Stefano Tura
Le caramelle di Super Osama Viaggio a Kandahar di un inviato di guerra I° edizione: marzo 2002
a Saad Moh...
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Stefano Tura
Le caramelle di Super Osama Viaggio a Kandahar di un inviato di guerra I° edizione: marzo 2002
a Saad Mohammed in ricordo di Maria Grazia Cutuli, Julio Fuentes, Azizullah Haidari, Harry Burton, Johanne Sutton, Pierre Billaud, Volker Handloik, Ulf Stromberg, uccisi in Afghanistan nel novembre 2001 di Daniel Pearl, ucciso in Pakistan nel febbraio 2002 e di Antonio Russo, Ilaria Alpi, Miran Hrovatin, Marcello Palmisano, Marco buchetta, Alessandro Ota, Dario D'Angelo, uccisi in Cecenia, Somalia, Bosnia
Caramelle? Non si tratta di un tentativo di dubbio gusto di fare dell'ironia sugli attentati attribuiti a Osama bin Laden, né del nick-name di una nuova terribile arma chimica dei terroristi di Al Qaeda. Le caramelle di Super Osama («Super Osama Kulfa Balls») esistono veramente. Le ho trovate in un chiosco sperduto tra le montagne lungo l'unica strada che collega Quetta (Pakistan) a Kandahar (Afghanistan), a qualche decina di chilometri dal confine. L'immagine di quel pacchetto è finita, non a caso, sulla copertina di questo libro. Ho trascorso un mese in Pakistan e Afghanistan durante la guerra e di stranezze come queste ne ho viste tante. Ad esempio, durante un'accesa manifestazione di protesta di un gruppo di integralisti, svoltasi a Quetta in un caldo venerdì di Ramadan, ho trovato un venditore ambulante di gadget che, mentre gli ulema arringavano la folla lanciando anatemi antiamericani, distribuiva, per pochi centesimi di rupie, figurine adesive con il volto di Bin Laden, quasi fosse un campione della nazionale di Stefano Tura
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calcio. E ancora, nell'hotel Pearl Continental di Peshawar (Pakistan), unico albergo internazionale al confine con l'Afghanistan, frequentato in quel periodo esclusivamente da giornalisti stranieri, ho visto, in un negozio dello shopping center, magliette di vari colori con stampata l'immagine di Bin Laden e frasi di sostegno alla jihad, la guerra santa. Propaganda globalizzata quindi, che usa i più semplici ed efficaci strumenti del marketing. Gli stessi, peraltro, utilizzati dai "nemici". Nella casa del mullah Omar, capo spirituale dei talebani, a Kandahar, ho trovato volantini colorati della grandezza di un biglietto da stadio, lanciati dai cacciabombardieri americani insieme alle bombe, raffiguranti da un lato Bin Laden e i suoi luogotenenti su uno sfondo di civili impiccati, dall'altro gli stessi leader di Al Qaeda mostruosamente trasfigurati in teschi, a indicare la loro vera natura. Nel mio libro-diario di guerra ho cercato non soltanto di raccontare il conflitto come l'ho vissuto in quei giorni, ma soprattutto le storie della gente, la vita dei villaggi dimenticati nel deserto tra la paura delle "bombe intelligenti" in caduta libera dal cielo e la necessità di trovare qualcosa da mangiare, la dignità di un popolo abituato a vivere da rifugiato nella propria terra e la curiosità negli occhi dei bambini afgani che non avevano mai visto gli "stranieri". Quando il mio giornale, il Tg1, mi ha mandato in Asia Centrale era il 17 novembre 2001: la guerra era iniziata da più di un mese e quasi tutte le principali città dell'Afghanistan, tra cui Kabul, erano state conquistate dalle truppe dell'Alleanza del Nord. Soltanto il sud del paese, e in particolare Kandahar, era ancora saldamente sotto il controllo dei talebani. Ma la guerra era tutt'altro che terminata. Me ne sono reso conto immediatamente il 19 novembre, quando, cercando di districarmi tra informazione, controinformazione e disinformazione di guerra, nella terra di nessuno tra Peshawar e il confine afgano mi è giunta la tragica notizia dell'uccisione di Maria Grazia Cutuli, la collega del «Corriere della Sera». Si trovava in viaggio tra Jalalabad e Kabul (zone detalebanizzate!) assieme ad altri tre colleghi. Gli assassini li hanno freddati sulla strada. Un'esecuzione. La realtà mi è piombata addosso dopo appena due giorni dall'inizio del mio viaggio. La sera prima stavo pianificando l'entrata in Afghanistan Stefano Tura
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attraverso quello stesso percorso. Da quel momento ho deciso di passare per i sentieri del sud. La morte, unica verità incontrovertibile della guerra, l'ho incontrata più volte in quei giorni. Negli occhi privi di vita del corpo di Maria Grazia, che ho riconosciuto dentro a una cassa di legno grezzo giunta in Pakistan dopo due giorni di viaggio, e negli occhi privi di speranza dei bambini mutilati e feriti all'ospedale di Quetta. Certe immagini si sono fissate nella mia mente più di altre. Ad esempio i piccoli profughi del campo di Kili Faizo seduti sui sacchi di cibo marcati «USA» del World Food Program o i soldati quattordicenni dei mujaheddin orgogliosi di mostrare il loro kalashnikov per le strade di Kandahar. Ma anche la maestosa bellezza delle montagne dell'Afghanistan al tramonto, uno scenario quasi lunare, e la spessa coltre di inquinamento che ha spento definitivamente la luce del sole sopra Peshawar, Islamabad, Quetta, Kandahar. Nel 1999 ero nei Balcani per seguire l'intervento militare della NATO a sostegno dei kossovari contro le milizie serbe. Tutto era più chiaro, nonostante le bombe impazzite sulla tv di Belgrado o sull'ambasciata cinese. Questa volta no. Quella in Afghanistan è una guerra-non-guerra, ambiguamente dichiarata e tacitamente accettata. Anche dopo aver visto con i miei occhi i talebani in fuga dalle città, tuttora non capisco perché il terrorismo internazionale dovrebbe finire con il collasso di un movimento politico-religioso in Afghanistan. Allora come definire i fronti armati della Cecenia, delle Filippine, della Turchia o i più vicini terroristi dell'IRA e dell'ETA? Ci sarà una enduring freedom anche per loro? Sarà questo il nome che in futuro si darà a guerre simili, non ufficiali, che costano miliardi di dollari e migliaia di vite umane? Non ho scritto questo diario con l'intento di spiegare il significato della guerra in Afghanistan o per raccontare le strategie militari. Non sono né un esperto di politica internazionale né, tantomeno, ho competenze in campo bellico. Ho fatto semplicemente il cronista e ho scritto ciò che ho potuto vedere e sentire in un mese di guerra, liberando la mente dai pregiudizi. Per questo motivo il mio libro è un diario e non un saggio. Come quello che si scrive durante un viaggio o quello che, da ragazzo, si tiene nascosto dai genitori perché contiene le parole che "non hai detto". Stefano Tura
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Come quello dei bambini americani, figli dei vigili del fuoco morti l'11 settembre. O delle ragazze afgane che non si toglieranno mai il burqa.
Le caramelle di Super Osama Lo steward pakistano ha i baffi e strani capelli rossicci sicuramente tinti. Al momento del decollo dalla pista dell'aeroporto di Dubai, si nasconde dietro una tenda tra la cabina di pilotaggio e le prime file di poltrone. Si sente azionare il microfono e dopo alcuni istanti inizia una litania in arabo. A me vengono i brividi. Essere su un aereo di linea pakistana diretto al confine con l'Afghanistan, accompagnato da questa insolita colonna sonora, mi fa subito pensare ai kamikaze che hanno lanciato gli aerei contro le Torri Gemelle. Per stemperare la tensione, appena lo steward riemerge dal suo angolo gli chiedo cos'era quel canto. «È una preghiera», risponde. «Ho chiesto ad Allah che ci protegga in questo volo e che ci tenga per mano». Lo ringrazio e chiedo di avere un po' d'acqua. La tensione non mi è passata, anzi. Il volo PK232 è partito da Dubai alle 3,30 del mattino. Destinazioni previste: Islamabad, e poi la mia: Peshawar. Viaggiamo in business class: con me c'è Franco, l'operatore, e poche altre persone. Saremo sette su quaranta posti disponibili, e solo stranieri: sauditi, canadesi, iraniani, inglesi. Mi affaccio tra le file della classe economica: il panorama è molto diverso. Sono quasi tutti pakistani: uomini con il turbante nero e la barba lunga, altri con il pakul in testa, altri ancora vestiti con il classico camicione bianco. Le donne sono quasi tutte velate. Mi fissano in silenzio; vedo nei loro occhi le domande che non mi faranno mai: «Perché sei qui? Che cosa dirai di noi? Qual è la tua verità? Ma soprattutto, che cosa vuoi?». Riattraverso il "confine" e torno in business. Le hostess stanno servendo il pranzo. Com'è lontana la verità! Ripenso a quando, tre giorni fa, il mio direttore mi ha proposto di andare a Peshawar - una decina di giorni, per coprire l'"oltrefrontiera", i campi profughi, le iniziative umanitarie, i movimenti fondamentalisti: fin da subito, ho sentito che avrei voluto andare oltre, fare di più. Mi bastano pochi minuti per capire che, dal momento in cui metterò piede a Peshawar, mi troverò di fronte a una scelta: stare da una parte o dall'altra della "tenda", cercare una risposta in quegli sguardi oppure raccontare la verità universale, quella Stefano Tura
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dell'informazione globale, che è quella che mi sta portando in Asia centrale. Lo steward con i capelli tinti mi chiede se voglio ordinare da bere. Ho deciso: non sceglierò. Peshawar, domenica 18 novembre L'arrivo all'aeroporto di Peshawar è traumatico. Lo è sempre nei paesi, diciamo così, difficili. Mi ero preparato al peggio, ma evidentemente non abbastanza. Tra le centinaia di facce che incontro nella hall degli arrivi, nonostante siano le 6,30 del mattino, mi colpiscono quegli uomini malati, mutilati, storpi. Si gettano sui nostri bagagli come se si trattasse di cibo. Lo fanno solo per guadagnarsi una mancia. Sono disposti a caricarseli sulle spalle e portarli per centinaia di metri fino al taxi. Ci sono anche bambini con le stampelle di legno. Sono i più deboli: vengono allontanati a spintoni, uno di loro rovina a terra. Urla qualcosa che non capisco: vorrei ascoltarlo, vorrei dargli qualcosa da portare, ma non ho più nulla, mi hanno già preso tutti i bagagli. Mentre il tassista ci guida in hotel illustrandoci orgoglioso gli edifici militari vicino all'aeroporto, comprendo di essere arrivato nella zona calda del mondo. Peshawar ha le stesse madrasse dell'Afghanistan, ci sono i pashtun, i profughi afgani, i burqa, gli stessi isterismi religiosi. Jalalabad è lì, a due ore di viaggio, superato il Khyber Pass; per arrivare a Kabul bastano altre due ore; sento notizie che danno Osama bin Laden nascosto in una zona tribale nei pressi di Peshawar; e qui in città mancano solo i kalashnikov. Ma l'unica guerra che mi dà qualche vibrazione è quella contro la povertà. Penso ancora a quel ragazzino con le stampelle. Qui sono tutti in guerra. Faccio fatica a capire cosa c'entrino con questa gente sia Bin Laden sia gli americani. Hotel Pearl Continental di Peshawar, cinque stelle, l'albergo della stampa internazionale. Con quello che spendo in dollari ogni giorno si potrebbero mantenere intere famiglie, qui in Pakistan e soprattutto in Afghanistan. Non a caso siamo bramati dalla gente del posto, e ancora una volta si ripetono le scene di lotta alla mancia, stroncate da pakistani più fortunati che indossano la divisa della Security dell'hotel. Una volta nella hall, ecco i colleghi europei: francesi, spagnoli, tedeschi, inglesi - e gli Stefano Tura
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americani. Questi ultimi sono gli stessi che vidi in Macedonia e in Kossovo durante la guerra contro il nemico di allora, Slobodan Milosevic; non sono le stesse persone, ma sono indistinguibili da quelli, tutti in stile CNN. La guerra dei giornalisti americani è sempre diversa dalla nostra. Fanno decine di stand-up davanti a sfondi di montagne, cieli, carri armati, profughi. Sono sempre collegati in diretta con le breaking news. Ripetono in modo ossessivo gli stessi headlines, e le loro notizie poi diventano le nostre e quelle di tutto il mondo - un po' come succede per le loro guerre. Finito il collegamento, è il momento di birre, patatine, rutti, anche se c'è il Ramadan. I facchini, gli autisti, gli stringers (gli interpreti afgani e pakistani) li aspettano fuori, nel parcheggio. Se non altro, a fine giornata arrivano i dollari: centocinquanta o duecento, oltre alle spese per la benzina e la manutenzione dell'auto. La mia camera non è ancora pronta; mi siedo nell'atrio e aspetto, diventando preda di sedicenti interpreti e traduttori. Arriva un uomo di circa quarant'anni: si chiama Remhan, ha i baffi e indossa un camicione grigio con un gilet nero. Dice di essere un giornalista pakistano e mi propone una serie di servizi a Peshawar, per i quali potrebbe farmi da guida: le zone tribali al confine con l'Afghanistan (quelle dove secondo alcuni sarebbe nascosto Bin Laden), i coltivatori di oppio, le fabbriche di kalashnikov; i rifugiati nei campi, le donne in burqa e, per finire, un viaggio a Kabul. Chiaramente, spiega, ci vogliono diverse autorizzazioni e parecchi dollari. Per lui centocinquanta, duecento al giorno, e per l'autista fra gli ottanta e i cento, poi ci sono certi amici che possono farci avere i permessi. Il pacchetto-guerra è già confezionato. Lo ringrazio e gli dico che casomai mi farò vivo. In realtà non ho ancora avuto indicazioni precise su ciò di cui mi dovrò occupare qui, al confine tra Pakistan e Afghanistan. Per ora ho un appuntamento con Amanda, una ragazza italiana che lavora in una ONG e si occupa di rifugiati. Ci porta con il suo autista in una zona periferica di Peshawar, dove incontriamo i componenti di un'altra ONG, questa volta afgana, il WDPA (Women Development Program for Afghanistan). Amanda ci spiega che sono donne afgane che vivono in Pakistan e aiutano i rifugiati connazionali. Ma in questa stanza disadorna di un edificio che sembra in demolizione, dove ha sede l'ONG, incontriamo in realtà due Stefano Tura
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donne, rigorosamente velate, e due uomini: quelli che parlano sono soltanto gli uomini. Questione di lingua, dicono: loro sono gli unici che conoscono l'inglese. Mentre le ragazze, con gli occhi nerissimi e le ciglia lunghe, ci guardano, gli uomini ci raccontano del loro impegno in aiuto dei profughi. Li ascolto e non colgo nessun riferimento alla guerra, a Bin Laden e ai bombardamenti, né a questioni legate alla vita delle donne: Navid - questo è il nome del ragazzo con cui parlo - mi racconta di profughi e rifugiati in termini vaghi, generici. Ad esempio: «Adesso costruiremo nuovi campi, porteremo aiuti, daremo sostegno...». Sì, ma qual è la storia dei loro rifugiati? Chi sono, e perché, esattamente, sono venuti qui? Chiedo di poter intervistare una ragazza. C'è un rapido scambio di sguardi con gli uomini; uno di loro ci tiene a farmi sapere che è sua sorella. «Piacere», le dico, stringendole la mano. Non conosce l'inglese: Navid mi farà da interprete. Le chiedo come si chiama e quanti anni ha. Cala un grande imbarazzo nella stanza: Navid mi spiega che l'età delle donne per loro è un segreto. Sto per scusarmi quando la ragazza mi dice in afgano che si chiama Kurshed e ha venticinque anni. La domanda seguente è molto semplice e diretta: «Perché una ragazza afgana ha scelto di aiutare dei rifugiati afgani? E in che modo aiuti le donne?». Risponde alla mia domanda guardandomi in faccia, io le sorrido e le faccio segno di sì con la testa, ma in realtà non capisco niente di quello che sta dicendo. Succede così, con persone di cui non conosci la lingua: stiamo facendo la "scena" per l'intervista televisiva. A telecamera spenta, poi, mi scrivo la risposta, attraverso le traduzioni di Navid: «Aiutiamo le donne afgane, ci sentiamo con loro e come loro», riferisce, e poco altro. Anche se Navid mi parla in inglese, continuo come prima a fare sì con la testa senza capire. Non capisco se Navid mi ha riferito esattamente il senso e il significato delle parole di Kurshed o se è lei che non ha voluto dire quel che pensava. Non riesco a capire cosa intende con "aiutare": se dare un tetto e del cibo, o fornire un'istruzione, coltivare una consapevolezza, insegnare a pensare con la propria testa. I network internazionali trasmettono tutti le stesse notizie. Kabul, Jalalabad e Mazar-i-Sharif sono cadute. A Kunduz e a Kandahar i talebani sembrano resistere. Mi rendo conto che lo scenario è velocemente cambiato: fine dell'integralismo talebano, dei burqa, dei televisori Stefano Tura
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fuorilegge, della musica proibita. L'Afghanistan sta tornando alla vita, alla fratellanza e alla tolleranza. E a me, invece, crescono i dubbi. Un collega mi dice di avere notizie che a Jalalabad fazioni opposte dell'ex fronte unito dell'Alleanza del Nord si stanno litigando il controllo della città. Ci sono ancora parecchie difficoltà per portare aiuti umanitari all'interno del paese. Soprattutto, i profughi restano in Pakistan, e non accennano a ritornare in patria. Perché? Che cosa sta succedendo? Al campo di Aji, alla periferia di Peshawar, parlo con alcune famiglie di profughi afgani giunti in Pakistan con l'inizio dei bombardamenti. Hanno scelto di raggiungere qui i loro connazionali invece che andare negli accampamenti di rifugiati vicino al confine. Aji è quasi una città nella città: ci vivono dal 79 oltre sessantamila persone, fuggite ai tempi dell'invasione sovietica e mai più tornate a casa. I nuovi profughi mi parlano soprattutto delle misere condizioni di vita in cui versano, dell'impossibilità di mantenersi, dell'inverno, delle malattie. Per farli parlare della guerra - di quelle vecchie e di questa nuova - li devo quasi costringere. Una donna di trent'anni, Brisha, mi spiega che con i suoi tre figli non sa come tirare avanti; e ora è incinta del quarto. Un uomo anziano mi racconta che a distruggere la sua casa era stata la guerra civile, prima dell'arrivo del regime talebano. A chiunque io chieda se progetta di tornare in Afghanistan, la risposta è sempre la stessa: non si fidano. Mentre sto per lasciare Aji un uomo con gli occhiali a specchio, jeans, camicia bianca, di etnia hazara, una delle cinque esistenti in Afghanistan, mi ferma e dice che deve parlarmi di una cosa importante. Ha capito che sono un giornalista televisivo occidentale; dice di essere un medico. Mi spiega che non devo fidarmi di quello che la gente racconta, che ad Aji ci sono molte bande in lotta per il controllo del territorio e dei traffici illeciti: si scontrano ogni giorno, e molto spesso ci scappa il morto. Il sedicente medico ha una grandissima voglia di essere intervistato; gli dico che l'intervista si farà solo dopo che mi avrà documentato questa presunta lotta fratricida. Mi lascia il numero del cellulare e l'indirizzo di e-mail e mi chiede se ho bisogno di aiuto per il mio lavoro. Ecco un altro aspirante interprete con un'altra storia da prima pagina. Lo congedo e mi guardo intorno, l'aria al campo sembra tranquilla, non vedo presagi di faide. Anch'io, ora me ne accorgo, non mi fido. Lascio il campo diretto al mio hotel. La cosa che mi impressiona di più a Peshawar è lo smog: alle cinque di Stefano Tura
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pomeriggio sulla città c'è una cappa nera che anticipa il tramonto; non si respira dal caldo e dalla puzza. C'è un piccolo cane morto sulla strada: il corpo è gonfio di gas, sembra che stia per scoppiare. Prima di arrivare in hotel vedo una specie di negozio di souvenir a uso e consumo dei reporter internazionali: ci sono appese magliette con la faccia di Osama bin Laden e scritte inneggianti alla jihad. Un giovane commesso nota la mia curiosità e insiste perché me ne compri una. Non la compro. Quando torno in albergo noto che è più vuoto. Molti giornalisti sono partiti per l'Afghanistan, quasi tutti in macchina, organizzando vere e proprie carovane. Un'eccezione di lusso è la Grande Inviata della CNN, Christiane Amanpour (la moglie di James P. Rubin, spokesman del Dipartimento di Stato americano fino a metà 2000; chissà, mi chiedo, di che parlavano a colazione...). Lei è arrivata a Kabul da Islamabad, a bordo di un elicottero. In camera - un alloggio veramente modesto, per la cifra esorbitante che mi scuciono - mi sintonizzo sul Tg1: il mio pezzo sulle ONG va in onda regolarmente alle venti ora italiana, ma non sono soddisfatto. Il servizio è minimalista e di maniera, la mia intervista a Kurshed non riesce a entrare in profondità, a intaccare la superficie di quel volto timido e distante, di quella voce bassa, di quelle parole timorose, opache. Peshawar, lunedì 19 novembre Notizie ufficiali dal confine con l'Afghanistan: gli angloamericani stanno bombardando la zona di Shamsada, dove resistono ancora i talebani. (Il villaggio è appena oltre il confine, a dieci chilometri di distanza da qui, ma per raggiungerlo serve un permesso del governo pakistano). Si combatte a Kunduz e a Kandahar. Nel primo caso si tratta di soldati di Al Qaeda, protagonisti di una resistenza armata nei confronti dei soldati dell'Alleanza del Nord. A Kandahar invece il mullah Omar chiama a raccolta gli studenti coranici, incitandoli a combattere gli infedeli. In quella zona si nasconderebbe Bin Laden. Queste sono invece le cose che vedo con i miei occhi: Peshawar continua la sua vita ordinaria di fame e povertà. Franco e io, dopo aver preso accordi con un tassista, ci addentriamo nella periferia est della città, Stefano Tura
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in un'area già pienamente tribale. (Per buona parte del lunghissimo confine con l'Afghanistan, si stende in Pakistan una "fascia anarchica", controllata da tribù locali soprattutto di ceppo pashtun, totalmente al di fuori del controllo del governo e della polizia. In queste zone non gira un militare mentre altrove, in tutto il paese, se ne vedono a ogni angolo - e non si trova, che so, un ufficio postale o un ospedale o un telefono pubblico. Le periferie, i villaggi e le campagne che vi ricadono ospitano raffinerie di droga e mercanti di armi, miriadi di capiclan e milizie autonome). Superato da poco l'invisibile confine, noto solo ai locali, il tassista ci avverte: lui si ferma qui, non ha intenzione di farsi rapinare di tutto, e se vogliamo continuare dovremo farlo a piedi. Scendiamo e ci allontaniamo di non più di due o trecento metri, in maniera tale da non perdere mai il contatto visivo con il taxi. Arriviamo a un lurido terrapieno, una sorta di discarica. Accovacciati in cima a questo cumulo di terra e immondizie, una quindicina di uomini stanno inalando eroina dopo averla scaldata su una cartina di stagnola. Prendiamo alcune immagini. Mi avvicino per parlare con loro; non riescono a capirmi, a sentirmi, forse nemmeno a vedermi. Ritorno dal tassista, che si dirige con circospezione ma piuttosto velocemente fuori dalla zona tribale. Andiamo allora a Hajatabad, un quartiere di Peshawar, dove sorge una comunità di recupero per tossicodipendenti. Il posto rassomiglia a una nostra clinica: un edificio a due piani, piuttosto ben tenuto e circondato da un piccolo parco molto curato, recintato a sua volta da mura. Nel giardino c'è una vasca di pochi metri quadrati, in cui si bagnano vari pazienti; altri di loro pregano. Da quel che mi dice la direttrice, oltre all'astensione forzata, le uniche terapie che i pazienti seguono sono questi bagni in acqua gelida e la preghiera. L'abuso di eroina in Pakistan è una vera piaga, mi spiega. I tossicodipendenti sono migliaia, si fanno per strada, alla luce del sole anche ora che il Ramadam rende ancora più riprovevole un comportamento simile, racconta - e per strada muoiono: i loro cadaveri rimangono per giorni in terra. Dall'Afghanistan arrivano ogni giorno tonnellate di oppio e di eroina. E afgani sono anche una buona percentuale delle circa trenta persone che questo centro ospita: profughi delle vecchie ondate, per lo più. Al rientro in albergo, nel pomeriggio, apprendo la notizia: un gruppo di colleghi è caduto in un'imboscata lungo la strada tra Jalalabad e Kabul, a Stefano Tura
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novanta chilometri dalla capitale. Era composto da quattro persone: Julio Fuentes, di «El Mundo», Harry Burton, operatore australiano della Reuters, Azizullah Haidari, fotografo afgano della stessa Reuters, e una collega italiana, Maria Grazia Cutuli, del «Corriere della Sera». L'allarme è stato lanciato dai loro due autisti, risparmiati dai tre o quattro assalitori armati e invitati a fuggire via, mentre i loro clienti venivano portati dietro una collinetta, in un luogo nascosto ai passanti. Alcuni sostengono si tratti di un'imboscata da parte di una banda di predatori; altri che siano stati rapiti dai talebani. L'ipotesi peggiore si rivela presto la più esatta. Maria Grazia e gli altri sono stati uccisi: un'esecuzione sul posto senza apparente motivo. O forse sì: tre di loro erano giornalisti occidentali. Non ho mai conosciuto Maria Grazia, ma in questi posti i giornalisti si trasformano in un gruppo solidale. Tutti noi, oggi, ci sentiamo soli contro qualcosa da cui difenderci. Penso che avrei potuto, o voluto, esserci anch'io in quel convoglio. Ho visto molti colleghi partire la sera prima, e proprio ieri anche noi stavamo pianificando un'entrata in Afghanistan attraverso sentieri di montagna non controllati. Vado alla reception del mio albergo: mi dicono che fino a due giorni fa Maria Grazia era qui, nella stanza numero 125; si trovava a Peshawar da più di un mese, aspettava come tutti di poter entrare in Afghanistan. I telegiornali danno la notizia. In Italia fioccano coccodrilli, dichiarazioni di cordoglio ufficiali e ufficiose, messaggi di solidarietà. Io penso al corpo di Maria Grazia abbandonato in una strada desolata, tra la polvere. Morta per fare un reportage, per raccontare una storia. Non era un inviato speciale, ma un "redattore semplice": stipendio medio, sopra di lei un caporedattore, un direttore, un editore. Una vita di soddisfazioni ma anche di grandi incazzature, come tutti noi. Viaggi, scoop, pacche sulle spalle, cattiverie, invidie, vere e false amicizie. Poi i colpi di kalashnikov. Maria Grazia non era una sprovveduta e nemmeno un eroe, avrà valutato bene i rischi; ma qui, dove siamo noi, ogni valutazione è infondata, aleatoria. Chiamo casa per rassicurare Franca, mia moglie, e Beatrice e Tommaso, i miei due figli e per dire dove mi trovo. Io so che in questa zona rischio di essere uccisi non ce n'è, ma capisco che in Italia è difficile rendersene conto: tanto più che proprio da Peshawar è partita Maria Grazia. Con Franca cerco di mostrarmi tranquillo, di non drammatizzare: non voglio Stefano Tura
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creare allarmi. Chiedo soltanto se ha saputo della notizia, le dico che non conoscevo Maria Grazia; le dico anche che, come mi hanno appena comunicato da Roma, ho l'ordine di non superare il confine: non mi potrà succedere nulla. Franca mi fa pochissime domande: forse sente che se mi chiedesse qualcosa - per esempio, se ho intenzione di entrare anch'io in Afghanistan - avrebbe una risposta che non vuole sentire. Ho un groppo alla gola, avverto il bisogno di fare qualcosa, sarei disposto ad andare là per cercare di recuperare il corpo di Maria Grazia. Ho visto tanti cadaveri nel mio lavoro, conosco l'effetto che fanno. Da Roma però mi fanno sapere che la direzione ci raccomanda di non spostarci dal luogo in cui siamo, di non attraversare il confine. Qui in camera mi sento un cane in gabbia. Una tv americana, la Fox TV, manda ossessivamente le immagini dell'attentato alla Torri Gemelle. Io non riesco a non pensare a Maria Grazia morta sulla strada per Kabul. Chi deve pagare per la sua fine? Fra qualche mese di lei non si parlerà più, le verrà intitolato un premio giornalistico e verrà ricordata come un'altra vittima che si è sacrificata con coraggio per amore di questo mestiere e in nome della libertà di espressione. È arrivata l'ora del Tg1: mezzo notiziario è dedicato alla morte dei miei colleghi; poi le notizie ufficiali della guerra. Il mio pezzo sulla vita penosa e degradata di Peshawar non va in onda. Incazzarmi, oggi, sarebbe da idioti. Peshawar, martedì 20 novembre L'argomento che domina le discussioni tra giornalisti, oggi a colazione, è la sorte che ha colpito i nostri colleghi. Alcuni degli italiani hanno conosciuto Cutuli e Fuentes, altri, più cinicamente, cercano di capire cosa è successo veramente in quel tratto di strada: tutti, infatti, stiamo cercando di organizzare un convoglio per Kabul. Mi viene chiesto di fare una diretta su Unomattina. Rispetto all'Italia, il Pakistan è quattro ore avanti. Quindi, quando in Italia sono le 8 del mattino, da me è mezzogiorno. In studio c'è l'ambasciatore pakistano a Roma, oltre a un funzionario dell'UNHCR, Laura Boldrini. L'ambasciatore pakistano sostiene che il viaggio dei giornalisti è stato organizzato in modo Stefano Tura
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avventato, senza garanzie di sicurezza, senza una scorta armata. Io non intervengo, ma vorrei tanto chiedergli chi, secondo lui, avrebbe mai dovuto scortare i cronisti fino a Kabul, considerando che tre tribù diverse e in perenne conflitto tra loro si spartiscono il territorio fra Jalalabad e Kabul e una scorta appartenente a una di queste tribù avrebbe rischiato di essere attaccata dalle altre. Luca Giurato mi chiede qual è il clima che si respira al confine e mi raccomanda paternamente di non muovermi dalla zona fino a quando non otterrò le necessarie garanzie. È da ieri che mi ripetono la stessa cosa. Ma il paradosso è che sono solo io, e nessun altro, a dover decidere se ci siano o meno queste "garanzie". Nessuno ora potrebbe essere in grado di dirmi se e quando la strada sia sicura, perché nessuno sa che cosa sta succedendo dall'altra parte del confine. Sono bloccato qui, dunque; dei bombardamenti non sento neanche l'eco. Vedo solo passare i cacciabombardieri americani che partono dal Pakistan e vanno verso Jalalabad: pare che le famose grotte di Bin Laden siano nascoste in quelle zone montagnose. Il compito che la redazione mi ha assegnato per oggi è seguire l'arrivo del primo convoglio di aiuti umanitari italiani ai profughi afgani, organizzato dall'Alto Commissariato ONU per i Rifugiati: un aereo cargo di fabbricazione russa, un Iljushin, partito da Brindisi, che dovrebbe atterrare a Peshawar intorno alle otto di sera. Mi scontro subito con la difficoltà di avere informazioni precise: all'aeroporto nessuno è in grado di dirmi - o vuole dirmi - a che ora esattamente atterrerà il cargo e su quale pista. La mia impressione, in verità, è che questi aiuti umanitari non interessino a nessuno, qui in Pakistan, e nemmeno i profughi. Ritorno in albergo piuttosto irritato e demoralizzato, e guardo con insistenza i vari canali televisivi, soprattutto la CNN, per vedere che cosa trasmettono riguardo all'andamento del conflitto, e i canali locali per cercare di capire qualche cosa di più sulla sorte di Maria Grazia e degli altri giornalisti. Alla fine, trovo un canale spagnolo che manda le immagini dell'arrivo a Jalalabad delle casse con i corpi dei giornalisti, recuperati dalla Croce Rossa Internazionale nella zona dell'agguato. Almeno questo: della sorte di quei corpi fino ad ora non si sapeva nulla.
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Nel pomeriggio vado a una conferenza stampa organizzata dalla sezione di Peshawar dell'Alto Commissariato per i Rifugiati. Parlo con un francese e un canadese: mi dicono che dall'inizio del conflitto sono arrivati in territorio pakistano centosessantamila profughi. Dell'aereo italiano pare che, anche qui, nessuno sappia niente. Alle dieci di sera finalmente l'aereo atterra: le autorità pakistane ci impediscono di accedere alla pista e di riprendere l'arrivo. Devo sempre fare i conti con il fatto che il Pakistan è un regime militare - cosa che, in questi tempi di alleanza con l'"Occidente democratico", si tende spesso a dimenticare - e come tutti i regimi ha regole molto rigide: quella parte dell'aeroporto è zona militare, quindi off limits. Tento di spiegare ai funzionari, tutti militari, che devo fare un servizio sugli aiuti umanitari italiani in favore dei profughi afgani in Pakistan, ma niente da fare. Riesco in qualche modo a mettermi in contatto, attraverso il cellulare, con Lionello Boscardi, il funzionario italiano che ha accompagnato il carico fin qui. Lo prego di superare le barriere della dogana e di raggiungermi; lo intervisto, mi racconta che il carico è composto di tende, medicinali, kit di sopravvivenza, coperte. Mi porta anche del materiale filmato a Brindisi, alla partenza: ce n'è abbastanza per un servizio; da Roma, del resto, mi è arrivato l'ordine di non occuparmi della questione dei giornalisti uccisi - a coprirla ci sono i miei colleghi a Kabul - ma soltanto degli aiuti umanitari. Evidentemente, si vuole mostrare che l'Italia si è "mobilitata". Una cosa mi colpisce, però, e istintivamente mi preoccupa: non riesco a vedere nemmeno una cassa di aiuti umanitari che scende dall'aereo e viene distribuita o stoccata in un magazzino. Parlo con Boscardi, ma non posso o comunque non riesco a verificare che tutto questo realmente avvenga. Non ho motivo di pensare il contrario, credo che effettivamente gli aiuti siano destinati ai profughi, però non posso dimenticare la Missione Arcobaleno: avrei preferito poter controllare con i miei occhi, avrei voluto fare un servizio nel quale seguire fisicamente il tragitto di un sacco di aiuti o di una tenda, di un fornelletto, di un medicinale, di un pacco, di un kit di sopravvivenza fino ai destinatari. Ma nulla. Anche oggi il mio servizio è scarno, con pochissimo entusiasmo. Prima di andare a dormire, il caporedattore degli esteri del Tg1 mi dice che domani dovrò coprire l'arrivo delle salme di Maria Grazia e degli altri a Peshawar. Di qui sarà organizzato il trasporto dei corpi nei rispettivi Stefano Tura
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paesi. Peshawar-Islamabad, mercoledì 21 novembre Mi sveglio con un senso di inquietudine. La guerra oggi mi sbatterà in faccia la sua vera immagine - la morte. Ogni conflitto ha le sue vittime innocenti, ma il fatto che i primi corpi che vedrò sono quelli di quattro giornalisti mi fa venire le palpitazioni. Pensiamo sempre che a noi non capiterà mai nulla: poi, puntualmente, tra i morti di un villaggio bombardato, di un assalto, di un campo minato ci sono dei giornalisti: e allora la guerra comincia a farti davvero paura. Mentre, poco prima delle dieci, sto andando al Khyber Mental Hospital di Peshawar, dove pare stiano per arrivare i corpi, tento di immaginare che aspetto possano avere, dopo due giorni in cui prima sono rimasti per strada e poi sono stati riposti in semplici casse di legno. Quando arriviamo, oltre a me e Franco ci sono solo un altro giornalista italiano, dell'«Avvenire», e un operatore della Reuters, cui appartenevano due dei giornalisti uccisi. Subito noto che l'ambasciata italiana non ha mandato nessuno a recuperare il corpo di Maria Grazia: non sono annunciati né l'ambasciatore Gabriele De Ceglie né un suo inviato. De Ceglie mi ha detto per telefono che per il recupero si sono affidati alla Croce Rossa Internazionale, in cui hanno la massima fiducia. Continua a sembrarmi se non altro bizzarro che un ambasciatore non si occupi della salma di un concittadino ucciso. Arrivano i corpi. Una jeep della Croce Rossa seguita da un camion frigorifero. Arrivano qui, davanti all'obitorio di questo ospedale fatiscente. Franco dispone la telecamera in modo da riprendere tutta la scena: il camion che si ferma, gli inservienti che scendono, il portellone che viene aperto. Proprio in fondo al camion, quattro casse in fila: non sono bare come le intendiamo noi, non hanno ornamenti, sono quattro casse di legno grezzo. Dopo che le hanno scaricate mi rendo conto che non sono sigillate, solamente legate con delle corde; su ciascuna un nome, scarabocchiato con un pezzo di gesso. Una porta scritto, semplicemente, «Maria». Ci chiedono di riconoscere i corpi. Ci portano in una stanza; anzi, non è nemmeno una stanza, è il corridoio di quest'obitorio. Aprono le casse a metà, non completamente, solo la parte superiore: il viso, il torace. Maria Stefano Tura
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Grazia. Nuda. Non è stata composta in nessun modo: hanno messo i corpi nelle casse così come li hanno trovati. Maria Grazia è pallida, ha il viso gonfio, la fronte tumefatta. Ha il lobo di un orecchio ferito: le devono aver strappato l'orecchino. Ha nel petto un versamento di sangue, dovuto al colpo di arma da fuoco. Trattengo il respiro. Assumo istintivamente un atteggiamento il più possibile distaccato, professionale: cerco di non lasciarmi andare in nessun modo, anche perché voglio prima di tutto esser certo che sia lei. Ho visto le sue foto, alcuni filmati: non c'è dubbio. Vedere Julio Fuentes è forse anche più duro. Ha la mandibola spaccata, una serie di tumefazioni nel labbro, i denti rotti: è stato evidentemente percosso. Anche gli altri due corpi sono molto malconci - al confronto, sembra quasi che Maria Grazia sia stata risparmiata. Ho l'impressione che ci sia stata anche una colluttazione con gli aggressori: anche se non sapremo mai cos'è successo veramente, non è stata una semplice esecuzione con colpi d'arma da fuoco, forse neanche un semplice tentativo di rapina. Alcuni minuti dopo che hanno richiuso le casse, mi rendo conto che continuo, senza apparente motivo, a trattenere il respiro. Dopo circa mezz'ora, arrivano l'ambasciatrice spagnola e Monica, la giovanissima moglie di Fuentes. Monica chiede di vedere il corpo: si fa aprire la cassa e si mette a piangere disperatamente, urlando: «Amore mio, amore mio, perché mi hai lasciato?». Questo è il momento più difficile anche per me: le lacrime di Monica sono contagiose per tutte le persone che si trovano qui. Esco fuori a prendere aria. Dopo un po', con mia sorpresa, vedo arrivare l'ambasciatore italiano. Gli chiedo subito come l'ambasciata si occuperà del rientro della salma di Maria Grazia in Italia; mi racconta che è stata predisposta una camera ardente nella sede di Islamabad, dove verrà portato il corpo appena finite le pratiche di riconoscimento; poi, durante la notte, arriverà da Roma un aereo speciale dell'Aeronautica Militare, con a bordo i familiari, e il corpo ritornerà in Italia. Poi gli chiedo qualcosa di più specifico: se abbia o meno conosciuto Maria Grazia Cutuli nel periodo in cui era stata in Pakistan e se abbiano parlato della possibilità e dei rischi del viaggio in Afghanistan. L'ambasciatore, quasi risentito, mi risponde che aveva vivamente sconsigliato a Maria Grazia di andare in Afghanistan, e poi aggiunge: «Tanto voi giornalisti fate quello che vi pare. Non serve a Stefano Tura
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niente che noi vi consigliamo di fare o di non fare qualcosa. Decidete sempre voi da soli, e quindi l'ambasciata non può ritenersi responsabile di questa tragedia». Non gli ho chiesto questo. Mi sembra un'uscita strana, mi sembra che l'ambasciatore abbia la coda di paglia. Ci sono ancora alcune ore prima che la salma parta per Islamabad. Rientro in albergo e preparo il servizio, evitando ovviamente di inserire le immagini del cadavere. Mostro solo l'arrivo delle casse, il pianto di Monica e l'intervista all'ambasciatore. Di quest'ultima metto in rilievo soprattutto la risposta finale. Il servizio va in onda sia sul Tg1 sia sul Tg2. Dopo circa due ore mi chiama un caporedattore del Tg2 e mi chiede perché l'ambasciatore italiano si sia comportato così. Io rispondo che non ho fatto altro che registrare i suoi commenti. Mi organizzo per arrivare a Islamabad in anticipo sul convoglio che trasporta il corpo di Maria Grazia. Mi metto d'accordo con un autista per farmi accompagnare: sono circa tre ore di macchina da Peshawar. Quando parto è già buio, saranno le cinque del pomeriggio. Il viaggio è scomodo, ma soprattutto, così sembra a me, pericoloso. Non temo briganti o attentatori, però: il pericolo è il traffico. Gli stop non vengono mai rispettati: passa regolarmente chi arriva prima, chi ha la macchina più grossa o è più prepotente. Quando si incrociano, sembra quasi che le macchine si minaccino: rimangono in mezzo alla strada fino all'ultimo momento, per poi schivarsi d'improvviso. Il mio autista, che tempesto di raccomandazioni: «stai attento», «rallenta», «vai piano», tenta di tranquillizzarmi dicendo che qui si guida così, che le regole sono diverse dalle nostre ma ci sono e vengono rispettate, tant'è vero che gli incidenti sono rarissimi. Alla fine mi convinco: guidare "all'occidentale" qui sarebbe più rischioso di questa specie di imprudenza regolata. Verso le otto arrivo all'ambasciata italiana di Islamabad. Nonostante la povertà che in Pakistan vedo ovunque, il quartiere delle ambasciate potrebbe tranquillamente essere un quartiere, che so, di Roma. È una zona estremamente curata, con ville, recinti, alberi, prati, sistemi di irrigazione per i giardini, guardie armate, pattuglie; un'oasi, considerando che da lì a distanza di poche centinaia di metri c'è il solito Pakistan, fatto di baracche, di gente scalza per strada che chiede l'elemosina, di bambini denutriti. Sono il primo giornalista ad arrivare. I funzionari dell'ambasciata, fra cui Stefano Tura
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un segretario dell'ambasciatore, non sembrano accogliermi a braccia aperte. Incontro anche l'ambasciatore, che è già arrivato: mi chiede subito se sono io a decidere come vanno in onda i servizi, o se da Roma mi impongono tagli o modifiche. Rispondo che, almeno nel caso del servizio di stasera - evidentemente è qui che vuole andare a parare -, sono l'unico responsabile di tutto quello che è andato in onda: la redazione di Roma l'ha trasmesso integralmente. Non fa nessun commento. Verso sera, intorno alle undici, il corpo di Maria Grazia arriva e viene sistemato nella camera ardente. Nel frattempo sono arrivati alcuni colleghi italiani: la corrispondente dell'ANSA da Pechino, che per competenza territoriale è stata mandata a seguire, oltre al conflitto, anche questa vicenda; un inviato del «Messaggero», un collega dell'ADN Kronos. Inizia l'attesa dell'aereo militare, che, oltre ai familiari, ha a bordo anche Ferruccio De Bortoli, il direttore del «Corriere». Arriverà a tarda notte. Franco e io rimarremo qui, all'ambasciata. Islamabad, giovedì 22 novembre L'aereo atterra alle tre: noi siamo in ambasciata ma veniamo a sapere dell'atterraggio. Poco dopo arrivano il fratello di Maria Grazia, Mario, e la sorella, Donata; con loro, De Bortoli e un funzionario della Farnesina. Il clima è molto mesto. La bara - ora è una bara consueta, non più una cassa di legno - non è ancora stata chiusa. I parenti chiedono di rimanere da soli nella camera ardente, e noi ovviamente rispettiamo la loro volontà. Intervisto De Bortoli e lo trovo sinceramente addolorato: mi rendo conto che un direttore può sempre sentire una parte di responsabilità per qualunque cosa succeda ai suoi collaboratori. Mi dice che il nostro lavoro, il lavoro del giornalista, è fatto anche di questo: dei rischi che corriamo, di situazioni imprevedibili; e che forse, nelle guerre, noi rischiamo più di tanti soldati perché, a differenza della gran parte di questi, che rimangono nelle retrovie, i giornalisti per raccontare una situazione la devono vedere. Il funzionario della Farnesina mi prende da parte e mi fa alcune domande sull'ambasciatore italiano: su come era nata quell'intervista, sui rapporti fra i giornalisti italiani in Pakistan e l'ambasciata. Io gli dico esattamente quello che ho visto, ovvero che l'ambasciata italiana non si è interessata subito al recupero dei corpi dall'Afghanistan e al loro trasporto Stefano Tura
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in Pakistan. Il funzionario mi fa capire di non essere soddisfatto di com'è stata trattata la questione e che presto verranno presi provvedimenti. Alla fine, la salma viene caricata su una macchina; i familiari e il piccolo convoglio di giornalisti vengono scortati da impiegati dell'ambasciata fino all'aeroporto di Islamabad. Sull'aereo salgono anche i familiari di Fuentes; la sua salma verrà trasportata a Roma con quella di Maria Grazia, e poi di lì in Spagna. Nessuno di loro ha voglia di parlare o rilasciare interviste. È già l'alba quando Maria Grazia riparte per casa. Vedere il suo aereo decollare da un aeroporto sulle cui piste si trovano i C-130 americani che hanno portato le truppe in Pakistan, mi fa pensare a lei come a un'altra vittima di questa guerra. Una vittima che assomiglia alle vittime civili, una vittima "collaterale", senza colpa e senza difese; una persona che non ha avuto aiuto né dalla gente del posto né dall'Occidente. I militari americani, quelli che sono usciti da questi altri aerei, sono un'altra cosa: superscortati, supertutelati, superarmati, superdifesi da una guerra che è la loro guerra. E io? Mentre l'aereo di Maria Grazia si allontana nella nebbia, ho paura. Sono in un luogo che ha già fatto sette vittime tra i giornalisti e ci rimarrò per non so quanto tempo. Non so a che cosa andrò incontro, ma so che domani potrei trovarmi nella stessa situazione di Maria Grazia. Vorrei ancora identificare un responsabile, per questa morte che probabilmente non ne avrà mai. Quando vado via dall'aeroporto sono le otto del mattino. Nonostante abbia addosso la notte in bianco e questi pensieri angosciosi, devo cominciare a preparare i servizi. Anche oggi ho una diretta con Unomattina. Oltre a me, da Kabul è collegato anche un collega del Tg2, Franco Di Mare, che ha vissuto alcune settimane insieme a Maria Grazia: racconta come avessero organizzato assieme quel viaggio, come a un certo punto, per un motivo assolutamente banale, si fossero dovuti separare. Maria Grazia stava seguendo la pista di certi depositi di armi chimiche e batteriologiche di Al Qaeda, segnalati vicino a Jalalabad. Su questo aveva scritto un ottimo reportage - un vero e proprio scoop, visto che il «Corriere della Sera» ed «El Mundo», il giornale di Fuentes, erano stati gli unici quotidiani a riportare la notizia. Durante il collegamento, io mi soffermo in particolare su un fatto: ho letto su alcuni giornali che il convoglio di Maria Grazia e degli altri Stefano Tura
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colleghi uccisi era composto da otto macchine, fra cui anche quella di certi giornalisti greci. Questi giornalisti erano arrivati sul luogo pochi minuti prima di Maria Grazia: anche loro sono stati fermati da un commando, ma hanno avuto più fortuna. Il loro interprete gli ha salvato la vita dicendo che erano musulmani: uccidere correligionari durante il Ramadan è un peccato dei più gravi. Poi parlo delle polemiche, scoppiate anche qui, sulla facilità con cui il regime pakistano ha aperto le frontiere ai giornalisti, causando un reale pericolo per i giornalisti e al contempo rifiutando ogni responsabilità. In sostanza è come se dicessero: «Noi abbiamo solo aperto la frontiera. Loro sapevano a cosa andavano incontro e noi non siamo responsabili delle loro scelte». Hanno, penso fra me e me, un atteggiamento del tutto simile a quello dell'ambasciatore italiano. Riguardo alle notizie di guerra, un dato fondamentale mi sembra questo: mentre apre le porte ai giornalisti in un senso, il regime le chiude ai profughi nell'altro. «The Dawn», quotidiano pakistano in lingua inglese, parla di centinaia di migliaia di afgani che vorrebbero entrare nel paese e ne vengono impediti, nonostante siano profughi di guerra. Vengono bloccati a dieci chilometri dal confine pakistano e sistemati in invivibili tendopoli: non campi come quelli, già sovraffollati, che siamo abituati a conoscere, ma situazioni assolutamente disumane. Va considerato che, fino a questo momento, le organizzazioni umanitarie non hanno la possibilità di entrare in territorio afgano: in questi accampamenti a ridosso del confine i profughi vengono lasciati alla loro sorte senza niente, non dico cibo, ma nemmeno acqua, figuriamoci medicinali o coperte. L'altra notizia del giorno è che a Kunduz, nel nord del paese, si combatte ancora: i talebani resistono all'avanzata dei mujaheddin. A comunicarla è l'Afghan Islamic Press, l'agenzia di stampa in lingua araba che, nonostante sia vicina al regime dei talebani, viene considerata da molti giornalisti una fonte piuttosto attendibile sui combattimenti in corso, priva dei filtri e delle mediazioni della comunicazione americana. L'agenzia, è questa la cosa straordinaria, ha proprio sede qui a Peshawar, in Pakistan! Ovvero: l'agenzia più vicina al regime talebano ha sede in un paese che è alleato del nemico di quel regime. Questo, se ce ne fosse bisogno, mi conferma la labilità dei confini fra Afghanistan e Pakistan; sapevo già, del resto, che i miliziani si rifugiano dall'Afghanistan nelle adiacenti zone tribali del Pakistan: lì trovano un sostegno politico e logistico. Sotto tanti aspetti, i due paesi, specie in queste zone di confine, non sembrano distinti, ma Stefano Tura
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piuttosto sfumano gradualmente l'uno nell'altro. Non basta la guerra per creare una frattura che, storicamente, culturalmente, politicamente, non esiste. La ricerca di Bin Laden, intanto, continua senza esito: in questo momento, le operazioni sono concentrate nella zona intorno a Kandahar. Oggi trasmetto molti servizi, e copro non solo i tre telegiornali RAI di metà giornata ma anche i giornali radio. Mi rendo conto di ripetere spesso le stesse parole. Tento sempre di differenziare i servizi quando, come capita di frequente, mi collego con varie testate. Oggi, però, è particolarmente difficile. Dover descrivere la nottata che ho vissuto è un tormento, e limita drasticamente la mia fantasia. Già stasera, mi viene detto, dovrò parlare d'altro: Maria Grazia arriverà presto a Roma, dunque se ne occuperanno i colleghi in Italia. Nonostante tutto, ho deciso: voglio entrare in Afghanistan. Passo il pomeriggio al Marriot, il superhotel a cinque stelle dove soggiornano tutti i giornalisti stranieri. Tento di capire chi e come si sta muovendo per entrare nel paese nei prossimi giorni. La mia direzione si raccomanda, come dire, molto vivamente di non farlo; io continuo a rispondere che non ci penso nemmeno, ma la verità è che non penso ad altro. Quello che è successo a Maria Grazia, ora, non mi distoglie più: mi convince solamente che devo organizzarmi in maniera più sicura di quanto avrei fatto due giorni fa, cercando di avere tutte le tutele possibili. All'interno dell'albergo circola il volantino di un'agenzia, che propone "pacchetti completi" di interprete, autista e scorta armata per viaggi andata-ritorno in ogni parte del Pakistan e dell'Afghanistan. Per curiosità telefono e non solo mi risponde una ragazza, ma una ragazza americana. Si presenta come Jane. Mi dice che la loro agenzia può fornirmi tutto quello di cui ho bisogno, e mi chiede chi sono e per chi lavoro. Le rispondo. Comincia a chiedermi quante persone di scorta desidero, quanti interpreti voglio e in quali lingue. Io cerco di arrivare subito al punto. Faccio presente che voglio passare dal sud del paese, cioè da Quetta, e cercare di arrivare a Kandahar da quella zona, perché la zona nord è coperta dai colleghi. Poi insisto per sapere quanto costa. La ragazza fa un breve conto, poi dice: «Non meno di cinquecento dollari al giorno per l'autista, fra i cinquecento e i mille per l'interprete, Stefano Tura
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poi, per la scorta armata, dipende dal tipo di armamenti e dal numero di uomini». «Tutto questo al giorno?», le chiedo. «Assolutamente sì». Le dico che non sono della CNN, dell'NBC o della BBC. Ho calcolato che finirei il mio budget in pochissimi giorni. Mi richiamerà per dirmi se trova "pacchetti scontati". Dopo qualche ora mi arriva un messaggio di Jane. Sembra quasi che mi abbia preso a cuore: «Stefano, sono riuscita a farti avere uno sconto, l'autista puoi pagarlo trecentocinquanta invece che cinquecento, ma l'interprete a meno di seicento non riesco a fartelo avere. Poi per la scorta vediamo quando vuoi partire per Kandahar: fammi sapere se così ti va bene». Prendo appunti sulle cifre, anche per avere un metro di valutazione. Comunque vadano le cose, infatti, voglio scendere il prima possibile a Quetta, nel sud del Pakistan, a poche ore di auto da Kandahar. Oggi, nonostante alcune situazioni "irrisolte" a Mazar-i-Sharif e Kunduz, è Kandahar il luogo più caldo della guerra, quello dove i talebani sembrano resistere in forze: la città è ancora pienamente in mano al mullah Omar. Islamabad-Peshawar-lslamabad, venerdì 23 novembre Oggi ho un giorno libero: la redazione centrale non mi ha assegnato compiti e decido di tornare a riprendere la mia roba. L'altra notte, infatti, sono partito da Peshawar senza neanche passare dall'albergo, e ho ancora tutto quanto laggiù. Fra andata e ritorno, il viaggio dura tutto il giorno. Le due ore teoriche che separano Islamabad da Peshawar diventano più di tre e mezzo: di giorno c'è molto più traffico. Anche recuperare i bagagli e il materiale dell'operatore non è una cosa semplice. Poi c'è il saldo del conto. So bene che spesso gli hotel, anche se a cinque stelle, anche se internazionali, quando si tratta di giornalisti corredano il conto di aggiunte arbitrarie al pernottamento, soprattasse improbabili, compensi per servizi mai resi: telefonate, frigobar... Nel mio caso, ci sono cento dollari per l'acquisto di "giornali internazionali", mentre giornali qui non ne arrivano - tranne il «Time», che non ho mai acquistato. Dopo tre quarti d'ora di trattative, Stefano Tura
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riesco a pagare una cifra più o meno corrispondente al dovuto. La notizia del giorno è quella della rivolta sedata con la forza a Mazar-iSharif. Come si sa, Mazar-i-Sharif è stata la prima città a cadere. Alla fine dei combattimenti, particolarmente aspri, i soldati talebani e i miliziani arabi sono stati imprigionati nel carcere della città. La rivolta di oggi, a quanto sappiamo, viene sedata in modo veramente brutale e violento: il carcere è stato bombardato dagli aerei angloamericani e i mujaheddin hanno fatto irruzione all'interno e massacrato i rivoltosi. Si parla di seicento vittime. Apprendo la notizia al ritorno a Islamabad, dalla CNN ma, più nei dettagli, dalle televisioni indipendenti, l'inglese ITV soprattutto. Nel carcere è morto anche un americano: la notizia è ufficiale, viene confermata anche dall'amministrazione USA. Stranamente, l'americano si trovava dentro il carcere. Non poteva che essere un uomo dei servizi, forse lo stesso che ha avvertito i suoi della rivolta imminente. Del bombardamento ha pagato le conseguenze anche lui. In questo albergo, il Marriott cinque stelle, sono concentrate le fonti di buona parte dei media occidentali. Scopro solo oggi che ogni sera, verso le cinque o le sei, la coalizione angloamericana tiene in una suite una conferenza stampa mediante il suo portavoce Kenton Keith: è lui a dare il bollettino di guerra. Ovviamente, non posso perdermi la conferenza di oggi. Alle cinque la suite è stracolma: ci sono decine di giornalisti e decine di telecamere - e non solo occidentali: anche giornalisti dei quotidiani e delle tv pakistane. Entra quest'omone di colore sui cinquanta, ex generale dell'esercito americano, in un impeccabile abito blu. Tutti i microfoni sono puntati sulla sua bocca. Mi rendo presto conto che, più che portavoce della coalizione, è il ripetitore del Pentagono: non nomina mai gli inglesi. Le sue parole sono il verbo di guerra: le notizie che Keith dà sono quelle che riecheggiano in tutte le agenzie, i quotidiani, i notiziari radio e tv. Per la guerra del Kossovo avveniva qualcosa di simile, con le conferenze del generale Clark o di qualche altro ufficiale NATO. I fatti vengono riportati con la secchezza e l'opacità tipica dei comunicati ufficiali: «Sono ancora in corso bombardamenti a Kunduz. Le truppe dell'Alleanza del Nord si trovano a tot chilometri da Kandahar...». Le domande sono poche, la discussione inesistente. La verità sulla guerra è, per gran parte del mondo, quella che Stefano Tura
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comunica quest'uomo. La cena con i giornalisti al Marriott cinque stelle è una situazione paradossale: potresti essere a Parigi o a Londra, e la guerra sembra lontana. Molti dei miei colleghi - ed è capitato anche a me - fanno la loro diretta dal tetto dell'hotel, con lo sfondo delle montagne. Del resto chi, come noi, non riesce ancora a entrare in Afghanistan, è costretto a raccogliere le notizie dal bollettino della suite e, se si riesce o se è consentito, dalle poche altre fonti indipendenti: alcuni telegiornali stranieri, alcune agenzie, alcuni siti Internet; poi si fa un grande pastone di fatti di cui non si può avere conferma diretta, fatti che non vedremo mai. Mi rendo conto, ancora una volta, che le notizie di guerra assomigliano a una sorta di gioco del telefono esponenziale: partono dai pochi che sono sul posto e, attraverso un pugno di filtri spesso interessati - qui il filtro è uno solo: la coalizione si ramificano attraverso mille intermediari fino ai milioni di destinatari. Questa sera ricevo telefonate preoccupate di molti amici dall'Italia: l'emozione per la morte dei colleghi è molto viva. Li tranquillizzo dicendo che mi trovo in una gabbia dorata e blindata e non corro più rischi di quanti potrei correrne a Roma. Evito di parlare del mio progetto di entrare in Afghanistan persino alla mia redazione: in questo momento non otterrei una loro autorizzazione - del resto, potrei agire anche senza - e tantomeno il loro appoggio. Il mio "compito del giorno dopo", invece, è seguire l'arrivo di Romano Prodi e di Guy Verhofstadt, primo ministro belga e presidente di turno dell'Unione Europea e i loro colloqui con Musharraf e con l'ambasciatore del Belgio. Islamabad, sabato 24 novembre La mattina presto decido di muovermi con alcuni colleghi - Ugo del «Messaggero», Fabrizio del «Corriere della Sera», Marco di ADN Kronos - per seguire gli incontri di Prodi. L'ambasciata italiana, che sentiamo per prima, non ha idea di quale sia il programma ufficiale e, sorprendentemente, mi dice di rivolgermi all'ambasciata belga. Continuo a chiedermi di cosa si occupino i diplomatici italiani in Pakistan. L'ambasciata belga mi dice che l'aereo di Prodi e Verhofstadt atterra alle Stefano Tura
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otto e mezzo, fra pochissimo, e che alle nove è fissato un incontro con l'ambasciatore. Ci muoviamo tutti di corsa. Arriviamo all'ambasciata e la troviamo avvolta da un'atmosfera di serafica ufficialità. Non sono certo entusiasta: eviterei sempre, se possibile, questi eventi di protocollo. Ma qui a Islamabad sono l'unico giornalista RAI, e tocca a me. Magra consolazione: siamo in zona di guerra, quindi nessuno ha da ridire se non ho la cravatta e nessuno mi chiede di metterla; indosso camicia, giubbotto, jeans e anfibi. Il primo incontro di Prodi e Verhofstadt è con le ONG che lavorano in Pakistan a sostegno dei profughi afgani. Noi veniamo tenuti rigorosamente fuori, nello splendido giardino della residenza: però noto attraverso le vetrate della sala in cui si svolge che l'incontro è molto animato. Prodi e il ministro belga siedono su un divano, circondati dai rappresentanti delle organizzazioni non governative. Quando, dopo due ore, l'incontro finisce, tento con altri colleghi di bloccare Prodi per sapere di cosa hanno parlato; ma l'agenda impone che vadano immediatamente da Musharraf, e non rilasciano nessuna dichiarazione. Mentre stiamo per metterci all'inseguimento dei due, veniamo a sapere una notizia che la dice lunga sulla burocrazia del regime pakistano. Ci viene detto che soltanto i giornalisti accreditati potranno entrare nella residenza e, al termine dell'incontro, seguire la conferenza stampa a tre. Una cosa del genere non l'ho mai sentita. Da nessuna parte, in nessun paese in cui sia stato, i giornalisti hanno bisogno di accrediti speciali per seguire una conferenza: che conferenza stampa è, se la stampa non ci può andare? Scopriamo che l'ambasciata belga sta organizzando dei pulmini per i giornalisti accreditati. Riusciamo a infilarci in uno di questi e, quando arriviamo sul posto, pensiamo di riuscire a entrare con gli altri: ma veniamo delusi. I pulmini vengono tutti bloccati al cancello d'entrata della residenza. Salgono uomini dei servizi di sicurezza e ci controllano uno per uno con una lista di nomi in mano; chi non è nella lista viene invitato, piuttosto caldamente, a scendere. Nessuno di noi italiani è nella lista. Veniamo trattati come delinquenti: l'atmosfera è quella senza complimenti di una retata. Veniamo lasciati fuori dal cancello. I nostri tentativi di spiegazione a quelli che lo piantonano - siamo italiani, siamo giornalisti, dobbiamo seguire Prodi che è italiano - non sortiscono nessun effetto. Stefano Tura
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Rimaniamo per più di un'ora fuori dal cancello fino a quando un giornalista belga, anche lui non accreditato, telefona all'addetto stampa dell'ambasciata belga e riesce a farlo venire al cancello. Il funzionario litiga con il personale della sicurezza: urla come un ossesso e si fa dare i nomi di chi ci impediva di passare, promettendo di creare un caso diplomatico. Alla fine, quasi se ci concedessero una grazia, ci lasciano entrare. Appena entro mi sembra di essere in un enorme campo da golf di quelli americani, con ettari e ettari di prato curatissimo. Dal primo cancello una strada in salita di almeno un chilometro ci porta a un secondo cancello, poi, sempre in salita, altri sei, settecento metri, sempre circondati da giardini, e infine la bianchissima, immacolata residenza di Musharraf. Non è la prima volta che in un paese povero incontro residenze lussuose, giardini curati, servizi di sicurezza parossistici. Pare quasi che i governanti ci tengano a sottolineare la differenza dalla miseria del loro popolo. Quando alla fine arriviamo all'ingresso ci fanno passare sotto il metal detector, ci perquisiscono e ci spogliano di tutto: telefoni, computer, addirittura non vogliono far passare la telecamera. Franco e io spieghiamo che senza telecamera tanto vale tornare indietro, e dopo un po' li convinciamo. Quando finalmente riusciamo a entrare nella sala la conferenza stampa sta per terminare: non sono mica stati ad aspettare noi. Fortunatamente riusciamo a riprendere quella che, dai resoconti dei colleghi sul resto della conferenza, mi sembra l'unica frase importante di Musharraf. Gli hanno evidentemente chiesto cosa intenda fare il suo governo per evitare la fuga in Pakistan dei talebani, dei miliziani di Al Qaeda e in particolare di Bin Laden; Musharraf risponde che i controlli in tutte le zone di confine si sono fatti estremamente rigorosi, che ha inviato rinforzi alla polizia di confine per evitare l'ingresso di ricercati, che esclude che Bin Laden e Omar si siano rifugiati in Pakistan e che è certo che si trovino ancora in Afghanistan. Di lì a pochissimo finisce la conferenza. In questi casi, o si agisce velocemente o non si agisce: in cinque minuti spariscono tutti. Mi precipito da Prodi con Franco, riesco a raggiungerlo e gli faccio alcune domande. La prima è se è stato firmato qualche genere di accordo tra l'Unione Europea e il Pakistan; mi risponde di sì, che è stato firmato un accordo che prevede un intervento congiunto dell'Unione e del Pakistan perché in Afghanistan, al termine della guerra, venga garantita la Stefano Tura
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stabilità istituzionale. Prodi non mi spiega nei dettagli in cosa consista questo accordo, se, come mi sembra di capire, preveda anche risvolti economici e di che genere. Quando gli chiedo dell'incontro all'ambasciata, Prodi mi dice che i rappresentanti delle ONG hanno detto loro che attualmente è impossibile entrare in Afghanistan per portare aiuto alla popolazione con garanzie di sicurezza sufficienti e hanno chiesto all'Unione Europea di contribuire a trovare una soluzione a questa gravissima impasse. Prodi aggiunge che è rimasto profondamente toccato dalla sorte di Maria Grazia e dei suoi colleghi, e che l'episodio dimostra come in questo momento l'Afghanistan sia praticamente abbandonato a se stesso: gran parte del suo territorio è fuori dal controllo di entrambi i fronti e afflitto da razzie, guerre tribali, brigantaggio. Approfitto della parte del pomeriggio che non dedico al montaggio dei servizi per sbrigare le varie pratiche burocratiche in vista dell'entrata in Afghanistan. Il visto che l'ambasciata pakistana mi ha rilasciato a Roma prevede una sola entrata: se non me lo faccio modificare ed estendere, rischio di non poter più rientrare in Pakistan dall'Afghanistan, una volta che ci sarò andato; pare che molti nostri colleghi di ritorno da Kabul, anche colleghi italiani, siano rimasti bloccati per giorni al confine pakistano, e poi fatti entrare con una sorta di moratoria, con l'ordine di abbandonare il paese entro settantadue ore. Di conseguenza, devo inoltrare una richiesta scritta al ministero dell'Informazione; l'autorizzazione rilasciata da questo deve essere presentata al ministero dell'Interno, che infine dovrebbe concedere il visto. Passo alcune ore con Franco a girare la città in taxi da un ministero all'altro, a procurarmi un numero esorbitante di carte bollate, fotografie, fotocopie di passaporto, a cercare di capire cosa c'è scritto nei moduli che mi vengono dati. Capisco che in Pakistan hai bisogno di bolli praticamente anche per respirare e che, se non sganci un omaggio in contanti al funzionario di turno, i tempi per ottenere un pezzo di carta diventano biblici. Le mille rupie - una ventina di dollari - che "regalo" all'addetto del ministero dell'Informazione mi bastano per far passare la mia pratica in testa a quelle di altre decine di giornalisti; ma so che il prossimo gliene darà duemila, e io gli finirò dietro. Islamabad, domenica 25 novembre Stefano Tura
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Ieri non ho pensato per nulla o quasi a Maria Grazia. L'inseguimento di Prodi e le arrabbiature burocratiche mi hanno distratto. Ma oggi mi sveglio con lei in testa, e con un bisogno urgente, anche se del tutto vago, di fare qualcosa. Mi viene in mente che qui al Marriott soggiorna Ivo Caizzi, inviato dal «Corriere della Sera» proprio per occuparsi della faccenda. Lo cerco per chiedergli se ci sono nuovi sviluppi; lui mi parla di questo filmato girato da una troupe filippina il giorno precedente l'agguato sullo stesso tragitto Jalalabad-Kabul. Anche loro sono stati fermati da tre o quattro uomini armati, in un punto che probabilmente è lo stesso, sono stati rapinati e poi rilasciati; il loro operatore ha ripreso di nascosto la scena, con la camera bassa al ginocchio. Il filmato è stato poi consegnato all'agenzia inglese Reuters ed è quindi diventato pubblico. La RAI è cliente della Reuters, quindi ha sicuramente ricevuto il filmato. Inspiegabilmente, vengo a sapere, non l'ha mandato in onda. L'ha fatto invece Mediaset. Ieri, dovendo occuparmi di Prodi, non avevo avuto modo di seguire la storia e di inserire il filmato nel mio servizio. Il filmato lo vedo solo oggi, me lo mostra Caizzi. Vedo inquadrati per un buon numero di secondi i volti di almeno due di questi uomini armati: fermando le immagini, se ne può vedere una sorta di foto. Capisco subito che non si tratta di talebani, e forse neanche di afgani. Se infatti uno di loro ha la barba, l'altro è completamente privo di barba e baffi, fatto assolutamente insolito per gli afgani. Lo si vede molto chiaramente, in un momento in cui mette le mani nel gilet multitasca del giornalista filippino per sottrargli il portafogli. Ripenso alla notizia che avevo dato giovedì: la troupe di greci scampata alla morte pochi minuti prima di Maria Grazia per merito del loro interprete. Comincio a cercare questi giornalisti greci sperando in un colpo di fortuna: potrebbero essere arrivati anche loro a Islamabad, magari per seguire Prodi e Verhofstadt, e se così fosse soggiornerebbero quasi certamente qui al Marriott. Alla reception mi dicono che ci sono in effetti tre giornalisti televisivi greci: Nikolas Vafiadis, Konstantinos Saros e Tasos Dousis. Il primo è un reporter di Alfa TV, gli altri rispettivamente giornalista e operatore di Antenna TV. Mi danno il numero della stanza. Li chiamo e, sì, sono stati loro a subire quell'assalto lo stesso giorno in cui è morta Maria Grazia. Li convoco urgentemente nella sala dove faccio il Stefano Tura
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montaggio - una stanza dell'albergo che ospita le attrezzature dell'eurovisione - e gli mostro il nastro. Non hanno dubbi: i loro assalitori sono gli stessi che compaiono nel filmato della troupe filippina. Mi raccontano per filo e per segno la loro storia. La loro macchina era in un convoglio di otto, del quale facevano parte anche le due dei giornalisti uccisi. I greci, però, erano rimasti leggermente staccati. Una volta fermati, sono sempre rimasti sulla strada: sia i filippini sia, stando alla testimonianza dei due autisti, Maria Grazia e i suoi tre compagni erano invece stati portati dietro una collinetta un po' discosta. Anche secondo i greci, gli assalitori non sono talebani, ma briganti comuni, forse addirittura arabi. Uno di loro ha puntato il kalashnikov contro l'operatore e l'ha rapinato, l'altro ha rapinato il giornalista, finché è intervenuto l'interprete a salvarli. Non hanno proseguito per Kabul: su consiglio dell'interprete sono tornati indietro a Jalalabad. A Jalalabad hanno saputo che due macchine del convoglio erano state rapinate e i giornalisti erano morti. Sembra una conclusione inevitabile: del commando assassino facevano parte i due uomini che si distinguono chiaramente nel filmato della tv filippina. Su questo imposto i servizi per i tre Tg e i Gr. Comunico la scoperta anche ai giornalisti delle agenzie e della carta stampata - in particolare a Caizzi, che decide di intervistare anche lui i giornalisti greci. A questo punto, la magistratura italiana - e, quando mai esisterà, la magistratura afgana - hanno in mano un buon materiale per condurre indagini. Ai filmati dei filippini e alla testimonianza dei greci vanno anche aggiunte le immagini dei cadaveri, che Franco ha ripreso prima dell'intervento dei medici legali. È forse il primo giorno in cui sono veramente soddisfatto del mio lavoro: nonostante non abbia da dare, neanche oggi, notizie di guerra prive di mediazioni, se non altro, come si diceva una volta, ho sbattuto in prima pagina la faccia del mostro. Tengo da parte la cassetta con tutto il materiale, la etichetto con la scritta «Omicidio Cutuli. Testimonianze e immagini», in modo da ritrovarla subito quando rientrerò in Italia e consegnarla a chi di dovere. Nonostante la mia piccola intuizione di oggi non possa rimediare a ciò che non ha rimedio, mi sento un po' meglio - sento per la prima volta, qui, di aver fatto qualcosa di utile. La sera, sulla CNN, va in onda una testimonianza molto interessante di un reporter tedesco della ZDF che si trovava nel carcere di Mazar-i-Sharif Stefano Tura
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nel momento in cui è iniziata la rivolta. Nelle immagini, filmate dalla telecamera del giornalista in fuga, si vede bene la violenza degli scontri, e persino l'americano - lo stesso poi morto nell'attacco - che chiede aiuto via radio. Capisco anche, adesso, perché gli americani non hanno potuto negare la presenza di un loro uomo nel carcere e la sua morte. Chissà quanti altri americani sono già impegnati in Afghanistan in azioni coperte, nelle zone di cui nessuno, oggi, sa niente: non si stanno certo limitando a bombardare. Islamabad, lunedì 26 novembre Oggi spero sia l'ultimo giorno passato tra visti, code ai ministeri e attese di autorizzazioni. Da Roma mi danno il via libera per spostarmi da Islamabad e andare a Quetta, nel sud del Pakistan, a circa duecento chilometri da Kandahar - Kandahar che ancora, oltre alla zona montuosa vicino a Jalalabad, rimane l'ultima roccaforte dei talebani. Verso le nove, assieme ai colleghi italiani, sono al ministero dell'Interno con in mano l'autorizzazione del ministero dell'Informazione all'estensione del visto. Facciamo arrivare le nostre carte a un funzionario amministrativo del ministero, che non ci dà nessuna risposta per più di un'ora. Dopo lunghe insistenze, riusciamo a parlare al telefono con questo tizio e lui ci dice che potremo avere il visto «domani o dopodomani» e che «l'estensione deve essere autorizzata dal ministro». Gli urliamo al telefono qualcosa in inglese e riusciamo a convincerlo a scendere dal suo ufficio e a incontrarci. Gli spieghiamo che dobbiamo partire domani e che quindi dobbiamo ottenere il visto oggi. Personalmente, mi rifiuto di sborsare altre mance: sono stufo di comprare la mia possibilità di lavorare. Ma non escludo che qualcun altro lo faccia perché, dopo una ventina di minuti di trattative, il funzionario ci dice di attendere le due, quando chiuderanno gli uffici, e che allora, probabilmente, qualcosa potrà fare. Dalle undici e mezzo rimaniamo nel cortile del ministero ad attendere. Alle due meno cinque compare un usciere con in mano un foglio per ciascuno, che autorizza gli uffici competenti a rilasciare l'estensione; ma prima dovremo, nell'ordine, passare da un ufficio, compilare un altro modulo, andare in un'agenzia della banca nazionale pakistana, fare un versamento e poi tornare all'ufficio passaporti, dove otterremo il benedetto Stefano Tura
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timbro. Ci spiega che c'è un ufficio passaporti in tutte le città del Pakistan: così decidiamo di partire. Almeno abbiamo un pezzo di carta in mano. Vado all'agenzia di viaggi e compro il biglietto aereo. Partirò domani alle 12,45 e arriverò a Quetta alle 14,10. Franco intanto ha chiesto di poter tornare a Roma. Mi dice che era previsto che la nostra trasferta durasse una decina di giorni: siamo vicinissimi a superare questo limite e ormai è chiaro anche a lui che, poiché tenterò di entrare in Afghanistan, lo supereremo di molto. Franco ha preso altri impegni e non può fermarsi oltre. Concordiamo comunque che venga con me a Quetta e che se ne vada solo nel momento in cui arriverà il suo sostituto da Roma. Chiamo Roma, che manderà Giuseppe, un operatore di Bari, direttamente a Quetta; ma non prima di mercoledì. Domani, dunque, partirò con Franco, oltre che con Ugo, Fabrizio, Marco e con un altro italiano, un fotografo free lance. La sera preparo i bagagli con gioia. Sono felice di andarmene da questo albergone occidentale, felice di abbandonare questa torre d'avorio, felice di avere la possibilità di raccontare cose che vedo con i miei occhi. Prima di andare a dormire, mi faccio dare dalla collega dell'ANSA il numero di un ragazzo di Quetta che forse potrà aiutarmi come interprete. È tardi, e non riesco a trovarlo. Gli lascio un messaggio con il mio numero di telefono. Ho definitivamente lasciato perdere l'offerta dell'agenzia, con i suoi prezzi esorbitanti. A Quetta, però, non ci sono posti per dormire. L'unico albergo di cui vengo a sapere, l'hotel Serena, è strapieno, e non mi lasciano prenotare. Eppure devo andarci: lì ci sono tutte le televisioni e i giornalisti, lì arrivano le notizie, lì ci sono le conferenze stampa. Partirò senza ancora sapere dove sistemarmi. Islamabad-Quetta, martedì 27 novembre Verso le dieci, Franco e io lasciamo l'albergo e prendiamo un taxi per l'aeroporto. Siamo carichi di materiale tecnico, quindi io metto il mio bagaglio a mano sul sedile anteriore della modesta vettura accanto all'autista, un ragazzo di circa trent'anni, cordiale ma riservato, magrissimo. Arriviamo all'aeroporto, scendiamo, paghiamo il taxi, superiamo il primo controllo di polizia, arriviamo fino al banco del checkStefano Tura
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in, imbarchiamo tutto il materiale tecnico, mostriamo i biglietti, e a un certo punto sento qualcuno che mi chiama alle spalle. Sono due poliziotti. «Lei sta partendo per Quetta?», mi chiedono in inglese. «Sì», rispondo. «Allora venga con noi». Penso subito a qualcosa di legato al mio lavoro, o a questioni di passaporti, di biglietto. «Che problema c'è?», chiedo. «Venga, venga, prego». Dico a Franco di aspettarmi prima di imbarcarsi. Mi portano in un ufficio e mi chiedono: «Lei ha un bagaglio a mano?». Non so perché, ma mi vengono in mente misure antiterrorismo, bombe e cose del genere. Istintivamente, per non avere grane, dico: «No, no, assolutamente no». Ho voglia di partire al più presto. Mi portano in un'altra stanzetta e mi mostrano una borsa: «Ma questa non è sua?». È la mia borsa. Il mio bagaglio a mano. Mi rendo immediatamente conto di averlo dimenticato nel taxi. Glielo dico e, temendo che non mi credano più, inizio a elencare per filo e per segno tutto quello che contiene. Si convincono, e me la danno. Chiedo di poter uscire dall'aeroporto per ringraziare il tassista, ma ho già passato il check-in: non è possibile. Dentro quella borsa ho tutti i miei soldi, qualche migliaio di dollari, che mi devono bastare per il resto del viaggio. Quel ragazzo sapeva che non l'avrei più rivisto, mai più; e poteva certo immaginare cosa contenesse visto che ha capito bene da che albergo venivo, che lavoro facevo. Eppure, ha consegnato la borsa alla polizia. Ha spiegato loro che ero uno straniero, che stavo partendo per Quetta in compagnia di un uomo calvo e molto alto: Franco è quasi due metri. La polizia mi ha trovato e mi ha restituito la borsa, integra. Insomma, prendiamo il volo per Quetta. L'aereo è un airbus delle linee pakistane. Questa volta, non essendo un volo internazionale, non c'è la preghiera. La distinzione tra prima e seconda classe è puramente nominale. Il mio posto è vicino al finestrino. L'aereo, chiaramente, non può sorvolare il territorio afgano, e vola lungo il confine. Il paesaggio è bellissimo. Di qua e di là dalla frontiera, deserto e montagne a perdita d'occhio, solcate dal sole che già tende al tramonto. Ogni tanto, piccoli agglomerati di case a un piano fatte di terra, qualche pastore con pecore e capre. Mi viene in mente che non ho visto ancora nulla, che non conosco Stefano Tura
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affatto questa terra. La guerra, a differenza che nella Bosnia o in Kossovo, si svolge in pochi posti che punteggiano un enorme nulla, una distesa immensa, orribile e magnifica, di sabbia e di polvere. All'aeroporto di Quetta si ripete la solita scena dell'accaparramento del giornalista occidentale: tutti si propongono di farci da autisti, da interpreti eccetera eccetera. Prendiamo due macchine e ci facciamo portare all'hotel Serena. Quetta è un paesone, un enorme villaggio con il bazar e la moschea al centro, l'aeroporto - che è nazionale, non internazionale - e una base militare, fra le più grosse del Pakistan. La cosa più impressionante dell'albergo è che è costruito come una specie di caravanserraglio, ma in realtà è stato trasformato in un bunker. Il corpo centrale dell'edificio ha due piani, per il resto si estende con costruzioni a un piano; è circondato da mura altissime. L'unica entrata, un cancello, è presidiata da poliziotti armati. Le macchine arrivano fino a un certo punto, poi vengono fermate e controllate; lì i facchini vengono a prendere i bagagli e si prosegue a piedi. La catena Serena è di proprietà dell'Aga Khan; quest'albergo è stato inaugurato da un anno (ne hanno costruito anche un altro a Islamabad) e, in condizioni normali, viene utilizzato da politici, diplomatici e uomini d'affari. Del resto, qui i turisti non passano. C'è ben poco da vedere. Appena entro noto che ci sono uomini armati anche sul tetto. Da un lato penso: ben vengano, vuol dire che questo albergo è sicuro. Dall'altro sono un po' preoccupato: questo spiegamento di forze significa che l'albergo va in qualche modo difeso. L'hotel è completo da giorni: tutte le televisioni straniere, dalla CNN alle europee, e tutte le testate più importanti sono qui. Nonostante l'insistenza, nonostante il fatto che siamo nella lista d'attesa, non c'è modo, neanche parlando con il direttore, di ottenere una stanza. Figuriamoci, come avevo chiesto all'inizio, due - una per Franco e una per me. Il direttore ci dice che almeno per i primi giorni ci può sistemare solo in due cameroni adibiti a sala-conferenze, con la moquette per terra. In ciascuno dei due sono stati sistemati tre letti: ovviamente, il bagno non c'è. Ci propone, però, lo stesso prezzo che fa pagare per una normale stanza con bagno. Le nostre proteste vengono liquidate così: «Se non volete, nessuno vi obbliga. Ci sono altri a cui questa sistemazione va bene». Accettiamo. Lo stanzone in cui ci mettono non ha neanche un armadio: almeno, è ben Stefano Tura
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riscaldato, e non abbiamo problemi di spazio. Lo divideremo con Ugo, il collega del «Messaggero». Domani, proverò a cercare un'altra sistemazione. Visto che sono due giorni che non faccio un servizio, ho promesso alla mia redazione che sarei stato in grado di metterne insieme uno appena arrivato a Quetta. Ma non avevo fatto i conti con due cose. Primo, si è fatto buio. Secondo, ho pochissimo tempo, considerando che ne ho perso così tanto per sistemarmi. Il mio GSM qui funziona molto poco, e non riesco a mettermi in contatto con il ragazzo che mi ha segnalato la collega dell'ANSA, il mio candidato interprete. Qui alla reception lo conoscono, come mi aveva anticipato la collega. Mi dicono che di solito passa verso le sette: troppo tardi. Allora faccio una cosa (a ripensarci, una grossa stupidaggine): prendo un tassista e un ragazzo che gironzola lì fuori dall'albergo e parla un po' d'inglese e mi faccio portare in giro per la città. Concordo per una cifra abbastanza bassa, in tutto cinquanta dollari fra guida e autista. Chiedo ai due soprattutto di portarmi nei posti dove abitano le persone ideologicamente più vicine ai talebani e loro mi portano in un quartiere completamente abitato da afgani, profughi o regolari, che si chiama Little Kandahar. Una volta nel quartiere, veniamo accerchiati da persone che ci chiedono l'elemosina. Tento di intervistarne qualcuna, di chiedere come stanno vivendo la guerra, cosa pensano di quello che sta succedendo a Kandahar: non ottengo risposte, soltanto richieste di soldi. Riesco a capire solo che tanta gente è qui già da prima della guerra e ha metà famiglia in Afghanistan. Altri sono venuti dai loro parenti dopo l'inizio dei bombardamenti. Sembra quasi che tra Quetta e Kandahar non esistano confini, né naturali né etnici né politici. Il mio servizio, però, non prende vita, anzi la situazione comincia a farsi pericolosa: è buio, ed è ormai chiaro che non ci lasciano andare se non gli diamo dei soldi. Loro sono parecchie decine e noi soltanto due: gli diamo qualche dollaro e, quasi, fuggiamo. Quando rientro vado nella stanza dell'APTN, l'Associated Press Television Network, ovvero il service inglese al quale mi affido per il montaggio dei servizi e la trasmissione via satellite. I ragazzi dell'APTN Stefano Tura
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sono qui da qualche giorno. Quando gli racconto quello che ho fatto oggi pomeriggio mi danno del matto: avrei potuto tranquillamente essere picchiato e derubato, mi avrebbero potuto portare via la telecamera e tutto il resto. Little Kandahar è un po' come Little Havana a Miami. Mi mettono a disposizione immagini che hanno girato oggi e nei giorni scorsi nella zona vicino al confine: la RAI, essendo abbonata al loro service, ha il diritto di utilizzare le loro immagini, e le paga comunque, che le trasmetta o no. Io avrei preferito fare qualcosa di completamente mio, e mi sento un po' frustrato a dover usare immagini altrui: ma non ho altra scelta, anzi, il mio spirito d'indipendenza per poco non mi giocava un brutto tiro. Confeziono un servizio con le loro immagini e con le informazioni che raccolgo da altri colleghi stranieri. Il mio servizio mostra i profughi che arrivano da Kandahar e dalle zone di Takthapul e Spinboldak - i due villaggi principali che si incontrano, nell'ordine, provenendo da Kandahar - fino al confine pakistano di Chaman. Il movimento della popolazione continua anche in questi giorni, perché continuano i bombardamenti nella zona attorno a Kandahar, sull'aeroporto, sui villaggi limitrofi. Milleduecento marines americani sono arrivati nei pressi di Kandahar ma non sono entrati in città: si sono stabiliti nella zona di Dolangi, dove sorge un piccolo aeroporto che si presume fosse utilizzato per il narcotraffico. L'assedio della roccaforte talebana, intanto, prosegue ad opera dell'Alleanza del Nord. La sorveglianza lungo il confine pakistano, come già aveva annunciato Musharraf durante la conferenza stampa, è stata rafforzata e alla polizia di frontiera sono state fornite foto di Bin Laden e del mullah Omar (mi chiedo quali: le uniche due foto che io conosca del capo talebano sono sfocate o scattate da lontano). Combattimenti fra talebani e tribù pashtun locali - gente della stessa etnia dei talebani - che appoggiano l'Alleanza del Nord sarebbero in corso anche nella zona di Spinboldak; la zona è considerata di importanza strategica perché controllarla vorrebbe dire tagliare ai talebani la principale via di fuga verso il Pakistan. La sera incontro Djamshid, il ragazzo che avevo provato a contattare per telefono. È di etnia pashtun, piccolo di statura e giovane, di ventisei o ventisette anni. Conosce l'inglese, come molti pakistani: un inglese piuttosto maccheronico, ma sufficiente per farsi capire. È un tipo molto sveglio, evidentemente è abituato a trattare con i giornalisti; mi sembra Stefano Tura
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però più serio rispetto a quelli che avevo incontrato a Peshawar e meno legato ai soldi. Io gli dico quali sono le mie esigenze: ho bisogno di un autista e di un interprete per tutta la mia permanenza e anche della loro disponibilità ad entrare in Afghanistan, nel momento in cui sarà possibile. Mi dice che lui, personalmente, non può accettare l'offerta: sta già lavorando con dei giornalisti spagnoli. Però mi può presentare alcuni suoi amici. Dopo un'ora torna con un altro ragazzo pashtun: provo a scambiare due battute con lui e mi rendo immediatamente conto che il suo inglese è pressoché inesistente. Poi gli faccio la classica domanda: «Quando ci vediamo domattina, che cosa fai?». Mi risponde: «Mah, vengo e aspetto che tu mi dica cosa fare». «Ecco, no», faccio io, «quando domani vieni qui devi aver già tradotto le notizie più importanti di uno o due giornali locali e ascoltato la radio e la tv di qui: devi sapermi dire quel che succede. Se quando arrivi dobbiamo cominciare a fare tutto questo, perdiamo tutt'e due un sacco di tempo». «Ah, sì, sì, d'accordo, allora farò così», accondiscende lui. Ma mi rendo conto che questo ragazzo, per me, sarebbe una sorta di maggiordomo, e non è quello che cerco. Djamshid mi spiega anche cosa occorre fare per avvicinarsi al confine con l'Afghanistan. Bisogna andare all'ufficio del ministero dell'Informazione con la fotocopia del passaporto e fare richiesta dell'autorizzazione, che è valida per un solo giorno e va dunque ottenuta quotidianamente. Il giorno seguente si ottiene l'autorizzazione e la scorta della polizia. Si può rimanere al confine per qualche ora, poi bisogna tornare indietro. Mi racconta anche che ogni uscita dall'albergo avviene con la scorta di almeno un poliziotto. (Il motivo per cui ieri mi hanno lasciato uscire senza scorta è che era appena finito il digiuno quotidiano e tutti, compresi i poliziotti, erano a mangiare). La misura è diventata invalicabile dalle violente manifestazioni del primo venerdì dopo l'inizio dei bombardamenti: gli scontri con la polizia hanno provocato parecchi feriti. Ma non è finita qui. All'inizio anche al Serena, come al Marriott di Islamabad, c'era l'usanza di allestire i set televisivi sul tetto dell'hotel. Qualche sera prima, però, durante un collegamento notturno, quindi con l'aiuto dei riflettori, dalla strada antistante sono partiti parecchi colpi di kalashnikov contro i giornalisti, che hanno mancato di pochissimo un giornalista della BBC. A quel punto i collegamenti dal tetto non sono più Stefano Tura
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stati autorizzati: possono essere fatti solo da uno dei cortili, quindi all'interno delle mura, fuori tiro; e sul tetto sono stati posizionati dei militari, gli stessi che ho notato ieri appena arrivato. Ringrazio Djamshid per le informazioni, ma dico a lui e al suo amico che vorrei vedere altri interpreti. Andiamo a letto. Dormo malissimo: Franco e Ugo russano come treni a vapore. Quetta, mercoledì 28 novembre Oggi Franco riparte. Provo un pizzico di invidia: fra due giorni vedrà la sua famiglia; del resto, però, ho scelto io di fare quello che sto facendo. Dopo un'ora circa arriva Peppino: abbiamo appuntamento in hotel. Ci salutiamo cordialmente, anche se è la prima volta che lo vedo. Piccolo, con i baffi e la pipa eternamente in bocca; adesso capisco perché lo chiamano Fidel. Alla reception cerchiamo di farci dare una stanza con bagno: capisco presto che, anche qui, basta sganciare. Do trenta dollari a un tizio e nel giro di tre ore viene fuori una doppia. Una stanza modesta, niente a che vedere col Marriott, ma dignitosa. C'è un solo letto, un matrimoniale: così ci facciamo portare due materassi, li impiliamo a fianco al letto e decidiamo di fare a turno: una notte sul lettone, una sui materassi. Mentre ancora sistemo le attrezzature, si presenta da me un ragazzo di etnia hazara. Gli hazara sono originari dell'Afghanistan, in particolare della città di Ghazni, a sud di Kabul: nei tratti somatici assomigliano molto ai mongoli. Sotto il regime talebano gli hazara hanno però subito persecuzioni e "pulizie": molti di loro sono dovuti fuggire. Nonostante siano, ovviamente, musulmani, sono un'etnia di tradizione urbana e piuttosto scolarizzata rappresentano dunque una minaccia per i retrivi talebani. Il ragazzo si chiama Mushtaq Hussein, ha ventotto anni e, mi dice subito, è stato mandato da Djamshid. Ci viene a cercare direttamente in camera: mi sembra molto timido e riservato, e quello che soprattutto mi colpisce è che non mi parla subito di compenso, ma mi chiede di cosa ho Stefano Tura
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bisogno, se ho già un autista, quanto tempo intendo rimanere, cos'è che voglio fare esattamente. Mi dice poi di essere nato a Quetta da genitori afgani, che ha sette fratelli, che studia all'università - fra le altre cose, l'inglese: mi accorgo che parla piuttosto bene. Conosce anche perfettamente le varie procedure burocratiche necessarie ad avere i permessi. Gli chiedo quanto vuole, e lui mi risponde: «Dimmi tu quanto vuoi darmi». Continua a piacermi. Gli propongo di variare il compenso a seconda dell'impegno della giornata e delle ore in cui mi servo di lui. Mushtaq mi dice che si occuperà di procurarmi l'autista con la macchina, possibilmente una jeep. Attendo ancora di valutarlo sul campo: ma intanto lo considero una persona sulla quale fare affidamento. Dopo essermi sistemato, la prima cosa che voglio fare è trovare una storia mia, andare finalmente fuori a raccontare quello che succede. Mushtaq mi fissa un appuntamento con un certo Qais, un portavoce dell'Alleanza del Nord che attualmente si trova a Quetta. Ci vedremo nel pomeriggio. Subito prima della partenza conosco Ali Madhad, il nostro autista. Intorno ai quarant'anni, anche lui di etnia hazara, è un amico di Mushtaq e vive a pochi isolati da lui. È una persona molto calma, molto sicura di sé: mi trasmette subito un senso di tranquillità. Viaggiamo su una Mitsubishi Pajero tutto sommato in buone condizioni, considerando che ci troviamo in Pakistan. Con noi viene il poliziotto armato di prammatica. Arriviamo nel centro della città vicino alla moschea, nella sede di quello che poi scopro essere un movimento politico di etnia hazara. Entriamo in una specie di sottoscala: mi ricorda un po' alcune sedi di radio private degli inizi, un ambiente molto modesto riadattato alla bell'e meglio. Ci sediamo a terra come vuole la tradizione e comincio l'intervista con Qais, un uomo di circa quarantacinque anni, molto educato e cortese. Dice di essere un membro delle tribù che stanno assediando Kandahar. Gli chiedo se la situazione è come dicono i bollettini ufficiali angloamericani, secondo i quali i talebani hanno perso Spinboldak e Takthapul e sono rimasti isolati a Kandahar. Qais mi dice che non è così, che Takthapul è stata subito riconquistata dai talebani, dopo che le truppe dell'Alleanza del Nord erano arrivate nella zona. A Spinboldak, poi, la questione è molto complicata. La cittadina, prima del regime talebano, era dominata da due tribù, i Noorzai e gli Achakzai, in perenne conflitto Stefano Tura
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armato tra loro. Sotto i talebani la città era stata "pacificata". Ma con l'assedio di Kandahar, il controllo dei talebani sui dintorni del villaggio si è allentato e le due tribù sono tornate a scontrarsi. A fare da mediatore fra loro è un certo Hamid Karzai, un ex filo-monarchico, comandante a sua volta di una tribù, che sta tentando di aggregare le varie fazioni in funzione antitalebana. Ma dal punto di vista militare, favoriti dalle lotte intestine fra le due tribù, che si combattono tra loro invece che mettersi d'accordo e combattere i talebani, sono in realtà questi ultimi a controllare ancora il centro di Spinboldak, con una guarnigione, mi dice Qais, di cinque soldati. Sono già grato a Mushtaq per questa fonte. Qais è un personaggio estraneo al circo mediatico e al giro delle fonti ufficiali: mi parla della situazione che conosce e dei problemi che sta vivendo la sua gente, non di quello che raccontano le agenzie. Nessuno, probabilmente, lo interpella, perché nessuno lo conosce. È vero, non posso verificare di persona quello che dice, ma sono comunque più propenso a credere a lui che ai bollettini della coalizione: mi sembra equilibrato e oggettivo, per il solo fatto di ammettere che, nei due villaggi, i talebani sono ancora al potere e che la sua parte, quella delle tribù locali, non riesce a organizzarsi come si deve. Con la stessa pacatezza quasi da osservatore, comunque, mi dice che a suo parere i talebani a Kandahar non resisteranno a lungo. Dedico dunque alla sua intervista buona parte del servizio che preparo per la sera - e che però a Roma non raccoglie molto entusiasmo. Prima di montarlo, infatti, chiamo Roma e parlo con il caporedattore del suo contenuto: mi viene fatto notare che le notizie che ho io contrastano, e di molto, con quelle ufficiali. Il fatto che Spinboldak e Takthapul siano in mano ai talebani significa che Kandahar non è tagliata fuori, che i talebani e il mullah Omar possono spostarsi da Kandahar fino al confine; e come loro possono farlo i miliziani arabi e lo stesso Bin Laden. Comincia una discussione sul mio ruolo, da cui esco con una proposta: poiché io non sono in grado di sapere attraverso fonti dirette cosa accade nelle zone di Tora Bora, Jalalabad, Mazar-i-Sharif, e anche i miei colleghi a Kabul si trovano nella stessa situazione - lì la guerra è finita, e i servizi che fanno riguardano la ripresa della vita normale e cose del genere - tanto vale che il "pastone di guerra" con le notizie ufficiali lo facciano redazionalmente da Roma. Io farò dei reportage sul posto, in modo che innanzi tutto il telespettatore possa notare la differenza tra le notizie diffuse dai media Stefano Tura
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internazionali e le realtà locali, e poi perché mi sembra professionalmente più onesto raccontare solo quello che vedo da qui. L'atteggiamento della redazione non è certo una novità. Anche quando in Italia veniamo mandati a seguire, ad esempio, fatti di cronaca, se le testimonianze che raccogliamo divergono dalle notizie d'agenzia spesso abbiamo delle discussioni. Chi vive in redazione è portato a seguire le vie più controllabili, tanto più in una situazione di guerra. Comunque riesco a far passare la mia proposta: rispetto ai giorni passati avrò più autonomia, e sono soddisfatto che questo accada proprio ora che sono a un passo dalla guerra vera. Seguendo le istruzioni di Djamshid, riesco oggi a ottenere l'autorizzazione per recarmi al confine. La ritirerò domattina prima di partire. Anche i miei colleghi italiani della carta stampata - qui sono l'unico giornalista televisivo del mio paese - l'hanno ottenuta: ci ritroviamo tutti a cena e decidiamo che al mattino ci muoveremo insieme. Intanto, ci scambiamo un po' di opinioni su quello che abbiamo visto e fatto, e noto, non senza una punta di compiacimento, che tutti gli altri si sono limitati a scrivere il "pastone di guerra" e non hanno avuto contatti diretti con fonti. Con Peppino, devo dire, mi sono trovato subito bene. Lui è più vecchio di Franco, ha cinquantotto anni, ed è molto esperto: come Franco, ha fatto la guerra del Golfo, la Bosnia, la Somalia. Quel che me lo fa piacere è che, appena gli parlo dei miei progetti di entrare in Afghanistan, non oppone nessuna perplessità. È disposto ad affrontare tutti i pericoli, oltre che i prevedibili disagi: non avremo un albergo, forse neanche un letto, e non ci potremo lavare per giorni. Quetta-Chaman-Quetta, giovedì 29 novembre Chaman, la città di confine, dista da Quetta circa tre ore di viaggio. In realtà sono appena più di cento chilometri, ma il tragitto è particolarmente accidentato: si passa attraverso parecchi villaggi, spesso la strada non è asfaltata e bisogna attraversare un passo di montagna, il Kojak Pass. Andarci scortati è obbligatorio: ogni mattina, intorno alle nove e mezzo o le dieci, la polizia pakistana organizza un convoglio di giornalisti e lo accompagna dal cancello dell'albergo fino alla frontiera. La mia Stefano Tura
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impressione è che tutto sia estremamente burocratizzato ma che le garanzie di tutela siano in realtà minime: partono dall'hotel tra le venti e le quaranta macchine, ciascuna con a bordo non meno di tre giornalisti, fotografi o telecineoperatori, scortate da non più di due o tre auto di poliziotti. Il nostro convoglio, dopo dieci minuti, è difatti già completamente sfilacciato. Se volessimo fermarci in uno qualunque dei villaggi che attraversiamo, oppure addirittura deviare dal percorso, nessuno si accorgerebbe della nostra mancanza. Inoltre, durante il viaggio può succedere, ed è successo, che una delle macchine perda la strada: e certo il convoglio non si fermerà per loro. È evidente che le "misure di sicurezza" sono solo un modo delle autorità pakistane per scaricarsi la coscienza e per negare le proprie responsabilità, casomai dovesse succedere qualcosa ai giornalisti. Prima di giungere al Kojak Pass, attraversiamo vari villaggi e una serie di check-point, che superiamo senza problemi grazie alla scorta. La strada passa proprio al centro dei villaggi, generalmente dentro i bazar, punteggiati di teste di capre e agnelli messe a sgocciolare, secondo l'uso locale. Fino circa a mezzogiorno, questi mercati sono pieni di donne, anche qui rigorosamente in burqa. (Il burqa è afgano e qui siamo in Pakistan, ma questa zona è abitata in maggioranza da profughi afgani; e tutti questi villaggi, si può dire, sono campi profughi stabilizzati). Dopo quell'ora, però, non se ne vede più neanche una: una volta procurate le provviste, pare che per loro scatti una sorta di coprifuoco. Saliamo verso il Kojak Pass. Anche su queste strade di montagna, completamente prive di parapetti, spesso sterrate o, peggio, fatte di pietre, i pakistani tengono rigorosamente il centro: continua la solita gara a schivarsi all'ultimo secondo con le macchine che vengono in senso opposto. Per evitarle, sterziamo bruscamente verso la nostra sinistra e spesso ci ritroviamo in un attimo sull'orlo del baratro. Anche quest'autista insiste, seraficamente, che in Pakistan non si fanno mai incidenti. Il paesaggio è incredibile. Le montagne qui intorno sono altissime, totalmente brulle, bruciate dal sole - in queste zone non piove da parecchi anni - ma alla terra, alla polvere o alla sabbia delle quote più basse qui si sostituiscono le rocce, rosse o giallastre: e lontano, su uno dei crinali, pastori con le loro capre o i loro muli che pascolano sul nulla - perché non Stefano Tura
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c'è nulla, non un albero, non un filo d'erba. Arriviamo in cima al Kojak Pass, oltre duemila metri, l'ultimo valico di montagna che separa i due paesi, e ci troviamo, oltre alla classica linea di check-point con il gabbiotto, vari gruppetti di uomini armati con la mitragliatrice, abbarbicati sulle alture a fianco della strada, che controllano il passaggio delle persone e delle macchine. (Da Chaman a Quetta c'è anche una linea ferroviaria, ma sui binari arrugginiti non vedo mai un treno: la linea sembra abbandonata da tempo). Superato il valico, lungo la strada si incontrano bambini accovacciati che sembrano in attesa: sperano che qualche macchina di giornalisti - che battono la zona da parecchi giorni - si fermi e gli regali qualcosa. Almeno nel nostro convoglio, però, nessuno si ferma, è come una lunga gimcana per arrivare al confine, con così poche ore a disposizione; e mi immagino che nei giorni scorsi sia stato lo stesso, e che non si sia mai fermato nessuno. Penso a queste loro speranze minime ma grottescamente frustrate, a quello che hanno respirato e respireranno per ore e giorni: i gas di scarico, la polvere. Chaman, la nostra destinazione, è proprio a ridosso del confine virtualmilitare tra Pakistan e Afghanistan. Come tutti i paesi di confine, è una zona di grande traffico, piena di gente che va e che viene, e ci si trova di tutto. Quando arriviamo è circa l'una, il sole è altissimo e picchia sulla nostra testa. La scorta, che è arrivata mezz'ora prima della nostra macchina, ci conduce a un parcheggio appena oltre l'abitato, ci fa scendere e ci accompagna proprio fino al muretto sormontato da filo spinato che segna la frontiera. Al di là c'è la cosiddetta "terra di nessuno", una sorta di cuscinetto creato per ragioni di sicurezza tra Spinboldak e Chaman. In questa terra di nessuno possono circolare tanto la polizia pakistana quanto i militari afgani senza dover chiedere il permesso di entrare nell'altro paese, in una paradossale convivenza fra fazioni teoricamente nemiche. Una volta lì, cerco subito di individuare quali sono i profughi. Ci sono moltissime persone che vengono dall'Afghanistan ed entrano in Pakistan: l'ufficiale di polizia mi spiega, per il tramite di Mushtaq, che quelli che passano dal muretto non sono profughi, ma semplici pendolari: pakistani o afgani, che hanno dei parenti, portano merce o lavorano dall'una o dall'altra parte. Accade così tutto l'anno - per esempio, molti afgani passano in Pakistan quando arriva la stagione fredda - e accadeva così anche prima della guerra. Stefano Tura
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Chiedo dove sono i profughi, quelli che stanno veramente scappando. Mi viene indicato Kili Faizo, un campo gestito dall'Alto Commissariato per i Rifugiati dell'ONU, leggermente spostato rispetto al confine. Lì i profughi arrivano, vengono registrati e gli viene dato il kit di sopravvivenza del World Food Program: un sacco che contiene cereali, lenticchie, coperte e un fornelletto e che dovrebbe bastare a una famiglia per una settimana. Poi vengono smistati in altri campi "a medio termine": il campo di Roghani, il più grande qui nei pressi, o i campi di Quetta, per esempio. Siamo autorizzati a salire su una torretta della polizia di confine. Da qui ho una visione panoramica: basta seguire con lo sguardo per cinquecento metri l'immaginaria linea del confine, in una direzione e nell'altra a partire dal muretto col filo spinato - dove continuano a entrare lunghe, lente file di "pendolari" - e non c'è più niente. Niente filo spinato, niente bunker, niente poliziotti, niente centri abitati, niente. Mi chiedo che problemi potrebbe mai avere uno che conosca il posto e abbia i mezzi - un miliziano di Bin Laden o un talebano - a passare il confine illegalmente. Avrebbe certamente il supporto dei locali, poi, da queste parti per lo più schierati con i talebani. Da qui vedo anche il campo di Kili Faizo: i profughi in attesa di essere registrati sono non più di una cinquantina. Voglio andare a vedere di persona: ma prima farò qualche intervista ai pendolari. Torno quindi nella zona del muretto e mi metto al lavoro, con l'aiuto di Mushtaq. Ho innanzitutto la difficoltà di identificare l'origine delle varie persone: se sono pakistani o afgani, di che etnia, di che fazione politica... Mi hanno già spiegato che la dizione "talebano" è totalmente equivoca: i talebani sono studenti delle scuole coraniche, le madrasse. Poi, possono scegliere di fare i miliziani, di combattere e armarsi - oppure semplicemente di vivere secondo i principi che hanno appreso, facendo la professione che vogliono o possono fare. Ma non esiste una "faccia da talebano", né un "vestito da talebano". Persone con turbanti nere e barbe lunghe ce ne sono tantissime, che passano qui il confine: ma va' a capire se sono sostenitori del regime di Omar o, che so, commercianti di pelli o contadini. Nulla potrebbe farmeli distinguere. Nemmeno Mushtaq ha idea se qualcuno di loro sia un miliziano; se lo fosse, non potrebbe identificarlo. Nonostante tutto, ad alcuni di loro provo a chiedere: «Sei talebano?», e mi guardano come se gli avessi fatto una domanda senza senso. Stefano Tura
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Pochi vogliono farsi intervistare, e ancora di meno si lasciano riprendere. Arrivo a ipotizzare che, in queste zone in cui l'integralismo è molto vivo, il fatto che la guerra coincida con il Ramadan causi in alcuni un'accresciuta avversione nei confronti degli occidentali. Quasi tutte le persone che intervisto - che abbiano o no il turbante nero - mi dicono che dall'altra parte del confine la situazione è piuttosto tranquilla. Spinboldak e Takthapul sono entrambe controllate dai talebani, mi raccontano, confermando le notizie datemi da Qais. Non ci sono bombardamenti, non ci sono scontri e non ci sono difficoltà per arrivare da Kandahar a Chaman. Poco più in là, al campo di Kili Faizo, file di persone attendono pazientemente il loro sacco davanti alla tenda del World Food Program. Noto che su i sacchi, oltre al logo del WFP, è stampata la scritta «USA» e la bandiera americana; alcuni profughi feriti se ne vanno zoppicando con il fardello in spalla; alcuni bambini, malinconicamente seduti su stelle e strisce, attendono il loro turno di essere smistati. Ho appena visto passare in cielo altri pendolari: i B52, con la stessa bandiera sopra, diretti a Kandahar per bombardare l'aeroporto della città afgana e i suoi insediamenti talebani. Le donne, tutte in burqa, se ne stanno in una zona riservata a loro e ai bambini più piccoli (dai dieci o dodici anni, i maschi stanno con gli adulti del loro sesso). Hanno fatto il viaggio tutti assieme ma, arrivati in un punto in cui si presume possano trascorrere qualche giorno, uomini e donne vengono immediatamente separati. Faccio qualche intervista sia ai volontari del World Food Program sia al personale dipendente del campo, tutti pakistani. Mi spiegano anche loro, come già aveva fatto Prodi, che altri profughi si trovano all'interno dell'Afghanistan, a Spinboldak, e che in questo momento sono irraggiungibili dalle organizzazioni umanitarie. Sarebbero circa centomila. Intervisto Abdullah Mohad Alì, un afgano giunto stamattina da Kandahar. Mi dice che la strada fino a Chaman gli è sembrata priva di pericoli. La gente di Kandahar, secondo lui, è serena; si sa che a venti chilometri ci sono i marines, ma nessuno li ha visti. Mi parla bene dei talebani: mi dice che hanno portato la pace in quelle zone dopo anni di guerra civile, e che lui non è scappato: è venuto soltanto per prendere un po' di cibo nel campo, tutto qua. Appena lo faranno passare se ne tornerà a casa. Dicevo che vedo parecchi feriti, ma tutti lievi. Immagino che i feriti Stefano Tura
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gravi siano portati verso altre destinazioni. Mi interessa comunque comprendere l'origine delle loro ferite, e per questo vado all'Islamic Relief Center del campo, una sorta di pronto soccorso gestito da medici musulmani. Parlo con Yanan, il medico che lo dirige. Mi spiega che il centro è provvisorio ed è stato allestito all'inizio della guerra, e che ogni giorno vi arrivano persone ferite gravemente, da bombe o da mine. Negli ultimi giorni ne arrivano leggermente di più. Hanno fratture, hanno gli arti amputati, alcuni hanno anche lesioni gravi alla testa, e vengono quasi tutti portati all'ospedale di Chaman o di Quetta, dove ci sono strutture più adeguate per curarli. Mi dice che i feriti che vede sono esclusivamente civili, e non militari: perlomeno, se ce ne sono, si fanno passare per civili. Nessuno di loro, comunque, mi spiega, ha voglia di parlare di quello che sta succedendo dall'altra parte del confine, e anche lui non chiede niente: presta le prime cure e poi organizza il trasporto negli ospedali. Mi ricordo che durante la guerra del Kossovo, al confine macedone c'erano posti di primo soccorso gestiti da Médecins Sans Frontières, dai soldati israeliani, dai soldati portoghesi: vi lavoravano medici provenienti da tutte le parti del mondo. Qui, c'è solo l'Islamic Relief: i volontari sono tutti pakistani o afgani: neanche un occidentale. Quando penso di aver raccolto materiale sufficiente, dico all'interprete e all'autista che ho intenzione di tornare a Quetta. Partiamo, da soli e non in convoglio, e senza l'ombra di una scorta: nessuno obietta. Evidentemente, le ferree procedure di sicurezza che valevano per l'andata non valgono per il ritorno. Un assurdo, tanto più che il sole comincia già a tramontare. Sul ritorno ci hanno dato, al mattino, istruzioni sommarie: «Si riparte verso le tre». Guardo l'orologio: sono le quattro, e nessuno è venuto a cercarci. Mi sono trattenuto più del previsto e questo è bastato per perdere ogni contatto sia con la scorta sia con il convoglio. Mushtaq e l'autista mi rassicurano: lungo la strada non avremo problemi. L'importante, in sostanza, è farci i fatti nostri. Poco dopo - siamo appena usciti da Chaman - con le ultimissime luci, Mushtaq e Ali Madhad ci chiedono di potersi fermare in un punto di ristoro: tra poco infatti finirà il digiuno. I nostri due accompagnatori si fermano a pregare sullo spiazzo, mentre io e Peppino entriamo in questa costruzione di terra e argilla a un piano: un bancone, qualche tavolino e delle casse da frutta usate come sedili. Una sorta di autogrill, si direbbe, Stefano Tura
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squallido e desolato. Preferiamo non consumare nulla. Finito di pregare, Mushtaq e Ali Madhad ci offrono di partecipare a quella che per loro è la prima colazione. Se la sono portata da casa: tè, datteri, biscotti. Mangiamo qualcosa, più per cortesia che per altro: stamattina, prevedendo il digiuno, ho fatto una colazione abbondante e ora non ho fame. Mushtaq e Ali Madhad, nonostante il nostro invito a fare con calma, si affrettano il più possibile a mangiare: evidentemente, hanno paura di interferire con il nostro lavoro. Ripartiamo dopo pochi minuti. Quando siamo vicini al valico, anche se sono particolarmente stanco e sto quasi per addormentarmi, mi rendo conto che nella macchina c'è qualcosa che non va: il motore strappa, fatica a salire per le curve del passo; l'autista, tranquillo fino a quel momento, comincia anche lui a preoccuparsi. Di lì a cinque minuti, infatti, siamo fermi: la macchina è in panne e non riusciamo a farla ripartire. Siamo quasi sulla sommità del valico e l'oscurità ci avvolge completamente. Il traffico si è diradato di molto, dopo il tramonto, e passano pochissime macchine. Non ho il satellitare con me, ma solo il GSM, che a Quetta prende poco e qui per niente. Possiamo solo sperare che passi qualcuno e che ci carichi: magari qualcuno del convoglio che, come noi, si sia attardato a Chaman. In questi momenti ho paura: e per la prima volta leggo preoccupazione anche sul viso di Mushtaq. Dopo una decina di minuti vediamo arrivare un pulmino scuro della Ford. Si ferma: sui sedili davanti ci sono due pakistani, ma dietro vediamo tre occidentali. Proprio come speravamo: giornalisti ritardatari. Gli spieghiamo che la nostra macchina è rotta: non c'è bisogno di aggiungere nulla, ci fanno salire senz'altro. L'autista non ha nessuna intenzione di abbandonare la sua macchina sulle montagne. Mi chiedo come farà a tornare indietro, ma Mushtaq mi rassicura, dicendo che comunque troverà il modo. I passeggeri del pulmino, oltre all'autista e all'interprete, sono un fotografo irlandese, una giornalista americana e un giornalista finlandese. Sono tutti giovani e molto gentili. Il fotografo irlandese è un freelance, la ragazza, Indira, è la corrispondente a Hong Kong di un quotidiano di Boston, il finlandese è il corrispondente da Pechino di un giornale del suo paese. Sono sono stati mandati in Pakistan circa un mese fa perché coprono per le loro testate tutte le vicende asiatiche. Sono già entrati in Stefano Tura
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Afghanistan: il giorno dell'agguato a Maria Grazia erano a Jalalabad, ma dopo la notizia non se la sono sentita di continuare per Kabul e sono tornati in Pakistan. Poi hanno deciso come me di scendere nel sud, per tentare di arrivare a Kandahar. Sono a Quetta da una decina di giorni e questa è la seconda volta che arrivano fino al confine; mi confermano che l'organizzazione del convoglio è un optional. Se si vuole, si può andare al confine da soli, con rischi moderati: si può essere fermati dalla polizia, e il traffico di notte è particolarmente pericoloso; a quanto pare la gente del luogo non sa guidare con il buio e ci sono auto che non hanno nemmeno i fari. Di aggressioni, però, non hanno sentito mai parlare. Commentiamo con loro la notizia del giorno: un personaggio in vista di Kandahar, sospettato di essere una spia degli americani perché scoperto in possesso di un trasmettitore satellitare, sarebbe stato impiccato a un argano in una delle piazza principali della città, a scopo evidentemente dimostrativo. La notizia è stata data da Nick Robertson della CNN. Il celebre network - come anche la Reuters e l'APTN, e a differenza di noialtri che siamo obbligati a fare avanti e indietro da Quetta - ha ottenuto l'autorizzazione a stabilire una base logistica a Chaman; dunque tutte le sere Robertson fa uno stand-up di un paio di minuti dal confine. A Robertson le notizie vengono fornite da esponenti della coalizione angloamericana: questa notizia potrebbe dunque essere mera propaganda, quindi sono orientato a non darla, o semmai a darla con tutti i condizionali del caso. Capisco, anche se non me lo dicono apertamente, che la ragazza e il fotografo stanno insieme. Non so se la loro relazione sia nata qui. La ragazza, pur essendo americana, mi sembra abbastanza disponibile a un esame critico della situazione: mi dice di non riuscire a capire qual è nei dettagli il piano dei bombardamenti, chi e che cosa stiano cercando di colpire. Le chiedo che tipo di pezzi il suo giornale vuole da lei. Mi risponde che, a parte qualche intervista nelle zone di confine, si limita a scrivere il "pastone" di informazioni ufficiali. Le dico le mie impressioni sul confine: sono andato là pensando di trovarci una marea di profughi che arrivavano sulle stampelle, mutilati e feriti, e che dicessero di essere fuggiti dai talebani o dai bombardamenti, perché la situazione era invivibile, ma in realtà nessuno mi ha detto questo. Anche lei conferma la mia impressione: tutt'e due le volte che è andata a Chaman non ha mai incontrato il profugo-modello, in fuga da un regime oppressivo o da una Stefano Tura
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guerra sanguinaria. Ma mi ripete che al suo giornale vogliono soprattutto i bollettini, i talebani che tentano di resistere e gli americani che li accerchiano e li bombardano, tutto qua. Fra le altre cose, la ragazza mi racconta che a Killabdullah, il primo villaggio dopo il passo, c'è un chiosco che vende un gadget del tutto particolare: le caramelle di Osama. «Che significa?», le chiedo. «Niente, sono caramelle, una bella scatola di caramelle, tutta colorata, con sopra la faccia di Bin Laden». Le chiedo se abbiamo già superato il villaggio e mi dice di no, mancano ancora cinque minuti. Chiedo all'autista e ai colleghi se gli dispiace fermarsi per farmi dare un'occhiata. Il pulmino si ferma dall'altro lato della strada. Io, Peppino e Mushtaq scendiamo senza telecamera. Attraversiamo Siamo in realtà ancora alle porte di Killabdullah, di per sé non proprio il centro del mondo: figurarsi il senso di desolazione di questa periferia che degrada nella notte e nel deserto. Dentro il chiosco - che assomiglia vagamente a una grossa edicola delle nostre - c'è un gruppo di persone che chiacchierano animatamente: al nostro arrivo, prevedibilmente, smettono e cominciano invece a fissarci. Sono una decina, manco a dirlo tutti uomini: alcuni sono anziani. Identifico subito, in bella mostra, il mio obiettivo: vari pacchetti, grandi quasi come un cartone di latte da un litro, di colori diversi: verde, rosa, rosso. Portano tutti effigiato Osama bin Laden con il famoso dito alzato, e sullo sfondo missili, caccia, carri armati, soldati in tenuta da combattimento. Come recita la grossa scritta, sono le «Super Osama Kulfa Balls». Mushtaq mi conferma che sono candies, senza ulteriori specificazioni. Gli chiedo di provare a comprarle. Si dirige verso l'uomo che sta dietro il banco, quarant'anni, la solita barba lunga. I due confabulano un po', poi Mushtaq torna da me, senza caramelle. Mi dice che ci sono dei problemi. «Che problemi?», gli chiedo. «Mi ha chiesto chi siete e cosa volete». Dico a Mushtaq di non dare tante spiegazioni, di limitarsi a dire che siamo italiani e che ci teniamo a comprare quelle caramelle. Mushtaq torna dall'uomo del bancone, ma i due continuano a parlare, senza che il rivenditore si decida ad allungargli queste benedette caramelle. Nel Stefano Tura
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frattempo, gli altri si sono avvicinati e ascoltano curiosi il dialogo tra Mushtaq e il tizio. Mushtaq torna da me ancora senza caramelle e vedo che la situazione comincia a diventare tesa. «Ha detto che non te le vuole vendere, che sono cose che non si vendono». «Cosa vuol dire "non si vendono"? Questo è un chiosco, e le caramelle sono lì esposte!». «Non mi ha dato spiegazioni, ha detto che non le vuole vendere e basta». Chiedo a Mushtaq se è un problema di soldi; lui mi dice che, se tiro fuori qualche banconota, forse me le darà. Estraggo dalla tasca un biglietto da dieci dollari: Mushtaq mi guarda come se avesse visto una banconota da un milione, e mi dice subito che è troppo, è troppo. Ma la frittata è fatta: il biglietto catalizza l'attenzione di tutti i presenti, che si fanno ancora più vicini. Mi dirigo subito, con Mushtaq, verso il venditore; Mushtaq scambia con lui due parole e il tizio mi porge il pacco di caramelle rosa, incelofanato. Appena lo prendo, Mushtaq mi dice di andarcene via subito: secondo lui, ho fatto un pessimo affare, con dieci dollari avrei potuto comprare tutto il chiosco, e comunque mostrare a tutti quella banconota non è stata una gran mossa. Mi rendo conto di essermi comportato da idiota. Ci avviciniamo al pullman a grandi passi: ci seguono, sono piuttosto minacciosi, Mushtaq dice che vogliono i soldi. Aver tirato fuori quella somma li fa sentire autorizzati a chiedercene altri. Qualcuno affianca Mushtaq e gli fa la richiesta: lui tenta di spiegargli che non abbiamo altri soldi, che dobbiamo andare via di corsa. Nel frattempo, noi due saliamo sul pulmino; chiedo a Peppino di tirare fuori la telecamera e di riprendere la scena. Lui tira fuori la camerina digitale, con la massima discrezione: puntargli la telecamera in faccia sarebbe una vera e propria provocazione. La notano comunque: Mushtaq fa appena in tempo a salire sul pullman. Il finlandese, imperturbabile, ci guarda come per dire: «Ora vi siete resi conto di che clima c'è, da queste parti». Gli sguardi degli altri sono più severi e preoccupati. Appena la porta scorrevole viene chiusa il pulmino parte sgommando; dal gruppo di uomini in strada arrivano lanci di pietre, alcuni messi a segno, ma riusciamo a fuggire senza danni. Poco dopo chiedo a Mushtaq perché il chiosco venda quelle caramelle, se ha avuto modo di parlarne con il venditore. Mi risponde secco che non è il caso di fare domande del genere: in tutta la zona di confine, quanto più Stefano Tura
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ci si avvicina a Chaman, aumentano i sostenitori dei talebani. Chiedergli questo sarebbe equivalso a cercarsela, e comunque vendono le caramelle perché per loro Bin Laden è un Che Guevara. Scampato il pericolo, il viaggio procede senza più problemi - tranne un posto di blocco della polizia: ci tengono a sapere perché siamo ancora in giro a quell'ora. Ci controllano, ci puntano le torce in faccia, ma una volta verificato che siamo giornalisti occidentali ci fanno passare tranquillamente. Quando arriviamo a Quetta sono circa le sette. Gli altri giornalisti, soprattutto gli italiani, non avendoci più visto erano preoccupati. Gli raccontiamo tutto: il ritardo a Kili Faizo, il guasto del fuoristrada - e, ovviamente, il pezzo forte: le caramelle, che estraggo dallo zaino non senza una punta d'orgoglio. Si crea intorno a noi un capannello di persone, che vogliono sapere come e dove le abbiamo trovate; alcuni di loro prendono persino appunti. Decisamente meno entusiasta, di fronte alla notizia delle caramelle, mi sembra il mio caporedattore. Ci accordiamo comunque sui pezzi da fare per i vari Tg: confermiamo che non darò il bollettino di guerra, ma farò una sintesi del viaggio al confine. Nelle ore successive registro il mio pezzo parlando al presente, lo monto sulle immagini dei villaggi, del campo profughi, delle caramelle. A mezzanotte e mezzo, quando in Italia sono le otto e mezzo e il Tg1 è finito, chiamo il caporedattore e gli chiedo se il servizio è andato bene: sì, il servizio era carino, ma non è andato in onda. Sono incredulo e incazzato. Gli chiedo perché: mi risponde evasivo, dicendo che c'erano parecchi altri pezzi da Kabul. «Magari lo mandiamo un altro giorno, domani all'ora di pranzo». Gli spiego che non è possibile, che domani la situazione al confine potrebbe ancora cambiare. Domani i profughi possono raddoppiare o invece dimezzarsi. Il servizio è stato girato oggi e racconta la situazione di oggi, non può essere riciclato per domani, ci sono dei riferimenti precisi. La mia impressione è che la mia notizia sui profughi discordi troppo dalle agenzie e dagli altri network internazionali, tutti intenti a descrivere orde di profughi mutilati che si lamentano dei talebani e, invece di venire bloccati all'interno dei confini afgani, riescono a raggiungere il Pakistan. Sono fisicamente provato e molto depresso. Ho avuto parecchi imprevisti e corso anche qualche rischio. Ho girato materiale di prima mano. Quello che mi fa incazzare è che comunque io avevo già Stefano Tura
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preannunciato che avrei fatto questo viaggio e che il servizio avrebbe avuto queste caratteristiche. Accendo il televisore sulla CNN. Secondo il bollettino, Kandahar sta cadendo, i talebani stanno cercando di resistere ma sono circondati e la città è isolata perché le truppe antitalebane hanno preso possesso di Spinboldak e Takhtapul. Lo sapevo. Se mi fossi limitato alle interviste al medico e alle caramelle di Super Osama, l'avrei sfangata. Prima di andare a dormire, ringrazio Mushtaq, che continua a rassicurarmi sulla sorte dell'autista: se la caverà certamente, e domani al mattino avremo senz'altro la macchina. Mi confortano brevemente la sua calma asiatica e la sua cordialità. Lo pago: con una buona dose di fatalismo - chissà cosa può succedere da un momento all'altro - ci siamo accordati fin dall'inizio che l'avrei fatto al termine di ogni giornata. Domani è venerdì, il giorno consacrato alla preghiera. Potrebbe essere interessante rimanere a Quetta: caricati dalle parole del capo spirituale, gli integralisti organizzano regolarmente manifestazioni antigovernative e antiamericane. Il primo venerdì dopo l'inizio dei bombardamenti, i manifestanti hanno incendiato o distrutto a colpi di pietra quattro banche e due cinema, simboli dell'Occidente delle multinazionali e delle perversioni dei costumi, e gli scontri con la polizia sono stati durissimi. Non ho cenato. Tranne qualche dattero, sono digiuno da stamane. Decido di andare a letto: ho lo stomaco completamente chiuso. Quetta, venerdì 30 novembre La moschea di Quetta si chiama moschea Kandahar. Come la città vicina, vicinissima, che viene bombardata, forse in questo stesso momento, la città dove i talebani resistono. Ci arriviamo circa a mezzogiorno, quando la preghiera è ancora in corso. La folla straripa dalle mura, gremisce il cortile e riempie anche la piazza Mazan, su cui i nuovi arrivati continuano a stendere i propri tappeti. Attraverso gli altoparlanti, il mulana Abdul Wahid lancia proclami ai fedeli, che Mushtaq traduce per me: «Se siete veri musulmani, alzatevi e combattete gli americani, perché questa è una guerra santa: chi morirà combattendo andrà in paradiso». Senza mezzi termini. Immagino il livore che Wahid avrà sollevato quel 12 ottobre; mi chiedo Stefano Tura
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cosa potrebbe succedere anche oggi. Comincia la preghiera, e si fa un silenzio quasi irreale. Gli unici che non pregano sono i giornalisti, in attesa del dopo, e le forze speciali della polizia con i loro mezzi blindati, che ad armi spiegate si stanno disponendo sul perimetro della piazza per cercare di contenere eventuali scontri. Uomini di un movimento fondamentalista, il Jamiat Ulema-i-Islami, distribuiscono intanto volantini che invitano i fedeli a sostenere i talebani, gli unici che hanno portato la pace in Afghanistan. Su un lato di Kandahar Road, la strada che porta alla moschea, Mushtaq mi fa notare gli edifici distrutti il 12 ottobre. Finita la preghiera comincia una manifestazione che, contrariamente alle previsioni, è piuttosto blanda e poco affollata. La gran parte dei fedeli si disperde: rimangono soltanto un centinaio di persone, che cominciano a urlare slogan contro il governo pakistano e gli americani e a sostegno dei talebani e del mullah Omar. Non hanno megafoni, ma gridano a squarciagola. La cosa ridicola è che sono più numerosi i giornalisti, con la loro scorta di telecamere, fotografi, stringers e autisti, che i manifestanti. Cercano - cerchiamo - la notizia a tutti i costi: ma la vera notizia di oggi è che la partecipazione di massa alle manifestazioni antiamericane è scemata di molto, rispetto ai primi giorni. Non mi sembra probabile, dopo le parole del mulana, che si tratti solo di paura della repressione; forse si è diffusa una sorta di rassegnazione alla caduta di Kandahar e dei talebani. Gli slogan, comunque, sono feroci, soprattutto nei confronti di Musharraf. Urlano: «Musharraf non è un vero musulmano, si è venduto agli americani, è colpa sua se c'è la guerra». Altri slogan dicono: «Mullah Omar ti seguiremo fino alla morte, faremo tutto ciò che tu ci ordinerai». Per fare il mio servizio mi metto alla testa del corteo e faccio quello che in gergo si chiama uno stand-up in movimento: cammino con i manifestanti e spiego quello che sta succedendo, descrivo gli slogan eccetera. A differenza di altre occasioni, non provo timore: i manifestanti non mostrano nei miei confronti nessuna ostilità, anche se rivolgo verso di loro il microfono e la telecamera, che mi precede arretrando. Ho l'impressione che non siano persone realmente bellicose - almeno non oggi. Sono soprattutto giovani studenti fra i venti e i venticinque anni; pochissimi superano i quaranta. Indossano quasi tutti il turbante e il tipico camicione pakistano. Ci sono anche parecchi afgani, per lo più pashtun, cioè della stessa etnia dei talebani. A mano a mano che procede verso lo stadio della città - il luogo Stefano Tura
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deputato alla conclusione della manifestazione, dove i capi di alcuni movimenti integralisti terranno i loro comizi - il corteo si ingrossa un poco: arriva comunque a contare trecento persone, non di più. Noi, nel frattempo, siamo risaliti in macchina e lo seguiamo da qui. Lungo il cammino, si aggiungono molti cartelli, con scritte in pashtun inneggianti ai talebani, e immagini: il più gettonato è Osama bin Laden. Ci sono anche i consueti roghi di bandiere a stelle e strisce. Tra i nuovi slogan: «Talebani la ragione è con voi, vi sosterremo fino alla morte» e «Gli americani sono i veri assassini della gente pashtun: stanno distruggendo l'Afghanistan». Ci fermiamo vicino allo stadio. I manifestanti più giovani circondano la telecamera e mettono proprio davanti all'obiettivo le immagini di Osama bin Laden. Nell'enorme spianata dello stadio ci sono più poliziotti che manifestanti. Da un rudimentale palco di legno, dotato di alcuni microfoni, Israr Ahmen, un uomo anziano con una barba lunga e bianca, arringa la folla seduta a terra parlando soprattutto del massacro di talebani nel carcere di Mazar-iSharif: «Dovete combattere i mujaheddin e gli americani! Non c'è più tempo! Avete visto quello che hanno fatto a Mazar-i-Sharif? Se non vi alzate e combattete succederà anche a voi. Quando arriveranno, vi massacreranno come hanno fatto laggiù!». L'alternativa, suggerisce sorprendentemente, è fuggire: l'importante è non finire in mani americane, perché gli americani vogliono uccidere anche loro. Gli altri capi spirituali e politici sono seduti sul palco e si succedono al microfono. Su un lato del palco, ben visibile, c'è un bambino di sì e no cinque anni vestito da soldato: in una mano ha un kalashnikov giocattolo, l'altra mostra la V di "vittoria". Mentre gli altri parlano, lui rimane immobile: gli operatori e i fotografi di tutto il mondo fanno a gara per riprenderlo. Nonostante fiocchino accuse pesantissime contro il governo pakistano, supinamente schierato con gli USA, la polizia si guarda bene dall'intervenire. Non sono in assetto antisommossa, alla Genova, per intenderci: sono armati pesantemente, con blindati dotati di fucili mitragliatori; ma qualsiasi repressione, violenta o non violenta, avrebbe conseguenze disastrose. Per controllare la situazione, non hanno altra scelta che farli parlare. Continuo però a pensare che non ci sia un reale Stefano Tura
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interesse della folla a operare una rivolta. Lo stesso bambino, messo lì come un fantoccio, sembra più un modo di farsi riprendere dalle televisioni occidentali che un elemento di propaganda diretto verso il pubblico dei manifestanti. Mi chiedo cosa questo bambino capisca di quello che vanno dicendo quegli adulti intorno a lui e di ciò che gli succede intorno, se sa cosa vogliono dire quelle due dita a forbice. Dietro di lui c'è, credo, il padre, che lo invita a riprendere la sua posizione non appena gli sembri che si stia stancando. Riprendiamo per un po' gli oratori, poi dobbiamo andar via: non posso aspettare la fine del comizio, devo andare a preparare e montare il materiale. Mi allontano dal palco di qualche decina di metri e trovo qualcosa che non mi sarei mai aspettato: un gruppo di piccoli mercanti locali che, distesi su coperte, vendono gadget con l'immagine di Bin Laden. Qui non mi fanno storie, per acquistare: prendo alcune figurine adesive con la classica immagine di Osama con giacca militare e copricapo. Vendono anche poster e fotografie, tutti con la sua immagine, e sciarpe bianche e nere del Jamiat: un po' come da noi, durante le manifestazioni, si smerciano fischietti, sciarpe, striscioni. Oggi con la redazione non ci sono discussioni: il servizio andrà sui tre Tg. Mi dicono anche che non si aspettano altri servizi per la sera, e che quindi posso prendermi il pomeriggio libero. Ne approfitto per prendere contatti con l'Alto Commissariato per i Rifugiati, e vengo a sapere che Lionello Boscardi, il responsabile del convoglio di aiuti italiani giunto a Peshawar giorni fa, si è trasferito anche lui a Quetta per andare a visitare i campi profughi della zona. Nel frattempo, i servizi speciali del Tg1 mi chiamano e mi chiedono di preparare uno speciale di cinque, sei minuti da trasmettere domenica: dovrebbe riguardare la situazione nella zona di Kandahar, in particolare le sacche di resistenza talebane e, naturalmente, i profughi. Incontro Lionello e gli chiedo di potermi aggregare a un loro gruppo di macchine che domani andrà a Chaman a visitare i campi. Vedremo anche il campo di Roghani, il più grande del versante pakistano, in cui i profughi vengono sistemati fino a quando non saranno in condizione di tornare in Afghanistan o invece di stabilirsi in Pakistan. A fine giornata, Mushtaq mi dice che l'autista, dopo un paio d'ore Stefano Tura
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all'addiaccio, è riuscito a trovare un traino fino a Quetta, e che stamattina hanno riparato la macchina. I danni erano lievi: solo una questione di trasmissione. E poi, qui in Pakistan, sono abituati ad avere problemi con le macchine e quasi tutti sanno ripararle e sono disposti ad aiutarti se rimani a piedi. Penso alla disperata solitudine dei nostri guasti in autostrada, alle gelide colonnette del soccorso e a quanto sono implacabilmente lontane da dove ti sei fermato. Saluto Mushtaq e do appuntamento a lui e all'autista per le sette del mattino. Quetta-Chaman-Roghani-Chaman-Quetta, sabato primo dicembre Con il nostro fuoristrada, nuovamente funzionante, stamattina viaggiano due Land Rover dell'Alto Commissariato per i Rifugiati dell'ONU. A bordo ci sono Lionello Boscardi, inviato dalla sede centrale del Commissariato qui in Pakistan, e Chris Janosky, responsabile di zona. Con loro, volontari locali dell'HCR: tutti pakistani e afgani. Stavolta abbiamo una scorta vera: sette, otto poliziotti armati su altre due vetture. I talebani hanno espulso dall'Afghanistan tutti i rappresentanti dell'ONU, e anche solo avvicinarsi al confine viene considerata una missione pericolosa. Il viaggio è più breve: riusciamo a mantenere una velocità piuttosto elevata e arriviamo prima delle dieci, dopo meno di due ore. Oggi, davanti al campo di Kili Faizo, c'è un numero di profughi enorme, ben più alto dell'altro giorno: saranno cinque o seimila. Vengono registrati, viene loro fornito il "sacco di sopravvivenza"; infine, vengono caricati sugli autobus che li smisteranno nei vari campi. Mi chiedo il motivo di quest'enorme incremento. Il personale dell'HCR mi dice che, sia per la registrazione sia per lo smistamento, si sono accumulati oggi gli arretrati di ieri quando, essendo venerdì, le attività del campo si erano fermate; ma questo non giustifica un aumento così vistoso. Mi dicono anche che quasi tutti i profughi provengono dai campi di Spinboldak, perché la situazione in quella zona sta diventando critica. Davanti al tendone dell'HCR dentro il quale vengono registrati, e solo in quest'occasione, uomini e donne sono mescolati insieme: le mogli in burqa e i bambini - almeno quattro o cinque, di solito - vicini ai mariti. I funzionari parlano solo col capofamiglia e gli chiedono quanti sono, quanti Stefano Tura
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anni hanno, da dove vengono. Mi colpisce la loro compostezza, la grande dignità, mentre ci guardano curiosi, senza avere negli occhi nessuna severità. Sono lì per chiedere aiuto: non se ne vergognano, e quando parlano con noi non vogliono venderci notizie diverse dalla semplice verità, per drammatica che sia. Intervisto Mohammed Iozuf, un profugo che viene da Paryar, villaggio agricolo vicino a Kandahar. La sua famiglia, otto persone, ha viaggiato da Paryar fino a Kandahar e poi da lì a Spinboldak; infine sono arrivati a Chaman. Mi spiega che la situazione non è chiara, e che durante il viaggio sono stati costretti più di una volta a deviare dalla strada o dal sentiero principale da persone che controllano la zona. Gli chiedo chi erano e lui risponde: «Talebani». Poi aggiunge che nella zona vicino Kandahar ci sono bombardamenti piuttosto fitti. Questo è un elemento nuovo rispetto al giorno precedente: per la prima volta un profugo mi parla di bombardamenti, confermando in sostanza le notizie ufficiali che oggi provengono da quella zona. La stessa cosa mi dice Noor Mohammed, che proviene sempre da lì: fino a Spinboldak, la strada è controllata dai talebani, di lì in poi dalle truppe antitalebane, che stanno avanzando. Il motivo per cui con la sua famiglia ha deciso di superare il confine è che mancano completamente i generi di prima necessità, in particolare il cibo, e che avrebbero rischiato di morire di fame. Aggiunge che sta diventando molto pericoloso raggiungere il Pakistan perché lungo le strade ci sono bande tribali di pashtun antitalebani che assalgono i passanti per rapinarli. Mi muovo verso il parcheggio e inizio a intervistare Raz Mohammed, che è lì con moglie e cinque figli e attende di partire. Ma dopo poco lo chiamano, deve salire sull'autobus; si scusa, e fa un ultimo commento: «Dobbiamo andare via, ormai la situazione a Kandahar è invivibile». Non posso non richiamare alla mente l'esperienza che ho avuto di altri profughi: quando seguivo la guerra del Kossovo non facevano che maledire i serbi e raccontare le loro persecuzioni, violenze, disastri, aggressioni, stupri. I profughi afgani non puntano mai l'indice né contro i talebani né contro gli antitalebani. Non ci chiedono nulla, non fanno a gara per darci informazioni come facevano i kossovari, non si fanno riprendere con piacere. Però, quando gli chiedo un'intervista, mostrano una grande disponibilità. Restiamo nel campo per un'ora e mezzo, prendendo immagini delle Stefano Tura
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enormi file di profughi fermi in attesa di qualcosa: la registrazione, i viveri, gli autobus. Alcuni sono in condizioni fisiche precarie e ricevono assistenza. Poi Lionello ci chiede se vogliamo andare con loro al campo di Roghani: non un campo di passaggio ma permanente, il principale della zona, che si trova a quaranta minuti di macchina da qui, sempre a ridosso del confine con l'Afghanistan. Non ce lo facciamo dire due volte. È un viaggio difficile: usciamo dall'unica strada asfaltata che collega Quetta a Chaman e percorriamo con le jeep una lunga strada in mezzo al deserto parallela al confine. Si alzano enormi nuvole di sabbia: dobbiamo tenere i finestrini chiusi e il caldo è insopportabile. Ci copriamo tutti la testa e la bocca con teli e fazzoletti per evitare di respirare la polvere: raggiungo la piena consapevolezza di quanto l'abbigliamento locale sia adatto a condizioni del genere. Il paesaggio è lunare. Non incontriamo assolutamente nulla e nessuno per chilometri e chilometri. Arriviamo in una zona che si trova a soli cinque chilometri dalle prime montagne afgane. Qui non esistono frontiere controllate: ho la conferma che lo spiegamento di forze a Chaman è pretestuoso e serve alle autorità pakistane per poter dire che la zona è "rigidamente controllata". Nel campo di Roghani, sorto in concomitanza con l'inizio della guerra, si trovano attualmente tredicimila persone, quasi tutte famiglie pashtun, che provengono non solo da Kandahar ma da varie zone dell'Afghanistan. Chris Janosky, ad esempio, mi racconta la storia di una famiglia molto numerosa che proviene da Mazar-i-Sharif. Due dei loro otto bambini sono morti durante il cammino, per il freddo e la fame. I genitori non hanno potuto fare niente per salvarli, e sono anche stati costretti ad abbandonare i corpi sul posto. Ayuangzeb Achakzai, un ragazzo afgano che lavora qui al campo, mi parla di due bambini, di sette e otto anni, che giorni fa lui e i suoi colleghi hanno sorpreso a vagare senza meta, completamente nudi, nella zona tra Spinboldak e Chaman. Erano in condizioni psicologiche e fisiche molto precarie. Fortunatamente, dopo che sono stati vestiti e rifocillati, uno dei bambini è riuscito a superare la grande paura che gli impediva persino di parlare e ha raccontato che la loro casa era stata distrutta dai bombardamenti e che avevano perduto tutti i familiari: il padre, la madre, gli zii, tutti i fratelli. Avevano camminato per giorni e giorni. Storie come queste sono piuttosto frequenti, a Roghani. Le persone che Stefano Tura
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sono qui ci rimarranno a lungo: questo campo darà accoglienza ai profughi anche dopo la fine della guerra. Se ne andranno da qui solo quando in Afghanistan saranno garantite condizioni di sicurezza. Il campo ha un'organizzazione decente: le tende sono in buono stato, sono tutte dotate dell'indispensabile, le coperte e il cibo sono a disposizione. C'è anche un ospedale. Ma, devo dire, è un posto dove vivere è molto difficile. Si trova tra le montagne, c'è sempre vento forte, di giorno fa molto caldo e di notte molto freddo. Il campo si estende per centinaia di metri: uno sterminato brulicare, e intorno il deserto. Con le persone di qui, l'approccio è molto differente da Kili Faizo. È come se avessero avuto più tempo per pensare alla loro vita, alla loro sorte. I loro resoconti sono più tragici e approfonditi, e noto in tutti il terrore dell'instabilità del loro paese. Hanno vissuto per anni senza sapere se la sera dopo sarebbero stati ancora vivi, se avrebbero avuto ancora da mangiare. Da anni vivono l'incubo della guerra. Prima l'invasione sovietica, poi la guerra civile e l'avvento dei talebani. Rispetto alle voci che raccolgo al confine di Chaman, c'è ancora minore propensione a sostenere l'una o l'altra parte, e ancora più bisogno di pace, di serenità, di garantire un futuro ai propri figli. Un uomo, di circa trent'anni, è arrivato qui con la famiglia da Ghazni. Sembra piuttosto colto, si esprime in un buon inglese. Non è la prima volta che fugge dall'Afghanistan: il fratello, un politico, è stato ammazzato dai talebani dopo la loro ascesa, qualche anno fa. Allora lui si è rifugiato a Peshawar, per paura di essere ucciso a sua volta. Poi è ritornato nel suo paese; ma ora che i talebani stanno cadendo teme che vogliano fare terra bruciata ed eliminare chiunque possa pensarla diversamente da loro, ed è di nuovo in fuga. Quando torniamo a Quetta sono circa le quattro del pomeriggio, e il sole sta calando. Mi metto in contatto con la redazione di Roma e, appena parlo di questo enorme numero di profughi fermi al confine, non mostrano nessuna resistenza. Nel mio servizio metto alcune delle interviste che ho registrato e riporto le notizie che mi hanno riferito a Chaman alcuni colleghi della Reuters: le minacce di attacchi suicidi contro i marines che sarebbero state rivolte dai talebani di Kandahar, mentre i marines sono ancora fermi nella loro postazione che, in stile tipicamente americano, hanno ribattezzato "Camp Stefano Tura
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Rhino". Dalle parti di Chaman ho visto anche oggi parecchi B52 che volavano alti, in direzione di Kandahar: i bombardamenti sulla zona proseguono. Monto il servizio, lo mando a Roma via satellite e riesco anche ad avere conferma che tutti i servizi sono andati regolarmente in onda. Quetta, domenica 2 dicembre Mi sveglio presto per realizzare lo speciale per Tv7 di cui mi hanno anticipato l'altro giorno. Lo monto usando immagini che ho girato a Kili Faizo e a Roghani. Lo divido in più parti: la prima riguarda il campo di passaggio e la no man's land; poi inserisco un gruppo di interviste a persone in fuga da Kandahar; poi il viaggio verso Roghani, con altre interviste; infine la testimonianza del personale dell'HCR e il ritorno verso Quetta, con i miei commenti. È una giornata piuttosto libera: verso mezzogiorno riesco a concludere il servizio, lo trasmetto, e per oggi mi fanno sapere che basta così. All'hotel Serena noto un clima di attesa. Ci sono nuovi arrivi un po' da tutto il mondo, che si consultano su cosa fare, se andare al confine o aspettare nuovi sviluppi, e la hall sembra un grosso centro di smistamento: televisioni, radio, carta stampata, fotografi, freelance ecc. da una parte, dall'altra, decine di aspiranti interpreti o autisti. Questi ultimi, noto, provocano nel personale dell'albergo un certo disappunto: noi gli portiamo un sacco di soldi, ma loro non consumano, occupano spazio e creano confusione. Gli stringers, di rimando, hanno quasi paura a entrare in contatto con il personale. Mi sembra che fra loro esistano differenze di classe, o semplicemente di fortuna: un conto è indossare la bella livrea dell'albergo, un altro è starsene lì a elemosinare un posto da interprete, che per molti vuol dire la possibilità di guadagnare paghe decenti per un mese, per poi tornare a una vita normale - ovvero fatta di stenti. Ritrovo Djamshid, il ragazzo che mi aveva presentato Mushtaq. Mi racconta che a Jacobabad, in una zona più interna del Pakistan, si trova un aeroporto militare che è stato prestato agli angloamericani dal governo: da lì partono molti degli aerei che vanno a bombardare. Un suo amico che lavora lì avrebbe visto i cadaveri di centinaia di soldati americani e inglesi, stipati in un enorme hangar in attesa di essere trasferiti nei loro paesi. La Stefano Tura
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notizia, se vera, sarebbe sconcertante: la coalizione avrebbe tenuto nascoste centinaia di perdite. A quanto dicono le fonti ufficiali, fino a questo momento le uniche, pochissime perdite americane sono dovute a incidenti. Accolgo la notizia con tutti i dubbi del caso ma anche con una certa curiosità, dunque chiedo a Djamshid ulteriori informazioni su questo misterioso amico. Mi risponde evasivamente: è un militare pakistano, questa cosa è segretissima e non ne devo parlare con nessuno, la confida solo a me perché mi considera un amico. Gli chiedo se il suo amico può scattare qualche foto di questi cadaveri prima che vengano trasferiti, in modo da avere una prova di quello che dice. «Ci proverò», risponde, e rimaniamo con questo accordo. Accenno a Peppino di questa notizia, e lui è ovviamente d'accordo con me sull'assoluta necessità di controllarla. Evito però di parlarne con altri: se riuscissi davvero a venire in possesso di foto del genere, vorrei farne un'esclusiva per la mia testata. Se la notizia è falsa, com'è probabile che sia, non vale comunque la pena di parlarne con loro. Jacobabad dista da qui quattro o cinque ore di macchina, andarci vorrebbe dire perdere una giornata intera all'inseguimento di una notizia che non ha conferme. Al pessimo ristorante cinese dell'albergo, Peppino e io siamo a un tavolo di colleghi italiani: Ugo, Fabrizio e Marco - che erano con me già da Prodi a Islamabad - e due colleghi dell'ANSA e di «Repubblica». C'è chi ha più paura e chi è più entusiasta (e incosciente), ma scopriamo che nessuno di noi pensa ad altro che ad andare a Kandahar. La giornata finisce tranquillamente con un po' di riposo. Risistemo le idee e gli appunti, e riesco anche a chiamare i miei a casa. Tommaso, mio figlio, non vuole parlarmi neanche oggi: capita spesso, quando sono in missione. Franca mi racconta che ieri giocava da solo con la Playstation, al videogame con il quale, quasi ritualmente, passiamo un'oretta insieme ogni sera (e ogni volta mi straccia). Ma è durato solo per pochi minuti; poi si è alzato ed è andato in cucina. Franca l'ha raggiunto lì, dove l'ha trovato col viso alla finestra. Le pareva che piangesse. «Cos'hai? Stai piangendo?», gli ha chiesto. E lui: «No, no». «Che c'è?». «Niente». «Perché hai smesso di giocare?». «Niente, niente, non mi andava», ha concluso lui, e poi è scappato via. Come in altre occasioni, ho una fitta di senso di colpa. E non ci ho ancora fatto il callo, a questa fitta. Per fortuna.
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Quetta, lunedì 3 dicembre Le notizie di oggi parlano di una situazione stazionaria e di trattative in corso tra la coalizione antitalebana e i talebani che governano a Kandahar. I giornali pakistani parlano invece di nuovi profughi ricoverati all'ospedale di Quetta: pare che gli ultimi bombardamenti abbiano provocato molte vittime tra i civili. Decido dunque di andare all'ospedale per tentare di raccogliere qualche testimonianza diretta dei feriti. L'ospedale civile di Quetta è un edificio piuttosto grande, ma malandato e fatiscente. Si entra e si esce senza difficoltà o autorizzazioni con la telecamera, cosa impensabile da noi in Europa. Le corsie traboccano di pazienti, e letti e lettini si trovano anche nei corridoi. Mi confermano che questo accadeva già prima della guerra. Con l'aiuto di Mushtaq tento di trovare il reparto, se così si può chiamare, dove vengono ricoverati i feriti di guerra. Dobbiamo girare parecchio a vuoto, ma alla fine individuiamo la nostra meta. È una sorta di capannone a un piano che si trova fuori dal corpo centrale dell'ospedale e che è stato allestito per l'occasione: prima della guerra non accoglieva pazienti. Il padiglione - dove sono già arrivati alcuni altri giornalisti stranieri - è diviso in due reparti: uno maschile e uno femminile. Entriamo nel primo, dove sono ricoverati una decina di feriti. Mi colpisce soprattutto Saad Mohammed, un ragazzino di undici anni, con i capelli corti e neri, due occhi molto scuri e profondi. È disteso su una brandina: ha la gamba destra mutilata al ginocchio, la gamba sinistra è completamente fasciata e immobilizzata. Nel letto accanto al suo c'è il padre, un uomo piuttosto anziano con la barba lunga e grigia: le sue ferite sono molto meno gravi. Più in là c'è anche la sorella di Saad, di otto anni: la lasciano stare nel reparto maschile perché qui c'è il padre. Sulle fasciature dell'arto mutilato di Saad svolazzano alcune mosche. Saad non si lamenta, non piange, ha lo sguardo perso sul soffitto della camerata. Le condizioni igieniche della stanza sono pessime: i muri sono scrostati, c'è un odore acre di medicinali e disinfettanti, l'odore classico degli ospedali mescolato a non so quale marciume. Mi avvicino al padre e gli chiedo se posso fare qualche domanda al ragazzino e riprenderlo con la Stefano Tura
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telecamera, e lui acconsente. Mi inginocchio davanti a Saad, così che lui non debba fare nessuno sforzo per guardarmi. Con l'aiuto di Mushtaq gli chiedo di raccontarmi cosa è successo. Mi dice che abitava in un villaggio vicino a Bamyan, nell'Afghanistan centrale, e una mattina presto, intorno alle sei, le sette, è andato a prendere sua sorella Parveen da una cugina per riportarla a casa. All'improvviso ha sentito un boato enorme, poi non ricorda più nulla. Quando si è risvegliato lo stavano portando in ospedale, e dopo un lungo viaggio è arrivato a Quetta. Mentre mi racconta queste cose ha uno sguardo vuoto, senza emozioni, senza dolore. Mi viene da pensare che non abbia più neanche voglia di vivere. Quando gli chiedo cosa prova mi risponde quello che direbbe un bambino: che lui non ha fatto niente, non ha fatto male a nessuno; è come se si volesse scusare di qualcosa, e al contempo non capisce perché gli hanno fatto questo. Il bombardamento gli sembra quasi una punizione diretta a lui: la bomba è caduta vicino casa sua, ma lui, insiste, non ha fatto niente di male. Ora mi accorgo che comincia ad affiorare sul suo volto l'ombra di un'emozione. In questo momento interviene il padre, Taj Mohammed, che in modo concitato mi dice: «Mio figlio non è un soldato talebano, ha soltanto undici anni e non capisco perché ci hanno bombardato: cosa abbiamo a che fare noi con la guerra?». Aggiunge anche: «Vorrei che gli americani vedessero cosa hanno fatto a mio figlio, che mi dicessero perché l'hanno fatto». Non ho nessuna spiegazione da dare a quest'uomo. Mi mostra anche le ferite che le schegge hanno provocato sul corpo di Parveen: ha su tutta la schiena e le gambe ustioni dovute alla bomba. D'istinto faccio per accarezzarla, ma lei si ritrae terrorizzata e si nasconde tra le braccia del padre. Incredibilmente, mi lasciano entrare anche nel reparto femminile, e inoltre mi accordano il permesso di girare. Nel momento in cui entriamo, però, le quattro donne e la ragazzina presenti si coprono tutte il volto in un baleno e si ficcano sotto le lenzuola e le coperte. Nessuna di loro parla: non ci sono giornalisti o infermieri, c'è un silenzio totale. La ragazzina, di circa dodici anni, evidentemente più curiosa e forse non ancora condizionata dall'obbligo di coprirsi il volto, tira giù il lenzuolo varie volte per vedere cosa sta succedendo. Mi avvicino, e mi accorgo che anche a lei manca una gamba. La mia rabbia e la mia tristezza crescono Stefano Tura
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intollerabilmente. Prima di andarmene torno dalla famiglia di Saad e chiedo a Mushtaq se posso dare loro dei soldi per curare il bambino e se questo può essere vissuto come un'offesa. Mushtaq si avvicina al padre e poi torna da me: accetta. Tiro fuori la miseria che ho in tasca: duemila rupie, sessantamila lire. Il padre mi ringrazia e assume un'aria stupita: mi colpisce, anche qui, la sua incommensurabile dignità. Ritorno in albergo e propongo subito il servizio. Sono d'accordo: non hanno nulla da obiettare neanche sulle parole del padre di Saad, che riferisco integralmente. Chiudo il servizio con l'unico commento che mi sembra possibile: chiunque sia qui in quest'ospedale sembra aver perduto speranza nell'umanità, e non ha idea di quale sarà il suo futuro. Non ne ha idea Saad, che ha potuto correre solo per undici anni. Nel pomeriggio mi arrivano i commenti da Roma, e la richiesta di fare un altro pezzo sui feriti per la sera. Percepisco che le immagini hanno lasciato il segno nei miei colleghi, e che non ho corso il rischio di andare incontro a critiche di sensazionalismo o di "scoop-ismo". Se non altro, non era il solito servizio ufficiale, uno di quelli che danno il bollettino di guerra senza mostrare gli effetti. Cose che tutti sanno, certo, ma che finora non avevano potuto vedere. Incontro nuovamente Djamshid. Il suo amico, mi racconta, ha difficoltà a fare delle foto, perché il posto dove stanno i cadaveri è controllato giorno e notte da militari americani. Gli dico che capisco, ma che, se non ho le prove, per me ogni notizia è falsa. Mi risponde che alcuni giornali locali hanno riportato la notizia e che me li farà avere. Più tardi, cerco di pianificare assieme ai colleghi, italiani e stranieri, il possibile ingresso in Afghanistan. Dobbiamo intanto ottenere il doppio visto d'ingresso in Pakistan. Abbiamo l'autorizzazione del ministero dell'Informazione, ma una buona parte di procedura rimane da sbrigare. Decidiamo che ci metteremo mano solo quando avremo la certezza di poter entrare in Afghanistan: sono cose che portano via un sacco di tempo e rischiano di pregiudicare il nostro lavoro. I tempi per entrare in Afghanistan, del resto, non sembrano maturi: arrivano ancora notizie di bombardamenti su Spinboldak, il primo paese che si incontra oltre il Stefano Tura
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confine. E poi nessuno, in queste condizioni, sarebbe disposto a portarci a Kandahar. Persino la CNN è ferma al confine: sappiamo bene che i primi a entrare saranno loro, e questo vorrà dire che i talebani sono in fuga. Gli americani, allora, avranno tutto l'interesse a portare dentro il prima possibile almeno la CNN, per dimostrare che la guerra la stanno vincendo loro. Fra noi, intanto, comincia a circolare sempre più spesso il nome dei fratelli Karzai. Hamid Karzai, che ha il suo quartier generale qui a Quetta ma al momento si trova a Kandahar, è il capo di una tribù pashtun, e il suo esercito sta tentando di avvicinarsi all'aeroporto della città santa afgana per combattere i talebani. Karzai ha un fratello minore di nome Ahmed, che tiene le relazioni con la stampa e racconta dei suoi colloqui col fratello tramite telefono satellitare. È uno dei contatti più caldi che abbiamo, non solo perché è una fonte diretta, ma anche perché è l'unico che potrebbe aiutarci a entrare in città nel momento in cui la situazione dovesse farsi appena più tranquilla. Hamid Karzai riferisce alla nostra collega dell'ANSA che oltre al piano militare a base di scontri a fuoco e bombardamenti, è in corso anche una trattativa con gli uomini del mullah Omar per cercare di arrivare a una resa pacifica. Quetta, martedì 4 dicembre Mi sveglio con la notizia che per tutta la notte Spinboldak e Kandahar sono state intensamente bombardate: concordano su questo sia la televisione sia i giornali locali. Vado nella stanza della Reuters: i colleghi di Chaman confermano che la coalizione, per vincere le ultime resistenze talebane, sta scaricando una vera pioggia di bombe su Kandahar e sui paesi vicini. Mi mostrano immagini di feriti trasportati a braccia attraverso il confine. Chiamo la redazione e parlo al caporedattore di questo inasprimento dei bombardamenti: evidentemente, gli americani ritengono che sia il momento di chiudere la faccenda. Mi chiede di raccontare altre storie di feriti, così ritorno in ospedale. All'ospedale civile, un medico responsabile, Atta Ureman, mi spiega che Stefano Tura
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i ricoveri si sono effettivamente intensificati. La mia domanda è la stessa dei colleghi francesi che oggi sono venuti con me: «È certo che tra i feriti che arrivano dall'Afghanistan ci siano soltanto civili? Non potrebbero esserci anche dei soldati talebani che abbandonano le armi e si confondono con gli altri per passare il confine e farsi curare?». La sua risposta è molto semplice: il sospetto c'è, ma per lui non fa nessuna differenza, perché come medico ha il dovere di curare tutti. In un solo giorno all'ospedale di Quetta sono arrivate una trentina di persone ferite dai bombardamenti. I danni causati sono gravi: fratture agli arti, ustioni, infezioni, cecità, mutilazioni. Ci dicono che i nuovi feriti sono stati ricoverati in un reparto diverso, un po' più attrezzato del padiglione di ieri. Appena entriamo, sentiamo un pianto disperato che è quasi un urlo. Ci dirigiamo verso la sua fonte: è un ragazzo di sedici anni, Jan Mohammed: la sua gamba sinistra ha diverse fratture, curate in modo approssimativo. La gamba, appoggiata a un supporto fatto di scatole che gli danno la possibilità di tenerla un po' sollevata, è tenuta in trazione con una corda alla quale sono appese alcune pietre. Non oso immaginare il dolore che prova: continua a piangere e a disperarsi, e vicino a lui c'è il padre che cerca di consolarlo. Ha la faccia sfigurata dal dolore, la bocca secca, chiede continuamente acqua ma evidentemente hanno dato disposizione di non dargliene. Chiedo al padre che cosa è successo. Dice che il ragazzo è di Spinboldak, che sono arrivati lì la notte precedente e che le fratture sono state causate dall'esplosione di una bomba vicinissima alla loro casa. I medici dicono che rischia di perdere l'arto e stanno tentando in quel modo rudimentale di ripristinare la circolazione. Tutto intorno ci sono alcuni adulti che hanno fratture simili. Capire se alcuni di questi possano essere soldati talebani è anche qui impossibile. Nessuno ha il turbante, essendo in ospedale, e quasi tutti hanno la barba. Sembra anche a me che qui non ci siano che persone, persone che hanno bisogno di essere curate. Anche stavolta il mio è un servizio di denuncia, e anche stavolta non ho difficoltà a farlo mandare in onda. Scelgo persino di usare l'audio originale del ragazzo che piange, che mi sembra possa esprimere almeno lontanamente il dramma delle vittime innocenti di questa guerra - una guerra che non sa distinguere talebani e civili proprio come non li so distinguere io. Una guerra a Bin Laden e al mullah Omar; ma di nessuno Stefano Tura
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dei due si hanno notizie, e quella che invece vedo è altra disperazione, disperazione che si somma a quella per le vittime di New York, disperazione che non l'elimina né la redime. Nel pomeriggio si diffonde la notizia che i colloqui di Bonn stanno giungendo a una conclusione, con la nomina del futuro primo ministro ad interim. Il nome più ricorrente è proprio quello di Hamid Karzai. Io e i miei colleghi prendiamo nuovamente contatti con Ahmed, il fratello, e fissiamo un'intervista per domani, sperando che nel frattempo giunga la notizia ufficiale della nomina di Karzai, e comunque di conoscere la situazione di Kandahar senza dover ricorrere come al solito a notizie di agenzia. La notizia infine giunge, Karzai è stato nominato. Nel frattempo, i bombardamenti su Kandahar si fanno ancora più intensi e ora, nella zona dell'aeroporto, si combatte anche a terra. Ci sentiamo nel cuore della guerra: entro cento chilometri da qui si gioca il futuro dell'Afghanistan. Quetta, mercoledì 5 dicembre Sono a casa di Ahmed Karzai con Ugo, Fabrizio, Marco, Gabriel dell'«Unità» e con la collega dell'ANSA; oltre al drappello di italiani, ci sono anche una giornalista giapponese e vari inglesi. Dopo pochi minuti di attesa, ci sistemano in una stanza adibita alle conferenze, senza mobili, solo con qualche tappeto in terra e cuscini lungo le pareti. Ci togliamo tutti le scarpe e ci accovacciamo sui cuscini in attesa che arrivi Ahmed Karzai. Si presenta nella stanza puntuale. È un uomo alto e piuttosto robusto, tra i quaranta e i cinquanta, con la barba ben curata e il classico camicione alla pakistana sopra un paio di impeccabili pantaloni chiari. Con un'espressione piuttosto soddisfatta, ci mostra la foto-tessera del fratello, Hamid Karzai, e ci conferma che sarà lui a guidare il nuovo governo provvisorio dell'Afghanistan. «L'ho sentito stamattina», ci racconta. «Si trova vicino a Kandahar, a quindici chilometri circa dalla città. Non sta combattendo, non sta cercando di entrare in città con la forza: vuole evitare spargimenti di sangue, e così sta trattando con il mullah Omar e con i suoi uomini per una risoluzione pacifica del conflitto». I termini di questo prossimo accordo Stefano Tura
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non sono noti nemmeno a lui; così ci dice, anche se tutti noi abbiamo l'impressione che li conosca, ma abbia il divieto di riferirli. Gli chiediamo di raccontarci chi è suo fratello. Ci spiega che Hamid ha quarantasei anni; è di etnia pashtun, è a capo della tribù Popolzai, ed è ideologicamente vicino all'ex re dell'Afghanistan, Zahir Shah. Nell'82 ha combattuto contro gli invasori sovietici; dieci anni dopo è stato viceministro degli Esteri del governo dei mujaheddin. Verso la metà degli anni Novanta si è avvicinato ai talebani, con la speranza che la loro salita al potere potesse garantire al paese un periodo di pace e stabilità. Quando però suo padre venne ucciso a Peshawar, probabilmente da talebani, cambiò posizione. Fu costretto ad andarsene e rimanere per anni lontano dalla sua terra. All'inizio dei bombardamenti americani, è tornato in Afghanistan, inizialmente per sostenere il ripristino della monarchia, poi la nascita di una repubblica. Hamid è sposato, non ha figli, e vive con i sette fratelli e la sorella qui a Quetta. La collega dell'ANSA, l'unica che attraverso il satellitare è entrata in diretto contatto con Hamid Karzai, fa presente al fratello che Hamid le ha detto di aver ricevuto per telefono dal mullah Omar una richiesta di amnistia per sé e per i suoi combattenti. Ahmed non conferma, e dice che il fratello non gli ha raccontato di quest'episodio; ma gli risulta che l'amnistia per i soldati talebani sarebbe già stata decisa da parte dei futuri governanti dell'Afghanistan. L'incontro si chiude con frasi di circostanza: Ahmed annuncia che suo fratello «farà tutto il possibile per contribuire alla stabilità politica e alla ricostruzione economica dell'Afghanistan, lavorerà per il bene di tutti e impedirà ogni forma di vendetta o ritorsione». La conclusione che ne traggo è semplice: tutto questo susseguirsi di voci sulle trattative in corso lascia pensare che la resa di Kandahar sia questione di pochi giorni; questo significa che entro breve tempo potremo entrare in Afghanistan. Nello stesso giorno i capi delle tribù dell'Ilmand, una regione a ovest di Kandahar, convocano un'altra conferenza stampa: ci viene annunciato da un biglietto, corredato di indirizzo, che al nostro ritorno troviamo affisso nella bacheca dell'albergo. Ci spostiamo in una parte piuttosto anonima della città. Anche qui Stefano Tura
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povertà e desolazione la fanno da padrone. Trovato il luogo deputato, veniamo accolti in un'altra stanza con tappeti e cuscini. La situazione è piuttosto confusa: quattro o cinque leader di tribù diverse, tutti in piedi, tengono in mano dei fogli e leggono con voce stentorea alcuni comunicati. Con l'aiuto di Mushtaq, capisco che si stanno dichiarando disponibili a trattare con i talebani anche nella zona di Ilmand. Ho l'impressione che, da parte loro, il desiderio di entrare in trattative risponda al timore di rimanere esclusi dal controllo del territorio di loro "competenza". Mi rendo conto che, se anche Karzai riuscirà giungere a una soluzione pacifica per la resa di Kandahar, avrà altri problemi per mettersi d'accordo con tutte le tribù e i leader locali. Ho un chiaro presentimento: se non interverrà una figura forte capace di imporsi, accadrà anche nel sud-est del paese quello che è già successo nelle zone di Herat, Mazar-i-Sharif e Jalalabad. Lì i centri principali sono stati pacificati e assegnati all'una o all'altra compagine, ma nelle zone circostanti le varie tribù continuano a farsi la guerra tra loro. In serata arriva la notizia che tre marines e cinque uomini delle truppe antitalebane locali sono stati uccisi da fuoco amico nella zona di Kandahar: altri venti militari sarebbero rimasti feriti. Si ventila anche l'ipotesi che lo stesso Hamid Karzai sia rimasto ferito lievemente, ma non ci sono conferme. Sono i primi americani ufficialmente morti sul campo. La notizia fa il giro delle televisioni, a partire dalla CNN, per poi arrivare in tutto il mondo. Quetta, giovedì 6 dicembre Ci alziamo presto, pieni di tensione e aspettative: se davvero Kandahar sta per cedere, questo potrebbe significare il collasso definitivo dei talebani, la fine della guerra e forse la cattura del mullah Omar. (Bin Laden è ancora introvabile: dicono che sia nascosto tra le montagne di Tora Bora, vicino a Jalalabad). Mentre la CNN informa che Hamid Karzai ha ufficialmente smentito la notizia di un suo ferimento, apprendo da un trafiletto sul «Balochistan Time» che nel reparto B dell'ospedale di Quetta sarebbero stati ricoverati cinque miliziani di Al Qaeda feriti negli scontri di Kandahar. Questa volta sarebbero stati identificati senza difficoltà: non si sarebbero fatti passare per profughi, la differenza di razza gliel'avrebbe Stefano Tura
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reso impossibile. Ci precipitiamo nuovamente all'ospedale, ma stavolta troviamo difficoltà a entrare con le telecamere: capiamo subito che sta succedendo qualcosa di delicato. Occorre mettere in atto qualche stratagemma "da europeo": fare finta di non capire quando qualcuno ti chiede informazioni su chi sei e cosa vuoi, tenere la telecamera bassa e mai sulla spalla e sempre accesa, in modo che venga registrato tutto, superare i controlli millantando un appuntamento con il responsabile di un reparto... Cerco di insegnare queste procedure a Mushtaq, ma non ci è granché abituato e non ottengo grandi risultati: fare il furbo non sembra proprio rientrare nella sua mentalità. Alla fine gli stratagemmi hanno successo: nel corridoio del reparto siamo non solo l'unica troupe, ma gli unici giornalisti. La stanza è piantonata dentro e fuori da poliziotti armati. A questo punto entrare diventa veramente difficile: con i poliziotti non c'è trucchetto che tenga. Chiedo chi c'è dentro la stanza ma non mi danno nessuna risposta: per qualsiasi informazione, dobbiamo «parlare con il responsabile della sicurezza dell'ospedale». Sbirciando attraverso i vetri della porta, noto un ragazzo, un cameraman che lavora per l'APTN. Ha la telecamera con sé, ma non fa riprese. Si chiama Omar: ho già lavorato con lui per fare qualche montaggio e alcuni servizi. Abbiamo un buon rapporto. Capisco che per entrare non ho altro modo che sfruttare la sua conoscenza: so d'altra parte che non potrebbe mai farmi superare il blocco. Ho un piano, però. Dico a Mushtaq di non aprire bocca: non sarebbe in grado di bluffare. Vado dal capo del gruppetto di poliziotti e gli dico che sono un giornalista inglese, che lavoro per l'APTN e che abbiamo del materiale tecnico da portare a Omar, che è già nella stanza. Il poliziotto mi fa entrare. Entro con Peppino, dicendogli di tenere accesa la telecamera. Noto subito la meraviglia di Omar: lo prego con gli occhi di non dire niente e mi avvicino al letto dove c'è uno di questi arabi, ferito a una gamba: apprendo più tardi da un comunicato che si chiama Abdil Rehman, ha circa trentasei anni ed è originario degli Emirati Arabi o forse dello Yemen. Con lui ci sono altri quattro feriti: Abdul Hakim, trentadue anni, e Hassad Ullah, trent'anni, entrambi sudanesi; Mohamed, trent'anni circa, di nazionalità sconosciuta; e Salahuddin, trent'anni, pakistano. Abdil mi squadra dalla testa ai piedi; chiede qualcosa a Omar in una lingua che non riesco a identificare. Non riesco nemmeno a capire la risposta di Omar. Poi si rivolge a me in inglese e mi chiede: «Chi sei?». Stefano Tura
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Gli rispondo che sono un giornalista europeo. «Sei musulmano?». No, faccio io. Lui mi fa dei gesti abbastanza espliciti: mi devo togliere immediatamente dalle scatole, con me non parlerà mai. Guardo Omar e lui a sua volta mi guarda come per dire: «È meglio che fai come dice». I poliziotti che sono dentro la stanza hanno seguito la scena con un certo nervosismo: hanno capito che il mio era una stratagemma, quindi mi spingono fuori dalla stanza con rabbia, ammonendomi di non riprovarci più. Per quel che mi riguarda, ho già ottenuto quello che volevo: le immagini di quest'uomo e le poche parole che ha detto. Fuori trovo due giornalisti americani, un ragazzo del «Washington Post» e una ragazza di «USA Today», che mi raccontano di essersi trovati per pochi minuti davanti al letto di Abdil; una volta saputo che questi erano americani, il ferito ha reagito con grande violenza: «Se avessi un fucile vi ucciderei anche adesso! Vi odio! Le vostre bombe intelligenti stanno ammazzando donne e bambini! Voi state facendo la guerra all'Islam, non ai terroristi», e ha aggiunto di non far parte di nessuna organizzazione terroristica, di non essere un talebano, di non essere un miliziano di Al Qaeda, ma solo un soldato che combatte per la guerra santa e per le ragioni dell'Islam. Da quel momento, la polizia ha iniziato a piantonare la stanza per evitare che entrassero altri giornalisti occidentali. L'unico autorizzato a entrare è stato Omar, in quanto giordano e musulmano osservante; inoltre, vengo a sapere dopo, ha garantito a Rehman e agli altri che non avrebbe inquadrato il loro volto né registrato la loro voce: avrebbe ripreso solo la stanza e loro si sarebbero coperti il viso. Grazie a Mushtaq riesco a raccogliere alcune altre informazioni da un inserviente dell'ospedale: i cinque erano in Afghanistan da circa sei mesi, quindi da prima della guerra; hanno combattuto a Mazar-i-Sharif, poi a Kabul, infine si sono spostati a Kandahar per proteggere la città santa. Fra gli sproloqui, Rehman ha detto ai due americani che l'unico suo rammarico è non essersi mai trovato faccia a faccia con un soldato americano. Torno dal responsabile del gruppo di poliziotti che sta piantonando la stanza e gli chiedo qual è la posizione ufficiale di questi arabi: se sono in arresto, se sono prigionieri di guerra, o che cos'altro. Mi dice che sono stati fermati in via cautelativa perché trovati clandestinamente in territorio pakistano. Nei loro confronti non esiste nessun procedimento: cosa che mi risulta piuttosto strana, visto quello che Rehman ha detto ai giornalisti Stefano Tura
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americani di fronte a pubblici ufficiali. L'ennesima contraddizione nell'atteggiamento del Pakistan di fronte a questa guerra. Ho una strana sensazione di sollievo: meglio, di maggiore chiarezza. Dev'essere perché ho finalmente visto il nemico, ho finalmente visto un uomo ferito in un combattimento a cui ha preso volontariamente parte, seguendo la proprio ideologia - non è un civile, non è un bambino, non è un padre, una madre, un contadino, non è insomma una vittima innocente. Dopo alcuni minuti arrivano decine di giornalisti, fra cui i colleghi italiani; di conseguenza, vengono ermeticamente chiuse anche le porte del corridoio su cui si affaccia la stanza. Fervono le trattative per entrare: la polizia dell'ospedale viene bersagliata di richieste di intervistare i feriti e i medici che entrano ed escono dalla porta. Rimaniamo almeno due ore lì davanti con la speranza di accedere alla corsia. Io sono abbastanza tranquillo: ho già notizie e immagini per fare un buon servizio ma nel caso ci sia comunque la possibilità di avere un'intervista non posso farmi scappare questa opportunità. Youssuf, l'interprete afgano di Gabriel, si è procurato un camice e cerca di introdursi nel corridoio. Riesce a superare il primo varco, arriva fino alla stanza e lì scompare dalla nostra vista. Dopo pochi minuti, esce fuori di nuovo, scortato dalla polizia: è sotto arresto. Nonostante i nostri tentativi - non solo del collega dell'«Unità» ma anche di tutti gli altri italiani - di convincere la polizia a lasciarlo andare e di assumerci noi la responsabilità dell'accaduto, i poliziotti non sentono ragioni: lo caricano su una jeep e lo portano via. Telefono alla mia redazione raccontando tutto e dicendo che ho le immagini del volto di un miliziano arabo ricoverato nell'ospedale. Il mio caporedattore mi dice di fare senz'altro un servizio per il Tg1 delle 13,30, ma di seguire anche le notizie che provengono da Kandahar: pare che ci siano sviluppi importanti, che la città sia già caduta o lì lì per cadere. Mi sbarazzo subito del servizio sugli arabi e comincio a occuparmi delle ultime notizie. Ci confrontiamo fra colleghi, ognuno di noi verifica con le proprie fonti. Richiamiamo Karzai, cerchiamo di avere notizie dall'Afghan Islamic Press, controlliamo se in televisione, nelle agenzie o su Internet siano comparse delle novità, fino a quando, verso le sette di sera, giunge la notizia che il mullah Omar avrebbe accettato la resa di Kandahar e avrebbe lasciato le consegne al mullah Naqib Ullah, il capo del villaggio di Argandab, nella provincia di Kandahar. Argandab, quando ci fu l'invasione dei talebani, fu Stefano Tura
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tra i villaggi che non opposero resistenza ai talebani, ed è rimasto sempre comunque solidale con il mullah Omar. A questo punto parlo di nuovo con il mio caporedattore. Decidiamo per la prima volta di fare una diretta, in modo che fino all'ultimo momento io possa aggiornare il mio resoconto con notizie fresche su quello che sta succedendo a Kandahar. Per fare la diretta mi organizzo con la APTN. Ho ancora un po' di tempo, considerando la differenza di orario, per raccogliere altre informazioni. Il collegamento avverrà nel cortile dell'hotel Serena: una diretta di qualche minuto che sarà mandata in onda attraverso il satellite dell'agenzia inglese. Prima della diretta telefono nuovamente ad Ahmed Karzai, per avere le ultime informazioni. Mi dice che ha parlato ancora col fratello Hamid, e che questi ha definito i colloqui con i talebani e con il mullah Omar un successo: il mullah non solo avrebbe lasciato il potere a Naqib Ullah, ma avrebbe disposto la consegna delle armi alle truppe degli antitalebani da domani. Ahmed Karzai fissa anzi a cinque giorni prima il passaggio di consegne tra Omar e Naqib Ullah. C'è però una discrepanza evidente con quello che ci è stato detto fino a quel momento. Se il mullah Omar ha già lasciato cinque giorni fa il controllo della città, con chi sono state fatte le trattative degli ultimi giorni? E dov'è adesso il leader spirituale degli studenti coranici? Un altro problema che non mi viene chiarito riguarda Spinboldak: sarebbe ancora in mano ai talebani, e si troverebbe sotto i bombardamenti. Anche oggi infatti giungono notizie di profughi che premono al confine per trovare rifugio in Pakistan. Restano dunque senza risposta due quesiti: quando verrà bonificato il corridoio che unisce il Pakistan all'Afghanistan tra Quetta e Kandahar? Quali garanzie ci sono che il mullah Omar si consegni alle truppe di Karzai invece che tentare la fuga? Lavoro fino a tarda notte ma ho difficoltà a mettere a fuoco i numerosi eventi della giornata. In albergo c'è un clima frenetico: se è vero che è caduta Kandahar, adesso bisogna vedere come e quando sarà possibile entrarci. Ora più che mai è fondamentale capire chi prenderà il potere e chi, soprattutto, sarà in grado di garantire la nostra sicurezza quando entreremo in Afghanistan.
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Quetta, venerdì 7 dicembre Stamattina presto vengo a sapere che Nick Robertson, l'inviato della CNN, è riuscito ad arrivare a Kandahar. Robertson è stato addirittura scortato da truppe di Karzai: in pratica il futuro primo ministro afgano, oltre che con i talebani, ha dovuto trattare anche con gli americani, che insistevano perché l'inviato della CNN fosse il primo ad arrivare sul posto. D'ora in avanti, tutte le notizie da Kandahar saranno ovviamente firmate CNN e verranno riprese dai giornali e dalle televisioni di tutto il mondo. A Kandahar, apprendo, sarebbe iniziata la consegna delle armi da parte dei talebani. Ma non tutti si sarebbero arresi: molti si sarebbero rifugiati, ancora armati, sulle montagne. Lo stesso starebbe avvenendo anche a Spinboldak. Nel frattempo dagli Stati Uniti la CNN continua a trasmettere le dichiarazioni di Rumsfeld, il ministro della Difesa americano, che tuona ancora contro Omar e Bin Laden, e spiega che la caduta di Kandahar non li ha cancellati dalla cima della loro lista nera. Continueranno a dare loro la caccia con tutti i mezzi possibili. Al telefono Hamid Karzai, rispondendo in diretta a una domanda di un collega della BBC, comunica una novità rispetto alla posizione di Omar: è ufficialmente ricercato, perché non ha accettato di abiurare il terrorismo. Non sa dove sia, ma i suoi uomini lo stanno cercando. Per lui, contrariamente ai suoi soldati che hanno consegnato le armi, non ci sarà amnistia. Una mossa da grande stratega per allinearsi con gli americani. Quasi contemporaneamente, il governo del Pakistan annuncia di aver ulteriormente serrato la sorveglianza sui confini fra Pakistan e Afghanistan, per evitare la fuga dei miliziani arabi e dei talebani. Mi hanno richiesto parecchie dirette radio e tv. Sto preparando un po' di materiale quando arriva la notizia che Hamid Karzai si trova in difficoltà. Lo riferisce l'affidabile notiziario in lingua pashtun della BBC, che mi faccio tradurre da Mushtaq. Karzai non è ancora entrato a Kandahar perché contro di lui si è schierato Gul Agha, già governatore di Kandahar prima dell'arrivo dei talebani e loro acerrimo nemico. Gul Agha accusa il futuro premier di aver acconsentito che la città venisse lasciata in mano al mullah Naqib Ullah, che viene giudicato il successore del mullah Omar e vicinissimo ai movimenti integralisti. Inoltre, Karzai avrebbe agito da solo, senza ascoltare il parere degli anziani delle tribù che circondano Kandahar. Stefano Tura
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Infine, avrebbe di fatto permesso la fuga di Omar, utilizzando la sua salvezza come merce di scambio per il controllo della città: alcuni uomini di Gul Agha li avrebbero addirittura visti insieme su un automobile. Hamid Karzai reagisce alle accuse poco dopo, in un'intervista alla CNN. Ribadisce che la caccia a Omar è aperta, e rende noto di aver trattato con Gul Agha e di avere infine "conferito" a lui il governatorato della città. In questo modo, almeno la facciata è stata ripulita.
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Il "libretto rosso" che ho trovato nel nostro alloggio, a Kandahar. 1 proiettili al centro formano la scritta «Allah».
In questa pagina e nella successiva, volantini di propaganda americana.
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Referto oculistico di un medico inglese, anch'esso rinvenuto fra le carte del mullah.
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Qui sopra, copia del tesserino militare trovata nell'ex residenza di Omar.
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Nick Robertson - che trasmette dal blindatissimo quartier generale di Karzai, ovvero l'ex residenza del mullah - racconta di una Kandahar dove si spara ancora giorno e notte. La gente, terrorizzata, se ne sta chiusa in casa, i negozi abbandonati vengono saccheggiati e miliziani arabi, ceceni e pakistani si stanno confondendo con i profughi diretti in Pakistan. Una situazione totalmente caotica, che nemmeno l'arrivo di Karzai a Kandahar pare per il momento risolvere. Intorno alla città continuerebbero gli scontri. I talebani, stavolta, non c'entrano: a combattersi sono tribù in lotta per il controllo del territorio, come già è accaduto a Spinboldak. Le bombe su Tora Bora, intanto, hanno permesso ai mujaheddin di penetrare in alcune delle celebri grotte - ma di Bin Laden e dei suoi nessuna traccia. Almeno, però, sia nella zona di Kandahar sia nella zona di Spinboldak sono cessati i bombardamenti. Telefono nuovamente ad Ahmed Karzai, per vagliare la possibilità di entrare a Kandahar con una scorta filogovernativa; mi fa capire che in questo momento non sono in grado di garantire la sicurezza dei giornalisti. Karzai, in questo momento, dovrebbe essere l'uomo più potente del paese; eppure, non è nemmeno in grado di farci scortare per centocinquanta chilometri. Figuriamoci se può aver la forza di stabilire chi comanda a Stefano Tura
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Kandahar. Oggi è venerdì, il giorno sacro, e non si riuscirebbe comunque a portare avanti le pratiche burocratiche per il visto: tutti gli uffici pubblici sono chiusi. Trascorro il resto della giornata chiudendo servizi su quello che sta accadendo a Kandahar, ma senza vedere di persona gli eventi. Il quadro mi risulta ancora piuttosto confuso. In serata ricompare Djamshid. Mi dice di avere nuovamente conversato con il suo amico che lavora all'aeroporto di Jacobabad ma che per la foto non c'è nulla da fare. A questo punto chiudo definitivamente la pratica. Di questa notizia non ho prove né conferme indirette. Decido di non farne cenno nei miei servizi. Quetta, sabato 8 dicembre Di prima mattina nel nostro albergo giunge la notizia della cattura del mullah Omar, una "bomba" ribattuta dal sito del «New York Times», che in poco tempo fa il giro del mondo. Mentre su Internet e tramite colleghi che hanno contatti diretti con fonti locali cerchiamo di trovare conferme, mando Mushtaq a occuparsi delle pratiche burocratiche per l'estensione del visto e per il doppio ingresso. Vogliamo tenerci pronti e in regola, indipendentemente dalla sorte del mullah. A poco a poco ci rendiamo conto che la notizia è del tutto priva di fondamento; nel giro di due ore viene definitivamente smentita dall'Afghan Islamic Press, che dà Omar sano e salvo in una zona vicino alle montagne. Il notiziario radio della BBC aggiunge che il mullah sarebbe stato visto con la sua famiglia vicino al confine con il Pakistan, nel probabile tentativo di trovare rifugio in una zona tribale. Mushtaq nel frattempo ritorna dalla sua discesa nella snervante burocrazia pakistana, con il mio visto rinnovato e tutti i permessi di cui ho bisogno. In più mi riporta alcune voci secondo le quali il mullah Omar avrebbe lasciato Kandahar già da due giorni e sarebbe stato visto dirigersi verso la frontiera. Nonostante tutto ciò i telegiornali della mattina, fino a quello delle 13,30, mi chiedono ancora di parlare di questa bufala, oltre che di fare il punto della situazione. Le ultime novità che riguardano Kandahar riferiscono di un vertice tra le tribù rivali per cercare di dirimere la Stefano Tura
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questione di chi debba assumere il controllo della città e dei villaggi circostanti. Il governo pakistano intanto annuncia di aver spostato di qualche chilometro all'interno del paese la linea di confine, in modo da poter meglio setacciare la no man's land. Infine, una buona notizia, che arriva stavolta da Kabul: il primo convoglio del WFP è riuscito a raggiungere la capitale ed è cominciata la distribuzione di aiuti e di cibo alle circa duecentomila famiglie che sono rimaste in città. Con Peppino, Mushtaq e Ali Madhad decidiamo che domani faremo il primo tentativo di entrare. In Afghanistan non avremo a disposizione acqua, corrente elettrica e generi alimentari. Dedichiamo dunque il pomeriggio ai preparativi; compriamo biscotti, carne in scatola, pesce in scatola, scorte di acqua imbottigliata, caffè, tè in polvere e in bustina, barrette di cioccolata. Il necessario per nutrirsi per cinque o sei giorni. Poi, con l'aiuto di Musthaq, ci procuriamo coperte di lana e asciugamani: di notte, la temperatura arriva anche a zero gradi. In un bazar di Quetta, acquisto uno zaino di tipo militare e un gilet multitasche. Compriamo poi teli e foulard di cotone molto ampi, che la gente del posto usa per ripararsi il viso dalla polvere e dalla sabbia sollevate dalle macchine o dal vento. In serata alcuni colleghi stranieri, che hanno tentato già oggi il viaggio a Kandahar, ritornano in albergo piuttosto scossi. Alcuni di loro sono feriti in modo non grave, e vengono accompagnati alle loro stanze. Tra questi l'inglese Robert Fisk, un inviato di guerra piuttosto celebre - uno fra i pochissimi occidentali ad aver intervistato niente meno che Bin Laden che ha segni di tagli e contusioni sul volto e sulla testa. Gli chiediamo che cosa è successo. Ci racconta che, arrivato al confine, gli hanno fatto capire che era ancora troppo presto per passare. Ha anche notato che, fra le persone che abitano nei villaggi vicino Chaman, gli animi erano molto tesi. Nel viaggio di ritorno la sua auto, come già era successo a noi i primi giorni, ha avuto un guasto al motore ed è stato costretto a fermarsi nel villaggio di Killabdullah, il villaggio dove abbiamo trovato le caramelle di Super Osama. Appena sceso per vedere come poteva essere riparata la sua jeep, è stato circondato da ragazzi di quattordici, quindici anni, che dopo pochi minuti hanno cominciato a lanciargli pietre. Inizialmente ha provato a mantenere un atteggiamento tranquillo. Poi, visto che le manifestazioni di intolleranza cominciavano a crescere, ha Stefano Tura
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cercato riparo nell'auto ma, proprio sul punto di salire, Fisk è stato colpito alla fronte. La sua auto è stata circondata e fatta nuovamente bersaglio di pietre, che hanno mandato in frantumi alcuni cristalli. Fortunatamente poco dopo la jeep si è rimessa in moto ed è riuscito a fuggire. Fisk ci confessa che per lui sono stati i momenti più terribili da quando è arrivato in queste zone. Il clima, a suo dire, è cambiato, soprattutto dopo gli eventi che hanno profondamente mutato le sorti di Kandahar. Aggiunge anche di capire la reazione di queste persone, che dopo la caduta dei talebani si ritrovano col timore che scoppi una nuova guerra civile - una guerra che potrebbe finire per coinvolgere anche le varie fazioni presenti in Pakistan, nelle zone a ridosso del confine. A fine serata, prima di congedarlo, suggerisco a Mushtaq di mettere in bella vista sulla nostra jeep la scritta «RAI-TV - Italian press». La mia banale illusione è che gli italiani siano considerati meno guerrafondai degli inglesi e degli americani, e che la gente di qui abbia un atteggiamento più benevolo nei nostri confronti. Telefono a casa e dico a Franca che domani tenterò di entrare a Kandahar. Cerco di mantenermi il più possibile sereno e di non far trasparire le mie preoccupazioni. Non parlo dell'aggressione ai colleghi e dico anche che potremo rimanere in contatto grazie al telefono satellitare. La telefonata mi fa uno strano effetto: mi scopro a parlare con Franca con uno spirito diverso rispetto ai giorni passati. È come se le avessi detto: «Domani vado in un posto dove posso anche lasciarci la pelle». Quetta-Chaman-Quetta, domenica 9 dicembre I preparativi per la partenza sono più lunghi e complessi del solito. Molte delle auto che partono per Chaman con il solito convoglio sono attrezzate per entrare in Afghanistan. Sembra una spedizione di alpinisti o campeggiatori: sacchi a pelo, tende, coperte vengono caricati a quintali nei portabagagli e sui tetti dei fuoristrada. Alcuni - fra cui, confesso, noi - pare debbano passarci anni, a Kandahar. La carovana è anche più numerosa del solito: le macchine sono circa cinquanta, e in ciascuna ci sono almeno quattro o cinque persone. Peppino si siede vicino all'autista in modo da poter fare immagini anche Stefano Tura
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durante il viaggio, io e Mushtaq ci mettiamo dietro. La jeep è completamente carica: alla spesa di ieri si aggiunge anche una tanica di nafta, visto che, probabilmente, non troveremo il modo di fare rifornimento. Il viaggio è lungo: la polizia, dopo quello che è successo a Robert Fisk, tende a farci rimanere il più possibile compatti. Arriviamo al confine di Chaman all'una e mezzo. La frontiera, in effetti, è stata arretrata; la polizia ci fa sostare in un'area di parcheggio adiacente alla strada che conduce a questa nuova linea di demarcazione e circondata da filo spinato. Mushtaq e io cerchiamo di raggiungere il check-point per valutare la possibilità di andare oltre. Nei cento metri scarsi che separano il parcheggio dalla nuova frontiera mi rendo subito conto anch'io che il clima è molto cambiato. Vedo decine e decine di persone - non profughi, ma tutti abitanti della zona - che ci lanciano sguardi carichi di rabbia e insofferenza. Mushtaq si allontana di qualche metro e chiede informazioni a uno dei poliziotti che vigilano sul confine. Vedo che il poliziotto continua a fare segno di no. Mushtaq indica nella nostra direzione: sta dicendo al militare che siamo giornalisti europei e che abbiamo i documenti in regola per attraversare il confine. Interviene un superiore. Ci fa cenno di allontanarci, di tornare indietro perché, almeno per oggi, non c'è speranza di passare. Mentre torniamo indietro, con la coda dell'occhio vedo un ragazzo di sì e no diciassette anni che raccoglie alcune pietre. Un attimo dopo altri lo imitano. Anche Mushtaq intuisce il pericolo e mi ordina di correre via il più veloce possibile. Si inaugura una vera e propria sassaiola, prima rada, poi più fitta. Per fortuna riusciamo a metterci in salvo indenni dietro a una fila di auto. I nostri aggressori appaiono determinati. Non riusciamo a distinguere se siano pakistani o afgani. Ci urlano contro cose che non capisco; Mushtaq mi dice che gridano: «Andate via, che cosa volete, andatevene, tornate nei vostri paesi». Veniamo completamente circondati, siamo bloccati dietro le macchine. La polizia interviene, ma in maniera paradossale. Un paio di loro si mettono all'ingresso del parcheggio per evitare che gli aggressori entrino, ma i loro colleghi non fanno nulla per impedire che continuino a tirare sassi. Sembra che la scena, in fondo in fondo, non dispiaccia neanche a loro. Nel compito di fermare gli aggressori, molto più attivi della polizia Stefano Tura
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sono alcuni civili, che, armati di bastoni, si scagliano contro i potenziali lapidatori. La cosa più strana è che, fra questi improvvisati difensori, notiamo alcuni che pochi minuti prima stavano partecipando alla sassaiola. A questo punto, nessuno di noi capisce più nulla di quel che sta succedendo. Rimaniamo bloccati in questa situazione senza sapere cosa fare. Non possiamo uscire dal parcheggio, non possiamo tentare di andare oltre il confine, e non c'è nemmeno la possibilità di lavorare. Col passare del tempo la sassaiola si dirada. Cerchiamo, avvicinandoci alla rete di protezione, di richiamare qualcuno dei soliti pendolari per intervistarli, anche se la situazione è grottesca. Ci teniamo in piccoli gruppi compatti, nell'illusione di essere così bersagli meno facili; chiediamo ai poliziotti che bighellonano lì intorno di frapporsi fra noi e i nostri persecutori. I pochi che si fermano a parlare con noi ci dicono che a Spinboldak la situazione è piuttosto tesa. I talebani hanno cominciato a consegnare le armi, ma gli Achakzai e i Noorzai continuano a combattersi. Mentre faccio queste interviste, vedo che una fotografa americana si è staccata dal gruppo, si è mimetizzata tra i pendolari e sta oltrepassando "di rapina" il confine. Chiedo a Peppino di riprendere la scena. Dopo pochi metri, la polizia la blocca e la rispedisce indietro; ma a questo punto è un bersaglio fin troppo facile per i tirapietre del posto. La fotografa prende a correre: cerca di raggiungere la sua jeep, parcheggiata poco distante. La inseguono una quindicina di locali. Mentre pensiamo a un modo di intervenire in sua difesa, la ragazza riesce a entrare nella macchina. Mentre mette in moto, alcuni ragazzini si arrampicano sulla jeep e cominciano a scuoterla. L'auto parte sgommando, e gli arrampicatori vengono disarcionati: gli inseguitori tirano le solite pietre e solo ora, con il consueto ritardo, vengono fermati dalla polizia. In questo momento mi giunge una telefonata. Riesco subito a captare un satellite indiano: la comunicazione è chiara e senza disturbi. È Roma che mi chiede se sono riuscito o meno a passare il confine, come ieri avevo annunciato. Racconto la situazione in cui ci troviamo, e dico che difficilmente, oggi, riuscirò a entrare in Afghanistan e che rientrerò quasi certamente a Quetta. Mi chiedono di preparare una diretta telefonica su quello che sta succedendo qui al confine e sulla situazione a Kandahar: all'aeroporto i talebani starebbero ancora combattendo, e all'ospedale alcuni miliziani arabi feriti starebbero dando vita a una resistenza armata, Stefano Tura
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come era già accaduto nel carcere di Mazar-i-Sharif. Dopo circa due ore che siamo bloccati nel recinto, la polizia ci fa cenno che è ora di tornare a Quetta. Prima di lasciare il parcheggio ci mettiamo tutti in colonna e passiamo un posto di blocco abusivo creato dai nostri "protettori" di poco fa. Ancora armati dei loro bastoni, si avvicinano alle auto e, a mano a mano che transitiamo, esigono fra i cinque e i dieci dollari come ricompensa per il loro servigio: altrimenti, si tramuteranno di nuovo in aggressori. Ecco spiegato l'improvviso voltafaccia di prima. Per noi non è sicuramente una grossa cifra, ma lo è senza dubbio per loro; e considerando che si parla di una cinquantina di mezzi, non è difficile intuire che si tratta di un vero e proprio business. A un certo punto, vedendo che si scambiano sorrisi con gli aggressori e la polizia che rimane immobile, ho la certezza che i soldi verranno spartiti fra le tre fazioni. Adesso il gioco delle parti si rivela nella sua squallida trama. Nel viaggio di ritorno, rimaniamo volontariamente indietro e perdiamo il contatto con le altre auto. Siamo vicini all'ora della diretta per il Tg1, ci dobbiamo fermare da qualche parte. Ci arrestiamo quindi sulla sommità del Kojak Pass, dove l'esercito ha una specie di punto di controllo: un piccolo check-point formato solamente da una casetta in muratura, dove, a turno, stazionano i militari che controllano il valico. Ci sembra un punto sicuro: avremo se non altro la loro tutela. Scendo dalla macchina, accendo il satellitare, mi metto in contatto con lo studio di Roma. Dopo pochi minuti mi rendo conto che la nostra presenza sta creando molta agitazione, qui intorno. Racconto agli spettatori del Tg1 il clima di questo viaggio, l'aggressione che abbiamo subito, la situazione di Kandahar; ma appena spengo il telefono noto alle mie spalle un assembramento di una decina di persone, tra militari, poliziotti e curiosi. Veniamo bloccati e portati dentro la caserma. Ci perquisiscono, ci chiedono chi siamo, che cosa stiamo facendo, perché usiamo il satellitare e con chi stavamo comunicando. Perdiamo quasi mezz'ora per spiegare che non siamo spie ma giornalisti, e che ci siamo fermati in quel punto proprio perché era una zona militare: ci sentivamo al sicuro. Fatica inutile: non sono assolutamente convinti. Vogliono trattenerci e sequestrarci il telefono. A prezzo di molti sforzi, Mushtaq riesce a persuaderli: ce ne andiamo sani e salvi, e con il satellitare in tasca. Ogni giorno che passa, Mushtaq si rivela sempre più prezioso. Non è la prima volta che ce la caviamo grazie a lui. Stefano Tura
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Ripreso il cammino, ci fermiamo proprio vicino al chiosco dove avevamo trovato le caramelle di Super Osama. È chiuso, in un orario in cui i negozi sono normalmente aperti. Chissà se l'hanno chiuso per propaganda antigovernativa. Mushtaq e Ali Madhad si fermano a pregare e subito dopo - è ormai il tramonto - nonostante non mangino da dieci ore, tirano fuori la solita, parca razione di datteri. Quando arriviamo in albergo, noto che alcuni colleghi non sono rientrati. Mi chiedo se si siano trovati in difficoltà, se abbiano deciso di fermarsi a Chaman per la notte o se invece abbiano trovato un modo per entrare in Afghanistan. Il pensiero che siano già in viaggio per la città santa mi fa sentire come un leone in gabbia. Quetta, lunedì 10 dicembre La scorsa notte è stata particolarmente movimentata, qui a Quetta: tre razzi anticarro, ci annuncia appena svegli il notiziario radio della BBC, hanno colpito differenti punti della città. Solo uno è andato a segno, danneggiando seriamente alcune abitazioni. Fortunatamente non ci sono stati feriti. Mushtaq mi racconta che alcuni mesi fa ordigni più o meno dello stesso tipo furono lanciati contro postazioni militari dell'esercito pakistano. Il fatto che stavolta siano stati utilizzati in coincidenza con la caduta di Kandahar e la resa dei talebani lascia pensare. Neanche oggi potremo entrare in Afghanistan: non abbiamo nemmeno i permessi per raggiungere il confine. Mi rassegno a passare la giornata a Quetta. Il leader di un movimento integralista, il mullah Abdul Ghafoor Haideri, ha convocato una conferenza stampa, annunciando di avere cose importanti da riferire. Andrò a seguirla: ma prima mi faccio guidare da Mushtaq nella zona in cui è caduto il terzo razzo. Con mia sorpresa, scopro che è il ghetto cattolico della città. Non conoscevo nemmeno la sua esistenza, né sapevo che a Quetta vi fossero dei cattolici. È un vero e proprio rione fortificato, con tanto di mura e cancello per entrare; quando arriviamo, il cancello è chiuso. Dobbiamo aspettare parecchi minuti prima che arrivi un uomo ad aprirci, e nel frattempo veniamo attorniati dal solito nugolo di curiosi. Mushtaq spiega al tizio che siamo italiani: non ci vuole molto a convincerlo a farci entrare Stefano Tura
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con la macchina. Più difficile è lasciare fuori il codazzo di musulmani. È veramente una piccola città nella città, fatta di edifici a due piani di pietra grezza, uno appoggiato sull'altro, con scale che li collegano tra loro. Un labirinto nel quale ci perderemmo presto, se non avessimo l'uomo come guida. Arriviamo alla casa sulla quale è caduto il razzo. Ci viene incontro il capofamiglia, Ilyas Kurshut, che vive qui assieme alla moglie e a tre bambini: ci accompagna quasi fino al tetto e ci mostra i danni che l'esplosione ha provocato. Il razzo ha completamente sfondato il soffitto dell'abitazione, poi è rimbalzato sulle pareti e ha distrutto parte di una stanza dove dormivano i bambini assieme alla mamma. Sono rimasti tutti miracolosamente illesi. Ilyas non riesce a spiegarsi l'accaduto. Racconta che la polizia è arrivata, ha preso in consegna i resti del razzo, ha identificato gli abitanti della casa e poi se ne è andata senza dire altro. Gli chiedo perché vivono blindati e se hanno dei problemi con il resto della popolazione, e noto che nel rispondere è un po' reticente. Tende a minimizzare: non si tratta di grossi problemi. Vivono in quel modo perché sono pochi e così si sentono più uniti, più sicuri. Mi chiede se voglio che mi mostri la chiesa, attualmente in costruzione. Gli rispondo di sì. Mentre ci guida lì, attraversiamo molte stradine, che portano tutte il segno dell'appartenenza religiosa di questa gente: croci, icone, madonnine, ex voto. La chiesa, che Kurshut mi mostra orgoglioso, è un misero stanzone vuoto: un paio di operai stanno flemmaticamente imbiancando le pareti. Non riesco a chiarire se si sia trattato di un attentato mirato o se il razzo sia caduto lì casualmente. Vengo a sapere che uno dei due razzi andati a vuoto ha sfiorato una postazione militare della polizia pakistana. Nonostante nessuno, neanche la stampa locale, lo dica apertamente, mi viene da pensare che quello di stanotte sia stato un gesto di estremisti antigovernativi, in contrasto con la politica filoamericana del Pakistan. Adesso che i talebani si sono arresi, la rabbia per questa scelta politica del paese viene indirizzata anche verso i nemici di sempre: i cattolici. L'annunciata conferenza di Haideri si svolge al circolo della stampa di Quetta, che in realtà è niente di più che una baracca; da noi potrebbe essere il chiosco di un benzinaio. La stanza disadorna ospita panche di legno e tappeti; per terra, riservati al pubblico, una gran quantità di cuscini. Stefano Tura
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Haideri è un uomo di bassa statura, la barba lunga e molto scura, gli occhiali da vista dorati, le mani piene di anelli, gli occhi profondi e il turbante nero. Il prototipo del capo integralista. Nonostante la sala sia piena di giornalisti occidentali, il mullah non si preoccupa assolutamente di parlare una lingua diversa dalla sua, o di far tradurre le sue parole. Parla per circa un'ora. Cambia spesso tono, gesticola moltissimo. Finito il comizio, i giornalisti pakistani pongono una sfilza di domande, sempre in lingua locale, cui Haideri risponde lungamente. Si va avanti così per quasi un'ora e mezza. Non capisco un'acca, e così ho chiesto a Mushtaq di fare lui il giornalista e di prendere appunti. Peppino resta nella stanza per fare delle riprese mentre io mi sposto fuori, nel giardino; a volte rientro a dare un'occhiata. Quando finisce la conferenza stampa Mushtaq me ne riassume il senso: in sostanza Haideri ha lanciato una serie di proclami antiamericani: «Con i bombardamenti», ha detto, «hanno ucciso migliaia di civili innocenti e non hanno trovato né Bin Laden né il mullah Omar. A che cosa sono serviti questi mesi di guerra se non a massacrare i civili e a mettere in ginocchio un paese? Il Pakistan pagherà per aver aiutato gli americani e dopo il Ramadan cominceremo la nostra lotta proprio da qui, dal Pakistan». La sua conclusione è che «l'Afghanistan non troverà mai la pace». Rientro in albergo. Le notizie che vengono diffuse dalla televisione, dai notiziari, riguardano Kandahar e Tora Bora. Da quest'ultima località giunge una notizia che mi lascia piuttosto sconcertato: per stanare Osama Bin Laden, gli americani hanno sganciato la superbomba, quella che in gergo viene chiamata la "taglia-margherite": un ordigno che pesa come un Maggiolino Volkswagen e ha un raggio d'azione di parecchie centinaia di metri, nel quale non sopravvive nulla, nemmeno, appunto, una margherita. Non si ha notizia di quali obiettivi possa avere colpito né di quali danni possa avere provocato. Il fatto che sia stata sganciata è preoccupante; che poi sia stata sganciata sulle montagne lascia un'impressione di spreco grottesco o, peggio, sospetto. Le margherite, su questi monti, scarseggiano. I carri armati americani avrebbero lasciato la base di Dolangi e, scortati da elicotteri, si starebbero muovendo verso Kandahar. Nonostante gli sforzi di Karzai, che è acquartierato nella residenza di Omar sotto la protezione, a quanto pare, di un certo numero di marines, la situazione continua a essere piuttosto confusa: la tensione tra lui, l'ex governatore Gul Stefano Tura
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Agha, che ha ripreso a tutti gli effetti il governo della città, e il mullah Naqib Ullah, capo del villaggio di Argandab, successore designato del mullah Omar, si taglia con il coltello. Di tutto questo e dei razzi caduti su Quetta riferisco nella diretta per il Tg3. Nel pomeriggio mi riorganizzo per tentare lo sconfinamento già domani. Da un lato sono ansioso di entrare a Kandahar, dall'altro mi rendo conto che, una volta lì, potrei avere serie difficoltà sul lavoro. Non so, ad esempio, come farò a trasmettere i servizi, visto che non ho gli strumenti per montare e trasmettere autonomamente. Potrò filmare, potrò raccogliere le testimonianze, ma non riuscirò a spedire i reportage via satellite come faccio invece da Quetta, dove le agenzie televisive internazionali e i network mi mettono a disposizione le loro apparecchiature. Esprimo le mie preoccupazioni a Raphael Wober, un videogiornalista, così si definisce, di circa trent'anni. È il corrispondente per l'Asia dell'APTN, con base a Hong Kong. Raphael è un ragazzo simpatico e disponibile: è lui che, il primo giorno che ero a Quetta, mi ha messo a disposizione le sue immagini. Mi dice che anche lui domani tenterà di entrare in Afghanistan e si porterà dietro il video telefono, un apparecchio che consente di spedire immagini attraverso le linee telefoniche satellitari. La qualità delle immagini trasmesse in questo modo non è eccellente: la frequenza dei frames è meno elevata che nel girato, quindi lo spettatore ha l'impressione che le immagini siano come rallentate; tuttavia, in mancanza di una parabola satellitare, questo sistema dà la possibilità di spedire un servizio filmato con voci, effetti e immagini da qualunque parte del mondo in qualunque destinazione. L'inconveniente fondamentale è che i tempi sono molto lunghi. Mentre per inviare un minuto di immagini via satellite ci vuole all'incirca un minuto, per inviarlo tramite videotelefono occorre all'incirca mezz'ora. Raphael mi rassicura: a Kandahar mi presterà il videotelefono e l'unità di montaggio. Stipuliamo pertanto una sorta di patto di assistenza - in realtà ben poco mutua: resteremo il più possibile uniti, in modo che io possa utilizzare le sue attrezzature. Quanto agli accordi ufficiali fra RAI e APTN, Raphael mi dice: «Io te le faccio usare comunque, poi per gli accordi si vedrà. Comunque sia, tu sappi che se stai con me sei coperto». Tiro un sospiro di sollievo. Uno dei miei incubi professionali ricorrenti è quello di realizzare immagini esclusive, che so, Bin Laden e il mullah Stefano Tura
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Omar a pranzo insieme, e non poterle trasmettere perché non ho i mezzi per farlo. Scorgo un gruppo di giornalisti spagnoli di cui avevo perso le tracce il giorno precedente, mi avvicino e chiedo loro che cosa è successo, com'è che ieri non sono rientrati con il convoglio. Mi spiegano che hanno effettivamente tentato di sganciarsi ed entrare in Afghanistan: avevano già preso contatti con alcuni locali, disposti a portarli dall'altra parte per vie illegali. Ma una volta arrivati sul punto di attraversare il confine, le guide hanno chiesto dodicimila dollari. Chiaramente, a quel punto, anche loro sono tornati indietro. Tranne Nick Robertson, e i pochi altri che forse sono riusciti a entrare ieri, siamo tutti in attesa di entrare in quella benedetta città, la cui situazione resta ancora confusa. Di fatto, nessuno di noi ha ancora individuato chi ci possa dare la certezza di poter entrare davvero a Kandahar. Ascolto il parere di Peppino e Mushtaq: voglio sapere se concordano con me sull'idea di riprovarci domani. Peppino è d'accordo, ma Mushtaq è letteralmente entusiasta: la sua famiglia viene dall'Afghanistan, ma lui non ci ha mai messo piede. Quasi mi sembra riconoscente. Il suo entusiasmo e la sua voglia di condividere con me questo momento così importante per lui mi danno forza: il viaggio è rischioso per me, ma anche per lui. Non bisogna dimenticare che una delle etnie maggiormente perseguitate dai talebani è stata proprio l'hazara. La sua famiglia è fuggita in Pakistan per salvarsi la vita. Parliamo di tutto questo bevendo un tè. Ci tiene a farmi capire che, quando saremo là, si occuperà lui di tutto: ci penserà lui a trovare le persone con le quali andare in giro, persone di cui fidarsi. Mi ripete sempre: «It's my responsibility», e questo è quasi commovente; mi sembra di aver trovato un angelo custode - che io pago, è vero, ma in realtà di soldi non parliamo quasi più, anche perché non me ne sono rimasti molti. Il nostro accordo al riguardo è che, da qui in avanti, fino a quando non torneremo in Pakistan, non lo pagherò più giornalmente, ma gli darò il dovuto alla fine, tutto in una volta. Preferisco tenermi una certa scorta di liquidi: molte volte, in situazioni di guerra, i soldi salvano la vita. Non mi sono mai fermato così a lungo a parlare con Mushtaq. Mi rendo conto che questo nostro incontro è servito a entrambi. Grazie anche a lui, capisco qualcosa di più dei tempi, delle esigenze e dei piaceri di questa Stefano Tura
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gente, che vive con pochissimo ma riesce a dare il giusto valore a tante piccole cose -come le pause, che siano per bere il tè o per mangiare un po' di frutta, per leggere un libro o per fare due chiacchiere con qualcuno. Non c'è paragone tra le risorse economiche a loro disposizione e quello che noi sprechiamo quotidianamente: tuttavia, sono molto più capaci di noi di tirarsi fuori dalle contingenze, di godere di piccoli spazi di pace come di un tesoro al contempo naturale e prezioso. Nell'amicizia fra uomini, sembrano dare una grande importanza al contatto fisico. Quando si incontrano si abbracciano e sono capaci di tenersi stretti anche per trenta o quaranta secondi; si tengono per mano, assumono atteggiamenti molto affettuosi l'uno con l'altro. Mushtaq ha anche con me, sebbene non sia propriamente un mio amico, una prossemica molto diversa da un interprete occidentale, che so, bosniaco. Ieri, ad esempio, mi aiutava con grande attenzione a salire le scale della casa bombardata, porgendomi il braccio. Spesso tenta di portarmi lo zaino, o di reggermi il microfono quando faccio le interviste. A volte, soprattutto all'inizio, questi continui tentativi di contatto e di aiuto mi imbarazzavano, perché istintivamente tendevo a interpretarli come forme di servilismo: in seguito mi sono reso conto che non si tratta di questo, e che i pakistani, specialmente delle classe umili, tengono lo stesso atteggiamento fra pari grado. Il sostegno reciproco e la solidarietà, espresse anche a livello fisico, sono una componente essenziale del loro modo di vivere. Ci diamo appuntamento a domani, quando proveremo ancora una volta ad entrare nel paese di suo padre. Quetta-Chaman-Quetta, martedì 11 dicembre Oggi sono tre mesi esatti dall'attentato alle Torri Gemelle: mi sembra un buon giorno per entrare in Afghanistan. Invio un SMS a Franca e uno al mio caporedattore, avvertendo che farò l'ennesimo tentativo di entrare in Afghanistan. Partiamo per Chaman verso le nove. Siamo una trentina di macchine, di cui tre di italiani. Noi facciamo gruppo con Ugo, Fabrizio, Marco e Gabriel, e ci accordiamo per rimanere insieme. Cerco di non perdere mai d'occhio la Toyota sulla quale viaggiano Raphael e gli altri ragazzi Stefano Tura
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dell'APTN. Per tutto il viaggio c'è uno strano silenzio: siamo evidentemente molto concentrati. Ci fermiamo in questa specie di autogrill alla porte di Chaman, ormai una tappa consueta dei nostri viaggi al confine. Una volta al bar controllo di avere preso tutto, compresi i circa tremila dollari che mi sono rimasti. Per precauzione li ho divisi: una parte nel portafoglio che tengo nel mio nuovo gilet multitasche, una parte nei calzettoni, una parte in una tasca dei pantaloni, e una parte, quella più consistente, nascosta in una scatola di medicine, nello zaino, insieme a spazzolino, dentifricio, sapone. Dentro il bar siamo circa quaranta persone. Ognuno è impegnato a pianificare il proprio viaggio e comincia a contattare le persone che gli faranno da guida. In pochi minuti, il parcheggio del locale si trasforma in una specie di fiera di telefoni satellitari: pare che tutti i giornalisti si siano messi d'accordo per telefonare contemporaneamente. La gente del posto assiste incuriosita a una scena che senza dubbio non ha mai visto. Mushtaq ha alcuni parenti a Kandahar ma non ha contatti con persone che ci possano accompagnare. Chi sembra avere le conoscenze giuste è invece Youssuf, l'interprete di Gabriel. Dopo mezz'ora il gruppetto degli italiani è improvvisamente colto da un fermento. Non riesco bene a capire, ero distratto: Ugo mi raggiunge e dice di fare in fretta perché gli altri stanno già partendo. In questo momento non mi fermo a pensare, ma agisco d'impulso. Dovrei restare unito a Raphael e al gruppo di persone che viaggia con lui, ma così facendo perderei gli italiani; scelgo invece di stare con loro. Forse ho commesso un errore imperdonabile, che alimenterà il mio incubo ricorrente. Per consolarmi mi convinco che, se anche arriveremo a Kandahar per strade diverse, ci ritroveremo laggiù. Non ho neppure il tempo per avvertire Raphael e dargli un appuntamento, anche solo simbolico, a Kandahar. Partiamo quasi di nascosto per il confine. Assieme alle nostre ci sono anche due macchine inglesi, su una delle quali c'è Robert Fisk. Viaggiamo per circa venti minuti; arrivati al confine, lo seguiamo per qualche centinaio di metri e poi giriamo a destra, imboccando una stradina sterrata che attraversa una zona desertica. Arriviamo infine a un minuscolo villaggio di quattro o cinque case, una delle quali ha mura molto alte. Vedo che Youssuf scende dalla sua macchina. Chiedo a Mushtaq di stargli alle calcagna e di riferirmi qualunque cosa succeda e il senso di ogni dialogo fra Youssuf e la nostra futura scorta: non mi fido di lui. Ricordo Stefano Tura
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ancora che ha trascorso due giorni in carcere per aver tentato di entrare nella stanza d'ospedale degli arabi travestito da infermiere. Comunque Youssuf ci viene a dire che il posto è controllato da uomini di Gul Agha; prima che Kandahar venisse liberata dai talebani questo era il suo quartier generale. Ci consiglia poi di rimanere in macchina e di non dare troppo nell'occhio. Dopo di che, si infila con Mushtaq in questa strana costruzione che sembra un fortino. Passata una mezz'ora, Youssuf, con Mushtaq al seguito, esce trionfante dalla casa dicendo che stanno organizzando un convoglio per noi. Prendo da parte Mushtaq e gli chiedo se le cose sono andate effettivamente così. Lui mi risponde di sì, che hanno parlato con un uomo che fa parte della famiglia di Gul Agha. Gli chiedo quale sia la sua sensazione, se pensa che sia tutto a posto. Ritiene di sì, ma non può garantirlo perché sono persone che non conosce. Riguardo a Youssuf Mushtaq ha i miei stessi dubbi. È armato di buona volontà, ma ha un modo di lavorare goffo e pericoloso: parla a voce alta e nei suoi movimenti è persino plateale mentre, mi spiega Mushtaq, è meglio essere più cortesi, passivi e silenziosi e far credere agli altri che sono loro ad avere in mano l'iniziativa. Aspettiamo ancora tre quarti d'ora, finché escono dal fortino tre uomini fra i venticinque e i trent'anni, senza armi addosso. Salgono su un fuoristrada e ci fanno segno di seguirli: ci porteranno dagli uomini che ci scorteranno fino a Kandahar. Chiedo a Mushtaq se fra i tre ci sono quelli con cui ha parlato; mi risponde che solo uno era tra loro. Percorriamo solo cinquecento metri prima di fermarci nuovamente. I tre uomini si rimettono a parlare con l'interprete di Gabriel. Poi risalgono sulla jeep e tornano indietro. Youssuf tenta di rassicurarci: stanno mettendo a punto l'organizzazione del viaggio. Nessuno di noi riesce esattamente a capire cosa stia succedendo. Dopo un'altra mezz'ora, vediamo arrivare altre persone, una sola delle quali era prima sulla jeep. Non possiamo fare altro che seguirli, ma intanto stiamo perdendo un sacco di tempo: sono già passate le due. Questa volta percorriamo un tratto più lungo, di circa cinque chilometri fuori strada, allontanandoci ulteriormente da Chaman in una zona sperduta tra le montagne e il deserto. Non riesco a capire se siamo già in Afghanistan o ancora in Pakistan. Arriviamo in un agglomerato di quattro piccole costruzioni: ci fanno entrare in un edificio fortificato. Tre persone armate ci stanno aspettando. Scendiamo, ma dico a Peppino di rimanere vicino alla macchina. Mi dirigo Stefano Tura
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con Mushtaq e colleghi dentro questa costruzione a un piano, squadrata, completamente vuota all'interno: quattro pareti con al centro una colonna dove è appesa la foto di un ignoto mujaheddin che impugna un kalashnikov. I tre armati cominciano a parlottare con quelli che ci hanno guidati fin qui. Mando Mushtaq in avanscoperta a sentire qual è il tono dei discorsi. Son quasi le quattro, di qui a poco il sole tramonterà e nessuno di noi ha intenzione di intraprendere il viaggio per Kandahar con il buio, se le nostre condizioni di sicurezza non sono garantite. Mi faccio avanti e, attraverso Mushtaq, chiedo a uno degli uomini armati chi è; ma lui mi risponde seccamente di non preoccuparmi. Allora chiedo chi è il tizio nella foto: mi risponde che è un mujaheddin locale ucciso durante una battaglia contro i talebani. Dopo un po' Mushtaq torna da me con lo sguardo preoccupato e mi dice: «Ti devo parlare: la situazione non è chiara». Gli chiedo cosa c'è e lui mi risponde: «Si stanno organizzando per passare illegalmente». Aggiunge che il viaggio non è sicuro perché questi qui non sono uomini di Gul Agha. «Da cosa l'hai capito?», gli chiedo. «Non fanno nessun riferimento alla tribù di Gul Agha, parlano di contatti che hanno a Spinboldak ma questo non ha niente a che vedere con gli uomini di Gul Agha, che hanno il controllo su Kandahar e sulla strada che porta alla città. Questa è gente dei villaggi». Riferisco tutto agli altri del gruppo. Qualcuno comincia a spazientirsi, ma i più sembrano preoccupati. Nessuno ha voglia di rischiare. Il dubbio è se proseguire senza garanzie o andarcene. Veniamo ben presto liberati da ogni incertezza quando una di queste persone armate ci dice che l'unica possibilità per entrare in Afghanistan è abbandonare le nostre macchine al confine e salire su delle motociclette assieme a loro. Altri faranno passare le macchine, e poi ci ritroveremo a Spinboldak. L'idea è impraticabile. Nessuno di noi ha intenzione di lasciare le auto, tutte stracariche di roba necessaria per il lavoro e la sopravvivenza, e di attraversare il confine illegalmente. L'operazione, poi, costerebbe tre o quattromila dollari: non una cifra insormontabile, considerando che andrebbe divisa tra tutti, ma comunque molto elevata, per una soluzione di questo tipo. Robert Fisk a questo punto prende la parola e dice: «Io me ne torno a Quetta». Il suo diventa quasi un ordine di ritirata: saliamo sulle macchine e ce ne andiamo senza nemmeno dare spiegazioni. Stefano Tura
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Non ho più voglia di parlare e sono enormemente arrabbiato, soprattutto con me stesso. Anche per oggi Kandahar resterà un miraggio, mentre i colleghi che hanno deciso di rimanere assieme potrebbero già essere oltre il confine. Rimaniamo per ore tutti e quattro in silenzio. Quando arriva il momento di mangiare Mushtaq mi offre dei datteri ma li rifiuto. Per tutto il viaggio di ritorno tra di noi si respira un'aria di fallimento. Una volta in albergo telefono mestamente in redazione avvertendo che non ce l'ho fatta neanche oggi. Non sto a spiegare i dettagli, dico solo che eravamo un convoglio molto grande: forse qualcuno è riuscito a entrare, ma la strada che abbiamo seguito noi non ha portato a niente. Domani riproverò. Chiamo casa piuttosto abbacchiato e mi sfogo con Franca dicendole che se domani non riesco a entrare a Kandahar chiederò di tornare in Italia. Il mio umore è davvero sotto terra. È ormai sera tardi, sono circa le dieci e come al solito mi ritrovo con gli altri italiani del gruppo nella hall dell'albergo. Vedo musi lunghi e volti arrabbiati. Alcuni puntano il dito contro Gabriel e contro Youssuf; c'è anche chi pretende che non gli venga affidata più nessuna iniziativa, che non venga più portato con noi e che non venga nemmeno pagato. In quel momento arriva la notizia che ci atterra definitivamente: trentacinque colleghi sono entrati legalmente a Kandahar attraverso il confine. Quetta-Kandahar, mercoledì 12 dicembre Il nostro convoglio di auto, molto ristretto rispetto ai precedenti viaggi, è formato per intero da "latini": sei italiani (Peppino, Ugo, Gabriel, Marco, Fabrizio e io), sei giornalisti spagnoli di TVE3, TVE3 Catalunya, «El Periodico» e Radio TVE, e tre messicani di Televisa, la televisione nazionale messicana. Partiamo con la solita scorta di polizia pakistana fino al confine per Chaman, e qui notiamo che la situazione è più tranquilla, la tensione si è allentata. Anche la polizia ha un atteggiamento di maggiore disponibilità nei nostri confronti. Ieri sono già passati molti giornalisti e forse le autorità hanno avuto disposizioni di far passare la stampa internazionale senza creare problemi. Stefano Tura
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Arriviamo al confine e finalmente riusciamo a superare il punto dove i poliziotti ci avevano fermato l'altro giorno: dopo averci tenuti fermi per cinque o dieci minuti, alzano la sbarra e ci fanno passare. Non abbiamo però passato il confine: siamo solo entrati nella no man's land, che l'arretramento della frontiera ha ulteriormente ampliato Veniamo poi fatti ancora sostare nell'ufficio della polizia di frontiera pakistana. Un ufficiale piuttosto insofferente e scontroso ci controlla i passaporti. Scopre che solo tre o quattro di noi - fra cui io e Peppino - hanno il passaporto in regola. Questo, in un paese "normale", comporterebbe l'impossibilità di superare il confine; tutto si risolve invece con una lauta mancia all'ufficiale, che si traduce nei timbri necessari. La trattativa è comunque lunga e macchinosa: gli interpreti dei vari giornalisti si mettono in mezzo e, come succede sempre in questo paese, si perde un sacco di tempo prima di poter riavere indietro i passaporti. La mia frustrazione di ieri, unita a queste altre piccole beghe, mi fa venire voglia di mandare a quel paese questi poliziotti corrotti e perditempo - il mio tempo, che mi sembra sempre più prezioso. Per calmarmi, salgo sul pulmino dei messicani, che sono i più tranquilli e fatalisti. Vorrebbero ascoltare una cassetta di musica rock. Considerando che siamo in pieno Ramadan, e per di più ci troviamo al confine tra Pakistan e Afghanistan, glielo sconsiglio. Ci ritroviamo a parlare dei prossimi mondiali di calcio. Il Messico si trova nello stesso girone dell'Italia, con Croazia ed Ecuador. Facciamo allora una sorta di accordo ideale: Italia-Messico deve finire, come dicono loro, empate. Pareggiando saremo certi di passare entrambi il turno. Ci facciamo quattro risate: scarichiamo così la tensione. Lo stratagemma funziona. Quando ci lasciano andare sono passate quasi due ore. Riprendiamo la marcia nella no man's land: all'altro estremo di questa fascia, non più larga di un chilometro e mezzo, non troveremo polizia o esercito ad aspettarci. Alle 14,21 guardo l'orologio e chiedo a Mushtaq dove ci troviamo. Mi risponde: «In Afghanistan!». È il momento più emozionante di tutta la mia trasferta, e vedo la stessa emozione nello sguardo di Mushtaq: gli brillano letteralmente gli occhi. «È la prima volta che sono in Afghanistan», ripete, come se non lo sapessi. Non sappiamo neanche come arrivare a Kandahar, ma le ruote della nostra jeep sono in territorio afgano. In realtà non è cambiato assolutamente niente: il panorama è lo stesso, la sabbia, la polvere e il caldo sono gli stessi. Ma siamo in Afghanistan. Stefano Tura
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Il viaggio dura pochissimo: dopo nemmeno cinque minuti il nostro convoglio viene dirottato all'interno di uno spiazzo tra alcune case di paglia. Evidentemente, la polizia pakistana ci ha fatto passare sapendo bene che di lì a poco saremmo stati presi in consegna da persone armate. È una prassi di cui non eravamo a conoscenza: il Pakistan ha aperto il confine solo dopo aver raggiunto un accordo in questo senso con gli uomini di Gul Agha. Ci sono almeno una quindicina di uomini armati con kalashnikov, privi di divisa militare ma con i classici indumenti dei guerriglieri mujaheddin: tuniche, mantelli di lana, berretti pakul, turbanti. Scesi dalle macchine, ci fanno entrare in una di queste capanne e con grande cordialità ci fanno sedere e ci offrono del tè. Tutte le trattative - ti pareva - si svolgono con estrema lentezza, mentre io vorrei arrivare al più presto a Kandahar e ho sempre paura di trovare nuovi intoppi. Gli interpreti cominciano a discutere con loro: mando Mushtaq a controllare. I mujaheddin mi fanno ripetutamente segno di entrare e di sedermi, ma sono troppo nervoso per stare seduto. Esco dalla capanna e rimango fuori nello spiazzo insieme agli autisti. Il mio, Ali Madhad, sta controllando che la macchina sia a posto. Noto la sua tranquillità e la sua calma. Questi ritmi sono abbastanza consueti per lui. Peppino intanto fa alcune immagini. Le persone che abitano il villaggio ci guardano con estrema curiosità. Per loro siamo una rarità: occidentali che attraversano il confine, prima di questi giorni, non ne vedevano da anni. La vera differenza rispetto agli altri giorni è l'enorme quantità di armi che, noto, sono spuntate tra le braccia delle persone. Fino a pochi minuti prima, in Pakistan, le armi erano esclusivo appannaggio dei poliziotti. Adesso sono nelle mani di tutti. Dopo quasi un'ora tutte le persone che erano nella capanna escono e comincia una lunga e penosa trattativa. Bisogna decidere il numero di uomini di scorta e se devono salire con noi nelle nostre macchine o portare le loro, e in tal caso quante. È una vera e propria compravendita: hanno un listino molto articolato. Più sono, più costano; se salgono con noi in macchina costano meno, se devono prendere le loro il prezzo cresce. Se oltre alle due macchine che ci scortano in testa e in coda ce n'è un'altra nel mezzo, la spesa è ancora superiore. Alla fine ci accordiamo per dieci uomini armati in due pick-up: uno alla guida del convoglio e uno in chiusura. La cifra che pattuiamo è di parecchie centinaia di dollari a testa, da raddoppiare per l'eventuale Stefano Tura
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ritorno; verranno sborsati solo all'arrivo a Kandahar. Finalmente saliamo in macchina: ogni volta che incrocio lo sguardo di questi uomini armati mi lanciano grandi sorrisi. Sembrano interpretare la situazione come una simpatica scampagnata, neanche fossimo un gruppo di amici. La cosa che un po' mi preoccupa è che sono giovanissimi, non hanno neanche vent'anni, per quel che posso indovinare. I capi che hanno condotto la trattativa raggiungono al più i trenta. Ormai, comunque sia, è un rischio che ho deciso di correre: voglio concludere il mio lavoro arrivando in Afghanistan e raccontare Kandahar, che non è stata ancora raccontata da nessuno tranne che, alla loro maniera, dalla CNN. Ci allontaniamo dalla zona abitata ed entriamo nel deserto, circondato dalle montagne. Una tempesta di pensieri mi invade. Le dieci persone che ci stanno scortando devono immaginare che ognuno di noi, oltre a quelle centinaia di dollari che sganceremo all'arrivo, abbia parecchi altri contanti. Sono solo in dieci, ma loro sono tutti armati: nessuno gli vieta, dopo pochi chilometri, di fermare le macchine, spogliarci di tutto e lasciarci lì. E se poi volessero eliminare prove e testimoni del loro reato? Potrebbero tranquillamente ucciderci e raccontare di essere stati attaccati da un gruppo di talebani in fuga, da un'altra tribù o dai banditi; potrebbero dire che c'è stato un conflitto a fuoco di cui purtroppo i giornalisti hanno fatto le spese. Adesso capisco anche cosa avranno provato Maria Grazia Cutuli e gli altri colleghi quando sono partiti alla volta di Kabul. È vero, loro non avevano una scorta armata come noi, ma la situazione non è poi così diversa. Dopo pochi minuti, ci troviamo già lontani da qualsiasi centro abitato: siamo solo noi e i due pick-up che ci scortano. Il pick-up in testa ha issato una rudimentale bandiera: un paletto di legno e una stoffa di colore verde, rosso e nero: il vessillo dei mujaheddin, che diverrà forse la nuova bandiera dell'Afghanistan post-talebano. Guardo Mushtaq e Ali Madhad e li vedo sereni, persino divertiti; mentre negli sguardi di Peppino leggo la mia stessa preoccupazione. Non ci diciamo niente: restiamo in silenzio con i nostri timori. Il territorio, rispetto al Pakistan, comincia a cambiare leggermente. Le montagne sembrano più alte e il fatto che non ci siano automobili viaggiamo circondati da una quiete assoluta - rende il paesaggio davvero commovente. Si avvicina il tramonto e il sole si riflette nei gialli e nei rossi delle montagne. La strada invece è un disastro: i tratti asfaltati sono pochi Stefano Tura
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e spesso dobbiamo rallentare improvvisamente o fermarci: ci sono lastroni di asfalto spaccati, massi enormi e crepe profonde. Incontriamo finalmente Spinboldak: all'entrata del paese c'è un checkpoint di uomini armati. Il paese non sembra particolarmente danneggiato dai bombardamenti: avevo già saputo che si erano concentrati nella zona appena oltre Spinboldak, per accelerare la ritirata dei talebani verso Kandahar. La guerra contro i guerriglieri talebani arroccati nel villaggio l'hanno fatta i mujaheddin, senza bombe. Appena entrato nella cittadina vedo un muro contro cui sono accatastate armi di ogni genere: munizioni per missili anticarro, caricatori per mitragliatrici, fucili - tutte armi probabilmente abbandonate dai talebani. Sui tetti ci sono postazioni militari intatte, con i mitragliatori ancora puntati: mi sembra di essere entrato in una sorta di accampamento militare, più che in un centro abitato. Non vedo donne e gli unici uomini non armati sono accompagnati da bambini con cui si recano al mercato per fare la spesa. I gruppi di persone armate ci guardano con diffidenza, ma quando si accorgono della bandiera nera, verde e rossa, ci lasciano passare con tranquillità. Se non avessimo avuto la scorta, attraversare questo checkpoint ci sarebbe probabilmente costato molti altri dollari. Superato il bazar di Spinboldak troviamo un enorme accampamento di profughi che si estende su entrambi i lati della strada. Sapevo che l'avremmo trovato, e che contiene forse centomila persone: ma vederlo fa un effetto indescrivibile. Molti profughi sono arrivati qui ben prima della guerra. Le condizioni di questo campo sono molto peggiori di quelli che ho già visto: le tende sono sporche, spesso bucate, in alcuni casi completamente lacere. Il campo è rimasto per oltre un mese irraggiungibile dalle organizzazioni umanitarie e completamente abbandonato a se stesso. Al nostro passaggio, decine di bambini seminudi si avvicinano di corsa ai bordi della strada. È da qui, da questo campo, che venivano molti dei feriti da bombe che ho visto giorni fa all'ospedale di Quetta. Non possiamo fermarci. Fra Spinboldak e il prossimo villaggio, Takthapul, incontro come avevo immaginato molti crateri formati dalle bombe scaricate sulle teste dei talibani in ritirata; ma a parte questo niente, nemmeno la strada. Viaggiamo a passo lento, in fila indiana. Giungiamo a un ponte completamente distrutto, già bombardato durante l'invasione sovietica; da allora nessuno ha mai pensato di ripararlo. I gravi conflitti tribali che hanno destabilizzato la zona anche durante il regime di Omar Stefano Tura
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hanno indotto i talebani a non facilitare le comunicazioni. Dopo circa un'ora di viaggio ci fermiamo: il sole è sceso dietro alle montagne, ma c'è ancora luce. Comincio di nuovo ad avere qualche preoccupazione, perché siamo in pieno deserto e non passa assolutamente nessuno. Le persone della nostra scorta si avvicinano alla prima macchina (noi siamo nella penultima), parlano un po' con loro, dopo di che scendono tutti. Non capisco cosa succede. A un certo punto, però, vedo un collega spagnolo che fa pipì e mi tranquillizzo: è arrivato il momento della preghiera e la scorta si è dovuta fermare a pregare. Mushtaq e Ali Madhad rimangono con noi e non pregano: Mushtaq mi ha spiegato che prega varie volte durante la giornata, ma non sempre a orari precisi. Mi allontano dalla strada per fare pipì anch'io e dopo qualche decina di metri mi rendo conto di aver fatto un'altra grossa stupidaggine. La zona intorno a Kandahar è una delle più minate dell'Afghanistan. Mentre ritorno alla macchina con la massima cautela, cercando di percorrere le mie stesse orme, non smetto di darmi del cretino: ho dimenticato una delle prime regole che mi ero proposto di osservare quando fossi entrato in Afghanistan. Dopo alcuni chilometri cominciamo a vedere, oltre ai crateri, i primi carri armati distrutti, enormi pezzi di lamiera sparsi un po' ovunque, bunker ridotti in macerie, postazioni contraeree abbandonate. Takthapul è un villaggio minuscolo: ci sono quattro o cinque capanne, qualche chiosco e una specie di caserma diroccata. Mi chiedo se fosse già così o se sia stata rasa al suolo. Non troviamo nessuno. Il convoglio si ferma nuovamente per consentire alla scorta di pregare. Qualcuno ne approfitta per fare delle foto, Peppino prende qualche immagine. Ormai cominciamo a fidarci dei nostri accompagnatori e, finita la preghiera, scambiamo con loro anche qualche battuta. Intanto si è fatto buio. Il resto del viaggio si svolge nell'oscurità. Alle sette e mezzo, dopo quattro ore dalla partenza, arriviamo all'aeroporto della città santa, la zona dove i talebani hanno resistito più accanitamente: è dunque una delle zone più colpite dai bombardamenti. Lo scalo è sulla sinistra, ma non è illuminato. Riusciamo a vedere solo l'insegna e, in lontananza, una costruzione distrutta che potrebbe essere un hangar. Scorgiamo anche la coda bruciata di qualche aereo. Passa ancora mezz'ora, prima di arrivare alla periferia di Kandahar e di vedere le prime luci. In città, evidentemente, c'è l'energia elettrica, e per Stefano Tura
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lavorare non ci sarà bisogno di un generatore. Entriamo a Kandahar in colonna: lungo la strada incontriamo vari gruppi di persone che imbracciano kalashnikov e un check-point che superiamo facilmente, visto che siamo con gli uomini del governatore. Tiro giù il finestrino per respirare l'aria di questa città e sento subito i colpi di kalashnikov che risuonano ripetuti e continui, solo con piccole pause. Finalmente, la strada è asfaltata e passiamo velocemente attraverso i quartieri di case costruite in pietra e fango. Vedo case distrutte, edifici bombardati, cumuli di macerie: in cima, uomini armati che camminano, frugano, stanno seduti. Arriviamo al centro della città fuori da un palazzo maestoso in muratura a due piani, circondato da un parco. Ci spalancano il cancello, percorriamo il parco e arriviamo di fronte all'edificio che, veniamo a sapere, è la residenza del governatore Gul Agha. Quando scendiamo ci abbracciamo tutti come se fossimo riusciti a compiere chissà quale missione. Intorno alla casa ci sono decine e decine di mujaheddin armati: vedendo il nostro entusiasmo, ci sorridono. Dopo qualche minuto si passa alla colletta. Gabriel e Ugo raccolgono i soldi, li consegnano alla scorta, che a questo punto si dilegua. Superata l'emozione, comincio a pensare al lavoro: devo trovare una storia per la sera e per montarla e trasmetterla ho assolutamente bisogno di trovare Raphael. Non lo vedo ancora. Incontro però altri colleghi che erano con noi a Quetta ma con cui a stento ci salutavamo: eppure, il fatto di ritrovarci a Kandahar scatena larghi sorrisi, strette di mano, pacche sulle spalle neanche fossimo amici fraterni. C'è anche Indira, la giornalista americana con cui avevo comprato le caramelle di Super Osama. Siamo ormai arrivati quasi tutti: eravamo duecento all'hotel di Quetta e adesso siamo duecento a Kandahar. Il governatore ci accoglie momentaneamente nel parco della sua residenza, ma dobbiamo trovare prima della notte un'altra sistemazione. Vengo a sapere che Raphael non è qui. Chiamo Roma col satellitare: sono le otto di sera, le quattro del pomeriggio in Italia, esattamente l'orario d'inizio della riunione di redazione in cui si stabilisce cosa mandare in onda nel telegiornale della sera. Parlo con uno dei colleghi della redazione esteri dicendo che siamo arrivati a Kandahar: ci fa i complimenti e ci risponde che l'apertura, o almeno il pezzo di spalla, sarà il mio servizio. Sono felice, sì: ma quale servizio? Se non trovo Raphael sono nei guai, potrei solo fare una corrispondenza telefonica. Stefano Tura
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Nella gran confusione che regna qui ho anche perso di vista Mushtaq. Lo ritrovo che scatta foto all'impazzata, più o meno a tutto quello che vede. Lo raggiungo e gli dico che dobbiamo metterci alla ricerca dei colleghi dell'APTN. Con lo sguardo carico di eccitazione, mi porta per mano in un angolo del parco dove bivaccano alcune persone armate: «Guardali», mi dice, «sono tutti hazara!». In effetti hanno tutti i suoi stessi occhi stretti, a fessura, simili a quelli dei mongoli. Musthaq sembra considerarli come fratelli. In questa zona quasi l'ottanta per cento della popolazione è pashtun, e per Mushtaq trovare persone della sua etnia è una cosa importantissima. Gli chiedo se i suoi amici possono aiutarci a trovare Raphael. Sono ormai le otto e mezzo: sta per scattare il coprifuoco, e non si potrà più girare liberamente per le strade se non si è autorizzati. Ci sono pattugliamenti continui. Alcuni colleghi dormiranno qui nel parco del governatore, altri hanno già trovato una sistemazione alternativa. Mushtaq ha legato in particolare con Shirkan, un ragazzo hazara di circa ventisette anni. Shirkan spiega a Mushtaq la strada per arrivare in tre luoghi nei quali sono alloggiati i giornalisti occidentali e dove dunque potremmo trovare Raphael: due di questi sono guest-house, il terzo è un non meglio specificato edificio. Lui non ci può accompagnare: ha l'ordine di rimanere a pattugliare la casa del governatore. Mushtaq mi ricorda che il coprifuoco è già scattato e non siamo autorizzati a uscire, ma non ho scelta: devo rischiare. Usciamo dal palazzo del governatore: le guardie che sono al cancello ci scrutano perplesse ma Shirkan ci accompagna fino al cancello e li convince a farci passare. Giriamo per Kandahar durante il coprifuoco: unica scorta, le indicazioni sommarie che Mushtaq ha ricevuto dal suo amico. Sono le otto e quaranta e il tappeto sonoro è sempre lo stesso: continui colpi di kalashnikov e di mitragliatrice. La nostra macchina non è blindata e siamo privi di giubbotti antiproiettile: se avessi lavorato alla CNN, nessuno mi avrebbe mai permesso di uscire da quel cancello. Certo, in compenso avrei avuto ogni genere di satellite a disposizione... Comunque, con un po' di fatica ma senza fare brutti incontri, arriviamo alla prima guest-house. In giro non c'è anima viva, le strade sono poco illuminate e anche le case: è la prima volta che mi trovo per strada durante un coprifuoco. La guest-house è un edificio a due piani semidiroccato. L'entrata è presidiata da persone armate; chiediamo a uno di loro se i Stefano Tura
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giornalisti dell'APTN risiedono qui. Abbiamo grosse difficoltà a farci capire: Mushtaq stesso riesce appena a capire cosa gli dicono, sono di un'etnia diversa dalla sua. Comunque ci fanno segno di salire. I corridoi sono vuoti. Dopo qualche minuto incontro una fotografa americana che ho conosciuto a Quetta e le chiedo se l'APTN è qui. Mi risponde che non lo sa, ma forse i colleghi di Fox News, un grande network americano, possono aiutarmi. La loro stanza è proprio qui vicino. Busso ripetutamente ma non mi risponde nessuno. Capisco che sto di nuovo perdendo tempo, e abbandono il tentativo: usciamo dalla guest-house e torniamo per strada. Ricominciamo a girovagare: intanto penso alla facilità con cui siamo riusciti a entrare in questo posto che è stato assegnato ai giornalisti stranieri e che dovrebbe essere rigidamente tutelato. Qui nessuno è veramente al sicuro. Quando stiamo per arrivare al secondo posto assegnato ai giornalisti veniamo fermati da una jeep dalla quale scendono alcuni uomini armati piuttosto agitati. Si rivolgono subito a me, piuttosto duramente, in una lingua incomprensibile. Ci fanno scendere dalla macchina, solo l'autista rimane dentro. Sono in sei. Mentre Mushtaq parla con loro mi rendo conto che è una buona occasione per fare un po' di riprese. Dico a Peppino di accendere la telecamera e riprendere tutta la scena. Quando vedo che la situazione si sta tranquillizzando mi viene un'idea: requisisco due di questi soldati, i meno agitati, me li metto di fianco, uno a destra e l'altro a sinistra, con le armi in pugno e faccio uno stand-up raccontando quello che sta succedendo. A Kandahar è già scesa la notte, c'è il coprifuoco e nessun giornalista è autorizzato a girare per la città. Pattuglie armate controllano le strade. Parlo come se fossi in diretta. Gli altri quattro soldati mi guardano e rimangono a bocca aperta. La scena è quasi comica: li ho completamente spiazzati. Prima che si riprendano e si innervosiscano, Mushtaq riesce a rassicurarli del fatto che ce ne stiamo andando; e così ripartiamo. In macchina poi mi dice che i mujaheddin gli hanno chiesto insistentemente la parola d'ordine per rimanere fuori durante il coprifuoco, e lui ha spiegato che eravamo appena arrivati e stavamo cercando la casa del governatore. Loro si erano proposti di accompagnarci, ma questo ci avrebbe impedito di andare in cerca di Raphael: ha dovuto sudare per ottenere che potessimo andar via senza di loro. Dovremo però allontanarci un po' e fare un altro giro per tornare qui nei pressi: siamo proprio vicini alla seconda guest-house. Stefano Tura
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Passando vediamo un edificio completamente distrutto dai bombardamenti: la cosa che mi colpisce è che è l'unica costruzione rasa al suolo in una fila di case perfettamente integre: vengo poi a sapere che si tratta dei resti della centrale di polizia dei talebani. Riusciamo finalmente a trovare la seconda guest-house: un edificio circondato da una specie di cortile, con alcuni uomini armati che fanno la guardia. Nel cortile vedo parcheggiati vari fuoristrada, ma non la Toyota dell'APTN. Spero che ci sia comunque lui: questo posto è meglio organizzato del primo e le persone armate hanno una lista di quelli che sono dentro. Purtroppo per noi, Raphael non è nella lista. Salgo nelle stanze per vedere se per caso riesco a trovare qualcuno che conosce Raphael. Incontro Ramòn, un giornalista spagnolo che era a Quetta, ma non mi sa dare nessuna indicazione. Mi dice però che nel centro della città, vicino a un certo arco, c'è un altro posto dove sono accampati i giornalisti internazionali; è il terzo posto che è stato indicato a Mushtaq. Ripartiamo con il timore di incontrare altri posti di blocco e - sono ormai le dieci e mezzo - arriviamo all'arco di cui ci hanno parlato. Si avvicina l'ora dell'inizio del Tg e cresce il mio nervosismo. Scendo dalla macchina. Vicino all'arco non vediamo luci o edifici, penso per un attimo di aver completamente sbagliato zona. Mushtaq, Peppino e io ci sparpagliamo, mentre Ali Madhad rimane nella macchina, che deve essere sempre sorvegliata. Finalmente lungo un muro si apre un cancello e ne esce una jeep militare: inizialmente ho l'istinto di nascondermi, ma quando il cancello è completamente aperto vedo dentro questo spiazzo un gran numero di fuoristrada che portano le scritte di varie testate giornalistiche, e capisco che è questo il posto che cerchiamo. Mi precipito dentro: mi guardo a destra e a sinistra e a un certo punto vedo Raphael uscire da una casupola. Mi precipito verso di lui, ci abbracciamo, lui mi chiede che fine ho fatto, che diavolo mi è successo. Gli dico che poi gli spiegherò tutto ma che adesso ho assolutamente bisogno del suo aiuto, di non muoversi da lì che devo chiamare gli altri. Mi sorride e mi dice: «Da qui non si può muovere nessuno!». Mi guardo intorno, e vedo decine di giornalisti che fanno di tutto: molti parlano freneticamente nel proprio satellitare, altri hanno collegato i loro computer portatili in una sorta di bizzarro totem di cavi elettrici aggrovigliati, altri ancora consultano appunti e si scambiano informazioni, alcuni infine fumano tranquillamente. Esco urlando a Peppino e a Mushtaq che ho trovato il posto, e gli faccio Stefano Tura
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segno di entrare con la macchina. Nel frattempo, i sorveglianti guardano preoccupati il casino che sto combinando. Provano a domandarmi qualcosa, ma li liquido bruscamente dicendogli che ci penserà Mushtaq, il mio interprete, a parlare con loro. A Mushtaq faccio presente che avrò bisogno di un'ora completamente libera per concentrarmi sul lavoro e gli chiedo se può occuparsi lui di trovare una sistemazione per tutti e tre. Raphael è disponibilissimo ad aiutarci: ha già finito il suo lavoro. Ci mette a disposizione anche le immagini che ha girato, le testimonianze che ha raccolto durante il giorno. Gli chiedo di preparare il videotelefono per la trasmissione e la valigetta del montaggio. Lui mi ricorda che per mandare a Londra un minuto di materiale ce ne vogliono quaranta: faccio due conti e scopro di non avere molto tempo. Chiamo Roma e dico che l'APTN mi mette in grado di mandare il servizio e che dunque, nei prossimi giorni, con loro bisognerà fare un contratto. Scrivo di getto il testo del servizio: racconto il viaggio, l'arrivo a Kandahar, le mie prime impressioni, il giro durante il coprifuoco. Inserisco anche alcune testimonianze raccolte dai colleghi: la gente è spaventata ma comincia a riprendere la vita normale, soprattutto di giorno; i negozi sono aperti, l'elettricità c'è in quasi tutta la città. Ci sono zone distrutte soprattutto nella periferia e vicino l'aeroporto, dove la Croce Rossa sta recuperando i corpi delle vittime. Racconto anche della caccia ai talebani e ai miliziani arabi in fuga e delle atroci ritorsioni che subiscono quando vengono intercettati. I leader politici locali, Naqib Ullah e Gul Agha, stanno tentando di trovare un accordo per il governo della città sotto la supervisione di Hamid Karzai, che si trova a Kandahar e ha preso possesso dell'ex residenza del mullah Omar: nel frattempo, però, regna una semi-anarchia, e contingenti armati di varie tribù circolano per la città. I marines, come si sospettava, non sono relegati nel campo di Dolangi: ce ne sono anche nel quartier generale di Karzai e alcune jeep americane sono state viste girare per la città. Montiamo il servizio: è lungo un minuto e venti. Ora tocca alla trasmissione. Basta che cada il collegamento una volta e dovremmo ricominciare da parecchi secondi prima dell'interruzione: questo significherebbe rimandare la messa in onda al Tg della notte. Sono cinquanta minuti lunghissimi. Fortunatamente la linea non cade, siamo orientati verso un satellite indiano molto forte. Intorno a noi ci sono almeno una ventina di telefoni satellitari accesi: la nostra salute riceve un grosso colpo... Quando riceviamo l'ok da Londra tiro un gran sospiro di Stefano Tura
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sollievo. Avverto Roma che possono fare richiesta per ricevere il servizio. Alle otto meno un quarto ora italiana ricevo la conferma che la trasmissione è andata a buon fine e che andrà regolarmente in onda. È un momento di grande soddisfazione: la prima testimonianza italiana a Kandahar verrà vista da milioni di italiani. Ora sì che avrei voglia di una birra. Ma figuriamoci. Mi rilasso per mezz'ora, immaginando il Tg che scorre, e alle otto e mezzo ora italiana chiamo a casa. Franca mi ha visto: il servizio le è piaciuto; è contenta per me, visto che sono riuscito ad arrivare a Kandahar senza problemi. Sa quanto ci tenevo. Rispetto agli scorsi giorni, mi sente felice: c'è un tacito accordo di non sciupare questo momento, di rimuovere la parte pericolosa della faccenda. Raphael mi mostra il posto in cui dormono i giornalisti. Continuando a usare la similitudine dell'officina, il garage è adibito a dormitorio. I colleghi sono disposti tutti in fila lungo le pareti, con i sacchi a pelo e i computer. C'è chi dorme e chi, facendo uso di una pila, legge o scrive: è un accampamento molto vivo e colorato, e anche piuttosto caldo. Ma per noi non c'è posto. Mushtaq mi raggiunge e mi dice trionfante che ci ha pensato lui: «Per stanotte è tutto a posto, non ti preoccupare». Fa segno a me e a Peppino di seguirlo. Ci guida attraverso il grande cortile, poi oltre un paio di costruzioni, fino alla porta di legno di una capanna a un piano di terra e argilla, senza finestre. Dentro non c'è niente: è una stanza spoglia, umida, sporca, di pochi metri quadri, in cui si può stare sdraiati per terra in tre, non di più; Mushtaq, orgoglioso, ci annuncia: «Ecco, stiamo qua». Ha già portato alcune coperte e mi assicura che noi tre ci staremo benissimo. Ali Madhad, invece, dormirà in macchina. Indossiamo maglioni, giacca a vento e calzettoni e ci ficchiamo sotto le coperte. «Bene, adesso possiamo cenare», fa Mushtaq. Ho lo stomaco chiuso, ma provo un senso di leggera euforia e la vista di Peppino, Mushtaq e Ali Madhad che cominciano a tirare fuori scatolette di tonno, cioccolata, tè e caffè mi fa venir voglia di mangiare qualcosa. In un certo senso, è il pasto dopo la battaglia vinta. Ci prepariamo per dormire: io in fondo, Mushtaq in mezzo, Peppino vicino alla porta. Mushtaq mi dice: «Dormo sempre così, per terra. Mi piace moltissimo: in un letto non riuscirei ad addormentarmi». A casa sua, aggiunge, c'è il bagno, l'energia elettrica, l'acqua corrente ma tutti dormono Stefano Tura
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in terra. Non faccio fatica a crederlo: mi viene in mente la casa del ghetto cattolico di Quetta su cui era caduto un razzo. Sul pavimento c'erano ancora le coperte. Spegniamo il prima possibile le torce elettriche (non abbiamo molte batterie) e teniamo la porta aperta: è una serata luminosa, non c'è una nuvola e il chiarore della luna si diffonde nella stanza. Presto la sensazione di rilassatezza scompare, e comincio a sentirmi ansioso: ogni sparo, ma anche ogni piccolo rumore - e ce ne sono tantissimi - cattura la mia attenzione, e rimango sveglio per ore, pensando alla giornata trascorsa e a quella che arriva. Ho messo la mia bandierina sulla mappa, ma domani l'obiettivo è più difficile: raccontare cos'è successo qui in questi tre mesi, cosa sta veramente succedendo ora. Kandahar, giovedì 13 dicembre Quando mi sveglio dal mio breve sonno, mi conforta vedere che Mushtaq si è alzato e ha preparato il tè. Abbiamo quasi l'illusione di fare una colazione normale. Poi, con la luce del giorno, una sorpresa: troviamo in un angolo della capanna, seminascosto sotto la polvere del pavimento, un libricino rosso scritto in arabo, la cui copertina raffigura un kalashnikov, due bombe a mano e una serie di munizioni che formano una specie di simbolo che, mi spiega Mushtaq, è in realtà il nome di Allah, e reca un logo: «Islamic communication». La dicitura e l'illustrazione mi fanno pensare subito che questo posto, prima dell'arrivo dei mujaheddin, fosse una base militare utilizzata dai talebani o dai miliziani arabi, o qualcosa del genere. Prendo il libretto con l'intenzione di farmelo tradurre per capirne esattamente la natura. Usciamo dalla stanza e ci laviamo in qualche modo con quel poco di acqua minerale che abbiamo. Sono le sette e mezzo e il cielo è sereno, per quel che se ne vede attraverso la cappa di smog: al rumore di spari, ora diradati, si è sostituito il rumore del traffico. Nonostante la stanchezza, sono di ottimo umore. Abbiamo tutti e tre voglia di andar fuori in strada, il prima possibile. Facendo un giro per il nostro "quartier generale" scopro che ci sono linee telefoniche smantellate o distrutte, telefoni abbandonati, cavi dell'elettricità tranciati: mi rendo conto che in effetti si trattava di Stefano Tura
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un'installazione militare. Nel cortile principale dell'accampamento troviamo i colleghi in attività frenetica: auto che partono, troupe che si organizzano per uscire, giornalisti al telefono o davanti al computer a scrivere i reportage per l'edizione del mattino di radio e televisioni. Noto con piacere che Raphael è ancora qui, e che una troupe di France 2, arrivata di fresco, è dotata di una parabola per le comunicazioni via satellite: come mi conferma Emile, il responsabile della troupe, mi sarà possibile trasmettere i servizi più rapidamente di ieri e dunque girare per la città più a lungo. Annuncio a Mushtaq il mio programma della giornata: voglio intervistare alcuni cittadini e andare nelle zone bombardate. In particolare, ho intenzione di verificare se alcuni bombardamenti abbiano mancato il bersaglio. Inoltre, voglio capire bene la situazione politico-militare della città: quali sono le fazioni che tentano di prendere il comando, se ci sono sacche di resistenza talebane, che impressioni ha la gente comune. Quasi tutti i colleghi si dirigono verso la zona dell'aeroporto, dove si è combattuto aspramente, o verso l'ospedale, dove sarebbero ancora ricoverati alcuni talebani e miliziani arabi. Cerco di prendere una strada diversa, anche perché so che potrò coprire quei due posti con immagini di agenzia. Mushtaq mi risponde di essersi messo d'accordo con Shirkan la sera precedente. Sarà lui la nostra guida: oggi non deve fare sorveglianza nella residenza del governatore. Gli chiedo se è il caso che Shirkan venga armato; Mushtaq dice che sta a noi deciderlo. Se sarà armato, la gente ci guarderà con diffidenza; d'altro canto, tengo alla nostra sicurezza. Mushtaq mi dice che Shirkan conosce tutti e stare con lui è già una garanzia. Andiamo alla casa del governatore e troviamo il cancello chiuso; davanti, una folla enorme preme per entrare. Questa volta nemmeno noi siamo autorizzati, e non capisco neanche bene perché. La gente ci circonda, come se pensassero di poter entrare tramite noi; Mushtaq mi spiega che vogliono da mangiare e vogliono sapere cosa sarà di loro: c'è chi ha perso un negozio o il lavoro ed è sul lastrico, ora vuole garantirsi una fetta dei beni che verranno distribuiti dalle organizzazioni umanitarie. Molti urlano, si lamentano, battono i pugni: sono esasperati. Capisco che per loro il difficile viene ora, finita la guerra. Kandahar è prostrata: questo mese di guerra ha distrutto buona parte delle già scarse risorse della città. Stefano Tura
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Questa gente chiede che qualcuno si occupi di loro non soltanto come pedine del consenso e curi i feriti e i malati, porti il cibo, procuri lavoro, consenta loro di sopravvivere. Parlando con le guardie, Mushtaq riesce ad entrare nella casa del governatore. Ne esce dopo mezz'ora con Shirkan, e ci avviamo tutti e cinque per le strade del centro. L'impressione che ne ricavo non è dissimile da quella che mi hanno dato le città del Pakistan, soprattutto nel sud. Le facce sono le stesse, l'architettura è molto simile: l'unica grossa differenza è l'enorme numero di persone armate di kalashnikov e fucili di ogni genere, e i check-point rudimentali che troviamo ovunque e passiamo con facilità grazie alla presenza di Shirkan e alla nostra scritta «Italian Press». Sono ripresi, intanto, i rumori di spari; ne chiedo il motivo a Shirkan. Mi risponde di non preoccuparmi: sono quasi tutti spari «di gioia», e solo in alcune zone servono probabilmente per disperdere la folla e riportare l'ordine. Gli chiedo se queste zone sono pericolose e lui, contraddicendosi, mi risponde con un laconico «sì». I civili sono in attività frenetica: c'è un grande viavai apparentemente senza senso. Tutti a piedi, naturalmente: i pochi mezzi motorizzati che vediamo appartengono a soldati o a giornalisti. Le donne, pochissime, sono tutte rigorosamente in burqa. Dovunque, bambini sporchi e scalzi, spesso senza adulti accanto. Ci guardano con molta più curiosità dei loro coetanei pakistani: non hanno mai visto occidentali. Il regime dei talebani non consentiva se non eccezionalmente l'ingresso nel paese, e tanto meno l'accesso a Kandahar, la città del mullah Omar, la culla del potere talebano. Non ci hanno mai visto, ma sanno che siamo ricchi: la curiosità si trasforma in un assalto, alla ricerca di un poco d'elemosina. L'ennesimo check-point fa da confine fra il centro e la periferia. Finora ho visto solo un edificio raso al suolo, la centrale della polizia; anche le abitazioni immediatamente circostanti erano intatte. Usciti dal centro ci troviamo in una zona particolarmente colpita: la via principale di comunicazione - che a un certo punto si biforca: a est verso il Pakistan, a nord verso Kabul - è letteralmente devastata. Probabilmente è stata bombardata per tagliare una delle vie di fuga e di approvvigionamento. Grosse pietre ricoprono quello che una volta era il manto stradale. Il cartello che indica la direzione di Kabul è emblematicamente abbattuto e riposa su un cumulo di macerie. Shirkan mi spiega che ci stiamo dirigendo Stefano Tura
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verso la centrale dei trasporti di Kandahar. I talebani l'avevano riciclata come deposito di mezzi motorizzati e per questo è stata fra i primi obiettivi dei bombardamenti. L'area è recintata e controllata da sette uomini armati. Shirkan e Mushtaq parlottano con loro per qualche secondo, dopo di che non abbiamo problemi a entrare con la jeep. Non ci sono altri giornalisti. L'enorme complesso di capannoni è completamente distrutto, punteggiato di crateri. Un po' ovunque, come fantasmi, relitti di jeep, camion, pulmini. In terra un numero enorme di schegge di bombe. Non appena ne sfioro una mi taglio: tento di immaginare l'effetto che fanno sui corpi, quando viaggiano a centinaia di chilometri all'ora. Ci addentriamo fra le rovine. Siamo sempre scortati dai guardiani armati: c'è però il pericolo di ferirsi con lamiere, vetri, schegge. Inoltre i talebani, ci avverte Shirkan, potrebbero aver lasciato delle mine per vendetta; e potrebbero anche esserci bombe "alleate" inesplose. Il nostro raggio di azione rimane quindi circoscritto alle zone che ci vengono indicate come sicure. Noto un camion bombardato che porta la scritta «World Food Program». Una delle guardie mi dice che a poca distanza da lì c'è un magazzino del Program, in cui lavoravano decine di volontari afgani, che è stato completamente raso al suolo: un "effetto collaterale" del bombardamento del deposito. I volontari sono tutti morti. Ci incamminiamo subito verso il magazzino: subito mi colpiscono i sacchi rotti di cereali e altri beni di prima necessità, abbandonati fra schegge e macerie. Questa notizia sarà uno degli elementi fondamentali del mio servizio. Mostrerò il bombardamento intelligente della centrale di polizia, ma anche questo bombardamento, che sembra troppo "idiota" per esserlo davvero. Non riesco, infatti, a reprimere il dubbio che il magazzino sia stato colpito per tagliare le scorte alla resistenza talebana. Raccolgo le immagini e le testimonianze delle guardie. Usciamo da Kandahar per alcuni chilometri e ci dirigiamo verso Kishlay, la maggiore installazione militare talebana della zona. La strada che porta a Kishlay è circondata dal deserto; gli alberi che si trovavano sui suoi lati sono stati tutti tagliati per ampliare al massimo la visuale e di conseguenza il controllo. Prima dell'ingresso, incontriamo varie trincee e bunker, destinati alla tutela dell'area dagli intrusi. Shirkan conosce quest'area perché è un militare: è una zona difficilmente raggiungibile e Stefano Tura
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poco battuta, fuori dalle vie principali di avvicinamento e di uscita dalla città. Inizialmente, i mujaheddin che presidiano l'ingresso non vogliono farci passare; Shirkan, dopo qualche trattativa, riesce a convincerli. Il panorama che ci si presenta è spettrale, ma a suo modo suggestivo. È un'area davvero enorme, utilizzata dai talebani come base operativa e come deposito di mezzi militari di terra. Per questo, è stata anch'essa fra i primi obiettivi dei bombardamenti. Vedo carri armati bruciati a centinaia: non mi sono mai trovato in mezzo a tanti mezzi militari distrutti. Ci sono crateri enormi, resti di edifici; ma la cosa più impressionante sono le bombe sparpagliate lungo il cammino. Siamo in macchina, e tentiamo di rimanere nei solchi delle altre auto che hanno attraversato il campo, ma da una parte e dall'altra della strada ci sono centinaia di bombe sganciate dagli aerei e inesplose, che si sommano a quelle che si trovavano all'interno dei carri armati. Le schegge che vedo hanno le dimensioni della portiera di un'auto. Nessuno, dalla fine della guerra, ha messo piede in questo posto: alcune postazioni hanno le loro mitragliatrici antiaeree con il caricatore ancora inserito. Evidentemente, sono state abbandonate all'improvviso. Ovunque vediamo mitragliatori e kalashnikov, per lo più distrutti, ma alcuni integri; e poi razzi, segnalatori, enormi scatole di munizioni: un arsenale di grosse dimensioni. Peppino, che è un appassionato di reperti militari, fa scorta di armi ancora funzionanti e di proiettili, di bussole e di mappe. A un certo punto ci dividiamo: sono curioso di esplorare i dintorni e ho bisogno dell'aiuto di Mushtaq e Shirkan; Peppino intanto si sposta da una parte all'altra per fare le riprese. Mentre sono fermo a osservare un carro armato incendiato, vedo Shirkan con una bomba in braccio. La scena mi fa accapponare la pelle: la bomba è spolettata. Gli dico di metterla subito giù. Mi dice di non preoccuparmi, perché sa come utilizzarla, ma comunque, fortunatamente, la posa a terra. Mushtaq scatta foto a ripetizione. I miei compagni sembrano tutti eccitati dalla situazione. Io, invece, provo una grande inquietudine, che si accresce quando vedo all'orizzonte un gruppetto di cinque persone che sparano: sembrano colpi di kalashnikov. Si stanno avvicinando a noi, e non capisco se sparano per attirare la nostra attenzione o se tirano a noi. Ci ripariamo dietro la macchina e aspettiamo: neanche Shirkan e Mushtaq capiscono chi siano. Si avvicinano ancora. Ho una reazione istintiva: prendo la cassetta con tutto quello che Peppino ha girato, la nascondo in un'intercapedine tra la Stefano Tura
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carrozzeria e il rivestimento della macchina e gli do una cassetta vergine. Non voglio che le immagini ci vengano requisite. A mano a mano che si fanno più vicini, capiamo che si tratta di mujaheddin, ma di un altro gruppo, non di quelli che controllano la città. Probabilmente sono uomini di Karzai e non di Gul Agha. Shirkan non dà segno di riconoscerli. Mando avanti Mushtaq per parlargli: si allontanano di un centinaio di metri e, dopo pochi secondi, noto con sollievo che si stringono la mano. Ce li presentano, e Mushtaq ci spiega la situazione. Stavano sparando per attirare la nostra attenzione, perché non avevano capito chi fossimo e cosa stessimo facendo. Sono preposti alla guardia del campo e ci fanno capire che non dovremmo essere lì: è una zona non bonificata. Di conseguenza, ci allontaniamo presto, anche perché Mushtaq ci avverte che, per continuare a fare riprese, potrebbero chiederci dei soldi. Sono già molto soddisfatto, perché in poche ore abbiamo visto luoghi che nessun altro ha visto; ma non è finita. Shirkan fa segno ad Ali Madhad di prendere una svolta. Arriviamo in un quartiere di Kandahar abitato soprattutto da arabi. È una zona stranamente residenziale: le palazzine sono quasi tutte a due piani, e sono strutturate come fortini, con mura di cinta molto alte; molte sono state bombardate. Shirkan ci porta in una casa distrutta, abitata in passato da un arabo molto ricco di nome Mohamad bin Hassan. La casa a due piani, piena di finestre e terrazzi, decorate da scritte arabe sui muri, sormontata da una gran quantità di antenne e parabole, era probabilmente sia l'abitazione sia l'ufficio del notabile. Shirkan ci spiega che quest'arabo era direttamente collegato ai talebani e, così si pensa, anche ad Al Qaeda. La casa è sigillata, e non si può entrare, ma Shirkan non se ne dà cura: ci sta portando infatti verso il pezzo forte, ovvero la casa in cui ha abitato il mullah Omar fino a quando si è trasferito nell'attuale quartier generale di Karzai, ovvero fino circa a metà giugno. Mi spiega che decise di andarsene perché qualcuno, che non è mai stato identificato, lanciò dei missili contro la sua residenza - residenza che ospitava anche una sorta di segreteria politica del suo movimento. La casa è sotto sequestro, ma i militari che la controllano sono vecchie conoscenze di Shirkan e non abbiamo problemi a entrare. Le mura sono alte quasi tre metri e da fuori gli edifici centrali, circondati anche da un grosso parco, non sono visibili. Ci sono due corpi principali: la dependance, una piccola costruzione a un piano che è rimasta intatta, dove attualmente abitano i militari di guardia, e poi la residenza vera e Stefano Tura
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propria, collocata sulla sommità di un piccolo terrapieno. La parte dedicata agli uffici è completamente distrutta, quella residenziale lo è solo in parte. Tutte le mura esterne sono di colore rosa: un fatto molto strano da queste parti, dove tutti gli edifici sono gialli o marroni, quasi a mimetizzarsi col deserto. Negli ultimi giorni, gli americani hanno bombardato la villa, già sventrata dai missili a giugno. Un anziano militare, che parla inglese, è ben contento di lasciarmi fare delle riprese. Mi accompagna personalmente nella parte dell'edificio centrale che, nonostante sia pericolante, è ancora in piedi. Bisogna procedere, però, con estrema cautela: il soffitto è sfondato, alcune pietre pendono dall'alto e il pavimento è pieno di vetri e macerie. In questa zona della casa trovo parecchi documenti sparpagliati. Per terra noto subito alcuni volantini scritti in caratteri arabi, ma in lingua pashtun, che raffigurano la faccia di Bin Laden e di alcuni stretti collaboratori, fra cui l'egiziano Al Zawahari; sul verso, le stesse facce scarnificate come teschi, che ghignano orribilmente. Si tratta, mi spiegano, di materiale di propaganda lanciato assieme alle bombe dagli aerei americani. Non vogliono farmeli prendere: riesco però di soppiatto a impadronirmene. In un altro volantino c'è ancora l'immagine di Bin Laden e dei suoi; dietro, la foto di alcuni impiccati, come a mostrare la ferocia del regime talebano e dei suoi amici terroristi. Un terzo volantino raffigura alcuni militanti dell'Intifada coperti da un inquietante bersaglio rosso, e sull'altro alcune donne con il burqa che paiono venire maltrattate da un poliziotto: la scritta fa presumibilmente appello alle persone civili affinché si ribellino ai terroristi. Più in là trovo altri documenti, alcuni dei quali firmati dal mullah Omar: è proprio come se cinque mesi fa ci fosse davvero stata una fuga improvvisa, e nessuno fosse tornato a riprenderli. Ho l'impressione che neanche l'intelligence della coalizione abbia ancora messo piede qui - e ne sono piuttosto sorpreso. Fra le carte che noto, c'è la fotocopia di un tesserino di riconoscimento di un soldato, o qualcosa di simile, corredata di foto con tanto di cappello militare. Poi trovo un fax, datato 7 febbraio 2001 e spedito il 9 dello stesso mese da Kandahar, con un breve messaggio in inglese accompagnato da altri fogli scritti a macchina e a mano in pashtun. Le poche righe in inglese costituiscono una "sentenza" del mullah Omar in merito al terremoto in India del febbraio 2001. Secondo il mullah, la coincidenza fra il cataclisma e la grande festa religiosa sulle rive del Stefano Tura
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Gange non è da considerarsi casuale: Allah avrebbe punito in questo modo gli induisti idolatri e politeisti. Il mullah si firma con l'epiteto di «Servitore dell'Islam». Questo documento, come molti degli altri, è accompagnato dall'intestazione «Emirato Islamico dell'Afghanistan». Tra le carte, anche un consulto oftalmologico di un medico inglese datato 31 agosto 2000 e indirizzato a casa del mullah. In apparente risposta a una richiesta, il medico spiega come curare una ferita provocata da una bomba all'occhio destro di una persona di ventotto anni, che risulta essere già stata esaminata in Pakistan. Dall'intestazione del fax si deduce che il paziente di cui parla sarebbe un tale Mohammad Zahir. Questo fatto attira la mia attenzione: da quel poco che si sa, il mullah Omar è rimasto cieco dall'occhio destro in seguito a una ferita. Non ho motivi per pensare che il nome dell'intestatario di questo fax sia falso, ma è davvero strano che si trovi qui, in questa casa: mi chiedo se in realtà Mohammad Zahir sia lo stesso Omar. Trovo anche una grossa cartina geografica dell'Afghanistan, su cui è tracciato a mano il percorso del futuro gasdotto. Si tratta, a quanto raccolgo da altre fonti, di un progetto da due miliardi di dollari, che dovrebbe collegare il Turkmenistan e il Pakistan attraversando l'Afghanistan per un tratto di 743 km, su una lunghezza totale di 1271. Una volta terminato, dovrebbe trasportare circa venti milioni di metri cubi di gas all'anno. La costruzione del gasdotto, finanziata da compagnie statunitensi, saudite, pakistane e degli Emirati Arabi doveva iniziare nel 1998, ma la situazione politica afgana ne ha ritardato l'avvio. Sulla mappa il percorso previsto del gasdotto è indicato con una linea continua; una "variante" è invece tratteggiata con una linea discontinua. Quest'ultima passa per Kandahar: ipotizzo che l'iniziativa di questa deviazione si dovesse proprio al mullah Omar, particolarmente legato alla città. Evidentemente, Omar stava lavorando a un possibile rilancio del progetto. Vorrei rimanere qui tutto il giorno, ma dopo un po' che frugo fra i documenti abbandonati il personale di guardia sopraggiunge e ci invita a lasciare il posto. Senza farmi notare prendo alcune delle carte che ho trovato. Sono ormai le due del pomeriggio: devo rientrare nell'accampamento per preparare i servizi. Da Roma mi dicono che tutti i telegiornali attendono i miei pezzi. Sembrano particolarmente interessati a sentire le opinioni della gente comune, ma stamattina non ho proprio avuto il tempo di Stefano Tura
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raccoglierne; propongo dunque quello che ho: il centro di Kandahar, il deposito del World Food Program, l'installazione militare. Tengo la casa del mullah Omar per le edizioni della sera: non posso far entrare tutto in un servizio. Il montaggio con Raphael e la trasmissione tramite la parabola francese procedono spediti: alle sedici - le dodici in Italia - ho già inviato tutto e posso lavorare per la sera. Ho due problemi: il primo è che fra non molto farà buio; il secondo, e più grave, è che fra i colleghi circola la voce che il governatore stia facendo pressioni perché la stampa estera lasci Kandahar. La giustificazione ufficiale è che con la fine del Ramadan si temono violenze contro il nuovo governo dei mujaheddin e gli "infedeli" occidentali. Ma non mi convince. Non ho neanche il tempo di ragionare, tuttavia: devo valutare l'ipotesi che sia l'ultimo giorno che trascorro a Kandahar e muovermi di conseguenza. I miei colleghi italiani, con i quali mi consulto, sembrano intenzionati a tornare in Pakistan già domani. Da sabato inizieranno i festeggiamenti per la fine del Ramadan: per tre giorni tutte le attività cesseranno e non troveremo nessuno disposto a scortarci fino al confine. Potremmo ripartire solo mercoledì, e per alcuni è troppo tardi: devono tornare in Italia o vogliono spostarsi in altre zone dell'Afghanistan, soprattutto dalle parti di Jalalabad, dove continuano i bombardamenti. Per quanto mi riguarda, rimando ogni decisione a dopo. Devo ancora fare il cosiddetto vox populi, raccogliere cioè le opinioni della gente del posto. Alle quattro e mezzo usciamo dall'accampamento. Non ho che l'imbarazzo della scelta: posso fermare chiunque dei tanti uomini - solo uomini - che affollano la città. Le domande sono le stesse per tutti: come hanno vissuto questi ultimi giorni, com'è cambiata la situazione, se in meglio o in peggio, e cosa si aspettano dal prossimo futuro. Un uomo di circa trent'anni mi dice che la situazione è ancora pericolosa, che i cittadini hanno paura di uscire per strada perché spesso incontrano persone armate che non conoscono, e perché si sentono continuamente spari. Prima, mi dice, vivere era difficile, ma c'era la pace, e almeno sapeva chi comandava; adesso non sa cosa aspettarsi. Un altro uomo dice che a lui i talebani o i mujaheddin non fanno differenza: quello che gli interessa è che i suoi figli possano avere una vita più tranquilla di quella che ha avuto lui, possano mangiare, vestirsi, studiare, lavorare. Interviene un uomo di circa Stefano Tura
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settant'anni. Vive qui da sempre e ha visto passare di tutto: le truppe sovietiche, la guerra civile, i talebani e i mujaheddin. Non si fa illusioni: «Qui ci sarà sempre guerra, la pace è una cosa che non appartiene all'Afghanistan. Anche quelli che ci sono adesso prima o poi cominceranno a combattersi fra di loro». Si sta creando una sorta di dibattito improvvisato. Gli risponde un uomo di circa cinquant'anni: per costruire la pace in Afghanistan è necessario che torni il re, Zahir Shah. Mi sposto di due o trecento metri, dove c'è una panetteria aperta che comincia a distribuire il pane. Il proprietario è molto disponibile: dice di essere fiducioso per il futuro dell'Afghanistan e che una svolta era necessaria, perché il regime dei talebani dava poche garanzie per un futuro di libertà e per l'economia del paese. Mi conferma che Kandahar, in questo momento, è in una situazione di tensione e pericolo, ma se si impegneranno davvero, i nuovi governanti potranno far rinascere il paese. Intanto, intorno a me, si è creato un assembramento numerosissimo: le mie interviste devono apparire come un evento. A parte il panettiere, l'impressione complessiva è però di un certo pessimismo, o meglio di scetticismo: non importa cosa accadrà, mi dicono, i problemi della gente non cambieranno. Verso le sei rientro nell'accampamento e preparo il servizio sulla residenza del mullah Omar; decido anche di montare la vox populi, qualora decidessi o fossi costretto ad andarmene presto. Nella lista dei servizi che volevo fare qui a Kandahar mi mancano solo l'aeroporto e l'ospedale. Raphael mi dice che chi c'è andato ha trovato poco o nulla di interessante. Oggi, aggiunge, si è verificato un episodio tragico. L'interprete afgano di una troupe francese, che devo avere sicuramente visto qui ieri ma che non riesco a ricordare, è morto a causa di una mina nella zona dell'aeroporto. La troupe era andata a fare alcune immagini e, mentre l'operatore e il giornalista erano impegnati in uno stand-up, l'interprete si è allontanato incautamente ed è saltato su una mina. A nulla sono valsi i tentativi di aiutarlo. Una morte assurda, atroce, di un innocente al servizio di colleghi. Penso che con me rischiano quotidianamente anche Mushtaq e Ali Madhad, per guadagnarsi due lire. Per la prima volta ho paura per loro, e tutto quello che fanno per me mi sembra impagabile. Nel servizio includo anche le notizie di oggi. Karzai, Gul Agha e Naqib Ullah sono stati a colloquio tutto il giorno e sono giunti a un accordo. Stefano Tura
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Naqib Ullah rinuncia a Kandahar: continuerà a governare nella sua zona, la zona di Arghandab. Gul Agha sarà il nuovo sindaco-governatore della città. Amid Karzai domani partirà per Kabul. Preparato e trasmesso il servizio, assisto a una specie di conferenza fatta da un emissario di Gul Agha (e non da Gul Agha in persona, come ci era stato promesso in un primo momento), alla quale siamo stati convocati. Il funzionario ufficializza la voce che girava da qualche ora e ci consiglia di andarcene il prima possibile: i militari non sono in grado di assicurare la nostra incolumità durante i prossimi giorni, e problemi logistici fanno sì che gli uomini di guardia al nostro accampamento debbano essere spostati altrove. Gul Agha è in grado di garantirci una scorta fino al Pakistan esclusivamente per domani. I miei colleghi italiani accolgono il consiglio e si organizzano per il ritorno. Chiedono informazioni specifiche sulla dinamica del viaggio: si partirà dal campo alle otto e mezzo del mattino, per evitare di trovarsi ancora qui a mezzogiorno, l'ora della preghiera, quando potrebbe scatenarsi la violenza dei ribelli. Finito il briefing chiamo Roma e chiedo la loro opinione. Mi dicono di essere soddisfatti di quello che ho fatto: se decidessi di ripartire, non avrebbero nulla in contrario, tanto più che il centro dell'interesse sembra essersi spostato da Kandahar alla caccia a Bin Laden. Fino a poche ore fa avevo più resistenze a ripartire: ora sono molto stanco, ho bisogno di riposare, sento di aver fatto un buon lavoro. Certo, aver atteso tanto di poter entrare in Afghanistan e poi rimanerci due o tre giorni mi sembra, d'altro canto, un assurdo. Potrei valutare la possibilità di spostarmi a Jalalabad; per farlo dovrei comunque partire dal Pakistan: le vie di comunicazione interne sono impraticabili. La sera ritrovo i messicani, che sono entrati in possesso di una bottiglietta di whisky pakistano distillato a Rawalpindi. Me ne fanno assaggiare un bicchierino di nascosto: fa decisamente schifo e, nonostante la mia voglia arretrata, decido di astenermene, tanto più che sono digiuno praticamente da due giorni. Anche loro domani torneranno in Pakistan. Raphael rimane, ma la troupe di France 2 riparte: se rimanessi, dovrei trasmettere di nuovo con la lentissima, quantunque preziosa, apparecchiatura dell'APTN. Alle undici invio anche la vox populi, chiedendo di mandarla in onda domani e non prima: forse sarò in viaggio e non potrò fare altri servizi. Stefano Tura
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Stasera mangiamo un po' di più: carne in scatola, tonno, pane comprato dal panettiere che ho intervistato, un po' di frutta, cioccolata. Continuiamo a stare insieme con i colleghi stranieri, e ognuno racconta quello che ha fatto e le emozioni che ha vissuto. Quasi tutti quelli che devono scrivere o girare giorno per giorno ripartiranno domani: rimarranno invece molti dei freelance, fotografi e giornalisti, che hanno bisogno di tempo per approfondire i loro reportage. Nel "garage" si crea una specie di piccola comune temporanea. Gira anche qualche spinello, imbottito del proverbiale fumo afgano. È un'ora di pace: per la prima volta riesco a dimenticare i colpi di arma da fuoco, che pure continuano a risuonare. Verso mezzanotte ci ritiriamo nel nostro capanno e crollo immediatamente nel sonno. Dopo circa due ore, Peppino mi sveglia dicendomi che in città c'è un grandissimo movimento e che dobbiamo assolutamente andare a vedere. Lui afferra la videocamera digitale, io lo seguo e mi rendo conto che tutti i giornalisti sono svegli e stanno cercando di convincere le guardie a farli uscire dall'accampamento nonostante il coprifuoco. Poiché non desistono e, anzi, ci tengono indietro, decidiamo di mandare avanti le nostre colleghe donne. I militari, l'abbiamo già notato, sembrano avere una sorta di timore reverenziale per le donne e non si azzardano ad avvicinarle, figuriamoci a toccarle. Usandole come "ariete", riusciamo a uscire. Siamo una cinquantina: ci riversiamo tutti in strada e assistiamo a uno spettacolo che ci rivela forse il vero motivo per cui la nostra presenza non è più gradita: i marines stanno entrando a Kandahar. Vedo l'avanguardia, fatta di jeep e mezzi blindati: è una vera e propria carovana. Contemporaneamente, alcuni aerei sorvolano la città. I soldati scendono dai mezzi per vedere se la situazione è tranquilla, poi risalgono e procedono. I mujaheddin fanno cordone e ci tengono a distanza, ma gli operatori che hanno telecamere a infrarossi possono fare qualche buona immagine. Quando i marines passano proprio davanti a noi, tuttavia, ci viene fisicamente impedito di continuare a riprendere. Veniamo nuovamente sospinti dentro il nostro accampamento, questa volta sotto la minaccia dei kalashnikov. È chiaro che la presenza di militari americani in città rende ancora più probabile una rivolta e ancora più difficoltosa la nostra protezione. Uno degli ultimi proclami del mullah Omar prima della sua fuga intimava ai Stefano Tura
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cittadini di non lasciare che la terra della città santa fosse calpestata dagli infedeli americani. E capisco anche perché gli americani abbiano scelto di entrare alla chetichella, in piena notte, con il coprifuoco. Probabilmente, a parte i maggiori rischi per noi, gli stessi americani preferiscono non averci fra le scatole e poter agire indisturbati. Kandahar-Chaman-Quetta, venerdì 14 dicembre Mi è sembrato di percepirlo durante la notte. Quando mi sveglio ne ho la conferma: sta tuonando. In Afghanistan è un fatto rarissimo: il cielo è coperto, in lontananza si vedono anche dei lampi. C'è poca luce, tira vento e fa freddo. Ci siamo svegliati molto presto per decidere se partire con gli altri oppure no. Facciamo colazione nella capanna, e alle sette e un quarto siamo già nello spiazzo dell'accampamento, dove c'è una grande mobilitazione. Molti stanno caricando le macchine, compresi i colleghi italiani. Dopo un breve consulto con Peppino decidiamo di aggregarci al convoglio e partire anche noi. Nello sguardo di Mushtaq indovino una certa delusione, al contrario di Ali Madhad, che evidentemente è contento di tornare a casa. Peppino è perplesso come me circa la possibilità di continuare a lavorare senza sapere come trasmettere (ho la conferma che France 2 sta partendo) e sullo scarso spazio che continueremmo ad avere sui notiziari, visto lo spostamento d'interesse. Carichiamo tutti i nostri bagagli sulla jeep e ci accodiamo al convoglio che, puntuale, lascia l'accampamento alle otto e mezzo scortato da due macchine di mujaheddin. Prima di partire ci è stata comunicata la "tariffa" per il ritorno. La tariffa pro capite è invariata, ma la somma complessiva è quattro volte tanto: questa volta le macchine sono venti, e non cinque. Le persone che ci scortano non sono le stesse, ma appartengono alla stessa fazione: sono sempre uomini di Gul Agha. Fuori dall'accampamento, ad assistere alla nostra partenza c'è una piccola folla curiosa: la tagliamo a fatica con le auto. Alcuni dei colleghi che rimangono sembrano guardarci con un benevolo lampo di invidia negli occhi - e alcuni di noi guardano loro allo stesso modo. Usciamo da Kandahar senza nemmeno fermarci al check-point e dopo circa quindici minuti comincia a piovere. È un fatto incredibile: sono almeno quattro anni Stefano Tura
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che non piove in questa zona. In pochi minuti si scatena una pioggia torrenziale e la gente la accoglie letteralmente come un dono di dio: domani è l'ultimo giorno del mese sacro. Non si preoccupano di coprirsi, di riparare i chioschi dei bazar o le loro abitazioni, e si riversano in strada felici. La pioggia dura tutto il viaggio di ritorno e aiuta anche noi: il lunghissimo corteo di fuoristrada quasi non solleva polvere. Rispetto all'andata c'è molto più traffico, incontriamo varie macchine e furgoncini. Sul ciglio della strada, pastori e bambini. Dopo quattro ore di viaggio e una sosta per la preghiera - stavolta prega anche Mushtaq - arriviamo a Spinboldak, anch'essa molto più affollata dell'altro giorno. Quando siamo in prossimità della no man's land, vicino a Chaman, facciamo una sosta per valutare l'opportunità di passare il confine ufficialmente: non per noi, quanto per alcuni colleghi che sono entrati illegalmente. Sottoposti a un controllo, potrebbero andare incontro a problemi. Alcuni di loro optano per le "strade secondarie", altri invece decidono di rischiare e passare il confine: il massimo che potrà capitargli sarà di dover pagare una piccola multa o, al limite, essere costretti a lasciare il Pakistan entro quarantott'ore, cosa che farebbero comunque. Arrivati alla nota sbarra, dopo la quale c'è solo quel check-point che era stato spostato più all'interno, paghiamo la scorta e procediamo da soli. La sbarra si alza dopo che la prima macchina è stata controllata dall'esterno e passiamo uno a uno. Non veniamo fermati e non ci viene chiesto nessun documento. Giunti al check-point, gli altri proseguono, noi italiani invece decidiamo di fermarci: un nostro collega viene colto dallo scrupolo di avere i documenti in regola e desidera ottenere il timbro di rientro per non rischiare di avere problemi quando uscirà dal paese. Ci mettiamo quaranta minuti a convincerlo a lasciar perdere: al prossimo controllo, pagando cinquecento rupie, avrà tutti i timbri che vuole. Intanto noto che il flusso di persone attraverso la frontiera avviene soprattutto verso l'Afghanistan: molti "profughi di passaggio" e molti pendolari sono evidentemente invitati a rientrare dalle notizie tranquillizzanti che giungono da oltreconfine. Risaliamo in macchina e passiamo il check-point senza neanche venire interpellati. Ripenso alle parole del generale Musharraf: «Abbiamo intensificato i controlli affinché nessuno possa entrare illegalmente nel nostro paese: i miliziani arabi, i talebani in fuga, e soprattutto Bin Laden e il mullah Stefano Tura
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Omar». Mi risulta ogni volta più chiaro che si tratta di propaganda, se non di una vera e propria barzelletta. Abbiamo passato il confine "legalmente" con dodici macchine, nelle quali avremmo potuto nascondere uomini e armi, e nessuno si è presa la briga di perquisirne una. L'alleato degli USA nella guerra al terrorismo - una guerra che ha causato chissà quante vittime civili ma non ha portato alla cattura di Bin Laden o del mullah Omar - non applica neppure le più semplici regole della caccia all'uomo. Non capisco se gli USA lo ignorano, o altrimenti qual è il motivo per cui si limitano a stare a guardare. Peggio: incontriamo il primo posto di blocco degno di questo nome circa dieci chilometri all'interno, poco prima dell'inizio della salita per il Kojak Pass: se Omar, Osama o chi per loro oggi avesse passato il confine si sarebbe già potuto dare tranquillamente alla macchia. Neanche qui, comunque, fanno problemi di visto: non si tratta di un controllo di frontiera. La pioggia ha trasformato Quetta in un'enorme pozza di fango: le fognature sono straripate e la melma riempie le strade, ma anche qui la pioggia è per tutti una grande gioia. All'hotel Serena, dove abbiamo tenuto la camera per evitare di non trovare posto al ritorno, il personale ci accoglie come fossimo vecchi amici, e ci chiede della situazione a Kandahar. Posso finalmente farmi una doccia, cambiarmi, riposare su un letto: rispetto a Kandahar sembra Parigi - mentre solo pochi giorni fa, quando sono arrivato, mi pareva un posto dimenticato da Dio. Chiamo Roma per avvertire che sono a Quetta, racconto dell'ingresso in città dei marines e mi sincero che la mia vox populi stia per andare in onda. Il caporedattore mi conferma di aver deciso, d'accordo con il direttore, che dopo essermi riposato posso rientrare in Italia. Valuto con Peppino l'idea di andare a Jalalabad, ma ci rendiamo tutt'e due conto di avere, in fondo, molta voglia di tornare. Le ultime da Jalalabad dicono che, dopo i bombardamenti a tappeto, i mujaheddin sono riusciti a entrare nelle celebri grotte dove si pensava fosse nascosto Bin Laden e le hanno trovate abbandonate da tempo: anche Jalalabad sta diventando "roba vecchia", e questo ci convince definitivamente. Non ho più intenzione di riposarmi in Pakistan: voglio trovare il primo volo disponibile per l'Italia. Io e Gabriel, il collega dell'«Unità», andiamo Stefano Tura
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alla Pakistan Airlines: la partenza più vicina - domani alle quindici prevede oltre una giornata di viaggio con un percorso piuttosto tortuoso (un cambio a Lahore e un altro a Dubai, con soste di parecchie ore), ma non ci penso due volte. Sarò a Roma dopodomani a mezzogiorno, le sedici di qui. Sono preso dalla frenesia del ritorno. Compro i biglietti. Torno di nuovo in hotel, dove mi occupo di realizzare un servizio con un po' di materiale che non ho ancora utilizzato; contemporaneamente, verifico che non ci siano nuove notizie. La situazione sembra essere immutata. Leggo però sul «Balochistan Time», il giornale di Quetta, che i sessanta giorni di bombardamenti avrebbero causato migliaia di vittime e danni ingentissimi a edifici civili. È la prima volta che questo giornale prende posizioni antiamericane in modo così netto: col passare del tempo sta crescendo in molti la convinzione che questa guerra non abbia centrato gli obiettivi per cui era nata. Telefono a Franca, e comunico anche a lei la mia decisione. Stenta a crederci, è veramente felice. I bambini levano grida di gioia. Quando richiamo Roma per confermare il mio ritorno, il caporedattore mi dice di chiamarlo a ogni scalo: se ci fossero novità sulla caccia a Bin Laden o al mullah Omar potrebbe chiedermi di tornare indietro il prima possibile. La prospettiva, confesso, mi dà parecchia angoscia: ovviamente, mi dichiaro disponibile. Do appuntamento a Mushtaq e Ali Madhad per il giorno dopo e a cena mi ritrovo con tutti gli italiani. C'è chi riparte per Islamabad, altri tornano in Italia, altri ancora prenderanno tempo per decidere se andare a Kabul e continuare a seguire le vicende interne dell'Afghanistan. Domani le nostre strade si divideranno: andando a dormire ci salutiamo con affetto e ci scambiamo i numeri di telefono. È bizzarro, ma c'è un'aria - paradossale, inappropriata, persino un po' cinica - da fine gita. Quando vado a dormire, quasi mi mancano i colpi di fucile e la terra sotto la schiena: fatico a prendere sonno. Quetta, sabato 15 dicembre Mi sveglio piuttosto tardi. Nella hall dell'albergo trovo Mushtaq, che già mi aspetta da un po'. Ali Madhad, mi dice, non è potuto venire. Mushtaq ha una faccia lunga. Per lui, certo, è la fine di un lavoro di cui beneficerà Stefano Tura
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per parecchio tempo: i soldi che ha guadagnato con noi in questi giorni sono sicuramente di più di quelli che guadagna normalmente in un anno. Ma c'è qualcosa di più. Si presenta con due disegni fatti da lui, con dei pastelli su una carta nera. Raffigurano luoghi che probabilmente non ha mai visto: montagne, prati, uccelli, case; sembra più un paesaggio cinese che pakistano. Sono il suo souvenir per i giorni passati insieme. Gli prometto che, se dovessi mai tornare da queste parti, lo chiamerò a lavorare con me. Non sembra dare importanza al fatto che lo pago, non chiede una rupia in più del pattuito - anzi, più tardi mi viene il dubbio che abbia dato qualcosa di tasca sua a Shirkan, a cui io non ho mai pagato nulla, e non ne abbia chiesto il rimborso. Gli chiedo di salutare per me anche Ali Madhad, e do a Mushtaq anche i suoi soldi. Ci abbracciamo forte: sento che non lo vedrò mai più. Alle quindici e trenta il nostro aereo decolla per Lahore. Il lavoro è finito, ma non riesco a staccare la spina: mi torna in mente tutto, senza sosta, una vertigine di volti e immagini mi cattura - ma non è solo l'orrore né la disperazione, ma anche la fierezza e la dolcezza della gente di qui, la capacità di cavarsela con niente. Il Pakistan - e laggiù, all'orizzonte, l'Afghanistan - sfilano sotto i nostri piedi. Prima di partire le notizie davano ancora sacche di resistenza in alcune parti del paese, scontri a fuoco, notizie di marines morti all'aeroporto a causa delle mine - come l'altro giorno l'interprete. La gente che ho incontrato vive con l'incubo di un'altra guerra, di non conoscere il proprio futuro - e con la speranza che gli aiuti arrivino presto e almeno quest'inverno, almeno la prossima settimana si possa mangiare. La guerra è finita ma la pace non c'è; e i terroristi non si trovano.
*** Fiumicino, domenica 16 dicembre Mi trovo in fila da un bel po': il nostro volo viene dall'Arabia e ai passeggeri tocca attraversare una forca caudina di congegni, di cani e poliziotti. Quando arrivo al primo controllo un poliziotto mi chiede: «Are you Stefano Tura
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Italian?». «Perché, non si vede?». E lui: «No». Ho la barba lunga e un aspetto non proprio fresco. Ma non è finita: quando ritiro il bagaglio, dopo aver superato il controllo del passaporto, vengo fermato alla dogana e la prima cosa che viene fuori dalla valigia sono le caramelle di Super Osama. Il finanziere prende il pacchetto, lo guarda e mi chiede: «E questo? Che cos'è?». Ho subito paura che pensi che dentro ci siano caramelle all'antrace, esplosivo, droghe o chissà che. Gli mostro il mio tesserino e mi affretto a spiegargli che sono un giornalista della RAI, che quella scatola contiene caramelle, che l'ho trovata in un villaggio di confine tra Pakistan e Afghanistan. Cerco di suscitare la sua curiosità e assumo un'aria goffamente complice. Non voglio che apra la scatola, la voglio tenere chiusa, incelofanata, per ricordo. Il finanziere rimane in silenzio per alcuni istanti. Sembra molto perplesso. Poi, il suo viso si distende: «Ma guarda un po', è incredibile le cose che si trovano!», dice, e mi lascia andare. Franca, Tommaso e Beatrice mi aspettano fuori dall'aeroporto. Tommaso, mi dice Franca, si chiedeva se mi avrebbe riconosciuto, quando fossi uscito dalla porta. Mi riconosce, mi corre incontro e mi abbraccia. Vedendolo non posso non pensare a Saad Mohammed, steso su quel letto, senza una gamba e con l'altra ferita, che mi dice con un filo di voce: «Ma io non avevo fatto niente a loro, perché loro mi hanno fatto questo?». Mentre vado a casa, non riesco a non ricordare Maria Grazia, che dal mio stesso viaggio non è mai tornata.
Epilogo Qualche giorno prima di Natale il quotidiano «Balochistan Time» di Quetta ha riportato, citando fonti ufficiali pakistane, un primo bilancio degli effetti dei bombardamenti sull'Afghanistan dall'inizio della guerra. In sessanta giorni di campagna militare, secondo questo giornale, centinaia di civili sarebbero stati uccisi dalle bombe angloamericane. Stefano Tura
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L'8 ottobre 2001 a Kabul, Kandahar e Mazar-i-Sharif cinquantatré persone sarebbero morte in attacchi compiuti con missili cruise. Il 9 ottobre, a Kabul sarebbe stato distrutto un ufficio delle Nazioni Unite e nella stessa area, l'11 ottobre, la superbomba "taglia-margherite" avrebbe ucciso duecento civili. Il 15 ottobre bombardamenti sul mercato di Mazar avrebbero provocato vittime tra la popolazione, tra cui ventisei bambini. Il 22 ottobre le bombe sarebbero cadute sull'ospedale di Herat uccidendo centodiciotto pazienti, mentre il 24 un attacco aereo sul villaggio di Chakoor avrebbe fatto trecentonovanta morti. Sempre ad Herat, il 6 novembre, nel bombardamento di una moschea sarebbero morte otto persone. In totale, nei primi due mesi del conflitto, sarebbero stati bombardati, per errore, otto ospedali, dodici moschee, un ufficio dell'ONU e due sedi della Croce Rossa e del WFP. Il 9 gennaio 2002, il portavoce del World Food Program, Jordan Joy ha dichiarato, dopo aver raggiunto la zona di Herat alla guida di un carico di aiuti, di aver trovato una situazione drammatica. Gente senza casa, intere famiglie distrutte, vecchi e bambini costretti a mangiare erba e radici, orfani abbandonati lungo le strade. In quell'area vivono oltre 450.000 persone ma gli aiuti del WFP posso sfamarne al massimo 380.000 per non più di un mese. Sempre secondo il WFP a Kandahar la situazione è ancora più grave. Le forze americane dislocate nel territorio non possono offrire garanzie di sicurezza e nessun intervento significativo è stato autorizzato dalle Nazioni Unite. Il panorama più desolante è però a nord, nei villaggi isolati tra le montagne del Pamir, luoghi popolati dai tagiki, già perseguitati dai talebani. In quell'area la terra è resa sterile dalla siccità e le persone più deboli sono già morte di stenti. Alcuni carichi di aiuti destinati alla popolazione sono bloccati a valle da mesi: raggiungere località più impervie è pressoché impossibile. La guerra alla fame, per il popolo afgano, è già persa. Rovesciare i talebani, arrestare i terroristi, richiamare le truppe in patria e lasciare all'ONU il compito del mantenimento della pace e della ricostruzione: questi erano i piani annunciati dagli americani all'indomani Stefano Tura
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dell'attentato alle Torri Gemelle e all'inizio dell'operazione militare in Afghanistan. Ma dopo mesi di conflitto i piani non sono stati rispettati e le conseguenze si sono estese ad altri paesi. I talebani hanno perso ma la regione rimane instabile. L'amicizia tra USA e Pakistan ha allertato l'India e ora le due nazioni si fronteggiano minacciando una guerra nucleare. Invece di tornare oltreoceano i soldati americani sono rimasti in Asia Centrale a fare i poliziotti e il numero di militari presenti in Afghanistan ha superato le quattromila unità. La circostanza non è stata affatto gradita da Russia e Cina dopo che Bush, nel vertice di ottobre a Shangai, aveva rassicurato Putin e Jiang Zemin che le truppe americane non sarebbero rimaste a lungo nel Paese. In Somalia, che è fra i prossimi fronti possibili, gli alleati di Osama hanno abbandonato le loro basi quasi subito. Alcuni si sono rifugiati nello Yemen, altri si sono dispersi. L'Iraq ha lanciato un monito agli Stati Uniti e al mondo e rimane al momento un avversario ancora troppo duro per essere attaccato. L'Iran, caduti i talebani, manovra per espandere la sua influenza oltre i propri confini. Di Osama bin Laden e del mullah Mohammad Omar non c'è traccia alcuna. In USA non parlano più di vittoria e il 10 gennaio 2002 il «New York Times», riferendosi al conflitto in Afghanistan, ha titolato il suo editoriale "Una guerra irrisolta". Nel febbraio 2002 Daniel Pearl, giornalista ebreo-americano del «Wall Street Journal», viene rapito a Karachi da un gruppo di terroristi islamici. Per la sua liberazione, i rapitori pretendono il rilascio di alcuni militanti pakistani di Al Qaeda detenuti nel carcere speciale di Guantanamo. Dopo settimane di inconsistenti trattative, Pearl viene ucciso. I terroristi lo decapitano e mandano al «Journal» una videocassetta con le immagini dell'esecuzione. FINE
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