete, su entrambi i lati, ma quanto in alto, o quanto sotto la sabbia? Per un attimo la mente di Carson fu troppo confusa per elaborare un modo per scoprire l'una o l'altra di queste cose. Oziosamente, seduto sulla sabbia scottante, e non riusciva a ricordarsi di essersi seduto, osservò una lucertola azzurra che strisciava fuori da sotto un cespuglio per rifugiarsi sotto un altro. La creatura lo guardò da sotto il secondo cespuglio. Carson le rivolse un sorriso. Forse cominciava ad essere un po' stordito, poiché ricordò all'improvviso la vecchia storia di quei coloni nel deserto di Marte, variante di una storia ancora più antica dei deserti della Terra: «Ben presto vi sentirete così soli che comincerete a parlare alle lucertole, e poi, non molto dopo, scoprirete che le lucertole vi rispondono...» Sì, certo, avrebbe dovuto concentrarsi sul modo di uccidere il Rotolante, ma invece sorrise alla lucertola, e le disse: «Ciao».
La lucertola fece alcuni passi verso di lui. «Ciao», rispose. Carson la fissò sbigottito per un attimo, poi rovesciò indietro la testa ed esplose in una risata ruggente. E ridere così non gli fece neppure male alla gola; non era poi tanto assetato. Perché no? Perché mai l'Entità che aveva elaborato quel posto allucinante non avrebbe potuto possedere il senso dell'umorismo, insieme a tutti gli altri poteri? Lucertole parlanti in grado di rispondergli nella sua lingua, se si fosse rivolto a loro... un tocco simpatico, raffinato. Sorrise alla lucertola e le disse: «Vieni qui da me». La lucertola si girò e fuggì via, correndo da un cespuglio all'altro, finché non scomparve. Tornò ad essere tormentato dalla sete. E doveva fare qualcosa. Non avrebbe certo vinto quel duello restandosene seduto lì, tutto sudato e avvilito. Doveva fare qualcosa... ma che cosa? Attraversare la barriera. Ma non poteva attraversarla, né scavalcarla con un salto. Ma era proprio certo di non poter passare sotto ad essa? E, a pensarci bene, a volte non si trovava l'acqua, scavando? Due piccioni con una fava... Tutto dolorante, Carson raggiunse zoppicando la barriera e cominciò a scavare, tirando fuori la sabbia a due manciate per volta. Era un lavoro lento e difficile, poiché la sabbia scorreva indietro dai bordi della buca, e più scendeva in profondità, più ampio doveva essere il diametro della buca. Quante ore gli ci vollero, non avrebbe saputo calcolarlo, ma a un metro e trenta di profondità raggiunse un letto di roccia. Un letto di roccia perfettamente asciutto: nessuna traccia d'acqua. E il campo di forza della barriera scendeva dritto fino a quel letto di roccia. Niente da fare. Niente acqua. Niente. Strisciò fuori dalla buca e giacque ansante. E poi, sollevò la testa e guardò dall'altra parte per vedere cosa stesse facendo il Rotolante. Certo, stava combinando qualcosa, laggiù. Infatti. Stava costruendo qualcosa col legno dei cespugli legato insieme coi viticci. Un'intelaiatura di forma strana, alta all'incirca un metro e trenta, e press'a poco quadrata. Per veder meglio, Carson salì in cima al mucchio di sabbia che aveva scavato fuori dalla buca, e restò lì, aguzzando gli occhi. C'erano due lunghe leve che sporgevano da dietro quella struttura, una con un affare a forma di tazza all'estremità. Sembrava una specie di catapulta, pensò Carson.
E infatti il Rotolante stava sollevando una pietra di considerevoli dimensioni; la depositò nella tazza. Uno dei tentacoli manovrò poi l'altra leva, poi spostò l'intera incastellatura, come per prendere la mira, e il braccio con la pietra scattò fulmineo in alto e in avanti. La pietra descrisse un arco parecchi metri sopra la testa di Carson, così lontana da lui che neppure dovette abbassare la testa per schivarla. Però, valutò la lunghezza del lancio e fischiò sommesso tra sé. Lui non sarebbe mai riuscito a lanciare una pietra di quel peso, e per quella distanza. Neppure alla metà. E anche ritirandosi in fondo al suo territorio, non si sarebbe posto fuori portata da quella macchina, se il Rotolante l'avesse avvicinata alla barriera. Un'altra pietra gli passò sopra, fischiando. Molto più vicina, questa volta. I lanci si stavano facendo pericolosi. Avrebbe fatto meglio a escogitar qualcosa per fermarli. Continuando a muoversi avanti e indietro lungo la barriera, per impedire alla catapulta di prender bene la mira, le scagliò contro una dozzina di pietre. Ma vide subito che non sarebbe servito a niente: dovevano esser pietre leggere, altrimenti non sarebbe riuscito a scagliarle. Ma allora, anche quando colpivano il bersaglio, rimbalzavano via innocue. E il Rotolante non aveva alcuna difficoltà, a quella distanza, a scansarsi tutte le volte che una pietra minacciava di centrarlo. Inoltre, il braccio di Carson cominciava a stancarsi. Tutto il corpo gli doleva per la tremenda stanchezza. Se soltanto avesse potuto riposarsi un po' senza dover schivare le pietre lanciate da quella catapulta a intervalli non più lunghi di una trentina di secondi... Tornò, barcollando, in fondo all'arena. Poi vide che anche questo non gli serviva a nulla. Le pietre arrivavano fin lì, solo che c'erano intervalli più lunghi fra i lanci, come se ci volesse più tempo per caricare il meccanismo, qualunque fosse, della catapulta. Stancamente, tornò a trascinarsi fino alla barriera. Cadde molte volte e a stento riuscì a rialzarsi per proseguire. Era, lo sapeva, ormai allo stremo. Eppure, neppure adesso osava smettere di muoversi, ostinatamente deciso a mettere fuori uso, se vi fosse mai riuscito, quella catapulta. Se si fosse addormentato, non si sarebbe svegliato mai più. Una delle pietre lanciate dalla catapulta gli diede il barlume di un'idea. Colpì uno dei mucchi di pietre che aveva eretto accanto alla barriera per usarle come munizioni, e dall'urto sprizzarono scintille. Scintille. Fuoco. L'uomo primitivo aveva fatto il fuoco provocando scin-
tille, e con alcuni di quei cespugli secchi e friabili come esca... Per sua fortuna, un cespuglio di quel tipo era proprio accanto a lui. Spezzò dei ramoscelli, li portò accanto al mucchio di pietre, poi, pazientemente, sbatté una pietra contro l'altra finché una scintilla colpì il legno sbriciolato. E subito questo s'infiammò, così in fretta che gli bruciacchiò le sopracciglia, riducendosi in cenere in pochi istanti. Ma ora aveva afferrato l'idea. Nel giro di pochi minuti aveva acceso un focherello al riparo della montagnola di sabbia che aveva eretto scavando la buca, un'ora o due prima. Il legno simile all'esca l'aveva iniziato, e ramoscelli d'altro tipo l'avevano alimentato, bruciando più lenti ma con fiamma costante. I viticci duri, simili a fil di ferro, non bruciavano subito; ciò rese più facile confezionare bombe incendiarie e lanciarle: le fece avvolgendo una piccola fascina intorno a una pietra, per darle massa, e legando il tutto con dei viticci, tenuti lunghi per far roteare il proiettile prima di lanciarlo, dandogli velocità. Ne fece una mezza dozzina prima di accendere e scagliare il primo. Cadde assai lontano, e il Rotolante iniziò una rapida ritirata, tirandosi dietro la catapulta. Ma Carson aveva pronti gli altri, e li scagliò in rapida successione. Il quarto s'incastrò nella struttura della catapulta, e fece l'effetto voluto: il Rotolante tentò disperatamente di spegnere le fiamme che si diffondevano rapide buttandoci sopra della sabbia, ma i suoi tentacoli riuscivano a raccoglierne troppo poco per volta, e i suoi sforzi furono inutili. La catapulta bruciò. Il Rotolante si allontanò dall'incendio a distanza di sicurezza, e parve concentrarsi nuovamente su Carson, che sentì un'altra volta l'ondata di quell'odio nauseante investirlo. Ma più debole: anche il Rotolante si stava indebolendo, oppure Carson stava imparando a difendersi dai suoi attacchi mentali. Gli fece uno sberleffo, poi l'obbligò a correr via, mettendosi al sicuro, scagliandogli addosso una pietra. Il Rotolante andò dritto al fondo dell'arena, e ricominciò a strappare i cespugli dal suolo. Probabilmente aveva intenzione di costruirsi un'altra catapulta. Carson controllò, per la centesima volta, che la barriera fosse ancora in funzione, poi crollò seduto per terra accanto ad essa, poiché all'improvviso si sentì troppo privo di forze per restare in piedi. Ora, la gamba ferita gli pulsava costantemente, e i morsi della sete erano sempre più violenti. Ma erano lievi fastidi al confronto della mortale stan-
chezza fisica che gli aveva afferrato tutto il corpo. E il calore. L'inferno doveva essere così, pensò. L'inferno al quale gli antichi avevano creduto. Lottò per rimanere sveglio, eppure rimanere sveglio gli pareva futile, poiché non c'era niente che potesse fare. Niente, fintantoché la barriera fosse rimasta invalicabile, e il Rotolante fuori della sua portata. Ma doveva esserci qualcosa. Cercò di ricordare cose che aveva letto in libri di archeologia sulle tecniche di combattimento impiegate nelle epoche che avevano preceduto l'impiego del metallo e della plastica. Il proiettile di pietra: quello era venuto per primo, pensò. Be', lui l'aveva già. L'unico miglioramento sarebbe stata l'aggiunta di una catapulta, come quella del suo rivale. Ma non sarebbe mai stato capace di costruire una catapulta, non certo con i pezzetti di legno a sua disposizione nei cespugli: non c'era un pezzo più lungo d'una trentina di centimetri. Sì, avrebbe potuto ideare il modo di farne una, ma il lavoro sarebbe durato giorni, e lui non avrebbe mai avuto la forza sufficiente. Giorni? Ma il Rotolante ne aveva fatta una. Erano lì da giorni? Poi ricordò che il Rotolante aveva molti tentacoli per quel genere di lavoro, e senza dubbio poteva farlo molto più in fretta di lui. E inoltre, una catapulta non avrebbe risolto la questione. Doveva trovare di meglio. Arco e frecce? No, aveva provato a tirare con l'arco, una volta, e sapeva quant'era inetto. Perfino con una moderna attrezzatura sportiva in duracciaio, fabbricata per ottenere la massima precisione. Con un arco abborracciato alla bell'e meglio, come quello che avrebbe potuto mettere insieme con ramoscelli e viticci, là, dubitava assai di poter scagliare una freccia più lontano di quanto riusciva a scagliare una pietra, e certo la mira sarebbe stata molto peggiore. Una lancia? Be', avrebbe potuto farsela. Sarebbe stata inutile come arma da lancio a distanza, ma sarebbe stata utilissima per uno scontro ravvicinato. Sempre che fosse riuscito ad avvicinarsi quanto bastava. E fabbricarne una gli avrebbe dato qualcosa da fare. L'avrebbe aiutato ad evitare che la sua mente divagasse, come già stava facendo. Adesso, doveva spesso compiere uno sforzo per concentrarsi sul perché si trovava lì, e perché doveva uccidere a tutti i costi il Rotolante. Per felice sorte si trovava accanto a uno dei mucchi di pietre. Cominciò a fare un'accurata cernita, fino a quando non ne trovò una che aveva all'incirca la forma di una punta di lancia. Con una pietra più piccola cominciò a
scheggiarla per darle la forma giusta, modellando degli uncini affilati, rivolti all'indietro, sui lati, cosicché se si fosse conficcata, non sarebbe stato possibile strapparla fuori. Un'arpione? Già, l'idea era buona, l'arpione avrebbe funzionato meglio della lancia, forse, in quella folle contesa. Una volta che fosse riuscito a piantarlo nel corpo del Rotolante, avendo solidamente legato una corda all'estremità dell'asta, avrebbe potuto tirare il Rotolante fino a contatto della barriera, e il suo coltello di pietra avrebbe completato l'opera, passando attraverso la barriera, anche se le sue mani non avrebbero potuto seguirlo... Fabbricare l'asta fu più difficile della testa di pietra affilata. Ma sezionando in due e divaricando le estremità di quattro fra i più grossi ramoscelli che trovò, infilandoli l'uno nell'altro e legando gli incastri con dei viticci sottili ma resistenti, ottenne un'asta robusta lunga circa un metro e trenta. A un'altra tacca praticata a un'estremità fissò la testa di pietra, tenendola saldamente in posizione con viticci ancor più strettamente legati. Era un'arma rozza, ma d'indubbia efficacia. E la corda: con un gran numero di quei robusti viticci si confezionò una corda lunga sette metri. Era leggera e sembrava fragile, ma Carson sapeva che avrebbe retto al suo peso, e ce n'era d'avanzo. Legò un'estremità della corda all'asta dell'arpione, e l'altra estremità al suo polso destro. Anche se avesse mancato il colpo, scagliando l'arpione sull'altro lato della barriera, avrebbe potuto tirarlo indietro. Poi, quand'ebbe stretto l'ultimo nodo e non vi fu più nulla da fare, il calore e la stanchezza e il dolore alla gamba e la sete tremenda all'improvviso furono mille volte peggiori di quant'erano mai stati prima. Cercò di alzarsi, per vedere ciò che adesso stava facendo il Rotolante, e scoprì di non riuscire a mettersi in piedi. Al terzo tentativo, riuscì soltanto a sollevarsi in ginocchio per un attimo, ricadendo poi lungo disteso. «Devo dormire», pensò. «Se si dovesse arrivare adesso alla resa dei conti, il nemico mi troverebbe impotente. Se sapesse in che condizioni mi trovo, si precipiterebbe qui subito a uccidermi. Devo a tutti i costi recuperare un po' di forza». Lentamente, tra mille fitte di dolore, strisciò lontano dalla barriera. Dieci metri, venti... Il tonfo sordo di qualcosa che era caduto sulla sabbia, sfiorandolo, lo risvegliò da un sogno confuso e orribile, precipitandolo in una realtà ancora più confusa e orribile. Aprì nuovamente gli occhi alla radiosità azzurra sulla sabbia azzurra.
Per quanto tempo aveva dormito? Un minuto? Un giorno? Un'altra pietra cadde, anch'essa vicinissima, schizzandolo di sabbia. Portò le braccia sotto di sé e, spingendosi, si rizzò a sedere. Si girò e vide il Rotolante a una ventina di metri di distanza, alla barriera. Quando lo vide muoversi, l'alieno rotolò via in fretta, senza più fermarsi, finché non fu il più lontano possibile. Carson si rese conto di esser piombato nel sonno troppo presto, quand'era ancora alla portata dei lanci del Rotolante. L'alieno, vedendolo disteso immobile, aveva osato avvicinarsi fino alla barriera, per scagliargli addosso delle pietre. Per fortuna, l'alieno non si era reso conto di quanto lui fosse debole altrimenti, invece di fuggir via, sarebbe rimasto li a tempestarlo di colpi. Aveva dormito a lungo? Si chiese Carson. Probabilmente no, poiché si sentiva stremato e dolorante come prima. Per niente riposato, ma neppure più assetato. Probabilmente era rimasto lì disteso soltanto pochi minuti. Ricominciò a strisciare, e questa volta si sforzò di arrivare alla maggior distanza possibile, quando la parete opaca e smorta del guscio esterno dell'arena fu soltanto a un metro da lui. Poi, ripiombò nell'incoscienza... Quando si svegliò, niente intorno a lui era cambiato, ma questa volta seppe di aver dormito a lungo. La prima cosa della quale divenne conscio fu l'interno della sua bocca, secco, incrostato. La lingua gli si era gonfiata. Sapeva che c'era qualcosa di sbagliato, mentre ritornava a una relativa lucidità. Si sentiva meno stanco, lo stadio dell'esaurimento totale era passato. Il sonno vi aveva posto rimedio. Ma sentiva dolore, un dolore tormentoso. E soltanto quando tentò di muoversi, seppe che proveniva dalla sua gamba. Sollevò la testa e la guardò. Si era terribilmente gonfiata sotto il ginocchio, e il gonfiore era risalito fino a metà coscia. I viticci che aveva usato per legarci sopra il tampone protettivo di foglie ora gli segavano profondamente la carne gonfia. Spingere il suo coltello sotto il legaccio infossato sarebbe stato impossibile. Per fortuna, l'ultimo nodo si trovava appena sopra lo stinco, sul davanti, dove il viticcio segava la carne meno che altrove. Riuscì, con uno sforzo angoscioso, a disfare il nodo. Un'occhiata sotto il tampone di foglie gli rivelò il peggio. Infezione e avvelenamento del sangue, entrambi assai sgradevoli e in via di peggiora-
mento. E senza medicinali, senza garze sterili, soprattutto senz'acqua, non c'era proprio niente che potesse fare. Niente del tutto, se non morire, quando il veleno si fosse diffuso nel suo sistema circolatorio. Allora, seppe che la situazione era senza speranza, e aveva perduto. E con lui, l'umanità. Quando lui fosse morto qua dentro, là fuori, nell'universo che conosceva, tutti i suoi amici, l'intera sua razza, sarebbero morti anch'essi. E la Terra, i pianeti colonizzati, sarebbero divenuti la dimora dei rossi, sferici alieni, gli invasori. Creature uscite da un incubo, prive di sentimenti, che facevano a pezzi le lucertole soltanto per divertirsi. Fu quel pensiero che gli diede il coraggio di mettersi a strisciare, senza veder quasi nulla per la sofferenza, verso la barriera, una volta ancora. Non avanzando sulle ginocchia, ma tirandosi avanti con i gomiti e le mani. C'era una probabilità su un milione che, quando fosse giunto là, gli rimanesse ancora un po' di forza per scagliare l'arpione una sola volta, e con effetto mortale, se — un'altra probabilità su un milione — il Rotolante si fosse avvicinato alla barriera. O se la barriera era scomparsa. Gli sembrò d'impiegare anni per arrivare fin là. La barriera non era scomparsa. Era insuperabile proprio come la prima volta che l'aveva toccata. Il Rotolante non era alla barriera. Sollevandosi sui gomiti, Carson poté vederlo laggiù, in fondo all'arena, al lavoro su un'intelaiatura di legno che, sebbene completata a metà, appariva la copia esatta della catapulta che lui aveva distrutto. Il Rotolante pareva muoversi anch'esso lentamente. Ovviamente, doveva anche lui essersi indebolito. Ma Carson pensò che ben difficilmente avrebbe avuto bisogno di quella seconda catapulta. Lui sarebbe morto assai prima, pensò, che il Rotolante l'avesse finita. Se fosse riuscito ad attirarlo fino alla barriera adesso, mentre era ancora vivo... Agitò un braccio e cercò di gridare, ma la sua gola riarsa non riuscì a produrre alcun suono. Oppure, se fosse riuscito ad attraversare la barriera... Doveva aver perso per un attimo il lume della ragione, poiché si trovò a picchiare coi pugni contro la barriera, in un futile eccesso di rabbia. Si costrinse, con uno sforzo, a smettere. Chiuse gli occhi e cercò di calmarsi. «Ehi», disse una voce.
Era una voce piccola, sottile. Sembrava... Aprì gli occhi e girò la testa. Era la lucertola. «Vattene», avrebbe voluto dire Carson. «Vattene, tu non sei lì; o, se ci sei, non hai parlato. Sto di nuovo immaginandomi le cose». Ma non riuscì a parlare; la sua gola e la sua lingua erano oltre la capacità di spiccar parola, aride e brucianti. Tornò a chiudere gli occhi. «Ferita», disse la piccola voce. «Uccidi. Ferita... uccidi. Vieni». Aprì di nuovo gli occhi. La lucertola azzurra con dieci zampe era ancora lì. Corse avanti lungo la barriera, tornò indietro, corse ancora avanti, e tornò indietro. «Ferita», disse. «Uccidi. Vieni». Ripartì un'altra volta di corsa, e tornò indietro. Voleva, era ovvio, che Carson la seguisse lungo la barriera. Carson chiuse un'altra volta gli occhi. La voce continuò. Le stesse tre parole prive di senso. Tutte le volte che Carson apriva gli occhi, la lucertola correva avanti e tornava indietro. «Ferita. Uccidi. Vieni». Carson grugnì. Non gli avrebbe dato requie, a meno che non seguisse quel dannato animale. Questo, voleva la lucertola. La segui, strisciando. Un altro suono, un acuto squittio, gli giunse alle orecchie e divenne più forte. Qualcosa giaceva nella sabbia. Si contorceva e squittiva. Qualcosa di piccolo, azzurro, che sembrava una lucertola eppure non... Poi, vide cos'era... la lucertola le cui zampe il Rotolante aveva strappato molto tempo prima. Ma non era morta, aveva ripreso i sensi e si dibatteva e urlava nell'agonia. «Ferita», disse l'altra lucertola. «Ferita. Uccidi. Uccidi». Carson capì. Sfilò il coltello di pietra dalla cintura e uccise la creatura torturata. La lucertola viva schizzò via e scomparve. Carson tornò a voltarsi verso la barriera. Vi appoggiò le mani e la testa e guardò il Rotolante che, laggiù, lontano, stava lavorando alla nuova catapulta. «Se potessi arrivare fin laggiù...» sospirò. «Se soltanto riuscissi a passare! Potrei ancora vincere, se riuscissi a passare. Anche il Rotolante sembra debole. Potrei...» E poi fu travolto da un'altra ondata di nera disperazione, quando il dolore parve spezzare la sua volontà e fargli desiderare d'esser già morto. Invidiò la lucertola che aveva appena ammazzato. Non avrebbe più continuato
a vivere, a soffrire. Mentre lui... Ci sarebbero volute ore, forse giorni, prima che l'avvelenamento del sangue lo uccidesse. Se soltanto avesse trovato il coraggio di usare quel coltello su di sé... Ma sapeva che non l'avrebbe fatto. Fintanto che fosse rimasto in vita, c'era sempre quella possibilità su un milione... Si era puntato contro la barriera coi palmi delle mani, e vide com'erano ridotte le sue braccia, d'una spaventosa magrezza. Doveva trovarsi lì da molto tempo, ormai, perché le sue braccia si fossero ridotte così scarne e sottili. Quanto tempo, ancora, prima di morire. La sua carne, quanto calore, quanta sete, quanto dolore avrebbe potuto sopportare ancora? Per un po', fu in preda a una frenesia isterica, poi, tornò in lui la calma, e con essa un pensiero stupefacente. La lucertola che aveva appena ucciso. Aveva attraversato la barriera, ancora viva. Era giunta fin lì dal lato dell'alieno; il Rotolante le aveva strappato le zampe, poi l'aveva scagliata contro di lui, in un gesto di disprezzo, e la lucertola aveva superato la barriera. Perché era morta, lui aveva pensato. Ma non era morta. Era soltanto priva di sensi. Una lucertola viva non poteva attraversare la barriera, ma una lucertola priva di sensi poteva farlo. Quella, allora, non era una barriera per la carne vivente, ma soltanto per la carne cosciente. Era una proiezione mentale, un ostacolo mentale. Con questo pensiero in testa, Carson cominciò a strisciare lungo la barriera per compiere il suo ultimo, disperato tentativo. Una speranza così remota, che soltanto un uomo morente poteva osare di credervi. Non serviva valutare le probabilità di successo. Non quando, se non avesse tentato, quelle probabilità sarebbero precipitate a zero. Strisciò lungo la barriera fino al mucchio di sabbia, alto poco più d'un metro, che aveva scavato fuori nel tentativo — quanti giorni prima? — di trovare un passaggio sotto la barriera o di raggiungere l'acqua. Il mucchio era proprio accanto alla barriera; anzi la sabbia, assestandosi, l'aveva allargato alquanto alla base, così il pendio, su un lato, si trovava in parte al di là di essa. Presa una pietra dal mucchio più vicino, Carson salì in cima al cumulo di sabbia, scese sull'altro Iato e si lasciò andare contro la barriera, con tutto il suo peso appoggiato su di essa, cosicché, se la barriera all'improvviso fosse scomparsa, sarebbe rotolato giù fin dentro al territorio nemico. Si ac-
certò che il coltello fosse al suo posto, infilato nella cintura, e l'arpione nel cavo del suo braccio sinistro, la corda lunga sette metri legata ben salda al polso. Poi, con la destra, sollevò la pietra con cui si sarebbe colpito alla tempia. Doveva essere un colpo fortunato: forte abbastanza da stordirlo, ma non troppo forte, per non stordirlo troppo a lungo. Ebbe la sensazione che il Rotolante lo stesse osservando e che, vistolo precipitar giù attraverso la barriera, sarebbe venuto a indagare. Sperò che l'avrebbe creduto morto... che giungesse alla sua stessa, iniziale deduzione sulla natura della barriera. Ma sarebbe venuto avanti cautamente. Carson si augurò che ciò gli avrebbe dato il tempo di... Si colpì. Il dolore gli fece riprender conoscenza. Un improvviso, acuto dolore all'anca, ben diverso dal sordo pulsare della testa e dall'altro pulsare, ugualmente sordo, alla gamba. Ma, prima di colpirsi, Carson aveva previsto quel dolore, si era caldamente augurato che ci fosse, e si era preparato a non reagire, svegliandosi, con un moto improvviso. Giacque immobile, ma socchiuse cautamente gli occhi, e vide che la sua previsione era stata giusta: il Rotolante si stava avvicinando. Era a soli seisette metri di distanza, e il dolore che l'aveva destato era la pietra che l'alieno gli aveva scagliato addosso, per controllare se era vivo o morto. Giacque immobile. Il Rotolante gli si avvicinò ancora di più. A cinque metri, tornò a fermarsi. Carson osava appena respirare. Cercava di tenere sgombra la sua mente il più possibile, per timore che le facoltà telepatiche dell'alieno percepissero in lui una mente viva. E col cervello svuotato, l'impatto dei pensieri dell'altro quasi gli infranse l'anima. Provò un puro orrore alla totale estraneità, alla diversità assoluta di quei pensieri. Percepì cose che non capì, e che non sarebbe mai stato capace di esprimere, poiché nessuna lingua e nessuna mente terrestri possedevano parole o immagini adatte. La mente di un ragno, pensò, oppure la mente di una mantide religiosa, o di un serpente marziano delle sabbie, rese intelligenti e poste in contatto telepatico con la mente umana, sarebbero apparse, al confronto di questa, familiari, consuete, amiche. Ora capì che l'Entità aveva avuto ragione: uomo o Rotolante, l'universo non avrebbe potuto contenerli entrambi. Più distanti di Dio e il diavolo, un accordo fra loro, un equilibrio, sarebbero stati sempre impossibili. Ancora più vicino... Carson attese fino a quando l'alieno fu a un solo metro di di-
stanza, e i suoi tentacoli artigliati si allungarono... Dimentico, adesso, della lancinante sofferenza, balzò a sedere, sollevò e scagliò l'arpione con tutta la forza che ancora gli restava. O quanto meno, si convinse di aver messo in quel gesto disperato tutta la residua energia del suo corpo, poiché gli parve che una forza immensa l'avesse rianimato all'improvviso, bloccando, nel medesimo istante, ogni dolore. E il Rotolante, l'arpione profondamente conficcato nel corpo, ruzzolò via. Carson cercò di alzarsi in piedi per inseguirlo, ma non vi riuscì; cadde, ma continuò a strisciare. La corda si srotolò del tutto, poi Carson fu violentemente strappato in avanti per il polso. Il Rotolante lo trascinò per qualche metro, poi si fermò. Carson, abbrancando la corda con una mano dopo l'altra, continuò inesorabilmente ad avvicinarsi al nemico. Il Rotolante tentava disperatamente, contorcendo i tentacoli, di strapparsi dal corpo l'arpione. Vibrò e oscillò, frenetico, poi dovette rendersi conto che non sarebbe riuscito a fuggire, poiché balzò addosso a Carson con tutti gli artigli protesi. Carson impugnò il coltello di pietra e l'affrontò. Glielo piantò in corpo una volta, e un'altra, e un'altra ancora. E continuò implacabile, mentre quegli orribili artigli strappavano brandelli di pelle e di carne dal suo corpo. Lacerò, squarciò, tranciò, e alla fine il Rotolante non si mosse più. Un campanello squillava, e gli ci volle un po', quand'ebbe aperto gli occhi, per poter dire dov'era, e chi era. Era seduto al quadro dei comandi del suo ricognitore, legato con la cinghia, e la piastra video davanti a lui mostrava soltanto lo spazio vuoto. Nessuna nave aliena. Nessun pianeta impossibile. Il campanello era un segnale di chiamata; qualcuno gli stava chiedendo di staccare il ricevitore. Per puro istinto allungò la mano e fece scattare l'interruttore. Il volto di Brander, comandante della Magellano, la nave-base del suo gruppo di ricognitori, comparve sullo schermo. Era pallido, e gli occhi neri ardevano di eccitazione. «Magellano a Carson», esclamò. «Rientra. La guerra è finita. Abbiamo vinto!» La piastra video si spense; Brander stava trasmettendo agli altri ricognitori il suo ordine. Lentamente, Carson regolò i comandi per la rotta di rientro. Lentamente,
incredulo, sganciò la cinghia di sicurezza e andò a servirsi da bere al serbatoio dell'acqua ghiacciata. Per qualche motivo, aveva una sete tremenda. Ne trangugiò sei bicchieri. Si appoggiò alla paratia, cercando di metter ordine nella sua mente. Era accaduto davvero? Lui si sentiva a posto, incolume. La sua sete era stata più mentale che fisica, la sua gola non era secca. La sua gamba... Si tirò su il calzone e si guardò il polpaccio. E vide una lunga linea bianca. Una cicatrice, perfettamente rimarginata. Prima, non c'era. Si apri la chiusura-lampo sul davanti della tuta e vide che il suo petto e l'addome erano costellati da tante, minuscole cicatrici, quasi invisibili, perfettamente rimarginate. Sì, era accaduto. Il ricognitore, grazie all'automatico, si stava già infilando entro l'ampio boccaporto della nave-madre. Gli agganci magnetici lo tirarono dentro al suo hangar, e pochi istanti più tardi un cicalino indicò che l'hangar era pieno d'aria. Carson aprì il portello e uscì fuori, attraverso la camera d'equilibrio, e si diresse subito all'ufficio di Brander, entrò e salutò. Brander aveva ancora un'aria confusa e stordita. «Ciao, Carson», esclamò. «Cosa ti sei perso! Che spettacolo!» «Cos'è successo, signore?» «Non lo so, esattamente non riesco a spiegarmelo. Abbiamo sparato una salva... e tutta la loro flotta è finita in polvere! È stato come... come un lampo, è balzato da una nave all'altra, facendo esplodere anche quelle a cui non avevamo sparato, anche quelle che erano fuori portata! L'intera flotta aliena si è disintegrata davanti ai nostri occhi, e noi... nessuna delle nostre navi ha subito il minimo danno, neanche una graffiatura alla vernice! «E non possiamo neppure accreditarcene il merito. Dev'essere stata qualche instabilità nella struttura del metallo che usavano, attivata dalla nostra prima salva. Oh, amico, amico mio, è davvero un peccato che ti sia perso la festa». Carson riuscì a sorridere, anche se era soltanto il fantasma malato di un sorriso, poiché ci avrebbe messo giorni prima di riaversi dal trauma mentale della sua esperienza, ma il comandante non lo stava guardando e non lo notò. «Sì, signore», disse. Il buonsenso, ben più che la modestia, gli stava dicendo che sarebbe stato bollato per sempre come il peggior bugiardo dello spazio, se avesse detto anche una sola parola di più. «Sì, signore, davvero
un peccato che mi sia persa la festa». La tana Huddling Place di Clifford Simak Astounding, luglio Il secondo racconto della serie City che portò fama e onori a Cliff Simak, «Huddling Place» (La tana) è una magnifica storia su un grosso problema — quello di rompere col consueto, il vecchio, di cominciare qualcosa d'interamente nuovo, di abbandonare il familiare per l'ignoto. Pochi sono gli scrittori che hanno saputo infondere tanta emozione e commozione, facendo «vivere» quest'esperienza, come ha fatto Simak in una storia toccante e molto profonda. (Nel 1938 Cliff pubblicò «Rule 18» — che avrei senz'altro incluso in questa serie, se non avessimo iniziato dal 1939 — e io lo criticai aspramente in una lettera al direttore. Cliff mi scrisse — iniziando così una corrispondenza durata una vita — e mi chiese se potevo spiegargli cos'era che non andava. Io rilessi il racconto e scoprii che non c'era niente di sbagliato. Semplicemente, non l'avevo letto con sufficiente attenzione. Glielo dissi in tutta umiltà, e andai oltre. Nel rileggerlo, provai tanta ammirazione per la storia che adottai, coscientemente, lo stile di Cliff, meglio che potei, e da quel giorno mi ci tenni aggrappato. È un piacevole ricordo quel banchetto per i premi Nebula in cui Cliff era l'onorato Gran Maestro, ed io fungevo da maestro delle cerimonie. (È uno degli scrittori di fantascienza preferiti da mia moglie, Janet Jeppson, e il suo matrimonio con me non ha scosso minimamente la sua devozione per lui). I.A.) L'acquerugiola sembrava filtrar giù dal cielo plumbeo, setacciata dai rami spogli degli alberi, quasi come una nebbia. Ammorbidiva le macchie delle siepi e offuscava i contorni degli edifici, cancellando le distanze. Luccicava sulla pelle metallica dei robot silenziosi e inargentava le spalle dei tre umani che ascoltavano gli accenti dell'uomo abbigliato di nero, che leggeva da un libro sorretto nel cavo delle mani: «Poiché io sono la Resurrezione e la Vita...» La figura scolpita, addolcita da! muschio, che si ergeva sopra l'ingresso
della cripta, pareva protendersi verso l'alto, ogni cristallo del suo corpo permeato da un'invisibile vibrazione verso qualcosa che nessun altro poteva percepire. Ancora tesa, oggi, nell'identico m'odo in cui, quel lontano giorno, gli uomini l'avevano intagliata nel granito per ornare la tomba di famiglia con un simbolismo che il primo John J. Webster, negli ultimi anni della sua vita, aveva trovato assai soddisfacente. «... e chiunque viva e creda in Me...» Jerome A. Webster sentì le dita di suo figlio stringersi sul suo braccio, udì i singhiozzi soffocati di sua madre, vide le file di robot, in piedi, rigidi, a testa china, per rispetto verso il padrone che avevano servito. Il padrone che adesso andava a casa... la casa di tutti. Confusamente, Jerome A. Webster si chiese se i robot capivano — se capivano la vita e la morte — se capivano che cosa significasse il fatto che Nelson F. Webster giaceva là nella bara, mentre un uomo con un libro aperto intonava delle parole sopra di lui. Nelson F. Webster, il quarto della stirpe dei Webster che erano vissuti su quegli acri di terra, che erano vissuti e morti lì, senza quasi mai uscirne, il quale stava ora andando al suo riposo finale in quel luogo che il primo di loro aveva preparato per gli altri dopo di lui — per quella lunga linea di imprecisati discendenti che sarebbero vissuti lì e avrebbero prediletto le cose e i modi di vita che il primo John J. Webster aveva instaurato. Jerome A. Webster sentì stringersi i muscoli della sua mascella, sentì un piccolo tremito percorrergli il corpo. Per un attimo gli occhi gli bruciarono e la bara si confuse alla sua vista e le parole che l'uomo in nero stava pronunciando divennero un tutt'uno col vento che sussurrava tra gli alti pini che facevano da sentinella ai morti. Nella sua mente passò, lenta, una serie di ricordi... il ricordo di un uomo dai capelli grigi che percorreva a grandi passi le colline e i campi, inspirando la prima brezza del mattino, o ben piantato, sulle gambe robuste, davanti al fiammeggiante caminetto con un bicchiere di brandy in mano. Orgoglio — l'orgoglio della terra e della vita, e l'umiltà e la grandezza che la vita tranquilla genera in un uomo. L'appagamento dalle gioie quotidiane e la certezza di uno scopo. L'indipendenza garantita dalla sicurezza; il conforto di un ambiente familiare, la libertà delle ampie distese. Thomas Webster lo stava tirando per il gomito. «Papà», gli bisbigliava, «papà». Il servizio funebre era concluso, l'uomo in nero aveva chiuso il suo libro. Sei robot si fecero avanti e sollevarono la bara.
Lentamente, i tre umani seguirono la bara fin dentro alla cripta, e restarono lì, immobili nel silenzio, mentre i robot l'infilavano nel loculo, chiudendo poi lo sportello e affiggendovi la targa che diceva: NELSON F. WEBSTER 2034-2117 Questo era tutto. Soltanto il nome e le date. Jerome A. Webster pensò che era sufficiente. Non c'era bisogno di altro. Gli altri non avevano di più. Quelli che formavano l'albo di famiglia — cominciando con William Stevens, 1920-1999. Gramp Stevens, come l'avevano chiamato, ricordò Webster. Padre della moglie di quel primo John J. Webster, che si trovava là anche lui — 1951-2020. E dopo di lui suo figlio, Charles F. Webster, 1980-2060. E suo figlio, John J. II, 2004-2086. Webster riusciva a ricordare John J. Il — un nonno che aveva dormito accanto al fuoco con la pipa che gli penzolava dalla bocca, minacciando eternamente d'incendiargli i baffi. Gli occhi di Webster si appuntarono su un'altra lastra. Mary Webster, la madre del ragazzo lì al suo fianco. Eppure non era più un ragazzo. Continuava a dimenticare che adesso Thomas aveva vent'anni. Fra una settimana o giù di lì sarebbe partito per Marte, proprio come quando anche lui, quand'era più giovane, era andato su Marte. Tutti qui, insieme, si disse. I Webster e le loro mogli e i loro figli. Qui, insieme nella morte, com'erano vissuti insieme, addormentati nell'orgogliosa sicurezza del bronzo e del marmo, coi pini, là fuori, e la figura simbolica sopra la porta, inverdita dal tempo. I robot aspettavano, immobili, in silenzio. Il loro compito era finito. Sua madre lo guardò. «Ora sei tu il capo famiglia, figlio mio», gli ricordò. Webster tese le braccia e la strinse a sé, stretta stretta. Capo della famiglia — di quanto ne restava. Adesso erano soltanto loro tre. Sua madre e suo figlio. E suo figlio sarebbe presto partito, per Marte. Ma sarebbe tornato. Sarebbe tornato con una moglie, forse, e la famiglia avrebbe continuato. La famiglia non si sarebbe fermata a tre. La maggior parte della grande casa non sarebbe rimasta chiusa, com'era adesso. C'era stato un tempo in cui aveva echeggiato delle voci e dei rumori d'una dozzina di membri, i quali vivevano, nei loro appartamenti separati, sotto il grande, unico tetto. Sapeva che quel tempo sarebbe tornato.
Tutti e tre si voltarono e lasciarono la cripta. Presero il sentiero che conduceva alla casa, la quale incombeva come un'enorme ombra grigia in mezzo alla foschia. Un fuoco ardeva nel caminetto e un libro giaceva sulla scrivania. Jerome A. Webster allungò la mano e lo prese su. Ancora una volta ne lesse il titolo: Fisiologia marziana, con speciale riferimento al cervello, di Jerome A. Webster, M.D. Grosso, autorevole — il lavoro d'una vita. Quasi unico nel suo campo. Basato sui dati raccolti durante quei cinque anni di pestilenza su Marte — anni durante i quali aveva lavorato praticamente giorno e notte coi suoi colleghi della Commissione Medica del Comitato Mondiale; inviati per un'opera di misericordia sul vicino pianeta. Qualcuno bussò alla porta. «Entra», disse. «Il suo whisky, signore». «Grazie, Jenkins», disse Webster. «Il pastore se n'è andato, signore», disse Jenkins. «Oh, sì. Presumo che tu abbia provveduto a lui». «L'ho fatto, signore. Gli ho dato la solita tariffa, e gli ho offerto da bere. Ha rifiutato». «È stato un errore...» osservò Webster. «I preti non bevono». «Mi spiace, signore. Non lo sapevo. Mi ha chiesto di chiederle di recarsi in chiesa, qualche volta». «Eh?» «Gliel'ho detto, signore, che lei non va mai da nessuna parte». «Hai fatto bene, Jenkins», annuì Webster. «Nessuno di noi va da nessuna parte». Jenkins si avviò verso la porta, ma si fermò prima di esservi giunto, e si voltò. «Se posso dirlo, signore, quello alla cripta è stato un servizio commovente. Suo padre era un essere umano eccellente, il migliore che vi sia mai stato. I robot hanno detto che il servizio funebre era appropriato. Pieno di dignità, signore. Gli sarebbe assai piaciuto, se l'avesse saputo». «Mio padre», disse Webster, «sarebbe ancora più contento di sentirlo dire da te, Jenkins». «Grazie, signore», disse Jenkins, e uscì. Webster restò seduto col whisky, il libro e il fuoco... percepì il conforto della stanza chiusa intorno a lui, il rifugio che essa rappresentava.
Quella era la casa. Era stata la casa per i Webster sin dal giorno in cui il primo John J. era venuto lì e aveva costruito il blocco centrale dell'edificio, che poi si era esteso in ogni direzione. John J. aveva scelto quel luogo perché vi era un ruscello pieno di trote... così aveva sempre detto. Ma era qualcosa di più di questo. Doveva esserlo stato, si disse Webster. O forse, all'inizio, era stato soprattutto il ruscello delle trote. Il ruscello delle trote, gli alberi e i prati, il crinale roccioso dove la bruma risaliva ogni mattina dal fiume. Forse, il resto era venuto poi, sviluppandosi gradualmente con gli anni, anni di unione sempre più stretta coi gruppi famigliari successivi, fino a quando lo stesso terreno si era intriso di qualcosa che si avvicinava, ma non esattamente, a una tradizione. Qualcosa che rendeva ogni albero, ogni pietra, ogni metro di suolo, un albero Webster, una pietra o una zolla Webster. Tutto ne faceva parte. John J., il primo John J., era giunto qui dopo lo sfaldamento delle città, dopo che gli uomini avevano abbandonato, una volta per tutte, quei rifugi del ventesimo secolo, liberandosi dall'istinto tribale di stringersi insieme in una caverna o in una radura, contro un nemico comune o una comune paura. Un istinto che era diventato fuori moda, poiché non c'erano più paure o nemici. L'uomo si era ribellato contro l'istinto del branco che le condizioni sociali ed economiche avevano impresso su di lui in epoche tramontate. Una nuova sicurezza e una nuova autosufficienza avevano reso possibile questo distacco. La tendenza aveva avuto inizio nel ventesimo secolo, più di duecento anni prima, quando gli uomini si erano trasferiti nelle case di campagna per trovare aria pulita e spazio in cui muoversi, e una serenità di vita che l'esistenza in comune, nel senso più stretto, non aveva mai concesso. E qui, c'era il risultato finale. Una vita tranquilla. Una pace che poteva nascere soltanto dalle cose buone. Il genere di vita che gli uomini avevano desiderato per tanto tempo. Un'esistenza feudale, basata sulle vecchie case di famiglia e tanti fertili acri all'intorno, con i dispositivi nucleari che fornivano tutta l'energia necessaria, e robot al posto dei servi in carne ed ossa. Webster fissò sorridendo il caminetto e i ceppi infiammati. Quello era un anacronismo, ma bello... qualcosa che gli uomini avevano portato con sé dalle caverne. Inutile, poiché il riscaldamento nucleare era migliore... ma più piacevole. Non ci si poteva sedere e guardare i nuclei atomici, sognando ed edificando castelli tra le fiamme. Perfino la cripta là fuori, dove avevano posto suo padre quel pomeriggio. Anche quella faceva parte della famiglia. Un tutt'uno col resto della
casa. Quell'orgoglio intriso d'una vaga malinconia, la vita comoda e la pace. Ai vecchi tempi i morti venivano seppelliti in vasti terreni, tutti insieme, estranei guancia a guancia con altri estranei... Non va mai da nessuna parte. Era quello che Jenkins aveva detto al prete. Ed era giusto. Giacché, che bisogno c'era mai di andare da qualche parte? Qui c'era tutto. Semplicemente girando un disco combinatorio si poteva parlare viso a viso con chiunque si volesse, si poteva andare, con i sensi se non con il corpo, dovunque si desiderasse. Si poteva assistere a uno spettacolo teatrale o ascoltare un concerto o sfogliare una biblioteca che, in realtà, si trovava agli antipodi. Si poteva trattare qualunque affare di cui vi fosse necessità senza mai doversi alzare dalla propria sedia. Webster sorseggiò il whisky, poi si girò verso il disco combinatore accanto alla scrivania. Girò il disco a memoria, senza dover ricorrere all'agenda. Sapeva dove stava andando. La stanza si dissolse... o parve dissolversi. Era rimasta soltanto la comoda sedia su cui sedeva, parte della scrivania, parte dello stesso comunicatore, e nient'altro. Era come se fosse seduto sul pendio d'una collina coperto d'erba dorata qua e là punteggiato da alberi selvatici, contorti dal vento, un pendio che si allargava dolcemente fino a un lago annidato nella stretta degli speroni purpurei della montagna. Gli speroni, striati dalle distese azzurrastre dei pini, salivano in enormi gradoni formati da una sconvolta distesa di rocce, che si fondevano, in alto, con le cime incappucciate di neve, bluastre per la distanza, drizzandosi in un contorno frastagliato di denti di sega. Il vento soffiava aspro, tra gli alberi rannicchiati, e dava improvvise strappate all'erba alta. Gli ultimi raggi del sole infiammavano le vette lontane. Solitudine e immensità, una lunga distesa di terra feconda e viva, la calda intimità del lago, le ombre simili a lunghe lame di coltello delle lontane catene. Webster se ne stava comodamente seduto, socchiudendo gli occhi verso le vette. Una voce disse, quasi all'altezza della sua spalla: «Posso entrare?» Una voce vellutata, sibilante, interamente non umana. Ma che Webster conosceva. Annuì col capo. «Ma certo, Juwain».
Si girò un poco e vide l'elaborato piedestallo da riposo, la figura pelosa, gli occhi morbidi del marziano accovacciato sopra di esso. Altro arredamento alieno si disegnava indistinto oltre il piedestallo, arredamento di quella dimora marziana, che si riusciva a indovinare solo in parte. Il marziano agitò una mano pelosa verso la catena di montagne. «A te piace», commentò. «Tu puoi capirlo. E io posso capire che tu puoi capirlo, ma per me c'è più terrore che bellezza. È qualcosa che non potremo mai avere su Marte». Webster tese una mano, ma il marziano lo fermò. «Lascialo acceso», disse. «So perché sei venuto qui. Non sarei venuto in un momento come questo, se non avessi pensato che un vecchio amico...» «È gentile da parte tua», disse Webster. «Sono contento che tu sia venuto». «Tuo padre», annuì Juwain, «era un grand'uomo. Ricordo come tu mi parlavi di lui, durante gli anni che hai passato su Marte. Allora, dicevi che un giorno saresti tornato. Perché non l'hai fatto?» «È che...» cominciò Webster, «io non ho mai...» «Non dirmelo», l'interruppe il marziano. «Lo so già». «Mio figlio» disse Webster, «verrà su Marte fra pochi giorni. Gli dirò di farti visita». «Sarebbe un pia'cere», replicò Juwain. «Lo aspetterò». Si mosse incerto sul piedestallo da riposo. «Sta forse continuando la tradizione?» «No», disse Webster. «Studia ingegneria. Non si è mai interessato alla medicina». «Ha il diritto di seguire la via che ha scelto», osservò il marziano. «Tuttavia, a noi era pur sempre concesso sperarlo». «Sì, la speranza è lecita», ammise Webster, «ma ormai la cosa è fatta e conclusa. Forse diverrà un grande ingegnere. Strutture spaziali. Parla sempre di navi dirette alle stelle». «Forse», suggerì Juwain, «la tua famiglia ha già fatto abbastanza per la scienza medica. Tu e tuo padre...» «E suo padre prima di lui», aggiunse Webster. «Il tuo libro», dichiarò Juwain, «ha fatto sì che Marte sia in debito verso di te. Potrà invitare molti più medici a specializzarsi in anatomia e fisiologia marziana. La mia gente non ha, per natura, la capacità di produrre buoni medici. Mancano completamente di basi. Strano come si comporta la mente di specie diverse. Strano che Marte non abbia mai rivolto attenzione
alla medicina — letteralmente, non ci ha mai pensato. Ha affrontato il problema con un completo fatalismo. Mentre voi, perfino ai primordi della vostra storia, quando gli uomini vivevano ancora nelle caverne...» «Ma ci sono molte altre cose», replicò Webster, «alle quali voi avete pensato e noi no. Cose che, adesso, ci chiediamo come mai ci fossero sfuggite. Capacità che voi avete sviluppato e noi non avevamo. Prendi la tua specialità, la filosofia. Così diversa dalla nostra. Una vera scienza, mentre la nostra filosofia non è mai stata più di un confuso brancolare. Il vostro, un logico, ordinato sviluppo di una filosofia pratica, fattibile, applicabile, un vero e proprio strumento». Juwain fece per replicare, esitò, poi proseguì: «Sono vicino a qualcosa... qualcosa che potrebbe esser nuovo e sorprendente. Qualcosa che potrebbe essere uno strumento per voi umani, come pure per noi marziani. Ci ho lavorato sopra per anni, partendo da certi concetti mentali che per la prima volta mi sono stati suggeriti dall'arrivo dei terrestri. Non ho detto niente, finora, poiché non ne ero sicuro...» «E adesso», suggerì Webster, «ne sei sicuro». «Non proprio», disse Juwain, «ma quasi». Sedettero in silenzio, contemplando le montagne e il lago. Un uccello volò fin lì, si posò su uno di quegli alberi contorti, e cominciò a cantare. Nuvole oscure si ammassarono dietro la catena montagnosa e le vette incappucciate di neve spiccarono come immense statue scolpite. Il sole sprofondò in un lago scarlatto, riducendosi a un fuoco che si stava spegnendo. Qualcuno bussò, e Webster si agitò sulla poltroncina, riportato bruscamente alla realtà dello studio, di ciò che concretamente lo circondava. Juwain se n'era andato. Il vecchio filosofo era venuto ed era rimasto in contemplazione per un'ora col suo amico, poi era scivolato via in silenzio. Di nuovo, qualcuno bussò. Webster si sporse, fece scattare la levetta e le montagne svanirono. La stanza ridivenne una stanza. L'imbrunire filtrava attraverso le alte finestre, e il fuoco era un rosso tremolio fra le ceneri. «Entra», disse Webster. Jenkins aprì la porta. «La cena è servita, signore», annunciò. «Grazie», rispose Webster. Si alzò in silenzio. «Il suo posto, signore», disse Jenkins, «è pronto a capotavola». «Ah, sì», annuì Webster. «Grazie, Jenkins. Tante grazie per avermelo ricordato».
Webster era in piedi, sull'ampia rampa dello spazioporto, intento a seguire con lo sguardo la forma che rimpiccioliva nel cielo, coi minuscoli punti rossi guizzanti nella gelida luminosità dell'aria invernale. Rimase lì per molti minuti, anche dopo che la forma fu scomparsa, con le mani che stringevano la ringhiera davanti a lui, gli occhi ancora sollevati verso il cielo. Le sue labbra si mossero, e articolò: «Arrivederci, figlio». Ma non vi fu alcun suono. Lentamente, ridivenne consapevole di ciò che lo circondava. Seppe che la gente si muoveva intorno alla rampa, vide che il campo d'atterraggio sembrava prolungarsi all'infinito fino al lontano orizzonte, punteggiato qua e là da oggetti gibbosi che erano astronavi in attesa. Trattori sobbalzanti erano al lavoro accanto a uno degli hangar, spazzando via la neve caduta la notte prima. Webster rabbrividì, e pensò che era strano, perché il sole di mezzogiorno era caldo. E rabbrividì di nuovo. Lentamente, si staccò dalla ringhiera e si diresse verso gli edifici amministrativi. E per un attimo — che parve strappargli via, letteralmente, il cervello — provò un'improvvisa paura, un'irragionevole, imbarazzante paura di quel tratto di cemento che formava la rampa. Una paura che lo lasciò scosso mentalmente, mentre guidava i suoi passi verso la porta che lo aspettava aperta. Un uomo s'incamminò verso di lui, con una valigia sorretta da una mano. Webster, scrutandolo, desiderò fervidamente che l'uomo non gli rivolgesse parola. L'uomo non parlò. Gli passò accanto, rivolgendogli un'occhiata distratta, e Webster provò un vivo sollievo. Se fosse stato a casa, si disse Webster, ora, finito il pranzo, sarebbe stato pronto a distendersi per il suo pisolino pomeridiano. Il fuoco sarebbe avvampato nel caminetto e il tremolio delle fiamme avrebbe tratto riflessi dagli alari d'ottone. Jenkins gli avrebbe servito un liquore e avrebbe detto una parola o due... una conversazione senza importanza. Si affrettò verso quella porta, accelerando il passo, ansioso di allontanarsi dalla distesa spoglia e gelida dell'enorme rampa. Strano, ciò che aveva provato per Thomas. Naturale, certo, che gli spiacesse vederlo partire. Ma era del tutto innaturale, al contrario, provare un tale orrore, in quegli ultimi minuti, quell'orrore che, in maniera così spaventosa, era salito dentro di lui. Orrore per il viaggio attraverso lo spazio,
orrore per l'aliena terra di Marte... anche se Marte, di alieno, non aveva più nulla. Ormai i terrestri lo conoscevano da più di un secolo, lo avevano affrontato e avevano imparato a viverci; alcuni avevano perfino imparato ad amarlo. Ma era stato soltanto a prezzo d'un tremendo sforzo di volontà che era riuscito a impedirsi, negli ultimi istanti prima che la nave decollasse, di precipitarsi fuori, in mezzo al campo, gridando a Thomas che tornasse indietro, gridandogli che non partisse. E, naturalmente, non l'avrebbe fermato. Sarebbe stato puro esibizionismo, vergognoso, umiliante... il genere di cosa che un Webster non poteva fare. Dopotutto, si disse, un viaggio fino a Marte non era una grande avventura, non più. Un tempo, sì, ma erano giorni finiti per sempre. Lui stesso, quand'era più giovane, aveva fatto un viaggio fino a Marte, e vi era rimasto per cinque lunghi anni. Era stato — e restò alcuni istanti a bocca aperta, nello sforzo di ricordare — quasi trent'anni prima. L'intenso brusio dell'atrio lo colpì come uno schiaffo, quando un inserviente robot gli aprì la porta, e in quel confuso vociare serpeggiava qualcosa che era, quasi, terrore. Ebbe un attimo di esitazione, poi entrò. La porta si chiuse con un sibilo soffocato alle sue spalle. Si tenne accanto alla parete, per restar fuori dal flusso della gente, dirigendosi verso una poltrona in un angolo. Vi prese posto, rannicchiandosi, costringendo il suo corpo a sprofondare nei cuscini, contemplando il ribollire dell'umanità nella sala. Gente dalla voce stridula, gente frettolosa, dalle strane facce, poco socievoli. Estranei — tutti, non uno escluso. Non un solo volto che conoscesse. Gente che andava in tanti posti. Diretta ai pianeti. Ansiosa di partire. Preoccupata per gli ultimi particolari. Affannata, sempre di corsa. In mezzo alla folla, si profilò una faccia familiare. Webster si curvò in avanti: «Jenkins!» urlò, poi si spiacque per l'urlo, anche se nessuno parve essersene accorto. Il robot gli si avvicinò, e si fermò davanti a lui. «Di' a Raymond», disse Webster, «che devo tornare subito a casa. Digli di portare l'elicottero qui davanti, subito». «Mi spiace, signore», annunciò Jenkins, «ma non possiamo partire subito. I meccanici hanno trovato un guasto nella camera atomica. Ne stanno installando una nuova. Ci vorranno alcune ore». «Sono convinto», ribatté Webster, con voce impaziente, «che potrebbero
aspettare un altro momento per farlo». «I meccanici hanno detto di no, signore», replicò Jenkins. «La camera potrebbe scoppiare da un momento all'altro. L'intera carica energetica...» «Sì, sì», ammise Webster. «Suppongo di sì». Si gingillò col cappello. «Mi sono appena ricordato», disse, «di una cosa urgente. Di qualcosa che devo far subito... Devo tornare a casa, non posso aspettare tutte queste ore». Si sporse fin sull'orlo della poltrona, fissando la folla turbinante. «Volti... volti...» «Forse potrebbe videofonare», suggerì Jenkins. «Uno dei robot potrebbe essere in grado di far lui questa cosa urgente. C'è una cabina...» «Aspetta, Jenkins», esclamò Webster. Esitò un attimo. «Non c'è niente di urgente da fare a casa. Niente del tutto. Ma devo andarci, subito. Non posso restare qui. Se resterò qui ancora un poco, impazzirò. Ho provato una gran paura, là fuori, sulla rampa. E sono ancora sconcertato e confuso, qui. Ho una sensazione... una strana, terribile sensazione. Jenkins, io...» «Capisco, signore», disse Jenkins. «Anche suo padre l'aveva». Webster restò a bocca aperta: «Mio padre?» «Sì, signore. È per questo che non andava mai da nessuna parte. Aveva circa la sua età, signore, quando lo scoprì. Tentò di fare un viaggio in Europa, una volta, ma non ci riuscì. Arrivò a metà strada, poi tornò indietro. Aveva un nome per definirla». Webster restò in silenzio, colpito. «Un nome per definirla», disse infine. «Certo che c'è un nome. E mio padre ne soffriva... E mio nonno?» «Questo non lo so, signore», rispose Jenkins. «Io fui creato quando suo nonno era ormai assai avanti con gli anni. Ma potrebbe esserne stato afflitto anche lui... Neppure lui andava da nessuna parte». «Allora tu capisci», replicò Webster. «Sai già com'è... Ho una tremenda sensazione, mi sembra di star male... fisicamente male. Vedi se riesci a noleggiare un elicottero, qualunque cosa, purché si torni subito a casa». «Sì, signore», disse Jenkins. Fece per avviarsi, ma Webster lo richiamò: «Jenkins, c'è qualcun altro che lo sa? Chiunque...» «No, signore», rispose Jenkins. «Suo padre non l'ha mai detto a nessuno ed io, per qualche ragione, ho sempre saputo che non avrebbe avuto alcun piacere se ne avessi parlato in giro». «Grazie, Jenkins», disse Webster.
Webster tornò a rannicchiarsi nella poltrona; si sentiva desolato, solo e smarrito. Completamente solo in quell'atrio brulicante... una solitudine che lo straziava, che gli fiaccava i nervi, lasciandolo esausto. Nostalgia di casa. Un'esplicita, vergognosa nostalgia di casa, si disse. Ciò che, si presume, un ragazzo prova quando per la prima volta si allontana dalla famiglia e va ad affrontare il mondo. C'era anche una parola astrusa per definirla: agorafobia, il morboso timore degli spazi aperti, derivata dal greco «fobos», paura, e «agorà», piazza. Se avesse attraversato l'atrio fino alla cabina videofonica, avrebbe potuto fare una chiamata, parlare con sua madre o uno dei robot, o, meglio ancora, starsene seduto e fissare quell'immagine della sua casa, e placarsi, fino a quando Jenkins non fosse venuto a prenderlo. Fece per alzarsi, poi riaffondò nella poltrona. Non c'era niente da fare. Avrebbe potuto soltanto parlare con qualcuno, o guardare qualcosa di familiare, che però non era lì, con lui. Non avrebbe potuto sentire il profumo dei pini nell'aria invernale, o ascoltare il crepitio della neve schiacciata sotto i suoi piedi mentre passeggiava, e meno ancora allungare una mano e toccare una delle enormi querce che fiancheggiavano il sentiero. Non avrebbe potuto scaldarsi al fuoco... ma soprattutto non avrebbe percepito l'innegabile, profonda, onnipresente sensazione di appartenenza, di essere un tutt'uno con quell'estensione di terra e con tutte le cose sopra di essa. Eppure... forse gli sarebbe stato ugualmente di aiuto. Non molto, forse, ma qualcosa. Nuovamente fece per alzarsi dalla poltrona, ma tornò a immobilizzarsi. I pochi passi fino alla cabina rappresentavano per lui un terrore senza nome, un'esperienza folle, sconvolgente. Avrebbe dovuto precipitarsi di corsa per valicare quella breve distanza, per sfuggire a tutti quegli occhi che lo fissavano, a quel caos di rumori, a quelle voci sconosciute, a quell'angosciosa vicinanza di volti estranei. Tornò ad afflosciarsi nella poltrona. La voce stridula d'una donna trapassò l'atrio, e lui si ritrasse istintivamente. Si sentiva male, tremendamente male. Desiderò che Jenkins riuscisse a far presto. Il primo alito della primavera entrò dalla finestra, riempiendo lo studio con la promessa di nevi che si scioglievano al sole, dei fiori e delle foglie, di uccelli acquatici in volo verso nord in formazione a cuneo attraverso l'azzurro, di trote in attesa, nelle pozze d'acqua, dell'esca.
Webster alzò gli occhi dal fascio di fogli sulla scrivania, inspirò la brezza, colse l'alito fresco sulle sue guance. Tese la mano verso il bicchiere di brandy, lo trovò vuoto, lo rimise giù. Tornò a chinarsi sulle carte, prese la matita e cancellò una parola con un tratto. Con occhio critico, rilesse gli ultimi paragrafi: Il fatto che dei duecentocinquanta uomini che sono stati invitati a farmi visita, presumibilmente per motivi di non trascurabile importanza, soltanto tre siano stati in grado di venire, non dimostra necessariamente che tutti, salvo quei tre, siano vittime dell'agorafobia. Alcuni potrebbero aver avuto motivi del tutto validi per non essere stati in grado di accettare il mio invito. Ma questo indica, comunque, una crescente indisponibilità da parte di uomini che vivono quel tipo di esistenza instauratosi sulla Terra in seguito allo sfasciarsi delle città, a spostarsi dai luoghi familiari, l'istinto sempre più intenso a restare fra gli scenari e le proprietà che, nella loro mente, hanno finito per associarsi con tutto ciò che di piacevole e gratificante offre la vita. Quale possa essere il risultato finale di questa tendenza, nessuno può prevederlo chiaramente, poiché essa si applica soltanto a una piccola frazione della popolazione della Terra. Nelle famiglie più numerose, la pressione economica costringe alcuni dei figli a cercar fortuna in altre parti della Terra oppure su uno degli altri pianeti. Molti altri cercano deliberatamente l'avventura e le occasioni nello spazio. E altri, infine, abbracciano professioni e attività commerciali che rendono ad essi impossibile un'esistenza sedentaria. Continuò, girando una pagina dopo l'altra, fino all'ultima. Era un ottimo saggio, lo sapeva, ma non poteva venir pubblicato, adesso. Forse, dopo che lui fosse morto. Nessuno, per quanto lui avesse appurato, si era anche soltanto reso vagamente conto di questa tendenza, tutti avevano accettato come un fatto naturale la riluttanza della gente ad allontanarsi dalla propria casa. Perché mai, dopotutto, avrebbero dovuto lasciare le proprie case? Il televisore borbottò, accanto al suo gomito. Webster allungò una mano e fece scattare l'interruttore.
La stanza svanì, e si trovò faccia a faccia con un uomo che sedeva dietro a una scrivania, quasi come se fosse seduto sul lato opposto della scrivania di Webster. Un uomo dai capelli grigi, gli occhi tristi dietro le spesse lenti. Per un attimo Webster lo fissò, mentre un ricordo prendeva forma in lui. «Ma è proprio...» fece, istintivamente, e l'uomo sorrise, gravemente. «Sono cambiato», disse, «e anche lei. Mi chiamo Clayborne, ricorda? La Commissione Medica Marziana...» «Clayborne! Ho spesso pensato a lei. È rimasto su Marte?». Clayborne confermò, con un cenno del capo. «Ho letto il suo libro, dottore. Un contributo inestimabile. Ho spesso pensato che era necessario scriverlo, volevo farlo io stesso, ma non ne ho mai avuto il tempo. Meglio così. Lei ha fatto un lavoro assai migliore. Specialmente quei capitoli sul cervello». «Il cervello marziano», replicò Webster, «mi ha sempre affascinato, per le sue caratteristiche uniche. Temo di aver passato anche troppo tempo, in quei cinque anni, a studiarlo e a prendere appunti, quando invece c'era dell'altro lavoro da fare». «È stata una fortuna che l'abbia fatto», dichiarò Clayborne. «È per questo che l'ho chiamata, adesso. Ho un paziente... un'operazione al cervello. Soltanto lei può farla». Webster boccheggiò, le mani gli tremarono. «Lo portate qui?» Clayborne scosse il capo. «Non è possibile spostarlo. Lei lo conosce, credo. Juwain, il filosofo». «Juwain!» esclamò Webster, folgorato. «È uno dei miei migliori amici. Abbiamo parlato insieme soltanto un paio di giorni fa». «L'attacco è stato improvviso», spiegò Clayborne. «Ha chiesto di lei». Webster tacque, in preda a una sensazione di gelo... un gelo che gli strisciava addosso proveniente da un qualche inimmaginabile luogo. Un gelo che, pure, gl'imperlava di sudore la fronte, che gli faceva stringere spasmodicamente i pugni. «Se parte subito», proseguì Clayborne, «potrà arrivare qui in tempo. Ho già sistemato le cose col Comitato Mondiale, perché una nave sia messa subito a sua disposizione. È necessario agire con la massima urgenza». «Ma», balbettò Webster, «ma... non posso venire». «Non può venire!» «È impossibile», disse Webster. «E, in ogni caso, non credo d'essere indispensabile. Certamente lei stesso può...» «Non posso», replicò Clayborne. «Nessuno può farlo, salvo lei. Nessun
altro ha conoscenze sufficienti. Lei ha in mano la vita di Juwain. Se viene, Juwain vivrà. Se non viene, morrà». «Non posso viaggiare nello spazio», disse Webster. «Chiunque può viaggiare nello spazio», sbottò Clayborne. «Non è come un tempo. Oggi si possono ottenere tutte le condizioni che si desiderano». «Ma lei non capisce», lo supplicò Webster. «Io...» «No, non capisco», ribatté Clayborne. «Sinceramente, non capisco. Che qualcuno debba rifiutarsi di salvare la vita al proprio amico...» I due uomini si fissarono per un lungo istante, in completo silenzio. «Dirò al Comitato d'inviare la nave direttamente a casa sua», riprese infine Clayborne, asciutto. «Spero che, per allora, si sarà schiarito le idee, evenga». Clayborne svanì, e la parete di fronte tornò ad esser visibile — la parete e i libri, il caminetto, i dipinti, i mobili tanto amati, la promessa della primavera che entrava a folate dalla finestra aperta. Webster sedeva paralizzato nella sua poltrona, fissando la parete davanti a lui. Juwain, il volto peloso, raggrinzito, il mormorio sibilante, la cordialità e la comprensione così tipiche in lui. Juwain, che afferrava la materia di cui erano fatti i sogni e la plasmava nella logica, in regole di vita, di comportamento. Juwain, che usava la filosofia come uno strumento, una scienza, una pietra miliare verso una vita migliore. Webster si strinse il volto fra le mani e lottò contro l'angoscia che cresceva in lui. Clayborne non aveva capito. E non ci si poteva aspettare che capisse, poiché non aveva alcun modo per saperlo. E perfino se l'avesse saputo, avrebbe capito? Perfino lui, Webster, non l'aveva capito negli altri, fino a quando non l'aveva scoperto in se stesso — quel serpeggiante, travolgente terrore di lasciare il proprio focolare, la propria terra, le proprie cose, i piccoli simbolismi che lui si era eretto tutt'intorno. Eppure... non lui, non lui soltanto, anche quegli altri Webster. Cominciando da John J., il primo. Uomini e donne che avevano instaurato un modo di vivere, un culto, in realtà, una tradizione di comportamento. Lui, Jerome A. Webster, era andato su Marte quand'era giovane, e non aveva sentito, e neppure sospettato, il veleno psicologico che gli scorreva nelle vene. Allo stesso modo in cui Thomas pochi mesi prima era partito, ignaro, per Marte. Ma trent'anni di vita tranquilla, qui nel ritiro che i Web-
ster chiamavano casa, avevano fatto emergere e sviluppare quel veleno, senza che lui se ne accorgesse. Non c'era stata, in realtà, alcuna occasione per scoprirlo. Ora, però, era chiaro come il cristallo il modo in cui tutto ciò si era sviluppato in lui. L'abitudine, il formarsi, un po' per volta, di un radicato schema mentale, per di più potenziato dal suo associarsi a certe cose apportatrici di soddisfazione, di felicità... cose che in sé non avevano nessun valore, ma alle quali la mente l'aveva attribuito, un valore definito e concretizzato da una famiglia nell'arco di cinque generazioni... Non c'era da meravigliarsi che qualunque altro luogo apparisse alieno, non c'era da stupirsi che ogni altro orizzonte racchiudesse, nella sua estensione, una punta di orrore. E non c'era niente che si potesse fare per porvi rimedio... niente, vale a dire, a meno che non si tagliasse ogni albero e non si bruciasse la casa... cambiando, perfino, il corso al ruscello. E anche tutto questo avrebbe potuto non servire... anche questo. Il televisore ronzò e Webster staccò le mani dal viso, si protese e fece scattare l'interruttore. La stanza divenne un'unica vampata bianca, ma non si formò alcuna immagine. Una voce disse: «Chiamata segreta. Chiamata segreta». Webster aprì un pannello sul fianco dell'apparecchio, girò due dischi, e udi il ronzio dell'energia che stava formando un completo campo schermante intorno alla stanza. «Segretezza instaurata», annunciò. La vampa bianca si spense e un uomo comparve, seduto sull'altro Iato della scrivania. Un uomo che Webster aveva visto molte altre volte nei notiziari televisivi, o sul giornale. Henderson, presidente del Comitato Mondiale. «Ho ricevuto una chiamata da Clayborne», disse Henderson. Webster annuì senza parlare. «Mi ha detto che lei si rifiuta di andare su Marte». «Non mi sono rifiutato», replicò Webster. «Quando Clayborne ha interrotto la comunicazione, la questione era rimasta aperta. Gli ho detto che mi era impossibile andare, ma lui non ha voluto accettare ciò che gli ho detto, non ha voluto capire». «Webster, lei deve andare», disse Henderson. «Lei è l'unico uomo con le conoscenze indispensabili a eseguire questa operazione su un cervello marziano. Se fosse un'operazione di routine, allora un altro potrebbe farla.
Ma non un'operazione come questa». «Potrebbe esser vero», fece Webster, «ma...» «Non è soltanto questione di salvare una vita», insisté Henderson, «sia pure la vita di un personaggio così eminente come Juwain. Coinvolge molto di più. Juwain è suo amico. Forse le ha accennato a qualcosa che ha scoperto». «Sì», annuì Webster. «Sì, mi ha detto qualcosa. Un nuovo concetto filosofico». «Un concetto», dichiarò Henderson, «del quale non possiamo fare a meno. Un concetto che trasformerà da cima a fondo l'intero sistema solare, che farà compiere all'umanità, in un paio di generazioni, un salto in avanti di centinaia di migliaia d'anni. Una direttiva radicalmente nuova per i nostri scopi, verso un obbiettivo che finora non abbiamo neppure sospettato, della cui esistenza non sapevamo nulla. Una verità completamente nuova, capisce. Che mai, prima d'ora, era balenata nella mente di qualcuno». La mano di Webster strinse il bordo della scrivania fino a quando le sue nocche non divennero bianche. «Se Juwain muore», proseguì Henderson, «quel concetto morirà con lui. Forse perduto per sempre». «Tenterò», disse Webster. «Tenterò...» Gli occhi di Henderson si erano fatti duri. «È questo il meglio che può fare?» «È il meglio», disse Webster. «Ma, amico mio, dovrà pure avere una ragione! Una spiegazione valida...» «Nessuna spiegazione che io voglia dare», concluse, secco, Webster. Allungò deciso la mano e spense la comunicazione. Webster era seduto alla scrivania e si fissava le mani, distese davanti a sé. Mani che avevano una grande, specifica abilità, che racchiudevano una conoscenza preziosa. Mani che avrebbero potuto salvare una vita, se fosse riuscito a farle arrivare su Marte. Mani che avrebbero potuto salvare un'idea per l'intero sistema solare, per l'umanità, per i marziani... un'idea nuova, che li avrebbe fatti progredire di centinaia di migliaia d'anni nell'arco di due generazioni. Ma due mani incatenate a una fobia nata e cresciuta da quella vita troppo serena, tranquilla. Da una decadenza — estremamente bella, ma pur sempre micidiale.
L'uomo aveva abbandonato le città brulicanti, i luoghi in cui si rifugiava in massa, duecento anni prima. Si era sbarazzato dei vecchi nemici e delle antiche paure che l'avevano incatenato intorno ai falò dell'accampamento, si era lasciato alle spalle i folletti che l'avevano accompagnato dalle caverne. Eppure... eppure. Questo, era stato pur sempre un rifugio. Anche se diverso. Un rifugio non per il proprio corpo, ma per la mente. Un falò psicologico che incatenava ancora un uomo all'interno del ristretto cerchio della sua luce. Tuttavia, Webster lo sapeva, doveva lasciare quel fuoco. Proprio come gli uomini di due secoli prima avevano fatto con le città, lui, oggi doveva allontanarsi, abbandonarlo. E senza voltarsi indietro a guardarlo. Doveva andare su Marte... o quanto meno, mettersi in viaggio per Marte. Non c'erano discussioni di sorta: doveva andare. Non sapeva se sarebbe sopravvissuto al viaggio, se, una volta arrivato, avrebbe potuto compiere l'operazione. Si chiese vagamente se l'agorafobia potesse rivelarsi mortale. Forse, nella sua forma più grave, lo era. Allungò una mano per suonare, poi esitò. Non serviva dire a Jenkins di preparare le valige. Poteva farle da solo... questo, almeno, l'avrebbe tenuto occupato fino all'arrivo della nave. Dallo scaffale più alto del guardaroba, nella camera da letto, tirò giù una valigia, e vide che era impolverata. Ci soffiò sopra, ma la polvere continuò ad aderire. Era lì da troppi anni. Mentre riempiva la valigia con le sue cose, la camera continuò a discutere con lui, parlava col muto linguaggio che gli oggetti inanimati ma familiari potevano usare con un uomo. «Non puoi andartene», insisteva la camera. «Non puoi andartene e lasciarmi sola». E Webster ribatté, mezzo implorando, mezzo spiegando: «Devo andare, non capisci? È un amico, un vecchio amico. Tornerò». Fatta la valigia, Webster tornò nel suo studio e si accasciò sulla poltrona. Doveva andare, eppure non poteva andare. Ma quando la nave fosse arrivata, quando il momento fosse venuto, sapeva che sarebbe uscito dalla casa e si sarebbe incamminato verso la nave in attesa. Temprò la sua mente a questo fine, cercò d'imporle uno schema incrollabile, cercò di escluderne qualunque altra cosa, fuorché il pensiero che stava per lasciare la casa. Gli oggetti dello studio s'intromettevano nel suo cervello, come se fa-
cessero parte di una cospirazione per tenerlo là. Cose che gli apparivano come se le vedesse per la prima volta. Cose vecchie, ricordate, che all'improvviso erano nuove. Il cronometro che indicava sia l'ora terrestre che quella marziana, il giorno del mese, le fasi della Luna. La fotografia di sua moglie morta, sulla scrivania. Il trofeo che aveva vinto quand'era studente. La sbeffeggiante ricevuta di una multa di dieci dollari che si era beccato su Marte, là in cornice... Fissò tutto questo, prima irritato, poi con crescente bramosia, immagazzinando il loro ricordo nel cervello. Componenti separate di una stanza che aveva accettato, per tutti quegli anni, come un qualcosa di unico, un singolo insieme, senza mai rendersi conto della moltitudine di oggetti che, in realtà, contribuiva a formarla. Il crepuscolo stava scendendo, il crepuscolo d'un inizio di primavera, odoroso di salici in germoglio. La nave avrebbe dovuto esser già arrivata da tempo. Si sorprese a tender l'orecchio per coglierne il rumore, e nel medesimo istante si rese conto che non l'avrebbe udita. Una nave spinta da motori nucleari era silenziosa soltanto quando accelerava. All'atterraggio e al decollo galleggiava come un soffione, senza neppure un bisbiglio. Ma avrebbe dovuto arrivar presto... Prestissimo, anzi, altrimenti lui non ce l'avrebbe mai fatta a partire. Se l'attesa si fosse prolungata troppo, lui ne era ben conscio, la sua decisione, sorretta dalla viva eccitazione che l'aveva preso, si sarebbe sbriciolata come un mucchio di polvere sotto la pioggia battente. Non ce l'avrebbe fatta a reggere la sua decisione ancora a lungo, investito com'era dalla continua, muta implorazione della stanza, del fuoco tremolante, del mormorio della terra sulla quale cinque generazioni di Webster avevano trascorso la loro esistenza ed erano morti. Chiuse gli occhi e tentò di scacciare il gelo che gli stava risalendo il corpo. Non poteva permettergli che lo sopraffacesse proprio adesso, si disse. Doveva resistere. Quando la nave fosse arrivata, doveva essere perfettamente in grado di alzarsi in piedi e uscire da quella porta fino al portello aperto che lo aspettava. Qualcuno bussò alla porta. «Entra», disse Webster. Era Jenkins. La luce del caminetto guizzava sulla sua pelle metallica. «Mi avete chiamato prima, signore?» chiese. Webster scosse la testa. «Temevo che l'avesse fatto», spiegò Jenkins, «e si fosse chiesto perché
non venivo. È accaduto un fatto del tutto straordinario, signore. Due uomini sono arrivati con una nave e hanno detto che volevano portarla via con loro, su Marte». «Sono arrivati», disse Webster. «Perché non mi hai chiamato?» Si alzò in piedi con uno sforzo. «Ho pensato, signore», dichiarò Jenkins, «che lei non volesse essere disturbato. Era talmente assurdo. Alla fine, sono riuscito a fargli capire che non era possibile che lei volesse andare su Marte». Webster s'irrigidì, sentì il gelo della paura serrarsi intorno al suo cuore. Cercando a tentoni il bordo della scrivania per aggrapparsi, riuscì in qualche modo a sedersi sulla poltrona, sentì le pareti della stanza chiudersi su di lui, una trappola che non l'avrebbe mai più lasciato andare. Gentilezza Kindness di Lester Del Rey Astounding, ottobre Lester Del Rey è comparso di frequente in queste pagine e la sua presenza è più che giustificata poiché la prima metà degli anni quaranta fu una felice stagione produttiva per lui, anni che — nel campo della fantascienza — lo ebbero tra le forze più valide e ricche di umori. È probabile che questo racconto sia stato influenzato dagli avvenimenti della seconda guerra mondiale e dalla nefasta influenza del nazionalismo, nel provocare conflitti. «Gentilezza» solleva importanti domande su ciò che in realtà significhi essere normali o diversi, una questione che più tardi sarebbe stata affrontata frequentemente dalla fantascienza, ad opera di scrittori diversissimi tra loro, da Del Rey a Robert Sheckley, fino a Philip K. Dick. (Credo sia giunto il momento di raccontare la mia storia favorita su Lester Del Rey, poiché riguarda uno scambio verbale con lui, in cui riuscii, fatto straordinario, ad avere l'ultima parola. Un paio d'anni fa stavo raccontando uno degli insegnamenti favoriti di mio padre. Mio padre mi diceva: «Non credere, Isaac, che se ti imbranchi con dei fannulloni, tu riuscirai a fare di quei fannulloni dei tizi a posto. No! Quei fannulloni faranno diventare un fannullone anche te». Al che Lester mi chiese: «Allora,
perché t'immischi ancora con dei fannulloni, Isaac?» Ed io subito gli risposi: «Perché ti voglio bene, Lester». Tutti scoppiarono a ridere, e perfino Lester stava ridendo così forte che non ebbe il tempo di pensare a una risposta. I.A.) Il vento turbinò, svagato, intorno all'angolo, passando davanti a quella panchina isolata, nel parco. Ghermì, capriccioso, il giornale a terra, girando le pagine, poi ne agguantò una parte, portandole via, lasciando quelle restanti aperte sui fumetti dagli sgargianti colori. Danny si sporse in avanti, alla luce del sole, e i suoi occhi si abbassarono su quella pagina dei bambini, rimasta così esposta. Ma non servì: non fece alcuno sforzo per chinarsi e raccogliere il giornale. In un mondo in cui perfino i fumetti per bambini avevano bisogno d'una spiegazione, non poteva esserci niente d'interessante per l'ultimo homo sapiens rimasto in vita — l'ultimo uomo normale del mondo. Il suo piede scalciò via il giornale, sotto la panchina, là dove non gli avrebbe più ricordato le sue deficienze. C'era stato un tempo in cui aveva tentato di ragionare lentamente, colmando i salti nello sviluppo logico, cogliendo l'essenzialità dietro alle cose, qualche rara volta con successo, molto più spesso, no. Ma ora preferì lasciare quei colorati disegni al rapido, intuitivo pensiero di tutti gli altri intorno a lui. Niente era più insipido, desolante, d'una vignetta umoristica il cui significato, per esser compreso, gli sarebbe costato una lunga, meditata riflessione. Homo sapiens! La specie umana che era uscita dalle caverne e aveva edificato un mondo fatto di energia nucleare, di elettronica e altre meraviglie di vecchia data... l'uomo l'«uomo pensante», questa la traduzione dal latino. Nel lontano passato, quando i suoi antenati avevano posseduto il mondo, l'avevano trasformato in un motto di spirito, scorciandolo in «homo sap», e ne avevano riso, poiché non c'era stata nessun'altra specie in grado di rivaleggiare con loro. Ma adesso non era più una battuta. L'uomo normale era stato solo un «sap» nei confronti dell'homo intelligens — l'uomo intelligente — che adesso era il padrone del mondo. Danny era soltanto un relitto, l'ultimo uomo normale in un mondo di superuomini. Odiava il fatto di esser nato, e che sua madre fosse morta alla sua nascita, lasciandogli soltanto la solitudine come eredità. Si ritrasse di nuovo in un angolo della panchina, quando vide avvicinarsi una giovane coppia, calcandosi il berretto fin sopra gli occhi per evitare d'esser riconosciuto. Ma i due passarono oltre, assorti nelle proprie faccen-
de, concedendo alle sue orecchie soltanto pochi sparsi brani di conversazione. Danny li rigirò nella sua mente, cercando, con affanno crescente, di decodificarli. Impossibile! Perfino una conversazione casuale, distratta, si sviluppava saltando troppe fasi intermedie, nella sua logica interiore. L'homo intelligens aveva un nuovo modo di pensare, superrazionale, in cui tutti i lunghi e faticosi passi della logica potevano venir saltati all'istante. Poteva costruirsi in un attimo un'immagine completa partendo da piccoli, sparsi frammenti d'informazione. Proprio come l'homo sapiens un tempo aveva inventato la logica per sostituire il modo di procedere per prova ed errore della maggior parte degli animali, così, oggi, l'homo intelligens aveva imparato a servirsi dell'intuizione. Potevano leggere la prima pagina di uno dei vecchi libri e conoscerne immediatamente l'intero contenuto, poiché tutti i piccoli espedienti usati dall'autore si sarebbero collegati nella loro mente intuitiva, ricostruendo all'istante tutti gli anelli mancanti. Non dovevano neppure procedere per tentativi — guardavano e sapevano. Come era capitato a Newton il quale, vista cadere la mela, aveva subito capito perché i pianeti giravano intorno al sole, scoprendo le leggi della gravità... solo che questi nuovi uomini lo facevano in continuazione, e non soltanto a lunghi, rari intervalli, come un tempo era accaduto all'homo sapiens. L'uomo normale era scomparso, salvo per Danny, e anche lui avrebbe dovuto lasciare quel mondo di superuomini. In qualche modo, presto, i piani di fuga dovevano esser completati, prima che il poco coraggio che gli era rimasto svanisse anch'esso! Si mosse irrequieto, e gli spiccioli che aveva in tasca produssero un debole tintinnio. Altra carità, o terapia occupazionale! Per sei ore al giorno, cinque giorni alla settimana, lavorava in un piccolo ufficio, eseguendo con molta fatica un lavoro abitudinario che con ogni probabilità avrebbe potuto esser fatto meglio dalle macchine. Oh, gli avevano detto che la sua capacità manuale era buona almeno quanto la loro, e che quel suo lavoro era indispensabile, ma lui ne era tutt'altro che convinto. Nella loro eterna gentilezza avevano deciso, con ogni probabilità, che era meglio, per lui, vivere nel modo il più possibile normale, e poi avevano creato un lavoro adatto alle sue capacità. Altri passi si udirono lungo lo stretto sentiero, ma lui non alzò lo sguardo fino a quando non si fermarono. «Ciao, Danny! Non eri in biblioteca, e la signorina Larsen ha detto, giorno di paga, il tempo e tutto il resto, ti avrei trovato qui. Come vanno le cose?» Esternamente il corpo di Jack Thorpe avrebbe potuto essere il gemello di
quello, muscoloso, di Danny, e il volto sorridente sopra di esso non mostrava, in pratica, nessuna diversità apprezzabile. La mutazione che aveva trasformato l'uomo in superuomo era stata interiore, una correlazione più rapida e complessa tra le cellule cerebrali, che non si manifestavano in nessun segno esterno. Danny annuì a Jack, spostandosi con riluttanza per fargli posto sulla panchina a quell'uomo che era stato suo compagno di giochi quand'erano ambedue troppo giovani perché la differenza avesse troppa importanza. Non chiese come mai la bibliotecaria sapesse dove lui si trovava; per quanto lui ne sapeva, non c'era nessuna particolare successione logica che facesse arguire la sua presenza in quel luogo, ma per gli altri doveva essercene una. Scoprì che riusciva perfino a sorridere della loro capacità di prevedere le sue mosse. «Ciao, Jack. Sto bene. Credevo che fossi su Marte». Thorpe si accigliò, come se gli fosse stato necessario uno sforzo per ricordare che il giovanotto accanto a lui era diverso, e le sue parole rispecchiarono la cautela e la precisione di tutti quelli che rivolgevano la parola a Danny: «Per il momento ho finito con Marte. Adesso dovrei andare su Venere. A proposito, laggiù hanno delle difficoltà nell'ottenere un giusto equilibrio tra maschi e femmine. Ho pensato che ti potesse attirare l'idea di venire con me. Non sei mai stato Fuori, e ricordo che lo spazio ti ha sempre appassionato». «Mi appassiona ancora, Jack. Ma...» Sapeva benissimo perché Jack gli aveva fatto quella proposta, naturalmente. Quelli che lo seguivano, da dietro le quinte, avevano notato il suo crescente scontento, e speravano di distrarlo dandogli la possibilità di visitare i luoghi che i vecchi uomini avevano conquistato, nell'apogeo della loro razza. Ma lui, non aveva nessun desiderio di vederli com'erano adesso, pieni dell'attività dei nuovi uomini; era meglio immaginarli come dovevano essere stati una volta, piuttosto che constatare di persona la realtà. E l'astronave era qui; non poteva esserci nessuna possibilità di fuggire dagli altri mondi. Jack annuì in fretta, con la comprensione quasi telepatica della sua razza. «Naturalmente. Fai come vuoi, amico. Vai su alla Biblioteca? La signorina Larsen dice che ha qualcosa per te». «Non ancora, Jack. Ho pensato di dare un'occhiata a... di andare al vecchio museo». «Oh». Thorpe si alzò lentamente, spazzolandosi distrattamente il vestito. «Danny!»
«Uh?» «Probabilmente ti conosco meglio di chiunque altro, amico, così...» Esitò, poi scrollò le spalle e proseguì: «Non prendertela se salto alle conclusioni; starò zitto. Ma buona fortuna e... addio, Danny». E subito si allontanò, lasiando Danny col cuore che gli balzava in gola. Poche parole, una certa espressione del viso, probabilmente alcuni ricordi d'infanzia, e tanto sarebbe valso che Danny rivelasse la speranza che aveva coltivato nel più profondo dell'intimo, gridandola ai quattro venti! Quanti altri sapevano del suo interesse alla vecchia astronave, nel museo; quanti avevano intuito, in ogni particolare, il suo piano per fuggire da quel mondo così pieno di gentilezza nei suoi confronti, una gentilezza che era una tortura? Schiacciò la sigaretta sotto il tacco, cercando di dimenticare i suoi timori. Jack aveva giocato con lui da bambino, e gli altri no. Doveva far conto su questo, per conservare le sue speranze, ed essere ancora più cauto, e non pensare mai al suo piano quando si trovava insieme agli altri. Nel frattempo, sarebbe rimasto lontano dalla nave. Forse, in questo modo, il sottile avvertimento di Thorpe avrebbe operato in suo favore... sempre che Jack mantenesse la sua promessa di non parlare. Danny costrinse i suoi dubbi a lasciarlo, attaccandosi alla convinzione che non avrebbe mai osato perdere la speranza in quel suo ultimo, disperato progetto per ottenere l'indipendenza e il rispetto di se stesso. L'altra via gli offriva soltanto angoscia e una completa perdita di volontà, la stessa morte per consunzione che l'acuto complesso d'inferiorità aveva imposto, via via, agli ultimi membri della sua razza, che erano scomparsi lasciando lui, ultimo e solitario esemplare. Ma in qualche modo, era ben deciso a compiere quell'estremo tentativo di sopravvivenza; nel frattempo sarebbe andato in biblioteca, ignorando del tutto il museo. Quando Danny salì la scala mobile, la gente sciamava fuori della biblioteca; non lo riconobbero, con berretto tirato giù sugli occhi, oppure percepirono il suo desiderio di anonimato e finsero di non conoscerlo. S'infilò in uno dei corridoi meno frequentati e si diresse alla sezione dei documenti storici, dove la signorina Larsen stava mettendo via i nastri di lettura e si preparava anche lei ad andarsene. Ma si affrettò a mettere i nastri da parte quando lui entrò, e gli sorrise, l'ampio, caldo sorriso della sua razza. «Ehi, Danny! Il tuo amico ti ha trovato?» «Uhmmm... sì. Ha detto che lei aveva qualcosa per me».
«Sì l'ho». Il suo volto mostrava un vivo piacere, quando si avvicinò alla scrivania, alle sue spalle, e ne prese un pacchetto incartato. Per la millesima volta, Danny si sorprese a desiderare che lei fosse della sua stessa razza, e subito soffocò quel sentimento, rendendosi conto di quale doveva essere, realmente, il suo atteggiamento. Per lei, tutti quei discorsi sul passato della sua razza erano soltanto un soggetto d'interesse storico, niente più. E lui era soltanto un relitto, di mente ottusa, dei tempi andati. «Indovina cos'è?» Ma, suo malgrado, il suo volto s'illuminò, sia per le parole scherzose che per il pacchetto. «Le riviste! I numeri mancanti di Space Trails!» C'era un romanzo, di cui aveva potuto leggere solo la prima puntata... eppure questa gli aveva fatto battere i polsi come pochissime altre storie dei suoi antenati avevano fatto. Ora, ritrovato il seguito mancante, la sua vita, almeno per qualche altra ora, avrebbe acquistato un sapore inarrivabile, mentre lui avrebbe letto le immaginarie imprese d'un conquistatore che aveva agito libero dall'oppressione di intelligenze superiori.. «Non proprio, Danny. Non siamo riusciti a scoprire neppure la più piccola traccia di quelle riviste, ma ho dato la prima puntata in nostro possesso a Bryant Kenning, la scorsa settimana, e lui ha completato il romanzo per te». La sua voce suonò contrita. «Naturalmente, le parole non possono essere del tutto identiche, ma Kenning giura che, senza alcun dubbio, la storia è la stessa, nella sua struttura, di quella pubblicata su Space Trails, e lo stile è riprodotto esattamente!» Era andata così, allora! Kenning si era letto le prime pagine di un romanzo che aveva richiesto settimane o mesi di riflessione e fatica a un antico scrittore, e aveva trovato in esse l'intera trama, chiaramente rivelata, e l'aveva fatta sua! Probabilmente, non aveva impiegato più di una notte a riscriverla da cima a fondo... un lavoro sgradevole e noioso, ma non difficile! Danny non metteva in dubbio l'accuratezza della duplicazione, dal momento che Kenning era il loro più grande romanziere storico. Ma tutto il piacere di quella riscoperta si era spento in lui. Prese il pacchetto, e notò che qualche illustratore si era preso perfino il disturbo d'imitare lo stile dell'antico artista, e il testo era composto in modo da garantire che il formato delle pagine fosse identico a quello originale. «Grazie, signorina Larsen. Mi spiace dare a tutti voi tanti fastidi. Ed è stato molto gentile, da parte del signor Kenning!» Anche il vivo piacere che aveva illuminato il volto della signorina Lar-
sen si era spento, ma lei rispose facendo finta di nulla: «Ha voluto farlo... si è offerto spontaneamente quando ha sentito che stavamo cercando le copie mancanti. E se hai altri romanzi incompleti, Danny, Kenning vuole che tu glielo faccia sapere. Voi due, attualmente, siete praticamente gli unici che vi servite di questa sezione. Perché non vai a trovarlo? Se vuoi andarci stasera...» «Grazie, ma questa sera preferirei invece legger questo. Dica al signor Kenning che gli sono molto grato, per favore». E fece qui una pausa, dibattendo tra sé se poteva osare di chiederle i nastri sulla storia degli asteroidi. No, il rischio che lei indovinasse sarebbe stato troppo grande, adesso o più tardi. Non poteva fidarsi di nessuno di loro, non poteva lasciarsi sfuggire il minimo indizio del suo piano. La signorina Larsen gli sorrise di nuovo, quasi strizzandogli l'occhio. «D'accordo, Danny. Glielo dirò. Buona notte!» Fuori, con l'aria che cominciava a rinfrescarsi nella sera imminente, Danny s'inoltrò lungo strade sconosciute, lasciando che fossero i suoi piedi a guidarlo. A un certo punto, quando un gruppetto di gente venne verso di lui, attraversò la strada senza pensare e proseguì. Il pacchetto che stringeva sotto il braccio cominciò a pesargli, lui lo trasferi sotto l'altro braccio, combattuto fra il desiderio di scoprire ciò che era accaduto all'eroe e il disgusto nei confronti del suo cervello sapiens che non era riuscito a indovinarlo. Probabilmente, più tardi, sarebbe tornato a casa a leggerlo, ma per il momento era contento di lasciare che i suoi piedi sfaccendati lo portassero in giro, tenendo in sospeso la maggior parte dei suoi pensieri. Incontrò nel suo camminare un piccolo giardino pubblico, e lo attraversò lentamente, rendendosi vagamente conto del cicaleccio di quelle voci infantili, fino a quando non si trovò accanto a tre bambini, due maschietti e una femmina. La sorvegliante, che li avrebbe poi riportati ai centro, era una forma vaga, un'ombra lontana fra le altre ombre, e lasciava che i bambini s'impegnassero liberi e felici nell'antico passatempo di sporcarsi e d'impegnarsi in grida e zuffe innocenti. Danny si fermò, un sorriso gli si disegnò lentamente sul volto. A quell'età, le loro capacità intuitive cominciavano appena a svilupparsi, e i loro giochi e le loro ingenue finzioni avevano ancora un senso, e agirono su di lui come un tonico. Ricordò vagamente il suo amico, che a quell'età stava incominciando ad acquisire, sia pure in modo incerto, quell'abilità di dar l'impressione di saper tutto, e la preoccupazione e le prime angosce che lui aveva provato, con questa sensazione d'esser lasciato indietro. Per un po',
gli occasionali lampi d'intuizione che avevano illuminato perfino l'homo sapiens, gli avevano lasciato qualche speranza, ma alla fine il supervisore era stato costretto a dirgli che lui era diverso, e perché. Ma ora scacciò dalla sua mente quei dolorosi ricordi, e si fece avanti in silenzio, per prender parte al gioco. L'accettarono con la disinvolta indifferenza dei bambini privi d'inibizioni, che subito s'indaffararono a costruire castelli di sabbia più alti del suo. Ma qui, la sua esperienza era maggiore della loro, e la sua pratica con quell'umido materiale friabile più sicura. Un malizioso lampo di autocompiacimento comparve nel suo sguardo, quando aggiunse un altro piano alla torreggiante struttura e costruì un ponte, sostenuto da stecchi e foglie, che portava al castello. Poi i fanali si accesero, illuminando il recinto della sabbia e tutti quelli che vi si trovavano, dileguando le ombre sempre più fitte. Il più piccolo dei due maschietti alzò gli occhi, e solo adesso lo vide chiaramente. «Oh, sei Danny Black, non è vero? Ho visto la tua fotografia. Judy, Bobby, guardate! È quell'uomo...» Le loro voci si affievolirono in distanza, mentre lui fuggiva attraverso il giardino, infilando di nuovo quelle strade secondarie, stringendo a sé il pacco. Sciocco! Godere per aver sconfitto dei bambini a un inutile gioco, oppure sorprendersi che lo conoscessero! Rallentò fino ad andare al passo, torcendo le labbra al pensiero che la sorvegliante ora li stesse rimproverando per la loro mancanza di sensibilità. E i suoi piedi continuavano ad avanzare senza una meta. Ed era ovvio, inevitabile, che lo conducessero al museo, là dove si appuntavano tutte le sue segrete speranze, ma fu colto quasi di sorpresa quando alzò gli occhi e se lo vide davanti. Ma ne fu contento. Certo, non avrebbero potuto intuire niente da quella sua visita fatta all'improvviso, quasi all'ora di chiusura. Trattenne il respiro, costrinse il suo viso a un'espressione di distratto interesse, ed entrò, avanzando per i lunghi corridoi, fino alla sala dell'astronave. Riposava là, il muso leggermente sollevato verso il cielo, agile e immensa, perfino in quella sala disegnata in modo da assomigliare alle remote distese dello spazio. Per duecento metri, il lucido metallo formava una superficie liscia, dal minimo attrito, che andava, con un profilo elegante, dalla grossa prua fino alla poppa rastremata con i suoi propulsori ionici anneriti. Questo, Danny lo sapeva, era l'ultimo e il più grande dei transatlantici
spaziali che la sua razza aveva costruito al vertice della gloria. Ma già prima di essa, la mutazione che aveva prodotto la razza degli uomini nuovi era stata provocata dalle radiazioni dello spazio profondo, e si stava diffondendo. Per un certo periodo, com'era indicato nel giornale di bordo, quella nave era salpata per Marte, Venere e gli altri avamposti dell'impero dell'uomo, mentre la tensione, in patria, lentamente saliva. E non c'era più stata, poi, una nave interamente concepita dall'homo sapiens, poiché la nuova razza si stava diffondendo in maniera esplosiva, facendo sentire la sua maggiore intelligenza, con il razzo a conversione totale, che aveva sostituito i vecchi razzi a ioni, assai meno efficienti, con i quali era stato attrezzato quel transatlantico. Alla fine, quella vecchia e gloriosa nave, incapace di competere coi nuovi modelli, era stata ritirata dal servizio e messa in disarmo, mentre la guerra fra la nuova e la vecchia razza le si era scatenata accanto, senza toccarla, anche se l'aveva seppellita sotto tonnellate di macerie, senza lasciare nessun ricordo della sua esistenza. E ora, scavata fuori con molta cura dalle antiche rovine degli hangar in disuso, dov'era rimasta per tanto tempo, era stata solennemente collocata in quella sala monumentale del Museo Storico dell'Homo Sapiens, un anno fa, concentrando subito, intorno ad essa, tutte le speranze e le preghiere di Danny. In lui c'era ancora una sensazione di meraviglia, mentre attraversava lentamente il pavimento coperto dall'ampio tappeto, verso il boccaporto aperto e l'interno illuminato. «Danny!» Il richiamo improvviso lo fermò, facendolo girare di scatto con un sussulto colpevole, ma era soltanto il professor Kirk. Tornò a rilassarsi. Il vecchio archeologo venne avanti, verso di lui, il suo sorriso era appena visibile nella penombra dell'immensa cupola. «Credevo proprio che non ti avrei visto, ragazzo mio, e stavo per andarmene. Ma ho dato un'occhiata dietro di me, e ti ho visto. Ho pensato che potrebbe interessarti qualche nuova informazione in cui mi sono imbattuto oggi». «Informazioni sulla nave?» «Che altro? Ecco, vieni dentro, nel soggiorno della nave... godo di qualche privilegio in questo museo, e tanto vale che ci mettiamo comodi. Sai, man mano invecchio, mi scopro ad apprezzare sempre di più il concetto che avevano della comodità i tuoi antenati, Danny. È davvero un peccato che la nostra cultura sia ancora troppo giovane per apprezzare nel giusto modo tanto lusso». Di tutti i membri della nuova razza, Kirk sembrava quello più completamente a suo agio davanti a Danny. In parte per la sua età, in parte perché avevano condiviso lo stesso entusiasmo per la grande
nave, fin dal giorno del suo ritrovamento. Kirk si lasciò andare su uno di quei vecchi divani, usando i privilegi del suo rango per accendersi una sigaretta e passarne un'altra al giovane. «Tu sai come tutti i rifornimenti e gli oggetti a bordo di questa nave ci avessero lasciati entrambi perplessi, e come non fossimo riusciti a trovare nessuna documentazione che li giustificasse. Il giornale di bordo s'interrompe il giorno in cui misero questa vecchia nave in disarmo, ricordi? E non siamo mai riusciti a capire perché mai fosse stata completamente rimessa a nuovo e rifornita, come se fosse pronta a partire per un nuovo viaggio nello spazio. Be', è venuto alla luce durante una nuova serie di scavi. Danny, fu la tua gente a farlo, durante la guerra; o meglio, dopo che ebbero perduto la guerra contro di noi!» Danny drizzò la schiena. La guerra era un periodo della storia al quale aveva sempre evitato di pensare, anche se lo conosceva a grandi linee. Con l'homo intelligens in tumultuosa crescita, che premeva e spingeva da parte la razza più vecchia, secondo le leggi della sopravvivenza, la sua gente aveva compiuto un ultimo, disperato tentativo per riguadagnare la supremazia. E anche se la nuova razza non voleva la guerra, alla fine era stata costretta a combattere per difendersi, con la stessa mancanza di misericordia che era stata usata nei suoi confronti; e poiché gli uomini nuovi avevano il tremendo vantaggio del nuovo pensiero intuitivo, quando la breve, violentissima guerra terminò, erano rimaste soltanto poche migliaia di diversi miliardi d'individui della vecchia razza. Con tutta probabilità, ciò era stato inevitabile sin dal manifestarsi della prima mutazione, ma era qualcosa a cui Danny preferiva non pensare. Ora annuì, e lasciò che l'altro continuasse. «A quell'epoca, Danny, i tuoi antenati erano stati battuti, ma non completamente schiacciati, e impiegarono le ultime scintille d'energia che gli restavano per riattrezzare questa nave, l'unica che gli restasse in grado di volare, e rifornirla completamente. Sarebbero partiti per lo spazio esterno, non sapendo esattamente dove, erano disposti perfino a raggiungere un altro sistema solare, portando un drappello di gente della vecchia razza lontano da noi, per un nuovo inizio. Fu il loro ultimo tentativo per sopravvivere, e fallì quando la mia gente venne a saperlo e bombardò gli hangar, facendoli crollare sopra la nave, ma fu una sconfitta gloriosa, ragazzo! Ho pensato che ti sarebbe piaciuto saperlo». Danny mise lentamente a fuoco i propri pensieri. «Vuol dire che tutto ciò che si trova su questa nave appartiene al mio popolo? Ma certo le
provviste non possono esser rimaste utilizzabili tutto questo tempo!» «Tuttavia, è così. Le analisi che abbiamo fatto lo dimostrano in modo conclusivo. La tua gente sapeva come conservare le cose proprio come noi, e si aspettavano di dover viaggiare attraverso lo spazio con questa nave almeno per mezzo secolo, o più ancora. Queste provviste saranno utilizzabili anche fra mille anni». Lanciò il mozzicone di sigaretta attraverso la stanza, ed ebbe un risolino compiaciuto quando lo vide centrare un portacenere. «In effetti, mi sono fermato qui, questa sera, proprio per dirti questo, e ho portato i documenti nel mio studio per farteli vedere. Perché non vieni con me, subito?» «Non stasera, signore. Preferirei restare qui ancora un po'». Il professor Kirk annuì, alzandosi in piedi con riluttanza. «Come vuoi... So quello che provi, e davvero mi dispiace che abbiano deciso di trasferire questa nave. Ne sentiremo la mancanza, Danny!» «Trasferiranno questa nave?» «Non l'hai saputo? Credevo che fosse per questo che sei venuto qui, a quest'ora. La vogliono a Londra, e porteranno qui una delle vecchie navi lunari, per sostituirla. Peccato davvero!» Sfiorò pensieroso le paratie, abbassò le mani e le passò sul morbido tessuto del sedile. «Be', non fermarti troppo a lungo, e spegni le luci prima di andartene. Il museo chiuderà fra mezz'ora. Buona notte, Danny». «Buona notte, professore». Danny restò seduto, come impietrito, sul morbido divano, ascoltando il lento passo del vecchio che si allontanava, e il proprio cuore. Trasferivano la nave, mandavano in frantumi i suoi piani, lasciandolo arenato in quel mondo che apparteneva alla nuova razza, dove perfino i bambini si dispiacevano per lui. Quel piano... aveva significato tanto per lui, anche soltanto la speranza che sarebbe fuggito, un giorno! Spense, con gesti bruschi, le luci, sentendosi più vicino alla nave nell'intimità del buio, dove nessun guardiano avrebbe potuto cogliere le sue emozioni. Per tutto l'ultimo anno aveva costruito la sua vita intorno all'idea di portare quella nave nello spazio, via da lì. Di lasciarsi la nuova razza alle spalle, lontanissima da lui. Aveva passato lunghi, attenti mesi nello studio della sua struttura, identificando la posizione di ogni sua parte, accertandosi, sfogliando una pagina dopo l'altra dei vecchi manuali, di essere in grado di farla funzionare. In pratica, era stata concepita proprio per questo, per essere guidata da un solo uomo, perfino da un mutilato, in caso di emergenza, e quasi tutti i meccanismi erano automatici. Era rimasto soltanto il problema di dove andare, poiché anche gli altri pianeti del sistema solare
brulicavano di uomini della nuova razza, ma il giornale di bordo aveva suggerito la risposta anche a questo. Un tempo, fra gli uomini della sua razza, c'erano stati dei ricchi che cercavano le novità e l'isolamento, e li avevano trovati fra gli asteroidi maggiori; il denaro e la scienza avevano realizzato per loro la gravità artificiale, generata da impianti ad energia nucleare che sarebbero durati per sempre. Adesso, i ricchi erano, fuori di dubbio, morti, e la nuova razza aveva abbandonato quelle cose inutili. Certamente, fra gli asteroidi, vi sarebbe stato un paradiso per lui, reso sicuro dal numero stesso dei piccoli mondi, un brulichio che avrebbe scoraggiato qualunque ricerca. Danny sentì passare uno dei guardiani, e si alzò lentamente in piedi, per uscire nuovamente in un mondo che gli avrebbe negato anche quella speranza. Era stato un progetto meraviglioso per sognare, un sogno indispensabile. Poi, il rumore delle grandi porte gli giunse alle orecchie: si stavano chiudendo! Il professore si era dimenticato di avvertirli della sua presenza, là dentro. E lui... D'accordo, lui non conosceva la storia di tutti quei piccoli mondi; forse avrebbe dovuto esplorarne chissà quanti, uno a uno, prima di trovare una casa adatta a lui. Ma che importava? Non sarebbe mai stato più pronto. Esitò soltanto un attimo; poi le sue mani fecero scattare l'interruttore che azionava il grande boccaporto, e questo si chiuse in silenzio, nel buio, impedendo a chiunque si trovasse là fuori, di udirlo, mentre si precipitava di corsa attraverso la nave. Le luci si riaccesero in silenzio, quando trovò il seggiolino davanti al quadro dei comandi e vi si lasciò cadere. Le spie che si accendevano via via, indicavano, oltre ogni dubbio, che la nave era pronta. «Nave pressurizzata... Ciclo dell'aria in funzione... Energia sull'automatico... Motori sull'automatico...» Una cinquantina di luci e indici l'informavano che la nave aspettava soltanto lui, per partire. Azionò il tracciatore automatico, e la traiettoria prevista si disegnò sopra la piccola mappa atmosferica, fino alla stratosfera; qui, s'inserì la grande mappa stellare, che si srotolò lentamente mentre il tracciatore azionato dalle sue dita disegnava una rotta irregolare che l'avrebbe portato, ben lontano da Marte, in direzione degli asteroidi. Una rotta forzatamente vaga, imprecisa; ma più tardi avrebbe potuto regolare gli analizzatori, stabilire l'attuale posizione di alcuni fra gli asteroidi maggiori, calcolando la sua rotta con maggior accuratezza. Ma adesso, la cosa più importante era partire, fuggir via, prima che potessero lanciare
l'allarme e fermarlo. Qualche istante più tardi, le sue dita schiacciarono con forza selvaggia l'interruttore principale dell'energia, e la nave partì con un balzo improvviso, seguito da un secondo sobbalzo quando le mura del museo crollarono sotto la spinta dei grandi propulsori ionici. Sulla mappa comparve un minuscolo punto luminoso, che indicava la posizione della nave sulla rotta prestabilita. Ormai, quel mondo era dietro di lui, e non c'era nessuno, lì, a osservare i suoi sforzi con quel misto di gentilezza e pietà che aveva sempre sottolineato la sua insufficienza. Ora, lui era solo, a misurarsi contro il suo destino, e i suoi antenati l'avevano affrontato e vinto molto tempo prima. Squillò un campanello, la nave era uscita dall'atmosfera; il grosso pilota automatico prese a chiocciare soddisfatto, emettendo di tanto in tanto uno strombettio più acuto quando era costretto a far compiere brusche virate alla nave lungo quella rotta nient'affatto ortodossa. Danny si girò a fissarlo, compiaciuto del suo perfetto funzionamento. I suoi antenati potevano anche essere stati capaci soltanto di lenti e faticosi ragionamenti, ma avevano costruito macchine provviste d'intuito, o quasi. E la prova era quella nave, tutt'intorno a lui. Drizzò la testa, si alzò in piedi e si avviò alla cucina con passo scattante. Il cibo era ancora ottimo. Lo divorò, ricordando di aver saltato la cena, e sfogliando lentamente il giornale di bordo che registrava i lunghi viaggi fatti dalla nave, cercando in esso ogni più piccolo riferimento agli asteroidi, Cerere, Pallade, Vesta, o magari alcuni di quelli cui ci si riferiva con sigle o numeri, o addirittura con soprannomi. Ma quale scegliere? Prese, comunque, una decisione, quando si ritrovò nella sala di navigazione, intento a scrutare le gelide immensità dello spazio; là fuori, soltanto minuscoli punti di vivida luce l'interrompevano, le stelle, intense e colorate com'era impossibile vederle attraverso il velo fumoso di un'atmosfera. Sarebbe stato uno dei planetoidi contrassegnati da un numero, quello che veniva chiamato anche «Il Danese» nel giornale di bordo. Il soprannome non sembrava avere nessun significato preciso, ma gli era parso di capire che fosse stato uno degli ultimi ad essere terrestrizzati, e più a fondo, anche se non l'ultimissimo, dal quale le ricerche sarebbero certamente cominciate. Regolò il ricercatore automatico, partendo dal numero che contrassegnava l'asteroide sul manuale, e seguì il suo lavoro per un po', anche se procedeva assai lentamente, calcolando le posizioni successive del «Dane-
se» attraverso gli anni trascorsi dall'ultima registrata, che erano tanti. Per un po' si gingillò con la radio, prima di ricordare che funzionava con un profilo d'onda non più in uso. Tanto meglio: la sua separazione dalla nuova razza sarebbe stata ancora più definitiva. L'analizzatore proseguì, lento, lo spazio perse il suo sapore di novità, e il funzionamento del pilota automatico smise d'interessarlo. Riattraversò la nave verso il soggiorno, per dare un'occhiata al pacchetto là dove l'aveva lasciato cadere, dimenticandosene. Non c'era altro da fare, per lui. E quand'ebbe cominciato a leggere, dimenticò ogni dubbio o contrarietà dovuti al fatto che era una storia scritta da Kenning, e non l'originale; la narrazione aveva la stessa intensità e lo stesso calore, e i personaggi umani lo stesso impulso di una razza che aveva affrontato e dominato il destino tanto tempo fa. C'era poco da meravigliarsi se i lettori di quell'epoca l'avessero definita la più grande epica spaziale che fosse mai stata scritta! S'interruppe soltanto una volta, quando l'analizzatore terminò i suoi calcoli, e inserì le coordinate del piccolo mondo che avrebbe potuto diventare la sua casa, con un po' di fortuna, nel pilota automatico. E poi la nave proseguì, senza più compiere brusche virate, su una lunga rotta lievemente incurvata, la migliore prescelta fra le molte possibili, mentre Danny riprendeva a leggere letteralmente acciambellato, nel seggiolino del pilota, su quelle pagine, provando una nuova e ben maggiore affinità coi personaggi della storia. Non era più un caso pietoso, incatenato alla Terra, ma un vero uomo, un avventuriero come loro! Continuò a leggere, fremente, finché la storia non arrivò alla fine, e lasciò cadere la risma di fogli sul pavimento dalle sue stanche dita. Sul quadro dei comandi si era accesa all'improvviso una luce, ma lui non se ne accorse fino a quando il suono rimbombante di un gong non lo fece balzar su dal seggiolino. La storia che aveva appena letto descriveva un identico colpo di gong... E il significato era lo stesso. I suoi occhi lessero infine le parole che balenavano, rosse e accusatrici, sul pannello: RADIAZIONI A DODICI GRADI... ASTRONAVE AVVISTATA! Le dita di Danny balzarono all'interruttore principale e ogni traccia di attività s'interruppe nella nave, eccettuata la pseudogravità, non appena il significato di quelle parole gli penetrò nel cervello. Non gli fu difficile scorgere l'altra nave dal grande oblò per l'osservazione diretta. La lunga scia di un razzo a conversione totale brillava là fuori, diretta, a quanto sembrava, verso la Terra — probabilmente era la Callisto!
Per un attimo fu certo che l'avessero individuato, ma l'improvviso guizzo che aveva fatto avvicinare l'altra nave e attivato l'allarme doveva essere stato soltanto un lieve aggiustamento di rotta, poiché la scia continuò indisturbata. Lui non sapeva nulla delle nuove navi, se fossero dotate o no di sistemi di avvistamento, ma a quanto pareva facevano a meno di cose del genere. La scia svanì in distanza, e le parole rosse che avevano segnalato il suo avvicinamento si spensero. Danny attese fino a quando, anche alla massima amplificazione, i segnalatori tacquero, e allora diede nuovamente energia. Il piccolo bagliore dei razzi a ioni sarebbe stato invisibile a una tale distanza. Non parve accadere nient'altro. Si udì il soddisfatto ronfare del pilota automatico e lo sbuffo soffocato dell'energia da dietro, ma nessun campanello o altri suoni improvvisi. Lentamente il capo gli ricadde in avanti, sul quadro dei comandi, e il suo profondo respiro si mischiò ai ronzii e ai borbottii dei sistemi della nave, che continuò a svolgere il lavoro per cui era stata progettata. La sua rotta era completamente calcolata, fino alla vecchia pista di atterraggio, e non richiedeva nessuna ulteriore attenzione. Ciò ebbe la sua chiara dimostrazione quando il lento rintocco d'una campana svegliò Danny, mentre sul pannello grandi parole luminose ammiccavano in sincronia con essa: DESTINAZIONE RAGGIUNTA! DESTINAZIONE RAGGIUNTA! Danny spense ogni cosa, sfregandosi via il sonno dagli occhi, e guardò fuori. Una luce solare debole, ma calda, scendeva da un cielo bluastro nel quale piccole nubi galleggiavano non lontano dal suolo. Oltre il campo d'atterraggio sabbioso, chiaramente in disuso, dov'era la nave, c'erano il verde dell'erba e la selvaggia profusione di una foresta. L'orizzonte affondava improvviso, a ricordargli che quello era soltanto un piccolo mondo, anche se per ógni altra cosa avrebbe potuto essere la Terra. Più avanti, individuò una rimessa ovviamente abbandonata, e diede una leggera spinta ai razzi sostentatori, che gradualmente spinsero lo scafo fin dentro a quel riparo, nascondendolo alla vista di chiunque si trovasse in alto. Poi Danny si diede da fare per aprire un portello. Quando finalmente questo si aprì, fu avvolto dalla fragranza della vegetazione in rigoglio, e lì intorno si udivano le strida e i richiami degli uccelli. Un coniglio balzò via dai suoi piedi, e senza troppa fretta, quando uscì incespicando, bramoso della luce del sole. Le erbacce e il sottobosco si erano ormai estesi fino a coprire in gran parte gli edifici intorno a lui. Esalò un sospiro: era stato troppo facile scoprire quel paradiso al primo tentativo fatto a caso.
Ma la vista degli edifici cacciò il dubbio. Circondata un tempo da. quello che era stato un pretenzioso giardino, quella'era stata una grande dimora di pietra, ma adesso cadeva in rovina. Accanto ad essa, un po' discosta, era stata costruita una casa più piccola, e a quanto pareva prelevando le rovine dell'altra. Quest'ultima, comunque, in buona parte era ancora intatta, anche se era in buona parte coperta d'edera, la quale mascherava metà della porta che si apri al tocco delle sue dita. I radiatori, che traevano energia dal grande impianto nucleare che dava a quel piccolo mondo una perpetua rassomiglianza con la Terra, ardevano ancora lievemente. Ma dovunque c'era uno strato di polvere. L'arredamento, tuttavia, era in buone condizioni. Esaminò i mobili, riconoscendo in alcuni di essi certe somiglianze con dei pezzi visti al museo, creati dalla sua razza. Li studiò uno a uno... perché quella era la sua nuova casa, offertagli dalla sorte! Sul tavolo, era deposto, come casualmente, un libro, sopra di esso era appoggiato un foglio di carta, coperto da quella che pareva l'incerta calligrafia di un bambino. La curiosità lo fece avvicinare, fino a quando riuscì a leggerlo, attraverso la polvere che vi era rimasta appiccicata: Papà, Charley Summer ha trovato il relitto di una nave di quegli esseri, ed è venuto da me. Vivremo benissimo su 13. Vieni su, se i tuoi getti ce la faranno, a trovare tuo genero. Non c'era nessuna data, niente che indicasse se «Papà» era tornato o cosa fosse successo a tutti loro. Ma Danny lasciò nuovamente cadere con reverenza il messaggio sul tavolo, guardando fuori, sul campo di atterraggio, quasi aspettandosi di vedere la vecchia, logora nave che arrivava lenta, in quel breve crepuscolo che stava avvolgendo il minuscolo mondo. «Quegli esseri» potevano esser soltanto la nuova razza, dopo la guerra; e ciò significava che qui c'era stato l'ultimo avamposto della sua razza. Quel messaggio poteva esser vecchio di dieci anni, o di una mezza dozzina di secoli — ma la sua gente era stata là, continuando a combattere e riuscendo a sopravvivere, anche se avevano perduto la Terra. Se avevano potuto farlo loro, allora poteva farlo anche lui! E per quanto potesse sembrare improbabile, forse c'erano altri di loro, là fuori, da qualche parte. Forse la vecchia razza sopravviveva ancora, malgrado i tempi duri e le avversità, e perfino l'homo intelligens.
Danny aveva gli occhi umidi, quando si allontanò dalla porta e dalla crescente oscurità esterna, per cominciare a ripulire la sua nuova casa. Se lassù c'era davvero qualcuno, li avrebbe trovati. Altrimenti... Be', lui era pur sempre il membro d'una grande e coraggiosa razza che non avrebbe mai accettato la sconfitta fintanto che un solo uomo fosse vissuto. Questo, lui non l'avrebbe mai dimenticato. Sulla Terra, Bryant Kenning annuì lentamente, rivolto alle persone davanti a lui, mentre metteva giù il comunicatore. I suoi occhi erano un po' tristi, malgrado il sorriso che gli illuminava il volto. «L'esploratore del Direttore è tornato. Lui ha scelto il «Danese». Povero ragazzo, aveva cominciato a temere che avessimo aspettato troppo a lungo, che non ce l'avrebbe mai fatta. Altri sei mesi, e sarebbe morto come un fiore non esposto al sole! Eppure, sono stato subito convinto che avrebbe funzionato, quando la signorina Larsen mi mostrò quella storia, con i suoi mitici paradisi sui planetoidi. Una storia piuttosto ben congegnata... se siete appassionati di opere pseudostoriche. Spero che quella da me preparata fosse alla sua altezza». «Per imprecisione storica, completamente adeguata a lui». Ma il tono divertito nella voce del vecchio professore non si concretizzò in un sorriso. «Be', comunque sia, il ragazzo ha creduto alle nostre menzogne ed è fuggito con l'astronave che gli avevamo costruito. Spero tanto che sia felice, almeno per un po'». La signorina Larsen ripiegò le sue cose, e si preparò ad andarsene. «Povero ragazzo! Era così simpatico, e in un modo talmente patetico! Avrei voluto che quella ragazza, sulla quale abbiamo lavorato, fosse riuscita meglio. Forse, in tal caso, questo non sarebbe stato necessario. Mi accompagni a casa, Jack?» I due uomini anziani seguirono con lo sguardo la signorina Larsen e Thorpe che uscivano, e la stanza si riempì di silenzio e di fumo di tabacco. Alla fine, Kenning scrollò le spalle e si voltò verso il professore. «A quest'ora, avrà certamente trovato il foglio col messaggio. Mi chiedo se, dopotutto, quella sia stata una buona idea. Quando per la prima volta l'ho trovata in quella vecchia storia, ho subito pensato al rapporto preliminare di Jack sul numero 67. Ma adesso... non so. Nel migliore dei casi, è un fattore sconosciuto. Ad ogni modo, l'ho fatto per pura gentilezza». «Gentilezza! Gentilezza, per ripagare con pochi milioni di crediti e poche migliaia di ore di lavoro — più una bugia qua e là — tutto quello che
dobbiamo alla razza del ragazzo!» La voce del professore era impregnata di stanchezza, mentre faceva cadere il contenuto della sua pipa nel portacenere; si alzò, e si diresse lentamente, con passi misurati, verso la finestra panoramica che si affacciava sul cielo tempestato di stelle. «A volte mi chiedo, Bryant», proseguì, «quanta gentilezza abbia trovato il neanderthal, quando l'ultimo della sua razza giunse alla morte. O se la razza che succederà alla nostra, quando l'oscurità scenderà su di noi, avrà da offrirci qualcosa di meglio di una simile gentilezza». Il romanziere scosse dubbioso la testa, e nella stanza gravò nuovamente il silenzio, mentre ambedue guardavano fuori, il loro mondo e le stelle più oltre. Diserzione Desertion di Clifford Simak Astounding, novembre Il quarto racconto della serie «City» («Census» fu pubblicato su Astounding in settembre), che ha per titolo «Desertion» (Diserzione), è il migliore di un gruppo di racconti tutti splendidi, scritto come una risposta diretta alle notizie di ciò che stava accadendo nei campi di sterminio nazisti in Europa. Questa è una delle più grandi storie di tutta la letteratura, sulla difficoltà di compiere delle scelte, e il suo finale è uno dei più grandi in tutta la fantascienza. (Chiaramente, il 1944 fu il grande anno di Simak. È la terza volta che devo parlare di lui in questo volume, dopo la sua totale assenza dai primi cinque della serie. Credo sia giunto il momento di confessare un mio piccolo peccato. Dal momento che i miei contatti con lui sono avvenuti quasi interamente per corrispondenza — l'ho incontrato di persona soltanto tre volte in quarantadue anni di amicizia, e anche in queste rare occasioni, soltanto per poche ore — non avevo mai avuto l'opportunità di pronunciare o sentire il suo cognome espresso in suoni. (Anche durante durante i nostri incontri, lo chiamavo Cliff, e basta). La conseguenza è stata che io, per qualche ragione, mi ero messo in testa che la «i» del suo cognome fosse lunga, e avevo sempre pensato a lui come a SIGH-mak. In effetti, la «i»
del suo cognome è breve, ed esso va pronunciato SIM-ak. Questa, può sembrare una cosa di minima importanza, ma io mi irrito sempre quando sento qualcuno pronunciar male il mio cognome, per cui mi sento moralmente obbligato a prestare uguale attenzione ai cognomi degli altri. Per fortuna, Cliff possiede un temperamento così mite, che davvero non riesco a credere che possa sentirsi contrarialo nei miei confronti per una colpa così veniale. I.A.) Quattro uomini, a due a due, erano entrati nell'ululante maelstrom che era Giove, e non erano tornati. Si erano incamminati fra quelle urlanti raffiche — o meglio, avevano proceduto a lunghi balzi, il ventre appiattito al suolo, i fianchi umidi di pioggia. Poiché non vi erano andati in forma di uomini. Adesso il quinto uomo era in piedi, davanti alla scrivania di Kent Fowler, Capo della Cupola N. 3 della Commissione Esplorativa Gioviana. Sotto la scrivania di Fowler, il vecchio Towser si grattò via una pulce, poi si ridistese e riprese a dormire. Fowler si accorse, con una fitta, che Harold Allen era giovane, troppo giovane. Aveva la naturale fiducia in se stesso dei giovani, la schiena dritta, gli occhi puntati dritti davanti a sé, il volto di qualcuno che non aveva mai conosciuto la paura. E questo era strano. Poiché gli uomini delle cupole di Giove conoscevano la paura... la paura e l'umiltà. Era difficile per l'uomo conciliare la propria piccolezza con le possenti forze del mostruoso pianeta. «Lei capisce», disse Fowler, «che non c'è bisogno che faccia questo. Lei capisce che non c'è bisogno che vada». Era la formula rituale, ovviamente. Agli altri quattro erano state dette le stesse parole, ma erano andati. E questo, il quinto, Fowler lo sapeva, sarebbe andato anche lui. Ma d'improvviso, sentì nascere in sé un barlume di speranza, che Allen non sarebbe andato. «Quando parto?» chiese Allen. C'era stato un tempo in cui Fowler avrebbe provato un intimo orgoglio per quella risposta, ma adesso non più. Per un attimo, corrugò la fronte. «Entro un'ora», rispose. Allen restò immobile, in attesa. «Quattro altri uomini sono usciti e non sono tornati», proseguì Fowler. «Lei lo sa, naturalmente. Ma noi vogliamo che lei torni. Non vogliamo che
lei vada a compiere qualche eroica spedizione di soccorso. La cosa principale, quella di gran lunga più importante, è che lei torni indietro, dimostrando in tal modo che l'uomo può vivere in una forma gioviana. Si spinga soltanto al primo picchetto della zona esplorata, poi torni indietro. Non corra nessun rischio. Non indaghi su niente. Torni indietro, e basta». Allen annuì. «Tutto questo l'ho capito». «La signorina Stanley farà funzionare il convertitore», disse ancora Fowler. «Non dovrà temer nulla, da quel lato. Gli altri uomini sono stati convertiti senza incidenti. Hanno lasciato il convertitore in condizioni, almeno all'apparenza, perfette. Lei sarà in mani assolutamente competenti. La signorina Stanley è, in tutto il sistema solare, la più qualificata operatrice in conversioni. Ha fatto esperienza sulla maggior parte degli altri pianeti. È per questo che si trova qui, con noi». Allen fissò la donna e le sorrise, e Fowler colse qualcosa guizzare per un attimo sul volto della signorina Stanley — qualcosa che avrebbe potuto essere pietà, o rabbia... o semplicemente paura. Ma subito scomparve, e la donna sorrideva al giovanotto in piedi davanti alla scrivania. Sorridendo con quel suo modo compassato da maestrina, quasi come detestasse se stessa per dover sorridere così. «Non vedo l'ora di esser convertito», disse Allen. E per il modo in cui lo disse, sembrò uno scherzo, un grande, ironico scherzo. Ma non era uno scherzo. Era una faccenda seria, mortalmente seria. Da quegli esperimenti, Fowler lo sapeva, dipendeva il destino degli uomini su Giove. Se avessero avuto successo, le risorse del gigantesco pianeta sarebbero state a disposizione degli uomini. L'uomo avrebbe preso possesso di Giove come aveva fatto con i pianeti più piccoli. Ma se avessero fallito... Se avessero fallito, l'uomo avrebbe continuato ad essere legato e inceppato dalla tremenda pressione atmosferica, dall'enorme forza di gravità, dalla chimica tremendamente aliena del pianeta. Avrebbe continuato a restar chiuso dentro le cupole, incapace di porre effettivamente il piede sul pianeta, incapace di vederlo realmente coi propri occhi senza strumenti che li aiutassero, costretto a lavorare con complicati utensili meccanici, o con i robot, che erano anch'essi impacciati. Poiché l'uomo, senza protezione e nella sua forma naturale, sarebbe stato annichilito in un attimo dalla terrificante pressione atmosferica di Giove, tonnellate e tonnellate per centimetro quadrato, una pressione che al con-
fronto faceva sembrar vuoto perfino il fondo degli oceani della Terra. Perfino le più robuste leghe metalliche che l'uomo era riuscito a concepire non potevano resistere a una simile pressione, alla pressione e alle piogge alcaline che spazzavano eternamente il pianeta. Diventavano friabili e scagliose, e si sbriciolavano come creta, oppure si dissolvevano e scorrevano via sotto forma di sali d'ammoniaca. Solo aumentando artificialmente la tensione elettronica interna, questi metalli acquistavano una durezza e una robustezza sufficienti a sopportare il peso di migliaia di miglia di quei turbinosi gas soffocanti che costituivano l'atmosfera. E anche dopo questo trattamento, ogni cosa doveva esser rivestita d'una corazza di quarzo per tener lontana la pioggia — quella pioggia amarissima che era ammoniaca liquida. Fowler stava ascoltando il rombo sordo dei motori, nel sotterraneo della cupola. Motori che pulsavano ininterrotti, senza che la cupola potesse, anche per un solo attimo, restar priva del loro vibrare. Dovevano funzionare e funzionare e funzionare, poiché, se si fossero fermati, l'energia che scorreva nelle pareti metalliche della cupola si sarebbe interrotta, la tensione elettronica si sarebbe allentata, e sarebbe stata, in pochi attimi, la fine di ogni cosa. Towser si riscosse, sotto la scrivania di Fowler, e si grattò un'altra pulce, la sua zampa tambureggiò con forza sul pavimento. «C'è altro?» chiese Allen. Fowler scosse il capo. «Forse c'è qualcosa che vorrebbe fare», rispose. «Forse...» Stava per dire, «... vorrebbe scrivere una lettera», ma fu lieto d'essersi fermato in tempo. Allen lanciò un'occhiata al suo orologio. «Arriverò là in tempo», disse. Si girò e si avviò verso la porta. Fowler sapeva che la signorina Stanley lo stava guardando, e non osò voltarsi per non incontrare i suoi occhi. Armeggiò con un fascio di fogli sulla scrivania. «Per quanto tempo ha intenzione di continuare?» chiese la signorina Stanley, e ogni parola era un morso rabbioso. Allora, Fowler si girò sulla sedia e la fronteggiò. Le labbra della donna erano tese in una linea dritta e sottile, i capelli pettinati indietro sulla fronte più tirati che mai, dando alla sua faccia quella singolare caratteristica, quasi stupefacente, che la faceva assomigliare a una maschera della morte. Fowler cercò di dare alla sua voce un tono calmo e imparziale. «Fintanto
che ce ne sarà bisogno», disse. «Fintanto che ci sarà ancora qualche speranza». «Continuerà a condannarli a morte», disse la donna. «Continuerà a farli uscir fuori, faccia a faccia con Giove. Continuerà a starsene seduto qua dentro, comodo e al sicuro, mandandoli fuori a morire». «Non c'è posto per il sentimentalismo, signorina Stanley», replicò Fowler, cercando di tener fuori la rabbia dalla sua voce. «Sa bene quanto me perché lo stiamo facendo. Lei sa benissimo che l'uomo, nella sua propria forma, non può assolutamente affrontare Giove. L'unica soluzione, è trasformare gli uomini in un tipo di creature che possano affrontarlo. L'abbiamo fatto su altri pianeti. «Se pochi uomini muoiono, ma alla fine otteniamo successo, il prezzo è piccolo. Per tanti secoli gli uomini hanno gettato via la loro vita per le più sciocche, assurde ragioni. Perché dovremmo esitare, allora, se vi sarà qualche morto, in cambio di un'impresa così gigantesca?» La signorina Stanley sedeva dritta e rigida, le mani incrociate in grembo, le luci che giocavano tra i suoi capelli che si andavano sbiancando, e Fowler, guardandola, cercò d'immaginare cosa potesse sentire, cosa potesse pensare. Non che avesse paura di lei, ma non si sentiva del tutto a suo agio in sua presenza. Quei penetranti occhi azzurri vedevano troppo, le sue mani parevano troppo competenti. Avrebbe potuto benissimo essere la zia di qualcuno, seduta su una sedia a dondolo coi suoi ferri da calza, ma non lo era. Era la più abile operatrice delle unità di conversione in tutto il sistema solare, e non le piaceva il modo in cui lui conduceva le cose. «C'è qualcosa che non funziona, signor Fowler», dichiarò la donna. «Precisamente», ammise Fowler. «È per questo che mando il giovane Allen là fuori da solo. Potrà forse scoprire di che cosa si tratta». «E se non ci riuscisse?» «Manderò fuori qualcun altro». La donna si alzò lentamente in piedi, si diresse verso la porta, poi sembrò ripensarci e si fermò davanti alla scrivania. Un giorno», disse, «lei sarà un grand'uomo. Non si lascerà certo sfuggire l'occasione di diventarlo. Questa è la sua occasione. Lo ha saputo fin dal momento in cui questa cupola è stata eretta. Se gli esperimenti avranno infine successo, lei salirà di un gradino o due nella scala gerarchica. Non importa quanti uomini possano esser morti, lei salirà di un gradino o due». «Signorina Stanley», replicò Fowler, con voce brusca, «il giovane Allen sarà pronto assai presto. Vuole accertarsi che la sua macchina...»
«La mia macchina», disse la donna, gelida, «non ha nessuna colpa. Opera esattamente in base ai dati stabiliti dai biologi». Fowler restò seduto, ingobbito, alla sua scrivania, mentre i passi della signorina Stanley si allontanavano lungo il corridoio. Ciò che la donna aveva detto era vero, naturalmente. I biologi avevano stabilito precise coordinate. Ma i biologi potevano sbagliarsi. Bastava un'infinitesima differenza, un niente, e il convertitore avrebbe mandato fuori qualcosa che non avrebbe dovuto. Un mutante che poteva crollare per la tensione, impazzire, reagire nel modo più sbagliato, assurdo, davanti a ostacoli imprevisti. Poiché l'uomo non sapeva ciò che succedeva là fuori. Conosceva soltanto le indicazioni degli strumenti. E quegli scarsi, frammentari campioni d'informazione forniti dagli strumenti non potevano valere granché, poiché Giove era molto grande, e le cupole molto piccole. Perfino il lavoro dei biologi per ottenere qualche informazione più approfondita sui Saltanti, con ogni probabilità la forma di vita gioviana più evoluta, aveva richiesto più di tre anni di lunghe e faticose ricerche, e poi altri due anni di controlli per esserne sicuri. Un lavoro che sulla Terra avrebbe richiesto, sì e no, una settimana o due. Ma un lavoro che, in questo caso, non poteva in nessun modo esser compiuto sulla Terra, poiché non era possibile portare sulla Terra una forma di vita gioviana. La pressione esistente su Giove non poteva esser riprodotta fuori del pianeta, e alla pressione e alla temperatura della Terra, i Saltanti sarebbero semplicemente scomparsi in uno sbuffo di gas. Eppure era un lavoro che bisognava fare, se l'uomo voleva sperare di potersi aggirare, un giorno, su Giove, nella forma fisica dei Saltanti. Giacché, prima di poter cambiare un uomo, grazie al convertitore, in un'altra forma di vita, ogni più piccola caratteristica fisica di quella forma di vita doveva esser conosciuta in ogni particolare senza nessuna possibilità di errore. Allen non tornò. I trattori, pur passando al setaccio il terreno circostante, non trovarono nessuna traccia di lui, a meno che la creatura furtiva che uno dei conducenti riferì di aver visto non fosse il terrestre mancante, in forma di Saltante. I biologi si trincerarono dietro una serie di sorrisi accademici, quando Fowler suggerì che i dati da essi forniti al convertitore potevano essere sbagliati. Con molto puntiglio e diligenza gli fecero osservare che i dati
funzionavano. Quando un uomo veniva posto nel convertitore, e veniva abbassato l'interruttore, l'uomo diventava un Saltante. Lasciava la macchina e si allontanava, fuori dalla loro vista, in mezzo a quell'innominabile brodaglia che era l'atmosfera gioviana. Qualche minuscolo scarto, insisté Fowler, qualche impercettibile deviazione da ciò che avrebbe dovuto essere un Saltante, qualche microscopico difetto. Se ci fosse stato, dichiararono i biologi, ci sarebbero voluti anni per scoprirlo. E Fowler sapeva che avevano ragione. Così, adesso erano cinque gli uomini scomparsi, non più quattro, e Harold Allen era uscito là fuori, sulla superficie di Giove, per niente. Era come se non ci fosse mai andato, per ciò che riguardava la raccolta d'informazioni. Fowler allungò la mano attraverso la scrivania e prese su la cartella con l'elenco del personale, un sottile fascio di fogli tenuti insieme da un fermaglio. Avrebbe dato chissà cosa per non farlo, ma doveva. In qualche modo, la causa di quelle inspiegabili sparizioni doveva esser trovata. E non c'era altro modo di farlo se non mandar fuori altri uomini. Ristette per un attimo, ascoltando l'ululato del vento sopra la cupola, le raffiche rombanti che spazzavano l'intero pianeta con la loro collera. C'era forse qualche minaccia là fuori? si chiese. Qualche pericolo che non conoscevano? Qualcosa in agguato che ingoiava i Saltanti, senza fare alcuna distinzione fra quelli autentici, e i Saltanti che erano uomini? Per chi li ingoiava, naturalmente, non faceva nessuna differenza. Oppure, c'era stato un errore di partenza, nello scegliere i Saltanti come il tipo di vita più adatto a sopravvivere sulla superficie del pianeta? Il fatto che i Saltanti mostrassero un'indubbia intelligenza, lo sapeva, era stato l'elemento decisivo in quella scelta, poiché, se la creatura che l'uomo diventava non avesse avuto l'intelligenza, l'uomo non sarebbe riuscito a conservare la propria, in quella forma. I biologi avevano forse permesso che quel fattore pesasse troppo, usandolo per compensare qualche altro fattore che avrebbe potuto rivelarsi insoddisfacente, o addirittura catastrofico? Non gli parve probabile. Per quanto ostinati potessero essere, i biologi conoscevano il loro lavoro. Oppure l'intera impresa era impossibile, condannata al fallimento prima ancora di cominciare? La conversione in altre forme di vita aveva funzionato su altri pianeti, ma ciò non significava necessariamente che dovesse funzionare anche su Giove.
Forse l'intelligenza umana non riusciva a funzionare efficacemente attraverso l'apparato sensoriale fornito da una forma gioviana. Forse i Saltanti erano alieni al punto che non c'era alcun terreno comune perché l'esperienza umana e il concetto gioviano dell'intelligenza s'incontrassero e operassero insieme. Oppure, l'errore poteva nascondersi dentro l'uso medesimo, essere insito nella razza umana. Qualche aberrazione mentale che, associandosi con qualcosa che incontravano là fuori, non li lasciava più tornare indietro. Anche se poteva anche non trattarsi di aberrazioni, non dal punto di vista umano. Forse soltanto un tipico tratto mentale umano, accettato come perfettamente normale sulla Terra, ma talmente in contrasto con il modo di esistere gioviano, da poter distruggere ogni intelligenza e ogni equilibrio mentale in un uomo. Un ticchettio raspante si udì nel corridoio. Fowler tese l'orecchio ed ebbe un pallido sorriso. Era Towser che ritornava dalla cucina, dove era andato a trovare il suo amico, il cuoco. Towser entrò nella stanza, con un osso. Dimenò la coda, fissando Fowler, e si accucciò accanto alla sua scrivania, con l'osso tra le zampe. Per un lungo attimo i suoi vecchi occhi catarrosi contemplarono il padrone, e Fowler abbassò una mano a carezzare un ispido orecchio. «Mi vuoi ancora bene, Towser?» chiese Fowler, e la coda di Towser tambureggiò sul pavimento. «Tu sei il solo», continuò Fowler. «In tutta la cupola mi maledicono. Assassino, mi chiamano. E non è che abbiano tutti i torti...» Si raddrizzò e tornò a voltarsi verso la scrivania. Allungò una mano e prese nuovamente l'elenco del personale. Bennett? Bennett aveva una ragazza che lo aspettava sulla Terra. Andrews? Andrews progettava di tornare all'Istituto Tecnico di Marte non appena avesse guadagnato abbastanza da viverci per un anno. Olson? Olson si stava avvicinando all'età della pensione. Continuava a dire a tutti che si sarebbe messo a coltivare rose. Lentamente, Fowler tornò a deporre la cartella coi fogli sulla scrivania. Mandava a morte gli uomini. La signorina Stanley aveva detto questo, le labbra pallide e tirate che si muovevano appena sul suo volto impietrito. Mandava gli uomini fuori a morire, mentre lui, Fowler, se ne stava seduto là dentro, comodo e sicuro. Senza dubbio, dovevano dirlo tutti, là dentro la cupola, specialmente do-
po che Allen non era più tornato. Non gliel'avrebbero mai detto in faccia, naturalmente. Neppure quell'uomo, o quegli uomini, che avrebbe chiamato davanti alla sua scrivania per dir loro che sarebbero stati i prossimi ad uscire, gliel'avrebbero detto. Avrebbero detto soltanto: «Quando partiamo?» Perché quella era la formula. Ma lui l'avrebbe letto nei loro occhi. Raccolse di nuovo la cartella. Bennett, Andrews, Olson. Ce n'erano altri, ma non serviva continuare. Kent Fowler sapeva che non poteva farlo, non poteva guardarli in faccia, non avrebbe potuto mandar fuori altri uomini a morire. Si sporse in avanti e fece scattare la levetta dell'intercom. «Sì, signor Fowler?» «La signorina Stanley, per favore». Attese di poter parlare con la signorina Stanley ascoltando Towser che rosicchiava l'osso con scarso impegno. I denti di Towser andavano peggiorando ogni giorno. «Qui Stanley», disse la voce della signorina Stanley. «Volevo giusto dirle, signorina Stanley, di'prepararsi per altri due». «Non ha paura», chiese la signorina Stanley, «di esaurirli tutti? Mandandoli fuori uno per volta, dureranno più a lungo, e lei avrà il doppio della soddisfazione». «Uno dei due», precisò Fowler, «sarà un cane». «Un cane!» «Sì, Towser». Sentì l'immediata, gelida rabbia nella voce sibilante della donna: «Il suo cane! Le è rimasto al fianco tutti questi anni...» «È questo il punto», l'interruppe Fowler. «Towser sarebbe molto infelice se lo lasciassi qui». Non era il Giove che aveva conosciuto attraverso il televisore. Si era aspettato che fosse diverso, ma non così. Si era aspettato un inferno di pioggia ammoniacale e fumi fetidi, e l'assordante rimbombo dell'eterna tempesta. Si era aspettato vortici di nubi e di nebbia e il ringhiante guizzare di mostruose saette. Non si era aspettato che quello sferzante rovescio si riducesse a una foschia purpurea che ondeggiava, in una prospettiva d'ombre fuggitive, su una prateria scarlatta. Non avrebbe mai potuto immaginare che quelle folgori serpeggianti sarebbero state vampe e bagliori di pura estasi, guizzanti in un cielo dipinto.
Mentre aspettava Towser, Fowler fletté i muscoli del suo corpo, sorpreso dalla fluida, agile forza che vi trovò. Non un brutto corpo, decise, e pensò, stranamente corrucciato, alla pietà che aveva sempre provato per i Saltanti, quando li aveva intravisti allo schermo televisivo. Giacché era stato difficile immaginare un organismo vivente basato sull'ammoniaca e l'idrogeno invece che sull'acqua e l'ossigeno, difficile credere che una simile forma potesse provare lo stesso fervore, la stessa, penetrante, ansia di vita dell'umanità. Difficile concepire perfino l'esistenza di una vita, là fuori, in quel denso e sciropposo maelstrom che era Giove, non sapendo che, ovviamente, attraverso gli occhi dei gioviani non era affatto un denso e sciropposo maelstrom. Il vento lo sfiorò con quelle che gli parvero dita gentili, e ricordò con un sussulto che, secondo i criteri terrestri, quel vento era una bufera, un ciclone ululante a duecento miglia all'ora, carico di gas micidiali. Piacevoli profumi avvolsero il suo corpo. Eppure non erano affatto profumi, poiché, a comunicarglieli, non era il senso dell'olfatto come lui lo ricordava. Era come se tutto il suo essere si compenetrasse dell'essenza di lavanda. Ma era qualcosa, in realtà, per cui non c'erano parole, senza dubbio il primo d'una lunga serie di enigmi di terminologia. Sapeva che le parole da lui conosciute, i simboli del pensiero che gli erano serviti come terrestre, non gli sarebbero stati di nessuna utilità come gioviano. Il portello sul fianco della cupola si aprì, e Towser ne uscì saltando e rimbalzando... almeno, lui pensò che doveva essere Towser. Fece per chiamare il cane, la sua mente formò le parole che aveva intenzione di dire... ma non poté dirle. Non c'era alcun modo di dirle. Non aveva niente con cui dirle. Per un attimo, la sua mente fu colta da un viscido, vorticoso terrore, una paura cieca che esplose in una serie di sbuffi di panico nel suo cervello. Come facevano a parlare, a comunicare, i gioviani? Come... D'improvviso, fu conscio di Towser, intensamente conscio dell'ardente amicizia, del goffo, travolgente trasporto dell'irsuto animale che l'aveva seguito, dalla Terra, su tanti pianeti. Come se l'entità che era Towser si fosse protesa verso di lui e per un attimo si fosse messa nel suo cervello. E dalla confusa sensazione di benvenuto presero forma delle parole: «Ciao, amico». In realtà non erano parole, ma erano meglio delle parole. Quella sorta di pensieri simbolici che gli venivano trasmessi avevano sfumature di significato impossibili alle parole.
«Ciao, Towser», rispose. «Mi sento bene», disse Towser. «Come se fossi un cucciolo. Negli ultimi tempi, mi sono proprio sentito andare a pezzi. Le giunture sempre più rigide, e i denti quasi del tutto consumati, ridotti a niente. Difficile rosicchiare un osso con simili denti. Inoltre, le pulci mi hanno fatto passare l'inferno. Una volta, non gli prestavo molta attenzione. Un paio di pulci in più o in meno non significavano molto quand'ero giovane». «Ma... ma...» I pensieri di Fowler fremettero sbalorditi. «Tu mi stai parlando! «Certo», annuì Towser. «Io ti ho sempre parlato, ma tu non sei mai riuscito a capirmi. Ti dicevo tante cose, ma tu...» «Qualche volta riuscivo a capirti». «Sì», annuì Towser, «Tu capivi quando volevo mangiare e bere, o quando volevo uscire, ma questo è tutto». «Mi spiace», fece Fowler. «Oh, non pensarci più», rispose Towser. «Facciamo una corsa fino a quel dirupo». Per la prima volta Fowler si avvide di quella formazione rocciosa, che gli parve distante molte miglia, ma con una strana bellezza cristallina che scintillava all'ombra delle nuvole iridescenti. Fowler esitò: «È molto lontano...» «Ah, su, vieni», lo sollecitò Towser, e mentre diceva questo, si lanciò di corsa verso il dirupo. Fowler lo seguì, saggiando le sue nuove gambe, mettendo alla prova quel suo nuovo corpo, dubbioso, sulle prime, stupefatto pochi attimi più tardi, lanciandosi poi in una corsa sfrenata, fatta d'una gioia pura che era un tutt'uno col prato dalle vivide sfumature rosse e purpuree, coi vapori ondeggianti suscitati dalla pioggia sul suolo. Mentre correva, divenne conscio d'una musica... una musica che gl'investiva il corpo, che invadeva il suo essere, che l'innalzava su rapide impalpabili ali d'argento. Una musica come di campane, quale soltanto una piccola chiesa tra verdi colline avrebbe potuto innalzare nella limpida aria di primavera. Man mano il dirupo si avvicinava, la musica crebbe e riempì l'universo di magici suoni. Si avvide che usciva da una cascata che zampillava giù dalla scintillante parete rocciosa. Soltanto che lui, subito, si rese conto che non era una cascata d'acqua, bensì di ammoniaca, e il dirupo era bianco perché formato da ossigeno so-
lidificato. Si arrestò, con una lunga scivolata, accanto a Towser, là dove la cascata si frangeva in uno smagliante arcobaleno dai mille colori. Ed erano proprio mille colori, uno diverso dall'altro, non tante sfumature di pochi colori, come le avrebbe viste un occhio umano. Poiché quei suoi nuovi occhi avevano un potere analitico così netto e preciso da sbalordire. «La musica», disse Towser. «Sì, cosa...?» «La musica», ripeté Towser, «sono le vibrazioni di quel liquido che cade giù». «Ma, Towser, tu non sai niente delle vibrazioni». «Sì, invece», lo smentì Towser. «Mi è venuto in mente, così, all'improvviso». «Ti è appena venuto in mente!» Fowler digerì l'informazione con uno sforzo. E all'improvviso, nel suo cervello fiorì, letteralmente, una formula... la formula d'un procedimento che avrebbe consentito ai metalli di resistere alla pressione di Giove. Fissò stupefatto la cascata, e subito la sua mente afferrò tutti quei colori e li schierò nell'ordine esatto dello spettro. Così. Cogliendolo di sorpresa. Poiché lui non sapeva nulla di colori o di metalli. «Towser!» gridò. «Towser, ci sta accadendo qualcosa!» «Sì», rispose Towser, «lo so». «È il nostro cervello», proseguì Fowler. «Lo stiamo usando... lo stiamo usando tutto, fino all'angolo più nascosto. Usandolo per capire cose che avremmo dovuto sapere da sempre. Forse il cervello delle creature, sulla Terra, è per sua natura lento e confuso. Forse noi siamo gli idioti dell'universo. Forse siamo talmente privi di elasticità e profondità, che siamo costretti a far sempre le cose nel modo più difficile». E, in quella nuova acutezza di pensiero, seppe che non si sarebbe trattato soltanto di riconoscere la sequenza spettrale dei colori smaglianti dellta cascata, o la formula che avrebbe fatto resistere i metalli alla pressione di Giove; stavano affiorando ai suoi sensi e alla sua mente molte altre cose, ancora non chiare. Un vago bisbiglio che accennava a cose più grandi, a misteri al di là dei limiti del pensiero umano, al di là dei confini, perfino, dell'immaginazione umana. Misteri, fatti, al lume di una logica nuova, ben più razionale. E tutte cose che un cervello umano avrebbe già dovuto conoscere, se avesse usato tutte le sue facoltà ragionative. «Siamo ancora in gran parte terrestri», commentò Fowler. «Cominciamo
soltanto adesso a capire delle cose che dovremmo conoscere... alcune delle cose che, in quanto esseri umani, ci sono rimaste sempre celate. Perché i nostri corpi umani erano ben miseri corpi, troppo imperfetti per pensare con la dovuta acutezza, e sprovvisti di alcuni sensi essenziali alla vera conoscenza». Si voltò a guardare la cupola dietro di loro, una minuscola cosa nera, rimpicciolita dalla distanza. Là dentro c'erano uomini che non potevano vedere la straordinaria bellezza di Giove. Uomini convinti che la superficie del pianeta fosse un orribile mondo avvolto da turbinose nubi soffocanti e sferzato da piogge corrosive. Occhi umani, incapaci di vedere. Poveri occhi. Occhi che non potevano contemplare la bellezza di quelle nubi, che non potevano cogliere tanti splendori attraverso le tempeste. Corpi che non potevano provare l'eccitazione di quella musica ineffabile che nasceva dal frangersi della cascata. Uomini che procedevano nella loro angosciosa solitudine, pronunciando parole con la loro bocca allo stesso modo in cui i giovani esploratori trasmettevano segnali agitando braccia e fazzoletti, incapaci di protendersi fuori e toccarsi l'un l'altro con le rispettive menti, allo stesso modo in cui, adesso, lui poteva spingersi a toccare la mente di Towser. Esclusi per sempre da un contatto davvero profondo, intimo, personale, con le altre creature viventi. Lui, Fowler, si era aspettato lì, sulla superficie di Giove, un terrore ispirato dalla sua alienità, si era aspettato di arretrare impaurito davanti alla minaccia di cose sconosciute, si era preparato, con tremendo sforzo di volontà, a vincere la repulsione per un ambiente il più possibile estraneo a quello terrestre. Ma aveva trovato invece la cosa più grande che l'uomo avesse mai conosciuto. Un corpo più agile e sicuro. Un'invincibile gioia di vivere. Una mente più acuta. E un mondo d'una bellezza che neppure i più grandi sognatori della Terra sarebbero mai riusciti a concepire. «Andiamo», lo sollecitò Towser. «Dove vuoi andare?» «Dovunque sia», disse Towser. «Su, andiamo, non importa dove. Ho una sensazione... una sensazione...» «Sì, lo so», annuì Fowler. Giacché anche lui aveva quella sensazione. La sensazione di un grande destino. Un certo senso di grandezza. La consapevolezza che in quel luo-
go, oltre quegli orizzonti, li aspettavano avventure e cose più grandi delle avventure. Anche i cinque che erano usciti su Giove prima di loro l'avevano sentito... Avevano sentito lo stimolo irresistibile di andare a vedere, la travolgente sensazione che, qui, avrebbero conosciuto un'esistenza di profondo appagamento e di saggezza. E seppe, allora, che proprio per questo non erano tornati. «Io non tornerò indietro», disse Towser. «Ma non possiamo tradirli così...» azzardò Fowler. «Non...» Fece un passo o due, tornando indietro in direzione della cupola, poi si fermò. Tornare alla cupola... Tornare a quel corpo dolorante, carico di veleno, che aveva appena lasciato. Non gli era parso dolorante prima, ma adesso sapeva che era pieno di sofferenze grandi e piccole... Tornare a quel cervello confuso, a quel pensare torpido, ottuso. Tornare a quell'agitar di bocche per formulare goffi segnali sonori, per farsi capire dagli altri. Tornare a occhi che ora gli avrebbero fatto rimpiangere d'esser cieco. Tornare allo squallore, allo strisciare, all'ignoranza. «Forse un giorno», borbottò tra sé. «Abbiamo molto da fare e molto da vedere», disse Towser. «Abbiamo molto da imparare. Troveremo cose...» Sì, avrebbero potuto trovare tante cose. Civiltà, per esempio. Civiltà che avrebbero fatto apparire quella degli uomini, al confronto, insignificante. Avrebbero trovato la bellezza e, cosa più importante, la comprensione di quella bellezza. E un'amicizia, una fratellanza, che nessuno aveva mai conosciuto prima. E vita. Una vita rapida, gioiosa, dopo quella che, ora, al confronto, appariva un'esistenza torpida, addormentata. «Non posso tornare indietro», disse Towser. «Neppure io», disse Fowler. «Mi ritrasformerebbero in un cane», disse Towser. «Ed io», disse Fowler, «verrei ritrasformato in un uomo». Quando il ramoscello si spezza When the Bough Breaks di «Lewis Padgett» [Henry Kuttner e C.L. Moore] Astounding, novembre
Henry Kuttner e C.L. Moore continuarono a sfornare opere di qualità, conservando la brillante vena con cui avevano iniziato gli anni quaranta (vedi il quarto e il quinto volume di questa serie) anche nel 1944, racconti come «Housing Problem» (Charm, ottobre), «Trophy» (Thrilling Wonder Storie, inverno), e «The Children's Hour» (Astounding, marzo). Ma la loro collaborazione raggiunse il culmine con «When the Bough Breaks» (Quando il ramoscello si spezza), una storia intensa ed efficace, un po' simile al loro «Mimsy were the Borogoves» dell'anno precedente. Si è spesso affermato che la narrativa giunge alla grandezza quando riesce a catturare la natura tragica della vita... Se è così, questo racconto è grande in ogni sua singola parola. (Spesso mi vien chiesto se un'istruzione scientifica è essenziale per chi scrive fantascienza. Si potrebbe pensare che davvero lo sia, ma non è così, dal momento che eccellente fantascienza è stata scritta da autori ai quali è mancata una simile istruzione. Posso citare come esempi Fredric Brown fra gli scrittori della prima generazione, e Harlan Ellison — i cui racconti cominceranno a comparire a tempo debito, con l'allungarsi di questa serie di antologie — fra quelli della nuova. Mi sembra che Henry Kuttner e C.L. Moore siano ulteriori, validi esempi. Intendiamoci, ciò non significa che siano scientificamente ignoranti (anche se questo, in verità, non li squalificherebbe affatto). Vuol dire, tuttavia, che la scienza di cui avevano bisogno se la sono imparata da soli, e hanno saputo benissimo mantenere in quantità minime il loro fabbisogno, ottenendo, malgrado ciò, degli splendidi risultati. I.A.) Rimasero sorpresi quando ottennero l'appartamento, visti gli affitti alle stelle di quegli anni e le norme-capestro dei contratti. Joe Calderon si considerò fortunato ad essere a soli dieci minuti di metropolitana dall'università. Sua moglie Myra si arruffò i capelli con aria distratta e disse che i proprietari probabilmente si aspettavano che gli inquilini si riproducessero per partenogenesi. Intendeva riferirsi al processo per cui un singolo organismo si scinde in due, dando come risultato due semplari già adulti. Calderon sogghignò: «Scissione binaria, sciocchina», la corresse. E si volse a guardare il giovane Alexander, diciotto mesi, che zampettava sul pavimento, accingendosi a rizzarsi in piedi sulle gambe grassocce e arcuate. Era, in ogni caso, un appartamento più che discreto, assai soleggiato,
con più stanze di quante avessero avuto il diritto di aspettarsi, a quel prezzo. La signora della porta accanto, una bionda ancheggiante che parlava quasi esclusivamente delle sue emicranie, disse che lì, al 4-D, gli inquilini non duravano molto. Non che fosse precisamente infestato dai fantasmi, ma continuava a ricevere strani visitatori. L'ultimo inquilino, un assicuratore che beveva parecchio, un bel giorno se n'era andato bofonchiando di certi omettini che venivano a suonargli il campanello a tutte le ore chiedendogli di un certo signor Pott, o qualcosa di simile. Solo alquanto tempo dopo Joe associò «Pott» con «Cauldron»... Calderon. Erano seduti sul divano, soddisfatti, intenti a guardare Alexander. Era davvero un bel bambino. Come tutti i bambini, aveva un cospicuo rotolo di grasso dietro al collo, e le sue gambe, diceva Joe, erano due robusti pilastri senza giunture, o almeno facevano quell'effetto. Non si poteva guardare quel bambino, così gonfio e roseo, senza restarne affascinati. Alexander, rise gorgogliando, si alzò in piedi, e si avviò barcollando come un ubriaco verso i suoi genitori, farfugliando parole incomprensibili. «Amor mio», gli disse Myra, grondante affetto, lanciando al bambino un morbido porcellino di velluto, che era il suo balocco preferito. «Così eccoci pronti per l'inverno», dichiarò Calderon. Era un uomo alto, magro, l'espressione arguta. Un eccellente fisico sperimentale, molto preso dal suo lavoro all'università. Myra era una testarossa dalla figura snella, il naso sbarazzino e occhi castano-chiari, vivaci. Esalò un dolente sospiro. «Se troveremo una domestica. Altrimenti, toccherà a me far la donna a ore». «Sembri un'anima persa», osservò Calderon. «Cosa intendi dire, con questo far la donna a ore?» «Far tutti i servizi in casa, ovviamente: lavare, cucinare, scopare. I bambini costano parecchia fatica... anche se ne valgono la pena». «Non dirlo davanti ad Alexander. Monterà in superbia». Il campanello squillò alla porta d'ingresso. Calderon srotolò il lungo corpo, attraversò perplesso la stanza, e aprì la porta. Sbatté le palpebre, stupito, davanti al vuoto. Poi abbasso un po' lo sguardo, e ciò che vide fu sufficiente a fargli strabuzzare gli occhi. Quattro ometti erano lì, nel corridoio. Piccoli, sì, ma soltanto dalla fronte in giù. I loro crani erano immensi, più grossi d'un melone e della stessa forma, a meno che non portassero dei caschi smisurati di metallo lucido. Avevano il volto vizzo, minuscole maschere aguzze coperte da una fitta rete di rughe e di grinze. Portavano indumenti sgargianti, dai colori sgrade-
voli, che sembravano fatti di carta. «Oh?» fece Calderon. I quattro si scambiarono rapide occhiate. Uno dei quattro chiese: «Lei è Joseph Calderon?» «Già». «Noi», disse il più rugoso dei quattro, «siano i discendenti di suo figlio. È unsuperbambino. Siamo qui per educarlo». «Sì», rispose Calderon. «Sì, naturalmente. Io... ehi, voi, sentite!» «Cosa avete detto?» «Super...» «Eccolo là!» gridò un altro dei nani. «È Alexander! Finalmente abbiamo azzeccato il tempo giusto!» Sgusciò tra le gambe di Calderon e schizzò dentro l'appartamento. Calderon fece un inutile tentativo di ghermirlo, e anche gli altri tre, un attimo dopo, l'avevano seguito. Quando Calderon si voltò, li vide tutti e quattro intorno ad Alexander. Myra aveva tirato le gambe sul divano e fissava la scena sbalordita. «Oh, guardate, guardate qui», esclamò uno dei nani. «Vedete il suo potenziale tefitzie?» La parola suonò proprio «Tefitzie». «Il suo cranio, Bordent», intervenne un altro. «È la parte più importante! I vyring sono quasi perfettamente coblastabili». «Meraviglioso», riconobbe Bordent. Si sporse in avanti. Alexander allungò la manina in mezzo a quel groviglio di rughe, afferrò il naso di Bordent e lo torse dolorosamente. Bordent sopportò stoicamente la sofferenza, fino a quando il bambino non mollò la presa. «Sottosviluppato», commentò, indulgente. «Ci penseremo noi a maturarlo compiutamente». Myra balzò giù dal divano, afferrò il bambino e si piantò davanti agli ometti. «Joe?» chiese, fremente. «Hai intenzione di sopportare tutto questo? Chi sono questi gnomi maleducati?» «Dio solo lo sa», rispose Calderon. S'inumidì le labbra. «Che razza di scherzo è questo? Chi vi ha mandato?» «Alexander», disse Bordent. «Dall'anno... ah, sì... circa il 2450, anno più, anno meno. È praticamente immortale. Un super può restar vittima solo di una morte violenta. E nel 2450 non c'è più violenza». Calderon sospirò. «No, parlo sul serio. Uno scherzo è uno scherzo, ma...» «Ci abbiamo provato tantissime volte. Nel 1940, 1944, 1947... sempre intorno a quest'epoca. Ma era sempre troppo presto o troppo tardi. Adesso,
finalmente, abbiamo azzeccato il giusto settore temporale. È nostro compito educare Alexander. Dovreste essere orgogliosi di essere i suoi genitori. Noi vi veneriamo, sapete, come il padre e la madre». «Uh!» gridò Calderon. «Piantatela!» «Hanno bisogno di prove, Dobish», disse un altro dei quattro. «Ricorda che questa è la prima volta che vengono informati che Alexander è un homo superior». «Macché uomo!» ribatté Myra. «Alexander è un bambino perfettamente normale». «È perfettamente supernormale», insisté Dobish. «Noi siamo i suoi discendenti». «E così, lei sarebbe un superuomo?» chiese Calderon, squadrando, scettico l'ometto. «Non completamente. Non ce ne sono molti del tipo X libero. La norma biologica è la specializzazione. Soltanto pochi sono totalmente super. Alcuni si specializzano nella logica, altri in vervainità, altri, come noi, sono guide. Se fossimo X liberi, voi non potreste starvene lì a parlare con noi. Neppure guardarci. Noi siamo soltanto parti. Quelli come Alexander sono il glorioso intero». «Oh, mandali via», lo supplicò Myra, cominciando a stancarsi di tutta la storia. «Mi sento come una di quelle donne disegnate da Thurber». Calderon annuì. «D'accordo. Ora, signori, fuori di qui, e subito». «Sì», annuì Dobish. «Hanno proprio bisogno d'una prova. Cosa facciamo? Skyskiniamo?» «Troppo complicato», obbiettò Bordent. «Qualcosa di diretto, immediato, no? L'immobilizzatore». Bordent tirò fuori un oggetto dai suoi indumenti cartacei e lo girò tra le mani. Tutte le sue dita, anche il pollice, avevano doppie articolazioni. Calderon senti il corpo trafitto da una leggera scossa elettrica. «Joe», balbettò Myra, pallidissima, «non riesco più a muovermi». «Neppure io. Non aver paura. Questo è... è...» S'interruppe. «Sedetevi» ordinò Bordent, continuando ad armeggiare con l'oggetto. Calderon e Myra arretrarono fino al divano e si sedettero. La lingua era paralizzata come il resto del corpo. Dobish si avvicinò, si arrampicò sul divano e tolse Alexander dalla stretta di sua madre. Dagli occhi della donna balenarono lampi di orrore. «Non gli faremo nessun male», garantì Dobish. «Vogliamo soltanto dargli la prima lezione. Hai il necessario, Finn?»
«Nella borsa». Finn tirò fuori dai suoi indumenti una borsa lunga una trentina di centimetri. Da quella borsa cominciarono a uscire oggetti dall'aspetto il più vario... e in quantità incredibile. Ben presto il tappeto ne fu interamente coperto, cose dall'aspetto e dall'uso assurdi, inspiegabili. Calderon riconobbe tra gli altri oggetti, un tesseratto. Il quarto nano, il cui nome risultò essere Quat, sorrise con aria consolatoria all'indirizzo dei due genitori afflitti. «Guardate pure. Voi non imparerete nulla, non ne avete la potenzialità. Voi siete soltanto homo sapiens. Ma Alexander, invece...» Alexander era in vena dei suoi peggiori capricci, e in ciò fu straordinario. Con la diabolica cocciutaggine di tutti i bambini, rifiutò di collaborare. Strisciò fulmineamente indietro. Esplose in fragorosi, rauchi singhiozzi. Si fissò caparbiamente in piedi. Si cacciò i pugni in bocca e pianse amaramente. Ciangottò a lungo, parlando di cose incomprensibili. Colpi con una manina stretta a pugno Dobish, facendogli un occhio nero. Gli ometti sembravano avere una pazienza inesauribile. Due ore più tardi avevano finito. A Calderon parve che Alexander non avesse imparato granché. Bordent girò di nuovo l'oggetto. Annuì, affabile, e guidò la ritirata. I quattro ometti uscirono dall'appartamento, e un attimo dopo Calderon e Myra poterono muoversi. La donna balzò in piedi, barcollando sulle gambe intorpidite, agguantò Alexander e ricadde sul divano. Calderon corse alla porta e la spalancò. Il corridoio era vuoto. «Joe...» disse Myra, terrorizzata, con un filo di voce. Calderon tornò! indietro e le accarezzò i capelli. Poi abbassò gli occhi sulla testa arricciolata di Alexander. «Joe... dobbiamo fare qualcosa». «Non so», disse lui. «Se tutto ciò è davvero accaduto...» «È accaduto. E avevano con sé tutti quegli oggetti... Oh, Alexander!» «Non gli hanno fatto del male», insisté Calderon, con voce incerta. «Il nostro bambino... Non è un superbambino». «Be'», fece Calderon, «tirerò fuori la mia pistola. Che altro posso fare?» «Io farò qualcosa», promise Myra. «Piccoli gnomi cattivi! Farò qualcosa, aspetta e vedrai!» Eppure, non c'era molto che potessero fare. Per tacito accordo, il giorno dopo evitarono l'argomento. Ma alle 4 del
pomeriggio, all'identica ora della prima visita, si trovavano al cinema intenti a seguire la proiezione dell'ultimo technicolof. I quattro ometti non sarebbero certo riusciti a trovarli là dentro... Calderon sentì Myra irrigidirsi, e ancora prima di voltarsi sospettò il peggio. Myra balzò in piedi col fiato mozzo. Le sue dita si strinsero sul braccio del marito. «È scomparso!» «Sco... scomparso?» «Svanito nel nulla. L'avevo in braccio... usciamo di qui!» «Forse l'hai lasciato cadere», balbettò Calderon, futilmente, e accese un cerino. Grida di protesta si levarono dalle file dietro di lui. Myra si stava già facendo strada a spintoni verso la corsia. Non c'erano bambini sotto il sedile, e Calderon raggiunse la moglie nell'atrio. «È sparito», balbettava Myra. «Così. Forse è nel futuro. Joe, cosa faremo?» Calderon, per un vero miracolo, riuscì a fermare un tassì. «Andiamo a casa. È il posto più probabile, spero». «Sì, naturalmente. Dammi una sigaretta». «Sarà nell'appartamento...» C'era, accoccolato sulle grosse natiche, vivamente interessato al congegno che Quat gli stava esibendo. Il congegno pareva uno sbattiuova dai vivaci colori, con accessori tetradimensionali, e parlava con una voce sottile e acuta. Non in inglese. Bordent tirò fuori di scatto l'immobilizzatore e cominciò a girarlo tra le mani quando la coppia entrò. Calderon afferrò Myra per le braccia e la trattenne. «Aspetti», si affrettò a dire al nano. «Non è necessario. Non tenteremo nulla». «Joe!» Myra si contorse, cercando di svincolarsi. «Hai intenzione di permettere che...» «Zitta!» lui le impose. «Bordent, metta giù quel coso. Vogliamo parlarvi». «Be'... se promettete di non interrompere...» «Lo promettiamo». Calderon guidò Myra con dolce violenza fino al divano e ve la tenne ferma. «Senti, cara. Alexander sta bene. Non gli stanno facendo del male». «Fargli del male... vorrei proprio vedere!» esclamò Finn. «Ci spellerebbe vivi nel futuro, se gli facessimo male nel passato».
«Stai zitto», gli ordinò Bordent, che sembrava il capo dei quattro. «Sono lieto che voglia collaborare, Joseph Calderon. Non mi va di dover usare la forza su un semidio. Dopotutto, lei è il padre di Alexander». Alexander allungò una mano grassoccia e cercò di toccare il vorticante arcobaleno dello sbattiuova. Ne sembrava affascinato. Quat chiese: «Il kivelish scintilla. Devo vastinare?» «Non troppo in fretta», raccomandò Bordent. «Diventerà razionale fra una settimana, poi potremo accelerare il processo. Adesso, Calderon, la prego di rilassarsi. Volete qualcosa?» «Da bere». «Si riferisce all'alcool», spiegò Finn. «Il Rubaiyat ne parla, non ricordi?» «Rubaiyat?» «La gemma rossa che canta nella Dodicesima Biblioteca». «Ah, sì», annuì Bordent. «È quello. Stavo pensando alla lastra di Javeh, quella con gli effetti-tuono. Vuoi fare un po' di alcool, Finn?» Calderon deglutì. «Non preoccupatevi. Ne ho un po' nella credenza. Posso...» «Non siete mica prigionieri». La voce di Bordent suonò afflitta. «È che dobbiamo fornirvi alcune spiegazioni, e dopo di ciò... be', sarà diverso». Myra scosse la testa quando Calderon le porse un bicchiere, ma lui la fissò con una punta di severità. «Non ti farà male... Bevi». La donna non aveva distolto per un solo istante lo sguardo da Alexander. Adesso il bambino stava imitando il suono dello sbattiuova. Era vagamente sgradevole. «Il raggio funziona», annunciò Quat. «Tuttavia il visore mostra una certa resistenza corticale». «Aggiusta l'angolo d'irradiazione», suggerì Bordent. Alexander disse: «Modjewabba?» «Cos'ha detto?» chiese Myra, con voce tesa. «Superlingua?» Bordent le sorrise. «No. Soltanto linguaggio infantile». Alexander scoppiò in singhiozzi. Myra intervenne ancora: «Superbambino o no, quando piange così c'è una buona ragione... i vostri insegnamenti si estendono fin lì?» «Certo», disse Quat, senza scomporsi. Lui e Finn condussero Alexander in bagno. Bordent tornò a sorridere, «Cominciate a credere», osservò. «Questo ci aiuta». Calderon trangugiò un paio di sorsate, i fumi caldi del whisky gli scaldarono le guance e lo stomaco, lottando per placare la gelida inquietudine
che vi formicolava. «Se foste umani...» cominciò, dubbioso. «Se lo fossimo, non saremmo qui. Il vecchio ordine è cambiato. Doveva pur cominciare da qualche parte. Alexander è il primo homo superior». «Ma perché proprio noi?» chiese Myra. «Genetica. Avete lavorato tutti e due con la radioattività, e con certe onde elettromagnetiche ad altissima frequenza che hanno influenzato il plasma germinale. Ed è avvenuta la mutazione, tutto qui. D'ora in avanti, si ripeterà. Ma a voi è capitato di essere i primi. Voi morrete, ma Alexander continuerà a vivere, forse per mille anni». Calderon riprese: «Questa faccenda che voi venite dal futuro... Avete detto che è stato Alexander a mandarvi?» «L'Alexander adulto. Il superuomo maturo. La nostra è una cultura assai diversa, naturalmente. Al di là della vostra comprensione. Alexander è uno degli X liberi. Mi ha detto, tramite il traduttore automatico, naturalmente: "Bordent, non sono stato riconosciuto come un super fino a quando non ho avuto trent'anni. Fino a quell'età, ho conosciuto soltanto il normale sviluppo dell'homo sapiens. lo stesso non conoscevo il mio potenziale. Ed è stato un male, per me". È stato davvero un male, sapete». Bordent si buttò in una dettagliata spiegazione: «Le complete capacità di un organismo non possono emergere a meno che non gli vengano fornite le più complete possibilità di espansione fin dall'istante della nascita. O quanto meno dell'infanzia. Alexander mi ha detto: "Sono nato circa cinquecento anni fa. Prendi qualche guida con te, e vai nel passato. Trovami quand'ero ancora un neonato e dammi l'addestramento specializzato fin dall'inizio. Credo che espanderà enormente di più le mie facoltà"». «Il passato...» disse Calderon, pensoso. «Ciò vuol dire che è possibile modellarlo in diversi modi?» «Be', cambiare il passato influenza il futuro. Non si può alterare il passato senza alterare anche il futuro. Ma le cose tendono sempre a riadattarsi secondo logica. Esiste una normalità temporale a un livello generale. Nella sequenza temporale originaria, Alexander non è stato visitato da noi. Ma adesso le cose sono cambiate. Ma non enormemente. Non è coinvolto nessun momento cruciale, nessuna pietra miliare dell'evolversi degli eventi. L'unico risultato sarà che l'Alexander maturo vedrà realizzato il suo potenziale in maniera completa». Alexander fu ricondotto nella stanza. Era radioso di felicità. Quant riprese la sua lezione con lo sbattiuova.
«Non c'è niente che voi possiate fare», concluse Bordent. «Credo che adesso l'abbiate capito». Myra replicò: «Alexander assumerà il vostro aspetto?» La sua voce era tesa. «Oh, no. È un perfetto esemplare fisico. Io non l'ho mai visto, naturalmente, ma...» Calderon s'intromise: «Erede dell'intero passato del mondo. Myra, cominci a capire?» «Sì, un superuomo. Ma è nostro figlio». «E resterà a voi», si affrettò a rassicurarla Bordent. «Non abbiamo nessuna intenzione di strapparlo all'influenza benefica dei due genitori e della sua casa. Un bambino ne ha bisogno. In effetti, l'atteggiamento di assoluta tolleranza nei confronti dei giovani, caratteristico di quest'epoca, è una caratteristica evolutiva destinata a preparare la comparsa del superuomo, allo stesso modo della graduale scomparsa dell'appendice. In certe epoche della sua storia, l'umanità è particolarmente ricettiva alla preparazione di una nuova razza. Anche se, prima d'oggi, non ha mai avuto un vero successo... soltanto aborti antropologici, per così dire. Quella strizzata al mio naso... Anche se Alexander è così importante, mi rendo perfettamente conto di quanto siano irritanti i bambini. Rimangono inetti per moltissimo tempo, una grande prova di pazienza per i genitori... Più basso è il livello evolutivo di un animale, più in fretta si sviluppano i suoi figli. Ma nella specie umana, ci vogliono anni e anni perché i giovani nati raggiungano la fase dell'indipendenza. Così, la tolleranza dei genitori aumenta in proporzione. Il superbambino, perciò, non diventerà adulto finché non avrà raggiunto, all'incirca, i vent'anni». Myra intervenne: «Alexander resterà un bambino fino a quell'età?» «Avrà l'aspetto esteriore di un esemplare di homo sapiens di otto anni, a quell'età. Mentalmente... be', chiamatela irrazionalità. Non sarà al livello della normalità intellettuale ed emotiva. Non sarà assennato più di quanto non lo sia qualunque altro bambino. Ci vuole parecchio tempo perché si sviluppino le facoltà di giudizio. Ma i suoi culmini saranno molto, moltissimo al di sopra di quelli... diciamo dei vostri, quand'eravate bambini». «Grazie», disse Calderon. «I suoi orizzonti saranno molto più vasti. La sua mente è capace di afferrare e assimilare molte più cose della vostra. Fate conto che il mondo sia un'ostrica di cui lui è la perla. Non avrà limiti. Ma ci vorrà un po' perché la sua mente, la sua personalità, si affermino».
«Voglio un altro bicchiere», disse Myra. Calderon glielo versò. Alexander cacciò il pollice nell'occhio di Quat e cercò di cavarglielo. Quat si sottomise, passivo. «Alexander!» lo rimproverò Myra. «Stia zitta e ferma», le intimò Bordent. «La capacità di sopportazione di Quat è, ovviamente, molto più sviluppata della vostra». «Se caverà l'occhio a Quat», commentò Calderon, «tanto peggio per lui». «Quat non ha nessuna importanza, paragonato ad Alexander. E lo sa». Fortunatamente per la visione binoculare di Quat, Alexander si stancò subito di quel suo passatempo, e riprese a fissare lo sbattiuova. Dobish e Finn si curvarono sopra il bambino, e presero a fissarlo intensamente. C'era qualcosa, in quella scena, che Calderon percepì... senza riuscire ad afferrarlo. «Telepatia indotta», spiegò Bordent. «Ci vuole parecchio tempo per svilupparla, per cui, meglio cominciare subito. Vi garantisco che è stato un bel sollievo, centrare finalmente l'epoca giusta. Ho suonato questo campanello almeno un centinaio di volte, ma fino ad ora...» «Andare», sibilò Alexander, chiaramente. «Andar via tutti. Subito, andare». Bordent annuì. «Basta per oggi. Saremo qui di nuovo domani. Sarete pronti?» «Sì, pronti», annuì Myra. «Come sempre, suppongo». Vuotò il bicchiere. Quella notte finirono per ubriacarsi un po', continuando a parlare di tutta la faccenda. Ormai, non avevano più dubbi sulla realtà di quella storia, viste le straordinarie risorse dei quattro ometti. Myra e Calderon erano più che convinti, ormai, che Bordent e i suoi compagni erano giunti da cinquecento anni nel futuro, obbedendo agli ordini di un futuro Alexander il quale era maturato fino a diventare uno splendido esemplare di superuomo. «Stupefacente, non è vero?» disse Myra. «Quella piccola bolla di lardo, là in camera da letto, che diventa l'uomo-meraviglia alla dodicesima potenza». «Be', doveva capitare, prima o poi, come Bordent ci ha fatto notare». «Insomma, finché non diventa uguale a quei brutti gnomi... ah!» «Sarà super. Deucalione e... come diavolo si chiama?... siamo noi, i progenitori di una nuova razza». «Mi sento strana», dichiarò Myra. «Come se avessi generato un elefante
bianco». «Questo non potrebbe mai succederti», disse Calderon, in tono consolatorio. «Su, bevi un altro goccio». «E perché non dovrebbe capitare anche questo, prima o poi? Alexander è uno swùff!» «Swùff?» «Be', perché non posso usare anch'io un po' di parole strane, come quei nanerottoli? Vopish uggle nella Grande Dimora. Chiaro, no?» «Ma è la loro vera lingua», obbiettò Calderon. «Alexander parlerà in inglese. Anch'io ho i miei diritti». «Oh, insomma, non mi sembra che Bordent sia ansioso di violarli. Ha pur detto che Alexander ha bisogno di un caldo ambiente familiare, no?» «È l'unica ragione per cui non sono ancora impazzita», ribatté Myra. «Fintanto che lui... loro... non ci portano via il bambino...» Una settimana più tardi, fu ancora più chiaro che Bordent non aveva la minima intenzione di usurpare i diritti dei genitori... almeno non più di quelle due ore d'istruzione al giorno. Durante quelle due ore, gli ometti continuarono a svolgere il loro programma, imbottendo Alexander di tutto il sapere che la sua mente infantile ma super poteva contenere. Non si affidavano ai cubetti colorati, alle filastrocche e all'abaco; i loro arnesi erano misteriosi, futuristici, ma efficaci. E non c'era dubbio che Alexander imparasse. Come le auxine versate sulle radici delle piante ne stimolano potentemente la crescita, così la vitamina dell'insegnamento versata dai nani su Alexander veniva totalmente assorbita, e il suo cervello potenzialmente superumano reagiva espandendosi in tutte le direzioni a prodigiosa velocità. Già il quarto giorno prese a parlare in modo intelligibile. Il settimo giorno teneva conversazione con disinvoltura, anche se i suoi muscoli infantili, non ancora del tutto sviluppati, tendevano presto a stancarsi. Le sue guance erano ancora muscoli per succhiare, più di ogni altra cosa. Non era ancora completamente uomo, salvo che per sprazzi sporadici. Ma questi sprazzi si facevano sempre più frequenti. Sul tappeto del soggiorno regnava il più completo disordine. Gli ometti non portavano più via con sé l'attrezzatura, ma la lasciavano ad Alexander perché continuasse ad usarla. Il bambino strisciava e ruzzolava qua e là — non si sforzava più di mettersi dritto e camminare, poiché poteva strisciare con molta meno fatica — tra gli oggetti, ne sceglieva alcuni e li metteva insieme. Myra era uscita a far le spese. Gli ometti si sarebbero fatti vivi
soltanto fra mezz'ora. Calderon, stanco dopo una giornata di lavoro all'università, stringeva in mano un bicchiere di whisky e soda e fissava il suo pargolo. «Alexander», disse. Alexander non rispose. Incastrò un oggetto in un altro, poi infilò il tutto in un terzo affare, e si sedette con aria soddisfatta. Poi, «Sì?», disse, con una pronuncia imperfetta, ma inequivocabile. Alexander parlava un po' come un vecchio sdentato. «Cosa stai facendo?» chiese Calderon. «No». «Cos'è quell'affare?» «No». «No?» «Io capisco», disse Alexander. «Basta così». «Già», annuì Calderon. Fissò quel piccolo prodigio con una punta di apprensione. «Non vuoi dirmelo?» «No». «Be'... d'accordo». «Dammi da bere», disse Alexander. Per un attimo, Calderon ebbe la folle idea che il bambino volesse whisky e soda. Poi sospirò, si alzò e tornò col biberon pieno d'acqua. «Latte», disse Alexander, rifiutando l'acqua. «Hai detto che volevi da bere. L'acqua si beve, no?» Mio Dio, pensò Calderon, sto discutendo con il bambino. Lo sto trattando come un... come un adulto. Ma non lo è. È un bambino piccolo e grasso accucciato col suo sederino sul tappeto. E sta giocando con un giocattolo che si è...» Il giocattolo disse qualcosa con una vocina sottile. Alexander mormorò: «Ripeti». Il giocattolo obbedì. Calderon chiese: «Cos'è?» «No». «Roba da matti». Calderon andò in cucina a prendere il latte. Si versò un altro goccetto di whisky. Era come se gli fossero piombati in casa parenti che non vedeva da dieci anni... Come diavolo ci si comportava con un superbambino? Tornò in cucina dopo aver dato ad Alexander il suo latte. Poco dopo, la chiave di Myra girò nella porta d'ingresso. Il suo grido fece accorrere Calderon. Alexander stava vomitando, con l'aria di uno scienziato assorto nello
studio d'un affascinante fenomeno. «Alexander!» gridò Myra. «Tesoro, stai male?» «No», disse Alexander, «sto osservando i miei processi rigurgitativi. Devo imparare il controllo dei miei organi digestivi». Calderon si appoggiò allo stipite, con un sorriso agro. «Già. E sarà meglio che lo impari subito». «Ho finito», dichiarò Alexander. «Pulite». Tre giorni più tardi il bambino decise che i suoi polmoni avevano bisogno di svilupparsi. Gridò. Gridò a tutte le ore, con un'inesauribile serie di variazioni — urla, gemiti, strilli, guaiti, abbaiamenti. E non si interrompeva mai, finché non era soddisfatto. I vicini si lamentarono. Myra insisteva: «Tesoro, c'è forse uno spillo che ti punge? Fammi vedere...» «Vai via. Sei troppo calda. Apri la finestra. Voglio aria fresca». «S... sì, tesoro. Naturalmente». Quando tornò a infilarsi nel letto, Calderon le passò un braccio intorno al corpo. Sapeva che avrebbe avuto gli occhi cerchiati, la mattina dopo. Nella sua culla, Alexander continuava a gridare. E continuò così. I quattro ometti venivano ogni giorno e davano ad Alexander le sue lezioni. Si compiacevano per i progressi del grasso bambino. E non si lamentavano quando Alexander indulgeva nelle sue idiosincrasie, come quella di picchiarli con violenza sul naso, oppure di fare a brandelli i loro indumenti di carta. Bordent si batté una mano sul casco metallico e sorrise trionfante a Calderon: «Cresce... Si sviluppa». «Sì, ma... e la disciplina». Alexander alzò la testa, interrompendo qualche suo muto intrattenimento con Quat. «La disciplina dell'homo sapiens non si applica a me, Joseph Calderon». «Non chiamarmi Joseph Calderon. In fin dei conti, sono tuo padre». «Una necessità biologica primitiva. Non sei sufficientemente sviluppato per fornirmi la disciplina di cui ho bisogno. Devi limitarti a proteggermi e ad assistermi». «Il che mi riduce a un'incubatrice», commentò Calderon. «Ma deificata», intervenne Bordent a blandirlo. «Praticamente, il Logos, il Principio d'una nuova razza». «Mi sento più come Prometeo», disse arcigno il padre della nuova razza. «Anche lui, come compenso del suo aiuto, finì con un avvoltoio che gli
mangiava il fegato». «Imparerà molte cose da Alexander». «Ma dice che sono incapace di capirle». «Be', non è così?» ribatté il bambino. «Certo. Io sono soltanto l'uccello che cova», brontolò Calderon, e sprofondò in un cupo silenzio, osservando Alexander che, sotto l'occhio tutelare di Quat, metteva insieme un congegno di vetro scintillante e pezzi metallici. Bordent esclamò all'improvviso: «Quat! Attento all'uovo!» E Finn acchiappò un ovoide bluastro un attimo prima che la mano grassoccia di Alexander potesse afferrarlo. «Non è pericoloso», disse Quat. «Non è collegato». «Potrebbe averlo collegato lui». «Lo voglio!» strillò il bambino. «Dammelo». «Non ancora, Alexander», disse Bordent, rifiutando. «Prima devi imparare il modo giusto di collegarlo. Altrimenti, potrebbe farti male». «Io posso!» «Non sei ancora abbastanza evoluto per equilibrare le tue capacità e le tue lacune. Più avanti, non ci sarà alcun pericolo. Penso che adesso, un po' di filosofia, Dobish... no?» Dobish si accucciò ed entro in contatto con la mente di Alexander. Myra uscì dalla cucina, diede una rapida occhiata alla scena e si ritirò. Calderon la seguì. «Non mi ci abituerò neppure se vivessi mille anni», dichiarò la donna, scandendo le parole. Rifilò col coltello l'orlo di una torta. «È il mio bambino soltanto quando dorme». «Noi non vivremo mille anni», disse Calderon, «Alexander, invece, si. Vorrei tanto che avessimo una domestica». «Ho tentato anche oggi», annuì Myra, con voce stanca. «Niente da fare. Hanno tutte un lavoro nell'industria bellica. E basta dirgli che hai un bambino, perché...» «Non puoi far tutto da sola». «Tu mi aiuti tutte le volte che puoi», sospirò lei. «Ma hai anche il tuo lavoro. Non può durare così». «Mi sono chiesto: e se avessimo un altro figlio... se...» Lo sguardo di Myra incontrò il suo, tranquillo: «Me lo sono chiesta anch'io. Ma non credo che le mutazioni siano così frequenti. Una volta in una vita. Comunque, non possiamo saperlo». «Be', in ogni modo, adesso non ha importanza. Un bambino è più che
sufficiente, per il momento». Myra lanciò un'occhiata verso la porta. «Tutto a posto, là dentro? Dai un'occhiata. Sono preoccupata». «Tutto a posto». «Lo so, ma quell'uovo azzurro... Bordent ha detto che è pericoloso. L'ho sentito». Calderon sbirciò attraverso la fessura della porta. I quattro nani erano seduti, rivolti verso Alexander, che teneva gli occhi chiusi. Ma in quell'istante si riaprirono. Il bambino lanciò un'occhiata corrucciata a Calderon. «Resta fuori», gli intimò. «Stai interrompendo il contatto». «Mi spiace», fece Calderon, ritirandosi. «Già, Myra. Un piccolo dittatore arrogante». «Ma è un superuomo...» disse lei, dubbiosa. «No, è un superbambino. La differenza è tutta qui». «Il suo ultimo giochetto», disse Myra, indaffarata al forno, «sono gli indovinelli. O qualcosa che ci assomiglia. Mi sento così sciocca, quando mi batte. Ma lui dice che fa bene al suo ego. Compensa la sua fragilità fisica». «Indovinelli, eh? Ne conosco qualcuno anch'io». «Non funzioneranno con Alexander», disse Myra, con cupa certezza. E infatti fu così. «Quante uova si possono togliere da un mucchio di cento uova?» fu trattato col disprezzo che si meritava. Alexander rigirò nella sua mente tutti gli indovinelli del padre, li analizzò alla ricerca di tutti i difetti semantici e di logica, e li rifiutò. Oppure diede le sue risposte, con una tale impeccabilità di ragionamento che Calderon non ebbe il coraggio di spiattellargli le risposte vere. Si ridusse a chiedergli perché un corvo fosse uguale a una scrivania, e poiché neppure il Cappellaio Matto era stato capace di rispondere al suo stesso indovinello, ascoltò, alquanto terrorizzato, una completa dissertazione di ornitologia comparata. Dopo di che, lasciò che Alexander lo punzecchiasse con battute infantili sui raggi gamma e i fotoni, accettando la cosa con filosofia. Ci sono poche cose irritanti quanto gli indovinelli di un bambino. Il suo trionfo beffardo alzava nuvole di polvere, che Calderon era costretto a mordere. «Oh, lascia in pace tuo padre», sbottò a un certo punto Myra, entrando coi capelli in disordine. «Non vedi che sta cercando di leggere il giornale?» «Le notizie non hanno importanza». «Sto leggendo i fumetti», obbiettò Calderon. «Voglio vedere se Bibì e
Bibò riescono a vendicarsi di capitan Cocoricò, dopo che lui li ha appesi sotto l'idrante». «La tipica formula dell'umorismo che deriva da situazioni incongrue...» cominciò Alexander in tono saccente, ma Calderon, disgustato, si rifugiò in camera da letto, dove Myra lo raggiunse. «Allora? Cos'hanno combinato Bibì e Bibò?» «Hai l'aspetto di una sciattona. Ti sei presa un raffreddore?» «Non porto trucco. Alexander dice che l'odore lo fa star male». «E allora? Lui, forse, odora di violette?» «Oh, insomma, lui dice che gli fa male», sbuffò Myra. «So benissimo che lo fa apposta, ma...» «Zitta! Cosa diavolo sta combinando, adesso?» Ma Alexander voleva soltanto un pubblico. Aveva trovato un nuovo modo di produrre rumori scurrili cacciandosi le dita in bocca. C'erano, in verità, dei momenti in cui il comportamento normale del bambino era più stressante dei suoi periodi da super. Dopo un mese, tuttavia, Calderon dovette rendersi conto che il peggio non era ancora venuto. Alexander aveva progredito in campi di conoscenza che l'homo sapiens aveva lasciato inviolati, e aveva preso l'abitudine, degna di una sanguisuga, di prosciugare il cervello di suo padre di ogni frammento d'informazione che lo sventurato Calderon possedeva. Era lo stesso con Myra. Il mondo era davvero un'ostrica, per Alexander, di cui lui era la perla. Aveva una curiosità insaziabile per ogni cosa, e l'appartamento non conosceva più nessuna intimità. Calderon prese l'abitudine di chiudere a chiave, ogni notte, la porta della camera da letto, per impedire che suo figlio vi entrasse — il lettino di Alexander era adesso in un'altra stanza — ma strilli furibondi potevano svegliarlo a tutte le ore. Nel bel mezzo della preparazione della cena, Myra era costretta a interrompersi per spiegare ad Alexander tutti i misteri calorifici del forno. Questi imparò tutto quello che lei sapeva, poi si lanciò negli aspetti più astrusi della materia, e si fece beffe della sua ignoranza. Poi, scoprì che Calderon era un fisico, un fatto che fino a quel momento suo padre gli aveva accuratamente nascosto, e da allora gli pompò fuori tutte le informazioni, fino a ridurlo a uno straccio. Fece domande sulla geodesia e la geopolitica. Indagò sui monotremi e le monorotaie. Provava una viva curiosità per le biremi e la biologia. Ed era profondamente scettico, pronto a dubitare dell'attendibilità delle conoscenze di suo padre. «Ma», disse, «tu e Myra Calderon siete i miei contatti più immediati con l'homo sapiens, ed è
pur sempre un inizio. Spegni quella sigaretta! Non mi fa bene ai polmoni». «D'accordo», sospirò Calderon. Si alzò, in preda alla stanchezza, con la costante sensazione di trovarsi braccato da una stanza all'altra, e andò a cercare Myra. «Bordent sta per arrivare. Noi, intanto, potremmo andar fuori da qualche parte, no?» «Splendido», lei disse. In un attimo fu allo specchio, a ravviarsi i capelli. «Ho urgente bisogno di una permanente. Se avessi il tempo...!» «Domani mi prenderò la giornata libera e resterò a casa. Tu hai bisogno di un po' di riposo». «Tesoro, no. Tra poco ci sono gli esami. Non puoi farlo». Alexander gridò. Esigeva, stavolta, che sua madre cantasse per lui. Era curioso di conoscere l'estensione della gamma tonale nell'homo sapiens e dei possibili effetti emotivi e soporifici delle ninnenanne. Calderon si preparò da bere, si sedette in cucina e fumò, e rifletté sul destino glorioso di suo figlio. Quando Myra smise di cantare, aspettò le proteste isteriche di Alexander, ma non udì alcun suono, fino a quando una Myra lievemente isterica non entrò di corsa in cucina, tremante e con gli occhi sbarrati. «Joe!» Cadde tra le braccia di Calderon. «Presto, dammi qualcosa da bere, o... o stringimi forte, fai qualcosa, quel che vuoi». «Cosa succede?» Le cacciò la bottiglia nelle mani, andò alla porta e guardò nel soggiorno. «Alexander? È tranquillo. Sta mangiando un candito». Myra lasciò perdere il bicchiere. Il collo della bottiglia sbatté contro i suoi denti, e trangugiò due rapide sorsate. «Guardami... Semplicemente, guardami. Sono sconvolta». «Cos'è successo?» «Oh, niente. Niente del tutto. Alexander è diventato un esperto di magia nera, tutto qui». Si lasciò cadere su lina sedia e si passò una mano sulla fronte. «Sai cosa ha fatto, un momento fa, quel genio di nostro figlio?» «Ti ha morso», azzardò Calderon, in tono più che convinto. «Peggio, molto peggio. Mi ha chiesto un candito. Gli ho detto che in casa non ce n'era neppure uno. Mi ha detto di scender giù in drogheria a comperarne. Gli ho detto che prima avrei dovuto vestirmi, ed ero così stanca...» «Perché non mi hai chiamato? Ci sarei andato io». «Non me ne ha lasciato la possibilità. Prima che potessi dire "ah", quel mago Merlino neonato ha agitato una bacchetta fatata o qualcosa di simile e io... io ero giù, al negozio. Al banco dei canditi».
Calderon ammiccò. «Amnesia indotta?» «Non c'è stato nessun intervallo di tempo. Pfitt... ed ero laggiù, con questo straccio di vestito addosso, neanche l'ombra di trucco, e i capelli tutti spettinati. C'era anche la signora Busherman che stava comperando un pollo... quella gatta che abita di fronte. È stata gentilissima, mi ha detto che dovrei aver più cura di me, badare un po' di più al mio aspetto... Miàooo», terminò Myra, inferocita. «Buon Dio». «Teletrasporto. Ecco come lo chiama Alexander. Qualcosa di nuovo, che ha appena imparato. Non ho alcuna intenzione di sopportarlo. Non sono una bambola di pezza, in fin dei conti», concluse, gridando. Calderon entrò in soggiorno e squadrò suo figlio. La bocca di Alexander era un impasto di zucchero e cioccolata. «Ascolta, sapientone», l'apostrofò Calderon, «lascia in pace tua madre, capito?» «Non le ho fatto del male», gli fece notare l'infante prodigio, con voce impastata. «Ho soltanto usato il metodo più sbrigativo». «Be', cerca di essere meno sbrigativo, d'ora in poi. Dove hai imparato quel trucco, ad ogni modo?» «Il teletrasporto? Me l'ha insegnato Quant, ieri sera. Lui non può farlo, ma io sono un X libero super, perciò posso. Non ho ancora imparato a servirmene alla perfezione. Ad esempio, se avessi cercato di teletrasportare Myra Calderon fino al New Jersey, ad esempio, avrei potuto mollarla dentro l'Hudson per sbaglio». Calderon imprecò energicamente a bassa voce. Alexander gli chiese: «È un derivato anglosassone?» «Oh, accidenti, non devi preoccuparti di questo. Bada invece a tutti quei dolci che mangi. Starai male. E hai fatto star male tua madre. E stai nauseando me». «Vattene», gl'intimò Alexander. «Voglio concentrarmi sul sapore». «No. Ti ho detto che starai male. Zucchero e cioccolata, è troppo per te. Dammi subito quel dolce. Ne hai già mangiato troppo». Calderon allungò la mano verso suo figlio. Alexander scomparve. Myra, in cucina, urlò. Calderon gemette, scoraggiato, e si voltò. Come si era aspettato, Alexander era li, in cucina, appollaiato sopra il forno, e continuava a rimpinzarsi come un maiale. Myra si era ancora attaccata, piena d'angoscia, alla bottiglia di whisky. «Oh, che roba», commentò Calderon. «Un bambino che si teletrasporta
per tutto l'appartamento, tu che sgobbi in cucina, ed io che sto per avere un collasso nervoso». Cominciò a ridere. «Va bene, Alexander, tienti pure il candito. So quando devo battere in ritirata strategica». «Myra Calderon», intimò Alexander, «voglio tornare nell'altra stanza». «Perché non fai un bel volo?» chiese Calderon, beffardo. «Ecco, ti ci porto io». «No, non tu. Lei. Ha un ritmo migliore, quando cammina». «Quando barcollo, vuoi dire», ribatté Myra. Ma, obbediente, mise giù la bottiglia, si alz,ò e prese Alexander tra le braccia. Uscì dalla cucina. Calderon non fu troppo sorpreso, quando un attimo dopo la sentì gridare. Quand'ebbe raggiunto di corsa il resto della sua felice famiglia, in soggiorno, Myra era seduta sul pavimento, intenta a sfregarsi un braccio, mordendosi un labbro. Alexander stava ridendo. «E adesso, cos'ha combinato?» «Mi ha... mi ha dato la scossa», balbettò Myra, con una voce da bambina. «È come un'anguilla elettrica. E l'ha fatto apposta, per giunta. Oh, Alexander, vuoi smetterla di ridere?» «Sei caduta», gridò il bambino, esultante. «Hai gridato e sei caduta». Calderon guardò Myra, e la sua bocca si strinse. «L'hai fatto apposta?» chiese a suo figlio. «Sì. È caduta giù. Aveva un aspetto buffissimo». «Tu avrai un aspetto ancora più buffo tra un minuto. X libero super o no che tu sia, quella che ti serve è una buona sculacciata». «Joe...» intervenne Myra. «Oh, lasciami fare. Deve imparare a rispettare i diritti degli altri». «Io sono un homo superior», dichiarò Alexander, con l'aria di qualcuno che vuol troncare una discussione. «Ora ti acchiapperò, mio caro homo superior», annunciò Calderon. Fece per agguantare suo figlio, e un'avvampante stilettata di energia nervosa gli esplose attraverso le sinapsi; balzò indietro, ignominiosamente, e andò a sbattere contro il muro, prendendo una forte botta alla testa. Alexander scoppiò a ridere come un idiota. «È caduto anche lui!» esultò. «Quanto sei divertente, Calderon». «Joe», disse Myra, «Joe, sei ferito?» Calderon replicò, acido, che quasi certamente sarebbe sopravvissuto. Anche se sarebbe stato opportuno, aggiunse, preparare qualche stecca e una scorta di plasma. «Nel caso in cui cominci a interessarsi alla vivisezione».
Myra fissò Alexander turbata e pensierosa. «Stai scherzando, spero». «Lo spero anch'io». «Oh... ecco Bordent. Parliamogli». Calderon andò ad aprire. I quattro ometti entrarono con passo solenne. Non persero tempo. Si radunarono intorno ad Alexander, tirarono fuori nuovi arnesi dai recessi dei loro indumenti di carta, e si misero al lavoro. Il bambino annunciò: «Ho teletrasportato lei per duecentocinquanta metri!» «Così lontano?» esclamò Quat. «Ti sei stancato?» «Neanche un po'». Calderon tirò da parte Bordent: «Voglio parlarle. Credo che Alexander abbia bisogno di un'energica sculacciata». «Per Vorastro!» replicò il nano, vivamente scosso. «Ma è Alexander! È un X libero super!» «Non ancora. È ancora un bambino». «Un superbambino. No, no, Joseph Calderon. Devo ripeterle una volta ancora che le misure disciplinari possono essere applicate soltanto da autorità sufficientemente intelligenti». «E voi non...» «Oh, non ancora», l'interruppe Bordent. «Non vogliamo affaticarlo troppo. C'è un limite anche ai poteri di un supercervello, specialmente nel periodo formativo. Ha già anche troppo da fare, e non ci sarà bisogno, ancora per un po', che il suo atteggiamento nei confronti dei contatti sociali si maturi». Myra intervenne: «Non sono d'accordo con lei su questo. Come tutti i bambini, è antisociale. Potrà anche avere poteri superumani, ma è subumano per quanto riguarda l'equilibrio mentale ed emotivo». «Già», fu d'accordo Calderon. «Questa faccenda di darci la scossa elettrica...» «Sta soltanto giocando», replicò Bordent. «E il teletrasporto? Supponga che mi teletrasporti in Times Square mentre sto facendo la doccia?» «È soltanto un gioco, per lui. È soltanto un bambino». «E noi?» «Voi possedete la caratteristica ereditaria della tolleranza, tipica dei genitori», puntualizzò Bordent. «Come vi ho già detto, Alexander e la sua razza sono il motivo principale per cui questa tolleranza si è sviluppata. L'homo sapiens non ne ha molto bisogno. Voglio dire, esiste un ampio
margine fra il normale livello di tolleranza e la peggior provocazione da parte di un bambino normale. Questi, può mettere alla prova i suoi genitori solo per brevi periodi, e alquanto distanziati fra loro, non più. La provocazione, in questi casi, è troppo piccola per richiedere le enormi riserve di tolleranza di cui dispongono i suoi genitori. Ma col tipo X libero, la faccenda cambia». «C'è un limite anche alla tolleranza», ribatté Calderon. «Mi stavo chiedendo se non potremmo metterlo in un asilo-nido». Bordent scosse la testa rivestita di lucido metallo. «Ha bisogno di voi». «Ma non potreste», insisté Myra, «non potreste inculcargli almeno un poco, non tanto, di disciplina?» «Oh, non è necessario. La sua mente è ancora immatura, e deve concentrarsi su cose più importanti. Lo tollererete». «È come se non fosse più nostro figlio», mormorò lei. «Non è più Alexander». «Ma lo è, questo è il punto. È Alexander!» «Senta, è normale che una madre desideri stringere a sé il suo bambino. Ma come può farlo, se si aspetta che lui la scaraventi attraverso la stanza?» Calderon stava riflettendo. «Imparerà altri... altri superpoteri, man mano che progredisce?» «Ma certo. Sì, è naturale». «È una minaccia permanente alle nostre vite. Io continuo a insistere che gli serve un po' di disciplina. La prossima volta mi metterò i guanti di gomma». «Non serviranno», replicò Bordent, accigliandosi. «Inoltre, devo insistere... no, Joseph Calderon, non servirebbe. Lei non deve interferire. Lei non è in grado di dargli il tipo giusto di disciplina... che in tutti i casi non gli serve». «Soltanto una sculacciata», ribadì Calderon, tutt'altro che remissivo. «Oh, non per vendetta. Soltanto per mostrargli che deve rispettare i diritti degli altri». «Imparerà a rispettare i diritti degli altri X liberi super. Lei non deve tentare niente di simile. Una sculacciata... anche se lei riuscisse a dargliela, il che è tutt'altro che probabile... potrebbe deformarlo psicologicamente. Siamo noi i suoi insegnanti, i suoi tutori. Noi dobbiamo proteggerlo, mi capisce?» «Penso di sì», rispose Calderon, lentamente. «È una minaccia?» «Voi siete i genitori di Alexander, ma è Alexander che conta. Se mi co-
stringerete, dovrò applicare delle misure disciplinari... su di voi». «Oh, lasci perdere», sospirò Myra. «Joe, usciamo a fare una passeggiata nel parco, mentre Bordent è qui». «Tornate fra due ore», li salutò l'ometto. «Arrivederci». Man mano che il tempo passava, Calderon non riusciva più a decidere se l'irritassero di più le frasi idiote di Alexander, o i suoi periodi di più acuta intelligenza. Il bambino prodigio aveva appreso nuovi poteri; l'aspetto peggiore di tutta la faccenda era che Calderon non sapeva più che cosa aspettarsi, e il momento in cui gli sarebbe capitato qualche nuovo, sconvolgente scherzo. Come il giorno in cui gli si rovesciò addosso, mentre era a letto, un mucchio di appiccicose caramelle al miele teletrasportate dalla vicina drogheria. Ad Alexander la cosa parve molto divertente. Rise a crepapelle. E quando Calderon si rifiutò drasticamente di scender giù a comperargli dei canditi alla cioccolata perché non aveva soldi — «Non cercare di teletrasportarmi. Sono al verde». — Alexander aveva utilizzato la sua energia mentale per distorcere in modo sconvolgente il campo gravitazionale. Calderon si ritrovò sospeso, a testa in giù, col corpo sussultante, mentre una cascata di spiccioli gli usciva dalle tasche. Andò a comperare i canditi. L'umorismo è qualcosa che si sviluppa avendo robuste radici nella crudeltà. Più una mente è primitiva, meno è selettiva nelle sue preferenze. Con ogni probabilità un cannibale si diverte immensamente a guardare il dibattersi della sua vittima in un pentolone bollente. Un uomo scivola su una buccia di banana e si rompe la spina dorsale: guardandolo, un adulto smette subito di ridere, un bambino no. E un ego civilizzato trova che l'imbarazzo è doloroso almeno quanto il dolore fisico. Un neonato, un bambino, un idiota, sono invece incapaci di solidarizzare col prossimo. Non sanno identificarsi con un altro individuo. Sono deplorevolmente solipsisti. Le loro regole sono arbitrarie, e tutta l'appiccicosa immondizia sparsa per la stanza non divertì affatto né Myra né Calderon. C'era un piccolo estraneo, in casa. Nessuno ne era contento. Fuorché Alexander. Lui si divertiva un mondo. «Niente intimità», dichiarò Calderon. «Si materializza dappertutto, e a tutte le ore. Tesoro, vorrei che tu andassi da un dottore». «Cosa mi consiglierebbe?» Lei ribatté. «Riposo. Ti rendi conto che sono passati due mesi da quando Bordent ha preso la faccenda sotto controllo?» «E abbiamo fatto splendidi progressi», disse Bordent, avvicinandosi a
loro. Quat era in collegamento mentale con Alexander sul tappeto, mentre gli altri due nani stavano montando un nuovo congegno. «O meglio, è Alexander che ha fatto straordinari progressi». «Abbiamo urgente bisogno di riposo», grugnì Calderon. «Se perderò il mio lavoro, chi fornirà il sostentamento a quel vostro genio?» Myra lanciò una rapida occhiata a suo marito, quando udì l'aggettivo possessivo da lui usato. Bordent si mostrò preoccupato. «È in difficoltà finanziarie?» «Il decano mi ha parlato un paio di volte. Non riesco più a controllare le mie classi. Sono troppo irritabile». «Non ha bisogno di sprecare la sua tolleranza con quegli studenti. In quanto al denaro, possiamo rifornirla noi. Farò in modo che ottenga un po' di valuta negoziabile». «Ma io voglio lavorare! Mi piace il mio lavoro. «Alexander è il suo lavoro». «Ho bisogno di una domestica», disse Myra, con aria desolata. «Non potete fabbricarmi un robot o qualcosa di simile? Alexander ha spaventato tutte le cameriere che sono riuscita a trovare. Non vogliono restare neppure un giorno in questo manicomio». «Un'intelligenza meccanica avrebbe un cattivo effetto su Alexander», dichiarò Bordent. «No». «Vorrei che potessimo ricevere qualche ospite, di tanto in tanto. Oppure andar fuori a trovare qualcuno. O anche soltanto restar soli», sospirò Myra. «Un giorno Alexander sarà maturo, e voi raccoglierete la vostra ricompensa. I genitori di Alexander. Vi ho mai detto che abbiamo i vostri ritratti nel Grande Museo delle Polverose Antichità?» «Devono avere un aspetto orribile», commentò Calderon. «L'aspetto che noi abbiamo adesso». «Siate pazienti. Considerate il grande destino di vostro figlio». «Lo faccio spesso. Ma a volte la cosa è parecchio stancante. Il che, in verità, è un grazioso eufemismo». «Ed è proprio qui che entra in gioco la tolleranza», dichiarò Bordent. «La natura ha fatto ottimamente i suoi piani per la nuova razza». «Mmmm...» «Adesso stiamo lavorando alle astrazioni esadimensionali. Tutto procede meravigliosamente bene». «Già», commentò Calderon. E se ne andò via brontolando, per raggiungere Myra in cucina.
Alexander lavorava con facilità ai suoi congegni. Le sue dita grassocce erano sempre più robuste e sicure. Aveva ancora una viva quanto proibita passione per l'ovoide azzurro, ma sotto l'occhio vigile di Bordent poteva usarlo soltanto negli strettissimi limiti impostigli dai suoi insegnanti. Quando la lezione fu finita, Quat scelse alcuni degli oggetti e li chiuse a chiave in una credenza, com'era sua abitudine. Gli altri, li lasciò sul tappeto, per consentire ad Alexander di esercitarvi la sua ingegnosità. «Si sta sviluppando», disse Bordent. «Oggi abbiamo fatto un grande passo avanti». Myra e Calderon arrivarono in tempo per udire questa frase. «Cosa c'è?» s'informò Calderon. «La rimozione psichica di un blocco. Alexander non avrà più bisogno di dormire». «Cosa?» balbettò Myra. «Non avrà più bisogno di dormire. Si tratta di un'abitudine artificiale. La superrazza non ne ha bisogno». «Non dormirà più, eh?» chiese Calderon. Era impallidito un po'. «Proprio così. Adesso si svilupperà in fretta. Il doppio più in fretta». Alle 3 e 30 del mattino Calderon e Myra giacevano a letto, completamente svegli, e guardavano attraverso la porta aperta Alexander che giocava nel vivido bagliore delle luci accese. Visto con grande chiarezza, in quel palcoscenico illuminato, non sembrava più lui. La differenza era impercettibile, ma c'era. Sotto la peluria dorata, la sua testa aveva lievemente cambiato forma, e nei suoi lineamenti tondi vi era un'espressione lucida e decisa. Non era un aspetto attraente. Non apparteneva a quel corpo. Faceva assomigliare Alexander più a un vecchio depravato che a un superbambino. Tutta la crudeltà e l'egoismo di un bambino — caratteristiche del tutto normali, e segni di buona salute, in un neonato in via di sviluppo — guizzavano sul viso di Alexander mentre giocava, assorto, con dei solidi di cristallo incolore, che incastrava l'uno nell'altro come una sorta di rompicapo cinese. Fissare quel volto era sconvolgente. Calderon senti Myra che sospirava accanto a lui. «Non è più il nostro Alexander», disse la donna. «Neanche un po'». Alexander alzò gli occhi, e il suo volto all'improvviso divenne scarlatto. La paradossale espressione, un misto di infantilità e di perversa degenerazione, scomparve, quando spalancò la bocca e urlò di rabbia, scagliando i blocchi in tutte le direzioni. Calderon ne vide uno rotolare attra-
verso la porta aperta della camera da letto, per fermarsi sul tappeto, rovesciando fuori una cascata di blocchi sempre più piccoli, che ruzzolarono scintillanti verso di lui. Le urla di Alexander riempirono l'appartamento. Un attimo dopo, le imposte delle finestre cominciarono a sbattere sul cortile, e il telefono squillò. Calderon allungò una mano, sospirando. Quando riappese, fissò Myra e fece una smorfia. Gridando, per farsi udire sopra lo sbraitare di Alexander, annunciò: «Bene. Ci hanno sfrattato». Myra commentò: «Oh, oh». «Questo è tutto». Rimasero silenziosi per qualche istante. Poi Calderon disse: «Ancora diciannove anni. Credo che dobbiamo aspettarci più o meno questo periodo di tempo. Hanno detto che sarebbe maturato a vent'anni, non è vero?» «Sarà orfano molto prima», gemette Myra. «Oh, la mia testa! Credo di essermi presa un raffreddore quando ci ha teletrasportati sopra il tetto, prima di cena. Joe, credi che noi siamo i primi genitori che hanno... che sono stati intrappolati così?» «Cosa vuoi dire?» «C'è mai stato un altro superbambino prima di Alexander? Sembra un grosso spreco di tolleranza, se siamo noi i primi ad averne bisogno». «Ci farebbe comodo averne parecchia di più. Un mucchio, un'intera montagna». Non disse altro per un po', mentre se ne restava lì disteso a riflettere, cercando di non ascoltare i ritmici ululati del suo superfiglio. Tolleranza. Ogni genitore aveva bisogno di possederne parecchia. Ogni bambino, di tanto in tanto, era intollerabile. Certamente, la razza aveva avuto bisogno dell'amore dei genitori in dosi enormi, per consentire ai bambini appena nati di sopravvivere. Ma nessun genitore, prima d'ora, era stato messo alla prova in una maniera così tremenda, fino al limite estremo della tolleranza. Nessun genitore, prima d'ora, aveva avuto la necessità di esercitare la propria tolleranza per vent'anni di seguito, giorno e notte, spinta all'ultimissimo grado. L'amore dei genitori è una grande emozione, che molto sopporta, ma... «Mi chiedo», disse, sempre soprappensiero, «mi chiedo se davvero noi siamo i primi». I pensieri di Myra avevano cambiato direzione. «Suppongo che sia come le tonsille e l'appendice», mormorò. «Sono sopravvissute al loro impiego, ma sopravvivono ancora. Questa tolleranza è un vestigio all'incontrano: ha resistito tutti questi millenni perché stava aspettando Alexander». «Forse. Mi chiedo... tuttavia... se mai ci fosse stato un altro Alexander
prima d'ora, ne avremmo certo sentito parlare, no? E allora...» Myra si sollevò su un gomito e fissò suo marito. «Lo credi proprio?» gli bisbigliò. «Io non ne sono così sicura. Penso che possa essere già accaduto altre volte». D'improvviso, Alexander si calmò. L'appartamento, per un attimo, fu avvolto dal silenzio. Poi una voce familiare, senza parole, si fece udire, simultaneamente, nel cervello di entrambi. «Datemi un altro po' di latte. E lo voglio caldo, non bollente». Joe e Myra si guardarono, incapaci di spiccicar parola. Myra sospirò e scostò le coperte dalla sua parte. «Vado io, stavolta», disse. «Qualcosa di nuovo, eh? Io...» «Non perdete tempo», insisté la voce senza parole. Myra saltò giù, cacciando un piccolo strillo. L'elettricità crepitò, ben udibile, attraverso la stanza, e dalla porta aperta giunse la risata schiamazzante di Alexander. «Suppongo che adesso sia civilizzato come una scimmia ben ammaestrata», osservò Joe, uscendo a sua volta dal letto. «Vado io. Tu rimettiti sotto. Un anno ancora, e potrà aver raggiunto il livello di un boscimano. Dopo, se saremo ancora vivi, avremo il piacere di vivere con un cannibale dotato di superpoteri. Alla fine, potrebbe arrivare al livello del più grande dei buffoni di corte. Questo sì che sarà interessante». Uscì dalla stanza, borbottando tra sé. Dieci minuti più tardi, tornando a letto, Joe trovò Myra che si stringeva le ginocchia tra le braccia e fissava il vuoto. «Noi non siamo i primi, Joe», disse. «Ci ho riflettuto. Sono convinta che non lo siamo». «Ma non abbiamo mai sentito parlare di superuomini che si siano sviluppati...» La donna girò la testa e gli rivolse una lunga occhiata pensosa. «No», annuì. Rimasero in silenzio. Poi: «Sì, capisco cosa intendi dire», annuì Joe. Qualcosa si schiantò nel soggiorno. Alexander ridacchiò, e il rumore del legno che si scheggiava risuonò forte nella notte. Un'altra finestra sbatté, in qualche parte sul cortile. «C'è un limite di rottura», proseguì Myra, con calma. «Deve esserci», «Saturazione», mormorò Joe. «La saturazione della tolleranza, o qualcosa di simile. Potrebbe essere accaduto». Alexander comparve alla loro vista, ruzzolando. Stringeva qualcosa di azzurro. Si sedette e cominciò a trastullarsi con dei fili lucenti. Myra si
drizzò di colpo. «Joe, ha l'uovo azzurro! Deve aver sfondato la credenza». Calderon disse: «Ma Quat gli aveva raccomandato...» «È pericoloso!» Alexander li fissò, sogghignando, e piegò i fili, formando una reticella delle dimensioni dell'uovo. Calderon era già fuori del letto, a metà strada verso la porta. Ma si fermò prima di raggiungerla. «Sai», disse lentamente, «potrebbe farsi male con quel coso». «Dovremmo toglierglielo», ammise Myra, sollevandosi dal letto con stanca riluttanza. «Ma guardalo», la sollecitò Joe. «Guardalo bene». Alexander stava maneggiando con competenza i fili, con le mani che guizzavano alla vista per scomparire di nuovo mentre bilanciava il tesseratto sotto la gabbia che reggeva l'uovo. Quella curiosa espressione di consapevolezza dava al suo viso grassoccio l'espressione degenerata della senilità, che tanto bene ormai conoscevano. «Tutto questo continuerà, e continuerà ancora, sai», mormorò Calderon. «Domani assomiglierà ancor meno a se stesso di oggi. La settimana prossima... il mese prossimo... cosa sarà tra un anno?» «Lo so». La voce di Myra era una fievole eco. «Tuttavia, suppongo che dovremmo...» La sua voce si affievolì e si spense. Myra era immobile, a piedi nudi, accanto a suo marito, e guardava. «Suppongo che il congegno sia completato», aggiunse Myra, «quando avrà collegato quell'ultimo filo. Dovremmo strapparglielo via di mano». «Credi che ci riusciremmo?» «Dovremmo tentare». Si guardarono. Calderon disse: «Sembra un uovo di Pasqua. Non ho mai sentito parlare di un uovo di Pasqua che abbia fatto del male a qualcuno». «Suppongo che gli stiamo facendo un favore», sospirò Myra. «Un bambino che si scotta, ha poi paura del fuoco. Se si brucia con un fiammifero, poi sta alla larga dai fiammiferi». Rimasero in silenzio a guardare. Alexander impiegò altri tre minuti per completare il suo progetto, di qualunque cosa si trattasse. I risultati furono di un'efficacia sbalorditiva. Vi fu un lampo di luce bianca, un assordante crepitio dell'aria, e Alexander svanì in una vampa abbacinante, lasciandosi alle spalle un sottile odore di
bruciato. Quando i due genitori poterono vedere di nuovo, ammiccarono incerti verso lo spazio vuoto. «Teletrasporto?» bisbigliò Myra, stordita. «Ora controllo». Calderon attraversò la stanza e si fermò a fissare la macchia umida sul tappeto ai suoi piedi, con le scarpette di Alexander in mezzo. Disse: «No, niente teletrasporto». Poi esalò un lungo sospiro. «Se n'è andato sul serio. E così, non è mai cresciuto per spedire Bordent a ritroso nel tempo a farci visita. Non è mai accaduto». «Non siamo i primi», disse Myra, con voce incerta, instupidita. «C'è un punto di rottura, sì. Quanto mi dispiace per i primi genitori che non lo raggiungeranno!» D'improvviso Myra si girò, ma non così all'improvviso da impedirgli di accorgersi che stava piangendo. Esitò, fissando la porta. Pensò che avrebbe fatto meglio a non seguirla, non ancora. Killdozer! Killdozer! di Theodore Sturgeon Astounding, novembre Ted Sturgeon ricomparve sulle pagine di Astounding dopo un'assenza di parecchi anni, con questo appassionante capolavoro. Le storie d'«invasati» di solito sono dominio del fantastico, ma poiché in questo caso l'invasore è una intelligenza aliena, «Killdozer!» si riqualifica come fantascienza. Il tema dell'uomo contro la macchina è antico, nella fantascienza, ma raramente è stato trattato con l'abilità che Sturgeon dispiega in questa storia. Sturgeon, nella sua multiforme carriera, fu un guidatore di macchine pesanti e sapeva ciò che scriveva. La storia fu filmata (una produzione televisiva) nel 1974, ma non raggiunse affatto la tensione drammatica dell'originale. (La seconda guerra mondiale ebbe come effetto un crollo quantitativo nella produzione d'un certo numero fra i maggiori autori di fantascienza. Gli anni dal 1942 al 1945, ad esempio, videro Robert Heinlein, Sprague da Camp e il sottoscritto al lavoro nello stesso piano dello stesso edificio della Marina statunitense, a Filadelfia. Ciò volle dire che Bob e Sprague non scrissero praticamente nulla in tre anni - anche se io riuscii a trovare
dei ritagli liberi in cui continuare la mia serie di «Foundation» e quella sui robot positronici. Ted Sturgeon era un altro di quelli che avevano dovuto abbandonare - e tutto ciò fece quasi impazzire il povero John Campbell, come potete ben immaginare. Tuttavia, quando Ted tornò, lo fece col suo miglior racconto di fantascienza ortodossa, quello che state, appunto, per leggere. Così, forse, tutto fu per il meglio. I.A.) Prima della razza ci fu il diluvio, e prima del diluvio un'altra razza, la cui natura non è dato all'umanità comprendere. Non extraterrestre, non aliena, in realtà, poiché questo era il loro mondo e la loro casa. C'era stata una guerra fra questa razza, che era una grande razza, e un'altra. L'altra era davvero aliena, qualcosa di senziente, a forma di nube, un coacervo intelligente fatto di puri sciami elettronici. Si era generata all'interno di macchine possenti a causa d'un qualche incidente, causato da una scienza antica, complessa e incomprensibile a noi, aborigeni d'oggi. E le macchine, da servi del popolo, divennero i padroni del popolo, e grandi e spietate furono le battaglie che ne seguirono. Le creature elettroniche avevano il potere di alterare i delicati equilibri della struttura atomica, e il metallo era il loro ambiente vitale, che permeavano e usavano per i loro fini. Ogni arma che l'antico popolo riuscì a mettere a punto fu invasa e rivolta contro di esso, fino a quando i pochi sopravvissuti di quella grande civiltà non trovarono una difesa... Un isolante. L'ultimo, definitivo prodotto, o sottoprodotto, d'ogni ricerca nel campo dell'energia: il neutronio. Nel loro rifugio segreto, essi misero a punto un'arma. Cosa fosse, non lo sapremo mai, e la nostra razza vivrà — oppure finiremo per saperlo, e la nostra razza perirà, come perì la loro. Poiché, per distruggere il nemico, ne persero il controllo, e la smisurata potenza dell'arma li distrusse insieme ad essa, e così pure le loro città, e le macchine invasate dalle creature elettroniche. Il suolo, le rocce stesse si dissolsero in fiamme, la crosta del pianeta sì raggrinzì e tremò e l'oceano ribollì. Niente sfuggì, niente che noi conosciamo come vita, e niente della pseudovita che si era evoluta all'interno dei misteriosi, incomprensibili campi di forza delle macchine. Niente, salvo un singolo, coriaceo mutante. Era un mutante, e ironicamente, l'unico che avrebbe potuto essere ucciso dalle prime, più semplici, inefficaci misure adottate contro la sua specie... ma era passato il tempo di questi semplici espedienti. Era un campo di elettroni strutturato così da possedere intelligenza, mobilità, volontà di
distruggere, e poco altro. Stordito dall'olocausto, era andato alla deriva per l'intero globo ribollente, e in un attimo di tregua tra un'eruzione e l'altra delle tremende forze impazzite sulla Terra, era affondato, esausto e quasi privo di coscienza, fino al suolo fumante. Qui, aveva trovato un rifugio... un rifugio costruito dai suoi nemici morti. Un involucro di neutronio. Trovò un pertugio e vi aleggiò dentro, e qui la sua consapevolezza discese al minimo livello. E lì giacque mentre il neutronio, col suo strano, costante fluire, il suo interminabile lottare per raggiungere il perfetto equilibrio, si protendeva e finiva col chiudere del tutto l'apertura. E poi, negli interminabili eoni che seguirono, l'involucro fu sballottato come una bolla grigia sulla superficie vorticante del globo, poiché nessuna sostanza della Terra ne accettava il contatto, o si combinava con esso. Le epoche venivano e passavano, le interreazioni chimiche attuavano le loro misteriose funzioni, e ancora una volta vi furono vita ed evoluzione. E una tribù trovò la massa di neutronio, che non è una sostanza ma energia stabilizzata, e furono colti da un reverenziale timore dinanzi alla sua aura d'indescrivibile gelo. La venerarono, costruirono un tempio intorno adesso, e compirono sacrifici propiziatori. E il ghiaccio e il fuoco e i mari andarono e venirono, la terra si alzò e si abbassò, man mano gli anni passavano, fino a quando il tempio in rovina si trovò sopra una collinetta, e la collinetta divenne un'isola. Numerose generazioni d'isolani vennero, edificarono e morirono. E le razze via via dimenticarono. Così, oggi, in un punto del Pacifico a occidente dell'arcipelago delle isole Revilla Gigedo, c'era un'isola disabitata. E un giorno... Chub Norton e Tom Jaeger rimasero a guardare lo Sprite, il grosso rimorchiatore d'alto mare, e le tre chiatte che rimpicciolivano sopra la piatta distesa marina. Il grosso rimorchiatore e le chiatte parvero sfocarsi, più che allontanarsi. Chub sputò agilmente un grumo di saliva dallo stesso angolo in cui aveva infilato il sigaro. «Ecco, per tre settimane siamo a posto. Come ci si sente a far da cavie?» «Ce la faremo». Gli occhi di Tom erano circondati da una fitta rete di piccole rughe. Era di tutta la testa più alto di Chub, e alquanto massiccio di corporatura. Non troppo coriaceo, ma davvero in gamba come organizzatore. Sceglierlo come caposquadra era stato saggio, giacché era competente e imponeva rispetto. La teoria che stavano sperimentando nella costruzione degli aeroporti gli interessava moltissimo, soprattutto perché qui non c'erano funzionari rompiscatole, né ispettori governativi, non vi stava-
no addosso col cronometro per misurare le ore lavorate, e non c'erano rapporti da stilare. Il governo aveva accordato alla compagnia una concessione temporanea, e l'idea era in sostanza quella di applicare le tecniche della catena di montaggio all'organizzazione e alla realizzazione del progetto. C'erano sei operatori, due meccanici, e il miglior equipaggiamento che si poteva comperare con un milione di dollari. L'opera, una volta in via di completamento, e dopo una verifica che l'avesse trovata conforme alle prescrizioni governative, sarebbe stata omologata. La tecnica costruttiva che si voleva applicare era destinata a ovviare al problema dei lavativi e a quello dei furti, da un lato, e dall'altro a quello della cronica mancanza di mano d'opera addestrata. «Quando arriverà la squadra per il manto bituminoso e le rifiniture, saremo pronti», dichiarò Tom. Si voltò a scrutare l'isola col suo sguardo sperimentato da operatore, la vide com'era, e i vari stadi attraverso i quali sarebbe passata, e l'aspetto che avrebbe assunto quando avessero finito, con milleduecento metri di pista ben drenata, terrapieni ben costipati, quattro acri di parcheggio, la pista di rullaggio e la strada di accesso. Valutò la quantità di materiale che sarebbe stata scavata e sollevata ogni volta dall'escavatore, man mano demoliva quel contrafforte di marna. Studiò le rovine lassù in cima, che avrebbero fornito il pietrisco da trasportare giù, attraverso il pianoro salato, fino alla piccola palude sul lato opposto, dove sarebbe stato riversato e ben pressato fino al completo prosciugamento. «Abbiamo il tempo di portare l'escavatore lassù, prima che faccia buio». S'incamminarono lungo la spiaggia verso un gradone naturale di roccia dove c'era il macchinario, circondato da numerose casse e bidoni, con ogni tipo di rifornimento. I tre trattori ticchettavano sommessi, i Diesel a due cicli ridacchiavano attraverso le marmitte, e la grossa D-7 scandiva, con regolarità da metronomi, il battito del compressore a ogni placida rotazione. I camion erano allineati e silenziosi, poiché non avrebbero cominciato a lavorare finché l'escavatore non fosse stato pronto a riempirli. Parevano un'interpretazione meccanica dello «Spingimitìrami» del dottor Doolittle, il fantastico animale a due teste. Avevano due grandi ruote motrici, e due più piccole, direzionali. Il motore e il seggiolino del conducente si trovavano fianco a fianco sopra le ruote anteriori, le più piccole; ma il conducente sedeva rivolto verso il cassone, fra le due grandi ruote posteriori, esattamente all'incontrario di come si sarebbe seduto in un normale autocarro con cassone ribaltabile. Perciò, per andare dall'escavatore alla zona di
scarico, l'operatore guidava all'indietro, guardandosi alle spalle, mentre per tornare all'escavatore, il guidatore viaggiava in avanti, ma il camion faceva marcia indietro — un bello scherzo, procedere così per quattordici ore al giorno! L'escavatore sembrava starsene accovacciato in mezzo a tutte le altre macchine, con la sua grande massa che incombeva su di esse, il braccio abbassato e il suo mento di ferro al suolo, come un grande dinosauro stanco. Rivera, il meccanico portoricano, alzò gli occhi sogghignando, quando Tom e Chub si avvicinarono, e si ficcò una chiave inglese per valvole nella tasca superiore della tuta. «Questa dice», li informò Rivera, e i denti bianchi balenarono in mezzo alla macchia di grasso che gli copriva la bocca, «che non vuole che il terriccio le graffi la pittura». Mollò un calcio col tacco alla grande lama della D-7. Tom gli restituì il sogghigno... sempre una cosa che sorprendeva, in quel volto serio. «Di' a quella D-7 che sgobberà parecchio, e la sua lama perderà un bel po' di filo, insieme a buona parte della pittura, prima che abbiamo finito. Monta in sella, Goony. Fai una rampa da quelle rocce fino al pianoro, laggiù, e poi affetta un po' di gobbe fino al contrafforte lassù. Voglio portar su l'escavatore». Il portoricano era sul seggiolino prima ancora che Tom avesse finito di parlare, e con un ruggito la D-7 ruotò su se stessa, arretrando sul lato interno del gradone, poi abbassò la lama e ripartì in avanti: la marna sabbiosa si arricciò, sollevandosi davanti alla lama e poi scorrendo in due rigonfiamenti su entrambi i Iati. Il portoricano guidò la macchina verso il bordo opposto, e la D-7 scese di giri, quando si trovò a spingere l'intero carico, blat blat blat, come un bue che tendesse i muscoli allo spasimo, mentre lo scoppiettio rallentò quanto bastava a consentir loro di contare le rotazioni. «È un bel pezzo di macchina», commentò Tom. «E lui è anche un bell'operatore», aggiunse Chub, in tono burbero, e aggiunse, «per essere un meccanico». «Il ragazzo è a posto», ribadì Kelly. Si era avvicinato ai due, a osservare il portoricano che manovrava il bulldozer, e parlò come se fosse stato lì tutto il tempo; questo era il modo in cui Kelly arrivava, dovunque. Era alto, magro, con occhi verdi allungati, e una flessuosità naturale nel muoversi, come un gatto. Commentò: «Non avrei mai creduto che, un giorno, a-
vrei visto del macchinario spedito già pronto per funzionare. Immagino che sia soltanto perché nessuno ci aveva mai pensato prima». «Sì, oggi è possibile sbrigarsi anche con l'equipaggiamento pesante», annuì Tom. «Hanno capito che, se era possibile farlo coi carri armati, tanto più si poteva col macchinario da costruzione. Con la differenza che noi lo facciamo per costruire, e non per distruggere. Su, Kelly, avvia l'escavatore. È pronto per essere portato lassù, sul contrafforte». Kelly balzò nella cabina del bestione e, bloccati i comandi sull'automatico, diede uno strappo alla leva d'avvio. Il Diesel Murphy sbuffò, e s'ingranò sul folle. Kelly salì in sella, diede un po' di gas, e cominciò a sollevare il braccio con la benna. «Non riesco ancora ad abituarmi all'idea», disse Chub. «Non più di un anno fa, un simile lavoro avrebbe richiesto almeno duecento uomini». Tom sorrise. «Già. E per prima cosa avremmo dovuto costruire un edificio per gli uffici, e poi gli alloggi. Io preferisco questo sistema. Niente cartellini da timbrare al mattino, niente sfilze di rapporti sull'uso dell'equipaggiamento, niente relazioni sui progressi compiuti e i metri di avanzamento. Niente di niente, insomma, ma soltanto otto uomini, un milione di dollari di equipaggiamento e tre settimane di tempo. Un escavatore, una D-7, un mucchio di casse piene di attrezzature, qualche telo per ripararci dalla pioggia, e le razioni dell'esercito per riempirci la pancia. Faremo tutto in un battibaleno, ce ne andremo di qui, e verremo pagati». Rivera terminò il tratto inferiore della rampa, fece voltare la D-7, e risalì, costipando il pendio nuovo di zecca. Giunto in cima, calò nuovamente la lama e ridiscese la rampa a marcia indietro, lisciando ben bene ogni asperità. A un cenno di Tom, risalì fino al gradone, e proseguì verso il contrafforte, spianando strada facendo le gobbe rocciose e rovesciando terreno di riporto nelle cavità tra una gobba e l'altra. Lavorava cantando, all'unìsono col battito del potente motore, galvanizzato dall'estrema precisione con cui gli ubbidiva quell'enorme, implacabile macchina. «Perché quella scimmia non se ne sta attaccata ai suoi oliatori?» Tom si voltò e si tolse un fiammifero rosicchiato dai denti. Non disse niente, perché da qualche tempo aveva cercato di prender l'abitudine di non dir niente a Joe Dennis. Dennis era un ex contabile, tirato fuori da un ufficio e assoldato proprio all'istante dell'ultimo rantolo di un progetto defunto nelle Indie Occidentali. Era diventato operatore poiché avevano un maledetto bisogno di operatori. Era stato prontamente mollato dall'ufficio a causa della sua propensione al pettegolezzo e ai piccoli intrighi. Era un
gioco, questo, al quale si dedicava tuttora, e anche a prescindere dalla faccia rossa che sembrava bollita e dal suo modo di camminare leggermente effeminato, era del tutto fuori posto li al campo, poiché leccare gli stivali e pugnalare alle spalle rendeva, lì al campo, ancora meno di quanto gli avesse reso, in concreto, all'ufficio. Tom, cercando con tutte le sue forze di concentrare la mente sui lavori, fu costretto ad ammettere che, fra tutte le più odiose caratteristiche di Dennis, la peggiore era il fatto, innegabile, che era un bravo operatore, all'altezza dei migliori. Dennis non lo negava di certo. «Un tempo, chiunque avesse sorpreso uno di questi "goony" anche soltanto seduto su una delle macchine durante il pranzo, l'avrebbe preso a calci in culo», brontolò Dennis. «Adesso gli dànno il lavoro di un uomo e la paga di un uomo». «Non sta forse facendo il lavoro di un uomo?» disse Tom. «È un portoricano!» Tom si girò e lo guardò freddamente. «Di dove hai detto che venivi, tu?» fece, soprappensiero. «Ah, sì. Dalla Georgia». «Cosa vorresti dire, con questo?» Tom si stava già allontanando a grandi passi. «Te lo dirò quando sarà il momento», replicò, senza voltarsi. Dennis tornò a fissare la D-7. Tom diede una rapida occhiata alla rampa, poi invitò Kelly con un cenno a procedere. Kelly inserì il blocco, in modo che il lungo braccio non potesse oscillare, innestò la marcia di trasferimento, e spinse in avanti la leva. Con un assordante crepitio di brecciame corallino che veniva schiacciato, i grandi cingoli dell'escavatore portarono la macchina fin sulla rampa. Quando attaccò il pendio, le valve della benna in acciaio al manganese si aprirono e si chiusero sbattendo, come una bocca vorace, piombando poi nel silenzio. Il grosso Diesel Murphy cantava sommesso, cavernoso, sotto pressione, mentre la macchina s'inerpicava, poi s'inserì il regolatore automatico dei giri, e ricominciarono i tonfi, come un ventre titanico percosso da pugni. Peebles era in piedi accanto a uno dei vagli, intento a succhiare la pipa e a guardare il mare. Aveva i capelli brizzolati e una corporatura massiccia; da sotto le sopracciglia cespugliose guardavano i più tranquilli occhi grigi che Tom avesse mai visto. Peebles non se l'era mai presa con una macchina — una caratteristica rara in un meccanico nato — e in cinquant'anni aveva imparato che serviva ancora meno prendersela con un uomo. Poiché, di qualunque cosa si trattasse, era sempre possibile riparare il guasto di una
macchina. Disse, parlando intorno al cannello della pipa: «Spero che mi ridarete presto il mio ragazzo». Le labbra di Tom si piegarono in un lieve sorriso. C'era stato un accordo fra lui e il vecchio Peebles, fin da quando si erano incontrati. Una di quelle cose che esistevano, anche se non c'era bisogno di dirle — i due sapevano assai poco l'uno dell'altro, poiché non avevano mai trovato necessario chiacchierare per cementare la loro amicizia. Era sufficiente sapere che ognuno di loro poteva aspettarsi il meglio dall'altro, sempre. «Rivera?» chiese Tom. «Te lo rispedisco non appena avrà finito quella pista per l'escavatore. Perché? Hai qualcosa che bolle in pentola?» «Voglio svuotare e risciacquare quella saldatrice ad arco e metter su un banco di lavoro, nel caso in cui voi ragazzi rompiate qualcosa». Fece una pausa. «Inoltre, quel ragazzo si sta riempiendo un po' troppo la testa con troppe cose nello stesso tempo. La meccanica è una cosa. Far l'operatore è tutto un altro discorso». «Finora non mi pare che abbia interferito molto col suo lavoro, no?» «No, certo. E non voglio neanche che succeda. A meno che tu non ne abbia proprio bisogno». Tom si arrampicò sopra il vaglio. «Non ne ho poi tutto questo bisogno, Peeby. Ma intanto, se vuoi un po' di aiuto, prenditi Dennis». Peebles non disse niente. Sputò. Ma non parlò affatto. «Cosa c'è con Dennis?» volle sapere Tom. «Guarda laggiù», disse Peebles, agitando il cannello della sua pipa. Là, sulla riva, Dennis stava parlando con Chub, nell'inconfondibile stile di Dennis, in piedi accanto a Chub, una mano sulla spalla di Chub. Mentre guardavano, videro Dennis chiamare il suo inseparabile amico, Al Knowles. «Dennis parla troppo», osservò Peebles. «Di solito non è grave, ma quel Dennis a volte dice troppo. Non ha certo i numeri per fare la prima donna, e lo sa. Così, si rifà seminando la discordia fra la gente». «È innocuo», replicò Tom. Sempre con gli occhi fissi alla riva, Peebles disse lentamente: «Lo è stato, fino ad ora». Tom fece per ribattere qualcosa, poi scrollò le spalle. «Ti manderò Rivera», disse, e apri la valvola a farfalla. Come una gigantesca dinamo elettrica, il motore a due tempi produsse un gemito crescente. Tom sollevò la lama azionando una piccola leva accanto al fianco destro, e alzò il vaglio con la lunga asta di controllo che sporgeva da dietro la sua spalla. Si allon-
tanò, chiudendo il portello posteriore, cosicché qualunque cosa la lama avesse colpito scorresse via di lato invece di finire dentro il vaglio. Innestò la sesta e con un uggiolio raggiunse e aggirò il lento escavatore meccanico, passando giusto sotto il braccio della benna e correndo avanti, con la lama che toccava appena il suolo, rastrellando e livellando perfettamente la strada di servizio che Rivera aveva appena tracciato. Dennis stava dicendo: «È quella specie di Hitler. Perché dovrei permettergli di parlarmi così? "Vieni dalla Georgia" dice lui. E lui, cosa crede di essere? Un americano o cosa?» «Un grand'uomo di Macon», ridacchiò Al Knowles, che veniva anche lui dalla Georgia. Era alto e affilato, le spalle arrotondate. Tutte le sue capacità erano racchiuse nelle mani e nei piedi, poiché il cervello era un organo di cui aveva fatto a meno per tutta la sua vita, fino a quando non aveva incontrato Dennis, modellandolo allora fedelmente al suo. «Tom non intendeva dir niente, con ciò», disse Chub. «No, non intendeva dir niente. Soltanto che noi dobbiamo far le cose che dice lui, e alla maniera che dice lui, specialmente se scopre che c'è una maniera che non ci piace. Tu non faresti così, Chub. Al, tu pensi che Chub farebbe così?» «Certo che no», annuì Al, sentendo che era ciò che ci si aspettava da lui. «Sciocchezze», replicò Chub, insieme soddisfatto e inquieto, mentre pensava: Cos'ho contro Tom? Non avrebbe saputo dire perché, ma Tom non gli garbava più come una volta. «Qui è Tom che dirige, Dennis. Abbiamo un lavoro da fare: diamoci sotto e finiamolo. Sono soltanto tre schifose settimane: possiamo reggere allo sforzo». «Oh, certo», disse Al. «Si può reggere solo fino a tanto», ribatté Dennis. «Perché mai hanno messo a comandare un uomo come quello, Chub? Cosa ti succede? Tu non sai spianare e drenare il terreno bene quanto Tom? Ce la farebbe Tom a picchiettare il fianco di una collina bene quanto sapresti farlo tu?» «Oh, sì, certo, ma che differenza fa, visto che questo campo bisogna ben costruirlo, no? E comunque, a chi diavolo importa fare il capo? Ci vuol bene qualcuno che si prenda le colpe, se qualcosa dovesse andare storto, no?» Dennis fece un passo indietro, togliendo la mano dalla spalla di Chub, e piantò un gomito nelle costole di Al. «Visto, Al? Ecco un uomo sveglio. È proprio la cosa che lo zio Tom non
si aspettava. Chub, puoi contare su Al e su di me, per fare qualche cosuccia». «Fare qualche cosuccia?» chiese Chub, sinceramente perplesso. «Proprio come hai detto tu. Se qualcosa va storto, è il capo che si prende la colpa. Perciò, se il capo non si comporta come si deve, il lavoro va storto». «Uh-uh», annuì Al, con la convinzione che gli veniva dalla sua semplicità mentale. Chub afferrò in ritardo quel peculiare processo logico, e fu colto da un impulso di collera, poiché la conversazione gli sfuggiva di mano. «Io non ho detto niente del genere! Questo lavoro si farà, non importa cosa! Hitler non appenderà addosso nessuna croce di ferro né a me né a nessun altro, qui attorno, se dipenderà da me!» «Questo è lo spirito giusto», esclamò Dennis, fingendosi d'accordo. «Mostreremo a quell'individuo cosa pensiamo dei suoi sabotaggi». «Tu parli troppo», disse Chub, e se la squagliò con quel poco che gli restava di coerenza. Tutte le volte che parlava con Dennis, si allontanava, poi, con la sensazione di avere un tesserino d'iscrizione non richiesto nel taschino, del quale, però, sentiva di non potersi liberare con la coscienza tranquilla. Rivera tracciò la pista fin sotto il contrafforte, fece girare la D-7, innestò la frizione, riducendo così il numero dei giri. Tom stava arrivando, completando la sua passata col vaglio; quando lo raggiunse, Rivera scivolò fuori dal seggiolino, appoggiando la sua mano sensibile al rivestimento del motore e a quello delle grandi ruote palettate, controllando se vi fosse surriscaldamento. Tom gli si portò accanto e gli fece segno di salire accanto a lui. «Que pasa, Goony? Qualcosa che non va?» Rivera scosse il capo e sogghignò. «Niente che non va. È perfetta, questa De-Siete. È...» «Che cosa? Daisy Etta?» «De-Siete. D-7 in spagnolo. Vuol dire qualcosa in inglese?» «Ti ho capito male», sorrise Tom. «Ma Daisy Etta in inglese suona lo stesso, ed è il nome di una ragazza». Mise il vaglio in folle, inserì la frizione e saltò giù dalla macchina. Rivera lo seguì. Salirono ambedue sulla D-7, con Tom ai comandi. Rivera ripeté: «Daisy Etta», e sogghignò rumorosamente, allargando la
bocca fino ai molari. Allungò la mano, piegò il mignolo intorno a una delle lunghe leve della frizione, e la tirò completamente indietro. Tom scoppiò in una risata. «Hai davvero qualcosa in mano», dichiarò. «Il cingolato più manovrabile che sia mai stato costruito. Frizione e freni idraulici che ti fanno fermare di botto soltanto se ci sputi sopra. Leve per marcia e retromarcia, così hai tutte le marce sia in avanti che indietro. Un po' diverso da quei vecchi macinini. Otto anni fa, non avevano il cambio a moltiplicatore di pressione: ci voleva una trazione di trenta chili per tirare indietro una leva della frizione. Sbancare una collina con una ruspa a lama obliqua era qualcosa di sfiancante, in quei giorni. Dovevi provarci, a sbancare con una mano, e a tenerle il naso fuori della scarpata con l'altra, per dieci ore al giorno. E quanto ci guadagnavi? Ottanta cent all'ora, e...» Tom si tolse la sigaretta di bocca e spense la punta accesa sul palmo pieno di calli, «... questi». «Santa Maria!» «Ora senti, Goony. Voglio dare un'occhiata al promontorio, a quelle rovine lassù. Ci vorrà almeno un'ora prima che Kelly arrivi fin qui con l'escavatore». Cominciarono a risalire il pendio, con Tom che saggiava il terreno sotto la spazzola da un metro e venti, facendola avanzare a zig-zag come se salisse una strada tutta tornanti sul versante d'una montagna. Malgrado la D7 avesse una vistosa marmitta sul tubo di scappamento che si protendeva dal cofano davanti a loro, il ruggito di quattro grossi cilindri che trascinavano quattordici tonnellate d'acciaio in salita riusciva a sovrastare ogni conversazione, per cui non parlarono. Tom era alla guida, e Rivera fissava le sue mani che sfioravano appena i comandi. Il contrafforte cominciava con un basso rilievo allungato, e si prolungava poi ad attraversare l'intera isola, come una spina dorsale asimmetrica. Verso il suo centro, s'innalzava all'improvviso, spingendo fuori una propaggine che creava l'affioramento roccioso sulla spiaggia dove avevano scaricato i loro macchinari, e continuava a sollevarsi formando un piccolo altipiano quasi quadrato, di mezzo miglio di lato. Parve a loro gibboso, accidentato, finché non poterono averne una visione d'insieme. Soltanto allora si resero conto che in realtà era incredibilmente livellato, sotto le rovine e i cespugli che lo coprivano. Al centro — anzi, esattamente al centro, come si resero conto tutto d'un tratto — c'era un basso monticello coperto di vegetazione. Tom mise la frizione e abbassò il numero di giri. «Stando al rapporto sui rilevamenti, quassù dovrebbero esserci un bel
po' di pietre», disse Tom, saltando giù dal seggiolino con una piroetta. «Facciamo un giro qui intorno». Si avviarono verso il monticello centrale. Tom prese a esaminare il terreno tutt'intorno. Si chinò sull'erba corta e folta e raccolse una scheggia di pietra, azzurro-grigia, dura e fragile. «Rivera, guarda qui. È di questa che parlava il rapporto. Guarda, ce ne sono ancora. Tutti pezzettini, però. Avremo bisogno di roba più grossa per l'acquitrino, se riusciremo a trovarla». «È pietra buona?» chiese Rivera. «Sì, ragazzo, ma non viene da qui. Tutta l'isola è di marna, sabbia e arenaria, sull'affioramento laggiù. Questa è pietra azzurra, basalto, duro come l'inferno. Non ho mai visto roba simile su una collina di marna. O vicino ad essa. Ad ogni modo, fruga qui intorno e guarda se ti riesce di trovare qualcosa di più grosso». Proseguirono. D'improvviso, Rivera si abbassò e scostò l'erba. «Tom, qui ce n'è una grossa». Tom si avvicinò e fissò l'angolo della pietra che spuntava dal terriccio. «Già, Goony. Porta qui la tua amichetta e guardiamo un po' di tirarla fuori». Rivera tornò indietro all'oziosa ruspa, e vi salì. Portò la macchina là dove Tom aspettava, si fermò, si alzò in piedi e sbirciò oltre la parte anteriore della macchina per localizzare con precisione la pietra, poi tornò a sedere e cambiò marcia. Prima che la macchina tornasse a muoversi, Tom fu sul parafango, al suo fianco, e gli calò una mano sul braccio per fermarlo. «No, ragazzo, no. Non la terza. La prima. E mezzo gas. Ecco, ora va bene. Non cercare mai di sradicare una roccia dal suolo a forza di urtoni. Avvicinati piano, appoggiaci contro la lama, sollevala fuori, non spingerla fuori a calci. E prendila col mezzo della lama, non con l'angolo, fai gravare il peso su entrambi i cilindri idraulici. Chi ti aveva detto di far così?» «Nessuno me l'ha detto, Tom. Ho visto qualcuno che lo faceva, e ho pensato di farlo anch'io». «Sì? E chi era?» «Dennis, ma...» «Ascolta, Goony, se vuoi imparare qualcosa da Dennis, guardalo mentre manovra per livellare il terreno. Lo spiana con la pala, con la stessa velocità che usa nel parlare... E questo mi ricorda quello che volevo dirti. Hai mai avuto qualche fastidio con Dennis?» Rivera allargò le mani. «Come posso aver fastidi con lui, se Dennis non
mi parla mai?» «Be', allora va bene. Continua così. Dennis è a posto, credo, ma farai meglio a tenerti lontano da lui». Continuò, raccontando al ragazzo ciò che Peebles gli aveva detto, sul fatto di essere operatori e meccanici allo stesso tempo. Il volto scuro e magro di Rivera si allungò ancora di più, e le sue mani andarono al comando della lama, sfiorandolo appena, ma ugualmente saggiandone l'impugnatura composta e i controdadi che la tenevano salda al suo posto. Non appena Tom ebbe finito, replicò: «Va bene, Tom. Facciamo così: tu le rompi, ed io te le aggiusto. Ma se qualche volta ti serve aiuto, posso guidare la Daisy Etta per te, non ti pare?» «Certo, ragazzo, certo. Ma non scordarti che nessuno può far tutto». «Tu puoi far tutto», replicò il ragazzo. Tom saltò giù dalla macchina. Rivera innestò la prima e si avvicinò lentamente alla pietra, appoggiandovi delicatamente la lama. Avvertendo il peso, la poderosa macchina, con un udibile ringhio, tese i muscoli. Rivera apri un po' la valvola, la macchina si appoggiò saldamente al masso, i cingoli slittarono, scavarono nel suolo, ammucchiando la terra smossa dietro di sé. Tom sollevò il pugno col pollice in alto, e il ragazzo cominciò ad alzare la lama. La D-7 abbassò il muso come un bue che dovesse farsi strada nella fanghiglia; il davanti dei cingholi affondò ancora di più, e la lama scivolò verso l'alto, sempre a contatto con la roccia, come una ruota dentata. La pietra si spostò, e all'improvviso emerse dalla terra che la copriva, inturgidendo il manto erboso come l'onda lenta della prua d'una nave. La lama perse la presa e scivolò sopra la pietra. Rivera tolse di colpo la frizione, evitando giusto per un pelo che il masso colpisse, ricadendo, il radiatore, sfondandolo. Poi fece marcia indietro, vi appoggiò contro la lama un'altra volta, e alla fine riuscì a far rotolare la pietra fuori dal suolo, alla luce del sole. Tom rimase lì a guardarla, grattandosi dietro la testa. Rivera saltò giù dalla macchina e si fermò accanto a lui. Per un lungo attimo non dissero nulla. La pietra era all'incirca rettangolare, con la forma di un grosso mattone, tagliato, su un lato, a un angolo di circa sessanta gradi. E su questa faccia obliqua sporgeva una cresta all'incirca quadrata, come una lingua su un pezzo di legno lavorato. La pietra aveva più o meno le dimensioni di novanta per sessanta per sessanta centimetri, e doveva pesare tre quintali e mezzo.
«Questa», dichiarò Tom, sbarrando gli occhi, «non è certo cresciuta qui, e se l'ha fatto, non può esser certo cresciuta a quel modo». «Una piedra de una casa», fece Rivera, con voce sommessa. «Tom, qui una volta c'era un edificio, no?» Tom si girò all'improvviso e fissò il monticello. «C'è un edificio, qui, o per lo meno quanto ne rimane. Solo Dio sa quanti anni ha...» Restarono lì, immobili, nella luce che andava digradando lentamente, fissando il piccolo poggio. Calò su di loro una sensazione d'oppressione, come se non si udissero più né il vento, né alcun suono. Eppure, il vento soffiava, e dietro di loro Daisy Etta rumoreggiava, col motore borbottante al minimo, e niente era cambiato e... Che fosse questo? Che niente, appunto, era cambiato? Oppure, che niente che avrebbe dovuto mutare... ora sarebbe cambiato? Tom aprì la bocca due volte per parlare, e non ci riuscì, o non volle, non avrebbe saputo dire quale delle due cose. Rivera si accoccolò all'improvviso sulle natiche, la schiena dritta, gli occhi sgranati. Una sensazione di gelo prese forma e s'intensificò. «Fa freddo», disse Tom, e la sua stessa voce gli suonò aspra. Eppure, il vento soffiava caldo su di loro. E il suolo era caldo, dove la pelle di Rivera lo toccava. Il freddo non era una mancanza di calore, lì, ma la mancanza di qualcos'altro: dello specifico calore della vita. La sensazione oppressiva crebbe, come se fosse stata iniziata dalla loro consapevolezza della stranezza di quel luogo, e adesso la loro crescente sensibilità la facesse crescere. Rivera ruppe il silenzio, biascicando qualcosa in spagnolo. «Cosa stai guardando?» gli chiese Tom. Rivera sussultò, alzò di scatto un braccio, come per respingere l'improvvisa esplosione della voce di Tom. «Io... Non c'è niente da vedere, Tom. Già un'altra volta mi ero sentito così, prima d'oggi. Non so...» Scosse la testa, gli occhi stralunati, vacui. «E dopo, c'è stata una tempesta infernale...» La sua voce si spense. Tom l'agguantò per la spalla e lo tirò bruscamente in piedi. «Goony! Sei sbronzo?» Il ragazzo sorrise, quasi con gentilezza. Aveva il labbro superiore imperlato di sudore. «Non è niente, Tom. È soltanto che mi sono spaventato da morire». «Allora, caccia via lo spavento quanto basta a risalire sul cingolato e a rimetterti al lavoro», ruggì Tom. Poi, con più calma, aggiunse: «So che c'è
qualcosa di sbagliato quassù, Goony, ma non è certo correndo dietro a ogni ubbia che riusciremo a costruire una pista. So come si fa a toglier la paura a qualcuno che ha paura degli spari. Dovrei riuscire a fare almeno altrettanto per te. Ora, vai fino a quella montagnola e vedi se c'è una riserva di sassi per noi. Abbiamo un acquitrino, là sotto, da riempire». Rivera esitò, fece per parlare, deglutì, poi s'incamminò lentamente verso la D-7. Tom rimase a guardarlo, chiudendo la mente all'impalpabile pressione di qualcosa, lì vicino, in qualche punto imprecisato... qualcosa che gli faceva gelare le budella. Il bulldozer puntò il muso verso la montagnola, grugnendo, ricordando all'improvviso a Tom che il nome di «slang» spagnolo per quella macchina era puerco: porco, verro. Rivera manovrò, girando la macchina così da penetrare in un angolo del poggio con la lama; terriccio e cespugli si gonfiarono, e caddero giù dal pendio, rovesciandosi sul vomere. Il ragazzo terminò la prima passata, spinse oltre il carico, lo seminò sulla spianata, poi girò la macchina e ricominciò. Dieci minuti dopo, Rivera toccò un'altra pietra, la lama d'acciaio al manganese stridette su di essa, una nuvoletta di polvere grigia s'innalzò dal bordo tagliente. Tom si chinò e l'esaminò da vicino dopo che la macchina fu passata. Era lo stesso tipo di pietra che avevano trovato sul tratto pianeggiante, e aveva la stessa forma. Qui però faceva parte di un muro, ed era incastrata, su ambo i lati, ad altri blocchi, ovviamente grazie a quelle protuberanze quadrate e alle relative rientranze. Freddo, freddo come... Tom tirò un profondo respiro e si asciugò il sudore che gli gocciolava sugli occhi. «Non m'importa un accidente», bisbigliò. «Questa pietra mi serve, e la prenderò, ad ogni costo. Ho una palude da riempire». Fece alcuni passi indietro e accennò a Rivera di penetrare con la lama nella crepatura scheggiata che vi aveva praticato poco prima. La D-7 si avvicinò al muro e si bloccò, mentre Rivera innestava la prima, toglieva gas e abbassava la lama. Tom alzò lo sguardo su di lui. Le labbra del ragazzo erano bianche; tolse la frizione, la lama piombò giù e s'infilò di precisione, con l'angolo, nella fessura.. La macchina mugghiò la sua protesta e cominciò a muoversi di traverso, facendo perno sull'estremità della lama. Tom schizzò via dalla sua traiettoria, corse dietro alla macchina, che adesso era quasi parallela al muro, e una volta al sicuro, si tenne con una mano pronta a segnalare, gli occhi sul-
la lama sotto sforzo. Poi, tutto accadde insieme. Con un crepitio e uno schiocco, il blocco cominciò a venir via, ruotando sul lato della protuberanza quadrata, e trascinando fuori, così, anche il suo immediato vicino. Il blocco appoggiato sopra questi due cadde, e l'intera montagnola parve assestarsi. E qualcosa sibilò fuori dal buco nero che si era aperto nel muro. Qualcosa di simile a una nebbia, ma non una nebbia visibile... qualcosa d'immenso e incommensurabile. E insieme ad esso, uscì una raffica di quel freddo che non era freddo, l'acre sentore dell'ozono, e il crepitio d'una violenta scarica di elettricità statica. Tom si trovò a una ventina di metri dal muro senza saper come. Si fermò, e vide la D-7 impennarsi come uno stallone selvaggio, mentre Rivera faceva due capriole in aria. Tom urlò alcune sillabe senza senso e si precipitò verso il ragazzo, là dove giaceva lungo disteso in mezzo all'erba coriacea, lo sollevò tra le braccia e corse via. Solo allora si rese conto che stava scappando davanti alla macchina. La quale era come impazzita. Il suo vomere si alzava e si abbassava, mentre si allontanavano dal monticello con una traiettoria curva, il regolare automatico che ululava a squarciagola, e le leve dei comandi che si dimenavano, sferzando l'aria. La lama affondò ripetutamente nel terreno, scodellandolo fuori e lasciando grandi buche attraverso le quali la D-7 si tuffava sferragliando e muggendo inferocita. Percorse così grandi archi irregolari, poi girò su se stessa e tornò sbuffando verso la montagnola, dove prese a colpire il muro sepolto, raschiando e ruggendo e avventandovisi contro con furia omicida. Tom raggiunse l'orlo dell'altopiano col respiro in gola e, inginocchiandosi, adagiò con delicatezza il ragazzo sull'erba. «Goony, ragazzo mio... ehi...» Le lunghe, seriche ciglia sbatterono un paio di volte, si sollevarono. Qualcosa si ruppe in Tom, quando vide gli occhi rovesciati all'indietro al punto da far vedere solo il bianco. Rivera esalò un lungo, tremulo sospiro, che s'interruppe all'improvviso. Ebbe due colpi di tosse e cominciò a scuotere la testa da un lato all'altro con tanta violenza che Tom la prese fra le mani e la bloccò. «Ay... Madre Maria... que ha me pasado, Tom cosa mi è successo?» «Sei caduto dalla D-7, stupido. Come... come ti senti?» Rivera esplorò il suolo a tastoni; riuscì a puntare i gomiti, accennò a sollevarsi, poi ricadde giù. «Mi sento bene. Un mal di testa d'inferno. Cosa... cosa m'è successo ai piedi?»
«I piedi? Ti fanno male?» «Non male...» Il suo volto divenne grigio, le labbra si strinsero. «No, niente, Tom». «Non li puoi muovere?» Rivera scosse la testa, sempre tentando. Tom si alzò in piedi. «Prenditela con calma. Andrò da Kelly. Torno subito». Si allontanò in fretta, e quando Rivera lo chiamò, non si voltò. Tom aveva visto altre volte un uomo con la schiena rotta. Sull'orlo del piccolo altopiano, Tom si fermò, in ascolto. Alla luce sempre più fosca del crepuscolo, vide il bulldozer fermo accanto alla montagnola. Il motore era in funzione: non era andato in panne. Ma ciò che aveva fatto fermare Tom era stato il fatto che il motore non era in folle, ma saliva e scendeva di giri, come se una mano impaziente controllasse il gas: vrùmm, vruuuum, imballandosi più rapidamente di quanto perfino un regolatore guasto avrebbe potuto consentire, per poi diminuire fin quasi al silenzio, interrotto soltanto dall'esplosiva punteggiatura degli scoppi secchi e irregolari dello scappamento. Poi tornava a imballarsi sempre di più, quasi urlando, salendo a un numero di giri al minuto che minacciava ogni parte mobile, scuotendo l'intera, grande macchina come un micidiale accesso di febbre malarica. Tom s'incamminò in fretta verso la D-7, cupo in volto, perplesso e accigliato, il volto grintoso segnato dalle intemperie. I regolatori possono, occasionalmente, guastarsi, e di tanto in tanto può capitare che un motore si faccia a pezzi da solo, salendo sempre più di giri, senza alcun controllo. Se un operatore fosse stato tanto stupido da lasciare la sua macchina con la frizione innestata, questa avrebbe potuto scappar via, mettendosi a correre come aveva fatto la D-7 — ma non avrebbe potuto mettersi a curvare, a meno che un angolo della lama non si fosse impegnato contro qualcosa in grado di opporre resistenza, e in tal caso il motore avrebbe potuto salire e scendere di giri, la macchina sterzare qua e là, alzando e abbassando la lama. Mentre lui si avvicinava, il motore aveva cominciato a rallentare, e alla fine si stabilizzò al minimo, mantenendo un ritmo costante e regolare. Tom ebbe l'impressione, folle idea che la macchina lo stesse osservando. Si scrollò di dosso quella sensazione, si avvicinò e mise una mano sul parafango. La D-7 reagì come uno stallone selvaggio. Il grosso Diesel ruggì, e Tom
vide chiaramente la leva della frizione scattare all'indietro, oltre il centro. Balzò di lato, aspettandosi che la macchina scattasse in avanti, ma a quanto pareva era innestata la retromarcia, poiché schizzò indietro, un cingolo bloccato, e l'estremità più vicina della lama descrisse un fulmineo arco carico di ferocia, passandogli a pochi centimetri di fianco, mentre si tirava indietro con un salto da ballerino. Ma, come fosse rimbalzata contro un muro, la D-7 cambiò direzione e puntò su di lui, la lama da tre metri e mezzo sollevata, i due grossi fari che incombevano su di lui dai loro supporti arcuati, simili agli occhi sporgenti di un ciclopico rospo. Tom non ebbe altra scelta che saltargli dritto addosso, afferrando la cima della lama con ambedue le mani, gettando il corpo indietro per puntare i piedi sul vomere curvo. La lama ricadde, affondando nel terreno morbido, scavando in profondità. Il terriccio caricato sul vomere fu sollevato e ribollì intorno alle gambe di Tom, il quale le sbatté, frenetico, per non farsi trascinar giù nel vortice. Poi la lama si alzò, lasciando un mucchio di terra alto un metro abbondante sul bordo della buca. La macchina vi precipitò dentro con i cingoli, poi s'inerpicò sul mucchio. Un fulmineo sbilanciamento sul culmine, quando la D-7 lo superò come una motocicletta che saltasse da una rampa, e poi uno schianto da scuotere l'intera spina dorsale quando le quattordici tonnellate di metallo si abbatterono al suolo, con la lama in avanti. Parte delle callosità delle mani di Tom rimase attaccata al bordo della lama, quando lui venne scagliato via. Ma non cadde lungo disteso: aveva raccolto le gambe contro il corpo, cosicché poté balzare in piedi non appena toccò il suolo; poiché sapeva che nessuna macchina poteva affondare la lama nel suolo a quel modo e tirarla fuori facilmente. Saltò in cima alla lama e mise una mano sul tappo del radiatore, fece una piroetta. Perversamente, il tappo si staccò e gli rimase in mano, nella frazione di secondo in cui soltanto quella mano appoggiava su qualcosa. Perso l'equilibrio, atterrò su una spalla, sferzando l'aria con le gambe, scivolando sulla liscia rotondità del cofano verso il cingolo che stava smuovendo la terra, più sotto. Disperatamente, Tom cercò di afferrare il tubo della presa d'aria, vi aveva appena messo sopra le dita quando la macchina si liberò e tornò ad arrampicarsi sul mucchio di terra, a marcia indietro, superandone la sommità con una impennata selvaggia. Ancora una volta quel balzo mozzafiato, quando la macchina fece perno sulla cima del mucchio di terra, e lo schianto sferragliante al successivo atterraggio, compiuto quasi di piatto sui cingoli.
Lo scossone costrinse Tom a mollare la presa, e mentre riscivolava sul cofano il gomito gli s'incastrò sul tubo di scappamento. Il metallo rovente gli morse le carni. Grugni, e vi strinse intorno il braccio. Lo slancio lo fece ruotare intorno al tubo e i suoi piedi sbatterono contro le leve della frizione. Agganciandosi a una di queste col collo del piede, piegò le gambe e scattò all'indietro fino a quando non cadde di peso sul seggiolino. «Adesso», esclamò, digrignando i denti, gli occhi appannati da un rosso velo di dolore, «vedremo se non ti lascerai manovrare». E tolse la frizione con un calcio. Il motore gemette per essere stato staccato così di colpo. Tom afferrò la manetta del gas, il pollice schiacciato sul pulsante del nottolino d'arresto, e spinse avanti la leva per arrestare il flusso del carburante. Non volle arrestarsi; scese al minimo numero di giri, ma non volle arrestarsi. «C'è una cosa della quale non puoi fare a meno», borbottò. «La compressione». Alzatosi in piedi, si sporse sul cruscotto, allungando la mano verso la leva della decompressione. Non appena fu scivolato fuori dal seggiolino, la macchina tornò ad aumentare i giri. Tom si volse verso la manetta del gas che era tornata alla posizione di «aperto». Quando la sua mano la toccò, la leva della frizione si reingranò da sola e la macchina ululante si lanciò in avanti con una sgroppata che quasi gli fece schizzar via la testa dal collo, scagliandolo nuovamente, con violenza, contro il seggiolino. Tom afferrò il comando idraulico della lama e lo mise in posizione di «libero»; poi, quando il vomere, cadendo, toccò il suolo, passò a quella di «scavo». L'orlo tagliente morse il terreno e la macchina cominciò a lavorare. Stringendo in pugno il comando della lama, Tom spinse in avanti la manetta del gas con l'altra mano. Una delle leve della frizione tornò indietro con una sferzata e lo colpì alla rotula, facendolo spasimare. Involontariamente lasciò andare il comando della lama, e il vomere cominciò ad alzarsi. Il motore girò più in fretta, e Tom si accorse che non rispondeva alla manetta del gas. Imprecando, balzò in piedi; le leve ripresero a muoversi come sferze e lo colpirono tre volte all'inguine, prima che riuscisse a togliersi di mezzo. Accecato dal dolore, Tom si aggrappò ansante al cruscotto. Alla sua destra, il misuratore della pressione dell'olio cadde giù con un tintinnio di vetri rotti, e dal tubo troncato, di sei millimetri di sezione, l'olio bollente schizzò fuori, irrorandolo. Il dolore improvviso ridestò la sua vacillante consapevolezza. Ignorando i colpi della leva della frizione sinistra e di
quella principale, che continuavano la loro sarabanda, si chinò sul lato sinistro del cruscotto e afferrò la leva della compressione, abbassandola. Le grandi valvole sulle testate dei cilindri si aprirono e rimasero bloccate in quella posizione. Carburante atomizzato e aria surriscaldata sfrigolarono fuori, e quando la testa e le spalle di Tom toccarono il suolo, la grande macchina selvaggia si fermò di botto, salvo per il borbottio dell'acqua che bolliva nel sistema di raffreddamento. Qualche minuto più tardi, Tom sollevò la testa e grugnì. Rotolò su se stesso e si rizzò a sedere, il mento appoggiato alle ginocchia, il corpo trapassato da ondate successive di dolore. Man mano il dolore si attenuò, Tom riuscì a strisciare fino alla macchina e infine, aggrappandosi con le mani a un cingolo, si tirò in piedi. Ancora stordito, cominciò a mettere fuori uso il trattore, almeno per la notte. Aprì il rubinetto sotto il serbatoio del carburante e lasciò che il fluido giallo e caldo zampillasse sul terreno. Aprì uno scomparto accanto alla pompa a iniezione. Vi trovò del fil di ferro, di cui si servì per legare la leva di decompressione. Si arrampicò strisciando sopra la macchina, strappò il cappuccio del filtro della presa d'aria, si sfilò la camicia e la conficcò dentro il tubo. Spinse completamente in avanti la manetta del gas e la bloccò col fermo. Poi chiuse il rubinetto del tubo che alimentava la pompa. Poi si lasciò cadere pesantemente al suolo e, quasi stremato dalla fatica, tornò sul bordo dell'altopiano dove aveva lasciato Rivera. Non si accorsero di quanto Tom fosse malconcio fino a un'ora e mezza più tardi. Avevano avuto troppo da fare: preparare una barella per il portoricano, preparagli un riparo con varie casse e, come tetto, una tenda militare. Tirarono fuori la cassetta di pronto soccorso e il manuale medico e fecero quello che potevano: legarono e steccarono, e gli diedero un narcotico. Tom era una massa di lividi, e il suo braccio destro, là dove si era incastrato nel tubo di scarico, era tutto in carne viva. S'indaffararono a mettere a posto anche lui, col vecchio Peebles che si dava da fare con la polvere di sulfamidico e le bende come un'infermiera provetta. Soltanto dopo cominciarono a parlare. «Ho visto una volta un tizio sbalzato da una pala meccanica», dichiarò Dennis, mentre sedevano intorno al bricco del caffé, masticando le razioni. «Era seduto in bilico sul seggiolino e guardava indietro. La macchina ha urtato una roccia e si è impennata. L'ha scagliato sul cingolo, e l'ha spalmato su tre metri buoni, là sul suolo». Inghiottì un po' di caffé per ammor-
bidire il boccone di cibo intorno al quale aveva parlato, poi riprese a masticare rumorosamente. «È proprio da tonti starsene in bilico sul proprio deretano, anche su una carriola... non riesco a capire perché quel negro lo facesse sopra un bulldozer». «Non lo stava facendo», disse Tom. Kelly si sfregò la mandibola appuntita. «Sedeva ben saldo sul seggiolino ed è stato sbalzato?» «Proprio così». Dopo un attimo d'incredulo silenzio, Dennis chiese: «Ma cosa stava facendo... i cento all'ora?» Tom fissò il cerchio dei volti intorno a lui, illuminati dal vivido bagliore della lanterna a pressione, e si chiese quale sarebbe stata la reazione se avesse raccontato le cose esattamente come stavano. Avrebbe comunque dovuto dir qualcosa... anche se non proprio la verità. «Stava lavorando», disse alla fine. «Scalzava pietre fuori dal muro di un vecchio edificio, lassù sul poggio. Una si è staccata, e quando l'ha fatto, il regolatore deve aver dato i numeri. Si è impennata come un cavallo imbizzarrito ed è scappata via». «Scappata via?» Tom aprì la bocca, poi tornò a chiuderla, e si limitò ad annuire. Dennis commentò: «Be', immagino che sia quello che succede quando si mette un meccanico a far l'operatore». «Oh, questo non c'entra affatto», sbottò Tom. Peebles si affrettò a intervenire: «Tom... e la D-7? Niente di rotto?» «Qualcosa», disse Tom. «Meglio dare un'occhiata alle frizioni direzionali. E inoltre, era surriscaldata». «Ha la testata rotta», intervenne Harris, un giovanotto corpulento, le spalle da bufalo, famoso per la sua sete. «Come fai a saperlo?» «Ho visto quando Al ed io siamo saliti con la barella a prendere il ragazzo, mentre voi eravate tutti occupati a costruire il riparo. Da un lato del monoblocco scorreva giù l'acqua calda». «Mi stai dicendo che avete fatto tutta la strada fino al monticello per dare un'occhiata a quella macchina, mentre il ragazzo giaceva là? Vi avevo ben detto dove si trovava!» «Fino al monticello?» Gli occhi rigonfi di Al Knowles parvero quasi schizzar fuori dalle orbite. «Abbiamo trovato quel cingolato neanche a sei metri da dov'era il ragazzo!»
«Cosa?» «Proprio così, Tom», disse Harris. «Cosa ti rode? Tu, dove l'avevi lasciato?» «Ve l'ho detto. Accanto al monticello... al vecchio edificio che avevamo cominciato a demolire». «Lasciando acceso il motore d'avviamento?» «Motore d'avviamento?» La mente di Tom andò al piccolo motore a due cilindri, a benzina, imbullonato al fianco del monoblocco del grosso Diesel e accoppiato tramite un cambio e una frizione al volano del Diesel, per avviarlo. Ricordò l'ultima occhiata che aveva rivolto alla macchina immobile e silenziosa, salvo il motore dell'acqua che bolliva. «Per l'inferno, no!» Al e Harris si scambiarono un'occhiata. «Oh, in quei momenti devi essere stato un po' intontito, Tom», disse Harris, senza cattiveria. «Quand'eravamo a metà strada l'abbiamo sentita, e sai che non ci si può sbagliare con quel fracasso. Pareva fosse sotto avvisamento». Tom si picchiò senza troppa forza le tempie coi pugni chiusi. «Ho lasciato quella macchina bloccata», replicò, con calma. «Le ho tolto la compressione, ho legato la leva. Ho perfino ficcato la mia camicia nella presa d'aria. Ho vuotato il serbatoio. Ma... non ho toccato il motorino d'avviamento». Peebles volle sapere come mai si fosse dato tanto da fare. Tom si limitò a fissarlo con sguardo vacuo, e scosse la testa. «Avrei dovuto strapparle i fili. Non ho mai pensato al motorino d'avviamento», bisbigliò. Poi: «Harris... hai detto di aver trovato il motorino d'avviamento in funzione, quando sei arrivato in cima?» «No... la macchina era ferma. E calda, spaventosamente calda. Direi che il motorino d'avviamento si fosse grippato. Dev'essere questa la spiegazione, Tom. Hai lasciato in funzione il motore d'avviamento, e in qualche modo hai ingranato anche la frizione e il Bendix». Ma la sua voce perse via via il tono convinto, mentre diceva questo: ci sarebbero voluto diciassette movimenti distinti per avviare una macchina di quel tipo. «Ad ogni modo, la marcia era ingranata, e sia pure lentamente si è mossa col motorino». «Io l'ho fatto, una volta», annuì Chub. «Avevo rotto una biella su una Otto, durante dei lavori su un'autostrada. Le ho fatto fare più di un chilometro in quel modo, col motorino d'avviamento. Solo che dovevo fermarmi almeno ogni cento metri, per farla raffreddare un po'». Non senza sarcasmo, Dennis disse: «A me pare che la Sette volesse far
fuori il negro. Gli ha dato una prima stoccata, e poi è tornata a completare l'opera». Al Knowles diede in una fragorosa sghignazzata. Tom si alzò in piedi, scuotendo la testa, e si allontanò fra le casse, verso l'ospedaletto da campo improvvisato per il ragazzo. All'interno, ardeva una luce fioca, e Rivera giaceva perfettamente immobile, con gli occhi chiusi. Tom si sporse dalla soglia, che era il lato aperto del cassone d'imballaggio di un motore, e l'osservò per un lungo attimo. Alle sue spalle, sentiva il brusio delle voci dei compagni. Per ogni altro verso, la notte era silenziosa, senza il minimo alito di vento. Il volto di Rivera era di quel particolare colore che assume una pelle olivastra quand'è del tutto prosciugata dal sangue. Tom gli fissò il petto e, per un istante di panico, di parve di non cogliere nessun movimento. Entrò, e appoggiò una mano aperta sul petto del ragazzo, per sentirgli il cuore. Rivera rabbrividì, i suoi occhi si spalancarono, e trasse un improvviso sospiro che si interruppe, lacerandosi in fondo alla gola. «Tom... Tom!» gridò, quasi con un rantolo. «Sì, Goony... que pasa?» «Sta tornando... Tom!» «Chi?» «El De Siete». Daisy Etta. «Non sta tornando, ragazzo. Adesso sei giù dal poggio. Fatti coraggio, figliolo». Gli occhi scuri, in preda all'effetto soporifero, del ragazzo, si sollevarono verso di lui, fissandolo senza espressione. Tom arretrò, ma gli occhi continuarono a fissarlo. Non vedevano niente. «Dormi, adesso», gli bisbigliò. Gli occhi si chiusero all'istante. Kelly stava dicendo che era impossibile farsi male durante dei lavori di costruzione, a meno che non si combinassero delle idiozie. «Anche se, a volte, non ci si rende conto che qualcuno ne sta facendo una, finché non si è fatto male». «L'idiozia più grande è stata quella di mettere un ragazzo, e per giunta neppure operatore, su quella macchina», insisté Dennis, con una punta di soddisfazione nella voce. «Già un'altra volta hai tentato di cantarci questa canzone», disse pacato il vecchio Peebles. «Odio dover far notare qualcosa di simile a un uomo, perché non serve far confronti. Ma ho lavorato con quel ragazzo, Rivera, molto a lungo, ormai, e ne ho visti altrettanto bravi, ma dannatamente pochi di migliori. Per quanto ti riguarda, tu vai bene col vaglio, ma il ragazzo
può darti dei punti e farti sembrare un ragioniere, quando sei alle prese con un bulldozer». Dennis si alzò a metà, e lanciò un'imprecazione. Guardò Al Knowles, cercandone l'appoggio, e l'ottenne. Guardò il resto della cerchia, e non ne ottenne alcuno. Peebles era mezzo disteso e succhiava la pipa, seguendo la scena da sotto le sopracciglia cespugliose. Dennis si calmò, affrontando lo stesso argomento da una diversa direzione. «Allora, cosa vuol dire? Più dici che è in gamba, meno ragioni aveva di cadere da un cingolato e farsi male». «Non ho ancora le idee chiare», disse Chub, con una voce il cui tono significava, in pratica, "Mi spiace doverlo dire, ma..."». All'incirca in quel momento, Tom ricomparve, come un sonnambulo, fermandosi in modo che la vivida luce della lanterna si trovasse fra lui e Dennis. Dennis riprese a parlare senza accorgersi che Tom era lì vicino: «È qualcosa che non scoprirai mai. Quel portoricano è un ragazzo piuttosto robusto. Potrebbe darsi che Tom gli abbia detto qualcosa che non gli piaceva, e lui abbia tentato di piantargli un coltello nella schiena. Lo fanno tutti, quei tizi, sapete. Tom non può essersi ridotto a quel modo soltanto per aver tentato di fermare una macchina. Devono averla tirata in lungo, e il negro è finito con la schiena rotta. Tom regola il bulldozer cosicché gli passi sopra mentre è disteso là, e poi vien giù da noi, cercando di farci credere che...» La sua voce oscillò e si spense quando Tom si profilò sopra di lui. Tom afferrò l'operatore del vaglio per il davanti della camicia, servendosi del braccio sano, e Io scrollò come un sacco vuoto. «Fetente», ringhiò. «Dovrei farti a pezzi con la lama del bulldozer». Tirò Dennis in piedi e gli mollò un colpo col lato ossuto dell'avambraccio. Dennis crollò a terra... o meglio, si rannicchiò a terra più che cadere: «Ma Tom, stavo solo parlando. Solo uno scherzo, Tom, volevo solo...» «E anche vigliacco», ringhiò Tom, facendo un passo avanti, sollevando un massiccio stivale del Texas. Peebles abbaiò: «Tom!» e il piede tornò a terra. «Fuori dalla mia vista», tuonò Tom. «Via!» Dennis se ne andò. Al Knowles fece: «Oh, Tom, ma tu non puoi...» «Tu, occhi da fagiolino!» s'infuriò Tom, con voce aspra e tesa. «Vattene via col tuo fratello siamese!» «Va bene, va bene», replicò Al, bianco in volto, e scomparve nel buio dietro a Dennis.
«Al diavolo», disse Chub. «Me ne vado a letto». Raggiunse una cassa, tirò fuori un sacco a pelo col cappuccio a zanzariera, e si allontanò senza aggiunger parola. Harris e Kelly, entrambi in piedi, si misero seduti. Il vecchio Peebles non si era mosso. Tom restò immobile, a fissare il buio, le braccia dritte sui fianchi e i pugni chiusi. «Siediti», l'invitò Peebles, con gentilezza. Tom si girò e lo guardò senza rispondere. «Siediti, non posso cambiarti le bende se non ti siedi». Indicò la fasciatura intorno al gomito di Tom. Era rossa, una macchia che si andava allargando, i tessuti lacerati si erano nuovamente riaperti quando il grosso georgiano aveva teso i muscoli infuriati. Si sedette. «Parlando d'idiozia», disse Harris, con calma, mentre Peebles si metteva al lavoro, «stavo per dire che io ho battuto tutti i record. Ho fatto la cosa più stupida che sia mai stato possibile con una macchina. Nessuno potrebbe battermi». «Io si», interloquì Kelly. «Una volta stavo manovrando una gru montata su cingoli. Avvio il motore e comincio a sollevare il braccio della gru: era un affare di venticinque metri. La macchina era su una piattaforma di legno in mezzo a una palude. Sento il motore che perde colpi e scendo dal seggiolino per dare un'occhiata al filtro. Ci metto più tempo a trafficare, e il braccio si solleva in aria e poi, di colpo, si rovescia all'indietro e piomba sulla cabina. Lo scossone m'inclina la piattaforma e la gru scivola lentamente all'indietro, con solennità se volete, col sedere in avanti, dentro il fango. Ci finì dentro sepolta fino agli occhi». Ebbe una bonaria risata. «Pareva una draga!» «E io insisto nel dire che ho fatto la cosa più stupida che si sia mai vista, senza nessuna esclusione», insisté Harris. «Stavo lavorando su un fiume, nell'allargamento di un canale. Ero appena tornato da una bisboccia di tre giorni, ancora istupidito dal rum. Salito su un bulldozer, lavoravo intorno al ciglio di un dirupo di sei metri. Giù in fondo al dirupo c'era un grosso albero, un hickory, con un grosso ramo che si protendeva parallelo al bordo del dirupo. Mi venne l'idea balorda di rompere quel ramo. Misi un cingolo sul ramo e l'altro sul bordo del dirupo. Ero ormai mezzo fuori, col ramo che già si era piegato un po', prima che mi venisse in mente cosa sarebbe successo se si fosse rotto. Ma proprio in quell'istante, si ruppe. Conoscete l'hickory: quando si rompe, si rompe tutto. Così, precipitammo dentro a quasi dieci metri d'acqua: io e il cingolato. In qualche modo ne esco fuori. Quando tutte le bolle smettono di salire, nuoto intorno guar-
dando sott'acqua, verso la gru. Stavo ancora sguazzando là intorno, quando arriva di corsa il sovrintendente e vuol sapere cosa c'è. Gli grido, "Guardi là sotto, dal modo in cui l'acqua si muove, pare che il cingolato stia lavorando, o cerchi di farlo, sul fondo". Il sovrintendente stringe le labbra e caccia un fischio. Mio Dio, quante me ne ha dette, quell'uomo». «E dov'è che hai trovato un altro lavoro?» sbottò Kelly. «Oh, non mi licenziò», fece Harry, con calma. «Mi disse che non poteva permettersi di licenziare un uomo così stupido. Disse che mi voleva intorno per potermi guardare tutte le volte che si sentiva di cattivo umore». Tom disse: «Grazie, ragazzi. È un buon sistema come tanti altri per dire che tutti facciamo errori». Si alzò in piedi, esaminando da vicino la nuova fasciatura, girando il braccio davanti alla lanterna. «Potete tutti pensarla come vi fa piacere, ma io non ricordo che si sia commessa nessuna stupidità lassù al monticello, questa sera. Ad ogni modo, è finita. Devo dirvi cosa penso dell'idea di Dennis?» Harris esplose in una parolaccia che liquidò definitivamente Dennis e qualunque altra cosa avesse potuto dire. Peebles commentò: «Dennis e il suo amico dagli occhi sporgenti stanno bene insieme, ma non contano poi tanto. Quanto a Chub, si può convincerlo a fare qualunque cosa sia ragionevole». «Così li hai messi tutti in fila, eh?» Tom diede una scrollata di spalle. «Nel frattempo, costruiremo o no questa pista d'aeroporto?» «La costruiremo», disse Peebles. «Soltanto, Tom, io non ho il diritto di darti consigli, ma vacci piano con le maniere brusche, dopo quello che è successo stasera. Possono danneggiarci molto». «Lo farò se potrò», disse Tom, burbero. Si separarono e andarono a dormire. Peebles aveva ragione. Li danneggiarono molto. Spinse Dennis a usare la parola «omicidio» quando, la mattina dopo, scoprirono che Rivera era morto durante la notte. Il lavoro progredì, malgrado tutto ciò che era successo. Con macchinari come quelli di cui disponevano, è difficile che le cose rallentino. Kelly strappava via quasi due metri cubi di contrafforte ad ogni passata dell'escavatore, e i Dumptor sono le macchine per il movimento di masse di terra più veloci che finora siano mai state concepite. Dennis mantenne sgombra la strada di servizio con la pala meccanica, e Tom e Chub fecero a turno su un trattore che avevano staccato dalla tramoggia, per supplire alla
mancanza della D-7, oppure passavano gli intervalli col teodolite e le paline. Peebles si occupava delle ricognizioni sul terreno, e nelle ore di riposo si dava da fare a installare la sua officina da campo, mantenendo in funzione il suo sistema di raffreddamento dell'acqua e gli alimentatori delle batterie, e predisponendo la forgia e i banchi per le saldature. Gli operatori si occupavano personalmente della manutenzione e del rifornimento di carburante per le loro macchine, e si perse assai poco tempo. Massi e marna venivano rimossi dalla cavità sempre più ampia sul fianco del monticello centrale — avrebbero dovuto asportarne almeno un terzo — e venivano trasportati fino ai bordi della palude, che si trovava di traverso all'estremità più bassa della pista progettata, sui trattori da carico che ronzavano come calabroni, le grosse ruote motrici che sollevavano grandi nubi di polvere. Il materiale veniva scaricato e poi sparpagliato e compattato dalla lamentosa pala meccanica a due tempi. Quando il fango cominciò ad ammucchiarsi davanti alla zona da riempire, fu tolto di mezzo da cariche di dinamite di potenza ridotta, in posizioni accuratamente calcolate, e i crateri riempiti di rocce, pietre trasportate dalle rovine, e il tutto coperto di marna che era facile compattare, la quale veniva prelevata con la pala, e vagliata, da un banco di minerale pulito. Quand'ebbe messo a punto la sua officina, Peebles salì la collina per andare a prendere la D-7. Quando ci arrivò, restò lì per un po' a grattarsi la testa, poi, scrollandola, ridiscese il pendio e andò a cercare Tom. «Ho dato un'occhiata alla D-7», disse, dopo aver fatto cenno che bloccasse il suo lamentoso due tempi. Tom scivolò a terra. «Cos'hai trovato?» gli chiese. Peebles tese il braccio. «Una lista lunga così». Scosse la testa. «Tom, cos'è accaduto, veramente, lassù?» «Il regolatore è impazzito e la D-7 è scappata via», fu pronto a replicare Tom. «Già, ma...» Per un lungo istante, Peebles guardò Tom negli occhi. Poi sospirò. «Va bene, Tom. Ad ogni modo, non posso far niente, finché è lassù. Dovremo riportarla qui e mi servirà un trattore per rimorchiarla. Ma prima ancora di metterci in moto, bisognerà che qualcuno mi dia una mano a riparare il cingolo destro, che è uscito dai rulli perché il bullone di regolazione del tendicingolo è saltato». «Ohhh, ecco perché non è riuscita ad ammazzare il ragazzo, col solo motorino di avviamento. Il cingolo non ce la faceva proprio a girare, eh?»
«È un miracolo che sia arrivata così lontano. Il cingolo è proprio bloccato. Ha marciato direttamente sui rulli... Ma questo, non è neppure metà del danno. La testata è partita, come ha detto Harris, e Dio solo sa cosa ci troverò dentro quando l'aprirò». «Perché darsi tanto da fare?» «Cosa?» «Possiamo farcela lo stesso, senza la D-7», sbottò fuori Tom. «Lasciala dove si trova. Hai un sacco di altre cose da fare». «Ma perché?» «Be', non c'è motivo di darsi tanta pena». Peebles si grattò il lato del naso, e disse: «Ho una nuova testata, i perni per i cingoli, perfino un motorino d'avviamento di riserva. E ho gli attrezzi per fabbricare i pezzi di ricambio che non abbiamo». Gli indicò la lunga fila dei mucchi di terra che i Dumptor avevano continuato a scaricare mentre parlavano. «Hai una pala impegnata per spianare il terreno, e non venirmi a dire che un'altra non ti farebbe comodo. Dovrai fermare uno o due Dumptor, se continuerai così». «Avevo già previsto la risposta nel momento stesso in cui ho aperto bocca», disse Tom, imbronciato. «Andiamo». Salirono sul trattore e si allontanarono, fermandosi un attimo sulla spianata vicino alla spiaggia per prender su un cavo e alcuni attrezzi. Daisy Etta era ferma sul ciglio dell'altopiano, guardando furiosa dall'alto dei suoi fari la morbida distesa del prato che conservava ancora l'impronta di un giovane corpo e quelle dei barellieri. Complessivamente, l'aspetto della macchina era assai malandato: c'erano graffi sulla sua vernice grigiooliva e il metallo che era affiorato, lucido, dai graffi, era già diventato d'un rosso smorto per la prima ruggine. E malgrado il terreno fosse piano, la D7 non era nella giusta posizione, poiché il cingolo destro era uscito dai rulli, in basso, e la macchina era perciò lievemente inclinata, come un uomo che si fosse rotto un'anca. E qualunque cosa fosse quella sorta di consapevolezza dentro di lei, pareva rimuginare il tipico paradosso del bulldozer che ogni operatore si trova a sperimentare, mentre impara a conoscere la propria macchina. Per il principiante, questo paradosso è la cosa più difficile da capire. Un bulldozer è una centrale elettrica semovente, un ciclope di fracasso e solidità, la cosa più vicina all'incarnazione di una forza «irresistibile». Il principiante, in preda alla soggezione, e pieno delle immagini d'invincibili carri armati impresse nella sua mente da tanti cinegiornali, accetta tutto senza
scomporsi, e con una sensazione di potere illimitato tratta tutti gli ostacoli allo stesso modo, non conoscendo la fragilità del nucleo in ghisa del radiatore, la mortalità dell'acciaio al manganese temprato, la fragilità del metallo antifrizione surriscaldato, e soprattutto la facilità con cui una simile macchina può sprofondare nel fango. Quando smonta giù per dare un'occhiata alla macchina che in venti secondi ha ridotto a un inutile rottame, e che mezzo minuto prima procedeva su un terreno dove adesso i cingoli sono scomparsi, prova quella sensazione mista di disappunto e colpevolezza che sopraffà qualunque uomo che abbia compiuto un errore di valutazione. Così com'era, la Daisy Etta era rovinata, inutile. Quei bipedi molli e cocciuti l'avevano costruita, e se erano uguali a qualunque altra razza in grado di costruire macchine, avrebbero ben potuto occuparsi di essa. La capacità d'invertire la tensione di una molla, o di piegare una leva dei comandi, oppure di ridurre a zero la frizione fra un dado e una rondella, non era sufficiente a riparare l'incrinatura della testata d'un cilindro né i cuscinetti che si erano saldati all'albero di un motorino d'avviamento surriscaldato. Era stato necessario imparare una lezione. Ed era stata imparata. Daisy Etta sarebbe stata riparata e la prossima volta — be', per lo meno avrebbe saputo i suoi punti deboli. Tom fece girare la macchina a due tempi, e si portò vicino alla D-7 con l'orlo della sua lama che quasi toccava uno dei bracci di spinta di Daisy Etta. Scesero, e Pebbles si chinò sul cingolo destro bloccato. «Stai attento», disse Tom. «A cosa?» «Oh... niente, immagino». Girò intorno alla macchina, esaminando con occhio esperto il telaio e le varie attrezzature. D'improvviso, fece un passo avanti e afferrò il rubinetto del serbatoio del carburante. Era chiuso. Lo aprì: ne sgorgò un liquido dorato. Tornò a chiuderlo, si arrampicò sulla macchina e aprì il tappo in cima al serbatoio. Tirò fuori l'asticciola misuratrice, la ripulì sulla piega del ginocchio, tornò a infilarla dentro e a tirarla fuori. Il serbatoio era pieno per più di tre quarti. «Cosa succede?» chiese Peebles, fissando incuriosito il volto teso di Tom. «Peeby, ho aperto il rubinetto per svuotare questo serbatoio. L'ho lasciato col carburante che scorreva sul suolo. Si è chiusa da sola». «Suvvia, Tom, ti stai lasciando ossessionare da questa faccenda. Credi di
averlo fatto. Ho visto una valvola del tubo d'alimentazione chiudersi da sola, quand'è molto consumata, ma soltanto perché la pompa del carburante la fa chiudere quando il motore è in funzione». «La valvola del tubo d'alimentazione?» Tom tirò su il seggiolino e guardò. Una sola occhiata fu sufficiente a mostrargli che era aperta. «Ha aperto anche questa». «Va bene... va bene. Non guardarmi così!» Peebles era prossimo all'esasperazione quanto mai avrebbe potuto esserlo un tipo come lui. «Che differenza fa?» Tom non rispose. Non era il tipo d'uomo che, trovandosi davanti a qualcosa al di là della sua comprensione, comincia a dubitare del suo proprio equilibrio mentale. Il suo era un tenace insistere che quanto aveva visto e sentito era realmente accaduto. In lui non c'era neppure il minimo sospetto di essere impazzito, come avrebbero potuto credere uomini più sensibili. Tom non dubitava di se stesso, né delle prove che aveva, e così poteva tener la mente sgombra da dubbi e impegnarla completamente alla ricerca dei logoranti «perché» di un problema. Sapeva per istinto che condividere con chiunque altro avvenimenti «incredibili», anche se realmente accaduti, significava soltanto porre altri ostacoli sul proprio cammino. Così, mantenne il suo silenzio da ostrica e continuò a investigare con cocciuta attenzione. Il cingolo uscito dai rulli era talmente teso sulle flange che non si poteva certo pensare di togliere il perno principale e aprirlo. Bisognava rimetterlo al suo posto così com'era: un'operazione assai delicata, poiché una forza applicata nella direzione sbagliata sarebbe bastata a far saltar fuori del tutto il cingolo. Per complicare le cose, la lama della D-7 era al suolo, e sarebbe stato necessario sollevarla, prima che si potesse manovrare con la macchina, ma col motore fermo il sub argano era fuori uso. Peebles prelevò sei metri di cavo da 12 mm. da dietro il bulldozer più piccolo, e fece un buco nel terreno, sotto la lama della D-7, infilandovi l'occhiello del cavo d'acciaio. Arrampicatosi sopra, Peebles infilò l'occhiello sul grosso gancio da rimorchio imbullonato sotto il muso della ruspa. Gettò l'altra estremità del cavo per terra, davanti alla macchina. Tom salì sull'altro bulldozer e sedette al posto di guida, pronto a rimorchiare. Peebles agganciò l'estremità libera del cavo al timone della macchina di Tom e saltò in groppa alla D-7. La mise in folle, disinnescò la frizione, e mise il comando della lama nella posizione di «libero», poi alzò un braccio.
Tom era appollaiato sul seggiolino della sua macchina, guardando indietro, e si mosse pian piano, filando il cavo. Questo si raddrizzò, tendendosi, e così facendo costrinse la lama del D-7 ad alzarsi. Peebles mise il comando della lama in posizione di «blocco» e fece cenno a Tom di mollare. Il cavo si afflosciò e ricadde, scostandosi dalla lama. «Il sistema idraulico è a posto, ad ogni modo», gridò Peebles, mentre Tom toglieva il gas. «Vai avanti e prova a tirare verso destra, più che puoi, ma senza impigliare il cavo nel cingolo. Vediamo se riusciamo a far tornare al suo posto questo cingolo». Tom arretrò, sterzò tutto a destra e tese il cavo quasi ad angolo retto rispetto alla macchina più grande. Peebles bloccò col freno il cingolo destro della D-7 e liberò entrambe le frizioni di direzione. Adesso il cingolo sinistro poteva girare liberamente, il destro non poteva girare affatto. Tom avanzava con la marcia più bassa possibile, dando soltanto un quarto di gas, cosicché la sua macchina si muoveva appena, prendendo su di sé tutto lo sforzo. La D-7 ebbe una leggera scossa, poi cominciò a ruotare sul perno destro teso, mentre una tremenda pressione per metro quadrato veniva esercitata sul davanti del cingolo, dove il tendicingolo era sollecitato al massimo. Peebles lasciò andare il freno destro col piede, poi tornò a premerlo, con una serie di abili scatti dettati dalla pratica. Il cingolo in questo modo si spostava di pochi centimetri, per poi fermarsi di nuovo, con la forza che veniva applicata alternativamente davanti e di lato, sollecitando il cingolo a ritornare al suo posto. Poi, un ultimo sussulto, e il cingolo fu di nuovo ben teso sui cinque rulli, i due portacingoli, la ruota dentata motrice e il tendicingolo. Peebles scivolò giù e cacciò la testa fra la ruota dentata e il portacingoli posteriore, sbirciando in basso e di lato per accertare che non ci fossero flange o boccole dei rulli rotte. Tom si avvicinò e lo tirò fuori per il fondo dei calzoni. «Avrai tutto il tempo di farlo quando l'avrai in officina», gli disse, mascherando il suo nervosismo. «Pensi che girerà?» «Girerà. Non ho mai visto un cingolo in quelle condizioni tornare al suo posto con tanta facilità. Perdinci, è come se stesse cercando di aiutarci!» «A volte lo fanno», commentò Tom, asciutto. «Farai meglio a salir tu su quell'altro dozer, per rimorchiarla, Peeby. Io rimango con questa». «Come preferisci». E si avviarono con prudenza lungo il pendio, con Tom che teneva appena i freni, lasciando che l'altra macchina tirasse. E così portarono Daisy Etta giù fino all'officina all'aperto di Peebles, dove le tolsero la testata, il
motorino d'avviamento, strapparono il ferodo di una frizione bruciata, la resero in pratica impotente... E poi la rimontarono. «Ti dico che è stato un assassinio a sangue freddo», dichiarò Dennis, scaldandosi. «E noi siamo qui a prender ordini da un tipo come quello. Cosa abbiamo intenzione di fare?» Erano accanto al refrigeratore — Dennis aveva portato la sua macchina fin là per accostarsi a Chub. Il sigaro di Chub andava su e giù come un semaforo in corto circuito. «Be', per ora lasciamo perdere. La squadra degli asfaltatori sarà qui tra una settimana, o due, e potremo fare rapporto. Inoltre, io non so cosa sia successo lassù, più di quanto non lo sappia tu. Nel frattempo, abbiamo una pista da costruire». «Non sai cos'è successo là sopra? Chub, sei un tipo sveglio. Sveglio quel tanto che basta da dirigere questo lavoro meglio di Tom Jaeger, anche se non fosse pazzo. E sei di certo sveglio quel tanto che basta a non credere a tutte quelle balle sulla D-7 che sarebbe scappata da sotto il sedere di quella scimmia unta e bisunta. Ascolta...» Si sporse in avanti e batté la mano sul petto di Chub. «Ha detto che è stato il regolatore. Ho visto io stesso quel regolatore e ho sentito il vecchio Peebles dire che era assolutamente a posto. È vero che il tirante dell'acceleratore era uscito dalla sua forcella... ma tu sai cosa fa una di quelle macchine quando esce fuori il tirante. Va al minimo di giri, o si ferma del tutto. Di certo non scappa via». «Be', forse sarà così, ma...» «Ma niente! Un tipo che commette un omicidio non è sano di mente. Se l'ha fatto una volta, potrebbe rifarlo, e io non voglio che càpiti a me». Due cose attraversarono la mente ferma ma non troppo brillante di Chub a quelle parole. Una era che Dennis, che non riusciva a scuotersi di dosso, stava cercando di fargli fare qualcosa che lui non voleva; l'altra era che sotto tutto quel discorso, Dennis aveva una fifa del diavolo. «Cosa vuoi fare... chiamare lo sceriffo?» Dennis se ne uscì in una risatina divertita: una delle ragioni per cui era così difficile scrollarselo di dosso. «Ti dico io quello che possiamo fare. Fintanto che abbiamo te qui, non sarà lui il solo a conoscere il lavoro. Se smetteremo di prendere ordini da lui, tu potrai darli altrettanto bene, o anche meglio. E non ci sarà nulla che potrà fare in proposito». «Maledizione, Dennis», sbottò Chub all'improvviso, esasperato. «Cosa credi di fare? Di darmi le chiavi del regno o qualcosa del genere? Perché
mi vuoi veder comandare qui?» Si alzò in piedi. «Supponi che facessimo quello che hai detto. Credi che così la pista per l'aeroporto verrebbe costruita più in fretta? Che mi farebbe trovare più soldi in busta-paga? Cosa pensi che io voglia... la gloria? Grandi occasioni come questa io preferisco perderle. Credi che io ci tenga davvero a dire a questo branco di bifolchi quel che devono fare, quando lo farebbero in ogni caso?» «Ma, Chub... io non pianto grane solo per il gusto di farlo. Non è affatto questo che intendevo. Ma se non facciamo qualcosa con quel tipo, nessuno di noi potrà dirsi al sicuro. Non riesci a mettertelo in testa?» «Ascoltami bene, chiacchierone. Se un uomo lavora sodo, non ha il tempo di causare guai. Questo vale per Tom... puoi tenerlo bene a mente. Ma vale anche per te. Ora, risali subito su quel trattore e torna alla cava di marna». Dennis, colto di sorpresa, girò sui tacchi e si avviò verso la sua macchina. «È un peccato che tu non possa scavare la terra con la bocca», disse ancora Chub, mentre l'altro si allontanava. «Avrebbero potuto lasciarti qui a fare questo lavoro tutto da solo». Chub si avviò lentamente verso la spianata, colpendo con una palina i ciottoli e imprecando tra sé. Era soprattutto un uomo semplice, e credeva nell'efficacia di un approccio diretto, per ogni cosa. Gli piacevano quei lavori in cui era in grado di fare tutto quello che gli si chiedeva, senza che saltassero fuori imprevisti a complicare le cose. Da lunghissimo tempo faceva lavori di spianamento come operatore e come caposquadra ai rilevamenti, e brillava per una cosa: era sempre estraneo alle cricche e alle lotte intestine, che sono il pane quotidiano per la maggior parte degli uomini che lavorano nel campo delle costruzioni. Era turbato e preoccupato per le pugnalate alle spalle che aveva visto vibrare, in tutti i lavori a cui aveva preso parte. Per farla spiccia, era disgustato, e le faccende subdole lo lasciavano confuso e sconcertato. Era abbastanza stupido da permettere che la sua onestà di fondo si manifestasse nelle parole e nelle azioni, e aveva imparato che una completa onestà nel trattare con gli uomini più alti o più bassi in grado di lui riusciva invariabilmente dolorosa a tutte le parti in causa, ma non aveva la prontezza di spirito di agire altrimenti, e non ci provava neppure. Se un dente gli faceva male, se lo faceva strappare appena possibile. Se un sovrintendente lo trattava male, quel sovrintendente si sentiva dire esattamente qual era il problema, e se la cosa non gli piaceva, be', c'erano sempre altri lavori sul mercato. Se le pressioni e le critiche gli davano fa-
stidio, lui l'aveva sempre detto esplicitamente, e se n'era andato. Oppure, se ciò che aveva detto era stato accettato, era rimasto; questo suo modo di reagire ad ogni cosa che interferiva col suo lavoro gli aveva guadagnato un bel po' di rispetto da parte degli uomini sotto i quali aveva lavorato. E così, in questo caso, non ebbe esitazioni a scegliere la sua linea d'azione. Solo che... come si fa a chiedere a un uomo se è un assassino? Trovò il caposquadra con una grossissima chiave inglese in mano, intento a stringere il nuovo tendicingolo che avevano sistemato sulla D-7. «Ehi, Chub! Lieto di vederti. Ora infiliamo un pezzo di tubo sopra quest'affare, così che possa stringere al massimo». Chub andò a prendere il tubo, lo infilarono sopra l'estremità del manico della chiave inglese da un metro e venti e tirarono finché il sudore non scese a rivoli lungo le loro schiene, con Tom che di tanto in tanto controllava il gioco del cingolo con un piede di porco. Alla fine, dichiarò che andava bene, e restarono li, sotto il sole, col fiato grosso. «Tom», ansimò Chub, «hai ucciso il portoricano?» Tom alzò la testa di scatto, come se qualcuno gli avesse scottato il collo con un mozzicone di sigaretta. «Perché», continuò Chub, «se l'hai fatto, non puoi continuare a dirigere questo lavoro». Tom replicò: «È di cattivo gusto scherzare su una faccenda del genere». «Lo sai che non sto scherzando. Be'... l'hai fatto?» «No!» Tom si sedette su un barilotto, e si asciugò il viso con un fazzolettone. «Cosa ti prende?» «Volevo soltanto saperlo. Alcuni ragazzi si preoccupano». Tom socchiuse gli occhi. «Alcuni dei ragazzi, eh? Credo di aver capito. Ascoltami, Chub. Rivera è stato ucciso da quell'affare laggiù». Indicò col pollice la D-7 alle sue spalle, che adesso era praticamente pronta, mancando soltanto il ripristino dell'orlo tagliente su un angolo della lama. Peebles stava preparando gli attrezzi, quando Tom parlò: «Se vuoi dire che sono stato io a farlo salire su quella macchina prima che venisse scagliato via, la risposta è sì. In questo senso io l'ho ucciso, e non credere che non ne senta il peso. Avevo avuto la sensazione che ci fosse qualcosa di sbagliato, là sopra, ma non riuscivo a capire cosa e non pensavo certo che qualcuno si sarebbe fatto male». «E cosa c'era di sbagliato?» «Non lo so ancora». Tom si alzò in piedi. «Sono stufo di menare il can per l'aia, Chub, e non me ne importa più molto di quello che pensano gli
altri. C'è qualcosa di sbagliato in quella D-7, qualcosa che non è stato costruito dentro di lei. Non ci sono bulldozer migliori, ma qualunque cosa le sia successo là, sul poggio, l'ha fatta diventare strana. Adesso, considerati pure libero di pensare quello che vuoi, e immagina qualunque storia ti piacerà da raccontare ai ragazzi. Intanto, puoi passar parola: nessuno guiderà quella macchina, io soltanto la guiderò. Capito? Nessun altro!» «Tom...» Tom perse la pazienza. «Non ho nient'altro da dire! Se qualcun altro dovesse farsi male, quello sarò io, capito? Che altro vuoi?» Si allontanò a grandi passi, furibondo. Chub lo seguì con lo sgaurdo, e dopo qualche istante si tolse il sigaro di bocca. Soltanto allora si accorse di averlo spezzato in due con un morso. Aveva ancora in bocca l'altro mozzicone. Lo sputò, e rimase li, scuotendo la testa. «Come va, Peeby?» Peebles sollevò gli occhi dalla saldatrice. «Ciao, Chub, l'avrò pronta per te tra venti minuti». Valutò la distanza fino alla grossa macchina. «Mi servirebbero dodici metri di cavo», disse, guardando i festoni dei cavi che pendevano da dietro la saldatrice. «Non voglio portare un trattore quassù per spostare quell'affare, e non me la sento di avviare la D-7 solo per portarla abbastanza vicino...» Separò il cavo degli elettrodi e lo buttò da parte, si avvicinò al trattore srotolando dal braccio il cavo di massa. Finì di sbrogliarlo e afferrò il morsetto quando fu a due metri e mezzo dalla macchina. Prendendolo con la sinistra, tirò con forza, allungando la destra per agguantare il vomere della D-7, cercando di avvicinarlo quanto bastava per fissarlo alla macchina. Chub restò lì a guardarlo, masticando il sigaro, gingillandosi distrattamente coi comandi del saldatore ad arco. Premette il pulsante di avvio, e il motore a sei cilindri rispose con un ronzio. Girò pigramente la manopola che regolava l'intensità della corrente, fece scattare l'interruttore del generatore dell'arco... Un'incredibile scarica d'energia, sottile, bianco-azzurra, cauterizzante, partì dai portaelettrodi ai suoi piedi, si allungò per quindici metri fino a raggiungere Peebles, le cui dita avevano appena toccato il vomere. La testa e le spalle di Peebles furono circondate per un secondo da un'aureola violetta, poi Peebles si piegò in due e crollò al suolo. Un interruttore scattò dietro al quadro dei comandi del saldatore, ma troppo tardi. La D-7 si mosse lentamente all'indietro, senza che il motore fosse acceso, sul terreno
piano, fino a fermarsi contro un rullo compressore. Chub aveva perso il sigaro, e non se n'era accorto. Stringeva in bocca le nocche della mano destra, i denti affondati nella carne. Gli occhi gli erano quasi schizzati dalle orbite; si rannicchiò su se stesso, tremante, spaventato a morte. Perché il vecchio Peebles era stato quasi troncato in due dal fuoco. Lo seppellirono accanto a Rivera. Dopo, nessuno ebbe voglia di parlare; il vecchio era stato assai più vicino a tutti loro di quanto si fossero resi conto fino a quel momento. Harris, per una volta tanto nella sua vita di bevitore allegro e spensierato, era serio e silenzioso, e il passo di Kelly pareva aver perso un po' della sua agilità. La bocca di Dennis agitò per ore, in silenzio, mentre lui rimuginava mordendosi il labbro finché non fu gonfio e molle. Al Knowles pareva più o meno indifferente, come c'era da aspettarsi da un uomo che aveva meno cervello di una gallina. Chub Horton si era ripreso, dopo un paio d'ore, ed era tornato quasi del tutto se stesso. E Tom Jaeger era in preda a una rabbia nera, turbinante, contro l'ignota maledizione che aveva colpito il campo. Continuarono a lavorare. Non c'era altro da fare, L'escavatore mantenne il suo ritmico movimento di ondeggio e scavo, di ondeggio e scarico, e i Dimptor ululavano avanti e indietro fra l'escavatore e ciò che rimaneva dell'acquitrino. L'estremità superiore della pista fu sgomberata dalla vegetazione; Chub e Tom piantarono le paline e Dennis cominciò il lungo lavoro di livellamento e di riempimento della superficie gibbosa col suo vaglio. Harris lo seguiva con l'altra pala, un taglio più indietro. La forma della pista emerse dal terreno, e poi quella della pista di rullaggio, parallela; passarono, così, tre giorni. L'orrore della morte di Peebles si smaltì quel tanto che bastava perché potessero parlarne, ma ben poco di quelle conversazioni fu di aiuto a qualcuno. Tom faceva tre turni, con ogni tipo di lavoro, dando il cambio a Kelly per permettergli di riposare dopo ore di lavoro sull'escavatore, facendo alcuni giri con il vaglio, e passando ore su un Dumptor. Il suo braccio si stava rimarginando lentamente, ma bene, e malgrado ciò lavorava con cupa tenacia, ricavando una sorta di perverso piacere dal dolore che ciò gli procurava. Ogni uomo al lavoro badava alla propria macchina con la sollecitudine di una madre col suo primogenito; un guasto grave sarebbe stato disastroso, privi com'erano adesso di un meccanico altamente qualificato. L'unica concessione che Tom si permise, dopo la morte di Peebles, fu di
bloccare Kelly un pomeriggio, chiedendogli tutte le informazioni possibili sulla saldatrice. Una parte del passato piuttosto vario e complesso di Kelly era trascorso in un istituto tecnico, dove aveva studiato elettrotecnica e le donne. Aveva imparato un po' della prima, e quanto bastava delle seconde, per farsi buttar fuori. Così, contando sulla possibilità che potesse saper qualcosa sull'innaturale funzionamento dell'arco elettrico, Tom lo tempestò di domande. Kelly si sfilò i guanti dagli alti bracciali e si servì di essi per scacciare una mosca. «Che razza di arco era mai? Buon Dio, mi hai incastrato. Hai mai sentito di una saldatrice che abbia fatto una cosa simile, prima d'oggi?» «No. Una saldatrice, semplicemente, non ha quel genere di spinta. Ho visto un uomo prendersi in pieno una scarica da 400 ampere, una volta, e malgrado sia finito lungo disteso, non gli ha fatto nessun male». «Non è l'amperaggio che uccide la gente», lo corresse Kelly. «È il voltaggio. Il voltaggio è ciò che dà la spinta alla corrente, sai. Prendi una qualsiasi quantità d'acqua, chiamala amperaggio. Se te la buttassi in faccia con un secchio, non ti farebbe male. Ma se te la scaraventassi addosso in un getto sottile con una pompa, allora sì, che la sentiresti. E se te la proiettassi addosso attraverso i minuscoli fori di un ugello a iniezione, a circa seicento chili di pressione, ti farebbe uscire il sangue dai pori. Ma il generatore di una saldatrice ad arco non è fatto per accumulare quel valore di voltaggio. Non vedo come un qualunque corto circuito attraverso l'armatura o le spire del campo magnetico possa fare una cosa simile». «Da quanto Chub ha detto, pare che si stesse gingillando col regolatore della corrente. Non credo che nessuno l'abbia toccato, poi. La scala graduata del regolatore era stata percorsa fino alla tacca che indica l'erogazione di una corrente bassa, neanche la metà rispetto al fondo-scala. E col regolatore messo in quel modo, non c'è abbastanza corrente neppure per fare una discreta saldatura con un elettrodo da un quarto di pollice, non parliamo poi di ammazzare qualcuno... o di far fare a una grossa macchina dieci metri all'indietro, sia pure su un terreno piano». «Oppure, per generare un arco di quindici metri», aggiunse Kelly. «Ci vorrebbero migliaia di volt per generare un arco del genere». «È possibile che qualcosa nella D-7 abbia attirato quell'arco? Voglio dire, supponi che quell'arco non sia stato proiettato dall'elettrodo, ma sia stato attratto dalla macchina? Ti dico che era calda ancora quattro ore dopo il fatto».
Kelly scosse la testa. «Mai sentito parlare di una cosa simile. Senti, giusto per definirli in qualche modo, chiamiamoli terminali a corrente continua, positivi e negativi, e poiché la teoria dice così, noi affermiamo che la corrente scorre dal negativo al positivo. Non può esserci un'attrazione in un elettrodo positivo più di quanta spinta ci sia in un elettrodo negativo. Capisci cosa voglio dire?» «Non potrebbe esserci qualche condizione eccezionale che possa causare una specie di campo positivo di dimensioni spropositate? Voglio dire, un campo che risucchi tutto il flusso negativo in un colpo solo, facendolo schizzar fuori con forza travolgente sotto altissima pressione, come l'acqua della quale hai parlato, fuori da un ugello a iniezione?» «No, Tom, proprio non funziona così, per quello che se ne sa. Comunque, non so. Ci sono cose dell'elettricità statica che nessuno capisce. Tutto quello che posso dire è che quanto è accaduto, è impossibile; e ammesso che sia accaduto, non potrebbe assolutamente aver ucciso Peebles. Ma tu sai meglio di me, che Peebles è morto». Tom girò lo sguardo verso l'estremità superiore della pista, dove si trovavano le due tombe. Per un attimo parve chiaramente turbato, e pieno di rabbia; si voltò e si allontanò senza altre parole. E quando si avvicinò alla saldatrice, per darle un'altra occhiata, Daisy Etta se n'era andata. Al Knowles e Harris se ne stavano accovacciati insieme accanto al refrigeratore dell'acqua. «Va male», disse Harris. «Mai visto niente di simile», dichiarò Al. «Il vecchio Tom è tornato dall'officina inferocito come un bufalo. "Dov'è andata la Sette? Dov'è la Sette?" Non l'avevo mai sentito sbraitare così». «L'aveva presa Dennis, no?» «Lui, credo». Harris disse: «Non molto tempo fa, era già venuto a sfogarsi con me, Dennis. Chub gli aveva riferito ciò che Tom aveva detto: che tutti dovevano starsene lontani da quella macchina. Dennis era furioso, quasi isterico. Ha detto che Tom stava andando troppo in là con questa faccenda. Ha detto che con tutta probabilità c'era qualcosa sulla D-7 che Tom non voleva che scoprissimo. Qualcosa che potrebbe incriminarlo. Dennis è pronto a dichiarare che Tom ha ammazzato il ragazzo». «Tu credi che l'abbia fatto, Harris?» Harris scosse la testa. «Conosco Tom da troppo tempo per pensare una
cosa simile. Se non vuol dirci cosa veramente è accaduto lassù sul poggio, avrà una buona ragione per farlo. Come mai Dennis è venuto a prendere il bulldozer?» «Gli è scoppiato un pneumatico anteriore al vaglio. È tornato qui per prendere un'altra macchina, forse un Dumptor. Ha visto la D-7 là, pronta a partire. È rimasto a guardarla un po', imprecando contro Tom. Ha detto che era stufo di rompersi i reni sugli altri trabiccoli e che il lavoro lo portasse, se, tanto per cambiare, ora non si sarebbe preso una macchina capace di marciare sul serio. Gli ho detto che Tom avrebbe strepitato come l'inferno quando l'avesse scoperto. Ma lui ha ribattuto che aveva ancora un paio di cosette da dire su Tom». «Non credevo che avesse tanto fegato da prendere quella macchina». «Ah, era proprio fuori di sé, accecato dalla rabbia». Alzarono gli occhi di scatto quando videro Chub arrivare di corsa, ansimante. «Ehi, ragazzi, venite. Faremo meglio a salir su da Dennis». «Cosa c'è che non va!» chiese Harris, alzandosi in piedi. «Tom mi è passato vicino un minuto fa, pareva l'incarnazione della collera divina. Era diretto alla palude che stiamo bonificando. Gli ho chiesto cos'era successo, e mi ha detto che Dennis aveva preso la Sette. Ha detto anche che Dennis parlava sempre di assassinio, e che se ne sarebbe preso una dose completa, per essersi messo a scherzare con quella macchina». Chub sgranò gli occhi, e si umettò le labbra intorno al sigaro. «Oh-oh», disse Harris, senza scomporsi. «È il tipo di discorso sbagliato da farsi proprio adesso». «Non penserai che...» «Oh, suvvia!» Videro Tom prima ancora di aver fatto metà percorso. Camminava lentamente, a testa bassa. Harris gridò. Tom sollevò il viso, si fermò, e restò lì in una posa strana, quasi stesse per crollare al suolo. «Dov'è Dennis?» sbraitò Chub. Tom attese fino a quando non lo ebbero quasi raggiunto, poi sollevò fiaccamente una mano e indicò col pollice dietro di sé. Il suo viso era verde. «Tom, è...» Tom annuì, barcollò. La sua mascella di granito era molle. «Al, resta con lui. Sta male. Harris, andiamo». Tom fu colto da un accesso di vomito. Un violento accesso. Al rimase a guardarlo a bocca aperta, affascinato.
Chub e Harris trovarono Dennis. Era spiaccicato su un tratto di terreno di almeno quattro metri quadrati, tritato e sbatacchiato. Daisy Etta era scomparsa. Sulla spianata, si misero seduti accanto a Tom, mentre Al Knowles prendeva un Dumptor e si allontanava rombando per andare a prendere Kelly. «L'avete visto?» chiese dopo un po' Tom, con voce smorta. Harris annuì: «Sì». L'ululante Dumptor tornò indietro in una grande nuvola di polvere, con Kelly ai comandi e Al appeso alla sponda del cassone, tenendovisi stretto come se la morte aleggiasse su di lui. Kelly balzò a terra e corse verso Tom. «Tom... cos'è questa storia? Dennis morto? E tu... tu...» Tom sollevò lentamente la testa, il suo volto lungo si rinsaldò, una luce si accese improvvisa nei suoi occhi. Fino a quel momento non gli era neppure passato per la mente ciò che quegli uomini avrebbero potuto pensare. «Io... cosa?» «Al dice che sei stato tu a ucciderlo». Gli occhi di Tom guizzarono in direzione di Knowles, e Al trasalì come se quell'occhiata l'avesse frustato sul viso. Harris chiese: «Che cosa hai da dire, Tom?» «Niente. È stato ucciso dalla Sette. L'hai visto tu stesso». «Sono stato dalla tua parte per tutto questo tempo», replicò Harris, scandendo le parole. «Ho accettato tutto quello che mi hai detto e ci ho creduto». «Questa è troppo forte per te?» chiese Tom. Harris annuì. «Troppo forte, Tom». Tom guardò quella cerchia di volti cupi, e scoppiò in un'improvvisa risata. Si alzò in piedi, appoggiò la schiena contro un alto cassone. «Cosa avete in mente di fare in proposito?» Vi fu silenzio. «Pensate che sia andato là, abbia sbattuto giù dalla macchina quel chiacchierone e gli sia passato sopra?» Altro silenzio. «Ascoltate, sono salito lassù e ho visto quello che avete visto voi. Era morto prima che ci arrivassi. Non vi va bene neanche questa?» Fece una pausa e si leccò le labbra. «Così, dopo averlo ucciso, sono salito sulla macchina e l'ho portata lontana quanto bastava perché non vi fosse possibile né vederla né sentirla quando foste arrivati là. E poi mi sono fatto spuntare un paio di ali e sono tornato in volo, e così ero già a metà strada da qui quando mi avete
incontrato... dieci minuti dopo che avevo parlato a Chub, prima di andarci!» Kelly chiese, vagamente: «E la D-7?» «Be'», disse Tom, in tono aspro rivolto ad Harris, «c'era, forse, la Sette quando tu e Chub siete andati e avete visto Dennis?» «No...» Chub all'improvviso si batté la mano sul fianco: «Avresti potuto spingerla dentro la palude, Tom». Tom replicò, rabbioso: «Sto sprecando il mio tempo. Voi ragazzi sapete già tutto. Perché insistete a farmi domande, allora?» «Prenditela con calma» disse Kelly. «Vogliamo soltanto i fatti. Cos'è veramente accaduto? Hai incontrato Chub e gli hai detto che Dennis si sarebbe fatto ammazzare, se si fosse messo a pasticciare con quella macchina. Esatto?» «Esatto». «Poi, cosa?» «Poi la macchina lo ha ucciso». Chub, con uno sforzo per esser paziente, chiese ancora: «Cosa intendevi dire, il giorno in cui Peebles è morto, quando hai accennato a qualcosa che aveva reso strana la D-7 lassù sul poggio?» Tom replicò, furioso: «Intendevo dire quello che ho detto. Voi ragazzi avete deciso di mettermi in croce, per questo, e non posso impedirvelo. Bene, ascoltatemi. Qualcosa si è impossessato di quella Sette. Non so cosa sia, e credo che non lo saprò mai. Pensavo che, dopo che si era fatta a pezzi da sola, fosse finita. Mi era venuta l'idea che, dopo averla smontata e resa innocua, avremmo dovuta lasciarla così. Avevo maledettamente ragione, ma adesso è troppo tardi. Ha ucciso Rivera e Dennis, e certamente ha avuto qualcosa a che fare con la morte di Peebles. E sono più che convinto che non si fermerà fintanto che ci sarà un solo essere vivo su quest'isola». «Caspita!» esclamò Chub. «Certo, Tom, certo», disse Kelly, con calma. «Quel trattore sta cercando di ucciderci. Ma non preoccuparti: lo prenderemo e lo smonteremo. Tu non preoccuparti più; andrà tutto bene». «Proprio così», interloquì Harris. «Prenditela con calma, resta qui al campo per un paio di giorni, finché non ti sentirai meglio. Chub e il resto di noi ci occuperemo del tuo lavoro. Hai preso troppo sole».
«Siete davvero un bel branco di gente in gamba, ragazzi!» esclamò Tom, digrignando i denti, col più profondo sarcasmo. «Volete vivere?» gridò. «Andatevene subito via da qui, e lasciate alle ortiche quel vagabondo d'un bulldozer!» «Quel vagabondo d'un bulldozer è in fondo alla palude dove tu l'hai cacciato», ringhiò Chub. Abbassò la testa e cominciò a muoversi. «Certo che vogliamo vivere. Il modo migliore per riuscirci è metterti in un posto dove non potrai uccidere nessun altro. Prendetelo!» Balzò in avanti. Tom lo raddrizzò con un sinistro doppiato da un destro. Chub crollò al suolo, facendo perdere l'equilibrio ad Harris. Al Knowles corse verso una cassa di attrezzi e ne tirò fuori una chiave inglese a forma di mezzaluna, da trentacinque centimetri. Girò in tondo, tenendosi fuori tiro, e cercando di vibrare un colpo. Tom sferrò un diretto a Kelly, la cui testa parve ritrarsi come quella di una tartaruga, il pugno si limitò a sfiorarlo e Tom perse l'equilibrio. Harris, ancora inginocchiato, placcò le sue gambe; Chub lo colpì sul fondo della schiena con una robusta spallata, e Tom cadde lungo disteso, bocconi. Al Knowles, impugnando la chiave inglese con entrambe le mani, la sollevò come una mazza da baseball; mentre stava per colpire, Kelly allungò il braccio e gliela strappò dalle mani, e la usò a sua volta per colpire Tom con delicatezza dietro l'orecchio. Tom si accasciò al suolo privo di sensi. Era tardi, ma sembrava che nessuno avesse voglia di dormire. Sedevano intorno alla lanterna a pressione, discorrendo di cose futili. Chub e Kelly erano impegnati in una svogliata partita a carte, dimenticandosi di segnare i punti. Harris girava su e giù, come un uomo chiuso in cella, e Al Knowles se ne stava accucciato accanto alla lanterna, gli occhi spalancati e vigili... «Senti il bisogno di bere qualcosa», disse a un certo punto Harris. «Dieci», annunciò uno dei giocatori. Al Knowles fece: «Avremmo dovuto ucciderlo... Dovremmo ucciderlo adesso». «Ci sono già stati troppi morti», replicò Chub. «Chiudi il becco». E, rivolto a Kelly: «Asso piglia tutto», e fece per raccattare le carte. Kelly gli afferrò il polso e sogghignò: «Questo non era nei patti, ricordi?» «Oh... è vero». «Quanto tempo ci vorrà, ancora, prima che arrivi la squadra degli asfal-
tatori?» chiese Al Knowles, con voce tremula. «Dodici giorni», disse Harris. «E sarà bene che portino da bere, e parecchio». «Ehi voi, ragazzi». Tacquero. «Ehi!» «È Tom», disse Kelly. «Tre punti per me, Chub». «Vado a dargli un paio di calci sulle costole», disse Knowles, ma non si mosse. «Ti ho sentito, sai», fece una voce nel buio. «Se non fossi legato come un salame...» «Sappiamo tutti quello che faresti», lo rimbeccò Chub. «Di quante altre prove credi che abbiamo bisogno?» «Chub, lascialo stare!» Era stato Kelly a intromettersi. Buttò giù le carte che aveva in mano e si alzò in piedi. «Tom, hai sete?» «Sì». «Siediti, siediti», intervenne Chub. «Lascialo legato, là, che crepi», esclamò Al Knowles. «Al diavolo!» Kelly andò a riempire una tazza e la portò a Tom. Il grosso georgiano era saldamente legato, i polsi uniti, e un doppio passaggio di corde tra i gomiti, dietro la schiena, cosicché le sue mani si trovavano inchiodate all'altezza del plesso solare. Anche le sue ginocchia e le caviglie erano legate. Era stata omessa soltanto l'idea di Knowles, di una corda supplementare dalle caviglie al collo. «Grazie, Kelly». Tom trangugiò l'acqua con avidità, mentre l'altro gli reggeva la testa. «È buona». Bevve ancora. «Cosa mi ha colpito?» «Uno dei ragazzi. Più o meno quando ci hai detto che la D-7 è indemoniata». «Oh, già». Tom ruotò la testa e sbatté gli occhi per il dolore. «Posso chiederti se, per te, abbiamo torto?» «Kelly, qualcun altro dovrà finire ammazzato, prima che voi ragazzi vi svegliate?» «Nessuno di noi pensa che ci saranno altri morti... adesso». Anche gli altri, adesso, si avvicinarono. «Si è deciso a parlare sensato?» volle sapere Chub. Al Knowles scoppiò a ridere. «Ah, ah! Adesso non ha più un'aria tanto pericolosa!» Harris disse tutto d'un tratto: «Ar, finirò per tapparti la bocca con la pelle
del tuo collo!» «Sono forse il tipo di persona che s'inventa le storielle di fantasmi?» «Non l'hai mai fatto che io sappia, Tom». Harris s'inginocchiò accanto a lui. «Così come non hai mai ucciso nessuno fino a oggi». «Oh, vattene via, vattene via», sbuffò Tom, stancamente. «Alzati e facci fuori», lo sbeffeggiò Al. Harris si alzò in piedi e gli mollò un manrovescio sulla bocca. Al strillò, fece tre passi indietro e inciampò su un bidone di lubrificante. «Ti avevo avvertito», disse Harris, quasi scusandosi. «Ti avevo avvertito, Al». Tom interruppe quella confusione. «State Zitti!» sibilò. «STATE ZITTI!» tuonò. Tacquero. «Chub», chiese Tom, rapidamente, ma senza perder la calma. «Cosa hai detto che avrei fatto della Sette?» «L'hai affondata nella palude». «Sì. Allora, ascolta». «Ascoltare cosa?» «Fai silenzio e ascolta!» Così, ascoltarono. Era un'altra notte immobile e senza vento, con una sottile falce di luna che appariva irreale in quel paesaggio argenteo, nero e ovattato. Soltanto il vago mormorio della risacca saliva dalla spiaggia, e da lontano, sulla destra, là dove si stendeva la palude, una rana scandalizzata gracidò la sua protesta per il modo in cui era stata maltrattata la sua tana di fango. Ma il suono che fece raggelare le ossa a tutti giungeva strisciante dal contrafforte dietro il loro accampamento. Era lo staccato, inequivocabile, d'un motore d'avviamento. «La Sette!» «Esatto, Chub», disse Tom. «È lo spettro di Dennis», gemette Al. Chub sbottò: «Chiudi il becco, cervello di gallina!» «Ha cambiato sul Diesel», annunciò Kelly, tendendo l'orecchio. «Sarà qui fra un momento», disse Tom. «Sapete, ragazzi, non possiamo essere tutti pazzi, qui. Vi convincerete, adesso?» «Ti piace, non è vero?» «In un certo modo, si. Rivera aveva preso l'abitudine di chiamare quella macchina Daisy Etta, perché si dice de siete in spagnolo. E Daisy Etta vuole un uomo».
«Tom», intervenne Harris, «vorrei che tu la smettessi di blaterare. Mi innervosisci». «Devo pure far qualcosa. Non posso scappare», sghignazzò Tom. «Andiamo a darci un'occhiata», disse Chub. «Se non c'è nessuno sopra quel cingolato, ti libereremo». «Molto cortese da parte vostra. Tornerete prima che lo faccia lei?» «Torneremo. Harris, vieni con me? Prenderemo uno dei vagli. Possono correre più di una D-7. Kelly, tu e Al prendete l'altro». «La macchina di Dennis ha un pneumatico del cassone a terra», disse la voce tremante di Al. «Sfila il perno e taglia i cavi, allora!» gli ingiunse Kelly. «E muoviti!» Corse via spingendo Al davanti a sé. «Buona caccia, Chub». Chub si avvicinò e si chinò sul prigioniero: «Credo di dovermi scusare con te, Tom», gli disse. «No, non devi. Io avrei fatto lo stesso. Adesso vai, se sei convinto di doverlo fare. Ma fai in fretta». Harris aggiunse: «E tu non scappare, amico». Tom gli restituì la sbruffata, e un attimo dopo se n'erano andati. Ma non tornarono subito. Non tornarono affatto. Fu Kelly a ricomparire, di corsa, affannato, con Al Knowles alle calcagna; mezz'ora più tardi. «Al... dammi il tuo coltello». Si mise al lavoro sulle corde. Aveva il volto teso. «Ho visto una parte della scena, da qui», bisbigliò Tom. «Chub e Harris?» Kelly annuì. «Non c'era nessuno sulla Sette, come avevi detto». Pronunciò queste parole come se non ci fosse nient'altro nella sua testa, come se il più rigido autocontrollo gl'impedisse di ripeterlo all'infinito. «Ho visto le luci», continuò Tom. «Una macchina saliva obliquamente la collina. Ma quasi subito un'altra gli ha attraversato la strada, illuminando tutto il pendio». «L'avevamo sentita col motorino al minimo lassù, da qualche parte», disse Kelly. «Vernice grigio-oliva, non potevamo vederla». «Ho visto il vaglio ribaltarsi... oh, è rotolato quattro o cinque volte giù per la collina. Poi si è fermato, coi fari ancora accesi. E qualcosa l'ha colpito, facendolo rotolare di nuovo. Questo l'ha spento del tutto. Cosa l'ha fatto ribaltare la prima volta?» «La Sette. Lassù in agguato, proprio alla sommità del pendio. Ha aspet-
tato fino a quando Chub e Harris stavano per passare, venti, venticinque metri più sotto. Si è spinta oltre il ciglio e si è buttata giù a rotta di collo su di loro, con le frizioni staccate. Doveva viaggiare a cinquanta all'ora, quando li ha colpiti. Di fianco. Non hanno avuto una sola possibilità di salvarsi. Poi ha seguito il vaglio mentre rotolava giù dalla collina, e quando si è fermato, gli ha mollato un altro calcio». «Vuoi che ti sfreghi le caviglie?» chiese Al. «Tu? Sparisci dalla mia vista!» «Ma, Tom...» uggiolò Al. «Lascia perdere, Tom», disse Kelly. «Non siamo rimasti in numero sufficiente per continuare così. E tu, Al, stai attento a come parli, d'ora in avanti, capito?» «Ah, sì, volevo dirvi tutto. Sapevo che non mentivi su Dennis, Tom... se soltanto mi fossi fermato a pensare. Ricordo quando Dennis ha detto che avrebbe portato fuori la D-7... Ricordi, Kelly? È andato a prendere la manovella, ha girato intorno alla macchina e l'ha infilata nel buco. L'aveva appena fatto, quando il motorino d'avviamento si è messo in moto. "Ma guarda" mi fa "si è messa in moto da sola! Non ho neanche girato la manovella!" e io ho risposto: "Già, non vede l'ora di muoversi!"» «Hai scelto un bel momento per ricordarti qualcosa», ringhiò Tom. «Su, andiamo via da qui». «E dove?» «Conosci qualcosa che una Sette non possa spostare o salirci sopra?» «Hai chiesto poco! Una grossa roccia, forse?» «Non c'è niente di tanto grosso qui intorno», disse Tom. Tom rifletté un attimo, poi fece schioccare le dita. «Là in cima, dove ho dato la mia ultima scavata con la pala», disse. «Alto quattro metri e più. Stavo tirando fuori dei piccoli pezzi di roccia mista a terriccio, quando Chub mi ha detto di tornare indietro a scovare della marna da una sacca lì vicino. Ho girato intorno allo sbancamento originario e ho tirato fuori una grande quantità di marna. Così, è rimasto uno sprone che sporge sul dirupo, lungo una decina di metri o giù di lì. La parte più stretta è larga meno di un metro e mezzo. Se la Daisy Etta cercherà di prenderci dall'alto, si metterà a cavalcioni di questo sprone e lo sfonderà, precipitando. Se cercherà di prenderci dal basso, non riuscirà ad avere abbastanza trazione per arrampicarsi: lì la terra è troppo smossa e la scarpata troppo ripida». «E cosa faremo, se si costruirà una rampa?» «Avremo tutto il tempo di filarcela da qualche altra parte».
«Andiamo». Al insisté tutto agitato perché venisse scelto un Dumptor, per la sua velocità, ma venne messo a tacere. Tom voleva qualcosa che non potesse restar bloccato da una gomma a terra e che richiedesse qualcosa di potenza davvero tremenda per venir rovesciato. Presero il vaglio a due tempi con la lama da bulldozer, che era stato la macchina di Dennis, e si allontanarono pian piano in mezzo alle tenebre. Fu press'a poco sei ore dopo che Daisy Etta arrivò e li svegliò. La notte stava arretrando davanti a un pallone che cresceva a oriente, e una brezza tesa aveva cominciato a soffiare dall'oceano. Kelly aveva fatto il primo turno di guardia e Al il secondo, lasciando che Tom si riposasse per tutta la notte. E Tom era troppo stanco per discutere questa decisione. Al si era subito addormentato durante il suo turno di guardia, ma la paura aveva una presa così gelida e sicura sui suoi organi vitali che il primo debole ringhio del grosso motore Diesel lo fece balzar su di colpo, destandolo dal sonno. Avanzò barcollando fin sul ciglio del lungo sprone sul quale stavano dormendo e strillò quando dovette annaspare con le braccia e le gambe per mantenere l'equilibrio. «Cosa succede?» chiese Kelly, svegliandosi all'istante. «Sta arrivando», farfugliò Al. «Oh, mio... mio...» Kelly si alzò in piedi e scrutò l'alba scura e fresca. Il motore tuonava con un rumore cavernoso, un doppio angoscioso suono, poiché giungeva direttamente dalla macchina lanciata verso di loro e dalle pareti rocciose tutt'intorno sulle quali rimbalzava. «Sta arrivando... cosa possiamo fare?» si lamentò Al. «Cosa accadrà?» «Mi par quasi che la testa mi caschi giù dal collo», fece Tom, assonnato. Puntò i gomiti e si rizzò a sedere, stringendo tra le mani la testa tormentata. «Se quel bitorzolo che ho dietro l'orecchio si aprisse, ne uscirebbe un martello pneumatico in grandezza naturale». Fissò Kelly. «Dov'è?» «Non lo so esattamente», rispose Kelly. «Da qualche parte intorno al campo». «Probabilmente sta fiutando la nostra pista». «Credi che possa farlo?» «Credo che possa fare qualunque cosa», disse Tom. «Al, piantala di lamentarti». Il sole fece emergere il suo orlo scarlatto lungo l'ampia linea che divideva il cielo dal mare. La sua luce rosata diede ad ogni roccia e ad ogni albero una forma e un'ombra. Lo sguardo di Kelly si mosse avanti, indietro,
avanti e indietro, finché pochi attimi più tardi, colse un movimento. «Eccola là!» «Dove?» «Giù, accanto al banco dell'ingrassaggio». Tom si alzò e guardò. «Cosa sta facendo?» Dopo qualche attimo di silenzio, Kelly disse: «Sta lavorando. Sta scavando una trincea davanti ai bidoni del carburante.» «Non dirmi... non dirmi che sta per darsi una lubrificata». «Non ne ha bisogno. È stata completamente ingrassata, e abbiamo cambiato l'olio nella coppa, dopo averla riparata. Ma potrebbe aver bisogno di carburante». «Non più di un mezzo serbatoio». «Be', potrebbe aver calcolato di dover fare un sacco di lavoro, oggi». Quando Kelly disse questo, Al cominciò a farfugliare. Fecero finta di non sentirlo. I bidoni del carburante erano ammucchiati a piramide sui bordi del campo. Erano bidoni da centocinquanta litri, ammucchiati sul fianco. La D-7 andava avanti e indietro davanti ad essi, vicinissima, scavando la terra e disperdendola oltre le pile dei bidoni. Ben presto ebbe scavato un fosso enorme, largo oltre quattro metri e mezzo, profondo un metro e ottanta e lungo nove, proprio sull'orlo della fila dei bidoni. «Cosa pensi che stia per combinare?» «Che ne so? Pare voglia del carburante, ma non... guarda! Si è fermata nella buca; sta ruotando su se stessa, e ha fracassato col vomere uno dei bidoni più in basso!» Tom si grattò con le unghie il velo di barba che gli copriva la mascella. «Ti meravigli di ciò che sta facendo quella bestiaccia? Diamine, ha già previsto tutto. Sa che se avesse cercato di fare un buco in un bidone isolato, sarebbe riuscita soltanto a sbatterlo qua e là. E anche se fosse riuscita a bucarlo, come avrebbe potuto sollevarlo? Non è equipaggiata per maneggiare dei tubi, così... vedi? Guardala adesso! Si è semplicemente messa a un livello più basso di tutta la pila dei bidoni, e li buca. Così può farlo, perché i bidoni delle file più basse sono tenuti fermi dal peso di tutti gli altri. Poi fa marcia indietro e piazza il serbatoio sotto lo zampillo del carburante che sprizza fuori!» «Come ha fatto a togliere il tappo del serbatoio?» Tom sbuffò e raccontò come il tappo del radiatore fosse saltato via quando lui aveva volteggiato sopra il cofano, il giorno in cui Rivera era ri-
masto ferito. «Sapete», disse, dopo aver riflettuto un momento, «se allora quella macchina ne avesse sapute tante come adesso, io me ne starei a dormire accanto a Rivera e a Peebles. Allora non sapeva granché come cavarsela. Ma ora... si sta manovrando come non aveva mai fatto prima. Ha imparato un sacco di cose da quel giorno». «È vero», annui Kelly, «e adesso si sta preparando a usarle contro di noi. Si sta dirigendo da questa parte». Era proprio così. Stava arrivando dritta dritta lungo la pista scabra, sferragliando sul terreno spruzzato di rugiada, con la polvere del giorno prima che turbinava intorno ai suoi cingoli. Raggiunse il punto in cui il terreno s'innalzava, e affrontò con abilità il tratto più impervio, superando trasversalmente le gobbe che s'innalzavano qua e là, evitando i massi, viaggiando libera, veloce e disinvolta. Era la prima volta che Tom la vedeva con chiarezza correre senza un operatore alla guida, e mentre guardava si sentì accapponare la pelle. Quella macchina era innaturale, il suo profilo in qualche modo irreale, simile a un sogno, proprio per la mancanza della silhouette di un uomo sul seggiolino. Aveva un aspetto compatto, massiccio, micidiale. «Cosa faremo?» gemette Al Knowles. «Ce ne staremo seduti ad aspettare», disse Kelly, «e tu chiuderai il becco. Ancora per cinque minuti non sapremo se ci verrà addosso da sotto oda sopra». «Se vuoi andartene di qui», aggiunse Tom, con la massima cortesia, «fai pure». Al tornò a sedersi. Kelly guardò laggiù in basso il suo amato escavatore, che se ne stava immobile, tozzo e sgraziato, nella cava, un po' spostato a destra rispetto a loro. «Come pensi che se la caverebbe, contro l'escavatore?» «Se mai dovessero venire ai ferri corti», replicò Tom, «direi che Daisy Etta dovrebbe avere la peggio. Ma lei non combatterebbe: non c'è nessun modo in cui riusciresti a portarti a tiro; Daisy se ne starebbe lontana e ti riderebbe dietro». «Non riesco più a vederla», gemette Al. Tom aguzzò occhi e orecchi: «Stai risalendo il contrafforte. Tenta di attaccarci dall'alto. Propongo che ce ne restiamo qui: vedremo se sarà così sciocca da cercare di spingersi fin qui lungo quello stretto sprone friabile. Se lo farà, precipiterà di sotto, sventagliando i cingoli. Probabilmente finirebbe a gambe all'aria, peggiorando la sua posizione ad ogni tentativo».
Poi l'attesa divenne interminabile. Sentivano il motore arrancare sull'altro versante della collina; due volte sentirono la macchina fermarsi per qualche istante e cambiar marcia. A un certo punto si guardarono speranzosi l'un l'altro, quando il frastuono salì fino a diventare una serie di alti muggiti, come se stesse facendo marcia indietro per disincagliarsi. Poi, si resero conto che, invece, stava cercando di affrontare un tratto particolarmente ripido del pendio, e faticava a trovare la trazione necessaria. Ma riuscì a farcela: il motore aumentò di giri quando giunse alla sommità della collina, poi passò in quarta e uscì fuori all'aperto, avanzando pesantemente. Arrivò sobbalzando fino all'orlo della cava, si fermò, tolse il gas, fece cadere la lama al suolo e restò immobile, col motore al minimo. Al Knowles arretrò fino all'orlo estremo della lingua di terra su cui si trovavano, con gli occhi sbarrati al punto che parvero cadergli fuori. «Oh, insomma... di' cosa vorresti fare, e poi smettila subito!» gli gridò, con voce rabbiosa, Kelly. «Oh, dunque...» fece Tom, «Daisy Etta sta studiando la situazione. Quel passaggio così stretto non l'ha affatto imbrogliata». La lama di Daisy Etta cominciò ad alzarsi, ma si arrestò non appena si staccò dal suolo. Cambiò marcia senza raschiare, prese ad arretrare lentamente, aumentando impercettibilmente i giri del motore. «Sta per saltare!» urlò Al. «Io scappo di qui!» «Rimani lì, scemo», gli urlò Kelly. «Non può prenderci, finché restiamo qua! Se scenderai giù, ti darà la caccia come a un coniglio». Il rombo del motore della D-7 fu per Al la goccia che fece traboccare il vaso. Cacciò uno strillo e saltò oltre il ciglio. Scivolò e ruzzolò giù lungo la parete quasi perpendicolare della cava, aiutandosi con le mani e i piedi a conservare una parvenza di equilibrio. Raggiunse infine il fondo e si mise a correre. Daisy Etta abbassò la lama, sollevò il muso e avanzò ringhiando, in assetto di scavo. Sei, sette, otto metri cubi di terriccio si ammucchiarono davanti a lei, mentre si avvicinava all'orlo. La lama sovraccarica morse lo stretto sentiero che conduceva al loro posatoio. Era quasi tutta marna, tenera, bianca, friabile, e la grande macchina vi affondò dentro il muso, col mostruoso sovraccarico di terriccio che si rovesciò a destra e a sinistra. «Finirà per seppellirsi da sola!» urlò Kelly. «No... aspetta». Tom gli afferrò il braccio. «Sta cercando di girare... ce l'ha fatta! Ce l'ha fatta! Si sta facendo una rampa per scender giù!» «Proprio così... e ci ha isolati dal resto della collina!»
Il bulldozer, con la lama il più in alto possibile, i supporti telescopici che scintillavano alla prima, vivida luce del giorno, si liberò dell'ultimo, tremendo carico, girò e puntò di nuovo verso l'alto, tornando ad abbassare la lama. Passò ancora una volta tra loro e il contrafforte, scavando adesso una trincea troppo ampia perché potessero scavalcarla con un salto, soprattutto considerando quant'era friabile il terreno là, sullo sprone proteso sul vuoto. Tornò a scendere, si voltò verso il loro rifugio, che adesso era un pilastro di marna isolato, e diminuì i giri, mettendosi ad aspettare. «Non avrei mai pensato a questo», commentò Kelly, con tono colpevole. «Sapevo che saremmo stati al sicuro dai suoi tentativi di costruirsi una rampa verso l'alto, per raggiungerci, ma non avrei mai pensato che avrebbe fatto esattamente il contrario!» «Diménticatene, fintanto che siamo quassù. E adesso, cosa facciamo? Ce ne stiamo qui, buoni, ad aspettare che il suo carburante finisca, morendo di fame, oppure...» «Oh, questo non sarà un assedio. Tom, quell'affare ama troppo ammazzare lui stesso la gente. Dov'è Al? Mi stavo chiedendo se avesse abbastanza fegato da passare qui vicino con la nostra macchina, attirando lontano quel mostro?» «Ha avuto abbastanza fegato da prender la nostra macchina e scappar via», disse Tom. «Non te n'eri accorto?» «Ha preso... cosa?» Kelly guardò là dove avevano lasciato la loro macchina, la notte prima. Non c'era più. «Quel piccolo, sudicio vigliacco!» «Non serve imprecare», fece Tom, con calma, interrompendo quella che, sapeva, sarebbe stata una lunghissima serie d'insulti sempre più fioriti. «Che altro ti aspettavi da una simile persona?» A quanto pareva, Daisy Etta aveva deciso di darsi da fare per toglierli dal loro splendido isolamento. Diede una sbuffata, che indicava gas dato troppo in fretta, e si diresse verso il loro pilastro con un angolo della lima, tagliandone via un'enorme fetta, togliendo il sostegno al materiale sovrastante che crollò giù su una sua fiancata e sul cingolo, mentre passava. Due buoni palmi del loro piccolo antopiano sparirono, in quella passata. «Oh, oh, questa non ci voleva proprio», osservò Tom. «Si sta preparando a scavarci giù», replicò Kelly, cupo. «Le ci vorranno venti minuti, al più. Tom, ti dico che è meglio filarcela». «Non sarà proprio uno scherzo. Non hai proprio nessuna idea della velocità con la quale quell'affare riesce a muoversi adesso. Non dimenticarti che è assai di più, di quando aveva un uomo a guidarla. Può passare dalla
prima alla quinta, e da questa alla marcia indietro... così». Fece schioccare le dita. «E può ruotare su se stessa più in fretta di quanto tu riesca a sbattere gli occhi, e scaraventare quella lama dove vuole». Il bulldozer passò sotto di loro, muggendo, e il loro piccolo ripiano si ridusse di un'altra trentina di centimetri. «D'accordo», acconsentì Kelly. «E allora, che cosa vuoi fare? Rimanere qui, e lasciare che ci scavi tutto il terreno da sotto i piedi?» «Ti stavo soltanto mettendo in guardia», rispose Tom. «Adesso, ascolta. Aspetteremo fino a quando non prenderà un altro carico di terra. Le ci vorrà un secondo per sbarazzarsene, una volta che scoprirà che ce ne siamo andati. Ci separeremo... non potrà ammazzarci tutti e due. Tu correrai fuori, allo scoperto, cercando di girare intorno alla curva della collina fino a un punto dove potrai arrampicartici. Poi tornerai fin qui, vicino alla cava di marna. Un uomo può arrampicarsi fuori da una trincea di quattro metri più velocemente di qualunque trattore mai costruito. Io taglierò attraverso la trincea, giù in fondo. Se inseguirà me, tenterò di raggiungere l'escavatore e, quanto meno, di far fruttare i soldi che è costato. Posso giocare a nascondino intorno e sotto quell'escavatore, se lei ci sta». «Perché proprio io allo scoperto?» «Non credi che con quelle tue lunghe gambe riuscirai a correre più veloce di lei su quella distanza?» «Immagino che dovranno farlo», sogghignò Kelly. «D'accordo, Tom». Attesero, in preda a una tensione crescente. Daisy Etta tornò indietro, ancora più vicina, e cominciò un altro passaggio. Mentre il motore pulsava sotto sforzo, Tom disse: «Adesso!» e saltarono. Kelly, come sempre simile a un gatto, atterrò in piedi. Tom, che aveva le ginocchia e le caviglie nere e bluastre per i lividi lasciatigli dalle corde, barcollò per due passi e cadde. Kelly lo tirò in piedi proprio mentre la prua d'acciaio del bulldozer spuntava da dietro la scarpata. Subito, la D-7 innestò la quinta e puntò ululando su di loro. Kelly si buttò a sinistra e Tom sulla destra, e corsero via di gran carriera, Kelly fuori, verso la pista; Tom direttamente verso l'escavatore. Daisy Etta li lasciò divergere per un attimo, conservando la propria direzione, nel tentativo d'inseguirli entrambi. Poi, evidentemente, dovette aver giudicato che Tom era il più lento dei due, poiché girò verso di lui. Ma quell'istante di esitazione era tutto ciò di cui Tom aveva bisogno per ottenere il piccolo vantaggio necessario. Arrivò correndo, col fiato mozzo, all'escavatore, le gambe che si muovevano come pistoni, e si tuffò fra i cingoli della grossa macchina.
Mentre toccava il suolo, il grande vomere di acciaio al manganese colpì il cingolo destro dell'escavatore e l'urto fece tremare tutte le quarantasette tonnellate. Ma Tom non si fermò. Passò sotto la macchina avanzando a quattro zampe, per rialzarsi dietro di essa. Qui, diede un balzo e si afferrò al bordo del finestrino posteriore, lo agguantò anche con l'altra mano, si tirò su, e cadde dentro. Qui per il momento era al sicuro; gli stessi enormi cingoli erano più alti di quanto potesse sollevarsi la lama del D-7, e il pavimento della cabina si trovava ben cinque metri più in alto della sommità dei cingoli. Tom andò al portello della cabina e sbirciò fuori. La Sette si era ritirata e aveva messo il motore al minimo. «Mi stai studiando, eh?» fece Tom, digrignando i denti, e si avvicinò al grosso Diesel Murphy. Senza fretta controllò l'olio con l'asticciola, la rimise al suo posto, tolse dal gancio la chiave del regolatore e la infilò nel cruscotto. Diede mezzo gas, tirò la manovella di avviamento, girò la chiave. Il motore sputacchiò una nuvoletta di fumo azzurrognolo dallo scappamento incappucciato e si mise in moto. Tom rimise a posto la chiave, studiò la spia del flusso del carburante e gli indicatori di pressione, poi andò al portello e guardò fuori un'altra volta. La D-7 non si era mossa, ma stava andando su e giù di giri, in quella maniera irregolare che aveva mostrato lassù, sul piccolo altopiano. Tom ebbe la fantastica idea che si stesse preparando a balzare. Scivolò sul seggiolino e inserì la frizione principale. I grossi ingranaggi che riempivano metà della cabina cominciarono obbedienti a girare. Tom sbloccò i freni con un colpo dei calcagni, lasciò che i suoi piedi si appoggiassero leggeri sui pedali, quando questi si alzarono. Poi allungò la mano sopra la sua testa e tirò indietro la manetta del gas. Non appena il Murphy prese a salire di giri, impugnò sia la leva di sollevamento che quella di rotazione e le tirò indietro. Il motore ululò; la benna da due metri si staccò dal suolo con un sussulto improvviso quando la frizione ancora fredda s'ingranò. La grossa macchina sterzò tutta a destra; Tom tirò in avanti la leva del sollevamento e controllò la salita della benna col piede sul freno. Abbassò la leva di trazione, la benna scivolò fino in fondo, e lo spigolo del cucchiaio sfiorò il cofano della D-7, staccandole il tubo di scarico, la marmitta e tutto il resto, e il filtro della presa d'aria; Tom imprecò: aveva calcolato che l'altra macchina sarebbe balzata avanti. Se l'avesse fatto, le avrebbe fracassato la carcassa di ghisa del radiatore. Ma la D-7 restò immobile, prendendo la sua decisione in una frazione di secondo. Ora però si mosse, e in fretta. Con la sua incredibile capacità di cambiare
marcia, fece un balzo all'indietro e girò su se stessa, portandosi fuori tiro prima che Tom potesse bloccare il vorticoso roteare dell'escavatore. I massicci tamburi della frizione sprigionarono un fumo acre, quando la macchina rallentò, si fermò, e invertì il senso della rotazione. Tom la fermò quando si trovò a fronteggiare la D-7, sollevò la benna di qualche metro, e la tirò indietro a metà strada, pronto a tutto. I quattro grossi denti della benna mandarono barbagli al sole. Tom fece scorrere il suo sguardo esperto sui cavi, il braccio e il manico del cucchiaio, apprezzando la lucida levigatezza delle parti scorrevoli, la manovrabile tensione dei cavi e dei tiranti ben lubrificati. La gigantesca macchina era li, forte, pronta, e del tutto obbediente, malgrado tutta la sua forza bruta. Tom studiò con grande attenzione il cofano danneggiato del motore della D-7. L'estremità slabbrata del tubo della presa d'aria lo fissava. «Aha!» esclamò Tom. «Se riesco a ficcarti qualche cucchiaiata di marna asciutta lì dentro, avrai qualcosa da masticare». Tenendo d'occhio la D-7, girò l'escavatore verso la cava, lasciò cadere la benna e l'affondò dentro la marna. La spinse bene in fondo, e il Murphy urlò per chiedere aiuto, ma continuò a spingere. Al massimo del carico, un urto terrificante lo fece ondeggiare sul seggiolino. Guardò dietro di sé attraverso il portello, e vide la D-7 intenta ad arretrare. Si era precipitata in avanti e aveva vibrato un tremendo colpo al contrappeso dietro la cabina. Tom sogghignò a denti stretti. Avrebbe dovuto far di meglio. Là dietro c'erano soltanto dalle otto alle dieci tonnellate di acciaio compatto. E al momento non gl'importava davvero se quel colpo avesse graffiato oppure no la vernice. Girò di nuovo il gigantesco escavatore, con la marna biancastra che scorse fuori da entrambi i lati della benna ricolma. Adesso l'escavatore funzionava perfettamente, poiché un escavatore è controbilanciato e raggiunge il miglior equilibrio quando si mantiene orizzontale con la benna piena. Le frizioni di sollevamento e di rotazione e i rivestimenti dei freni si erano riscaldate, liberandosi così grazie all'evaporazione della condensa depositatasi durante la notte, e la macchina rispondeva ai comandi in un modo che avrebbe fatto la gioia di ogni operatore. Tom spostò leggermente la leva di rotazione, indietro per girare a destra, avanti per la sinistra, seguendo la lenta danza che la D-7 aveva iniziato, muovendosi cautamente su e giù come un pugilatore che cercasse un varco nella guardia dell'avversario. Tom tenne sempre la benna fra sé e la D-7, sapendo che non avrebbe potuto scagliarsi contro un arnese costruito per frantumare la roccia più du-
ra per venti ore al giorno, e trovar piacevole la cosa. Daisy Etta ruggì e si precipitò in avanti. Tom tirò indietro di colpo la leva di sollevamento, e la benna si alzò, e Daisy Etta vi passò sotto. Tom pigiò il comando d'apertura delle valve, e le grandi mascelle d'acciaio si aprirono facendo venir giù, dentro il cofano aperto, una cascata di marna che il ventilatore disperse in un'enorme nube ribollente. Tuttavia, l'istante che Tom impiegò per fermare la benna e scaricarla fu sufficiente perché Daisy Etta si togliesse di sotto con un passo di danza, giacché, quando tentò di far cadere la benna sulla D-7 per fracassare i tubi degli iniettori in cima al blocco del motore, l'altra macchina se n'era già andata. La polvere si diradò, e la D-7 tornò all'attacco, eseguendo una finta sulla sinistra, poi vibrò la lama contro la bella, che si era appena sollevata dal suolo. Tom curvò per andarle incontro, poiché quella finta l'aveva fatta avvicinare più di quanto gli piacesse, e la benna si scontrò con la lama producendo una pioggia di scintille e un clangore metallico che si sarebbe potuto udire a un chilometro di distanza. Daisy Etta era venuta avanti con la lama sollevata, e Tom lanciò un grido silenzioso quando vide che il telaio curvo dietro la lama era rimasto intrappolato fra due denti della benna. Impugnò il comando di sollevamento e la benna salì, trascinandosi dietro tutta la parte frontale del bulldozer. Daisy Etta balzò avanti e indietro, e i suoi cingoli morsero rabbiosamente il terreno, mentre alzava e abbassava la lama nel tentativo di liberarsi. Tom tirò su di nuovo la benna, cercando di trascinare più vicino il bulldozer, poiché il braccio era troppo basso per cercar di sollevare un simile peso morto. In quella posizione, uno dei cingoli dell'escavatore cominciò ad accennare a perder la presa sul terreno. E le frizioni dello scavo e della frizione non riuscirono a farcela da sole: cominciarono a scaldarsi e a slittare. Tom sollevò la benna un altro po'; il cingolo dell'escavatore si sollevò d'un palmo dal suolo. Tom imprecò e lasciò ricadere la benna, in un attimo la D-7 fu libera e corse via. Tom fece ruotare l'escavatore all'impazzata, cercando di colpirla, ma la mancò. La D-7 tornò all'attacco, descrivendo un'ampia curva; Tom prontamente girò l'escavatore per affrontarla frontalmente, e le vibrò un tremendo fendente che la colpì sulla lama. Questa volta, la D-7 non si ritirò dopo essere stata colpita, ma continuò ad avanzare, dritta, spingendo la benna davanti a sé. Prima che Tom si rendesse conto di quanto stava facendo, la sua benna era davanti ai cingoli e poi in
mezzo ad essi, al suolo. Era stata la manovra più abile e veloce che si potesse immaginare, e aveva tolto all'escavatore la possibilità di girare, fintanto che la Daisy Etta fosse riuscita a tener la benna imprigionata fra i cingoli. Tom manovrò furiosamente per liberarla, ma riuscì soltanto a sollevar re un altro po' il braccio, dal momento che non c'è niente che possa tener giù un braccio se non il suo stesso peso. Questo sollevarsi servì soltanto a far fumare le frizioni e a far scendere di giri il motore, a un livello pericolosamente basso, rischiando che si spegnesse. Tom imprecò di nuovo e calò la mano su un grappolo di piccole leve alla sua sinistra. Erano le marce. Su quel tipo di escavatore, la leva centrale controllava tutto salvo lo scavo e il sollevamento. Con la leva centrale l'operatore, dopo aver scelto la marcia, controlla gli spostamenti, vale a dire la forza motrice dei cingoli, in avanti e indietro; il sollevamento e l'abbassamento del braccio; e la rotazione. La macchina può fare soltanto una di queste cose per volta. Se è innestata la marcia sui cingoli, non può ruotare su se stessa. Se è innestata la rotazione, non può alzare né abbassare il braccio. In tanti anni di funzionamento, questa limitazione non aveva mai creato problemi a un operatore; ma adesso, tuttavia, non c'era niente di normale. Tom bloccò il comando della rotazione e innestò quello dello spostamento sui cingoli. Gli ingranaggi in questo caso erano a ganascia, non a frizione, cosicché fu costretto a toglier gas e a mettere il motore al minimo di giri per poter far ingranare i denti. Quando il Murphy scese di giri, Daisy Etta l'interpretò come il segnale che avrebbe potuto ripartire all'attacco, e si mise a cozzare furiosamente contro la benna. Tom aveva tutti i comandi in folle, ma tutto ciò che l'assalitrice riuscì a fare fu di affondare ancor più nel terreno con i suoi «tacchetti» nuovi e acuminati. Tom diede nuovamente gas e azionò la leva centrale. Vi fu un fragoroso crepitio di catene motrici, e i grossi cingoli dell'escavatore cominciarono a girare. Daisy Etta aveva flange larghe cinquantun centimetri, i suoi cingoli erano lunghi quattro metri e un terzo, e sopra c'erano quattordici tonnellate d'acciaio. Le enormi flange piatte dell'escavatore erano larghe novantun centimetri, i cingoli erano lunghi sei metri e reggevano un peso di quarantasette tonnellate. Il confronto era semplicemente impossibile. Il Murphy segnalò, col suo ruggito, che il lavoro era duro, ma non diede alcuna indicazione di volersi fermare. Daisy Etta compì l'incredibile impresa di innestare la marcia avanti mentre si muoveva all'indietro. Ma non le servì a
niente. I suoi cingoli continuarono a girare, cercando di spingerla in avanti, sprofondando sempre più nel terreno; e lentamente ma inesorabilmente fu costretta dall'escavatore ad arretrare fino alla parete liscia della cava. Tom udì dei rumori che non erano quelli di una macchina sotto sforzo; guardò fuori, e vide Kelly in alto, in cima alla cava, che fumava, i piedi penzoloni nel vuoto, sferrando ogni tanto pugni all'aria come se fosse seduto sui bordi di un ring ad assistere ad un incontro di pugilato, cosa che sicuramente doveva aver fatto. Adesso Tom dava al bulldozer pochissima scelta. Se la D-7 non si fosse tirata di lato davanti a lui, sarebbe stata schiacciata contro la parete della cava e il suo serbatoio del carburante ne sarebbe uscito fracassato. E c'erano tutte le possibilità che, dopo averla inchiodata in quella posizione, Tom potesse sbrogliare la benna, alzarla sopra di lei e farla a pezzi. E se si fosse girata prima d'essere costretta a forza contro la cava, avrebbe dovuto liberare la benna di Tom. In ogni caso, la benna sarebbe tornata libera. Il Murphy lo avvertì, ma non in tempo. Cantò in tono sommesso quando il carico si alleggerì, e allora Tom seppe che il bulldozer stava facendo marcia indietro. Tom azionò la leva di sollevamento della benna, e questa s'innalzò non appena la D-7 si allontanò da lui. Tom la mise in assetto di scavo e la lasciò cadere con uno schianto... e mancò il bersaglio. Poiché il bulldozer riuscì a schivarla con l'agilità di un ballerino... e mentre aveva innestata la marcia di sollevamento, l'escavatore non poteva esser fatto ruotare per seguirlo. Allora, la Daisy Etta partì alla carica, portò un cingolo sulla scarpata e quasi si ribaltò su un fianco proiettando in alto un'estremità della lama. La mossa giunse del tutto inaspettata, e Tom fu colto di sorpresa. La D-7 si scagliò contro la benna, e il bordo tagliente della lama s'infilò tra i denti. Questa volta c'era tutto il peso della D-7 per tener bloccata la benna in quella posizione. Non avrebbe avuto alcun modo di liberarsi, ma allo stesso tempo aveva intrappolato la benna così lontano dal perno centrale dell'escavatore che Tom non avrebbe potuto tirarla verso l'alto senza sbilanciarsi e far capottare il suo mostro. Daisy Etta si allontanò facendo marcia indietro, trascinando con sé la benna finché non fu fermata dai blocchi del paraurti. Poi il bulldozer cominciò a muoversi di lato come un granchio, contro la scarpata, ma quando Tom tentò di sollevare nuovamente la benna, Daisy Etta cambiò marcia e lo seguì, seppellendo profondamente nella scarpata un'intera estremità della sua lama.
Stallo. Daisy Etta aveva infilzato la benna, ma questa l'aveva immobilizzata. Tom tentò di arretrare, ma l'ancoraggio del bulldozer nella scarpata era troppo solido. Cercò di ruotare, di sollevare. Tutto quello che le frizioni sovraffaticate riuscirono a produrre fu del fumo. Tom grugnì e ridusse i giri al minimo, sporgendosi fuori dal finestrino. Anche Daisy Etta aveva messo il motore al minimo, molto chiassoso privo com'era di marmitta, uno strepito monotono e sgradevole dallo scappamento privo di tubo. Ma dopo i ruggiti dei due possenti motori, quel parziale silenzio era anch'esso assordante. Kelly chiamò Tom dall'alto. «Un doppio fuori combattimento, eh?» «Pare. Cosa ne diresti se tentassimo di avvicinarci a lei per calmarla un po'?» Kelly scrollò le spalle. «Non saprei. Se si è fermata sul serio, sarebbe la prima volta. Io ho molto rispetto per quell'arnese, Tom. Non si sarebbe cacciato in quel pasticcio se non avesse un asso nella manica». «Guardala, amico! Supponi che sia un bulldozer privo di follie omicide, e tu debba tirarlo fuori di là. Non può sollevare abbastanza in alto la sua lama per liberarla dai denti di quella benna, sai. Credi che tu saresti capace di farlo?» «Potrebbe volerci parecchio», fece Kelly, strascicando le parole. «Certo che è davvero in secca». «D'accordo. E se le inchiodassimo i cannoni?» «Per esempio?» «Per esempio, prendiamo delle sbarre e le sventriamo le tubature». Si riferiva alle tubature a spirale che portavano il carburante, sotto pressione, dalla pompa agli iniettori. Ce n'erano parecchi metri che partivano dalla pompa del serbatoio, formando spirali a espansione sopra la testa del cilindro. Mentre parlava, il motore di Daisy Etta esplose in quel maniacale sali e scendi che le era caratteristico. «Oh, guarda un po'!» gridò Tom, sovrastando il baccano. «Stava origliando!» Kelly si lasciò scivolar giù per il ripido pendio della cava. Salì sul cingolo dell'escavatore e infilò la testa nel finestrino. «Be', vuoi prendere una sbarra e tentare?» «Andiamo!» Tom andò alla cassa degli attrezzi e tirò fuori il palanchino che Kelly usava per sostituire i cavi nella sua macchina, poi balzò a terra. Si avvici-
narono con cautela al bulldozer. Daisy Etta aumentò di giri quando le furono vicini, cominciando a fremere. L'estremità frontale si alzò e si abbassò e i cingoli cominciarono a girare quando tentò di contorcersi per sgusciar fuori dalla morsa in cui la sua lama era rimasta intrappolata. «Sorella, prenditela con calma», le parlò Tom. «Così, finirai solo col seppellirti. Ora, resta ferma e prenditi quello che ti spetta, come una brava ragazza. Questo è il tuo turno». «Fai attenzione», intervenne Kelly. Tom sollevò la sbarra e appoggiò una mano sul parafango. Il bulldozer, letteralmente, rabbrividì, e dall'inserimento del tubo di gomma in cima al radiatore schizzò fuori un getto accecante d'acqua bollente. Si espanse a ventaglio e li colpì entrambi in pieno viso. Barcollarono all'indietro, imprecando. «Tutto a posto, Tom?» rantolò Kelly, un attimo più tardi. Il getto l'aveva colpito soprattutto sulla bocca e su una guancia. Tom era ginocchioni, la camicia sfilata dai calzoni, che si copriva il volto con le mani. «I miei occhi... oh, i miei occhi...» «Vediamo!» Kelly si lasciò cadere accanto a lui e gli afferrò i polsi, staccandoglieli con delicatezza dal viso. Fischiò. «Vieni», disse, digrignando! denti. Aiutò Tom ad alzarsi e lo condusse a qualche metro dalla macchina. «Rimani qui», gli disse, con voce rauca. Si girò, tornò di nuovo verso il bulldozer, agguantando il palanchino. «Brutta bastarda...!» urlò, e scagliò la sbarra come un giavellotto contro le spire dei tubi. Fu un po' troppo alto. Colpì il cofano disastrato e lasciò una nuova, profonda ammaccatura sul metallo. L'ammaccatura si raddrizzò subito, con perfetta elasticità, con un sonoro thung-g-g! e fece rimbalzare la sbarra contro di lui. Kelly la schivò; la sbarra passò sibilando sopra la sua testa e colpì Tom ai polpacci. Tom crollò a terra come un bue colpito al mattatoio, ma subito si rialzò, barcollando. «Vieni!» ringhiò Kelly, e afferrato Tom per il braccio lo spinse al riparo dietro la scarpata. «Siediti. Torno subito». «Dove vai, Kelly... Stai attento!» «E come no?» Le lunghe gambe di Kelly divorarono la distanza fino all'escavatore. Balzò dentro la cabina, portò la mano dietro di sé, sopra il motore e regolò la valvola principale del gas sul massimo. Passando dietro al seggiolino, tirò la manetta e il Murphy ululò. Poi azionò la leva di sollevamento della
benna fino al fermo, si voltò e saltò giù dalla macchina con un unico, agile movimento. Il tamburo dell'argano cominciò a girare e a tendere il cavo allentato il quale, sotto sforzo, si raddrizzò. La benna si mosse sotto il peso morto del bulldozer che gravava su di essa; e poi, lentamente, i grandi cingoli piatti cominciarono a sollevare le loro estremità posteriori dal suolo. La grande massa obbediente del macchinario barcollò in avanti sulle punte dei cingoli, il Murphy scese di giri sotto quel peso eccezionale, ma mantenne la tensione. Un trefolo del cavo doppiato dell'argano si spezzò e sferzò l'aria intorno, con uno schianto sonoro; poi il punto d'equilibrio fu superato... l'enorme macchina si sbilanciò dalla parte opposta... E l'escavatore si rovesciò, abbattendosi al suolo con uno schianto da terremoto. Il braccio, otto tonnellate di robustissimo acciaio, calò con assordante sferragliare sulla lama del bulldozer e là giacque, schiacciandolo sui denti della benna che già l'imprigionavano. Ora, Daisy Etta rimase lì senza più cercare di muoversi, imballando il motore impotente. Kelly le passò davanti a passo militaresco, facendole uno sberleffo, e tornò da Tom. «Kelly! Pensavo che non saresti più tornato! Cos'è successo?» «L'escavatore è andato a sbattere il naso per terra». «Bravo! È caduto sul bulldozer?» «Purtroppo no, ma il braccio è steso sopra la lama. La D-7 è come un topo in trappola». «Meglio stare attenti che il topo non si rosicchi via le gambe per uscirne fuori», replicò Tom, asciutto. «Il motore gira ancora, vero?» «Già. Ma quello lo sistemeremo in fretta». «Sì, certo. Come?» «Come? Non so. Dinamite, forse. Come funziona l'ottica?» Tom dischiuse alquanto gli occhi e grugnì: «Brutt'affare. Comunque, un po' riesco a vedere. Le palpebre sono mezze lessate. Dinamite, hai detto? Be'...» Tom si sedette con la schiena contro la scarpata e distese le gambe. «Senti, Kelly, ho avuto poco tempo in queste ultime ore per riflettere, ma c'è una cosa continua a ossessionarmi... qualcosa che rimuginavo già molto tempo prima che voi ragazzi vi rendeste conto che stava succedendo qualcosa, oltre al fatto che Rivera era rimasto ferito in qualche modo che non volevo rivelarvi. Ma non credo che mi prenderai per pazzo se adesso aprirò la bocca e vuoterò il sacco».
«D'ora in avanti», replicò Kelly, con fervore, «nessuno sarà più giudicato pazzo. Dopo tutto quello che ho visto, sono disposto a credere qualunque cosa». «Va bene. Dunque, per ciò che riguarda il bulldozer. Cosa credi ci sia entrato dentro?» «E come faccio a saperlo?» «No... non dirlo. Ho l'impressione che non possiamo fermarci al "non lo so". Dobbiamo sviscerare tutti gli aspetti di questa faccenda, prima di sapere il modo esatto in cui dobbiamo agire. Mettiamo un po' le cose in ordine. Quando è cominciato? Lassù, accanto al poggio sul piccolo altopiano. E come? Rivera stava aprendo un vecchio edificio con la Sette. Questa cosa è uscita fuori d'i lì. Ora, ecco a cosa sto puntando. Possiamo dire di conoscere almeno due cose sul suo conto: è intelligente. E può entrare soltanto dentro una macchina, non dentro un uomo. Può...» «Ma come fai a sapere che non può entrare in un uomo?» «Perché ne ha avuto parecchie possibilità, e non l'ha fatto. Ero in piedi, lassù, proprio accanto all'apertura quando è scivolato fuori. In quel momento, Rivera era sopra la macchina. Non ci ha fatto niente di male, né a Rivera né a me, almeno direttamente. È entrata nel bulldozer, ed è stato il bulldozer a combinarci tutti i guai. Insomma, quel "qualcosa" non può fare nessun male a un uomo, quando si trova fuori da una macchina; ma quando è dentro a una macchina, sembra ossessionato da una follia omicida, e nient'altro. Giusto? «Per continuare: quando è entrato in una macchina, non può più uscirne. Lo sappiamo, perché ha avuto possibilità in abbondanza anche per questo, e non ne ha mai approfittato. Quello scontro con l'escavatore, per esempio. Il mio volto sarebbe una polpetta rossa di sangue, se avesse preso possesso dell'escavatore, e puoi giurarci che l'avrebbe fatto, se avesse potuto». «Finora ti ho seguito perfettamente. Ma cosa possiamo farci?» «È questo il punto. Vedi, non credo sia sufficiente fracassare il bulldozer. Dovremmo bruciarlo, distruggerlo completamente, per far fuori del tutto ciò che gli è entrato dentro lassù sul poggio, qualunque cosa sia». «D'accordo. Ma non vedo cos'altro si possa fare, salvo distruggere il bulldozer. Quello che c'è entrato dentro... noi non sappiamo niente di che cosa sia. E allora, come possiamo...» «Credo invece che qualcosa sappiamo. Ricorda tutte quelle curiose domande che ti ho fatto sull'arco che ha ucciso Peebles. Be', quando è successo, mi sono ricordato parecchie altre cose. Primo: quando quella cosa è
uscita da quel buco, lassù, ho annusato quello stesso odore che senti quando stai saldando, e anche quando un fulmine ti cade parecchio vicino». «Ozono», spiegò Kelly. «Già, l'ozono... E poi, gli piace il metallo, non la carne. Ma, soprattutto, c'è stato quell'arco. Ora, un arco come quello è stato una cosa del tutto eccezionale. Sai quanto me — anzi, molto meglio di me — che un generatore ad arco semplicemente non ha la forza di fare una cosa simile. Non può uccidere un uomo, e non può proiettare un arco a una distanza di quindici metri. Ma lo ha fatto. Ed è per questo che ti ho chiesto se non poteva esserci qualcosa — un campo o qualcosa di simile — che potesse succhiare, aspirare la corrente da un generatore, più veloce di quanto possa scorrere normalmente. Perché questa cosa è elettrica; lo si sente...» «Elettrica...» disse Kelly, dubbioso, riflettendo. «Elettrica, elettronica, non so. Ma torniamo a quando Peebles è stato ucciso. È capitata, allora, una cosa ben strana. Ricordi quello che ha detto Chub? La Sette aveva fatto marcia indietro — in linea retta, per circa dieci metri — fino a quando non è andata a urtare, con la parte posteriore, contro un rullo compressore. L'ha fatto senza nessun combustibile nel motorino d'avviamento — senza neppure usare il motorino d'avviamento, se è per questo — e con la valvola della compressione aperta e bloccata in quella posizione! «Kelly, quella cosa dentro il bulldozer non può far molto, quando ci si riflette. Non è riuscita ad autoripararsi dopo quella gita di piacere lassù al poggio. Non può far combinare alla macchina più cose di quante il dozer riesca a fare di solito. Ciò che in realtà può fare, almeno questo mi sembra, è far sì che una molla prema invece di tirare, e così pure le leve dei comandi, o che un fermo scivoli quando invece dovrebbe tenere, come ad esempio il dente di arresto della manetta del gas. Può far girare una manovella, allo stesso modo in cui accende da sola il motorino d'avviamento. Ma se fosse davvero tanto brava, non avrebbe bisogno del motorino d'avviamento! Mi pare che l'impresa più grande in assoluto che abbia combinato finora sia stata quella di allontanarsi dalla saldatrice dopo che Peebles ci ha lasciato le cuoia. Ora, perché l'ha fatto proprio allora?» «Presumo che non gli piacesse la puzza dello zolfo, com'è scritto nel libro sacro», rispose Kelly, acido. «Mi pare che tu ci sia andato molto vicino. Ora, Kelly... questa cosa... sente. Voglio dire, reagisce, si irrita. Se così non fosse, non avrebbe mai continuato a spingere in quel modo contro l'escavatore. Non ti pare? Ma se
fa e sente tutte quelle cose, allora... può anche aver paura!» «Paura? E perché dovrebbe aver paura?» «Ascolta. Qualcosa è successo a quella cosa, quando l'arco l'ha colpita. È quanto ho letto una volta su una rivista... un articolo sul calore, qualcosa sulle molecole che si mettono a correre tutt'intorno come galline impazzite alle quali hanno tagliato la testa, quando vengono riscaldate». «Sì, le molecole fanno questo. Accelerano parecchio il loro movimento, quando vengono investite da un flusso di calore. Ma...» «Ma niente. Quella macchina è rimasta calda per quattro ore, dopo quanto ha combinato. Ma era calda in maniera strana. Non soltanto intorno al punto dove l'arco l'aveva colpita, come se fosse un arco da saldatura. Ma era calda dappertutto... dal vomere al tappo del serbatoio del carburante. Calda dappertutto, ti dico. E calda nello stesso modo sul lato posteriore del motore come nel punto della lama su cui il povero Peebles aveva appoggiato la mano». Tom si stava eccitando man mano le parole davano forma concreta alle sue idee. «E guarda un po': aveva paura, tanta paura da arretrare davanti a quel saldatore. E dopo, è stata male. Lo dico perché, durante tutto il tempo che ha avuto dentro di sé quel qualunque-cosa-sia, ha sempre cercato di ammazzare tutti gli uomini a cui è stata vicina, salvo durante i due giorni successivi al momento in cui l'arco l'aveva colpita. Ha avuto abbastanza forza da rimettersi in moto, quando Dennis è arrivato con la manovella, ma ha pur sempre avuto bisogno che qualcuno di noi la manovrasse, per ricominciare». «Ma perché non si è girata e non ha subito fracassato quel saldatore, quando Dennis l'ha rimessa in moto?» «Ci sono due ipotesi. Non ne aveva la forza, oppure le è mancato il coraggio di farlo. Aveva paura, soprattutto, e probabilmente per prima cosa ha voluto correr via, allontanarsi il più possibile». «Ma aveva tutta la notte per tornare!» «Aveva ancora troppa paura. Oppure... sì, ecco! Prima, aveva altre cose da fare. La sua idea fissa era, soprattutto, quella di uccidere gli uomini... non si può pensare altro. È per questo che esiste, che sia nata così o che qualcuno l'abbia fatta così. Non mi riferisco al bulldozer, una macchina non può esser buona o cattiva. Sto parlando della cosa che la sta guidando». «Ma cos'è mai?» domandò Kelly. «Hai detto che è uscita fuori da quel vecchio edificio, lassù, un tempio, o qualunque altra cosa sia. Ma quanto è
antica, allora? E per quanto tempo è rimasta là dentro?» «Ciò che l'ha tenuta dentro era una strana cosa grigia che rivestiva l'interno dell'edificio», disse Tom. «Sembrava insieme roccia... e fumo. «Era di un colore che ti faceva paura soltanto a guardarlo, e ha fatto accapponar la pelle a me e a Rivera, quando ci siamo avvicinati. Non chiedermi cosa fosse. Quando sono salito là sopra per darci un'occhiata più da vicino, era scomparsa. Scomparsa dall'edificio, ad ogni modo. C'era un piccolo grumo di quella roba per terra. Non so se fosse un pezzo, o tutto l'insieme arrotolato a palla. Mi sento accapponare la pelle al solo pensarci». Kelly si alzò in piedi. «Oh, al diavolo. Abbiamo sbattuto le gengive anche troppo, qua. C'è abbastanza senso, in quanto mi hai detto, da volermi far tentare qualcosa d'insensato, se capisci ciò che voglio dire. Se il saldatore può far sudare tanto quel vecchio satanasso da farlo schizzar fuori dal bulldozer, io sono pronto. Specialmente da quindici metri di distanza. Dovrebbe esserci un Dumptor, qui vicino. Partiamo da là. Riesci a orientarti, adesso?» «Penso di sì, almeno un po'». Tom si alzò in piedi a sua volta, e insieme costeggiarono la scarpata finché non arrivarono al Dumptor. Vi salirono, lo misero in moto, e puntarono verso il campo. Circa a metà strada, Kelly si voltò a guardare, rantolò, e avvicinata la bocca all'orecchio di Tom, urlò per vincere il rombo del motore: «Tom, ricordi cosa hai detto su un topo in trappola che si morde via le zampe?» Tom annuì. «Be', Daisy Etta l'ha fatto anche lei! Ha lasciato la lama e i bracci, e adesso ci sta inseguendo!» Entrarono nel campo col motore ululante, boccheggiando per la nuvolaglia di polvere che li investì quando si fermarono accanto al saldatore. Kelly disse: «Dai un'occhiata intorno, per vedere se ti riesce di trovare un perno per agganciare quell'arnese al timone del Dumptor. Io vado a cercare dell'acqua e qualcosa da mettere sotto i denti». Tom sogghignò. Immaginatevi! Il vecchio Kelly che si dimentica che un Dumptor non ha timone... Frugò nella cassa degli attrezzi, sbirciando fuori dalla sottile fessura tra le palpebre rigonfie, tastò dentro di essa e trovò una chiavarda. Salì poi sul Dumptor, lo fece girare e fece marcia indietro fino al saldatore. Passò la chiavarda attraverso l'anello in fondo al timone del saldatore, vi avvitò il perno, e lasciò cadere la chiavarda sopra il gancio da
rimorchio dietro al Dumptor. Essendo un Dumptor quello che era, non avendo un vero davanti né un vero dietro, ed essendo dotato di una serie completa di retromarce corrispondente alle marce in avanti, non fu un problema manovrarlo all'«indietro», tanto per cambiare. Kelly tornò di corsa, col fiato mozzo. «A posto? Bene. Una chiavarda? Niente timone! Daisy Etta si sta avvicinando in fretta. Io dico di scendere giù alla riva. Ci terremo defilati finché non ci troveremo in una posizione di assoluto vantaggio, e il terreno mi sembra buono, finché questo trabiccolo non sprofonderà nella sabbia». «Bene», commentò Tom, quando salirono. Accettò una scatoletta di cibo. «Soltanto, vai piano; se sobbalziamo troppo, il saldatore si sfilerà dal gancio. E si dà il caso che per qualche motivo io non ci tenga a perderlo proprio adesso». Partirono risalendo la spiaggia a tutta birra. Mezzo chilometro più avanti avvistarono la D-7 sul lato opposto del pianoro: il bulldozer girò di colpo e scelse la direzione giusta per intercettarli. «Eccola che viene!» gridò Kelly, e schiacciò con forza l'acceleratore. Tom si sporse dallo schienale del seggiolino, gli occhi puntati sul loro rimorchio. «Ehi! Più piano! Stai attento!» «Ehi!» Ma era troppo tardi. Il timone del saldatore saltò via dal gancio, a causa di uno di quei troppo numerosi scossoni. La chiavarda uscì fuori dal gancio, il saldatore ondeggiò paurosamente, sterzando tutto a sinistra. Il timone ricadde sulla sabbia e vi affondò. La macchina vi passò sopra e lo ruppe, e finalmente si fermò, inclinata pazzescamente su un lato. Per puro miracolo non si era rovesciata. Kelly schiacciò i freni, e le teste dei due uomini fecero uno sforzo tremendo per non staccarsi dalle rispettive spalle. Tom e Kelly balzarono a terra e tornarono indietro di corsa verso il saldatore. Era intatto, ma adesso dovevano scordarsi l'intenzione di rimorchiarlo. «Se ci sarà una resa dei conti, dovrà avvenire qui». In quel punto la spiaggia era larga una trentina di metri, la sabbia formava una distesa quasi pianeggiante, e il lato della spiaggia verso terra era formato da una serie di piccoli rialzi coperti d'erba coriacea. Mentre Tom rimase col saldatore, controllando il funzionamento del generatore e dei contatti, Kelly salì su uno di quei bassi rilievi, si drizzò su di esso e scrutò la spiaggia nella direzione da cui erano venuti. All'improvviso cominciò a
urlare e ad agitare le braccia. «Cosa ti ha preso?» «È Al!» annunciò Kelly, con un grido. «Con uno dei vagli!» Tom interruppe ciò che stava facendo e raggiunse Kelly là sopra. «Dov'è la Sette? Non riesco a vedere». «Si è infilato sulla spiaggia e sta seguendo le nostre tracce. Al! Al! Piccolo fetente, vieni qui!» Adesso Tom riuscì a intravedere vagamente il vaglio che veniva direttamente verso di loro, lungo la spiaggia. «Non ha visto la Daisy Etta», osservò Kelly, disgustato, «altrimenti avrebbe girato dall'altra parte». A una cinquantina di metri di distanza, Al fermò la macchina e diminuì il gas. Kelly urlò e agitò le braccia verso di lui. Al si alzò in piedi sulla macchina, portò le mani a coppa intorno alla bocca e gridò: «Dov'è la Sette?» «Lascia perdere! Piuttosto, vieni qui co! vaglio!» Al rimase dov'era. Kelly imprecò e si mise a correre verso di lui. «Stai lontano da me», disse Al, quando Kelly gli fu più vicino. «Adesso non ho tempo di occuparmi di te», replicò Kelly. «Porta quel vaglio giù sulla spiaggia». «Dov'e Daisy Etta?» La voce di Al suonò stranamente tesa. «Proprio dietro di noi», disse Kelly, indicando dietro le sue spalle col pollice. «Sulla spiaggia». Gli occhi sporgenti di Al si spalancarono, con un ticchettio quasi udibile. Girò sui tacchi e saltò giù dalla macchina, mettendosi a correre. Kelly pronunciò una sillaba muta che in qualche modo più oscena di qualunque cosa avesse mai pronunciato ad alta voce, e con un volteggio balzò sul seggiolino della macchina. «Ehi!» gridò all'indirizzo della figura di Al, che andava rimpicciolendo in fretta. «Le stai correndo proprio incontro!» Al parve non aver udito e continuò come un razzo lungo la spiaggia. Kelly mise il vaglio in quinta e diede tutto il gas possibile. Quando la macchina cominciò a muoversi, tolse la frizione principale e azionò il moltiplicatore di velocità per metterla in sesta, poi reinserì la frizione, tutto così in fretta che la macchina neppure fece in tempo a rallentare. Impennandosi e rimbalzando sulla superficie accidentata, la macchina si lanciò, con un alto gemito, attraverso la spiaggia. Tom si era rimesso ad armeggiare intorno al saldatore. Le orecchie, assai meglio degli occhi, gli dicevano a quale distanza si trovava la D-7, poiché
il bulldozer non era certo un usignolo, senza la marmitta sul tubo di scappamento. Kelly, con la sua macchina, raggiunse Tom. «Spingi da dietro», sbottò Tom. «Bloccherò l'asta di collegamento con la chiavarda, e tu vedi se non ti riesce di portarlo nell'avvallamento fra quelle collinette. Solo, vacci piano se non vuoi fare a pezzi il generatore. Dov'è Al?» «Non chiedermelo. Si è messo a correre lungo la spiaggia incontro a Daisy Etta». «Ha fatto... cosa?» Il gemito della due tempi soffocò la risposta di Kelly, ammesso che ve ne fosse stata una. Si portò dietro al saldatore e vi appoggiò contro la lama del vaglio. Poi, col motore al minimo di giri, inserendo soltanto un po' di frizione, spinse lentamente la macchina verso il punto che Tom gli aveva indicato. Era una piccola concavità fra due alti banchi di sabbia. La risacca e i segni dell'alta marea arrivavano fin qui; l'acqua era soltanto a pochi metri di distanza. Tom alzò il braccio, e Kelly si fermò. Dall'altro lato della sporgenza sabbiosa, adesso fuori dalla loro vista, giunse il rombo monotono dello scappamento della D-7. Kelly saltò giù dalla macchina e andò ad aiutare Tom, che stava freneticamente scaraventando rotoli di cavo fuori dalla rastrelliera, sul retro del saldatore. «Cos'hai in mente di fare?» «Dobbiamo sistemare in qualche modo e per sempre quella Sette», ansimò Tom. Gettò l'ultimo tratto di cavo, dopo averlo sdipanato, e si voltò verso il quadro dei comandi. «Com'era...? All'incirca sessanta volt e l'amperaggio sulle "applicazioni speciali"?» Girò le monopole, schiacciò il pulsante di accensione. Il motore reagì subito. Kelly raccolse da terra il morsetto e il portaelettrodo e li accostò. Il regolatore elettromagnetico scattò e il motore prese a ronzare, mentre si sprigionava una grossa, vivida scintilla. «Bene», commentò Tom, spegnendo il generatore. «Sù, grande mago General Electric, trovami il modo di mettere a massa quella bestiaccia». Kelly strinse le labbra, scosse la testa. «Non so... a meno che qualcuno non le attacchi direttamente quest'affare addosso...» «No, ragazzo, non puoi farlo tu. Se c'è uno di noi due che deve correre il rischio di restare ucciso...» Kelly lanciò pigramente in aria il morsetto. Il suo agile corpo era sotto tensione. «Non raccontarmi storie, Tom. Sai benissimo che sono io quello che deve andare, perché tu non riesci ancora a vederci a sufficienza per
farlo. E sappiamo benissimo tutti e due che, se i tuoi occhi fossero a posto, saresti tu a farlo. Ma...» S'interruppe di colpo, poiché il rombo della D-7 aveva cessato di avvicinarsi, e ora il motore saliva e scendeva di giri con quei colpi strozzati e irregolari che erano la caratteristica di Daisy Etta. «E adesso, che le ha preso?» Kelly si allontanò da Tom lo seguì, e se ne stettero distesi fianco a fianco, sbirciando fuori oltre la sommità della duna, fino a quello straordinario spettacolo. Daisy Etta era immobile sulla spiaggia, vicino all'acqua, Davanti a lei, a otto o dieci metri di distanza, c'era Al Knowles, le braccia protese in avanti, che blaterava come impazzito. Daisy faceva troppo baccano perché si riuscisse a sentire ciò che stava dicendo, «Pensi che abbia abbastanza fegato da tenerla in posizione di stallo per noi?» chiese Tom. «Se così fosse, sarebbe la cosa più strana che sia accaduta finora su questa vecchia isola», mormorò Kelly, «e non è certo poco». La D-7 diede un'accelerata a vuoto fino a imballarsi completamente, scossa da un tremito, poi tolse il gas. Il motore scese talmente di giri da far loro credere, quasi, che si fosse spento, poi si riprese agli ultimi due giri e prese a ronzare al minimo. Così, riuscirono a sentire. La voce di Al era acuta, isterica: «... sono venuto ad aiutarti, sono venuto ad aiutarti, non uccidermi, ti aiuterò...» Fece un passo avanti; il bulldozer sbuffò, quando Al cadde sulle ginocchia. «Ti laverò, t'ingrasserò e ti cambierò l'olio...» continuava a ripetere con voce cantilenante. «Quell'individuo non è umano», bofonchiò Kelly, sbigottito. «È una bestia», ridacchiò Tom. «... lascia che ti aiuti. Ti riparerò quando ti romperai. Ti aiuterò a uccidere gli altri due...» «Non ha bisogno di nessun aiuto», disse Tom. «Lo schifoso!» ringhiò Kelly. «Quel sudicio, maledetto traditore di una puzzola!» Si alzò in piedi: «Ehi, tu, Al! Esci fuori di lì! Adesso, subito! Se non ti ammazzerà lei, lo farò io, se non ti muovi». Adesso Al stava piangendo. «Taci!» urlò. «So chi comanda qui attorno....e anche tu lo sai!» Indicò il bulldozer. «Ci ucciderà tutti se non faremo quello che vorrà!» Tornò a girarsi verso la macchina. «Li ucciderò io, per te. Ti laverò e ti riparerò il cofano. Ti rimetterò la lama...» Tom allungò una mano e afferrò Kelly per la gamba quando l'uomo alto
e snello fece per precipitarsi via di corsa, accecato dalla collera. «Torna qui!» sbraitò. «Cosa vuoi fare... farti uccidere per il privilegio di prenderlo a pugni?» Kelly rinunciò e si buttò nuovamente al suolo accanto a Tom. Si prese il volto tra le mani; tremava tutto di collera. «Non prendertela così», continuò Tom. «Quell'uomo è completamente inebetito. Non potresti discutere con lui più di quanto tu non possa fare con Daisy. Se vuole rimetterci la pelle, ci penserà Daisy Etta ad accontentarlo». «Ah, Tom, non è questo. So che è un essere indegno, ma non posso restarmene disteso qui a guardare, mentre si fa uccidere. Non posso, Tom». Tom gli batté la mano sulla spalla, poiché, semplicemente, non c'erano parole da dire. D'improvviso s'irrigidì, fece schioccare le dita. «Ecco la nostra massa», disse in fretta, indicando il mare. «L'acqua... il tratto umido di spiaggia dove batte la risacca. Se riuscissimo a piazzare là fuori il nostro morsetto e a far si che lei arrivi da qualche parte vicino adesso...» «Fissiamo il cavo elettrico al vaglio, allora. E dirigiamo il trattore in acqua. Dovrebbe arrivarci». «D'accordo... mettiamoci al lavoro». Scivolarono giù dalla scarpata, presero su il morsetto della messa a terra, lo attaccarono al telaio del vaglio. «Lo guido io», disse Tom, e quando Kelly aprì la bocca per protestare, Tom lo spinse verso la saldatrice. «Non c'è tempo da discutere», sbottò, balzò sulla macchina, innestò la marcia e partì. Kelly fece un passo, come per rincorrerlo, poi con una fulminea occhiata vide che un cappio del cavo stava per impigliarsi intorno a una ruota del saldatore. Si curvò e lo scostò con un colpo della mano, filando poi il resto perché scivolasse via senza inciampi. Tom, con l'incredibile, disinvolta abilità dell'operatore addestrato, teneva gli occhi puntati sulla linea nera del cavo che si srotolava sulla sabbia dietro di lui. Quando il cavo fu teso in una perfetta linea retta, si fermò. La parte frontale dei cingoli diguazzava nella lieve risacca. Tom scese giù sul lato opposto a quello dov'era piazzata la D-7 e aguzzò gli occhi dietro le palpebre sofferenti. C'era del movimento, poiché udì il motore della Sette ringhiare, salendo un po' di giri, ma non riuscì a distinguere molto. Kelly prese su il portaelettrodo e andò a scrutare, affacciandosi oltre la duna. Al era lì, davanti alla macchina, sempre intento a blaterare isterico, e
avanzava obliquamente verso Daisy Etta. Kelly tornò indietro, camminando curvo, fece scattare l'interruttore del generatore, si arrampicò sul pendio e strisciò attraverso la distesa d'erba coriacea che correva parallela alla spiaggia, fino a quando il portaelettrodo che stringeva in mano tirò, e allora seppe di aver raggiunto la massima lunghezza del cavo. Aguzzò gli occhi verso la riva. Non avrebbe in nessun modo potuto avvicinarsi a meno di ventun metri dalla macchina posseduta, per non parlare di quindici. Bisognava ad ogni costo attirare la D-7 più vicina. E doveva, in qualche modo, essere spinta sulla sabbia umida, o meglio ancora, nell'acqua... Al Knowles, incoraggiato dall'apparente decisione della macchina di non muoversi, si avvicinò di più ad essa, sia pure con cautela, e sempre continuando nella sua sconnessa logorrea: «... li uccideremo, poi aspetteremo in segreto, e quando verranno gli altri delle chiatte, ci porteranno via dall'isola, e noi andremo in altri posti, e ne uccideremo tanti altri ancora... e quando i tuoi cingoli avranno consumato il lubrificante e cingoleranno, noi li ungeremo col sangue, e tu sarai la regina dell'isola... guarda laggiù, guarda laggiù, Daisy Etta, uccidili, non li vedi, là, vicini all'altra macchina? Eccoli là, uccidili, Daisy, uccidili, Daisy, e lascia che ti dia una mano anch'io... mi senti, Daisy, mi senti?, dico, mi senti...» E il motore ruggì in risposta. Al appoggiò timidamente la mano sul paraurti del radiatore, sporgendosi molto in avanti verso di esso, e la macchina restò ancora immobile, sempre borbottando. Al fece un passo indietro, fece un gesto col braccio, cominciò a camminare lentamente verso il vaglio, guardando dietro di sé mentre lo faceva, come un uomo che stesse addestrando un cane. «Su vieni, vieni, ce n'è uno là, uccidiamolo, uccidiamolo, uccidiamolo...» E, in una sbuffata, il bulldozer salì ancor più di giri e lo seguì. Kelly, si leccò le labbra, ma senza risultato, poiché anche la sua lingua era asciutta. Il pazzo gli passò davanti, di traverso alla spiaggia, e il bulldozer, adesso ridotto soltanto a un trattore, lo seguì. E là, la sabbia era asciutta come ossa disseccate, inaridita dal sole, prosciugata e ridotta in polvere. Quando la Sette gli passò davanti, Kelly si sollevò a quattro zampe, superò la cresta della collinetta, discese nella spiaggia e si acquattò là sotto. Al continuava a blaterare: «Ti amo, tesoro, ti amo, davvero ti amo» Kelly si mise a correre, tutto ripiegato su se stesso, come un uomo costretto a uscire all'aperto sotto il fuoco di una mitragliatrice, e mentre si fa-
ceva il più piccino possibile, si sentiva grande come la porta d'un granaio. Si trovò a correre là dove la sabbia era stata sconvolta dal passaggio dei cingoli; e si fermò, timoroso di avvicinarsi troppo, e altresì che un arco elettrico troppo debole, malamente messo a terra, potesse schizzar fuori dal portaelettrodi, con l'unico risultato di allarmare e infuriare la «cosa» dentro la D-7. E proprio in quel momento Al lo vide. «Là!» gridò; e la D-7 si arrestò di botto. «Dietro di te! Prendilo, Daisy! Uccidilo, uccidilo, uccidilo!» Quando la D-7 cominciò a girare, vi fu un movimento accanto al vaglio. Era Tom che saltava giù, urlando, agitando le braccia, imprecando. Uscì fuori di corsa da dietro la macchina, puntando direttamente verso la Sette. Il motore di Daisy Etta rombò e questa ruotò nuovamente, puntando verso di lui. Al riuscì a evitarla per un pelo, con un guizzo da ballerino. Tom cambiò improvvisamente direzione, con la sabbia che schizzava da sotto i suoi piedi azionati come stantuffi, e corse direttamente dentro l'acqua. Avanzò fin dove l'acqua gli arrivava alla cintura, poi, all'improvviso, scomparve. Riemerse, schiumeggiando, e riprese a gridare. Kelly strinse sempre più saldamente in portaelettrodo e a sua volta si lanciò di corsa. Daisy Etta, nell'inseguire Tom che era corso via a gran velocità, aveva sterzato, accostandosi a soli cinque metri dal vaglio; anch'essa, adesso, era finita sulla sabbia bagnata dalla risacca. Kelly superò la distanza con tutta la rapidità consentitagli dalle lunghe gambe, ma quando si avvicinò entro i cruciali quindici metri, Al lo colpì. Al schiumava e farfugliava suoni inintelligibili. I due uomini si scontrarono in pieno; la testa di Al colse Kelly al ventre, dopo aver sparato un diretto a vuoto. Il fiato uscì a Kelly in un fragoroso uòooosh!, mentre crollava giù e il mondo intero divenne per lui una turbinante nebbia grigiorossastra. Al si gettò addosso a lui, nonostante la differenza di peso, e l'artigliò, schiaffeggiandolo, troppo isterico e folle per stringere le mani a pugno. «Ti ucciderò», gorgogliava, «lei ne farà fuori uno, io l'altro, così lei saprà che io...» Kelly si riparò il viso con le braccia, e non appena poté riempirsi di nuovo i polmoni doloranti, le proiettò verso l'alto, rizzandosi a sedere con una spinta poderosa. Al fu scagliato via, di lato, e quando toccò terra, Kelly proiettò il lungo braccio, agguantando i suoi ruvidi capelli, sollevò di peso la testa e il tronco, e con l'altro pugno gli mollò un colpo che l'avrebbe ucciso se l'avesse centrato in pieno. Ma Al riuscì a scostarsi di lato quel tanto
che bastava, così il pugno si limitò a scortecciargli profondamente una guancia. Al cadde giù e giacque immobile. Kelly cercò frenetico il portaelettrodo nella sabbia intorno a sé. Lo trovò, si rialzò e riprese a correre. Adesso, non riusciva più a vedere Tom, la Sette era nel bagnato e si muoveva lentamente da destra a sinistra, indietreggiando, sempre assetata di sangue. Kelly impugnò strettamente il morsetto del portaelettrodo, trascinandosi dietro il cavo, e corse dritto, quasi per puro, disperato istinto, verso la macchina. E poi venne... quella sottile e silenziosa scarica elettrica. Ma questa volta aveva davvero tutta la sua forza, la messa a terra non era il povero, sventurato corpo del vecchio Peebles, bensì quell'enorme quantità d'acqua spumeggiante. Daisy Etta compì un tremendo balzo all'indietro, l'acqua sprizzò via dai suoi cingoli sotto forma di vapore rovente. Il rombo del suo motore crebbe e crebbe ancora, s'interruppe, assunse il ritmo irregolare d'un batterista di swing. Si dibatté selvaggiamente come un gatto al quale la testa fosse stata cacciata dentro un sacco. Kelly si avvicinò un po' di più, sperando che una seconda scarica balzasse fuori dall'elettrodo che stringeva in mano, ma non ne sprizzò nessuna, poiché... «L'interruttore!» gridò Kelly. Scagliò il portaelettrodo sulla pedana della D-7, davanti al seggiolino, e attraversò di corsa la sabbia diretto al saldatore. Spinse la mano dietro il quadro dei comandi, schiacciò il pollice sul pulsante, con forza. Daisy Etta si accavallò una seconda volta, una terza, e tutto d'un tratto il suo motore si fermò. Il calore usciva in turbolente ondate, offuscando l'aria sopra di lei. Il piccolo serbatoio di benzina del motorino d'avviamento scoppiò con un rombo di cannone, e il grosso serbatoio del carburante che conteneva ancora un centinaio di litri di gasolio lo seguì. Più che splodere, si aprì con una sbuffata, e scagliò una vivida cortina di fiamme dietro alla macchina. Motore o non motore, Kelly vide allora la D-7 rabbrividire convulsamente. Vi fu un movimento strisciante dell'intero telaio, una lieve ondata di movimento che partì dal serbatoio del carburante e dai cingoli e si proiettò sul davanti della macchina e in alto. Culminò sul radiatore, proprio davanti al tappo; e tutto d'un tratto, un'area di quindici-diciotto centimetri quadrati letteralmente si offuscò. Per un attimo tutto restò normale, poi l'area offuscata si afflosciò, fusa, dal metallo liquido scorse giù dai lati, proiettando minuscole scintille quando incontrava ciò che era rimasto della vernice carbonizzata. Soltanto allora Kelly fu conscio del lancinante dolore che provava alla
mano sinistra. Guardò giù. Il generatore del saldatore si era fermato, anche se il motore girava ancora, avendo fracassato il fragile dispositivo di accoppiamento del suo albero motore. Nuvolaglie di fumo sgorgavano dal generatore, che era divenuto poco più di un mucchio di ferraglia e scorie. Kelly non urlò, tuttavia, finché non guardò e non vide cos'era successo alla sua mano... Quando riusci di nuovo a guardare, chiamò Tom ma non ci fu risposta. Finalmente, vide qualcosa là fuori, nell'acqua, e si tuffò dietro ad essa. Sentì appena l'acqua salata sbattergli sulla mano sinistra, intorpidita dal trauma. Agguantò la camicia di Tom con la mano rimastagli sana, e poi il terreno parve mancargli sotto i piedi. Ecco cos'era dunque: una buca profonda appena al largo dalla spiaggia. La Sette era corsa fin proprio all'orlo, e aveva spinto Tom là fuori, dove l'acqua era profonda, e... Sferzò l'acqua, nuotando verso la spiaggia, così vicina eppure così difficile da raggiungere. Inghiottì senza farlo apposta un'abbondante boccata d'acqua marina, ma, infine, una leggera botta al ginocchio l'avvertì che era nuovamente a riva, e gl'impedì di lasciarsi andare a fondo e affogare. Singhiozzando per lo sforzo, trascinò a riva il corpo di Tom, fin oltre il punto estremo della risacca. Fu allora che divenne conscio del pianto acuto di un bambino; per un folle istante, credette d'essere lui stesso a produrre quel suono, poi aguzzò gli occhi e vide che era Al Knowles. «Alzati!» gli ringhiò. Ma riuscì soltanto a far aumentare il pianto d'intensità. Kelly lo spinse, facendolo rotolare sulla schiena, e Al non oppose nessuna resistenza; allora cominciò a prenderlo a sberle, fino a quando Al non cominciò a soffocare. Poi lo tirò in piedi a forza e lo condusse da Tom. «Inginocchiati, farabutto. Metti un ginocchio fra i suoi». Al restò immobile. Kelly lo colpì di nuovo, e stavolta Al fece quanto gli era stato richiesto. «Mettigli le mani sulle costole, là in basso. Bene, adesso spingi, carogna. E adesso lascia andare». Kelly si mise seduto, reggendosi il polso sinistro con la mano destra, lasciando che il sangue gli colasse dalla mano martirizzata. «Spingi. Fermo... lascia andare. Spingi, lascia andare. Spingi, lascia andare». Ben presto Tom esalò un sospiro e cominciò ad avere deboli conati di vomito, e dopo fu a posto. Questa è la storia della Daisy Ella, il bulldozer che impazzì ed ebbe vita
propria, e non la storia della portaerei Marokuru, della Marina imperiale giapponese, che è già stata raccontata altrove. Ma c'è un collegamento. Ricorderete come la Marokuru fosse stata tagliata fuori dalla sua base a causa dell'attacco concentrato contro Truk, come si allontanasse molto dalla sua rotta, finendo per ottenere affondata vicino alle nostre coste più di qualunque altra nave da guerra giapponese durante l'intero corso della guerra. E ricorderete come una squadriglia di cinque aerei, essendo rimasti separati da uno spessore di tre miglia d'acqua dal loro ponte di volo, avessero puntato a est col loro carico di bombe, per una missione suicida... Avrete letto che bombardarono un piccolo campo d'aviazione sulla linea più esterna delle difese di Panama, e che tutti i membri degli equipaggi si lasciarono schiantare sul suolo, poi, secondo la miglior tradizione d'autosacrificio patriottico. Be'... in realtà non si trattava d'un campo d'aviazione, anche se poteva esserlo sembrato, visto dall'alto. Era semplicemente una pista grossolanamente spianata, di marna bianca, su uno sfondo d'erba brunastra. Gli aerei giapponesi arrivarono due giorni dopo la morte di Daisy Etta, mentre Tom e Kelly se ne stavano seduti all'ombra di una catasta di bidoni di carburante, giù in fondo alla trincea che Daisy aveva scavato, quando aveva voluto rifornirsi di carburante. Stavano lavorando con carta e matita, cercando di compiere l'impossibile, cioè di stilare un rapporto scritto su tutto ciò che era accaduto sull'isola, e del perché la loro squadra e la compagnia che li aveva assoldati non erano riuscite a rispettare il contratto. Avevano ritrovato Chub e Harris, e li avevano seppelliti accanto agli altri tre. Al Knowles era lì al campo, solidamente legato, poiché l'avevano udito farneticare nel sonno, e a quanto pareva non riusciva a credere che Daisy fosse morta e voleva ancora andare in giro a uccidere operatori in suo nome. Tom e Kelly sapevano che ci sarebbe stata, inevitabilmente, un'indagine, e si rendevano conto dell'effetto che avrebbe fatto la loro storia alle orecchie degli inquisitori; dopo essere sfuggiti a un mostro come Daisy Etta, la vita aveva un sapore troppo dolce, per loro, perché avessero voglia d'essere fucilati per sabotaggio. E omicidio. Il primo grappolo di bombe colpì trecento metri dietro di loro, ai bordi del campo, e nel medesimo istante un aereo passò sibilando sopra le loro teste, e questa fu la prima cosa di cui si accorsero. Si precipitarono verso Al Knowles e gli slegarono i piedi, e tutti e tre corsero verso il folto dei cespugli. Trovarono rifugio, ironia del destino, proprio nel poggio dove
Daisy Etta aveva incontrato per la prima volta il suo possessore. «Dio benedica i loro piccoli cuori neri», ansimò Kelly, quando, insieme a Tom, riemersero fuori, sul ciglio della collina, e fissarono le fiammeggianti rovine del campo e i relitti dei cinque bombardieri di media stazza, sotto di loro. Tirò fuori di tasca il tanto sudato rapporto, e lo stracciò. «Ma lui?» Tom indicò Al Knowles, seduto per terra, che giocava con le proprie dita. «Spiffererà tutto, anche se noi daremo la colpa al bombardamento». «E con ciò?» fece Kelly. Tom ci pensò su un momento, poi sogghignò. «Certo, non succederà niente! È proprio il genere di cose che si aspetteranno da lui!» E mai più nacque una donna... No Woman Born di C.L Moore Astounding, dicembre Gli anni alla metà dei quaranta furono davvero grandi per la carriera di scrittrice di Catherine L. Moore, sia singolarmente, sia in collaborazione con suo marito Henry Kuttner. Questo racconto fu concepito e scritto (ne siamo convinti) da lei sola, ed è certamente il suo migliore. Il concetto di «cyborg», in parte macchina, in parte uomo, era già presente nella fantascienza prima che questo racconto fosse pubblicato, ma nessuno aveva esplorato l'idea così a fondo, come vien fatto in «No Woman Born» (E mai più nacque una donna...). E fu anche uno dei primi racconti a prendere in considerazione il futuro delle arti nella fantascienza. Oltre a una storia classica di angoscia e resurrezione. (Un paio d'anni or sono, partecipai a un congresso di fantascienza, nel corso del quale Catherine Moore avrebbe parlato. Provavo il vivo desiderio di rivederla, poiché l'avevo incontrata solo una volta, trentacinque anni prima. Aveva un aspetto sorprendentemente giovane e tenne un bel discorso. Mi piacque molto vedere con quanta delicatezza gli anni pesavano su di lei. Le era stato di gran beneficio, ne sono sicuro, essersi risposata, e felicemente. Perché no? Il povero Hank era morto da più di vent'anni. Eppure, nessuno di noi, della vecchia generazione di fantascientisti, riusciva
a pensare a Catherine Moore senza Kuttner, o a Kuttner senza Catherine Moore, ed io ero seduto, li, in preda a un vago senso di dissociazione. Com'era possibile che qualcuno (o qualcosa) li avesse divisi? I.A.) La creatura più adorabile che avesse mai solcato le vie dell'etere. John Harris, che un tempo era stato il suo direttore artistico, si sforzò, tenacemente, di rievocare l'immagine della sua radiosa bellezza mentre saliva, nell'ascensore silenzioso, alla stanza dove Deirdre sedeva, aspettandolo. Sin dall'incendio del teatro in cui aveva perso la vita, un anno prima, non era mai riuscito a far rivivere in modo chiaro, nella sua mente, tanta bellezza, salvo quando qualche vecchio manifesto, mezzo a brandelli, gli sbandierava davanti al naso il suo volto, o uno stucchevole programma commemorativo trasmetteva, inaspettata, la sua immagine sullo schermo televisivo. Ma adesso doveva ricordare. L'ascensore si fermò con un sospiro, e la porta si aprì. John Harris esitò. Sapeva, razionalmente, di dover proseguire, ma i suoi muscoli riluttanti quasi si rifiutarono di farlo. Stava riandando, con una desolata sensazione d'impotenza, e come non aveva mai osato far prima, all'ineffabile grazia di quel suo meraviglioso corpo di danzatrice, alla sua voce vellutata con quella «r» lievemente blesa che aveva affascinato i pubblici del mondo intero. Nessun'altra donna era mai stata così bella. In epoche precedenti alla sua, non erano mancate le attrici amate e adulate ma, prima di Deirdre, il mondo intero non era mai stato capace d'innamorarsi così perdutamente di una sola donna. Pochissimi, se non ristrette élites tra gli abitanti delle maggiori città, avevano visto la Bernhardt o la favolosa Jersey Lily. E le bellezze dello schermo avevano raccolto proseliti soltanto fra coloro che avevano la possibilità di recarsi al cinema. Ma, fino a un anno prima, l'immagine di Deirdre aveva brillato vivida sugli schermi televisivi in ogni casa del mondo civilizzato. E anche molto al di fuori di questo. Le sue canzoni, la sua voce morbida e leggermente rauca, erano risuonate nelle profondità della giungla, il suo corpo adorabile, flessuoso, aveva intrecciato le danze più suggestive negli igloo, ai poli, o dentro le tende nel cuore dei deserti. L'intero mondo conosceva alla perfezione le sue voluttuose movenze, la sua voce soave, e l'inesprimibile radiosità del suo sorriso. E il mondo intero aveva pianto quand'era morta nell'incendio del teatro. Harris non riusciva a pensarla in altro modo, se non morta, anche se sapeva ciò che l'aspettava nella stanza più oltre. E continuavano a echeggiargli
nella mente le antiche parole che James Stephens aveva scritto tanto tempo prima, per un'altra Deirdre, anch'essa adorabile e amata e mai dimenticata dopo duemila anni: Giunge il momento in cui i nostri cuori trepidano di nostalgia al ricordo di Deirdre e della sua storia, delle sue labbra, oggi polvere... E mai più nacque una donna bella quanto lei; nessuna così bella fra tutte le donne nate... Questo non era del tutto vero, naturalmente — ce n'era stata un'altra. O forse, dopotutto, questa Deirdre morta soltanto un anno fa non era stata bella nel senso di un'assoluta perfezione. Forse, pensò, neppure l'altra era stata perfetta, poiché esistono, sì, donne con lineamenti perfetti, al mondo, ma non sono quelle che la leggenda ricorda. Era la luce interiore, ehe s'irradiava dai suoi lineamenti incantevoli, a donare al volto di Deirdre tutto il suo fascino. Nessun'altra donna da lui conosciuta aveva avuto qualcosa di simile alla magia della perduta Deirdre: Che tutti gli uomini piangano, in solitudine... Nessun uomo potrà mai amarla. Non un sol uomo potrà sognare di essere il suo amante... Nessun uomo dirà... Cosa potrebbe mai dirle? Non vi sono parole che sia possibile dirle. No, nessuna parola, nessuna. E sarebbe stato impossibile sopportare una cosa simile. Harris fu travolto da questa angosciante consapevolezza nel momento in cui il suo dito sfiorò il campanello. Ma la porta si aprì, e fu troppo tardi. Maltzer era lì, e fu troppo tardi. Maltzer era lì, subito oltre la soglia, e stava aguzzando gli occhi attraverso le spesse lenti. La tensione con cui l'aveva aspettato era quasi palpabile. Harris restò un po' scosso, quando si accorse che stava tremando. Era difficile credere che il fiducioso e imperturbabile Maltzer, che aveva conosciuto brevemente un anno prima, fosse in preda a un tale, irrefrenabile
nervosismo. Si chiese se un simile nervosismo non fosse il frutto d'un reciproco contagio tra Maltzer e la stessa Deirdre... no, non era ancora il momento per questi pensieri. «Entri, entri», lo sollecitò Maltzer, irritato. Anche se non c'era nessun motivo d'irritazione. L'anno di lavoro condotto in tanta segretezza e completa solitudine doveva averlo messo alla prova sia nel fisico che nel morale, fino a portarlo al limite di rottura. «Sta bene?» chiese Harris, scioccamente, entrando. «Oh, sì... sì, sta bene». Maltzer si mordicchiò l'unghia del pollice e lanciò un'occhiata dietro di sé, verso una porta interna, dove, Harris indovinò, lei stava aspettando. «No», intervenne Maltzer, quando lui fece istintivamente un passo verso quella porta. «Sarà meglio che parliamo, prima. Venga avanti e si sieda. Qualcosa da bere?» Harris annuì, e notò che le mani di Maltzer tremavano, mentre inclinava la bottiglia. L'uomo era chiaramente sull'orlo del collasso, e Harris sentì aprirsi un gelido abisso d'incertezza in lui, togliendogli all'improvviso anche l'ultima solida trincea alla quale si era fino a quel momento aggrappato. «Sta bene?» chiese ancora, accettando il bicchiere che l'altro gli porgeva. «Oh, sì. È perfetta. E ha tanta fiducia in sé, che mi fa paura». Maltzer vuotò di colpo il suo bicchiere e tornò a riempirlo, prima ancora di sedersi. «Cos'è che non va, allora?» «Niente, immagino. O meglio... non so. Non ne sono più sicuro. Ho lavorato per quasi un anno, a preparare questo incontro, e adesso... be', non sono più sicuro che sia il momento giusto. Non ne sono sicuro, ecco tutto». Fissò Harris, gli occhi sgranati, in parte schermati dalle spesse lenti. Era un uomo magro, teso, le ossa e i tendini che spiccavano netti attraverso la pelle scura del suo viso. Adesso era perfino più magro di quanto lo era stato un anno prima, quando Harris l'aveva visto l'ultima volta. «Le sono stato troppo vicino», sbottò. «Non sono più in grado di vedere la cosa in prospettiva. Lo vedo soltanto come un lavoro... il mio lavoro, niente più. E non sono sicuro che sia pronto, perché lei o chiunque altro possa vederlo». «E lei... cosa ne pensa?» «Non ho mai visto una donna così piena di fiducia in se stessa». Maltzer portò alla bocca il bicchiere, che ticchettò contro i suoi denti. D'improvviso, alzò lo sguardo, attraverso quelle lenti deformanti. «Natural-
mente, un insuccesso a questo punto, vorrebbe dire... sì, un completo collasso», concluse. Harris annuì. Stava pensando all'anno di lavoro incredibilmente intenso e minuzioso che stava dietro a quell'incontro, le immense riserve di sapere, d'infinita pazienza, la segreta collaborazione di artisti, scultori, progettisti, scienziati, e il genio di Maltzer che li aveva diretti tutti, come un direttore d'orchestra dirige i suoi strumentisti. Stava pensando anche, con una certa, irragionevole gelosia, alla strana, fredda, impassibile intimità fra Maltzer e Deirdre durante tutto quell'anno, un'intimità maggiore di qualunque altra prima d'ora condivisa da esseri umani. In un certo senso, la Deirdre che avrebbe visto fra qualche minuto sarebbe stata Maltzer, come in Maltzer gli pareva di scorgere, di tanto in tanto, dei gesti fugaci, e delle inflessioni nel parlare, che erano stati di Deirdre. C'era stato, fra i due, una sorta d'inimmaginabile matrimonio, più strano di qualunque altra relazione mai esistita fra due esseri umani. «... tante complicazioni», stava dicendo Maltzer, con una voce in cui, sullo sfondo del tono preoccupato, era possibile cogliere qualcosa dell'adorabile cadenza di Deirdre (quella dolce, morbida, sfumatura rauca che non avrebbe mai più ascoltato). «C'era stato un trauma, naturalmente. Un trauma terribile. Oltre a una paura angosciosa del fuoco. Abbiamo dovuto vincerla, prima di intraprendere ogni altra cosa. Ma ci siamo riusciti. Quando lei entrerà in quella stanza, con ogni probabilità la troverà seduta davanti al fuoco». Colse la muta, stupefatta domanda negli occhi di Harris, e sorrise. «No, adesso, naturalmente, non può percepire il calore. Ma le piace contemplare le fiamme. È riuscita a dominare, in modo meraviglioso, qualunque anormale paura». «Può...» Harris esitò. «La sua vista, adesso, è normale?» «Perfetta», dichiarò Maltzer. «È stato abbastanza semplice offrirle una vista perfetta. Dopotutto, il procedimento era già stato realizzato in un'ampia gamma di condizioni... Aggiungerei, perfino, che la sua vista, oggi, è qualcosa di più che perfetto, secondo i nostri criteri fisiologici». Scosse irritato la testa. «Non è la parte meccanica che mi preoccupa. Per fortuna, si è riusciti a salvare il suo cervello, senza che venisse leso in nessun modo. Il trauma è stato il solo pericolo per i suoi centri sensori, ed è stata la prima cosa di cui ci siamo preoccupati, non appena siamo riusciti a ripristinare le comunicazioni con lei. Anche così, è stato necessario un grande coraggio da parte sua. Un grande coraggio». Restò silenzioso per qualche istante, fissando il bicchiere vuoto.
«Harris», riprese all'improvviso, senza sollevare lo sguardo. «Ho forse commesso un errore? Avremmo dovuto lasciarla morire del tutto?» Harris scosse la testa, provando un'intensa sensazione d'impotenza. Era una domanda senza risposta. Era ormai un anno che il mondo intero era tormentato da quella domanda. C'erano state centinaia di risposte ed erano state scritte migliaia di parole sull'argomento. Ha forse il diritto, qualcuno, di conservare vivo il cervello, quando il suo corpo è stato distrutto? Anche se può venir fornito di un nuovo corpo... necessariamente assai diverso da quello originario? «Non è che adesso sia... brutta», proseguì Maltzer, in fretta, come se temesse una domanda specifica. «Il metallo non è brutto, e Deirdre... be', vedrà. Gliel'ho detto, io non sono in grado di giudicarla. Conosco talmente bene l'intero meccanismo... che per me è soltanto questione di meccanica. Forse è... grottesca. Non lo so. Spesso ho desiderato di non essermi trovato al posto... giusto, con tutte le mie idee, quand'è scoppiato l'incendio. O, magari, che si fosse trattato di qualcun altro, ma non di Deirdre. Lei era così bella... Ma se si fosse trattato di qualcun altro, credo che l'impresa sarebbe fallita. Ci vuole qualcosa di più di un cervello illeso. Ci vogliono una forza e un coraggio non comuni e... sì, qualcos'altro ancora. Qualcosa di... irreprimibile. Deirdre ce l'ha. È ancora Deirdre. In un certo qual modo, è ancora molto bella. Ma non sono sicuro che qualcuno, oltre a me, possa vederlo. E sa cosa ha in progetto di fare?» «No. Cosa?» «Tornerà sugli schermi televisivi». Harris lo fissò sbalordito e incredulo. «È ancora molto bella», ribadì Maltzer. «Ha un coraggio e una serenità che mi sbalordiscono. E non è per nulla preoccupata o risentita per ciò che è accaduto. O timorosa per queilo che potrebbe essere il verdetto del pubblico. Ma io, Harris, io sono... terrorizzato». Si fissarono per un attimo, senza che nessuno dei due parlasse. Poi Maltzer scrollò le spalle e si alzò in piedi. «È là dentro», disse, indicando col bicchiere. Harris si voltò, senza rispondere, senza darsi il tempo di esitare. Attraversò la stanza, verso la porta interna. La stanza era immersa in una luce morbida, diffusa, intensa, che sembrava raggiungere una sorta di apoteosi nel fuoco crepitante nel caminetto rivestito di piastrelle bianche. Harris sostò appena oltre la soglia, col cuore che gli balzava in gola.
Per un attimo, non la vide. Era una stanza assolutamente comune, luminosa, ammobiliata in modo piacevole, con fiori sui tavoli. Il loro profumo riempiva di una fresca fragranza l'aria. Non vide Deirdre. Poi, una sedia accanto al fuoco scricchiolò, mentre lei spostava il suo peso su di essa. L'alto schienale la nascondeva, ma lei parlò. E per un terribile istante, fu la voce di un automa quella che risuonò nella stanza, metallica, priva d'inflessioni. «Ehi...» disse la voce. Poi s'interruppe e ritentò, con una risatina. E fu la vecchia, familiare, soave voce, lievemente rauca, che non aveva più sperato di udire in tutta la sua restante esistenza. Suo malgrado esclamò: «Deirdre!» E la sua immagine balzò davanti ai suoi occhi, come se lei stessa si fosse alzata dalla sedia, immutata, alta, i capelli dorati, il suo passo di danzatrice lievemente ondeggiante, i suoi adorabili, appena imperfetti lineamenti illuminati dal bagliore diffuso che li rendeva splendidi. Era lo scherzo più crudele che il ricordo avesse potuto giocargli. Eppure la voce... dopo quel piccolo errore iniziale... era perfetta. «Vieni avanti e guardami, John», disse. Harris venne avanti lentamente, muovendo le gambe con un atto di volontà. Quel fugace, vivido ricordo, aveva quasi distrutto la calma che con tanta fatica era riuscito a imporsi. Cercò di mantenere la mente completamente vuota quando giunse finalmente al limite oltre il quale avrebbe visto ciò, che fino a quel momento nessuno, eccettuato Maltzer, aveva conosciuto nella sua completezza. Nessuno aveva saputo quale forma sarebbe stata modellata per rivestire la più bella donna della Terra, adesso che la sua bellezza era scomparsa. Lui si era immaginato, nella mente, molte forme. Grandi barcollanti congegni robotici, cilindrici, con braccia e gambe snodate. Una gabbia di vetro col cervello che vi galleggiava dentro, e ogni tipo di appendice inorganica per soddisfare le più svariate necessità. Visioni grottesche, incubi quasi concreti. E ognuno più inadeguato del precedente, poiché, quale forma metallica avrebbe potuto far qualcosa di più che ospitare in maniera sgraziata il cervello e la mente che un tempo avevano incantato il mondo intero? Poi superò l'alto schienale della sedia e la vide. Spesso il cervello umano si rivela un meccanismo troppo complicato per funzionare alla perfezione, sempre. Ora, al cervello di Harris veniva chiesto di elaborare fulmineamente una serie fin troppo complessa d'impressioni visive. Per prima cosa, incongruamente, ricordò una curiosa fi-
gura disumana che aveva intravisto, un giorno, protesa sopra la staccionata, fuori da una casa colonica. Per un attimo, quella forma aveva campeggiato davanti a lui tutt'intera, ma goffa, impossibilmente umana, prima che l'occhio che la fissava non la risolvesse in un aggregato di scope e di secchi. Ciò che l'occhio aveva trovato solo vagamente umanoide, il suo cervello suggestionabile l'aveva accettato in blocco come umano. Così, ora era lo stesso con Deirdre. La prima impressione che i suoi occhi e il suo cervello ricevettero dalla sua vista fu di stupefatta incredulità, poiché il suo cervello gli proclamava, scettico: «Questa è Deirdre! Non è cambiata affatto!» Poi, il cambiamento di prospettiva prese il sopravvento, e in maniera ancora più sconvolgente, l'occhio e il cervello dissero: «No, non è Deirdre. Non è umana. Soltanto bobine metalliche e nient'altro. Non è affatto Deirdre...» E questo era il peggio. Era come svegliarsi dopo aver sognato qualcuno amato e perduto, affrontando di nuovo, dopo la straziante riassicurazione del sonno, l'implacabile constatazione che niente può riportare in vita i nostri cari, morti. Deirdre era perduta, e quello era soltanto un macchinario ammucchiato su una sedia rivestita di stoffa a fiorami. Poi il macchinario si mosse, squisitamente, fluidamente, con una grazia familiare come la forma danzante che ricordava. La voce dolce e rauca di Deirdre disse: «Sono io, John, tesoro. Sono davvero io, sai». Lo era. Quella era la terza metamorfosi, e la definitiva. L'illusione si stabilizzò e divenne concreta. Era Deirdre. Harris si sedette mentre gli pareva che le sue ossa fossero fatte di gomma, e i suoi muscoli fossero scomparsi. La fissò senza una parola, incapace di pensare, lasciando che i suoi sensi assorbissero ciò che vedeva, senza alcun tentativo di razionalizzarlo. Era ancora dorata. Quel tanto che di lei avevano osservato, la prima impressione del caldo colore che un tempo era appartenuto ai suoi lisci capelli e alla sfumatura albicocca della sua pelle. Ma avevano avuto il buon senso di non andare oltre. Non avevano tentato di creare una statua di cera con le fattezze della perduta Deirdre. (E mai più nacque una donna bella quanto lei; nessuna così bella fra tutte le donne nate...) E così, non aveva un volto. Al posto della testa aveva un ovoide liscio, delicatamente modellato... con una specie... una specie di maschera a forma di mezzaluna all'altezza della fronte, là dove avrebbero dovuto esserci
gli occhi, se di occhi avesse avuto bisogno. Uno stretto, ricurvo quarto di luna, con le corna rivolte verso l'alto. Era riempito di qualcosa di translucido, come cristalli nebulosi, del colore d'acquamarina che un tempo gli occhi di Deirdre avevano avuto. Dunque, attraverso ciò vedeva il mondo. Guardava senz'occhi, e dietro a ciò, come dietro gli occhi di un essere umano... lei era. Salvo quella mezzaluna, non aveva lineamenti. E si rese conto che era stato saggio, da parte di coloro che l'avevano concepita. Inconsciamente, aveva temuto qualche goffo tentativo d'imitare le fattezze umane, falso e cigolante come una marionetta che imitasse i movimenti del corpo. Forse, era stato necessario che quei suoi «occhi» fossero collocati nell'identica posizione, sul capo, per facilitarle il riadattamento alla visione stereoscopica che un tempo aveva posseduto. Ma era lieto che non l'avessero dotata di due aperture a forma di occhio, con dentro due palline di vetro. Quella sottile maschera era assai meglio. (Stranamente, non pensò neppure una volta al cervello che doveva trovarsi, nudo, all'interno del metallo. La maschera era un simbolo più che bastante della donna là dentro contenuta. Era enigmatica: non sapevate se il suo sguardo era puntato su di voi, o altrove, o era rivolto all'interiorità. E non aveva variazioni di splendore, come quello che un tempo avevano giocato sull'incomparabile mobilità del volto di Deirdre. Ma gli occhi, gli stessi occhi umani, sono di per sé già abbastanza enigmatici. Non hanno nessuna espressione, salvo quella che gli dànno le palpebre; e mutano l'animazione dai lineamenti del volto. Noi fissiamo automaticamente gli occhi dell'amico col quale parliamo, ma se càpita che si trovi disteso, così da parlargli da dietro, il volto rovesciato rispetto alla posizione normale, quasi altrettanto automaticamente gli guardate la bocca. Lo sguardo continua a spostarsi nervosamente fra quella bocca e quegli occhi disposti in ordine inverso, poiché è la posizione del volto, non i lineamenti, che siamo abituati ad accettare come la sede dell'anima. La maschera di Deirdre era in posizione giusta; era facile accettarla come una maschera sopra gli occhi. La sua testa, Harris se ne rese conto dopo il primo istante di sorpresa, dalla forma assai bella: un cranio spoglio, dorato. Lei lo girò, un po', con grazia, sul suo collo di metallo, e Harris vide che l'artista che l'aveva modellato aveva creato, sotto la maschera, un lieve accenno di zigomi, che si restringevano più in basso in un vago suggerimento di volto umano. Non troppo. Quel tanto che bastava cosicché, quando la testa veniva girata, si potesse capire che si era mossa, dando prospettiva e scorciando il casco
dorato privo d'espressione. La luce non scivolava via ininterrotta come sulla superficie di un uovo dorato. Lo stesso Brancusi non aveva mai realizzato niente di più semplice e d'indefinibile della testa di Deirdre. Ma, naturalmente, ogni espressione era scomparsa. Ogni espressione era svanita nel fumo dell'incendio del teatro, insieme a quei lineamenti adorabili, radiosi, cangianti, che erano Deirdre. In quanto al corpo, non poteva vederne la forma. Un indumento la nascondeva. Ma non avevano compiuto l'incongruo tentativo di ridarle l'abbigliamento che un tempo l'aveva resa famosa. Perfino la morbidezza di quelle vesti avrebbe rivelato troppo bruscamente che sotto le pieghe non c'era nessun corpo umano, né il metallo ha bisogno dell'incongruenza degli indumenti per essere protetto. Eppure, Harris si rese conto che, senza vestiti, lei sarebbe apparsa, sia pure in un modo singolare, nuda, poiché il suo nuovo corpo era umanoide, non un robot angoloso. Il progettista aveva risolto il paradosso dandole una veste di sottilissima maglia metallica. Discendeva dal dolce declivio delle sue spalle in pieghe dritte, flessibili, come una lunga clamide greca, eppure con un proprio peso bastante a non farla aderire in maniera troppo rivelatrice a qualunque forma metallica si trovasse sotto di essa. Le braccia che le avevano dato erano state lasciate nude, e così pure i piedi e le caviglie. Maltzer aveva compiuto il più grande dei suoi miracoli, con le articolazioni della nuova Deirdre. Era essenzialmente un miracolo meccanico, ma l'occhio apprezzava prima di tutto il fatto che vi erano state profuse un'arte e una comprensione supreme. Le sue braccia erano d'un oro pallido, lucido, affusolate, senza alcun tentativo di modellarle a imitazione umana: erano formate, per tutta la loro lunghezza, da braccialetti metallici sempre più stretti, che s'infilavano senza quasi attrito l'uno nell'altro, fino ai polsi rotondi e sottili. Le mani erano forse la caratteristica più umana, anche se anch'esse erano formate da piccole, delicate sezioni che entravano l'una nell'altra, scivolando quasi con la stessa flessibilità della carne. Le dita erano più lunghe di quelle umane, e chiaramente più robuste. Anche i suoi piedi, sotto gli anelli affusolati che formavano le caviglie, erano stati realizzati sul modello dei piedi umani. I segmenti finemente lavorati che si compenetravano gli uni negli altri formavano un arco e un calcagno, e una sezione anteriore flessibile, simile al solleret delle armature medioevali. Invero, assomigliava moltissimo a una creatura di carne chiusa in un'ar-
matura, con i suoi arti formati da tante piccole piastre articolate e la sua testa senza lineamenti come un elmo con una visiera di vetro, e la veste di maglia metallica. Ma nessun cavaliere in armatura si era mai mosso all'identico modo di Deirdre, né aveva indossato l'armatura sopra un corpo dalle proporzioni così inumanamente belle. Soltanto un cavaliere di un altro mondo, o un cavaliere della corte di Oberon, avrebbe potuto condividere una simile, delicata somiglianza. Per un breve istante, era rimasto sorpreso per le sue proporzioni squisitamente minute. Si era aspettato la massa poderosa dei robot che aveva visto finora, ulteriormente ingombrata da ogni tipo di grottesche attrezzature. Poi, si rese conto che nei robot, la maggior parte dello spazio doveva essere occupata dai grossi e complicati cervelli meccanici che, goffamente, li guidavano nei loro compiti. Il cervello di Deirdre mostrava ancora, intatta, tutta l'ineffabile arte di un progettista assai più abile dell'uomo. Soltanto il corpo era di metallo, e non pareva granché complicato, anche se non gli era stato detto come faceva a muoversi. Harris aveva perso il computo del tempo, mentre se ne stava lì, immobile, a fissare quella straordinaria figura, là, sulla sedia imbottita dall'alto schienale. Era ancora adorabile, invero, era ancora Deirdre — e mentre guardava, consentì al rigido controllo del suo viso di rilassarsi. Non c'era bisogno che le nascondesse i suoi pensieri. Lei si mosse sui cuscini, le braccia lunghe e flessibili si protesero con una flessuosità che non era del tutto umana. Quel movimento lo turbò, più di quanto non l'avesse turbato il suo nuovo corpo, e suo malgrado, il suo viso si raggelò un poco. Ebbe la sensazione che, dietro la maschera a mezzaluna, lei lo stesse osservando con grande attenzione. Lentamente, la donna si alzò. Il movimento fu agile e continuo. Sinuoso, come se anche il corpo, sotto la veste metallica, fosse costituito da una serie di anelli che si compenetravano con un minimo attrito. Si era aspettato, e aveva temuto, una rigidità meccanica; niente l'aveva preparato a quella elasticità sovrumana. Restò in silenzio, lasciando che le pesanti pieghe della cotta metallica si ridisponessero in equilibrio intorno a lei. Scivolarono giù con un tenue tintinnio, come campanelli lontani, e infine la veste si ridispose in meravigliose pieghe dorate, come scolpite. Harris si era alzato automaticamente nel medesimo istante in cui lei si era alzata. Ora la fronteggiò, fissandola. Non l'aveva mai vista restare in piedi, perfettamente immobile, e neppure adesso lo era. Ondeggiava, quasi impercettibilmente, la vitalità ardeva ine-
stinguibile dentro il suo cervello, come un tempo era arsa nel suo corpo, per cui, anche così, la perfetta immobilità le era impossibile. L'indumento dorato colse i riflessi delle fiamme, là nel camino, e glieli rimandò, con lievi, ma inconfondibili fremiti. Poi lei piegò un po', su un lato, l'elmo dorato coi lineamenti quasi inafferrabili, e Harris udì la sua familiare risata, il dolce, intimo suono, lievemente rauco, che tante volte in passato aveva udito dalla sua gola viva. E ogni gesto, ogni atteggiamento, erano talmente Deirdre, che l'illusione invase di nuovo la sua mente, e quella fu la donna in carne e ossa, chiaramente come la vedeva davanti a sé, completa, come la fenice risorta dalle ceneri. «Dunque, John?» gli chiese, con la sua voce calda e divertita che così bene ricordava. «Sono dunque io, John?» Ma lei sapeva di esserlo. Nella sua voce si sentiva una completa sicurezza. «Lo shock passerà, sai. Man mano il tempo passa, è più facile. Ora sono bene abituata a me stessa. Vedi?» Gli voltò le spalle e attraversò la stanza con movimenti agili, sicuri, con la stessa fluidità d'una danzatrice in perfetto equilibrio, fino allo specchio su un lato della stanza. E davanti allo specchio, come tante volte l'aveva vista fare, prima, la vide pavoneggiarsi, passando le flessibili mani metalliche lungo le pieghe della sua veste metallica, girandosi per ammirarsi da sopra una spalla metallica, facendo ondeggiare e scintillare la veste, mentre accennava alle più eleganti movenze. Sentì le ginocchia cedergli, e si sedette sulla sedia imbottita che lei aveva appena lasciata libera. Sollievo e turbamento insieme gli avevano snervato i muscoli. Lei, era molto più fiduciosa e padrona di sé di quanto non lo fosse lui stesso. «È un miracolo», esclamò Harris, con convinzione. «Sei tu. Ma non vedo come...» Intendeva dire: «...senza un volto e un corpo...» ma non riuscì a completare la frase. «È soprattutto una questione di movimenti», lei disse, sempre ammirando la propria flessuosità allo specchio. «Vedi?» E, agile e leggera, eseguì sui suoi elastici piedi corazzati una serie di passi di danza, piroettando infine su se stessa per voltarsi verso di lui. «È questo, appunto, il frutto del gran lavoro che abbiamo fatto Maltzer ed io, quando ho cominciato a riacquistare il controllo di me stessa». La sua voce s'incupì per un attimo, al ricordo d'un buio periodo del suo passato. Poi proseguì: «Non è stato facile, naturalmente, ma affascinante, sì. Non puoi immaginare quanto sia stato affascinante, John! Sapevamo assai
bene che non avremmo potuto realizzare un perfetto facsimile del mio aspetto d'un tempo, perciò abbiamo dovuto trovare un'altra base su cui costruire. E il movimento è l'altra base del riconoscimento, oltre alla vera somiglianza fisica». Attraversò con passo leggero il tappeto, verso la finestra, e si fermò, un po' di sbieco, a guardar giù, la luce che le brillava sulle curve appena accennate.degli zigomi. «Fortunatamente», proseguì, con voce divertita, «non sono mai stata bella. Era tutta... be', vivacità, suppongo, e coordinamento muscolare. Anni e anni di addestramento, e tutto registrato qui», diede con le nocche dorate un lieve colpo metallico all'elmo, «nei modelli di comportamento impressi nel mio cervello. Così questo corpo... te l'ha detto?... funziona interamente grazie al cervello. Le correnti elettromagnetiche scorrono da un anello all'altro, così». Tese verso di lui un braccio senz'ossa, increspandolo come acqua corrente. «Niente mi tiene assieme, niente... salvo muscoli di flusso magnetico. E se fossi stata qualcun altro, qualcuno che si muoveva in modo diverso, ebbene, questi anelli si sarebbero mossi anch'essi in modo diverso, guidati dagli impulsi di un cervello diverso. Non sono conscia di far qualcosa che io non abbia sempre fatto. Gli stessi impulsi che una volta partivano verso i miei muscoli, ora partono verso... questo». Ed eseguì verso di lui un movimento serpentino con entrambe le braccia, come una danzatrice cambogiana, e poi scoppiò a ridere di tutto cuore, e la risata echeggiò nella stanza con tanta allegria, che Harris non poté fare a meno di rivedere quel volto un tempo familiare arrossato dalla gioia, i denti che balenavano, candidi. «Ora tutto è perfettamente inconscio», lei precisò, «ma all'inizio c'è voluto molto esercizio, naturalmente. Adesso, la mia firma assomiglia in modo quasi perfetto a quella che è sempre stata... il coordinamento muscolare viene riprodotto con una delicatezza estrema». Increspò nuovamente le braccia rivolte verso di lui, e ridacchiò. «Ma anche la voce», protestò debolmente Harris, «è la tua voce, Deirdre». «La voce non è soltanto una questione di struttura della gola e di controllo del respiro, mio caro Johnnie! Almeno, è quanto il professor Maltzer mi ha assicurato un anno fa, e io non ho certamente nessun motivo di dubitarne». Nuovamente scoppiò a ridere... rideva un po' troppo, con quella sfumatura di eccitazione isterica che lui ricordava così bene. Ma, se mai c'era una donna che avesse un buon motivo per essere in preda a un po' d'isterismo, certo quella era Deirdre, adesso.
La risata s'interruppe, e Deirdre proseguì, intrepida: «Il professor Maltzer dice che il controllo della voce è quasi interamente una questione di sentire i suoni che si producono, quando si abbiano dei meccanismi che lo consentono, naturalmente. È per questo che i sordi, anche con delle corde vocali perfettamente normali, lasciano che la loro voce cambi completamente e perda ogni inflessione, quando hanno smesso di udire troppo a lungo. E per fortuna, come vedi, io non sono sorda!» Si girò verso di lui, con le pieghe della sua veste che scintillavano, risuonando lievemente, e la sua voce salì sempre più in alto, in una scala musicale limpida come il cristallo, fino a una deliziosa nota acuta, per poi ricadere come l'acqua di una cascata. Ma non gli lasciò il tempo di applaudire. «È semplicissimo, capisci. È bastato un piccolo lampo di genio del professore, perché funzionasse con me. È partito da una modifica del vecchio Vodor, di cui dovresti ricordarti, poiché ne parlavano alcuni anni fa. All'inizio, è ovvio, si trattava di qualcosa di massiccio e imponente. Ricordi come funzionava... La voce scomposta in pochi suoni fondamentali e ricostituita ricombinando questi suoni grazie a un'apposita tastiera. Credo che all'inizio non si riuscisse a ricavarne granché di più di suoni come ktch e shuscinggg, ma un po' per volta siamo riusciti a dare al tutto una flessibilità e una gamma in tutto paragonabili a quelle umane. Tutto quello che devo fare, è... sì, suonare mentalmente la tastiera della mia... della mia unità sonora, suppongo si chiami. Naturalmente, tutto è assai più complicato di come l'ho descritto, ma ho imparato a farlo inconsciamente. Regolo il suono a orecchio, in modo del tutto automatico. Se tu fossi qui dentro, al mio posto, e avessi fatto i miei stessi esercizi, dalla stessa tastiera e dallo stesso diaframma uscirebbe la tua voce invece della mia. È tutta questione degli schemi cerebrali che fanno funzionare il corpo, e qui invece fanno funzionare la macchina. Trasmettono degli impulsi molto forti che vengono amplificati quant'è necessario in qualche punto, qua dentro...» Le sue mani ondeggiarono vaghe sul suo corpo rivestito dall'indumento metallico. Per un attimo restò in silenzio, guardando fuori della finestra. Poi si girò e attraversò la stanza fino al caminetto, prendendo nuovamente posto nella sedia a fiorami. Il cranio-elmo girò la maschera verso di lui, e Harris percepì un tranquillo esame dietro quel suo sguardo acquamarina. «È strano...» lei disse, «trovarmi qui, in questo... questo... invece che in un corpo. Ma non così strano o alieno quanto tu potresti pensare. Ci ho pensato molto — ho avuto tempo in abbondanza per pensarci — e ho co-
minciato a rendermi conto di quale tremenda forza sia veramente l'ego umano. Non è che io voglia suggerire che esso abbia qualche potere mistico in grado d'imprimersi sulle cose meccaniche, inanimate, ma sembra, in ogni caso, disporre di un qualche potere. Sotto la sua influenza, gli oggetti inanimati assumono una propria personalità. Uomini e donne imprimono la propria personalità sugli ambienti in cui vivono, sai. L'ho osservato spesso. Perfino sulle stanze vuote. E accade lo stesso per ogni altra cosa inanimata dalla quale l'uomo dipende per vivere. Le navi, ad esempio... hanno sempre una propria personalità. «E gli aerei — quando c'è una guerra si sente sempre parlare di aerei troppo danneggiati per poter volare, ma che in qualche modo riescono sempre a rientrare coi loro equipaggi, vincendo ogni difficoltà. Perfino i cannoni acquistano una specie di ego. Le navi, i cannoni e gli aerei sono una "lei" per gli uomini che li fanno funzionare e vi affidano le proprie vite. È come se una macchina dalla complessa struttura mobile giungesse quasi a simulare la vita, e acquisisse dagli uomini che la usano... be', non proprio la vita, naturalmente... ma una personalità. Non so in che modo. Forse assorbendo alcuni fra gli impulsi elettrici che il loro cervello emana, soprattutto nei momenti di tensione. «Sì... dopo un po', ho cominciato ad accettare l'idea che questo mio corpo avrebbe potuto avere le stesse reazioni di una nave o di un aereo. A prescindere dal controllo diretto che il mio cervello esercita sui suoi "muscoli". Credo che esista una affinità tra gli uomini e le macchine che essi creano. In effetti, essi le elaborano nel proprio cervello, una sorta di concepimento e gestazione mentale, e la macchina che ne risulta ha una stretta corrispondenza con la mente che l'ha creata, e con tutte le menti umane che la capiscono e la maneggiano». Si mosse, vagamente inquieta, lisciandosi, con la mano flessibile, la veste all'altezza della coscia. «Così, questo... sono io stessa», disse. «Metallo... ma io. E diventa sempre più me stessa quanto più a lungo ci vivo dentro. È la mia casa, e la macchina da cui dipende la mia vita, ma, sotto ogni aspetto, assai più strettamente, intimamente di quanto qualunque altro essere umano sia dipeso da una casa o da una macchina qualsiasi. E, sai, mi chiedo se col tempo non finirò per dimenticare del tutto qual era la sensazione della carne — la mia carne, quando la toccavo, così — e il metallo contro il metallo sarà la stessa cosa al punto che non me ne accorgerò neppure». Harris non tentò di risponderle. Restò seduto senza muoversi, fissando il
suo volto privo d'espressione. Dopo un attimo, lei continuò: «Ti dirò la cosa migliore, John», disse, e la sua voce si ammorbidì fino a restituirgli, intatta, l'antica intimità, che ricordava così bene, sovrimponendola all'espressione vacua di quel cranio dorato. «Non vivrò per sempre. Potrebbe non apparire la migliore delle cose... ma lo è, John. Sai, per un po' questa è stata la cosa peggiore, dopo che nuovamente seppi di esistere... quando mi risvegliai. L'idea di continuare a vivere in un corpo che non era il mio, vedendo tutti quelli che conoscevo diventar vecchi e morire, e non essere, anch'io, capace di smettere... «Ma Maltzer ha detto che il mio cervello, con tutta probabilità, si logorerà in modo del tutto normale — salvo, ovviamente, il fatto che io non dovrò preoccuparmi di sembrar vecchia! — e quando si stancherà e si fermerà, il corpo nel quale ora mi trovo non esisterà più. I muscoli magnetici che lo tengono insieme, imprimendogli la sua forma e i miei movimenti, lo lasceranno disfarsi quando il cervello mollerà la presa, e non rimarrà niente, soltanto un mucchio di... anelli sconnessi. E se mai li rimetteranno un'altra volta insieme, non sarò più io». Esitò. «Mi piace quest'idea, John», fece, e Harris avvertì, dietro alla maschera, uno sguardo inquisitivo rivolto al suo viso. Harris afferrò e capì quella cupa soddisfazione. Non sarebbe riuscito a esprimerla in parole, nessuno di loro due voleva farlo. Ma lui capiva. Era la condanna alla mortalità, malgrado il suo corpo immortale. Non era tagliata fuori dal resto della sua razza per ciò che concerneva l'essenza dell'umanità, giacché, malgrado lei indossasse un corpo d'acciaio, e tutti gli altri un corpo di carne corruttibile, anch'essa avrebbe dovuto morire, e le stesse paure e la stessa fede l'univano ancora agli umani e a tutti i mortali, anche se indossava il corpo inumano d'un cavaliere di Oberon. Perfino nella sua morte avrebbe dovuto esser unica — la dissoluzione in una cascata di anelli tintinnanti, pensò, e quasi le invidiò la bellezza e il modo definitivo di quella dipartita — ma, dopo, tutti, sia lei che loro, si sarebbero ugualmente ritrovati in un'unica umanità, poca o tanta che fosse. Così, lei poteva sentire che, comunque fosse, quel suo esilio nel metallo era temporaneo. (E sempre che, ovviamente, all'interno del metallo la mente non si distaccasse sempre più dall'umanità che aveva ereditato, col passare degli anni. L'abitatore di una casa poteva imprimere la propria personalità sulle pareti, ma in maniera impercettibile anche le pareti potevano imprimere la propria forma sull'ego di un uomo. Ma nessuno di loro due pensò a ciò, in
quel momento). Deirdre tacque ancora per alcuni istanti. Poi, quello stato d'animo si dissipò, e lei tornò ad alzarsi, roteando su se stessa cosicché la sua veste si allargò in una campana tintinnante. Deirdre increspò l'intero suo corpo in una nuova scala musicale, su e giù, senza il minimo errore, e con l'identica, cristallina musicalità che l'aveva resa famosa. «Così, tornerò sul palcoscenico, John», disse, con tranquilla serenità. «Posso ancora cantare. Posso ancora danzare. Sono ancora me stessa in tutto ciò che conta, e non riesco a immaginare di far qualcosa di diverso per il resto della mia vita». Harris non riuscì a impedirsi di balbettare un po', quando rispose: «Pensi... pensi che ti accetteranno, Deirdre? Dopo tutto...» «Mi accetteranno», lei replicò, con una voce piena di fiducia. «Oh, all'inizio accorreranno a vedere un mostro, ma, quasi subito, resteranno a guardare... Deirdre. E torneranno, e ancora, e ancora, proprio come hanno sempre fatto. Vedrai, mio caro». Ma, nell'udire la sua sicurezza, Harris all'improvviso si sentì insicuro. Neppure Maltzer era stato così sicuro. Lei, era così regalmente fiduciosa, che una delusione sarebbe stata un colpo micidiale a tutto ciò che restava di lei... Adesso, era davvero un essere così delicato... Non era nulla, se non una mente ardente e radiosa, sospesa sopra del metallo, da lei dominato, dell'acciaio che lei poteva modellare fino a ricreare la sua perduta grazia con una assoluta fiducia in se stessa che brillava attraverso il corpo metallico. Ma il cervello poggiava delicatamente su una base di razionalità. Aveva già vissuto tensioni intollerabili, forse abissi di autocosciente disperazione quali nessun altro cervello umano aveva mai dovuto sopportare, prima di lei... dai tempi di Lazzaro, anche lui tornato dai morti. Ma se il mondo non l'avesse accettata come una creatura di bellezza, allora, cosa sarebbe accaduto? Se avessero riso, o se avessero esternato pietà per lei, oppure se fossero venuti soltanto a guardare un mostro articolato che si esibiva come un burattino appeso ai fili, là dove un tempo la grazia di Deirdre li aveva tutti incantati, allora, cosa sarebbe successo? E non poteva avere alcuna certezza che non l'avrebbero fatto. L'aveva conosciuta fin troppo bene anche nella carne, per non vederla, oggettivamente, adesso, nel metallo. Ogni inflessione della sua voce richiamava alla memoria il vivido ricordo del suo viso che aveva mostrato la sua bellezza mutevole in una perfetta, continua aderenza al tono. Per Harris, lei, ora, era Deirdre
proprio perché lei gli era stata così intimamente familiare in ogni suo singolo atteggiamento per tanti anni. Ma la gente che l'aveva conosciuta così, da distante e da fuori, o che adesso l'avrebbe vista per la prima volta, là, nel metallo... cosa avrebbero visto? Una marionetta? Oppure l'autentica grazia e bellezza che s'irradiavano in un ineffabile splendore? Non aveva alcun modo di saperlo. La vedeva ancora fin troppo chiaramente com'era stata, per poterla veder bene com'era adesso, salvo il fatto che i suoi legami col passato erano così forti, che non sarebbe mai stata interamente di metallo. E seppe ciò che Maltzer temeva, poiché la cecità psichica di Maltzer nei suoi confronti era all'altro estremo. Maltzer non aveva mai conosciuto Deirdre, se non come macchina, e non poteva vederla oggettivamente più di quanto potesse far lui, Harris. Per Maltzer si trattava di puro metallo, un robot concepito dalle sue mani e dal suo cervello, misteriosamente animato dalla mente di Deirdre, certo, ma che, per tutti coloro che si trovavano al di fuori, pareva soltanto un oggetto di metallo. Maltzer aveva lavorato tanto a lungo sopra ogni più complicata parte di quel corpo, conosceva talmente bene come ogni singola giuntura era stata inserita, che non riusciva a vedere l'insieme. Aveva studiato gran copia di documentazioni cinematografiche su di lei, naturalmente, che la mostravano com'era stata un tempo, onde calibrare nel modo più perfetto il suo facsimile, ma questa cosa che lui aveva prodotto era soltanto una copia. Era troppo vicino a Deirdre per vederla. E lui, Harris, in un certo senso era troppo lontano. La stessa indomabile Deirdre splendeva così vivida attraverso il metallo, che la sua mente continuava a sovrimporre l'una all'altra. Come avrebbe reagito un pubblico alla sua presenza? Dove sarebbe caduto il loro verdetto nella scala fra questi due estremi? Per Deirdre esisteva una sola risposta possibile. «Non sono preoccupata», disse, con voce serena, e protese le mani dorate verso il fuoco, per osservare i riflessi danzanti sulle lisce superfici. «Sono ancora me stessa. Ho sempre avuto... sì, un potere nei confronti del mio pubblico. Ogni buon attore sa, quando l'ha. Il mio potere c'è ancora. Posso dare al mio pubblico ciò che gli ho sempre dato, soltanto che adesso potrò farlo con più ricchezza e profondità di quanto abbia mai fatto prima. Su, guarda...» ebbe un piccolo fremito eccitato. «Tu sai il principio degli arabeschi... ottenere la più lunga distanza possibile dalle punte delle dita di una mano a quelle di un piede, con una curva continua e fluida, con l'altra gamba e l'altro braccio posti a sostegno che
formano un contrasto? Be', guardami. Adesso non ho più bisogno di punti d'appoggio fissi e rigidi. Posso trasformare ogni mio movimento in una curva lunga quanto voglio. Il mio corpo è cambiato quanto basta perché io elabori un'intera, nuova scuola di danza. Naturalmente, ci sono cose che un tempo facevo e non tenterò più adesso, non più danza sulle punte, ad esempio... ma le novità compenseranno più che a sufficienza le perdite. Ho fatto esercizio. Sai che adesso posso fare cento giri fouettés senza errori? E credo che potrei farne anche mille di seguito, se volessi». Fece balenare le sue mani nella luce del caminetto, e la sua veste tintinnò musicalmente quando agitò un poco le spalle. «Ho già elaborato una nuova danza per me», dichiarò. «Il cielo sa che non sono una coreografa, ma volevo provare il più presto possibile. Più avanti, sai, uomini davvero creativi come Massanchine o Fokhileff potrebbero voler creare qualcosa d'interamente nuovo per me... intere sequenze di nuovi movimenti basate su nuove tecniche. E la musica... anche quella potrebbe essere molto diversa. Oh, non c'è limite alle possibilità! Perfino la mia voce ha una gamma più estesa e più forza. Per fortuna, io non sono un'attrice. .. sarebbe sciocco tentar di recitare la parte di Margherita Gauthier o di Giulietta in mezzo a un cast di gente normale. Non che non potrei, lo sai?» Girò la testa per fissare Harris attraverso la maschera di cristallo. «Onestamente, credo che potrei. Ma non è necessario. Ci sono fin troppe altre cose. Oh, non sono preoccupata!» «Maltzer è preoccupato», le ricordò Harris. Lei si girò di scatto dal fuoco, facendo risuonare la veste metallica, e nella sua voce s'insinuò quella vecchia nota angosciata che un tempo era accompagnata da un corrugarsi della fronte e da un piegarsi di lato della testa... La testa si piegò di lato, come aveva sempre fatto, come se la carne l'avviluppasse ancora. «Lo so. E io sono preoccupata per lui, John. Ha lavorato così duramente su di me. Suppongo che questo sia il periodo di scoramento, quando ci si sente giù di corda. So cosa pensa. Teme che io appaia al mondo come appaio a lui. Metallo lavorato. Si trova in una situazione che nessuno aveva mai conosciuto prima, non è vero? Quasi come un Dio». La sua voce s'increspò, divertita. «Suppongo che a Dio noi stessi dobbiamo apparire come aggregati di cellule e atomi. Ma a Maltzer manca la visione spassionata di Dio». «Ad ogni modo, non riesce a vederti come ti vedo io adesso». Harris stava scegliendo le sue parole con fatica. «Mi chiedo, tuttavia... non gli sa-
rebbe di qualche aiuto, se tu rimandassi per un po' il tuo debutto? Sei stata vicina a lui così intimamente... e non ti rendi completamente conto di quanto Maltzer sia vicino a un collasso. Quando l'ho visto, poco fa, era davvero scosso». La testa dorata fece un cenno negativo. «No, forse è davvero vicino al punto di rottura, ma credo che l'unica cura possibile sia l'azione. Lui vorrebbe che mi ritirassi e restassi nascosta alla vista della gente, John. Per sempre. Teme chiunque mi veda, salvo quei pochi amici che mi ricordano com'ero. Gente sulla cui cortesia si può fare affidamento». Scoppiò a ridere. Era molto strano udire quello scroscio di allegria uscire da quel cranio privo d'espressione. Harris fu colto da un panico improvviso al pensiero delle reazioni che ciò avrebbe potuto provocare in un pubblico di estranei. Come se lui avesse espresso la sua paura a voce alta, lei intervenne a negarla: «Io non ho bisogno di cortesia. E non sarebbe una cortesia nei confronti di Maltzer, se io mi nascondessi sotto un moggio. Lui ha lavorato troppo duramente, lo so. È arrivato al punto di rottura perché è stremato. Ma sarà la completa negazione di tutto ciò per cui ha lavorato, se adesso mi nascondessi. Non hai idea dell'incredibile quantità di genio e di arte finiti dentro di me, John. Sin dall'inizio l'idea era di ricreare ciò che avevo perduto cosicché si potesse dimostrare che la bellezza e il talento non avevano necessità d'essere sacrificati dalla distruzione di parte o di tutto il corpo. «Non è stato soltanto per me che abbiamo inteso dimostrarlo. Ci saranno altri che soffriranno danni che un tempo avrebbero potuto distruggerli. Questo è stato fatto per porre fine una volta per tutte a simili sofferenze. È stato il dono di Maltzer all'intera razza, oltre che a me. Maltzer è un vero umanitario, John, come tutti i grandi uomini. Non avrebbe mai rinunciato a un anno della sua vita per far questo, se fosse stato per una sola persona. Mentre lavorava, ne vedeva altre migliaia oltre a me. E non gli consentirò di rovinare il suo successo soltanto perché ha paura di mostrarlo al mondo, adesso che l'ha conseguito. Tutta questa meravigliosa realizzazione sarà inutile, se io non farò l'ultimo passo. Credo che alla fine il collasso sarebbe peggiore e più definitivo se non provassi mai, che se provassi e fallissi». Harris restò seduto in silenzio. Non riusciva a trovare nessuna risposta. Sperò che quella punta di vergognosa gelosia che provò all'improvviso non trasparisse, quando gli fu nuovamente ricordata l'intimità più profonda del matrimonio che, di necessità, legava insieme quei due. E sapeva che qualunque sua reazione sarebbe stata, a suo modo, prevenuta quasi quanto
quella di Maltzer, per delle ragioni nello stesso tempo uguali e opposte. Salvo che lui era appena approdato, fresco fresco, al problema, mentre il punto di vista di Maltzer s'impregnava di un anno di superlavoro, col conseguente esaurimento fisico e mentale. «Cos'hai intenzione di fare?» le chiese. Quando lui le fece la domanda, Deirdre era in piedi accanto al fuoco, ondeggiando lievemente, cosicché i riflessi dorati danzavano su tutto il suo corpo. Ora si voltò con una grazia serpentina e tornò a prender posto nella sedia imbottita accanto a lui. E Harris si rese conto d'un tratto che era molto più che umanamente graziosa — almeno quanto, un tempo, aveva temuto che sarebbe stata men che umana. «Ho già preso accordi per uno spettacolo» lei gli annunciò, con la voce leggermente vibrante di un misto di eccitazione e di sfida. Harris si drizzò con un sussulto. «Come? Dove? Non c'è stata ancora nessuna pubblicità, non è vero? Io non sapevo che...» «Su, su, Johnnie», lo blandì con voce divertita. «Ti occuperai tu di tutto, proprio come hai sempre fatto, quando avrò ripreso a lavorare... naturalmente, se vorrai ancora farlo. Ma questo l'ho combinato da sola. Sarà una sorpresa». Si agitò un po' sulla sedia. «La psicologia del pubblico... è qualcosa che ho sempre più intuito che coscientemente provato. Così, ora sento che questo è il modo giusto in cui la cosa va fatta. Non vi sono precedenti. Niente di simile è mai accaduto prima. Dovrò procedere, appunto, basandomi più sull'istinto che su altro». «Vuoi dire che sarà una completa sorpresa?» «Penso che debba esserlo. Non voglio che il pubblico entri con idee preconcette. Voglio che, prima, mi vedano esattamente come sono adesso, senza che ancora sappiano chi, o che cosa, vedono. Devono rendersi conto che sono in grado di dare uno spettacolo buono come sempre, prima che ricordino e si mettano a confrontarlo con i miei spettacoli di un tempo. Non voglio che arrivino già pronti a mostrare pietà per i miei handicap — non ne ho nessuno! — oppure pieni di curiosità morbosa. Così, andrò in onda dopo la regolare trasmissione delle otto da Teleo City. Sarò soltanto uno dei numeri del consueto spettacolo di varietà. È stato tutto predisposto. Ci sarà un crescendo, naturalmente, poiché io sarò il clou della serata, ma non diranno chi sono fino al termine dello spettacolo — sempre che il pubblico, per allora, non mi abbia già riconosciuto». «Il pubblico?» «Ma certo. Certo non ti sarai scordato che a Teleo City fanno ancora gli
spettacoli in una vera sala da teatro, davanti a un pubblico in carne e ossa? È per questo che voglio far là il mio debutto. Ho sempre recitato al meglio quando c'era gente nello studio, così da poter valutare le reazioni. Penso che la maggior parte degli artisti lo facciano. Ad ogni modo, è tutto organizzato». «Maltzer lo sa?» Deirdre si contorse, a disagio: «Non ancora». «Ma dovrà dare il suo permesso, no? Voglio dire...» «Ora senti, John! Questa è un'altra idea che tu e Maltzer dovete togliervi dalla testa. Io non appartengo a lui. In un certo senso, è stato soltanto il mio medico durante una lunga malattia, ma io sono libera di congedarlo, quando sceglierò di farlo. Se mai saltasse fuori qualche disaccordo, suppongo che avrà diritto legale a un sacco di soldi per il lavoro fatto sul mio nuovo corpo... e per il corpo stesso, in verità, poiché in un certo senso è una sua macchina. Ma lui non la possiede, né possiede me. Non sono sicura di come la faccenda potrà esser decisa da un tribunale... ancora una volta abbiamo un problema senza precedenti. Il corpo potrà anche essere il risultato del suo lavoro, ma il cervello lo rende qualcosa di più di un aggregato di anelli metallici. Il corpo sono io, e non potrebbe trattenermi contro la sua volontà neppure se lo volesse. Non certo legalmente, e non...» Esitò, curiosamente, e guardò altrove. Per la prima volta Harris fu conscio di qualcosa, sotto la superficie della sua mente, e gli parve strano. «Ad ogni modo», proseguì Deirdre, «un simile problema non sorgerà. Maltzer ed io siamo stati troppo vicini, lo scorso anno, per scontrarci su qualcosa di così essenziale. Nel suo intimo lui sa che io ho ragione, e non cercherà di trattenermi. Il suo lavoro non potrà dirsi completo finché io non avrò fatto ciò per cui sono stata fabbricata. E intendo farlo». Girò la testa, distogliendo da lui la maschera di cristallo attraverso la quale guardava il mondo, e l'elmo dorato, col vago accenno dello zigomo visto di sbieco, parve più che mai enigmatico. «Stanotte», lei disse. La mano sottile di Maltzer tremava talmente che non riusciva a girare la manopola. Tentò due volte, poi rise nervoso e scrollò le spalle, rivolgendosi ad Harris. «Fai tu», gli disse. Harris diede un'occhiata all'orologio. «Non è ancora il momento. Non andrà in onda per un'altra mezz'ora».
Maltzer fece un brusco gesto d'impazienza. «Sintonizzati, sintonizzati!» Harris, con una leggera scrollata di spalle, girò la manopola. Sull'alto schermo, sopra di loro, le ombre e i suoni si confusero, poi tornarono a schiarirsi, rivelando una cupa sala medioevale, immensa, con grandi volte e personaggi in costumi sgargianti che si muovevano come pigmei nella penombra. Poiché il dramma parlava di Maria di Scozia, gli attori erano vestiti con qualcosa che voleva essere l'abbigliamento elisabettiano, ma poiché ogni epoca tende a tradurre i costumi in termini di moda corrente, i capelli delle donne erano acconciati con uno stile che avrebbe stupito Elisabetta, e le loro scarpe erano del tutto anacronistiche. La sala si dissolse, e un volto comparve lentamente in primo piano. La scura, lussureggiante bellezza dell'attrice che impersonava Maria Stuarda risplendeva di vellutata perfezione dalla nuvola dei suoi capelli tempestati di perle. Maltzer grugni. «Dovrà competere con quella», disse, con voce sorda. «Temi che non possa riuscirci?» Maltzer schiaffeggiò con i palmi rabbiosi i braccioli della sua poltrona. Poi, sembrò colpito dal tremito delle sue dita, e borbottò tra sé: «Guardali! Non sono neppure adatti a maneggiare un martello o una sega». Ma questo bofonchiare era un «a parte». Subito prosegui, gridando: «È naturale che non possa competere. Non ha sesso. Non è più femmina. Non lo sa ancora, ma l'imparerà». Harris lo fissò, provando un attimo di stordimento. Per qualche motivo, quel pensiero non gli era mai venuto, prima, tanto vivida era l'illusione della vecchia Deirdre avvolta intorno alla nuova. «Adesso è un'astrazione», continuò Maltzer, tamburellando con le dita sul bracciolo, un ritmo rapido, nervoso. «Non so che effetto avrà su di lei, ma certo provocherà un cambiamento. Non ricordi Abelardo?... Deirdre ha perso tutto ciò che incarnava, in lei, ciò che il pubblico voleva, e lo scoprirà nel modo più duro. Dopo...» Fece una smorfia feroce, e tacque. «Non ha perso tutto», la difese Harris. «Può danzare, e cantare come un tempo, forse meglio. Ha ancora grazia, fascino, e...» «Sì, ma da cosa le venivano la grazia e il fascino? Non certo dagli schemi istintivi del suo cervello. Ma dai contatti umani, da tutte le cose che stimolano le menti sensibili alla creatività. E ha perduto tre dei suoi cinque sensi. Tutto ciò che non può vedere e udire è scomparso per lei. Uno degli stimoli più forti per una donna del suo tipo era la consapevolezza della competizione del sesso. Ricordi, non è vero, come sfavillava, quando un
uomo entrava nella stanza? Questo, ora, non c'è più, ed era una cosa essenziale. Sai quanto gli alcoolici la stimolavano? Ha perduto anche quello. Non potrà mai più assaporare cibi e bevande, per quanto possa desiderarlo. I profumi, i fiori, tutti gli odori ai quali noi reagiamo, adesso non significano nulla per lei. Non può sentire più nulla con la delicatezza del tatto. Aveva l'abitudine di circondarsi di cose belle, lussuose — traeva da esse i suoi stimoli — e tutto questo se n'è andato. Ormai si è ritirata per sempre da ogni contatto fisico». Socchiuse gli occhi, fissando lo schermo senza vederlo, il volto stirato, rugoso, come un teschio. Nell'anno appena trascorso tutta la carne sembrava essere stata risucchiata dalle sue ossa. Harris pensò, con una punta di gelosia, che anche in questo pareva avvicinarsi a Deirdre e alla sua mancanza di carne, a ogni settimana che passava. «La vista», disse Maltzer, «è il più civilizzato dei sensi. È stato l'ultimo a venire. Gli altri sensi ci uniscono intimamente con le radici stesse della vita; credo che con essi siamo in grado di percepire più acutamente di quanto immaginiamo. Le cose delle quali ci rendiamo conto attraverso il gusto, l'odore e il tatto stimolano direttamente, senza una deviazione attraverso i centri del pensiero cosciente. Sai quante volte un sapore o un odore richiamano alla tua memoria un ricordo così impercettibilmente che tu non sai esattamente cosa l'abbia causato? Noi abbiamo bisogno di questi sensi primitivi per restar legati alla natura e alla razza. Attraverso questi legami Deirdre traeva la sua vitalità senza rendersene conto. La vista è una cosa intellettuale, paragonata agli altri sensi. Ma, adesso, è tutto ciò a cui può attingere. Non è più un essere umano, e penso che quell'umanità che ancora alberga in lei verrà prosciugata a poco a poco e mai più sostituita. Abelardo, in un certo senso, era un prototipo. Ma la perdita di Deirdre è completa». «Non è umana», ammise Harris, misurando le parole, «ma non è neppure un puro robot. È qualcosa che si trova in qualche punto fra queste due cose, e credo sia un errore cercar d'indovinare dove, e quale sarà il risultato». «Io non devo indovinare», fece Maltzer, cupo. «Lo so. Vorrei averla lasciata morire. Le ho fatto qualcosa mille volte peggiore di quanto l'incendio avrebbe mai potuto farle. Sì, avrei dovuto lasciarla morire». «Aspetta», replicò Harris. «Devi aspettare, e vedere. Credo che ti sbagli».
Sullo schermo televisivo, Maria Stuarda salì al patibolo, la tradizionale veste scarlatta aderiva alle morbide, giovani curve, anacronistiche, a modo loro, proprio come le pantofole che s'intravedevano sotto la veste, poiché — come tutti sanno, salvo i drammaturghi — Maria Stuarda era già abbastanza anziana prima di morire. Con grazia, questa Maria dell'ultima ora reclinò il capo, scostando i lunghi capelli, inginocchiandosi davanti al ceppo. Maltzer osservò l'intera scena freddamente, i suoi pensieri interamente rivolti a un'altra donna. «Non avrei dovuto permetterglielo», stava borbottando. «Non avrei dovuto consentirle di farlo». «Credi davvero che l'avresti fermata, anche se avessi potuto?» gli chiese Harris, con calma. L'altro, dopo un attimo di pausa, scosse vigorosamente il capo. «No. Suppongo di no. Continuo a pensare che se avessi lavorato e aspettato un po' più a lungo, avrei potuto renderle le cose più facili, ma... no, suppongo di no. Deve affrontare queste prove, presto o tardi, essendo ciò che è». Si alzò di scatto, spingendo indietro la poltrona. «Se soltanto non fosse così... così fragile. Non si rende conto di quant'è delicato il suo equilibrio mentale. Le abbiamo dato ciò che potevamo — gli artisti, i progettisti, e anch'io, le abbiamo dato tutti il nostro meglio — ma è così pietosamente handicappata, anche con tutto quello che abbiamo potuto fare. Sarà sempre un'astrazione e... un mostro, tagliata fuori dal mondo da handicap peggiori, nella loro natura, di quanti altri un essere umano si sia mai trovato ad affrontare. Presto o tardi se ne renderà conto, e allora...» Cominciò a girare su e giù per la stanza, con passi rapidi, irregolari, battendo una mano sull'altra. Il suo volto soffriva d'un lieve tic nervoso che a intervalli irregolari lo costringeva a strizzare, grottescamente, un occhio. Harris si rese conto di quanto quell'uomo fosse vicino a un collasso. «Riesci a immaginare cosa significhi», riprese Maltzer, ferocemente, «esser rinchiusi in un corpo meccanico come quello, esclusi da ogni contatto umano eccettuato ciò che filtra attraverso la vista e il suono? Sapere che non sei più umano? Ha già vissuto abbastanza traumi. Quando quest'ultimo shock la colpirà in pieno...» «Chiudi il becco», gl'intimò Harris, brusco. «Non le sarai affatto utile, se tu stesso avrai un collasso nervoso. Guarda qui, adesso. Il varietà sta per cominciare». Le due metà di un grande sipario dorato si erano chiuse sull'infelice re-
gina di Scozia e adesso si stavano schiudendo di nuovo, tutto il dolore e la frustrazione spazzati via ancora una volta con la stessa completezza ed efficacia con cui l'avevano fatto i secoli trascorsi da allora. Adesso una fila di minuscole ballerine, sotto l'enorme arcata del palcoscenico, scalciavano e s'impennavano con la precisione di tante bamboline meccaniche troppo minute e perfette per essere vere. La camera «zumò» su di esse e scivolò lungo l'intera fila, passando in rapida rassegna tutta una serie di volti sorridenti e inespressivi, simili, quasi, ai paletti d'un recinto. Poi, l'obbiettivo s'innalzò fra le travature e tornò a guardar giù da una grande altezza, le figure grottescamente scorciate dalla prospettiva continuavano a impennarsi con ritmo perfetto e quasi inumano. Si udirono gli applausi di un pubblico invisibile. Poi qualcuno uscì fuori ed eseguì una danza con delle torce accese che tracciarono lunghi e serpeggianti nastri di fuoco tra le nubi di quella che pareva ovatta ma era probabilmente asbesto. Poi una nuova schiera di danzatori in splendidi costumi pseudo-classici avanzò, in una sorta di balletto cantato, eseguendo qualcosa che assomigliava vagamente alle Silfidi, o quanto meno era stato annunciato con questo titolo, anche se vi assomigliava assai poco. Poi, uscì di nuovo il plotone delle ballerine sincroniche, incantevoli come bamboline meccaniche. Maltzer dava segni d'una tensione sempre più insopportabile man mano i numeri si succedevano ai numeri. Deirdre sarebbe stata l'ultima, naturalmente. Parve davvero che trascorresse un tempo insopportabilmente lungo prima che un volto comparisse nuovamente in primo piano, cancellando per qualche attimo il palcoscenico dallo schermo: una sorta di maestro di cerimonie con i lineamenti d'una amabile marionetta, il quale annunciò un numero «molto» speciale come gran finale. La sua voce quasi balbettava per l'eccitazione; forse neppure a lui era stato rivelato, fino a un attimo prima, cosa c'era in serbo per il pubblico. Nessuno dei due spettatori, lì in quella stanza, prestò attenzione a ciò che veniva detto. Furono entrambi consapevoli, invece, d'una indefinibile eccitazione che s'impadroniva del pubblico, mormorii e fruscii, e una crescente attesa, come se il tempo si fosse messo a scorrere troppo lentamente, rendendo l'attesa e la curiosità spasmodiche. Poi ricomparve il sipario dorato, abbassato. Ma subito tremò, e tornò a separarsi in due metà, che si aprirono in ampi festoni e fra essi il palcoscenico era colmo d'una scintillante nebbia dorata. Il mondo avrebbe potuto avere quell'aspetto, il primo giorno della creazione, quando ancora il
cielo e la terra non avevano preso una forma precisa nella mente di Dio. Era una scelta particolarmente acuta, come scenario, per il suo simbolismo, anche se Harris si chiese quanto fosse stata inevitabile una simile scelta, giacché non poteva esserci stato tempo bastante a creare uno scenario più elaborato. Il pubblico se ne stava immobile, in perfetto silenzio, mentre l'aria era carica di tensione. Quella non era una delle normali pause in attesa del numero successivo. Certo, a nessuno era stato detto niente, eppure parvero indovinare... La nebbia luccicante vibrò e cominciò a diradarsi, velo dopo velo. Più oltre, c'era il buio, nel quale si cominciò a intravedere una serie di lucidi pilastri sistemati a formare una balaustra. Ora, si cominciò a vedere che la balaustra s'incurvava verso l'alto, da sinistra verso destra, fino all'inizio di una scalinata. Il palcoscenico e la scalinata erano coperti da un tappeto di velluto nero; drappeggi di velluto nero pendevano appena dietro la balconata, con uno scorcio di cielo notturno, più indietro ancora, nel quale tremolavanostelle artificiali. L'ultimo sipario di garza dorata si sollevò. Il palcoscenico era vuoto. O meglio, pareva vuoto. Ma perfino attraverso l'abisso etereo fra lo schermo davanti a lui, e il luogo reale di cui esso ricreava l'immagine, Harris capì che il pubblico non si aspettava che l'artista uscisse dalle quinte. Non c'era nessun fruscio, nessun tossicchiare, in sala, nessuna per quanto lieve manifestazione d'impazienza. Sin dal levarsi del primo sipario, una presenza dominava il palcoscenico, dilatandosi a riempire l'intero teatro con la sua calma padronanza; misurava i suoi tempi, controllando il pubblico come un direttore d'orchestra, con la bacchetta sollevata, raduna e lega a sé gli occhi dell'intero suo strumentale. Per un attimo, tutto sul palcoscenico restò immobile. Poi, lassù all'estremità della scala, là dove essa s'innestava all'ampia curva dei pilastri che fiancheggiavano la balaustra, una figura si mosse. Fino a quel momento, era parsa soltanto una fra le altre luccicanti colonne della fila. Ma adesso, deliberatamente ondeggiò, con la luce che si rifletteva, balenando e scorrendo fluida lungo le sue braccia e la sua veste di maglia metallica. Ondeggiò quel tanto che bastò a rivelare che era lassù. Poi, con gli occhi di tutti fissi su di lei, restò immobile, per consentir loro di saziarsi della sua presenza. Lo schermo non mostrò un primo piano di lei. Il suo mistero rimase inviolato, e gli spettatori della televisione non la videro più chiaramente del pubblico in teatro.
Molti, sulle prime, dovevano aver pensato a lei come a un robot meravigliosamente animato, appeso, forse, a fili invisibili sullo sfondo di velluto nero, poiché non poteva certo essere una donna rivestita di metallo — le sue proporzioni erano troppo sottili e delicate perché potesse esserlo. E forse era proprio l'impressione di essere un robot, quella che aveva voluto dare all'inizio. Restò lì ferma, oscillando appena, una figura mascherata e inscrutabile, senza volto, incredibile nella sua veste che le ricadeva in classiche pieghe, come una clamide greca, anche se non sembrava affatto greca. Con quell'alto elmo dorato, la maschera di cristallo che era il visore e la veste di maglia metallica, ricompariva quella strana somiglianza con un cavaliere antico, con le sue implicazioni di sontuosità medioevale dietro quelle semplici linee. Salvo che nella sua squisita snellezza non richiamava alla memoria nessuna figura umana in armatura, neppure la relativa delicatezza d'una Giovanna d'Arco. Nel suo profilo si mescolavano cavalleria e una delicatezza ultramondana. Un respiro di sorpresa aveva agitato il pubblico quando si era mossa. Adesso, erano di nuovo tesi e silenziosi, in attesa. E la tensione, l'aspettativa, erano molto più profonde di qualunque altro umore la scena stessa avrebbe potuto mai evocare. Anche quelli che ancora la credevano un manichino parevano avvertire i segni premonitori d'una grande rivelazione. Ora, ondeggiò nuovamente e prese a scendere lentamente, muovendosi con una flessuosità appena superiore a quella umana. Il suo ondeggiare s'intensificò. Quando finalmente raggiunse il pavimento del palcoscenico, danzava. Ma era una danza che nessuna creatura umana avrebbe mai potuto eseguire. I lunghi, lenti ritmi languidi del suo corpo sarebbero stati impossibili anche al corpo umano delle giunture più snodate. (Harris ricordò, incredulo, di aver temuto, non molto tempo prima, di scoprirla snodata come un robot meccanico. Ma era l'umanità di carne e sangue che pareva adesso, per contrasto, rigida e meccanica). Il languore e il ritmo dei suoi movimenti parevano improvvisati, come tutti i migliori numeri di danza dovrebbero essere, ma Harris ben sapeva quante ore di elaborazione e di prove dovevano celarsi dietro quel numero così sciolto e fluido, quale laborioso tracciare di nuovi sentieri doveva essersi svolto nel suo cervello, prima di poter cancellare del tutto quelli vecchi e dominare alla perfezione gambe e braccia, e il corpo, metallici. Avanti e indietro sopra il tappeto di velluto nero, contro il fondale nero, ella intrecciò le mille complessità della sua danza serpentina, senza affrettarsi, ma allo stesso tempo con un tale effetto ipnotico che l'aria pareva
tutta impregnata di ritmi avvolgenti, come se le sue lunghe gambe affusolate lasciassero la propria impronta sospesa lassù, a svanire con estrema lentezza quando lei si spostava altrove. Harris sapeva che nella sua mente il palcoscenico era un'entità unica, uno sfondo da riempire interamente con gli schemi esattamente misurati della sua danza, ed ella parve proiettare l'intero schema, completo, verso il suo pubblico, cosicché i loro occhi la vedessero dovunque nel medesimo istante, coi suoi ritmi dorati che svanivano nell'aria molto tempo dopo che lei era balzata lontano. Adesso c'era musica, avvolta e sospesa in lei, nei lunghi echi protesi in ampi festoni balenanti tracciati dal suo corpo. Ma non era una musica orchestrale. Ella cantava, profonda e dolce, senza parole, mentre tracciava il suo naturale, intricato sentiero volteggiando sul palcoscenico. E il volume della musica era stupefacente, pareva riempire il teatro, anche se non era amplificata da nessun altoparlante nascosto. Ci si sarebbe accorti di questo. In qualche modo, fino all'istante in cui non avevate incominciato a udire la musica da lei creata, non vi eravate mai reso conto delle impercettibili distorsioni che anche il più perfetto amplificatore aggiungeva alla musica. Ma, questa, era completamente pura, e vera, come forse nessun orecchio fra tutti il suo pubblico aveva mai udito prima di allora. Mentre danzava, parve che il pubblico avesse smesso di respirare. Forse avevano già cominciato a sospettare chi, e cos'era che stava danzando davanti a loro, senza alcuna fanfara pubblicitaria che, inconsciamente, da settimane si erano aspettati. Eppure, senza la pubblicità, era pur sempre difficile non credere che la danzatrice che stavano guardando non fosse qualche manichino abilmente animato grazie a fili invisibili manovrati da sopra il palcoscenico. Niente di ciò che aveva fatto fino a quel momento era umano. Nessun essere umano avrebbe potuto eseguire quella danza. E la musica che produceva usciva da una gola priva di corde vocali. Ma adesso i lunghi, lenti ritmi stavano arrivando alla fine, l'ampio, sontuoso intreccio si stava chiudendo su se stesso per il finale. E lei terminò inumanamente quanto aveva danzato, imponendo a tutti loro, con la sua volontà, di non interromperla con gli applausi, dominandoli ora come aveva sempre fatto. Poiché qui il suo sottinteso era che soltanto una macchina avrebbe potuto eseguire quella danza, e una macchina non si aspetta applausi. Se ora gli spettatori, convinti che dei burattini invisibili le avessero fatto compiere quei passi meravigliosi, si aspettavano che questi burattinai comparissero a fare i loro inchini alla platea, avrebbero chiamato inutilmente. Ma il pubblico fu obbe-
diente. Restò seduto in silenzio, in attesa di ciò che sarebbe seguito. Ma il suo silenzio era teso, a fiato sospeso. La danza si concluse com'era iniziata. Lentamente, quasi con negligenza, risalì la rampa di velluto, muovendosi con ritmo perfetto alla sua musica. Ma quando raggiunse la scala, lassù, si voltò verso il suo pubblico, e per un attimo rimase immobile, una creatura di metallo, senza volontà, come se le mani del burattinaio si fossero allentate sui fili. Poi, sorprendentemente, scoppiò a ridere. Era una risata deliziosa, bassa e dolce, a tutta gola. Gettò indietro la testa, lasciò che il suo corpo ondeggiasse e le spalle sussultassero, e la risata, come la musica, riempì il teatro, acquistando volume e densità nella grande cavità della sala, risuonando nelle orecchie di ogni spettatore, non forte, ma con la stessa intensità di cui ognuno avrebbe goduto se si fosse trovato da solo con la donna che rideva. E adesso lei era una donna. L'umanità era calata su di lei come un indumento concreto. Nessuno che avesse già udito in passato quella risata avrebbe potuto sbagliarsi. Ma, prima che la realtà di ciò che lei era veramente avesse avuto il tempo di rivelarsi ai suoi ascoltatori, ella lasciò che la risata tornasse a trasformarsi in musica, come nessuna gola umana avrebbe potuto fare. Ella cantò un familiare ritornello all'orecchio di ogni spettatore. E quel canto a bocca chiusa si trasformò in parole. Cantò, con la sua voce chiara, limpida, adorabile: «La rosa gialla dell'Eden sboccia nel mio cuore...» Era la canzone di Deirdre. L'aveva irradiata da uno studio televisivo per la prima volta un mese prima che l'incendio la consumasse. Era una piccola, comune melodia, tanto semplice che subito aveva preso il primo posto nell'immaginazione di un'intera nazione per la quale le canzoni più semplici erano state sempre le più amate. E, in più, aveva una sua sincerità, e niente della piattezza e della volgarità del motivetto orecchiabile che condannano a un rapido oblio tante canzoni popolari, non appena la loro novità accenna ad appannarsi. Nessun altro era mai stato capace di cantarla nell'identico modo di Deirdre. Si era talmente identificata con lei che, malgrado per alcune settimane dopo la sua scomparsa altri cantanti avessero tentato di farne una sorta di memoriale, avevano tutti fallito in modo così completo, che la canzone era praticamente scomparsa dagli spettacoli. E mai nessuno l'intonava, così, a bocca chiusa, senza ripensare a lei, senza provare una sottile, penetrante tristezza, la nostalgia di qualcosa di adorabile, perduto per sempre.
Ma adesso, non era una canzone triste. Se qualcuno aveva finora avuto dubbi sull'entità che muoveva quel flessuoso e scintillante metallo, ora ogni dubbio doveva scomparire. Poiché la voce e la canzone erano di Deirdre. E l'adorabile, aggraziata padronanza dei suoi modi rendeva il suo riconoscimento certo come la vista di un volto familiare. Non aveva terminato la prima strofa della canzone, che già il pubblico la riconobbe. E non la lasciarono finire. La loro oceanica interruzione fu un tributo di gran lunga più eloquente di quanto avrebbe potuto esserlo una cortese attesa. Prima un fremito d'incredulità agitò il teatro, e un lungo sospiro, quasi un rantolo, che ricordò ad Harris, mentre ascoltava, e nel modo più incongruo, l'esplosione emotiva del pubblico delle matinées alla comparsa del favoloso Valentino, morto da tante generazioni. Ma questo rantolo non divenne un sospiro, né si dissolse. Dietro di esso vibrava una tremenda tensione, e la marea di crescente eccitazione s'increspò in un gran numero di mormorii e in uno spolverio di applausi che si fusero insieme fino a diventare un rombo assordante, che scosse il teatro dalle fondamenta. Lo schermo televisivo vibrò e si offuscò un po', per il volume di quell'applauso trasmesso. Deirdre, resa silenziosa dalle acclamazioni, restò immobile lassù, facendo gesti, e continuando a inchinarsi, a inchinarsi... mentre il rombante frastuono infuriava intorno a lei... Un visibile tremito del suo corpo accompagnava, nel trionfo, la sua emozione. Harris provò l'insopprimibile sensazione che stesse sorridendo radiosa, e lagrime di commozione le stessero colando giù, lungo le guance. Pensò perfino, proprio mentre Maltzer si sporgeva in avanti per spegnere lo schermo, che stesse lanciando baci al pubblico, col gesto, onorato dal tempo, dell'attrice grata, le sue braccia dorate che scintillavano, mentre faceva piovere baci dovunque dal suo elmo senza lineamenti, dal suo volto che non aveva bocca. «Allora?» chiese Harris, non senza una nota di trionfo. Maltzer scosse la testa in un sussulto, gli occhiali in precario equilibrio sul naso, cosicché gli occhi dietro le lenti parvero rimbalzare. «Naturalmente hanno applaudito, sciocco», rispose, con voce selvaggia. «Avrei dovuto saperlo, che l'avrebbero fatto... con quella messa in scena. Non prova un bel niente. Oh, è stata brava a coglierli di sorpresa, lo ammetto. Ma applaudivano se stessi almeno quanto lei. Eccitazione, gratitu-
dine per aver consentito a tutti loro di assistere a uno spettacolo storico, isterismo di massa... capisci? È d'ora in avanti che comincerà la prova, e tutto questo non l'ha certo aiutata a prepararcisi neanche un po'. Curiosità morbosa non appena si diffonderà la notizia — gente che riderà quando lei dimenticherà che non è umana. E lo faranno, sai. Ci sono sempre quelli che lo fanno. E la novità si esaurirà presto. Il lento drenaggio dell'umanità che è ancora in lei, per mancanza di contatti con stimoli umani...» Harris riandò all'improvviso, con riluttanza, all'istante di quel pomeriggio che aveva bruscamente scostato da sé, mentalmente, per riprenderlo in esame, con più calma e obbiettività, più tardi. La sensazione di qualcosa di familiare sotto la superficie esteriore delle parole di Deirdre. Maltzer aveva forse ragione? Il drenaggio era già cominciato? Oppure c'era qualcosa di più profondo della sua ovvia risposta a quella domanda? Certo, Deirdre aveva vissuto esperienze troppo terribili perché la gente comune potesse capirle. Le cicatrici potevano ancora persistere. Oppure, insieme al suo corpo, aveva forse indossato qualcosa di estraneo, metallico, che dalla sua mente non si rivolgeva ad alcun senso al quale le menti umane potessero rispondere? Per alcuni minuti, nessuno dei due parlò. Poi Maltzer si alzò di scatto e restò immobile a fissare Harris dall'alto con astratto cipiglio. «Ora, vorrei che tu te ne andassi», gli disse. Harris alzò gli occhi, stupito. Maltzer riprese a camminare avanti e indietro, con passi rapidi e saltellanti. Senza voltarsi, disse: «Ho deciso, Harris. Devo intervenire e metter fine a questa faccenda». Harris si alzò. «Ascolta», disse. «Dimmi questo: cosa ti fa sentire così certo di aver ragione? Puoi forse negare che si tratti, per la maggior parte, di congetture? Ricorda, io ho parlato con Deirdre ed era sicura quanto lo sei tu, ma in senso opposto. Hai qualche ragione più solida per corroborare ciò che pensi?» Maltzer si tolse gli occhiali e si sfregò lentamente il naso. Parve riluttante a rispondere. Ma quando lo fece, alla fine nella sua voce risuonò una fiducia che Harris non si era aspettato. «Ho una ragione», dichiarò. «Ma tu non mi crederesti. Nessuno mi crederebbe». «Provaci». Maltzer scosse il capo. «Nessuno potrebbe credermi. Non ci sono mai state, prima d'oggi, due persone che abbiano avuto lo stesso rapporto che c'è stato fra me e Deirdre. Io l'ho aiutata ad uscire dall'oblio più completo.
Io l'ho conosciuta prima che riacquistasse una voce e un udito. Era solo una mente delirante quando stabilii il primo contatto con lei, mezza impazzita per ciò che le era accaduto, e per la paura di ciò che sarebbe accaduto poi. In un senso molto letterale, è rinata, da quella disperata condizione, e io ho dovuto guidarla lungo ogni passo su quella strada. Sono giunto a conoscere i suoi pensieri ancora prima che li pensasse. E quando ti sei trovato in un rapporto così intimo con un'altra mente, il contatto non s'interrompe tanto facilmente». Tornò a infilarsi gli occhiali e fissò Harris col suo sguardo miope attraverso le grosse lenti. «Deirdre è preoccupata», disse. «Lo so. Non mi crederai, ma io posso... sì, percepirlo. Ti ripeto, sono stato troppo vicino alla sua mente, per sbagliarmi. Tu non puoi vederlo, forse. E forse lei neppure lo sa, ancora. Ma la preoccupazione c'è. Quando sono con lei, la sento. E non voglio che salga alla superficie della sua mente ancor più di quanto ha fatto finora. Farò finire tutto questo prima che sia troppo tardi». Harris non ebbe nessun commento da fare. Era troppo al di fuori della sua esperienza. Per un attimo, non disse niente. Poi chiese, in tutta semplicità: «E come?» «Non lo so ancora bene. Devo decidere prima che torni. E voglio vederla da solo». «Credo che tu ti sbagli», replicò Harris, con calma. «Credo che tu t'immagini le cose. E non penso che tu possa fermarla». Maltzer gli lanciò un'occhiata di traverso. «Posso fermarla», dichiarò, con uno strano tono di voce. E si affrettò a proseguire: «È già abbastanza... è quasi umana. Può vivere un'esistenza normale, come il resto della gente, senza tornare al palcoscenico e sugli schermi. Forse questo primo assaggio sarà sufficiente. Devo convincerla che lo è. Se si ritirerà adesso, non indovinerà mai quanto il pubblico possa essere crudele, e forse quella sensazione ancora in profondità di... turbamento, incertezza, qualunque cosa sia... non emergerà mai in superficie. Non deve. Deirdre è troppo fragile per sopportarlo». Sbatté insieme le mani con forza, ed esclamò: «Devo fermarla! Per il suo bene, devo farlo!» Fece un mezzo giro e tornò ad affrontare Harris: «Vuoi andar via, adesso?» Mai, in tutta la sua vita, Harris aveva avuto minor voglia di andarsene da un posto. Per un attimo pensò di replicare, con calma e fermezza: «No, non me andrò». Ma dovette confessare dentro di sé che Maltzer aveva, almeno
in parte, ragione. Quella era una faccenda tra Deirdre e il suo creatore, il culmine, forse, di quel lungo anno d'intimità così simile a un matrimonio, la prova finale per la supremazia dell'uno o dell'altro di cui lui riconosceva la necessità. Se anche avesse potuto, pensò, non avrebbe impedito quello scontro. Forse, durante tutto l'ultimo anno, la tensione aveva continuato ad accumularsi per quel momento cruciale in cui, o l'uno o l'altro, avrebbe dovuto mostrarsi vittorioso. Nessuno dei due era molto stabile, in quel momento, dopo la lunga tensione dell'anno appena trascorso. Poteva esser benissimo che la sanità mentale di uno di loro, o di entrambi, dipendesse dal risultato di quel confronto /o scontro. Ma poiché ognuno dei due era fortemente spinto non da una preoccupazione egoistica, ma da una viva sollecitudine per l'altro, in quella strana tenzone, Harris sapeva che doveva lasciare che sistemassero la cosa da soli. Era già in strada e stava chiamando un tassì, quando gli balenò nella mente l'intero significato di qualcosa che Maltzer aveva detto. «Posso fermarla», aveva dichiarato, con una strana inflessione nella voce. Harris si sentì gelare. Maltzer l'aveva creata... naturalmente, poteva fermarla, se avesse deciso di farlo. C'era forse una chiave in quel corpo flessuoso, che poteva immobilizzarla al volere del suo padrone? Poteva essere imprigionata nella gabbia che era il suo corpo? Mai prima di allora, pensò, in tutto l'arco della storia, un corpo era stato concepito più efficacemente per essere una prigione per la sua mente, quanto quello di Deirdre, se Maltzer avesse scelto di girare la chiave per chiudervela dentro. Dovevano esserci molti modi per farlo. Poteva semplicemente farle mancare ciò che manteneva il suo cervello sveglio e attivo, diminuendo drasticamente la fonte del nutrimento, qualunque fosse, o poteva agire altrimenti. Ma Harris non riusciva a credere che l'avrebbe fatto. Quell'uomo non era pazzo. Non si sarebbe dato la zappa sui piedi. La sua decisione nasceva dalla sua sollecitudine per Deirdre; neppure in casi estremi avrebbe tentato di salvarla imprigionandola, come in un carcere, nel proprio cranio. Per un attimo, Harris esitò, sull'orlo del marciapiede, quasi sul punto di tornare indietro. Ma cosa mai avrebbe potuto fare? Anche accertato che Maltzer intendeva proprio servirsi di tattiche del genere, autolesionistiche per loro stessa natura, come avrebbe potuto qualcuno, a questo mondo, impedirglielo? Avrebbe potuto farlo in cento modi, senza che gli altri se ne accorgessero. Ma... non l'avrebbe mai fatto. Harris sapeva che non l'avrebbe mai fatto. S'infilò lentamente dentro il tassi, corrugando la fronte. Li a-
vrebbe rivisti entrambi domani. Ma fu sommerso, letteralmente, da una pioggia di chiamate eccitate per lo spettacolo del giorno prima, mentre il messaggio che ansiosamente aspettava non arrivò. La giornata passò molto lentamente. Verso sera, si arrese e chiamò l'appartamento di Maltzer. Fu il volto di Deirdre a rispondergli, e questa volta non vide, nella sua immaginazione, i suoi lineamenti che ricordava così bene sovrimporsi all'elmo dorato. Mascherata, e senza volto, lo fissò inscrutabile. «Tutto a posto?» chiese, un po' a disagio. «Sì, naturalmente», lei rispose, e la sua voce suonò metallica, e restò tale, come se Deirdre stesse riflettendo così profondamente su qualche altra faccenda da non preoccuparsi d'intonarla in modo corretto. «Ho fatto una lunga chiacchierata con Maltzer, ieri sera, se è questo che intendi. Tu sai cosa vuole. Ma non è stato ancora deciso niente». Harris si sentì stranamente desolato per l'improvvisa consapevolezza del metallo che la rivestiva. Era impossibile legger qualcosa da quei lineamenti cristallizzati o dalla sua voce. Sia gli uni che l'altra erano troppo ben mascherati. «Cosa hai intenzione di fare?» chiese. «Esattamente quello che ho progettato», lei replicò, con una voce priva d'inflessione. Harris esitò un po'. Quindi si sforzò di apparir pratico, e chiese: «Vuoi che mi metta al lavoro per organizzare gli spettacoli, allora?» Deirdre scosse il cranio delicatamente modellato. «Non ancora. Avrai visto le recensioni di oggi, naturalmente. Gli sono piaciuta». Per la prima volta una sfumatura di calore animò la sua voce, ma appena appena. «Avevo già progettato di farli aspettare un po', dopo il mio primo spettacolo», proseguì. «Un paio di settimane, diciamo. Ricordi quella piccola fattoria nel Jersey, John? Ci vado oggi. Non vedrò nessuno, salvo i servitori che abitano lì. Neppure Maltzer. Neppure te. Ho moltissime cose a cui pensare. Maltzer ha accettato di lasciar tutto in sospeso fino a quando non ci avremo entrambi riflettuto sopra. Anche lui si sta prendendo un po' di riposo. Ti rivedrò subito, al mio ritorno, John. Va bene?» Deirdre interruppe la comunicazione prima che lui avesse il tempo di annuire e di dar forma alle obiezioni che gli erano salite, esitanti, alle labbra. Rimase lì, seduto, a fissare lo schermo. Le due settimane che trascorsero prima che Maltzer lo chiamasse di
nuovo furono le più lunghe che Harris avesse mai vissuto. Pensò a molte cose, in quei giorni. Credeva di esser riuscito a percepire, nell'ultima conversazione di Deirdre, qualcosa di quella preoccupazione, dell'inquietudine interiore di cui gli aveva parlato Maltzer — più un'astrazione che un'angoscia concreta, ma in ogni caso qualche pensiero che occupava la sua mente e che lei non voleva, oppure non poteva?, condividere neppure con i suoi più intimi confidenti. Harris si chiese perfino se, qualora la sua mente si fosse davvero trovata in quel delicato equilibrio che Maltzer temeva, si sarebbe mai potuto sapere se fosse, o no, scivolata dall'altra parte. C'erano così poche indicazioni di questo o quell'evento interiore, nell'immutabile forma di lei... Soprattutto, Harris aveva continuato a chiedersi che cosa avrebbero potuto fare due settimane nel nuovo ambiente al suo corpo ancora non del tutto sperimentato, e al suo cervello adattato a schemi nuovi di zecca. Se Maltzer aveva ragione, allora avrebbe potuto esserci stato qualche percettibile... sì, drenaggio... di cui lui si sarebbe accorto quando fossero rientrati. Cercò di non pensarci. Maltzer gli videofonò la mattina fissata per il ritorno di Deirdre. Aveva un pessimo aspetto. Quel riposo non doveva essere stato affatto un riposo, per lui. Il suo volto era quasi quello d'un teschio, gli occhi miopi ardevano dietro le lenti. Ma pareva curiosamente in pace con se stesso, malgrado il suo aspetto. Harris pensò che avesse raggiunto qualche decisione ma, qualunque cosa fosse, ciò non impediva alle sue mani di tremare o al tic nervoso, che gli tirava il volto di lato in una smorfia, di manifestarsi a intervalli. «Vieni subito da me», gli disse brevemente, senza preamboli. «Sarà qui fra mezz'ora». E spense l'apparecchio senza aspettare una risposta. Quando Harris arrivò, Maltzer era in piedi accanto alla finestra, intento a guardare in basso e a tener calme le sue mani tremanti schiacciandole contro il davanzale. «Non posso fermarla», disse con voce bassa, monotona, e ancora una volta senza preamboli. Harris ebbe l'impressione che in quelle due settimane i suoi pensieri avessero percorso e ripercorso sempre la stessa pista, fino a quando ogni parola pronunciata era diventata soltanto un interludio vocale nei circuiti della sua mente. «Non ho potuto farlo. Ho perfino tentato con le minacce, ma lei sapeva che non intendevo parlare sul serio. C'è soltanto una via d'uscita, Harris». Alzò per un attimo lo sguardo, gli occhi incavati dietro le lenti. «Ma lasciamo stare. Te ne parlerò più tardi».
«Le hai spiegato tutto, come hai fatto con me?» «Quasi tutto. Le ho perfino detto, l'ho ribadito più volte, di quella... sensazione di angoscia che io so che sente. L'ha negato. Ma mentiva. Ed entrambi lo sappiamo. Dopo lo spettacolo, era peggio di prima. Quando l'ho vista, quella sera, ti dico che lo sapevo... lei sente qualcosa di sbagliato, ma non vuole ammetterlo». Scrollò le spalle. «Be'...» Nel silenzio, udirono il lieve ronzio dell'ascensore che scendeva dalla piattaforma degli elicotteri, sul tetto. Entrambi si voltarono verso la porta. Non era cambiata affatto. Scioccamente, Harris ne rimase un po' sorpreso. Poi si riprese, ricordando che non sarebbe mai cambiata... mai, fino alla morte. Lui sì, sarebbe incanutito, sarebbe invecchiato dentro e fuori; e lei avrebbe continuato a muoversi davanti a lui come adesso, flessuosa, dorata, enigmatica. Tuttavia, gli parve che Deirdre trattenesse un attimo il respiro alla vista di Maltzer e del suo aspetto devastato. Deirdre, in realtà, non aveva alcun respiro da trattenere, ma quando li salutò la sua voce era scossa. «Sono contenta che siate qui tutti e due», disse, con una lieve esitazione. «Fuori è una giornata bellissima. Il Jersey era splendido. Mi ero dimenticata di quanto potesse essere meraviglioso, d'estate. La clinica ti ha fatto bene, Maltzer?» Lui mosse di scatto la testa e non rispose. Deirdre continuò a parlare con voce chiara, sfiorando gli argomenti in superficie, senza dir nulla d'importante. Questa volta Harris la vide come, presume, l'avrebbe vista il suo pubblico, dopo, quando la sorpresa si fosse esaurita e l'immagine della Deirdre viva si fosse del tutto cancellata dal ricordo. Adesso era tutta metallo, la Deirdre che avrebbero conosciuto d'ora in avanti. E non era meno adorabile, per questo. E neppure meno umana... non ancora. I suoi movimenti erano un miracolo di grazia flessuosa, un continuo manifestarsi di fluidità in tutto il suo corpo. (D'ora in avanti, Harris se ne rese improvvisamente conto, sarebbe stato il suo corpo, e non il suo volto, a possedere la mobilità necessaria ad esprimere le emozioni. Doveva recitare con le braccia, le gambe e quel suo corpo sottile, abbigliato con quella lunga veste metallica). Ma c'era qualcosa di sbagliato. Harris lo sentiva quasi tangibilmente nell'inflessione della sua voce, nel modo elusivo in cui si esprimeva, nel modo in cui si schermiva. Era questo che aveva inteso dire Maltzer, era ciò che
lui stesso aveva sentito, appena prima che lei partisse per la campagna. Soltanto che adesso era più intenso, non c'era dubbio. Fra loro e la vecchia Deirdre, la cui voce ancora si faceva udire, era stato innalzato un velo di... distacco. Dietro di esso, Deirdre era in preda all'angoscia. In qualche modo, da qualche parte, lei aveva fatto qualche scoperta che l'aveva profondamente influenzata. E Harris aveva una tremenda paura di sapere cos'era quella scoperta. Maltzer aveva ragione. Era ancora appoggiato alla finestra, intento a fissare, senza vederlo, l'immenso panorama di New York, coperto dalla ragnatela dei ponti per il traffico, scintillante dei riflessi del sole sui vetri, con le sue vertiginose distanze che si tuffavano verso il basso, tra le ombre azzurre che permeavano il livello del suolo. Ora le chiese, irrompendo nell'interminabile chiacchierio della sua voce limpida: «Stai bene, Deirdre?» Ella rise. Era un'adorabile risata. Attraversò agilmente la stanza, e la luce del sole trasse rapidi barbagli dalla sua veste metallica tintinnante, e si chinò su una scatola di sigarette su un tavolo. Le sue dita si mossero fluide. «Ne vuoi una?» gli chiese, e si avvicinò con la scatola a Maltzer. Questi lasciò che Deirdre gl'infilasse in bocca uno di quei sottili cilindri e l'accendesse, ma non parve accorgersi di ciò che lei faceva. Deirdre rimise la scatola al suo posto, poi attraversò la stanza fermandosi davanti a uno specchio sulla parete opposta, e cominciò a far delle prove, col corpo che fremette in una serie di ondulazioni dorate. «Certo che sto bene», rispose infine. «Tu menti». Deirdre non si voltò. Lo stava osservando riflesso nello specchio, ma la lente ondulazioni del suo corpo continuarono, languide, imperturbate. «No», disse, rivolgendosi a entrambi. Maltzer tirò alcune energiche boccate dalla sigaretta. Poi spalancò la finestra con un violento strattone e lanciò il mozzicone fumante nell'abisso sottostante. Insisté; «Non puoi ingannarmi, Deirdre». La sua voce suonò imprevedibilmente calma. «Ti ho creata, mia cara, e lo so. È da molto tempo, ormai, che sento crescere in te quest'inquietudine. Oggi è assai più forte di quanto fosse due settimane or sono. Ti è successo qualcosa, laggù in campagna. Non so cosa sia stato, ma sei cambiata. Sei disposta ad ammettere con te stessa di che cosa si tratta, Deirdre? Non ti sei ancora resa conto che non devi tornare sul palcoscenico e sugli schermi?» «Perché no?» chiese Deirdre, ancora senza guardarlo, salvo una fugace
occhiata indiretta, attraverso lo specchio. Adesso i suoi gesti erano più lenti, intrecciando pigri disegni nell'aria. «No, non ho cambiato idea». Era tutto metallo... esternamente. Stava approfittando, in maniera sleale, della propria metallicità. Si era profondamente ritirata nel suo intimo, dietro il mascheramento della sua voce senza volto. Perfino il suo corpo, i cui movimenti involontari avrebbero potuto tradire ciò che sentiva (ora l'unico modo in cui avrebbe potuto tradirsi) era indotto da lei a compiere quei movimenti quasi rituali che celavano del tutto ogni altra cosa. Fintanto che quei movimenti ondeggianti, intrecciati sapientemente, occupavano l'intera sua superficie, nessuno avrebbe avuto alcuna traccia per indovinare cosa stesse accadendo nel cervello nascosto dentro quell'elmo dorato. Harris fu colpito all'improvviso, e per la prima volta, dalla completezza di quel ripiegamento in se stessa. Quando l'aveva vista l'ultima volta in quella stessa stanza, allora era completamente Deirdre, per niente mascherata, che lasciava traboccare dal metallo il calore e l'ardore della donna che aveva conosciuto tanto bene. Ma da allora — dalla sera in cui c'era stato quello spettacolo — non aveva più rivisto la Deirdre che gli era famigliare. Si chiese, in un impeto d'emozione, perché. Aveva forse cominciato a sospettare, già in quel suo momento di trionfo, quale volubile padrone avrebbe potuto essere il pubblico? Aveva forse colto mormorii e risate in qualche piccola porzione degli spettatori, pur soffocati tra gli applausi della grande maggioranza? Oppure Maltzer aveva ragione? Forse in quell'ultimo colloquio che lui, Harris, aveva avuto con lei, era stato l'ultimo, luminoso, rifulgere della perduta Deirdre, animata dall'eccitazione e dal piacere dell'incontro dopo tanto tempo, un'animazione chiamata a raccolta nell'ultimo sforzo per convincerlo? Adesso, tutto ciò se n'era andato, ma che ciò fosse accaduto per proteggersi dalle possibili crudeltà degli esseri umani, oppure per un definitivo ritiro in una metallicità più congeniale, lui non riusciva a indovinarlo. L'umanità poteva prosciugarsi rapidamente in lei, e la contaminazione del metallo permeare del tutto il cervello là dentro ospitato. Maltzer appoggiò la mano tremante sul bordo esterno del davanzale, e guardò fuori. Disse, con voce più sorda (per la prima volta, la nota querula era scomparsa): «Ho commesso un terribile errore, Deirdre. Ti ho provocato un danno irreparabile». Tacque per un attimo. Deirdre non disse niente. Harris non osò parlare. Dopo un attimo, Maltzer proseguì: «Ti ho reso vulnerabile, non ti ho dato nessun'arma con cui combattere i tuoi nemici. E la razza umana è il tuo
nemico, mia cara, che tu voglia ammetterlo adesso, o più avanti. Credo che tu lo sappia. Credo che sia questa la ragione per cui sei rimasta così silenziosa. Credo che tu l'abbia già sospettato sul palcoscenico due settimane fa, e abbia avuto modo di verificarlo nel Jersey, nei giorni in cui sei stata via. Ti odieranno, dopo un po', perché sei ancora bella, e ti perseguiteranno perché sei diversa... e impotente. Quando la novità si sarà esaurita, mia cara, il tuo pubblico sarà semplicemente una marmaglia». Non la stava guardando. Si era sposto un po' in avanti, guardando fuori della finestra, in basso. I suoi capelli si agitavano al vento che soffiava discretamente forte a quell'altezza, facendo udire il suo sibilo, flebile e lamentoso, intorno ai bordi della finestra aperta. «Volevo che quanto ho fatto per te», proseguì, «servisse a chiunque fosse stato vittima d'incidenti distruttivi. Avrei dovuto sapere che il mio dono avrebbe significato una rovina ancora più grande di quella provocata da qualunque mutilazione. Adesso so che esiste un solo modo legittimo grazie al quale un essere umano può creare la vita. Quando tenta un'altra via, come io ho fatto, si tratta sostanzialmente di un rifiuto ad ascoltare la lezione... la lezione di Frankenstein, ricordi? Anche lui dovette impararla, e in un certo senso fu fortunato... per il modo in cui la imparò. Non fu costretto a guardare ciò che venne dopo. Forse non ne avrebbe avuto il coraggio... io so di non averlo». Harris balzò in piedi senz'essersi reso conto di ciò che faceva. Poiché all'improvviso si era reso conto di ciò che stava per accadere. Capi il perché di quell'aria decisa di Maltzer, della sua nuova, innaturale calma. Seppe anche perché Maltzer gli aveva chiesto di venir lì, oggi, cosicché Deirdre non rimanesse sola. Giacché, ricordò Harris, anche Frankenstein aveva pagato con la sua vita l'illecita creazione della vita. Adesso, Maltzer aveva proteso ancor più le spalle e la testa dalla finestra, e guardava giù con una fissità quasi ipnotica. La sua voce tornò, resa fievole dalla brezza, come se una barriera si fosse già frapposta fra lui e loro. Deirdre non si era mossa. La sua maschera senza espressione, nello specchio, lo stava osservando con calma. Doveva aver capito. Eppure non ne diede alcun segno, salvo che adesso l'ondeggiare delle sue braccia si era quasi fermato, lentissimo. Come una danza vista in un incubo, sott'acqua. Naturalmente, era impossibile per lei esprimere una qualunque emozione. Il fatto che il suo volto, adesso, non ne esprimesse alcuna, non avrebbe dovuto, ad esser giusti, esserle imputato. Ma stava fissando la scena con una mancanza di sentimenti così totale... Nessuno di loro due fece an-
che un solo passo verso la finestra. Ora una mossa falsa avrebbe potuto indurlo a scavalcarla. Rimasero immobili, in silenzio, sempre ascoltando la sua voce. «Noi che portiamo illecitamente la vita nel mondo», continuò Maltzer, quasi parlando a se stesso, «dobbiamo farle spazio togliendo dal mondo la nostra. Questa ha tutte le caratteristiche d'una regola inflessibile. Funziona automaticamente. La creatura che creiamo ci rende insopportabile la vita. No, non c'è niente che tu possa fare per aiutare, mia cara. Ti ho chiesto di far qualcosa, dopo averti creato incapace di farla. Ti ho creato per compiere una funzione, e ti ho chiesto di rinunciare alla cosa che eri stata creata per fare. Sono convinto che, se la farai, ti distruggerà, ma la colpa è tutta mia, non tua. Non ti chiedo neppure più di rinunciare al palcoscenico e agli schermi televisivi. So che non puoi rinunciarci, e vivere. Ma io non posso vivere, e guardarti. Ho riversato tutta la mia capacità e tutto il mio amore in un capolavoro supremo, e non posso sopportare di vederlo distrutto. Non posso vivere e vederti fare soltanto ciò che ti ho creata per fare, e distruggere te stessa perché devi farlo. «Ma prima che me ne vada, devo accertarmi che tu abbia capito». Si sporse ancora di più, guardando giù, e la sua voce si affievolì ancora di più, quando la sua testa fu oltre il vento. Adesso stava dicendo cose quasi insopportabili, ma molto da lontano, con tono freddo, spassionato, filtrato attraverso il vento e il vetro, col lontano brusio della città mescolato ad esso, cosicché le sue parole erano stranamente prive di mordente. «Posso essere un codardo», disse, «e sfuggire alle conseguenze di ciò che ho fatto, ma non posso andarmene e lasciarti senza che tu abbia capito. Sarebbe ancora peggio del pensiero del tuo fallimento, immaginarti sconcertata e confusa quando la plebaglia ti si rivolterà contro. Ciò che sto per dirti, mia cara, non costituirà nessuna vera novità — credo che tu lo percepisca già, pur non volendolo ammettere a te stessa. Siamo stati troppo vicini perché sia possibile mentirci, Deirdre... io so, quando non dici la verità. Conosco l'angoscia che è cresciuta nella tua mente. Non sei completamente umana, mia cara. Penso che tu lo sappia che in tanti, differenti modi, malgrado tutto ciò che potevo fare, tu devi essere per forza meno che umana. Hai perduto i sensi della percezione diretta che ti tenevano in contatto col resto dell'umanità. La vista e l'udito sono tutto ciò che ti rimane, e la vista, l'ho già detto, è stato l'ultimo, e il più "freddo" dei sensi a svilupparsi. E tu sei in equilibrio così delicato, su una specie di sottile orlo della ragione... Sei soltanto una mente chiara, ardente, che anima un corpo metallico, come la
fiamma di una candela nel vetro. E altrettanto vulnerabile al vento». Fece una pausa. «Cerca di fare in modo che non ti rovinino completamente», aggiunse, dopo un po'. «Quando si rivolteranno contro di te, quando scopriranno che sei più impotente di loro... vorrei tanto averti creata più forte, Deirdre. Ma non ho potuto. Sono stato abbastanza bravo per il tuo bene e il mio, ma non sufficientemente bravo per far ciò». Nuovamente tacque, per alcuni istanti, sempre guardando in basso. Adesso, era più che mai in equilibrio precario, con più di metà del corpo oltre il davanzale e sostenuto soltanto da una mano stretta sulla cornice. Harris lo fissò con angosciosa incertezza, non sapendo che con un balzo improvviso sarebbe riuscito a prenderlo, oppure se l'avrebbe soltanto fatto precipitar giù. Deirdre stava ancora intessendo i suoi disegni dorati, lenta e immutabile, studiando nello specchio il suo stesso riflesso, il volto e gli occhi mascherati, enigmatici. «Desidero una cosa, comunque», riprese Maltzer, con una voce ancor più remota. «Desidero — prima di metter fine alla mia vita — che tu mi dica la verità, Deirdre. Sarei più felice se fossi sicuro di averti... raggiunto. Capisci cosa ho detto? Mi hai creduto? Perché, se così non fosse, allora saprò che sei perduta al di là di ogni speranza. Se ammetterai il tuo dubbio... e so che tu dubiti... penso che ci possa essere una possibilità per te, dopotutto. Mi mentivi, Deirdre? Tu sai in che modo... in che modo sbagliato ti ho creata?» Vi fu silenzio. Poi, sommesso, un suono appena alitato, Deirdre rispose. La sua voce parve sospesa a mezz'aria, poiché non aveva labbra da muovere che potessero localizzarla fuor dell'immaginazione. «Vuoi ascoltarmi, Maltzer?» chiese Deirdre. «Aspetterò», disse Maltzer. «Di' pure. Sì o no?» Con lentezza, lei lasciò ricadere le braccia sui fianchi. Con un movimento flessuoso e silenzioso voltò le spalle allo specchio e si girò verso di lui. Ondeggiò un poco, facendo tintinnare la veste metallica. «Ti risponderò», disse. «Ma non credo che risponderò a questo. Non con un sì o con un no, ad ogni modo. Ora camminerò un poco, Maltzer, ho qualcosa da dirti, e non posso parlare rimanendo immobile. Mi lascerai andare avanti e indietro nella stanza senza... buttarti giù?» Lui annuì, con estremo distacco. «Non puoi certo interferire coi miei movimenti, da quella distanza», osservò, «ma stammi sempre lontana. Cosa volevi dirmi?» Deirdre cominciò ad andare su e giù per quella porzione di stanza che si
trovava più lontana dalla finestra, muovendosi con fluente naturalezza. Il tavolo con la scatola delle sigarette era sulla sua strada, e lei lo spinse da parte con cautela, fissando Maltzer ed evitando con cura ogni movimento brusco per non spaventarlo. «Non sono... be', subumana», dichiarò, con una sfumatura indignata nella voce. «Lo dimostrerò fra un minuto, ma prima voglio dire qualcos'altro. Devi promettermi di aspettare, e ascoltare. C'è un difetto nel tuo ragionamento, e ne sono risentita. Non sono un mostro alla Frankenstein fatto con carne morta. Sono io stessa... viva. Tu non hai creato la mia vita, l'hai soltanto conservata. Non sono un robot, con delle pulsioni incorporate dentro di me, alle quali devo inesorabilmente obbedire. Sono indipendente e ho la mia volontà, e, Maltzer... sono umana». Harris si era rilassato un po'. Deirdre sapeva ciò che stava facendo. Lui non aveva nessuna idea di ciò che Deirdre aveva in mente, ma adesso era disposto ad aspettare. Non era l'indifferente automa che aveva creduto. L'osservò avvicinarsi nuovamente al tavolo, nel suo ennesimo andirivieni, chinarsi su di esso, mentre la maschera senz'occhi si volgeva verso Maltzer per accertarsi che questa variazione nei suoi movimenti non lo allarmasse. «Sono umana», ripeté, con una voce che sembrava un lieve, dolcissimo canto. «Credi che non lo sia?» chiese, raddrizzandosi e fronteggiandoli entrambi. Poi, all'improvviso, quasi travolgendoli, il calore e l'antico ardente fascino s'irradiavano dovunque intorno loro. Non era più un robot, non era più enigmatica. Harris riuscì a rievocare, nella sua mente, come già aveva fatto in occasione del primo incontro, la sua pelle incantevole e vellutata. E Deirdre restò lì, ondeggiando un po', come aveva sempre fatto, la testa reclinata su un lato, mentre la sua lieve risata li avvolgeva entrambi. Un suono morbido, incantevole... e così familiare! «Naturalmente sono io», dichiarò ad ambedue, e quando queste parole echeggiarono nelle loro orecchie, nessuno dei due poté dubitarne. C'era un che di ipnotico nella sua voce. Deirdre tornò a voltarsi e riprese a camminare avanti e indietro, e la personalità umana che aveva evocato intorno a sé era così potente, che entrambi ne venivano investiti a ondate successive, come se il suo corpo fosse diventato una fornace che irradiava di benefico calore i loro spiriti. «Non che io non abbia degli handicap», proseguì, «ma il mio pubblico non li saprà mai. Non glielo farò sapere. Poiché, e sono convinta che mi crederete, io posso recitare la parte di Giulietta proprio come sono adesso, con un cast di attori in carne ed ossa, e farmi accettare dal mondo. Pensi che potrei, John? Maltzer, non credi che po-
trei?» Si fermò nel punto più lontano del suo andirivieni, e si voltò verso entrambi; ed entrambi la fissarono senza parlare. Per Harris, ella era la Deirdre che aveva sempre conosciuto, oro pallido, squisita negli atteggiamenti e nelle movenze, la radiosità interiore che sfolgorava attraverso il metallo con la stessa brillantezza con cui aveva sempre sfolgorato attraverso la carne. Non ci chiese, adesso, se era vero. Più tardi avrebbe nuovamente pensato che poteva essere soltanto un travestimento, qualcosa che si era messa addosso, come il suo corpo perduto, per toglierlo e indossarlo di nuovo quando avesse scelto di farlo. Ora, l'incontro del suo fascino era troppo intenso per porsi certe domande. Guardò, convinto per un attimo che lei fosse davvero tutto ciò che sembrava. Poteva recitare la parte di Giulietta, se affermava di poterlo fare. Avrebbe potuto dominare un intero pubblico con la stessa facilità con cui comandava ogni più suggestivo movimento del suo corpo metallico. Invero, c'era qualcosa di umano, in lei, in quei momenti, più convincente di qualunque cosa avesse notato prima. Lo disse a se stesso un attimo prima di rendersi conto di un'altra cosa. Guardò Maltzer. Ma anche Maltzer stava guardando quella scena, incantato, suo malgrado, senza più dissentire. Deirdre fece passare il suo sguardo dall'uno all'altro. Poi, gettò indietro la testa e il riso uscì spumeggiante, da lei, in una grande ondata a piena gola. Fu scossa dalla testa ai piedi dall'intensità di quella risata. Harris quasi vide il pulsare della sua gola rotonda, nel lento sussultare della risata che la scuoteva... una schietta allegria con una lieve sfumatura beffarda. Poi, sollevò un braccio e gettò la sigaretta nel caminetto vuoto. Harris quasi soffocò, e per un attimo la sua mente si svuotò in un cieco diniego. No... non era rimasto a osservare un robot che fumava, accettando per normale la cosa. Non era possibile! Eppure, proprio questo aveva fatto. Quello era stato il tocco finale che aveva portato la sua mente affascinata, ipnotizzata, ad accettare la sua umanità. E l'aveva fatto con tanta destrezza, con tanta naturalezza, indossando con tanta disinvoltura e precisione la sua umanità, che la mente di lui, pur così sensibile e pronta alla critica, non aveva sollevato il minimo dubbio. Lanciò un'altra occhiata a Maltzer. Era ancora abbondamentemente proteso oltre il davanzale, ma anche lui, la testa rivolta all'indietro, stava fissando con stupefatta incredulità, e Harris seppe che avevano condiviso l'identica illusione. Deirdre era ancora scossa dalla sua risata. «Be'», chiese, con la voce resa tremula da quello scoppio di allegria, «sono ancora soltan-
to robot, malgrado tutto?» Harris aprì la bocca per replicare, ma non pronunciò una sola parola. Lui non faceva parte, in realtà, di quello spettacolo. L'intreccio riguardava interamente Deirdre e Maltzer; lui non doveva interferire. Continuò a fissare la finestra, e attese. Per un attimo, Maltzer parve scosso nella sua convinzione. «Tu... sei un'attrice», ammise con lentezza. «Ma io... io non sono convinto di sbagliarmi. Credo...» Fece una pausa. Una nota querula era nuovamente entrata nella sua voce, e pareva tormentato ancora una volta, e sgomento, a causa dei vecchi dubbi. Poi, Harris la vide irrigidirsi. Vide la sua ferma decisione ritornargli, e seppe perché. Maltzer era ormai andato troppo lontano lungo il sentiero freddo e solitario che si era scelto, per poter tornare indietro. Non l'avrebbe fatto neppure per prove e dimostrazioni ben più convincenti di quella. Aveva raggiunto le sue conclusioni dopo uno sconvolgimento mentale troppo terribile perché potesse affrontarlo di nuovo. Sicurezza e pace lo aspettavano lungo la via che si era scelto, ormai temprato per seguirla fino in fondo. Era troppo stanco, esausto dopo mesi di conflitto, per poter ritrovare i suoi passi e ricominciare di nuovo. Harris poté intuire l'affannarsi per trovare una via d'uscita, e un attimo dopo vide che l'aveva trovata. «Quello era un trucco», disse con voce sorda. «Forse ti riuscirebbe di giocarlo anche a un pubblico più vasto. Forse hai altri trucchi in serbo. Potrei sbagliarmi io. Ma, Deirdre», il tono della sua voce si fece urgente, «tu non hai risposto proprio a quell'unica cosa che debbo sapere. Non puoi rispondere. Tu provi... sgomento. Tu conosci le tue inadeguatezze, per quanto bene tu possa nasconderle... perfino a noi. Lo so. Puoi negarlo, Deirdre?» Questa volta, lei non scoppiò a ridere. Lasciò cadere le braccia, e il suo dorato corpo flessibile parve afflosciarsi un po' dappertutto, come se il cervello, che fino a un istante prima aveva proiettato intense ondate di fiducia in se stessa avesse allentato la sua energia, e i muscoli immateriali delle sue braccia e delle gambe si fossero allentati con esso. Una parte della sua ardente umanità cominciò a svanire. Fu come riassorbita dentro di lei e scomparve, come il fuoco, nella fornace del suo corpo, si stesse spegnendo e raffreddando. «Maltzer», replicò Deirdre, incerta, «a questo non posso rispondere... ancora. Non posso...» E poi, mentre aspettavano ansiosi che concludesse la frase, ella av-
vampò. Smise di essere una figura quasi immobile, statica... avvampò. Fu qualcosa che nessun occhio avrebbe mai potuto cogliere e tradurre in termini che il cervello potesse seguire; il suo movimento fu troppo rapido. Maltzer, là alla finestra, distava da lei l'intera lunghezza della stanza. Si era ritenuto sicuro a quella distanza, sapendo che nessun essere umano normale avrebbe potuto raggiungerlo prima che lui agisse. Ma Deirdre non era né normale, né umana. Nel medesimo istante in cui se ne stava afflosciata davanti allo specchio, si trovò al fianco di Maitzer. Il suo movimento negò il tempo e distrusse lo spazio. E come la punta ardente di una sigaretta al buio descrive dei cerchi continui davanti agli occhi, quando colui che la regge la muove in fretta, così Deirdre balenò in un folgorante movimento dorato attraverso l'intera stanza. Ma, fatto strano, non divenne una macchia confusa. Harris, guardando, sentì la sua mente svuotarsi di nuovo, ma con meno sorpresa, poiché nessun occhio o cervello normali avrebbero potuto percepire cosa fosse ciò che balenava lì davanti. (In quell'istante di completa, quasi insopportabile suspense, il suo complesso cervello umano si arrestò all'improvviso, annientando il tempo a modo suo, ritraendosi in un suo angolo tranquillo, per analizzare, in un lampo di secondo, ciò che aveva appena visto. Il cervello poteva farlo in un tempo brevissimo o nullo; le parole sarebbero state troppo lente. Ma sapeva di aver visto una sorta di tesseratto di movimento umano, una parabola sdipanantesi nella quarta dimensione. Un punto zerodimensionale, mosso attraverso io spazio, crea una linea unidimensionale; e questa linea, mossa trasversalmente, genera una superficie bidimensionale la quale, a sua volta, spostandosi, crea un volume tridimensionale. Teoricamente, un solido in movimento, dovrebbe produrre una figura tetradimensionale. Ma nessuna creatura umana aveva visto, prima di quell'istante, una figura a tre dimensioni spostarsi attraverso il tempo e lo spazio insieme... fino a quel momento. Deirdre non si era offuscata in una macchia indistinta; ad ogni posizione successiva, la sua immagine era chiara, precisa, ma non come le figure in movimento su una pellicola cinematografica. Niente di simile a ciò che, fino a quel momento, poteva essere espresso in un linguaggio umano, sia pure creando nuove parole a questo scopo. La mente vedeva, ma senza percepire. Né le parole né i pensieri potevano risolvere ciò che accadde in termini comprensibili per il cervello umano. E forse lei non si era letteral-
mente mossa attraverso la quarta dimensione. Forse — dal momento che Harris aveva continuato a vederla — quell'evento inimmaginabile era quasi realmente accaduto, anche se non del tutto. Ma c'era andata vicinissima). Mentre, per il lento occhio della mente, Deirdre si trovava ancora, immobile, all'estremità più lontana della stanza, ella era già al fianco di Maitzer, le sue lunghe, flessibili dita strette con delicatezza, ma anche con invincibile forza, intorno al suo braccio. Deirdre aspettò... La stanza riarse. Un'improvvisa vampata di calore investì il volto di Harris. Poi l'aria tornò a calmarsi, e Deirdre stava dicendo, in un bisbiglio lamentevole: «Mi spiace... dovevo farlo. Mi spiace... non volevo che tu sapessi...» Il normale fluire del tempo riagguantò Harris. E insieme a lui, Maltzer. Lo vide sussultare convulsamente per sfuggire alla morsa di quelle mani, in uno sforzo futile, ridicolo d'impedire ciò che era già accaduto. Il pensiero era disperatamente lento, paragonato alla rapidità di Deirdre. Quel brusco sussulto verso l'esterno era stato assai violento. Violento abbastanza da rompere la stretta di mani umane e catapultare Maltzer fuori e giù, nell'abisso turbinante di New York. La mente balzò avanti a una conclusione logica, e vide Maltzer che si torceva, roteava e rimpiccioliva nella luce del sole, verso le ombre che avvolgevano il suolo. La mente evocò perfino il grido acuto e stridulo che precipitava giù col corpo, restando nella sua scia. Ma la mente si stava basando su fattori umani. Sempre con estrema delicatezza e un fluido movimento, Deirdre sollevò Maltzer dal davanzale e senza sforzo lo riportò dentro alla sicurezza della stanza. Lo trasportò fino a un sofà, e le sue dita allentarono la presa, restituendogli, lentamente, la libertà. Maltzer sprofondò nel divano senza parlare. Nessuno parlò per un tempo insopportabilmente lungo. Harris non ci riuscì. Deirdre attese, paziente. Fu Maltzer a recuperare la voce per primo, e quando lo fece, fu per ritornare, cocciuto, sul suo argomento, come se la sua mente fosse incapace di abbandonare un solco che aveva scavato così in profondità. «Va bene», disse, ansimante, «va bene, stavolta mi hai fermato. Ma io so, capisci, lo so. Non puoi nascondermi ciò che provi nel tuo intimo, Deirdre, quel tuo profondo, preoccupato disagio. Io so che cosa ti turba. E la prossima volta... la prossima volta non mi lascerò abbindolare!» Deirdre produsse il suono d'un sospiro. Non aveva polmoni per emettere
il sospiro che stava imitando, anche se era difficile rendersene conto. Era difficile rendersi conto che non stava ansimando dopo il tremendo sforzo di pochi istanti prima: anche se la mente sapeva il perché, non poteva accettarne la ragione. Deirdre era ancora troppo umana. «Ancora non vedi?» disse. «Maltzer, pensa... pensa!» C'era un puff accanto al divano. Deirdre vi si lasciò affondare con grazia, stringendosi le ginocchia avvolte dalla veste metallica, la testa piegata all'indietro per guardare Maltzer in visto. Ora, vi leggeva soltanto uno stupore attonito; era passato attraverso una tempesta emotiva troppo intensa per riuscire anche soltanto a pensare. «D'accordo», disse infine Deirdre, «lo ammetto. Ascoltami... hai ragione, sono infelice. So che quanto hai detto è vero... ma non per il motivo che tu pensi. L'umanità ed io siamo molto lontani, e ci allontaniamo sempre di più. Sarà difficile riempire il vuoto. Mi senti, Maltzer?» Harris vide il tremendo sforzo che Maltzer dovette fare per ridestarsi. Vide l'uomo rimettere a fuoco la propria mente e drizzarsi sul divano con stanca rigidità. «Tu... tu lo ammetti, allora?» chiese, cauto e disorientato. Deirdre mosse la testa di scatto. «Mi giudichi ancora delicata?» ribadì. «Lo sai che ti ho portato fin qui, col braccio teso, attraversando mezza stanza? Ti rendi conto che non pesi niente per me? Potrei...» si guardò intorno, con un improvviso gesto violento, alquanto terrorizzante, «...potrei distruggere questo edificio, abbattendolo», completò, con calma. «Potrei aprirmi la strada attraverso queste pareti, sfondandole, credo. Non ho ancora scoperto alcun limite alla forza che posso generare, se ci provo». Sollevò le sue mani dorate e le fissò. «Forse il metallo si romperebbe, ma d'altronde io non provo sensazioni...» Maltzer rantolò: «Deirdre...» Lei sollevò lo sguardo, con quello che un tempo sarebbe stato un sorriso. Questo si fece udire chiaramente nella sua voce. «Oh, non lo farò. Non avrei neppure bisogno di farlo con le mani, se lo volessi. Guarda... ascolta!» Spinse indietro la testa e un profondo, vibrante ronzio si formò e crebbe in quella che si poteva ancora pensare fosse la sua gola. Si fece rapidamente più profondo e le orecchie dei due uomini cominciarono a rintronare. Il ronzio si fece ancora più profondo, e allora anche i mobili cominciarono a vibrare. E le pareti presero, quasi impercettibilmente, a tremare. La stanza era piena d'un suono che faceva cozzare ogni atomo contro quelli accanto, con una tremenda forza dirompente.
Il suono cessò. Il ronzio si spense. Poi Deirdre si mise a ridere e produsse un suono molto diverso. Pareva estendersi come un braccio lungo una retta... verso la finestra; con piccole scosse successive, che quasi subito si fusero in un unico, fluido movimento, la finestra si chiuse. «Visto?» chiese Deirdre. «Visto?» Ma Maltzer riusciva soltanto a starsene immobile, gli occhi sbarrati. Anche Harris fissava la scena, cominciando ad accettare, con la sua mente intorpidita, ciò che Deirdre sottintendeva. Entrambi erano ancora troppo storditi per balzare a una qualunque conclusione. Deirdre si alzò, con un moto d'impazienza, e cominciò a camminare un'altra volta avanti e indietro, con la veste metallica tintinnante che balenava di riflessi. Era come una pantera, nella sua flessuosità. Ora potevano cogliere la potenza dietro quei movimenti; non la consideravano più debole, impotente, anche se erano ancora lontani dall'afferrare la verità. «Ti sbagliavi su di me, Maltzer», disse, e nella sua voce risuonò un deliberato tono paziente. «Ma avevi anche ragione, in una maniera che non hai indovinato. Non ho paura dell'umanità. Non ho nulla da temere dagli uomini. Ebbene», la sua voce assunse una sfumatura di disprezzo, «ho già lanciato una nuova moda negli indumenti femminili. Entro la prossima settimana non vedrete più una sola donna per strada senza una maschera come la mia, e ogni indumento che non sarà tagliato come una clamide, sarà fuori moda. Non ho paura dell'umanità! Non perderò il contatto con loro a meno che non sia io che voglio farlo. Ho imparato molto... ho già imparato anche troppo». La sua voce svanì per un attimo, e Harris ebbe una visione fugace e spaventosa di Deirdre che compiva esperimenti nella sua fattoria, tutta sola... che provava l'intera gamma della sua voce, che provava la sua vista — possedeva forse una visione microscopica e telescopica? — e il suo udito era forse anormalmente flessibile come la sua voce? «Temevi che avessi perso il tatto, l'olfatto, il gusto», continuò Deirdre, proseguendo la sua marcia avanti e indietro con quel passo poderoso, tigresco. «Pensi che l'udito e la vista non siano sufficienti? Ma perché credi che la vista debba essere stato l'ultimo dei sensi a manifestarsi? Sì, può essere senz'altro il più recente, Maltzer... Harris... ma perché quest'idea che debba essere l'ultimo?» Forse quest'ultima frase non era stata bisbigliata. Forse era stato soltanto il loro udito che l'aveva fatta sembrare sottile e distante, mentre il cervello si contraeva per non permettere a quel pensiero di entrare in tutta la sua
sconvolgente interezza. «No», disse Deirdre, «non ho perso contatto con la razza umana. Non lo perderò mai, a meno che io non voglia farlo. È troppo facile... troppo facile». Mentre continuava a camminare su e giù, si guardava i piedi scintillanti, e il suo volto mascherato era rivolto altrove. Adesso nella sua morbida voce risuonava il dolore. «Non avevo intenzione di fartelo sapere», proseguì. «Non l'avrei mai fatto, se non fosse accaduto questo. Ma non potevo lasciarti morire, convinto di aver fallito. Hai creato una macchina perfetta, Maltzer, più perfetta di quanto sapessi». «Ma Deirdre...» alitò Maltzer, puntandole addosso due occhi affascinati e ancora increduli, «ma Deirdre, se abbiamo avuto successo, cosa c'è di sbagliato? Adesso lo sento... l'ho sentito tutto il tempo. Se sei così infelice — perché lo sei ancora, più che mai... Perché Deirdre?» Lei sollevò la testa e Io guardò, senz'occhi, ma con uno sguardo penetrante. «Perché ne sei così sicuro?» gli chiese, gentilmente. «Credi che potrei sbagliarmi, conoscendoti come ti conosco? Ma io non sono Frankenstein... hai detto che la mia creazione è perfetta. Allora, cosa...» «Riuscirai mai a duplicare questo corpo?» chiese Deirdre. Maltzer abbassò lo sguardo sulle sue mani tremanti. «Non lo so. Ne dubito. Io...» «Potrebbe farlo qualcun altro?» Maltzer restò silenzioso. Fu Deirdre a rispondere per lui: «Non credo che qualcuno potrebbe. Credo si sia trattato di un incidente. Una specie di mutazione a metà strada fra la carne e il metallo. Qualcosa di accidentale e... innaturale, che ha svoltato su una strada sbagliata dell'evoluzione. Una strada sbagliata per tutti, un punto morto... fuorché per me sola. Un altro cervello in un corpo come questo potrebbe morire, o impazzire, come appunto tu pensavi che sarebbe accaduto a me. Le sinapsi sono troppo delicate, sì. Ma tu sei stato fortunato... definiamolo così... con me. Da quanto so adesso, non credo che un... che una cosa strana e barocca come me potrebbe verificarsi di nuovo». Fece una breve pausa. «Ciò che hai fatto, in un certo senso, è stato come attizzare il fuoco della Fenice. E la Fenice rinasce perfetta e rinnovata dalle proprie ceneri. E sai perché la Fenice è costretta a riprodursi in quel modo?» Maltzer scosse il capo".
«Te lo dirò io», fece Deirdre. «Perché c'è una sola Fenice. Una sola nel mondo intero». Si guardarono in silenzio. Poi Deirdre si mosse, con una lieve scrollata. «La Fenice usciva sempre perfetta dal fuoco, naturalmente. Io non sono debole, Maltzer. Non devi consentire a quel pensiero di continuare a tormentarti. Non sono vulnerabile e impotente. Non sono subumana». Uscì in un'asciutta risata. «Suppongo», disse, «di essere superumana». «Ma... non felice». «Ho paura, Maltzer. Ma non è infelicità... è paura. Non voglio allontanarmi tanto, troppo, dalla specie umana. Vorrei non averne bisogno, ma è così. È per questo che tornerò sul palcoscenico... per tenermi in contatto con la gente in carne e ossa fintanto che potrò. Ma vorrei che ce ne fossero altri, come me. Mi sento... mi sento sola, Maltzer». Di nuovo silenzio. Poi Maltzer disse a sua volta, con una voce remota quanto quella con cui aveva parlato loro attraverso il vetro della finestra, sopra abissi profondi come l'oblio: «Allora, dopotutto, sono Frankenstein». «Forse lo sei», disse con un filo di voce Deirdre. «Non lo so. Forse lo sei». Voltò loro le spalle e si avviò, fluida e possente, attraverso la stanza verso la finestra. Adesso che Harris sapeva, poteva quasi udire la sua pura energia vibrare, pura e intatta, nelle sue membra, mentre camminava. Deirdre appoggiò la fronte dorata contro il vetro — che ebbe un tintinnio fioco e musicale — e guardò giù nell'abisso, sopra il quale Maltzer era rimasto sospeso. La sua voce suonò meditativa, mentre guardava quegli spazi vertiginosi che si erano offerti, invitanti, all'oblio del suo creatore. «C'è un solo limite che, ora, mi riesce d'immaginare», disse, con voce quasi inaudibile. «Soltanto uno. Il mio cervello finirà per logorarsi, fra quarant'anni o giù di lì. Fra adesso e allora, imparerò... e cambierò... saprò di più di quanto riesco a indovinare oggi. Cambierò... È una cosa che fa paura. Non mi piace pensarci». Appoggiò una mano dorata sul chiavistello e scostò leggermente la finestra con una spinta. Il vento sibilò lamentevole attraverso la fessura. «Potrei metter fine a tutto ciò adesso, se volessi», dichiarò. «Se volessi. Ma non voglio. Non posso, davvero non posso. Ci sono tante cose, ancora, che non ho provato. Il mio cervello è umano, e nessun cervello umano saprebbe lasciare intentate queste possibilità. Mi chiedo, tuttavia... mi chiedo...» La sua voce era morbida, e familiare, negli orecchi di Harris. La voce con la quale Deirdre aveva parlato e cantato, dolce al punto da incantare il
mondo intero. Ma quando la preoccupazione l'afferrava, un certo appiattimento s'insinuava in quel suono. Quando lei non ascoltava la propria voce, questa non manteneva del tutto il suo tono di autenticità. Era come se parlasse dentro una stanza dalle pareti di ottone, e gli echi della voce sapevano di quel metallo. «Mi chiedo...» ripeté, con quella vaga punta metallica nella voce. FINE