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ROBERT LUDLUM & PATRICK LARKIN LAZARUS VENDETTA (The Lazarus Vendetta, 2004) Prologo Sabato 25 settembre In prossimità della Tuli River Valley, Zimbabwe Gli ultimi raggi di sole si erano dileguati al tramonto e migliaia di stelle luccicavano tenui in un cielo buio, alte sopra un territorio arido e accidentato. Poca era la terra fertile di quella regione dello Zimbabwe, perfino per gli standard di un Paese così tormentato. La luce elettrica per illuminare la notte era quasi del tutto assente e scarse erano le strade asfaltate che collegavano al resto del mondo i villaggi isolati del Matabeleland meridionale. Una coppia di fari accesi spuntò all'improvviso dall'oscurità, rischiarando fugacemente piccole macchie di nodosi alberi selvatici e chiazze sparpagliate di cespugli di rovi e ciuffi d'erba rada. Un malconcio pick-up Toyota seguì traballante una vecchia pista sterrata, facendo grattare le marce mentre sobbalzava dentro e fuori una serie di solchi profondi. Attratti dai due tremolanti fasci di luce, sciami di insetti volteggiavano incontro al fuoristrada e si spiaccicavano sul parabrezza striato di polvere. «Merde!» imprecò Gilles Ferrand in tono sommesso, litigando con il volante. Accigliato, il barbuto spilungone francese si sporse in avanti, sforzandosi di vedere qualcosa oltre la ribollente nube di polvere e di insetti svolazzanti. Gli occhiali dalle lenti spesse gli scivolarono a metà naso. Staccò una mano dal volante per rimetterli a posto e imprecò un'altra volta quando il pick-up per poco non deragliò dai solchi della tortuosa pista sterrata. «Saremmo dovuti partire più presto da Bulawayo» borbottò, rivolto alla donna snella e dai capelli grigi che sedeva al suo fianco. «Questa specie di strada è già un disastro di giorno. Col buio è un vero incubo. Se almeno l'aereo non avesse ritardato così tanto!» Susan Kendall scrollò le spalle. «Se i desideri fossero pesci, Gilles, saremmo tutti morti per avvelenamento da mercurio. Il nostro progetto agricolo esige le nuove sementi e gli attrezzi che ci sono stati inviati. E quando sei al servizio di Madre Terra devi accettare gli inconvenienti.» Ferrand fece una smorfia, augurandosi per la millesima volta che la sua
sussiegosa collega americana la smettesse di pontificare. Erano entrambi attivisti veterani del Lazarus Movement, un'organizzazione ecologista e umanitaria che operava su scala mondiale, e da anni si prodigavano per salvare la Terra dalla folle avidità dello sfrenato capitalismo globale. Non c'era affatto bisogno che Susan lo trattasse come uno scolaretto. I potenti fari del fuoristrada inquadrarono il profilo di un affioramento roccioso a loro familiare in prossimità della pista. Il francese emise un sospiro di sollievo. Erano vicini alla destinazione: un minuscolo insediamento umano adottato tre mesi prima dal Lazarus Movement. Ferrand non rammentava il nome originale dell'insignificante villaggio. La prima cosa che lui e Susan Kendall avevano fatto era stato ribattezzarlo «Kusasa», vale a dire «domani» nel dialetto ndebele locale. Era un nome appropriato, o così almeno speravano. Gli abitanti di Kusasa avevano accettato il cambiamento e l'aiuto del movimento umanitario per un ritorno a un metodo naturale di coltivazione della terra, in linea con la mentalità ecologista. I due attivisti erano entrambi convinti che la loro opera in quella regione avrebbe portato alla rinascita di un'agricoltura africana interamente organica: una rinascita radicata in una politica di assoluto contrasto ai pesticidi tossici, ai fertilizzanti chimici e alle pericolose colture geneticamente modificate adottate in Occidente. L'americana era sicura che i suoi discorsi appassionati avessero persuaso gli anziani del villaggio. Ferrand, per natura più cinico, nutriva invece il sospetto che avessero avuto più peso i generosi sussidi in moneta sonante offerti dal Lazarus Movement. Non aveva alcuna importanza, pensava il francese: in quel caso, il fine giustificava abbondantemente i mezzi. Deviò dalla pista principale e guidò lentamente verso un piccolo agglomerato di capanne dipinte a colori vivaci, baracche dai tetti in lamiera e cadenti recinti per animali. Circondata da piccoli campi coltivati, Kusasa sorgeva in una valle poco profonda delimitata da colline disseminate di massi e cespugli. Ferrand fermò il pick-up e diede qualche colpetto di clacson. Nessuno uscì ad accoglierli. Ferrand spense il motore, ma lasciò i fari accesi. Restò seduto immobile per diversi secondi, in ascolto. I cani del villaggio ululavano. Il francese si sentì rizzare i capelli. Susan Kendall si accigliò. «Dove sono tutti?» «Non lo so.» Ferrand si districò dal volante e scese cautamente dalla vettura. A quel punto ormai decine di uomini, donne e bambini eccitati avreb-
bero dovuto accerchiarli, sorridendo e mormorando allegramente alla vista dei gonfi sacchi di sementi e delle vanghe, dei rastrelli e delle zappe nuove fiammanti ammucchiati al limite delle possibilità di carico nel cassone scoperto del Toyota. Invece tra le capanne buie di Kusasa non si muoveva una foglia. «Ehilà!» chiamò il francese. Facendo ricorso al suo stentato ndebele soggiunse: «Litshone njani. Buonasera!». Solo i cani continuarono a ululare ancora più forte, abbaiando contro il cielo notturno. Ferrand fu percorso da un brivido. Si voltò verso il fuoristrada e si piegò verso l'interno dell'abitacolo. «Qui c'è qualcosa di veramente strano, Susan. Dovresti metterti in contatto con i nostri. Subito. Per precauzione.» L'americana dai capelli grigi lo fissò un attimo immobile e ammutolita, sgranando improvvisamente gli occhi. Poi annuì e scese a sua volta dal Toyota. Muovendosi con esperta rapidità, predispose al collegamento satellitare il telefono e il PC portatile che avevano sempre con loro quando operavano sul campo. Il computer permetteva di comunicare con l'ufficio della sede centrale della loro organizzazione, che si trovava a Parigi, sebbene fosse principalmente utilizzato per caricare immagini e rapporti aggiornati sui loro progressi e trasmettere tutto via Internet al sito web centrale del Lazarus Movement. Ferrand la osservò in silenzio. Il più delle volte trovava Susan Kendall di una noia irritante, ma la donna sfoderava coraggio nei momenti cruciali. Forse perfino più coraggio di lui. Il francese sospirò e cercò alla cieca con la mano la torcia elettrica fissata sotto il sedile anteriore. Dopo un attimo di riflessione, prese la fotocamera digitale di cui erano provvisti. «Cosa hai intenzione di fare, Gilles?» domandò l'americana, mentre già componeva il prefisso telefonico internazionale di Parigi. «Vado a dare un'occhiata» rispose Ferrand con determinazione. «Va bene. Prima però dovresti aspettare che mi sia collegata» ribatté Susan Kendall. La donna tenne premuto all'orecchio il telefono satellitare. La sua bocca dalle labbra sottili si tese ulteriormente. «Se ne sono già andati tutti. In ufficio non risponde nessuno.» Ferrand controllò l'orologio. La Francia era solo un'ora in meno rispetto al fuso orario locale, ma era sabato. Erano soli, completamente abbandonati a se stessi. «Prova a collegarti al sito web» suggerì. La sua collega annuì. Ferrand si costrinse a mettersi in movimento. Raddrizzò le spalle e si
addentrò lentamente nel villaggio. Puntò la torcia elettrica, facendole compiere un ampio arco, sondando con il fascio di luce il buio davanti a sé. Una lucertola fuggì precipitosamente all'improvviso bagliore, facendolo trasalire. Imprecò sottovoce e proseguì. Sudando, malgrado la fresca brezza notturna, giunse allo spazio aperto al centro di Kusasa. Là c'era il pozzo del villaggio. Era uno dei luoghi in cui sia i giovani sia gli anziani amavano riunirsi al termine della giornata. Ferrand diresse il fascio di luce tutt'intorno al vasto spiazzo di terra battuta... e, all'improvviso, si raggelò. Gli abitanti di Kusasa non si sarebbero rallegrati per le sementi e gli attrezzi agricoli che aveva portato loro. Non avrebbero guidato la rinascita dell'agricoltura africana. Erano morti. Erano tutti morti. Il francese restò fermo, impietrito, inorridito, sconvolto. C'erano cadaveri ovunque guardasse. I cadaveri di uomini, donne e bambini giacevano a mucchi scomposti in tutto lo spiazzo centrale. Per la maggior parte, i corpi erano intatti, sebbene contorti e contratti, resi deformi da qualche terribile agonia. Altri sembravano stranamente vuoti, quasi come se fossero stati parzialmente divorati all'interno. Alcuni erano ridotti a nulla più di semplici brandelli di carne e ossa immersi in pozzanghere rapprese di fanghiglia rosso sangue. Migliaia di grossi mosconi neri brulicavano a sciami sui cadaveri smembrati, avidamente occupati in indolenti festini sui resti umani. Vicino al pozzo un cagnolino sollecitava col muso il corpo contorto di un bambino, tentando inutilmente di rianimare il suo compagno di giochi. Gilles Ferrand deglutì a vuoto con estrema fatica, reprimendo un conato di bile e di vomito. Con mani tremanti, depose a terra la torcia elettrica, si levò di spalla la fotocamera digitale e cominciò a scattare fotografie. Qualcuno doveva documentare quella spaventosa strage. Qualcuno doveva far sapere al mondo intero di quel massacro di innocenti: un eccidio terrificante di gente pacifica, il cui unico reato era stato quello di schierarsi dalla parte del Lazarus Movement. Quattro uomini stavano distesi immobili in vetta a uno dei colli sovrastanti il villaggio. Indossavano tenute mimetiche da deserto e giubbotti antiproiettile rigidi in kevlar. Binocoli e occhiali speciali per la visione notturna garantivano loro di vedere in maniera perfettamente nitida qualsiasi movimento, e fonorivelatori sensibilissimi trasmettevano ogni rumore agli auricolari delle cuffiette radio che indossavano. Uno degli osservatori fissava con attenzione un monitor a luce scherma-
ta. L'uomo alzò lo sguardo dal PC portatile. «Si sono collegati al satellite. E noi siamo entrati nel sito che stanno utilizzando.» Il comandante del gruppo, un tipo erculeo, dai capelli castani e luminosi occhi verdi, sorrise a labbra serrate. «Bene» commentò. Poi si allungò verso, il suo subalterno per vedere meglio lo schermo. Mostrava una serie di immagini raccapriccianti - le foto scattate solo pochi minuti prima da Gilles Ferrand - in via di lento caricamento sul sito web del Lazarus Movement. L'uomo dagli occhi verdi osservò attentamente il monitor per diversi secondi. Poi annuì. «Basta così. Disattiva il loro collegamento.» L'osservatore obbedì, digitando rapidamente alcuni comandi su una minitastiera portatile. Alla fine, premette il tasto di invio, trasmettendo una serie di istruzioni in codice al satellite per telecomunicazioni che gravitava nello spazio sopra di loro. Un attimo dopo, le immagini digitali che venivano inviate da Kusasa attraverso un PC si bloccarono, tremolarono un po', poi scomparvero. L'uomo dagli occhi verdi rivolse lo sguardo ai due uomini distesi bocconi accanto a lui. Entrambi erano armati di fucili di precisione Heckler & Koch PSG-1, progettati per uso esclusivo in operazioni segrete. «Eliminateli.» L'uomo mise a fuoco il binocolo in modalità visione notturna sui due attivisti del Lazarus Movement. Il francese barbuto e l'americana più magra stavano fissando con espressione incredula il collegamento satellitare sul loro PC portatile. «Bersaglio sotto tiro» mormorò uno dei due cecchini. Poi premette il grilletto. Il proiettile da 7.62mm colpì Ferrand in piena fronte. Il francese inarcò di scatto la schiena e stramazzò a terra, impiastricciando di sangue e frammenti di cervello la fiancata del pick-up Toyota. «Bersaglio centrato.» Il secondo cecchino sparò un istante dopo. Il suo proiettile colpì Susan Kendall nella parte alta della schiena, tra le scapole alla base del collo. La donna si accasciò accanto al suo collega. Il massiccio comandante dagli occhi verdi si alzò. Alcuni subalterni, tutti vestiti con tute HazMat anticontaminazione a scafandro integrale, complete di caschi a chiusura ermetica e di autorespiratori, si erano già messi in movimento e stavano scendendo il fianco della collina portando una serie di strumenti scientifici. L'uomo premette un pulsante sull'astina microfonica orientabile che faceva parte della sua cuffietta radio, facendo rapporto tramite un collegamento satellitare criptato: «Qui Prime. Field One com-
pletata. Valutazione, raccolta e analisi procedono secondo i piani». L'uomo rivolse un'ultima occhiata indifferente ai due attivisti del Lazarus Movement morti. «Come ordinato, ha avuto anche inizio SPARK.» Parte prima Capitolo 1 Martedì 12 ottobre Teller Institute for Advanced Technology, Santa Fe, New Mexico, Stati Uniti Il tenente colonnello Jonathan («Jon») Smith, medico militare dell'esercito degli Stati Uniti, svoltò con l'auto in Old Agua Fria Road e si diresse verso il cancello principale dell'istituto. Ridusse gli occhi a due fessure contro l'abbacinante riverbero della luce di prima mattina. Alla sua sinistra i primi raggi di sole erano appena sbucati da sopra le abbaglianti vette innevate dei monti Sangre de Cristo. La luce radente illuminava le erte pendici rivestite di pioppi tremuli dalle foglie dorate, abeti imponenti, pini ponderosa e maestose querce. Ai piedi delle montagne, la vegetazione più bassa - piccoli pini pinyon, ginepri e gruppetti isolati di cespugli di salvia selvatica - intorno alle spesse mura fatte di adobe color sabbia che recintavano il Teller Institute, era ancora avvolta nell'oscurità. Alcuni dei contestatori accampati lungo la strada strisciarono fuori dai sacchi a pelo per osservare la sua auto che passava. Qualcuno agitò qualche cartello scritto a mano con gli slogan FERMATE LA SCIENZA ASSASSINA, NO ALLA NANOTECNOLOGIA, e VIVA IL LAZARUS MOVEMENT. Per la maggior parte i dimostranti presenti restarono fermi, poco propensi ad affrontare quell'alba gelida. Santa Fe sorgeva a oltre duemila metri d'altezza sul livello del mare e le notti si stavano facendo sempre più fredde. Smith provò un improvviso moto di solidarietà nei loro confronti. Perfino con l'impianto di riscaldamento in funzione nella sua auto a noleggio avvertiva il gelo attraverso la giacca di pelle marrone e gli spiegazzati pantaloni sportivi color kaki. Al cancello, un addetto alla sicurezza in uniforme grigia gli fece cenno, alzando la mano, di fermarsi. Jon abbassò il finestrino e presentò la sua tessera di identificazione dell'esercito americano. La foto sul documento
mostrava un bel tipo in ottima forma, appena oltre la quarantina: un uomo i cui zigomi alti e pronunciati, e i cui capelli lisci e scuri attribuivano al dottor Smith l'aria di un altezzoso caballero spagnolo. Di persona, lo scintillio dei suoi brillanti occhi azzurri stemperava la parvenza di arroganza. «Buongiorno, colonnello» lo salutò la guardia armata, un ex sottufficiale dei Ranger dell'esercito che si chiamava Frank Diaz. Dopo aver controllato la tessera, Diaz si piegò in avanti, dando un'occhiata all'interno dell'auto per assicurarsi che Smith fosse solo. La sua mano destra rimase cautamente sospesa in prossimità della Beretta 9mm nella fondina al suo fianco. La falda della fondina era sbottonata, in modo da lasciare libera la pistola in caso di immediata necessità. Smith inarcò un sopracciglio: le misure di sicurezza al Teller Institute di solito non erano così rigide, di certo non al livello dei laboratori nucleari top secret nella vicina Los Alamos. Ma il presidente degli Stati Uniti, Samuel Adams Castilla, aveva in programma una visita all'istituto di lì a tre giorni. E una sterminata manifestazione di protesta antitecnologia era stata organizzata in coincidenza con il discorso che avrebbe tenuto. I dimostranti fuori dal cancello erano solo la prima ondata di migliaia di altri contestatori che si prevedeva si sarebbero riversati a Santa Fe da ogni parte del mondo. Smith indicò col pollice alle sue spalle. «Ti stai beccando una bombardata di fischi e di battute da quella gente, Frank?» «Finora non troppo» ammise Diaz. Poi si strinse nelle spalle. «Ma li teniamo d'occhio lo stesso. Questa manifestazione spaventa non poco i tirapiedi del governo. L'FBI dice che si prevede l'arrivo di qualche gruppetto di sobillatori intransigenti: il genere di teste calde che si esalta a lanciare molotov e a mandare in frantumi finestre.» Smith corrugò la fronte. Le grandi manifestazioni di massa erano un richiamo irresistibile per le frange anarchiche con il gusto per la violenza e gli atti di vandalismo. Genova, Seattle, Cancun e diverse altre città in tutto il mondo avevano già visto le loro strade trasformate in campi di battaglia tra forze di polizia e rivoltosi con il volto coperto da passamontagna. Rimuginando su quello che gli aveva appena detto Diaz, Smith abbozzò un brusco saluto militare, ripartì e si diresse verso il parcheggio interno. La prospettiva di restare invischiato in tumulti a furor di popolo e cariche della polizia non era per niente esaltante, specialmente perché si trovava nel New Mexico per quella che doveva essere una vacanza. Povero illuso!, pensò Smith con uno sbilenco sorrisino sarcastico. È più una vacanza di lavoro. Come medico militare, specializzato in biologia
molecolare, passava la maggior parte del tempo assegnato in pianta stabile allo United States Army Medical Research Institute of Infectious Deseases (USAMRIID) - l'Istituto di ricerca medica per le malattie infettive dell'esercito americano - a Fort Detrick, nel Maryland. La sua collaborazione con il Teller Institute era solo temporanea. L'Office of Science and Technology del Pentagono lo aveva mandato a Santa Fe in veste di osservatore, per riferire sul lavoro di ricerca in corso nei tre laboratori di nanotecnologia dell'istituto. Ogni nazione progredita disponeva di vari ricercatori impegnati in un'accanita concorrenza nello sviluppo di applicazioni nanotech pratiche e vantaggiose. Alcuni degli scienziati più validi a livello mondiale erano proprio lì al Teller Institute, comprese équipe dell'istituto stesso, della Harcourt Biosciences e della Nomura PharmaTech. Fondamentalmente, pensò Smith con soddisfazione, il Dipartimento della Difesa gli aveva affidato un posto in prima fila e completamente spesato dal quale assistere alla scoperta delle nuove tecnologie scientifiche più promettenti del secolo. Il lavoro al Teller Institute rientrava precisamente nelle sue specifiche competenze. Il termine «nanotech», o nanotecnologia, implica una gamma di significati incredibilmente ampia. Nell'accezione più elementare significa la creazione di dispositivi artificiali nelle scale più piccole immaginabili a livelli infinitesimali. Un nanometro corrisponde a un miliardesimo di un metro, all'incirca dieci volte la dimensione di un atomo. Costituire - o «costruire» - un oggetto con un diametro di dieci nanometri vuol dire, in pratica, realizzare una struttura che è soltanto un decimillesimo del diametro di un capello umano. La nanotecnologia è l'ingegneria a livello molecolare, ingegneria che implica la fisica quantistica, la chimica, la biologia e la tecnologia da supercomputer. Gli autori di articoli di divulgazione sulle riviste scientifiche del settore dipingono brillanti e vivide descrizioni di robot di pochissimi atomi di dimensione, vaganti all'interno del corpo umano per curare malattie e riparare lesioni interne. Altri propongono ai loro lettori di immaginare unità di immagazzinamento di informazioni delle dimensioni corrispondenti a un milionesimo di un granello di sale, e ciononostante capaci di contenere tutta la conoscenza umana. O particelle di polvere effettivamente in grado di essere degli iperesperti minatori d'atmosfera, aleggianti silenziosamente nei cieli inquinati del nostro pianeta, e, contemporaneamente, degli efficienti depuratori. Nelle settimane trascorse al Teller Institute, Smith aveva visto abbastan-
za da sapere che alcune di quelle fantasie apparentemente impossibili erano già quasi in via di realizzazione. Entrò al millimetro con l'automobile nell'esiguo spazio di parcheggio libero tra due SUV colossali. I parabrezza delle vetture erano coperti di brina ghiacciata, una prova evidente che gli scienziati o i tecnici di laboratorio proprietari di quei veicoli si erano fermati a lavorare tutta la notte nei laboratori. Smith annuì con aria d'approvazione. Erano quelle persone, tutte a ferrea dieta di caffè nero forte, bevande gassate alla caffeina, merendine glassate e barrette al cioccolato comprate nei distributori nei corridoi, a produrre dei veri miracoli. Scese dall'auto a noleggio e allacciò la cerniera della giacca per ripararsi dall'aria frizzante. Poi inspirò a pieni polmoni, cogliendo il flebile odore dei fuochi da campeggio e della cannabis portati dal vento che soffiava dall'accampamento dei contestatori. Altri minivan, station wagon della Volvo, pullman e automobili ibride a gas ed elettriche stavano sopraggiungendo a flusso costante, svoltando dall'Interstate 25 e risalendo la strada d'accesso all'istituto. Smith si rabbuiò in volto. La folla che ci si era aspettati si stava ammassando. Purtroppo, ad alimentare le paure e le peggiori fantasie dei militanti e dei fanatici del Lazarus Movement, che si stavano raccogliendo all'esterno del reticolato, era il potenziale lato oscuro della nanotecnologia. Erano terrorizzati all'idea di «macchine» talmente minuscole da essere in grado di penetrare liberamente all'interno delle cellule umane e così efficienti da poter rimodellare le strutture atomiche. I radicali a difesa delle libertà civili denunciavano i pericoli delle cosiddette «molecole spia» che, invisibili a occhio nudo, indugiavano in ogni spazio pubblico e privato. I teorici delle cospirazioni più folli affollavano Internet forum e chat room diffondendo dicerie su segrete macchine assassine miniaturizzate. Altri erano spaventati all'idea di nanodispositivi - o «nanomacchine» - sfuggiti al controllo, che si sarebbero replicati all'infinito e avrebbero invaso l'intero pianeta, come un corteo sterminato di scope incantate da Apprendista stregone, pronte a divorare la Terra. Jon Smith scrollò le spalle. Si poteva affrontare un'iperbole strampalata unicamente con risultati tangibili. Una volta che la maggior parte della popolazione avesse visto con i propri occhi i vantaggi autentici e soprattutto altamente sicuri della nanotecnologia, i diffusi timori irrazionali avrebbero cominciato a placarsi. O così almeno sperava. Girò rapidamente i tacchi e si diresse con passo deciso verso l'ingresso principale dell'istituto, ansioso
di vedere quali nuove meraviglie avesse elaborato durante la notte il personale che vi lavorava. A duecento metri di distanza dalla rete di recinzione, all'esterno del centro ricerche, Malachi MacNamara era seduto a gambe incrociate nella posizione del loto su una coloratissima stuoia indiana distesa all'ombra di un grosso ginepro. L'uomo sedeva tranquillo e assolutamente immobile, ma i suoi occhi azzurro chiaro erano aperti. Gli affiliati al Lazarus Movement accampati nelle vicinanze erano convinti che lo snello canadese dal volto segnato dalle intemperie stesse meditando, ristabilendo le energie fisiche e mentali in vista della protesta che li attendeva. Il biologo del servizio forestale canadese, originario della British Columbia e ormai in pensione, si era già conquistato la loro ammirazione chiedendo con straordinaria fermezza un'«azione immediata» per raggiungere gli obiettivi del movimento. «La Terra è in fin di vita» aveva detto loro con aria truce. «Sta annegando, schiacciata sotto un diluvio di pesticidi tossici e di inquinamento ambientale. La scienza non la salverà. La tecnologia non la salverà. Anzi, ne sono proprio i responsabili, la vera fonte d'orrore e di contagio. E noi dobbiamo agire contro la scienza e la tecnologia. Subito. Ora. Senza rimandare. Subito! Finché siamo ancora in tempo...» MacNamara nascose un sorriso di compiacimento, ricordando la vista dei volti raggianti, accesi dalla sua retorica. Come oratore aveva più talento di quel che si sarebbe mai immaginato. Osservò l'attività che ferveva intorno a lui. Aveva scelto con cura quel vantaggioso punto d'osservazione. Sovrastava il grande tendone verde eretto come centro di comando del Lazarus Movement. Alcuni dei principali esponenti attivisti, sia americani sia stranieri, si stavano dando da fare all'interno del tendone, intenti a presidiare PC portatili collegati ai vari siti web internazionali dell'organizzazione ambientalista, a registrare nuovi arrivi, a preparare cartelli e striscioni, e a coordinare i programmi per l'imminente manifestazione di protesta. Altri gruppi ecologisti, facenti parte della coalizione TechStock, come il Sierra Club, l'Earth First! e similari, avevano i loro quartieri generali privati sparsi qui e là in tutto il vasto accampamento, ma MacNamara sapeva di trovarsi nel posto giusto al momento giusto. La vera forza motrice di quella protesta era il Lazarus Movement. Le altre organizzazioni ambientaliste e antitecnologiche presenziavano alla protesta, ma non partecipavano attivamente, nel tentativo disperato di tampo-
nare un costante declino numerico dei loro soci e della loro influenza. Un numero sempre maggiore dei loro membri più attivi e impegnati li stavano abbandonando per unirsi al Lazarus Movement, attratti dalla chiarezza della visione dell'organizzazione e dal suo coraggio nell'affrontare i governi e le corporazioni più potenti del mondo. Perfino il recente massacro dei suoi seguaci nello Zimbabwe stava agendo da grido di guerra per il Lazarus. Le immagini della strage di Kusasa dimostravano quanto i «signori corporativi globali» e i governi fantoccio a loro asserviti temessero il Movement e il suo messaggio. Il canadese dal volto profondamente segnato drizzò leggermente la schiena. Diversi giovani dall'aria truce erano diretti verso il tendone verde oliva, facendosi largo tra la folla che si andava ammassando. Ognuno di loro aveva in spalla una lunga sacca da viaggio di tela. E ognuno si muoveva con la grazia circospetta di un animale da preda. Uno dopo l'altro, arrivarono al tendone e vi si introdussero cautamente. «Bene, bene, bene» mormorò tra sé Malachi MacNamara. I suoi occhi chiari lampeggiarono. «Molto interessante.» Capitolo 2 Casa Bianca, Washington, D.C. L'elegante orologio del Diciottesimo secolo lungo una delle pareti ricurve dello Studio Ovale batté discretamente i dodici rintocchi di mezzogiorno. All'esterno, una pioggia gelida scrosciava a catinelle in un cielo grigio ardesia, schizzando gocce e creando rigagnoli sulle alte finestre rivolte verso il South Lawn, il prato a sud dell'edificio. A prescindere da quel che indicava il calendario, i primi sentori dell'inverno erano sempre più avvertibili nella capitale della nazione. Le luci del lampadario si riflettevano sulla montatura in titanio degli occhiali da presbite del presidente Samuel Adams Castilla mentre questi sfogliava il rapporto top secret che gli era appena stato consegnato. Si fece scuro in volto, poi alzò lo sguardo oltre l'imponente tavolo in legno di pino massello in stile vecchio ranch che gli serviva da scrivania. La sua voce era minacciosamente calma. «Confermatemi se ho capito correttamente, signori. Mi state seriamente consigliando di annullare il discorso al Teller Institute? A soli tre giorni dall'impegno in programma?»
«Esatto, signor presidente. Realisticamente parlando, il suo viaggio a Santa Fe comporterebbe dei rischi inaccettabili» rispose con freddezza David Hanson, il direttore della CIA di recente riconferma. Un istante dopo, gli fece eco Robert Zeller, il direttore ad interim dell'FBI. Castilla spostò lo sguardo dall'uno all'altro, mantenendo però l'attenzione concentrata su Hanson. Dei due, il direttore della CIA era il più duro e difficile, malgrado il suo aspetto facesse pensare più a un gracile e mite professore universitario degli anni Cinquanta, completo perfino dell'obbligatorio papillon, che al focoso patrocinatore di azioni segrete e operazioni speciali che era in realtà. Sebbene fosse un uomo gentile e rispettabile, Bob Zeller - il suo omologo dell'FBI - era ben lungi dall'essere alla sua altezza nel tempestoso mare di turbolenti intrighi politici di Washington. Zeller era uno che bucava lo schermo televisivo, ma non avrebbe mai dovuto essere rimosso dal suo posto di procuratore federale anziano ad Atlanta, nemmeno temporaneamente, mentre lo staff presidenziale della Casa Bianca andava in cerca di un rimpiazzo permanente. Se non altro, l'ex pubblico ministero federale e sottufficiale di Marina conosceva i propri punti deboli. Nelle riunioni perlopiù teneva la bocca chiusa e, di solito, finiva per appoggiare chiunque ritenesse in possesso dell'influenza maggiore. Hanson era completamente diverso: il veterano dell'Agenzia era fin troppo esperto dei giochi di potere politici. Nel corso del lungo periodo di tempo in cui era stato capo della Direzione Operazioni della CIA, Hanson si era costruito una solida base di appoggio tra i membri dei comitati di controllo dei servizi segreti della Camera e del Senato. Un gran numero di membri del Congresso e di senatori era convinto che David Hanson camminasse sull'acqua. Questo gli conferiva parecchia libertà di manovra, persino di opporsi al presidente, che lo aveva appena promosso alla guida suprema della CIA. Castilla tamburellò, con l'indice tozzo, sul rapporto Valutazione di Minaccia. «Qui dentro ci sono un mucchio di congetture. Quel che non trovo sono i fatti reali e accertati.» Il presidente lesse ad alta voce una frase. «Intercettazioni di comunicazioni verbali di natura non meglio specificata, ma significativa, indicano che elementi radicali tra i dimostranti affluiti a Santa Fe potrebbero pianificare un'azione violenta, ai danni del Teller Institute o del presidente stesso.» L'uomo si levò gli occhiali da lettura e alzò lo sguardo dal documento. «Le dispiace tradurre in una lingua più comprensibile, David?»
«Abbiamo rilevato un considerevole aumento di voci, sia in Internet sia nelle conversazioni telefoniche su linee sotto controllo regolare» spiegò il direttore della CIA. «Una quantità di espressioni preoccupanti spuntano di continuo qui e là, tutte in riferimento alla manifestazione in programma. Si parla costantemente del "grande evento" o dell'"azione dimostrativa al Teller". I miei agenti hanno raccolto queste informazioni all'estero. Anche la NSA (la National Security Agency) sta rilevando le stesse cose e l'FBI sta intercettando identiche correnti sottomarine qui da noi, in territorio nazionale. Esatto, Bob?» Zeller annuì con espressione arcigna. «È a causa di questo che i vostri analisti sono in ebollizione?» Castilla scosse la testa, evidentemente per nulla impressionato. «Gente che si scambia e-mail in merito a una protesta politica?» Il presidente sbuffò. «Buon Dio, qualsiasi manifestazione in grado di attirare trenta o quarantamila persone da tutto il Paese a Santa Fe è da considerarsi un "grande" evento! Nel New Mexico ci sono nato e cresciuto, e dubito che la gran parte di quei dimostranti abbia mai presenziato a un mio discorso.» «Quando in quel modo parlano dei membri del Sierra Club o della Wilderness Federation non mi preoccupo» ribatté Hanson in tono pacato. «Ma anche dietro le parole più semplici possono nascondersi significati molto diversi, soprattutto se usate da gruppi e individui pericolosi. Significati letali.» «Si riferisce a questi cosiddetti "elementi radicali"?» «Sì, signore.» «E chi sarebbero queste persone così pericolose?» «Per la maggior parte si tratta di alleati, in un modo o nell'altro, del Lazarus Movement, signor presidente» precisò Hanson con cautela. Castilla aggrottò le sopracciglia. «Questa l'ho già sentita. È il suo solito, vecchio ritornello, David.» Il suo interlocutore si strinse nelle spalle. «Me ne rendo conto, signore. Ma la verità non diventa meno reale solo perché sgradevole. Considerate nel loro insieme, le recenti informazioni raccolte sul Lazarus Movement sono estremamente allarmanti. Il movimento è in piena metastasi e quella che un tempo era un'alleanza ambientalista e politica relativamente pacifica si è sviluppata diversamente, e si sta rapidamente trasformando in un'organizzazione più segreta, pericolosa e letale.» Hanson fissò il presidente oltre il tavolo. «So che ha letto i rapporti delle intercettazioni di comunicazioni e di' sorveglianza attinenti. E le nostre analisi.»
Castilla annuì lentamente. L'FBI, la CIA e altre agenzie di intelligence federali tenevano d'occhio un gran numero di gruppi e di individui. Con l'ascesa del terrorismo globale e la diffusione di tecnologia bellica nucleare, biologica e chimica, nessuno a Washington voleva ulteriormente rischiare di essere abbagliato da un nemico precedentemente sconosciuto. «Allora permetta che le parli francamente, signore» proseguì Hanson. «A nostro giudizio, il Lazarus Movement adesso ha deciso di raggiungere i suoi obiettivi facendo ricorso alla violenza e al terrorismo. La sua retorica è sempre più feroce, paranoica e ridondante d'odio rivolto contro coloro che considera nemici.» Il direttore della CIA fece scivolare un altro foglio di carta sul tavolo di pino, spingendolo verso il presidente. «Questo è solo un esempio.» Castilla inforcò di nuovo gli occhiali e lesse il foglio in silenzio. Una smorfia di disgusto gli incurvò la bocca. Era una pagina stampata da un sito web dell'organizzazione ambientalista, completa di piccole immagini cliccabili, foto di cadaveri smembrati e ridotti a una poltiglia sanguinolenta. Il titolo a grandi caratteri in testa alla pagina recitava: INNOCENTI MASSACRATI A KUSASA. Il testo impaginato tra le fotografie attribuiva la strage di un intero villaggio nello Zimbabwe a «squadroni della morte» finanziati da multinazionali occidentali o a «mercenari armati dal governo degli Stati Uniti». Asseriva che il massacro faceva parte di un piano segreto per annientare gli sforzi del Lazarus Movement per rivitalizzare l'agricoltura organica africana, per timore che minacciasse il monopolio americano dei pesticidi e degli OGM. La pagina web terminava con una sorta di chiamata alle armi per l'annientamento di tutti coloro che «distruggono Madre Terra e tutti quelli che l'amano». Il presidente lasciò di nuovo cadere il foglio sul tavolo. «Che caterva di stronzate!» «È vero.» Hanson recuperò la pagina stampata e la fece di nuovo scivolare nella sua valigetta. «Però sono stronzate di un'efficacia strabiliante, almeno per il pubblico a cui sono rivolte.» «Ha inviato una squadra nello Zimbabwe per scoprire cos'è accaduto veramente in quel posto... come si chiama?... Kusasa?» domandò Castilla. Il direttore della CIA scosse il capo. «Sarebbe stato estremamente difficile, signor presidente. Senza il permesso del governo locale, il quale tra parentesi ci è ostile, saremo costretti ad andarci in segreto. Anche così, dubito che scopriremo molto. Lo Zimbabwe è un caso a parte. I contadini di quel piccolo villaggio potrebbero essere stati massacrati da chiunque, dalle
truppe governative a un'accozzaglia di banditi scatenati.» «Che diavolo!» borbottò Castilla. «E se i nostri agenti venissero scoperti a ficcanasare in loco senza permesso, tutti ne desumerebbero che siamo veramente implicati in questo massacro e che stiamo solo cercando di far sparire le nostre tracce.» «Il problema è proprio questo, signore» concordò tranquillamente Hanson. «Ma qualsiasi cosa sia avvenuta a Kusasa, un punto è chiaro come il sole: la leadership del Lazarus Movement sta sfruttando questo incidente per sobillare i suoi seguaci, per prepararli a un'azione più diretta e violenta contro di noi e i nostri alleati.» «Dannazione, non voglio neppure immaginare che cosa potrebbe accadere» brontolò Castilla. Poi si sporse in avanti sulla poltrona. «Non dimentichi che conosco personalmente molti dei fondatori del Lazarus Movement. Si tratta di scrittori, scienziati, ambientalisti convinti e molto attivi, perfino un paio di uomini politici di tutto rispetto. Volevano salvare la Terra, riportarla in vita. Non ero d'accordo con gran parte del loro programma, ma erano brave persone. Gente rispettabile.» «E adesso che fine hanno fatto, signore?» chiese in tono pacato il direttore della CIA. «I fondatori originali del Lazarus Movement erano nove. Sei sono morti, o per cause naturali o in incidenti sospettosamente convenienti. Gli altri tre sono scomparsi nel nulla senza lasciare traccia.» Hanson fissò attentamente Castilla. «Compreso Jinjiro Nomura.» «Già» si limitò ad ammettere il presidente. Dopodiché alzò gli occhi e guardò una delle fotografie in cornice ammassate in un angolo del suo tavolo-scrivania. Scattata durante il suo primo mandato come governatore del New Mexico, lo ritraeva mentre scambiava un accenno di inchino all'orientale con un giapponese più basso e attempato di lui, Jinjiro Nomura, eminente membro della Dieta Nazionale, il Parlamento giapponese, La loro amicizia, basata su un gusto condiviso per lo scotch di malto e l'estrema franchezza, era sopravvissuta al ritiro di Nomura dalla politica e alla sua svolta verso una perentoria difesa ambientalista. Dodici mesi prima, Jinjiro Nomura era scomparso mentre si trovava in Thailandia per partecipare a una manifestazione indetta dal Lazarus Movement. Suo figlio, Hideo, presidente generale e amministratore delegato della Nomura PharmaTech, aveva implorato l'aiuto delle autorità americane per ritrovare il padre e Castilla aveva reagito tempestivamente. Per varie settimane una task force speciale, composta di competenti agenti opera-
tivi della CIA, aveva setacciato le vie e i vicoli di Bangkok. Il presidente aveva perfino fatto pressione affinché i satelliti-spia ultrasegreti della NSA fossero messi al servizio delle ricerche per ritrovare il suo vecchio amico. Ma non era mai emerso nulla. Nessuna richiesta di riscatto. Nessun rinvenimento di cadavere. Niente. L'ultimo dei nove fondatori del Lazarus Movement era scomparso nel nulla senza lasciare traccia. La fotografia campeggiava sulla scrivania di Castilla come promemoria dei limiti dei suoi poteri. Il presidente sospirò e tornò a rivolgere lo sguardo ai due interlocutori dall'espressione fosca che gli sedevano di fronte. «Okay, i rappresentanti dell'organizzazione che conoscevo e di cui potevo fidarmi o sono deceduti o sono spariti dalla faccia della Terra.» «Precisamente, signor presidente.» «Il che ci riporta alla questione di chi stia dirigendo il Lazarus Movement ora» disse Castilla, tetro. «E affrontiamo la situazione, limitandoci alla ricerca della persona scomparsa, David. Dopo la sparizione di Jinjiro ho approvato la vostra task force speciale sul movimento ambientalista a dispetto delle mie perplessità personali. Oggi siete più vicini all'identificazione dell'attuale leadership?» «Non più di quando abbiamo cominciato a interessarcene» ammise Hanson con una certa riluttanza. «Neppure dopo mesi e mesi di intenso lavoro.» Hanson allargò le braccia. «Possiamo affermare quasi con certezza che le redini dell'organizzazione siano nelle mani di un unico individuo, un uomo che si fa chiamare "Lazzaro", ma non conosciamo la sua vera identità, che faccia abbia o da dove operi.» «Non è granché gratificante» commentò Castilla in tono seccato. «Forse dovrebbe smettere di dirmi quello che non sa e attenersi a quello che sa.» Il presidente fissò negli occhi il direttore della CIA. «Risparmierebbe tempo.» Hanson sorrise con deferenza. Il sorriso non coinvolse affatto gli occhi. «Abbiamo dedicato un'enorme quantità di risorse, sia umane sia satellitari, alla ricerca di Nomura, così come hanno fatto anche il MI6, la DGSE francese e numerose altre agenzie di intelligence occidentali. Ma, nell'arco dell'anno trascorso dalla sparizione di Nomura, il Lazarus Movement si è premeditatamente riconfigurato per eludere e raggirare la nostra sorveglianza.» «Continui» lo pungolò Castilla. «L'organizzazione è strutturata in una serie di cerchi concentrici sempre
più stretti e segreti» lo informò Hanson. «La maggior parte dei suoi sostenitori fa parte dell'anello esterno. Operano alla luce del sole, partecipando ai meeting, organizzando manifestazioni di protesta, pubblicando regolari riviste informative e lavorando per vari progetti finanziati dall'associazione ambientalista in tutto il mondo. Forniscono personale alle varie sedi locali del movimento in diverse nazioni. Ma ogni cerchia all'interno dell'anello di superficie esterno è più ristretta e molto meno identificabile. Pochi membri del livello superiore si conoscono con il loro vero nome o si incontrano di persona. Le comunicazioni della leadership avvengono in via quasi esclusiva tramite Internet, o per messaggi istantanei criptati, o per comunicati ufficiali inviati per posta elettronica a uno qualunque dei diversi siti web del Lazarus Movement.» «In altre parole, una classica struttura a celle» osservò Castilla. «Gli ordini passano liberamente lungo la catena gerarchica, ma nessuno al di fuori del gruppo riesce a penetrare facilmente fino al nucleo interno.» Hanson annuì. «Esatto. È anche la stessa struttura adottata nel corso degli anni da un'infinità delle più accanite organizzazioni terroristiche. AlQaeda, la jihad islamica, le Brigate Rosse in Italia, l'Armata Rossa in Giappone, solo per nominarne alcune.» «E non siete riusciti in alcun modo ad avere accesso ai livelli superiori?» domandò il presidente. Il direttore della CIA scosse il capo. «No, signore. Né ce l'hanno fatta i colleghi inglesi e francesi, né nessun altro. Ci abbiamo provato tutti, senza alcun successo. E, uno dopo l'altro, abbiamo perso le nostre migliori fonti di informazione all'interno dell'organizzazione. Alcune talpe hanno rinunciato all'incarico. Altre sono state espulse dal movimento stesso. Qualcuna è semplicemente sparita nel nulla, presumibilmente è morta.» Castilla si accigliò. «In questa organizzazione pare proprio che la gente abbia l'abitudine di svanire nel nulla.» «Sì, signore. Moltissime persone.» Il direttore della CIA lasciò aleggiare nell'aria questa sgradevole verità. Quindici minuti dopo, il direttore della Central Intelligence Agency uscì con passo spedito dalla Casa Bianca e scese i gradini del portico sud verso la limousine nera che lo attendeva. Salì a bordo della vettura e si sedette sul sedile posteriore, chiudendosi alle spalle la portiera, dopodiché premette il pulsante dell'intercom. «Riportami a Langley» ordinò al suo autista. Hanson si abbandonò contro lo schienale di lussuosa pelle imbottita,
mentre la limousine accelerava senza il minimo scossone lungo il viale d'accesso alla Casa Bianca e svoltava a sinistra nella 17a Strada. Infine, guardò l'uomo tarchiato, dalla mascella pronunciata, seduto di fronte a lui sul sedile rivolto all'indietro rispetto al senso di marcia. «Dire che sei alquanto taciturno oggi pomeriggio, Hal, è dire poco.» «Mi pagate per catturare o uccidere terroristi» sentenziò Hal Burke, «non per fare conversazione.» Un breve lampo di divertimento balenò negli occhi del direttore della CIA. Burke era un agente speciale anziano che faceva parte della Sezione antiterrorismo dell'Agenzia. Al momento, era assegnato alla direzione della task force speciale che si occupava del Lazarus Movement. Vent'anni di lavoro sul campo nei servizi segreti gli avevano lasciato la cicatrice di un proiettile sul lato destro del collo e un'opinione irrimediabilmente cinica della natura umana. Era un modo di vedere che Hanson condivideva in pieno. «Qualche colpo di fortuna?» domandò alla fine Burke. «Nessuno.» «Merda!» Burke guardò di cattivo umore fuori dal lunotto posteriore della limousine rigato di pioggia. «Kit Pierson si farà venire le convulsioni.» Hanson annuì. Katherine Pierson era l'omologa di Burke nell'FBI. I due avevano collaborato nella stesura del rapporto di valutazione informativo che lui e Zeller avevano appena illustrato al presidente. «Castilla vuole che procediamo con il maggiore impegno possibile nell'indagine sul Lazarus Movement, ma non annullerà il viaggio al Teller Institute. Non senza prove evidenti di minaccia.» Burke distolse lo sguardo dal lunotto. Le labbra sottili erano serrate in un'espressione tetra. «Quello che significa in realtà è che non vuole che il "Washington Post", il "New York Times" e Fox News gli diano del vigliacco.» «Tu lo definiresti tale?» «No» ammise Burke. «Allora hai ventiquattro ore di tempo, Hal» sentenziò il direttore della CIA. «Mi occorre che tu e Kit Pierson scoviate qualcosa di solido da poter riferire alla Casa Bianca, altrimenti Castilla volerà a Santa Fe ad affrontare quegli scalmanati a testa bassa. Sai com'è fatto questo presidente.» «È testardo come un mulo, quel figlio di puttana!» bofonchiò Burke. «Sì, puoi dirlo forte.»
«Allora, amen!» concluse Burke. Poi si strinse nelle spalle. «Spero solo che stavolta non si faccia ammazzare.» Capitolo 3 Teller Institute for Advanced Technology, Santa Fe Jon Smith salì, due alla volta, i gradini bassi e larghi della scalinata fino all'ultimo piano dell'istituto. Correre su e giù dalle tre scale principali dell'edificio era l'unico esercizio fisico per cui, al momento, aveva ancora tempo. Le lunghe giornate e le occasionali nottate trascorse nei vari laboratori di nanotecnologia del Teller Institute stavano influendo negativamente sui suoi allenamenti di mantenimento della forma fisica. Arrivò in cima all'ultima rampa e si fermò un momento, compiaciuto di notare che sia il battito cardiaco sia il respiro erano perfettamente normali. Il sole che filtrava di sbieco, attraverso le strette finestre della tromba delle scale, riscaldava piacevolmente le sue spalle. Guardò di sfuggita l'orologio al polso. Il ricercatore anziano della Harcourt Biosciences gli aveva promesso «una dimostrazione veramente entusiasmante» dei loro più recenti progressi di lì a cinque minuti. Là sopra, al primo e ultimo piano, il consueto ronzio proveniente in lontananza dai piani sottostanti - telefoni che squillavano, tastiere di computer che ticchettavano a ritmi diversi e gente che conversava - cedeva il posto a un silenzio quasi claustrale. Il Teller Institute aveva gli uffici amministrativi, la mensa, il centro informatico, le sale di ricreazione dello staff e la biblioteca scientifica a piano terra, mentre il primo piano era riservato ai complessi laboratori assegnati alle diverse équipe di ricerca. Come i suoi concorrenti dell'istituto stesso e della Nomura PharmaTech, la Harcourt Biosciences aveva i suoi impianti nell'ala nord. Smith svoltò a destra in un ampio corridoio che percorreva l'edificio a parallelepipedo in tutta la sua lunghezza. Mattonelle in cotto lucido si armonizzavano gradevolmente con muri di adobe bianco sporco. A intervalli regolari, dei nichos, piccole nicchie a muro dal bordo superiore arrotondato, esibivano ritratti a olio di famosi scienziati - Fermi, Newton, Feynman, Drexler, Einstein e altri - commissionati a noti pittori locali. Tra i nichos si ergevano alte giare di ceramica colme di fiori selvatici: astri rossi e chamisa gialli. Se si avesse fatto caso alle imponenti dimensioni di quel lungo corridoio, pensò Smith, si avrebbe potuto avere l'impressione di trovarsi in
quello di una sontuosa casa privata di Santa Fe. Giunse davanti alla porta chiusa d'accesso al laboratorio della Harcourt e passò il suo tesserino di identificazione nell'adiacente postazione elettronica di sicurezza. La luce sopra il lettore lampeggiò: si spense la spia rossa e si accese quella verde e la serratura della porta scattò automaticamente. Il suo tesserino laminato era una delle relativamente poche card codificate per l'accesso a tutte le zone strettamente riservate. Agli scienziati e ai tecnici dei tre diversi laboratori concorrenti era vietata l'intrusione nei rispettivi territori. Gli eventuali trasgressori non dovevano certo affrontare un plotone d'esecuzione, però venivano immediatamente espulsi per sempre dal centro ricerche di Santa Fe. Il Teller Institute prendeva molto sul serio il suo obbligo di tutela della proprietà intellettuale. Smith oltrepassò la soglia ed entrò in un mondo completamente diverso. Là, il legno lucidato e i tipici muri bianchi a secco della vecchia Santa Fe lasciavano il posto all'acciaio cromato e ai robustissimi materiali compositi del Ventunesimo secolo. L'eleganza della luce solare naturale e dell'illuminazione artificiale a incasso si arrendeva al bagliore diffuso delle luci fluorescenti e dei tubi al neon. Quelle luci avevano un'altissima componente ultravioletta destinata unicamente a uccidere i germi di superficie. Una piccola corrente d'aria gli agitò la camicia e gli mosse con un soffio discreto i capelli neri. I laboratori di nanotecnologia erano tenuti sotto pressione positiva per ridurre al minimo il rischio di contaminazione di agenti e batteri aerotrasportati provenienti dalle zone pubbliche dell'edificio. Speciali filtri d'aria antiparticolato ultraefficienti - o ULPA - erogavano nell'ambiente aria purificata a temperatura e umidità costanti. I locali del laboratorio di ricerca scientifica della Harcourt erano predisposti come una serie di «stanze pulite» di rigore crescente. Il bordo esterno, in cui Smith si trovava in quel momento, era una zona adibita a uso ufficio, ingombra fino all'eccesso di scrivanie e postazioni di lavoro sulle quali troneggiavano mucchi e pile di libri di consultazione, cataloghi di attrezzature da laboratorio e sostanze chimiche, tabulati e risme di stampate da computer. Lungo il muro est, varie tende scure erano tirate a copertura delle vetrate panoramiche a tutta parete, nascondendo quella che altrimenti sarebbe stata una vista spettacolare dei monti Sangre de Cristo. Più all'interno del laboratorio c'era una zona di controllo e di preparazione campioni. Là c'erano banchi di lavoro da laboratorio con il piano nero, consolle di computer, l'inelegante massa di due microscopi elettronici a effetto tunnel, e le altre attrezzature necessarie a sovrintendere i processi di
progettazione e produzione di nanotecnologia. Il vero «Sancta Sanctorum» era il nucleo più interno: visibile solo attraverso alcune finestre d'osservazione sigillate ermeticamente sulla parete opposta all'entrata. Era una sala adibita a laboratorio piena di vasche d'acciaio inossidabile levigato a specchio, scivoli per attrezzature mobili cariche di pompe idrauliche, valvole, sensori e dispositivi vari, telai a disco per filtri osmotici montati in posizione verticale, e una quantità di cilindri in lucite abbondantemente rivestiti di gel purificante di varie gradazioni, tutti collegati con metri e metri di tubetti a spirale di silastic trasparente, un particolare elastomero di silicone, molto simile alla gomma più morbida e resistente, ma assolutamente sterile. Smith sapeva che il nucleo più interno poteva essere raggiunto solo attraverso una successione di vestiboli sterili a chiusura perfettamente ermetica. Chiunque lavorasse all'interno della sala di produzione doveva indossare guanti, stivaletti e tenute sterili a protezione totale, e un casco con respiratore autonomo. Si concesse un sorrisino ironico. Se gli attivisti del Lazarus Movement accampati all'esterno dell'istituto avessero visto qualcuno con addosso quell'equipaggiamento da alieno, la strana e minacciosa tenuta avrebbe confermato le loro peggiori paure in merito a degli scienziati pazzi che giocherellavano con tossine letali. In verità, naturalmente, la situazione reale era esattamente l'opposto. Nel mondo della nanotecnologia, gli esseri umani erano l'effettiva fonte di pericolo di contaminazione. Una minuscola desquamazione della pelle, un follicolo di capello, le particelle fluttuanti e nebulizzate di umidità emesse durante la respirazione nel corso di una fortuita conversazione, o l'esplosiva raffica di uno starnuto, tutto quanto poteva compromettere disastrosamente l'ambiente a livello di nanoscala, diffondendo olii, acidi, alcali ed enzimi che potevano avvelenare il processo di fabbricazione. Gli esseri umani erano anche una ricca fonte di batteri: organismi a sviluppo e moltiplicazione rapida, che avrebbero deteriorato i brodi produttivi, i filtri zoccolo e perfino attaccato i nanodispositivi stessi (chiamati anche nanomacchine o nanorobot autoreplicanti) ancora in fase di sviluppo. Fortunatamente, la maggior parte del lavoro necessario poteva essere fatta a distanza operando dall'esterno del nucleo e delle sale di controllo e di preparazione dei campioni. Manipolatori robotizzati, scivoli di attrezzature motorizzate comandate dai computer e altre innovazioni tecnologiche riducevano enormemente la necessità che gli esseri umani entrassero nelle «sale a sterilità totale». L'incredibile livello di automazione nei suoi vasti
laboratori di ricerca scientifica era una delle innovazioni più popolari del Teller Institute, dal momento che garantiva agli scienziati e ai tecnici di laboratorio una libertà di movimento di gran lunga maggiore di quella presente in altri impianti e centri di ricerca. Smith zigzagò a fatica nel dedalo di scrivanie che occupava la sala più esterna, facendosi strada in direzione del dottor Philip Brinker, lo scienziato più anziano della Harcourt Biosciences. Il ricercatore - un tipo allampanato, ceruleo, magro come un chiodo - aveva le spalle rivolte alla porta d'ingresso del laboratorio, ed era così profondamente assorto nell'osservazione dell'immagine trasmessa sul monitor dal microscopio a scansione elettronica da non accorgersi che Jon gli si stava avvicinando. L'assistente capo di Brinker, il dottor Ravi Parikh, era più all'erta. Il biologo molecolare, un uomo di bassa statura e dalla carnagione scura, alzò lo sguardo all'improvviso. Socchiuse la bocca per avvertire il suo superiore, poi la chiuse mostrando un sorrisino schivo, quando Smith ammiccò con aria furba nella sua direzione e gli fece cenno di stare zitto. Jon si fermò a mezzo metro di distanza alle spalle dei due ricercatori e rimase immobile in posizione di riposo. «Caspita, che visione fantastica, Ravi!» disse Brinker, con lo sguardo ancora fisso sull'immagine nel monitor, davanti al quale era chino. «Ragazzi! Scommetto che il nostro spettro preferito del Dipartimento della Difesa si profonderà in inchini quando vedrà tutto questo.» Questa volta Smith non si disturbò a mascherare un sorriso a trentadue denti. Brinker lo chiamava sempre «spettro», cioè spia. Lo scienziato della Harcourt voleva solo scherzare, ricorrendo a quella che era una specie di battuta continua sul ruolo di Smith come osservatore per conto del Pentagono. Tuttavia, Brinker non aveva la più pallida idea di quanto quella definizione fosse vicina alla verità. Che Jon fosse molto più di un semplice ufficiale dell'esercito, nonché un uomo di scienza, era un dato di fatto. Di tanto in tanto si accollava qualche missione per la Covert-One, un'unità di intelligence ultrasegreta che riferiva direttamente al presidente. La Covert-One operava nell'ombra e talmente in clandestinità che nessuno nel Congresso o nelle gerarchie burocratiche dei servizi segreti militari o civili ufficiali era a conoscenza della sua esistenza. Fortunatamente, il lavoro di Jon all'istituto era di natura puramente scientifica. Smith si chinò in avanti, guardando al di sopra della spalla dello scienziato più anziano dell'Harcourt Biosciences. «Cos'è di preciso che farà sì
che io baci il terreno su cui cammina, Phil?» Spaventato, Brinker fece un salto. «Cristo!» esclamò, restando senza fiato. Poi si voltò di scatto. «Colonnello, si finga un'altra volta un fantasma in questo modo e le giuro su Dio che schiatto d'infarto davanti ai suoi occhi! Come si sentirebbe, se questo accadesse?» Smith se la rise. «Mi scusi, avrei dovuto evitare...» «Lo può ben dire» bofonchiò Brinker. Poi si rianimò. «Ma dal momento che non m'è venuto un colpo, nonostante tutti i suoi sforzi, può dare un'occhiata a quello che io e Ravi abbiamo elaborato per oggi. Si rifaccia gli occhi davanti al nanofago Mark Il Brinker-Parikh non ancora brevettato, un batteriofago molecolare garantito per l'eliminazione di cellule cancerogene, batteri pericolosi e altre problematiche interne al corpo umano... nella maggior parte dei casi, almeno.» Smith si avvicinò e osservò l'immagine in bianco e nero, enormemente ingrandita, trasmessa dal monitor. Mostrava un guscio semiconduttore sferico pieno fino a scoppiare di un vasto assortimento (o «array») di complesse strutture molecolari. Su un lato dello schermo, un indicatore graduato di scala rivelava che stava guardando un insieme di soli duecento nanometri di diametro. Smith aveva già dimestichezza con la ricerca generale dell'equipe di scienziati. Brinker, Parikh e gli altri si stavano concentrando sulla creazione di «nanomacchine», o meglio nanodispositivi a scopi medici - quelli che definivano «nanofagi» - che avrebbero dato la caccia e ucciso le cellule cancerogene e vari batteri e virus che erano causa di malattie. L'interno della sfera che stava esaminando avrebbe dovuto essere piena di sostanze biochimiche - fosfatidilserina e altre molecole costimolatrici, per esempio necessarie per attivare nelle cellule prese di mira una reazione suicida o per contrassegnarle (o «marcarle») perché venissero eliminate dal sistema immunitario del corpo stesso. Il progetto Mark I era fallito nella prima fase di sperimentazione su cavie animali, perché i nanofagi venivano neutralizzati e distrutti dal sistema immunitario prima ancora che potessero svolgere la loro funzione. Dopo quel primo fallimento, Jon sapeva che gli scienziati della Harcourt avevano preso in esame diverse configurazioni di guscio esterno e differenti materiali, sforzandosi per trovare una combinazione che sarebbe stata efficacemente invisibile alle difese naturali del corpo dell'ospite. E per mesi la formula magica era loro sfuggita. Smith alzò lo sguardo, poi si rivolse a Brinker: «Sembra quasi identica
alla configurazione Mark I. Che cosa avete cambiato?». «Osservi con maggiore attenzione il rivestimento del guscio» consigliò il biondo ricercatore della Harcourt Biosciences. Smith assentì e agì sui comandi del microscopio. Batté leggermente con la punta del dito sulla tastiera del computer, zoomando lentamente su una sezione del guscio esterno. «Ho capito» disse. «È corrugato, non liscio. C'è un sottile rivestimento molecolare, ma non so di quale natura.» Poi aggrottò le sopracciglia. «La struttura del rivestimento ha un'aria molto familiare... ma dov'è che l'ho già vista?» «L'idea di base è venuta a Ravi come una folgorazione improvvisa» spiegò lo spilungone biondo. «E come tutte le idee geniali è incredibilmente semplice e insolitamente ovvia... almeno dopo esserci arrivati.» Brinker scrollò le spalle. «Pensi alla piccola madre di un batterio particolarmente cattivo: lo staphylococcus aureus di ceppo resistente. In che modo si nasconde al sistema immunitario?» «Riveste di polisaccaridi le sue membrane cellulari» rispose prontamente Smith. Poi osservò di nuovo il monitor. «Oh, per la miseria...» Parikh annuì con aria compiaciuta. «I nostri Mark II sono essenzialmente rivestiti di zucchero. Proprio come i migliori medicinali.» Smith emise un sommesso fischio di meraviglia. «Un'idea davvero brillante, ragazzi. Assolutamente geniale!» «Con tutta la dovuta modestia, questa volta ha perfettamente ragione» ammise Brinker. Il biondo, allampanato scienziato posò delicatamente una mano sul bordo superiore del monitor. «Lo splendido Mark II che sta osservando dovrebbe farcela. Almeno in teoria.» «E in pratica?» domandò Smith. Ravi Parikh indicò con il dito un altro display ad alta risoluzione. A differenza del monitor da computer, questo aveva le dimensioni di un piatto televisore widescreen a cristalli liquidi. Mostrava un contenitore di vetro a doppia parete fissato al piano di un tavolo da laboratorio in una saletta sterile lì accanto. «È proprio quello che andremo a scoprire tra poco, colonnello. Nelle ultime trentasei ore abbiamo lavorato quasi ininterrottamente per produrre una quantità sufficiente di nanofagi per questo esperimento.» Smith annuì. I nanodispositivi (o «nanomacchine») non venivano costruiti uno alla volta con l'aiuto di pinzette microscopiche e microgocce di colla subatomica, venivano invece prodotti a decine o addirittura centinaia di milioni, o perfino miliardi, di copie tramite processi enzimatici e biochimici, controllati con estrema precisione per mezzo di pH, temperatura e
pressione. Elementi diversi crescevano in soluzioni chimiche e condizioni diverse. Si cominciava in una vasca, si formava la struttura di base, si eliminavano le sostanze in eccesso, poi si spostavano i materiali prodotti in un nuovo bagno chimico per far crescere la parte successiva dell'insieme in un processo di autoreplicazione. Tutto il procedimento richiedeva un monitoraggio costante e una coordinazione dei tempi assolutamente precisa. I tre uomini si avvicinarono al monitor. Una dozzina di cavie da laboratorio occupavano il contenitore trasparente a doppia parete. Dei topolini bianchi, sei erano letargici, fiaccati da tumori e cancri indotti in laboratorio. Gli altri sei, un gruppo in ottima salute e in pieno controllo delle loro facoltà, scorrazzavano qui e là, all'inutile ricerca di una via d'uscita dal contenitore. Contrassegni numerati e cromaticamente codificati identificavano ogni cavia. Diverse telecamere e una varietà di altri sensori circondavano il contenitore di vetro, pronti a registrare ogni evento a partire dall'inizio dell'esperimento. Brinker indicò una specie di barattolino metallico fissato a un'estremità della teca in cui si sarebbe svolto il test. «Eccoli là, Jon. Più o meno, cinquanta milioni di nanofagi Mark II pronti a entrare in azione.» Lo scienziato si rivolse a uno dei tecnici di laboratorio che indugiavano nelle vicinanze. «I nostri piccoli amici in pelliccia sono stati inoculati, Mike?» Il tecnico annuì prontamente. «Certo, dottor Brinker. L'ho fatto io stesso appena dieci minuti fa. Una bella iniezione per ognuno di loro.» «I nanofagi inoculati penetrano all'interno in condizioni di inerzia» spiegò Brinker. «La loro "batteria" ATP interna ha una durata estremamente limitata, perciò circondiamo quella sezione con una guaina protettiva.» Smith comprendeva il motivo della precauzione. L'adenosintrifosfato, o ATP, è una molecola che fornisce energia per la maggior parte dei processi metabolici. Ma l'ATP avrebbe iniziato a rilasciare la sua energia non appena fosse entrato in contatto con un liquido. E tutte le creature viventi erano composte in massima parte di liquido. «Perciò l'iniezione è un cosiddetto "pedale d'avviamento"?» domandò. «Esatto» confermò Brinker. «Iniettiamo un segnale chimico unico in ciascun soggetto destinato all'esperimento. Una volta che un sensore passivo sul nanofago rileva il segnale, la guaina si apre e il liquido circostante attiva l'ATP. Le nostre piccole macchine si mettono in moto e iniziano la loro ricerca.» «Allora la vostra guaina agisce anche da dispositivo di sicurezza» rifletté Smith a voce alta. «Giusto nel caso qualcuno dei Mark II finisca dove non
è affatto previsto: per esempio dentro uno di voi.» «Precisamente» convenne Brinker. «Nessuna firma chimica unica... nessuna attivazione nanofaga.» Parikh era meno sicuro a quel proposito. «C'è un rischio, seppur modesto» avvertì il piccolo biologo molecolare. «Nel processo di sviluppo nanofago esiste pur sempre un certo tasso d'errore.» «Vale a dire che a volte la guaina non si forma in modo appropriato? O che il sensore non interviene o è predisposto a ricevere il segnale sbagliato? O che magari si finisce per errore con l'accumulare le sostanze biochimiche sbagliate nell'involucro del fago?» «Cose del genere» ammise Brinker. «Ma la percentuale d'errore è minima. Davvero irrisoria. Che diamine, praticamente vicina allo zero.» Il dottore fece spallucce. «Inoltre, questi batteriofagi sono programmati per uccidere cellule cancerogene e virus micidiali. Che importa se pochi elementi isolati vagano sporadicamente all'interno del bersaglio sbagliato per un paio di minuti al massimo?» Smith inarcò un sopracciglio con aria scettica. Brinker diceva sul serio? Basso rischio o meno, l'atteggiamento del ricercatore anziano della Harcourt Biosciences sembrava un po' troppo disinvolto. La scienza, per lui, era l'arte di assumersi infinite pene e preoccupazioni. Non significava di certo sorvolare con superficialità sui rischi di sicurezza potenziali, per quanto minimi. Il suo interlocutore notò la sua espressione e rise. «Non stia in ansia, Jon. Non sono pazzo. Be', non completamente, perlomeno. Teniamo i nostri nanofagi strettamente al guinzaglio. Sono controllati con cura e assoluto rigore. Per giunta, c'è qui Ravi a farmi rigare diritto. D'accordo?» Smith annuì. «Stavo solo verificando, Phil. Lo ascriva alla mia natura sospettosa da "spettro".» Brinker gli scoccò un breve sorrisino beffardo. Poi rivolse un'occhiata ai tecnici di laboratorio tutt'intorno, occupati alle varie postazioni e monitor di controllo. «Tutti pronti?» Uno dopo l'altro, ognuno di essi mostrò il pollice alzato allo scienziato. «Bene» disse Brinker. Gli occhi gli brillavano d'eccitato entusiasmo. «Prova a soggetto vivo con nanofago Mark II numero 1. Al mio segnale: tre, due, uno... via!» Il barattolo di metallo sibilò. «Nanofagi liberati» mormorò uno dei tecnici, osservando su un monitor
una lettura rilevata nel barattolo. Per alcuni minuti sembrò non accadesse nulla. Le cavie sane gironzolavano qui e là, apparentemente a caso. Quelle malate restavano immobili. «Ciclo d'energia ATP completato» annunciò finalmente un altro tecnico di laboratorio. «Periodo di vita nanofaga completato. Prova su soggetti vivi completata.» Brinker emise un sospiro di sollievo. Poi guardò Smith con espressione trionfante. «Ci siamo, colonnello. Ora anestetizzeremo i nostri amici in pelliccia, li apriremo e vedremo quale percentuale dei vari cancri di cui soffrono abbiamo appena debellato. Io scommetto che sarà una percentuale vicina al cento per cento.» Ravi Parikh stava ancora osservando i topolini bianchi. Si accigliò. «Mi sa che forse uno è sfuggito al trattamento, Phil» disse con calma olimpica. «Date un'occhiata al soggetto numero cinque sottoposto all'esperimento.» Smith si piegò in avanti per osservare più da vicino. Il topo numero cinque era una delle cavie sane, appartenente al gruppo in pieno controllo delle proprie facoltà. Si stava muovendo in modo irregolare, inciampando precipitosamente e scontrandosi ripetutamente nei suoi compagni, aprendo e chiudendo rapidamente la bocca. Tutt'a un tratto stramazzò su un fianco e si dibatté disperatamente in apparente agonia per pochi secondi, dopodiché giacque immobile. «Merda!» esclamò Brinker, fissando con sguardo vacuo la cavia morta. «Questo non sarebbe dovuto affatto accadere. Poco, ma sicuro.» Jon Smith corrugò la fronte e decise repentinamente di verificare di nuovo le procedure di sicurezza e di contenimento della Harcourt Biosciences. Meglio che fossero assolutamente e meticolosamente sicure come sostenevano Parikh e Brinker, così che qualsiasi cosa avesse appena causato la morte di quel topolino bianco perfettamente sano restasse chiusa ermeticamente all'interno di quel laboratorio. Era quasi mezzanotte. Poco meno di un paio di chilometri a nord, le luci di Santa Fe proiettavano un caldo alone giallo sul freddo e limpido cielo notturno. Di fronte, le finestre accese all'ultimo piano del Teller Institute baluginavano dietro le tende tirate. I lampioni ad arco montati sul tetto dell'edificio proiettavano lunghe ombre scure sul terreno circostante il fabbricato. Lungo il margine nord della recinzione perimetrale piccoli boschetti di pini e ginepri erano completamente immersi nell'oscurità.
Paolo Ponti strisciò più vicino alla rete di recinzione attraverso l'erba alta e secca. Bocconi, si mantenne sempre appiattito a terra, attento a restare nell'ombra dove la sua felpa nera e i suoi jeans color antracite lo rendevano quasi invisibile. L'italiano aveva ventiquattro anni, era snello e atletico. Sei mesi prima, stanco di essere uno studente universitario che sopravviveva a stento con il sussidio di disoccupazione, era entrato nelle fila del Lazarus Movement. Il movimento ecologista offriva un significato alla sua esistenza, un senso di appartenenza a una buona causa e un entusiasmo straordinario. All'inizio, i giuramenti segreti con cui si era solennemente impegnato a proteggere Madre Terra e ad annientare i suoi nemici gli erano sembrati alquanto melodrammatici e ridicoli. Da allora, però, Ponti aveva abbracciato il credo e i principi del Lazarus Movement con uno zelo che non mancava di sorprendere chiunque lo conoscesse. Perfino lui stesso. Paolo si voltò e scorse la vaga sagoma umana che avanzava carponi dietro di lui. Aveva conosciuto Audrey Karavites a un corteo del Lazarus Movement organizzato a Stoccarda un mese prima. La ventunenne americana aveva viaggiato per tutta l'Europa grazie al regalo in contanti dei genitori in occasione della laurea. Annoiata da musei e cattedrali, Audrey aveva partecipato alla manifestazione di protesta per puro capriccio. Quel capriccio le aveva cambiato radicalmente la vita quando il bel Paolo l'aveva infiammata d'ideali, portandosela a letto e introducendola nell'organizzazione ambientalista. L'italiano si voltò, con un sorriso stampato in faccia e la solita aria di sufficienza sul volto. Audrey non era di una bellezza straordinaria, ma aveva un bel corpo, con le curve al posto giusto. Particolare ancor più importante, i suoi genitori, piuttosto ingenui e ricchi sfondati, le passavano un cospicuo assegno mensile: un sussidio col quale si era comprata due biglietti aerei, per sé e per Paolo, per raggiungere Santa Fe e unirsi a quella protesta contro la nanotecnologia e il corrotto capitalismo a stelle e strisce. Ponti strisciò cautamente tra l'erba alta fino al reticolato, arrivandovi talmente vicino che le punte delle sue dita sfiorarono il metallo freddo. L'italiano spiò attraverso le maglie della rete metallica. I cactus, i cespugli isolati di salvia della prateria e i fiori selvatici indigeni piantati all'intorno, come un giardino paesaggistico resistente alla siccità, avrebbero dovuto garantire un buon riparo. Paolo controllò il quadrante luminoso del suo orologio. La pattuglia successiva degli addetti alla sicurezza dell'istituto non avrebbe dovuto perlustrare ancora quel punto nel giro di ronda per oltre
un'ora. Perfetto. L'attivista italiano toccò di nuovo il reticolato, questa volta agganciando le dita alle maglie di metallo e tirando per provarne la resistenza. Annuì tra sé, soddisfatto di quel che aveva scoperto. Il tronchese che si era portato dietro avrebbe avuto la meglio abbastanza facilmente. Alle sue spalle risuonò un forte schianto: uno schiocco secco, netto, come quello di un grosso ramo spezzato da un paio di mani robuste. Ponti aggrottò le sopracciglia. A volte Audrey si muoveva con la grazia di un ippopotamo artritico. L'italiano si voltò ancora una volta, ripromettendosi di rimproverarla con un'occhiata inceneritrice. Audrey Karavites giaceva rannicchiata su un fianco tra le erbacce. La testa era piegata sul collo con un'angolazione assurda. Aveva gli occhi sbarrati, congelati per sempre in un'espressione d'orrore. Qualcuno le aveva spezzato il collo. Era morta. Stupito, Paolo Ponti si sollevò lentamente sui gomiti fino a mettersi seduto, lì per lì incapace di comprendere appieno quello che era accaduto. Poi socchiuse la bocca per lanciare un urlo, ma una mano enorme gli afferrò la faccia, tirandolo indietro, soffocando le grida che gli salivano direttamente dal cuore. L'ultima cosa che il giovane ecologista italiano sentì fu il dolore straziante, simile a una lama gelida come ghiaccio affondata senza pietà e con forza nella sua gola scoperta. L'uomo erculeo dai capelli di un castano chiarissimo estrasse con uno strattone il coltello da combattimento dal collo del giovane appena ucciso e ne pulì la lama insanguinata in una piega della felpa nera della sua vittima. I suoi occhi verdi lampeggiarono, brillanti come smeraldi. L'assassino lanciò uno sguardo nel punto in cui giaceva in modo scomposto la ragazza che aveva ucciso poco prima. Due figure umane vestite completamente di nero erano impegnate a frugare rapidamente nella sacca da viaggio che la ragazza si era trascinata con sé fino al luogo del suo eterno riposo. «Ebbene?» «Tutto quello che ti eri aspettato, Prime» ribatté un sussurro rauco. «Attrezzatura da alpinisti. Imbracature. Bombolette di vernice spray fluorescente. E uno striscione del Lazarus Movement.» L'uomo dagli occhi verdi scosse lentamente la testa, divertito. «Dilettanti.» Un altro degli uomini ai suoi ordini si abbassò su un ginocchio al suo fianco. «Ordini?»
Il gigante scrollò le spalle. «Ripulite perfettamente la zona. Poi trasportate i cadaveri da un'altra parte, in un posto dove saranno senz'altro trovati.» «Vuoi che siano rinvenuti al più presto? O tra qualche ora? Oppure tra un giorno o due?» chiese il suo subalterno con la massima calma. Il colosso dai capelli castano chiaro scoprì i denti nel buio. «Domani mattina sarà più che sufficiente.» Capitolo 4 Mercoledì 13 ottobre «Dall'analisi preliminare non si rileva nessuna contaminazione nei primi quattro bagni chimici. Anche i livelli di temperatura e pH rientrano nella soglia delle norme previste...» Jon Smith si abbandonò contro lo schienale della poltroncina girevole, rileggendo quello che aveva appena digitato sulla tastiera. Gli bruciavano gli occhi. Aveva trascorso gran parte della notte a riesaminare formule biochimiche e procedimenti di costituzione di nanofagi con Phil Brinker, Ravi Parikh e gli altri membri della loro équipe. Probabilmente i ricercatori della Harcourt Biosciences erano ancora alacremente al lavoro, immersi nella lettura di risme di tabulati ed esiti di esami fitti di dati su supporto cartaceo. Con il presidente degli Stati Uniti che aveva in programma di encomiare il loro operato, e anche quello degli altri due laboratori del Teller Institute, di lì a meno di quarantotto ore, la pressione era alle stelle. Nessuno nella sede centrale societaria dell'Harcourt avrebbe voluto che i mass media pubblicassero e trasmettessero immagini della loro nuova tecnologia «salvavita» che uccideva topi da laboratorio. «Signore...?» Jon Smith ruotò sulla poltroncina voltando le spalle al monitor del computer, reprimendo un repentino moto d'irritazione per essere stato interrotto. «Sì?» Un tipo robusto dall'espressione fin troppo seria, vestito con un completo grigio scuro, camicia e cravatta rosse, era in piedi sulla soglia dell'angusto ufficio che gli era stato assegnato. Lo sconosciuto controllò un elenco di nomi fotocopiato. «Lei è il dottor Jonathan Smith?» «In carne e ossa» rispose Jon. Poi drizzò la schiena sollevandosi sulla poltroncina e notò il vago rigonfiamento di una fondina ascellare sotto la
giacca dello sconosciuto. Quel particolare lo spiazzò. Solo il personale in uniforme del servizio di sicurezza interno, aveva il permesso di portare armi da fuoco all'interno dell'istituto. «E lei chi sarebbe?» «Agente speciale Mark Farrows, signore. Servizio segreto presidenziale degli Stati Uniti.» Be', questo spiegava l'arma nascosta. Smith si rilassò leggermente. «In che cosa posso esserle utile, agente Farrows?» «Mi dispiace ma debbo chiederle di lasciare il suo ufficio per alcuni minuti, dottore.» Farrows offrì un cauto sorrisino di circostanza, anticipando quello che Smith, prevedibilmente, avrebbe chiesto. «E si tranquillizzi, signore. Non è in arresto. Faccio parte della Divisione protettiva. Siamo qui per effettuare i dovuti controlli di sicurezza.» Smith emise un sospiro. Gli istituti di ricerca, come il Teller, tenevano in grande considerazione le visite del presidente, perché spesso si traducevano in un profilo più alto a livello nazionale e aggiungevano fondi d'assegnazione alla ricerca scientifica da parte del Congresso. Ma non si poteva certo negare che fossero anche di una scomodità imbarazzante. I controlli sulla sicurezza come quello, presumibilmente esplorativi dell'eventuale presenza di ordigni esplosivi, potenziali nascondigli per aspiranti assassini e altri pericoli, intralciavano sempre, e pesantemente, le normali attività di routine di qualsiasi laboratorio. D'altra parte, Smith era ben consapevole del fatto che proteggere la vita del «capo supremo» della nazione era di competenza del Servizio segreto presidenziale. Per gli agenti impegnati, scortare il presidente degli Stati Uniti in totale sicurezza all'interno di un vasto e imponente centro di ricerca scientifica stipato di sostanze chimiche pericolose, agenti tossici, cilindri pressurizzati ad alta temperatura e un impianto elettrico ad alto voltaggio, a centrale indipendente, sufficiente per illuminare e fornire energia elettrica a una piccola cittadina, sarebbe stato un incubo a occhi aperti. Le alte gerarchie dell'istituto erano già state informate sull'ispezione accurata e pignola che avrebbero dovuto aspettarsi. Tutti, però, avevano immaginato che avrebbe avuto luogo il giorno successivo, poco prima dell'arrivo del presidente, ma la marea di contestatori che si stava ammassando fuori dall'istituto aveva sollecitato il Servizio segreto presidenziale ad agire in anticipo rispetto alla norma. Smith si alzò, prese il giubbotto di pelle dalla spalliera della poltroncina girevole e seguì Farrows in corridoio. Decine di scienziati, tecnici di laboratorio e impiegati amministrativi stavano sciamando davanti al suo uffi-
cio, la maggior parte dei quali carichi di faldoni, incartamenti e PC portatili per continuare a lavorare finché il distaccamento del Servizio segreto non avesse dato loro il permesso di fare ritorno nei rispettivi uffici e laboratori. «Stiamo chiedendo al personale dell'istituto di attendere in sala mensa, dottore» disse Farrows cortesemente, indicando la direzione. «La perquisizione dei locali non dovrebbe durare a lungo, in effetti. Non più di un'ora, spero.» Erano quasi le undici. La prospettiva di starsene seduto a far niente insieme agli altri nella sala mensa gremita di gente non attirava un granché Smith. Era già rimasto inchiodato là dentro fin troppo a lungo, e non ci si poteva ridurre a respirare unicamente aria riciclata e trangugiare caffè riscaldato per così tante ore senza dar fuori di matto. Jon si rivolse all'agente. «Se per lei fa lo stesso, preferirei prendere una boccata d'aria fresca all'aperto.» L'agente del Servizio segreto allungò una mano per fermarlo. «Spiacente, signore, ma per me non è affatto lo stesso. Devo attenermi agli ordini. Tutti i dipendenti dell'istituto devono presentarsi in sala mensa.» Smith rivolse all'agente un'occhiata raggelante. Non lo disturbava lasciare che gli uomini del Servizio segreto facessero il loro lavoro, ma non avrebbe permesso che qualcuno calpestasse le sue esigenze senza un motivo più che valido. Restò immobile in piedi, in silenziosa attesa finché l'agente speciale Farrows non lasciò la manica della sua giacca in pelle. «Allora i suoi ordini non verranno applicati alla mia persona, agente Farrows» dichiarò tranquillamente. «Io non sono un dipendente del Teller Institute.» Con un esperto colpetto del polso, aprì il portafogli per mostrare all'uomo il suo tesserino militare. Farrows esaminò rapidamente il documento di identificazione. Poi inarcò un sopracciglio. «È un tenente colonnello dell'esercito? Pensavo che fosse uno di questi scienzialoidi.» «Sono sia l'uno che l'altro» lo informò Smith. «Sono qui a tempo indeterminato su incarico del Pentagono.» Smith indicò con un cenno del capo l'elenco di nominativi che il suo interlocutore reggeva ancora nell'altra mano. «Francamente, sono sorpreso di notare che questa piccola informazione riservata non compaia sulla sua tabella.» L'agente del Servizio segreto fece spallucce. «A quanto pare qualcuno a Washington ha preso un abbaglio. Capita.» Farrows tamburellò indicativamente sull'auricolare radio che portava a un orecchio. «Mi permetta di
chiarire la questione con il mio SAIC, okay?» Smith annuì. Ogni distaccamento mobile del Servizio segreto presidenziale era agli ordini di un SAIC (Special Agent In Charge), l'agente speciale al comando. Attese pazientemente che Farrows spiegasse la situazione al suo superiore. Finalmente, il mastino gli fece cenno di passare. «Può andare, colonnello, ma non si allontani troppo dall'edificio. Quei rompipalle del Lazarus Movement là fuori sono veramente di pessimo umore in questo momento.» Smith superò l'agente Farrows lungo il corridoio e sbucò nell'ampio atrio d'ingresso anteriore dell'istituto. A sinistra, una delle tre scale dell'edificio conduceva al primo piano. Una doppia serie di porte su entrambi i lati del corridoio che si dipartiva a sinistra dell'atrio, a piano terra, dava accesso a vari uffici amministrativi. Nella parte anteriore dell'atrio una balaustra di marmo che arrivava alla vita delimitava i banchi di registrazione e d'informazione a uso dei visitatori. A destra, un'enorme porta a doppio battente a pannelli di legno era completamente spalancata sull'esterno dell'istituto. Da là, una serie di bassi e ampi gradini color sabbia conduceva a un largo viale d'accesso. Due grossi SUV rigorosamente neri, con targhe del governo degli Stati Uniti, erano parcheggiati sul ciglio del viale, proprio ai piedi della scalinata d'ingresso. Un secondo agente del Servizio segreto presidenziale in borghese era in piedi di guardia sulla soglia della porta d'uscita, incaricato di tenere d'occhio sia l'atrio sia i veicoli parcheggiati all'esterno. Portava gli occhiali da sole e imbracciava con noncuranza una mitraglietta Heckler & Koch MP5 9mm dall'aspetto minaccioso e fatale. Girò brevemente la testa sul collo taurino per osservare Smith che lo superava, poi rivolse di nuovo l'attenzione al suo dovere di sentinella. Appena fu all'aperto in cima alla scalinata, Smith si fermò e si attardò un momento, godendosi la sensazione del sole tiepido sul volto affilato e abbronzato. La temperatura stava aumentando gradualmente e sbuffi di nuvole bianche andavano pigramente alla deriva nel cielo di un azzurro brillante. Era una giornata d'autunno assolutamente perfetta. Jon inspirò a pieni polmoni, sforzandosi di espellere dall'organismo le tossine derivanti dalla fatica accumulate in ore e ore di superlavoro. «VIVA IL LAZARUS MOVEMENT! NO ALLA NANOTECNOLOGIA! VIVA IL LAZARUS MOVEMENT! NO ALLA NANOTECNOLOGIA! VIVA IL LAZARUS MOVEMENT!» Smith fece una smorfia preoccupata. I cantilenanti, ritmici slogan scan-
diti dalla folla di contestatori gli martellarono i timpani, disturbando la sua momentanea illusione di pace. Erano molto più agguerriti del giorno precedente. Rivolse lo sguardo alla massa di dimostranti assembrati come sardine a ridosso della recinzione perimetrale. Erano anche più numerosi. Forse arrivavano a diecimila persone. Un mare di bandiere e di cartelli rosso sangue e verde vivace si alzava e abbassava al ritmo degli slogan, scanditi a gran voce dalla moltitudine strepitante. Gli organizzatori della protesta fendevano la calca andando avanti e indietro da un palco mobile eretto vicino alla guardiola del servizio di sicurezza dell'istituto, berciando nei microfoni per sferzare al delirio i manifestanti. Il cancello principale era chiuso. Un piccolo squadrone di addetti alla sicurezza in uniforme grigia si ergeva davanti al cancello, nel lato interno della rete di recinzione, schierato e pronto ad affrontare nervosamente la ressa oceanica. All'esterno, oltre il reticolato, quasi all'orizzonte della strada di accesso al centro di ricerca, Smith intravedeva poche volanti delle forze dell'ordine: un paio di autopattuglie con la livrea bianca e nera della Polizia di Stato del New Mexico, le altre con la livrea bianca e azzurra con strisce dorate dell'Ufficio dello Sceriffo della Contea di Santa Fe. «Credo che scoppierà un casino infernale, colonnello» osservò lugubremente alle sue spalle una voce a lui familiare. Frank Diaz avanzò di qualche passo dalla sua postazione presso la porta. Quel giorno l'ex sottufficiale dei Ranger indossava un ingombrante giubbotto antiproiettile e un casco antisommossa con la visiera gli ciondolava da una mano, mentre appeso alla spalla opposta portava un fucile a pompa Remington calibro 12. Una bandoliera era provvista di un assortimento misto di cariche di CS (gas lacrimogeno) e di grossi proiettili per il fucile. «Come mai quella gente è così agitata?» domandò Smith. «Il presidente Castilla e i media non arriveranno prima di dopodomani. Perché tutta questa indignazione, adesso?» «Stanotte qualcuno ha barbaramente trucidato una coppia di militanti del Lazarus Movement» lo informò Diaz. «Il Dipartimento di polizia di Santa Fe ha rinvenuto due corpi ficcati in un cassonetto per rifiuti ingombranti. Laggiù, dietro quel grosso centro commerciale, in Cerrillos Road. Uno è stato sgozzato e l'altra, una ragazza, aveva il collo spezzato.» Smith emise un fischio sommesso. «Accidenti!» «Non c'è da scherzare.» Il veterano dell'esercito si raschiò la gola e sputò. «E quei vegetariani impenitenti là fuori danno la colpa a noi.»
Smith si voltò per fissare Diaz con maggiore attenzione. «Davvero?» «A quanto sembra le due vittime avevano intenzione di tagliare un varco nella nostra recinzione stanotte» spiegò Diaz. «Per non so quale gesto eclatante di sconsiderata disobbedienza civile. Naturalmente i più radicali tra i contestatori, puntano il dito contro di noi. Secondo la loro ricostruzione dei fatti, noi li avremmo colti in flagrante e poi massacrati. Il che, va da sé, è una cazzata mostruosa...» «Va da sé» convenne Smith distrattamente. Percorse con lo sguardo il tratto di rete metallica di recinzione in vista. Sembrava perfettamente intatto. «Ma ciononostante sono morti, e voi siete i cattivi designati, giusto?» «Che diamine, colonnello» ribatté l'ex sottufficiale dei Ranger. Sembrava quasi risentito. «Se avessi fatto fuori un paio di stronzi ecologisti maniaci infiltrati, pensa davvero che sarei stato così idiota da nasconderli semplicemente in un cassonetto sul retro di un dannato centro commerciale?» Smith scosse il capo. Non riuscì a sopprimere un ghigno. «No, sergente maggiore Diaz. Non credo affatto che lei sia così fesso.» «Ci può giurare.» «Il che mi porta di nuovo a chiedermi: chi è stato così stupido?» Ravi Parikh era concentrato sull'immagine, ingrandita al massimo, sul monitor del suo computer. La sfera semiconduttrice che stava osservando sembrava rientrare senza problemi nelle specifiche del suo design. Parikh zoomò, aumentando ulteriormente la dimensione di visualizzazione dell'immagine, per esaminare la metà anteriore del nanofago. «Non rilevo problemi di nessun tipo in questo assetto sensorio, Phil» disse a Brinker. «Tutto è esattamente dove dovrebbe essere.» Brinker annuì con prudenza. «Il che esclude novantanove degli ultimi cento campioni.» Lo scienziato si sfregò gli occhi arrossati. «E l'unico campione difettoso che abbiamo trovato finora non aveva formato alcun assetto sensorio, quindi la fonte d'energia di cui disponeva non si sarebbe mai attivata.» Parikh corrugò la fronte pensierosamente. «Quello non è un errore fatale.» «Già, almeno per l'organismo ospite.» Brinker fissò tetramente il monitor. «Però, qualunque cosa sia andata storta nel topo numero cinque, si è rivelata dannatamente fatale.» Il ricercatore represse uno sbadiglio. «Ravi, amico mio... che serata! È come cercare un ago in un pagliaio grande come
Giove.» «Magari, continuando a provare, avremo un pizzico di fortuna» suggerì Parikh. «Già, be', abbiamo ancora... oh, diciamo... quarantasette ore e trentadue minuti per darci dentro.» Brinker ruotò all'improvviso sulla poltroncina girevole. Non molto lontano c'era il comandante della squadra del Servizio segreto presidenziale, che aveva l'incarico di rendere sicuro il loro laboratorio prima della visita del presidente. Era un tipo grande e grosso, ben oltre il metro e novanta e probabilmente sui centoventi chili di peso, la maggior parte dei quali composti di muscoli. Al momento era impegnato a osservare due membri della sua unità che piazzavano quelli che loro chiamavano in gergo apparecchi «anticimici» e «di rilevamento di materiali pericolosi» in vari punti del laboratorio. Lo scienziato schioccò le dita, cercando di ricordare come si chiamava l'agente al comando. Fitzgerald? O'Connor? Un cognome irlandese, comunque. «Oh, agente Kennedy...?» Lo spilungone dai capelli castano chiaro si voltò nella sua direzione. «Mi chiamo O'Neill, dottor Brinker. «Ah, sì, giusto. Mi scusi.» Brinker fece spallucce. «Be', volevo solo ringraziarla per aver permesso a me e a Ravi di restare qui mentre i suoi colleghi svolgono il loro lavoro.» O'Neill ricambiò il sorriso. Però quel gesto di gentilezza non coinvolse anche i suoi occhi, di un verde brillante. «I ringraziamenti non sono necessari, dottor Brinker. Non c'è di che.» «VIVA IL LAZARUS MOVEMENT! NO ALLA MORTE! NO ALLA NANOTECNOLOGIA! VIVA IL LAZARUS MOVEMENT!» Malachi MacNamara era in piedi vicino al palco degli oratori, in prossimità del cuore della calca di manifestanti urlanti e agguerriti. Come le persone che gli erano intorno, alzava di scatto il pugno a tempo, con aria rabbiosa e si univa a tutti gli slogan che venivano proposti e scanditi coralmente in maniera assordante. Per tutto il tempo, però, i suoi occhi di un azzurro slavato erano occupati a scrutare attentamente la folla. Adesso i volontari del Lazarus Movement stavano gironzolando lentamente nella ressa di dimostranti ammassati, distribuendo nuovi cartelli e poster. Mani ansiose afferravano i nuovi strumenti di protesta. MacNamara si fece strada tra i contestatori accalcati, che si agitavano per averne uno per sé. Il cartello che gli fu consegnato portava una fotocopia della foto,
ingrandita e a colori, di Paolo Ponti e Audrey Karavites: una fotografia che doveva essere stata scattata di recente, perché mostrava la coppia in piedi, controluce, sullo sfondo delle vette innevate dei monti Sangre de Cristo. Scarabocchiate a mano a lettere in stampatello rosso, sopra i loro visi giovani e sorridenti, c'erano le parole: LORO SONO STATI ASSASSINATI! MA IL LAZARUS VIVE ANCORA! Sempre scandendo lo slogan di turno, l'uomo dagli occhi chiari annuì tra sé. Geniale, pensò con freddezza. Davvero geniale. «Cristo santissimo, colonnello» mormorò Diaz, ascoltando il vociante baccano di odio allo stato puro che si diffondeva tra la folla stipata all'esterno della recinzione. «Sembra di essere allo zoo durante l'ora del pasto alle belve!» Smith annuì, a labbra serrate. Per un istante desiderò di avere con sé un'arma. Poi scacciò quell'inquietante pensiero. Se la situazione fosse peggiorata fino a sfuggire completamente di mano, quindici proiettili da 9mm nel caricatore di una Beretta non sarebbero comunque bastati a salvargli la vita. Né si era arruolato nell'esercito degli Stati Uniti per sparare a dei sediziosi disarmati. Alcune luci lampeggianti in lontananza, sulla strada di accesso al complesso, attirarono la sua attenzione. Un piccolo convoglio di SUV neri e di berline, altrettanto rigorosamente nere, stava risalendo la strada con lentezza esasperante, avanzando a velocità costante, seppure a fatica e a passo d'uomo, tra la massa di gente in fermento. Perfino da quella distanza Jon riusciva a vedere una selva di pugni agitati con rabbia al passaggio delle vetture. Rivolse un'occhiata a Diaz. «Aspettate rinforzi, Frank?» L'addetto alla sicurezza scosse la testa. «Veramente, no. Cazzo, se si esclude la Guardia nazionale, abbiamo già ogni unità disponibile nel raggio di settanta chilometri.» L'ex sottufficiale dei Ranger scrutò attentamente i veicoli in arrivo. L'auto in testa alla colonna era appena arrivata davanti al cancello. «E quella là di sicuro non è la Guardia nazionale.» La radio tattica del veterano dell'esercito gracchiò all'improvviso, abbastanza forte perché Smith sentisse tutto. «Sergente?» disse una voce. «Qui Battaglia, al cancello.» «Va' avanti» scattò Diaz. «A rapporto.» «Ho qui altri agenti federali. Ma ho idea che stia accadendo qualcosa di veramente strano...» «Sarebbe a dire?»
«Be', i tipi appena arrivati dicono di essere loro il distaccamento d'avanguardia del Servizio segreto presidenziale... l'unico previsto» farfugliò l'altra guardia. «E c'è qui un certo agente speciale, O'Neill, che sta facendo fuoco e fiamme perché ho esitato ad aprirgli il cancello.» Diaz abbassò lentamente la ricetrasmittente, dopodiché fissò Smith con un'espressione di confusione totale. «Due squadre del Servizio segreto? Come diavolo possono esserci due dannati distaccamenti della stessa organizzazione governativa?!» Jon sentì un brivido percorrergli la spina dorsale. «È impossibile. Non possono essercene due, per giunta identici.» Si frugò nella tasca interna della giacca ed estrasse il cellulare. Era un modello progettato in modo tale che tutte le comunicazioni trasmesse e ricevute dall'apparecchio fossero criptate tramite un sistema ad altissima sicurezza. Premette un solo pulsante, attivando una sequenza numerica d'emergenza a composizione automatica. Il telefono all'altro capo della linea squillò una volta. Solo una volta. «Parla Klein» disse con calma una voce pacata che apparteneva a Nathaniel Frederick Klein, il riservatissimo direttore della Covert-One. «Che cosa posso fare per lei, Jon?» «I nostri esperti sono in grado di collegarsi, senza creare sospetti, al sistema di comunicazione interno del Servizio segreto presidenziale?» domandò Smith. Ci fu una breve pausa. «Sì» replicò Klein. «Siamo in grado di farlo.» «Allora che lo facciano subito!» lo incalzò Smith in tono pressante. «Mi occorre la localizzazione precisa del distaccamento d'avanguardia presidenziale assegnato al Teller Institute!» «Attenda un momento in linea.» Smith bloccò il cellulare tra la spalla e l'orecchio, liberando temporaneamente entrambe le mani. Lanciò un'occhiata a Frank Diaz, che lo stava osservando con un'espressione stranita d'incredulità. «Il tuo superiore ha fornito a quella prima unità del Servizio segreto presidenziale le vostre frequenze radio tattiche?» «Sì, certo. È logico.» «Be', allora, sergente maggiore» ribatté Smith in tono agghiacciante, «avrò bisogno di un'arma.» L'ex sottufficiale dei Ranger annuì lentamente. «Sicuro, colonnello.» Diaz gli consegnò la sua Beretta d'ordinanza. Vide Smith controllare il caricatore della pistola, reinserirlo a scatto nell'impugnatura, tirare indietro la
slitta di caricamento per introdurre il primo colpo in canna e poi far scattare la sicura, tutto quanto in una serie di movimenti automatici e rapidissimi. Diaz inarcò entrambe le sopracciglia. «Avrei dovuto immaginarlo che era qualcosa di più di un semplice dottore.» Fred Klein tornò in linea. «Il distaccamento d'avanguardia al comando del SAIC Thomas O'Neill in questo preciso momento è fermo davanti al cancello principale dell'istituto. Riferiscono che il personale di sicurezza interna si è rifiutato di lasciarli entrare.» Il direttore della Covert-One ebbe un attimo di esitazione. «Che cosa sta succedendo esattamente laggiù, Jon?» «Non ho tempo di spiegarglielo nei dettagli» rispose Smith. «Ma siamo di fronte a un classico "cavallo di Troia". E i dannati Greci hanno già superato le porte d'ingresso alla cittadella.» Poi, tutt'a un tratto, lui e Diaz si ritrovarono con meno tempo a disposizione di quel che aveva immaginato. L'agente fasullo del Servizio segreto che aveva visto piantonare le porte d'entrata principali stava uscendo all'aperto e stava già puntando la canna della sua mitraglietta verso di loro. Smith reagì istantaneamente, tuffandosi a terra da una parte. Atterrò disteso bocconi sui gradini della scalinata con la Beretta già tesa in avanti in fondo alle braccia allungate, stretta a due mani e puntata contro il bersaglio. Diaz si gettò dalla parte opposta con un tempismo da acrobata. Per una frazione di secondo il falso agente armato esitò, annaspando nella rapida scelta della minaccia peggiore. Poi rivolse l'MP5 verso la guardia in uniforme. Grosso errore, pensò Smith gelidamente. Fece scattare la sicura e premette il grilletto. La Beretta sollevò leggermente, di scatto, la punta della canna per il rinculo. Jon costrinse la pistola a riallinearsi alla mira e sparò di nuovo subito dopo il primo colpo. Entrambi i proiettili da 9mm andarono a segno, perforando la carne e schiantando le ossa dell'uomo. Colpito due volte al torace, questi si accasciò scompostamente a terra. La mitraglietta che imbracciava cadde, sbatacchiando sul selciato e un rivoletto di sangue colò sui gradini, allargandosi lentamente. Smith udì la portiera di un'auto aprirsi alle sue spalle. Guardò dietro di sé. Un altro agente in completo formale scuro era sceso precipitosamente da uno dei due SUV neri parcheggiati sul ciglio del viale d'ingresso dentro il
perimetro del complesso. L'uomo aveva già in pugno una SIG-Sauer e la pistola era puntata con precisione alla sua testa. Smith si girò di scatto nel tentativo frenetico di puntare a sua volta contro l'avversario l'arma che stringeva in pugno, pur consapevole dell'inutilità del gesto. Era troppo lento, troppo fuori dalla posizione di mira ideale e il dito dell'uomo dall'abito scuro si stava già contraendo sul grilletto... Frank Diaz aprì il fuoco con il fucile a pompa, sparando a bruciapelo. La granata di gas lacrimogeno CS dall'estremità anteriore smussata colpì il secondo killer proprio sotto il mento e gli staccò di netto la testa dal collo. Poi, roteando su se stesso, il candelotto di gas lacrimogeno rimbalzò sul tettuccio del SUV ed esplose in aria, a cinque o sei metri d'altezza, in uno sbuffo di fumo grigio che creò una nebbia improvvisa che si spostava verso est, allontanandosi dall'edificio. «Cazzo!» bofonchiò Diaz. «Munizioni non letali un bel paio di palle!» L'ex sergente maggiore dei Ranger ricaricò rapidamente il fucile a pompa, questa volta con proiettili normali. «E adesso cosa facciamo, colonnello?» Smith restò steso a pancia in giù per qualche altro istante, scrutando l'ampia soglia - con la porta a due battenti spalancata - dell'istituto, in attesa di eventuali altri avversari. Non c'erano segni di movimento. «Coprimi.» Diaz annuì. Piantò un ginocchio a terra e tenne sotto tiro la porta d'ingresso. Smith strisciò su per i gradini fino al punto in cui giaceva il corpo del primo killer. Arricciò il naso all'odore del rame proveniente dal sangue e del fetore nauseante delle viscere che si erano svuotate. Non farci caso, si impose lugubremente. Prima vinci. Lascia a dopo il rimorso per aver messo brutalmente fine a due vite. Chiuse la sicura della Beretta e infilò l'arma nella cintura dei pantaloni. Agendo con estrema rapidità, raccolse da terra l'MP5 del falso agente morto. L'auricolare radio della sentinella, sotto copertura, attirò la sua attenzione. Decise che sarebbe stato utilissimo sapere quali erano le intenzioni del nemico. Sottrasse il leggero ricetrasmettitore dalla cintura del morto, completò l'opera togliendo il cavetto e l'auricolare alla sua vittima, indossò l'astina microfonica e si montò nell'orecchio il piccolo ricevitore. «Delta Uno? Delta Due? Rispondete, passo» disse una voce severa. Smith trattenne il fiato. Era la voce del nemico. Ma chi diavolo era quella gente? «Sezione Delta? Rispondete, passo» ripeté la voce. Poi parlò ancora,
impartendo un ordine. «Qui Prime. Delta Uno e Due non sono in linea. A tutte le sezioni. Abilitare canale di sicurezza nelle comunicazioni radio. Presto, presto! Subito...» La voce si ammutolì bruscamente, sostituita da un fastidioso ronzio inframmezzato da scariche elettrostatiche. Smith capì quel che era appena accaduto. Nel preciso istante in cui si erano resi conto che le loro comunicazioni radio erano compromesse, gli intrusi all'interno dell'edificio avevano cambiato frequenza radio, seguendo un piano programmato in anticipo e rendendogli inutile la ricetrasmittente miniaturizzata portatile. Smith emise un fischio sommesso tra sé. Qualunque cosa stesse avvenendo al Teller Institute in quel momento, una cosa era assolutamente certa: lui e Diaz stavano affrontando dei veri professionisti. Capitolo 5 All'interno del silenzioso e sterile laboratorio dell'Harcourt Biosciences, lo spilungone dai capelli biondi aggrottò le sopracciglia. L'arrivo anticipato della vera unità d'avanguardia del Servizio segreto era una possibilità che aveva naturalmente previsto nella pianificazione della missione. La perdita dei due uomini lasciati a guardia dell'ingresso principale dell'istituto era, invece, una complicazione più grave. L'uomo parlò con la massima calma nel microfono miniaturizzato che portava agganciato al risvolto della giacca. «Sierra Uno, qui Prime. Coprite le scale. Subito.» Poi si rivolse agli uomini al suo comando diretto. «Quanto ci vuole ancora?» Il tecnico anziano, un tipo basso e tarchiato, con pronunciati tratti slavi, alzò lo sguardo dal grosso cilindro metallico, che stava collegando a un circuito attivato tramite telecomando a distanza. Aveva agganciato magneticamente il cilindro a una scrivania di metallo vicina alla vetrata panoramica a tutta parete del laboratorio. «Ancora due minuti, Prime.» Il piccoletto mormorò qualcosa nel suo microfono miniaturizzato, appuntato a spilla al bavero e ascoltò attentamente. «Le nostre sezioni negli altri due laboratori confermano che anche loro hanno quasi terminato il lavoro» riferì. «C'è qualche problema, agente O'Neill?» L'uomo dagli occhi verdi si girò di scatto e si trovò davanti il dottor Ravi Parikh che lo fissava. Il suo collega, il dottor Brinker, era ancora impegnato nell'analisi del fallito esperimento con il nuovo nanofago, ma il biologo
molecolare indiano sembrava essersi insospettito. O'Neill sfoggiò un sorriso rassicurante. «Nessun problema, dottore. Prosegua pure con il suo lavoro.» Parikh restò titubante. «Che cos'è quell'apparecchiatura?» domandò alla fine, indicando l'ingombrante cilindro accanto al quale era accovacciato il falso tecnico del Servizio segreto presidenziale. «Non sembra per niente un "rilevatore di materiali pericolosi" o qualsiasi altra cosa avevate detto che stavate sistemando nel nostro laboratorio.» «Perbacco, dottor Parikh, ma lei è un vero osservatore» dichiarò in tono prudente l'uomo dagli occhi verdi. Si avvicinò allo scienziato, poi, quasi con noncuranza, lo colpì con violenza al collo con il taglio della mano destra, vibrandogli a tradimento un colpo di karatè. Parikh stramazzò sul pavimento. Allarmato dal rumore improvviso, Brinker si voltò di scatto. Guardò il suo assistente con espressione scioccata. «Ravi? Cosa diamine...?» Ancora in movimento, l'uomo alto e massiccio ruotò su se stesso e sferrò con forza tremenda un calcio volante. Il tallone del piede che calzava una scarpa robusta colpì al torace il ricercatore scientifico dai capelli biondi, scaraventandolo contro la scrivania e il monitor del computer. La testa di Brinker si piegò di scatto in avanti sul collo. Poi il dottore scivolò a terra e restò immobile. Smith girò una piccola manopola sul ricetrasmettitore sottratto al nemico, regolando la sintonia su una serie infinita di frequenze diverse con la maggiore rapidità possibile. Ascoltava attentamente. Le scariche elettrostatiche sibilavano e scoppiettavano. Non c'erano voci. Nessun ordine da intercettare e interpretare. Accigliato, Jon si strappò l'auricolare dall'orecchio e mise da parte l'ormai inutile ricetrasmettitore portatile. Era tempo di agire. Restarsene lì con le mani in mano un altro po' significava far compiere al nemico la prima mossa. Questo sarebbe già stato abbastanza rischioso contro dei dilettanti, ma contro una forza ben addestrata probabilmente si sarebbe rivelato catastrofico. In quel preciso momento, gli agenti del fasullo Servizio segreto stavano metodicamente attuando chissà quale disegno eversivo all'interno del Teller Institute. Ma che gioco stanno facendo?, si chiese. Un atto di terrorismo? Un sequestro di ostaggi? Spionaggio industriale ad altissimo rischio? Sabotaggio? Smith scosse il capo. Era praticamente impossibile saperlo. Non ancora,
almeno. Tuttavia, qualsiasi piano gli intrusi avessero in mente, quello era il momento ideale per fare pressione, prima che avessero il tempo di reagire. Si sollevò su un ginocchio, controllando l'entrata in ombra dell'istituto. «Dove sta andando, colonnello?» bisbigliò Diaz. «Dentro.» L'addetto alla sicurezza sgranò gli occhi con aria incredula. «È una follia! Perché non aspettiamo rinforzi qui? All'interno dell'istituto ci sono almeno altri dieci di quei bastardi.» Smith arrischiò un'occhiata alle sue spalle, verso il reticolato perimetrale e il cancello. I contestatori inferociti che premevano all'entrata stavano rapidamente perdendo ogni controllo. La gente accalcata spingeva, tirava la rete metallica e batteva furiosamente sui cofani e i tettucci della colonna di automezzi del Servizio segreto bloccata davanti al cancello. Poco propensi a provocare ulteriormente la massa furibonda, i veri agenti federali erano battuti in ritirata a bordo delle loro vetture chiuse. E anche se le guardie di sicurezza del Teller Institute avessero aperto il cancello per lasciarli entrare nel complesso cintato, i dimostranti avrebbero fatto irruzione insieme alla colonna di fuoristrada e di berline. Smith imprecò a denti stretti. «Dai un'occhiata là dietro, Frank. I rinforzi non arriveranno. Non per il momento, almeno.» «Allora aspettiamoli qui» protestò Diaz. Poi indicò con il pollice i SUV parcheggiati alle loro spalle. «Quella è la loro via di fuga. Aspettiamoli al varco. Per scappare dovranno prima fare i conti con noi.» Smith scrollò la testa. «Troppo rischioso. Primo: questi tizi potrebbero essere un commando suicida che non ha affatto in programma di andarsene. Secondo: ormai sanno che siamo qui fuori ad attenderli. Sono professionisti. Hanno di sicuro organizzato delle vie di fuga alternative, e ci sono fin troppe altre alternative per darsi alla macchia in fretta e furia da qui... magari un elicottero che atterra sul tetto dell'istituto, o altri veicoli in attesa oltre il reticolato. Terzo: queste armi...» Smith indicò sia la mitraglietta MP5 che aveva sottratto al nemico sia il fucile a pompa di Diaz «non ci garantiscono una potenza di fuoco sufficiente per fermare un attacco risoluto. Se permettiamo ai nostri avversari di ingaggiare una battaglia di posizione, ci passeranno sopra come degli schiacciasassi.» «Ah, merda!» sospirò il veterano dell'esercito, ricontrollando i proiettili di riserva per il suo Remington. «Odio queste situazioni del cazzo alla John Wayne. Non mi pagano abbastanza per fare l'eroe.» Smith scoprì i denti in un sogghigno forzato e feroce. «Lo stesso vale
per me. Ma abbiamo voluto la bicicletta, e adesso dobbiamo pedalare. Perciò ti suggerisco di chiudere il becco e di fare il soldato, sergente.» L'agente speciale della Covert-One espirò il fiato che gli restava. «Pronto?» Con una faccia da funerale ma risoluto, Diaz gli mostrò il pollice alzato. Imbracciato l'MP5, Smith corse sul lato destro della grande porta d'ingresso, a due battenti spalancati, dell'istituto. Sentì i muscoli dello stomaco contrarsi, aspettando il repentino, lacerante dolore di un proiettile sparato dall'interno dell'atrio. Invece, regnava soltanto il silenzio. Respirando rapidamente, si appiattì contro il muro di adobe riscaldato dal sole. Diaz lo raggiunse un secondo dopo. Smith ruzzolò oltre l'angolo della porta, facendo compiere alla mitraglietta un arco a velocità costante, controllato, mentre prendeva la mira seguendo la direzione della canna. Niente. L'enorme locale appariva deserto. Parzialmente accovacciato, Jon si spostò in avanti e si riparò dietro un muretto di marmo la cui altezza gli arrivava alla vita. Raggiunti da un venticello leggero proveniente dalla porta aperta, alcuni fogli di carta svolazzarono giù dal banco informazioni e registrazione visitatori dell'istituto e volteggiarono pigramente sul pavimento di mattonelle. Jon sporse adagio il capo oltre la balaustra. «Stia giù!» ruggì Diaz. Smith percepì la presenza di una sagoma umana nel corridoio a sinistra. Si tuffò a terra nello stesso istante in cui l'uomo armato aprì il fuoco, sparandogli contro in successione rapida con una pistola 9mm. I proiettili centrarono la mensola della balaustra sopra la testa di Smith, facendo volare tutt'intorno frammenti di marmo sbriciolato. Una minuscola scheggia gli incise una sottile linea rossa sul dorso della mano destra. Bocconi, con il calcio dell'MP5 premuto contro la spalla, Jon rispose al fuoco, sparando a raffiche controllate di tre colpi ciascuna. Dalla porta d'ingresso spalancata, Diaz cominciò a sparare grossi proiettili di piombo corazzato d'acciaio con il fucile a pompa calibro 12. Ogni colpo faceva saltare grossi pezzi di calcinacci dai muri di adobe dell'istituto. Smith rotolò fuori dal riparo fornito dalla balaustra di marmo. Un proiettile di pistola gli fischiò a una spanna dalla testa. Rotolò su se stesso e si fermò all'improvviso, di nuovo bocconi, ma stavolta in una posizione con la visuale completamente libera sull'intero corridoio. Jon vide bene il killer che lo fissava di rimando. Erano a meno di quindici metri l'uno dall'altro. Si trattava dell'uomo robusto e dall'espressione lugubre che aveva detto di chiamarsi Farrows. Il sedicente agente del falso
Servizio segreto presidenziale aveva un ginocchio a terra e una SIG-Sauer puntata, impugnata con la mano destra, il cui polso era tenuto stretto con la sinistra per rinsaldarne la presa. Stava ancora esplodendo colpi in successione rapida. Un altro proiettile scheggiò il pavimento vicino alla testa di Smith, sollevando un pulviscolo di piccole schegge e frammenti di mattonella rotta che colpirono il suo volto. Jon ignorò il dolore pungente ed espirò completamente. Il mirino dell'MP5 puntato in avanti era centrato sull'avversario. Premette il grilletto. La mitraglietta esplose tre colpi in un'unica raffica, vibrando leggermente tre volte. Due proiettili mancarono di poco il bersaglio. Il terzo colpì Farrows in pieno volto, perforandogli il cranio e asportandogli la parete occipitale. Smith balzò in piedi e corse di slancio fino ai piedi dello scalone a U che saliva al primo piano dell'istituto. Finora tre nemici eliminati, pensò. Ma quanti ne restavano ancora? Diaz attraversò l'atrio con lo scatto di un centometrista e si tuffò bocconi non molto lontano, fornendo prontamente la copertura della prima rampa di scale con il fucile. «Adesso dove andiamo, colonnello?» chiese sottovoce. Bella domanda, pensò Smith preoccupato. Molto dipendeva dalle intenzioni degli intrusi. Se si erano messi in testa di tenere l'équipe del laboratorio di ricerca come ostaggi, gran parte dei loro effettivi sarebbe stata rintanata nella mensa dell'istituto: più avanti, lungo il corridoio del piano terra, non troppo lontano dal punto in cui Farrows giaceva riverso e, soprattutto, stecchito. Ma se la situazione si era evoluta in un sequestro di ostaggi, andare alla carica a testa bassa aumentava esponenzialmente le probabilità di un tragico bilancio in termini di vite umane. Tuttavia, dubitava molto che si trattasse di un sequestro di ostaggi. Tutta l'operazione era stata elaborata e programmata con troppa precisione, con tempistica quasi perfetta, per una cosa così semplice e a basso grado di preparazione tecnologica. Intrufolarsi nel Teller Institute mascherati da agenti del Servizio segreto presidenziale, per un controllo a tappeto dell'eventualità di attentati dinamitardi, sembrava avere come obiettivo principale l'ottenimento di un facile e libero accesso ai laboratori di ricerca. Jon prese la sua decisione e puntò l'indice della mano libera verso il soffitto. Diaz annuì. Muovendosi a balzi alternati, con uno sempre pronto a fornire fuoco di
copertura all'altro mentre quest'ultimo avanzava velocemente, Jon Smith e l'addetto alla sicurezza dell'istituto cominciarono a salire lo scalone centrale. «VIVA IL LAZARUS MOVEMENT! NO ALLA NANOTECNOLOGIA! VIVA IL LAZARUS MOVEMENT! NO ALLE MACCHINE DELLA MORTE! VIVA IL LAZARUS MOVEMENT!» Malachi MacNamara fu sospinto dalla marea montante della calca ancor più vicino al reticolato perimetrale dell'istituto, trascinato dalla folla urlante e inneggiante. Aggrottò la fronte. Era un uomo che disdegnava le esibizioni d'emotività incontrollata, irrazionale, selvaggia; un uomo che si sentiva di gran lunga più felice nella natura incontaminata piuttosto che intrappolato in quel modo in un mare di esseri umani suoi simili. Per il momento, però, sapeva che poteva spostarsi soltanto assecondando i movimenti ondeggianti di quella marea impazzita. Se avesse tentato di opporsi alla pressione della valanga umana, avrebbe corso il rischio di essere travolto e calpestato a morte. Tuttavia, pensò freddamente, questo non significava certo che doveva fingersi una marionetta completamente passiva. Alzò i gomiti e si fece largo nella massa con una serie di violenti spintoni, martellando le costole delle persone a lui più vicine. Spaventati dalla sua fredda rabbia, i malcapitati si fecero leggermente da parte, concedendogli quel poco di spazio in più che gli bastò per rischiare un'occhiata dietro di sé al palco degli oratori che incitavano la massa di manifestanti. Era deserto. I suoi occhi chiarissimi si socchiusero, riducendosi a un paio di fessure di puro e improvviso calcolo razionale. Gli estremisti del Lazarus Movement che avevano attirato quella moltitudine di oltre diecimila manifestanti, diffondendo un furore scatenato, erano scomparsi nel nulla. Dov'erano finiti? Perfino nella calca di gente stipata, il magro, agile canadese, temprato da una vita all'aria aperta, spiccava per la sua altezza quanto bastava perché riuscisse a vedere oltre le frange esterne della folla. Due veicoli del Servizio segreto stavano battendo lentamente in ritirata, in retromarcia, più avanti, nella ressa lungo la strada d'accesso all'istituto. I cofani e i tettucci ammaccati, i paraurti piegati, i parabrezza e i lunotti in frantumi attestavano la furia dell'uragano umano attraverso il quale erano passati. C'erano anche gruppetti di costernati agenti della Polizia di Stato del New Mexico e dell'Ufficio dello Sceriffo della Contea di Santa Fe, la maggior parte dei
quali in lenta ritirata dalla zona in prossimità dell'istituto, per evitare di scatenare tumulti o addirittura una furibonda rivolta generale con la loro sola presenza. Attirati dalla prospettiva di riprendere la scena in diretta per dei servizi drammatici da trasmettere sulle reti televisive nazionali e internazionali, numerose troupe delle TV locali erano piazzate in prossimità della massa di dimostranti che urlava, pestava i piedi ritmicamente e scandiva slogan. MacNamara rivolse lo sguardo altrove. I suoi occhi da cacciatore scandagliarono attentamente l'oceanica folla agguerrita, nel tentativo di scorgere gli attivisti del Lazarus Movement. Non li vide da nessuna parte. Sempre più strano, pensò con freddezza. Topi in fuga precipitosa da una nave che affondava? O predatori che se la filavano per fare fuori qualcuno altrove? La pressione della calca lungo il reticolato stava aumentando. In certi punti della recinzione, la rete metallica era rigonfia verso l'interno, pericolosamente tesa sotto l'impatto di tanti corpi ammassati. Gli addetti alla sicurezza in uniforme grigia oltre il reticolato stavano già arretrando di qualche passo, battendo in ritirata verso l'edificio principale dell'istituto. Il canadese annuì tra sé. Non c'era certamente da meravigliarsi. Nessuno che non fosse matto si sarebbe aspettato che un piccolo contingente di poliziotti part-time affrontasse una folla scatenata di diecimila persone in campo aperto. Farlo sarebbe stato scegliere una forma particolarmente penosa di suicidio. A un tratto, MacNamara si irrigidì, individuando diversi uomini che fendevano con determinazione ed espressione lugubre la selva di volti stravolti dall'odio, di striscioni e cartelli rossi e verdi, e di pugni levati in alto. Erano i giovani tanto agguerriti che aveva visto arrivare il giorno precedente, ognuno con in spalla la stessa lunga e misteriosa sacca da viaggio. Coperti dalla folla alla vista dei poliziotti, gli accigliati giovanotti raggiunsero il reticolato. Deposero a terra le sacche ed estrassero dei grossi tronchesi a manico lungo. Cominciarono quindi a fendere la rete metallica un rombo dopo l'altro, tagliando dall'alto in basso con esperta rapidità ed estrema efficienza. Ben presto, intere parti della recinzione di sicurezza dell'istituto vennero giù di schianto. Dapprima centinaia e poi migliaia di dimostranti si riversarono all'interno del complesso attraverso i varchi aperti, superando a lunghi passi il terreno oltre il reticolato, in direzione del grande edificio color sabbia. «VIVA IL LAZARUS MOVEMENT! VIVA IL LAZARUS MOVE-
MENT!» scandivano a gran voce. «NO ALLA NANOTECNOLOGIA! NO ALLE MACCHINE DELLA MORTE!» Incapace di sottrarsi all'esacerbato senso di rivolta generale, l'uomo dal volto pallido e dagli occhi chiari che rispondeva al nome di Malachi MacNamara corse a perdifiato insieme alla massa dei manifestanti inferociti, strillando a viva voce gli slogan come tutti gli altri. Smith avanzò verso nord lungo un lato del corridoio al primo piano del Teller Institute, con la mitraglietta MP5 appoggiata alla spalla, pronto ad aprire il fuoco. Frank Diaz avanzò lungo il lato opposto. Arrivarono a una grande porta di ferro, la prima di una serie di porte blindate che si aprivano sull'ampio corridoio centrale. La spia rossa sopra la centralina di sicurezza adiacente lampeggiava. Un cartello identificava il locale interno come il laboratorio scientifico assegnato alla VOSS LIFE SCIENCES - DIVISIONE GENOMA UMANO. Diaz indicò la porta con la canna del fucile a pompa, poi domandò: «Facciamo irruzione?». Smith si affrettò a scuotere il capo rapidamente. L'istituto era sede di oltre una dozzina di progetti di ricerca e sviluppo tecnologico, tutti sofisticatissimi, ultramoderni, enormemente costosi, e tutti potenzialmente preziosi. Era praticamente impossibile che lui e Diaz potessero passare al setaccio ogni laboratorio e ufficio del primo piano. Decise dunque di seguire l'intuito. Il viaggio del presidente a Santa Fe aveva lo scopo di mettere in risalto la ricerca nanotech condotta dalla Harcourt Biosciences, dalla Nomura PharmaTech e da un gruppo indipendente affiliato al Teller Institute. Fingendosi agenti del Servizio segreto presidenziale, gli intrusi si erano garantiti l'accesso ai laboratori scientifici assegnati alle tre società. Smith giunse alla conclusione più verosimile, e cioè che qualsiasi cosa quegli uomini si ripromettessero di combinare implicasse le attrezzature e i laboratori di ricerca che si trovavano nell'ala nord del palazzo. Jon e Diaz ripresero in silenzio l'avanzata rapida e veloce nel corridoio centrale e giunsero a una diramazione a T all'estremità opposta dell'edificio. Un'altra scala di comunicazione con il piano terra portava di sotto, direttamente di fronte a loro. Oltre l'inizio della scala, c'era una porta d'acciaio inossidabile che dava accesso al laboratorio assegnato alla Nomura PharmaTech. Voltando a destra, si sarebbero diretti verso la sezione di piano occupata dall'équipe scientifica dell'istituto stesso. Il laboratorio della Harcourt Biosciences diretto da Philip Brinker e da Ravi Parikh si trovava
in fondo al corridoio a sinistra. Smith ebbe un attimo di esitazione. Quale direzione avrebbero dovuto prendere? A un tratto, la spia verde sulla centralina di sicurezza dei locali riservati alla Nomura si spense, e si accese quella rossa d'allarme. «A terra!» sussurrò Jon. Prontamente imitato da Diaz, si abbassò sul pavimento puntellandosi su un ginocchio, in attesa. La porta blindata si socchiuse adagio e poi si spalancò completamente. Tre uomini uscirono in corridoio. Due di loro, uno dai capelli biondi, l'altro calvo, indossavano dei camici blu da tecnici di laboratorio. Erano leggermente curvi in avanti sotto il peso delle valigette degli attrezzi che avevano appese a entrambe le spalle. Il terzo, più alto dei suoi compagni e prematuramente brizzolato, portava una giacca scura e un paio di pantaloni sportivi con le tasche all'altezza delle cosce. Imbracciava una piccola mitraglietta Uzi automatica. Smith sentì il battito cardiaco che accelerava. Lui e Diaz avrebbero potuto abbattere i tre sconosciuti con un paio di raffiche brevi e rapide. Era indubbio che quella sarebbe stata la linea d'azione più sicura. Ma, da morti, i tre non avrebbero potuto rivelare a Smith che cosa stava accadendo all'interno del Teller Institute, così si rassegnò. Sebbene questo comportasse assumersi ulteriori rischi, gli occorrevano dei prigionieri da interrogare molto più di tre cadaveri. Si alzò in piedi di scatto, prendendo di mira gli intrusi con l'MP5. «Giù le armi!» ringhiò. «E mani in alto!» Colti completamente alla sprovvista, i tre restarono come paralizzati. «Fate come dice» li incalzò Frank Diaz in tono tranquillo, tenendoli sotto tiro e fissandoli lungo la canna del fucile a pompa. «Prima che la vostra materia cerebrale finisca su quella bella porta lucida.» Ancora visibilmente interdetti per quell'improvviso capovolgimento della situazione, e per il rovescio di fortuna, i due uomini in camice blu abbassarono le cassette degli attrezzi e alzarono le mani. Aggrottando la fronte, anche l'uomo armato di Uzi obbedì. La pistola mitragliatrice cadde sulle mattonelle del pavimento con un tonfo metallico. «Adesso avvicinatevi» ordinò Smith. «Lentamente. Uno alla volta. Prima tu!» soggiunse, indicando con la canna dell'MP5 colui che sospettava fosse il loro capo, quello alto e brizzolato. Lo sconosciuto esitò. Con l'intenzione di metterlo sotto pressione, Jon si fece avanti fino al punto in cui il corridoio principale incrociava quello trasversale. Alla sua
sinistra ci fu un fugace lampo di movimento. Smith si voltò prontamente in quella direzione, con l'indice già contratto sul grilletto, pronto a far fuoco. Ma non c'era nessuno a cui sparare. Vide invece una piccola sfera color verde oliva che volava in aria a parabola verso di lui. Spiccò istintivamente un balzo verso il muro più vicino, cadendovi contro in scivolata e, rotolando rapidamente, si ritrasse dal corridoio trasversale. Per un istante stentò a credere a quel che aveva visto. Poi, anni di addestramento, di riflessi affinati in azione e direttamente in combattimento, e un puro istinto animale, presero il sopravvento sulla razionalità. «Granata!» ruggì per avvertire Diaz. Si gettò a terra, rannicchiandosi in posizione fetale e si riparò il capo con le braccia. La granata esplose. La tuonante detonazione gli lacerò gli abiti e lo scaraventò in sdrucciolata sul pavimento piastrellato come un dischetto di hockey su ghiaccio. Schegge incandescenti gli fischiarono sopra la testa, aprendo buchi slabbrati nelle pareti di mattoni e calcina, frantumando i lampadari. Quasi assordato dall'esplosione, con le orecchie che ancora fischiavano atrocemente, Smith si allungò supino e lentamente si alzò a sedere, strabiliato di scoprirsi illeso. La mitraglietta, sfuggitagli di mano nel precipitoso balzo per mettersi al riparo, era a poche spanne di distanza. La afferrò. Sul calcio e sull'impugnatura di plastica dura c'erano sfregi di schegge, ma l'MP5 sembrava intatta. Gli stava lentamente tornando l'udito. Ora riusciva a sentire delle urla molto acute, quasi disumane. Provenivano dall'altro lato del corridoio, vicino alla porta d'ingresso ai laboratori destinati alla Nomura. Investiti da decine di schegge d'acciaio affilate come rasoi, i due uomini in camice blu si dibattevano agonizzanti sul pavimento, impiastricciando di sangue le piastrelle. Il terzo sconosciuto, più fortunato o benedetto da una più rapida reattività, era rimasto illeso e si stava allungando verso la Uzi che aveva lasciato cadere a terra sotto la minaccia delle armi. Smith gli sparò tre colpi in successione. Il brizzolato cadde in avanti a faccia in giù e giacque immobile. A quel punto, Jon lanciò un'occhiata verso Diaz. Era morto. Il giubbotto antiproiettile che indossava lo aveva protetto dalla maggior parte delle schegge della micidiale granata a frammentazione, a parte il pezzo d'acciaio seghettato che gli aveva squarciato la carotide. Smith imprecò sottovoce, furioso con se stesso per aver trascinato il povero ex sergente di Stato maggiore dei Ranger in quell'avventurosa battaglia, e infuriato con le Par-
che, artefici della cattiva sorte. Un'altra granata volò attraverso il corridoio e rotolò al principio delle scale. Questa non esplose. Cominciò invece a sibilare sputacchiante, diffondendo nell'aria riccioli di denso fumo rosso. In pochi secondi, le due sezioni di corridoio trasversali a quello principale furono intasate di fumo ribollente. Smith puntò l'MP5 e fissò il mirino, cercando segni di movimento in mezzo al fumo. Sparare alla cieca non avrebbe sortito altro effetto se non quello di rivelare la propria posizione. Gli occorreva un bersaglio. Da qualche parte, un po' più avanti, completamente nascosti dalla turbolenta nebbia rossa che aveva invaso il primo piano, due Uzi aprirono il fuoco in modalità automatica, irrorando il corridoio di una micidiale grandinata di pallottole. Proiettili da 9mm di piombo rivestito in rame produssero nuovi fori nei muri o rimbalzarono fischianti sulle porte d'acciaio temperato. Vasi di ceramica decorativi andarono in frantumi. Laceri frammenti di fiori selvatici gialli e rosso vivo vorticavano all'impazzata nell'aria smossa dalle violenti raffiche di proiettili. Smith si lasciò cadere di peso, appiattendosi quanto più poteva sul pavimento, mentre i proiettili sparati dalle Uzi gli fischiavano a un pelo dalla testa. L'ondata di proiettili cessò bruscamente, lasciandosi dietro soltanto una scia d'incantato silenzio. Smith attese qualche secondo, a orecchio teso. Ebbe l'impressione di udire uno scalpiccio di passi pesanti che scendevano a precipizio le due rampe di scale invase dalla foschia della granata fumogena. Il rumore si attenuò rapidamente a mano a mano che si allontanavano: il nemico stava battendo in ritirata. Le raffiche di mitragliette avevano evidentemente avuto lo scopo di fargli tenere abbassata la testa mentre se la davano a gambe e quell'espediente aveva funzionato. Smith si alzò in fretta e furia e si lanciò in avanti nell'accecante nebbia rossastra e si sforzò di intravedere quel che gli passava davanti agli occhi. Correndo, scalciò qui e là, e calpestò bossoli vuoti che schizzavano sul pavimento di piastrelle, rimbalzavano tintinnando sui battiscopa e scricchiolavano sotto le suole, macinando polverosi frammenti di calcinacci. La sommità delle scale apparve indistintamente, sbucando all'improvviso dalla nebbia fumosa. Smith si abbassò sulle ginocchia, spiando in basso, nella tromba delle scale. Se gli intrusi avevano lasciato qualcuno in retroguardia a protezione della ritirata, le scale si sarebbero rivelate una trappola mortale, ma non
aveva tempo di tornare indietro di corsa verso la scalinata centrale. Doveva per forza correre il rischio, oppure restare lì e lasciar perdere per semplice paura. Con la mitraglietta imbracciata saldamente, iniziò a scendere i gradini bassi e larghi. Alle sue spalle, un'accecante luce bianca divampò all'improvviso in fondo al corridoio. L'intera tromba delle scale ondeggiò violentemente da una parte all'altra, scossa da una serie di potentissime esplosioni provenienti in successione rapida dai laboratori della Nomura PharmaTech e dal laboratorio di nanotecnologia dell'istituto. Reagendo per puro istinto, Smith si lanciò giù dalle scale, inciampando e ruzzolando a gambe all'aria mentre il primo piano soprastante eruttava fiamme. Capitolo 6 Il dottor Ravi Parikh nuotò lentamente verso l'alto in un mare d'oscurità, tentando, seppure con estrema fatica e in modo annebbiato, di riprendere conoscenza. Agitò disperatamente le palpebre e socchiuse gli occhi. Era disteso per terra con la faccia premuta sul pavimento. Le fredde mattonelle in cotto sobbalzavano e vibravano violentemente sotto di lui, con terribili sobbalzi a mano a mano che le cariche esplosive piazzate con perizia sconquassavano sistematicamente gli altri laboratori scientifici situati nell'ala nord dell'edificio, riducendoli in macerie e rovine avvolte dalle fiamme. Il biologo molecolare gemette di dolore, sforzandosi di reprimere un'onda di nausea e di sofferenza che gli metteva lo stomaco sottosopra. Sudando per lo sforzo, si costrinse a sollevarsi sulle mani e le ginocchia, poi alzò il capo lentamente. Era rivolto verso la vetrata panoramica che si estendeva su tutta la parete e delimitava per intero in lunghezza la zona degli uffici esterni dei laboratori assegnati alla Harcourt Biosciences. I tendaggi, di solito ermeticamente chiusi, erano spalancati. Vicino alla sua testa, lo strano cilindro di metallo che lo aveva insospettito pochi minuti prima era ancora attaccato magneticamente a una scrivania di fronte alla vetrata. Un display digitale ticchettante montato a una delle due estremità del cilindro lampeggiava, scandendo con regolarità e contando alla rovescia una serie di numeri: 10... 9... 8... 7... 6... 5... Altre cariche più piccole di esplosivo al plastico attaccate alla vetrata esplosero in una rapida successione detonante di lampi e fiamme rosse e arancioni. L'immensa vetrata si sbriciolò all'istante, trasformandosi in un
uragano di migliaia di schegge e frammenti di vetro che si riversò all'esterno dell'edificio. Il repentino cambiamento di pressione interna risucchiò in aria centinaia di fogli strappati, che furono sospinti come da una violenta folata di vento oltre il seghettato varco aperto nella vetrata. Ancora intontito e in preda alla nausea, Parikh fissò la tempesta di carta sparire nell'apertura creata nelle finestre panoramiche, sconvolto da un puro e semplice, totale, incomprensibile stupore. Trasse un solo respiro profondo, che lo fece tremare da capo a piedi. 3... 2... 1. Il display digitale lampeggiante si spense alla fine del conto alla rovescia. Una valvola a relè scattò e ruotò all'interno del cilindro. A quel punto, con un sommesso sibilo simile al soffio di un serpente, il contenitore dei nanofagi cominciò a liberare nel mondo esterno il suo letale contenuto supercompresso. La nube di nanofagi Stage II si diffuse lenta, silenziosa e invisibile nell'atmosfera attraverso la vetrata distrutta dalle esplosioni calibrate. Ce n'erano decine di miliardi, ognuno dei quali ancora inerte e in attesa del segnale che lo avrebbe attivato. Sospinta all'infuori, in senso centrifugo, dall'impianto di pressurizzazione del laboratorio stesso, l'immensa massa di fagi microscopici si disperse gradualmente e poi, lentamente, sempre più lentamente, aleggiò in ricaduta rallentata verso il basso, sospesa nell'aria. La foschia, invisibile all'occhio umano, si adagiò sulle migliaia di esterrefatti dimostranti del Lazarus Movement che avevano assistito inorriditi alla scena delle esplosioni al primo piano del Teller Institute. Milioni di nanofagi si infiltrarono negli organismi inalati a ogni respiro fin nei polmoni. Altri milioni penetrarono nei corpi dei presenti attraverso le membrane porose del naso o attraverso i tessuti molli circostanti gli occhi. I nanofagi per il momento restarono inattivi, facendosi largo all'interno dei corpi umani contagiati per processo naturale attraverso i capillari e le pareti cellulari. All'incirca uno su centomila, però, leggermente più grande e strutturalmente più sofisticato degli altri, cominciò a mettersi in azione. Questi speciali fagi «controllori» vagarono nel corpo ospite, sfruttando la propria energia, a caccia di una delle varie «firme», o «impronte», biochimiche riconoscibili dai loro assetti, o «array», sensori. Ogni «lettura» positiva innescò l'immediato rilascio di flussi codificati di caratteristiche molecole «messaggere». I nanofagi, fluttuanti nell'organismo all'interno dei corpi umani aggredi-
ti, portavano con sé un solo, singolo sensore personale, un sensore in grado di scoprire le molecole codificate, perfino quando erano diluiti a livello di pochissime parti per miliardo. I loro creatori si riferivano freddamente a questo aspetto dell'ingegneria del loro nanofago come al «recettore squalo», poiché imitava l'abilità dei grandi squali bianchi di fiutare e percepire perfino la più minuscola goccia di sangue vagante nelle immense profondità marine. Questo paragone era crudelmente adatto anche sotto un altro aspetto: ogni nanofago reagiva al sentore di una molecola «messaggera» esattamente come se fosse uno squalo che avvertiva nell'acqua odore di carne fresca. Intrappolato nella calca, il tipo snello e dall'aspetto ancora atletico fu il primo a riconoscere la terribile realtà che stava calando su di loro. Come tutti gli altri, aveva smesso di scandire slogan ed era immobile in un silenzio tetro, sbalordito dall'orrendo spettacolo delle cariche esplosive che detonavano una dopo l'altra. Le bombe, perlopiù, erano state fatte esplodere nell'ala nord e lungo il lato ovest del Teller Institute e sollevavano in aria enormi colonne di fiamme e detriti che ruggivano roboanti sopra l'istituto. Ma Malachi udiva distintamente anche le altre cariche esplosive, quelle di minore potenza, i cui boati rimbombavano all'interno dell'imponente edificio. La donna stipata nella massa di gente accanto a lui, una biondina giovane e dal volto intrappolato in un'espressione di sgomento, con indosso una giubba militare dell'esercito da mercatino delle pulci, con le maniche arrotolate fin sopra i gomiti, tutt'a un tratto gemette. Cadde sulle ginocchia e cominciò ad avere dei conati di vomito fino a perdere del tutto il controllo. MacNamara la osservò dall'alto, notando i numerosi segni di iniezioni che le deturpavano le braccia. I buchi più in alto erano lividi, ancora recenti. Un'eroinomane, si rese conto, provando un misto di pietà e di disgusto. Probabilmente era stata attirata alla manifestazione indetta dal Lazarus Movement dalla promessa di emozioni forti e dalla possibilità di prender parte a un evento che valesse qualcosa di più della sua squallida vita quotidiana. La tossicodipendente stava rischiando un collasso da overdose proprio lì davanti a lui e in quel momento? Sospirando, MacNamara si abbassò sulle ginocchia per vedere se era possibile aiutarla. Poi notò la grottesca rete di lacerazioni cutanee, simili a fenditure nella roccia, che si allargavano e diffondevano rapidamente sul volto terrorizzato della giovane e sulle sue braccia già segnate dall'eroina, e capì di trovarsi di fronte a
qualcosa di infinitamente più terribile. La ragazza emise altri lamenti, con suoni gutturali più bestiali che umani. Le lacerazioni sulla pelle si allargarono. Era come se, all'improvviso, stesse cambiando pelle, trasformandosi in qualcosa di indefinibile, viscoso e traslucido. Con suo enorme orrore, MacNamara notò che anche i tessuti connettivi sottocutanei della ragazza - i muscoli, i tendini e i legamenti - si stavano fluidificando. Gli occhi della poveretta si liquefecero e gocciolarono letteralmente fuori dalle orbite cave. Il sangue, di un rosso brillante, sgorgò all'interno di quelle ferite terrificanti. Sotto la maschera insanguinata in cui si era ormai trasformato il viso della poveretta, Malachi intravide il pallido candore dell'osso. Ormai cieca, la giovane donna si portò le mani al volto con le dita contratte come artigli. Altra poltiglia sanguinolenta le colò dalla cavità sformata che solo pochi secondi prima era stata la sua bocca. Nauseato da quella macabra visione, e vergognandosi per il proprio disgusto e timore, MacNamara si ritrasse di qualche passo, inorridito. Le mani e le dita dell'eroinomane si dissolsero, smembrandosi in un ammasso confuso di ossa scollegate. La ragazza cadde in avanti e giacque a terra dibattendosi convulsamente. La giubba militare e i jeans della disgraziata si afflosciarono sul suo corpo, macchiati dal colore scuro del sangue e degli altri fluidi corporei che le colavano dal corpo disciolto. Per quella che parve un'eternità, MacNamara restò a fissarla in una sorta di orrore incredulo, incapace di distogliere gli occhi da quella scena raccapricciante. Era come se la giovane donna fosse stata divorata viva dall'interno. Alla fine, giacque immobile, più simile a un guazzabuglio di ossa e indumenti impregnati di sangue che a un cadavere umano identificabile. MacNamara si affrettò a rialzarsi da terra e, solo a quel punto, si rese conto del coro raccapricciante di gemiti e lamenti strazianti di tormento indicibile che si levava dalla folla ammassata intorno a lui. Centinaia di altri dimostranti si stavano dibattendo come ossessi, afferrandosi e artigliando se stessi mentre la loro carne veniva consumata dall'interno. Gli attivisti del Lazarus Movement non ancora attaccati dal virus letale restarono immobili, inchiodati dove si trovavano dallo choc e da un puro e semplice terrore che istupidiva e paralizzava loro la mente. Quando si ripresero da quello stato di catalessi, fuggirono nel caos più completo, sparpagliandosi in ogni direzione, calpestando i morti e i moribondi in una folle e precipitosa fuga, scatenata dal panico, desiderosi solo di sottrarsi a qualsiasi nuovo flagello fosse sfuggito al controllo dei laboratori del Teller
Institute. E, ancora una volta, Malachi MacNamara corse via con tutti gli altri, questa volta però con il battito cardiaco che gli rimbombava martellante nelle orecchie, mentre si domandava quanto tempo ancora gli restasse da vivere. Il tenente colonnello Jon Smith giaceva scompostamente sul pavimento ai piedi delle scale dell'ala nord. Per pochi e interminabili istanti non riuscì a muovere neanche un muscolo. Sentiva dolente, fiaccato, slogato, ammaccato, escoriato o lussato ogni osso e muscolo del suo corpo. Il Teller Institute tremò fin dalle fondamenta, scosso da un'altra enorme esplosione avvenuta da qualche parte al primo piano. Una tormenta di polvere e di calcinacci scese a valanga le due rampe di scale. Pezzi di carta lacerata, sollevati in alto dalla nuova esplosione, vorticavano pigramente nell'aria satura di pulviscolo: minuscole fiammelle baluginanti che ricadevano sul pavimento in lenta planata. È ora di levare le tende, pensò Smith. O se la filava immediatamente oppure sarebbe stato schiacciato dalle macerie quando l'edificio danneggiato dalle cariche di esplosivo al plastico alla fine sarebbe crollato, implodendo su se stesso. Con estrema cautela, allungò adagio gambe e braccia, sciogliendosi dalla posizione scomposta in cui era raggomitolato, e riuscì a rialzarsi in piedi. Trasalì. I primi metri della sua rotolante caduta, piroettando giù dalle scale a capriole continue, come un saltimbanco, era stata tutto sommato la parte più facile. Tutto quel che era seguito era stato un doloroso incubo. Si guardò intorno. Gli ultimi fili di nebbia rossa prodotti dalla granata fumogena si stavano dissipando, ma nuvole di fumo più denso e scuro cominciavano ad arrivare aleggiando nei corridoi del piano terra. C'erano focolai di incendi che divampavano in tutto l'edificio. Smith alzò gli occhi al soffitto. Le bocchette dell'impianto antincendio erano asciutte, il che voleva dire che l'impianto doveva essere stato messo fuori uso da una delle esplosioni. Smith sporse in fuori le labbra, inebetito. Era pronto a scommettere che tutto era stato accuratamente pianificato dagli attentatori. Quello non era un caso di spionaggio industriale degenerato in caos o un semplice atto di sabotaggio: si trattava di un freddo, calcolato e spietato atto terroristico. Zoppicando, andò a raccogliere la mitraglietta che gli era sfuggita di mano mentre capitombolava giù dalle scale. Fortunatamente l'arma non
aveva esploso colpi accidentali quando era rotolata con lui sui gradini, ma il caricatore ricurvo da trenta colpi era deformato e piegato in una strana angolazione. Premette il pulsante di sgancio e lo tirò forte per estrarlo dall'arma. Era incastrato e non sarebbe riuscito a rimuoverlo. Depose l'MP5 sul pavimento ed estrasse la Beretta 9mm. La pistola sembrava intatta, ma la fitta di dolore che provò gli garantì che l'indomani mattina avrebbe avuto un livido scuro a forma di Beretta due dita sopra il coccige. Ammesso che domattina sia ancora vivo, si rammentò con cinismo. Impugnata saldamente la pistola, si dispose a farsi strada tra i calcinacci nell'edificio in fiamme e semidistrutto dalle cariche al plastico. Era abbastanza facile seguire la strada percorsa dagli intrusi in ritirata. Si erano lasciati dietro una scia di cadaveri. Oltrepassò numerosi morti, i cui corpi senza vita erano rannicchiati nel corridoio pervaso dal fumo. Conosceva tutti, almeno di vista: con alcuni aveva avuto stretti legami. Riconobbe Takashi Ukita, lo scienziato a capo del laboratorio assegnato alla Nomura PharmaTech. L'avevano ucciso con due colpi a bruciapelo alla testa. Jon scosse sconsolatamente il capo, sinceramente dispiaciuto. I corpi di Dick Pfaff e Bill Corimond giacevano non lontano nello stesso corridoio. Entrambi erano stati freddati con raffiche d'arma automatica. Erano i ricercatori anziani dell'equipe interna che operava nel laboratorio di nanotecnologia dell'istituto. Il loro lavoro mirava allo sviluppo di «ecofagi», piccoli congegni autoreplicanti capaci di disgregare le ingenti perdite di petrolio senza provocare ulteriori danni all'ambiente. A ogni passo, la sua rabbia cresceva a dismisura. Parikh, Brinker, Pfaff, Corimond, Ukita e tutti gli altri scienziati avevano perseguito unicamente la verità. La loro ricerca scientifica avrebbe prodotto enormi benefici per tutto il mondo. Ma ora dei terroristi figli di puttana li avevano uccisi senza pietà, distruggendo anni di duro lavoro. Avrebbe fatto l'impossibile, decise con freddezza, per assicurarsi che i colpevoli pagassero a caro prezzo i loro delitti. Accelerò l'andatura, mettendosi quasi a correre. Gli occhi erano ridotti a due fessure minacciose. Da qualche parte, più avanti, c'erano uomini che doveva catturare o uccidere. Oltrepassò altri cadaveri. Il fumo adesso era più denso. Il tanfo acre gli faceva bruciare gli occhi e gli ustionava la gola. Sentiva il calore ardente prodotto dagli incendi che infuriavano negli uffici sui due lati del corrido-
io. Alcune porte di legno cominciavano a bruciare senza fiamma apparente. Smith si mise a correre più forte. Finalmente giunse a una porta laterale rimasta socchiusa. Si abbassò lestamente sulle ginocchia, per accertarsi che non ci fosse qualche filo collegato a una carica esplosiva, poi varcò la soglia e uscì all'aria aperta. La scena che si ritrovò davanti agli occhi avrebbe potuto benissimo essere tratta da uno di quei medioevali quadri cristiani raffiguranti l'inferno con i diavoli e i dannati. Migliaia di terrorizzati militanti del Lazarus Movement stavano sciamando via dall'istituto, correndo a rotta di collo, sparpagliandosi confusamente in ogni direzione nel parco circostante il Teller, tra cactus e salvia selvatica, rocce e massi disposti come in un giardino giapponese, e cespugli di fiori che crescevano spontanei. Qualcuno barcollava, si dibatteva convulsamente e poi cadeva in ginocchio con lancinanti gemiti di disperazione. Uno dopo l'altro si piegarono su se stessi. Smith li osservò inorridito, sgomento alla vista di quel che stava succedendo. Centinaia di persone stavano letteralmente cadendo a pezzi, sciogliendosi in una specie di rossastra melma liquida. Altri erano già stati ridotti a macabri mucchietti di abiti imbrattati e avanzi di ossa. Per un attimo si sforzò di reprimere un impulso quasi travolgente di girare i tacchi e di darsela a gambe come tutti gli altri. Quello a cui stava assistendo era talmente raccapricciante, talmente disumano da agitare in lui ogni paura primitiva che credeva sepolta nel subconscio dopo anni di ferreo addestramento, disciplina e forza di volontà. Nessuno dovrebbe morire in questo modo, pensò disperatamente. Nessun essere umano avrebbe dovuto essere costretto a vedersi letteralmente imputridire mentre era ancora cosciente. Con un certo sforzo, Smith distolse lo sguardo dalle carni in putrefazione e dai corpi orribilmente maciullati sparsi ovunque. Con la pistola stretta in pugno, scrutò la folla scatenata e in preda al panico che fuggiva a perdifiato verso la recinzione perimetrale, nel tentativo di individuare chi non mostrava affatto segni di paura: coloro i cui movimenti tradivano disciplina e sicurezza. Localizzò un gruppo di sei uomini che camminavano con passo spedito in direzione del reticolato. Erano a più di cento metri di distanza dal punto in cui lui si trovava in quel momento. Quattro di loro indossavano dei camici blu da laboratorio e avevano in spalla delle pesanti valigette. Smith annuì tra sé: dovevano essere i dinamitardi che avevano piazzato gli ordigni esplosivi all'interno dell'istituto di ricerca. Gli altri due sconosciuti, che camminavano a passo spedito pochi metri dietro agli altri
quattro, indossavano dei formali completi color antracite assolutamente identici. Entrambi erano armati con mitragliette Uzi a canna corta. Il più basso dei due aveva suppergiù la statura di Jon, e capelli neri tagliati a spazzola. Ma quello che effettivamente attirò la sua attenzione, il tipo erculeo dai capelli di un castano molto chiaro che apparentemente era al comando del drappello, in altezza superava almeno di due spanne i suoi compagni. Smith ricominciò a correre. Saltellò a fatica attraverso lo spazio aperto, zigzagando tra i pietosi resti umani sparpagliati qui e là, colmando con rapidità la distanza che lo separava dai terroristi che si stavano dando alla macchia. Era arrivato a meno di cinquanta metri dai fuggitivi quando il loro capo, voltando la testa per un'ultima occhiata soddisfatta rivolta al Teller Institute in fiamme e sconquassato dalle esplosioni, lo vide arrivare. «Azione! In retroguardia!» gridò il colosso, avvertendo gli uomini ai suoi ordini. Si stava già girando per affrontare Smith con la mitraglietta impugnata strettamente con entrambe le mani. Aprì il fuoco quasi istantaneamente, sparando brevi raffiche di tre colpi l'una che disegnarono un semicerchio regolare nella sabbia e tra gli arbusti in direzione dell'americano in corsa. Jon si tuffò a sinistra, rotolando su una spalla. Effettuato un giro su se stesso, si rialzò su un ginocchio con la Beretta puntata verso la sua destra. Senza aspettare che il mirino della pistola inquadrasse perfettamente il bersaglio, premette il grilletto due volte in successione rapida. Nessuno dei due proiettili sfiorò il capo dei terroristi, ma se non altro lo costrinsero a lasciarsi cadere precipitosamente a terra dietro un gruppo di cespugli di salvia selvatica. Un'altra raffica di Uzi polverizzò il terreno alle spalle di Smith, sollevando grosse zolle di terra. Jon si voltò ruotando il busto. Il tipo armato dai capelli neri lo stava attaccando di fianco, sparando in corsa con imprecisione. Jon rivolse immediatamente la Beretta verso di lui, facendole compiere rapidamente un ampio arco e precedendo di un pelo il corpo in movimento del suo avversario. Espirò con calma e sparò tre volte. Il primo colpo non andò a segno. Il secondo e il terzo proiettile spezzarono una gamba e maciullarono la spalla destra del terrorista. Urlando di dolore, l'uomo inciampò e crollò a terra di schianto. Due degli uomini in tuta da laboratorio abbandonarono le valigette e corsero ad aiutare il ferito. Immediatamente, il gigante dai capelli castani spuntò al di
sopra dei cespugli di salvia selvatica e ricominciò a sparare. Smith sentì un proiettile di Uzi perforargli la fodera della giacca di pelle. L'aria surriscaldata in scia alla pallottola che l'aveva sfiorato gli tracciò una bruciante riga infuocata sul costato. Jon rotolò di nuovo su se stesso, cercando freneticamente di confondere la mira all'avversario. Altri proiettili bucherellarono la sabbia e la vegetazione arida e stentata tutt'intorno a lui. Aspettandosi di essere colpito da un secondo all'altro, Smith rispose al fuoco mentre ancora stava rotolando, sparando diversi colpi senza prendere bene la mira, nel disperato tentativo di costringere il suo avversario a rimettersi al riparo. Continuando a rotolare, Smith finì dietro un grosso masso sepolto a metà da un cespuglio di gramigna. Si ritrovò leggermente sollevato sulle ginocchia e rannicchiato in avanti. Una lunga raffica di mitraglietta sfregiò in più punti il piccolo masso semisommerso dall'erba. Il rombo di un motore di grossa cilindrata superò il frastuono del conflitto a fuoco. Jon alzò, con estrema cautela, il capo per cercare di vedere cosa succedeva: un'enorme Ford Excursion verde scuro accelerò attraverso uno dei varchi aperti nella rete perimetrale. Il fuoristrada sterzò a sinistra, puntando dritto verso la schermaglia. Centinaia di dimostranti in preda al panico si lanciarono di lato per evitare di essere travolti dal SUV, che sobbalzava a tutta velocità sul terreno accidentato. In uno stridio di freni, l'ingombrante veicolo sbandò ripetutamente e si fermò di lato, in prossimità del gruppetto di terroristi. La nube di polvere sollevata dagli pneumatici rimase sospesa nell'aria, aleggiando lentamente sottovento. Protetti dalla mole massiccia del SUV, i quattro esperti di esplosivi gettarono le valigette nel vano posteriore del grosso fuoristrada e trascinarono l'uomo ferito alla vettura, lo caricarono su uno dei sedili posteriori, poi si affrettarono a salire a bordo a loro volta. Sparando ancora brevi raffiche mirate di tre colpi ciascuna in direzione di Smith, il colosso dai capelli castani arretrò lentamente verso il veicolo pronto per la fuga. Adesso sorrideva, con gli occhi che gli brillavano di piacere. «Dannato bastardo assassino!» La fredda collera di Jon divampò all'improvviso in un'ira incandescente, cancellando qualsiasi residuo di istinto di conservazione. Si alzò di scatto, puntò la Beretta stretta saldamente a due mani e prese rapidamente la mira in una posa da tiro al bersaglio. Sorpreso dall'audacia del suo avversario, il terrorista smise di sparare raffiche separate di tre colpi e aprì il fuoco in modalità «full automatic». La Uzi crepitò senza tregua, alzando il tiro a causa del rinculo a ogni colpo
esploso in successione rapida. Smith sentì i proiettili fischiare in aria due dita appena sopra la sua testa. Non ci badò e scelse di concentrarsi completamente sul suo bersaglio. Cinquanta metri era una distanza prossima al margine esterno del raggio d'azione effettivo della sua pistola; di conseguenza, il sangue freddo era di vitale importanza. Il mirino in fondo alla canna della Beretta si abbassò sul massiccio torace del colosso e rimase immobile. Jon premette il grilletto, sparando quanti più colpi il più in fretta possibile senza perdere la mira. Il primo proiettile produsse un foro nella portiera anteriore della Ford Excursion, dal lato del passeggero, a pochi centimetri soltanto dall'anca del gigante dai capelli castani. Il secondo mandò in frantumi il finestrino vicino al gomito dell'uomo. Jon aggrottò le sopracciglia. La Beretta tirava un po' a sinistra. Variò leggermente la mira e sparò ancora. Il terzo proiettile da 9mm colpì la Uzi che saltò dalla mano del capo della cellula terroristica e finì fra i cespugli bassi. Il proiettile vagante rimbalzò sul cofano del SUV in un'esplosione di scintille. Spaventato dai colpi di arma da fuoco che tempestavano il suo veicolo, l'uomo al volante premette a fondo l'acceleratore. Le ruote motrici dell'Excursion girarono a vuoto in cerca di presa, finché trovarono una certa trazione. Il SUV verde scuro partì a razzo, sbandando in una curva a gomito, poi si allontanò a motore ruggente verso la recinzione, lasciandosi dietro il capo in una vagante sventagliata di polvere e sabbia. Per un attimo l'uomo restò impalato, immobile, con il collo leggermente allungato per osservare meglio i suoi compagni che lo stavano abbandonando. Poi, con grande stupore di Smith, si limitò ad alzare le spalle massicce e si voltò ad affrontare l'americano. Ora il suo volto era del tutto privo di espressione. Jon gli andò più vicino, sempre tenendo la Beretta puntata su di lui. «Mani in alto!» Il suo avversario restò semplicemente fermo in piedi, in attesa. «Ho detto mani in alto!» ripeté Smith, irritato. Continuò a camminare, colmando quasi tutta la distanza che lo separava dall'uomo. Si fermò a una quindicina di metri dall'erculeo terrorista, avendo l'accortezza di rimanere nella zona di copertura sicura della pistola, in modo da poter piazzare ogni proiettile da 9mm esattamente dove voleva. Il gigante dai capelli castani non disse nulla. I suoi occhi d'un verde brillante si ridussero a due fessure. Il suo sguardo sembrava quello di una tigre
in gabbia che andava nervosamente avanti e indietro, misurando lo spazio della prigione e passando davanti a prede umane che non poteva artigliare o azzannare. «E cosa fai se rifiuto di farlo? Mi ammazzi?» domandò con superbia il terrorista. La sua voce era più docile di quello che Smith si era aspettato e il suo inglese era perfetto, assolutamente senza tracce d'accento. Smith annuì con aria gelida. «Lo farò, se costretto.» «Allora fallo» sentenziò lo sconosciuto. Senza attendere oltre, avanzò di un passo, muovendosi con la grazia flessuosa di un animale da preda. La sua mano destra sparì fulminea sotto la giacca e ricomparve con un pugnale da combattimento affilato come un rasoio. Smith premette senza esitare il grilletto della Beretta. La pistola sobbalzò leggermente verso l'alto e il rinculo alzò di scatto il carrello di caricamento, espellendo il bossolo vuoto. Questa volta, però, il carrello si bloccò sul retro. Jon imprecò a denti stretti. Aveva appena sparato l'ultimo dei quindici proiettili contenuti nel caricatore della pistola. La pallottola da 9mm colpì il suo avversario sul fianco sinistro. Per un breve istante l'impatto lo respinse, facendolo barcollare all'indietro. L'uomo abbassò lo sguardo sul piccolo foro orlato di rosso sulla giacca. Il sangue sgorgava pulsante dalla ferita, trapelando lentamente all'esterno attraverso la stoffa scura. Poi il terrorista fletté le dita della mano sinistra e dondolò minacciosamente il pugnale da combattimento che impugnava nella destra. Le sue labbra si contorsero in un ghigno crudele. Quindi scosse il capo con un'espressione sbeffeggiante di pietà. «Hai preso male la mira. Come vedi, sono ancora vivo.» Sempre sogghignando, il gigante dagli occhi verdi si mosse con la lentezza di una belva astuta pronta a uccidere, fendendo con il pugnale, l'aria davanti a sé da un lato all'altro in un arco sinuoso, quasi ipnotico. La lama affilatissima scintillò alla luce del sole. In un gesto che tradiva disperazione, Smith gli scagliò contro l'ormai inutile Beretta. L'uomo erculeo si abbassò leggermente per evitare la pistola e attaccò. Affondò un colpo di pugnale con una rapidità incredibile, mirando alla gola dell'americano. Smith scattò di lato contorcendosi sul busto. La lama del pugnale gli passò sibilante a meno di un paio di centimetri dal volto. Jon arretrò prontamente di due passi, respirando con affanno.
L'uomo dagli occhi verdi lo seguì nel movimento di ritirata. Si lanciò in avanti, questa volta tenendosi più basso sulle ginocchia. Jon ruotò il busto di lato e, con tutte le sue forze, calò un colpo di karatè dall'alto con il taglio della mano nel disperato tentativo di spezzare il polso destro al suo avversario. Fu come colpire un pezzo d'acciaio. Per il contraccolpo, perse la sensibilità nella mano. Arretrò ancora di due passi, scuotendo le dita intorpidite, cercando freneticamente di farvi affluire un po' di sangue e di vita. Chi diavolo stava affrontando? L'omaccione gli si avventò contro per la terza volta, chiaramente divertito da quella specie di caccia al topo. Stavolta fece una finta d'affondo col pugnale stretto nella mano destra, poi sferrò un pugno nelle costole di Smith con la sinistra, colpendolo con la forza di una mazza da baseball. La tremenda percossa fece mancare il fiato a Jon. Barcollò all'indietro, ansimando, annaspando in cerca d'aria, a quel punto sforzandosi semplicemente di restare in piedi e cosciente. «Forse avresti dovuto risparmiare l'ultimo proiettile per te stesso» suggerì in tono educato l'uomo appartenente alla cellula terroristica, poi alzò il micidiale pugnale. «Sarebbe stato più rapido e meno doloroso di quello che ti farà questo gingillo.» Smith continuò ad arretrare, in cerca di qualcosa, qualsiasi cosa, da poter utilizzare come arma. Ma non c'era niente, solo sabbia e suolo arido e compatto. Il panico si impadronì di lui. Non perdere la testa, Jon, si disse. «Se lasci che la paura ti paralizzi, sei un uomo morto. Che diavolo, forse morirai comunque, ma se non altro puoi lottare fino all'ultimo! Da qualche parte, in lontananza, ebbe l'impressione di udire il suono di sirene della polizia: sirene che andavano avvicinandosi rapidamente. Ma l'uomo dagli occhi verdi continuò a seguirlo incalzante e minaccioso mentre batteva lentamente in ritirata, ansioso di farlo fuori. Capitolo 7 A duecento metri di distanza, al limitare di un boschetto di pini pinyon e di ginepri, c'erano tre uomini nascosti nell'erba alta e secca. Uno di essi, molto più alto e robusto dei suoi compagni, osservando con attenzione mise a fuoco con un binocolo ad alta potenza, sul terreno disseminato di cadaveri circostante l'istituto, il corpo a corpo serrato tra l'agile americano dai capelli neri e il suo massiccio avversario, più alto e di gran lunga più forte. L'uomo corrugò la fronte, soppesando le alternative a sua disposizio-
ne. Alle sue spalle, un cecchino teneva un occhio incollato al mirino telescopico di un fucile speciale, mettendo costantemente a punto la mira. Il terzo uomo, un esperto addetto alle comunicazioni, era disteso in un intrico di sofisticate apparecchiature elettroniche. Ascoltava attentamente le voci pressanti, inframmezzate e confuse dalle scariche di elettricità statica, che gli risuonavano negli auricolari. «Le forze di polizia cominciano a reagire con maggiore efficacia, Terce» riferì in tono piatto. «Unità supplementari di polizia, ambulanze e vigili del fuoco stanno tutti convergendo rapidamente verso questa località.» «Ho capito.» Terce, l'uomo con il binocolo, scrollò le spalle con apparente noncuranza. «Prime ha commesso un deplorevole errore.» «Il suo autista ha reagito in modo inadeguato» mormorò il franco tiratore alle sue spalle. «L'autista sarà redarguito con severità» convenne il comandante. «Ma Prime conosceva bene i nostri piani. Questa lotta al coltello è assurda. Avrebbe dovuto filarsela quando ancora ne aveva la possibilità. Invece sta concedendo al suo istinto animalesco di calpestare il buonsenso. Può darsi che riesca a uccidere l'uomo con cui sta giocando al gatto e al topo, ma è molto improbabile che riesca a fuggire.» L'uomo pervenne a una decisone. «Amen. Eliminalo.» «Anche il suo avversario?» chiese il cecchino. «Sì.» Il franco tiratore annuì. Concentrò la vista nel mirino telescopico, regolando il fuoco per l'ultima volta. «Bersaglio sotto tiro.» Il cecchino premette il grilletto. Lo strano fucile ad altissima precisione tossicchiò sommessamente. «Bersaglio centrato.» Smith si abbassò di scatto sotto un altro fendente micidiale vibrato col pugnale dall'uomo dagli occhi verdi. Si ritrasse di un paio di passi, consapevole che il tempo e il suo spazio di manovra erano agli sgoccioli. Prima o poi quel maniaco assassino lo avrebbe inchiodato alla sua croce. Tutt'a un tratto il gigante dai capelli castani si portò una mano al collo in un gesto violento di visibile fastidio, quasi come per schiacciare una vespa che lo aveva punto. Avanzò di un altro passo, poi si bloccò, fissandosi la mano libera con un'espressione di assoluto orrore. Spalancò la bocca meravigliato e si voltò a metà, guardando dietro di sé in direzione dei boschi silenziosi alle sue spalle. Poi, mentre Smith osservava la scena con crescente terrore, il colosso
dagli occhi verdi cominciò a disfarsi e a cadere a pezzi. Una ragnatela di lacerazioni cutanee rosse serpeggiò rapidamente sul suo volto e sulle mani, espandendosi sempre più. In pochi secondi la sua pelle si ritrasse sulla carne viva e cadde a brandelli, dissolvendosi in una sorta di melma traslucida color rosso sangue. I suoi occhi verdi si liquefecero, gli colarono fuori dalle orbite e sulle guance. Il terrorista strillò forte in un'agonia disumana. Urlando e contorcendosi, crollò a terra, proteggendo selvaggiamente con le mani quel poco che restava del suo corpo, nel vano tentativo di fermare ciò che lo stava divorando vivo dall'interno. Jon non sopportò oltre quella vista. Si voltò, inciampò e cadde a terra sulle ginocchia, scosso da fremiti e conati incontrollabili. In quello stesso istante, qualcosa gli passò fischiando vicino all'orecchio e andò a impattarsi nel suolo duro a qualche metro di distanza davanti a lui. L'istinto prese il sopravvento. Si gettò prontamente di lato, rotolando sul fianco, e poi strisciò bocconi verso il riparo più vicino. Nel boschetto di conifere, il franco tiratore abbassò lentamente lo speciale fucile di precisione. «Il secondo bersaglio si è buttato a terra. L'ho mancato.» «Non fa niente» gli fece eco con freddezza l'uomo con il binocolo. «Un uomo in più o in meno ha poca importanza.» Poi si voltò verso l'addetto alle comunicazioni. «Mettiti in contatto con il Centro. Informali che Field Two è in corso e pare procedere secondo i piani.» «Sì, Terce.» «E per quanto riguarda Prime?» domandò il cecchino in tono tranquillo. «Come riferirai della sua morte?» Per qualche secondo l'uomo con il binocolo restò seduto immobile, ponderando la domanda. Poi chiese a sua volta: «Conosci la leggenda degli Orazi e dei Curiazi?». Il cecchino scosse il capo. «È una storia antica» gli disse Terce. «Risale ai tempi dei Romani, molto prima che fondassero il loro impero. Tre fratelli identici, gli Orazi, furono mandati a duellare contro tre campioni di una città rivale vicina. Due combatterono con coraggio da leoni, ma furono uccisi. Il terzo dei tre Orazi trionfò: non solo per pura e semplice forza, ma per furtiva scaltrezza.» Il cecchino non fece commenti. L'uomo con il binocolo girò la testa e sorrise con espressione glaciale. Un raggio di sole improvviso gli illuminò i capelli castani e gli occhi, di un
verde straordinario. «Come Prime, io sono uno dei tre Orazi, ma a differenza di Prime, intendo sopravvivere a ogni costo e guadagnarmi la ricompensa che mi è stata promessa.» Parte seconda Capitolo 8 Hoover Building, Washington, D.C. La viceassistente del direttore dell'FBI, Katherine Pierson, era alla finestra del suo ufficio al quinto piano, e osservava corrucciata la sottostante Pennsylvania Avenue, bagnata dalla pioggia. Al semaforo più vicino c'erano pochissime automobili ferme in attesa e un solitario, sparuto gruppo di turisti che affrettava il passo sotto gli ombrelli lungo gli ampi marciapiedi del viale. Mancavano ancora un paio d'ore al consueto esodo di massa serale della forza lavoro federale della città. La donna resistette all'impulso di controllare di nuovo l'orologio: aspettare che altre persone agissero non era mai stato uno dei suoi punti forti. Kit alzò lo sguardo dalla strada e intravide di sfuggita un vago riflesso della propria immagine sul vetro antisolare. Per un breve istante si esaminò con distacco, chiedendosi per l'ennesima volta perché gli occhi grigio ardesia che la fissavano di rimando le sembrassero così sovente quelli di un'estranea. Nonostante i suoi quarantacinque anni, la pelle bianco avorio era ancora liscia, e i capelli castani tagliati corti, a caschetto, incorniciavano un viso che - ne era conscia - la maggior parte degli uomini considerava attraente. Non che permetta agli uomini di farmi complimenti al riguardo, pensò freddamente. Un matrimonio fallito e un amaro divorzio alle spalle erano la prova inconfutabile che lavorare per l'FBI non permette di coltivare delle relazioni stabili. Gli interessi nazionali del Bureau e degli Stati Uniti avevano sempre la precedenza, perfino quelli che i suoi superiori avevano a volte paura di riconoscere. La Pierson era perfettamente consapevole del fatto che gli agenti e gli analisti alle sue dipendenze l'avevano soprannominata la «Regina d'inverno», e che era così che si riferivano a lei quando non era a portata d'orecchio. Kit scacciò quel pensiero. Lei si dannava l'anima per il lavoro, molto più di quanto richiedeva loro. Ed era meglio essere ritenuta un tantino
fredda e distante piuttosto che essere considerata debole o inefficiente. Alla Divisione antiterrorismo dell'FBI non c'era posto per i classici timbracartellini con il chiodo del «dalle nove alle cinque», i cui pensieri erano fissamente rivolti alle rispettive pensioni anziché ai sempre più pericolosi nemici della nazione. Nemici come il Lazarus Movement. Da diversi mesi ormai, lei e Hal Burke, il suo omologo della CIA, avevano avvisato a più riprese i loro superiori che l'organizzazione ambientalista stava diventando una minaccia diretta agli interessi vitali degli Stati Uniti e a quelli dei loro alleati. Avevano concentrato l'attenzione su tutti i segnali in base ai quali il movimento stava intensificando la sua consueta retorica e adottando gradualmente l'azione violenta come metodo di lotta. Avevano presentato analisi e proposto linee di condotta, con fascicoli e fascicoli di documentazione probante e ogni straccio di prova, per quanto minima, su cui erano riusciti a mettere le grinfie. Ma nessuno degli alti papaveri della scala gerarchica sopra di loro era stato disposto ad agire con energia sufficiente contro la crescente minaccia. Il superiore di Burke, il direttore della CIA David Hanson, aveva fatto un gran parlare e si era dato molto da fare, ma perfino lui, alla fine, era venuto meno alle aspettative. Molti politici di Washington si erano comportati ancora peggio. Guardavano il Lazarus Movement e vedevano solo la mimetizzazione superficiale, quella dell'organizzazione ambientalista benefattrice. Era quello che si nascondeva sotto la maschera che Kit Pierson temeva. «Immaginatevi un'organizzazione terroristica come al-Qaida, diretta però da americani, europei e asiatici, da gente che ha il mio o il vostro aspetto, o quello dei bravi e simpatici vicini di casa» ricordava spesso Katherine ai membri del suo staff. «Che genere di profilo possiamo prevedere contro una minaccia simile?» Hanson per primo capiva benissimo che il Lazarus Movement rappresentava una vera e propria minaccia, ma il direttore della CIA insisteva a combattere questa battaglia restando nella legalità ed entro i limiti stabiliti dai politici. Per contro, Kit Pierson, Hal Burke e altre personalità erano consapevoli del fatto che ormai era troppo tardi per giocare attenendosi alle regole. Erano impegnati ad annientare il Lazarus Movement attraverso un'azione aggressiva, servendosi cioè di qualsiasi mezzo fosse necessario. Il telefono sulla scrivania squillò. Katherine si allontanò dalla finestra e attraversò l'ufficio con quattro lunghi e aggraziati passi, per alzare la cornetta al secondo squillo. «Pierson» rispose.
«Sono Burke.» Era la telefonata che stava aspettando, ma il suo tarchiato omologo della CIA dalla pronunciata mascella quadrata sembrava insolitamente nervoso. «La tua linea è sicura?» le domandò. La donna fece scattare un interruttore sul telefono, effettuando un rapido controllo per verificare se ci fossero segnali di sorveglianza elettronica. L'FBI spendeva un sacco di tempo e di denaro dei contribuenti per assicurarsi che le sue reti di comunicazione non fossero sotto controllo. Una spia verde si accese. Katherine annuì tra sé. «Possiamo parlare senza problemi.» «Bene» ribatté Burke in modo conciso. In sottofondo erano riconoscibili i rumori prodotti dal traffico. Probabilmente la stava chiamando con il telefono dell'auto. «Perché nel New Mexico qualcosa è andato storto, Kit. La situazione è grave, anzi gravissima. Peggio del previsto. Accendi la TV via cavo e sintonizzati su un qualsiasi notiziario. Stanno trasmettendo le immagini a ciclo continuo.» Confusa, Kit si allungò sulla scrivania e premette sulla tastiera del suo PC i pulsanti che avrebbero trasmesso il segnale TV sul monitor del computer. Fissò immobile e inebetita, in scioccato silenzio, il servizio in diretta registrato davanti al Teller Institute di Santa Fe. Le immagini si susseguivano nitide, per quanto caotiche, sul suo schermo ad alta risoluzione. Proprio mentre stava osservando la scena, nuove esplosioni eruppero all'interno dell'edificio in fiamme. Grosse colonne di fumo denso e nerastro macchiavano il cielo azzurro terso del New Mexico. All'esterno dell'istituto, migliaia di dimostranti del Lazarus Movement scappavano ovunque precipitosamente, terrorizzati, spingendosi e calpestandosi gli uni gli altri nella frenesia della fuga. La telecamera zoomò sulla folla, mostrando immagini da incubo di esseri umani che si scioglievano come manichini di cera farciti di sangue. Katherine trasse un breve respiro affannoso, sforzandosi di riprendere la sua solita, calma compostezza. Poi strinse ancora più forte la cornetta del telefono. «Dio onnipotente, Hal... Cos'è successo?» «Non è ancora chiaro» rispose Burke. «I primi rapporti riferiscono che i manifestanti hanno fatto irruzione all'interno del complesso cintato aprendosi dei varchi nel reticolato e riversandosi in direzione dell'edificio, come per prenderlo d'assalto, quando all'interno si è scatenato l'inferno. Esplosioni, incendi, raffiche... di tutto!» «E quale sarebbe la causa?» «Dalle prime congetture sembra che si sia trattato di non so quale fuga
di sostanze altamente tossiche dai laboratori nanotech» spiegò Burke. «Alcune fonti lo definiscono un tragico incidente, mentre altre attribuiscono la responsabilità a un atto di sabotaggio da parte di criminali non ancora identificati. I finanziatori dei laboratori propendono per questa teoria.» «Ma non c'è stata ancora nessuna conferma?» si affrettò a domandare Kit Pierson. «Nessuno è stato ancora arrestato?» «Nessuno, finora. Non sono ancora riuscito a mettermi in contatto con i nostri agenti in loco, ma mi aspetto di ricevere qualche notizia al più presto. Io sto per partire per Santa Fe. C'è un volo d'emergenza della Air Force che decolla fra trenta minuti dall'aeroporto militare di Andrews... e a Langley sono riusciti a procurarmi un posto a bordo dell'aereo.» Katherine Pierson scosse il capo, frustrata. «Non era così che doveva andare, Hal. Pensavo che avessimo la situazione sotto controllo in quanto a sicurezza.» «Già, anch'io ne ero convinto» ribatté Burke. Kit ebbe quasi la sensazione di sentirlo alzare le spalle. «In ogni operazione capita che a un certo punto qualcosa vada storto, Kit. Lo sai bene.» La donna aggrottò le sopracciglia. «Non così storto.» «No» convenne Burke freddamente. «Di solito no.» L'uomo della CIA si schiarì la gola. «Ma a questo punto dobbiamo giocare con le carte che ci sono state servite. Dico bene?» «Sì.» La Pierson allungò la mano libera e spense il collegamento televisivo sul computer. Non le occorreva vedere altro. Specie in quel momento. Nutriva già il sospetto che quelle immagini terrificanti avrebbero ossessionato i suoi sogni per molto, molto tempo. «Kit...?» «Ci sono» rispose lei sottovoce. «Sai cosa devi fare, a questo punto?» Kit annuì, costringendosi a concentrarsi sul futuro immediato. «Sì, certo. Devo condurre e dirigere personalmente la squadra investigativa a Santa Fe.» «Sarà un problema per te?» chiese l'agente della CIA. «Sistemare le cose con Zeller, intendo.» «No, non credo proprio. Sono sicura che coglierà la palla al balzo per passare a me la patata bollente» dichiarò la «Regina d'inverno» in tono cauto, riflettendo a voce alta. «Sono l'esperta del Bureau riguardo al Lazarus Movement. Il direttore ad interim lo capisce perfettamente. E una cosa sarà certamente chiara a tutti, dalla Casa Bianca in giù lungo tutta la catena
di comando: in qualche modo, da qualche parte, per qualche strana ragione, questa atrocità deve per forza essere collegata al Lazarus Movement.» «Esatto» le fece eco Burke. «E, nel frattempo, da parte mia continuerò a spingere e a sostenere "l'operazione Tocsin".» «Lo ritieni prudente?» domandò la Pierson senza mezzi termini. «Forse a questo punto dovremmo staccare la spina.» «È troppo tardi» rispose Burke schiettamente. «È già tutto in moto, Kit: o cavalchiamo l'onda o anneghiamo.» Capitolo 9 Casa Bianca, Washington, D.C. I membri del team presidenziale per la Sicurezza nazionale, riuniti in consesso e seduti intorno all'affollato tavolo di consiglio nella Situation Room della Casa Bianca, erano di pessimo umore. Esattamente come dovrebbero sentirsi, pensò con aria tetra Samuel Castilla. I primi resoconti del disastro al Teller Institute oltre che scioccanti dimostravano la gravità della situazione, e a ogni nuovo rapporto sembrava sempre peggio. Il presidente guardò di sfuggita l'orologio più vicino. Era molto più tardi di quel che credeva. Nei limitati confini di quella saletta sotterranea, illuminata artificialmente, lo scorrere del tempo era spesso distorto. Erano passate parecchie ore da quando Fred Klein lo aveva informato dell'orrore che stava imperversando a Santa Fe. A quel punto, il presidente fece girare lo sguardo intorno al tavolo con aria incredula. «Mi state dicendo che non abbiamo ancora una stima accertata di morti e feriti... sia all'interno del Teller Institute, tra i dipendenti, sia all'esterno, tra i dimostranti?» «No, signor presidente... Non abbiamo a disposizione dati precisi» ammise Bob Zeller, il direttore dell'FBI. Zeller era seduto sulla sua poltroncina, ingobbito sul tavolo con aria avvilita. «Più della metà degli scienziati e del personale dell'istituto mancano all'appello. Molto probabilmente la maggior parte di loro non è sopravvissuta al disastro, ma, finché gli incendi non saranno stati definitivamente domati, non potremo nemmeno far entrare nell'edificio le squadre di ricerca e soccorso. Per quanto riguarda i manifestanti...» A Zeller mancò la voce per proseguire. «Forse non sapremo mai con precisione quanti contestatori siano effettivamente morti, signor presidente» intervenne il consigliere per la Sicurez-
za nazionale, Emily Powell-Hill. «Ha visto le immagini di quel che è accaduto fuori dai laboratori. Probabilmente ci vorranno mesi per identificare i resti di quei poveretti.» «Le principali reti televisive nazionali dichiarano che ci sono state almeno duemila vittime» disse Charles Ouray, il capo dello staff della Casa Bianca. «E prevedono che il bilancio possa aumentare. Forse toccherà le tre o quattromila unità.» «Sulla base di quali ragionamenti, Charles?» scattò il presidente. «Un gran mare di bolle di saliva e di mere supposizioni?» «I media adottano le asserzioni avanzate dai portavoce del Lazarus Movement» ribatté Ouray in tutta calma. «Agli occhi della stampa, e del pubblico in generale, quella gente ha più credibilità di quanta ne aveva in passato. Maggiore di quella di cui disponiamo noi al momento.» Castilla annuì con aria grave. Era la pura e semplice verità. Il primo e agghiacciante servizio era stato mandato in onda in diretta, senza neppure essere stato tagliato e montato, in una quantità di telegiornali speciali su diversi canali che trasmettevano via satellite. Decine di milioni di americani e centinaia di milioni di persone in tutto il mondo avevano assistito alle raccapriccianti immagini proprio nel momento in cui i fatti stavano avvenendo. Le reti televisive ora le stavano ritrasmettendo con maggiore discrezione, sfumando con cura quelle più scioccanti, che riprendevano i terrorizzati dimostranti del Lazarus Movement divorati vivi dalle fiamme. Ma ormai era troppo tardi: il danno era stato fatto. Tutte le strampalate e violente pretese avanzate dal Lazarus Movement in merito ai rischi posti dalla nanotecnologia sembravano, a questo punto, più che giustificate. Il movimento ambientalista pareva deciso a sostenere a gran voce una frottola ancor più sinistra e paranoica. Questa teoria era già apparsa sui siti web dell'organizzazione e su quelli dei principali gruppi di discussione su Internet. Affermava che i laboratori scientifici del Teller Institute stavano studiando e sviluppando armi biologiche e nanotecnologiche, a scopo bellico e in gran segreto, per conto degli apparati militari statunitensi. Facendo ricorso a fotografie misteriosamente simili delle vittime devastate in entrambe le località, l'illazione metteva in relazione l'orrore di Santa Fe al massacro avvenuto poco prima a Kusasa, nello Zimbabwe. I sostenitori di questa teoria affermavano che «elementi interni del governo americano» avevano annientato un pacifico villaggio africano come primo esperimento delle supposte armi nanotecnologiche segrete. Castilla si abbandonò a una smorfia: nell'isteria generale, nessuno a-
vrebbe prestato la benché minima attenzione alle pacate confutazioni tecniche avanzate dai più eminenti scienziati, o ai discorsi rassicuranti di stimati politici come il presidente stesso. In Congresso, incalzati dai capigruppo più spaventati, molti deputati e senatori stavano già chiedendo una immediata messa al bando federale della ricerca nanotech. E Dio solo sapeva quanti altri governi in tutto il mondo avrebbero abboccato all'amo delle stupefacenti asserzioni del Lazarus Movement riguardo al «programma d'armamento nanotecnologico» segreto dell'America. Castilla si rivolse a David Hanson, seduto in fondo al tavolo. «Ha niente da aggiungere, David?» Il direttore della CIA fece spallucce. «Oltre all'osservazione secondo cui quanto è accaduto al Teller Institute non è altro che una rivendicazione terroristica calcolata con estrema freddezza? No, signor presidente, non ho nulla da aggiungere.» «Non sta anticipando un po' i tempi?» domandò Emily Powell-Hill in tono brusco. Tra l'ex generale di brigata dell'esercito e il direttore della Central Intelligence Agency non correva buon sangue. Anzi, i due si detestavano senza mezzi termini. La Powell-Hill riteneva che Hanson fosse fin troppo ansioso di applicare rimedi estremi ai problemi di Sicurezza nazionale. In privato, il presidente concordava con la valutazione della sua assistente per la Sicurezza nazionale, ma la scomoda verità era che le peggiori previsioni di Hanson spesso centravano il bersaglio, e che la stragrande maggioranza delle operazioni segrete proposte e attuate dal direttore della CIA avevano successo. In questo caso, poi, le considerazioni di David Hanson collimavano perfettamente con ciò che Castilla aveva già udito da Fred Klein alla base ultrasegreta della Covert-One. «Starei speculando in anticipo su tutti i fatti avvenuti? È lampante che lo sto facendo...» ammise Hanson. Il direttore della CIA spiò con aria accondiscendente il consigliere per la Sicurezza nazionale al di sopra del bordo dei suoi occhiali dalla montatura di tartaruga. «Ma non capisco perché dovremmo sprecare tempo scervellandoci su teorie alternative, Emily. A meno che lei sinceramente non creda che gli intrusi che hanno fatto irruzione al Teller Institute non c'entrino nulla con gli ordigni esplosi meno di un'ora dopo. Francamente, mi sembra un po' da ingenui.» Emily Powell-Hill avvampò, imbarazzata. Castilla intervenne prima che la disputa sfuggisse di mano. «Ammettiamo per un momento che lei abbia ragione, David. Diciamo pure che questa
tragedia è un atto di terrorismo. Allora... di chi si tratta?» «Del Lazarus Movement» dichiarò senza peli sulla lingua il direttore della CIA. «Precisamente per le ragioni che avevo delineato quando abbiamo discusso nell'ultima riunione di valutazione delle minacce di consiglio congiunto dei servizi segreti, signor presidente. Allora ci eravamo chiesti che cosa potesse essere il supposto "grande evento" a Santa Fe.» Hanson si strinse di nuovo nelle spalle da mingherlino qual era. «Be', adesso lo sappiamo.» «Sta seriamente affermando che i leader del Lazarus Movement abbiano programmato la morte di oltre duemila dei loro stessi sostenitori e simpatizzanti?» chiese Ouray. Il capo dello staff della Casa Bianca si mostrava apertamente scettico. «Di proposito?» Hanson scosse la testa. «Non lo so. E finché non avremo una visione più dettagliata di ciò che di preciso ha ucciso quella povera gente, nessuno di noi lo saprà. Ma sono abbastanza sicuro che il movimento ambientalista è implicato fino al collo nell'attentato terroristico.» «In che modo?» chiese Castilla. «Consideri la tempistica, signor presidente» suggerì il direttore della CIA. E cominciò a enumerare i punti, precisandoli con il rigore di un professore che illustra una delle sue tesi predilette a una classe di matricole particolarmente lente nell'apprendimento. «Primo: chi ha organizzato una manifestazione di massa fuori dal Teller Institute? Il Lazarus Movement. Secondo: perché gli addetti al servizio di sicurezza interno dell'istituto si trovavano all'esterno dell'edificio all'arrivo della squadra fasulla del Servizio segreto, e perché non sono stati in grado di intervenire contro gli intrusi? Perché sono stati inchiodati all'esterno dalla minaccia rappresentata dalla manifestazione stessa. Terzo: chi ha impedito ai veri agenti del Servizio segreto presidenziale di entrare nel complesso? Gli stessi manifestanti del Lazarus Movement. E infine: perché le forze di polizia e l'Ufficio dello Sceriffo di Santa Fe non sono stati in grado di intercettare gli intrusi mentre questi lasciavano l'istituto? Perché erano impegnati ad affrontare il caos all'esterno.» Castilla annuì quasi involontariamente. Le argomentazione esposte dal direttore della CIA non erano inattaccabili, ma non si poteva certo dire che non fossero perlomeno plausibili. «Signor presidente, non possiamo affermare pubblicamente notizie infondate come questa ai danni del Lazarus Movement!» intervenne Ouray. «Sarebbe un suicidio politico. La stampa ci metterebbe in croce anche solo
se ci azzardassimo a suggerire tale ipotesi!» «Charlie ha assolutamente ragione, signor presidente» disse Emily Powell-Hill. Prima di proseguire, il consigliere per la Sicurezza nazionale scoccò un'occhiataccia fulminante al capo della CIA. «Attribuire la responsabilità di quanto è accaduto al Lazarus Movement armerebbe la mano di ogni teorico della cospirazione in ogni parte del mondo. Non possiamo permetterci di fornire loro altre munizioni. Non ora.» Un tetro silenzio calò intorno al tavolo di consiglio della Situation Room. «Una cosa è certa» disse bruscamente David Hanson, interrompendo il silenzio. «Il movimento ambientalista sta già sfruttando il martirio pubblico di una schiera sterminata di seguaci. Ovunque nel mondo, centinaia di migliaia di nuovi volontari hanno aggiunto il loro nominativo agli elenchi online dell'organizzazione. Milioni di persone hanno effettuato donazioni per via telematica ai conti correnti bancari pubblici del Lazarus Movement.» Il direttore della CIA guardò dritto negli occhi Castilla. «Capisco la sua riluttanza ad agire contro il Lazarus Movement senza una prova certa delle sue attività terroristiche, signor presidente. Sono ben consapevole delle conseguenze politiche che implicherebbe una scelta di questo tipo, e francamente spero che l'indagine dell'FBI al Teller Institute sortisca le prove che richiede, ma è mio dovere avvisarla che un ritardo potrebbe avere ripercussioni catastrofiche per la sicurezza della nazione. La forza del movimento aumenta di giorno in giorno. E, di giorno in giorno, la nostra capacità di fronteggiarlo con qualche speranza di successo diminuisce.» Centro di comando del Lazarus Movement L'uomo che tutti chiamavano Lazarus - «Lazzaro» - era seduto in completa solitudine in un piccolo locale, elegantemente arredato. Le veneziane alle finestre erano abbassate, escludendo così qualsiasi scorcio, per quanto fugace, del mondo esterno. Immagini si susseguivano tremolanti sullo schermo del computer davanti al quale l'uomo era chino, immagini teletrasmesse della carneficina all'esterno del Teller Institute. L'uomo annuì tra sé, gelidamente soddisfatto di ciò che vedeva. I suoi piani, così accuratamente e pazientemente elaborati nel corso di parecchi anni, si stavano finalmente realizzando. Gran parte dell'opera, come lo sfrondamento selettivo dell'ex leadership del Lazarus Movement, era stato
difficile e penoso, e aveva comportato parecchi rischi. Gli «Orazi», fisicamente possenti, addestrati con precisione maniacale nell'arte dell'assassinio, e infinitamente crudeli, sì erano rivelati utilissimi per il raggiungimento del suo scopo. Per un istante, una traccia di sofferenza gli mutò i tratti del volto. Il suo rammarico per la necessità di eliminare così tanti uomini e donne che un tempo aveva ammirato era sincero: la colpa che aveva segnato il destino di quelle persone era stata la riluttanza a comprendere il bisogno di misure più severe per realizzare i sogni che condividevano. Ma già un attimo dopo, «Lazzaro» si strinse nelle spalle. Rincrescimenti personali a parte, gli ultimi avvenimenti stavano dimostrando la correttezza della sua visione. Negli ultimi dodici mesi, sotto la sua leadership, il Lazarus Movement aveva portato a termine una serie di progetti che superava numericamente quelli realizzati in tutti i precedenti anni di svogliato attivismo convenzionale. Per ristabilire la purezza ambientale e biologica del mondo era assolutamente necessaria un'azione audace e decisiva, non monotona eloquenza e caute proteste politiche. In effetti, come suggeriva il nome stesso del movimento, l'obiettivo finale era quello di estrarre nuova vita dalla morte stessa. Il suo computer tintinnò soffusamente, segnalando l'arrivo di un altro rapporto criptato trasmessogli dal Centro. «Lazzaro» lo lesse rapidamente, in silenzio. La morte di Prime era un inconveniente, ma la perdita di uno dei suoi tre preziosi «Orazi» era di gran lunga più grave delle conseguenze dell'attacco al Teller Institute e della strage tra le fila dei suoi stessi seguaci provocata dall'evento. Gabbati dalle informazioni che aveva loro propinato, informazioni che confermavano le loro peggiori paure, i vertici americani dell'FBI e della CIA e quelli di altri servizi di intelligence alleati si erano cacciati da soli nella trappola di un atto di sterminio involontario. Quello che agli occhi di quei poveri imbecilli doveva apparire come un tragico errore, in realtà era stato programmato fin dall'inizio. Le autorità federali erano responsabili e «Lazzaro» avrebbe usato quella colpevolezza a loro danno per i propri scopi. «Lazzaro» sorrise freddamente. Con un unico colpo mortale aveva reso praticamente impossibile agli Stati Uniti, o a qualsiasi altro governo dei Paesi occidentali, agire con risolutezza contro il Lazarus Movement. Aveva sfruttato e indirizzato la loro forza in modo che gli si rivoltasse contro, proprio come avrebbe fatto qualsiasi maestro di jujitsu. Sebbene i suoi nemici giurati non se ne rendessero ancora conto, il comando era unicamente
nelle sue mani. Qualsiasi azione avessero intrapreso contro il suo movimento, non avrebbe fatto altro che rafforzare l'organizzazione, indebolendoli nello stesso tempo. Adesso era giunto il momento di iniziare ad aizzare gli alleati, un tempo fedeli, gli uni contro gli altri, spingendoli ad azzannarsi alla gola. Il mondo diffidava già abbastanza del potere scientifico e militare dell'America, nonché delle motivazioni politiche di Washington. Con il giusto pungolo e un'adeguata manipolazione dei mass media, il mondo avrebbe ben presto creduto che l'America, l'unica superpotenza ancora in auge, stesse armeggiando pericolosamente con i componenti basilari della creazione, ideando nuove armi su una nanoscala, e tutto allo scopo di raggiungere le sue egoistiche e spietate mire private. Il globo terracqueo avrebbe cominciato a dividersi tra chi si schierava con il Lazarus Movement e chi lo osteggiava. E i governi delle nazioni, incalzati dalle loro stesse popolazioni, si sarebbero sempre più schierati contro gli Stati Uniti. La confusione, il caos e il disordine sociale conseguenti avrebbero reso più facile il suo gioco. Gli avrebbero concesso il tempo necessario per portare a compimento il suo grandioso disegno. Un disegno che avrebbe trasformato per sempre il pianeta Terra. Capitolo 10 La notte stava calando in fretta nella regione desertica a nord di Santa Fe. Le vette più elevate delle Jemez Mountains brillavano di un colore rossastro, illuminate dagli ultimi raggi del sole al tramonto. Il territorio più pianeggiante a est era già immerso nelle tenebre che andavano addensandosi. Appena poco più a sud della città, lingue di fuoco danzavano minacciose in mezzo alle rovine e alle macerie del Teller Institute, guizzando di bagliori arancioni, rossi e gialli mentre le fiamme si alimentavano del legno dei mobili e delle travi di supporto spezzate dagli incendi, delle sostanze chimiche rovesciate, delle attrezzature rovinate dalle cariche esplosive e dei cadaveri delle persone rimaste intrappolate all'interno dell'edificio. Il fetore rancido, acre e nauseante del fumo aleggiava penetrante nella fredda aria serale. Numerose unità antincendio erano presenti sul posto con le loro squadre di specialisti, ma erano trattenute all'esterno della zona delimitata dai cordoni di agenti della polizia locale e della Guardia nazionale. La speranza di
trovare altri superstiti all'interno dell'edificio in fiamme era nulla, sicché nessuno voleva rischiare di mettere a repentaglio la vita di altri uomini, esponendoli alle cosiddette «nanomacchine» sfuggite al controllo, responsabili della morte di così tanti militanti del Lazarus Movement. Jon Smith era in piedi, rigido come un automa, in prossimità del bordo esterno del cordone delimitato da nastri e transenne, e osservava gli incendi ardere senza più alcun controllo. Il suo volto affilato era stravolto e le sue spalle ingobbite. Come molti soldati, nei momenti che seguivano l'azione intensa, provava spesso una sensazione di malinconia. In questo caso, però, era ancora peggio: non era abituato alla sconfitta. In due, lui e Frank Diaz, dovevano avere ucciso o almeno ferito gravemente la metà dei terroristi che avevano attaccato il Teller Institute, ma ciononostante gli ordigni esplosivi che questi avevano piazzato all'interno della struttura erano detonati comunque. Né Smith poteva dimenticare l'orrore di vedere migliaia di persone ridotte a una sanguinolenta poltiglia viscosa e pochi frammenti di ossa. Il cellulare criptato nella tasca interna della sua giacca vibrò improvvisamente. Estrasse il telefonino e rispose «Smith». «Mi occorre che mi illustri altri dettagli, colonnello» disse bruscamente Fred Klein senza troppi giri di parole. «Il presidente è ancora in riunione con i suoi esperti per la Sicurezza nazionale, ma mi aspetto che richiami da un momento all'altro. Gli ho già trasmesso il suo rapporto preliminare, ma vorrà sapere di più. È necessario che mi dica esattamente ciò che ha visto con i suoi occhi e cosa pensa sia accaduto laggiù quest'oggi.» Smith chiuse gli occhi, tutt'a un tratto esausto. «Ho capito» ribatté senza energia. «È rimasto ferito, Jon?» domandò il direttore della Covert-One, in tono evidentemente preoccupato. «Quando ci siamo sentiti prima non mi ha detto nulla e ne ho dedotto...» Smith scrollò la testa. Il brusco movimento appiccò un incendio in ogni contusione e muscolo strappato. «Niente di grave» precisò, sussultando. «Qualche taglio e qualche escoriazione. Tutto qui.» «Capisco.» Klein si interruppe un attimo, evidentemente dubbioso. «Sospetto che ciò significhi che in questo preciso istante non stia sanguinando.» «Davvero, Fred, sto bene» replicò Smith, irritato. «Sono laureato in medicina, ricorda?» «Okay» rispose Klein prudentemente. «Procediamo, allora. Primo: è an-
cora convinto che i terroristi che hanno attaccato il Teller fossero dei professionisti perfettamente addestrati ed esperti?» «Su questo non ci piove» rispose Smith. «Quei bastardi erano davvero scaltri, Fred, con un ineccepibile sangue freddo. Conoscevano alla perfezione le procedure del Servizio segreto presidenziale, avevano armi e documenti di riconoscimento del Servizio segreto, ed erano decisi come killer professionisti. Se la vera squadra non si fosse presentata al cancello in anticipo rispetto al programma, quei delinquenti sarebbero potuti uscire senza che nessuno battesse ciglio.» «Fino all'istante in cui gli ordigni esplosivi non sono stati fatti saltare in aria» osservò Klein. «Fino ad allora» convenne Smith in tono lugubre. «Il che ci porta a parlare dei manifestanti morti» proseguì il direttore della Covert-One. «L'ipotesi più accreditata pare sia quella secondo cui l'esplosione avrebbe liberato e diffuso nell'atmosfera qualcosa che si trovava all'interno di uno dei tre laboratori scientifici: o una sostanza chimica altamente tossica o, più probabilmente, una creazione nanotech che è impazzita. Lei aveva l'incarico in loco di esaminare i laboratori e di sovrintendere alle ricerche che vi si effettuavano. Che cosa ritiene sia accaduto?» Smith aggrottò le sopracciglia. Sin da quando il conflitto a fuoco e le urla erano cessati, si era scervellato nel tentativo di raccogliere le idee e pervenire a una risposta plausibile alla domanda che Klein gli aveva appena posto. Che cosa poteva avere ucciso una tale quantità di dimostranti fuori dall'istituto e in modo così rapido e sconvolgente? Jon emise un sospiro. «Solo un laboratorio stava lavorando su qualcosa direttamente connesso ai tessuti e agli organi umani.» «Quale?» «Quello della Harcourt Biosciences» rispose Smith. Parlando rapidamente, illustrò per sommi capi la ricerca a cui Brinker e Parikh si stavano dedicando con i loro nanofagi Mark II, compreso il loro ultimo esperimento, quello in cui era morta una cavia del tutto sana. «E una delle esplosioni più eclatanti è avvenuta proprio all'interno del laboratorio della Harcourt» concluse. «Sia Phil sia Ravi mancano all'appello e si presume siano deceduti.» «Allora è così che dev'essere andata» dedusse Klein, in un tono vagamente sollevato. «Le bombe sono state piazzate con premeditazione. Ma la strage avvenuta all'esterno deve essere stata del tutto imprevista, fondamentalmente una sorta di incidente industriale high-tech.»
«Non mi convince» sbottò Smith in tono brusco. «Perché no?» «Tanto per cominciare, il topolino che ho visto morire non mostrava alcun segno di degenerazione cellulare» ribatté Smith, riflettendovi a fondo. «Non c'era nulla che assomigliasse, per quanto lontanamente, alla spaventosa disintegrazione molecolare a cui ho assistito questo pomeriggio.» «Non potrebbero essere semplicemente diversi gli effetti provocati da questi nanofagi nel corpo di una cavia da laboratorio e nel corpo di un essere umano?» azzardò Klein misurando le parole. «Questo è molto improbabile» osservò Smith. «Il motivo specifico per cui si ricorre ai topi da laboratorio per le sperimentazioni preliminari è proprio la loro somiglianza biologica agli esseri umani.» Jon sospirò. «Però non ci potrei giurare, Fred, non senza ulteriori approfondimenti sull'argomento, comunque. Ma l'istinto mi dice che i nanofagi della Harcourt Biosciences potrebbero non essere affatto responsabili di quelle morti.» All'altro capo del telefono ci fu una pausa di silenzio alquanto lunga. «Si rende conto di che cosa significherebbe?» domandò Klein alla fine. «Sì» convenne Smith. «Se ho ragione e nulla all'interno dell'istituto è la causa della morte di tutte quelle persone, allora la micidiale sostanza è entrata con i terroristi ed è stata diffusa deliberatamente... in quanto parte di chissà quale folle piano efferato, con l'obiettivo di massacrare migliaia di militanti del Lazarus Movement. E questo pare alquanto illogico.» Smith chiuse gli occhi un momento. Le sue gambe stavano per cedere e si sentì travolgere dalla spossatezza che aveva finora tenuto a bada. «Jon?» Con un certo sforzo, Smith si costrinse a tornare in tensione. «Sono ancora qui» disse. «Ferito o non ferito, ha tutta l'aria di essere esausto» gli disse Klein. «Dovrebbe riposare e recuperare le forze. Com'è la situazione lì?» Malgrado la profonda stanchezza, Smith non poté fare a meno di abbandonarsi a un sorrisino beffardo. «Non è certo una meraviglia. Comunque, per ora non vado da nessuna parte. Ho già fornito a chi di dovere la mia deposizione, ma i federali locali stanno trattenendo ogni superstite del disastro che sia ancora in grado di camminare o di parlare direttamente qui sul posto, dato che incombe l'arrivo da Washington della "Regina d'inverno", da cui dipendono, che non dovrebbe essere qui fino a domattina di buon'ora.» «Non c'è da stupirsi» commentò Klein. «Ma non è neppure una buona
notizia. Attenda un attimo: vedo cosa posso fare. Resti in linea.» La voce di Klein si attenuò fino a scomparire. Smith lasciò vagare lo sguardo nell'oscurità che stava sopraggiungendo, osservando gli uomini armati di fucili d'assalto in tenuta mimetica, elmetti in kevlar e giubbotti antiproiettile, che pattugliavano il cordone che si frapponeva tra lui e l'edificio in fiamme. La Guardia nazionale aveva schierato una squadra speciale per isolare la zona intorno al Teller Institute. I soldati avevano ricevuto l'ordine di sparare a vista e di uccidere, nel caso in cui qualcuno avesse tentato di oltrepassare le transenne e il cordone di agenti lungo il perimetro loro assegnato. Da quanto aveva sentito, altre unità della Guardia nazionale erano state schierate nella città di Santa Fe, con il compito di proteggere gli uffici statali e federali e cercare di mantenere le autostrade e le strade nevralgiche aperte agli automezzi di soccorso. Uno degli sceriffi locali gli aveva detto che diverse migliaia di abitanti della città stavano per essere evacuati, altri erano già in fuga verso Albuquerque o addirittura a nord in direzione dei monti intorno a Taos, in cerca di sicurezza. La polizia era anche impegnata a tenere sotto controllo i superstiti della manifestazione del Lazarus Movement. Molti erano già fuggiti dalla zona, ma alcune centinaia di attivisti intontiti vagavano senza meta nelle strade di Santa Fe. Nessuno sapeva con certezza se fossero effettivamente scioccati o se stessero solo aspettando il momento o l'occasione giusta per provocare altri incidenti. Fred Klein tornò in linea. «È tutto sistemato, colonnello» disse con calma. «Ha il permesso di abbandonare la zona di sicurezza... e le è pure stato organizzato un passaggio in auto fino al suo albergo.» Smith gliene fu enormemente riconoscente. Capiva perché il Bureau volesse rendere sicura la zona e mantenere il controllo solo sui suoi testimoni oculari attendibili, ma non moriva di certo dalla voglia di passare un'interminabile notte al freddo, steso su una branda da campo in una tenda della Croce Rossa, o raggomitolato sul sedile posteriore di un'autopattuglia della polizia. Come tante altre volte in passato, si chiese di sfuggita come facesse Klein - un uomo che operava esclusivamente nell'ombra - a tirare così tanti fili senza svelare la propria identità di copertura. Ma poi, come sempre, mise da parte quegli interrogativi, relegandoli in un angolino della mente. Per lui, la cosa importante era che il burattinaio sapesse far funzionare perfettamente le sue marionette.
Venti minuti più tardi, Smith stava viaggiando a bordo di una volante della Polizia di Stato diretta a nord lungo la Highway 84 attraverso il centro di Santa Fe. C'erano ancora lunghe code di automobili, pick-up, furgoncini e fuoristrada della popolazione civile che avanzavano a passo di lumaca in direzione sud, verso l'imbocco della Interstate 25, l'arteria principale che conduceva ad Albuquerque. Il messaggio era chiaro. Molti abitanti del posto non avevano bevuto la comunicazione ufficiale secondo cui qualsiasi rischio e pericolo era limitato alla zona, relativamente ristretta, intorno all'istituto. Smith si accigliò alla vista del traffico, ma non poteva farne una colpa alla gente, perché comprendeva la loro paura. Per anni era stato assicurato a tutti che la nanotecnologia era del tutto sicura, e poi la gente aveva acceso il televisore e visto in diretta come gli scalmanati dimostranti radunati dal Lazarus Movement fossero stati fatti a brandelli da minuscole macchine, talmente piccole da risultare invisibili all'occhio umano. La volante svoltò a est, uscendo dalla Highway 84 e imboccando il Paseo de Peralta, l'ampio viale che girava attorno al centro storico di Santa Fe. Smith scorse un Humvee della Guardia nazionale che bloccava un incrocio stradale che si trovava a destra. Altri veicoli, soldati e agenti di polizia erano a presidio di ogni via o vicolo diretti nel centro della città. Jon annuì tra sé. I responsabili dell'ordine pubblico si stavano prodigando per sfruttare al meglio le loro limitate risorse. Se si doveva scegliere un solo posto da difendere dagli atti di vandalismo e di sciacallaggio, l'area più probabile era proprio quella. C'erano altri musei, gallerie d'arte, centri commerciali, negozi e abitazioni civili sparsi intorno al resto della città, ma il nodo nevralgico e il cuore stesso di Santa Fe erano il bersaglio più ovvio: un dedalo di viuzze a senso unico circostanti la magnifica piazza alberata sui quattro lati e il Palazzo dei Governatori, un edificio monumentale vecchio di quattro secoli. I vicoli del centro storico seguivano la traccia serpeggiante di antiche strade, come la pista di Santa Fe e il Pecos Trail, non un antisettico tracciato urbano ultramoderno. Molti degli edifici che si affacciavano sui lati di quelle vie erano una mescolanza di vecchio e di nuovo, nello stile Pueblo della cosiddetta «rinascita», con muri di adobe dai toni cromatici color terra bruciata e sabbia, tetti piatti, finestrelle incassate nei muri e lunghe travi di legno sporgenti. Altri palazzi, come il tribunale federale, esponevano le tipiche facciate di nudi mattoni e le affusolate colonne bianche dello stile «territoriale», risalenti al 1846 e alla conquista statunitense, avvenuta nel
corso della guerra con il Messico. Gran parte della storia, dell'arte decorativa e dell'architettura che rendevano Santa Fe una città americana davvero unica si celava nella cerchia del quartiere centrale limitato a poche vie. Smith corrugò la fronte mentre attraversavano il labirinto di vicoli cittadini oscuri e deserti. Quasi ogni giorno la piazza era gremita di turisti che scattavano fotografie e passavano in rassegna le mercanzie offerte dagli artisti e dagli artigiani locali. I pellerossa, o più correttamente i «nativi americani», solitamente erano seduti all'ombra del portal, il passaggio coperto, fuori dal Palazzo dei Governatori, a vendere ceramiche e terraglie caratteristiche, gioielli e bigiotteria in argento e turchesi. Jon ebbe il sospetto che quella zona sarebbe stata stranamente abbandonata il mattino successivo, e forse per molti giorni a venire. Alloggiava ad appena cinque isolati dalla piazza, al Fort Marcy Hotel Suites. Anni addietro, quando era stato assegnato per la prima volta come osservatore del Teller Institute, lo aveva divertito alloggiare nella suite di un albergo con un nome alquanto militaresco. Ma nel Fort Marcy Hotel Suites non c'era nulla color kaki o verde oliva, o che ricordasse gli ambienti da caserma dell'esercito. Otto corpi di fabbrica separati occupavano una serie di palazzine a piano unico, edificate sul fianco poco ripido di una collina da cui si godeva un bel panorama della città e delle montagne vicine. Ogni palazzina era tranquilla, confortevole e arredata con eleganza e buon gusto, in un miscuglio di stili Southwestern, in parte moderno e in parte tradizionale. I soldati della Guardia nazionale lo lasciarono davanti all'entrata dell'albergo. Smith li ringraziò e, zoppicando leggermente, si avviò sul vialetto selciato in direzione del suo alloggio, un miniappartamento con camera da letto e servizi privati nascosto tra alberi ombrosi e giardinetti «paesaggisti». Nelle palazzine vicine, poche luci erano accese. Jon ebbe la netta impressione che molti degli ospiti dell'albergo fossero già partiti da un pezzo, diretti a casa alla massima velocità consentita dal codice stradale. Armeggiò nel portafogli in cerca della chiave della sua stanza, la trovò, aprì la porta ed entrò. Dopo aver chiuso a chiave la porta alle sue spalle, cominciò a sentirsi invadere dall'agognato senso di rilassamento. Con calma, si tolse il giubbotto di pelle sforacchiato di proiettili, poi, barcollando, si diresse in bagno. Si sciacquò il volto con l'acqua fredda e si guardò allo specchio. Gli occhi che lo fissarono di rimando, riflessi nello specchio, erano turbati, stanchi e colmi di profonda tristezza.
Distolse lo sguardo. Più per abitudine che per vera fame, controllò il frigorifero nella cucina del miniappartamento. Nessuno dei rimasugli da ristorante avvolti nella carta stagnola all'interno del frigo aveva un aspetto allettante. Scelse invece una birra ghiacciata, svitò il tappo e depose la bottiglietta sul tavolo del tinello. La fissò a lungo. Poi si voltò e si sedette a osservare con sguardo assente fuori dalla finestra, rivedendo solo gli orrori di cui era stato testimone oculare poche ore prima, come in una sorta di involontaria proiezione a ciclo continuo sullo schermo della mente esausta. Capitolo 11 Malachi MacNamara fece una pausa appena oltre i portoni della Cristo Rey Catholic Church. Restò fermo in piedi a riposarsi un attimo, guardandosi intorno con circospezione. Un pallido chiaro di luna filtrava nella chiesa dalle finestre che si aprivano in alto, nei massicci muri di adobe. Un'ampia navata si allungava davanti a lui. In fondo, dietro all'altare, era visibile un'imponente pala, un reredos, composta da tre grandi sezioni in pietra bianca. Bassorilievi di fiori, santi e angeli coprivano per intero la pala d'altare in pietra. Gruppi di uomini e donne affranti sedevano accasciati qui e là tra i banchi. Alcuni si abbandonavano al pianto, altri sedevano in silenzio, con lo sguardo perso nel vuoto, ancora traumatizzati dagli orrori di cui erano stati testimoni. MacNamara avanzò lentamente e con discrezione lungo una delle navate laterali, osservando e ascoltando la gente intorno a sé. Aveva la sensazione che gli uomini a cui stava dando la caccia non fossero là, ma era meglio accertarsene prima di proseguire altrove la sua ricerca. Gli dolevano i piedi. Aveva già dedicato alcune ore a camminare per le vie a dedalo di quella città, rintracciando numerosi gruppetti dispersi di superstiti del Lazarus Movement. Certo sarebbe stato più rapido ed efficace servirsi di un automezzo, ma non era nella sua indole, rammentò a se stesso, ed era maledettamente ovvio. Il veicolo che aveva portato con sé in New Mexico avrebbe dovuto restare nascosto ancora un po'. Una donna di mezz'età con un bel viso cordiale si affrettò ad andargli incontro. Doveva essere una delle parrocchiane che avevano aperto la chiesa ai bisognosi, pensò MacNamara. Non tutti a Santa Fe si erano fatti prendere dal panico, fuggendo sulle colline. Malachi le lesse la costernazione ne-
gli occhi. «Posso fare qualcosa per lei?» gli chiese la donna. «Ha partecipato alla manifestazione davanti al Teller Institute?» MacNamara annuì foscamente. «Sì, c'ero anch'io.» Lei gli sfiorò una manica con la mano. «Mi dispiace tanto. Io ero talmente sconvolta che mi sono limitata a guardare da lontano, alla televisione, sa. Non riesco neppure a immaginare cosa deve aver provato la gente ad avere...» Le mancò la voce per terminare la frase. Poi sgranò leggermente gli occhi, rendendoli involontariamente ancora più grandi. A un tratto, MacNamara si rese conto che la sua espressione si era fatta più gelida, infinitamente severa, se non addirittura minacciosa. Gli orrori a cui aveva assistito erano ancora un ricordo troppo recente. Con un certo sforzo, scacciò dai pensieri le immagini raccapriccianti che lo tormentavano. Poi sospirò. «Mi scusi» disse alla donna con dolcezza. «Non volevo spaventarla.» «Ha perso...» La donna esitò a proseguire la frase. «Cioè... sta cercando qualcuno? Una persona in particolare?» MacNamara annuì. «Già, sto cercando qualcuno. Diverse persone, in effetti.» Gliele descrisse. La donna ascoltò attentamente, ma alla fine non poté fare altro che scuotere il capo. «Credo che qui non ci sia nessuno che corrisponde alla sua descrizione.» Poi emise un sospiro. «Ma può provare al tempio buddhista Upaya, più su, in Cerro Gordo Road, sulle colline. I monaci stanno offrendo rifugio e soccorso ai superstiti. Se vuole, posso darle le indicazioni per arrivare al tempio.» L'uomo snello dagli occhi azzurri annuì con l'aria di chi è riconoscente. «Sarebbe davvero gentile da parte sua» disse. Poi raddrizzò la schiena e le spalle. Ne hai ancora di chilometri da percorrere prima di poter chiudere occhio, ricordò lugubremente a se stesso. E, con ogni probabilità, invano. Gli uomini a cui stava dando la caccia si erano presumibilmente già rifugiati in un nascondiglio sicuro. La donna abbassò lo sguardo sugli stivaletti rovinati e impolverati dell'uomo. «Oppure potrei darle un passaggio» propose in tono esitante. «Se è tutto il giorno che cammina, ormai sarà esausto.» Malachi MacNamara si concesse un sorriso per la prima volta da parecchi giorni. «Sì» disse in tono sommesso. «Sono stanco morto. E le sarei tanto grato se mi desse un passaggio in auto.» Periferia di Santa Fe
La casa sicura della squadra d'azione Tocsin era fuori città, sulle colline ai piedi dei monti Sangre de Cristo, non lontano dalla strada che collegava la capitale del New Mexico al Santa Fe Ski Basin, l'impianto sciistico che si trovava sulle stesse montagne. Un'angusta stradina privata, bloccata da una catena e segnalata da un grande cartello che intimava VIETATO L'ACCESSO, serpeggiava in salita sul fianco di un colle, tra betulle dal fogliame color oro, querce con chiome di un rosso ramato e svettanti conifere. Hal Burke deviò dalla strada principale, accostò sul ciglio della carreggiata e abbassò il finestrino della Chrysler LeBaron che aveva preso a noleggio un minuto dopo essere atterrato all'aeroporto internazionale di Albuquerque. Rimase seduto in paziente attesa, attento a tenere le mani ferme e bene in vista sul volante. Una figura indistinta uscì allo scoperto dal riparo fornito da uno dei tanti alberi dalle dimensioni imponenti. Il fioco bagliore di luce fornito dai fari dell'auto rivelò un volto smunto e cavallino, teso e sospettoso. Una mano indugiava visibilmente in prossimità della Walther 9mm che lo sconosciuto teneva nel fodero agganciato alla cintura. «Questa è una strada privata, signore.» «Sì, lo vedo» concordò Burke. «E io sono un investigatore privato. Mi chiamo Tocsin.» La sentinella si avvicinò, rassicurata dall'uso del codice di riconoscimento esatto. Proiettò il fascio di una piccola torcia a stilo sul viso dell'agente della CIA e lo diresse poi sul sedile posteriore della Chrysler, per assicurarsi che Burke fosse solo. «Okay. Mi faccia vedere un documento di identificazione.» Burke prese cautamente il tesserino della CIA dalla tasca della giacca e lo consegnò alla sentinella. L'uomo verificò attentamente la fotografia identificativa sul tesserino, poi assentì, restituì il documento e sganciò la catena che sbarrava la strada. «Può proseguire, signor Tocsin. La stanno aspettando alla casa.» La casa, quattrocento metri più avanti, quasi al termine dell'angusta stradina, era un grande chalet in stile svizzero, parte in muratura, parte in legno, con un tetto a spioventi, progettato appositamente per liberarsi dalle grandi masse di neve accumulata. Nel corso di un inverno con condizioni climatiche nella media, in quella zona dei monti Sangre de Cristo cadevano ben oltre i due metri e mezzo di neve, e le prime avvisaglie dell'inverno
molto spesso cominciavano a farsi sentire intorno alla fine di ottobre. Nelle località sciistiche, sui pendii innevati a quote più elevate, di solito cadeva addirittura il doppio delle precipitazioni nevose. Burke parcheggiò sopra una piattaforma in calcestruzzo scalfita dalle intemperie, vicino a una serie di scalini di pietra che conducevano alla porta anteriore dello chalet. Sullo sfondo del buio serale, le luci brillavano gialle dietro le tende in stoffa tirate. Il bosco circostante la costruzione era taciturno e perfettamente immobile. La porta anteriore dello chalet si aprì prima ancora che Burke fosse sceso dall'auto. La sentinella doveva aver avvertito chi di dovere con la ricetrasmittente. Un massiccio spilungone dai capelli castani si parò sulla soglia d'ingresso, guardando dall'alto il nuovo arrivato, con occhi d'un brillante verde smeraldo. «Ha portato il bel tempo, signor Burke.» L'agente della CIA annuì, fissando a sua volta dal basso l'erculeo spilungone. Non senza apprensione, si chiese quale della strana triade fosse quello che si definiva «gli Orazi». I tre uomini, a dir poco robusti, non erano fratelli di sangue. Si diceva che il loro aspetto esteriore identico, la forza e l'agilità straordinarie di cui erano parimenti dotati, e l'ampia gamma di talenti che li contraddistingueva, fossero il risultato di anni di scrupolosa chirurgia plastica, elaborato condizionamento fisico e addestramento intensivo. Burke li aveva selezionati personalmente quali capisezione per la squadra speciale Tocsin, dietro suggerimento del loro creatore, ma non riusciva mai a sopprimere del tutto quella sensazione di timore misto a stupore ogni volta che si trovava di fronte uno degli «Orazi». Né sapeva distinguerli l'uno dall'altro. «Avevo buoni motivi per affrettarmi, Prime» ribatté, azzardando finalmente un'ipotesi identificativa. L'uomo dagli occhi verde smeraldo scosse la testa. «Io sono Terce. Purtroppo, Prime è morto.» «Morto?! Come?» domandò Burke in tono brusco. «È morto nel corso dell'operazione» lo informò Terce tranquillamente. Poi si fece da parte, invitandolo a entrare nello chalet. Una rampa di scale, dai gradini coperti da una passatoia di moquette, conduceva al primo piano. Un lungo corridoio lastricato in pietra, con le pareti rivestite di perline scure in legno d'abete, portava al cuore dello chalet. Una luce quasi accecante filtrava da una porta lasciata aperta più all'interno. «In effetti è arrivato giusto in tempo per aiutarci a decidere una questione trascurabile col-
legata alla morte di Prime.» L'agente della CIA seguì il colosso oltre la porta aperta, in un ampio portico a vetrate chiuse, lungo quanto l'intera facciata posteriore della casa sicura. Il pavimento di cemento leggermente inclinato, con al centro un canaletto di scolo in metallo, e gli scaffali a ridosso delle pareti rivelarono a Burke che il locale veniva di norma utilizzato come ripostiglio ed essiccatoio per attrezzature e indumenti incrostati di neve, come scarponi pesanti, sci da fondo e doposci. Al momento, però, i nuovi proprietari dello chalet se ne servivano come cella di detenzione. Un ometto dalle spalle ricurve e ingobbite, dalla carnagione olivastra e un paio di baffi ben curati, era appollaiato scomodamente su uno sgabello posto proprio in mezzo alla stanza, esattamente a cavallo del canaletto di scolo. Era imbavagliato e aveva le mani annodate dietro la schiena. Le caviglie erano legate alle gambe dello sgabello. Sopra il bavaglio, un paio di occhi marrone scuro erano spalancati da un'evidente paura. L'ometto fissò con palese inquietudine i due uomini appena entrati. Burke si voltò verso Terce. Si limitò a inarcare un sopracciglio in una tacita espressione interrogativa. «Il nostro amico, Antonio, era l'autista d'appoggio alla squadra d'assalto» spiegò l'uomo in tutta tranquillità. «Purtroppo se l'è fatta sotto durante la fase di estrazione. Ha piantato in asso Prime.» «Allora è stato costretto a eliminare il primo degli "Orazi"?» domandò Burke. «Per impedire che fosse catturato?» «Non esattamente. Prime è stato... divorato» precisò Terce. Poi scosse il capo con aria tetra. «Avrebbe dovuto avvertirci del flagello letale che le nostre cariche esplosive avrebbero messo in circolazione, signor Burke. Francamente spero che il suo silenzio al riguardo sia stato soltanto una svista... e involontaria!» L'agente della CIA aggrottò le sopracciglia, avvertendo l'implicita minaccia nella voce del suo interlocutore. «Nessuno sapeva quanto fossero pericolosi in realtà quei maledetti nanodispositivi!» si affrettò a dichiarare. «Nulla nei rapporti top secret che ho studiato personalmente, quelli carpiti alla Harcourt, alla Nomura o al Teller Institute, poteva indurre a immaginare una catastrofe di tale portata!» Terce lo scrutò attentamente negli occhi per alcuni secondi. Poi annuì. «Benissimo. Accetto la sua spiegazione dei fatti. Per ora.» Il secondo degli «Orazi» si strinse nelle spalle. «Ma la missione ha avuto un effetto contrario a quello desiderato. Ora il Lazarus Movement sarà ancora più forte, al-
tro che indebolirlo! Desidera procedere ulteriormente? O dovremmo invece levare le tende e battercela finché siamo ancora in tempo?» Burke aggrottò la fronte. Ormai si era spinto troppo in là per fare dietrofront. Adesso, quello che più gli premeva era predisporre la distruzione del movimento ambientalista. Burke scosse il capo con determinazione. «Andiamo avanti. La sua squadra è pronta ad attivare il piano di copertura?» «Siamo pronti.» «Bene» disse in tono piatto l'agente della CIA. «Allora abbiamo ancora una possibilità di attribuire la responsabilità di quanto è accaduto al Lazarus Movement. Faccia scattare la copertura... stasera stessa.» «Sarà fatto» convenne Terce con aria serafica. Poi indicò l'uomo legato sullo sgabello. «Nel frattempo dobbiamo risolvere questo problema di disciplina. Che cosa propone di fare con Antonio?» Burke scrutò a fondo negli occhi il suo interlocutore. «La risposta non è forse ovvia?» disse. «Se quest'uomo ha ceduto al panico, è altamente probabile che si ripeterà. Non ce lo possiamo permettere. L'operazione Tocsin è già abbastanza in pericolo. Lo elimini e nasconda il cadavere dove non sarà rinvenuto almeno per qualche settimana.» L'autista gemette sommessamente da sotto il bavaglio. Le sue spalle diedero l'impressione di sgonfiarsi di colpo. Terce annuì. «Il suo ragionamento non fa una piega, signor Burke.» Dai suoi occhi verdi traspariva una luce goliardica. «Ma visto che il ragionamento è suo, com'è suo il verdetto, ritengo che dovrebbe comminare la sentenza lei stesso.» Detto questo, il gigante offrì all'agente della CIA un pugnale d'assalto a lama lunga, porgendoglielo dalla parte dell'impugnatura. Mi sta mettendo alla prova, capì Burke, con irritazione. Quel gigante voleva vedere fino a che punto era disposto a sporcarsi le mani commettendo un'efferatezza che egli stesso aveva ordinato. Far da mandriano a un branco di mercenari delle cosiddette «missioni in nero» non era mai facile; inoltre aveva già ucciso degli uomini prima di allora per dimostrare la propria autorità in altre operazioni, omicidi che aveva accuratamente nascosto ai suoi diretti superiori. Dissimulando il proprio disgusto, l'agente della CIA si tolse la giacca e l'appese a una delle ganasce da parete per gli sci, poi si arrotolò fin sopra il gomito le maniche della camicia e prese il pugnale. Senza fermarsi un istante a riflettere, Burke si portò alle spalle dell'uomo legato sullo sgabello, tirò bruscamente indietro la testa dello sventurato au-
tista e gli affondò la lama del pugnale d'assalto nella gola, con un rapido gesto ad arco breve, da un orecchio all'altro. Il sangue schizzò a frotte da tutte le parti, scarlatto sotto la luce brillante della lampadina soprastante. L'uomo in fin di vita si dimenò convulsamente, scalciando e tirando le corde che lo tenevano legato. Si rovesciò e cadde di fianco, ancora bloccato allo sgabello, e giacque in una posizione scomposta, tremando di spasmi inconsulti e morendo dissanguato sul pavimento di cemento. Burke tornò a rivolgersi a Terce. «Soddisfatto?» chiese in tono brusco. «O vuole che gli scavi anche la fossa?» «Non sarà necessario» ribatté tranquillamente l'uomo. Poi indicò con un cenno del capo un grosso rotolo di tela nell'angolo più lontano del porticato. «Là fuori abbiamo già scavato una buca per il povero Joachim. Antonio può dividerla con lui.» L'agente della CIA si rese conto improvvisamente di essere di fronte a un altro cadavere. Era avvolto in un'incerata. «Joachim è rimasto ferito mentre battevamo in ritirata dall'istituto» spiegò Terce. «Era stato colpito alla spalla e a una gamba. Le sue ferite non erano gravi, ma presto avrebbero richiesto l'intervento di un medico. Ho fatto quel che era necessario.» Burke annuì lentamente. Comprendeva la situazione. Il colosso dagli occhi verdi e i suoi compagni non avrebbero rischiato la loro sicurezza cercando cure mediche per qualcuno ferito in modo troppo grave per resistere senza l'intervento. I membri della squadra d'azione Tocsin avrebbero ucciso chiunque minacciasse la loro missione, perfino gli stessi appartenenti al piano. Capitolo 12 Giovedì 14 ottobre Casa Bianca, Washington, D.C. Era passata la mezzanotte e i pesanti drappi Navajo rossi e gialli erano stati tirati, per proteggere lo Studio Ovale da eventuali sguardi indiscreti. Nessuno all'esterno dell'Ala Ovest della Casa Bianca doveva sapere che il presidente degli Stati Uniti era ancora al lavoro, o con chi fosse riunito. Samuel Castilla era seduto al suo grande tavolo di rovere, indossando solo pantaloni e camicia, assorto nella lettura di un pacco di decreti legge d'emergenza redatti in fretta e furia. La pesante lampada da tavolo di bron-
zo, posizionata in un angolo dell'imponente scrittoio, proiettava una chiazza rotonda di luce sulle sue scartoffie. Di tanto in tanto, Castilla segnava qualche rapida nota in margine ai documenti, oppure cassava con un tratto di penna una frase formulata in maniera inadeguata. Finalmente, con un repentino svolazzo di penna, appose la propria firma in calce a diverse pagine dei vari decreti legge. Avrebbe firmato più tardi le copie per l'archivio nazionale. Al momento, la cosa importante era far sì che gli ingombranti ingranaggi del governo in qualche modo girassero più in fretta. Terminato il lavoro, alzò lo sguardo dagli incartamenti. Charles Ouray, il capo dello staff della Casa Bianca, ed Emily PowellHill, il suo consigliere per la Sicurezza nazionale, erano sdraiati sulle due grandi poltrone di pelle di fronte alla scrivania del presidente. Avevano un'aria esausta, sfiancati da lunghe ore trascorse a fare la spola tra il complesso della Casa Bianca e i vari uffici di Gabinetto, per far sì che i decreti legge straordinari fossero pronti per la ratifica del presidente. Cercare di mediare per pervenire a un accordo tra una mezza dozzina di diversi dipartimenti dell'esecutivo, ognuno dei quali con priorità diverse e opinioni spesso in contrasto tra loro, non era mai semplice. «C'è nient'altro di cui dovrei essere informato, a questo punto?» domandò loro Castilla. Ouray fu il primo a rispondere. «Stiamo passando in rassegna i principali quotidiani d'Europa, signor presidente.» La bocca del capo dello staff si piegò verso il basso. «Fammi indovinare» disse Castilla con espressione scontrosa. «Ci stanno massacrando?» Emily Powell-Hill annuì. Le si leggeva negli occhi un'assillante inquietudine. «La maggior parte delle principali testate nelle nazioni europee, dalla Francia alla Germania, all'Italia, Regno Unito e Spagna sostengono che, a prescindere da cosa sia andato storto all'interno del Teller Institute, la responsabilità della strage avvenuta all'esterno è nostra.» «Su quali basi?» domandò il presidente. «Si formulano le ipotesi più disparate in merito a chissà quale programma di sviluppo di armi segrete nanotech andato storto» rispose Ouray mantenendo un tono pacato. «La stampa europea sta battendo su questo chiodo, con tutte queste sensazionali teorie in prima pagina e le nostre smentite ufficiali sepolte in fondo ai servizi.» Castilla fece una smorfia. «Che cosa fanno? Riportano parola per parola i comunicati stampa del Lazarus Movement?»
«Praticamente sì» dichiarò in tutta franchezza Emily Powell-Hill. Poi alzò le spalle. «La loro versione contiene tutti gli elementi di un intreccio narrativo tanto amato dagli europei: un'America potente e perfida, segreta e furtiva, e spesso equivoca, che calpesta bellamente una pacifica e coraggiosa banda di attivisti, amanti di Madre Natura e depositari di ogni verità. E, come può immaginare, ci viene rinfacciato ogni errore commesso in politica estera dai vari governi americani negli ultimi cinquant'anni.» «Quali saranno le possibili conseguenze a livello politico?» le domandò il presidente. «Non certo buone» replicò la Powell-Hill. «Naturalmente, alcuni dei nostri "amici" a Parigi e a Berlino sono sempre in cerca di un pretesto per bacchettarci. Ma perfino i nostri più veri e fidati amici e alleati europei dovranno andarci con i piedi di piombo nella gestione mediatica di questa notizia. Schierarsi dalla parte dell'unica superpotenza mondiale rimasta non è mai molto popolare e, in questo momento, un mucchio di governi nostri alleati stanno vacillando. Basterebbe un piccolo cambiamento dell'opinione pubblica per farli cadere.» Ouray annuì. «Emily ha ragione, signor presidente. Ho parlato con gli esperti del Dipartimento di Stato. Stanno ricevendo da tutta Europa un profluvio di domande assillanti e preoccupate, e addirittura dai giapponesi. I nostri amici vogliono essere rassicurati sul fatto che queste illazioni siano false. Dobbiamo riuscire a dimostrare, senza ombra di dubbio, che lo sono.» «Dimostrare una negazione?» Castilla scosse la testa con espressione frustrata. «Non è una cosa facile.» «No, signore» convenne Emily Powell-Hill. «Ma dovremo fare del nostro meglio. Altrimenti vedremo crollare una dopo l'altra le nostre alleanze politiche e assistere impotenti a un ulteriore allontanamento dell'Europa da noi.» Per diversi minuti, dopo che i suoi due più stretti collaboratori uscirono dal suo ufficio, Castilla rimase seduto alla sua scrivania a rimuginare su come rassicurare l'élite e l'opinione pubblica europea. Gradualmente, si incupì. Purtroppo le alternative a sua disposizione erano limitate. Indipendentemente da quante basi militari e laboratori scientifici federali il governo statunitense lasciasse aperti all'ispezione pubblica, in pratica era impossibile sperare di calmare le acque agitate dall'isteria collettiva alimentata da Internet. Folli dicerie, schiaccianti esagerazioni, foto manipolate e men-
zogne bell'e buone potevano circolare liberamente intorno al globo a una velocità impressionante, e molto più in fretta della verità. Il presidente alzò lo sguardo dal tavolo al rumore di un lieve bussare di nocche al montante della porta aperta. «Sì?» chiese. La sua segretaria fece capolino oltre la soglia. «Ha appena chiamato il Servizio segreto, signor presidente. Il signor Nomura è arrivato. In questo momento lo stanno accompagnando all'interno della Casa Bianca.» «Con la massima discrezione, spero, Estelle» le rammentò Castilla. La vaga traccia di un sorriso passò per un attimo sul viso solitamente riservato e composto della segretaria. «Stanno arrivando dalle cucine, signore. Confido che questa soluzione sia abbastanza discreta.» Castilla lasciò uscire una risatina. «Dovrebbe. Be', speriamo soltanto che nessuno dei fedelissimi del drappello di giornalisti accreditati di turno a quest'ora si stia foraggiando in cucina con uno spuntino di mezzanotte.» Il presidente si alzò, lisciò la cravatta e infilò la giacca del completo formale che indossava. Essere introdotto nella Casa Bianca tra i bidoni della spazzatura che punteggiavano le cucine era decisamente diverso dall'impressionante cerimoniale che accompagnava di norma una visita privata al presidente americano; perciò, il minimo che potesse fare era di accogliere Hideo Nomura nel modo più decoroso possibile. Nemmeno un minuto dopo, la sua segretaria, la signorina Pike, aprì la porta al direttore generale della Nomura PharmaTech. Castilla avanzò nello Studio Ovale andandogli incontro, sfoderando un sorriso smagliante. I due uomini si scambiarono dei rapidi ed educati accenni di inchini alla maniera giapponese, dopodiché si strinsero cordialmente la mano. Il presidente invitò il suo ospite ad accomodarsi sul grande divano di pelle disposto ad angolo al centro dello studio. «Le sono molto riconoscente per aver accettato il mio invito con così breve preavviso, Hideo. Mi hanno riferito che è stato costretto a prendere un aereo dall'Europa in serata, è così?» Nomura ricambiò cortesemente il sorriso. «Nessun disturbo, signor presidente. Ho il vantaggio di possedere un veloce jet societario. In effetti dovrei essere io a esprimerle i miei più sentiti ringraziamenti. Se il suo staff non mi avesse contattato in anticipo, sarei stato io stesso a implorare un incontro privato con lei.» «A causa della catastrofe avvenuta fuori dal Teller Institute?» L'ospite giapponese, più giovane del presidente, annuì. Un lampo sfuggì ai suoi occhi neri. «La mia società non potrà dimenticare facilmente questo
crudele atto di terrorismo.» Castilla comprendeva la collera di Hideo. Il laboratorio di ricerca assegnato alla Nomura PharmaTech all'interno del Teller Institute era stato completamente distrutto; la perdita finanziaria per la multinazionale giapponese, che aveva sede centrale a Tokyo, era sbalorditiva, vicina ai cento milioni di dollari. Senza contare il costo esorbitante che avrebbe dovuto sostenere per ricominciare daccapo gli anni di ricerca che erano stati spazzati via in un istante, insieme al complesso laboratorio scientifico. Per non parlare poi dell'inestimabile valore delle vite umane perse. Quindici dei diciotto scienziati e tecnici altamente specializzati che lavoravano nella sezione di competenza della Nomura erano dati per morti o dispersi. «Troveremo e puniremo i responsabili di questo attacco» promise Castilla al suo interlocutore. «Ho ordinato alle nostre forze dell'ordine nazionali e alle nostre agenzie di intelligence di mettere questo compito al primo posto nell'elenco delle priorità assolute.» «Lo apprezzo molto, signor presidente» ribatté Nomura in tutta calma. «E sono venuto a offrirle quel poco d'aiuto supplementare che siamo in grado di darle.» L'industriale giapponese si strinse sconsolatamente nelle spalle. «Naturalmente non per quanto riguarda la caccia ai terroristi. Alla mia società manca l'esperienza necessaria al riguardo, ma siamo in grado di fornire altra assistenza che potrebbe dimostrarsi utile.» Castilla inarcò un sopracciglio. «Cosa intende?» «Come ben sa, la mia società sostiene economicamente una consistente unità di pronto intervento medico» gli ricordò Nomura. «Posso far decollare un aereo speciale per il New Mexico nel giro di poche ore.» Il presidente annuì. La Nomura PharmaTech spendeva annualmente ingenti somme di denaro in progetti medici caritatevoli in tutto il mondo. Il suo vecchio amico Jinjiro aveva dato inizio a quei sostegni ad associazioni non-profit quando aveva fondato la società, all'inizio degli anni Sessanta. Dopo il suo ritiro dagli affari e il suo ingresso in politica, suo figlio aveva raccolto il testimone alla testa della multinazionale, espandendo l'opera umanitaria parallelamente all'imponente società commerciale alla quale era a capo. I fondi della Nomura ora finanziavano numerose iniziative: dalle vaccinazioni di massa e i programmi antimalaria in Africa ai progetti di potabilizzazione dell'acqua in Medio Oriente e in Asia. Ma ciò che aveva attirato l'attenzione pubblica in modo particolare e fornito titoli da prima pagina in tutto il mondo era l'opera di soccorso della multinazionale giapponese contro i disastri naturali.
La Nomura PharmaTech era proprietaria di una flotta di enormi An-124 Condor da trasporto merci di fabbricazione sovietica. Più grandi dei mastodontici C-5 da carico utilizzati dall'aviazione militare americana, i Condor potevano trasportare fino a centocinquanta tonnellate di carico ognuno. Operando da una base centrale situata nelle isole Azzorre, venivano utilizzati dalla Nomura per trasferire ospedali mobili - completi di sale operatorie attrezzate e laboratori di diagnosi - ovunque fosse necessario un intervento di tipo medico per tamponare un'emergenza umanitaria. Questi ospedali mobili potevano essere caricati e trasportati nel giro di ventiquattro ore direttamente sul luogo di qualsiasi disastro naturale - terremoto, tifone, epidemia, incendio o inondazione - in qualsiasi parte del mondo. «È un'offerta generosa» disse lentamente Castilla. «Ma temo che fuori dall'istituto non ci siano superstiti. Quei nanodispositivi hanno ucciso chiunque ne sia entrato in contatto. Non c'è nessun ferito che possa essere curato dal vostro personale medico.» «Ci sono altri modi in cui il nostro personale specializzato potrebbe fornire assistenza» azzardò Nomura con palese delicatezza. «Possediamo due laboratori mobili di analisi del DNA. Forse il loro impiego potrebbe accelerare il triste compito di...» «Identificare i morti» concluse Castilla al suo posto. Poi rifletté sull'offerta. La FEMA - Federal Emergency Management Agency -, cioè l'agenzia federale anticrisi che gestiva le catastrofi naturali sul territorio nazionale, stimava che sarebbero occorsi addirittura dei mesi per attribuire i nomi alle migliaia di resti umani rimasti all'esterno dell'istituto in rovina. Qualsiasi cosa potesse velocizzare l'ingrata, estenuante e triste opera di riconoscimento meritava un tentativo, a prescindere da quante complicazioni legali e politiche potesse aggiungere. Castilla assentì gravemente. «Ha assolutamente ragione, Hideo. Qualsiasi aiuto in questa direzione sarebbe ben più che gradito.» Poi emise un sospiro. «Ora è tardi e sono stanco. Sono stati due giorni d'inferno. Francamente, desidererei bere un goccio di qualcosa di forte. Posso offrirle un drink?» «Volentieri» ribatté Nomura. «Mi farebbe immenso piacere.» Il presidente si diresse verso il mobile vicino alla porta d'ingresso del suo studio privato. Precedentemente, la signorina Pike si era premurata di preparare un vassoio con un'ampia scelta di bicchieri e bottiglie di cristallo da liquore. Castilla ne prese una. Era piena di un liquido ambrato, dal colore intenso. «Gradisce uno scotch? È un Caol Ila con vent'anni di invec-
chiamento, whisky di puro malto singolo, proveniente da Islay, in Scozia. Era uno dei preferiti di mio padre.» Nomura abbassò gli occhi, apparentemente imbarazzato dalle emozioni che quell'offerta aveva smosso. Chinò il capo in un rapido accenno di inchino. «Ne sono onorato.» Mentre versava lo scotch in due bicchieri, Castilla osservò attentamente con la coda dell'occhio il figlio del suo vecchio amico, notando i leggeri cambiamenti d'aspetto dall'ultima volta che si erano visti. Sebbene Hideo Nomura fosse prossimo ai cinquant'anni, i suoi capelli corti erano ancora di un nero corvino. Era alto, rispetto ai giapponesi della sua generazione, così alto da poter facilmente fissare negli occhi la stragrande maggioranza degli uomini americani ed europei. Aveva la mascella squadrata e intorno ai bordi degli occhi e della bocca c'erano poche rughe sottili, quasi invisibili. Da lontano, Nomura poteva facilmente passare per un uomo di dieci o addirittura quindici - anni più giovane della sua età anagrafica. Era solo da molto vicino che si potevano distinguere gli effetti logoranti del tempo, delle afflizioni segrete e della collera superficialmente repressa. Castilla porse uno dei due bicchieri di whisky al suo ospite e poi si sedette a centellinare il proprio. Il liquido dolce e dal gusto affumicato gli scese caldo sulla lingua e verso il palato, portando con sé una vaga traccia di legno di rovere e sale. Il presidente notò che il suo più giovane interlocutore gustava il whisky senza alcun senso evidente di piacere. Il figlio non assomiglia necessariamente al padre, rammentò con tristezza. «C'è un'altra ragione per cui l'ho invitata qui stanotte» si decise finalmente a dire Castilla, rompendo l'imbarazzante silenzio. «Benché sia convinto che possa essere in qualche modo in rapporto con la tragedia avvenuta all'istituto.» Prima di proseguire, scelse con cura le parole più adatte. «Debbo chiederle di Jinjiro... e del Lazarus Movement.» Nomura si alzò di scatto dalla poltrona, inarcando quasi la schiena. «Vuol chiedermi di mio padre? E del Lazarus Movement? Ah, sì, capisco» mormorò. Poi depose il bicchiere di whisky sul tavolino accanto alla poltrona. Era quasi pieno. «Certamente. Le dirò tutto quello che so.» «A suo tempo, lei si era opposto al coinvolgimento attivo di suo padre nel movimento ambientalista, vero?» domandò Castilla, proseguendo di nuovo con cautela. Il giapponese annuì. «Sì.» Poi guardò il presidente dritto negli occhi. «Non c'è mai stata inimicizia tra me e mio padre. Né gli ho mai nascosto le mie opinioni personali.»
«Che erano...?» si domandò Castilla a voce alta. «Che i fini del Lazarus Movement erano lodevoli, perfino nobili» disse Nomura sommessamente. «Chi non vorrebbe vedere un pianeta purificato, libero da ogni sorta di inquinamento, e soprattutto in pace? Ma i progetti dell'organizzazione?» L'industriale giapponese fece spallucce. «Nel migliore dei casi disperatamente illusori. Nel peggiore, terribilmente stupidi. Il mondo è in equilibrio sulla lama di un coltello, con fame diffusa, caos e barbarie da un lato e potenziale utopia dall'altro. La tecnologia mantiene questo delicato equilibrio. Eliminiamo le nostre tecnologie avanzate, come chiede a gran voce il Lazarus Movement, e scaraventeremo sicuramente l'intero pianeta in un incubo di morte e distruzione, un incubo dal quale ci si potrebbe non svegliare mai più.» Castilla annuì gravemente. Le convinzioni del suo più giovane interlocutore erano simili alle sue. «E che cosa diceva Jinjiro di tutto questo?» «All'inizio mio padre era d'accordo con me. Almeno in parte» rispose Nomura. «Ma riteneva che il passo dei cambiamenti tecnologici fosse eccessivamente accelerato. L'ascesa della clonazione, della manipolazione genetica e della nanotecnologia lo sgomentava. Temeva la velocità di questi progressi, ritenendo che offrissero a uomini imperfetti un eccessivo potere su se stessi e sulla natura. Tuttavia, quando diede una mano alla fondazione del Lazarus Movement, sperava di servirsi dell'organizzazione come mezzo per rallentare il progresso scientifico, non di fermarlo del tutto.» «Ma poi qualcosa cambiò?» chiese Castilla. Nomura aggrottò le sopracciglia. «Sì» ammise. Riprese in mano il bicchiere, fissò per un momento il liquido ambrato, poi tornò a deporlo dov'era un attimo prima. «Il Lazarus Movement cominciò a cambiare lui. Le sue convinzioni si fecero via via più radicali. Le sue parole diventarono più perentorie.» Il presidente rimase in silenzio, in attento ascolto. «Quando gli altri soci fondatori dell'organizzazione ambientalista morirono o scomparvero nel nulla, i pensieri di mio padre si fecero ancora più oscuri e incomprensibili» proseguì Nomura. «Cominciò a sostenere che il Lazarus Movement era in pericolo... che era divenuto il bersaglio di una guerra segreta.» «Una guerra?!» scattò Castilla in tono brusco. «Chi riteneva fossero i responsabili di questa guerra segreta?» «Le grandi corporazioni. Certi governi. O elementi dei loro servizi se-
greti. Forse perfino qualcuno all'interno della vostra stessa CIA» dichiarò in tono sommesso il magnate giapponese. «Buon Dio!» Nomura annuì tristemente. «All'epoca pensai che queste paure da paranoico fossero solo l'ennesima prova del peggioramento della salute mentale di mio padre. Lo scongiurai di cercare l'aiuto di uno psicologo. Si rifiutò. La sua retorica divenne ancora più violenta, perfino più squilibrata.» «Poi scomparve nel nulla mentre era in viaggio per la Thailandia» intervenne il presidente. L'espressione di Hideo Nomura era mesta. «È svanito senza dire una sola parola o lasciare la benché minima traccia. Non so ancora se è stato rapito o se se ne è andato deliberatamente. Non so neppure se è vivo o morto.» Nomura alzò lo sguardo sul presidente Castilla. «Adesso, però, dopo aver visto quei pacifici dimostranti assassinati fuori dal Teller Institute, ho un'altra preoccupazione.» Il giapponese abbassò la voce. «Mio padre parlava di una guerra dissimulata mossa contro il Lazarus Movement. E ridevo delle sue affermazioni bislacche. Ma... se avesse avuto ragione?» Più tardi, dopo che Hideo Nomura si fu congedato, Samuel Castilla andò alla porta del suo studio privato, bussò una sola volta ed entrò nella stanza fiocamente illuminata. Un uomo pallido, dal naso aquilino, in un completo grigio antracite tutto sgualcito, era tranquillamente seduto su una sedia a schienale alto, sistemata a destra, proprio dietro la porta. Due occhi brillanti, di un'intelligenza sopraffina, scintillavano dietro un paio di occhiali dalla montatura in filo d'acciaio brunito. «Buon mattino, Sam» disse Fred Klein, il direttore della Covert-One. «Hai sentito tutto?» domandò il presidente degli Stati Uniti. Klein annuì. «Quanto basta.» Poi sollevò un fascio di fogli. «E ho letto le trascrizioni verbali dell'ultima riunione del National Security Council.» «Ebbene?» domandò Castilla. «Che cosa ne pensi?» Klein si abbandonò contro lo schienale della sedia e si ravviò distrattamente la rada capigliatura con una mano mentre rifletteva sulla domanda dell'amico. Ogni anno sembrava che l'attaccatura dei capelli recedesse di un altro paio di centimetri. Era il prezzo della tensione e della fatica che comportava la direzione dell'Agenzia operativa più segreta in tutto il governo degli Stati Uniti. «David Hanson non è uno stupido» si decise finalmente a dichiarare. «Conosci la sua esperienza tanto quanto me. Ha naso
per i guai seri ed è abbastanza scaltro e arrivista da seguire il suo fiuto ovunque lo porti.» «Questo lo so, Fred» disse il presidente. «Che diavolo, è proprio per questo che è la prima persona alla quale ho pensato per la nomina a direttore della CIA, incarico che poi gli ho conferito. Nonostante le veementi e insistenti obiezioni di Emily Powell-Hill, potrei aggiungere. Ma ti sto chiedendo un'opinione spassionata sul suo ultimo lampo di genio. Ritieni che l'attacco al Teller Institute sia davvero farina del sacco dello stesso Lazarus Movement? A danno dei suoi stessi militanti?» Klein alzò le spalle. «Le sue asserzioni al riguardo sono pesanti, ma questo non c'è bisogno che te lo dica io.» «No, infatti.» Castilla attraversò con passo deciso lo studio e si lasciò cadere su un'altra sedia, posta davanti al caminetto. «Ma la teoria proposta dalla CIA coincide con quanto hai saputo dal colonnello Smith?» «Non del tutto» ammise il direttore della Covert-One. «Smith è stato chiarissimo. Chiunque fossero gli attentatori, erano veri professionisti. Professionisti bene addestrati, bene equipaggiati e bene informati.» Klein armeggiò con la pipa di radica riposta nel taschino della giacca e represse la tentazione di infilarsela in bocca e di accenderla. In tutta la Casa Bianca era vietato fumare di quei tempi. «Francamente, l'ipotesi avanzata dalla CIA non quadra con le informazioni, seppur poche, che abbiamo sul Lazarus Movement...» «Va' avanti» disse il presidente. «Ma non è impossibile» concluse Klein. «Il movimento dispone di fondi pressoché illimitati. Forse ha assoldato i professionisti che gli servivano. Dio solo sa quanti mercenari, con addestramento da operazioni speciali in curriculum, siano disponibili ad accettare simili missioni. Potrebbe benissimo trattarsi di ex agenti della Stasi dell'ex Germania Orientale, o ex agenti del KGB o della Spetsnaz fatti arrivare dalla Russia. Oppure potrebbero essere cani sciolti di chissà quale altra unità speciale del vecchio Patto di Varsavia, o ex commandos venuti dai Balcani o dal Medio Oriente.» Il direttore della Covert-One scrollò le spalle. «Un elemento da tenere in grande considerazione è quanto affermato da Smith. Secondo lui, nessuna delle nanotecnologie presenti nell'istituto di ricerca avrebbe potuto uccidere quei dimostranti. Se ha ragione, allora la teoria di Hanson è assolutamente infondata. Naturalmente, lo stesso vale per qualsiasi altra alternativa ragionevole.» Il presidente rimase seduto a fissare il caminetto spento, poi si riscosse e
borbottò: «Mi sembra un'ipotesi un po' troppo conveniente, Fred. Specie se si considera quello che Hideo Nomura mi ha appena rivelato. Non mi piace per niente il modo in cui sia la CIA sia l'FBI stanno focalizzando l'attenzione su una particolare teoria in merito a quanto è accaduto a Santa Fe, escludendo di fatto ogni altra possibilità». «È comprensibile» osservò Klein. Poi tamburellò l'indice e il medio sulle trascrizioni verbali del National Security Council. «E ammetto di avere le stesse remore. Il difetto peggiore nell'analisi di informazioni di intelligence si percepisce nel momento in cui si comincia a inserire a colpi di mazza dei fatti quadrati in buchi rotondi, solo per adattarli all'ipotesi che si preferisce. Be', quando leggo rapporti come questo, sento distintamente dei sonori colpi di martello sui pioli a disposizione, sia da parte del Bureau sia da parte dell'Agenzia, a prescindere dalla forma dei pioli.» Il presidente annuì. «Il problema è precisamente questo.» Castilla guardò Klein nello studio in penombra. «Hai dimestichezza con l'approccio all'analisi adottato dall'A-Team/B-Team, vero?» Il direttore della Covert-One gli scoccò un fulmineo sorrisino sbilenco. «Vorrei ben vedere! In fin dei conti, è proprio questo uno dei motivi che giustifica l'esistenza del mio gruppo.» Klein si strinse nelle spalle. «Diversi anni fa, nel 1976 per la precisione, l'allora direttore della CIA George Bush senior, in seguito uno dei tuoi illustri predecessori, non era del tutto soddisfatto delle analisi interne presentate dalla Central Intelligence Agency sulle intenzioni sovietiche. Di conseguenza, incaricò un gruppo esterno - il BTeam -, composto di accademici dalla vista acuta, generali in pensione ed esperti esterni sull'Unione Sovietica, di condurre uno studio indipendente degli stessi problemi.» «Esatto» convenne Castilla. «Be', a partire da ora, voglio che tu formi il tuo B-Team personale per fare luce su questo disastro, Fred. Non intralciare la CIA o l'FBI, a meno che tu non ci sia costretto, ma voglio che qualcuno di cui posso fidarmi ciecamente verifichi la forma dei "pioli" sui quali stanno battendo come dannati.» Klein assentì solennemente. «La cosa si può sistemare.» Per alcuni secondi, il direttore della Covert-One batté la pipa spenta sul ginocchio, assorto nelle sue riflessioni, poi alzò di nuovo lo sguardo. «Il colonnello Smith è il candidato ideale. Si trova già sul posto ed è esperto di nanotecnologia.» «Ottimo.» Castilla annuì. «Informalo subito, Fred. Prevedi quali autorizzazioni gli occorreranno per svolgere questo lavoro, e io mi assicurerò che
le stesse atterrino sulle scrivanie giuste per prima cosa domattina.» Capitolo 13 Cerrillos Hills, sudovest di Santa Fe Una vecchia e fin troppo malconcia Honda Civic rossa si stava dirigendo a sud, sulla County Road 57, lasciandosi dietro una lunga nuvola di polvere. Un'oscurità impenetrabile si stendeva per chilometri e chilometri in ogni direzione. Solo un fioco bagliore di luce proiettato da una scheggia di luna rischiarava le colline accidentate, le gole scoscese e gli arroyos a est della strada non asfaltata, il cui sterrato era semplicemente coperto di ghiaia. A bordo dell'auto, il cui angusto abitacolo era zeppo di cianfrusaglie, Andrew Costanzo sedeva ingobbito al volante. L'uomo adocchiava, di tanto in tanto, il contachilometri parziale sul cruscotto, muovendo le labbra mentre cercava di immaginare quanta strada avesse percorso da quando aveva lasciato l'Interstate 25. Le indicazioni che gli avevano dato erano precise. Pochi tra i suoi conoscenti avrebbero riconosciuto la strana espressione di euforia mista a timore sul suo ceruleo faccione. Normalmente, Costanzo ribolliva di frustrazione e di vecchi rancori. Aveva quarantun anni, era grassoccio, celibe, intrappolato in una società che non apprezzava né il suo intelletto né i suoi ideali. Aveva lavorato sodo per prendersi una laurea in legge, con specializzazione in legislazione ambientale e tutela degli interessi del consumatore. Il dottorato avrebbe dovuto aprirgli le porte nell'élite accademica americana. Per anni aveva sognato di collaborare con un comitato di esperti, con base a Washington, D.C., per abbozzare da solo importanti progetti di riforme ambientali e sociali assolutamente essenziali. Invece non era che un impiegato di poco conto che lavorava part-time in una catena di librerie. Era un lavoro scadente, senza opportunità di carriera, che gli bastava a malapena a pagare la sua parte di affitto in una trasandata, diroccata casetta in stile ranch in uno dei quartieri più poveri di Albuquerque. Ma Costanzo si dedicava anche ad altro: aveva un'occupazione segreta, ed era l'unica parte della sua esistenza, altrimenti miserevole, che trovava interessante. Si umettò le labbra nervosamente. Avergli chiesto di entrare a far parte del circolo interno del Lazarus Movement era stato un immenso onore, ma comportava anche molti pericoli. Guardare il telegiornale in TV
quel pomeriggio lo aveva ulteriormente chiarito, se mai ce ne fosse stato bisogno. Se i suoi superiori nel movimento non gli avessero ordinato tassativamente di restare a casa, anche lui avrebbe partecipato alla manifestazione davanti al Teller Institute. E sarebbe così rientrato nelle migliaia di vittime massacrate in modo crudele da quei micidiali dispositivi di morte. Per un istante, Costanzo provò una collera viscerale, che soverchiò perfino i piccoli risentimenti quotidiani che di solito assaporava. Strinse spasmodicamente le mani sul volante. La Civic sbandò a destra, uscendo quasi di strada e andando a finire sulla soffice sabbia, punteggiata di sterpaglie secche, che delimitava su quel lato il ciglio del tortuoso sterrato. Sudando profusamente, Costanzo emise un sospiro di sollievo. Occhio a quello che fai!, si redarguì. Il movimento si sarebbe vendicato dei suoi nemici a tempo debito. Il contachilometri parziale della Honda sommò con un clic un altro miglio alla distanza percorsa da quando era partito. Era vicino al luogo prestabilito per l'appuntamento. Rallentò e si sporse in avanti, scrutando attraverso il parabrezza le cime più elevate che spuntavano a sinistra. Ecco là! Azionando la freccia dell'auto per abitudine, Costanzo deviò dalla County Road e si diresse con cautela verso l'imboccatura di un piccolo canyon, che si addentrava serpeggiante nelle Cerrillos Hills. Le ruote della Honda macinarono rumorosamente un velo di sassolini, portati giù dai brevi ma intensi diluvi. Minuscoli gruppetti di alberelli rachitici e cespugli di salvia selvatica erano abbarbicati precariamente alle pareti quasi a strapiombo dell'arroyo. Circa quattrocento metri dopo aver effettuato la deviazione dalla County Road il canyon svoltava a nord. Burroni più stretti alimentavano l'arroyo in quel punto, immettendosi tortuosi da diverse direzioni. Là erano più numerosi gli alberi, anche se avvizziti e spuntati tra massi corrosi dalle intemperie e piccoli cumuli di ghiaino staccatosi dalle rocce. Ripide pareti di roccia viva si innalzavano ad ambo i lati, a strati alternati di arenaria color sabbia e argilla rossa. Costanzo spense il motore. Tutto era immobile e silenzioso. Era arrivato con largo anticipo? O troppo tardi? Gli ordini che gli erano stati impartiti erano perentori in quanto a puntualità. Costanzo si passò sulla fronte la manica della camicia, tamponando le goccioline di sudore che gli scivolavano negli occhi dall'espressione corrucciata, iniettati di sangue. Scese dalla vettura, trascinando con sé una valigetta. Restò in piedi con vivo imbarazzo, in attesa, incerto su cosa avrebbe dovuto fare, quale sa-
rebbe stata la mossa successiva. All'improvviso, i fasci appaiati di una coppia di fari sbucarono da uno dei canyon laterali più angusti. Sorpreso, Costanzo si voltò verso le luci, schermandosi gli occhi, nel vano tentativo di vedere qualcosa nel bagliore accecante. Non riusciva a distinguere niente, se non il vago profilo di un grosso veicolo e di due o tre sagome che potevano essere quelle di uomini in piedi accanto alla vettura. «Posa a terra la sacca» ordinò in modo quasi assordante una voce tenorile che parlava attraverso un megafono. «Poi allontanati di qualche passo dalla tua auto. E tieni le mani dove possiamo vederle!» Ormai tutto tremante, Costanzo obbedì. Avanzò rigidamente di qualche passo, sentendosi rimestare le budella. Alzò le mani più che poté, mostrando le palme aperte. «Chi siete?» domandò in tono lamentoso. «Agenti federali, signor Costanzo» rispose la voce, questa volta in tono più calmo, senza utilizzare il megafono. «Ma non ho fatto nulla di male! Non ho commesso alcun reato!» ribatté Andrew Costanzo, avvertendo uno stridulo tremolio nella sua voce e detestandosi per aver rivelato così chiaramente il suo terrore. «Ah no?» suggerì l'agente federale. «Aiutare e favoreggiare un'organizzazione terroristica è un reato, Andrew. Un reato gravissimo. Te ne rendi conto?» Costanzo si umettò di nuovo le labbra. Sentiva il cuore che gli batteva in gola. Le chiazze di sudore sotto le ascelle si stavano allargando. «Tre settimane fa, un uomo che corrisponde alla tua descrizione ha ordinato due Ford Excursion presso due diversi concessionari di Albuquerque. Due SUV Ford neri. Li ha pagati in contanti. In contanti, Andrew. Ti spiace spiegarmi come un tipo come te possa disporre di quasi centomila dollari in contanti?» «Non ero io» protestò Costanzo. «I venditori delle due concessionarie sono in grado di identificarti, Andrew» gli rammentò la voce anonima. «Tutte le transazioni in denaro liquido che superano i diecimila dollari devono essere denunciate alle autorità federali. Non lo sapevi?» Ammutolito, Costanzo restò immobile, in piedi, a bocca aperta come un perfetto idiota. Avrebbe dovuto ricordarselo eccome, si rese conto, svuotato di ogni energia. La denuncia di denaro contante era una delle leggi previste nella legislazione antidroga nazionale, anche se in realtà era solo un ulteriore mezzo attraverso il quale Washington teneva sotto controllo e re-
primeva il potenziale dissenso. Chissà come, travolto dall'euforia per essere stato incaricato di una missione speciale per il Lazarus Movement, se ne era completamente scordato. Come aveva potuto essere così cieco? Così sciocco? Sentì tremare le ginocchia. Un uomo si mosse lentamente in avanti e la sua sagoma si fece più alta e robusta. «Questi sono fatti, ammettilo, signor Costanzo» disse il colosso in tono paziente. «Sei stato incastrato.» Il militante del Lazarus Movement restò miserabilmente inchiodato nel punto in cui si trovava. Era la verità, pensò, desolato. Era stato tradito. Perché avrebbe dovuto sentirsi così sorpreso? Gli era capitato un sacco di volte, nel corso della sua vita - prima in famiglia, poi a scuola - e ora stava accadendo di nuovo. «Posso identificare l'uomo che mi ha dato il denaro» si affrettò a dichiarare freneticamente. «Ho un'ottima memoria per le facce...» Un singolo proiettile da 9mm lo colpì dritto in mezzo agli occhi, trapassandogli il cervello, ed esplose in uscita sfondandogli la nuca. Stringendo ancora in mano la pistola munita di silenziatore, il corpulento membro degli «Orazi» dai capelli castani osservò dall'alto il corpo che ormai giaceva a terra. «Sì, signor Costanzo» asserì Terce in tono serafico. «Ne sono più che sicuro.» Jon Smith stava correndo, a perdifiato, per salvarsi la vita. Lo sapeva per certo, sebbene non riuscisse a ricordare perché fosse così. Altre persone correvano al suo fianco. Al di sopra delle loro urla strazianti e terrorizzate, udiva un aspro rumore ronzante. Si voltò e vide un immenso sciame di insetti che calava su di loro, quasi sul punto di raggiungerli. Cambiò direzione e si sforzò di correre ancora più forte, con il cuore che batteva al ritmo dei passi in corsa. Il ronzio aumentò, sempre più forte, perfino ancora più insistente e minaccioso. Smith sentì qualcosa fluttuargli sul collo e tentò concitatamente di scacciarlo con la mano. Invece, l'insetto gli si attaccò alla palma della mano. Sgomento, Smith abbassò lo sguardo sullo strano animale. Era una grossa vespa gialla. A un tratto, la vespa si trasformò, mutando forma e struttura, in una creatura artificiale fatta di acciaio e titanio, equipaggiata di trivelle a punta d'ago e seghetti dal filo di diamante. La vespa robotizzata ruotò lentamente la testa triangolare verso di lui. I suoi occhi cristallini multisfaccettati brillarono di una fame insolita, che lo fece rabbrividire. Smith restò fermo in
piedi, come paralizzato, a osservare con orrore crescente le trivelle e i seghetti della vespa meccanica mettersi in rapido movimento e cominciare a perforargli a fondo la carne... Si svegliò di soprassalto e si mise seduto sul letto, ansimando ancora forte e rapidamente per la paura. Reagendo istintivamente, fece scivolare in fretta la mano sotto il cuscino, e agguantò la SIG-Sauer 9mm. Poi si bloccò. Un sogno, pensò nervosamente. Era solo un sogno. Il suo cellulare trillò un'altra volta, risuonando sul piano del comodino dove lo aveva deposto prima di sprofondare finalmente nel sonno. I numeri sul display della sveglia digitale accanto al telefono lampeggiavano di un rosso fioco, indicando che erano da poco passate le tre del mattino. Smith afferrò il cellulare prima che squillasse ancora. «Pronto. Cosa c'è?» «Spiacente di averla svegliata, colonnello» disse Fred Klein, senza sembrare particolarmente rammaricato. «Ma è emerso qualcosa che ritengo debba assolutamente vedere... e sentire.» «Ah sì?» Smith allungò le gambe oltre la sponda del letto. «Finalmente il misterioso "Lazzaro" è emerso in superficie» lo informò il direttore della Covert-One. «O almeno così pare.» Smith emise un sommesso fischio di meraviglia. Questo sì che era interessante! Durante la riunione in cui era stato istruito sul Lazarus Movement si era sottolineato che nessuno all'interno della CIA, dell'FBI o di qualsiasi altra agenzia di intelligence occidentale era a conoscenza dell'identità di chi dirigeva le operazioni del potente movimento ambientalista. «In persona?» «No» ribatté Klein. «Sarà più semplice mostrarle quello che abbiamo ottenuto. Ha a portata di mano il suo PC portatile?» «Attenda un istante.» Smith appoggiò il cellulare sul comodino e accese l'abat-jour. Il suo computer portatile era ancora nella sua custodia da viaggio, vicino all'armadio a muro. Muovendosi rapidamente, prese la valigetta, estrasse il portatile, lo depose sul letto, collegò il modem alla presa telefonica e accese il computer. Smith digitò sulla tastiera lo speciale codice di sicurezza e la password necessari per collegarsi con il sito segreto della Covert-One. Poi impugnò di nuovo il cellulare. «Sono in linea.» «Aspetti un momento» gli disse Klein. «Tra pochi secondi scaricheremo il materiale sul suo PC.» Il monitor del portatile si illuminò e mostrò un guazzabuglio di scariche elettrostatiche, poi forme e colori a caso, e, infine, si schiarì, trasmettendo
l'immagine del bel volto austero di un uomo di mezz'età. Il soggetto guardava fisso nell'obiettivo della macchina fotografica. Smith si chinò in avanti per esaminare più da vicino lo sconosciuto che aveva davanti. Quel viso aveva qualcosa di stranamente familiare. Tutto, dai capelli castani leggermente ondulati, con un velo di brizzolatura alle tempie, agli occhi azzurri e cordiali, al naso diritto di stampo classico, fino al solido mento con la fossetta, trasmetteva forza, saggezza, intelligenza, potere e autorità perfettamente padroneggiata. «Sono "Lazzaro"» si presentò in tutta tranquillità il mezzobusto. «Parlo a nome del Lazarus Movement, di Madre Terra e dell'umanità intera. Parlo a nome di chi è morto e di chi deve ancora nascere. E sono qui oggi per dire la verità al potere corrotto e corruttibile.» Smith ascoltò la voce, perfettamente intonata, mentre il sedicente «Lazzaro» teneva un breve, ma intenso discorso. In esso chiedeva giustizia per tutti coloro che avevano trovato la morte fuori dal Teller Institute. Sollecitava una messa al bando con effetto immediato di qualsiasi progetto di ricerca e sviluppo di nanotecnologie. E chiamava a raccolta tutti gli appartenenti al movimento perché compissero qualsiasi azione necessaria per salvaguardare il mondo dai pericoli posti dalla nuova tecnologia. «La nostra organizzazione, che riunisce persone appartenenti a ogni popolazione, razza e credo, ha tenuto al corrente per anni le autorità di questa crescente minaccia» dichiarò «Lazzaro» in tono solenne. «I nostri avvertimenti sono stati ignorati o sbeffeggiati. Le nostre voci sono state messe a tacere, ma ieri il mondo intero ha visto la verità... ed era una verità agghiacciante e implacabile...» Il monitor passò in dissolvenza a uno sfondo neutro non appena il discorso ebbe termine. «Una propaganda davvero efficace» commentò Smith in tono pacato. «Sì, estremamente efficace» convenne Klein. «Quello che ha appena visto era un comunicato ufficiale trasmesso a ogni principale rete televisiva statunitense e canadese. La National Security Agency l'ha intercettato e scaricato da un satellite per le telecomunicazioni due ore fa. Ogni agenzia governativa a Washington è impegnata ad analizzarlo.» «Non possiamo impedire che il nastro sia trasmesso ovunque, immagino» rifletté Smith a voce alta. «Dopo quello che è successo ieri?» Klein sbuffò sonoramente. «Nemmeno tra un milione di anni, colonnello. Il messaggio del sedicente "Lazzaro" sarà il primo argomento di discussione in ogni programma e in ogni
notiziario radiotelevisivo per tutto il santo giorno... forse anche di più.» Smith annuì tra sé. Nessun direttore di radio o telegiornale sano di mente avrebbe perso l'occasione di sbandierare una dichiarazione ufficiale del leader del Lazarus Movement, considerato anche l'immenso alone di mistero che lo circondava. «La NSA è in grado di risalire alla fonte della trasmissione?» «Ci stanno provando. Ma non sarà per niente facile. Lo spezzone audiovideo è arrivato sotto forma di segnale estremamente compresso e criptato, ritrasmesso da chissà quale posto dimenticato da Dio, per mezzo di chissà quale host Internet. Una volta trasmesso al satellite, il segnale si è deframmentato in centinaia di microspezzoni, si è autocodificato e si è ritrasmesso a New York, a Los Angeles, a Chicago e così via. Nomini pure a caso una città del Nordamerica e indovinerà.» «Interessante» osservò Smith. «Non le sembra un metodo di comunicazione troppo sofisticato per un'organizzazione che afferma di opporsi strenuamente alla tecnologia ultramoderna?» «Sì, certo» concordò Klein. «Ma sappiamo che il Lazarus Movement si serve di computer e siti web per gestire le sue comunicazioni interne. Forse non dovremmo sorprenderci del fatto che utilizzi gli stessi metodi per diffondere un comunicato ufficiale a livello mondiale.» Il direttore della Covert-One emise un sospiro. «E anche se la NSA riuscisse a individuare con precisione l'origine della trasmissione, sospetto che scopriremmo che è arrivata sotto forma di DVD anonimo a un piccolo studio indipendente in qualche remota località del mondo, insieme a una consistente remunerazione in contanti per i tecnici coinvolti.» «Se non altro adesso possiamo associare un volto a questo tizio» disse Smith. «E con questa traccia siamo in grado di stabilire con precisione la sua vera identità. Mettiamo in ricerca automatica le immagini ricevute in tutti i nostri database... e in quelli dei Paesi nostri alleati. Qualcuno, da qualche parte, avrà un file sul suo conto, chiunque egli sia.» «Sta anticipando i tempi con troppa facilità, colonnello» ribatté Klein. «Quella non era l'unica trasmissione via satellite intercettata dalla NSA stamattina. Dia un'occhiata a questo...» Il monitor del PC portatile trasmise l'immagine di un asiatico di una certa età, un uomo con i capelli bianchi, una fronte alta e spaziosa, priva di rughe, e due occhi scurissimi. Il suo aspetto ricordava a Smith certi ritratti a olio di antichi sapienti, pieni di saggezza e di conoscenza. Il vecchio cominciò a parlare; questa volta la lingua utilizzata era il giapponese. Una
traduzione simultanea in inglese passò a sottotitoli in calce alla schermata. «Sono "Lazzaro". Parlo a nome del Lazarus Movement, di Madre Terra e dell'umanità intera...» L'immagine successiva era quella di un anziano africano, un altro uomo che aveva in sé tutta l'autorità e il potere di un antico re o di uno sciamano dai poteri sovrannaturali. Parlava in forte, risonante swahili, ma le parole della traduzione simultanea coincidevano perfettamente con quelle dei primi due portavoce, e comunicavano il medesimo messaggio. Quando il vecchio africano ebbe finito, ricomparve il bell'uomo di mezz'età di razza caucasica, e stavolta parlava in perfetto francese. Smith si accasciò in sbalordito silenzio, osservando una vera parata di immagini diverse di «Lazzaro», ognuna delle quali propugnava fluentemente lo stesso, potente messaggio, in oltre una decina delle principali lingue del mondo. Quando finalmente il monitor tornò a ingombrarsi di scariche ed effetti elettrostatici e infine sbiadì in un vacuo grigiore, Jon emise di nuovo un breve fischio sommesso. «Caspita! Questo sì che è un bel giochetto! E così, almeno tre quarti della popolazione mondiale ascolterà questo stesso discorso del Lazarus Movement? E tutto da persone che rappresentano ogni popolo o etnia, e parlano in una lingua che gli stessi popoli o etnie comprendono senza problemi?» «Apparentemente, è questo il loro piano» convenne il direttore della Covert-One. «Ma il movimento si è rivelato perfino più astuto. Dia un'altra occhiata al primo "Lazzaro" che si è presentato.» L'immagine del primo sedicente «Lazzaro» riapparve sul monitor del PC portatile di Smith e si bloccò un istante prima di cominciare a parlare. Smith fissò il volto dell'uomo di bell'aspetto. Perché gli sembrava così dannatamente familiare? «Lo sto osservando, Fred» disse. «Ma che cos'è che ho realmente di fronte?» «Quello che vede non è un volto reale, colonnello» gli disse Klein in tono sommesso. «E neppure quelli delle altre immagini lo sono.» Smith inarcò un sopracciglio. «Ah sì? Allora che cosa sono?» «Elaborazioni computerizzate» gli spiegò Klein. «Una miscela di pixel e bit generati artificialmente. E tanti tasselli di centinaia, forse migliaia di persone reali mescolati insieme per creare una serie di volti ex novo. Anche le voci sono tutte generate al computer.» «Quindi non abbiamo modo di identificarli» dedusse Smith. «E non siamo ancora in grado di capire se il movimento è diretto da un solo uomo, oppure da più di uno.»
«Esattamente. Ma non è tutto. Ho già avuto modo di vedere alcune analisi della CIA. Sono convinti che le voci e le immagini siano state elaborate secondo modalità e studi altamente approfonditi. In altre parole, quei volti rappresentano archetipi, o figure idealizzate, per le culture alle quali il Lazarus Movement sta trasmettendo il messaggio.» E questo spiega perché lui stesso avesse reagito così favorevolmente alla prima immagine, comprese Smith. Era una variante dell'antico ideale occidentale del giusto, eroico e nobile re. «Chiunque ci sia dietro a tutto questo, di certo non può che esserci gente davvero preparata» commentò lugubremente. «Concordo.» «In effetti comincio a pensare che la CIA e l'FBI forse hanno centrato il bersaglio attribuendo al Lazarus Movement la responsabilità di quanto è accaduto ieri.» «Può darsi. Ma essere abili in quanto a propaganda e segretezza non rivela necessariamente intenzioni terroristiche. Cerchi di tenere aperta la mente, colonnello. Si ricordi che la Covert-One è il B-Team in questa indagine. Il suo compito è quello di fare l'avvocato del diavolo, di assicurarsi che nessuna prova sia trascurata solo perché non collima convenientemente con la teoria preconcetta.» «Non si preoccupi, Fred» disse Smith in tono rassicurante. «Farò del mio meglio per spingere, pungolare e indagare per vedere che cosa salta fuori.» «Con la massima discrezione, la prego» gli rammentò Klein. «"Discrezione" è il mio secondo nome» ribatté Smith con un sorrisino fugace. «Dice davvero?» replicò il direttore della Covert-One in tono tagliente. «Chissà come mai non l'avrei mai immaginato.» Poi si addolcì. «Buona fortuna, Jon. Qualsiasi cosa le debba servire... libero accesso, informazioni, supporto logistico, qualsiasi cosa insomma, saremo pronti a intervenire.» Ancora con un ghigno beffardo sulle labbra, Smith scollegò cellulare e computer portatile, e iniziò a prepararsi per la lunga giornata che lo attendeva. Capitolo 14 Emeryville, California
Emeryville, un tempo un sonnacchioso paesino colmo di magazzini in rovina e di cadenti depositi, rivendite e noleggi di macchinari arrugginiti, e studi di pittori, era fiorita all'improvviso diventando uno dei centri nevralgici della prosperosa industria biotech. Grosse società farmaceutiche multinazionali, laboratori di ingegneria genetica e imprenditori, finanziati con capitale di rischio, all'inseguimento di nuove opportunità come la nanotecnologia, rivaleggiavano tutti quanti in cerca di spazio per laboratori e uffici lungo la trafficatissima Interstate 80, praticamente un corridoio di collegamento tra Berkeley e Oakland. Affitti, tasse e costo della vita erano tutti esorbitanti, ma gran parte dei dirigenti delle grandi corporazioni industriali sembravano concentrare maggiormente l'attenzione sulla vicinanza di Emeryville alle eccellenti università e ai principali scali aeroportuali, e forse, la cosa più importante di tutte, alle spettacolari vedute di San Francisco, della baia, e naturalmente del Golden Gate. Gli impianti di ricerca di nanoelettronica della Telos Corporation occupavano un intero piano di uno dei nuovi grattacieli in cristallo e acciaio che svettavano poco più a est delle vie d'accesso al Bay Bridge. Interessata maggiormente a trarre profitto dall'investimento multimiliardario in attrezzature, materiali e personale qualificato piuttosto che nella pubblicità, la Telos manteneva un profilo comparativamente basso, cercando di attirare meno attenzione possibile. Nessun marchio vistoso su qualche costosa targa all'entrata dell'edificio indicava la presenza della Telos al suo interno. Alle scolaresche, alle autorità politiche locali e alla stampa non veniva offerta alcuna visita guidata. Un'unica postazione di sorveglianza, appena oltre la soglia dell'entrata principale, garantiva la sicurezza a tutto l'edificio. Paul Yiu, l'addetto della Pacific Security Corporation, era seduto dietro il banco della postazione di sorveglianza, sormontato da un piano di marmo, assorto solo superficialmente nella lettura di un giallo tascabile. Voltò pagina e scoprì, con indolenza, la morte di un altro sospetto che fino ad allora aveva ritenuto il misterioso assassino, poi, senza troppi scrupoli, sbadigliò e si stiracchiò per sgranchirsi i muscoli. Mezzanotte era già passata da un pezzo, ma gli restavano ancora due ore di tedio prima della fine del turno di servizio. Si agitò sulla scomoda poltrona a rotelle, risistemò il calcio della pistola riposta nella fondina agganciata al cinturone sull'anca, e tornò al giallo. Ormai, però, faceva fatica a tenere gli occhi aperti. Un leggero bussare di nocche sulla porta a vetri lo destò. Yiu alzò lo sguardo, aspettandosi di avere a che fare con uno dei vagabondi senza fissa
dimora o dei mezzi pazzi che a volte si spingevano raminghi fin là da Berkeley per sbaglio. Vide invece una ragazza minuta dai capelli rossi e dall'espressione agitata. La nebbia era sopraggiunta a banchi dalla baia di San Francisco e la sconosciuta sembrava intirizzita dal freddo nella gonnellina blu aderentissima, la camicetta di seta bianca e un elegante soprabito di lana nero. La guardia giurata si alzò rapidamente dalla poltroncina, si rassettò la camicia e la cravatta dell'uniforme color kaki e andò alla porta. Questa sbatacchiò, ma rimase chiusa automaticamente. «Spiacente, signora» gridò Yiu attraverso lo spesso cristallo. «L'edificio è chiuso.» Lo sguardo ansioso ricomparve sul viso della donna. «La prego, vorrei solo chiederle la cortesia di farmi fare una telefonata» disse in tono lamentoso. «Mi si è fermata la macchina a poche centinaia di metri da qui e ora si è esaurita anche la batteria del cellulare!» Yiu rifletté un momento sulla situazione. Le regole erano chiarissime. Nessuno poteva entrare nell'edificio senza autorizzazione dopo l'orario di lavoro. D'altro canto, però, nessuno dei suoi superiori doveva per forza essere informato del fatto che aveva deciso di fare il buon samaritano per quella ragazza in difficoltà. Diciamo che è la mia buona azione della settimana, decise. Per giunta, era estremamente carina, e Paul aveva una passione non corrisposta per le rosse. Yiu pescò dal taschino della camicia la keycard dell'edificio e la passò rapidamente nell'apposita fessura, che emise un breve ronzio e poi si aprì a scatto con un clic metallico. Yiu tirò a sé la pesante porta a vetri con un sorriso accogliente. «Ecco fatto, signora. Il telefono si trova...» Il tremendo e inaspettato colpo di mazza colse Yiu dritto negli occhi e sulla bocca aperta. Si piegò su se stesso, accecato, strozzato e impotente. Prima ancora che avesse il tempo di reagire e di annaspare con la mano sul calcio della pistola, la porta a vetri si spalancò di botto, scaraventandolo indietro sullo sdrucciolevole pavimento in mattonelle di ceramica. Diverse persone irruppero a passo di carica nell'atrio dell'edificio. Due paia di braccia robuste lo afferrarono, immobilizzandogli le braccia dietro la schiena e poi bloccandogli i polsi con le sue stesse manette. Qualcun altro gli infilò in testa un cappuccio di stoffa. Una donna si chinò a sussurrargli all'orecchio: «Ricordatelo! Viva il Lazarus Movement!». Prima che qualcuno sopraggiungesse a liberare Yiu, gli intrusi se n'erano
già andati da un pezzo. Il laboratorio nanotech della Telos era completamente distrutto: pieno di alambicchi e provette in frantumi, microscopi a scansione elettronica bruciati, serbatoi, taniche e bombole bucate, e sostanze chimiche rovesciate ovunque. Gli slogan del Lazarus Movement scritti con lo spray sulle pareti, le porte e le finestre lasciavano ben pochi dubbi circa la responsabilità di quello scempio. Zurigo, Svizzera Mentre il pallido sole autunnale giungeva allo zenit, migliaia di manifestanti affollavano già la ripida collina alberata sovrastante il centro storico di Zurigo e il fiume Limmat che scorreva nella città. La folla bloccava ogni via circostante i due campus gemelli dell'Istituto federale svizzero di tecnologia e dell'Università di Zurigo. Stendardi verdi e scarlatti del Lazarus Movement si stagliavano sopra la massa di gente accalcata, insieme a cartelli che chiedevano il bando di tutti i progetti di ricerca nanotech attuati in territorio elvetico. Squadre di poliziotti in tenuta antisommossa, con manganelli e scudi di plexiglas trasparenti, attendevano l'eventualità di dover intervenire ad alcuni isolati di distanza dalla marea di dimostranti. Grossi blindati con cannoni ad acqua e lanciagranate a gas lacrimogeno erano parcheggiati nelle vicinanze. Ma la polizia non sembrava avere alcuna fretta di entrare in azione e di sgomberare le strade. Il dottor Karl Friederich Kaspar, direttore di uno dei laboratori scientifici al momento sotto assedio, uomo abitualmente pacifico, si ergeva alle spalle dei cordoni e delle transenne della polizia cantonale, vicino alla stazione superiore della Polybahn di Zurigo, la funicolare costruita più di un secolo prima per servire l'Università e l'Istituto federale. Controllò un'altra volta l'orologio e digrignò nervosamente i denti, in preda a un'insopprimibile frustrazione. Fumante di rabbia, cercò l'ufficiale di polizia di grado maggiore presente sul posto. «Perché aspettate ancora? Senza permesso, è chiaramente una manifestazione illegale. Perché non fate intervenire le truppe e non disperdete la folla?» L'ufficiale di polizia si strinse nelle spalle. «Eseguo degli ordini, Herr Professor Direktor Kaspar. Al momento, non ho ricevuto l'ordine di intervenire.» Kaspar sibilò, disgustato. «È assurdo! Il personale dell'istituto deve andare al lavoro. Dobbiamo condurre una gran quantità di esperimenti pre-
ziosissimi e costosissimi!» «È un peccato» sentenziò il poliziotto in tono prudente. «Un peccato?!» bofonchiò Raspar con un ringhio. «Altro che peccato! È una disgrazia!» Poi fissò con rabbia negli occhi il suo interlocutore. «Mi viene quasi da pensare che si senta in qualche modo solidale con quegli idioti ignoranti.» L'ufficiale di polizia si voltò e sostenne lo sguardo furioso senza farsi intimidire. «Non sono un attivista del Lazarus Movement, se è questo che vuole insinuare» replicò senza perdere le staffe. «Ma ho visto che cosa è successo in America. E non voglio affatto che una catastrofe simile si ripeta qui a Zurigo.» Il direttore del laboratorio arrossì di collera e stizza. «Questo è impossibile! Assolutamente impossibile! Il nostro lavoro è completamente diverso da qualsiasi altro progetto su cui gli americani e i giapponesi stanno lavorando al Teller Institute di Santa Fe! Non si possono fare paragoni!» «Questa è una buona notizia» ribatté il poliziotto, accompagnando la frase con un vago accenno di sorrisino sardonico. Poi fece mostra di consegnare a Raspar un megafono. «Forse se riesce a convincere i manifestanti, potrebbero capire l'errore che stanno facendo e disperdersi spontaneamente. Eh?» Il dottor Raspar si limitò a fissarlo negli occhi, rattristato di trovare tanta ignoranza e insolenza in un collega servitore della Confederazione. Capitolo 15 Aeroporto internazionale di Albuquerque, New Mexico Con il sole che sorgeva sullo sfondo come una palla rossa, il mastodontico An-124 Condor rombò a bassissima quota, sopra la fila interna di faretti di segnalazione, e atterrò sulla pista 8. I suoi quattro enormi turboreattori, montati a pilone sulle due grandi ali, ulularono assordanti, mentre il pilota invertiva la spinta dei propulsori. Decelerando, il Condor sobbalzò un paio di volte e scivolò in corsa frenata sulla pista d'atterraggio, lunga oltre quattromila metri, rincorrendo la sua stessa ombra allungata. In pochi secondi, avanzò con pesantezza oltre gli hangar e i rimessaggi che ospitavano gli F-16 appartenenti alla 15a Squadriglia aeroplani da caccia della Guardia nazionale del New Mexico. Ancora in fase di rallentamento, passò davanti a una serie di bunker mimetici d'acciaio e cemento, che in passato
erano stati utilizzati come depositi di armi nucleari strategiche e tattiche durante gli anni della Guerra Fredda. In prossimità del margine ovest della pista catramata, l'enorme Antonov da carico di fabbricazione sovietica svoltò su una pista laterale, destinata ai velivoli da trasporto merci, e rullò pesantemente, fino a fermarsi del tutto nei pressi di un jet societario privato dalle dimensioni molto più modeste. Il frastuono stridulo dei suoi turboreattori si attenuò fino a zittirsi nella fase di spegnimento. Da vicino, il velivolo di proprietà della Nomura PharmaTech faceva apparire dei microbi i reporter e i cameramen raggruppati in attesa per registrare il suo arrivo. La rampa posteriore del vano di carico dell'An-124, a diciotto metri di altezza, ronzò elettricamente in apertura, abbassandosi pesantemente sul cemento disseminato di macchie di olio e di carburante avio. Due membri dell'equipaggio di bordo in tute anti-G scesero dalla rampa, schermandosi gli occhi con la mano per ripararli dalla sfolgorante luce dell'alba. Una volta a terra, si voltarono e, ricorrendo a dei cenni con le mani, diressero gli autisti in manovra preposti per far scendere in retromarcia dal cavernoso vano di carico del Condor un intero convoglio di automezzi. Il laboratorio mobile d'analisi del DNA promesso da Hideo Nomura era arrivato. Nomura in persona era ritto in piedi tra i giornalisti, intento a osservare le sue squadre di tecnici medici e di addetti di supporto che si preparavano a compiere il breve tragitto che li separava da Santa Fe. Si sentì compiaciuto della loro efficienza. Quando ritenne che il drappello dei giornalisti fosse in possesso di tutti gli spezzoni per montare i servizi, fece un segnale per attirare l'attenzione di tutti. Ai cameramen e ai fonici presenti occorse un po' di tempo per focalizzare di nuovo le telecamere e per effettuare gli indispensabili controlli audio. Nomura attese pazientemente finché non furono pronti. «Ho preso un'altra importante decisione che desidero annunciare, signore e signori» esordì Nomura. «Vi assicuro che non è stata una scelta semplice, ma ritengo che sia l'unica ria da seguire, considerata la terribile tragedia alla quale ieri abbiamo tutti assistito impotenti.» Hideo Nomura fece una breve pausa a effetto per caricare drammaticamente l'aspettativa. «Con effetto immediato, la Nomura PharmaTech sospenderà i suoi programmi di ricerca sulle nanotecnologie, sia quelli in attuazione nei laboratori e negli stabilimenti di sua proprietà sia quelli finanziati dalla nostra società in altre istituzioni nelle diverse parti del mondo. Inviteremo degli osservatori esterni nei nostri laboratori di ricerca e nelle nostre aziende per confermare
che abbiamo interrotto tutte le nostre attività in questo campo scientifico.» Il magnate giapponese ascoltò cortesemente il clamore frenetico delle domande immediate, provocate da quell'annuncio improvviso, rispondendo a quelle che gli sembravano più adatte ai suoi scopi. «La mia decisione è stata influenzata dalle richieste avanzate questa notte dal Lazarus Movement?» Nomura scosse risolutamente la testa. «Assolutamente no. Sebbene rispetti i loro ideali e le loro ragioni, non condivido il pregiudizio dell'organizzazione ambientalista nei confronti della scienza e della tecnologia. Questa "sosta" temporanea è incoraggiata da semplici motivi di prudenza. Finché non sapremo con precisione che cosa è andato storto al Teller Institute, sarebbe insensato e folle mettere a rischio altre città.» «E per quanto riguarda i vostri concorrenti?» domandò a bruciapelo uno degli inviati speciali presenti. «Altre società di capitali multinazionali, altre università e altri governi hanno già investito miliardi di dollari nella nanotecnologia medica. Dovrebbero seguire il vostro esempio e interrompere anch'essi il loro lavoro?» Nomura esibì un sorriso mite. «Non pretendo di propormi come esempio da seguire per gli altri. È un problema che sta alle loro personali e migliori capacità di giudizio scientifico. O forse, sarebbe più opportuno dire, alle loro coscienze. Da parte mia, posso solo assicurarvi che la Nomura PharmaTech non anteporrà mai e poi mai i suoi profitti personali alla vita di esseri umani innocenti.» Boston, Massachusetts Il pantagruelico e cocciutissimo James Severin, direttore generale della Harcourt Biosciences, osservò il servizio della CNN relativo all'intervista rilasciata da Hideo Nomura fino alla fine. «Mossa astuta, scaltro giapponesino figlio di buona donna» mormorò tra sé, in parte in riluttante ammirazione, in parte in tono offeso. I suoi occhi lampeggiarono d'ira dietro le spesse lenti dei suoi occhiali dalla pesante montatura in plastica nera. «I progetti nanotech della sua società sono molto indietro rispetto a tutti i suoi concorrenti... talmente indietro che non hanno nessuna possibilità effettiva di raggiungere lo stesso livello!» Il suo assistente anziano, altrettanto alto ma con almeno cinquanta chili di peso in meno, annuì gravemente. «A quanto sappiamo, i ricercatori della Nomura sono indietro di almeno diciotto mesi rispetto ai nostri. Stanno ancora chiarendo la teoria di base, mentre le nostre équipe di laboratorio
stanno già sviluppando alcune applicazioni attuabili nel mondo reale. È una gara che la PharmaTech non può certo vincere.» «Già» borbottò Severin. «Lo sappiamo. E lo sa anche il nostro amico Hideo. Ma chi altri comprenderà il suo vero obiettivo? Non certo la stampa, questo è poco ma sicuro.» Severin si rabbuiò in volto. «Stacca semplicemente la spina ai progetti sull'orlo del fallimento, finora costati un occhio della testa alla sua società, mascherandosi da altruistico cavaliere immacolato delle multinazionali illuminate! Furbo, eh?» Il presidente e direttore della Harcourt Biosciences spinse indietro la poltrona a rotelle, si sollevò pesantemente sui braccioli e si alzò a fatica. Quindi, di cattivo umore, andò a guardare fuori dalle vetrate a tutta parete del suo ufficio. «E questa piccola bravata da parte di Hideo Nomura ha appena aumentato vertiginosamente la pressione politica e pubblica sul resto dei suoi concorrenti, noi compresi. Siamo già sotto un fuoco infernale per l'incidente a Santa Fe. Adesso la situazione non farà che peggiorare.» «Potremmo subdolamente trovare un po' di sollievo unendoci alla linea adottata e appena annunciata dalla PharmaTech» suggerì con cautela il suo assistente. «Almeno fino a quando non saremo in grado di dimostrare che il laboratorio che abbiamo al Teller Institute non è responsabile del disastro avvenuto.» Severin sbuffò stizzito. «E quanto tempo ci vorrà? Qualche mese? Un anno? Due anni? Pensi davvero che possiamo permetterci di mantenere i nostri pimpanti scienziati, mentre girano oziosamente i pollici per così tanto tempo?» Severin si chinò verso lo spesso cristallo della vetrata. In basso, in lontananza, le acque della baia e del porto di Boston erano una lastra grigio-verde dall'aria gelida. «Tieni sempre presente che un mucchio di gente al Congresso e tra i mass media sosterrà subito che, sospendendo i nostri progetti nanotech ancora in corso, stiamo praticamente ammettendo le nostre colpe.» Il suo assistente non fece commenti. Severin voltò le spalle di scatto alle finestre a tutta parete, poi giunse saldamente le mani dietro la schiena. «No. Non faremo il gioco di Nomura. Anzi, ci discosteremo con decisione dalla sua linea d'azione. Dirameremo subito un comunicato stampa ufficiale. Dichiareremo che la Harcourt Biosciences rifiuta senza mezzi termini le farneticanti richieste avanzate dal Lazarus Movement. Non cederemo alle minacce fatte da un'organizzazione estremista e segreta. Organizzeremo inoltre qualche visita guidata straordinaria per giornalisti accreditati ai nostri laboratori di ricerca nano-
tech. Dobbiamo mostrare alla gente che non abbiamo assolutamente nulla da nascondere e che loro non hanno nulla di cui aver paura.» Capitolo 16 Teller Institute, Santa Fe Con indosso una spessa tuta protettiva di plastica, guanti speciali e cappuccio a chiusura ermetica dotato di ossigeno con bombola autonoma, e un berrettino da baseball blu a visiera rigida in testa come tocco personale, Jon Smith entrò con estrema cautela nelle rovine del primo piano semidistrutto dell'Istituto nanotech di Santa Fe. Si piegò su un fianco per passare sotto a una grossa trave di legno carbonizzata che spuntava pericolosamente dal soffitto distrutto, facendo attenzione a evitare di strappare la tuta con uno dei tanti chiodi ritorti che spuntavano dal legno annerito. Nessuno sapeva se i nanodispositivi che avevano ucciso brutalmente migliaia di contestatori fossero ancora attivi. Fino a quel momento, nessuno aveva eseguito quel tipo di analisi. Piccoli frammenti di muri sbreccati e schegge di vetro in frantumi scricchiolavano sotto le spesse suole dei suoi scarponcini sigillati. Sbucò in un'altra zona aperta, che un tempo era stata la mensa per i dipendenti. Quel locale era in gran parte intatto, ma c'erano segni di danni provocati da ordigni esplosivi lungo due delle quattro pareti, e diverse sagome tracciate a profilo col gesso sullo sconquassato pavimento di mattonelle in ceramica mostravano i punti da cui i cadaveri erano stati rimossi. La task force dell'FBI incaricata di indagare sul disastro stava utilizzando l'ex mensa come punto di raccolta nonché come centro di comando tattico in loco. Due computer portatili erano sistemati sopra i tavoli vicini al centro del vasto locale, ma era evidente che gli agenti che stavano tentando di usarli avevano qualche problema a inserire i dati, dato che le loro mani erano bloccate in guantoni protettivi di gomma spessa. Smith avanzò fin dove un uomo che indossava un berrettino da baseball nero sotto il cappuccio a chiusura ermetica era curvo sopra uno dei tavoli da pranzo recuperati dallo sfacelo, intento a esaminare una serie di planimetrie dettagliate dell'edificio. Sulla targhetta appuntata sulla tuta protettiva speciale dell'agente c'era scritto: LATIMER, C. L'agente alzò lo sguardo all'avvicinarsi di Smith. «E lei chi è?» domandò. Il cappuccio protettivo con visiera trasparente attutiva parecchio il suo-
no della voce. «Sono il dottor Jonathan Smith. Lavoro per il Pentagono.» Smith si batté leggermente due dita sul berretto blu per enfatizzare l'indicazione. Il blu era il colore assegnato agli osservatori e ai consulenti esterni. «Mi hanno dato istruzione di fare l'osservatore... e l'ordine di fornire l'aiuto che posso.» «Agente speciale Charles Latimer» si presentò il suo interlocutore. Era un uomo agile e snello, dai capelli biondi, con un marcato accento del Sud. Adesso era visibilmente curioso. «Che tipo d'aiuto è in grado di offrirci, precisamente, dottore?» «Ho una discreta conoscenza ed esperienza lavorativa nel campo della nanotecnologia» rispose Smith, calibrando le parole. «E conosco benissimo la pianta e la disposizione interna dei laboratori scientifici. Ero di stanza qui su incarico temporaneo quando i terroristi hanno attuato l'attentato e distrutto l'istituto.» Latimer gli riservò un'occhiata insistente e minuziosa. «Questo fa di lei un testimone oculare, dottore. Non un osservatore.» «Ieri sera e stamattina presto ero un testimone oculare» precisò Smith con un sorrisino beffardo. «Da allora sono stato promosso a consulente indipendente esterno.» Poi si strinse nelle spalle. «So che questo esula completamente dalle norme del regolamento.» «Infatti» confermò l'agente dell'FBI. «Senta, ha chiarito la cosa con il mio diretto superiore?» «Sono sicuro che tutte le autorizzazioni e i permessi necessari si trovano in questo stesso momento da qualche parte sulla scrivania della viceassistente del direttore Pierson» dichiarò Smith con accentuata mitezza. L'ultima cosa che desiderava era cominciare pestando i piedi alle alte gerarchie dell'FBI. Non aveva conosciuto di persona Katherine Pierson, ma nutriva il forte sospetto che la donna non avrebbe certo fatto salti di gioia sapendo che un intruso, su cui non aveva alcuna autorità, ficcava il naso ovunque nell'inchiesta che stava conducendo lei personalmente. «Il che significa che non ne ha ancora discusso con lei» concluse Latimer. L'agente dell'FBI scrollò la testa con aria incredula. Poi alzò le spalle. «Cavolo. Be', in questo cesso di posto non c'è niente che funzioni secondo il regolamento.» «È duro lavorare qui» convenne Smith. «A dir poco» concordò l'agente dell'FBI abbozzando un sorriso. «È già abbastanza difficile cercare di indagare in mezzo a tutto questo sfacelo
provocato da incendi ed esplosioni dinamitarde. Doversi anche proteggere dai nanofagi, o come diavolo si chiamano, rende il lavoro quasi impossibile.» Latimer indicò le speciali tute a protezione totale che indossavano entrambi. «Tra la limitata autonomia di ossigeno a disposizione e l'evitare l'affaticamento da calore, possiamo portare addosso questa specie di tuta spaziale solo per tre ore. Per non parlare della mezz'ora abbondante che sprechiamo per l'inevitabile periodo di decontaminazione. Si può dire che il nostro lavoro sta procedendo a rilento, proprio nel momento in cui Washington ci sollecita a gran voce per avere risultati rapidi. Per di più siamo costretti ad affrontare il classico paradosso del "Comma 22" per ogni briciola di prova che riusciamo a raccogliere.» Smith annuì con espressione comprensiva. «Mi lasci indovinare. Non potete portare niente fuori dall'edificio per le analisi di laboratorio necessarie finché non è stato decontaminato. E se lo decontaminate, molto probabilmente non rimarrà nessun indizio da esaminare.» «Una bellezza, eh?» sbuffò Latimer acidamente. «Forse il rischio di contaminazione non è così elevato» osservò Smith. «La maggior parte dei nanodispositivi sono progettati per ambienti molto specifici. Dovrebbero iniziare a decomporsi piuttosto rapidamente dopo essere stati esposti all'atmosfera, alla pressione esterna e alle condizioni di temperatura al di fuori dei loro parametri di sopravvivenza. Ora dovremmo essere perfettamente al sicuro da qualsiasi rischio.» «A sentirla così sembra una bella teoria, dottore» disse l'agente dell'FBI. «Si propone come volontario per essere il primo che si toglie il casco e fa un bel respiro profondo?» Smith sogghignò. «Sono un laureato in medicina, non una cavia da laboratorio. Ma me lo chieda di nuovo tra ventiquattro ore e potrei anche provarci.» Jon abbassò lo sguardo sulle planimetrie che l'uomo stava studiando. Illustravano la pianta e la disposizione dei locali al piano terra e al primo piano dell'istituto. Cerchietti rossi di varie dimensioni punteggiavano le cianografiche. La maggior parte era raggruppata all'interno e intorno ai complessi laboratori nanotech nell'ala nord, ma altri erano sparpagliati un po' ovunque in tutto l'edificio. «Punti di detonazione delle cariche esplosive?» domandò all'agente dell'FBI. Latimer annuì. «Quelli che abbiamo identificato finora.» Smith esaminò attentamente le planimetrie fotocopiate. Quel che vide,
confermò le sue prime impressioni sulla notevole precisione usata dai terroristi nell'attuazione dell'attentato. Numerose cariche esplosive avevano distrutto completamente l'ufficio del servizio di sicurezza interno, eliminando tutte le immagini d'archivio registrate dalle telecamere a circuito chiuso degli impianti di sicurezza interno ed esterno. Un ordigno aveva messo fuori uso l'impianto antincendio. Altre cariche di demolizione mirata erano state piazzate nel centro informatico, e avevano distrutto tutto quanto, dai file nominativi del personale alle registrazioni delle attrezzature e delle consegne di materiale fatte agli scienziati che lavoravano all'istituto. A prima vista, la posizione delle bombe all'interno dei tre laboratori nanotech sembrava dimostrare l'intenzione di infliggere il massimo dei danni possibile. Dei cerchi concentrici coprivano le disposizioni dei locali al primo piano assegnati ai complessi della Nomura e dell'istituto stesso. Jon annuì tra sé, sovrappensiero. Quelle cariche erano chiaramente destinate a distruggere ogni singolo pezzo dell'attrezzatura in entrambi i laboratori, dai tini biochimici, nel nucleo centrale di ogni laboratorio, ai computer da tavolo. Ma c'era qualcosa, relativo alle sequenze delle detonazioni, che aveva notato osservando la planimetria del laboratorio assegnato all'Harcourt Biosciences, che lo aveva impensierito. Smith si chinò ulteriormente sopra il tavolo. Che cosa c'era che non andava? Seguì la serie di cerchietti con l'indice inguantato. Le cariche esplosive sistemate ad arte intorno al «cuore» del laboratorio avevano molte meno probabilità di provocare ingenti danni. Sembravano pensate per produrre fori e brecce nelle pareti di contenimento attorno ai serbatoi di produzione dei nanofagi della Harcourt, e non per distruggere completamente i serbatoi stessi. I terroristi avevano forse commesso un errore?, si domandò. O l'avevano fatto con uno scopo preciso? Smith alzò lo sguardo dalle planimetrie per chiedere a Latimer se avesse notato la stessa «coincidenza». Ma l'agente dell'FBI stava guardando altrove, ed era intento ad ascoltare attentamente qualcuno che gli stava parlando in cuffia via radio. «Ho capito» disse Latimer deciso nell'astina del microfono collegata alla cuffia. «Sì, signora. Mi assicurerò che capti il messaggio e che si adegui. Chiudo.» Il biondo tornò a rivolgersi a Smith. «Era la Pierson. A quanto pare le sue credenziali hanno finalmente catturato la sua attenzione. Vuole vederla al comando centrale primario, qui fuori.» «Intende immediatamente?» tirò a indovinare Smith.
Latimer annuì. «Anche prima, se possibile» sostenne con un sorrisino perverso. «E mentirei se dicessi che l'aspetta un caloroso benvenuto.» «Una vera meraviglia» osservò Jon con ironia. L'agente dell'FBI commentò con una semplice scrollatina di spalle. «Le dico solo di badare bene a come parla con lei, dottor Smith. La "Regina d'inverno" è dannatamente brava nel suo mestiere, ma non è precisamente quella che si direbbe un'allegrona che sa trattare con la gente. Se la ritiene uno che romperà in qualche modo le uova nel paniere nell'inchiesta in corso, si sentirà in dovere di trovarle un buco dove segregarla per tutta la durata delle indagini. Ah... e può anche darsi che la definirà "detenzione preventiva", o "custodia cautelare", ma non sarà comunque confortevole, né molto facile uscirne.» Smith studiò a fondo l'espressione di Latimer, sicuro che stesse esagerando per fare un po' di sarcasmo. Con suo sommo sgomento, però, il suo interlocutore sembrava perfettamente serio. La casa sicura sorgeva in alto, sulla cresta di un promontorio sovrastante i sobborghi meridionali di Santa Fe. Vista dall'esterno sembrava una classica villetta adobe in stile Pueblo, costruita intorno a un cortile centrale, con un portico per fare ombra. All'interno, l'arredo e i tendaggi erano assolutamente moderni, un magnifico studio d'architettura d'interni in scintillante bianco, nero e varie cromature. Delle piccole antenne a parabola satellitari erano montate con somma discrezione in un angolo del tetto a terrazza. Le finestre rivolte a ovest avevano una visuale sgombra e una vista diretta sul Teller Institute, a neppure tre chilometri di distanza. Le stanze dietro quelle stesse finestre, adesso, erano ingombre di un vasto assortimento di apparecchi radioriceventi e radio a microonde, videocamere e fotocamere fornite di potenti teleobbiettivi, zoom, obbiettivi all'infrarosso e a immagine termica, una serie di computer da tavolo collegati in rete a circuito privato e attrezzature per telecomunicazioni satellitari criptate e sicure. Una squadra di sorveglianza composta da sei uomini maneggiava tutta questa attrezzatura, monitorando gli andirivieni all'interno dell'area delimitata dai nastri di esclusione al pubblico all'esterno dell'istituto. Uno di essi, giovane e dalla pelle olivastra, con un paio di occhi marroni dall'espressione triste, era seduto su una sedia davanti a una delle postazioni di lavoro computerizzate. Canticchiava sommessamente a bocca chiusa e in modo stonato, e contemporaneamente ascoltava da un paio di cuffie diverse col-
legate a due distinti apparecchi radioriceventi. A un tratto, il giovanotto si raddrizzò sulla sedia. «Ho captato un segnale» riferì con calma, digitando al tempo stesso una serie di comandi sulla tastiera del PC. Il monitor che aveva davanti si illuminò e cominciò a riempirsi di dati in scorrimento rapido: un complesso e disorientante montaggio di numeri, diagrammi, fotografie scannerizzate e blocchi di testo. Il suo caposquadra, molto più vecchio di lui, con una capigliatura bianca tagliata a spazzola, esaminò il monitor per un momento. Poi annuì, soddisfatto. «Eccellente lavoro, Victor» disse. Infine si rivolse a uno degli altri suoi sottoposti. «Contatta Terce. Informalo che Field Two sembra completata e che ora abbiamo libero accesso a tutti i dati investigativi in via di raccolta. Riferisci anche che stiamo già trasmettendo i dati al Centro.» Sudando a profusione all'interno della tuta a protezione totale, Jon Smith si sottopose alle rigorose procedure di decontaminazione imposte a chiunque lasciasse la zona delimitata. Il processo consisteva nell'entrare in una catena di speciali roulotte, tutte collegate tra loro, e procedere attraverso una serie di docce chimiche ad alta pressione, spruzzi nebulizzati a carica elettrica e potenti impianti d'aspirazione sottovuoto. L'attrezzatura, prestata dall'aviazione militare e dalle unità di difesa Homeland Security WMD, era progettata per il trattamento delle contaminazioni biologiche, chimiche e nucleari. Nessuno era sicuro al cento per cento che il procedimento avrebbe neutralizzato i nanodispositivi che ora tutti temevano come la peste, ma era la procedura migliore a cui si era pensato di ricorrere nel limitatissimo tempo a disposizione dopo la strage. E poiché nessuno era ancora deceduto per contaminazione successiva al disastro, Smith era pronto a scommettere che quel sistema era assolutamente efficace, o che nella zona delimitata non era più rimasto alcun nanodispositivo attivo. Se non altro, l'estenuante procedimento gli dava l'opportunità di riflettere su ciò che aveva visto all'interno di quel che restava del Teller Institute. E questo, a sua volta, gli dava il tempo di formulare un'ipotesi agghiacciante su quanto era accaduto. Un'ipotesi che forse spazzava via tutte le teorie proposte negli ambienti dell'FBI e della CIA. Terminata finalmente la decontaminazione, Smith si tolse la pesante tuta a protezione totale, gettò tutto in uno speciale cassonetto a chiusura ermetica per materiale pericoloso, e si rivestì con i suoi indumenti personali. Ritirò la sua SIG-Sauer con fondina ascellare dal caporale della Guardia nazionale, dall'espressione a dir poco angustiata, che presidiava il posto di
controllo finale e uscì dall'area a divieto d'accesso. Era ormai metà pomeriggio. Il vento stava leggermente aumentando; soffiava giù dalle montagne boscose che si elevavano a est. Jon trasse un respiro profondo d'aria profumata di abeti, liberando il naso e i polmoni dell'ultimo fetore acidulo e persistente di prodotti chimici. Un giovanotto elegante e ordinato, dall'aria efficiente, abbigliato con un completo grigio antracite di taglio tradizionale, gli andò subito incontro. Aveva il contegno rigido e inespressivo prediletto dai recenti diplomati all'accademia dell'FBI. «Il dottor Smith?» Jon annuì cortesemente. «Esatto.» «La viceassistente del direttore Pierson la sta aspettando al centro di comando» disse il giovane azzimato. «Sarò lieto di scortarla fin là.» Smith nascose un sorriso sarcastico. Era chiaro che la donna che aveva sentito chiamare «la Regina d'inverno» aveva deciso di non correre alcun tipo di rischio con lui. Non gli avrebbe permesso di filarsela senza sentire prima quello che l'FBI pensava circa il fatto di avere un'altra agenzia di governo, nel suo caso il Pentagono, che si intrometteva nella giurisdizione altrui. Tenendo presente l'ammonimento di Fred Klein di agire con la massima discrezione, seguì il giovanotto senza protestare. Passarono attraverso un accampamento di roulotte e tendoni in costante aumento. Cavi elettrici e in fibre ottiche collegavano l'acquartieramento temporaneo. Parabole satellitari e centraline relè a microonde erano state posizionate e orientate tutt'intorno al perimetro esterno. Generatori di corrente mobili ronzavano nelle vicinanze, rifornendo tutto l'accampamento di energia elettrica di supporto ed energia ausiliaria. Smith rimase positivamente impressionato suo malgrado. Il centro di comando provvisorio era grande quasi quanto certi quartieri generali di divisione che aveva avuto modo di vedere nel corso dell'operazione Desert Storm, all'inizio della Guerra del Golfo, e funzionava molto meglio. Katherine Pierson poteva anche non brillare nel campo del fascino e della cordialità nei rapporti umani, ma era evidente che sapeva benissimo come organizzare un'operazione efficiente. La Pierson aveva ricavato il suo spazio di lavoro in uno dei tendoni più piccoli, in prossimità del margine esterno dell'area delimitata da nastri. La tenda era attrezzata in modo spartano con un tavolo e un'unica sedia, un cavo elettrico di collegamento per il PC portatile della Pierson, un apparecchio telefonico criptato, una lanterna elettrica da campeggio e una bran-
dina militare da campo. Smith si affrettò a sopprimere la propria sorpresa quando registrò mentalmente l'ultimo articolo. La Pierson faceva davvero sul serio? «Sì, dottor Smith» disse in tono asciutto la viceassistente del direttore dell'FBI, a cui non sfuggì il lampo quasi impercettibile negli occhi del suo interlocutore. «Intendo dormire qui.» Un sottile sorriso, privo di qualsiasi umorismo, passò fugacemente su un volto pallido, che Jon avrebbe potuto anche trovare attraente se il viso in questione avesse avuto e trasmesso un filo di vita in più. «Può darsi che sia un po' essenziale, ma è anche un posto assolutamente inaccessibile agli avvoltoi della carta stampata e della televisione, cosa che reputo una grande benedizione.» La donna parlò al di sopra della spalla del giovane agente che si attardava imbarazzato vicino alla falda scostata della tenda. «È tutto, agente Nash. Il tenente colonnello Smith e io faremo due chiacchiere in privato.» Ci siamo, si rese conto Jon, notando il riferimento intenzionale al suo grado militare. Decise allora di tentare di neutralizzare da subito le obiezioni della «Regina d'inverno» circa la sua presenza sul posto. «Prima di tutto desidero farle sapere che non sono qui per interferire in alcun modo nella sua inchiesta.» «Davvero?» ribatté la Pierson. I suoi occhi grigio chiaro avevano l'aspetto e la temperatura del ghiaccio vivo. «Mi sembra improbabile... A meno che lei non sia qui in veste di una specie di turista militare, nel qual caso la sua presenza è ugualmente sgradita.» Alla faccia dei convenevoli, pensò Smith, stringendo i denti. A quanto pareva, si sarebbe trattato più di un duello che di una discussione pacifica. «Ha letto senz'altro i miei ordini, e le relative autorizzazioni, madame. Sono qui semplicemente per osservare e fornire assistenza.» «Con tutto il dovuto rispetto, non mi serve nessun aiuto dal Comitato dei capi di stato maggiore riuniti o dal Servizio segreto dell'esercito... o da chiunque abbia in effetti emesso i suoi ordini» ribatté Katherine Pierson senza giri di parole. «Detto fra noi, non mi viene in mente nessun altro che potrebbe combinare guai più di lei, guai di cui non ho affatto bisogno.» Smith si trattenne un attimo e poi disse: «Davvero? In che modo?». «Anche solo esistendo» rispose la sua interlocutrice. «Forse le è sfuggito, ma Internet e i tabloid sono zeppi di voci secondo le quali il Teller Institute era il centro nevralgico di un programma militare segreto per la creazione di terribili armi nanotech.» «Ma sono tutte stronzate!» dichiarò Smith energicamente.
«Devo proprio crederle?» Smith annuì con decisione. «Ho supervisionato di persona tutti i programmi di ricerca che si svolgevano qui. Nessuno al Teller Institute stava lavorando su qualcosa che potesse, anche solo lontanamente, essere utile a livello militare.» «La sua presenza all'istituto è precisamente il mio problema, colonnello Smith» replicò la Pierson in tono glaciale. «Come intende spiegare a terzi il suo incarico di "supervisionare" questi progetti nanotech?» Smith si strinse nelle spalle. «Facile. Sono un dottore, a tutti gli effetti laureato in medicina, e sono anche un biologo molecolare. I miei interessi qui nel New Mexico erano puramente medici e scientifici.» «Puramente medici e scientifici? Non dimentichi che ho letto sia il verbale che ha rilasciato sia il suo file personale del Bureau» ribatté subito la Pierson. «Diciamo che per essere semplicemente un medico, è strano che lei sia così preparato a uccidere. L'addestramento alle armi e al combattimento corpo a corpo, perfino a mani nude, esulano giusto un pochino dal normale curriculum accademico e medico. Sbaglio?» Smith tenne la bocca chiusa, chiedendosi solo quanto la Pierson sapesse della sua carriera. Tutte le missioni per la Covert-One erano sepolte in modo assolutamente introvabile per la donna che aveva di fronte, ma il lavoro che aveva svolto per anni per l'Army Intelligence - il Servizio segreto dell'esercito americano - aveva senz'altro lasciato qualche traccia che la Pierson avrebbe potuto fiutare, così come il ruolo che aveva svolto nella risoluzione del caso «Fattore Hades». «Per venire al punto» proseguì la viceassistente del direttore dell'FBI «forse una persona su tre in questo Paese sarà abbastanza intelligente da capire la sua relazione di tipo medico al caso. Tutti gli altri, specie i cretini, vedranno soltanto la bella giubba militare dell'esercito che tiene chiusa nell'armadio. Quella con le foglie di quercia d'argento sulle spalline.» Katherine Pierson lo pungolò ripetutamente sul petto con la punta del lungo indice affusolato. «E questo, tenente colonnello Smith, è precisamente il motivo per cui non la voglio fra i piedi in questa inchiesta. Se anche solo un dannato reporter dovesse focalizzare l'attenzione su di lei, saremmo travolti da una vera valanga di guai. Il caso è già abbastanza complicato. Non ho nessuna intenzione di provocare un'altra rivolta di piazza dei militanti del Lazarus Movement, giusto come ciliegina sulla torta.» «Nemmeno io» le assicurò Smith. «Il che spiega perché ho pianificato di usare il massimo della discrezione.» Ton indicò il suo abbigliamento da
innocuo borghese: una grigia giacca a vento leggera, una polo verde e un paio di pratici pantaloni sportivi color kaki. «Finché starò qui sarò solo e semplicemente il dottor Smith... e non parlerò con nessun giornalista. In nessuna occasione.» «Questo non basta» ribatté la Pierson irremovibile. «E, invece, dovrà bastare» disse Jon con calma olimpica. Ci sarebbe voluto un bel po' per placare l'irritazione naturale della Pierson per il fatto di avere tra i piedi quell'intruso, ma non si sarebbe sottratto al suo dovere. «Se vuole lagnarsi con Washington» disse, «si accomodi. Nel frattempo, però, mi dovrà sopportare. Allora perché non sopportarmi accettando la mia offerta d'aiuto?» Gli occhi della Pierson si ridussero pericolosamente a due minacciose fessure. Per un istante Smith si chiese se fosse destinato alla cella della «custodia cautelare» sulla quale lo aveva avvertito l'agente Latimer. Poi la Pierson alzò leggermente le spalle. Il gesto fu talmente vago e leggero da passare quasi inosservato a Jon. «D'accordo, dottor Smith» disse con freddezza glaciale. «Per il momento faremo come dice lei. Ma nell'istante stesso in cui avrò il permesso di cacciarla a pedate, se ne andrà senza fare storie. Okay?» Smith annuì. «Affare fatto.» «Allora, se abbiamo finito, sono sicura che conosce la strada» suggerì la Pierson, controllando esplicitamente l'orologio. «Ho parecchie cose da fare.» Smith decise di punzecchiarla ancora un po'. «Prima devo farle alcune domande.» «Se proprio deve» replicò imperturbabile la viceassistente del direttore dell'FBI. «Che cosa ne pensano i vostri esperti della modalità, a dir poco strana, con cui le cariche esplosive sono state piazzate all'interno del laboratorio della Harcourt Biosciences?» domandò Jon. La Pierson inarcò un solo, perfetto sopracciglio. «Vada avanti» disse. Poi ascoltò attentamente l'ipotesi di Jon, secondo la quale le bombe nel laboratorio della Harcourt avevano unicamente lo scopo di sfondare i muri di contenimento del laboratorio scientifico, e non quello di distruggerlo completamente. Quando Jon ebbe terminato, Katherine Pierson scosse la testa con aria gelidamente divertita. «Devo dedurre che è anche un esperto di esplosivi, dottore?» «Li ho visti usare spesso» ammise Smith. «Però no, non sono un esper-
to.» «Be', ammettiamo per un momento che la sua intuizione sia esatta» disse la Pierson. «Con questo sta insinuando che la strage avvenuta all'esterno è stata un atto deliberato e cosciente. Che il piano dei terroristi era fin dall'inizio quello di liberare i nanofagi presenti nel laboratorio della Harcourt perché aggredissero chiunque fosse a portata di tiro. Il che significherebbe che il Lazarus Movement ha organizzato la manifestazione apposta per produrre da sé i suoi stessi martiri.» «Non esattamente» la corresse Smith. «Sto suggerendo che i mandanti di questa strage volevano che sembrasse proprio così.» Smith scosse il capo. «Ci ho riflettuto parecchio, fino a farmi scoppiare la testa. Posso inoltre affermare con assoluta certezza che i nanodispositivi sui quali stavano lavorando Brinker e Parikh non sono in nessun modo responsabili di quanto è avvenuto. È davvero impossibile.» Il volto della Pierson si fece quasi di pietra. «Mi spieghi meglio» disse, in tono inflessibile. «È impossibile... come?» «Ogni nanofago della Harcourt era portatore di sostanze biochimiche atte a eliminare delle specifiche cellule cancerogene, non certo per distruggere tutti i tessuti organici vivi» spiegò Smith. «Inoltre, ogni singolo fago era microscopico. Ce ne sarebbero voluti milioni, forse decine di milioni, per infliggere il tipo di danni devastanti che ho visto coi miei stessi occhi. Moltiplichi la quantità di fagi necessaria per il numero delle vittime e arriviamo a miliardi di nanofagi, forse addirittura decine di miliardi. Questi numeri non corrispondono ai "prototipi" che gli scienziati della Harcourt avevano probabilmente "creato" in laboratorio con l'ausilio delle loro sofisticatissime attrezzature. Non dimentichi che la loro ricerca era esclusivamente concentrata sulla progettazione, l'ingegneria e la sperimentazione di quel che speravano sarebbe stato un autentico miracolo nel campo della medicina applicata. Non erano organizzati per la produzione di massa.» «È in grado di dimostrarlo?» domandò la Pierson. Il suo viso era ancora una maschera indecifrabile. «Senza le registrazioni di dati informatizzate?» Smith scosse il capo. «Non ho raccolto prove sufficienti per un'aula di tribunale, ma sono stato in quel laboratorio quasi ogni giorno e so per certo cosa ho visto e cosa non ho visto.» Jon fissò con curiosità la donna dai capelli neri e dalla carnagione chiara, per vedere se sarebbe giunta o meno alle sue stesse conclusioni. Invece, Katherine Pierson non fece commenti. La sua bocca era una riga
sottile, tesa, le labbra serrate. I suoi occhi sembravano fissi su un punto lontano, da qualche parte oltre gli angusti confini della sua tenda. «Capisce che cosa significa, vero?» disse Smith con una certa urgenza. «Vuol dire che i terroristi sono venuti al Teller Institute con i loro nanodispositivi, creati e progettati fin dall'inizio per massacrare migliaia di persone. Chiunque siano i colpevoli, è assolutamente evidente che non c'entrano nulla con il Lazarus Movement. A meno che non si pensi che il movimento abbia a disposizione dei sofisticati laboratori scientifici nanotech privati!» Finalmente la Pierson tornò a rivolgere lo sguardo al suo interlocutore. Un muscolo sul lato destro del viso si contrasse nervosamente. La donna aggrottò le sopracciglia. «Se la sua ipotesi è esatta, quello che afferma potrebbe essere vero, dottore.» Poi scosse risolutamente la testa. «Ma è un "se" ciclopico, e non sono ancora pronta a passare sopra a tutte le altre prove del coinvolgimento del Lazarus Movement.» «Quali altre prove?» domandò Smith in tono tagliente. «Avete identificato in modo certo i terroristi uccisi da me e dal sergente Diaz? Devono pur esserci dei riscontri identificativi in qualche archivio informatico di qualche agenzia governativa. Quei tipi erano professionisti. Per di più erano professionisti che avevano accesso ai programmi e alle procedure operative del Servizio segreto presidenziale, e per giunta ai livelli più alti. Gente del genere non ciondola agli angoli delle strade in cerca di lavoro.» Di nuovo, la Pierson non rispose nulla. «E che cosa mi dice dei veicoli utilizzati dai terroristi?» la incalzò Jon. «Quei grossi SUV neri con cui sono venuti e se ne sono andati? Quelli posteggiati fuori dall'istituto? I suoi agenti non sono ancora riusciti a rintracciare chi li ha procurati?» Katherine Pierson esibì un sorrisino glaciale. «Conduco l'inchiesta con metodologia organizzata, colonnello Smith. Con questo voglio dire che non me ne vado in giro a spifferare prematuramente i risultati di ogni singola indagine separata. Quindi, finché non avrò convinto i pezzi grossi a sbatterla fuori di qui, partecipi pure senza problemi a tutte le riunioni informative attinenti. Quando avrò dei fatti appurati da condividere con lei sarà là che li sentirà. Fino ad allora le consiglio caldamente di esercitare la virtù della pazienza.» Dopo che Smith ebbe lasciato la tenda, Kit Pierson si alzò dalla scrivania e restò in piedi a riflettere sulle folli asserzioni avanzate dal dottore.
Quel militare tanto sicuro di sé aveva forse ragione? Gli agenti operativi di Hal Burke avevano deliberatamente diffuso il loro mortale flagello privato di nanodispositivi assassini? La donna scosse bruscamente la testa, scacciando l'orrendo pensiero. Era impossibile. Per forza! Impossibile. Le vittime all'esterno dell'istituto erano assolutamente impreviste. Né più né meno. E le persone uccise all'interno dell'istituto?, le chiese a gran voce la sua coscienza. Che dire di loro? Vittime di guerra, si rispose con somma freddezza, sforzandosi di crederci davvero. Non c'era nulla da guadagnare sprecando tempo a lottare con sensi di colpa o rimorsi. Aveva problemi più urgenti di cui occuparsi, il primo dei quali era il tenente colonnello Jon Smith. A prescindere da quanti avvertimenti e consigli gli avesse dato, il dottore non le era affatto sembrato un uomo che si sarebbe accontentato di tenersi in disparte. Kit aggrottò le sopracciglia, incupendosi. Tutto dipendeva dalla sua capacità di mantenere il controllo esclusivo delle indagini. Avere uno come Smith che se ne andava in giro ad avanzare con convinzione ipotesi che contraddicevano la linea ufficiale da lei propugnata era inaccettabile. E pericoloso. Per lei, per Hal Burke e per tutta la squadra speciale Tocsin. Non aveva creduto per un solo istante che Smith stesse lavorando esclusivamente in veste di osservatore scientifico e di ufficiale di collegamento per l'USAMRIID (United States Army Medical Research Institute of Infections Diseases) o il Comitato dei capi di stato maggiore riuniti. Era militarmente troppo preparato ed esperto. Nei file dell'FBI che aveva personalmente esaminato c'erano anche troppe lacune. Troppi vuoti inspiegabili. Perciò, chi erano i veri superiori di Smith? La Defense Intelligence Agency? L'Army Intelligence? O uno degli altri gruppi clandestini speciali al servizio del governo degli Stati Uniti? La viceassistente del direttore dell'FBI sollevò la cornetta del telefono di sicurezza a linea criptata e compose il numero di un telefono cellulare a sette cifre. «Parla Burke.» «Sono Kit Pierson. C'è un problema. Voglio che svolga una ricerca dettagliata sul passato, la formazione e la carriera di un certo tenente colonnello Jonathan Smith, ufficiale dell'esercito americano.» «Questo nome mi fa suonare in testa un campanello d'allarme» dichiarò in tono acido il suo omologo della CIA. «Infatti dovrebbe» ribatté Kit. «Si tratta di quel "dottore" che è riuscito
ad ammazzare una buona metà della sua squadra speciale di elementi accuratamente selezionati.» Capitolo 17 Impianto di produzione nanotecnologica top secret, Centro Per una persona esterna era praticamente impossibile introdursi nelle aree di massima sicurezza di quello che veniva chiamato il «Centro». Nessuno, tra quanti lavoravano all'interno, sentiva il profumo di salsedine dell'oceano vicino o udiva il frastuono degli aviogetti che aumentavano i giri, portando i reattori al massimo, per prepararsi al decollo. Tutto era incontaminato, silenzioso e assolutamente sterilizzato. Perfino nelle aree esterne all'immenso complesso in cui aveva sede il laboratorio scientifico top secret, tecnici e scienziati si muovevano con oculata e attenta precisione, indossando camici e grembiuli da chirurghi, occhiali di sicurezza e cappucci di poliestere aderenti, che assomigliavano molto alle cotte di maglia in ferro degli antichi cavalieri Franchi. Tutti parlavano sottovoce. Tutto il lavoro di scrittura veniva svolto esclusivamente su base informatica. Nessun foglietto o appunto su carta, nessun libro di consultazione era concesso all'interno di una qualunque delle innumerevoli aree sterilizzate. Il rischio di contaminazione per via aerea da particolato o pulviscolo era troppo elevato. Qualsiasi movimento in prossimità dell'ambiente di Classe-10 nel nucleo di produzione centrale stesso implicava procedure di sterilizzazione e di vestizione con abbigliamento speciale ancora più rigide. Piccole celle a tenuta d'aria ed elaborati impianti di filtrazione dell'aria collegavano ogni locale. Elenchi dei controlli a cui sottoporsi erano affissi sopra ogni porta delle camere a tenuta d'aria, e vi erano ovunque guardie giurate armate alle quali era stato ordinato di assicurarsi che ogni fase cautelativa fosse seguita alla lettera e nel giusto ordine. Nessuno voleva rischiare di contaminare i serbatoi di produzione dei nanofagi. I fagi in via di sviluppo erano troppo delicati, troppo vulnerabili a ogni minimo cambiamento del loro ambiente vitale: un microclima da laboratorio tenuto rigidamente sotto controllo. Dopo tutto, nel laboratorio top secret, nessuno era disposto a rischiare di esporsi senza una protezione più che adeguata ai nanofagi nella loro forma finita. Tre uomini erano seduti a un tavolo di consiglio in una delle salette e-
sterne al nucleo centrale. Stavano analizzando i dati sperimentali e operativi raccolti fino a quel momento dagli «eventi» accaduti nello Zimbabwe e nel New Mexico. Due di loro erano specialisti di nanotecnologia e figuravano tra i più brillanti scienziati molecolari del mondo. Il terzo, molto più alto dei suoi compagni e dalle ampie spalle, era dotato di capacità e talenti molto diversi. Il colosso, il terzo membro dei sedicenti «Orazi», si faceva chiamare Nones. «I rapporti preliminari pervenutici da Santa Fe indicano che i nostri dispositivi Stage II si sono attivati all'interno degli organismi di un campione compreso tra il venti e il trenta per cento delle persone esposte al contagio» commentò il primo scienziato. Le sue mani inguantate svolazzarono con grazia sopra una tastiera da PC, facendo comparire un diagramma sul monitor al plasma che avevano davanti. «Come potete vedere, la percentuale eccede le nostre proiezioni iniziali. Ritengo che possiamo affermare con certezza che la nostra modifica al fago di controllo sia fondamentalmente valida.» «Concordo» intervenne il suo collega. «È anche chiaro che le "bombe" biochimiche Stage II sono di gran lunga meglio bilanciate di quelle usate a Kusasa, e hanno raggiunto un tasso di dissoluzione dei tessuti e delle ossa significativamente più alto.» «Ma siete in grado di aumentare la percentuale di mortalità dei nanodispositivi?» domandò in tono brusco l'erculeo Nones. «Conoscete i requisiti pretesi dal nostro committente. Sono categorici. Un'arma che divori vive meno di un terzo delle vittime predestinate non lo soddisferà appieno.» Sotto le maschere che indossavano, i due scienziati corrugarono la fronte e la bocca in un'espressione disgustata alla rozza scelta di vocaboli da parte del terzo membro degli «Orazi». Preferivano considerarsi dei chirurghi impegnati in una ricerca di estremo valore scientifico, per quanto dichiaratamente sgradevole. Dei volgari promemoria che tutti i loro sforzi erano mirati all'omicidio su scala elevata non erano necessari né tanto meno graditi. «Ebbene?» chiese Nones. I suoi occhi, di un color verde intenso, mandavano lampi da dietro gli occhiali di sicurezza. Era ben consapevole del fatto che i suoi due interlocutori detestassero quei discorsi. Di tanto in tanto, lo divertiva parecchio sfregare i loro nasi puliti e posati su torri d'avorio nel letame e nel fango della loro missione. «Ci aspettiamo che la struttura dei fagi Stage III e i relativi controlli producano rendimenti molto più alti» assicurò lo scienziato molecolare di
grado più elevato. «L'assortimento di sensori Stage II era limitata dal punto di vista quantitativo e tipologico. Aggiungendo dei sensori supplementari, configurati per diverse "firme" biochimiche, siamo in grado di aumentare considerevolmente il numero dei potenziali bersagli.» L'uomo dagli occhi verdi annuì, segnalando di aver capito. «Siamo anche stati in grado di incrementare la resa di ogni fonte energetica interna al nanofago» riferì il secondo scienziato. «Prevediamo un aumento coordinato nella loro durata di vita media effettiva e nel loro raggio d'azione operativo.» «E per quanto riguarda il problema della contaminazione della zona?» domandò Nones. «Avete visto le precauzioni relative alla sicurezza che sono state adottate all'esterno del Teller Institute.» «Gli americani sono fin troppo prudenti» disse il primo scienziato in tono sprezzante. «La maggior parte dei nanofagi Stage II sono ormai completamente inattivi.» «I loro timori non sono pertinenti» ribatté in tono gelido l'uomo dagli occhi verdi. «Le richieste del nostro committente invece lo sono, eccome. Vi è stato chiesto di produrre un meccanismo di autodistruzione affidabile per i fagi Stage III, non è così?» Il secondo scienziato annuì frettolosamente, avvertendo l'implicita minaccia nella voce di Nones. «Sì, certo. E ci siamo riusciti.» Il biologo molecolare cominciò a digitare sulla tastiera del computer, facendo passare sul monitor svariate bozze e progetti. «Trovare lo spazio necessario all'interno del "guscio" è stato davvero complicato. Ma alla fine siamo riusciti a...» «Mi risparmi i dettagli tecnici» disse senza peli sulla lingua il terzo membro degli «Orazi». «Ma potete comunque trasmetterli direttamente al nostro comune committente, se proprio vi va. Io mi preoccupo esclusivamente delle questioni pratiche. Se le armi biochimiche che state creando in laboratorio per conto nostro uccidono con rapidità, efficacia e affidabilità, non sento alcun bisogno di capire precisamente come funzionano.» Capitolo 18 Chicago, Illinois Numerosi faretti dalla luce abbagliante trasformavano la notte in un'imitazione del giorno lungo gran parte del margine occidentale del campus di
Hyde Park, facente parte dell'Università di Chicago. Erano predisposti perché illuminassero la facciata in pietre marroni e grigie dell'IRB - Interdivisional Research Building - il Centro ricerche interfacoltà, di recente costruzione. L'edificio era una struttura mastodontica di cinque piani, contenente oltre ottomila metri quadrati destinati a laboratori scientifici e di ricerca. Una quantità di roulotte e di casette prefabbricate dell'impresa di costruzioni bloccava ancora gran parte dei marciapiedi e delle aree verdi lungo il lato sud della 57a Strada e il lato est di Drexel Boulevard. Luci e faretti erano sparsi un po' ovunque nell'immenso edificio, mentre elettricisti, carpentieri, falegnami, lattonieri, muratori e altri manovali lavoravano giorno e notte per portare a termine il ciclopico progetto edile. Gli scienziati dell'Università di Chicago avevano svolto un ruolo decisivo nei principali progressi tecnologici e scientifici del Ventesimo secolo, praticamente in ogni campo: dallo sviluppo del sistema di datazione al carbonio-14 all'avvento dell'energia nucleare controllata. Ora l'ateneo era ben deciso a mantenere il suo vantaggio competitivo nelle nuove discipline scientifiche del Ventunesimo secolo. L'IRB era la pietra angolare di questo faticoso sforzo. Quando l'edificio sarebbe stato completato e reso agibile, fisici e biologi avrebbero condiviso i laboratori e gli impianti all'avanguardia al suo interno. Si puntava sul fatto oggettivo che lavorare gomito a gomito li avrebbe aiutati a trascendere i limitati e sempre più incerti confini tra le due tradizionali discipline scientifiche. Quasi un miliardo di dollari in donazioni private e societarie era stato raccolto per sostenere il costo della costruzione, acquistare i materiali high-tech necessari e garantire il finanziamento della prima ondata di nuovi progetti scientifici. Una delle sovvenzioni aziendali più consistenti era arrivata dalla Harcourt Biosciences, specificamente per sovvenzionare l'acquisto di un impianto di un complesso nanotech all'avanguardia. Ora, in seguito alla distruzione del suo laboratorio speciale al Teller Institute di Santa Fe, la direzione della società considerava il laboratorio all'IRB dell'Università di Chicago un rimpiazzo necessario, oltre che un segnale dell'immutabile determinazione dell'azienda di proseguire il lavoro sulle nanotecnologie. All'interno del vasto complesso che ospitava il laboratorio scientifico, tecnici e squadre di specialisti erano impegnati a installare computer, microscopi a scansione elettronica, manipolatori a distanza, impianti di pressurizzazione e filtrazione dell'aria, sistemi di stoccaggio chimico e altre costose attrezzature. Jack Rafferty iniziò il suo turno con un sorriso smagliante e il passo
scattante. L'elettricista, un tipetto smilzo e bassino, aveva trascorso il tempo da pendolare, dalla sua casa di periferia a La Grange fino a Chicago, a calcolare quanto gli sarebbe finito in tasca in straordinari lavorando in quel cantiere. Aveva stimato che avrebbe potuto pagare l'iscrizione e la retta di un anno alla scuola parrocchiale per entrambi i gemelli, e gli sarebbe rimasto abbastanza per comprarsi la Harley-Davidson su cui si stava lustrando gli occhi da più di un anno. Il sorriso a trentadue denti si attenuò fino a scomparire del tutto non appena l'elettricista mise piede nel laboratorio. Perfino dalla soglia si accorse che qualcuno aveva combinato un disastro con i collegamenti elettrici che lui stesso aveva finito di sistemare soltanto il giorno prima. I quadri generali a parete erano stati lasciati con gli sportelli aperti, e con grovigli di fili elettrici d'ogni colore scompigliati ed esposti in bella vista. Spirali e cappi disordinati di cavi elettrici isolati pendevano alla rinfusa da buchi slabbrati, tagliati grossolanamente nei pannelli da controsoffitto nuovi fiammanti. Rafferty imprecò a denti stretti, poi si precipitò come una furia dal sovrintendente di turno, un affabile omone di nome Koslov. «Ehi, Tommy... cos'è questa roba? Qualcuno ha cambiato le specifiche dell'impianto elettrico?» Il sovrintendente controllò il raccoglitore a molla e scosse il testone. «Che io sappia, no, Jack.» Rafferty corrugò la fronte. «Allora forse sai dirmi perché Levy ha maneggiato nel mio lavoro lasciando questo immane casino?» Koslov alzò le spalle. «Non è stato Levy. Mi è stato riferito che è a casa in malattia ed è stato sostituito da una coppia di tizi nuovi.» Il sovrintendente si guardò intorno. «Li ho visti qui in giro meno di un quarto d'ora fa. Mi sa che se la sono sbrigata in fretta e hanno finito prima del previsto.» L'elettricista roteò gli occhi. «Fantastico! Probabilmente erano crumiri extrasindacali. O forse solo due raccomandati del cavolo!» Rafferty si allacciò in vita il cinturone degli attrezzi e indossò il casco antiurto di sicurezza. «Mi ci vorrà almeno metà del mio turno solo per rimettere a posto e ripulire, Tommy. Perciò non voglio sentire sparlare nessuno per il ritardo sul programma di lavoro. Chiaro?» «Non sarò certo io a lamentarmi» promise Koslov, tracciandosi vistosamente una croce sul cuore con una manaccia simile alla zampa di un orso. Soddisfatto per il momento, Rafferty si mise al lavoro, cercando di districare, per prima cosa, il groviglio di cavi che i sostituti di Levy si erano lasciati alle spalle in tutti i muri. Esaminò l'interno di un quadro generale a
parete, dirigendo il raggio di luce di una pila a stilo in uno spazio ristretto pieno di fili elettrici a fascio, tubi e condotti di ogni tipo e dimensione. Un pezzo di filo elettrico verde slegato dal resto attirò la sua attenzione. Che diavolo era? Rafferty provò a tirare con cautela il filo. All'altro capo si avvertiva una certa resistenza. Lentamente, districò il filo, arrotolandolo su due dita e manovrandolo con estrema prudenza nel groviglio di fili e di tubi, ricorrendo alle sue dita lunghe e sottili per guidarlo oltre le ostruzioni e i punti difficili. Il capo opposto del filo entrò nel suo campo visivo. Era inserito in un blocco pesante di quello che sembrava un composto plasmabile grigio. Una specie di plastilina. Perplesso, Rafferty fissò sotto di sé per diversi secondi lo strano blocco a mattone, chiedendosi che cosa potesse essere. Poi qualcosa gli scattò nella mente e capì. Impallidì quasi all'istante. «Gesù benedetto... ma... questo è esplosivo al plastico!» Le sei cariche piazzate all'interno e intorno al complesso del futuro laboratorio di nanotecnologia esplosero simultaneamente. Un accecante bagliore bianco lacerò i muri e il soffitto. La prima, terrificante onda d'urto dilaniò Rafferty, Koslov e gli altri manovali presenti all'interno del laboratorio, facendoli letteralmente a pezzi. Un muro di fiamme e di aria surriscaldata ruggì nei corridoi adiacenti dell'edificio terminato a metà, incenerendo tutto e tutti strada facendo. L'immensa forza dell'esplosione si propagò verso l'esterno e distrusse travi e putrelle di sostegno d'acciaio e cemento, spezzandole come fiammiferi. Un intero lato dell'IRB vibrò, prima lentamente poi sempre più veloce, si piegò su se stesso verso l'interno, in una stridente cacofonia di acciaio che si torceva, piegava e spaccava, poi crollò. Masse di pietra sbriciolata e di metallo ritorto come semplice lamiera precipitarono a implosione nel Quadrilatero della Scienza, la piazza interna del vasto complesso edile. Una densa e soffocante nube di fumo, cemento polverizzato e polvere salì a volute ribollenti verso il cielo, illuminata spaventosamente dall'interno dalle luci superstiti del cantiere. Un'ora dopo, e a dieci isolati di distanza, i tre leader di una cellula operativa del Lazarus Movement con base a Chicago si riunirono in fretta e furia nell'appartamento all'ultimo piano di un palazzo residenziale con la facciata di arenaria rossa di Hyde Park. Ancora visibilmente scossi, i due uomini e la donna, tutti intorno ai trentacinque anni, restarono in piedi impalati davanti al televisore, in salotto, a seguire i servizi trasmessi in diretta su
tutti i canali televisivi locali e nazionali. Tute da manovale edile con tanto di marchi di imprese di costruzioni, elmetti di protezione, cassette e cinturoni per attrezzi, e tesserini di identificazione falsi che i tre avevano laboriosamente raccolto nel corso di quattro mesi di intensa programmazione erano ammucchiati su un tavolo nella sala da pranzo alle loro spalle. Una voluminosa cartelletta era appoggiata sopra quel mucchio: conteneva le piante e le planimetrie dell'IRB scaricate prima su computer e poi su supporto cartaceo direttamente dal sito web dell'Università di Chicago. Barattoli di vetro a chiusura ermetica contenenti liquidi dall'odore fetido, bombolette di vernice spray e striscioni del Lazarus Movement arrotolati con cura erano stipati in scatole di cartone ammassate sul parquet, accanto al tavolo. «Ma chi è stato?» chiese Frida McFadden con la voce resa più alta dal senso di confusione che provava. Continuò a succhiare e mordicchiare nervosamente un paio di ciocche della sua folta capigliatura di capelli lisci tinti di verde. «Chi ha fatto saltare in aria l'IRB? Uno dei nostri militanti più radicali? Gli ordini che ci riguardavano sono arrivati direttamente dal vertice, da "Lazzaro" stesso.» «Non ne ho la più pallida idea» rispose il suo ragazzo con aria cupa. Bill Oakes era ancora occupato ad abbottonarsi la camicia che si era frettolosamente infilato quando il telefono era squillato per la prima volta, portando con sé quella notizia terribile. Bill scosse i lunghi capelli biondi da hippie e li scostò dagli occhi con un gesto spazientito. «Però sono sicuro di una cosa: dobbiamo far sparire tutta l'attrezzatura che avevamo in programma di usare per la nostra missione. E alla svelta. Prima che gli sbirri vengano a bussare con insistenza alle porte di ogni sezione del movimento.» «Merda» borbottò il loro compagno, un tipo ben piantato e terzo membro della loro cellula operativa. Rick Avery si accarezzò pensierosamente la barba, grattandosi il mento. «Ma dove possiamo gettarla senza creare problemi? Nel lago?» «Nel lago la troverebbero di sicuro» disse alle loro spalle una voce tranquilla che pronunciò quelle parole in tono di scherno. «E comunque non passereste inosservati se gettaste la roba in acqua.» Spaventati, i tre militanti del Lazarus Movement si voltarono di scatto. Nessuno di loro aveva udito aprire o chiudere la porta dell'appartamento, che era stata chiusa a chiave a doppia mandata. Si ritrovarono a fissare un uomo d'altezza fuori della media e dalla corporatura decisamente robusta,
che li fissava a sua volta dal corridoio centrale che separava il salotto dalla sala da pranzo. Lo sconosciuto indossava un cappotto pesante di lana. Oakes fu il primo a riprendersi dalla sorpresa. Fece un passo in avanti, sporgendo la mandibola e il mento con aria bellicosa. «E tu chi cazzo sei?» «Potete chiamarmi Terce» rispose in tono tranquillo l'uomo dagli occhi verdi. «E ho qui qualcosa da darvi... un regalino.» La mano del tipo erculeo uscì con un gesto fluido dalla tasca del cappotto. Terce puntò la Walther 9mm munita di silenziatore verso i tre militanti inebetiti. A Frida McFadden sfuggì un piccolo urlo sommesso di paura allo stato puro. Avery restò fermo, come colpito da improvvisa paralisi, con la punta delle dita della mano sinistra ancora impigliate nella barba. Solo Bill Oakes ebbe la presenza di spirito di parlare. «Se sei uno sbirro» balbettò, «facci vedere il mandato.» Il colosso sorrise cortesemente. «Ahimè, non sono un poliziotto, signor Oakes.» Oakes sentì un brivido percorrergli la spina dorsale nell'ultimo istante di vita che gli restò prima che la Walther tossicchiasse. Il proiettile lo colpì in mezzo alla fronte e lo uccise immediatamente. Il ragazzo cadde all'indietro contro il televisore acceso. Il secondo membro dei sedicenti «Orazi» spostò leggermente la pistola a sinistra e premette di nuovo il grilletto. Avery emise un solo gemito e crollò sulle ginocchia, tentando disperatamente e inutilmente di tamponare con le mani il flusso di sangue che gli sgorgava a fiotti dalla carotide perforata. L'uomo massiccio dai capelli castano chiaro premette il grilletto una terza volta, colpendo con precisione alla testa il giovane attivista barbuto. Cinerea d'orrore, Frida McFadden si voltò e tentò di scappare nella camera da letto. Il muscoloso gigante le sparò alla schiena. La ragazza inciampò, cadde scompostamente sopra un futon in stile giapponese, e giacque gemente, scossa da fremiti di dolorosa agonia. L'assassino ripose la pistola nella tasca del cappotto, fece qualche passo in avanti, le prese la testa tra le braccia possenti come per cullarla, dopodiché diede un forte strattone, torcendole il collo che si ruppe con uno schiocco spaventoso. Terce esaminò i tre corpi, accertandosi della loro morte. Soddisfatto, tornò verso la porta d'ingresso dell'appartamento e la aprì. Due dei suoi uomini lo stavano aspettando sul pianerottolo. Entrambi reggevano un paio di pesanti valigie. «Fatto» li informò il gigante. Poi si fece da parte e li lasciò passare. Né l'uno né l'altro persero tempo a guardare i cadaveri. Chiunque lavorasse a
stretto contatto con uno dei tre «Orazi» si abituava rapidamente alla vista della morte. Senza perdere tempo, cominciarono ad aprire le valigie e a estrarne il contenuto, sistemando sul tavolo della sala da pranzo pacchetti di esplosivo al plastico, detonatori e timer. Uno dei due, un tipo basso e tarchiato, dai lineamenti slavi, indicò il vestiario, le planimetrie dell'edificio, le sostanze chimiche e le bombolette di vernice spray ammucchiate sul tavolo o riposte nelle scatole di cartone sul pavimento di legno. «Cosa facciamo di questa roba, Terce?» «Riponetela nelle valigie» ordinò l'uomo dagli occhi verdi. «Ma lasciate le tute e gli elmetti da muratore, e anche i tesserini di identificazione falsi. Metteteli accanto al materiale per la fabbricazione di ordigni esplosivi che lasceremo qui.» Lo slavo scrollò le spalle. «Questo giochetto non ingannerà per molto i poliziotti, lo capisci anche tu. Quando gli investigatori americani effettueranno gli esami del caso non troveranno residui di sostanze chimiche su nessuna delle tre vittime.» Il tipo erculeo annuì. «Lo so.» Poi esibì un sorriso agghiacciante. «Ma in fondo, il tempo è dalla nostra parte... e contro di loro.» Le luci nel bar dell'aeroporto internazionale O'Hare erano soffuse, in netto contrasto con le file di accecanti tubi fluorescenti che splendevano nei corridoi e nelle sale d'attesa dei passeggeri in partenza, appena fuori dal locale. Perfino a un'ora così tarda il bar era abbastanza affollato, dato che i viaggiatori, privati delle ore di sonno e intontiti dal cambiamento di fuso orario, trovavano sollievo nella pace, nel relativo silenzio e nell'alcol. Hal Burke era seduto con aria scontrosa a un tavolo d'angolo, a sorseggiare il Cuba Libre che aveva ordinato mezz'ora prima. Il suo volo di linea per Dallas, nel Texas, avrebbe imbarcato i passeggeri di lì a pochi minuti. Burke alzò lo sguardo quando Terce si sedette agilmente sulla sedia di fronte, al suo stesso tavolo. «Ebbene?» Il gigante gli mostrò i denti, era evidente che era molto compiaciuto. «Non ci sono stati problemi» disse il membro degli «Orazi». «Le informazioni che avevamo erano precise in ogni minimo dettaglio. La cellula operativa di Chicago del Lazarus Movement adesso è priva di leader.» Burke esibì un sorrisino acido. Le fonti accreditate del loro creatore all'interno del movimento erano state uno dei motivi principali per cui aveva deciso di coinvolgere nella squadra speciale Tocsin i misteriosi «Ora-
zi», tre personaggi oscuri e spietati, al limite del disumano. Sebbene lo irritasse ammetterlo, quelle fonti, o per meglio dire «talpe», erano migliori di qualsiasi rete segreta era personalmente stato capace di sviluppare. «Gli agenti della polizia di Chicago vedranno quel che si aspettano di vedere» proseguì Terce. «Esplosivi al plastico, detonatori e tesserini di identificazione falsi.» «Più tre morti stecchiti» sottolineò l'agente speciale della CIA. «I piedipiatti potrebbero farsi qualche domandina su quell'insignificante particolare.» Il suo interlocutore si strinse nelle spalle taurine, in una fugace e sprezzante scrollatina. «I movimenti radicali che ricorrono ad atti di terrorismo si cannibalizzano spesso» dichiarò. «Probabilmente la polizia riterrà che i tre morti siano stati percepiti come anelli deboli dai loro stessi compagni. Oppure potrebbero sospettare che ci sia stato un aspro disaccordo, con conseguente scontro tra diverse fazioni all'interno del Lazarus Movement.» Burke annuì. Ancora una volta, il gigante dai capelli castani aveva ragione. «Che cazzo... Succede!» convenne. «Metti un branco di estremisti svitati forniti di armi nello stesso spazio ristretto e sotto forte pressione... Be', se qualcuno di loro perde il lume della ragione e si incazza come una iena con gli altri... non è certo la prima volta che capita. Non sarebbe una novità.» L'agente speciale della CIA bevve un altro piccolo sorso di Cuba Libre. «In ogni caso, almeno sembrerà che l'attentato dinamitardo all'IRB fosse in progetto da mesi» borbottò. «Questo dovrebbe servire a convincere Castilla che la strage del Teller è farina del sacco del Lazarus Movement, dalla A alla Z. Che è stato un segnale d'inizio in codice per quei bastardi, un modo per radicalizzare la loro base d'appoggio... lo zoccolo duro del movimento... e nel contempo legarci mani e piedi a livello politico. Con un pizzico di fortuna, il presidente si deciderà finalmente a definire il Lazarus Movement un'organizzazione terroristica a tutti gli effetti.» Il secondo membro degli «Orazi» sorrise dubbiosamente. «Può darsi.» Burke strinse i denti. La vecchia cicatrice sul lato del collo si fece bianca mentre i tratti del volto si tendevano allo spasimo. «Abbiamo un altro problema più urgente da risolvere» disse. «Ancora a Santa Fe.» «Un problema?» domandò Terce. «Il tenente colonnello Jonathan Smith, medico e biologo molecolare» lo informò l'agente della CIA. «Sta creando scompiglio e facendo domande estremamente imbarazzanti.»
«Nel New Mexico abbiamo ancora un'unità di sicurezza» si azzardò a dire Terce con prudenza. «Bene.» Burke si scolò d'un fiato l'ultimo sorso di Cuba Libre. Poi si alzò in piedi. «Fammi sapere quando sono pronti a muoversi. E fallo al più presto. Voglio Smith morto prima che qualcuno nelle alte sfere della gerarchia di comando cominci a prestargli attenzione.» Capitolo 19 Venerdì 15 ottobre Santa Fe Il sole mattutino stava filtrando a raggi inclinati dalle finestre della sua camera d'albergo, quando il cellulare di Jon Smith trillò. Lui depose la tazza di caffè sul bancone del cucinotto. «Sì?» «Dia subito un'occhiata alle ultime notizie» gli consigliò Fred Klein. Smith spinse da parte il piatto della colazione consumata a metà, girò verso di sé il computer portatile, lo accese e si collegò immediatamente a Internet. Con crescente incredulità, lesse i titoli delle notizie dell'ultima ora che scorrevano in elenco cronologico sul monitor. La notizia apriva i servizi di ogni sito web giornalistico. L'INDAGINE DELL'FBI SULLA STRAGE INCHIODA IL LAZARUS MOVEMENT!, titolava il sito di un noto quotidiano. UN MILITANTE DEL LAZARUS MOVEMENT AVEVA ACQUISTATO I SUV USATI PER LA FUGA!, trillava un altro. Ogni articolo dava più o meno le stesse notizie. Fonti accreditate all'interno dell'inchiesta condotta dall'FBI su quella che tutti ormai chiamavano la «strage del Teller» confermavano che un attivista di lunga data del Lazarus Movement, un uomo di Albuquerque, aveva acquistato i SUV utilizzati dai falsi agenti del Servizio segreto presidenziale, usando all'incirca centomila dollari in contanti. Poi, poche ore dopo l'attentato all'istituto, Andrew Costanzo era stato visto dai suoi vicini partire da casa con una valigia sospetta caricata sul sedile posteriore della sua automobile. Foto segnaletiche di Costanzo e un suo sommario identikit erano stati diffusi a ogni agenzia federale, statale e locale delle forze dell'ordine. «Interessante, vero?» disse nell'orecchio di Smith il direttore della Covert-One. «Si potrebbe usare qualche altro aggettivo» commentò l'altro sarcasticamente. «Se non altro il suo è pubblicabile.»
«Presumo che sia la prima volta che sente parlare di questa notevole svolta nell'indagine» mormorò Klein. «Presume bene» ribatté Smith, aggrottando le sopracciglia. Poi ripensò alle riunioni informative dell'FBI a cui aveva partecipato. Né la Pierson né i più stretti collaboratori della «Regina d'inverno» avevano anche solo accennato a qualcosa di così potenzialmente incendiario. «È una fuga di notizie reale o è frutto della fantasia di un giornalista?» «Pare sia attendibile» disse Klein. «Il Bureau non si sta neppure scomodando a smentire la notizia.» «Non si sa niente della fonte che ha spifferato l'informazione? È stato qualcuno che opera qui a Santa Fe? Oppure a Washington?» «Non ne ho la più pallida idea» rispose il direttore della Covert-One. Poi ebbe un attimo d'esitazione. «Le dirò che nessuno a Washington ha l'aria di essere particolarmente scocciato per questo sviluppo imprevisto.» «Ci credo.» A giudicare dall'impazienza della gelida Kit Pierson di ignorare i suoi inquietanti interrogativi il giorno prima, Smith capì quanto l'FBI dovesse essere compiaciuto di venirsene fuori con una prova schiacciante che metteva in relazione la distruzione del Teller Institute con il Lazarus Movement. L'ipotesi avrebbe acquisito ulteriore credibilità e fondatezza dopo gli attentati terroristici della notte appena trascorsa avvenuti in California e a Chicago. Aver inchiodato Andrew Costanzo doveva essere sembrata una manna piovuta dal cielo. «Che cosa ne pensa, colonnello?» domandò Klein. «Non mi convince» dichiarò Smith, scuotendo la testa. «Non del tutto, almeno. È troppo semplice. Inoltre, nulla nella storia di questo Costanzo chiarisce come il movimento potrebbe aver messo le grinfie su dei nanofagi progettati per uccidere anziché per guarire... o perché li avrebbe deliberatamente diffusi tra la gente, specie sugli attivisti e i sostenitori della sua stessa causa.» «No, infatti... la cosa non quadra» convenne Klein. Smith si azzittì per qualche momento e passò in rassegna uno degli articoli più recenti. Il pezzo prestava più attenzione a quello che una portavoce del Lazarus Movement - una certa Heather Donovan - aveva da dichiarare su Andrew Costanzo. Smith rifletté attentamente sulle affermazioni della donna. Se anche solo la metà di quel che diceva era vero, l'FBI stava imboccando una falsa pista, una pista seminata apposta per mettere fuori strada gli inquirenti. Jon annuì. Valeva la pena di verificare direttamente la questione.
«Cercherò di parlare al più presto con la portavoce del Lazarus Movement» disse a Klein al telefono. «Ma mi servirà una copertura temporanea di qualche tipo, probabilmente come giornalista. Con qualche tessera di identificazione fasulla che superi qualsiasi esame. Nessuno del Lazarus vorrà parlare liberamente a un ufficiale dell'esercito o a un uomo di scienza.» «Quando le occorreranno queste credenziali?» domandò Klein. Smith ci pensò su. La sua giornata era fitta di impegni fino a sera. Durante la notte appena trascorsa, alcuni membri della squadra investigativa dell'FBI si erano finalmente arrischiati a lavorare senza le pesanti tute a protezione totale. Erano ancora vivi. Di conseguenza, le équipe mediche degli ospedali locali e della Nomura PharmaTech stavano iniziando a recuperare i resti dei cadaveri dal luogo della strage. Smith intendeva sovrintendere a parte del lavoro di patologia in programma, sperando di trovare così le risposte ad alcuni degli interrogativi che lo perseguitavano ancora. «Stasera, non so dirle a che ora» si decise a rispondere. «Cercherò di organizzare un incontro in un ristorante o in un bar del centro. Da quelle parti ormai il panico si è dileguato e la gente sta ritornando in città.» «Dica a questa signorina Donovan che è un giornalista free lance» suggerì Klein. «Un cronista americano che collabora con "Le Monde" e con qualche altra testata europea di minore importanza, la maggior parte delle quali schierate politicamente a sinistra.» «Mi sembra un'ottima idea» osservò Smith. Conosceva molto bene Parigi e «Le Monde», e i corrispettivi europei di quel quotidiano erano generalmente considerati favorevoli alla linea ambientalista, antitecnologica e no-global propugnata dal Lazarus Movement. «Le farò consegnare da un corriere un pacchetto con la tessera stampa di "Le Monde" a suo nome in albergo entro il pomeriggio» promise Klein. La viceassistente del direttore dell'FBI Kit Pierson era seduta al tavolino da campo pieghevole che fungeva da scrivania, e stava sfogliando il file «rigorosamente personale» della CIA che Hal Burke le aveva appena inviato via fax. Langley disponeva di qualche informazione in più rispetto al Bureau in merito a Jonathan Smith. Ma c'erano occasionali riferimenti criptici al colonnello in alcuni rapporti di missione e in certi cablogrammi inviati da agenti operativi dell'Agenzia, di solito in relazione a crisi locali o a specifici punti caldi del globo. Kit ridusse gli occhi a due fessure mentre scorreva il lungo e preoccu-
pante elenco. Mosca. Parigi. Shanghai. E adesso Jon Smith era lì, a Santa Fe. E poi c'era sempre qualche scusa plausibile per l'improvvisa comparsa di Smith sulla scena, che stesse verificando le condizioni di salute di un amico ferito, o partecipando a un congresso medico di routine, o semplicemente svolgendo il lavoro per cui era stato addestrato. In superficie, il colonnello era semplicemente quello che dichiarava di essere: un medico militare e un uomo di scienza che, di tanto in tanto, finiva col ritrovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. La Pierson scosse la testa. Le coincidenze erano troppe per sembrare plausibile. Quel che vedeva era una ripetitività sospetta, un disegno preciso e reiterato che non le piaceva per niente. Sebbene Smith fosse alle dirette dipendenze dell'USAMRIID, sembrava avere una straordinaria libertà di movimento negli incarichi che gli venivano assegnati in servizio e nel prendersi dei periodi di congedo personale quando più era opportuno. Adesso la Pierson era sicura che Smith fosse un agente top secret, un uomo che operava in segreto e lavorava al massimo livello di copertura. Ma quello che la preoccupava maggiormente era il fatto di non essere ancora riuscita a individuare chi c'era dietro al colonnello. Qualsiasi indagine o richiesta di informazioni formale sul suo conto attraverso i canali ufficiali si perdeva nei meandri infiniti di un labirinto burocratico senza uscita. Era come se qualcuno, ai massimi vertici del potere politico e militare, da qualche parte avesse stampigliato un grosso DIVIETO DI TRANSITO a timbro indelebile sulla carriera e sulla vita del tenente colonnello Jonathan Smith, ufficiale medico. E questo la innervosiva. E molto. Aveva ordinato a un paio di agenti speciali di sorvegliare Smith da vicino, senza perderlo mai di vista. Nell'attimo stesso in cui il buon dottore avesse oltrepassato le linee da lei stabilite, lo avrebbe escluso definitivamente dall'indagine, fino a incatramarlo, impiumarlo e legarlo su un'asta, se necessario. La viceassistente del direttore dell'FBI infilò il dossier della CIA in una distruggi documenti portatile e osservò le sottili striscioline di carta cadere a cascata in un cestino contrassegnato dalla scritta MATERIALE DA BRUCIARE. Il telefono di sicurezza criptato sul tavolino da campo squillò prima che le striscioline finissero di scivolare nel cestino. «Sono Burke» borbottò una voce all'altro capo. «I suoi tirapiedi stanno ancora pedinando Smith?» «Certamente» confermò la Pierson. «Al momento è al St. Vincent's Hospital, al lavoro nel laboratorio di patologia.»
«Dica loro di lasciar perdere» disse Burke senza tante spiegazioni. Kit drizzò la schiena di scatto sulla sedia, sorpresa dalla richiesta. «Che cosa?!» «Mi ha sentito» le disse il suo omologo della CIA. «Tolga i suoi agenti dalle costole di Smith. Subito.» «Perché?» «Si fidi di me, Kit» le disse Burke in tono gelido. «Sono sicuro che non vorrebbe affatto conoscerne il motivo.» Non appena il telefono fu riagganciato all'altro capo, la Pierson restò seduta in silenzio, come paralizzata, a chiedersi per l'ennesima volta se non ci fosse proprio il modo di sfuggire alla trappola che, lo sentiva, si stava chiudendo intorno a lei. Jon Smith oltrepassò le porte basculanti ed entrò nel piccolo spogliatoio vicino al laboratorio di patologia dell'ospedale. Era deserto. Sbadigliando, si sedette su una panchina e si tolse i guanti e la mascherina. Buttò tutto in un ricettacolo già pieno fino all'orlo. I guanti e la mascherina furono seguiti dal camice verde da chirurgo e dagli altri capi di vestiario medico che indossava. Aveva quasi terminato di rivestirsi con i suoi abiti personali, quando Fred Klein lo chiamò sul cellulare. «Ha fissato l'intervista con la signorina Donovan?» chiese il direttore della Covert-One. «Sì» disse Smith. Poi si chinò per calzare le scarpe. «Ho appuntamento con lei questa sera alle nove. In un bar di Plaza Mercado.» «Bene» disse Klein. «Come procedono le autopsie? Ha scoperto qualcosa di nuovo?» «Qualcosa» lo informò Smith. «Ma che io sia dannato se ne ho capito il significato.» Jon emise un sospiro di frustrazione. «Disponiamo di pochissimi resti umani intatti da esaminare. Quasi tutto quel che è rimasto dei cadaveri si riduce a una specie di liquido organico.» «Vada avanti.» «Be', ci sono schemi particolari che emergono dalle autopsie che siamo riusciti a condurre finora» riferì Smith. «È ancora troppo presto e le dimensioni dei campioni sono quanto mai ridotte per stabilire qualcosa di preciso, ma ci stiamo orientando nella direzione giusta.» «Può farmi qualche esempio?» lo pungolò Klein. «Ho riscontrato dati rilevanti sull'uso sistemico di droghe o su gravi malattie croniche tra le persone rimaste uccise» disse Smith, alzandosi dalla
panchina e prendendo la giacca a vento leggera. «Non in tutti i casi. Ma in una percentuale importante... molto più alta della norma statistica.» «Non avete ancora scoperto che cosa ha ucciso quelle persone?» «Di preciso? No.» «Qual è l'ipotesi più attendibile al momento, colonnello?» lo incalzò Klein con la massima cortesia. «Purtroppo per ora, la mia teoria è ancora vaga» ribatté Smith stancamente. «Ma direi che la maggior parte dei danni è stata provocata da agenti chimici distribuiti da questi nanofagi per spezzare i legami peptidici. Se si dovesse ripetere il processo un numero di volte sufficiente con una quantità di peptidi abbastanza diversi tra loro, finirà con lo stesso tipo di sostanza organica appiccicosa che stiamo scoprendo.» «Ma questi nanodispositivi non causano la morte di tutti gli organismi con cui entrano in contatto» commentò Klein. «Perché no?» «Se devo proprio azzardare un'ipotesi, direi che è probabile che i nanofagi siano stati scatenati da diversi segnali biochimici...» «Come quelli che troveremmo in un soggetto che fa uso di sostanze stupefacenti, o in uno che soffre di cuore... o forse di qualche altra malattia o condizione cronica» si rese conto all'improvviso Klein. «Senza quei segnali, questi nanodispositivi resterebbero latenti, assolutamente inattivi.» «Tombola!» «Questo, però, non spiegherebbe la morte di quel grosso energumeno dagli occhi verdi con cui stava combattendo» osservò Klein. «Sia lei che il suo avversario avete corso nella nube formata da questi nanofagi senza rimanere infetti, almeno all'inizio.» «Quel bastardo è stato preso di mira, Fred» disse Smith in tono tetro. Subito dopo chiuse gli occhi, nel vano tentativo di allontanare dalla mente i tremendi ricordi del terrorista che gli si liquefaceva davanti agli occhi. «Sono quasi certo che qualcuno lo abbia colpito a distanza con un ago la cui punta era intrisa di una sostanza che ha scatenato i nanofagi respirati poco prima.» «Il che significa che è stato tradito dai suoi stessi compagni per evitare la sua possibile cattura» concluse Klein. «Sì» convenne Smith. Poi fece una smorfia, ricordandosi all'improvviso il rumore di quel sibilo freddo e letale che gli era passato vicino all'orecchio. «E suppongo che abbiano tentato di colpire anche me con uno di quegli stessi dannati aghi.» «Si guardi le spalle, Jon» disse Klein bruscamente. «Non sappiamo an-
cora esattamente contro chi stiamo lottando e quali siano i suoi piani. Finché non lo scopriremo, deve avere l'accortezza di considerare chiunque, compresa la signorina Donovan, una potenziale minaccia.» Casa sicura della squadra di sorveglianza segreta, periferia di Santa Fe Tre chilometri a est del Teller Institute tutto era calmo nell'abitazione occupata dalla squadra di sorveglianza segreta. I computer ronzavano sommessamente, producendo i soliti rumorini a scatto e le tipiche accelerazioni a ventola, mentre raccoglievano dati da vari sensori focalizzati sulla zona circostante l'istituto. I due uomini assegnati a quel turno di guardia sedevano in perfetto silenzio, intenti a controllare le trasmissioni radio, e a tenere d'occhio i dati informatici in afflusso costante. Uno di loro ascoltò assorto le voci che risuonavano negli auricolari della cuffia radio che indossava. Poi si voltò verso il suo caposquadra, un olandese dai capelli bianchi, più vecchio di lui, che rispondeva al nome di Willem Linden. «La squadra d'azione riferisce che Smith è appena arrivato in Plaza Mercado.» «Da solo?» Il tipo più giovane annuì. Linden fece un sorriso smagliante, mostrando i suoi denti ingialliti dal tabacco. «Questa sì che è una bella notizia, Abrantes! Segnala alla squadra di restare pronta in attesa. Poi mettiti in contatto con il Centro e informali che tutto sta procedendo secondo i nostri piani. Digli che faremo rapporto nell'attimo stesso in cui Smith sarà eliminato.» Abrantes adottò una spontanea espressione angustiata. «Sei sicuro che sarà così semplice? Ho letto il dossier dell'americano. Potrebbe essere un soggetto estremamente pericoloso.» «Niente paura, Vitor» disse in tono suadente l'olandese dai capelli bianchi. «Se si pianta un proiettile o la lama di un pugnale nel posto giusto, qualsiasi persona muore senza dare troppi problemi.» Capitolo 20 Smith indugiò un momento sulla soglia del Longevity Café, esaminando con un'occhiata fugace i clienti che avevano preso posto ai tavolini rotondi all'interno del bar. Sembravano, in un certo senso, un'eterogenea accozzaglia di tipici frequentatori di bar, pensò con dissimulato umorismo. La
maggior parte, quelli seduti a coppie, aveva un'aria piuttosto ordinaria: un misto di professionisti in abiti eleganti, consapevoli della propria salute perfetta e del proprio prestigio, e di spigliati studenti universitari. Altri sfoggiavano una varietà di tatuaggi e di piercing che attiravano inevitabilmente l'attenzione. Qualcun altro portava in testa un turbante, o una fascia per i capelli, o aveva delle lunghe e ispide trecce da rasta. Alcuni clienti si voltarono verso la porta al suo arrivo, incuriositi dal suo ingresso, come del resto era lui nei loro confronti. La stragrande maggioranza continuò impassibile a chiacchierare, completamente assorbita dalle proprie conversazioni. Il caffè occupava gran parte del primo piano del palazzo omonimo in Plaza Mercado, con delle grandi finestre panoramiche che si affacciavano su West San Francisco Street. Pareti dipinte a sgargianti colori in varie tonalità di rosso, giallo e arancione, e pavimenti di un blu vivace e legno sbiancato, erano accostati a insoliti pezzi d'arte e d'artigianato, di origini asiatiche, hindu o zen. Smith andò dritto al tavolino occupato da una donna che sedeva da sola, una di quelle che si erano voltate a osservarlo. Era Heather Donovan. Fred Klein aveva incluso una fotografia e una sommaria biografia della donna nel dossier contenente le sue credenziali fasulle di «Le Monde». La portavoce locale del Lazarus Movement era sui trentacinque anni d'età, con una figura snella da ragazzina, una folta e arruffata capigliatura di riccioli biondi tendenti al rossiccio, occhi verde acqua e una leggera spolverata di lentiggini alla radice del naso e sulle gote. Heather Donovan lo osservò dirigersi con passo deciso verso di lei con un'espressione divertita dipinta sul suo bel visetto. «Posso esserle utile?» gli domandò. «Mi chiamo Jon Smith» disse lui in tono pacifico, sollevando cortesemente la tesa dello Stetson nero che aveva in testa. «Credo che mi stesse aspettando, signorina Donovan.» Un sopracciglio color oro rossiccio, finemente scolpito, si inarcò lentamente. «Mi aspettavo un giornalista, non un cowboy» mormorò la donna in un perfetto francese. Smith sogghignò e squadrò dall'alto la sua interlocutrice, osservando la giacca di velluto a coste, la cravattina di cuoio con fermaglio d'argento, i jeans e gli stivali da cowgirl. «Tento di adattarmi ai costumi locali» ribatté, nella stessa lingua. «Dopo tutto, come si dice, "Quando stai a Roma..."» La donna ricambiò il sorriso e passò all'inglese. «Prego, si accomodi, si-
gnor Smith.» Jon depose il cappello da cowboy sul tavolo, estrasse dalla tasca posteriore dei jeans un taccuino e una penna a sfera e occupò la sedia di fronte a Heather Donovan. «Le sono grato di avermi dato la possibilità di incontrarla... date le circostanze, il luogo e l'ora tarda, intendo. So che ha già avuto una lunga giornata di lavoro.» La portavoce locale del Lazarus Movement annuì lentamente. «È stata davvero una giornata pesante. L'ennesima di una lunga serie di giornatacce, in effetti. Ma prima di iniziare l'intervista, gradirei vedere un documento di riconoscimento... sa, solo come formalità.» «Naturalmente» rispose Smith in tono pacato. Le porse la falsa tessera stampa con il suo nome, osservandola attentamente mentre la donna l'alzava, rivolgendola verso la luce. «È sempre così attenta e prudente con i giornalisti, signorina Donovan?» «Non sempre» rispose lei. Poi fece spallucce. «Ma di questi tempi sto imparando a fidarmi un po' meno di tutto e di tutti. Credo che sia una conseguenza dell'aver assistito alla strage di diverse migliaia di persone a opera del suo stesso governo.» «È comprensibile» replicò Smith tranquillamente. Secondo il dossier personale fornito dalla Covert-One, Heather Donovan era una recluta di recente acquisizione del Lazarus Movement. Prima di unirsi all'organizzazione ecologista ultraradicale, aveva lavorato nella cerchia delle lobby nella capitale del New Mexico per alcuni movimenti ambientalisti più convenzionali: il Sierra Club e la World Wildlife Federation, tra gli altri. Era considerata una personalità decisa, scaltra e politicamente avveduta. «Okay, sembra quel che dice di essere» sentenziò finalmente la militante del Lazarus Movement, restituendogli la sua tessera stampa. «Che cosa vi porto, gente?» li interruppe una voce languida. Uno dei camerieri, uno smilzo ragazzo con dei piercing alle sopracciglia, si era avvicinato quasi fluttuando al loro tavolo e ora se ne stava piantato accanto a loro in attesa delle ordinazioni. «Una tazza di tè verde» gli disse la portavoce del Lazarus Movement. «E un bicchiere di vino rosso per me» aggiunse Smith. Poi notò lo sguardo compassionevole negli occhi della sua interlocutrice. «Niente vino? Allora posso ordinare una birra?» Heather Donovan scosse il capo con l'aria di scusarsi: un gesto ripetuto dal cameriere. «Spiacente, qui non servono alcolici» spiegò la donna. Gli angoli delle sue labbra si incurvarono fugacemente all'insù in un altro vago
accenno di sorriso. «Forse farebbe bene a provare uno dei famosi elisir del Longevity.» «Elisir?» chiese Jon in tono palesemente dubbioso. «Sono una miscela di ricette tradizionali di infusi di erbe cinesi e di succhi di frutta naturali» intervenne il cameriere, mostrando per la prima volta un certo entusiasmo. «Le consiglierei il Virtual Buddha. È molto stimolante.» Smith scosse vigorosamente la testa. «Magari la prossima volta» disse. Alzando le spalle, soggiunse: «Allora prenderò quello che ha ordinato la signorina... solo una tazza di tè verde, grazie». Quando il cameriere si allontanò con aria fiacca per andare a prendere le ordinazioni appena fatte, Smith rivolse di nuovo l'attenzione alla portavoce del Lazarus Movement. Sollevando il taccuino, disse: «Dunque, adesso che si è sincerata della mia attendibilità come cronista debitamente accreditato...». «Può farmi le domande che vuole» concluse Heather Donovan al suo posto. Poi lo scrutò a fondo negli occhi. «Le quali, mi pare di capire, vertono sull'ipotesi, a dir poco grottesca dell'FBI, secondo cui il movimento è in qualche modo responsabile della strage al Teller Institute.» Smith annuì. «Esatto. Stamattina, sfogliando i giornali nazionali, ho letto quello che lei ha dichiarato a proposito di questo Andrew Costanzo e devo ammettere che mi ha incuriosito. Personalmente mi sono fatto l'idea che Costanzo non sarebbe proprio la prima persona a cui mi rivolgerei per affidargli il compito di fiancheggiatore chiave per una cospirazione segreta.» «Infatti.» «La sua mi sembra una sentenza definitiva» osservò Smith. «Le spiacerebbe chiarirmi meglio quello che pensa?» «Andy sa parlare, ma è una frana se c'è da fare qualcosa» spiegò Heather Donovan. «Non fraintenda: non si perde mai una riunione del Lazarus Movement, e ha sempre da dire la sua, o almeno qualcosa di cui lamentarsi. Il fatto è che non l'ho mai visto agire! È capace di fare ostruzionismo a parole per ore, ma fagli vedere un pacco di buste che vanno riempite o di volantini da distribuire e tutt'a un tratto, magicamente, ha una caterva di impegni o un mal di testa feroce. Pensa di essere il re filosofo originale, l'uomo dalle lungimiranti visioni che vanno oltre la portata dei comuni mortali come noi.» «Conosco il tipo» osservò Smith con un sorrisino fugace. «L'incompreso Platone del magazzino della libreria all'angolo.»
«Andy Costanzo fatto e finito» convenne Heather. «Il che spiega perché l'ipotesi avanzata dall'FBI è così assurda. Lo tolleriamo tutti, ma nessuno, all'interno della nostra organizzazione, si sarebbe mai fidato di Andy per una missione importante... tanto meno gli avrebbe affidato più di centomila dollari, per di più in contanti!» «Qualcuno lo ha fatto» le fece notare Jon. «Le identificazioni visive fornite da quei concessionari di auto di Albuquerque sono inattaccabili.» «Questo lo so!» Heather Donovan sembrava profondamente frustrata. «Sono convinta che qualcuno abbia dato ad Andy i soldi per comprare quei fuoristrada. E ritengo perfino che lui sia stato sufficientemente idiota, o forse arrogante, da portare a termine ciò che gli hanno chiesto di fare, ma è assolutamente impossibile che il denaro provenga dal Lazarus Movement! Non siamo un'organizzazione di spiantati, questo no, ma di sicuro non nuotiamo in un mare di soldi e non maneggiamo cifre del genere! In contanti, per giunta!» «Quindi ritiene che Costanzo sia stato incastrato?» «Non lo penso: ne sono assolutamente sicura» dichiarò con fermezza Heather Donovan. «Al semplice scopo di infangare il Lazarus Movement e tutto quello per cui ci battiamo. I militanti del nostro movimento sono impegnati anima e corpo sull'unico fronte della protesta non violenta. Non giustificherebbero mai e poi mai l'assassinio o il terrorismo!» Smith fu tentato di farle notare che fracassare e distruggere costosissime attrezzature da laboratorio scientifico varcava la linea tra la contestazione pacifica e la violenza vera e propria, ma preferì tacere. Era lì per trovare le risposte a certe domande, non per innescare un dibattito politico. Inoltre, ora si era convinto che la donna che aveva di fronte stava dicendo la verità, almeno riguardo agli elementi del Lazarus Movement con i quali aveva maggiore familiarità. D'altra parte, era pur sempre soltanto un'attivista di livello medio, l'equivalente di un capitano o di un maggiore dell'esercito. Quanto poteva sapere effettivamente riguardo a eventuali iniziative segrete intraprese dai massimi vertici dell'organizzazione a cui apparteneva? L'arrivo del tè verde concesse a Heather Donovan il tempo di riacquistare l'equilibrio e la posatezza che la contraddistinguevano. La donna accostò le labbra all'orlo della sua tazza, assaporando cautamente il primo sorso di tè, dopodiché osservò con prudenza il suo interlocutore al di sopra della tazza fumante. «Si sta chiedendo se il denaro sia potuto provenire da qualcuno più in alto nella gerarchia del movimento, vero?»
Smith annuì. «Senza offesa, signorina Donovan. Ma voi stessi avete calato un sipario di segretezza praticamente impenetrabile intorno alle massime cariche direttive del Lazarus Movement. È più che naturale domandarsi che cosa ci sia sotto.» «Questo sipario di segretezza, come lo definisce lei, è una misura puramente difensiva, signor Smith» ribatté Heather in tono sincero. «Sa che cosa è accaduto ai fondatori originali della nostra organizzazione. Conducevano tutti un'esistenza pubblica, senza misteri, alla luce del sole. E poi, uno dopo l'altro, sono stati assassinati o rapiti da società multinazionali a cui avevano pestato i piedi o da governi locali, su suggerimento o ordine delle stesse corporazioni. Be', il Lazarus Movement non permetterà che lo si decapiti ancora così facilmente!» Smith decise di sorvolare senza commenti sulle dichiarazioni più ostiche e opinabili della donna che aveva di fronte. Heather Donovan stava cominciando a recitare argomenti di discussione secondo programma. Con sua somma sorpresa, all'improvviso Heather sorrise senza più remore in un'espressione che le fece brillare i begli occhi verdi. «D'accordo, ammetto che questa è in parte noiosa retorica. Sincera e sentita retorica, per dirla tutta. E convengo che non è affatto il ragionamento più persuasivo che ho fatto in vita mia con qualcuno.» La donna bevve un altro sorso di tè verde, dopodiché depose la tazza sul tavolo, ponendola con precisione tra loro quasi come una linea di confine. «Cercherò invece di essere del tutto logica e razionale. Diciamo, per ipotesi, che sono completamente in errore, che ho preso un abbaglio, e che nel movimento c'è gente che ha deciso di ricorrere alla violenza in segreto per raggiungere più velocemente i nostri scopi. Be', ci rifletta un momento. Se fosse lei a dirigere un'operazione top secret, la cui scoperta potrebbe distruggere tutto il lavoro a cui ha faticosamente dedicato anni e anni... si servirebbe di uno come Andy Costanzo come suo agente segreto?» «No, non lo farei mai» ammise Smith. «A meno che non voglia farmi scoprire e catturare.» Ed era proprio questo il dubbio che lo aveva tormentato fin dall'inizio, fin dal primo momento in cui aveva letto gli articoli contenenti le rivelazioni trapelate dall'FBI. Ora, dopo aver sentito Heather Donovan, era ancora più convinto che tutta la storia dell'acquisizione «segreta» dei fuoristrada utilizzati per l'attentato e la fuga puzzasse di marcio. Affidarsi a uno sciocco pallone gonfiato saputello come Costanzo per comprare in contanti i SUV che sarebbero serviti per la fuga dopo un attentato terroristico era
chiaramente andare contro i propri interessi. Era il genere di errore grossolano che non collimava per niente con la spietata, calcolata professionalità di cui era stato testimone oculare durante l'attentato all'istituto. E questo significava che qualcuno stava abilmente manipolando l'indagine in corso. Un isolato a ovest di Plaza Mercado, Malachi MacNamara era in paziente attesa, nascosto in un angolo buio di un marciapiedi. Si stava facendo ormai tardi, e le vie del centro di Santa Fe erano quasi deserte. L'uomo smilzo e scattante, dal volto segnato da una vita intera passata all'aria aperta, alzò cautamente il suo telescopio Kite per la visione notturna, sorreggendolo con entrambe le mani, e vi incollò uno dei suoi occhi azzurro chiaro. Un aggeggio alquanto utile, pensò. Il telescopio monoculare di fabbricazione britannica era robusto, molto leggero e produceva un'immagine nitida e chiara, quattro volte ingrandita. MacNamara scrutò scrupolosamente la zona circostante, controllando per l'ennesima volta i movimenti delle sue prede. Mise a fuoco l'immagine dapprima sull'uomo in piedi, immobile nel vano a nicchia della porta d'ingresso di una galleria d'arte a una cinquantina di metri di distanza. Lo sconosciuto dai capelli rasati a zero indossava un paio di jeans, degli scarponcini pesanti da manovale e una giacca verde da campo dell'esercito americano, roba d'avanzo da fureria di caserma. Ogni volta che un'automobile transitava nei paraggi con i fari accesi, gli occhi dell'uomo si riducevano a due fessure, così da mantenere chiara la visuale notturna a cui si era abituato. Altrimenti restava fermo nell'immobilità più assoluta, nonostante il freddo in graduale aumento. Un giovane duro, pensò criticamente MacNamara. Però ben piantato e ragionevolmente ben disciplinato. Altri tre sorveglianti erano appostati in punti diversi lungo la via, per un totale di quattro. Due erano posizionati in prossimità del lato ovest di Plaza Mercado, mentre gli altri due stavano in agguato nell'ombra vicino al lato est. Tutti si erano disposti in modo tale da risultare ben fuori dal campo visivo di qualunque passante casuale, ma non da quello di un osservatore perfettamente addestrato, munito di uno strumento a luce intensificata. I quattro facevano parte del gruppo a cui MacNamara aveva dato la caccia subito dopo la catastrofe avvenuta al Teller Institute. Aveva perso le loro tracce nei minuti immediatamente successivi alla strage prodotta dai nanodispositivi diffusi, ma poi erano ricomparsi, non appena i militanti del Lazarus Movement si erano ripresi dallo choc e radunati per riorganizzare
il loro accampamento, oltre il cordone di sicurezza circolare formato dai soldati della Guardia nazionale. Quella stessa sera, poco dopo il tramonto, quei quattro si erano diretti a nord a piedi, addentrandosi sempre di più nelle strette viuzze del centro storico di Santa Fe. MacNamara li aveva pedinati, mantenendosi a una discreta distanza di sicurezza. Quell'inseguimento gli aveva fornito l'opportunità di raccogliere numerosi dettagli a proposito delle sue prede: quegli uomini non erano dei semplici delinquenti di strada o dei furfanti anarchici attirati dalla manifestazione di piazza organizzata dal movimento ambientalista, come aveva pensato all'inizio. I loro movimenti erano troppo precisi, troppo ben calcolati, e troppo ben eseguiti. I quattro avevano superato ed eluso con astuzia la sorveglianza della polizia e dell'FBI intorno all'accampamento del Lazarus Movement. E più di una volta MacNamara era stato costretto a nascondersi in tutta fretta, per evitare di essere scoperto da uno dei quattro rimasto in retroguardia. Pedinarli era stato proprio come dare la caccia a una grossa preda, o seguire le tracce di una pattuglia speciale di un commando nemico, in esplorazione in territorio sconosciuto. In qualche modo MacNamara trovava entusiasmante quella sorta di sfida. Era un gioco ad altissimo rischio, che richiedeva la conoscenza di espedienti e di abilità molto particolari, un gioco a cui aveva partecipato personalmente molte volte prima di allora, in molte regioni diverse del mondo. Allo stesso tempo, adesso era consapevole del senso di fatica e del lieve intorpidimento delle sue percezioni e dei suoi riflessi. Forse le tensioni e il continuo stress degli ultimi mesi cominciavano a farsi sentire sul suo sistema nervoso e sulla sua resistenza più di quanto aveva immaginato all'inizio. L'uomo dal cranio rasato che stava osservando drizzò la schiena all'improvviso, era perfettamente all'erta e pronto a entrare in azione. Lo sconosciuto sussurrò poche parole in un piccolissimo microfono radio appuntato sotto il colletto della giacca militare, ascoltò attentamente la risposta, dopodiché si curvò leggermente in avanti a spiare con la massima cautela oltre il bordo del vano della porta d'ingresso della galleria d'arte. MacNamara spostò rapidamente la visuale sugli altri tre osservatori, notando gli stessi inconfondibili segni di aumentata allerta. Spostò a sua volta con cautela il peso da una gamba all'altra ed espirò delicatamente, reprimendo con la respirazione il primo afflusso di adrenalina nel sistema cardiocircolatorio, mentre anche il suo corpo si preparava istintivamente a entrare in azione. La vaga sensazione di spossatezza si dileguò. Ah, final-
mente!, pensò. Ci siamo! Il prolungato periodo di attesa nell'immobilità quasi assoluta, al freddo e al buio, era quasi giunto al termine. Sempre con l'occhio destro incollato al telescopio monoculare in modalità visione notturna, sondò la parte anteriore di Plaza Mercado. Un uomo e una donna erano appena usciti dall'edificio. Erano in piedi l'uno di fronte all'altra sul marciapiedi davanti al palazzo, assorti in una conversazione animata. MacNamara riconobbe subito la donna slanciata e attraente. L'aveva vista darsi molto da fare qui e là nell'accampamento del Lazarus Movement. Si chiamava Heather Donovan. Era l'attivista locale che faceva da portavoce per conto dell'organizzazione ambientalista nelle interviste con la stampa. Ma chi era l'uomo dai capelli neri che stava conversando con lei? L'abbigliamento, gli stivali e il cappello da cowboy suggerivano che si trattava di uno del posto, ma MacNamara dubitava che fosse veramente così. Qualcosa nel modo in cui lo sconosciuto spilungone dalle spalle larghe si muoveva e si atteggiava gli era stranamente familiare. L'uomo dai capelli neri si girò all'improvviso, puntando il braccio verso il parcheggio di cemento, con annesso garage coperto, in fondo alla via, in direzione ovest. Per un breve istante, il suo volto fu chiaramente visibile. Poi lo sconosciuto tornò a voltarsi verso la sua compagna. Malachi MacNamara abbassò lentamente il telescopio portatile per la visione notturna. I suoi occhi azzurro chiaro brillavano sia di divertimento sia di sorpresa. «Porco demonio!» borbottò sottovoce tra sé. «Il caro colonnello ha sempre il raro talento di spuntare quando meno te lo aspetti.» Capitolo 21 Sentieri pedonali ammattonati si incurvavano da un lato all'altro di Plaza Mercado, la grande piazza centrale di Santa Fe, girando intorno ai vari monumenti e serpeggiando sotto un'ampia volta formata dalle fronde degli alberi: maestosi olmi e pioppi americani, abeti rossi, aceri, sicomori e altre specie locali. Panchine in ferro battuto verniciate di bianco erano disposte a intervalli regolari lungo i vicoli pedonali. Uno strato sottile di foglie secche cadute a terra si stendeva sopra chiazze di erba e di arida terra battuta. Circondato da una bassa ringhiera di ferro, un obelisco commemorativo delle battaglie della Guerra civile avvenute in New Mexico si ergeva al centro della piazza quadrata. Ben poche persone ricordavano che la sanguinosa Guerra di secessione scoppiata tra Nord e Sud si era espansa così
lontano, nell'Ovest. In alcuni punti del verde quadrilatero, sottili raggi di luce filtravano attraverso i rami degli alberi, proiettati a terra dai lampioni circostanti la piazza; a parte questo, quella vasta distesa secolare era un luogo d'oscurità quasi impenetrabile e di dignitoso silenzio. Jon Smith guardò di sottecchi la bella donna dal fisico flessuoso che gli camminava a fianco. Rabbrividendo, Heather Donovan si avvolgeva stretta nel suo cappotto di panno nero. Ogni volta che attraversavano le strisce di fioca luce spezzettate tra le ombre cupe, le vedeva uscire di bocca una vaporosa condensa che restava quasi sospesa nella gelida aria notturna. Dato che il sole era ormai tramontato da ore, la temperatura stava calando in fretta. Tra le massime diurne e le minime notturne a Santa Fe non era insolita un'escursione anche di cinque o sei °C. Dopo aver finito il tè al Longevity Café, Smith si era offerto di accompagnare la portavoce locale del Lazarus Movement alla sua auto, posteggiata in una via laterale non lontano dal Palazzo dei Governatori. Seppure chiaramente stupita da quel gesto di cortesia un po' all'antica, Heather Donovan aveva accettato la proposta con evidente sollievo. Di norma, Santa Fe era una città estremamente sicura, gli aveva spiegato, ma lei si sentiva ancora un po' scossa, dopo aver visto con i propri occhi gli orrori avvenuti davanti al Teller Institute. Erano a pochi metri dall'obelisco della Guerra di secessione, quando Smith si fermò bruscamente. C'è qualcosa che non va, pensò. Il sesto senso gli suggeriva di stare all'erta. E adesso che avevano smesso di camminare, udì altre persone - due o tre uomini, giudicò - risalire in silenzio il vicolo alle loro spalle. Jon riuscì a distinguere a malapena il vago scricchiolio di calzature pesanti sul vialetto di mattoni. In quello stesso momento notò altre due sagome scure e indistinte avanzare furtivamente nell'ombra cupa sotto gli alberi davanti a loro, in lento ma costante avvicinamento. Heather Donovan si accorse nello stesso istante delle figure dirette verso di loro. «Chi sono quegli uomini?» domandò, chiaramente allarmata. Per una frazione di secondo Smith restò immobile, esitante. Erano agenti dell'FBI incaricati dalla Pierson di stargli alle calcagna? Già fin dal primo pomeriggio si era accorto con assoluta certezza di essere sotto sorveglianza. Ma quando aveva controllato i paraggi in cerca di eventuali pedinatori, prima di dirigersi al Longevity Café, non aveva visto nessuno. Gli erano forse sfuggiti? Proprio in quel momento una delle due sagome deviò, forse per sbaglio, in una piccola chiazza di luce. Aveva la testa rasata a zero e indossava una
giacca verde dell'esercito americano. Smith ridusse gli occhi a due fessure alla vista della pistola munita di silenziatore che l'uomo teneva puntata in avanti, pronto a far fuoco. FBI un corno!, pensò con freddezza. Stavano per essere accerchiati, incastrati e bloccati all'aperto, al centro della piazza. Il suo istinto di sopravvivenza prese il sopravvento: dovevano sfuggire alla trappola prima che fosse troppo tardi. Reagendo fulmineamente, Smith afferrò la donna per un braccio e la trascinò con sé a destra, girando intorno all'obelisco. Nel medesimo istante, estrasse la pistola dalla fondina ascellare nascosta sotto la giacca di velluto a coste. «Da questa parte!» mormorò sottovoce. «Si sbrighi!» «Cosa sta facendo?» protestò la donna ad alta voce, troppo scioccata dall'azione improvvisa per divincolarsi. «Mi lasci andare!» «Se vuole restare viva, venga con me!» ribatté Smith, trascinandola ancora, lontano dallo spazio aperto circostante il monumento commemorativo della Guerra di secessione e verso l'oscurità protettiva formata dagli alberi circostanti. Uno dei due killer si fermò, prese rapidamente la mira e aprì il fuoco. Fffut. Il silenziatore avvitato sulla canna della sua pistola attutì il rumore della detonazione, riducendolo a una specie di colpetto di tosse smorzato. Il proiettile fischiò vicino alla testa di Smith e andò a impattarsi nel tronco di un imponente pioppo poco lontano. Fffut. Un altro proiettile scosse un ramo dello stesso albero. Schegge di legno e foglie strappate piovvero sui due fuggiaschi. Jon spinse a terra la portavoce del movimento ecologista. «Stia giù!» le intimò. Poi piantò un ginocchio a terra, rivolse prontamente la sua SIGSauer verso l'uomo che li stava prendendo di mira e premette il grilletto. Dalla pistola partì un colpo, con un boato quasi assordante che riecheggiò sui palazzi circostanti la piazza. Il colpo esploso, sparato troppo di fretta e per di più in movimento, mancò il bersaglio, ma il frastuono prodotto dalla SIG-Sauer ebbe l'effetto di costringere tre dei quattro aggressori, ormai allo scoperto, a buttarsi a terra. I tre si misero proni e cominciarono a rispondere al fuoco, sparando a raffica. Heather Donovan lanciò un urlo stridulo, appiattendosi più che poté sul suolo di dura e rigida terra battuta. Diversi proiettili di pistola automatica sibilarono minacciosi nelle vicinanze dei due fuggiaschi, andando a colpire uno dopo l'altro i tronchi degli alberi ai due lati del punto in cui la Donovan e Smith erano bloccati a terra,
o rimbalzando di striscio su una panchina vicina, in una pioggia di scintille, frammenti di metallo staccati dalla panchina di ferro e vernice bianca polverizzata. Smith ignorò quei colpi mancati e si concentrò invece sull'unico uomo che si stava ancora muovendo. Era il tipo dalla testa rasata che aveva individuato per primo. Curvo e leggermente rannicchiato, l'uomo armato di pistola si stava dirigendo furtivamente verso destra, nel tentativo di portarsi di nuovo al riparo degli alberi e di attaccarli poi di fianco. Jon sparò tre colpi in rapida successione. Il rasato barcollò. La sua pistola, munita di silenziatore, cadde a terra. Il killer si piegò lentamente in avanti fino ad appoggiarsi per terra, sulle mani e sulle ginocchia. Un fiotto di sangue gli sgorgò dalla bocca. Nero, nella luce fioca di un lampione lontano, si sparse sul vialetto ammattonato in una pozza che si allargò a dismisura. Una raffica di proiettili fischiò sopra la testa di Smith: gli altri tre continuavano a sparare. Una pallottola perforò l'orlo della larga tesa di feltro del suo Stetson nuovo fiammante, che volò via, perdendosi nel buio. Si stanno avvicinando troppo, si rese conto Jon. E stanno cominciando a prendere meglio la mira. Si gettò bocconi e sparò altri tre colpi con la SIG-Sauer, nel tentativo di tenerli inchiodati a terra a testa bassa, o almeno di disturbare loro la mira. Poi rotolò in fretta su se stesso verso il punto in cui Heather Donovan giaceva con la faccia premuta disperatamente contro la nuda terra. Aveva smesso di strillare, ma Jon notò che le tremavano le spalle e che il suo corpo era scosso da irrefrenabili singhiozzi di terrore. I tre killer illesi erano riusciti a scorgere il movimento di Smith. Ora stavano sparando più in basso, prendendosi il tempo necessario per mirare con precisione. Diversi proiettili di pistola 9mm solcarono il terreno tutt'intorno a Jon e alla portavoce del Lazarus Movement. Altri colpi, leggermente fuori mira, sollevarono in aria frammenti di mattoni dal vialetto pedonale vicino. L'espressione di Smith era sempre più preoccupata. Dovevano allontanarsi di lì, e al più presto. Posò delicatamente la mano sulla nuca della donna terrorizzata. Heather Donovan fu percorsa da un fremito, ma restò giù, come paralizzata. «Dobbiamo continuare a muoverci» le sussurrò all'orecchio in tono incalzante. «Forza! Strisci in avanti, maledizione! Vada verso quel grosso pioppo laggiù. È a pochi metri soltanto.» La donna girò la testa verso di lui. Nonostante il buio, Jon vide che ave-
va gli occhi sbarrati dalla paura. Non era neppure sicuro che l'avesse udito. «Andiamo!» le disse di nuovo, stavolta a voce più alta. «Se rimane a terra, può farcela.» Heather Donovan scosse disperatamente la testa, sporcandosi la guancia di terra sul suolo compatto. Era agghiacciata dalla paura, si rese conto Smith, il terrore l'aveva immobilizzata. Il volto di Smith esprimeva tutta la tensione del momento: se l'avesse lasciata dov'era e si fosse trascinato bocconi al riparo dietro quell'albero, Heather Donovan sarebbe morta; se fosse rimasto con lei, allo scoperto, era molto probabile che sarebbero morti entrambi. La mossa più scaltra era quella di abbandonare la donna. Ma se lui se la fosse data a gambe, i killer l'avrebbero certamente uccisa: non sembravano affatto tipi convinti che risparmiare la vita ai potenziali testimoni fosse conveniente. E poi c'erano dei limiti a quello che personalmente era capace di sopportare, e abbandonare quella donna per salvarsi la pelle era troppo. Alzò la pistola e cominciò a sparare rispondendo al fuoco degli aggressori a malapena visibili. Il carrello della SIG-Sauer mostrò il cane della pistola vuoto. Tredici colpi esauriti. Fece scattare la levetta di sgancio, estrasse il caricatore vuoto e inserì l'ultimo caricatore di scorta che aveva con sé. Smith scorse due dei malviventi che si muovevano, compiendo una doppia manovra d'accerchiamento a sinistra e a destra, sempre mantenendosi rasoterra. Stavano tentando di aggirarlo. Una volta raggiunta la posizione adatta, avrebbero potuto inchiodarlo sul posto con un micidiale e letale fuoco incrociato. Gli alberi, in quel punto della piazza, erano troppo distanti tra loro per fornire riparo da tutte le angolazioni. Nel frattempo, il terzo uomo stava ancora sparando a ritmo costante per obbligarlo a tenere la testa bassa, coprendo il movimento a tenaglia effettuato dai suoi due compagni. Jon imprecò tra sé. Aveva aspettato troppo. Ormai era bloccato. Allora amen, pensò. Sarebbe stato costretto a battersi là dove si trovava e vedere quanti nemici sarebbe riuscito a portare con sé all'inferno. Un altro proiettile si conficcò nel terreno a pochi centimetri dalla sua testa. Jon sputacchiò qualche frammento di erba strappata e di terra, dopodiché prese la mira, cercando di seguire e di stendere con un colpo in testa l'aggressore che lo stava aggirando sul fianco destro. Altri spari risuonarono all'improvviso, riecheggiando in tutta Plaza Mercado. L'uomo armato che gli stava girando intorno sulla destra lanciò un
urlo agonizzante. Cadde a terra di schianto, gemendo forte e afferrandosi con la mano libera la spalla maciullata. I suoi compagni lo fissarono scioccati per qualche secondo, poi si girarono di scatto, guardando in direzione della massa buia e indistinta degli alberi al margine sud della piazza quadrata. Smith sgranò gli occhi, colto dallo stupore. Non era stato lui a esplodere quei colpi. E i loro avversari stavano usando pistole munite di silenziatore. Allora chi altro si era unito al conflitto a fuoco? I nuovi proiettili continuarono a fischiare tutt'intorno, tempestando il terreno e gli alberi vicini ai due uomini armati ancora illesi. L'imprevisto contrattacco doveva essere stato la goccia che aveva fatto traboccare il vaso della loro pazienza. Batterono rapidamente in ritirata e arretrarono in direzione nord, verso la via che passava davanti al Palazzo dei Governatori. Uno di loro rimise in piedi a fatica l'uomo ferito e lo aiutò ad allontanarsi zoppicando. L'altro fece uno scatto improvviso verso l'uomo colpito precedentemente da Jon, ma altri proiettili sferzarono l'acciottolato sotto i suoi piedi, costringendolo ad arretrare senza perdere tempo, fino a nascondersi nell'ombra cupa e impenetrabile degli alberi. Smith notò un movimento al limitare degli alberi alla sua destra. Un uomo dal fisico asciutto e dai capelli grigi sbucò dal buio e dal riparo della vegetazione. Uscendo allo scoperto, avanzò con passo costante mentre continuava a sparare con la pistola che impugnava saldamente a due mani. Si riparò un momento dietro l'obelisco della Guerra di secessione a ricaricare l'arma, una Browning Hi-Power 9mm. Il silenzio calò di nuovo su Plaza Mercado. Il nuovo arrivato lanciò un'occhiata in direzione di Smith, poi si strinse nelle spalle con l'aria di scusarsi. «Davvero desolato per il ritardo, Jon» disse a bassa voce. «Ho impiegato più del previsto per riuscire ad aggirare quei bastardi.» Era Peter Howell. Smith fissò esterrefatto il suo vecchio amico. L'ex funzionario del SAS, lo Special Air Service britannico, nonché ex agente speciale del MI6, indossava un pesante cappotto di montone sopra una sbiadita camicia di flanella a quadrettoni rossi e verdi e a un paio di blue jeans lisi. La sua folta capigliatura grigia, di solito ben curata e corta, adesso era una zazzera di lunghi capelli arruffati e ricciuti, che incorniciava un paio di occhi azzurro chiaro e un volto segnato da rughe profonde, conseguenza di anni di esposizione al vento, al sole e ad altre intemperie. I due amici di vecchia data udirono il rumore di un'automobile che sopraggiungeva all'improvviso lungo il lato nord della piazza. I freni stridet-
tero quando la vettura inchiodò per poi ripartire immediatamente, rombando con l'acceleratore a tavoletta, e sparire nella notte, diretta a est lungo Palace Avenue, verso la tangenziale del Paseo de Peralta. «Maledizione!» sbottò Peter. «Avrei dovuto immaginare che quei pivelli avrebbero avuto a disposizione un elemento di supporto e un rapido mezzo di fuga per battersela, se le cose si fossero messe male. E così è stato.» L'ex agente britannico sollevò la Browning. «Sta' qui e occhi aperti, Jon, mentre faccio un rapido giro di ricognizione.» Prima che Smith avesse il tempo di dire qualcosa, l'uomo dai capelli grigi si lanciò a mezza corsa in avanti e si dileguò nel buio sottostante gli alberi. La portavoce del Lazarus Movement alzò la testa con estrema cautela. Aveva il viso rigato di lacrime che, sciogliendo la terra e lo sporco, le avevano imbrattato tutta la faccia, la cui pelle era di un pallore lunare. «È tutto finito?» bisbigliò. Smith annuì. «Almeno lo spero» rispose, scrutando l'oscurità circostante per assicurarsi che non ci fosse più nessun altro lì intorno. Lentamente e tremando irrefrenabilmente, la donna si alzò e si mise seduta. Fissò prima Jon, poi la pistola che questi stringeva ancora in pugno. «In realtà non è un giornalista, vero?» «No» ammise Jon sottovoce. «Temo proprio di no.» «Allora chi mai...» Il ritorno improvviso di Peter Howell interruppe la domanda della donna. «Se la sono filata» dichiarò l'inglese in tono irritato, poi il suo sguardo si posò sull'uomo dalla testa rasata che Smith aveva gravemente ferito e annuì con aria soddisfatta. «Ma se non altro sono stati costretti a lasciarsi dietro questo sbarbato.» Peter si abbassò sui calcagni e girò il corpo immobile dell'aggressore, dopodiché scosse sconsolatamente la testa. «Questo povero bastardo è più morto di Giuda Iscariota» annunciò con distacco. «Lo hai colpito due volte. Una mira e una precisione di tiro eccellenti per essere un semplice medico di campagna!» L'ex agente dei servizi segreti britannici rovistò le tasche dell'uomo morto, in cerca di un portafogli o di un qualche tipo di documento che potesse servire a identificarlo. «C'è niente?» domandò Smith. Peter scosse il capo. «Neppure una scatoletta di fiammiferi.» L'inglese alzò lo sguardo sull'amico americano. «Chiunque abbia assoldato questo
povero bastardo si è assicurato che non portasse con sé nessun effetto personale prima di ordinargli di ucciderti.» Jon annuì. L'inesperto killer era stato privato di qualsiasi oggetto che potesse anche lontanamente collegarlo ai suoi mandanti. «È un vero peccato» commentò, corrugando la fronte. «È una disgrazia quando il nemico è così attento ai dettagli» convenne Peter. «Ma non è ancora tutto perduto.» L'ex agente del SAS tirò fuori una piccola fotocamera compatta da una tasca del montone e scattò diverse foto al viso del cadavere. Stava utilizzando una pellicola ad altissima sensibilità, perciò non c'era bisogno del flash. Dopo aver terminato di scattare quelle istantanee, Peter estrasse da un'altra tasca un aggeggio di piccole dimensioni, grande suppergiù come un libro tascabile. L'oggetto era munito di un piccolo schermo di vetro piatto e di diversi pulsanti di comando disposti su un lato. Notò che Smith lo stava fissando, evidentemente stupito. «È uno scanner digitale speciale» spiegò Peter. «Serve per prendere le impronte digitali. Funziona utilizzando elettroni puliti, anziché quei vecchi tamponi imbevuti di inchiostro e foglietti di carta che ti imbrattavano le mani.» L'inglese sorrise mostrando i denti: un lampo bianco in quell'oscurità. «Chissà quale altra meraviglia si inventeranno la prossima volta questi scienziati, eh?» Rapido ed efficiente come sempre, Peter premette le mani del cadavere sulla superficie dello scanner, prima la destra e poi la sinistra. Il sofisticato scanner portatile emise ogni volta un lampo di luce, poi un ronzio elettrico e infine un frullo, immagazzinando nella sua memory card interna le immagini di tutte e dieci le impronte digitali. «Collezioni souvenir per quando sarai un vecchio decrepito, eh?» disse Smith in tono mordace, ben sapendo che il suo amico doveva essere stato di nuovo assunto a tempo determinato dalle forze dell'ordine di Londra. Apparentemente in pensione, Peter veniva periodicamente invitato a tornare in servizio, di solito dal MI6, il servizio segreto di intelligence britannico. Era un individualista che preferiva lavorare da solo: ricordava molto quegli eccentrici e pirateschi avventurieri inglesi che, qualche secolo prima, avevano contribuito a costruire un impero. Peter si limitò a sorridere. «Non intendo metterti fretta» disse Smith. «Ma non dovremmo levarci di torno al più presto? A meno che tu non voglia davvero tentare di spiegare tutto questo alla polizia di Santa Fe, voglio dire.» Jon agitò la mano in-
dicando il cadavere steso a terra e i tronchi degli alberi crivellati di proiettili. L'inglese lo scrutò attentamente. «Che aggeggino curioso, questo!» commentò, alzandosi in piedi. Con la punta dell'indice tamburellò adagio sul microricevitore radio auricolare che aveva in un orecchio. «Questo è regolato sulla frequenza della polizia. E posso dirti che il commissariato locale è stato molto impegnato negli ultimi minuti... a rispondere a innumerevoli richieste di intervento d'emergenza provenienti praticamente da qualsiasi luogo... purché nei sobborghi più lontani della città. La volante di pattuglia più vicina è ancora ad almeno dieci minuti di distanza in auto.» Smith scosse il capo con aria incredula. «Buon Dio! Questa gente non scherza, eh?» «No, Jon» disse Peter con calma. «Non scherza per niente. Ed è proprio per questo motivo che ti consiglio caldamente di trovare un altro posto per la notte. Una stanza discreta e del tutto inosservata.» «Oh, mio Dio!» disse una vocetta flebile alle loro spalle. I due uomini si voltarono contemporaneamente. Heather Donovan stava fissando inorridita il morto ai loro piedi. «Lo conosce?» le chiese Smith in tono gentile. La portavoce locale dell'organizzazione ecologista annuì controvoglia. «Non personalmente. Non conosco nemmeno il suo nome, ma sono sicura di averlo visto gironzolare nell'accampamento del movimento e alla manifestazione davanti al Teller Institute.» «E nella tenda di comando del Lazarus Movement» precisò Peter in tono severo. La donna arrossì. «Sì» ammise. «Faceva parte di un gruppo di militanti venuti da fuori, coinvolto dagli organizzatori locali e dagli elementi di spicco del movimento... per quelli che venivano definiti "compiti speciali".» «Come tagliare con i tronchesi dei varchi nella rete di recinzione del Teller Institute quando la manifestazione è degenerata» le rammentò Peter. «Sì, è vero.» Heather Donovan si strinse nelle spalle, mortificata. «Ma non avrei mai immaginato che fossero provvisti di armi da fuoco, o che avrebbero cercato di assassinare qualcuno.» La donna alzò gli occhi sui suoi due interlocutori con uno sguardo turbato e carico di vergogna. «Non era affatto previsto che andasse a finire così!» «Credo che ci siano un bel po' di questioni relative al Lazarus Movement che non si è mai neppure sognata, signorina Donovan» le disse l'inglese
dai capelli grigi. «E penso che stasera se la sia cavata per puro miracolo.» «Non può tornare all'accampamento del movimento, Peter» osservò Smith a quel punto. «Sarebbe troppo pericoloso.» «Può darsi» convenne il suo vecchio amico. «Per ora i nostri amici armati di pistole col silenziatore se la sono squagliata, ma potrebbe benissimo esserci qualcun altro non esattamente felice di vedere la signorina Donovan ancora in ottima salute.» La donna sbiancò in volto. «Ha un posto dove alloggiare per un po' di tempo restando alla larga da occhi indiscreti... magari con dei parenti o degli amici? Con gente che non faccia parte del Lazarus Movement?» domandò Smith. «Preferibilmente da qualche parte lontano da qui.» Heather Donovan annuì lentamente. «Ho una zia a Baltimora.» «Bene» disse Smith. «Credo che farebbe meglio a prendere il primo aereo e andarci subito. Stanotte stessa, se possibile.» «Lascia che me ne occupi io, Jon» intervenne Peter. «Ormai la tua faccia e la tua identità sono fin troppo noti alle persone con cui abbiamo a che fare. Se ti presentassi in aeroporto in compagnia della signorina Donovan, tanto varrebbe che ti dipingessi sulla schiena un bersaglio a cerchi concentrici.» Smith assentì. «Anche lei era alla manifestazione!» disse a un tratto l'attivista e portavoce locale del Lazarus Movement, osservando con maggiore attenzione il volto di Peter Howell. «Ma aveva detto di chiamarsi Malachi. Malachi MacNamara!» L'ex agente del SAS annuì con un vago accenno di sorrisino beffardo che gli increspò il viso sciupato e segnato da rughe profonde. «Quel che si dice un nom de guerre, signorina Donovan. Un deplorevole inganno, forse, ma assolutamente necessario.» «Ma voi chi siete, in realtà?» domandò la donna. E guardò prima l'inglese dal fisico asciutto e dal volto segnato dalle intemperie, poi Smith e infine ancora il sedicente Malachi MacNamara. «Agenti della CIA? Dell'FBI?» «Non ci faccia ulteriori domande e non saremo costretti a mentire di nuovo» disse Peter. Poi, i suoi occhi azzurro chiaro ebbero un lampo di simpatia. «Però siamo suoi amici. Di questo può stare certa.» L'espressione dell'inglese si offuscò. «Il che è decisamente molto più di quel che potrei dire di certi suoi ex camerati del Lazarus Movement.»
Capitolo 22 Sabato 16 ottobre Quartier generale della CIA, Langley, Virginia Poco dopo la mezzanotte, il direttore della Central Intelligence Agency, David Hanson, entrò bruscamente nel suo vasto ufficio al sesto piano dai pavimenti ricoperti di moquette grigia. Malgrado quel giorno lavorativo durato ben diciotto ore, era ancora vestito impeccabilmente con un completo di sartoria, camicia pulita e senza grinze, e un papillon perfettamente annodato. Hanson puntò lo sguardo sull'uomo scarmigliato e dall'aria spossata che lo stava aspettando. «Io e te dobbiamo parlare, Hal» disse in tono deciso. «In privato.» Hal Burke, a capo della task force Lazarus Movement della CIA, annuì. «Sì, certo.» Il direttore della CIA lo precedette in un'altra stanza dell'ufficio e gettò la ventiquattrore su una delle due poltrone imbottite di fronte alla sua scrivania. Fece cenno a Burke di prendere posto sull'altra. Poi giunse le mani a dita e posò i gomiti sulla superficie spoglia della grande scrivania. Scrutò a fondo il suo subalterno. «Sono appena tornato dalla Casa Bianca. Come puoi immaginare, il presidente in questo momento non è molto contento di noi né dell'FBI.» «Lo avevamo avvertito delle conseguenze che avremmo dovuto affrontare, se non avessimo fermato immediatamente il Lazarus Movement» disse schietto Burke. «La strage al Teller Institute, la distruzione del laboratorio di ricerca della Telos Corporation in California e l'attentato dinamitardo a Chicago erano solo le schermaglie d'inizio. Dobbiamo smettere di tergiversare e colpire duramente al cuore il movimento, prima che effettui altri affondi micidiali. Molti militanti sono ancora allo scoperto e a piede libero. Se riuscissimo a catturarli e a spremerli come si deve, avremmo ancora la spinta e la possibilità di infiltrarci nel nucleo segreto dell'organizzazione. È la nostra unica speranza di distruggere il Lazarus Movement dall'interno.» «Ho battuto personalmente con forza su questo punto» ribatté Hanson. «E non sono il solo ad averlo fatto. Castina è stato ripreso più volte per la sua leggerezza dai senatori e dai deputati più anziani e autorevoli... di entrambi i partiti.»
Burke annuì. Nella CIA circolava la voce che Hanson avesse fatto un estenuante giro di visite sul colle del Campidoglio per gran parte della giornata, incontrandosi in privato con i presidenti delle commissioni del Senato e della Camera sui servizi segreti e con i capigruppo della maggioranza e della minoranza di entrambe le fazioni del Congresso. Di conseguenza, i suoi influenti alleati all'interno del Congresso stavano chiedendo a gran voce che il presidente Castilla dichiarasse ufficialmente il Lazarus Movement un'organizzazione terroristica, così da essere liberi di mettere da parte le buone maniere. Le forze dell'ordine e le agenzie di intelligence avrebbero poi agito con pugno di ferro contro il Lazarus Movement, ricercando e arrestandone i leader, e congelando i conti correnti bancari e i canali di comunicazione pubblici dell'organizzazione ambientalista no-global. Tuttavia, Hanson stava giocando col fuoco. Era inconcepibile che il direttore della CIA facesse leva sui politici per manipolare le linee di condotta del governo e le direttive del presidente stesso. Hanson, però, era sempre stato disposto a rischiare grosso quando la posta era alta, e ovviamente era convinto che il suo sostegno alla Camera e al Senato fosse abbastanza forte da proteggerlo dalle ritorsioni di Castilla. «Ha avuto fortuna?» domandò Burke. Hanson scosse la testa sconsolato. «Finora non molta.» Burke aggrottò le sopracciglia in un'espressione lugubre. «Diavolo! Perché no?» «Dalla strage del Teller a oggi il Lazarus Movement e i suoi seguaci stanno cavalcando un'onda gigantesca di solidarietà e di sostegno da parte dell'opinione pubblica. Specialmente in Europa e in Asia» gli ricordò il direttore della CIA, stringendosi nelle spalle. «Questi ultimi episodi di violenza potranno anche intaccare questa epidemia di simpatia, ma troppa gente si berrà la sparata del Lazarus Movement secondo cui gli attentati di Chicago e al laboratorio di ricerca della Telos non sono altro che un imbroglio per gettare discredito sull'organizzazione e la causa che persegue. Di conseguenza, la maggior parte dei governi nel resto del mondo sta facendo enormi pressioni diplomatiche sulla nostra amministrazione per convincerla ad allentare la morsa sul movimento ambientalista, facendo leva anche sul fatto che l'azione aggressiva ai danni del Lazarus Movement potrebbe innescare un violento fermento antiamericano nei loro stessi Paesi.» Burke sbuffò con aria sprezzante. «Mi sta forse dicendo che Castilla è disposto a permettere che Parigi o Berlino o chicchessia ponga un veto alla
nostra politica sulla lotta al terrorismo?» «Non un veto effettivo» precisò Hanson. «Ma Castilla non agirà apertamente, almeno non fino a quando non produrremo delle prove schiaccianti che dimostrino che il Lazarus Movement è responsabile di questi atti terroristici.» Per diversi secondi Burke rimase seduto in silenzio a fissare il suo superiore. Poi annuì. «La questione può essere risolta senza problemi.» «Prove autentiche, Hal» lo avvertì il direttore della CIA. «Fatti concreti che reggano a un esame minuzioso ed esperto. Ci siamo intesi?» Di nuovo, Burke annuì senza dire nulla. Capisco benissimo, David, pensò. E forse meglio di quanto tu ti renda conto. Burke stava già elaborando mentalmente e furiosamente un nuovo piano per salvare la situazione, che aveva iniziato a precipitare a spirale e a sfuggirgli di mano al Teller Institute. Campagna della Virginia, all'esterno della Beltway Tre ore prima dell'alba, acquazzoni di pioggia gelata si susseguirono furiosi nelle campagne della Virginia, inzuppando campi e boschi già fradici. Di solito, in quella regione, l'autunno non era molto piovoso, specie dopo la consueta serie di temporali tropicali dei mesi estivi. Ma quell'anno, l'andamento climatico aveva decisamente perso la bussola. Più o meno una sessantina di chilometri a sudovest di Washington, D.C., una fattoria di dimensioni modeste sorgeva su un'altura non molto elevata, sovrastante una vasta radura punteggiata di alberi; lo stagno d'acqua era immobile e quaranta acri di irregolare terreno a pascolo, al momento, era in gran parte soffocato da piante infestanti e fitti cespugli di rovi. Le rovine annerite e prive di tetto di un vecchio fienile si ergevano fatiscenti vicino alla casa colonica. I resti di uno steccato di recinzione circondavano i campi incolti, coperti di vegetazione spontanea cresciuta all'eccesso, ma, perlopiù, i paletti e i listelli di legno della recinzione erano rotti e scheggiati o giacevano a marcire nell'erba alta, tra rovi, rose selvatiche ed erbacce. Una pista sterrata piena di solchi, coperta a chiazze di ghiaino d'altri tempi, conduceva alla cresta dell'altura a partire dalla County Road asfaltata che correva parallela allo steccato in completo abbandono. Il viottolo terminava davanti a una colata di calcestruzzo, tutta cosparsa di vecchie macchie di olio, proprio di fronte alla porta d'ingresso della casa colonica. Di primo acchito, la parabola satellitare, di modeste dimensioni, montata
sul tetto e il piccolo ripetitore a traliccio di microonde radio eretto su una collina vicina erano gli unici elementi che provavano che quella fattoria in rovina aveva un legame, seppure minimo, con l'età moderna. In realtà, la casa colonica era anche dotata di un impianto d'allarme all'avanguardia. L'interno dell'abitazione era ben arredato e fornito di computer d'ultima generazione e attrezzature elettroniche high-tech della CIA. Hal Burke era seduto alla scrivania nel suo studio privato ad ascoltare la pioggia battente, che tempestava il tetto di quello che ironicamente definiva il suo «occasionale ritiro di campagna della domenica». Un suo prozio aveva fatto il contadino e coltivato campi e frutteti su quel misero lotto di terra per alcuni decenni, prima di farsi ammazzare dal duro lavoro e dalla continua frustrazione. Dopo la sua dipartita, la tenuta era passata di mano tra diversi cugini, immancabilmente ottusi, finché, dieci anni prima, non era toccata all'agente speciale della CIA, quale rimborso parziale di un vecchio debito di famiglia. Burke non aveva né i soldi né il tempo per ripristinare il terreno e dedicarsi al raccolto, ma apprezzava l'isolamento offerto dalla vecchia fattoria. Nessun ospite indesiderato andava mai a bussare a quella porta, nemmeno i Testimoni di Geova del posto. Era talmente lontana dalle strade più battute che perfino i tentacoli in rapida crescita dei sobborghi periferici della Virginia settentrionale le erano passati relativamente vicino senza neppure sfiorarla. Quando il tempo era bello e la visibilità buona, Burke poteva passeggiare di notte e vedere in lontananza il pallido bagliore aranciato prodotto dalle luci di Washington, D.C, e dai suoi quartieri periferici in continua espansione. Coloravano a macchia il cielo, in un vasto arco che andava da nord a nordest fino a est, un promemoria costante della cultura ad alveare e dei pantani della burocrazia che disprezzava tanto. Percorrendo le dimesse strade di campagna della provincia più remota e le autostrade intasate di traffico, andare a Langley si trasformava spesso in un lungo e tormentoso viaggio; ma tutte le attrezzature di comunicazione ad alta sicurezza, installate a spese dei contribuenti, gli permettevano di lavorare direttamente dalla fattoria, nel caso si fosse presentata qualche crisi improvvisa. L'apparecchiatura funzionava abbastanza bene per l'uso ufficiale della CIA. Altri strumenti, dispositivi speciali e particolari programmi software molto più all'avanguardia, forniti da terzi, gli rendevano possibile coordinare e comandare a distanza i vari elementi della squadra speciale Tocsin, schierati un po' ovunque in tutto il Paese, con un alto livello di sicurezza. Burke si era recato subito alla sua fattoria isolata, dopo l'in-
contro di mezzanotte con Hanson. La situazione si stava evolvendo rapidamente, gli avvenimenti si susseguivano in fretta, e lui aveva bisogno di restare in stretto contatto con i suoi agenti. Il suo computer trillò, segnalando l'arrivo di un rapporto criptato da parte dell'unità di sicurezza operante nel New Mexico. Burke aggrottò le sopracciglia. Erano in considerevole ritardo. Burke si sfregò gli occhi e digitò sulla tastiera la sua password segreta. Il guazzabuglio di caratteri, lettere e numeri apparentemente posti a caso, cambiò subito forma, componendo all'inizio parole di senso compiuto e poi intere frasi coerenti, a mano a mano che il programma di decodificazione espletava le sue funzioni. Burke lesse il messaggio e si agitò. «Maledizione!» imprecò. «Chi diavolo è questo bastardo?!» Poi afferrò il telefono di sicurezza accanto al computer e compose il numero interno della sua omologa all'FBI. «Kit, stammi a sentire» disse in tono incalzante. «Ho bisogno che tu mi risolva una certa situazione. Un cadavere deve sparire nel nulla. E al più presto!» «Il colonnello Smith?» chiese Katherine Pierson senza scomporsi. Burke si incupì come un becchino. «Lo vorrei tanto.» «Dimmi tutto» ribatté Kit. Burke capì dai rumori in sottofondo che la donna si stava vestendo rapidamente. «E niente reticenze né frasi evasive, questa volta. Solo i fatti.» L'agente speciale della CIA informò rapidamente la collega dell'agguato fallito. Kit Pierson ascoltò in un silenzio agghiacciante. «Sto cominciando a stancarmi di pulire le gigantesche stronzate lasciate dal tuo esercito privato, Hal» dichiarò in tono caustico, dopo che Burke ebbe finito. «Smith aveva un rinforzo» scattò Burke. «E questo è un elemento che non avevamo previsto. Pensavamo tutti che stesse operando come un lupo solitario.» «Nessuna descrizione dell'altro uomo?» domandò la «Regina d'inverno». «No» ammise l'agente speciale della CIA. «Era troppo buio perché i miei uomini riuscissero a vederlo bene.» «Fantastico» commentò la Pierson in tono tagliente. «Andiamo di bene in meglio, Hal. A questo punto, Smith si sarà ormai convinto che c'è qualcosa di marcio nella faccenda dell'acquisto dei SUV usati dai terroristi che avevo messo in relazione al Lazarus Movement. Dato che continui a fare una puttanata dopo l'altra, perché non mi dipingi in fronte un grosso bersaglio a cerchi concentrici?» Burke resistette all'impulso di sbattere giù la cornetta. «Dei suggerimenti
costruttivi sarebbero più graditi, Kit» disse alla fine. «Annulla subito l'operazione segreta e sciogli la Tocsin» replicò la Pierson. «È stato un disastro su tutti i fronti fin dall'inizio. E con Smith ancora vivo e vegeto ad annusare la preda in mezzo ai miei piedi, non ho lo spazio di manovra che mi serve per spingere l'inchiesta verso il Lazarus Movement.» Burke scosse il capo. «Non posso farlo. I nostri agenti hanno già ricevuto gli ordini della fase successiva. A questo punto, se tentassimo di cancellare l'operazione, correremmo più rischi di quelli che dovremo affrontare se andiamo avanti.» Calò un lungo silenzio. «Chiariamo bene una cosa, Hal» osservò Kit Pierson senza mezzi termini. «Se con l'operazione Tocsin finisce male, non ho nessuna intenzione di essere l'unica a cui taglieranno la testa. Capito?» «È una minaccia?» domandò Burke lentamente. «Diciamo un dato di fatto» ribatté la donna. Dopodiché, riattaccò senza aggiungere altro. Hal Burke rimase seduto immobile a fissare il monitor del computer per diversi minuti, riflettendo sulla sua prossima mossa. Kit Pierson stava forse perdendo il sangue freddo? Sperava di no. La donna dai capelli scuri non gli era mai particolarmente piaciuta, ma aveva sempre avuto un profondo rispetto per il suo coraggio e la sua voglia di vincere a tutti i costi. Senza quelle caratteristiche, sarebbe stata soltanto un peso che la Tocsin non si poteva permettere. Dopo essersi finalmente deciso, Burke cominciò a digitare rapidamente sulla tastiera, componendo una nuova serie di istruzioni per i superstiti dell'unità che operava nel New Mexico. Videoconferenza di massima sicurezza del Lazarus Movement In ogni parte del mondo, ristretti gruppi di uomini e donne di ogni etnia erano adunati in segreto. Si erano raccolti davanti ai monitor e alle relative telecamere, collegate tra loro via satellite. Erano l'élite del Lazarus Movement, i leader delle cellule d'azione e direttive più importanti dell'organizzazione. Sembravano tutti molto tesi, con i nervi a fior di pelle, ansiosi di dare il via alle operazioni locali che avevano pianificato per mesi. L'uomo che si faceva chiamare «Lazzaro» era in piedi a suo agio davanti a un enorme monitor, un megaschermo che gli mostrava a riquadri multipli
le immagini trasmesse da ogni gruppo. L'uomo sapeva che nessuno di loro avrebbe visto il suo vero volto o udito la sua vera voce. Come sempre, i suoi sistemi informatici e computerizzati all'avanguardia erano impegnati a costruire le diverse immagini idealizzate del suo viso da trasmettere a ogni cellula locale del movimento. Un software altrettanto sofisticato provvedeva a fornire una traduzione linguistica e il relativo doppiaggio in simultanea. «Il momento è arrivato» esordì «Lazzaro». L'uomo si concesse un vago sorriso, notando il fremito che si trasmise subito a ogni leader e membro dei suoi lontani uditori. «Milioni di persone in Europa, Asia, Africa e nelle Americhe si stanno unendo in massa alla nostra causa. Lo sforzo finanziario e politico della nostra organizzazione sta facendo passi da gigante. A breve termine, interi governi e società multinazionali tremeranno davanti al nostro crescente potere.» La dichiarazione fiduciosa di «Lazzaro» provocò cenni d'approvazione e mormorii d'entusiasmo ed eccitazione tra i leader del movimento che assistevano alla videoconferenza via satellite. «Lazzaro» alzò una mano, come un segnale d'avvertimento. «Ma non dimenticate che anche i nostri avversari si stanno dando molto da fare. La loro guerra segreta contro di noi è fallita. Perciò adesso la guerra aperta che avevo predetto da molto tempo è cominciata. Le stragi di Santa Fe e di Chicago sono sicuramente solo le prime di una lunga catena di atrocità che hanno in progetto di attuare.» L'uomo fissò direttamente l'obbiettivo della telecamera, consapevole del fatto che ogni cellula avrebbe avuto l'impressione che i suoi occhi fossero focalizzati su ognuno dei presenti. «La guerra è cominciata» ripeté. «Non abbiamo altra scelta. Dobbiamo rispondere all'attacco, fulmineamente, con durezza, senza incertezze o sensi di colpa. Dobbiamo evitare il più possibile di mietere vite innocenti, ma dobbiamo distruggere questi laboratori nanotech, i centri in cui si alleva la morte, prima che i nostri avversari abbiano il tempo di scatenare altri orrori nel mondo, e contro di noi.» «Che dire degli impianti della Nomura PharmaTech?» chiese il capo della cellula di Tokyo. «Dopo tutto, questa grossa società corporativa, sola tra tutte le altre nel suo stesso campo, ha già accettato le nostre richieste. Il loro lavoro di ricerca è stato fermato.» «Risparmiare la Nomura PharmaTech?» disse «Lazzaro» in tono gelido. «Non credo proprio. Hideo Nomura è un giovane astuto... troppo scaltro, per essere precisi. Si piega quando il vento è forte, ma non si spezza. Il suo
sorriso non è altro che quello di uno squalo. Non farti ingannare da Hideo Nomura. Lo conosco molto bene.» Il leader della cellula operativa di Tokyo accennò a un inchino col capo, accettando il rimprovero. «Sarà fatto come desideri, "Lazzaro".» Quando, alla fine, gli schermi della videoconferenza si spensero uno dopo l'altro, l'uomo che si faceva chiamare «Lazzaro» restò in piedi da solo, assaporando il suo momento di trionfo. Anni di pianificazione e di preparazione si stavano attuando nella realtà. Presto, il duro e rischioso lavoro di bonificazione del mondo sarebbe iniziato e i sacrifici rigidi ma necessari che aveva fatto personalmente sarebbero stati compensati. Gli occhi gli si annebbiarono per un breve momento, colmi del ricordo della sofferenza. Sottovoce, recitò la breve poesia, un haiku, che spesso indugiava ai margini della sua fertile mente sempre in movimento: Il dispiacere, come una bruma, cala su un padre abbandonato da un figlio miscredente. Capitolo 23 A nord di Santa Fe Il sole mattutino, sorgendo sempre più in alto in un cielo celeste striato di nuvole, sembrava appiccare fiamme alla grande collina dalla sommità piatta che incombeva sul Rancho de Chimayó. Pinyon e ginepri si ergevano desolati lungo la cresta del colle, delineati con nitidezza sullo sfondo dell'abbagliante luce dorata. Il sole si diffondeva in basso, sopra erti declivi, e proiettava lunghe ombre in tutti gli estesi frutteti terrazzati della vecchia hacienda. Ancora vestito in blue jeans, stivali da cowboy e giacca di velluto a coste, Jon Smith attraversò le affollate sale da pranzo dell'antica e maestosa casa con i muri a secco imbiancati di calce, e uscì in uno dei tanti portici lastricati di pietra. Posto ai piedi di una catena montuosa a meno di quaranta chilometri a nord di Santa Fe, il Rancho de Chimayó era uno dei ristoranti più antichi del New Mexico. Il linguaggio degli attuali proprietari risaliva all'ondata originale di colonizzatori spagnoli del cosiddetto Sudovest di quello che allora era solo Messico. La loro famiglia si era stabilita per prima al Chimayó nel 1680, durante la lunga e sanguinosa rivolta degli in-
diani Pueblo contro il dominio spagnolo. Peter Howell era già seduto a uno dei tavoli disposti in fila sotto il portico, e lo stava aspettando. Riconoscendo il vecchio amico, l'inglese agitò la mano per richiamarne l'attenzione e invitarlo a prendere posto sulla sedia vuota di fronte alla sua. «Siediti, Jon» disse cortesemente. «Che io sia dannato se non hai l'aria esausta.» Smith si strinse nelle spalle, resistendo alla tentazione di sbadigliare. «Ho avuto una notte lunga e sfiancante.» «Hai avuto problemi?» Jon scosse la testa. Andare a prendere il suo PC portatile e i suoi effetti personali nella camera che aveva al Fort Marcy Hotel Suites si era rivelato imprevedibilmente facile. Circospetto, almeno all'inizio, riguardo a eventuali agenti di sorveglianza dell'FBI o a terroristi in agguato, era ricorso a ogni espediente per sbarazzarsi di qualsiasi pedinatore... senza però scoprirne nessuno. Ma per farlo in modo adeguato, c'era voluto parecchio tempo. Il che significava che non aveva ancora perlustrato la nuova camera di un alberghetto d'infimo ordine e a buon mercato per automobilisti di passaggio, all'estrema periferia di Santa Fe, che aveva preso in affitto dall'alba. Aveva poi telefonato a Fred Klein e lo aveva informato nei minimi dettagli del fallito tentativo omicida ai suoi danni. In conclusione, aveva avuto a malapena il tempo di chiudere gli occhi prima che Peter lo chiamasse al cellulare per organizzare quel rendez-vous clandestino. «E non ti ha seguito nessuno? Né prima né dopo?» domandò l'inglese dopo avere ascoltato con la massima attenzione il resoconto di Smith relativo ai suoi movimenti delle ultime ore. «Neanche un'anima.» «È molto strano» commentò Peter, inarcando un arruffato sopracciglio grigio. Poi, corrugando la fronte, aggiunse: «E alquanto preoccupante». Smith annuì. Per quanto si sforzasse, non riusciva a capire perché l'FBI era stato così impaziente di stargli alle calcagna per tutta la giornata precedente... e poi avesse apparentemente richiamato la sua squadra solo poche ore dopo che quattro killer prezzolati avevano cercato di farlo fuori. Forse gli agenti di Kit Pierson avevano semplicemente dedotto che era rientrato in albergo per dormire e avevano interrotto la sorveglianza per la notte. Gli sembrava, tuttavia, una trascuratezza davvero insolita. «Cosa mi dici di te e Heather Donovan?» chiese all'amico inglese. «Sei riuscito a scortarla in tutta sicurezza, senza incorrere in qualche ostacolo?» «Certo» rispose Peter senza falsa modestia. L'inglese controllò l'orolo-
gio. «Ormai la bella signorina Donovan sta sorvolando l'America, diretta a casa della zia, sulle sponde della baia di Chesapeake.» «Non hai mai sospettato che fosse in grave pericolo, vero?» domandò Smith quasi sottovoce. «Una volta che il conflitto a fuoco è finito, intendi dire?» ribatté l'anziano ex agente dei servizi segreti britannici. Una scrollatina di spalle precedette la risposta. «No, in effetti, no, Jon. Il bersaglio primario eri tu, non lei. Heather Donovan è solo quello che appare di primo acchito: una giovane donna un po' ingenua, dal buon cuore, con la testa sulle spalle e un po' di cervello. Dato che non ha nessuna conoscenza effettiva di quello che i grandi capi del Lazarus Movement hanno in programma di fare, di qualsiasi cosa si tratti, dubito che la considerino una minaccia seria. Finché la giovane attivista si tiene bene alla larga da te, sono sicuro che non corre il benché minimo rischio.» «Hai centrato in pieno la situazione della mia attuale vita sentimentale» osservò Smith con una smorfia di sorriso sarcastico. «Rischi del mestiere, temo» fu il commento di Peter in tono leggero poi, esibendo un sorriso smagliante, aggiunse: «Mi riferisco naturalmente alla vita medica. Forse invece dovresti provare con il lavoro nei servizi segreti. Mi dicono che le spie furoreggiano in questa stagione». Smith sorvolò sulla gentile stoccata. Sapeva che l'inglese era assolutamente sicuro che lui lavorasse per una delle tante agenzie di intelligence americane, ma Peter si faceva un dovere di cortesia professionale a non impicciarsene mai troppo a fondo. Proprio come Jon cercava sempre di evitare di fare troppe domande inopportune sulle collaborazioni occasionali del suo vecchio amico per il governo di Sua Maestà britannica. Peter alzò lo sguardo quando una cameriera sorridente in camicetta bianca increspata e gonna lunga ondeggiante si avvicinò al loro tavolo, sorreggendo un grande vassoio con tazze, piatti e una brocca di caffè bollente appena preparato. «Ah, è pronto!» esclamò con aria felice. «Spero non ti secchi, ma mi sono preso la libertà di ordinare per tutt'e due.» «Ma figurati» ribatté Smith, all'improvviso cosciente di avere una fame da lupi. I due uomini consumarono velocemente la colazione, mangiando con gusto uova strapazzate guarnite di salsiccia chorizo a fettine, fagioli neri e pico de gallo piccante, una salsa fatta con chili rosso e verde, pomodori, cipolle, cilantro e qualche cucchiaio di panna acida. Per aiutare a stemperare il sapore infuocato della salsa piccante, il ristorante provvedeva a met-
tere in tavola un paniere di sopaipillas fatti in casa, dei morbidi panini rotondi e leggeri, lievemente tostati, meglio se serviti caldi con miele e burro fuso lasciati cadere in un apposito foro sulla sommità di ogni panino. Terminata la colazione, Peter si abbandonò contro la spalliera della sedia con un'espressione soddisfatta e contenta sul volto rugoso. «In certe parti del mondo, un sonoro e portentoso rutto in questo preciso momento verrebbe considerato un complimento per il cuoco» disse, con gli occhi che gli brillavano. «Ma, per il momento, mi astengo.» «Credimi, ti sono davvero riconoscente» gli fece eco Smith. «Mi piacerebbe tornare a mangiare in questo posto!» «Dunque, parliamo di lavoro, adesso» disse Peter. Indicando la massa di lunghi capelli grigi arruffati che aveva in testa, soggiunse: «Credo che ti sia domandato come mai ho cambiato aspetto». «Solo vagamente» ammise Smith. «Sembri un profeta dell'Antico Testamento.» «In effetti è proprio l'impressione che volevo dare» convenne l'inglese con aria compiaciuta. «Be', ammira per l'ultima volta questo mio vello da vecchio canuto, e piangi lacrime amare, poiché, come Sansone, presto verrò tosato.» Peter ridacchiò divertito. «Ma è stato tutto per un'ottima causa. Alcuni mesi fa, una mia vecchia conoscenza mi ha chiesto di ficcare il mio lungo naso nelle faccende interne del Lazarus Movement.» Per «vecchia conoscenza» si intende il MI6, il Secret Intelligence Service britannico, pensò Smith. «Insomma, per farla breve, l'incarico mi è parso un motivo di spasso, così mi sono fatto crescere i vecchi riccioli, lasciandoli inselvatichire, ho cambiato il mio nome in qualcosa di appropriatamente biblico e altisonante, e mi sono infiltrato con discrezione nei ranghi esterni del Lazarus Movement... fingendo di essere una ex guardia forestale canadese, ormai in pensione, con un radicale rancore nei confronti della scienza e della tecnologia.» «Hai avuto fortuna?» domandò Smith. «Nell'infiltrarmi nel nucleo più interno del movimento, dici? No, ahimè.» L'espressione di Peter si fece più seria. «La leadership è dannatamente fanatica in merito alla propria sicurezza. Non sono mai riuscito a penetrare le misure adottate dall'organizzazione. Ciononostante, ho scoperto quanto basta per avere motivi sufficienti di preoccupazione. La maggior parte dei seguaci di "Lazzaro" sono abbastanza rispettabili, ma ci sono certi burattinai tosti e infidi che li manipolano da dietro le quinte.»
«Come i tipi che hanno cercato di farmi la pelle ieri sera?» «Niente di più probabile» rispose Peter, pensieroso. «Anche se quelli li definirei più muscoli che cervello. Li ho tenuti d'occhio per diversi giorni prima che tentassero di ucciderti... praticamente da quando sono spuntati per la prima volta alla manifestazione al Teller Institute.» «Nessun motivo particolare per insospettirsi?» «Sulle prime, semplicemente il modo in cui si muovevano tra la gente» spiegò Peter. «Quei brutti ceffi sembravano un branco di lupi che si aggira in un gregge di pecore al pascolo. Sai cosa intendo. Troppo attenti, troppo circospetti, troppo controllati e troppo preparati sull'ambiente che li circondava in ogni dannato momento.» «Un po' come noi?» suggerì Smith con un sorrisino beffardo. Peter annuì. «Precisamente.» «E i tuoi "amici" di Londra sono stati in grado di venire a capo di qualcosa sfruttando le informazioni che gli hai trasmesso?» domandò Jon, ricordando le fotografie e le impronte digitali che Howell aveva preso al killer dalla testa rasata che aveva spedito all'altro mondo. «Mi sa proprio di no» ammise Peter in tono rincresciuto. «Finora le mie indagini non hanno avuto il benché minimo successo.» L'inglese infilò la mano libera in una tasca del cappotto di montone, poi sospinse con discrezione sul tavolo un minidisc da computer in direzione di Smith. «Ecco perché ho pensato che forse ti andava di identificare il tizio che hai stecchito con il dovuto sangue freddo ieri sera.» Smith ricambiò lo sguardo fisso dell'amico inglese. «Oh, e come potrei?» «Non c'è motivo di fare il ritroso, Jon» gli disse Peter con un vago accenno di divertimento. «Sono più che sicuro che hai a tua volta degli amici importanti, o magari amici di amici in grado di verificare queste immagini confrontandole con quelle che hanno a disposizione nei loro vasti archivi informatici... naturalmente te lo sto chiedendo come favore personale in nome dell'amicizia.» «Potrebbe anche essere possibile» si decise ad ammettere Smith con tono calmo, prendendo il minidisc. «Ma prima dovrò trovare un collegamento Internet per il mio computer portatile.» A quel punto, il vecchio inglese si concesse un sorriso cordiale. «Allora sarai contento di sapere che il padrone di casa qui rende disponibile ai clienti un collegamento Internet wireless. Questa affascinante hacienda può anche risalire al Diciassettesimo secolo, ma il senso affaristico dei
suoi titolari è fermamente ancorato alla nostra età moderna.» Peter spinse indietro la sedia e si alzò. «E ora sono sicuro che gradirai un po' di riservatezza, perciò, come un buon cagnolino da guardia, andrò fuori a perlustrare la zona circostante.» Jon lo osservò allontanarsi, scuotendo sconsolatamente la testa, ammirato dall'abilità dell'inglese di ottenere ciò che voleva quasi da chiunque. «Peter Howell sarebbe capace di imbrogliare un'intera tribù di cannibali e convincerli a diventare vegetariani» gli aveva detto una volta l'agente speciale della CIA Randi Russell, un'amica che lui e Peter avevano in comune. «E probabilmente riuscirebbe anche a convincerli a remunerarlo in soldoni per il privilegio concesso.» Ancora ridacchiando tra sé, Smith compose il numero di Fred Klein sul suo telefono cellulare criptato. «Sì, colonnello?» rispose subito il direttore della Covert-One. Smith gli trasmise la richiesta d'aiuto di Peter per l'identificazione del killer ucciso. «Ho qui in mano un minidisc che contiene le foto e le impronte digitali di quell'uomo» concluse. «Che cosa sa Howell?» gli chiese Klein. «Su di me?» ribatté Smith deciso. «Non mi ha mai chiesto nulla. Peter è sicuro che io lavori per il Servizio segreto dell'esercito americano, o per una delle altre sezioni di intelligence del Pentagono. Ma non ha mai insistito per approfondire la questione.» «Bene» concluse Klein. Poi si schiarì la gola. «D'accordo, Jon. Mi mandi quei file e vedrò cosa riesco a scoprire. Può restare dove si trova? Probabilmente ci vorrà un po' di tempo.» Smith si guardò intorno. L'accogliente terrazza con portico era tranquilla. Il sole ormai era alto abbastanza da fornire un po' di calore. E l'aroma dolciastro dei fiori aleggiava nell'aria fresca. Fece segno alla cameriera di portargli un'altra brocca di caffè. «Tranquillo, Fred. Faccia pure con comodo» disse al telefono con una rilassata, accomodante pronuncia strascicata. «Nell'attesa, me ne starò seduto qui a soffrire in santa pace.» Il direttore della Covert-One lo richiamò nemmeno un'ora dopo. Non sprecò tempo in convenevoli e andò subito al sodo. «Siamo di fronte a un grave problema, colonnello» annunciò in tono lugubre. Smith notò Peter Howell che indugiava presso la porta che si apriva sul patio, facendogli cenno di raggiungerlo. «Prosegua» disse a Klein al cellulare. «Sono tutto orecchi.»
«Il killer che ha fatto fuori ieri sera era un americano, un uomo che si chiamava Michael Dolan. Era un ex soldato delle Forze Speciali dell'esercito statunitense. Un reduce decorato. Aveva lasciato il servizio con i gradi da capitano cinque anni fa.» «Merda!» esclamò Jon sottovoce. «Oh, c'è di peggio, colonnello» lo avvertì Klein. «Una volta congedatosi dall'esercito, Michael Dolan ha inoltrato richiesta d'ammissione all'Accademia dell'FBI a Quantico. L'hanno respinta al primo colpo.» «Perché?» si domandò Smith a voce alta. Gli ex ufficiali delle forze armate statunitensi erano spesso ben accetti all'FBI, che considerava fattori preziosi le loro capacità specifiche, l'addestramento rigoroso, le ottime condizioni fisiche e le vedute disciplinate riguardo alla vita. «Non ha superato l'esame di valutazione psicologica dell'Accademia» spiegò Klein con calma. «A quanto risulta, aveva mostrato chiare tracce di tendenze e atteggiamenti sociopatici. Gli esaminatori del Bureau hanno redatto un profilo su cui hanno annotato una insopprimibile disposizione a uccidere, senza particolari scrupoli o rimorsi.» «Decisamente non era uno a cui si vorrebbe affidare un distintivo delle forze dell'ordine e una pistola d'ordinanza» osservò Smith. «No» concordò Klein. «Okay, l'FBI non l'ha voluto» lo incalzò Smith. «Allora chi se l'è preso? Com'è finito invischiato nel Lazarus Movement?» «Qui cominciamo ad arrivare al nocciolo della questione» disse lentamente il direttore della Covert-One. «A quanto pare, il defunto e non compianto signor Dolan lavorava per la CIA.» «Cristo santo!» Smith scosse la testa con aria incredula. «Langley ha assunto quel boia?» «Non ufficialmente» ribatté Klein. «A quanto pare, l'Agenzia l'ha tenuto alle debite distanze. Almeno sulla carta, Dolan era impiegato in veste di consulente indipendente nel campo della sicurezza, ma i suoi stipendi venivano incanalati attraverso una serie di paraventi della CIA. Ha lavorato per loro, assunto e licenziato innumerevoli volte, fin da quando si era congedato dall'esercito, perlopiù dirigendo operazioni segrete antiterrorismo ad altissimo rischio, di solito in America Latina o in Africa.» «Carino. Così se un'operazione andava storta, Langley poteva sempre negare che fosse uno dei loro» commentò Smith, aggrottando le sopracciglia. «Precisamente» convenne Klein.
«E ieri sera Dolan era sul libro paga della CIA?» chiese Smith con il fiato sospeso, domandandosi in quale guaio si fossero realmente cacciati. Il conflitto a fuoco della sera prima era il risultato di un immane inconveniente: un orribile incidente di percorso, un increscioso episodio di cosiddetto «fuoco amico» tra due agenzie clandestine operanti nella stessa zona senza un'adeguata comunicazione interagenzia? «No, non credo» gli rispose il direttore della Covertone. «Sembra che il suo ultimo contratto pagato dall'Agenzia sia stato risolto poco più di sei mesi fa.» Smith sentì i muscoli irrigiditi della faccia rilassarsi leggermente. Emise un sospiro di parziale sollievo. «Felice di sentirlo. Dannatamente felice.» «C'è dell'altro, colonnello» lo fermò Fred Klein. Il direttore si schiarì la gola. «L'informazione che le ho appena trasmesso proviene dall'archivio informatico privato della Covert-One: una serie infinita di file personali che ho elaborato personalmente, utilizzando materiale classificato ultra-top secret, "dirottato" dalla CIA, dall'FBI, dalla NSA e da altre agenzie governative. Naturalmente senza che lo sapessero.» Smith annuì tra sé. L'abilità di Klein di mettere insieme le informazioni più varie, accalappiandole segretamente dalle diverse fazioni concorrenti nell'ambiente dei servizi segreti americani, era una delle ragioni per cui il presidente Castilla teneva in così alta considerazione il lavoro della Covert-One. «Come controllo incrociato, ho inserito le impronte digitali e le fotografie che mi ha mandato nei database sia della CIA sia dell'FBI» proseguì Klein. Il suo tono di voce era piatto e gelido. «Ma entrambe le ricerche non hanno prodotto alcun esito positivo. Finora, per quanto riguarda Langley e il Bureau, Michael Dolan non ha mai superato l'esame di ammissione dell'FBI e non ha mai lavorato per la CIA. A tutti gli effetti, nei loro archivi informatici non c'è il minimo accenno a Dolan.» «Cosa?!» esclamò Smith all'improvviso. Notò che Peter, seduto di fronte a lui, inarcava un sopracciglio con espressione sorpresa e si affrettò ad abbassare la voce. «È impossibile!» «Non impossibile» precisò Klein, imperturbabile. «Semplicemente improbabile. E davvero strano.» «Vuole dire che i file della CIA e dell'FBI sono stati ripuliti?» domandò incredulo Smith, rendendosi conto dell'inghippo. Sentì un brivido percorrergli la spina dorsale. «Ma solo le persone ai massimi livelli gerarchici avrebbero potuto fare una cosa del genere. Stiamo parlando di gente che fa
parte del nostro stesso governo?» «Temo proprio di sì, colonnello» convenne Klein. «Chiaramente, qualcuno ha corso dei rischi enormi cancellando dagli archivi informatici le informazioni relative a Dolan. Perciò adesso la domanda che ci dobbiamo porre è: perché? E soprattutto: chi?» Impianto di produzione nanotecnologica top secret, Centro I tecnici che lavoravano nella parte più interna e segreta dell'impianto di produzione nanotecnologica indossavano tute a protezione totale, ognuno dotato di autorespiratore personale contenuto nella speciale tenuta a chiusura ermetica. I guanti di gomma spessa e le pesanti tute rallentavano ogni loro movimento e li privavano della loro destrezza. Ciononostante, il duro addestramento e il tirocinio pratico e intensivo permetteva a quegli esperti di eseguire il compito delicatissimo di caricare centinaia di miliardi di nanofagi Stage III completamente formati in quattro piccoli cilindri dalle spesse pareti di rivestimento. A mano a mano che gli speciali cilindri venivano riempiti, venivano scollegati con estrema cautela dai contenitori in acciaio inossidabile in cui venivano prodotti. Tecnici che lavoravano a coppie bloccavano i cilindri su carrelli robotizzati, appositamente progettati per trasferire i nanofagi in un'altra sala a chiusura ermetica. Là, un'altra squadra di tecnici, che indossava maschere, guanti e camici da laboratorio bianchi, prendeva in consegna il carico letale. Uno dopo l'altro, i cilindri pieni di nanofagi venivano inseriti in cisterne di metallo più grandi, a loro volta sigillate con cura e, infine, saldate. Dopodiché, conclusa questa operazione, le cisterne venivano inserite in una robusta cassa di legno da spedizione, foderata di polistirolo. Come ultima precauzione, grandi adesivi bianchi a lettere rosse venivano applicati sui sei lati della cassa: APPROVISIONNEMENTS MÉDICAUX DE L'OXYGÈNE. AVERTISSEMENT: CONTENU SOUS PRESSION! L'uomo dalla statura fuori dall'ordinario, muscoloso e ben piantato, che si faceva chiamare Nones, si ergeva in piedi fuori dal nucleo centrale dell'impianto di produzione nanotecnologica, intento a sovrintendere alle operazioni di imballaggio e di carico attraverso gli strati multipli di una finestrella d'osservazione sigillata ermeticamente. Si voltò verso lo scienziato anziano, molto più basso di lui, che aveva a fianco. «Queste nuove procedure di trasporto e consegna rispettano le richieste del nostro committen-
te?» Lo scienziato annuì con enfasi. «Assolutamente. Abbiamo ideato i nanofagi Stage III con una durata media di vita più lunga e per una gamma di condizioni esterne più ampia. Il nostro nuovo metodo trae enorme vantaggio da questi miglioramenti progettuali e ci permette di effettuare il nuovo esperimento in ambienti ad altitudini di gran lunga maggiori e in condizioni climatiche altamente variabili. I nostri modelli al computer prevedono di conseguenza una dispersione notevolmente più efficace dei nanofagi.» «E percentuali di mortalità sensibilmente più alte?» domandò senza mezzi termini Nones, il terzo membro degli «Orazi». Lo scienziato annuì con riluttanza. «Certamente.» L'omino deglutì a fatica. «Dubito che nella zona scelta come bersaglio possano sopravvivere molte persone.» «Bene!» Il gigante dagli occhi verdi esibì un sorriso agghiacciante. «Dopo tutto, è proprio questo l'obiettivo di tutta questa vostra nuova tecnologia, no?» Parte terza Capitolo 24 Quartiere di Shinjuku, Tokyo, Giappone Quale società multinazionale stimata intorno ai cinquanta miliardi di dollari, la Nomura PharmaTech era proprietaria di fabbriche, laboratori scientifici, impianti di produzione e depositi in tutto il mondo, ma manteneva ancora una sostanziale presenza in Giappone. Il grande complesso della società, che aveva sede centrale a Tokyo, occupava un'area di quaranta acri situata nel cuore stesso dell'esteso quartiere cittadino di Shinjuku. Tre grattacieli identici ospitavano gli uffici amministrativi e i laboratori scientifici per le migliaia di impiegati specializzati della Nomura. Di notte, le vivaci, sfolgoranti luci al neon della città si riflettevano sulle facciate di cristallo a specchio dei palazzi, trasformandoli in pilastri ingioiellati, sopra i quali si stendeva il cielo notturno. Il resto dell'area era un pacifico ambiente agreste con un parco alberato, aiuole fiorite, ruscelli gonfi d'acqua e laghetti tranquilli. Durante il suo periodo di dirigenza in veste di presidente e di direttore generale dell'azienda, Jinjiro Nomura, il padre di Hideo, aveva voluto creare un'oasi di bellezza naturale, pace e tranquillità
attorno alla sede centrale della sua multinazionale, a prescindere da quanto costasse alla società o ai suoi azionisti. Tre cancelli principali davano accesso all'esteso complesso cintato. Da ogni entrata si dipartivano verso l'interno viali alberati e strade di servizio che smistavano il traffico di auto, camion e pedoni a ciascuno dei tre grattacieli. Mitsuhara Noda aveva lavorato per la Nomura PharmaTech per tutta la vita. Nel corso dei venticinque anni di servizio indefesso, l'ometto basso e dal fisico asciutto, con una vera passione per l'ordine e la vita abitudinaria, aveva percorso una lenta ma regolare carriera, sebbene poco appariscente, dalla mansione di giovane guardia notturna a quella di sovrintendente anziano alla sicurezza del Cancello 3. Il suo compito era tuttora regolare e di poco risalto. A parte assicurarsi che le guardie giurate a lui sottoposte controllassero i tesserini dei dipendenti, la giornata di Noda consisteva in massima parte nell'accertarsi che le consegne di generi alimentari per la mensa, di materiale di cancelleria per gli uffici e di prodotti chimici per i laboratori scientifici arrivassero in orario e ognuna fosse diretta verso la banchina di carico e scarico corretta. Noda arrivava sempre in anticipo, prima dell'inizio di ogni turno, così da avere il tempo necessario per memorizzare gli arrivi, le partenze e i carichi in programma per ogni veicolo che si prevedeva passasse dal suo cancello nel corso delle otto ore successive. Ecco perché il rumore inatteso di un pesante camion a motrice e rimorchio, che scalava rumorosamente le marce mentre svoltava dalla strada principale, spinse Mitsuhara Noda a uscire di fretta dalla sua guardiola accanto al cancello d'ingresso di cui era responsabile. Secondo i suoi calcoli, nessuna spedizione era prevista almeno per altre due ore e venticinque minuti. Le sopracciglia nere dell'ometto erano aggrottate quando osservò l'enorme autoarticolato dirigersi verso il Cancello 3, facendo rombare il motore mentre aumentava costantemente velocità. Alle spalle di Noda, altri agenti del servizio di sicurezza interno bisbigliavano nervosi l'uno con l'altro, chiedendosi a voce alta come avrebbero dovuto reagire. Uno di loro sganciò la chiusura della fondina che aveva appesa al fianco, preparandosi a estrarre rapidamente la pistola. Gli occhi di Noda si ridussero a due fessure. La strada d'accesso attraverso il Cancello 3 portava direttamente al grattacielo dedicato ai progetti di ricerca nanotecnologica della Nomura PharmaTech. Diverse circolari sulla sicurezza gli erano state recapitate, perché avvertisse tutti i dipendenti della società in merito alle minacce avanzate dal Lazarus Movement. E né
sulle fiancate del rimorchio né sulla cabina della motrice c'era alcun contrassegno della società a cui apparteneva quel camion in rapido avvicinamento. Noda prese una decisione. «Abbassate la sbarra!» ordinò. «Hoshiko, telefona all'ufficio centrale e riferisci di un possibile e imminente incidente.» Noda andò a pararsi direttamente in mezzo alla strada, segnalando all'autista dell'autoarticolato di fermarsi. Alle sue spalle, una grossa e robusta sbarra d'acciaio calò dall'alto con uno stridente ronzio elettrico e si bloccò sul paletto opposto. Le altre guardie giurate agitarono le pistole. Ma il camion non accennò a rallentare. Le marce stridettero mentre il grosso motore veniva mandato su di giri, raggiungendo una velocità di oltre sessanta chilometri orari. Ancora incapace di credere a quello che stava vedendo, il piccolo sovrintendente al Cancello 3 tenne duro, continuando ad agitare freneticamente le braccia e al tempo stesso urlando a gran voce all'autista del grosso camion di fermarsi. Attraverso il parabrezza di vetro fumé, Noda intravide per pochi secondi l'uomo al volante. Il volto dell'autista era privo di espressione, nessun segno di emozione nei suoi occhi vitrei, dallo sguardo assente. Un kamikaze!, si rese conto Noda, inorridito. Si voltò per scappare ma era troppo tardi. Il muso del grosso autoarticolato lo investì con forza letale, frantumandogli ogni osso al di sopra della cintola. Incapace perfino di emettere un urlo dai suoi polmoni schiacciati e lacerati, Noda fu scaraventato all'indietro contro la sbarra d'acciaio appena abbassata. L'urto violento gli spezzò a metà la spina dorsale. L'agente della sicurezza era già morto quando il camion sfondò frontalmente la sbarra del cancello in uno stridore assordante di metallo piegato. Due degli scioccati colleghi di Noda reagirono abbastanza in fretta da aprire il fuoco, ma i proiettili delle loro pistole rimbalzarono sulla corazza e sui finestrini antiproiettile del grosso autoarticolato. Il camion proseguì la corsa, rombando ancora più forte e addentrandosi nel complesso alberato della Nomura, accelerando mentre si dirigeva verso il grattacielo dalle vetrate a specchio in cui avevano sede gli impianti e i laboratori di ricerca nanotech di Tokyo della multinazionale nipponica. A meno di un centinaio di metri dall'entrata principale del grattacielo, il camion a motrice e rimorchio in corsa urtò frontalmente una fila di massicce barriere d'acciaio e cemento schierate in fretta e furia dalla società dopo l'attentato terroristico al Teller Institute. Grossi pezzi di calcestruzzo
sbriciolato volarono via dal punto d'impatto, ma le barriere antisfondamento ressero. Il grosso automezzo sbandò fino a formare un angolo acuto con la motrice e poi esplose. Un'enorme palla di fuoco rossa e arancione ruggì sollevandosi in alto nel cielo. L'onda d'urto infranse tutti i vetri delle finestre della facciata del complesso dei laboratori scientifici. Frammenti e schegge di vetro taglienti come rasoi precipitarono a pioggia sul selciato e i prati davanti alla costruzione. Pezzi della motrice e del rimorchio, distrutti dall'esplosione, furono scagliati in alto a parabola, producendo buchi nella struttura d'acciaio dell'edificio e abbattendo alberi nei boschetti circostanti. I laboratori nanotech, tuttavia, deserti e messi sotto sigillo dalle autorità di governo nipponici, rimasero in gran parte intatti. I feriti, a parte l'autista kamikaze e il povero Mitsuhara Noda, furono pochissimi. Mezz'ora dopo, un messaggio e-mail diramato a tappeto dal Lazarus Movement giunse negli uffici di ogni importante redazione di quotidiano e di rete televisiva di Tokyo. In esso, la frangia del movimento ambientalista internazionale con sede in Giappone, rivendicava la responsabilità di quella che definiva «una missione di eroico sacrificio di sé in difesa del pianeta e di tutta l'umanità.» Casa sicura della squadra di sorveglianza segreta, periferia di Santa Fe Due grandi furgoni erano posteggiati vicino all'entrata della casa isolata in cima alla collina. I portelli posteriori erano spalancati e rivelavano un vasto assortimento di scatole di cartone e cassette di attrezzi che riempivano il vano di carico di entrambi i veicoli. Cinque uomini erano riuniti vicino ai due furgoni, in attesa del loro capo. L'olandese dai capelli bianchi, il più anziano, che si chiamava Linden, era ancora in casa, e passava da una stanza all'altra per assicurarsi che nessuno avesse lasciato nulla di sospetto o di incriminante. Quel che vide, o, per meglio dire, quel che non vide, gli piacque. La casa sicura era stata svuotata e ripulita con cura da cima a fondo. A parte i pochi fori fatti col trapano in qualche muro, non c'era più traccia del vasto assortimento di telecamere, macchine fotografiche, radio e ricetrasmittenti a microonde, computer e attrezzature per le comunicazioni satellitari che la sua squadra aveva installato per intercettare ogni aspetto dell'indagine al Teller Institute. Ogni superficie liscia e ogni pezzo di legno o metallo dell'arredamento
brillava, pulito a fondo di ogni impronta digitale e di altre tracce che avrebbero potuto insinuare il sospetto che ci fosse stato qualcuno. Linden uscì di casa e restò in piedi ad ammiccare nel sole abbagliante. Piegò un dito all'insù mostrandolo e agitandolo a gancio in direzione di uno dei suoi uomini, per invitarlo ad avvicinarsi. «È tutto imballato e impacchettato, Abrantes?» Il giovane annuì. «Siamo pronti a partire.» «Bene, Vitor» disse Linden. Il capo della squadra di sorveglianza speciale controllò l'orologio. «Allora andiamo. Ci sono degli aerei che ci aspettano.» L'anziano olandese mostrò i denti gialli di tabacco in un sorriso fugace del tutto privo di allegria. «La tabella oraria stabilita dal Centro per questa nuova missione è rigidissima, ma sarà bello lasciarci indietro questo deserto arido e tornare in Europa.» Capitolo 25 Santa Fe Il Dipartimento di polizia municipale di Santa Fe aveva il quartier generale in Camino Entrada, alla periferia occidentale della città, non lontano dal penitenziario della Contea, e in prossimità del tribunale cittadino. Mezz'ora dopo aver messo piede nell'edificio, Jon Smith si ritrovò seduto nell'ufficio del funzionario di polizia di grado maggiore in servizio a quell'ora. Diverse foto in cornice, che mostravano una moglie carina e tre figli piccoli, erano appese a due delle quattro pareti bianche. Un acquerello, che raffigurava una delle tante cittadine vicine, occupava parte di una terza parete. I fascicoli di molti casi, suddivisi in cartellette rigide, erano disposti in bell'ordine in una pila sull'angolo destro di una scrivania semplice e ordinata, accanto a un computer da tavolo. Un brusio di sottofondo, composto da squilli di telefoni, conversazioni e tastiere digitate rapidamente, vagava fin dentro l'ufficio attraverso una porta aperta che dava sull'adiacente sala di riunione. Il tenente Carl Zarate esaminò la carta d'identità dell'esercito degli Stati Uniti di Smith e poi puntò di nuovo lo sguardo sul suo interlocutore, ostentando un cipiglio perplesso. «Dunque, cos'è di preciso che ci si aspetta che faccia per lei, colonnello?» Smith mantenne un tono noncurante. Era stato frettolosamente accompagnato nell'ufficio di Zarate da un sudaticcio sergente di guardia all'entra-
ta, che si era subito sentito a disagio a causa delle sue incalzanti domande. «Mi occorrono alcune informazioni, tenente» disse Jon in tutta calma. «Dati precisi sul conflitto a fuoco scatenato da non so chi, in Plaza Mercado, ieri sera a tarda ora.» Il volto affilato e spigoloso di Zarate adottò un'inespressività di circostanza. «Di quale conflitto a fuoco parla?» domandò con prudenza. I suoi occhi castano scuro si fecero sospettosi. Smith piegò la testa di lato. «Lo sa» disse alla fine. «Sono rimasto abbastanza sorpreso dal fatto che la stampa non si sia gettata a capofitto nelle solite congetture sulla sparatoria avvenuta proprio nel cuore della città. Poi ho pensato che forse qualcuno aveva fatto pressione sui giornali, le emittenti radio e gli studi televisivi locali per mettere a tacere la cosa per il tempo necessario a condurre un'indagine. Con una situazione così tesa dopo la tragedia del Teller, sarebbe più che naturale, suppongo. Ma sarei molto sorpreso di apprendere che voialtri del Dipartimento di polizia municipale di Santa Fe state facendo lo stesso gioco.» L'ufficiale di polizia lo squadrò per qualche secondo di troppo e, alzando le spalle, aggiunse: «Se ci fosse stato trasmesso davvero l'ordine di mettere un bavaglio alla notizia, colonnello Smith, che io sia dannato se capisco perché mai dovrei contravvenire al regolamento per lei». «Forse perché il regolamento non si applica a me, tenente Zarate?» suggerì Jon in tono rilassato. Porse all'ufficiale di polizia il fascio di autorizzazioni investigative a suo nome procurategli da Fred Klein indicandolo con un cenno del capo. «Questi ordini mi autorizzano a osservare e fare rapporto su ogni aspetto dell'inchiesta in corso sulla strage del Teller. E sottolineo ogni aspetto. Se guarda l'ultima pagina del fascio di fogli, noterà la firma del presidente del Comitato dei capi di stato maggiore riuniti. Dunque, vuole davvero trovarsi invischiato in una rognosa disputa giurisdizionale tra il Pentagono e l'FBI, specie dal momento che ci si aspetta che si stia tutti dalla stessa parte in questo orrendo casino?» Zarate passò in rapida rassegna i documenti che aveva davanti, con un'espressione sempre più corrucciata. Poi li sospinse sulla scrivania restituendoli al suo interlocutore con un sonoro sbuffo di disgusto. «A volte, colonnello, vorrei con tutto me stesso che il governo federale tenesse le sue sporche zampacce fuori dal mio territorio di competenza.» Smith annuì con aria solidale. «A Washington ci sono persone che hanno la grazia e il tatto di un gorilla di tre quintali, e il buonsenso di un bambino di due anni.»
Zarate si concesse un sogghigno compiaciuto. «Parole forti, colonnello. Forse farebbe meglio a cucirsi la bocca in presenza dei ragazzi e delle ragazze che girano sempre col nastro rosso. Ho sentito dire che se ne sbattono altamente dei soldati che non seguono troppo le direttive.» «Io sono anzitutto un dottore e un uomo di scienza, e solo in seconda battuta un ufficiale dell'esercito» dichiarò Smith. Poi si strinse nelle spalle. «Dubito molto di essere nella rosa di candidati di qualche grosso calibro per una promozione a generale.» «Sì, sì, capisco» disse il tenente di polizia in tono scettico. «Ecco spiegato perché se ne va in giro con un pacco di ordini a suo nome firmati dal presidente del Comitato dei capi di stato maggiore riuniti.» Zarate allargò le mani. «Disgraziatamente, non posso proprio dirle granché, perché non disponiamo di molti elementi sul caso in questione. Sì, confermo che ieri sera in Plaza Mercado si è verificato un non meglio precisato conflitto a fuoco. Un tizio si è fatto ammazzare. Forse ci sono stati altri feriti. Stavamo ancora esaminando le tracce di sangue, quando la nostra squadra di investigatori ed esperti in medicina legale è stata richiamata.» Sobbalzando a quella rivelazione, Smith colse la palla al balzo. «La vostra squadra di tecnici è stata fatta rientrare?!» «Già» confermò Zarate con decisione. «L'FBI è arrivato in picchiata sul posto e ha assunto il comando dell'indagine. Hanno detto che si trattava di una questione di sicurezza nazionale e che rientrava nelle loro competenze specifiche.» «E questo quando è accaduto?» domandò Jon. «Meno di un'ora dopo il nostro arrivo sul luogo della sparatoria» rivelò l'ufficiale di polizia. «Ma non si sono limitati a scacciarci a pedate e alla svelta: hanno anche confiscato ogni bossolo di proiettile ritrovato, ogni pezzettino di carta relativo a verbali preliminari e alle solite scartoffie d'ufficio del caso, e ogni fotografia della scena del crimine. Si sono presi perfino i nastri delle registrazioni delle chiamate via radio, in entrata e in uscita dalla centrale alle unità di pattuglia che hanno risposto alla richiesta di intervento!» Smith emise un sommesso fischio di sorpresa. Era decisamente qualcosa di più di una semplice disputa giurisdizionale tra forze dell'ordine. L'FBI aveva rastrellato velocemente e senza mezzi termini ogni più piccola prova ufficiale raccolta dalla polizia locale. «Con quale autorità?» chiese in tono pacato. «Gli ordini erano firmati dalla viceassistente del direttore Katherine
Pierson» rispose Zarate. La bocca del tenente di polizia divenne una riga sottile. «Non fingerò di fare salti di gioia per essere stato costretto a mettere la coda tra le gambe e ad adeguarmi agli ordini, ma nessuno nell'ufficio del sindaco o nel consiglio comunale intende agitare le acque con i Federali in questo momento.» Jon annuì con espressione comprensiva. Con una recente tragedia sul groppone, le autorità locali di Santa Fe sarebbero dipese in larga misura dall'assistenza e dagli stanziamenti federali per lo stato d'emergenza dichiarato. E l'orgoglio, il campanilismo e il senso d'autonomia locali si sarebbero naturalmente adeguati all'urgente necessità. «Mi permetta solo un'ultima domanda» promise Jon a Zarate. «Ha detto che c'è stato un morto. Sa che fine ha fatto il cadavere? O chi si sta occupando dell'autopsia?» Il tenente di polizia scosse la testa con espressione sinceramente confusa. «È proprio qui che questa situazione esce da ogni umana comprensione.» Zarate aggrottò la fronte. «Ho effettuato personalmente qualche telefonata qui e là ai vari coroner e ospedali della città, tanto per informarmi su com'era finita la faccenda. E per quanto ne so, nessuno finora ha fatto assolutamente nulla per cercare di identificare il cadavere. A quanto risulta, invece, l'FBI ha caricato il cadavere su un'ambulanza e lo ha trasferito in fretta e furia a una camera ardente ad Albuquerque per una cremazione immediata.» Zarate guardò Smith dritto negli occhi. «A questo punto, che diavolo di conclusioni ne trae, colonnello?» Jon si sforzò di mantenere, seppure a fatica, un'espressione impassibile. Quali mansioni svolge Kit Pierson, di preciso, qui a Santa Fe?, si domandò, ammutolito. E per conto di chi sta insabbiando tutto? Era passato da poco mezzogiorno quando Smith uscì dalla sede centrale del Dipartimento di polizia municipale di Santa Fe e percorse a piedi un tratto di Camino Entrada. I suoi occhi dardeggiarono fugaci a destra e a sinistra, controllando la via in entrambe le direzioni; a parte questo, non dimostrò di essere interessato ai dintorni. Ancora apparentemente assorto nei suoi pensieri, salì al volante della Mustang coupé color canna di fucile che aveva preso a noleggio e si allontanò. Poche deviazioni e qualche rapida svolta a novanta gradi nel dedalo delle vie cittadine lo condussero nell'affollato parcheggio circostante il grande centro commerciale di Santa Fe, il Villa Linda Mall. Una volta arrivato là, si infilò a passo d'uomo nelle file di auto posteggiate, comportandosi come se stesse semplicemente cercan-
do uno spazio libero. Alla fine, si allontanò dal centro commerciale, incrociò Wagon Road - la circonvallazione cittadina - e andò a parcheggiare all'ombra di un boschetto di piante secolari cresciute nei pressi di un burrone poco profondo, segnato sulla carta stradale che aveva con sé con il nome di Arroyo de los Chamisos. Due minuti più tardi, un'altra automobile, una Buick bianca quattro porte, svoltò nello stesso punto e si fermò a qualche metro di distanza dalla Mustang coupé. Peter Howell scese dall'auto e si stiracchiò gambe e braccia, senza tralasciare di controllare la zona con occhiate attente. Dopo essersi assicurato che non ci fosse nessun passante o impiccione nei dintorni, l'inglese passeggiò fino alla Mustang, aprì la portiera dal lato del passeggero e sedette infine accanto a Smith. Nelle ore trascorse da quando si erano incontrati per colazione, l'inglese aveva trovato il tempo di farsi tagliare i capelli. Adesso erano corti e più consoni alla moda. Si era anche cambiato d'abito, abbandonando i blue jeans scoloriti e la pesante camicia di flanella a quadri che aveva indossato come Malachi MacNamara in favore di un paio di comodi pantaloni sportivi color kaki, una camicia di cotone azzurra e una giacca sportiva di lana a spina di pesce. Il focoso fanatico del Lazarus Movement era morto e sepolto, sostituito da uno snello e abbronzato cittadino britannico residente all'estero, apparentemente a zonzo per qualche spesa pomeridiana. «Scoperto niente?» gli domandò Jon. Peter scosse il capo. «Nessuno in atteggiamento sospetto. Sei pulito.» Smith si rilassò leggermente. Il suo vecchio amico aveva operato nelle vesti di agente di copertura a distanza e si era tenuto in disparte mentre Jon entrava nel quartier generale della polizia, controllando che non ci fossero eventuali pedinatori o inseguitori motorizzati. «Sei riuscito a scovare qualcosa di nuovo?» chiese Peter. «O le tue domande troppo esplicite sono cadute nel vuoto?» «Oh, ho scoperto tante belle cosette!» affermò Jon con aria cupa. «Forse molto più di quello che mi aspettavo.» Peter inarcò un sopracciglio con aria inquisitoria, ma, a parte questo, rimase in silenzio, in attento ascolto, mentre Smith gli riferiva per filo e per segno le informazioni che aveva ottenuto. Quando seppe che il cadavere di Dolan era stato cremato, scosse la testa, in un'amara espressione di scherno. «Bene, bene, bene... polvere alla polvere e cenere alla cenere. Così non è rimasta alcuna impronta digitale o calco dentale per risalire all'identità e all'imbarazzante dossier del morto. Immagino che importi poco la solerzia
con la quale sono stati "ripuliti" gli archivi informatici della CIA e dell'FBI; qualcuno, da qualche parte, prima o poi sarebbe stato costretto a riconoscere quel tizio.» «Già.» Jon tamburellò nervosamente le dita sul volante della Mustang. «Una mossa astuta, eh?» «Che solleva una quantità di domande interessanti» convenne Peter. L'inglese le enumerò contandole con le dita. «Per chi lavorano in realtà questi killer segreti come il defunto e non compianto Michael Dolan? Per il Lazarus Movement, come sembra, almeno in superficie, o per qualche altra organizzazione "sottomarina"? Forse perfino per la vostra stessa CIA? È tutto così poco chiaro, non credi?» «Una cosa è sicura» osservò Smith. «Kit Pierson è senz'altro immersa fino al collo in questo pantano. Probabilmente ha tutta l'autorità per assumere il comando dell'indagine sul crimine in Plaza Mercado, ma questo non può giustificare in nessun modo la cremazione del cadavere di Dolan, non certo in base alle norme e procedure di prammatica dell'FBI.» «È possibile che stia facendo il doppio gioco per conto del Lazarus Movement?» chiese Peter senza scomporsi. «Che stia lavorando dall'interno per sabotare l'inchiesta dell'FBI?» «Kit Pierson nei panni di talpa per il movimento?» Jon scosse il capo con fermezza. «Questa ipotesi non mi convince per niente. Semmai, ha spinto fin troppo per attribuire al Lazarus Movement la responsabilità della sciagura al Teller Institute.» Peter annuì. «È vero. Perciò, se non collabora con l'organizzazione ambientalista, sta per forza lavorando contro di essa... il che suggerisce che sta coprendo le spalle a qualcun altro per un'operazione ufficiosa antiLazarus Movement condotta dall'FBI, o dalla CIA, o da entrambi.» Smith lo fissò. «Pensi che stiano conducendo davvero un'operazione così delicata senza l'approvazione del presidente?» Peter si strinse nelle spalle. «Non sarebbe la prima volta, Jon. Lo sai bene anche tu.» L'inglese esibì un sorriso ironico. «Ti ricordi il povero Enrico II? Una sera si incavolò a tal punto da mettersi a urlare: "Nessuno mi toglierà mai dalle palle questo prete rompicoglioni?". Poi, ancora prima che sbollisse la rabbia, c'erano schizzi di sangue ovunque sul pavimento della cattedrale di Canterbury. Thomas Becket diventa improvvisamente un martire e un santo. E il triste, rammaricato, intontito re rinsavito si butta in ginocchio a strapparsi le vesti e a flagellarsi per una tanto drammatica quanto breve sceneggiata di penitenza pubblica.»
Smith annuì lentamente. «Sì, lo so. Non sarebbe la prima volta in cui i servizi segreti oltrepassano i limiti dell'autorità a loro conferita, ma è un gioco dannatamente pericoloso.» «Certo che lo è» ribadì Peter. «Carriere onorevoli possono essere distrutte e funzionari d'alto grado e livello possono finire in prigione. Ecco il motivo per cui hanno deciso di eliminarti fisicamente.» Jon si incupì. «Posso capire un'operazione segreta congiunta tra CIA e FBI, ideata per far crollare dall'interno il Lazarus Movement. Sarebbe da idioti e assolutamente illegale, ma posso capirlo. E posso anche comprendere un tentativo del movimento di sabotare i laboratori scientifici dell'istituto. Ma quello che proprio non riesco a far quadrare in queste due possibili teorie è la scelta deliberata di massacrare tutti quei dimostranti attraverso la diffusione dei nanofagi.» «Già» disse Peter lentamente, con gli occhi colmi del ricordo di quell'orrore. «Questo è l'unico tassello del mosaico che non si riesce in alcun modo a incastrare nel quadro. E per giunta è un tassello che gronda sangue a fiumi.» Annuendo, Smith si appoggiò allo schienale del sedile, staccandosi dal volante, e tirò fuori il suo cellulare. «Forse è arrivato il momento di smettere di sprecare tempo a fare anticamera.» Jon compose un numero sulla tastiera del cellulare. «Sono il colonnello Jonathan Smith, agente Latimer» disse in tono brusco. «Voglio parlare con la viceassistente del direttore dell'FBI Pierson. Subito.» «Vuoi sfidare la leonessa nella sua stessa tana?» mormorò Peter. «Una mossa poco astuta, perfino per te, non credi, Jon?» Smith gli rivolse un sorriso stringendo il telefonino. «Lascio l'astuzia a voialtri britannici, Peter. A volte non puoi fare altro che innestare la baionetta e lanciarti in un assalto frontale.» Poi, mentre ascoltava la voce all'altro capo della comunicazione, il sorriso gli si spense lentamente sulla bocca. «Capisco» disse con calma, quasi sottovoce. «E quando è successo?» Jon riattaccò. «Guai?» chiese Peter. «Può darsi.» Smith aggrottò le sopracciglia. «Kit Pierson sta per rientrare a Washington per certe riunioni urgenti e non meglio specificate. Prenderà un executive jet dell'FBI in partenza da Albuquerque più tardi, nel primo pomeriggio.» «Sicché l'uccellino si è involato, eh? Interessante tempismo, non trovi?» fu il commento di Peter, accompagnato da un repentino scintillio negli oc-
chi. «Comincio seriamente a sospettare che la baldanzosa signorina Pierson abbia appena ricevuto una telefonata alquanto allarmante dalla polizia locale.» «Probabilmente hai ragione» convenne Smith, ricordando l'occhiata impacciata e irrequieta riservatagli dall'agente di polizia sudaticcio che lo aveva condotto nell'ufficio del tenente Zarate. Il nervoso sergente addetto all'entrata doveva aver passato sottobanco all'FBI la soffiata che un tenente colonnello dell'esercito di nome Jonathan Smith stava scavando a fondo in un caso che il Bureau stava invece cercando di seppellire sotto una tonnellata di sabbia. Jon lanciò un'occhiata all'amico inglese. «Ti va di fare un salto a Washington? So che è fuori dal tuo attuale raggio d'azione, ma il tuo aiuto mi sarebbe prezioso. Kit Pierson è l'unica pista da seguire e non ho nessuna intenzione di stare a guardare mentre se la squaglia alla chetichella.» «Conta su di me» ribatté Peter con un lento sorriso rapace. «Non mi perderei questo incontro per niente al mondo.» Capitolo 26 Casa Bianca Washington, D.C. «Capisco perfettamente» rispose Samuel Adam Castilla, al telefono con il presidente della Camera. Poi alzò lo sguardo e vide Charles Ouray, il capo dello staff della Casa Bianca, fare capolino sulla soglia socchiusa dello Studio Ovale. Il presidente americano gli fece cenno di entrare, poi tornò a rivolgere l'attenzione alla comunicazione telefonica. «Adesso stia lei a sentire me, e veda di capire bene, perché non lo ripeterò. Nessuno riuscirà a spaventarmi e a coinvolgermi in un'azione imprudente e scriteriata. Né la CIA né l'FBI. E neppure il Senato. E tanto meno voi. Sono stato chiaro? Benissimo, allora. Buona giornata a lei, signore.» Castilla riagganciò il telefono, resistendo all'impulso di sbattere giù la cornetta. Poi passò stancamente la sua grande e possente mano sul volto teso. «Si racconta che Andrew Jackson una volta minacciò con il frustino del calesse un tizio qui fuori, proprio davanti alla Casa Bianca. Ho sempre pensato a quell'aneddoto del vecchio statista come a un episodio isolato in cui egli perse le staffe, permettendo al suo ben noto caratteraccio di prendere il sopravvento sulla ragione. Ma, in questo momento, sono fortemente tentato di seguire il suo esempio.»
«Ha ricevuto altri consigli utili e disinteressati da qualche membro del Congresso?» domandò Ouray con malcelata ironia, indicando il telefono con un cenno del capo. Il presidente degli Stati Uniti fece una smorfia cupa. «Era il presidente della Camera» disse. «Mi consigliava di firmare subito un ordine esecutivo che dichiari ufficialmente il Lazarus Movement un'organizzazione di stampo terroristico.» «Altrimenti?» «Altrimenti la Camera e il Senato promulgheranno una legge di loro propria iniziativa» concluse Castilla. Ouray inarcò un sopracciglio. «Con una maggioranza schiacciante a prova di veto?» Il presidente scrollò le spalle. «Forse sì. Forse no. In ogni caso, abbiamo perso. Politicamente. Diplomaticamente. Vedila un po' come preferisci.» Il capo dello staff della Casa Bianca annuì con un'espressione grave. «Suppongo che non rivesta molta importanza il fatto che un disegno di legge anti-Lazarus Movement non sia mai stato approvato come legge effettiva. Se passa al Congresso, i nostri sempre più vacillanti alleati internazionali accuseranno un altro pesante colpo.» «Verissimo, Charlie» disse Castilla, con un sospiro. «La maggior parte della popolazione mondiale considererebbe una legge del genere un'ulteriore prova che stiamo reagendo in modo eccessivo, da paranoici che si sono ormai fatti prendere dal panico, anche se credo che alcuni nostri alleati, quelli più preoccupati a causa degli attentati di Chicago e di Tokyo, in fondo proverebbero un certo sollievo. La maggior parte della gente, tuttavia, penserà soltanto che stiamo peggiorando la situazione, che stiamo spingendo un'organizzazione finora pacifica verso la lotta violenta... o che stiamo coprendo i nostri stessi crimini.» «È una situazione davvero scomoda» convenne Ouray. «Questo è certo.» Castilla emise un lungo sospiro. «E peggiorerà in modo esponenziale.» Sentendosi intrappolato dietro la scrivania, il presidente si alzò e andò alle finestre. Restò per un attimo in silenzio a fissare il giardino a sud della Casa Bianca, notando i drappelli di guardie armate fino ai denti, con elmetti e giubbotti antiproiettile rigidi in kevlar, che pattugliavano, sotto gli occhi di tutti, il parco circostante la Casa Bianca. Dopo l'attentato di Tokyo rivendicato dal Lazarus Movement, il Servizio segreto presidenziale aveva insistito perché fossero adottate misure di sicurezza più rigide intorno alla residenza presidenziale.
Castilla guardò di sottecchi Ouray. «Prima che il presidente della Camera mi sganciasse in testa la bomba dell'ultimatum legislativo, ho ricevuto un'altra chiamata interessante. Da Nichols, ambasciatore alle Nazioni Unite.» Il capo dello staff della Casa Bianca rimase esterrefatto. «C'è qualcosa che bolle in pentola al Consiglio di Sicurezza dell'ONU?» Castilla annuì. «Nichols aveva appena avuto sentore di una risoluzione che alcuni tra i Paesi non allineati all'interno del Consiglio hanno intenzione di proporre. In poche parole, intendono inoltrarci una richiesta formale che prevede l'apertura di tutti i nostri impianti di ricerca nanotecnologica, sia pubblici sia privati, a una scrupolosa ispezione internazionale, compreso un esame analitico di tutti gli atti di proprietà relativi ai medesimi. Affermano che è l'unico modo per essere certi che non stiamo attuando un programma segreto di armi nanotech. Nichols sostiene inoltre che il blocco dei Paesi non allineati abbia già a disposizione voti sufficienti in Consiglio per far passare la mozione.» Il volto di Ouray si fece sempre più scuro. «Non possiamo permettere che la loro richiesta venga eseguita.» «No, non possiamo» convenne Castilla con un tono deciso. «Equivarrebbe ad autorizzare il furto di ogni progresso nanotech del nostro Paese. Le nostre aziende e le nostre università hanno speso miliardi di dollari in questa ricerca. Non posso permettere che tutto questo lavoro finisca in fumo.» «Possiamo persuadere uno degli altri membri permanenti del Consiglio a porre il veto a questa risoluzione per conto nostro?» domandò Ouray. Castilla si strinse nelle spalle. «Nichols afferma che la Russia e la Cina sono impazienti di bacchettarci. Vogliono sapere fino a che punto ci siamo spinti nel campo della nanotecnologia. Potremo considerarci fortunati se i francesi decideranno di astenersi. Allora resterebbero soltanto gli inglesi, e non so fino a che punto possa, al momento, spingersi il primo ministro britannico per fornirci copertura politica. Il suo controllo sul Parlamento inglese è a dir poco inconsistente.» «Allora saremo costretti a porre noi stessi il veto» dedusse Ouray. Contrasse i muscoli della mascella. «E daremo un'impressione negativa, estremamente negativa.» Castilla annuì con aria lugubre. «Niente potrebbe dare più credito a una tra le peggiori paure del mondo. Se porremo il veto a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU sulla nanotecnologia, le più oltraggiose
pretese del Lazarus Movement sembreranno, agli occhi dell'opinione pubblica, più che attendibili.» Base aerea militare di Kirtland, Albuquerque, New Mexico Ancora al volante della Mustang coupé, Smith si allontanò dal posto di guardia del Truman Gate appena varcato e si diresse a sud, attraverso l'estesa base aerea dell'aviazione militare, oltrepassando campi da baseball per giovani leve, affollati di squadre e di genitori chiassosi che facevano il tifo per i propri figli dalle tribune. Si era in prossimità di fine stagione, e i campionati locali erano in pieno corso. Seguendo le direttive fornitegli dalla polizia di sicurezza dell'Air Force, avanzò nel dedalo di strade e di costruzioni, finché non giunse a un piccolo parcheggio vicino alle piste di decollo. La Buick LeSabre bianca di Peter Howell accostò di fianco alla Mustang. Smith scese dall'auto e si mise in spalla il PC portatile e una piccola borsa da viaggio. Lanciò le chiavi di accensione sul sedile anteriore senza azionare il telecomando della chiusura centralizzata delle due portiere. Vide Peter seguire il suo esempio. Uno degli occasionali corrieri di Fred Klein si sarebbe occupato più tardi di risolvere il problema della restituzione delle due vetture alle rispettive agenzie di autonoleggio. Aerei passeggeri di varie linee commerciali dalle livree a colori sgargianti tuonavano bassi sopra di loro, decollando e atterrando a intervalli regolati con precisione maniacale. Le piste della base aerea di Kirtland erano in condivisione con l'aeroporto internazionale di Albuquerque. Onde di calore facevano tremolare l'aria e brillare il calcestruzzo, e l'odore intenso e penetrante di carburante avio aleggiava nell'aria pesante. Un grosso C-17 Globemaster da trasporto merci dell'U.S. Air Force, dal colore grigio chiaro con macchie mimetiche, era fermo sulla pista catramata con i motori già su di giri in fase di preriscaldamento. Jon e Peter si diressero a piedi verso il jet in attesa. L'addetto al carico, un sottufficiale anziano dell'aviazione militare dal volto quadrato, l'espressione da duro, le sopracciglia perennemente aggrottate in un minaccioso cipiglio, andò loro incontro. «Chi è di voi due il tenente colonnello Jonathan Smith?» domandò, dopo aver controllato il raccoglitore a molla che aveva in mano, per assicurarsi di aver letto correttamente il nome e il grado. «Io, sergente» rispose Jon. «E questo è il signor Howell.»
«Se volete entrambi seguirmi, signore» disse l'addetto al carico, dopo aver riservato all'abbigliamento borghese di Smith una lunga occhiata dubbiosa. «Abbiamo a disposizione solo cinque minuti per il decollo, e il maggiore Harris dice che non ha intenzione di perdere il posto e finire in coda dietro a una dannata schiera di pullman volanti carichi di turisti.» Smith esibì un sorriso contrito. Nutriva il forte sospetto che il pilota del C-17 non si fosse limitato a questo, ma che avesse imprecato alla sola idea di farsi un volo fuori programma, quasi da una costa all'altra degli Stati Uniti, unicamente per «traghettare» un solo colonnello dell'esercito e un civile straniero a Washington, D.C., area metropolitana. Ancora una volta Fred Klein aveva agitato là bacchetta magica della Covert-One, questa volta facendo leva sugli importanti contatti che aveva nell'apparato burocratico del Pentagono. Lui e Peter seguirono il membro dell'equipaggio del C17 prima nella cavernosa stiva di carico dell'enorme velivolo e poi sul ponte di volo. Il pilota e il secondo pilota li stavano aspettando in cabina di pilotaggio, già impegnati a leggere e a verificare l'elenco di controllo precedente il decollo. Ognuno dei due aveva davanti a sé un HUD - head-up display, o schermo polifunzionale a vista alta - già in funzione. Sulla plancia di controllo posta sotto il parabrezza quattro grossi monitor multifunzione lampeggiavano in sequenza, mostrando le condizioni continuamente aggiornate dei quattro motori, del sistema idraulico, dell'avionica e di altri comandi. Il maggiore Harris, il pilota, si voltò verso di loro quando entrarono in cabina. «Allora, signori, siete pronti a partire?» domandò a denti stretti, ponendo un'inequivocabile enfasi sulla parola «signori» per chiarire che non era il termine che avrebbe preferito impiegare. Smith annuì con un'aria di scuse. «Pronti, maggiore» rispose. «E mi scuso per il breve preavviso. Se può servire a consolarla, stiamo conducendo un'indagine della massima importanza, non stiamo facendo una scampagnata da VIP esaltati.» Solo vagamente rabbonito, Harris indicò con il pollice i due sedili alla sua destra. «Be', sedetevi lì e allacciate le cinture di sicurezza.» Poi si allungò verso il secondo pilota. «Mettiamo in moto questa carretta, Sam. Adesso siamo in orario.» I due ufficiali dell'aviazione militare rivolsero l'attenzione ai comandi e condussero il grosso velivolo lungo la pista di collegamento, rullando lentamente verso quella di decollo. Il rombo dei quattro turboreattori del C-17 aumentò quando Harris spinse in avanti le leve dell'acceleratore con la
mano sinistra. Dopo che Jon e Peter ebbero allacciato le cinture di sicurezza, l'addetto al carico consegnò a entrambi un casco con una cuffia radio incorporata. «Le trasmissioni aria-terra non sono certo all'altezza dell'intrattenimento commerciale su un volo di linea nazionale» li informò, alzando la voce per farsi sentire oltre il frastuono ormai assordante dei turboreattori. «Cosa?!» esclamò Peter con espressione inorridita. «Intende dire che non ci sono né hostess né champagne o caviale?!» Quasi suo malgrado, il membro dell'equipaggio ristretto del C-17 ricambiò il sorriso. «No, signore. Solo io e il mio caffè.» «Preparato con tanto di caffettiera e macinato fresco, spero» osservò l'inglese. «No. Decaffeinato solubile» ribatté il sergente dell'Air Force, esibendo un sorriso smagliante. Poi sparì, prendendo posto nella stiva di carico dell'aereo. «Dio del cielo! I sacrifici che mi tocca fare per la regina e la patria!» mormorò Peter ammiccando fugace in direzione di Smith. L'aviogetto vibrò in una breve curva stretta, allineandosi con la lunga pista di decollo. Davanti a loro, un Boeing 737 della Southwest Airlines si staccò da terra in fase di decollo e si inclinò di lato in virata verso nord. «Air Force Charlie Uno-Sette, siete autorizzati al decollo immediato» gracchiò all'improvviso negli auricolari di Smith la voce del controllore di volo dalla torre di controllo del traffico aereo. «Roger, Torre» replicò Harris. «Charlie Uno-Sette in partenza.» Il pilota spinse fino in fondo le leve dell'acceleratore dei quattro turboreattori. Il C-17 prese velocità sulla pista di decollo e Jon si sentì schiacciare contro l'imbottitura del sedile. Meno di un minuto dopo erano in volo, in vertiginosa arrampicata per prendere quota sopra il mosaico di case, autostrade senza pedaggio e parchi di Albuquerque. Erano in volo a undicimila metri di quota, in un punto imprecisato sopra il Texas occidentale, quando il secondo pilota si allungò all'indietro e batté sul ginocchio di Smith. «C'è una trasmissione ad alta sicurezza per lei, colonnello» disse. «Gliela passo in cuffia.» Smith annuì per ringraziarlo. «Devo aggiornarla sulla situazione, colonnello» annunciò la voce familiare di Fred Klein. «Anche il vostro bersaglio è in volo, diretto a est alla base aerea di Andrews. In questo preciso momento si trova approssimati-
vamente a quattrocento miglia davanti al vostro aereo.» Jon fece un rapido calcolo mentale. Il C-17 aveva una velocità di crociera di cinquecento nodi circa, il che significava che l'executive jet a bordo del quale c'era Kit Pierson sarebbe atterrato all'aeroporto militare di Andrews almeno quarantacinque minuti prima di loro. Corrugò la fronte. «Riusciamo a escogitare qualcosa per farla ritardare? Possiamo chiedere alla FAA (Federal Aviation Administration) di mettere il suo velivolo in un'orbita di posteggio temporanea finché non saremo atterrati?» «Ahimè, no» rispose Klein in tono sconfortato. «Non senza esporci in modo eccessivo. Organizzare questo volo è già stato abbastanza complicato.» «Maledizione!» «Forse la situazione non è così disastrosa come sembra» lo rincuorò Klein. «Il vostro bersaglio ha in programma una riunione all'Hoover Building e c'è un'auto ufficiale pronta a partire per condurla sul posto direttamente dall'aeroporto. Qualsiasi altra cosa abbia in mente, non potrà che portarla a termine solo dopo questo impegno. Quindi dovrebbe avere il tempo necessario di seguire le sue tracce a Washington.» Smith rifletté sull'informazione. Il direttore della Covert-One probabilmente aveva ragione, decise. Benché fosse abbastanza sicuro che il vero scopo del frettoloso ritorno di Kit Pierson a Washington andasse ben oltre la riunione informativa ad alto livello in cui avrebbe aggiornato personalmente i suoi superiori dell'FBI, la donna sarebbe stata costretta a recitare fino in fondo la sua parte, fingendo che quello fosse realmente l'unico motivo del suo rientro nella capitale. «Che mi dice dei veicoli e dell'attrezzatura di cui ho fatto richiesta?» domandò a Klein. «Vi stanno aspettando» assicurò l'uomo. Poi il suo tono di voce si fece più tagliente. «Ma non sono ancora convinto che il coinvolgimento di Howell in questa fase dell'operazione sia stata una buona idea, colonnello. È un tipo sveglio, forse anche troppo. Non dimentichi che la sua lealtà va a una nazione che non è la nostra.» Smith lanciò un'occhiata a Peter. L'inglese stava guardando fuori dal finestrino laterale della cabina di pilotaggio il panorama sterminato di masse di nuvole alla deriva e la piatta campagna marrone, apparentemente infinita, che stavano sorvolando. «Non può fare altro che fidarsi di me» disse a Klein sottovoce. «Anni fa, quando mi assunse per questo spettacolo, mi disse che aveva bisogno di persone intraprendenti e autonome, insofferenti
a seguire le regole precise richieste da organizzazioni d'altro genere. Gente disposta a sfuggire al sistema pur di ottenere dei risultati. Ricorda?» «Sì» rispose Klein. «E dicevo sul serio.» «Be', in questo momento sto sfuggendo al sistema» dichiarò Smith con fermezza. «Peter è già completamente immerso nel problema che stiamo affrontando anche noi. Per di più, è dotato di capacità, istinto e intelligenza che possiamo sfruttare a nostro vantaggio.» All'altro capo della comunicazione ci fu un silenzio che durò il tempo necessario a Klein per digerire la cosa. «Sa essere davvero persuasivo quando vuole, colonnello» disse alla fine. «D'accordo, collabori pure con Howell, ma si ricordi: il suo amico inglese non dovrà mai sapere dell'esistenza della Covert-One. Assolutamente mai. Mi ha capito bene?» «Mi faccio una croce sul cuore e che io muoia se parlo, capo» rispose Smith. Klein sbuffò. «Mi sembra giusto, Jon.» Il direttore della Covert-One si schiarì la gola. «Mi informi non appena sarete atterrati, d'accordo?» «Senz'altro» replicò Smith. Poi si allungò in avanti per valutare sul pannello di controllo, che indicava la loro posizione, la distanza dalla base aerea di Andrews e la velocità cui stavano procedendo. «Dovrebbe essere più o meno intorno alle nove di sera, vostra ora locale.» Capitolo 27 La Courneuve, periferia di Parigi, Francia I tetri, inumani progetti di ciclopica edilizia popolare dei bassifondi parigini, le cosiddette cités, si ergevano alti e neri sullo sfondo cupo della notte. L'architettura scelta per la loro realizzazione - massiccia, oppressivamente tetra e intenzionalmente sterile - era un monumento agli ideali grotteschi dell'architetto svizzero Le Corbusier, che ragionava unicamente in termini utilitaristici. I progetti di ristrutturazione di interi quartieri poveri dimostrano anche la tirchieria dei burocrati francesi, il cui unico obiettivo era quello di ammassare al massimo della capienza, e in spazi il più possibile ristretti, gli immigrati indesiderati, perlopiù musulmani, della loro augusta nazione. Le luci dei pochi lampioni, sopravvissuti agli atti di vandalismo, brillavano intorno alla massa di calcestruzzo imbrattata di murales e graffiti della Cité des Quatre Mille, la «città dei quattromila», un noto rifugio per la-
dri, borseggiatori, teppisti, spacciatori ed estremisti islamici. I poveri ma onesti erano intrappolati all'interno di una prigione de facto, essenzialmente diretta dai criminali e dai terroristi che si mescolavano alla gente comune. Le carcasse carbonizzate di auto depredate affollavano le vie costellate di buche e pozzanghere di quella specie di ghetto. I pochi negozi del quartiere erano barricati dietro a grate di ferro oppure ridotti a rovine e macerie saccheggiate e annerite da incendi dolosi. Ahmed ben-Belbouk vagava furtivo nella notte, un'ombra tra le altre. Indossava un lungo impermeabile nero per ripararsi dall'aria pungente e un kufi per coprirsi almeno in parte la testa. Era sul metro e settanta d'altezza, e si era fatto crescere una barba incolta e arruffata, che mascherava solo parzialmente le cicatrici da acne che gli butteravano il volto rotondo e paffuto. Francese di nascita, algerino d'origine e fedele seguace dell'Islam fondamentalista, ben-Belbouk era un addetto al reclutamento per la jihad contro l'America e il decadente Occidente. Aveva la sua base operativa in un ufficio sul retro di una delle moschee del quartiere, dove esaminava in tutta tranquillità e con oculatezza chi sembrava voler essere coinvolto alla chiamata alle armi per la guerra santa. Ai candidati ritenuti, a suo insindacabile giudizio, più promettenti venivano forniti passaporti falsi, denaro in contanti e biglietti aerei, dopodiché venivano espatriati per essere addestrati in qualche campo segreto per terroristi fuori dalla Francia. Ora, dopo una lunga giornata di «lavoro», stava finalmente tornando allo spoglio, lercio appartamentino assegnatogli dall'assistenza sociale, un alloggio cortesemente fornitogli dallo Stato. I fondi segreti a sua disposizione gli avrebbero permesso di vivere in un'abitazione decisamente più dignitosa, tuttavia ben-Belbouk riteneva fosse meglio abitare tra coloro della cui fedeltà andava in cerca. Quando questi vedevano che condivideva le loro stesse difficoltà, e la loro stessa disperazione, erano maggiormente disposti ad ascoltare i suoi sermoni intrisi di odio e i suoi appelli alla vendetta contro gli oppressori occidentali. Tutt'a un tratto, il reclutatore terrorista notò un certo movimento lungo la buia avenue un po' più avanti. Si fermò. Era strano. A quell'ora, di solito, le vie del quartiere erano completamente deserte. Quelli che tenevano alla loro incolumità e le persone oneste erano già corsi a casa a farsi piccini dietro le loro porte sprangate, mentre i delinquenti e gli spacciatori stavano ancora dormendo oppure erano troppo impegnati ad abbandonarsi con indulgenza ai loro vizi e alle loro malvagie abitudini, per trovarsi in strada a bighellonare.
Ben-Belbouk si intrufolò furtivo nel buio atrio all'ingresso di una panetteria devastata da un incendio e restò immobile, all'erta. Infilò la mano destra nella tasca dell'impermeabile e tastò il calcio della pistola che portava sempre con sé, una Glock 19 a canna corta. Le bande di teppisti da strada e gli altri piccoli delinquenti della microcriminalità che depredava i residenti della Cité di solito stavano alla larga dai tizi come lui, ma ben-Belbouk preferiva comunque provvedere personalmente alla propria sicurezza. Dal suo nascondiglio improvvisato, osservò l'attività con crescente sospetto. C'era un furgone parcheggiato vicino alla base di uno dei tanti lampioni rotti a sassate. Due uomini in tuta da lavoro erano scesi dal veicolo e reggevano una scala a un terzo tecnico che stava lavorando a qualcosa che si trovava sull'estremità superiore del lampione di ferro. Era forse una squadra di operai della società elettrica di proprietà dello Stato, spediti lì per una qualche donchisciottesca missione a riparare di nuovo i lampioni già distrutti almeno una decina di volte dai teppistelli del quartiere? Gli occhi dell'uomo con la barba incolta si ridussero a due fessure, poi, senza fare rumore, spuntò di lato. No, non era possibile. I rappresentanti del governo francese erano disprezzati, per non dire odiati, in quella zona della città. I poliziotti venivano ingiuriati e assaliti appena avvistati. BAISE LA POLICE, «in culo alla polizia», era la scritta in assoluto più popolare sui muri della Cité des Quatre Mille. Perfino i vigili del fuoco mandati in zona a domare i frequenti incendi dolosi venivano accolti con un lancio di sassi e di bottiglie molotov. Dovevano essere scortati da mezzi blindati della polizia o dell'esercito. Sicuramente nessun elettricista con due dita di cervello avrebbe osato metter piede a La Courneuve. Specialmente dopo il tramonto, e di certo non senza l'appoggio di un distaccamento di agenti di polizia bene armati e in tenuta antisommossa che ne proteggesse l'incolumità. Perciò, chi erano quei tre scriteriati, e che cosa stavano facendo? BenBelbouk li osservò con maggiore attenzione. Il tecnico in cima alla scala sembrava stesse installando un qualche tipo di apparecchio elettrico: una scatoletta rettangolare di plastica grigia. Ben-Belbouk rivolse lo sguardo verso gli altri lampioni visibili da quel tratto di strada. Sorpreso, notò altre scatolette di plastica, identiche a quella alla quale stava lavorando l'operaio in cima alla scala, montate su altri lampioni a intervalli precisi. Nonostante la strada fosse poco illuminata, ben-Belbouk distinse su ogni scatoletta degli scuri fori rotondi. Erano forse obbiettivi di telecamere? I suoi sospetti diventarono subito certezze. Quei
cochons, quei porci asserviti allo Stato, stavano installando qualcosa, forse un nuovo impianto di sorveglianza, che avrebbe stretto la morsa del governo su quella zona senza legge. Non poteva permettere questa intrusione senza opporre resistenza. Per un momento rifletté, combattuto, se fosse il caso o meno di allontanarsi furtivo per andare a svegliare le confraternite islamiche locali e incitarle alla sollevazione popolare. Poi ci ripensò: le tre spie avrebbero potuto nel frattempo portare a termine il loro lavoro e dileguarsi. Inoltre, erano disarmate. Sarebbe stato più sicuro e anche più appagante occuparsi da solo della faccenda. Ben-Belbouk estrasse dalla tasca dell'impermeabile la sua Glock e uscì allo scoperto, tenendo l'arma abbassata con discrezione lungo il fianco. Si fermò a pochi passi di distanza dal trio di tecnici della società elettrica. «Ehi, voi!» intimò deciso. «Cosa state combinando?» I due operai che reggevano la scala trasalirono e si voltarono a guardare il tizio che si era rivolto loro. Il terzo uomo, impegnato a stringere le viti di fissaggio della scatoletta al palo del lampione, continuò a lavorare imperterrito. «Avete sentito? Cosa diavolo state combinando?» ripeté ben-Belbouk con un tono di voce più alto e imperioso. Uno dei due alla base della scala alzò le spalle con aria infastidita. «Il nostro lavoro non sono affari che la riguardano, messieur» rispose sprezzante. «Tiri dritto per la sua strada e ci lasci in pace.» Il barbuto estremista islamico si infuriò. Le sue labbra sottili si piegarono all'ingiù in un'espressione torva e feroce. Impulsivamente, alzò la mano armata mostrando la Glock che aveva in pugno. «Questa» ringhiò, puntando la pistola contro i tre intrusi «fa sì che diventino affari miei.» Si avvicinò ulteriormente al trio. «E adesso rispondete alla mia domanda, luridi bastardi, prima che perda la pazienza!» Non udì il colpo sparato col silenziatore responsabile della sua inaspettata morte. Il proiettile da fucile da 7.62mm colpì Ahmed ben-Belbouk dietro l'orecchio destro e gli attraversò il cranio fino al lato sinistro. Frammenti d'osso polverizzato e di materia cerebrale finirono sul selciato. Il reclutatore terrorista si accasciò al suolo, morto sul colpo. Al sicuro, all'ombra di un vicolo costellato di rifiuti e di spazzatura, l'erculeo Nones diede un colpo leggero sulla spalla del cecchino al suo fianco.
«Un tiro di tutto rispetto» commentò sottovoce. Il suo compagno abbassò il fucile di precisione Heckler & Koch PSG-1 munito di silenziatore e sorrise con espressione riconoscente. Parole di elogio da parte di uno dei tre temibili «Orazi» erano davvero gratificanti. Nones premette il pulsante d'attivazione del microfono radio appuntato sulla giacca e comunicò con la coppia di osservatori che aveva fatto appostare sui tetti nelle vicinanze, a sorveglianza e protezione dei suoi tre tecnici. «Ci sono altri segni di movimento?» «Negativo» replicarono entrambi, a turno. «È tutto tranquillo.» L'uomo dagli occhi verdi annuì soddisfatto. L'incidente era spiacevole, ma evidentemente non rappresentava una seria minaccia alla sicurezza operativa della loro missione. Omicidi e sparizioni non erano certo una novità a La Courneuve e nessuno si sarebbe sorpreso più del dovuto: un ennesimo morto per strada significava poco o nulla. Nones cambiò frequenza al microfono radio per mettersi in contatto con i tre tecnici. «Ne avete ancora per molto?» domandò. «Abbiamo quasi finito» riferì il caposquadra. «Un paio di minuti soltanto.» «Bene.» Nones si rivolse di nuovo al cecchino. «Tieniti pronto. Io e Shiro ci occuperemo del cadavere.» Poi lanciò un'occhiata all'uomo molto più basso di lui che era accovacciato alle sue spalle. «Vieni con me.» A un centinaio di metri circa dal punto in cui ora Ahmed ben-Belbouk giaceva morto, una donna magrolina e slanciata restò bocconi, immobile, nascosta sotto il telaio annerito di una piccola utilitaria Renault, evidentemente presa di mira da qualche piromane. La donna indossava una tuta aderente di cotone nero che le copriva il busto, le braccia e le gambe, guanti neri, stivaletti neri e un passamontagna nero che le nascondeva i capelli biondo oro. Fissò l'immagine nel binocolo per la visione notturna. «Brutti figli di puttana!» imprecò sottovoce. Poi, sempre sottovoce, parlò nel suo microfono radio. «Hai visto cos'è successo, Max?» «Sì» confermò il suo subalterno, appostato qualche decina di metri più indietro, al riparo di un rado boschetto di alberi morti. «Anche se non riesco a crederci, ho visto tutto.» L'agente segreto della CIA Randi Russell puntò il binocolo in modalità visione notturna sui tre uomini raggruppati intorno al lampione. Osservò in silenzio la scena, mentre altri due sconosciuti - un tipo straordinariamente alto e dai capelli castani, e un asiatico - attraversarono la strada e si uniro-
no agli altri tre. Lavorando con rapidità ed efficienza, i due nuovi arrivati fecero rotolare il cadavere di ben-Belbouk in un telo di plastica nera e lo trascinarono via. Randi digrignò i denti. Insieme a quel morto se ne andavano i risultati ottenuti in svariati mesi di dura, concentrata ricerca, complicata pianificazione e rischiosa sorveglianza segreta. Da mesi, infatti, la sua squadra del distaccamento parigino della CIA aveva il compito ufficiale di indagare sul reclutamento di aspiranti terroristi islamici in Francia. Scovare benBelbouk era stato come scoprire la pentola d'oro a una delle due estremità dell'arcobaleno. Tenendo sotto regolare controllo i numerosi contatti di ben-Belbouk, lei e i suoi colleghi stavano cominciando a mettere insieme dossier personali di vasta portata su una schiera di soggetti davvero pericolosi, proprio il genere di fanatici che traevano godimento nell'assassinare migliaia di persone innocenti. E ora tutta la sua operazione era saltata in aria, completamente rovinata a causa di un colpo sparato con il silenziatore. Randi Russell si sfregò il naso perfettamente diritto con l'indice inguantato, riflettendo con razionalità. «Chi diavolo sono quei balordi?» mormorò. «Forse gente della DGSE? O del GIGN?» ipotizzò Max a bassa voce alla radio, nominando sia il servizio segreto francese che si occupava di questioni internazionali sia gli specialisti antiterrorismo che operavano a livello nazionale. Randi annuì tra sé. Era possibile. Era risaputo che i servizi di intelligence francesi e le unità antiterrorismo parigine avevano la mano molto pesante. Era appena stata testimone di un «lavoretto sporco» autorizzato dal governo, volto a liberare la Francia da una minaccia alla sicurezza dello Stato senza le noie e i costi di un arresto formale e di un processo pubblico? Può darsi, pensò con freddezza. In questo caso, però, era stata una mossa assurda e controproducente. Da vivo, Ahmed ben-Belbouk aveva rappresentato una finestra con vista diretta sul mondo segreto e micidiale del terrorismo islamico internazionale: un mondo quasi impossibile da penetrare per gli Stati Uniti e per gli altri servizi segreti occidentali. Da morto, non serviva a nessuno. «Stanno per allontanarsi, capo» le sussurrò la voce di Max nell'orecchio. Randi osservò attentamente i tre uomini in tuta da lavoro chiudere la scala, caricarla sul furgone e allontanarsi dalla zona. Poco dopo, due auto-
mobili, una BMW blu scuro e una Ford Escort, sbucarono nel viale buio e seguirono il furgone. «Ti sei annotato le targhe di quei veicoli?» chiese Randi. «Sì, capo» rispose Max. «Sono targhe parigine.» «Bene. Faremo una rapida ricerca nei nostri database non appena avremo finito qui. Forse ci aiuterà a capire chi sono gli idioti che ci hanno appena rifilato un calcio nei denti» commentò Randi in tono lugubre. Randi restò immobile ancora per qualche minuto e mise di nuovo a fuoco il binocolo sulle scatolette di plastica grigia montate in cima ai lampioni lungo l'avenue e nelle immediate vie laterali. Più le esaminava, più c'era qualcosa che non le tornava. Assomigliavano molto ai contenitori per sensori, stabilì Randi, complete di diversi fori per obbiettivi da telecamere, prese d'aria per dispositivi di rilevamento delle polveri sottili, e piccole ma robuste antenne da miniripetitori per la trasmissione di dati sulla parte superiore. Strano, pensò Randi. Molto strano. Perché qualcuno avrebbe dovuto sprecare soldi per installare un'intera rete di apparecchiature così costose in un miserabile quartiere degradato come La Courneuve? Le scatolette passavano relativamente inosservate, ma non erano certo invisibili. Non appena quelli del quartiere le avrebbero notate, tutta quell'attrezzatura avrebbe avuto i minuti contati. Allora per quale motivo assassinare ben-Belbouk? Solo perché stava cominciando a creare scompiglio? Randi scosse il capo, frustrata. Senza ulteriori tasselli di quel mosaico, nulla di quello a cui aveva assistito quella notte aveva molto senso. «Sai, Max, credo che faremmo meglio a dare un'occhiata più da vicino a quello che quegli intrusi hanno installato» disse al suo subalterno. «Ma per farlo, dovremo tornare qui con una scala.» «Non stanotte, però» la avvertì il suo uomo. «Non ne abbiamo più il tempo. I matti, gli ubriachi, i drogati e i militanti della jihad islamica saranno per strada da un momento all'altro, capo. Occorre filarcela mentre siamo ancora in tempo.» «Sì, hai ragione» ammise Randi. Ritirò il binocolo e strisciò fuori all'indietro con femminea grazia da sotto la carcassa carbonizzata della piccola Renault. La sua mente non aveva ancora smesso di rimuginare su quello a cui aveva assistito e a formulare ipotesi di ogni sorta. Più ci rifletteva, meno le sembrava probabile che l'uccisione di ben-Belbouk fosse stato lo scopo primario degli uomini intenti a installare quello strano schieramento di sensori. Forse l'assassinio del reclutatore fondamentalista era solo il det-
taglio di un effetto collaterale imprevisto. Allora chi erano quegli uomini, si domandò, e qual era il loro obiettivo? Capitolo 28 Domenica 17 ottobre Campagna della Virginia La viceassistente del direttore dell'FBI Kit Pierson notò all'improvviso il cartello stradale inquadrato dai fasci di luce degli abbaglianti della sua Volkswagen Passat verde. HARDSCRABBLE HOLLOW - 400 METRI. Quello era il punto di riferimento che gli avevano indicato. Toccò leggermente il pedale del freno, rallentando. Non voleva rischiare di oltrepassare, senza accorgersene, la diramazione secondaria che conduceva alla fattoria in rovina di Hal Burke. L'ondulata campagna della Virginia era avvolta nell'oscurità. Solo uno spicchio di luna proiettava un fioco chiarore attraverso lo spesso strato di nuvole. Sparpagliate qui e là su quelle basse colline boscose sorgevano poche altre case e aziende agricole, ma era mezzanotte passata e chi vi abitava era già a letto da un pezzo. Con le faccende domestiche e le funzioni religiose della domenica, la maggior parte della gente in quella regione della Virginia andava a riposarsi presto. La stradina d'accesso al ritiro di campagna del suo omologo della CIA le apparve di colpo davanti, disseminata di solchi, e la «Regina d'inverno» rallentò ulteriormente. Prima di imboccare lo sterrato, però, controllò nello specchietto retrovisore la strada dietro di sé. Niente. Non c'erano altri fari in vista lungo tutto quel tratto di strada desolata. Era ancora sola. In parte rassicurata da quel senso di isolamento totale, Kit Pierson imboccò con la Passat il sentiero e lo seguì in salita sulla collina verso la casa colonica. Le luci erano accese, e si spandevano all'esterno sul fianco del declivio assediato da rovi ed erbacce, attraverso le tendine non completamente tirate. Burke la stava aspettando. Kit parcheggiò accanto all'auto del padrone di casa, una vecchia Mercury Grand Marquis, scese dall'auto e si diresse a passo veloce verso l'ingresso. La porta si spalancò prima ancora che avesse il tempo di bussare. Il robusto agente della CIA dalla pronunciata mascella quadrata le si parò davanti. Aveva l'aria stanca e scompigliata, gli occhi erano arrossati e le occhiaie scure.
Burke lanciò uno sguardo sospettoso nei dintorni, per assicurarsi che fosse sola, si fece da parte per lasciarla entrare nello stretto corridoio. «Hai avuto qualche problema?» domandò in tono aspro. Kit Pierson aspettò che chiudesse la porta prima di ribattere. «Venendo qui? No» rispose in tono gelido. «Alla riunione con il direttore e il suo staff? Sì.» «Che tipo di problema?» «A Washington erano molto infastiditi di vedermi lì anziché sul campo operativo a proseguire il mio lavoro» esordì Kit concisa. «Anzi, per dirla tutta, ci sono state parecchie frecciatine acuminate riguardo al fatto che il mio rapporto preliminare fosse troppo "esiguo" per giustificare la mia richiesta per una, seppur breve, visita di persona.» L'agente della CIA scrollò le spalle. «Hai insistito tu per un incontro, Kit» le rammentò. «Non era necessario che ci vedessimo qui di persona. Avremmo potuto risolvere questa grana al telefono, se non ti fossi fatta prendere dal panico.» «Con Smith che cominciava a fiatarmi sul collo?» scattò la Pierson, inviperita. «È molto improbabile, Hal.» La «Regina d'inverno» si strinse nelle spalle. «Non so ancora fino a che punto abbia ficcato il naso, ma si sta avvicinando troppo alla verità. Intrometterci e chiudere l'indagine della polizia di Santa Fe è stato un errore madornale. Avremmo dovuto lasciare che i piedipiatti locali proseguissero, senza interferenze, nel tentativo di identificazione del cadavere dell'uomo ucciso.» Burke scosse il capo. «Troppo rischioso.» «I nostri file negli archivi informatici centralizzati erano già stati ripuliti» dichiarò la Pierson con caparbietà. «Non c'è modo di trovare un qualche tipo di collegamento tra quel Dolan e te o me. E neppure tra lui e l'Agenzia o il Bureau. È praticamente impossibile.» «È comunque troppo rischioso» osservò Burke. «Non sottovalutare il fatto che anche altre agenzie governative dispongono di archivi e database riservati, database sui quali non abbiamo nessun controllo. L'esercito ha i suoi file personali, per citarne uno. Diavolo, Kit! Sei l'unica a essere così spaventata da Smith e dai suoi misteriosi datori di lavoro! Sai meglio di me che chiunque dovesse scoprire che Dolan era un ex ufficiale delle Forze Speciali, si sentirebbe nella condizione di cominciare a porre una raffica di dannatissime domande scottanti.» Burke la invitò a seguirlo nel suo studio. La piccola stanza rivestita in legno scuro era resa ancor più angusta da una scrivania, un monitor e una
tastiera, due poltrone, diverse mensole cariche di libri, un televisore e varie scaffalature piene di computer e apparecchiature per le telecomunicazioni. Una bottiglia di Jim Beam senza tappo, vuota a metà, e un bicchiere da whisky campeggiavano sulla scrivania, proprio accanto alla tastiera del computer. Un vago odore ristagnante di sudore, piatti sporchi, muffa e di generale abbandono aleggiava nella stanza. Kit Pierson arricciò il naso, disgustata. Il grand'uomo si sta disintegrando sotto la pressione della situazione, mentre la Tocsin ci sta crollando addosso, pensò con freddezza. «Vuoi bere qualcosa?» brontolò Burke, lasciandosi pesantemente cadere sulla sedia girevole da ufficio dall'altra parte della scrivania. Le fece cenno di accomodarsi sull'unico altro posto disponibile: una vecchia e malconcia poltrona da salotto antico, con il rivestimento liso ridotto alla trama. Kit rifiutò scuotendo il capo e poi restò a guardarlo mentre versava un bicchiere per sé. Il whisky di malto colò dal bordo del bicchiere, formando un cerchio sulla scrivania. Burke ignorò il pasticcio, ingurgitando invece il whisky tutto d'un fiato. Depose il bicchiere sulla scrivania con un tonfo sordo e alzò lo sguardo verso di lei. «Okay, Kit. Perché sei venuta qui, di preciso?» «Per convincerti ad annullare subito la Tocsin» disse lei senza esitazioni. Un angolo della bocca dell'agente speciale della CIA si incurvò verso il basso con un'espressione irritata. «Ne abbiamo già parlato e la mia risposta è sempre la stessa.» «Ma la situazione non è più la stessa, Hal!» lo incalzò la Pierson con veemenza, poi serrò le labbra, riducendole a una riga. «E lo sai benissimo anche tu, solo che non vuoi ammetterlo. L'attentato al Teller Institute avrebbe dovuto costringere il presidente Castilla a opporsi alle manifestazioni del Lazarus Movement prima che fosse troppo tardi... Non era previsto che rafforzasse invece l'appoggio all'organizzazione. E, di certo, non era previsto che innescasse una serie di attentati dinamitardi e di omicidi in tutto il mondo, tutti atti che non siamo in grado di fermare!» «Le guerre hanno sempre conseguenze non prevedibili» sentenziò Burke a denti stretti. «E noi siamo in guerra contro il Lazarus Movement. Forse ti sei dimenticata qual è la posta in gioco in questa faccenda.» Kit scosse la testa. «Non ho dimenticato niente. Ma la Tocsin è solo un mezzo per un fine e non il fine stesso. Tutta questa dannata operazione si sta riducendo in brandelli più in fretta di quanto ti serva per ricucirla e tenerla insieme. È per questo che propongo di farla finita ora e limitare i
danni finché siamo ancora in tempo. Richiama subito le tue squadre d'azione. Di' loro di annullare immediatamente qualsiasi missione in corso e di sparire dalla circolazione per un po'. Una volta fatto questo, potremo programmare la nostra mossa successiva.» Per guadagnare un po' di tempo prima di rispondere, Burke prese la bottiglia di whisky e si riempì un altro bicchiere, senza però toccarlo. Infine fissò negli occhi la donna che aveva di fronte. «Non si può fermare, Kit. L'operazione è andata troppo avanti. Perfino se annullassi la Tocsin in questo stesso istante e ritirassi le nostre truppe scelte, il tuo amichetto dottor Jonathan Smith se ne andrebbe ancora in giro a fare un mucchio di domande, alle quali desideriamo che nessuno dia una risposta.» «Questo lo so bene» osservò la Pierson con amarezza. «Cercare di eliminare il dottor Smith è stato un errore. Non riuscire a ucciderlo è stato un disastro.» «Quel che è fatto è fatto» disse Burke, scrollando le spalle con risolutezza. «Una delle mie unità di sicurezza sta dando la caccia al colonnello. Non appena lo avranno localizzato, lo appenderanno a un chiodo.» La Pierson lo guardò con aria esasperata. «Il che significa che non avete assolutamente idea di dove sia in questo momento.» «È di nuovo sparito nel nulla» ammise Burke. «Ho mandato degli agenti al Dipartimento di polizia municipale di Santa Fe dopo che mi avevi telefonato per informarmi che Smith era andato là a ficcare il naso, ma si è volatilizzato prima che arrivassero sul posto.» «Magnifico!» «Quel bastardo ficcanaso non può essere andato troppo lontano, Kit» continuò in tono fiducioso l'agente speciale della CIA. «Ho appostato degli agenti a sorveglianza dei terminal degli aeroporti di Santa Fe e di Albuquerque, e dispongo anche della collaborazione di una talpa infiltrata nella Homeland Security, che sta controllando ogni lista passeggeri di qualsiasi volo di linea in cerca del suo nome. Nell'attimo stesso in cui riemergerà in superficie, lo saprò. E quando lo farà, i nostri uomini chiuderanno la partita.» Burke le rivolse un sorrisino beffardo. «Fidati di me per questo problemino. Okay? A tutti gli effetti, Smith non è nient'altro che un morto che cammina.» Lungo la strada di campagna ai piedi della collina, i conducenti delle due automobili di colore scuro, che avevano viaggiato a velocità ridotta e a fari spenti nella notte, girarono le chiavi nel blocchetto di accensione per spe-
gnere il motore e proseguirono per inerzia in folle, accostando al ciglio della County Road, non lontano dallo sterrato che saliva in collina. Con indosso ancora gli speciali occhiali attivi in modalità visione notturna AN/PVS 7 in dotazione all'esercito americano utilizzati per guidare a fari spenti, Jon Smith scese un po' irrigidito dalla seconda auto e, sgranchendosi le gambe, si diresse verso il veicolo che lo aveva preceduto. Peter Howell abbassò il finestrino quando Smith gli fu vicino. Vedendoli attraverso i suoi occhiali speciali, i denti dell'inglese produssero un lampo bianco in quel buio pesto. «Un viaggio alquanto eccitante, eh, Jon?» Smith annuì con espressione ironica. «Oserei dire incantevole.» Roteò adagio la testa sul collo e poi anche le spalle, prima da una parte e poi dall'altra, per sciogliere i muscoli tesi, sentendoli scattare e scricchiolare insieme alle giunture. Gli ultimi quindici minuti di guida erano stati snervanti. L'attrezzatura per la visione notturna era davvero sofisticata, ma anche così le immagini prodotte dagli speciali occhiali di terza generazione non erano perfette: erano monocromatiche, di un verde smorto e ancora troppo sgranate, quindi ci volevano un notevole sforzo di concentrazione e un'attenzione continua, per evitare di finire fuori strada o di andare a sbattere contro il veicolo che avevi davanti. Invece, seguire la berlina governativa che aveva portato Kit Pierson dall'Hoover Building dell'FBI all'abitazione privata della donna a Georgetown si era rivelato un gioco da ragazzi. Perfino a tarda ora, il sabato sera le strade di Washington erano intasate di auto, camion, furgoncini e taxi: non era stato per niente difficile tenersi a distanza di due o tre auto senza essere notati. Né Jon né Peter si erano sorpresi nel vedere la viceassistente del direttore dell'FBI ripartire da casa sua pochi minuti dopo esservi rientrata, questa volta usando la sua auto privata. Entrambi erano stati sicuri fin dall'inizio che quell'improvvisa riunione alla sede del Bureau fosse solo una copertura, un modo per mascherare il vero motivo del suo così brusco rientro a Washington dal New Mexico. Di nuovo, l'inseguimento era stato relativamente facile, almeno all'inizio, ma poi la «Regina d'inverno» era uscita dall'autostrada e aveva imboccato una successione di strade secondarie, dove le auto erano più rare. Kit Pierson non era una stupida: se avesse notato le stesse due coppie di fari brillare nel suo specchietto retrovisore un chilometro dopo l'altro di campagna buia, quasi completamente deserta, si sarebbe di certo insospettita.
Era stato a quel punto che sia Jon sia Peter erano stati costretti a indossare i loro speciali occhiali per la visione notturna e a spegnere i fari. Nonostante queste precauzioni, avevano comunque prestato attenzione a restare indietro rispetto alla Passat, sperando di azzeccare le deviazioni o gli incroci che la Pierson avrebbe imboccato per arrivare al suo rendez-vous. Smith osservò la strada sterrata che saliva in collina. Stentava appena a distinguere una piccola casa colonica sulla cima. Le luci alle finestre erano accese e riusciva a intravedere due auto posteggiate davanti alla porta. Apparentemente poteva essere il posto che stavano cercando. «Che cosa ne pensi?» domandò a Peter sottovoce. L'inglese indicò la carta topografica in scala 1:20.000 dell'U.S. Geological Survey aperta sul sedile del passeggero accanto a sé. Faceva parte della serie di piantine stradali incluse nell'equipaggiamento fornito loro dalla base aerea di Andrews. Gli illuminatori a raggi infrarossi di cui erano equipaggiati gli occhiali speciali permettevano loro di leggere la mappa. «Questa stradina non va da nessun'altra parte se non a quella fattoria là in alto» disse Peter. «E dubito che la nostra cara signorina Pierson abbia in programma di portare la sua berlina troppo lontano su queste strade accidentate di campagna.» «Perciò cosa hai in mente di fare?» chiese Smith. «Propongo di tornare indietro di circa mezzo chilometro» rispose Peter. «Mentre passavamo, ho notato che là dietro c'è un boschetto isolato dove possiamo lasciare le auto in modo che nessuno le veda. Dopo aver indossato il resto dell'equipaggiamento, ci dirigiamo a piedi, senza fare rumore, verso quella casa.» L'inglese fece balenare di nuovo i denti bianchi nel buio. «Ti confesso che mi piacerebbe tanto sapere a chi ha scelto di fare visita l'intraprendente signorina Pierson a quest'ora della notte. E vorrei tanto sentire quello di cui stanno parlando.» Smith annuì con aria tetra, improvvisamente certo che parte delle risposte che gli occorrevano erano chiuse in quella casa sulla collina, fiocamente illuminata. Capitolo 29 Pressi di Meaux, est di Parigi, Francia Le rovine del Château de Montceaux, più noto come il Castello delle Regine, sorgevano ai margini della foresta omonima, una distesa di boschi
che si alzava sopra la sponda meridionale della serpeggiante Marna, una cinquantina di chilometri a est di Parigi. Costruito intorno alla metà del Cinquecento per ordine della potente e astuta regina Caterina de' Medici, moglie di un re di Francia e madre di altri tre re, l'elegante palazzo di campagna, con il vasto parco circostante e la riserva di caccia, era stato abbandonato intorno al 1650. Ora, dopo secoli di trascuratezza, rimaneva ben poco: solo la struttura cava di un imponente e grandioso padiglione d'ingresso in pietra, il fossato rettangolare e alcune mura sgretolate, nelle quali si aprivano delle finestre prive di battenti. Fili di nebbia si incurvavano tra gli alberi circostanti, sfaldandosi lentamente al calore dei raggi del sole mattutino. Le campane della cattedrale di Saint-Ètienne a Meaux, a meno di otto chilometri di distanza, suonavano a festa, chiamando a raccolta i fedeli, per pochi che fossero in questi tempi moderni, alla messa domenicale. Altri scampanii risuonavano da una parte all'altra della quieta campagna, provenienti dalle chiese delle parrocchie più piccole, nei villaggi vicini. Due furgoni, con al traino un paio di roulotte, erano fermi in una grande radura non lontano dalle rovine. Grandi stemmi adesivi incollati sui veicoli permettevano di identificarli come parte di un'associazione che si chiamava Groupe d'Aperçu Météorologique, gruppo di valutazione meteorologica. Diversi tecnici erano impegnati sul retro delle roulotte, intenti a erigere due rampe di lancio ad angolazione studiata, puntate in direzione ovest. Ogni rampa di lancio comprendeva un sistema a catapulta meccanica ad aria compressa. Altri uomini stavano armeggiando su un paio di veivoli a elica senza equipaggio, ognuno dei quali lungo all'incirca un metro e mezzo, con un'apertura alare di due metri e mezzo. Nones era in piedi nelle immediate vicinanze e sorvegliava la sua squadra, che stava completando il lavoro assegnatole. Rapporti periodici da parte delle sentinelle appostate nel bosco intorno alla radura gli gracchiavano nella cuffia radio. Non c'era segno di un'indesiderata curiosità da parte degli agricoltori locali. Uno dei tecnici degli aeromobili, un asiatico dalle spalle curve con radi capelli neri, si alzò lentamente in piedi. Poi si voltò verso il terzo membro degli «Orazi» con un'espressione di sollievo disegnata sul volto stanco e rugoso. «I carichi utili sono sicuri. I motori, l'avionica, gli impianti UHF e i sistemi di controllo di volo in autonomia sono stati testati e sono collegati. Le coordinate di rotta a navigazione GPS satellitare sono state configurate e confermate. I due aeromobili sono pronti a volare.»
«Bene» ribatté Nones. «Preparatevi per il lancio.» Nones si fece da parte mentre i tecnici sollevavano con cura i due aeromobili, che pesavano circa cinquanta chili ciascuno, e li portavano verso le due rampe di lancio. I suoi occhi, di un verde brillante, li seguirono con vivo apprezzamento. I due velivoli senza equipaggio erano costruiti sul modello dei prototipi usati dall'esercito americano a scopo di ricognizione tattica a corto raggio, disturbo elettronico delle comunicazioni nemiche e rilevamento di armi chimiche, biologiche e nucleari aviotrasportate. Ora lui e i suoi uomini avrebbero sperimentato in modo assolutamente pionieristico un impiego del tutto nuovo per quegli aeromobili robotizzati. Nones cambiò frequenza radio e si mise in contatto con la squadra di sorveglianza arrivata di recente in Francia e che aveva schierato a Parigi. «State ricevendo dati dalla zona bersaglio, Linden?» domandò. «Sì» confermò l'olandese. «Tutti i sensori a distanza e le telecamere sono operativi.» «E le condizioni meteorologiche?» «Temperatura, pressione atmosferica, umidità, direzione e velocità del vento rientrano tutte nei parametri di missione programmati» riferì Linden. «Il Centro raccomanda di procedere non appena siamo pronti.» «Ricevuto» disse Nones con calma. Si voltò verso i tecnici in attesa. «Indossate maschere e guanti» ordinò. Gli uomini si affrettarono a obbedire, infilandosi le maschere antigas, gli autorespiratori e i guanti di gomma spessa destinati a concedere loro tempo a sufficienza per fuggire dall'area se uno dei loro aeromobili fosse precipitato poco lontano dopo un lancio difettoso. Il terzo membro degli «Orazi» fece la stessa cosa e indossò la tenuta e l'attrezzatura protettiva personale. «Catapulte pressurizzate e pronte all'uso» annunciò il tecnico asiatico, che si accovacciò davanti a una consolle di comando piazzata tra le due rampe angolate. Le sue dita restarono un attimo in sospeso su una serie di interruttori. Nones sorrise. «Procedi.» L'asiatico annuì. Fece scattare due interruttori. «Motori ed eliche avviati.» Le eliche a due pale su entrambi gli aeromobili senza equipaggio si misero improvvisamente a girare, ruotando con un vago ronzio a basso regime quasi impossibile da udire a pochi metri di distanza. «Motori a pieno regime.»
«Lanciate!» ordinò l'uomo dagli occhi verdi. Con uno sbuffo a risucchio sommesso, la prima catapulta pneumatica sparò il suo proiettile, scagliando l'aeromobile a esso collegato su per la rampa di lancio ad angolazione studiata e in aria, in un arco alto a parabola inclinata. Per un istante, all'estremità opposta dell'arco, l'aeromobile parve sul punto di precipitare a terra, invece salì, sostenuto dalla portanza fornita dalle ali e dall'elica. Ancora in graduale ascesa, sorvolò gli alberi e si diresse a ovest sulla rotta che era stata precedentemente programmata. Dieci secondi dopo, il secondo aeromobile senza equipaggio seguì il primo. Entrambi i vettori, ora quasi invisibili da terra e troppo piccoli per essere rilevati dalla maggior parte dei radar, salirono costantemente verso la loro quota di crociera di novemila metri e volarono verso Parigi, suppergiù alla velocità di centosessanta chilometri all'ora. Campagna della Virginia Tenendosi basso, Smith seguì Peter Howell a ovest attraverso un vasto campo infestato da erbacce alte e intricati cespugli di rovi pieni di spine. I dintorni sembravano di un vago color verdino attraverso gli occhiali per la visione notturna. A circa duecento metri di distanza alla loro sinistra, la strada asfaltata tagliava diritta nel paesaggio buio. Davanti a loro, il terreno si faceva poco più ripido, salendo dolcemente sopra un laghetto di acqua stagnante ricoperto di melma alla loro destra. La strada sterrata, imboccata da Kit Pierson, si era trasformata in una serpeggiante serie di tornanti che risalivano la bassa collina davanti a loro. Qualcosa di tagliente penetrò con facilità nello spesso strato di tessuto quanto bastava per far scorrere il sangue dalla sua spalla. Jon strinse i denti e proseguì. Peter stava facendo del suo meglio per aprire la strada nella parte peggiore di quella vegetazione fitta e intricata, ma c'erano punti in cui non potevano fare altro che spingersi avanti come tori a testa bassa, ignorando le spine e i rovi che si impigliavano nei loro indumenti e guanti di pelle neri, bucandoli e strappandoli qui e là. A metà tragitto, l'inglese si fermò un momento, lasciandosi cadere a terra su un ginocchio. Scrutò attentamente il terreno intorno a loro, poi fece cenno a Smith di raggiungerlo. Le luci erano ancora accese alle finestre della casa colonica più in alto, in cima al declivio. Entrambi erano vestiti ed equipaggiati per una missione di perlustrazione notturna su terreno accidentato. Oltre agli occhiali AN/PVS 7, indossa-
vano tute nere e giubbotti antiproiettile imbottiti di attrezzature speciali di sorveglianza a distanza - telecamere compatte e vari tipi di dispositivi d'ascolto elettronici - fornitegli alla base aerea militare di Andrews. Smith aveva allacciata alla coscia una fondina per la sua SIG-Sauer, mentre Peter aveva lo stesso tipo di attrezzatura per la Browning Hi-Power, l'arma che prediligeva. In caso d'emergenza, ognuno di loro era provvisto anche di una mitraglietta Heckler & Koch MP5, che portava a tracolla. Peter scrollò una mano per sfilarsi il guanto, si inumidì l'indice e poi lo alzò in aria per saggiare la direzione della brezza fredda che soffiava leggera, bisbigliante, intorno a loro. Annuì, soddisfatto dal risultato. «Finalmente un po' di fortuna. Il vento spira da ovest.» Smith restò fermo in attesa. Il suo compagno aveva passato venti o trent'anni all'aperto, sul campo, prima per il SAS e poi per il MI6. Nell'arte di muoversi furtivamente in territorio potenzialmente ostile, Peter Howell la sapeva più lunga di Smith. «Questo venticello non ci farà precedere dal nostro odore» spiegò Peter. «Se lassù ci fossero dei cani da guardia, non avranno sentore del nostro arrivo con troppo anticipo.» Peter si rimise il guanto e riprese a fare da apripista. I due amici si tennero più bassi possibile quando giunsero in cima alla bassa collina. Erano a pochi metri da un vecchio fienile in rovina: un rudere vuoto e privo di tetto, più simile a un mucchio di assi rotte marcite che a una struttura che si reggeva in piedi. Al di là del fienile si distinguevano le sagome scure di due automobili parcheggiate l'una di fianco all'altra: la Volkswagen Passat di Kit Pierson e un'altra vettura, un vecchio modello di marca americana. La luce che trapelava all'esterno delle finestre della piccola casa colonica era sufficiente a rendere più chiare le immagini nei loro occhiali per la visione notturna. Smith notò che, chiunque fosse il proprietario di quel posto isolato, si era dato la pena di spianare i cespugli di rovi e abbattere le piante infestanti più alte intorno alla costruzione. Seguì Peter strisciando bocconi e si incuneò nell'erba bassa dopo di lui, attraversando lo spazio aperto il più rapidamente possibile, per mettersi al riparo fornito dalle auto posteggiate. «Adesso dove andiamo?» mormorò. Peter indicò una grande finestra su quel lato della casa, non lontano dalla porta d'ingresso. «Là, direi» rispose sottovoce. «Un attimo fa mi è parso di vedere una sagoma muoversi dietro quelle tende. Vale la pena di dare un'occhiata comunque.» L'inglese guardò di sottecchi l'amico americano.
«Coprimi, Jon. Ti spiace?» Smith estrasse la SIG-Sauer dalla fondina. «Quando vuoi. Sono pronto.» Il suo compagno annuì una sola volta, poi, sempre strisciando, avanzò rapidamente attraverso il tratto di calcestruzzo costellato di macchie d'olio che fungeva da cortiletto e scomparve in una macchia di rose selvatiche cresciute a cespuglio contro il fianco della casa colonica. Solo gli occhiali per la visione notturna che indossava permisero a Smith di seguirne i movimenti furtivi. A chiunque avesse osservato l'azione a occhio nudo, Peter sarebbe sembrato una semplice ombra, un'ombra che si confondeva con l'oscurità della notte. L'inglese si sollevò adagio su un ginocchio, esaminando con prudenza e attenzione la finestra sopra di lui. Soddisfatto, tornò ad appiattirsi a terra e fece segno a Jon di raggiungerlo. Smith avanzò bocconi il più in fretta possibile, sentendosi terribilmente esposto a ogni centimetro dell'estenuante avanzata. Strisciò dimenandosi tra le erbacce e i rovi, e, infine, si fermò ansimando come un novantenne. Peter avvicinò il capo a un orecchio di Jon e gli indicò la finestra. «La Pierson è senza alcun dubbio all'interno.» Smith abbozzò un sorriso a labbra serrate. «Lieto di sentirtelo dire. Sicuramente avrei avuto parecchio da ridere se mi fossi distrutto le ginocchia per niente.» Si girò adagio su un fianco ed estrasse da una delle tante tasche capienti con chiusura in velcro del suo giubbotto antiproiettile da combattimento un kit di sorveglianza laser. Indossò la minicuffia auricolare collegata al dispositivo elettronico, premette il tasto per attivare il laser a raggi infrarossi a basso consumo d'energia e diresse con cura e circospezione il dispositivo elettronico verso la finestra soprastante. Se fosse riuscito a tenerlo abbastanza fermo, il raggio laser sarebbe rimbalzato all'indietro sul vetro della finestra e avrebbe rilevato le vibrazioni in esso indotte da chiunque stesse parlando all'interno. Poi, presumendo che tutto funzionasse a dovere, l'apparecchio elettronico avrebbe dovuto essere in grado di tradurre le vibrazioni riflesse in suoni comprensibili trasmettendoli nella minicuffia auricolare indossata da Smith. Meravigliato, ma non più di tanto, scoprì che l'impianto funzionava perfettamente. «Maledizione, Kit!» udì la voce di un uomo bofonchiare in tono irritato. «Non puoi ritirarti dall'operazione proprio adesso! Si va avanti, che ti piaccia o no. Non ci sono alternative. O distruggiamo il Lazarus Movement... o il Lazarus Movement distruggerà noi!»
Capitolo 30 Ufficio privato di «Lazzaro» Il sedicente «Lazzaro» era tranquillamente seduto a una scrivania di tek massiccio scurita dal tempo nel suo ufficio privato. La stanza era silenziosa, fresca e poco illuminata. Un impianto di aerazione ronfava sommesso in sottofondo, pompando dentro l'ufficio aria rigorosamente filtrata e pulita di qualsiasi traccia del mondo esterno. La maggior parte del piano della scrivania era occupata da un grande monitor collegato a un computer. Con il colpetto leggero di un dito sulla tastiera, «Lazzaro» passava rapidamente da un'immagine all'altra, immagini trasmesse da telecamere situate in ogni parte del globo. Una, probabilmente ripresa da un aereo, mostrava la traccia sinuosa di un fiume che serpeggiava ottocento o novecento metri più in basso. Paesini di campagna, strade, ponti e tratti di bosco entravano nel campo visivo della telecamera e poi ne uscivano. Un'altra inquadratura mostrava una squallida strada di città gremita di automobili semidistrutte e ammaccate. Su entrambi i lati della strada si ergevano enormi e anonimi palazzi in blocchi di cemento grigio. Le finestre e le porte erano barricate con griglie d'acciaio. Sotto le immagini trasmesse dal monitor, tre finestrelle di lettura digitale indicavano l'ora locale, l'ora di Parigi e l'ora della Costa Atlantica degli Stati Uniti. Un telefono satellitare ad alta sicurezza campeggiava accanto al computer. Due spie lampeggianti verdi indicavano due collegamenti imminenti a due delle sue squadre d'azione speciali. «Lazzaro» sorrise, gustando la squisita sensazione di osservare in diretta un piano complesso e intricato, in via d'attuazione con tempismo assolutamente perfetto. Con un unico comando, aveva da solo messo in azione l'ultimo dei suoi necessari esperimenti sul campo: test assolutamente essenziali per affinare i suoi strumenti selezionati per la salvezza del pianeta. Con un altro comando, avrebbe dato il via alla serie di atti intesi a gettare la CIA, l'FBI e il SIS, il Secret Intelligence Service britannico, in un pauroso caos autodistruttivo. Presto, pensò con freddezza. Prestissimo. Quel giorno stesso, al sorgere del sole, un mondo inorridito avrebbe cominciato a vedere confermate le sue peggiori paure riguardo agli Stati Uniti. Alleanze politiche si sarebbero infrante. Vecchie ferite si sarebbero riaperte. Rivalità, rimaste a lungo so-
pite, si sarebbero trasformate di nuovo in aperto conflitto. E ora che la verità mostruosa di quello che stava realmente accadendo sarebbe venuta a galla, nessuno avrebbe più potuto fermarlo. Il suo interfono trillò una sola volta. «Lazzaro» premette il pulsante di ascolto in vivavoce. «Sì?» «I nostri aeromobili si trovano entro un raggio di cinquanta chilometri dall'obiettivo» riferì la voce del tecnico anziano. «Entrambi stanno operando nelle norme previste.» «Ottimo. Proseguire come da programma» ordinò «Lazzaro». Poi premette il pulsante di interruzione della comunicazione. Un altro colpetto leggero dell'indice completò il collegamento via satellite con una delle sue squadre d'azione speciali. «L'operazione parigina è in corso» disse all'uomo in paziente attesa all'altro capo della linea. «Tenetevi pronti ad adempiere agli ordini che riceverete al mio prossimo segnale.» Campagna della Virginia Tre grossi furgoni 4x4 erano parcheggiati appena entro i margini di una pineta, nascosti tra la vegetazione cresciuta lungo la sommità di un lungo crinale, diverse centinaia di metri a ovest della decrepita fattoria di Burke. Dodici uomini vestiti con giacche nere, maglioni di lana dello stesso colore e jeans scuri, aspettavano immobili al riparo di quella macchia di conifere e di arbusti rachitici. Quattro erano di sentinella in diversi punti d'osservazione attorno al margine esterno del crinale, occupati a sorvegliare la zona con l'ausilio di binocoli Simrad di fabbricazione inglese. Sette erano accovacciati in paziente attesa sul terreno sabbioso più all'interno della pineta, impegnati a controllare per l'ultima volta il loro armamento personale, composto da fucili d'assalto, mitragliette e pistole. Il dodicesimo, il tipo erculeo dagli inquietanti occhi verdi che si faceva chiamare Terce, era seduto nella cabina di uno dei tre furgoni 4x4. «Ricevuto» disse al cellulare satellitare ad altissima sicurezza. «Rimaniamo in attesa del segnale.» Il secondo membro degli «Orazi» chiuse la comunicazione e tornò a origliare in cuffia radio l'accesa discussione che stava seguendo da un po'. «O distruggiamo il Lazarus Movement... o il Lazarus Movement distruggerà noi!» «Il melodramma non ti si addice, Hal» replicò una glaciale voce di donna. «Non sto proponendo di arrenderci di fronte all'organizzazione ambien-
talista, ma la Tocsin in sé non vale più il prezzo che stiamo pagando... o i rischi che stiamo correndo. E ieri sera al telefono non stavo scherzando. Se questa maledetta operazione mi scoppia tra le mani, non intendo affatto essere io l'unica a rimetterci la testa.» Ascoltando la discussione trasmessa dalla microspia che aveva personalmente piazzato in segreto quella sera stessa, il secondo membro degli «Orazi» annuì soddisfatto. L'agente speciale della CIA aveva perfettamente ragione. La viceassistente del direttore dell'FBI Katherine Pierson non era più affidabile. Non che rivesta particolare importanza, al punto in cui siamo, pensò, con una traccia di divertito ghigno sardonico. Istintivamente, Terce controllò il caricatore della sua Walther, avvitò sulla canna il silenziatore e tornò a riporre la pistola nella tasca del giaccone. Poi guardò il quadrante luminoso del suo orologio da polso. Sarebbe entrato in azione soltanto pochi minuti dopo. Un bip basso e insistente segnalò una chiamata a priorità assoluta da parte di una delle sue sentinelle. Terce cambiò frequenza radio. «Di' pure.» «Qui McRae. C'è qualcosa che si sta muovendo vicino alla casa» lo avvisò l'uomo di guardia con un accento basso e suadente delle lowlands scozzesi. «Vengo subito» disse Terce. Poi scese dal furgone, abbassando la testa per evitare di urtare il telaio della portiera, e si diresse con passo affrettato verso il margine della pineta. Trovò McRae accovacciato dietro il tronco di un vecchio albero abbattuto da un fulmine, soffocato da pini mughi e altre piante rampicanti, e si abbassò a sua volta in posizione a fianco dello scozzese basso e magro. «Da' un'occhiata tu stesso. In quella macchia di rovi ed erbacce vicino alla porta d'ingresso. Adesso, in realtà, non riesco a vedere più niente, ma solo un minuto fa sono certo di aver distinto un movimento sospetto proprio in quel punto.» L'uomo dagli occhi verdi alzò il suo binocolo personale, scrutando lentamente il lato sud della casa di Burke. Due macchie di forma umana furono messe immediatamente a fuoco, una coppia di sagome indistinte a immagine termica, di un bianco abbacinante, che spiccavano nitide sullo sfondo grigio e più freddo della fitta vegetazione nella quale si celavano. «Hai davvero una vista d'aquila, McRae» disse Terce in tono tranquillo. Gli occhiali e i binocoli per la visione notturna utilizzati dalle sue sentinelle funzionavano utilizzando e schiarendo tutta la luce ambientale disponibile, per quanto scarsa. Trasformavano la notte in una sorta di misterioso
giorno colorato di verde sbiadito, ma non rivelavano il «calore» nel modo in cui invece il suo binocolo personale era in grado di fare. Con un peso che sfiorava i tre chili, e un prezzo di listino di quasi sessantamila dollari, il suo binocolo Sophie a immagine termica era il più all'avanguardia. Di notte, senza luna né stelle, sotto un cielo coperto, i migliori sistemi di intensificazione di luce passiva avevano un raggio massimo di tre o quattrocento metri, e spesso molto meno. Usando invece un binocolo a immagine termica, Terce era in grado di rilevare l'impronta di calore corporeo emanata da un essere umano fino a oltre tre chilometri di distanza, perfino attraverso un riparo o una parete di legno. Terce si domandò se fosse una semplice coincidenza che quelle due spie fossero spuntate subito dopo l'arrivo di Kit Pierson. La donna dell'FBI le aveva portate con sé intenzionalmente o inconsapevolmente? Terce scacciò il pensiero con un'alzata di spalle. Non credeva nelle coincidenze. Né tanto meno ci credeva il committente della sua missione. Il membro degli «Orazi» prese rapidamente in considerazione le alternative. Per un attimo rimpianse la decisione del Centro di trasferire il suo cecchino specialista alla forza di sicurezza con base a Parigi. Sarebbe stato più semplice e molto meno pericoloso eliminare quei due avversari con un paio di colpi di fucile di precisione a lungo raggio ben mirati. Accantonò subito il pensiero che lo aveva distratto e tornò a concentrarsi sulla situazione da affrontare. La sua squadra era addestrata ed equipaggiata per il combattimento a distanza ravvicinata, perciò avrebbe impiegato questa tattica. Terce porse il suo binocolo a McRae. «Tieni d'occhio quei due» gli ordinò in tono gelido. «Informami se dovessero fare qualche mossa improvvisa.» Poi estrasse di tasca il suo cellulare e premette il pulsante di chiamata di un numero preselezionato. Il telefono all'altro capo della comunicazione squillò una volta sola. «Parla Burke.» «Sono Terce» disse in tono tranquillo il secondo membro degli «Orazi». «Non reagisca apertamente in nessun modo a quello che sto per dire. Ha capito?» Ci fu una breve pausa. «Sì, ho capito» rispose Burke. «Bene. Mi ascolti con la massima attenzione. La mia squadra di sicurezza ha rilevato attività ostile intorno alla sua abitazione. Si trova sotto osservazione ravvicinata. Molto ravvicinata. In un raggio di pochi metri.» «Questo è molto... interessante» disse l'agente speciale della CIA a denti
stretti. Poi ebbe un attimo di esitazione. «I tuoi uomini possono risolvere la situazione?» «Può starne certo» gli assicurò Terce. «E in quanto tempo?» domandò Burke. Gli occhi verdi del gigante brillarono nell'oscurità. «Questione di minuti, signor Burke. Solo pochi minuti.» «Capisco.» Di nuovo, Burke esitò. Alla fine, chiese: «Dovrei considerare la questione come una faccenda interagenzia?». Terce capì che quello che il suo interlocutore gli stava chiedendo era se Kit Pierson fosse in qualche modo responsabile degli spioni che si ritrovava praticamente sulla soglia di casa. Sorrise tra sé. A quel punto comunque non aveva più nessuna importanza. «Ritengo che sarebbe saggio agire in questo modo.» «È un vero peccato» disse l'agente della CIA in tono irritato. «Proprio un vero peccato.» «Sì, lo è» convenne Terce. «Per ora resti dov'è senza perdere il sangue freddo. Chiudo.» L'uomo erculeo interruppe la comunicazione e si fece restituire da McRae il binocolo a immagine termica. «Torna ai veicoli con tutti gli altri» gli ordinò. «Ma voglio che vi muoviate in punta di piedi e in silenzio.» Poi sogghignò con occhi da lupo. «Di' loro che andranno a caccia.» «Chi era al telefono, Hal?» chiese la Pierson, chiaramente confusa. «L'ufficiale di guardia a Langley» rispose Burke, parlando lentamente e scandendo bene le parole. Il suo tono di voce sembrava teso e innaturale. «La NSA ha appena mandato a Langley un corriere con alcune intercettazioni collegate al movimento...» Jon Smith prestò maggiore attenzione a quel che stava ascoltando in segreto. Poi aggrottò le sopracciglia. Ancora tenendo il microfono laser puntato verso la finestra sopra di lui, lanciò un'occhiata a Peter Howell. «C'è qualcosa che non va» sussurrò. «Burke ha appena ricevuto una telefonata e ora si è irrigidito di colpo. Sta solo sparando stronzate, senza dire nulla, in realtà.» «Pensi che si sia accorto di noi?» domandò Peter sottovoce. «Può darsi. Ma non capisco come.» «Forse lo abbiamo sottovalutato» disse Peter. Gli angoli della sua bocca si piegarono in basso. «Un peccato mortale, nel nostro mestiere. Sospetto che il signor Burke della benemerita CIA abbia a disposizione negli immediati paraggi più risorse di quel che avevamo previsto.»
«Intendi dire che dispone di rinforzi?» «Più che probabile.» L'inglese estrasse da una delle tasche del giubbotto antiproiettile la carta topografica della zona e la esaminò, seguendo gli aerali e le caratteristiche del territorio con la punta dell'indice inguantato. Poi batté tre volte sul profilo di un crinale boscoso non troppo lontano, in direzione ovest. «Se volessi tener d'occhio questa casa, è proprio in questo punto che mi apposterei.» Smith si sentì rizzare i capelli. Peter aveva ragione. Quel crinale offriva una vista senza ostacoli sulla maggior parte del terreno circostante la casa colonica, compresa la loro attuale posizione. «Che cosa suggerisci di fare?» «Una ritirata immediata» disse senza indugi l'inglese dagli occhi chiari, rimettendo la carta topografica in tasca. Poi si levò di tracolla la mitraglietta Heckler & Koch MP5 e tirò indietro la leva di carica, inserendo nella camera di scoppio il primo proiettile da 9mm. «Non abbiamo idea del numero dei nostri avversari, e credo sia del tutto inutile indugiare oltre. Abbiamo acquisito alcune informazioni utili, Jon. Accontentiamoci e non sfidiamo ulteriormente la nostra buona stella, stanotte.» Smith annuì e cominciò a ritirare il microfono laser e tutta l'attrezzatura. «Ottima osservazione.» Seguendo l'esempio di Peter, preparò a sua volta la mitraglietta. «Allora seguimi.» Peter si alzò agilmente in piedi rotolando su se stesso, dopodiché, restando ben chinato, tornò indietro rapidamente riparandosi dietro le due auto parcheggiate vicino alla casa. Smith lo segui, muovendosi il più in fretta possibile senza fare rumore e, nel contempo, tenendosi basso. Da un istante all'altro si aspettava di sentire un urlo spaventato o l'impatto improvviso di un proiettile nel suo corpo. Invece, nel silenzio della notte, udì soltanto il pulsare accelerato del suo cuore. Dalle auto, passarono oltre il fienile in rovina e poi scesero il fianco del declivio fino al campo invaso di rovi e cespugli, cercando di mantenere la mole della bassa collina tra loro e il crinale più alto a ovest. Peter apriva la strada, passando come un'ombra impercettibile attraverso gli aggrovigliati cespugli di rovi spinosi e di erbacce alte fino alla vita, con l'abilità acquisita in anni d'addestramento e d'esperienza. Erano quasi ai margini del laghetto di acqua stagnante, quando l'inglese tutt'a un tratto si gettò bocconi, appiattendosi a terra dietro una macchia di cespugli di lamponi. Smith si accovacciò a sua volta dietro il compagno e
poi avanzò strisciando, usando i gomiti e le ginocchia per trascinarsi in avanti, tenendo l'MP5 stretto al petto. Cercò con tutte le forze di non respirare troppo a fondo. Erano sotto il livello del venticello leggero che spirava attraverso il campo, e l'aria era densa di un fetore intenso di alghe e di frutti marci. «Cristo!» borbottò Peter. «C'è da strapparsi i capelli. Ascolta.» Smith udì il rombo vago di un motore di grossa cilindrata che continuava ad aumentare. Con ogni cautela, alzò la testa per spiare al di sopra del cespuglio più vicino. A circa duecento metri di distanza, un grosso furgone 4x4 transitò lento sulla strada asfaltata, diretto a est. Stava viaggiando a fari spenti. «Pensi che abbiano localizzato le nostre automobili?» domandò sottovoce. Peter annuì con espressione tetra. La piccola macchia di alberi in cui avevano parcheggiato le auto non avrebbe nascosto i veicoli a una ricerca scrupolosa. «Ci riusciranno di sicuro» disse. «E non appena l'avranno fatto, si scatenerà l'inferno, sempre ammesso che non si sia già scatenato.» L'inglese lanciò un'occhiata dietro di sé al di sopra della spalla. «E l'hanno già fatto, ahimè» mormorò. «Dai un'occhiata dietro di noi, Jon. Ma, mi raccomando, non voltarti di scatto.» Smith girò lentamente la testa e vide una fila di cinque uomini che indossavano occhiali per la visione notturna e abiti neri scendere, senza far rumore, il lieve pendio dietro di loro. Ognuno di essi reggeva a due mani una mitraglietta compatta o un fucile d'assalto. Jon, all'improvviso, sentì la bocca asciutta. Il più vicino degli uomini armati era già a meno di cento metri di distanza. Lui e Peter erano in trappola. «Hai qualche idea?» sussurrò Smith. «Sì. Facciamo in modo di costringere a terra quei cinque e poi corriamo come lepri» rispose Peter. «Stai lontano dalla strada, però. In quella direzione non ci sono abbastanza ripari. Punteremo verso nord.» L'inglese si girò e si sollevò su un ginocchio con la mitraglietta imbracciata, seguito un secondo dopo da Smith. Jon esitò un attimo e restò fermo con il dito già posizionato sul grilletto. Avrebbe dovuto sparare per uccidere o avrebbe dovuto limitarsi a spaventarli? Tra quegli uomini c'erano quelli che avevano tentato di ucciderlo? Erano alleati dei killer di Santa Fe? Erano agenti regolari della CIA? Oppure si trattava di guardie di sicurezza private ingaggiate da Burke per sor-
vegliare la sua proprietà? Il loro movimento improvviso attirò l'attenzione di uno degli uomini armati che stavano scendendo la collina. L'uomo si fermò di colpo, immobilizzandosi. «Contatto visivo, di fronte!» urlò in un inglese con un forte accento straniero, dopodiché aprì il fuoco con la mitraglietta, sparando una raffica di proiettili da 9mm verso i due uomini con il ginocchio a terra. I dubbi di Smith si dissolsero quando i proiettili in arrivo fischiarono e schioccarono nell'aria circostante. Erano mercenari che non avevano nessuna intenzione di fare prigionieri. Lui e Peter risposero al fuoco, sparando una serie di raffiche brevi da tre proiettili l'una con le loro MP5, spostando ad arco la mira dalle due estremità opposte della fila avversaria verso il centro. Uno dei cinque avversari lanciò un urlo di dolore e si piegò in avanti, colpito all'addome. Gli altri quattro si gettarono a terra in cerca di un riparo. «Andiamo!» disse deciso Peter, battendo sulla spalla del compagno. I due amici balzarono in piedi e si lanciarono di corsa nell'oscurità, tagliando in direzione nord, lontano dalla County Road. Di nuovo, l'inglese fece da apripista, ma questa volta non sprecò tempo a cercare di trovare i tragitti meno insidiosi. La necessità di essere veloci prese il sopravvento su tutto il resto. Dovevano allontanarsi il più possibile prima che i quattro uomini armati superstiti si riprendessero dalla sorpresa e aprissero di nuovo il fuoco. Smith correva come il vento, con il cuore in gola, seguendo a ruota Peter. Teneva le mani protette dai guanti e la mitraglietta davanti a sé, cercando di evitare di farsi lacerare la faccia dall'ammasso confuso di rami e di spine acuminate. I rovi gli si impigliavano nella stoffa e la strappavano sulle braccia e le gambe, bucando e tagliando lo spesso tessuto fino alla carne. Era imperlato di sudore che bruciava come fuoco quando entrava in contatto con le nuove ferite: tagli, graffi e perforazioni. Alle loro spalle risuonarono altri spari. I proiettili fischiavano nel fitto sottobosco da ambo i lati, spezzando ramoscelli, staccando foglie e sparpagliandone i frammenti ovunque. I due fuggiaschi si tuffarono a terra e si girarono lestamente per guardare nella direzione da cui erano venuti, cercando di ripararsi in una piccola depressione scavata dall'acqua che scorreva in un canale di drenaggio, scendendo dalla collina soprastante. «Bastardi cocciuti» commentò Peter con ammirevole sangue freddo mentre proiettili di mitraglietta e di fucile d'assalto gli fischiavano sopra la testa. «Devo proprio ammetterlo.» Poi tese
l'orecchio in attento ascolto. «A sparare sono solo due uomini. Ne abbiamo colpito uno. Perciò dove sono finiti gli altri due?» «Stanno per raggiungerci» osservò Smith con aria tesa. «Mentre i loro compari forniscono fuoco di copertura.» «Più che probabile» convenne Peter. Poi a un tratto sorrise. «Insegniamo loro che non è poi un'idea tanto geniale, d'accordo?» Jon annuì. «Bene» disse Peter con calma. «Ci siamo.» Ignorando i proiettili sparati nella loro direzione, i due uomini si sollevarono sulle ginocchia e aprirono il fuoco: di nuovo sparando raffiche brevi da tre proiettili da una parte all'altra del campo di fronte a loro. Smith ebbe la fugace impressione di udire alcune urla spaventate e di vedere forme confuse che si tuffavano dietro cespugli di erbacce e macchie di rovi. Altre armi aprirono il fuoco, con un frastuono balbettante e tintinnante, quando gli uomini armati che avevano costretti a buttarsi bocconi cominciarono a rispondere al fuoco. Smith e Peter batterono in ritirata nel canale di drenaggio poco profondo e si allontanarono rapidamente strisciando nel suo letto tortuoso. Il fosso conduceva a est e seguiva l'inclinazione leggera del campo da lungo tempo abbandonato. Dopo aver percorso una cinquantina di metri, si arrischiarono a far capolino dall'orlo del fosso per un'altra rapida ricognizione. Uno dei loro inseguitori stava ancora sparando a raffiche, nel tentativo di tenerli inchiodati a terra. Gli altri tre suoi compagni si erano rimessi in movimento, anche loro diretti a est, schierandosi veloci in una fila distanziata da un lato all'altro del vasto campo. «Maledizione!» esclamò Peter sottovoce. «Cosa diavolo stanno cercando di fare, ora?» Smith osservò meglio la scena. I loro avversari non sembravano più interessati ad avvicinarsi a loro per migliorare la mira. Stavano invece predisponendo un cordone mobile che li avrebbe efficacemente tagliati fuori dalla strada e dai veicoli che avevano lasciati nascosti tra gli alberi a diverse centinaia di metri di distanza. «Ci stanno accerchiando» si rese conto all'improvviso. L'inglese lo fissò per qualche secondo, poi strinse i denti, facendo scattare i muscoli all'attaccatura della mandibola, e annuì bruscamente. «Hai ragione, Jon. Avrei dovuto accorgermene prima. Stanno facendo da battitori, come a caccia, sospingendoci in bocca al resto dei cacciatori in attesa coi fucili spianati.» Peter scosse il capo con aria disgustata. «Che diamine, ci
stanno trattando come un paio di dannati galli cedroni o di quaglie!» Quasi involontariamente, Smith lo omaggiò di un sorriso, reprimendo l'impulso di mettersi a ridere forte. Il suo vecchio amico sembrava sentirsi offeso per il modo in cui erano stati manipolati. Peter girò la testa, valutando il tratto di terreno lasciato all'incuria da anni. Era invaso di piante selvatiche e infestanti. «Avranno organizzato una piccola ma micidiale imboscata da qualche parte in quella direzione» dedusse, estraendo il caricatore vuoto della mitraglietta e inserendone uno nuovo da trenta colpi. «Passare di là sarà complicato.» «Certo» disse Smith. «Ma se non altro abbiamo un vantaggio.» Peter inarcò un sopracciglio con aria sorpresa. «Ah sì? Ti dispiacerebbe illuminarmi?» Smith indicò l'MP5. «L'ultima volta che ho controllato l'enciclopedia, i galli cedroni e le quaglie non erano ancora in grado di rispondere al fuoco.» Stavolta toccò a Peter reprimere il desiderio di scoppiare in una risata. «È vero» convenne in tono più rilassato. «Benissimo, Jon, andiamo a vedere se riusciamo a trasformare i cacciatori in prede.» Uscirono dal canale di drenaggio e strisciarono acquattati verso nord. Percorsero un tragitto circolare attraverso la fitta vegetazione. Avevano scelto di seguire gli stretti sentieri tortuosi lasciati dai piccoli animali di campagna, che facevano i loro nidi o scavavano le loro tane nei campi invasi dalle piante selvatiche. Entrambi si tennero molto bassi, appiattendosi bocconi a terra e usando i piedi, le ginocchia e i gomiti per strisciare in avanti il più in fretta possibile senza fare troppo rumore o scuotere gli ingarbugliati intrichi di erba e cespugli sopra di loro. La consapevolezza che una forza nemica era nascosta in agguato da qualche parte davanti a loro nel buio rendeva l'abilità di non farsi individuare vitale tanto quanto la velocità. Smith aveva la fronte imperlata di sudore che gli rigava la faccia imbrattata di nerofumo mimetico. Scrollando il capo spazientito, scosse via le gocce in eccesso, per evitare che gli colassero negli occhi, sotto la maschera di sostegno degli occhiali per la visione notturna. Steli d'erba, gambi d'arbusti e spire di piante rampicanti si profilavano all'improvviso nella sua visuale tinta di verdognolo, e subito svanivano ai due lati, a mano a mano che avanzava faticosamente strisciando sul ventre. Dentro quel dedalo di cespugli, il suo campo visivo si riduceva a poco più di un metro di profondità. L'aria era calda e satura dell'odore intenso di terra umida, muschiosa e
di escrementi di animale. Di tanto in tanto, qualche proiettile sibilava sopra le loro teste o lacerava i cespugli e i boschetti nelle vicinanze su entrambi i lati. Adesso tutti e quattro i mercenari schierati in fila alle loro spalle avevano di nuovo aperto il fuoco, sparando occasionali raffiche di tre colpi nel campo, per costringere le loro invisibili prede a dirigersi verso il punto dell'agguato predisposto per ucciderle. Il respiro di Smith si stava facendo sempre più affannoso per la tensione e la fatica fisica imposte dal trascinare il proprio corpo così lontano e così rapidamente. Si concentrò sullo stare il più vicino possibile a Peter, seguendolo e scrutando attentamente davanti a sé per vedere dove il suo collega inglese poneva i gomiti e i piedi, ed evitare così di scuotere la vegetazione che stavano attraversando. A un tratto, Peter restò come paralizzato. Per alcuni, interminabili secondi, rimase assolutamente immobile, teso a osservare e ad ascoltare. Poi, lentamente e con la massima attenzione, sporse piano in fuori una mano inguantata e fece cenno a Jon di raggiungerlo e mettersi al suo fianco. Smith spiò prudentemente attraverso una cortina protettiva di erba alta, scrutando il terreno davanti a loro. Erano vicinissimi al margine nord del campo. I resti marcescenti e corrosi dalle intemperie di un vecchio steccato di recinzione si allungavano verso est e verso ovest. Appena oltre lo steccato, il terreno digradava dolcemente in una piccola infossatura prima di risalire ancora su un basso argine che si allontanava verso nordest. Poche macchie di boscaglia e qualche gruppo di giovani betulle punteggiavano i pendii in vista di quell'altura a terrapieno, ma la campagna era più aperta in quel punto e offriva meno riparo e meno nascondigli. Peter puntò l'indice verso quella lunga altura. Poi, con le mani, fece il segnale corrispondente a «nemico». Smith annuì. Il terrapieno era molto probabilmente il punto scelto dai loro nemici per tendere l'agguato. Dalla cresta del terrapieno, i loro inseguitori avrebbero avuto una buona visuale. Jon aggrottò le sopracciglia. La loro situazione stava peggiorando, e in fretta. Peter notò l'espressione del suo viso e alzò le spalle. «Non possiamo evitarlo» mormorò. Estrasse dalla tasca del suo giubbotto da combattimento il caricatore vuoto dell'MP5. Poi restò in attesa che Jon lo imitasse. «Benissimo» disse Peter con la massima serenità. «Ecco il piano.» L'inglese mostrò al compagno il caricatore vuoto. «Per distrarli, lanciamo questi il più lontano possibile a destra. Poi ci lanciamo di corsa verso l'argine,
giriamo a destra e prendiamo d'assalto il pendio opposto, uccidendo gli elementi ostili che incontreremo strada facendo.» Smith lo fissò di rimando. «Tutto qui?» «Non abbiamo il tempo di elaborare un piano migliore, Jon» ribatté l'inglese sottovoce, in tono paziente. «Dobbiamo colpirli duramente e subito. Rapidità e audacia sono le uniche carte che abbiamo da giocare. Se uno di noi due è colpito, l'altro deve proseguire come un ariete senza attardarsi in salvataggi eroici. Intesi?» Smith annuì. La proposta non gli piaceva per niente, ma non poteva dargli torto. In quella situazione, qualsiasi ritardo, per qualunque motivo, perfino aiutare un amico ferito, sarebbe stato fatale. Avevano un'inferiorità numerica così schiacciante che la loro unica possibilità di sopravvivenza era quella di aprirsi la strada a forza, combattendo audacemente e sbaragliando chiunque avessero di fronte, e proseguire la fuga senza attardarsi per nessuna ragione. Tenendo il caricatore vuoto nella mano sinistra e impugnando l'MP5 con la destra, si alzò lentamente su un ginocchio, preparandosi a lanciarsi in corsa e a scavalcare la staccionata e il terreno aperto oltre la vecchia recinzione. Al suo fianco, Peter fece lo stesso. Un'altra raffica di fuoco automatico sparato a caso esplose alle loro spalle. Poi il frastuono si attenuò, trasformandosi in assoluto silenzio. «Ci siamo» sussurrò Peter. «Tieniti pronto. Carica il braccio. Adesso!» I due amici lanciarono i caricatori vuoti con tutta la forza che gli era rimasta, scagliandoli in alto e verso destra. I caricatori di metallo atterrarono, producendo un rumore chiaro e distinto nella notte. Smith scattò in piedi e si lanciò di corsa in avanti. Saltò di slancio lo steccato, atterrò dall'altra parte eseguendo un'acrobatica capriola e si rimise in piedi sfruttando la spinta del movimento stesso, con Peter a pochi passi di distanza alle sue spalle. Smith udì alcune grida dietro di loro e a destra, ma i loro avversari li avevano scoperti troppo tardi. Ancora in corsa, lui e Peter presero d'assalto il terrapieno, salendone la china e giungendo sulla sommità della modesta altura. Smith girò immediatamente a destra, impugnando la mitraglietta a due mani, in cerca di bersagli, nella strana luce verdognola fornita dagli occhiali per la visione notturna. «Eccoli!» Vide una sagoma muoversi sotto i rami bassi di una betulla, a meno di dieci metri di distanza. Era uno dei loro inseguitori che era rimasto steso bocconi a spiare oltre la cresta dell'ar-
gine, e adesso si era voltato rapidamente verso di loro, nel disperato tentativo di puntare la sua Uzi e prendere la mira. Reagendo con tempestività, Jon diresse l'MP5 verso il bersaglio e premette il grilletto, sparando a bruciapelo tre proiettili da 9mm contro il nemico armato. Tutti e tre andarono a segno con una forza tremenda. L'uomo fu scaraventato all'indietro dall'impatto, poi scivolò a terra e giacque in posa scomposta contro il tronco bianco della betulla. Proseguirono la corsa, seguendo l'argine che piegava a nordest e separati, in modo da non farsi colpire entrambi da un'unica raffica nemica. Il declivio da quella parte era disseminato di betulle, pini mughi e macchie di cespugli, tutti inframmezzati da piccole chiazze di terreno aperto. Confusi dai colpi improvvisi, i quattro mercenari schierati nel ruolo di «battitori» allo scopo di spingerli verso l'imboscata, adesso stavano sparando all'impazzata, tempestando di proiettili il lato sbagliato del terrapieno. I proiettili rimbalzavano sui tronchi degli alberi e proseguivano verso l'alto, ronzando rabbiosamente come api. Smith si addentrò con estrema cautela in una piccola radura e notò, con la coda dell'occhio destro, un improvviso movimento. Si voltò subito da quella parte e vide la canna nera di un fucile d'assalto M-16 spuntare da dietro un ceppo d'albero infestato da piante rampicanti. L'uomo stava tagliando proprio nella sua direzione. Riuscì a tuffarsi a terra nel momento stesso in cui l'uomo armato al riparo aprì il fuoco. Un proiettile da 5.56mm lo colpì di striscio alla spalla sinistra. Altri due proiettili di M-16 scavarono due lunghi solchi nel terreno, a una spanna di distanza da lui. Jon rotolò dalla parte opposta, tentando di confondere la mira dell'avversario armato di fucile d'assalto. Altri proiettili lo seguirono, andandosi di nuovo a impattare nel terreno a pochi centimetri dalla sua testa. Sempre rotolando su se stesso, cercò disperatamente un riparo. Non c'era niente. Era intrappolato allo scoperto. Poi Peter apparve all'improvviso alle sue spalle e aprì il fuoco, tempestando metodicamente il vecchio ceppo d'albero con raffiche precise e calibrate. Pezzi di corteccia e di rampicanti volarono in aria. Il mercenario con l'M-16, nascosto dietro il ceppo, emise un solo urlo stridulo, poi calò il silenzio. «Stai bene, Jon?» chiese Peter sottovoce. Smith controllò i danni. La ferita di striscio alla spalla sanguinava e presto gli avrebbe fatto un male cane, ma fortunatamente era l'unica lesione che si era procurato.
«Sto bene» riferì all'amico inglese, ancora con il respiro affannoso, mentre si riprendeva dallo choc di aver rischiato la vita. Inoltrarsi in quella radura era stato un errore madornale, si rese conto: il genere di sbagli fatali commessi dalle reclute in fase di addestramento. Scosse il capo, arrabbiato con se stesso per non aver valutato con attenzione i pericoli a cui sarebbero andati incontro. «Allora vai ad accertarti che quel bastardo sia davvero morto. Io ti copro. Ma fai in fretta.» «Ci vado subito.» Smith si rimise in piedi e attraversò il breve tratto di terreno allo scoperto, facendo il giro dei cespugli per raggiungere il ceppo d'albero da dietro e fuori dalla linea di tiro dell'inglese. Si addentrò cautamente in un intrico di cespugli alti e vide un cadavere per terra, a faccia in giù. L'M-16 era a qualche metro di distanza. Il killer era morto, ferito gravemente o solo disteso a fingere di essere morto? Per un momento, Jon pensò di sparargli addosso una breve raffica, per finire il lavoro cominciato da Peter. Il dito gli si contrasse sul grilletto. Poi si rilassò, abbandonandosi a un'espressione corrucciata. Nella foga della battaglia, poteva uccidere un nemico senza esitazioni, ma non avrebbe sparato a un uomo inerme steso a terra e in agonia. Non avrebbe rinnegato i giuramenti fatti e, cosa forse ancora più importante, il suo senso di cos'era giusto e cos'era sbagliato. Si avvicinò al corpo, tenendolo sotto tiro con l'MP5. Notò sul terreno una chiazza di sangue che continuava ad allargarsi. L'uomo ucciso era basso e magro, con una capigliatura rossiccia e molto corta su una testa piccola e rotonda. Jon gli si avvicinò ulteriormente, preparandosi ad accovacciarsi sui talloni per tastargli il polso. Si udirono altri spari risuonare non troppo lontano dalla loro posizione. Furono contraccambiati subito da una breve raffica dell'arma di Peter. Distratto, Smith girò la testa per vedere da che parte provenivano gli spari. Poi si accovacciò, in cerca di un riparo. Fu proprio in quell'istante che il mercenario, fino ad allora inerme, gli balzò addosso, lanciandosi in avanti con fulminea velocità. Colpì Jon allo stomaco con una testata e lo sbatté a terra. La mitraglietta sfuggì dalle mani di Smith, andando a perdersi nei cespugli. Scalciando, Jon riuscì in qualche modo ad allontanarsi di pochi passi, restando seduto a terra, poi vide un coltello calare su di lui. Rotolò di fianco e tornò a rimettersi seduto, appena in tempo per bloccare un altro affondo con il bordo esterno della mano. La lama gli lacerò la manica, incidendogli
la pelle dell'avambraccio. La coltellata lo ferì fino all'osso; il dolore lancinante gli arrivò subito al cervello. Si costrinse a non pensare al male e tornò a colpire l'avversario con il taglio della mano destra, vibrando un colpo con tutta la sua forza sul polso dell'uomo dai capelli rossi. Il coltello sfuggì dalle dita all'improvviso paralizzate del suo avversario. Smith proseguì l'attacco senza indugi, colpendo lo sconosciuto con il gomito destro e centrando violentemente il suo naso. Udì uno sgradevole rumore scricchiolante quando l'impatto frantumò alcuni pezzi di cartilagine e di osso, spingendoli verso l'interno. L'uomo dai capelli rossi si accasciò senza emettere neppure un gemito e rimase immobile, questa volta morto davvero. Jon restò seduto per un momento, cercando di recuperare il fiato. Sentiva il sangue colare dalla profonda ferita all'avambraccio sinistro. Sarà meglio che lo fasci subito per fermare l'emorragia, pensò, un po' intontito. Doveva evitare di lasciare dietro di sé una traccia di sangue che avrebbe aiutato l'inseguimento dei loro avversari. Estrasse una benda di garza elastica da una tasca del giubbotto antiproiettile e fasciò rapidamente l'avambraccio ferito. Dalla boscaglia gli arrivò un fischio sommesso. Jon alzò lo sguardo mentre Peter sbucava dall'oscurità. «Desolato di non aver completato l'opera col rosso» disse Peter. «Ma un altro becchino ha alzato la testa e mi ha sparato addosso.» «Lo hai ucciso?» «Oh, sì, certamente» dichiarò Peter con aria soddisfatta. «Con un colpo perfetto.» L'inglese posò un ginocchio a terra e fece rotolare supino l'uomo dai capelli rossi appena ucciso da Smith. Alla vista del volto del mercenario, Peter sgranò leggermente gli occhi azzurro chiaro, trasalendo vistosamente. «Conosci questo tizio?» domandò Jon, notando la reazione dell'inglese. Peter annuì. Alzò lo sguardo con un'espressione preoccupata. «Già. Si chiama McRae» disse sottovoce. «Quando l'ho conosciuto era un soldato specialista del SAS britannico. Aveva fama di essere un rognoso attaccabrighe, bravo solo a fare a pugni o a coltellate, un bastardo di prima categoria. Alcuni anni fa, ne combinò una di troppo e si fece cacciare a calci dal reggimento. L'ultima volta che ne ho sentito parlare, lavorava come mercenario in Africa e in Asia... prestandosi a fare lavoretti sporchi per vari servizi di intelligence internazionali.» Peter si alzò da terra e andò a recuperare la mitraglietta del compagno
ferito. «Compreso il MI6?» chiese Smith in tono pacato, mentre prendeva l'arma e si rimetteva faticosamente in piedi. Peter annuì con riluttanza. «Qualche volta.» «Pensi che qualcuna delle tue conoscenze londinesi potrebbe essere implicata in questa guerra segreta che Burke e la Pierson stanno conducendo?» osservò Smith. Peter si strinse nelle spalle. «Al momento non so proprio cosa pensare, Jon» ribatté. Poi alzò lo sguardo verso nuove raffiche di armi da fuoco automatiche che risuonavano dall'altra parte del basso terrapieno. «Credo che i nostri amici locali si stiano agitando un po' troppo. Presto ci raggiungeranno da questa parte del terrapieno. È meglio interrompere il contatto finché siamo ancora in tempo. Dobbiamo trovare un posto in cui risolvere in tutta sicurezza il problema di nuovi mezzi di trasporto.» Smith annuì. Era la soluzione più logica. Ormai, i loro nemici avevano sicuramente scoperto le auto con cui avevano viaggiato dopo essere atterrati alla base aerea di Andrews. Cercare di recuperare i due veicoli avrebbe solo significato andare a ficcarsi dritti nella trappola da cui erano appena sfuggiti. Smith saggiò la fasciatura all'avambraccio sinistro, per essere sicuro che il sangue non l'avesse già impregnata completamente: era ancora bianca e asciutta. Tornò poi a rivolgersi all'inglese. «Okay, apri tu la strada, Peter. Io terrò gli occhi aperti in retroguardia.» I due uomini si voltarono e corsero in direzione nord, dileguandosi nella campagna buia e mantenendosi, quando possibile, al riparo degli alberi d'alto fusto e degli arbusti più alti. Alle loro spalle, l'aspro ed echeggiante balbettio di armi da fuoco automatiche si attenuava a mano a mano che si allontanavano. Capitolo 31 Le prime raffiche di armi automatiche esplose fuori dalla fattoria fecero scattare in piedi Kit Pierson. Estraendo istintivamente la pistola di servizio, una Smith & Wesson 9mm, l'agente dell'FBI si precipitò alla finestra e spiò fuori attraverso lo stretto spiraglio tra le tende socchiuse. Non riusciva a vedere nulla, ma il frastuono delle detonazioni d'arma da fuoco proseguiva, echeggiando forte sulle basse colline ondulate della campagna della Virginia. Con il battito cardiaco accelerato, si accovacciò per ripararsi sot-
to il davanzale. Qualsiasi cosa stesse accadendo, sembrava proprio che fosse in corso un violento conflitto a fuoco nelle immediate vicinanze. «Problemi, Kit?» domandò Hal Burke con una nota tagliente nella voce. La viceassistente del direttore dell'FBI gli rivolse un'occhiata al di sopra della spalla. E sbarrò gli occhi. L'agente speciale della CIA dalla pronunciata mascella quadrata aveva estratto a sua volta la pistola d'ordinanza, una Beretta, e la teneva puntata dritta contro di lei. «Che gioco stai facendo, Hal?» gli chiese, restando perfettamente immobile, fin troppo consapevole che, anche se brillo, il suo omologo non l'avrebbe mancata a una distanza così ravvicinata. Si sentì la bocca asciutta. Vedeva gocce di sudore imperlare adagio la fronte di Burke. I muscoli intorno all'occhio destro si contrassero leggermente in un fugace tic nervoso. «Non è un gioco» replicò Burke. «E sono sicuro che hai già capito.» Con la canna della Beretta le fece cenno di muoversi. «Adesso voglio che tu deponga la pistola sul pavimento, molto lentamente. E poi voglio che ti sieda di nuovo sulla poltrona, tenendo le mani sempre bene in vista.» «Rilassati, Hal» disse la Pierson in tono suadente, sforzandosi di dissimulare la paura e l'improvvisa convinzione che Burke avesse perso il controllo e il senso della realtà. «Non so cosa pensi che abbia fatto, ma ti garantisco che...» Le sue parole furono soffocate da un'altra scarica di raffiche rabbiose proveniente dall'esterno. «Fa' come ti ho detto, maledizione!» ringhiò l'agente della CIA. Il suo dito si contrasse pericolosamente sul grilletto. «Muoviti!» Sentendosi agghiacciare, Kit Pierson si abbassò adagio sulle ginocchia e depose la Smith & Wesson sul pavimento, con il calcio rivolto verso il suo interlocutore. «Ora, con il piede, spingila nella mia direzione, ma sempre con cautela!» ordinò Burke. Kit obbedì, sospingendo la pistola verso di lui sulle sporche assi di legno del pavimento. «Siediti!» Incollerita, a quel punto, sia con l'uomo che la minacciava sia con se stessa per la paura che rischiava di travolgerla, la «Regina d'inverno» eseguì gli ordini, abbassandosi lentamente sulla lisa poltrona dalle molle rotte. Alzò le mani, con le palme in fuori, in modo da dimostrargli che non costituiva una minaccia immediata. «Comunque mi piacerebbe sapere che cosa
si suppone che abbia fatto, Hal... e che cosa sono tutti quegli spari là fuori.» Burke inarcò un sopracciglio con aria scettica. «Perché fai la parte dell'innocentina, Kit? Ormai è troppo tardi. Non sei certo un'idiota. E nemmeno io. Pensavi veramente di poter introdurre furtivamente una squadra di sorveglianza dell'FBI nel terreno di mia proprietà senza che me ne accorgessi?» Kit scosse il capo. Adesso era davvero disperata. «Non so di cosa stai parlando! Nessuno mi ha scortata qui e nessuno mi ha seguita. Non ho notato nessuno nello specchietto per tutto il tragitto da Washington a qui!» «Mentire non ti servirà a niente» ribatté lui in tono glaciale. Il tic all'occhio destro ricominciò, causando un rapido tremolio quando i muscoli si contraevano e poi si rilassavano. «Anzi, mi fa infuriare ancora di più.» Il telefono sulla scrivania squillò una volta. Senza distogliere lo sguardo né spostare la pistola, Burke allungò la mano libera e afferrò il ricevitore prima che squillasse una seconda volta. «Sì?» rispose in tono stizzito. Restò un momento in ascolto e poi scosse vigorosamente la testa. «No, ho la situazione sotto controllo, qui. Vieni pure. La porta non è chiusa a chiave.» Burke riagganciò. «Chi era?» domandò Kit. L'agente della CIA esibì un sorrisino sarcastico. «Una persona che muore dalla voglia di conoscerti» disse, lasciando un alone di mistero. Pentendosi amaramente per la decisione avventata di affrontare Burke di persona, Kit Pierson restò seduta, tesissima, sulla poltrona, valutando le possibilità che aveva di liberarsi da quel guaio, ma non ce n'erano. Udì la porta d'ingresso aprirsi e poi richiudersi. Sbarrò gli occhi quando vide un uomo altissimo e dalle spalle poderose introdursi in silenzio nello studio, muovendosi con la grazia pericolosa di una tigre. I suoi occhi, di uno stranissimo verde brillante, lampeggiarono alla luce fioca della lampada da tavolo posta sulla scrivania di Burke. Per un momento, Kit pensò che fosse lo stesso uomo descritto dal colonnello Smith nel suo rapporto nel periodo immediatamente successivo ai fatti avvenuti al Teller Institute, vale a dire il leader della cellula terroristica, responsabile dell'attentato. Poi scosse la testa. Era impossibile. Quell'uomo era stato letteralmente divorato vivo dai nanofagi rilasciati dalle cariche esplosive che avevano distrutto i laboratori di ricerca dell'istituto. «Ti presento Terce» disse Burke in tono brusco. «È al comando di una delle mie squadre d'azione dell'operazione Tocsin. I suoi uomini erano di
guardia qui fuori. Sono loro ad aver scoperto la presenza di due ficcanaso che si aggiravano furtivamente intorno alla casa.» «Chiunque ci sia là fuori non ha niente a che fare con me» dichiarò la Pierson, sforzandosi di caricare la voce di tutta la convinzione di cui era capace. Ogni manuale dell'FBI sul risvolto psicologico delle cospirazioni sottolineava le paure opprimenti di chi veniva coinvolto in un tradimento dall'interno. Come direttrice della Divisione antiterrorismo del Bureau aveva spesso fatto ricorso a quelle paure, sfruttandole per seminare zizzania e dividere cellule sospette, mettere gli aspiranti terroristi l'uno contro l'altro come topi intrappolati in una fossa. Si morse il labbro inferiore, sentendo il sapore salato del suo stesso sangue. Ora i timori e i sospetti giocavano a suo sfavore, minacciando la sua vita. «Niente da fare, Kit» ribatté con freddezza Burke. «Non credo nelle coincidenze, perciò o sei una bugiarda, o sei un'incompetente. E questa operazione non può permettersi né l'una né l'altra.» Sulle prime, il tipo erculeo che si chiamava Terce non aprì bocca. Si chinò invece sul pavimento e raccattò la pistola di Kit. La fece sparire in una tasca della sua giacca a vento nera, poi si rivolse all'agente speciale della CIA. «Adesso mi dia anche la sua arma, signor Burke» disse cortesemente, allungando una mano. «Prego.» Burke strabuzzò gli occhi, stupito. Era evidente che era stato colto alla sprovvista da quella richiesta: «Cosa?!». «Mi consegni la sua arma» ripeté Terce. Il gigante si avvicinò a Burke, torreggiando sull'agente della CIA. «Sarebbe... più sicuro... per tutti.» «Perché?» L'uomo dagli inquietanti occhi verdi indicò con un cenno la bottiglia di Jim Beam mezza vuota sulla scrivania. «Perché ha bevuto più del dovuto, signor Burke, e in questo momento non mi posso fidare né del suo giudizio né dei suoi riflessi. Stia tranquillo: i miei uomini hanno in pugno la situazione.» Altre raffiche di mitraglietta tartagliarono distanti, sempre più lontane dalla casa colonica. Per un istante d'immobilità generale, Burke restò fermo a fissare l'uomo che lo superava in altezza di almeno mezzo metro. I suoi occhi si socchiusero con espressione furibonda. Poi però assecondò la richiesta dell'altro, consegnando la Beretta a Terce con il tipico broncio di un ubriaco scontroso. Kit Pierson sentì la tensione sciogliersi un pochino. Emise un sospiro
quasi di sollievo. Chiunque fosse, il comandante di quella squadra d'azione dell'operazione Tocsin non era di certo l'ultimo arrivato. Disarmare Burke così in fretta era stata una mossa saggia. Era anche un elemento nuovo, che forse avrebbe potuto aiutarla a disinnescare quella ridicola situazione incendiaria. Kit si sporse in avanti. «Sentite, vediamo cosa si può fare per chiarire questo equivoco» disse con quanta più calma riuscì a raccogliere. «Primo: se qualcuno dell'FBI mi ha seguita di nascosto fin qui, l'ha fatto certamente a mia insaputa e senza il mio consenso.» «Stia zitta, signorina Pierson!» scattò in tono gelido Terce. «Non me ne frega niente di come o del perché sia stata seguita. Le sue ragioni e la sua competenza, o meglio la sua chiara incompetenza, sono irrilevanti.» Kit Pierson lo fissò di rimando, tutt'a un tratto consapevole che quell'uomo era per lei decisamente molto più pericoloso di Burke. Dintorni di Parigi Con i motori che ronfavano sommessi e regolari, i due aeromobili senza equipaggio volavano a novemila metri di quota. Sotto di loro, foreste, strade e paesi di campagna andavano loro incontro come in scivolata su un piano fisso, e poi sparivano dietro i velivoli nella foschia mattutina. Il sole, sorto a est sopra le valli incassate e ondulate della Senna e della Marna, era una grande palla rosso fuoco, profilata sullo sfondo della nebbia grigia che andava diradandosi di ora in ora. Vicino a Parigi il paesaggio cambiava, facendosi sempre più congestionato e affollato. Antichi villaggi rurali circondati di boschi e terreni coltivati lasciavano il posto a sobborghi più estesi e moderni, circondati da intrecci di strade, autostrade e linee ferroviarie. Imponenti palazzi si delineavano più avanti, conficcati nell'orizzonte urbano a intervalli regolari a formare un ampio arco che girava intorno al nucleo interno della città stessa. Lunghe e bianche scie di condensazione si formavano nel cielo sopra i due velivoli robotizzati, vaste piste di cristalli di ghiaccio fluttuanti nell'aria limpida e gelida, ognuna a segnare il passaggio di un grosso aviogetto per passeggeri. I due aeromobili si stavano avvicinando alle rotte di volo in arrivo e in partenza da due aeroporti internazionali: quello di Le Bourget e il Charles de Caulle. Date le loro dimensioni veramente modeste, le probabilità di rilevamento da parte dei radar locali erano scarsissime, ma gli uomini che le comandavano a distanza non trovavano alcun vantaggio nel correre rischi inutili. Rispondendo a istruzioni precedentemente program-
mate, ciascuno dei due aeromobili si abbassò gradualmente di quota, scendendo a millecinquecento metri d'altezza e riducendo la velocità di crociera per mantenersi a una velocità quasi costante che sfiorava i centosessanta chilometri all'ora. Sala operativa di sperimentazione sul campo, Centro La sala operativa del Centro era situata molto all'interno del vasto complesso, al sicuro dietro un'interminabile serie di porte blindate, accessibili soltanto a chi era dotato di speciali autorizzazioni. Nell'ampio locale avvolto nella penombra, diversi scienziati e tecnici esperti sedevano davanti a grandi consolle, costantemente impegnati a monitorare le immagini e l'afflusso di dati in arrivo da Parigi, sia dai sensori di terra montati in numerosi punti del territorio sia da quelli a bordo dei due aeromobili senza equipaggio. Aggiornamenti relativi alla direzione del vento, alla velocità, all'umidità e alla pressione barometrica venivano introdotti automaticamente in un sofisticato programma di puntamento. Due grandi schermi a parete trasmettevano in diretta l'area che si estendeva davanti e sotto i due vettori gemelli. I numeri che lampeggiavano nell'angolo in basso a destra di ogni monitor indicavano la distanza dall'obiettivo, che a mano a mano diminuiva, tremolando di tanto in tanto, quando il programma computerizzato effettuava delle regolazioni accuratamente calcolate al punto di mira di ciascun aeromobile robotizzato. Gli addetti alla sala di controllo erano seduti rigidi, con la schiena diritta e osservavano attentamente, con tensione ed emozione crescenti, i numeri indicativi della distanza dall'obiettivo dapprima stabilizzarsi e poi cominciare a diminuire con vertiginosa rapidità verso lo zero. 0.4 km, 0.3 km, 0.15 km... Il comando «inizio» lampeggiò in rosso su entrambi gli schermi. Il programma di puntamento trasmise immediatamente un radiosegnale codificato, attraverso un satellite per telecomunicazioni che stazionava nella ionosfera sopra la Terra e lo inviava poi ai due aeromobili in volo a nord di Parigi. La Courneuve Sempre più gente si avventurava fuori di casa nelle squallide e dissestate vie intorno agli imponenti complessi di edilizia popolare da bassifondi di La Courneuve. Alcuni camminavano a passo svelto verso la stazione della
metropolitana più vicina, diretti ai posti di lavoro per esercitare le umili occupazioni che erano riusciti a scovare. Molte erano donne che reggevano borse e sacchetti della spesa: madri, mogli e nonne mandate fuori di casa a comprare gli alimenti per quelli che sarebbero stati gli scarsi pasti della giornata. A volte si incontravano intere famiglie che, a piedi, si incamminavano in direzione degli spazi boschivi e dei parchi a nord dei sobborghi popolari. Per quei genitori, la domenica mattina rappresentava un'opportunità rara per far provare ai figli il gusto dell'aria aperta, lontano dalle soglie di casa bloccate da mucchi di spazzatura e di sacchi delle immondizie della Cité des Quatre Mille. E lontano anche dalle strade e dai vicoli imbrattati di scritte sconce e di lerci murales, in cui imperversava la criminalità organizzata con l'immancabile contorno dei giovani teppisti della microcriminalità minorile. I ladri, i borseggiatori, i gradassi, i delinquenti, gli spacciatori e i tossicodipendenti che li opprimevano e depredavano erano, perlopiù, ancora a letto a dormire, barricati negli squallidi appartamentini di nudo cemento forniti dallo stato assistenziale francese. In volo su rotte parallele, a quel punto, i due aeromobili senza equipaggio e comandati a distanza ripresero a salire di quota, arrivando a poco più di tremila metri d'altezza. Viaggiando ancora a centosessanta chilometri all'ora, attraversarono un'ampia avenue ed entrarono nello spazio aereo soprastante La Courneuve. A bordo prima di uno e poi dell'altro vettore, dei relè di comando cambiarono ciclo, innescando le due bombole a gondola gemelle appese sotto le ali dei due aeromobili robotizzati. Con un sibilo sinistro, ogni bombola a gondola cominciò a diffondere nell'aria il suo contenuto in un flusso a getto invisibile. Miliardi e miliardi di nanofagi Stage III scesero a pioggia su un'ampia area di La Courneuve, cadendo lentamente dal cielo in un'invisibile nuvola di morte e di strage imminente. Molti nanofagi andarono alla deriva nell'aria tra le migliaia di persone ignare colte all'aperto per strada e furono inalati senza che nessuno se ne accorgesse, aspirati nei polmoni a ogni respiro. Altri miliardi di fagi microscopici entrarono negli enormi condotti degli impianti di aria condizionata e nelle grandi bocche di ventilazione poste sui tetti dei casermoni popolari e diffusi a ogni piano, in ogni appartamento, attraverso le numerose bocchette di aerazione. Una volta entrati in ogni appartamento, i fagi si diffusero per via aerea in ogni stanza, sospinti da correnti e spifferi, depositandosi invisibilmente su chi ancora dormiva profondamente assopito, o sonnecchiava in un torpore indotto da sostanze stu-
pefacenti, o stava guardando un noioso programma televisivo. La maggior parte dei fagi rimase inerte, conservando la propria energia limitata, diffondendosi silenziosamente nel sangue attraverso il sistema cardiocircolatorio e nei tessuti di chi aveva infettato, in attesa del segnale che l'avrebbe attivato. Come i nanodispositivi, o nanomacchine, Stage II utilizzati nell'attentato al Teller Institute, soltanto all'incirca uno su centomila era un fago «controllore»: una nanosfera di silicone più grande delle altre, infarcita di un vasto assortimento (o array) di sofisticati sensori biochimici. Le loro «batterie» energetiche si attivarono subito e perlustrarono da capo a piedi i corpi dei loro ospiti, cercando una traccia qualsiasi di malattie, allergie, sindromi e condizioni sanitarie precodificate. La prima lettura positiva effettuata dal singolo sensore scatenò un'esplosione immediata di molecole «messaggere», che avrebbero messo in circolo i fagi «assassini» più piccoli in una frenesia distruttiva. Diversi chilometri a sudovest di La Courneuve, la squadra di sorveglianza composta di sei elementi occupava l'ultimo piano e l'attico di un vecchio edificio di pietra grigia nel cuore del Marais, lo storico quartiere centrale di Parigi. Antenne radio e parabole a microonde costellavano il ripido tetto in tegole d'ardesia sopra di loro, raccogliendo ogni più piccolo flusso di dati teletrasmessi, inviati a fascio nella loro direzione dai sensori e dalle telecamere che erano state montate intorno alla zona bersaglio dei nanofagi killer. I dati sarebbero stati immagazzinati, elaborati e valutati, per essere infine trasmessi in segnali codificati e satellitari al lontanissimo Centro. Per conservare la larghezza di banda necessaria e preservare la sicurezza operativa, solo le informazioni ritenute d'importanza essenziale sarebbero state smistate e ritrasmesse in tempo reale. L'uomo dai capelli bianchi che si chiamava Linden fissava un monitor al di sopra della spalla di uno dei suoi sottoposti, osservando i dati affluire nei vari computer e negli altri sofisticati apparecchi elettronici. Linden cercava in tutti i modi di evitare di guardare con eccessiva attenzione o troppo da vicino le immagini catturate e trasmesse dalle strade circostanti la Cité des Quatre Mille. Lasciamo che siano gli scienziati a osservare il loro stesso operato, pensò tetramente. Lui aveva già i suoi compiti da espletare. Rivolse invece lo sguardo su un altro monitor, quello che mostrava le immagini trasmesse dai due aeromobili senza equipaggio. I due velivoli speciali avevano completato le loro orbite parallele sopra La Courneuve e ora stavano facendo rotta a est, volando più o meno paralleli al corso del Canal de l'Ourcq.
Linden premette il tasto che attivava la cuffietta auricolare, e riferì la situazione a Nones alla base di lancio nei pressi di Meaux. «Field Experiment Three procede senza problemi. Raccolta dati nominale. I due vettori stanno seguendo la rotta alla velocità programmata. Tempo d'arrivo previsto, venti minuti circa.» «Nessun segno di rilevamento?» chiese con calma il terzo membro degli «Orazi». Linden lanciò un'occhiata a Vitor Abrantes. Il giovane portoghese aveva l'incarico di monitorare tutte le frequenze radio della polizia, dei vigili del fuoco, delle ambulanze e delle torri di controllo del traffico aereo. Diversi computer predisposti alla selezione automatica rapida di certe parolechiave lo assistevano nel compito assegnatogli. «Niente?» domandò Linden. Il giovane scosse la testa. «Ancora niente. I centralinisti dei servizi di pronto intervento e di pronto soccorso parigini hanno ricevuto diverse telefonate dalla zona bersaglio, ma finora non sono riusciti a capire nulla di quanto sta accadendo.» Linden annuì. Lui e gli altri membri della sua squadra avevano ricevuto un affrettato addestramento informativo sugli effetti provocati dai nanofagi Stage III: quanto bastava per sapere che i tessuti molli della bocca e della lingua erano i primi a disgregarsi. Premette di nuovo il pulsante di trasmissione sull'astina del microfono. «Finora nessuno ha scoperto niente» riferì a Nones. «Le autorità cittadine sono ancora all'oscuro di tutto.» Occhi nocciola, capelli castani, ancora snella, flessuosa e di bell'aspetto, Nouria Besseghir afferrò saldamente la manina di Tasa, la figlia di cinque anni, stringendola forte, esortando la bambina ad allungare il passo e ad attraversare più in fretta la strada. Sua figlia, sapeva Nouria, era molto curiosa e si distraeva per un nonnulla. Lasciata a se stessa, Tasa era capace di starsene in mezzo alla strada, rapita nello studio di un disegno interessante nel cemento pieno di crepe e di buche o di qualche pezzo avvincente di pittura murale sulla facciata del palazzo vicino. A dire il vero, nelle vie di La Courneuve a quell'ora circolavano ben poche automobili, ma, in ogni caso, erano davvero pochi quelli che guidavano prestando attenzione al codice stradale o alla sicurezza dei pedoni. In quel quartiere senza legge, parte di quella che i parigini chiamavano la Zone, gli incidenti, anche mortali, provocati da una schiera infinita di pirati della strada, non erano rari e la polizia se ne interessava poco.
Altrettanto importante per Nouria era il suo desiderio di restare in movimento, di evitare cioè di attirare attenzione indesiderata da uno qualunque degli uomini che bighellonavano in quelle strade sudice o che si accoccolavano nei vicoli bui. Sei mesi prima, suo marito era tornato nella nativa Algeria per quella che le aveva detto trattarsi di una «faccenda di famiglia». E ora era morto, ucciso in uno scontro tra le forze di polizia algerine e i dissidenti islamici che periodicamente sfidavano il governo autoritario di quella nazione. La notizia della sua morte aveva impiegato settimane prima di arrivare alle orecchie di Nouria, e lei non sapeva ancora quale delle due fazioni in lotta fosse la responsabile. Questo faceva di Nouria Besseghir una vedova: una donna la cui cittadinanza francese per nascita le dava diritto a un modesto sussidio dell'assistenza sociale da parte del governo francese, in quanto vedova e indigente. Agli occhi di ladri, ruffiani e furfanti, che in genere si occupavano soltanto delle faccende di quartiere della Cité des Quatre Mille, la piccola pensione di indennità mensile rendeva la bella Nouria una merce preziosa. Uno qualunque di essi sarebbe stato più che lieto di offrirle la sua dubbiosa «protezione», almeno in cambio della possibilità di approfittare del suo corpo e del suo denaro. A quel pensiero, Nouria sporse le labbra in una piccola smorfia di disgusto. Allah solo sapeva che nemmeno il suo defunto marito, Hakkim, era stato un gioiello di cui andare fiera, tuttavia Nouria avrebbe preferito morire piuttosto che essere accarezzata lascivamente e poi derubata dai parassiti che stavano in agguato intorno a lei. Per questo motivo camminava con passo spedito ogni volta che usciva dal bilocale in cui abitava, tenendo sempre lo sguardo fisso a terra, davanti a sé. Lei e la figlia indossavano anche la hijab, la veste ampia, e il tipico copricapo a foulard, all'araba, che le contrassegnava come femmine musulmane decorose e pudiche. «Mamma, guarda!» esclamò a un tratto la piccola Tasa, indicando qualcosa nel cielo azzurro sopra di loro. La voce della bambina era eccitata, acuta e penetrante. «Com'è grande! Guarda quel grosso uccello che vola lassù in alto! È enorme. È un avvoltoio? O forse un'aquila? È come quelli delle fiabe? Oh, come sarebbe piaciuto a papà poterlo vedere!» Seccata, Nouria zittì la figlia con severità. Non aveva nessuna intenzione di farsi notare. Camminando ancora a passo affrettato, diede uno strattone al polso della figlia, trascinandola con sé lungo il marciapiedi costellato di rifiuti. Era già troppo tardi.
Un ubriaco dalla barba lurida e incolta e la pelle bucherellata dall'acne sbucò barcollante da un vicolo lì vicino, sbarrando loro il passo. A Nouria venne quasi da vomitare quando un fetore nauseabondo di liquore rancido e di sporco la investì. Dopo la prima occhiata spaventata a quella specie di vacillante relitto umano, Nouria abbassò lo sguardo e cercò di proseguire aggirando lo sconosciuto. L'uomo le barcollò più vicino, costringendola a ritrarsi. Completamente ubriaco, con gli occhi fuori dalle orbite, tossì forte, sputò per terra e poi gemette, emettendo un basso mormorio gutturale che sembrava più il guaito di un cane che il lamento di un uomo. Disgustata, Nouria fece una smorfia sotto il velo e si ritrasse di qualche altro passo, trascinando Tasa con sé. Una parte di lei era profondamente addolorata che la sua splendida bambina fosse esposta a tanto lerciume, degradazione e depravazione. Che diamine, quel cochon era talmente sbronzo da non riuscire neppure a spiccicare una sola parola! Nouria distolse lo sguardo da quella vista penosa, chiedendosi che cosa avrebbe dovuto fare per sfuggire a quel bruto puzzolente. Avrebbe dovuto prendere in braccio Tasa e mettersi a correre attraverso la strada? O la mossa avrebbe soltanto attirato ulteriore attenzione indesiderata? «Mamma!» mormorò la bambina. «A questo signore sta succedendo qualcosa di orribile. Vedi? Sta sanguinando dappertutto!» Nouria alzò gli occhi e vide inorridita che la figlia aveva ragione. L'ubriaco le era stramazzato davanti, cadendo sulle ginocchia e le mani. Il sangue gocciolava a rivoletti sul selciato, colandogli dalla bocca e dalle ferite raccapriccianti che gli si stavano aprendo e diffondendo lungo le braccia e le gambe. Lembi di carne viva si staccavano a brandelli dalla faccia e cadevano a terra, trasformandosi già in una melmosa poltiglia rossastra e traslucida. L'uomo gemette di nuovo, tremando in modo sempre più violento, mentre spasmi d'agonia torturavano il suo corpo in completo disfacimento. Soffocando un urlo di terrore, Nouria si ritrasse spaventata da quell'uomo che stava morendo sotto i suoi occhi, coprendo con la mano libera gli occhi della figlioletta, per evitarle quella vista raccapricciante. Udendo altre grida d'angoscia alle sue spalle, si voltò di scatto. Molte altre persone uomini, donne e bambini - erano in ginocchio o rannicchiate su se stesse, in agonia: strillando, gemendo e ghermendosi il volto e le membra, contorcendosi in una folle, irrazionale disperata isteria. Decine di persone erano già contagiate. E mentre Nouria assisteva inorridita alla scena, altre persone, in numero sempre maggiore, cadevano in preda all'invisibile orrore che
stava seminando panico e distruzione nel loro quartiere. Per diversi, interminabili secondi, Nouria restò a fissare inebetita la scena infernale intorno a sé in un crescente terrore, già in preda al panico, incapace di comprendere l'enorme portata di quella strage. Poi prese precipitosamente in braccio la figlioletta e si mise a correre, diretta verso l'androne più vicino, nello sforzo frenetico di trovare un rifugio. Ma era già troppo tardi. Nouria Besseghir sentì le prime ondate di sofferenza indicibile percorrerle il corpo a partire dall'interno, dai polmoni affannati, diffondendosi a ogni respiro al resto del corpo. Urlando forte di paura, inciampò e cadde al suolo, tentando inutilmente di proteggere la figlioletta dalla caduta con braccia che già si stavano disgregando, cadendo a brandelli, mentre la pelle e i tessuti muscolari si dissolvevano, staccandosi dalle ossa. Altri coltelli di fuoco le pugnalarono gli occhi. La vista le si annebbiò, oscurandosi in fretta, per poi sparirle del tutto lasciandola cieca. Con le ultime tracce di nervi che le rimanevano ancora in quello che restava del suo viso un tempo bello, avvertì qualcosa di molle e bagnato scivolarle fuori dalle orbite. Si abbandonò sul selciato, implorando per avere l'oblio, invocando una morte che avrebbe fermato la sofferenza e il male che stava torturando ogni parte del suo povero corpo tremante, travolto dalle convulsioni. Pregò anche disperatamente per sua figlia, sperando contro ogni logica e ogni speranza che alla sua bambina fosse risparmiata quella stessa pena. Ma alla fine, prima che le tenebre definitive la reclamassero, comprese che perfino il suo ultimo desiderio, la sua ultima supplica, le era stato negato. «Mamma» udì Tasa piagnucolare. «Mamma, fa male... mi fa tanto male...» Capitolo 32 Campagna della Virginia Terce si appoggiò a una delle pareti rivestite di pannelli di legno scuro del piccolo studio di Burke. La sua postura era rilassata, calma, ma i suoi occhi verdi erano all'erta e concentrati. Stringeva ancora in mano la Beretta che si era fatto consegnare dall'agente della CIA. La pistola 9mm sembrava incredibilmente piccola nella sua enorme e inguantata mano destra. Esi-
bì un sorriso gelido, percependo il crescente imbarazzo dei due americani seduti immobili sotto i suoi occhi vigili. Era la prima volta in cui sia Hal Burke sia Kit Pierson si trovavano in una situazione di completo assoggettamento al volere di un'altra persona. Terce si compiaceva del fatto di tenere sotto la sua opprimente influenza quei due esperti agenti speciali. Il secondo membro degli «Orazi» controllò il piccolo orologio d'antiquariato che si trovava sulla scrivania di Burke. Le detonazioni dei colpi di arma da fuoco si erano attenuate poco prima. Ormai le spie a cui i suoi uomini stavano dando la caccia dovevano essere morte. A prescindere dall'ottimo addestramento ricevuto, nessun agente dell'FBI avrebbe avuto la benché minima possibilità di tener testa alla sua squadra di ex commandos. Una voce gli gracchiò negli auricolari della cuffietta radio. «Qui Uchida. Devo fare rapporto sull'attuale situazione.» Terce si staccò subito dalla parete, raddrizzandosi e dissimulando la propria sorpresa. Uchida, un ex parà giapponese, era uno dei cinque uomini a cui aveva dato l'ordine di spingere i due intrusi, nell'imboscata tesa con cura, lungo il margine nord della tenuta di Burke. Qualsiasi rapporto sarebbe dovuto pervenirgli direttamente dal gruppo incaricato dell'agguato stesso. «Avanti» intimò. Ascoltò in silenzio il resoconto di Uchida sull'esito disastroso della battuta di caccia, faticando non poco a non lasciarsi andare a gesti di rabbia furiosa. Quattro membri della squadra ai suoi ordini erano morti, compreso McRae, il suo uomo migliore. La trappola che lui stesso aveva pianificato era stata neutralizzata con un imprevisto attacco sul fianco scoperto. Già questo era abbastanza deplorevole, ma il fatto che gli scioccati superstiti della sua squadra di sicurezza avessero completamente perso le tracce dei due fuggitivi in ritirata era ancora peggio. Che i suoi uomini avessero trovato e messo fuori uso le due automobili appartenenti agli intrusi era una magra consolazione. Ormai, i due si erano senza alcun dubbio messi in contatto con il loro quartier generale, riferendo tutto quello che avevano origliato, e naturalmente richiedendo urgenti rinforzi. «Dobbiamo proseguire le ricerche?» fu la domanda con cui Uchida terminò il resoconto. «No» scattò Terce, furibondo. «Tornate ai vostri veicoli e aspettate le mie istruzioni.» Era stato troppo sicuro di sé e la sua squadra aveva pagato un prezzo troppo alto. Col buio, le probabilità di scovare di nuovo i due fuggitivi prima che ricevessero l'aiuto sicuramente richiesto erano molto
scarse. E perfino in quella zona di campagna, quasi del tutto disabitata, il frastuono causato dal prolungato conflitto a fuoco aveva di certo attirato una sgradita attenzione. Era giunto il momento di abbandonare quell'area prima che l'FBI o altre forze dell'ordine avessero il tempo di circondarla con un cordone di agenti e di blocchi stradali. «Problemi?» domandò fredda la Pierson. La donna dai capelli scuri aveva notato la collera e l'incertezza nella voce di Terce e si riaddrizzò sulla poltrona. «Un piccolo contrattempo» mentì Terce scaltramente, sforzandosi di dissimulare e di tenere a freno l'irritazione e l'impazienza che stavano montando in lui. L'addestramento e il condizionamento psicologico ricevuti in passato gli avevano insegnato l'inutilità delle emozioni più deboli. Fece cenno, agitando leggermente la Beretta, a Kit di abbandonarsi di nuovo contro lo schienale della poltrona. «Si calmi, signorina Pierson. Tutto sarà chiarito a tempo debito.» Il secondo membro degli «Orazi» controllò di nuovo l'orologio sulla scrivania, calcolando le sei ore di differenza di fuso orario tra la Virginia e Parigi. La telefonata arriverà presto, pensò. Ma sarebbe arrivata in tempo? Avrebbe dovuto agire di sua iniziativa senza attendere di ricevere ordini specifici? Terce scacciò quel pensiero. Le sue istruzioni erano precise. Il suo telefono cellulare ad altissima sicurezza emise improvvisamente un ronzio. Terce rispose subito. «Sì?» Una voce all'altro capo della comunicazione, leggermente distorta dal software di codificazione e da una lunga serie di trasmissioni satellitari, parlò con calma, impartendo l'ordine che Terce si aspettava di sentire. «Field Experiment Three iniziato. Potete procedere come da programma.» «Ricevuto» disse Terce. «Passo e chiudo.» Con un vago accenno di sorriso, ora, guardò l'agente dell'FBI dai capelli scuri. «Spero che accetti in anticipo le mie scuse, signorina Pierson.» Kit Pierson aggrottò le sopracciglia, palesemente confusa. «Le sue scuse? Per cosa?» Terce si strinse nelle spalle. «Per questo.» Con un movimento plastico, il gigante sollevò la pistola che aveva confiscato a Burke e premette il grilletto due volte. Il primo proiettile colpì Kit Pierson in mezzo alla fronte, il secondo le perforò il cuore con precisione chirurgica. Emettendo un sospiro sommesso, la viceassistente del direttore dell'FBI si accasciò all'indietro, contro lo schienale della poltrona imbrattato di sangue. I suoi occhi grigio scuro, vitrei e privi di vita, erano fissi sul suo assassino, in un'eterna
espressione di totale stupore. «Buon Dio!» Hal Burke si aggrappò con entrambe le mani ai braccioli della sua sedia girevole. Il sangue gli defluì completamente dal volto, lasciandolo di un pallore agghiacciante. L'agente speciale della CIA distolse lo sguardo inorridito dalla donna assassinata, rivolgendolo al tipo erculeo che incombeva sopra di lui in tutta la sua straordinaria altezza. «Cosa... cosa diavolo... stai facendo?!» balbettò. «Eseguo gli ordini» rispose semplicemente Terce. «Non ti ho mai chiesto di ucciderla!» urlò Burke. Poi deglutì a vuoto, convulsamente, reprimendo a fatica un impellente conato di vomito. «No, infatti» convenne l'uomo dagli occhi verdi. Poi depose delicatamente la Beretta sul pavimento ai suoi piedi ed estrasse dalla tasca della sua giacca la Smith & Wesson della Pierson. Abbozzò di nuovo un sorriso beffardo. «D'altronde lei non capisce affatto la situazione, signor Burke. La sua cosiddetta operazione Tocsin era solo una copertura per qualcosa di portata molto più ampia: lei non è quello che tira le fila e comanda, qui... ma solo un servo. Un servitore sacrificabile, ahimè.» Burke sbarrò gli occhi terrorizzato, in un'improvvisa espressione di inorridita consapevolezza. D'istinto, si spinse all'indietro sulla sedia girevole, tentando disperatamente di alzarsi in piedi, di fare qualcosa, qualsiasi cosa, per difendersi, ma non servì a nulla. Terce lo colpì a bruciapelo con tre proiettili da 9mm allo stomaco. Ogni proiettile uscì dal lato opposto, producendo enormi fori sulla schiena, schizzando sangue, frammenti d'osso e pezzetti di organi interni sulla sedia, sulla scrivania e sullo schermo del computer. Burke si accasciò, con le mani appoggiate inutilmente sulle terribili ferite all'addome. La bocca si aprì e si chiuse, come quella di un pesce preso nella rete di un pescatore, freneticamente ansimante e senza ossigeno. Con sprezzante facilità, Terce allungò un piede e spinse la sedia girevole di lato, rovesciando l'agente speciale della CIA moribondo sul pavimento di legno. Poi si allontanò di due passi e gettò la Smith & Wesson nel grembo intriso di sangue della Pierson. Quando si voltò per l'ultima volta, vide Burke giacere immobile, rannicchiato in posizione fetale, nell'agonia finale della morte. Il gigante dagli occhi verdi infilò la mano inguantata in una tasca del giaccone ed estrasse un piccolo pacchetto avvolto nella plastica, sormontato da un timer digitale. Agendo con rapidità ed esperienza, regolò il timer su venti secondi dopo, lo fece scattare e depose il pacchetto sulla scrivania, proprio sotto il
computer e l'apparecchiatura da telecomunicazioni di Burke. Il display digitale del timer iniziò il conto alla rovescia. Terce scavalcò con attenzione il cadavere dell'agente speciale della CIA e uscì in corridoio. Alle sue spalle, il timer arrivò a zero. Con uno sbuffo contenuto e un improvviso lampo incandescente, bianco, il piccolo ordigno incendiario che aveva piazzato sulla scrivania detonò. Soddisfatto, uscì all'aperto e si chiuse la porta di casa alle spalle. Poi si voltò. Le fiamme erano già visibili attraverso le tende non completamente tirate della finestra dello studio. Ondeggiavano e aumentavano a vista d'occhio, diffondendosi rapide all'arredamento e appiccando il fuoco ai libri, alle attrezzature elettroniche e ai cadaveri che giacevano sul pavimento. Terce premette sul suo cellulare il pulsante di composizione automatica di un numero preselezionato e attese con pazienza che l'interlocutore chiamato rispondesse. «Fa' rapporto» ordinò la stessa voce tranquilla che Terce aveva udito poc'anzi. «Le sue istruzioni sono state eseguite» lo informò Terce. «Gli americani troveranno solo fumo e cenere... e le prove schiaccianti della loro stessa complicità. Come ordinato, io e la mia squadra torneremo subito al Centro.» A molte migliaia di chilometri di distanza, seduto in una fredda stanza avvolta nella penombra, il sedicente «Lazzaro» sorrise. «Ottimo» disse a bassa voce. Poi tornò a rivolgere l'attenzione ai dati che affluivano da Parigi sui suoi computer. Parte quarta Capitolo 33 Parigi Il capo della squadra di sorveglianza del Centro, Willem Linden, passava rapido da un'immagine all'altra sul grande monitor che aveva davanti, verificando tutte le immagini trasmesse dalle centraline a sensori montate sui lampioni delle vie di La Courneuve. Ogni immagine mostrava lunghi tratti di marciapiedi, selciato e viali costellati di piccoli, tristi mucchietti di indumenti, imbrattati di melmosa poltiglia sanguinolenta e di ossa. Nelle altre immagini, trasmesse da diverse telecamere schierate intorno al peri-
metro della zona bersaglio, si notava la presenza di numerosi automezzi auto della polizia, camion dei vigili del fuoco e ambulanze - con le luci lampeggianti sui tettucci ancora in funzione, alcuni dei quali semidistrutti. Le prime squadre d'emergenza, accorse in risposta alle frenetiche telefonate di richiesta d'aiuto, erano piombate dritte nell'invisibile nube di nanofagi, ed erano perite insieme a coloro che erano andate a soccorrere. Linden parlò nell'astina microfonica collegata alla cuffia, facendo rapporto al Centro lontano. «Tra le persone all'esterno degli edifici pare non ci siano superstiti.» «Questa è una notizia meravigliosa» disse la voce leggermente distorta dell'uomo che si faceva chiamare «Lazzaro». «E i nanofagi?» «Un momento» disse Linden. Poi digitò una serie di codici sulla tastiera che aveva davanti. Le immagini a circuito chiuso scomparvero dal suo schermo, sostituite da una serie di grafici: uno per ogni centralina a sensori montata sui lampioni della zona bersaglio. In ogni scatoletta c'era un kit di raccolta e di analisi dell'atmosfera, progettato per rilevare un campione rappresentativo dei nanofagi che scendevano in caduta libera nell'aria circostante. Mentre l'uomo dai capelli bianchi osservava i grafici, gli archi di curva su ciascun diagramma salirono all'improvviso. «Le loro sequenze di autodistruzione si sono appena attivate» riferì nel microfono radio. L'involucro semiconduttore sferico, o «testa», di ogni nanofago Stage III conteneva un meccanismo di autodistruzione a tempo costruito per disturbare e confondere il suo stesso nucleo di comando operativo: le cariche chimiche che spezzavano i legami peptidici. Se fatte detonare, queste nanobombe microscopiche scatenavano una minuscola esplosione di intenso calore. I recettori a raggi infrarossi all'interno dei kit di raccolta d'informazioni stavano rilevando esattamente quelle microesplosioni di calore. Linden vide gli archi di curva su ciascun grafico precipitare allo zero. «Autodistruzione nanofagi completata» riferì. «Bene» ribatté «Lazzaro». «Procedere alla fase finale di Field Experiment Three.» «Ricevuto» disse Linden. L'esperto digitò un'altra serie di sequenze di ordini sulla tastiera. Sul suo schermo apparvero delle lettere rosse lampeggianti. «Cariche attivate.» Diversi chilometri a nordest, le cariche di demolizione installate e innescate alla base di ciascuna centralina a sensori esplose. Fontane di fiamme di un bianco accecante si levarono alte nell'aria quando si accese il riempitivo al fosforo bianco in ogni singola carica. In pochi millisecondi, le tem-
perature nel nucleo di ogni torreggiante colonna di fuoco raggiunsero i 2700 °C, consumando ogni elemento separato delle centraline a sensori e fondendo inestricabilmente i metalli e i materiali plastici di cui erano composte con l'acciaio e il ferro ormai dissolto dei lampioni. Quando il fumo e le fiamme si attenuarono, non rimase alcuna traccia degli strumenti elettronici, delle telecamere e degli apparecchi per telecomunicazioni montati per studiare da vicino, ma in tutta sicurezza, la strage di massa avvenuta a La Courneuve. Casa Bianca, Washington, D.C. Il trillo insistente del telefono sul comodino strappò il presidente Samuel Castilla a un sonno agitato. Annaspò in cerca degli occhiali, li inforcò e vide dalla sveglia appoggiata lì a fianco che erano quasi le quattro e mezza di mattina. Il cielo fuori dall'appartamento presidenziale della Casa Bianca era ancora di un nero pece, assolutamente intatto e privo di qualsiasi traccia dell'alba in arrivo. Il presidente afferrò il ricevitore. «Castilla.» «Desolato di svegliarla, signor presidente» disse Emily Powell-Hill. Il consigliere per la Sicurezza nazionale aveva un tono spossato e preoccupato. «Deve essere assolutamente informato su quello che sta accadendo in questo momento alle porte di Parigi. Le prime notizie stanno arrivando solo ora dalle edizioni speciali dei telegiornali... CNN, Fox e BBC trasmettono tutti le stesse informazioni imprecise.» Castilla si alzò a sedere sul letto, indirizzando alla sua sinistra un'occhiata di scuse per l'interruzione a quell'ora indecente della notte, prima di ricordare che sua moglie, Cassie, era assente, lontana da casa, per l'ennesimo giro diplomatico internazionale, questa volta in alcuni Paesi dell'Asia. Provò una fitta lancinante di solitudine e provò a respingere quell'ondata di tristezza. I doveri di un presidente sono inesorabili, pensò. Non puoi evitarli. Non puoi ignorarli. Puoi solo resistere stoicamente e cercare di onorare la fiducia che il popolo ti ha accordato. Tra tante altre cose, questo significa anche accettare la lontananza dalla donna che ami. Premette il pulsante d'accensione sul telecomando del televisore, scegliendo uno dei canali via cavo in perenne concorrenza tra loro ventiquattro ore su ventiquattro. Lo schermo mostrava le vie deserte di un quartiere periferico appena fuori Parigi, filmate da un elicottero che orbitava sulla zona a una certa altezza da terra. A un tratto, l'immagine zoomò su una strada sottostante, rivelando centinaia di grotteschi mucchietti di carne
squagliata e di ossa, che solo poche ore prima erano stati degli esseri umani vivi e vegeti. «... si teme che ci siano state migliaia di vittime, sebbene il governo francese abbia risolutamente rifiutato di far congetture sulla causa o sull'immane portata di questa tragedia. Tuttavia, osservatori esterni hanno messo in evidenza le impressionanti somiglianze tra le orribili morti riportate a Parigi e quelle attribuite ai nanofagi diffusi nel disastro avvenuto al Teller Institute for Advanced Technology di Santa Fe, nel New Mexico, solo pochi giorni fa. Ma finora è impossibile confermare o smentire i loro sospetti. Soltanto poche unità speciali della Difesa civile, attrezzate con tute anticontaminazione a protezione totale, sono state autorizzate a entrare nel quartiere di La Courneuve, alla ricerca disperata di superstiti e di risposte...» Profondamente sconvolto, Castilla spense il televisore. «Mio Dio!» mormorò. «È accaduto di nuovo!» «Sì, signore» ribatté Emily Powell-Hill in tono desolato. «Temo proprio di sì.» Stringendo ancora il ricevitore del telefono, Castilla si alzò dal letto e indossò una vestaglia sopra il pigiama. «Convochi tutti qui, Emily» disse, costringendosi a mantenere un tono di voce il più calmo e il più controllato possibile. «Voglio che sia organizzata al più presto una riunione del Consiglio di Sicurezza nazionale al completo nella Situation Room.» Il presidente interruppe la comunicazione e compose immediatamente un altro numero. Il telefono all'altro capo squillò solo una volta prima che qualcuno rispondesse. «Klein agli ordini, signor presidente.» «Ma tu non dormi mai, Fred?» domandò Castilla senza pensarci. «Quando posso, Sam» ribatté il direttore della Covert-One. «Il che avviene molto più di rado di quel che mi piacerebbe. È solo uno dei tanti rischi e inconvenienti del mestiere... proprio come nel tuo.» «Hai visto i notiziari in TV?» «Sì, certo» confermò Klein. Poi ebbe un attimo di esitazione. «In effetti, stavo giusto per chiamarti.» «Riguardo a questa nuova tragedia a Parigi?» domandò il presidente. «Non esattamente» rispose in tono pacato il suo interlocutore. «Anche se temo che ci possa essere un collegamento che, purtroppo, non ho ancora compreso appieno.» Klein si schiarì la gola. «Ho appena ricevuto un rapporto sconvolgente dal colonnello Smith. Ricordi quello che ha detto Hi-
deo Nomura a proposito del fatto che suo padre era convinto che la CIA stesse muovendo guerra contro il Lazarus Movement?» «Sì, certo» disse Castilla. «Se non ricordo male, Hideo, in un primo momento, aveva pensato che si trattasse di una prova del fatto che la salute mentale del padre fosse sempre più instabile. E ci eravamo entrambi trovati d'accordo con lui.» «Proprio così. Be', mi dispiace ammettere che, a quanto sembra, Jinjiro Nomura aveva ragione» dichiarò Klein con la massima serietà. «E che entrambi ci eravamo sbagliati. Sbagliati di grosso, Sam. Temo che alcuni funzionari di grosso calibro all'interno della CIA e dell'FBI, e forse anche di altre agenzie di governo, stessero a tutti gli effetti conducendo una campagna illegale di sabotaggio, di omicidi mirati e di terrorismo, ideata per screditare e distruggere il movimento ambientalista.» «È un'accusa grave, Fred» commentò Castilla in tono severo. «Un'accusa che pesa come un macigno. Farai meglio a dirmi esattamente quali prove hai a sostegno di un'affermazione del genere.» Il presidente degli Stati Uniti ascoltò in sbalordito silenzio il resoconto di Klein sulle prove schiaccianti raccolte da Jon Smith e da Peter Howell, entrambi operanti prima nel New Mexico e poi fuori dalla casa di campagna di Hal Burke. «Dove sono Smith e Howell in questo momento?» chiese Castilla quando il direttore della Covertone ebbe concluso il suo rapido aggiornamento. «A bordo di un'auto che sta facendo ritorno a Washington» rispose Klein. «Sono riusciti a mettersi in salvo dall'agguato che i mercenari gli avevano teso, più o meno un'ora fa. Ho mandato sul posto una squadra d'appoggio e i relativi mezzi di trasporto non appena Jon è stato in grado di mettersi in contatto con me in tutta sicurezza.» «Bene» disse Castilla. «Dunque, che ne è di Burke, della Pierson e dei loro assassini prezzolati? Dobbiamo assolutamente arrestarli e cominciare ad andare a fondo di questa sporca faccenda.» «A questo riguardo ho altre brutte notizie» continuò Klein. «Il mio staff ha intercettato le frequenze radio della polizia e dei vigili del fuoco di quella zona rurale della Virginia. La fattoria di Burke sta andando a fuoco. In questo preciso momento l'incendio non è ancora stato domato. E l'Ufficio dello Sceriffo locale non è ancora stato in grado di rintracciare nessuno dei responsabili del conflitto a fuoco di cui hanno riferito alcuni vicini di casa, né hanno ancora trovato cadaveri nei campi circostanti la casa colonica.»
«Si sono dati alla fuga» osservò Castilla. «Qualcuno è di certo in fuga» convenne il direttore della Covert-One. «Ma chi sia e in quale direzione sia diretto resta tutto da vedere.» «Perciò, di preciso, fino a dove arriva il marciume?» domandò Castilla. «Fino a David Hanson? Il direttore della CIA sta conducendo una guerra segreta a mia insaputa?» «Vorrei poterti rispondere, Sam» dichiarò Klein dispiaciuto. «Ma non posso. Nulla di quel che Smith ha scoperto finora prova che Hanson sia implicato.» Klein ebbe un attimo di esitazione. «Se vuoi il mio parere, direi che non credo affatto che Hal Burke e Katherine Pierson possano aver organizzato un'operazione come la Tocsin tutta da soli, e di loro iniziativa. Tanto per cominciare, è troppo dispendiosa: prendendo in considerazione soltanto quel poco che sappiamo, il costo deve sfiorare milioni di dollari. E nessuno dei due ha l'autorità di attingere a fondi segreti di quella portata.» «Quel Burke era uno degli uomini più fidati di Hanson, vero?» osservò il presidente in tono cupo. «Da quando era ancora a capo della Direzione operativa della CIA?» «Sì» ammise Klein. «Ma non voglio saltare subito alle conclusioni. I controlli sulle uscite finanziarie della CIA sono rigorosissimi. Non riesco a immaginare come qualcuno possa aver dirottato la somma necessaria, senza lasciare una traccia larga un chilometro. Manomettere lo speciale programma d'amministrazione computerizzata dell'Agenzia è un conto; evitare gli inflessibili revisori dei conti è un altro.» «Be', forse il denaro è arrivato da qualche altra parte» azzardò Castilla, corrugando la fronte. «Hai sentito di quali altre cose era convinto Jinjiro Nomura. Secondo lui, importanti multinazionali e altre agenzie di spionaggio oltre alla CIA stavano cercando di neutralizzare il Lazarus Movement. Potrebbe avere avuto ragione anche su questo.» «Può darsi» convenne Klein. «Inoltre, bisogna considerare un'altra tessera del mosaico. Ho fatto un rapido controllo sugli incarichi più recenti di Burke. Uno di questi spicca tra gli altri come un grattacielo tra capanne di paglia. Prima di assumere il comando della task force speciale dell'Agenzia sul Lazarus Movement, Hal Burke ha diretto una delle squadre della CIA incaricate della ricerca dello scomparso Jinjiro Nomura.» «Oh, Cristo!» borbottò Castilla. «Abbiamo messo la dannata volpe a guardia del pollaio senza nemmeno accorgercene...» «Temo proprio di sì» disse Klein con calma. «Ma quello che non capisco in tutta questa faccenda è il nesso tra la diffusione di nanofagi a Santa
Fe... e ora, molto probabilmente, a Parigi... e questa dannata operazione Tocsin. Se Burke, la Pierson e altri stanno tentando di distruggere il Lazarus Movement, perché orchestrare massacri e stragi di massa che non fanno altro che rafforzarlo? E dove si sono procurati questo tipo di ultrasofisticatissima arma nanotecnologica?» «La domanda sorge spontanea» convenne il presidente, ravviandosi i capelli arruffati con la mano libera, nel vano tentativo di renderli lisci. «Questa situazione è un caos infernale e ora devo anche constatare che non posso più fidarmi della CIA o dell'FBI perché mi aiutino a scoprire la verità. Maledizione! Sarò costretto a mettere sotto torchio Hanson, i suoi principali assistenti e ogni agente speciale anziano del Bureau, prima che trapeli la notizia di questa folle e illegale guerra segreta contro il movimento ambientalista.» Castilla emise un sospiro sconsolato. «E quando sarà trapelata, l'uragano di fuoco della stampa e degli onorevoli congressisti farà sembrare lo scandalo Iran-Contras una piccola burrasca in un bicchiere d'acqua.» «Hai ancora la Covert-One» gli rammentò Klein. «Lo so» gli fece eco Castilla in tono solenne. «E conto su di te e i tuoi ragazzi, Fred. Dovete rimboccarvi le maniche e trovare le risposte che mi servono.» «Faremo del nostro meglio, Sam» gli garantì il suo interlocutore. «Al massimo delle nostre capacità.» Chiltern Hills, Inghilterra Di domenica mattina presto, le vetture che circolavano sulla Motorway 40 a più corsie che collegava Oxford a Londra erano poche. La Jaguar argento di Oliver Latham viaggiava verso sudest a velocità sostenuta, sfrecciando attraverso un paesaggio agreste fatto di colline verdeggianti, piccoli villaggi rurali con chiese di pietra grigia in stile normanno, lunghi tratti di terreno boschivo incontaminato e dolci pendii invasi di foschia. L'inglese al volante, un tipo filiforme e nervoso, dalle guance incavate, non prestava, tuttavia, nessuna attenzione alle bellezze naturali che lo circondavano. Il capo della sezione speciale di sorveglianza sul Lazarus Movement del MI6 britannico era invece concentrato esclusivamente sulle notizie trasmesse dall'autoradio. «I primi rapporti diramati dal governo francese sembrano collegare le vittime di La Courneuve alla carneficina avvenuta davanti all'istituto di ri-
cerca americano del New Mexico» lesse l'annunciatore della BBC nei toni calmi, garbati e solenni riservati agli avvenimenti internazionali più gravi. «E migliaia di residenti dei quartieri parigini limitrofi alla zona in cui è avvenuta la tragedia si dice stiano lasciando le loro case e fuggendo in preda al panico, congestionando le principali arterie di collegamento in uscita dalla capitale francese. Unità dell'esercito e delle forze dell'ordine sono in fase di schieramento per sovrintendere all'evacuazione e per mantenere l'ordine e la legalità...» Latham allungò la mano e spense l'autoradio, seccato di scoprire di avere un lieve tremito alle mani. Si era assopito da poco, nella casa di campagna appena fuori Oxford che utilizzava nei fine settimana, quando la prima telefonata allarmante dalla sede centrale del MI6 lo aveva svegliato. Da allora, era stato travolto da una serie di notizie scioccanti. Prima aveva scoperto di non riuscire in alcun modo a mettersi in contatto con Hal Burke per cercare di capire che cosa diavolo stesse realmente accadendo a Parigi. Proprio mentre la Tocsin sembrava far acqua da tutte le parti, il suo omologo americano era sparito nel nulla. Poi aveva appreso che il suo diretto superiore, Sir Gareth Southgate, aveva infiltrato il suo agente segreto di fiducia, Peter Howell, nel Lazarus Movement senza informarlo. E già questa era una tragedia, ma, come se non bastasse, ora il capo supremo del MI6 stava facendo domande mordaci su Ian McRae e gli altri «free lance» che Latham era solito assoldare per le missioni più delicate. L'inglese fece una smorfia, considerando le alternative che aveva a disposizione. Quanto e che cosa aveva scoperto Howell? Quanto e che cosa aveva riferito a rapporto a Sir Southgate? Se l'operazione Tocsin era effettivamente e irrimediabilmente compromessa, che tipo di copertura avrebbe dovuto inventarsi per nascondere il suo coinvolgimento con Burke? Del tutto assorto nei suoi pensieri, Latham premette a fondo il pedale dell'acceleratore della Jaguar, sterzando bruscamente a destra per raggiungere e sorpassare in un batter d'occhio un grosso camion. Poi rientrò nella stessa corsia dell'automezzo pesante a meno di un metro dal muso del bestione, tagliandogli così la strada. L'autista dell'autoarticolato lampeggiò con gli abbaglianti, furibondo, poi premette a lungo il clacson, e il rumore assordante echeggiò sulle pendici delle colline circostanti. Latham ignorò i gesti stizziti e rabbiosi del camionista, concentrandosi invece sulla guida per arrivare a Londra il più in fretta possibile. Con un pizzico di fortuna, sarebbe riuscito a districarsi da quel pasticcio mantenendosi incolume. Altrimenti, avrebbe forse potuto concludere qualche ti-
po di accordo, offrendo le informazioni sulla Tocsin in cambio della promessa che avrebbe evitato un processo. Tutt'a un tratto, la Jaguar sferragliò e traballò rumorosamente in leggera sbandata, scossa da una serie di piccole esplosioni in rapida successione. La ruota anteriore destra si lacerò, spaccandosi completamente in pochi istanti, e volò via. Pezzi di gomma e di metallo rimbalzarono e rotolarono a grande velocità, sparpagliandosi sul manto stradale dell'autostrada. Diverse scintille volarono alte nell'aria, irrorando il cofano anteriore dell'auto e il parabrezza. La Jaguar sbandò violentemente a destra. Imprecando ad alta voce, Latham si aggrappò con entrambe le mani al volante e sterzò con forza a sinistra, nel tentativo di riprendere il controllo della vettura. Il volante non rispose alla controsterzata. La stessa serie di piccole cariche esplosive che avevano mandato in frantumi la ruota anteriore della Jaguar avevano anche distrutto l'impianto dello sterzo. Latham lanciò un urlo, tentando ancora disperatamente di riprendere il controllo della Jaguar, ma l'automobile tagliò di traverso ad alta velocità le corsie dell'autostrada, dopodiché si rovesciò su un fianco e si capovolse, scivolando a ruote all'aria per diverse centinaia di metri sul manto stradale asfaltato. Alla fine, la Jaguar si fermò, ridotta a un relitto di ferro e lamiere ritorte, cristalli infranti e plastica accartocciata. Meno di un secondo dopo, un'altra piccola carica esplosiva appiccò il fuoco al carburante che colava dal serbatoio forato, trasformando il rottame in una fiammeggiante pira funeraria. Il camion passò oltre i rottami dell'auto in fiamme senza fermarsi. Proseguì a velocità costante, diretto a sudest sulla M40, verso le strade affollate di Londra. In cabina, l'autista, un uomo di mezz'età dagli zigomi pronunciati, inconfondibilmente slavi, ripose il telecomando nella sacca da viaggio ai suoi piedi, poi si abbandonò comodamente contro lo schienale del posto di guida, soddisfatto del risultato del suo primo lavoro della giornata. «Lazzaro» sarebbe stato contento. Capitolo 34 Washington, D. C. Il tenente colonnello Jonathan Smith osservava K Street sotto di sé dalla finestra della sua camera all'ottavo piano del Capital Hilton. Stava albeg-
giando e i primi raggi di sole cominciavano a scacciare il buio dalle strade di Washington. I furgoni che portavano i quotidiani freschi di stampa e i camion per la consegna delle merci ai negozi e ai supermercati rombavano lungo i viali semideserti, rompendo il silenzio della domenica mattina. Qualcuno bussò alla porta della camera. Smith volse le spalle alla finestra e attraversò la stanza in poche falcate. Attraverso l'occhiello della porta riconobbe il volto familiare, pallido e dal naso aquilino, di Fred Klein. «Felice di vederla, colonnello» disse il direttore della Covert-One, non appena fu all'interno e la porta fu richiusa a chiave in tutta sicurezza alle sue spalle. Klein si guardò fugacemente intorno, notando il letto ancora intatto e il televisore muto, sintonizzato su un canale che trasmetteva notiziari giorno e notte. In quel momento c'era un servizio in diretta dal cordone di poliziotti e di militari organizzato intorno a La Courneuve. Una folla immensa di parigini si stava raccogliendo appena oltre le transenne, urlando e scandendo slogan all'unisono. Cartelli e improvvisati striscioni di protesta attribuivano a LES AMÉRICAINS e alle loro ARMES DIABOLIQUES la responsabilità della sciagura che aveva mietuto almeno ventimila vittime, secondo le stime più recenti. Klein inarcò un sopracciglio. «Ancora troppo teso per chiudere occhio?» Smith esibì un sorrisino mesto e tirato. «Posso dormire a bordo dell'aereo, Fred.» «Ah sì?» esclamò Klein impassibile. «Ha in programma un viaggio?» Smith scrollò le spalle. «Perché, non è così?» Il suo interlocutore si addolcì. Gettò la ventiquattrore sul letto e vi si sedette a un angolo. «In effetti, ha ragione, Jon» ammise. «Vorrei che andasse a Parigi.» «Quando?» «Non appena riesco a farla arrivare all'aeroporto Dulles» ribatté Klein. «C'è un volo di linea della Lufthansa in partenza per l'aeroporto Charles de Gaulle intorno alle dieci. Il biglietto, la carta d'imbarco e i documenti di viaggio sono nella mia valigetta.» Klein indicò poi la fasciatura al braccio sinistro del suo agente. «Quella ferita di arma da taglio le darà problemi?» «Sarebbero graditi alcuni punti di sutura» dichiarò Jon con cautela. «E per precauzione dovrei prendere qualche antibiotico.» «Sistemerò la cosa» promise Klein. Poi controllò l'orologio. «Manderò all'aeroporto un medico prima dell'imbarco. È un uomo discreto e in passato ha svolto con ottimi risultati qualche incarico di fiducia per noi.» «E Peter Howell?» domandò Smith. «Il suo aiuto risulterebbe fondamen-
tale, in qualsiasi tipo di missione abbia pianificato per me a Parigi.» Klein si accigliò. «Howell dovrà arrivare nella capitale francese con i propri mezzi» disse con fermezza. «Non rischierò di compromettere la Covert-One provvedendo alle contingenze di viaggio per un noto agente segreto inglese. Inoltre lei dovrà continuare a fingere di lavorare per conto del Pentagono.» «Mi trova d'accordo» disse Smith. «E la mia copertura per questa scampagnata?» «Nessuna copertura» rispose Klein. «Viaggerà per quel che è in realtà, il dottor Jonathan Smith dell'USAMRIID. Ho provveduto a sistemare il suo accredito presso l'ambasciata americana di Parigi. Con tutta questa isteria politica in vertiginoso aumento...» Klein si interruppe brevemente per indicare con un cenno il televisore acceso, dove in quel momento diversi dimostranti esagitati stavano bruciando alcune bandiere americane, «... il governo francese non può permettersi di farsi vedere mentre collabora con un servizio di intelligence americano o con i nostri soldati. Ma i francesi sono disposti a far partecipare i nostri esperti medici e scientifici in veste di "osservatori". Almeno fino a quando lo faranno con la "massima discrezione". Naturalmente, se dovesse trovarsi in difficoltà o guai di qualunque tipo, le autorità locali negheranno che sia stato invitato ufficialmente.» Smith sbuffò. «Naturalmente.» Tornò alla finestra e fissò di nuovo la via sotto di sé, ancora inquieto. Poi si voltò. «Ha qualcosa di specifico su cui farmi indagare, una volta che sarò a Parigi? O si suppone solo che me ne vada in giro a ficcare il naso per vedere che cosa salta fuori?» «Qualcosa di specifico» ripeté Klein, riflettendo. Allungò le mani verso la ventiquattrore e ne estrasse una cartellina. «Dia un'occhiata a questi.» Smith aprì la cartellina. Conteneva due soli fogli, ognuno dei quali era la copia di un cablogramma TOP SECRET inviato dalla sede distaccata della CIA di Parigi alla sede centrale di Langley. Entrambi erano stati trasmessi nelle ultime dieci ore. Il primo riportava una serie di osservazioni a dir poco sbalorditive fatte da una squadra di sorveglianza che stava seguendo le mosse di un sospetto terrorista a La Courneuve. Smith si sentì rizzare il pelo come un gatto furioso mentre leggeva la descrizione delle «centraline a sensori» montate in cima ai lampioni stradali in vari punti del quartiere. Il secondo cablogramma riportava i progressi fatti nell'identificazione delle targhe dei veicoli guidati dalle persone coinvolte nell'istallazione segreta dei dispositivi elettronici. Smith fissò Klein con espressione stupita. «Cristo santo! Altro che roba che scotta! Qui c'è da ustionarsi le mani! Che co-
sa hanno intenzione di fare i pezzi grossi di Langley al riguardo?» «Niente.» Smith era esterrefatto. «Niente?!» «La CIA» spiegò Klein con pazienza «al momento è troppo impegnata a indagare nei propri ranghi per condotta criminosa, illeciti, omicidio, riciclaggio di denaro sporco, sabotaggio e terrorismo. E lo stesso sta facendo l'FBI.» «A causa di Burke e della Pierson» osservò Smith, comprendendo. «E probabilmente di altri» convenne Klein. «Ci sono indizi che confermano che almeno un funzionario graduato del MI6 britannico è probabilmente implicato nell'operazione Tocsin. Il caposezione della squadra di sorveglianza speciale sul Lazarus Movement ha perso la vita in un incidente stradale un paio di ore fa: un incidente che la polizia locale sta già dichiarando sospetto.» Klein abbassò lo sguardo e si esaminò la punta delle dita. «Dovrei anche dirle che l'Ufficio dello Sceriffo ha trovato sia Hal Burke sia Kit Pierson.» «E anche loro sono morti, suppongo» concluse Smith in tono lugubre. Klein annuì. «I loro cadaveri sono stati rinvenuti tra i resti carbonizzati della casa di campagna di Burke. Gli esami preliminari della Scientifica sembrano indicare che si sono uccisi a vicenda con dei colpi di arma da fuoco prima che divampasse l'incendio.» Il direttore della Covert-One tirò su col naso. «Francamente, la trovo una spiegazione di comodo. C'è qualcuno che sta giocando sporco anche con noi.» «Fantastico.» «È una brutta situazione, Jon» convenne Klein con mesta serietà. «Il collasso di questa operazione segreta e illegale sta paralizzando tre dei migliori servizi di intelligence del mondo... proprio adesso che il loro intervento sarebbe più che necessario.» Klein armeggiò nella tasca della giacca in cerca della pipa e della borsa da tabacco, poi notò il cartello VIETATO FUMARE in bella mostra sulla porta della camera e tornò a riporre in tasca pipa e tabacco con espressione assente, seppure vagamente delusa. «È curioso, non trova?» Smith emise un fischio sommesso. «Ritiene che fosse tutto previsto fin dall'inizio dal responsabile, chiunque sia, di queste stragi di massa con i nanofagi assassini?» Klein si strinse nelle spalle. «Forse. In caso contrario, si tratterebbe di una mostruosa serie di coincidenze.» «Non credo troppo alle coincidenze» commentò Smith con schiettezza.
«Nemmeno io.» Il magro, allampanato direttore della Covert-One si alzò dal letto. «Il che vuol dire che in questa sporca faccenda ci stiamo battendo contro un avversario pericolosissimo, Jon. Un nemico dalle enormi risorse... e con la spietata crudeltà di utilizzare tutte le forme di influenza e di potere che possiede. Peggio ancora...» Klein abbassò la voce «un nemico la cui identità ci è ancora completamente ignota. E questo significa che non siamo in grado di discernere i suoi scopi occulti né di difenderci.» Smith annuì, sentendosi agghiacciare fin nelle ossa dall'avvertimento di Klein. Tornò alla finestra con passo strascicato e guardò di nuovo sotto di sé le vie tranquille della capitale. Cosa accomunava le due distinte, criminali diffusioni di nanofagi letali a Santa Fe e a Parigi? Certo, entrambi gli attentati avevano ucciso migliaia di civili innocenti, ma, se fosse stato quello lo scopo, di certo esistevano metodi più facili e molto meno dispendiosi per commettere delle stragi di massa su quella scala. Le nanomacchine utilizzate nei due attentati costituivano un livello incredibilmente sofisticato di bioingegneria e di tecnologia produttiva. Svilupparle aveva dei costi di ricerca e di produzione di milioni e milioni di dollari. Smith scosse il capo. Nulla di ciò che stava accadendo aveva molto senso, almeno in superficie. Organizzazioni terroristiche con quel tipo di disponibilità finanziaria avrebbero optato per testate atomiche, o partite di gas nervino, o armi biologiche o chimiche già esistenti e disponibili al mercato nero mondiale. Inoltre, dei terroristi comuni avrebbero trovato molto difficile avere accesso al tipo di attrezzature da laboratorio ad altissima tecnologia e allo spazio necessario per produrre i nanofagi killer dispersi nelle due tragiche occasioni. Smith drizzò la schiena, improvvisamente sicuro che il nemico invisibile che si trovavano ad affrontare avesse in mente un traguardo molto più oscuro e profondo, un fine verso il quale stava procedendo con rapidità e precisione. Le stragi di massa nel New Mexico e in Francia erano solo l'inizio, pensò con un brivido. Un semplice assaggio di atti efferati perfino ancor più diabolici e distruttivi. Capitolo 35 Impianto di produzione nanotecnologica top secret, Centro Una successione infinita di numeri e di diagrammi trasmessa via satellite da Parigi scorreva lentamente su un grande monitor. Nella sala avvolta dal-
la penombra, l'afflusso di dati, numeri e grafici era spaventosamente riflesso sulle lenti spesse degli occhiali di sicurezza indossati da due biologi molecolari. I due uomini, i principali architetti del programma di sviluppo dei nanofagi killer, stavano valutando e studiando ogni nuovo dato in arrivo. «È chiaro che la diffusione dei nanofagi ad alta quota si è rivelata estremamente efficace» osservò il membro di grado maggiore. «I nuovi array di sensori migliorati nei nostri fagi controllori hanno anche raggiunto risultati ottimi, e lo stesso vale per il nostro nuovo sistema di autodistruzione.» Il suo subalterno annuì. Stando all'attuazione pratica, i problemi ingegneristici dei loro nanofagi di prima generazione erano stati risolti. I nanodispositivi Stage III non avevano più bisogno di specifiche serie di «firme», o «marchiature» biologiche strettamente definite per puntare diritte verso i bersagli. In una sola e breve fase di sviluppo, il loro rapporto assassino era salito da circa un terzo dei soggetti contaminati alla quasi totalità dei soggetti colti alla sprovvista all'interno della nube nanofaga. Inoltre, le cariche chimiche contenute all'interno di ciascun involucro, o «testa», avevano dimostrato la loro efficacia consumando quasi per intero tutti i soggetti aggrediti dai nanorobot assassini. I chiari, lucidi frammenti di ossa rimasti sul selciato e nelle strade di La Courneuve erano ben diversi dai cadaveri gonfi e divorati a metà che costellavano i viottoli del villaggio di Kusasa, o dall'orripilante, melmosa poltiglia imbrattata di sangue disseminata ovunque sul terreno circostante il Teller Institute di Santa Fe. «Raccomando di dichiarare che le armi sono operative al cento per cento e di sollecitare il passaggio a un'immediata e completa produzione di massa» disse in tono fiducioso il membro più giovane della coppia. «Ogni altra ulteriore modifica progettuale suggerita da nuovi dati acquisiti può essere effettuata in seguito.» «Concordo» disse lo scienziato di grado maggiore. «"Lazzaro" sarà soddisfatto.» Fuori dal Centro Fiancheggiato da due guardie del corpo in borghese, Jinjiro Nomura uscì all'aria aperta per la prima volta dopo quasi un anno di reclusione. Per qualche secondo, il minuto, anziano magnate giapponese restò in piedi, quasi radicato in terra, strizzando gli occhi con gesti di fastidio, momentaneamente abbagliato alla vista del sole alto nel cielo. Una fredda brezza di
mare gli scompigliò le ciocche di capelli sottili. «Prenda questi, la prego, signore» mormorò in tono cortese una delle due guardie del corpo, offrendogli un paio di occhiali da sole. «Ora sono pronti a riceverci. Il primo prototipo del Thanatos è nella fase finale.» Jinjiro Nomura annuì senza scomporsi. Prese gli occhiali da sole e li inforcò. Alle sue spalle, la massiccia porta blindata si richiuse lentamente fino a scattare, isolando di nuovo il corridoio principale del Centro che conduceva alla sala, al centro di comando, agli uffici amministrativi e, in ultimo, all'impianto di produzione dei nanofagi nascosti nella parte più interna e segreta dell'imponente edificio. Dall'esterno e dal cielo l'intero complesso aveva l'aspetto innocuo di un semplice, seppur gigantesco, capannone prefabbricato di calcestruzzo con il tetto in lamiera ondulata, un deposito non dissimile alle migliaia di altri impianti di immagazzinamento industriale disseminati ovunque in ogni parte del mondo. I suoi intricati sistemi di stoccaggio chimico e di distribuzione idraulica, di salette a chiusura ermetica pressurizzata, i suoi strati concentrici di stanze e salette a sterilità assoluta e indotta persino maggiore, tutte severamente controllate, e di batterie di supercomputer collegati in rete interna ed esterna, erano completamente mimetizzati e dissimulati da quella struttura esterna semplice, comune, segnata dalle intemperie ed esposta all'immancabile ruggine. In mezzo alle due guardie del corpo, che avevano adattato il passo al suo, Nomura percorse un sentiero di ghiaia e raggiunse il bordo di un'ampia strada di cemento che faceva parte di una lunga pista di atterraggio in calcestruzzo, che si stendeva da nord a sud per alcuni chilometri. Enormi hangar aeroportuali e varie autocisterne di carburante avio erano visibili a ciascuna delle due estremità della pista, insieme a numerosi aerei per passeggeri e per il trasporto merci parcheggiati qui e là. Un imponente reticolato perimetrale, sormontato da spire di acuminato filo spinato, circondava il campo d'aviazione privato e le costruzioni incorporate nel complesso. L'orizzonte a occidente era un panorama ininterrotto di onde agitate e increspate, che si frangevano spumeggianti su tutta la costa. Verso est, piatti campi verdeggianti punteggiati da greggi di ovini e mandrie di bovini al pascolo si estendevano per chilometri e chilometri, salendo poco alla volta verso un'altura lontana ricoperta di alberi. Jinjiro Nomura si fermò accanto a un gruppo di ingegneri e scienziati in camice bianco, tutti intenti a scrutare con attenzione l'orizzonte a settentrione.
«Lo vedremo tra poco» disse uno di loro, consultando l'orologio. Poi si voltò e controllò la posizione del sole riducendo gli occhi a due fessure, per proteggersi dalla luce abbagliante. «L'impianto di alimentazione a energia solare del velivolo sta funzionando alla perfezione. Le celle solari a bordo hanno concluso il ciclo e si sono portate in modalità stand-by.» «Eccolo là!» annunciò un altro scienziato con entusiasmo, indicando verso nord. Una sottile linea scura, dapprima a malapena visibile sullo sfondo del cielo limpido e azzurro, apparve all'improvviso nel punto indicato, aumentando costantemente di dimensione, mentre si abbassava lento verso la pista d'atterraggio. Jinjiro Nomura osservò con cura la scena, mentre lo strano veicolo aereo, chiamato con il nome in codice di Thanatos dai suoi progettisti, si avvicinava pian piano. Sembrava un'enorme ala volante, un velivolo del tutto privo di fusoliera o di piano di coda, ma con un'apertura alare maggiore di quella di un Boeing 747. Quattordici piccole eliche a pale gemelle, montate su tutta la lunghezza dell'enorme ala volante, ruotavano quasi senza produrre rumore, sostenendo e spingendo nell'aria lo strano velivolo a meno di quarantacinque chilometri all'ora. Quando il prototipo si inclinò leggermente in virata laterale, allineandosi alla pista per prepararsi all'atterraggio, le seimila celle solari, installate sulla sua superficie superiore sottile come un filo di ragnatela, brillarono al sole. Udì alcuni passi alle sue spalle. Nomura restò immobile, completamente assorbito dall'osservazione dell'enorme velivolo che si andava abbassando sempre più, entrando nella fase finale dell'atterraggio. Per la prima volta, le specifiche di costruzione e i progetti che aveva studiato presero forma nella sua mente. Modellato su imitazione di certi arcaici prototipi realizzati e sperimentati per primi dalla NASA, il Thanatos era un velivolo ultraleggero a superficie alare unica, costruito con materiali compositi radar assorbenti: fibra di carbonio, grafite epossidica, rivestimenti in nomex e kevlar e varie materie plastiche d'avanguardia. Perfino a pieno carico utile, il prototipo pesava meno di una tonnellata. Nonostante il peso, era in grado di volare a trentamila metri d'altezza e di restare in volo autonomamente, grazie all'energia solare, per intere settimane e mesi, sorvolando senza problemi interi continenti e oceani. Cinque capsule aerodinamiche sottoalari trasportavano i computer di controllo di volo, la strumentazione di raccolta ed elaborazione dati, gli accumulatori di energia solare di supporto per il volo notturno e piloni d'attacco per i cilindri multipli che avrebbero contenuto il suo
micidiale carico. La NASA aveva progettato e realizzato il velivolo sperimentale Helios, in onore del mitologico dio greco del sole. Era un nome assolutamente adatto a un velivolo creato perché volasse attraverso gli strati superiori dell'atmosfera, alimentato semplicemente dall'energia solare. Jinjiro corrugò la fronte. Allo stesso modo Thanatos, la personificazione greca della morte, era l'appellativo ideale per l'uso che intendevano farne. «Non è splendido?» gli disse pacatamente all'orecchio una voce fin troppo familiare. «Così grande, eppure così delicato, così leggiadro e leggero come una piuma. Sicuramente lo vedi anche tu che il Thanatos sembra una nube soffiata dal respiro degli dèi piuttosto che una creazione dell'uomo bestiale.» Jinjiro annuì solennemente. «Proprio così. In sé e per sé, questo apparecchio è magnifico.» Con espressione tetra, Jinjiro si voltò a guardare in faccia l'uomo che gli si era accostato da dietro senza fare rumore. «Ma i tuoi scopi malvagi pervertono questa creazione, così come fanno tutte le cose che tocchi... "Lazzaro".» «Chiamandomi così, mi onori, padre» replicò Hideo Nomura, esibendo un sorrisino sardonico. «Ho creato tutto questo per realizzare i nostri fini comuni, i sogni che condividiamo.» L'anziano magnate giapponese scosse vigorosamente la testa. «I nostri fini non sono gli stessi. Io e i miei compagni volevamo salvare la Terra, proteggere questo mondo devastato dai terribili rischi posti dalla scienza senza controllo. Sotto la nostra leadership, il Lazarus Movement era dedito alla vita, non alla morte.» «Ma tu e i tuoi compagni avete commesso un errore di base, padre» gli disse Hideo senza scomporsi. «Avete frainteso la natura della crisi che il nostro mondo doveva affrontare. La scienza e la tecnologia non minacciano la sopravvivenza del pianeta. Sono solo strumenti, i mezzi per giungere a un fine necessario. Strumenti per quelli come me che hanno il coraggio, la visione e la chiarezza di idee di farne un uso totale.» «Come armi di distruzione di massa!» scattò Jinjiro. «Con tutte le nobili parole a cui ricorri non sei altro che un bieco assassino!» Hideo ribatté in tono glaciale: «Farò quel che va fatto, padre. Allo stato attuale, la razza umana è il nemico, la vera minaccia per il mondo che entrambi amiamo». Hideo alzò le spalle. «In fondo al cuore sai che ho ragione. Immagina sette miliardi di animali violenti, avidi e cupidi che vagano su questo piccolo, fragile pianeta. Per la Terra sono pericolosi proprio co-
me qualsiasi forma di cancro incurabile per il corpo umano o animale. Il mondo non è in grado di sostenere un fardello così pesante. Ecco perché, come qualsiasi tumore mutante, la parte peggiore dell'umanità deve essere eliminata, a prescindere da quanto possa essere penoso e sgradevole questo compito.» «Ricorrendo alle tue armi demoniache, questi nanofagi» ribadì in tono aspro suo padre. Il giovane Nomura annuì. «Immagina decine di Thanatos. Pensali mentre volano ad alta quota sulla superficie terracquea, silenziosi e quasi completamente invisibili ai radar. Da essi cadrà una pioggia leggera, gocce talmente minuscole che niente e nessuno sarà in grado di intercettarle, almeno finché non sarà troppo tardi.» «Dove?» domandò Jinjiro, bianco in volto. Hideo mostrò i denti. «Prima di tutto, Thanatos e i suoi amici voleranno in America, una nazione senz'anima, potente, autoritaria e corrotta. Deve essere distrutta per far posto al nuovo ordine mondiale. L'Europa, un'altra fonte di contagio materialista, seguirà in seconda battuta. Poi i miei nanofagi purificheranno l'Africa e il Medio Oriente, quei pozzi neri di terrore, malattia, fame, inedia, crudeltà e fanatismo religioso. Anche la Cina, tronfia e memore del suo antico potere, deve essere umiliata.» «E quanta gente morirà prima che tu abbia finito?» domandò in un sussurro suo padre. Hideo si strinse nelle spalle. «Cinque miliardi di persone? Sei miliardi?» azzardò. «Chi può dirlo con precisione? Ma coloro che saranno lasciati in vita capiranno ben presto il valore del dono che gli è stato fatto: un mondo dall'equilibrio nuovo. Un mondo le cui risorse e infrastrutture rimarranno intatte, non danneggiate dalla follia della guerra o dell'avidità consumistica.» Per un lungo momento l'anziano giapponese non riuscì a fare altro che fissare suo figlio negli occhi, l'uomo che ora era «Lazzaro», con espressione inorridita. «Mi disonori» sentenziò alla fine. «E disonori i tuoi antenati.» Poi si voltò verso i suoi due guardiani. «Riportatemi alla mia cella» disse sottovoce, in tono depresso. «La sola presenza di questo mostro dalle sembianze umane mi nausea.» Hideo Nomura fece un cenno quasi impercettibile ai due uomini dall'aria impassibile. «Fate come dice il vecchio» disse in tono gelido. Poi si ritrasse di un passo e restò immobile, in perfetto silenzio, a osservare suo padre che tornava con passo spedito alla sua rinnovata prigionia.
Aveva gli occhi socchiusi. Come innumerevoli altre volte in passato, Jinjiro lo aveva deluso, amareggiato e perfino tradito, con la limitatezza dei suoi pensieri poco lungimiranti e con la sua mancanza di coraggio. Perfino in quel momento suo padre era troppo miope per ammirare le imprese del suo unico figlio. O forse, Hideo pensò, assaporando un vecchio e velenoso rancore riemergente dalla sua infanzia perduta, suo padre era semplicemente troppo geloso o insensibile per offrirgli gli elogi che gli erano dovuti. E se li meritava, di questo era più che certo. Per anni il direttore più giovane della Nomura PharmaTech aveva lavorato quasi giorno e notte per rendere la sua visione di un mondo più pacifico, più pulito e meno affollato una realtà. Prima, un'attenta programmazione aveva reso possibile costruire, fornire di personale e finanziare quel laboratorio nanotech segreto, senza attirare l'attenzione indesiderata dei suoi soci azionisti o di chiunque altro. Nessuno dei suoi tanti concorrenti aveva mai sospettato che la Nomura, apparentemente molto indietro nella corsa nel campo delle applicazioni nanotech, fosse, in realtà, mesi o addirittura anni più avanti di loro. Poi era giunto il compito complicato di sovvertire il Lazarus Movement, di piegare lentamente e inesorabilmente quell'organizzazione, troppo divisa al suo interno, alla sua invisibile volontà. I leader del movimento ambientalista internazionale che gli si opponevano erano stati esautorati dai loro incarichi o uccisi, in genere per mano di uno degli «Orazi», il trio di assassini la cui creazione e il cui addestramento inflessibile Hideo aveva finanziato di tasca propria. Il vantaggio che ne era conseguito era che ogni morte oscura aveva agito da sprone verso un ulteriore radicalismo da parte dei pochi che erano stati graziati. Organizzare la misteriosa scomparsa di suo padre, l'ultimo dei famosi Nove originari, in confronto era stato un gioco da ragazzi. Una volta portato a termine il rapimento, Hideo era stato libero di raccogliere in segreto nelle sue sole mani tutte le redini del Lazarus Movement gettato nello sgomento. La ricerca di Jinjiro da parte della CIA, inoltre, aveva fatto entrare in contatto l'infido Hideo con Hal Burke. E con questo, l'ultima tessera del piano di Hideo Nomura aveva trovato improvvisamente la sua giusta collocazione. Hideo scoppiò in una risata fredda e sommessa, rammentando la facilità con cui aveva attirato dalla sua parte l'agente speciale della CIA e, per suo tramite, altri agenti e funzionari di grado elevato nei servizi di intelligence
americani e britannici, facendo leva sulle loro paranoiche paure del terrorismo. Dando loro in pasto una serie di informazioni ancora più compromettenti sul movimento ambientalista, aveva plagiato Burke e i suoi omologhi e soci fino a spingerli a muovere la loro insensata e illegale guerra segreta contro il Lazarus Movement. Da quel giorno in poi, tutti gli avvenimenti erano stati diretti assecondando la sua volontà, e la sua volontà soltanto. I risultati parlavano da sé. La popolazione mondiale era sempre più terrorizzata e in cerca di capri espiatori. I suoi concorrenti, come la Harcourt Biosciences, erano impotenti, sepolti da una valanga di nuove restrizioni governative applicate alla loro ricerca nanotech. Il Lazarus Movement stava diventando sempre più forte e più violento. E ora, i servizi di spionaggio americani e britannici erano resi impotenti dallo scandalo e dal corrosivo clima di sospetto appena inaugurato. Quando la prima pioggia mortale di nanofagi killer sarebbe scesa su Washington, New York, Chicago e Los Angeles, sarebbe stato impossibile per chiunque scoprire la terrificante verità. Hideo Nomura sorrise tra sé. Dopo tutto, pensò crudelmente, quale modo migliore esisteva per vincere una partita, se non giocando contemporaneamente in entrambi i ruoli? Capitolo 36 Casa di «Lazzaro» Il nuovo video di «Lazzaro», diramato dal Lazarus Movement, ricalcava la metodologia utilizzata nella prima dichiarazione ufficiale trasmessa a livello globale sulla scia della strage del Teller Institute. Spezzoni video non rintracciabili arrivarono in simultanea agli studi televisivi di tutto il mondo, ognuno con una diversa immagine, elaborata digitalmente, di «Lazzaro», ideata per piacere al pubblico a cui si indirizzava. «Non è più possibile nascondersi alla verità» disse «Lazzaro» mestamente. «Gli orrori a cui abbiamo assistito testimoniano che una nuova arma batteriologica verrà impiegata contro l'umanità: un'arma forgiata da una scienza spietata e contro natura. L'umanità si trova a un crocevia. In fondo a una strada, quella indicata dal nostro movimento ambientalista, ci attende un mondo di pace e di serenità. In fondo all'altra, un sentiero impervio tracciato da uomini avidi ossessionati dal potere e dal profitto, si profila un mondo devastato da guerre e genocidi, un mondo di carneficine
e catastrofi.» La figura di «Lazzaro» guardò dritto nell'obbiettivo della telecamera. «Dobbiamo scegliere quale di questi due futuri abbracceremo» disse. «I rovinosi progressi della nanotecnologia, della manipolazione genetica e della clonazione devono essere abbandonati o vietati prima che ci distruggano tutti. Di conseguenza, il Lazarus Movement fa appello a tutti i governi - specie a quelli delle cosiddette nazioni civilizzate dell'Occidente e degli Stati Uniti in particolare - affinché mettano immediatamente al bando lo studio, la ricerca, lo sviluppo e l'uso di queste tecnologie funeste e contrarie alla vita.» Il volto di «Lazzaro» si fece severo. «Se qualsiasi governo dovesse mancare di accogliere questa richiesta, ce ne occuperemo noi personalmente. Dobbiamo agire. Dobbiamo salvare noi stessi, le nostre famiglie, le nostre razze e la Terra che tutti amiamo. Questa è una lotta per il futuro dell'umanità e non c'è più tempo per ulteriori ritardi e tentennamenti. Non c'è più spazio per la neutralità. In questo conflitto, chiunque non si schiererà dalla nostra parte, sarà considerato un nemico. Che i saggi prestino attenzione a questo avvertimento!» Berlino Migliaia di dimostranti si riversarono nell'immenso viale centrale di Berlino, l'Unter den Linden, facendosi sempre più numerosi con il passare dei minuti. Centinaia di striscioni rossi e verdi del Lazarus Movement fluttuavano sopra le teste delle prime file della folla inneggiante i soliti slogan, mentre il corteo si muoveva verso est, a partire dalla Brandenburger Tor sormontata da quadrighe e statue in bronzo. Dietro agli striscioni delle prime file veniva un vasto e crescente assortimento di altre bandiere e stendardi, cartelli e manifesti. I Verdi e altre grosse organizzazioni ambientaliste e no-global tedesche si stavano unendo al Lazarus Movement in una memorabile dimostrazione di forza. Gli slogan ripetuti dalla folla echeggiavano forte sulle facciate di pietra degli imponenti edifici pubblici che fiancheggiavano l'ampio viale. «NO AL NANOTECH! STOP ALLA FOLLIA! ABBASSO I GUERRAFONDAI AMERICANI! VIVA IL LAZARUS MOVEMENT!» La troupe della CNN, inviata sul posto per riprendere il corteo di protesta, si ritrasse sulla ripida gradinata della Staatsoper, il teatro dell'Opera di Stato, un elegante palazzo del XIX secolo con un frontone di colonne im-
ponenti, in cerca sia di una visuale migliore sia di un rifugio dalla calca inferocita. L'inviata, una snella e graziosa brunetta sulla trentina, doveva gridare nel microfono per farsi sentire sopra il tumultuoso vociare che si diffondeva nelle strade della capitale tedesca. «Questa manifestazione popolare pare abbia preso quasi del tutto alla sprovvista le autorità locali, John! Quella che due ore fa era iniziata come una semplice manifestazione ispirata dal più recente video diffuso dal Lazarus Movement ora è diventata uno dei maggiori cortei politici dalla caduta del Muro di Berlino! E poco fa ci è giunta notizia che altre proteste di vasta portata simili a questa, contro la nanotecnologia e la politica americana, si stanno formando in altre città in tutto il mondo: a Roma, Madrid, Tokyo, Il Cairo, Rio de Janeiro, San Francisco e molte altre.» L'inviata guardò in lontananza, sopra l'oceano di teste, vessilli e cartelli che fluiva davanti al teatro dell'Opera. «Finora la folla qui a Berlino ha sfilato in modo relativamente pacifico e senza creare incidenti, ma le autorità temono che alcune frange di anarchici possano separarsi dalla massa da un momento all'altro e cominciare a distruggere vetrine e ad abbandonarsi ad atti di vandalismo ai danni degli edifici di proprietà di varie multinazionali americane, società che il Lazarus Movement definisce "parte della cultura guerrafondaia". In attesa di ulteriori sviluppi, restiamo qui, pronti a trasmettervi tutto in diretta!» Pressi di Città del Capo, Sudafrica Venticinque chilometri a sud di Città del Capo, alte colonne di denso fumo nero salivano a volute nel cielo soprastante il Capricorn Business and Technology Park, sporcando e inquinando il cielo tinto del rosso del tramonto. Una decina di palazzi, fino a poche ora prima lucidi a specchio e scintillanti al sole, ora erano in fiamme all'interno del vasto complesso che ospitava gli impianti di ricerca e industriali high-tech della città. Migliaia di dimostranti violenti sciamavano lungo la strada ad anello che girava intorno a un lago centrale, infrangendo finestre, rovesciando automobili e appiccando ovunque nuovi focolai d'incendi. In un primo tempo, gli anarchici scatenati avevano preso di mira i laboratori biotech di alcune società americane, ma ora, ormai in preda all'isteria e alla furia distruttrice, rivolgevano la loro violenza contro qualsiasi ditta o società tecnologica che aveva sede nella zona, distruggendo completamente proprietà e attrezzature che valevano milioni di dollari.
La polizia, in palese inferiorità numerica e poco propensa ad affrontare con forza e determinazione la calca impazzita, si era ritirata dal Capricorn Business and Technology Park e ora presidiava un perimetro ben al di fuori del complesso industriale, sperando solo di impedire che gli atti di vandalismo si diffondessero anche ai sobborghi circostanti. Altre colonne di fumo cominciarono ad alzarsi dal parco tecnologico in rovina poiché il vento, che ora spirava più forte, alimentava nuovi incendi negli edifici saccheggiati. CBS News - STORIE INCREDIBILI: «La guerra segreta d'America» Quel giorno, i telespettatori americani, davanti al televisore per seguire i loro programmi e le loro soap opere preferiti, si ritrovarono invece incollati allo schermo di casa a guardare notiziari e continui aggiornamenti giornalistici, mentre le principali reti e canali via cavo trasmettevano freneticamente aggiornamenti su quanto stava accadendo in ogni Paese del mondo. Mentre l'ondata di violenza si diffondeva quasi in ogni nazione dei cinque continenti, nemmeno il solitamente disinvolto conduttore televisivo della CBS riusciva a contenere la sua evidente agitazione. «Tenetevi forte, gente» disse con uno strascicato accento del Sud, che si faceva sempre più marcato con il passare dei minuti. «Perché questa cavalcata selvaggia sta diventando davvero scatenata. La televisione di Stato francese ha appena comunicando una notizia bomba: la CIA e l'FBI, con l'aiuto dei servizi segreti inglesi, avrebbero condotto all'insaputa del presidente una campagna di omicidi e sabotaggi contro il Lazarus Movement. Alcuni inviati speciali a Parigi affermano di essere in grado di dimostrare che ex spie e commandos americani e inglesi sono responsabili delle morti di numerosi leader e militanti dell'organizzazione ambientalista in tutto il mondo, compresi alcuni personaggi di spicco qui negli Stati Uniti. Sostengono inoltre che questi attentati potevano essere autorizzati soltanto "dai più alti livelli gerarchici del governo americano e di quello britannico".» Il conduttore alzò gli occhi dal foglio che aveva tra le mani, parlando con lo sguardo fisso e severo nell'obbiettivo della telecamera. «Quando i nostri reporter hanno chiesto ai portavoce ufficiali di Washington e Londra di commentare queste diffamanti dichiarazioni, hanno ottenuto il classico "no comment". Tutti, dal presidente e dal primo ministro inglese in giù, si rifiutano di dare spiegazioni in merito. Nessuno sa se si tratti della solita ri-
luttanza politica o se sia perché sotto tutto questo fumo c'è effettivamente un arrosto. Ma una cosa è certa: la gente inferocita, che in ogni nazione del globo sta bruciando per strada bandiere a stelle e strisce e distruggendo proprietà di multinazionali americane, non ha nessuna intenzione di aspettare di scoprirlo.» Situation Room della Casa Bianca, Washington, D.C. «Apra bene le orecchie, signor Hanson. Non voglio sentire altri sproloqui, frasi evasive o stupidaggini in burocratese. Voglio la pura e semplice verità, e voglio sentirla subito!» intimò a denti stretti il presidente Samuel Castilla, fissando con sguardo inceneritore, in fondo al lungo tavolo di consiglio, il direttore della CIA insolitamente silenzioso. In genere sempre in ordine e inappuntabile anche nelle circostanze peggiori, David Hanson sembrava un derelitto. Occhiaie profonde gli ombreggiavano gli occhi e il vestito sgualcito dava la netta sensazione che Hanson non se lo fosse tolto nemmeno per dormire. Il direttore della CIA stringeva spasmodicamente una penna a sfera tra le mani che tradivano un leggero tremolio. «Le ho già detto quel poco che so, signor presidente» dichiarò. «Stiamo scavando il più a fondo possibile nei nostri archivi informatici. Finora però non abbiamo scoperto nulla di anche solo lontanamente connesso a questa cosiddetta operazione Tocsin. Se Hal Burke era implicato in qualche faccenda illegale, sono certo che la stava conducendo di sua iniziativa, senza l'autorizzazione o l'appoggio di qualcun altro all'interno della CIA.» Emily Powell-Hill si sporse in avanti dalla sua sedia. «Ma a chi crede di darla a bere, David? Ci ritiene proprio così stupidi?» domandò in tono acido il consigliere per la Sicurezza nazionale. «È davvero convinto che qualcuno crederà che Hal Burke e Kit Pierson stessero finanziando di tasca loro, ricorrendo ai loro risparmi personali e ai loro stipendi da dipendenti statali, un'operazione segreta multimilionaria?» «Comprendo le difficoltà ad accettare la mia versione dei fatti!» scattò Hanson in tono frustrato. «Ma io e i miei sottoposti stiamo ancora indagando sulla faccenda con quanta più dedizione e rapidità possibile. In questo stesso momento, tutti gli addetti alla sicurezza stanno passando al setaccio le registrazioni e i rapporti di ogni operazione in cui Burke è stato impegnato, in cerca di qualsiasi cosa anche solo remotamente sospetta. Inoltre, stiamo organizzando esami al poligrafo per ogni agente e analista
facente parte della sezione sul Lazarus Movement agli ordini di Burke. Se nella CIA vi era implicato qualche altro elemento, di qualsiasi persona si tratti, prima o poi lo inchioderemo. Ma ci vorrà tempo.» Hanson aggrottò le sopracciglia. «Ho anche trasmesso a ogni sede distaccata della CIA all'estero l'ordine di annullare immediatamente qualsiasi operazione che, in un modo o nell'altro, sia implicata con il Lazarus Movement. Ormai non dovrebbe più esserci nessuna squadra di sorveglianza speciale dell'Agenzia entro un raggio di cinque chilometri da qualsiasi edificio o funzionario del movimento.» «Questo non è sufficiente» ribatté Emily Powell-Hill. «Ci faranno a fettine per questa storia... sia qui in patria sia all'estero!» Varie teste annuirono con gravità intorno al tavolo di consiglio della Situation Room. Essendo emersi a poche ore dalla strage di La Courneuve, i rapporti della stampa relativi a un'operazione segreta illegale condotta contro il Lazarus Movement erano stati elaborati in modo tale da infliggere quanti più danni possibile alla credibilità americana. La notizia era atterrata sul palco mondiale come un cerino lanciato in un deposito di barili di carburante bucati. E il Lazarus Movement era nella situazione ideale per approfittare dell'esplosione di collera e oltraggio che ne sarebbero conseguiti. Quella che era apparsa come una piccola grana agli occhi della maggior parte dei governi e delle multinazionali si stava trasformando rapidamente in un problema politico a livello globale. Un numero sempre maggiore di nazioni si stava allineando alle richieste pressanti del movimento ambientalista di un'immediata messa al bando di tutta la ricerca nanotech. «E ora qualsiasi individuo privo di senno, convinto che stiamo sperimentando qualche tipo di arma nanotecnologica da genocidio, sarà trattato con rispetto dai media di tutto il mondo: dalla BBC, dalle altre reti nazionali europee, da Al Jazeera e da tutti gli altri» proseguì il consigliere per la Sicurezza nazionale. «I francesi hanno già richiamato in patria i loro ambasciatori per delle non meglio precisate "consultazioni". E gli altri Paesi li stanno seguendo a ruota. Più a lungo si trascina questa storia più danni subiremo nei rapporti con i nostri alleati e nella nostra capacità di influire nelle situazioni diplomatiche.» Castilla annuì con espressione accigliata. La telefonata che aveva da poco ricevuto dal presidente francese era stata infarcita di accuse tremende e di malcelato disprezzo. «Siamo nei guai fino al collo anche con il Campidoglio» soggiunse Charles Ouray, emettendo un sospiro preoccupato. «In pratica ogni deputa-
to e senatore che ci ha esortato finora ad andare contro il Lazarus Movement ha fatto marcia indietro. Adesso stanno facendo di tutto per organizzare su due piedi una commissione d'inchiesta in stile Watergate. I mezzibusti televisivi più controcorrente stanno già discutendo di un possibile impeachment, e perfino quelli che di solito si dimostrano nostri alleati si stanno defilando in attesa di vedere da quale parte tireranno i venti della politica.» Castilla fece una smorfia. Erano troppi gli uomini e le donne seduti in Congresso a essere opportunisti politici per abitudine, sia per inclinazione personale sia per esperienza. Quando un presidente era popolare, gli si assiepavano intorno, per brillare di luce riflessa e sperare di essere a loro volta alla ribalta, ma al primo segno di guai in vista o di debolezza, erano solo troppo impazienti di unirsi al branco di lupi che latravano chiedendo il suo sangue. Casa Bianca, Washington, D.C. Estelle Pike, da anni segretaria di Samuel Castilla, aprì la porta dello Studio Ovale. «È arrivato il signor Klein, presidente» annunciò in tono bisbetico. «Non ha fissato nessun appuntamento, ma afferma che lei lo riceverà comunque.» Castilla voltò le spalle alle finestre. Il suo volto era segnato dalle rughe e dalla stanchezza. Nelle ultime ventiquattro ore sembrava fosse invecchiato di almeno dieci anni. «È qui perché gli ho chiesto io di venire, Estelle. Fallo accomodare, per piacere.» La sua segretaria tirò su col naso, disapprovando palesemente, ma poi obbedì. Klein passò di fianco alla signorina Pike mormorandole un «grazie» che venne ignorato. Restò fermo in attesa finché la porta non gli si richiuse alle spalle. Poi allargò le braccia. «Non credo che la tua cara segretaria abbia un debole per me, Sam.» Il presidente si trovò suo malgrado ad abbozzare un sorriso. «Estelle non è quella che si dice una persona gaia e affabile nei rapporti con gli altri, Fred. Chiunque eviti la sua scrupolosa agenda degli appuntamenti riceve lo stesso trattamento. Non è niente di personale.» «Che sollievo!» commentò con ironia Klein. Poi scrutò attentamente l'amico di vecchia data. «Dalla tua espressione angustiata presumo che la riunione del National Security Council non sia andata nel migliore dei mo-
di. Sbaglio?» Castilla sbuffò stizzito. «È andata così male?» Il presidente annuì con aria depressa. «Sì, così male.» Fece cenno a Klein di accomodarsi su una delle due poltrone davanti al grande tavolo che fungeva da scrivania. «I pezzi grossi della CIA, dell'FBI, della NSA e delle altre agenzie si stanno dannando per cercare di schivare l'infamia per questo fiasco targato Tocsin. Nessuno sa fino a quale gradino della scala gerarchica sia arrivata la cospirazione e, di conseguenza, nessuno sa fino a che punto si può fidare degli altri colleghi. Tutti si muovono con circospezione, aspettando di vedere chi resta impigliato nella rete.» Klein annuì silenziosamente, ben poco sorpreso, in verità. Perfino nei periodi migliori, le debilitanti guerre di competenze e d'autorità erano un fatto quotidiano assodato nell'ambiente dei servizi segreti americani. Le loro faide di vecchia data e i vari conflitti intestini erano esattamente il motivo per cui Castilla aveva chiesto a Klein di organizzare la Covert-One. Ora, con uno scandalo immane che coinvolgeva le due principali agenzie di intelligence in America e in Europa, le tensioni sarebbero salite alle stelle. Date le circostanze, nessuno con una lunga carriera alle spalle da difendere avrebbe rischiato di esporsi. «Il colonnello Smith è in viaggio per Parigi?» domandò Castilla alla fine, rompendo il silenzio. «Sì» rispose Klein. «Mi aspetto che ci arrivi a tarda sera, nostra ora locale.» «Credi davvero che Smith abbia qualche probabilità di scoprire che cosa stiamo realmente affrontando in questo disastro totale?» «Qualche probabilità?» ripeté Klein. Indugiò per qualche secondo prima di rispondere. «Penso di sì.» Il direttore della Covert-One si incupì. «O almeno, lo spero.» «Ma lo ritieni davvero il tuo uomo migliore?» chiese Castilla in tono incalzante e senza giri di parole. Stavolta Klein non ebbe esitazioni. «Per questa missione? Sì, assolutamente sì. Jon Smith è l'uomo giusto per questa delicata operazione.» Il presidente scosse la testa con aria esasperata. «È ridicolo, non trovi?» «Ridicolo?» «Me ne sto qui seduto» spiegò Castilla, «il comandante supremo delle forze armate più potenti in tutta la storia dell'umanità. Il popolo degli Stati Uniti si aspetta che ricorra a questo potere per proteggerlo e garantirgli la
sicurezza, ma non posso. Non ancora, almeno. Questa volta ho le mani legate.» Il presidente si ingobbì, sconsolato. «Tutti i bombardieri, i missili, i carri armati e i soldati del mondo non valgano niente, se non sono in grado di fornire loro un bersaglio. E questa è l'unica cosa che non posso ancora fare.» Klein fissò l'amico. In effetti non aveva mai invidiato al presidente nessuno dei vari benefici e privilegi attinenti alla sua posizione. In quel momento provava soltanto compassione per l'uomo spossato, dagli occhi tristi, che aveva davanti. «La Covert-One farà il suo dovere» promise. «Ti troveremo il bersaglio che cerchi.» «Spero con tutto il cuore che tu abbia ragione» disse Castilla in tono sommesso. «Perché stiamo esaurendo alla svelta il tempo e le alternative a disposizione.» Capitolo 37 Lunedì 18 ottobre Parigi Jon Smith guardava fuori dal finestrino del taxi, una Mercedes nera, che viaggiava a velocità sostenuta dall'aeroporto internazionale Charles de Gaulle verso la città assopita. Mancavano ancora parecchie ore all'alba, e solo il bagliore velato di poche luci ai lati dell'autostrada Al permetteva di scorgere l'estesa periferia circostante la capitale francese. L'autostrada era quasi deserta, e questo permise al tassista, un parigino bassetto, dall'aria scontrosa, con gli occhi iniettati di sangue, di spingere la Mercedes al limite della velocità consentita e anche oltre. Viaggiando a ben più di centoventi chilometri orari, oltrepassarono i quartieri poco illuminati, dove diversi incendi divampavano alti nel cielo, con lingue di fuoco rosse e arancioni che si stagliavano sullo sfondo di una notte nera come la pece. Malandate palazzine erano in fiamme qui e là, e i bagliori tremolanti degli incendi si riflettevano sugli edifici adiacenti. Vicino alle zone in cui stavano operando le squadre dei vigili del fuoco, rotoli di filo spinato e barriere in cemento frettolosamente schierate bloccavano tutte le entrate e le rampe d'uscita dall'autostrada. Ogni posto di blocco era presidiato da ingenti concentramenti di forze della polizia e dell'esercito in tenuta antisommossa o da combattimento. Automezzi blindati muniti di lanciagranate di gas lacrimogeno e di mitragliatrici pesanti, cingolati da
trasporto, truppe e perfino diversi carri armati Leclerc da cinquanta tonnellate erano appostati nei punti strategici lungo il tragitto. «Les Arabes!» esclamò il tassista, tirando su sprezzante col naso e spegnendo il mozzicone della sigaretta nello stracolmo, traboccante portacenere di bordo. Poi fece spallucce. «Sono in rivolta contro quanto è successo a La Courneuve. E come al solito non trovano di meglio da fare che bruciare le loro stesse case e i loro negozi. Bah!» L'ometto si interruppe il tempo necessario per accendersi un'altra sigaretta senza filtro usando entrambe le mani, e ricorrendo alle ginocchia per condurre la pesante berlina di fabbricazione tedesca. «Sono idioti patentati. A nessuno importa quello che accade dentro quelle loro topaie, ma permettigli di uscire dal loro quartiere e ppffft.» Il tassista mimò con l'indice un taglio alla gola. «Allora le mitragliatrici attaccheranno a cantare, eh?» Smith annuì in silenzio. Che i sovraffollati progetti di edilizia popolare in cui imperversava la criminalità organizzata all'estrema periferia di Parigi fossero stati ideati con cura, in modo da poter essere rapidamente e facilmente isolati dal resto in caso di gravi fermenti, non era un segreto. La Mercedes uscì dalla Al e imboccò il Boulevard Périphérique, aggirando prima a sud e poi a est il complesso e affollato labirinto di vicoli e strade, avenues e boulevards della metropoli. Brontolando ancora della stupidità di un governo che lo tassava per pagare i sussidi di disoccupazione a ladri e teppisti, e a «les Arabes», il tassista abbandonò la tangenziale alla Porte de Vincennes. A quel punto, il taxi puntò verso ovest, fece il giro di Place de la Nation, proseguì in velocità lungo Rue du Faubourg Saint-Antoine, circumnavigò Place de la Bastille in stridente sbandata e infine si inoltrò sempre più in profondità nel dedalo di vie a senso unico del Marais, il terzo arrondissement della città. In origine una palude, quella zona di Parigi era una delle poche scampate ai grandiosi progetti di demolizione e di ricostruzione del Diciannovesimo secolo, realizzati dal barone Haussmann su ordine dell'imperatore Napoleone III. Nel quartiere storico del Marais, molte costruzioni risalivano al Medioevo. Malfamato e cadente verso la metà del Ventesimo secolo, il Marais aveva visto una vera rinascita. Adesso era il quartiere residenziale, turistico e commerciale più rinomato della città. Eleganti palazzi di pietra, musei e biblioteche sorgevano al fianco di bar e locali affollatissimi, negozi d'antiquariato, atelier e boutique d'alta moda. Con uno svolazzo finale delle sue mani indelebilmente macchiate di nicotina, il tassista si fermò davanti all'Hotel des Chevaliers, un incantevole
alberghetto a meno di un isolato dall'antica eleganza alberata di Place des Vosges. «Eccoci arrivati, messieur! E a tempo di record!» annunciò baldanzoso. Poi esibì un sorrisino inacidito. «Forse dovremmo ringraziare i rivoltosi, eh? Perché mi sa tanto che i flic» l'ometto ricorse al termine gergale usato dai francesi per definire gli agenti di polizia «sono troppo occupati a grattarsi la testa vuota per perdere tempo a dar multe a uomini onesti come me!» «Forse è così» convenne Smith, dentro di sé sollevato di essere giunto a destinazione sano e salvo. Consegnò al tassista una manciata di euro, prese la sua borsa da viaggio poco ingombrante e gli effetti personali scelti e acquistati prima di salire a bordo dell'aereo di linea in partenza dall'aeroporto Dulles di Washington, e infine scese dal taxi. La Mercedes partì rombando in sgommata e sparì nella notte buia quasi nel momento stesso in cui Smith chiuse la portiera. Jon restò fermo un momento sul marciapiedi, gustandosi il silenzio e la quiete della via umida. Da poco aveva smesso di piovere e l'aria fresca della notte era satura di un odore intenso e pulito che rinvigoriva. Sgranchì le gambe e le braccia irrigidite dal lungo viaggio che lo aveva bloccato su uno stretto sedile d'aereo di linea, poi inspirò qualche boccata d'aria a pieni polmoni per sbarazzarsi delle tracce di fumo passivo respirato a bordo del taxi. Sentendosi meglio e più attivo, mise in spalla la borsa da viaggio e si voltò verso l'entrata dell'albergo. Sopra la porta c'era un lampione acceso, e il portiere di notte, avvisato mezz'ora prima da una telefonata fatta dall'aeroporto, gli aprì senza problemi dopo che ebbe suonato al citofono. «Benvenuto a Parigi, dottor Smith» disse gentilmente il portiere in un inglese chiaro e scorrevole. «Si tratterrà a lungo da noi?» «Qualche giorno» precisò Jon con prudenza. «Posso avere una camera anche se solo per poco tempo?» Il portiere, un uomo di mezz'età abbigliato con cura ed eleganza, e ben sveglio malgrado l'ora, sospirò. «Normalmente, no.» L'uomo si strinse espressivamente nelle spalle. «Ma, ahimè, lo sgradevole incidente a La Courneuve ci ha causato molte cancellazioni e diverse partenze anticipate. Perciò non ci sarà alcun problema.» Smith firmò il registro, controllando d'istinto i nomi segnati in elenco sopra al suo per accertarsi che non ci fosse qualcuno di sospetto. Non trovò nulla che lo inquietasse. C'erano solo pochi altri clienti, quasi tutti provenienti da altri Paesi europei o dalla Francia stessa. In gran parte, come lui, sembravano viaggiatori solitari. Perlopiù erano uomini d'affari che si tro-
vavano a Parigi per questioni urgenti, oppure studiosi interessati alle più svariate ricerche nei vari archivi storici e musei della zona. Coppiette innamorate sarebbero state tra le prime persone ad abbandonare la capitale francese, sulla scia del panico seguito all'attentato a La Courneuve. Il portiere tirò fuori da sotto il banco della reception un pacco quadrato e lo depose sul piano del banco. «Ah, dimenticavo! Questo è arrivato per corriere un'ora fa.» L'uomo sbirciò il biglietto attaccato sopra al pacco. «È stato spedito dal MacLean Medical Group di Loronto, in Canada. Lo stava aspettando, vero?» Smith annuì senza parlare, sopprimendo un sorriso sardonico. Fred Klein tiene sempre d'occhio la palla, questo è sicuro, pensò con gratitudine. Il MacLean era una delle tante società paravento utilizzate dalla Covert-One per le spedizioni delicate, e naturalmente clandestine, ai suoi agenti in tutto il mondo. Di sopra, nella privacy della sua camera un po' angusta ma arredata con gusto ed eleganza, Smith ruppe i sigilli adesivi del pacco e strappò la carta da imballaggio. All'interno, trovò una custodia di plastica rigida contenente una SIG-Sauer 9mm nuova fiammante, una scatola di munizioni e tre caricatori di riserva. Una fondina ascellare di cuoio accompagnava la pistola, avvolta separatamente nella carta. Smith si sedette sul comodo letto matrimoniale, smontò la pistola, pulì accuratamente ogni pezzo che la componeva, poi rimontò l'arma. Soddisfatto, vi inserì un caricatore e infilò la SIG-Sauer nella fondina ascellare. Andò alla finestra, che si affacciava su un cortiletto dietro l'albergo. Sopra i tetti di ardesia nera degli antichi palazzi oltre il giardino, il cielo a oriente si scoloriva coi primi, pallidi accenni di grigio. Qualche luce cominciava ad accendersi dietro le finestre di fronte al piccolo cortile acciottolato e cintato. La città si stava svegliando. Jon premette sul suo cellulare il tasto di composizione automatica del numero di Klein e riferì il suo arrivo a Parigi. «Ci sono nuovi sviluppi?» domandò. «Qui a Washington niente» lo informò il direttore della Covert-One. «Ma pare che la squadra di sorveglianza della CIA a Parigi sia risalita, attraverso la targa di uno dei veicoli individuati a La Courneuve, a un indirizzo non molto lontano da dove si trova in questo momento.» Smith avvertì l'incertezza nella voce di Klein. «Pare?» sottolineò, sorpreso. «Sono molto... ritrosi» spiegò l'uomo. «Il messaggio più recente della
squadra alla sede centrale di Langley rivendica un successo, ma omette qualsiasi località specifica.» Smith aggrottò le sopracciglia. «È strano.» «Già» ammise Klein. «È molto strano. E non riesco a trovare una spiegazione logica.» «Langley non ha insistito con la sede distaccata di Parigi per avere maggiori dettagli?» Klein sbuffò sonoramente. «Il direttore della CIA e i suoi funzionari sono fin troppo impegnati a condurre verifiche e revisioni d'emergenza riguardanti tutta la Direzione operativa dell'Agenzia per prestare attenzione ai loro agenti sul campo.» «Allora che cosa le fa pensare che la squadra speciale di sorveglianza stia concentrando i suoi sforzi su un certo edificio del Marais o vicino al Marais?» chiese Jon. «Il fatto che abbiano stabilito come punto di rendez-vous primario Place des Vosges» rispose Klein. Smith annuì tra sé, comprendendo il ragionamento del suo superiore. Il punto di rendez-vous, per una squadra di sorveglianza operante all'interno di una città, era quasi sempre stabilito in modo che fosse possibile raggiungere a piedi il bersaglio che si intendeva tenere sotto controllo. Di solito si prediligeva un luogo pubblico e abbastanza affollato, per camuffare incontri discreti tra agenti segreti che si scambiavano informazioni o si trasmettevano nuovi ordini. Place des Vosges, costruita nel 1605, era la piazza più antica di Parigi ed era l'ideale per quello scopo. I ristoranti, i caffè all'aperto e i negozi, sempre in trambusto e affollati di clienti, che si affacciavano sui suoi quattro lati avrebbero fornito la copertura desiderata. «Mi sembra sensato» convenne. «Ma saperlo non mi serve a molto. Potrebbero essere interessati a uno dei tanti palazzi che si susseguono, uno dietro l'altro, in questo quartiere. Ce ne sono a centinaia.» «È un bel problema» convenne Klein. «Il che spiega perché dovrà mettersi in contatto diretto con la squadra speciale della CIA in loco.» Smith inarcò un sopracciglio, sbalordito. «Ah! Davvero? E come mi consiglia di farlo?» domandò. «Andando avanti e indietro in Place des Vosges agitando un cartello che chiede un incontro in privato?» «Qualcosa del genere, in effetti» commentò Klein senza scomporsi. Con crescente sorpresa e divertimento, Smith ascoltò il direttore della Covert-One spiegargli che cosa intendeva dire. Quand'ebbe finito, Smith interruppe la comunicazione e compose un altro numero sul cellulare.
«Delizie di Parigi snc» rispose una risonante voce dall'inequivocabile accento inglese. «Servizi esclusivi per persone dotate. Letto rifatto a dovere dopo il piacere. Nessuna richiesta ragionevole rifiutata.» «Stai pensando di cambiare lavoro, Peter?» chiese Smith, sogghignando. Peter Howell se la rise di gusto. «Niente affatto. Più che altro, sto pensando a un'attività collaterale per arrotondare le mie magre entrate da pensionato.» L'inglese si rifece serio. «Ci sono novità?» «Sì» confermò Smith. «Dove sei?» «In un'incantevole pensioncina sulla Rive Gauche» rispose Peter. «Non lontano dal Boulevard Saint-Germain. Sono arrivato qui meno di cinque minuti fa, perciò il tuo tempismo è impeccabile.» «Come sei messo in quanto ad attrezzatura?» «Nessun problema» lo rassicurò l'inglese. «Venendo qui dall'aeroporto, ho fatto una telefonatina a un vecchio amico francese.» Smith annuì soddisfatto. A quanto pareva, Peter Howell aveva contatti affidabili nella maggior parte dei Paesi europei: vecchi amici ed ex commilitoni che gli avrebbero fornito armi, altro materiale e assistenza senza fare domande imbarazzanti. «Allora, dove e quando ci vediamo?» domandò Peter con la massima tranquillità. «E qual è il nostro obiettivo?» Smith lo mise al corrente degli ultimi sviluppi e gli riferì anche l'informazione appena ricevuta da Klein, dicendo però che si trattava di una soffiata che gli era stata fatta da un «amico» con ottimi contatti nella CIA. «Com'è strano il mondo, eh, Jon?» fu infine il commento di Peter e Jon avvertì l'evidente stupore nella sua voce. «E com'è piccolo.» «Piccolo e strano, sì» convenne Smith, sorridendo. Poi perse il buonumore non appena gli vennero in mente le cose terrificanti che potevano essere in serbo per quel piccolo mondo interconnesso se lui e l'amico inglese, nonostante le speranze e le aspettative, si fossero andati a cacciare nell'ennesimo vicolo cieco. Da qualche parte, là fuori, chi aveva progettato e prodotto i nanofagi era di certo occupato a preparare un'altra partita mortale della sua nuova arma letale. A meno che non si riuscisse a scovarlo e a fermarlo - e, preferibilmente, il prima possibile - una quantità inimmaginabile di altre persone innocenti sarebbe morta, divorata viva da nuove ondate di nanomacchine assassine troppo piccole per essere individuate. Capitolo 38
Parigi Un venticello autunnale muoveva le foglie degli ippocastani piantati secoli prima lungo i quattro lati della splendida e bucolica Place des Vosges, modellata a parco pubblico. Quando il freddo si faceva più intenso, piccole raffiche di vento sferzavano nell'aria lo spruzzo di una delle gorgoglianti fontane. Una nebbiolina sottile fatta di goccioline minuscole turbinava di sbieco, bagnando i larghi marciapiedi perimetrali e scintillando come rugiada sull'erba fitta, di un verde lussureggiante. Dispettosamente, la brezza danzava e si arricciolava attorno alle vetuste facciate di pietra grigia e rosa pallido delle gallerie coperte, i portici che delimitavano la piazza quadrata. All'angolo nordovest della Place des Vosges, tovaglioli di lino bianco, bloccati da bicchieri per l'acqua, sventolavano sui tavoli di vimini lucidati a specchio della brasserie Ma Bourgogne. Jon Smith era da solo a un tavolo al bordo del portico, comodamente seduto su una delle sedie con la spalliera tappezzata di pelle rossa del ristorante. Guardava oltre il parco recintato della piazza, prestando la massima attenzione ai passanti che passeggiavano con noncuranza sui marciapiedi perimetrali o a quelli che occupavano le panchine del parco, lanciando indolenti briciole di pane ai piccioni tubanti. «Un café noir, messieur?» disse una voce dal tono triste. Smith alzò lo sguardo. Uno dei camerieri, un uomo anziano, serio, imbronciato, con indosso papillon e grembiulino nero, la divisa del Ma Bourgogne, depose una tazzina di caffè espresso sul tavolo. Smith annuì educatamente. «Merci» Poi fece scivolare una banconota da cinque euro sul tavolino. Borbottando sottovoce, il cameriere intascò il denaro, si voltò e si diresse verso un altro tavolo. Quest'ultimo era occupato da due uomini d'affari che stavano concludendo un accordo commerciale davanti a quello che sembrava a tutti gli effetti un pranzo in anticipo di almeno due ore. Smith sentiva il profumo invitante dei piatti serviti con saucisson ou Beaujolais e pommes frites. Gli venne l'acquolina in bocca. Era passato un bel po' di tempo dalla colazione all'Hôtel des Chevaliers e le due tazze di caffè espresso che aveva già consumato nell'attesa gli stavano provocando una gastrite. Per qualche secondo dibatté con se stesso se fosse il caso di richiamare l'attempato cameriere, ma poi decise di rinunciare. Secondo Klein, quello
era il punto di rendez-vous primario della squadra speciale di sorveglianza della CIA. Con un briciolo di fortuna, forse non sarebbe rimasto seduto là a girarsi i pollici ancora a lungo. Riprese a osservare la gente che si aggirava nella piazza e tra i palazzi circostanti. Perfino a metà mattina Place des Vosges era affollata, piena di studenti e di insegnanti in pausa dalle scuole vicine, giovani mamme che spingevano passeggini, e bambini dalle voci squillanti che scavavano entusiasticamente con le palette nel riquadro di sabbia posto all'ombra di una statua equestre di Luigi XIII. Vecchi pensionati che discutevano animatamente di tutto, dalla politica allo sport alle probabilità di vincere la successiva estrazione del lotto, ciondolavano in piedi qui e là, a gruppetti, affettando l'aria con ampi e vigorosi gesti per esprimere le loro opinioni e sottolinearne i punti salienti. Prima della Rivoluzione francese, quando la piazza era ancora chiamata Place Royal, quello splendido tratto di prato aveva ospitato innumerevoli duelli. Su ogni centimetro quadrato sul quale i parigini ora si godevano il sole d'autunno e lasciavano correre liberi i loro cani viziati, cavalieri e giovani aristocratici avevano combattuto ed erano periti, ferendosi a morte con spade o scambiandosi colpi di pistola a distanza ravvicinata: tutto per dimostrare il loro coraggio o per difendere il loro onore. Benché ora si considerassero quegli antichi duelli come qualcosa di appartenente a un'età barbara e sanguinaria, Smith si chiedeva se fosse davvero giusto giudicare in questo modo il passato. Dopo tutto, come avrebbero descritto i futuri storici la cosiddetta età moderna, un'epoca in cui le persone erano decise a sterminare innocenti ovunque e ogni volta fosse possibile? Una giovane donna insignificante, grassoccia, dai capelli neri, in blue jeans e cappotto nero lungo fino al ginocchio passò accanto al suo tavolo. Notò che lui la stava guardando e arrossì. Proseguì affrettando il passo e a capo chino. Jon la seguì con lo sguardo, chiedendosi se fosse il contatto che stava aspettando. «Questa sedia è occupata, messieur?» disse una voce grave resa roca da decenni di fumo accanito, con una media di tre o quattro pacchetti di sigarette al giorno. Smith girò il capo e si vide davanti la figura snella, dritta come un fuso, di un'attempata e ricca vedova parigina che lo fissava dall'alto, con una massa di capelli grigi curati e pettinati alla perfezione, un viso profondamente segnato da rughe, un imponente naso aquilino e uno sguardo feroce da rapace. La donna inarcò un sopracciglio finemente scolpito in un'appa-
rente espressione disgustata dalla sua lentezza e dalla sua stupidità. «Non parla inglese, messieur? Pardon. Sprechen Sie Deutsch?» Prima che Smith avesse il tempo di riprendersi dalla sorpresa, la sconosciuta si voltò per rivolgersi al cane che aveva al guinzaglio, un piccolo barboncino parimenti attempato, che sembrava intenzionato a rosicchiare una delle sedie libere, fino a consumarla completamente. La donna diede un leggero strattone al guinzaglio. «Buono, Pascal! Lascia che questa dannata sedia cada a pezzi da sola!» ordinò in tono autoritario. Compiaciuta del fatto che Smith fosse o sordo o muto, oppure un imbecille, l'anziana vedova gli si sedette di fronte, mormorando qualcosa mentre abbassava lentamente le sue ossa fiaccate dall'artrosi sulla sedia libera. Smith distolse lo sguardo, imbarazzato. «Cosa diavolo hai intenzione di fare invadendo il mio campo, Jon?» udì sussurrare una voce decisamente seccata a lui molto familiare. «E per piacere non cercare di rifilarmi la storiella che sei venuto a vedere le glorie di Parigi!» Smith si voltò sbalordito verso l'anziana matrona. Da qualche parte, dietro la massa di capelli grigi e le rughe a zampe di gallina c'erano la pelle liscia, i capelli biondi e il viso grazioso dell'agente della CIA Randi Russell. Jon si sentì avvampare in volto. Randi, sorella della sua fidanzata morta, era una cara amica, una con cui andava volentieri a cena o a bere qualcosa ogni volta che si trovavano a Washington nello stesso periodo. Ciononostante, e sebbene avesse saputo fin dall'inizio che la presenza di Smith proprio nel punto di rendez-vous della sua squadra speciale di sorveglianza avrebbe attirato l'attenzione su di lei, Randi era comunque riuscita a coglierlo impreparato. Per guadagnare tempo e riprendersi dalla sorpresa, Jon bevve un prudente sorso di caffè bollente. Poi le rivolse un sorriso smagliante. «Ottimo travestimento, Randi. Adesso so che aspetto avrai tra quaranta o cinquant'anni. Anche il cagnolino è un tocco astuto. È tuo? O è materiale standard della CIA?» «Pascal è di un'amica, una collega che lavora all'ambasciata» rispose Randi brevemente. Poi tese le labbra, irrigidendosi. «E il barboncino è una spina nel fianco quasi quanto te, Jon. Ma non c'è paragone comunque. E adesso piantala di tergiversare e rispondi alla mia domanda.» Smith scrollò le spalle. «Okay. È abbastanza semplice, in realtà. Sono qui a causa dei rapporti che tu e la tua squadra speciale avete trasmesso agli Stati Uniti nelle ultime ventiquattro ore.»
«E questo tu lo definisci "semplice"?» ribatté Randi con aria incredula. «I nostri rapporti sono materiale CIA strettamente riservato.» «Magari una volta» le disse Smith. «Adesso non lo sono più. In questo momento Langley è nei guai fino al collo per questa guerra segreta contro il Lazarus Movement. Lo stesso vale per l'FBI. Forse ne hai sentito parlare.» L'agente della CIA annuì amaramente. «Sì, ho sentito. Le brutte notizie si diffondono in fretta.» Randi Russell fissò il tavolo con un'espressione corrucciata. «Quell'idiota figlio di puttana di Burke ha finito col procurare all'Agenzia l'occhio nero più grosso che abbia mai avuto.» Lo sguardo della donna si fece tagliente. «Ma questo non spiega ancora per chi stai lavorando questa volta.» La giovane donna fece una pausa significativa. «O almeno per chi intendi dichiarare di lavorare.» Smith maledì in silenzio la necessità di mantenere l'esistenza della Covert-One un segreto assoluto a tenuta stagna. Come quella di Peter Howell, l'affiliazione di Randi a un altro servizio di spionaggio governativo significava che Smith doveva agire con estrema cautela quando era in contatto diretto con lei. Era costretto a nascondere molti aspetti del suo lavoro, perfino agli amici, o alle amiche, più intimi, persone di cui si sarebbe fidato ciecamente. Lui e Randi avevano collaborato in alcune occasioni in passato - in Iraq, in Russia, una prima volta a Parigi e, più di recente, in Cina -, ma di fronte alle domande argute dell'amica era sempre stato costretto ad adottare un imbarazzante atteggiamento evasivo. «Non è un segreto di Stato, Randi» mentì. Provava sempre un enorme senso di colpa mentendole, e fece del suo meglio per dissimularlo. «Sai che ho già svolto qualche incarico delicato per i servizi segreti dell'esercito. Be', i pezzi grossi del Pentagono mi hanno richiamato di nuovo per questa missione. Qualcuno sta sviluppando un'arma nanotech e il Comitato dei capi di stato maggiore riuniti non gradisce affatto la cosa.» «Ma perché proprio te, di preciso?» insistette Randi. Smith la guardò dritta negli occhi. «Perché stavo lavorando al Teller Institute» rispose con calma. «Perciò conosco il potenziale di quest'arma. Ho visto con i miei occhi la morte di tutti quegli innocenti.» L'espressione sospettosa di Randi si raddolcì. «Deve essere stato terribile, Jon.» Lui annuì, scacciando dalla mente i raccapriccianti ricordi che ancora lo tormentavano nel sonno. «Sì.» Smith guardò oltre il tavolino. «Ma immagino che sia stato perfino peggio qui... a La Courneuve.»
«Il bilancio delle vittime è stato di gran lunga più alto» convenne Randi. «E, a quanto pare, non ci sono stati superstiti. Da quel che dicono nei servizi alla televisione, il modo in cui è morta tutta quella gente è stato orribile.» «Allora dovresti capire perché voglio dare un'occhiata più da vicino ai tipi sospetti che hai scoperto a installare qualche tipo di "apparecchiatura a sensori" la notte precedente l'attacco.» «Credi che i due avvenimenti abbiano un nesso?» Jon inarcò un sopracciglio. «Tu no?» Randi annuì con riluttanza. «Sì, certo.» Poi emise un sospiro. «E siamo riusciti a rintracciare quasi tutti i veicoli guidati dai sospetti.» Randi gli lesse negli occhi la domanda successiva e gli rispose prima ancora che aprisse bocca. «Esatto, hai indovinato: sono tutti collegati a un solo indirizzo qui a Parigi.» «Un indirizzo che hai evitato con cura di menzionare nei tuoi cablogrammi a Washington» osservò Smith. «Ho avuto i miei validi motivi per comportarmi così» ribatté Randi in tono rabbioso. L'agente della CIA, camuffata da anziana vedova, fece una smorfia. «Scusa se sembro così fuori dai gangheri, Jon, ma il mio problema è che non riesco a far quadrare quello che abbiamo scoperto. Non c'è niente che collimi con un tipo di strategia razionale e coerente. E francamente la cosa comincia a darmi parecchio sui nervi.» «Be', forse posso aiutarti a venire a capo di qualche anomalia» propose Jon. Per la prima volta Randi rispose con un vago accenno di sorriso. «Magari. Per essere uno che si diletta a fare la spia hai una strana abilità nell'inciampare sempre nelle risposte azzeccate» disse con calma. «E di solito avviene per caso, naturalmente.» Smith ridacchiò divertito. «Naturalmente.» L'agente della CIA si appoggiò alla spalliera della sedia, osservando con aria assente la gente che passeggiava sui marciapiedi davanti al ristorante. Tutt'a un tratto si irrigidì: la sua incredulità era evidente. «O Signore!» mormorò sbigottita. «Cos'è questa... rimpatriata fra vecchi amici?» Smith seguì lo sguardo di Randi e vide quello che all'apparenza sembrava un vecchio e malandato clochard francese, con un basco in testa e un rattoppato maglione di lana infeltrita, che deambulava un po' malfermo sulle gambe dirigendosi verso di loro, fischiettando con le mani affondate nelle tasche dei suoi sbiaditi, sgualciti pantaloni da operaio. Jon lo osservò
con maggiore attenzione e celò un sorriso divertito. Era Peter Howell. L'inglese abbronzato attraversò senza fretta la strada che separava il Ma Bourgogne dal parco nel centro della grande piazza, puntò dritto verso il loro tavolo e si levò cortesemente il basco davanti a Randi. «Che piacere vederla in così bella cera, madame» mormorò. Il suoi occhi celesti brillarono di vivo divertimento. «E questo è il suo figliolo, senza alcun dubbio. Un bel ragazzone robusto, a quanto vedo.» «Ciao, Peter» disse Randi con aria rassegnata. «E così anche tu ti sei arruolato nell'esercito, eh?» «Nell'esercito americano?!» ribatté Peter, fingendosi inorridito. «Che Dio me ne scampi, no, cara ragazza! Si tratta semplicemente di un briciolo di collaborazione informale tra vecchi amici e colleghi, capisci? Un favore reciproco, diciamo. No, Jon e io siamo passati semplicemente di qua per vedere se sei interessata a unirti al nostro piccolo patto.» «Magnifico! Come sono contenta!» Randi scosse il capo canuto. «D'accordo, mi arrendo. Vi dirò quello che so, ma sia ben chiaro che la collaborazione non sarà a senso unico. Mi spiego? Anch'io voglio che mettiate sul tavolo tutte le carte che avete in mano. Afferrato il concetto?» L'inglese travestito da barbone mostrò un dolce sorriso. «Con la chiarezza di un cristallo. Non temere, milady. Tutto sarà rivelato a tempo debito. Puoi fidarti ciecamente del tuo vecchio zio Peter.» «Certo che posso.» Randi sbuffò. «In ogni caso, non ho molta scelta, date le circostanze.» L'agente della CIA si alzò con cautela dalla sedia, attenta a mantenere l'illusione secondo la quale era un'anziana signora ben oltre la settantina. Diede uno strattone al guinzaglio del barboncino, trascinando la bestiolina da sotto il tavolo dove negli ultimi minuti aveva inutilmente mordicchiato una delle scarpe di Smith. Randi adottò di nuovo il francese e la voce roca e nasale da vecchia matrona. «Vieni, Pascal. Non possiamo approfittare troppo della compagnia di questi gentili signori.» Poi abbassò la voce, assicurandosi che solo i suoi due amici sentissero le sue istruzioni. «Ecco come procederemo. Quando me ne sarò andata, aspettate cinque minuti e poi recatevi al numero civico 6, alla casa di Victor Hugo. Fingete di essere turisti, critici letterari, o che so io. Un'Audi bianca con un'ammaccatura sulla portiera posteriore destra si fermerà là davanti. Salite in macchina senza farvi notare. Capito?» Jon e Peter annuirono con fare deciso. Ancora imbronciata, Randi si allontanò senza voltarsi e si diresse baldanzosa verso l'angolo più vicino di Place des Vosges, apparendo agli oc-
chi dei più come l'epitome di una grande dame parigina, uscita per la passeggiata mattutina di rito con il suo straviziato barboncino. Dieci minuti dopo, i due uomini davanti alla Maison de Victor Hugo ammiravano incuriositi il primo piano del palazzo, dove il grande scrittore, autore dei Miserabili e di Notre-Dame de Paris, aveva trascorso sedici anni della sua lunga vita. «Tipo interessante» osservò Peter Howell pensosamente. «Incline a eccessi di pazzia in tarda età, sai? Non so chi una volta lo trovò che cercava di incidere un mobile con i denti.» «Un po' come Pascal» suggerì Smith. Peter parve sorpreso. «Il famoso filosofo e matematico?» «No» precisò Smith. «Il barboncino di Randi.» «Oddio!» esclamò Peter in tono beffardo. «Le cose che uno impara a Parigi!» L'agente inglese si guardò con noncuranza alle spalle girando appena la testa. «Ah, la nostra carrozza ci aspetta!» Smith si voltò e vide l'Audi bianca, con l'ammaccatura sulla portiera posteriore destra, che accostava al cordolo del marciapiedi. Lui e Peter salirono, senza farsi notare, sul sedile posteriore. L'automobile ripartì a tutta velocità, fece il giro di Place des Vosges e imboccò di nuovo Rue de Turenne da dove era venuta. Da là, la berlina cominciò una serie di svolte apparentemente casuali, addentrandosi ancora di più nel cuore del dedalo di vie a senso unico che costituiva l'antico quartiere del Marais. Jon osservò per qualche secondo il conducente dalla faccia tendente al giallognolo, un tipo molto robusto che portava un berretto di panno foderato. «Ciao, Max» disse alla fine. «Buondì, colonnello» rispose l'uomo alla guida, sorridendo nello specchietto. «Lieto di rivederla.» Smith annuì in cenno di saluto. Lui e Max avevano trascorso molte ore insieme, a sorveglianza di un gruppo di terroristi arabi da Parigi alla costa mediterranea spagnola. L'agente della CIA probabilmente non era la stella che brillava di più nel firmamento dell'Agenzia, ma era molto competente. «Ci stanno seguendo?» domandò Smith, notando il modo in cui gli occhi di Max erano sempre in movimento, controllando ogni aspetto dell'ambiente circostante l'Audi mentre guidava nelle vie di Parigi congestionate dal traffico. Max scosse il capo con sicurezza. «No. È solo per precauzione. Siamo molto più prudenti del solito, tutto qui. In questo periodo Randi ha i nervi a fior di pelle.»
«Ti dispiace spiegarmi perché?» L'agente della CIA sbuffò sonoramente. «Lo scoprirà presto, colonnello.» Max imboccò un viottolo stretto: alti palazzoni di pietra svettavano su entrambi i lati, impedendo la vista del sole o del cielo. Parcheggiò proprio dietro a un furgone Renault grigio che bloccava gran parte del vicolo. «Capolinea» annunciò. Smith e Peter scesero dall'auto. I portelli posteriori del furgone si spalancarono, rivelando un angusto interno gremito di apparecchiature radio, televisive e informatiche. Randi Russell, ancora travestita da decrepita vedova, era là, insieme a un altro agente della CIA, uno che Jon non conosceva. Pascal, il barboncino, era sparito dalla circolazione. Jon salì a bordo del furgone di sorveglianza elettronica, seguito a ruota dall'amico inglese. Chiusero i portelli alle loro spalle e poi restarono goffamente in piedi, un po' piegati in avanti a causa dello spazio limitato. «Sono contenta che ce l'abbiate fatta» disse Randi. Rivolse loro un sorriso fugace e, con un cenno della mano, indicò l'attrezzatura elettronica montata a ripiani sulle due fiancate interne del camioncino. «Benvenuti nella nostra umile dimora, il centro nevralgico della nostra operazione di sorveglianza speciale. Oltre ad avvalerci di osservatori umani, abbiamo a disposizione una quantità di telecamere, nascoste in punti chiave tutt'intorno al bersaglio.» Randi presentò l'altro agente presente, seduto su uno sgabello davanti a uno schermo e a una tastiera da computer. «Mostriamogli quello che abbiamo, Hank. Fa' vedere per prima la telecamera 2. So che i nostri ospiti muoiono dalla voglia di sapere cosa diavolo facciamo qui.» Il suo subalterno digitò una serie di comandi sulla tastiera. Il monitor davanti a lui lampeggiò immediatamente, mostrando la nitida immagine di un ripido tetto d'ardesia grigio scuro, dal quale spuntavano antenne di ogni forma, dimensione e descrizione. Smith emise un fischio sommesso. «Proprio così» convenne Randi, annuendo. «Questi tipi sono organizzati per inviare e ricevere praticamente qualsiasi tipo di segnale immaginabile. Segnali radio, a microonde, laser, satellitari... fa' un po' tu.» «Allora? Qual è il problema?» le chiese Jon, ancora perplesso. «Perché farsela sotto a tal punto da evitare di trasmettere a Langley questa sensazionale scoperta?» Sulle labbra di Randi si formò un sorriso sardonico. Si sporse in avanti e
batté sulla spalla del suo esperto elettronico. «Fagli vedere la telecamera 1, Hank.» Poi lanciò un'occhiata a Jon e Peter. «Ecco il lato d'ingresso dello stesso palazzo. Date un'occhiata da vicino.» L'immagine sullo schermo mostrò un edificio di cinque piani. Secoli di inquinamento atmosferico e di intemperie avevano corroso e annerito la sua facciata di pietra porosa. Finestre alte e strette si affacciavano sulla via sottostante a ogni piano, terminando in alto con una serie di lucernai delle camere mansardate, che si trovavano sotto il tetto. «Adesso zooma sulla porta d'ingresso» ordinò Randi al suo assistente. L'immagine si espanse rapidamente, concentrandosi infine su una piccola targa di bronzo accanto alla porta principale. A lettere maiuscole, incise nel bronzo, la targa annunciava: 18 RUE DE VIGNY PARTI LAZARE «Oh Cristo!» borbottò Peter. Randi annuì tetramente. «Esatto. Si dà il caso che il palazzo sia la sede parigina del Lazarus Movement.» Capitolo 39 Un'ora dopo, Jon Smith era in piedi davanti alla porta della sua camera all'Hôtel des Chevaliers. Si abbassò sulle ginocchia e controllò il «rivelatore»: un robusto capello nero teso tra la porta chiusa e lo stipite, a circa trenta centimetri d'altezza dal pavimento ricoperto di moquette del corridoio. Era ancora là, perfettamente intatto. Quindi, dopo essersi assicurato che la camera fosse sicura, invitò Randi e Peter a entrare. Il furgone della squadra speciale della CIA era troppo piccolo e stretto per una prolungata riunione, e i caffè e i ristoranti nelle immediate vicinanze erano troppo affollati e privi di riservatezza. Occorreva loro un posto dove disporre di maggiore privacy, per cercare di trovare una soluzione al complicato impiccio contro al quale, all'improvviso, erano andati a sbattere. Al momento, l'Hôtel des Chevaliers era il luogo più simile a una cosiddetta «casa sicura» che avessero a disposizione. Dopo aver ripreso le sue sembianze naturali, con un bel caschetto di capelli biondo oro, e aver indossato una tuta nera, Randi stava misurando inquieta a grandi passi la stanza di Jon. Con gambe lunghe e affusolate, e un
fisico flessuoso che sfiorava il metro e settantacinque, Randi era stata spesso scambiata per una ballerina di danza classica. Se qualcuno l'avesse vista in quel momento, non avrebbe commesso quell'errore: si aggirava nervosamente nella stanza, andando avanti e indietro come una pericolosa belva in gabbia in cerca di un modo qualunque per fuggire. Era profondamente frustrata dalla paralisi autoinflitta che, se lo sentiva, stava travolgendo la CIA: una crisi che la stava derubando di qualsiasi consulenza utile o appoggio logistico valido proprio quando ne aveva più bisogno. La sua incertezza su come comportarsi di fronte alla scoperta strabiliante fatta dalla squadra di sorveglianza che dirigeva la faceva sentire molto a disagio, perfino con i suoi vecchi amici e alleati. Randi lanciò un'occhiata scettica al bel mobilio e all'elegante arredo della camera d'albergo, poi rivolse lo sguardo a Smith. «Niente male per uno che viaggia in conto spese dell'esercito americano, Jon.» «Vedi come viene investito bene il denaro dei contribuenti?» ribatté Smith col sorriso pronto. «Ecco un tipico soldato yankee» commentò Peter, sogghignando divertito. «Superpagato, superviziato e superequipaggiato.» «Adularmi non ti servirà a niente, caro mio» replicò Smith in tono beffardo. Si lasciò cadere sulla sedia più vicina e squadrò i suoi due amici. «Sentite, piantiamola con le schermaglie e attacchiamo a discutere seriamente su quali saranno le nostre prossime mosse.» I suoi due interlocutori si voltarono in contemporanea. «Be', devo ammettere che ci ritroviamo in una posizione un tantino complicata» disse Peter scandendo bene le parole, mentre si accomodava su una poltrona dall'eccessiva imbottitura. Randi fissò con espressione incredula il volto coriaceo del collega inglese. «Un tantino complicata?» ripeté. «Per amor del cielo, Peter, perché non dici fuori dai denti le cose come stanno? La nostra posizione è praticamente impossibile, e lo sai bene.» «"Impossibile" è una parola esagerata, Randi» disse Smith, costringendosi a un accenno di sorriso. «Non al punto in cui stiamo» scattò Randi di rimando. Scuoteva sconsolatamente il capo, irrequieta, ancora impegnata a fare la spola tra i due uomini come una belva in gabbia. «Okay, prima voialtri due eroi arrivate qui e mi dite che qualche imbecille tra le nostre stesse fila sta combattendo una guerra segreta a dir poco illegale contro il Lazarus Movement. Ciò getta nello scompiglio e nel panico tutti quanti, compreso il presidente america-
no e il primo ministro inglese, giusto? Poi cominciano tutti quanti a fare fuoco e fiamme con le agenzie spionistiche governative, sferzandole con ordini immediati di cessate il fuoco e di desistenza per qualsiasi azione segreta che implichi il Lazarus Movement. E non parliamo poi dei preparativi per le inchieste ufficiali del Congresso americano e del Parlamento britannico, con relative commissioni e udienze, che potrebbero facilmente protrarsi per mesi e mesi, forse anche per anni.» I due uomini annuirono all'unisono. Randi si accigliò. «Badate bene: non ho nessun problema in merito. Chiunque sia stato così idiota e criminale da imbarcarsi in questa storia con Hal Burke, Kit Pierson e gli altri compari merita di essere crocifisso. E con chiodi spuntati!» Randi trasse un respiro profondo, riprendendo fiato. «Ma ora, ora, con tutta questa ondata di voci e di smentite che ci sta piovendo addosso, volete rivoltarvi tutt'e due contro questa situazione contingente e... fare cosa? Che diavolo, fare irruzione in una sede del Lazarus Movement, naturalmente! E non stiamo parlando di una semplice sede regionale posta in un vecchio scantinato di provincia, ma della sede centrale parigina del movimento, da cui si tirano le fila di tutta la dannata operazione!» «Certamente» dichiarò Peter con calma olimpica. «In quale altro modo proporresti di scoprire quello che stanno combinando là dentro?» «Cristo santo!» borbottò Randi. Poi si voltò di scatto verso Smith. «E tu la vedi nello stesso modo?» Jon annuì con espressione grave. «Sono più che certo che qualcuno, estraneo ai servizi di spionaggio, abbia manipolato Burke e gli altri, che abbia usato la loro sotterranea guerra non dichiarata come copertura per un piano di portata molto più ampia: qualcosa di simile alle tragedie al Teller Institute e qui a Parigi... solo, moltiplicata per cento» disse in tono tranquillo. «Mi piacerebbe tanto sapere chi c'è dietro a tutto questo e qual è il suo obiettivo. Prima di scoprirlo nel modo peggiore.» Randi si morse il labbro inferiore, rimuginando su quella teoria. Attraversò la stanza per andare a guardare fuori dalla finestra il cortiletto interno retrostante l'albergo. «Lazarus o non Lazarus, almeno alcune delle persone che lavorano all'interno dello stabile sito al 18 di Rue de Vigny sapevano che l'attacco coi nanofagi che ha sterminato la popolazione residente a La Courneuve era imminente» proseguì Smith. Poi si sporse in avanti. «Ecco perché stavano montando sui lampioni del quartiere gli strani apparecchi a sensori
che hai notato. Ecco perché erano disposti a uccidere chiunque gli mettesse in qualche modo il bastone tra le ruote.» «Ma il movimento è profondamente antitecnologico... e ce l'hanno specialmente con la nanotecnologia!» sbottò Randi in tono esasperato. «Perché i sostenitori del Lazarus Movement dovrebbero aiutare qualcuno a commettere uno sterminio di massa, specie ricorrendo a mezzi ai quali si oppongono con tanta veemenza? È assurdo!» «Questo potrebbe voler dire che il misterioso "qualcuno" di Jon - forse dovremmo chiamarlo "Mr X", tanto per abbreviare - sta sfruttando l'organizzazione ambientalista come copertura per i suoi scopi personali» fece notare Peter. «Più o meno nello stesso modo in cui siamo convinti che abbia usato uno sparuto branco di folli all'interno della CIA e dell'FBI. E anche del MI6 britannico, ahimè.» «Stai attribuendo a questo fantomatico Mr X molto credito» osservò Randi in tono acido. Voltò le spalle alla finestra per guardare in faccia i due amici a mento alto, con aria caparbia. «Forse troppo.» «Non credo proprio» ribatté Smith, con espressione lugubre. «Sappiamo già che Mr X, che sia una sola persona oppure un gruppo di persone, dispone di risorse enormi. Non si possono progettare e produrre centinaia di miliardi di nanofagi senza avere accesso a fondi esorbitanti. Almeno cento milioni di dollari. Probabilmente molto di più. Se si spende una frazione anche piccolissima di questa somma in bustarelle, scommetto che si può comprare la cieca fedeltà di parecchie persone all'interno del Lazarus Movement.» Smith si alzò improvvisamente dalla sedia, incapace di sopportare ancora di starsene seduto immobile. Si avvicinò a Randi e le posò una mano sul braccio con il gesto affettuoso di un amico. «Ti viene in mente un altro modo per mettere insieme i pezzi del puzzle?» le domandò in tono pacato. L'agente della CIA restò in silenzio per un lungo, penoso momento. Poi, lentamente, scosse il capo e sospirò. Tutta l'energia repressa e l'irritazione che l'avevano animata fino a pochi secondi prima parvero dissolversi. «Be', nemmeno a me» disse Smith sottovoce. «Ecco perché dobbiamo assolutamente infiltrarci in quel palazzo. Dobbiamo scoprire cosa stavano rilevando a La Courneuve quelle centraline sui lampioni. Forse, particolare ancora più importante, dobbiamo capire a cosa sono serviti i dati che hanno raccolto.» Jon aggrottò le sopracciglia. «I tuoi esperti di elettronica non sono riusciti a intercettare nulla di quello che stavano dicendo là dentro, vero?»
Con una certa riluttanza, Randi scosse ancora il capo, ammettendo lo smacco. «No. L'edificio sembra essere a prova di intercettazione ambientale. Persino le finestre sono costruite in modo da vibrare leggermente per neutralizzare la sorveglianza laser.» «Tutte le finestre?» chiese Peter, incuriosito. Randi si strinse nelle spalle. «No. Solo quelle all'ultimo piano e quelle dei lucernai.» «Carino da parte loro appendere un cartello d'avvertimento a nostro vantaggio» mormorò l'inglese, incrociando lo sguardo con Smith. Jon annuì. «Molto conveniente.» Randi guardò in cagnesco i suoi due compagni. «Forse troppo conveniente» suggerì. «E se fosse una trappola?» «Qualche rischio bisogna pur correrlo» recitò Peter con rassegnazione. «Il nostro lavoro non ci permette di fare troppi ragionamenti sul perché... e così via.» Prima che Randi avesse il tempo di fulminarlo con un'occhiataccia, l'inglese faceto adottò un'espressione più adatta alla situazione. «Ma ne dubito. Significherebbe che questi tipi del Lazarus Movement hanno lasciato apposta che tu e i tuoi sottoposti li scopriste mentre installavano sui lampioni quelle loro scatolette grigie. Perché darsi tanta pena, spendere un mucchio di quattrini in materiale ad altissima tecnologia e rischiare grosso solo per beccare una coppia di vecchi soldati malridotti?» «Più un formidabile agente operativo della CIA» soggiunse Randi, dopo una breve esitazione. Poi abbassò lo sguardo con aria modesta. «Che naturalmente sarei io.» Smith inarcò un sopracciglio. «Hai intenzione di far parte della comitiva?» Randi emise un sospiro rassegnato. «Una persona responsabile e dotata di cervello deve pur tenere d'occhio due mocciosi stagionati come voi.» «Sai che ne sarà della tua carriera se dovessero beccarci?» chiese Smith in tutta calma. Randi gli rivolse un sorrisino mesto. «Dai, Jon» disse, costringendosi a sembrare allegra. «Sai bene che se dovessero beccarci dentro quel palazzo salvare la carriera sarà l'ultima delle mie preoccupazioni!» Adesso che aveva preso una decisione, Randi si diede da fare a stendere sul pavimento in file ordinate, rivolte verso di loro, una serie di istantanee della sede parigina del Lazarus Movement. Le fotografie mostravano l'antico palazzo di pietra al civico 18 di Rue de Vigny quasi da ogni angolo di prospettiva, ed erano state scattate a ore diverse del giorno e della notte.
Aprì e stese anche una mappa dettagliata con la sede del Lazarus Movement, le costruzioni più vicine e le vie e i vicoli circostanti. I tre colleghi si inginocchiarono sul pavimento per esaminare con cura e da vicino le fotografie e la mappa, ognuno intento a cercare una via per introdursi nel palazzo senza essere beccati subito. Alcuni minuti dopo, Peter si alzò e si sedette sui talloni. Poi fissò Randi e Jon con un vago accenno di sorriso. «Realisticamente, c'è solo un'opzione, temo» annunciò, stringendosi nelle spalle. «Forse non sarà né elegante né originale, ma dovrebbe funzionare.» «Ti prego di non dirmi che pensi a una carica a testa bassa alla vichinga, con un ariete per sfondare il portone principale e una corsa a perdifiato su per quattro o cinque rampe di scale» implorò Randi. «Oh, no. Non è affatto nel mio stile.» L'inglese tamburellò l'indice sulla cartina dettagliata della zona. Il dito si fermò su uno dei palazzi contigui al 18 di Rue de Vigny. «Tanto per parafrasare Amleto, ci sono più modi di penetrare in un palazzo, cara ragazza, di quanti ne sogni la tua filosofia.» Smith guardò più attentamente la mappa e capì che cosa intendeva dire Peter. Sporse le labbra in una smorfia scettica. «Ci occorrerà una certa attrezzatura da specialisti. Conosci nessuno in grado di fornircela con discrezione?» «Forse ce la faccio a mettere insieme qualcosa nascosto qui e là in giro per Parigi» ammise Peter con assoluta calma. «Ciò che resta della mia vecchia e peccaminosa vita al servizio di Sua Maestà. E sono sicuro che gli amici della signorina Russell qui presente saranno in grado di fornirci qualsiasi altra cosa ci occorra, pescandola nella loro "filiale" parigina. Ammesso che la signorina lo chieda con i dovuti modi, beninteso.» Aggrottando le sopracciglia, Randi esaminò di nuovo la mappa e le fotografie. Finalmente, il corruccio le sparì dal viso. «Oh, fantastico! Lascia che indovini» disse, sospirando adagio. «Hai in mente un altro di quei piani che sfidano la legge di gravità. Giusto?» Peter la guardò con un'espressione falsamente scandalizzata. «Sfidare la legge di gravità?!» ripeté, scuotendo il capo. «No, non sia mai. In realtà, obbediremo invece alle imperiose esigenze della gravità» dichiarò con un sorrisino astuto. «Dopo tutto, ciò che sale in alto deve poi anche scendere.» Capitolo 40
Martedì 19 ottobre La mezzanotte era passata da un pezzo, ma in giro c'erano ancora i tiratardi che, usciti per ultimi dai ristoranti, piacevolmente sazi, rientravano a casa con passo pigro per le vie bene illuminate di Parigi. Lontana dalla maggior parte dei caffè, delle brasserie e dei locali del Marais formicolanti di gente, Rue de Vigny era più tranquilla e silenziosa, anche se si poteva incrociare ancora qualche passante. Uno di questi, una donna anziana tutta rughe, bene infagottata per ripararsi dal freddo di quella notte d'autunno, risaliva la via zoppicando faticosamente. I tacchi alti delle sue scarpe echeggiavano sul vetusto acciottolato. La donna si teneva saldamente stretta sotto un braccio una grande e antiquata borsa di stoffa, chiaramente ben decisa a difendere la sua proprietà da qualsiasi eventuale ladruncolo. Affranta, e con i piedi doloranti, fece una piccola pausa davanti al numero 18, riposandosi un momento per riprendere fiato. Alcune luci erano accese alle finestre dell'ultimo piano sotto l'antico, ripido tetto in tegole d'ardesia del palazzo, mentre quelle che si aprivano sulla via ai piani sottostanti erano buie. Borbottando qualcosa sottovoce, la vecchia signora proseguì con andatura zoppicante per la sua strada fino all'adiacente numero 16, un palazzo di quattro piani. Si fermò per un lungo, penoso momento nell'androne d'ingresso dell'edificio, prima rovistò nell'enorme borsa alla ricerca di qualcosa e poi annaspò senza successo con la chiave che apparentemente non voleva saperne di entrare nella serratura del portone. Alla fine ci riuscì per miracolo. La serratura emise uno scatto metallico. Con uno sforzo immane, la donna aprì il pesante portone ed entrò barcollando. La via era di nuovo silenziosa e deserta. Pochi minuti dopo, due uomini, uno dai capelli neri e l'altro con una capigliatura bianca, risalirono Rue de Vigny. Entrambi indossavano cappotti scuri e portavano in spalla delle pesanti sacche da viaggio. Camminavano fianco a fianco, chiacchierando amabilmente in francese colloquiale del tempo e delle assurdità delle misure di sicurezza negli aeroporti in quel periodo. Sembravano in tutto e per tutto due viaggiatori di ritorno a casa dopo un lungo fine settimana passato chissà dove in capo al mondo. I due si fermarono all'altezza del numero 16. Il più giovane, quello dai capelli neri, aprì il portone e lo tenne aperto per il suo compagno più attempato. «Dopo di te, Peter» disse sottovoce con un gesto d'invito della mano libera.
«L'età prima della bellezza, eh?» commentò il suo compagno. L'uomo dai capelli bianchi superò la soglia ed entrò nel piccolo e oscuro atrio d'ingresso, mormorando un saluto di cortesia alla donna anziana che era là in piedi ad attenderli. Jon Smith fece a sua volta capolino nell'ingresso del palazzo, ma non prima di rimuovere con noncuranza il pezzo di nastro adesivo da imballaggio che la «vecchia rimbambita» aveva appiccicato sul battente della porta per evitare che la serratura si richiudesse a scatto. Jon appallottolò il pezzo di nastro adesivo, lo fece sparire in una tasca del cappotto e lasciò che il portone si richiudesse delicatamente alle loro spalle. «Sei stata veramente brava a scassinare la serratura» disse Smith complimentandosi con l'anziana signora che stava in piedi accanto a Peter Howell. Randi Russell gli fece omaggio di un bel sorriso. Sotto il travestimento e il trucco che aggiungeva quarant'anni alla sua età, i suoi occhi brillavano di adrenalina e d'eccitazione. «Be', al corso alla Farm ero la prima della classe» disse, riferendosi a Camp Perry, il campo d'addestramento della CIA nei dintorni di Williamsburg, in Virginia. «Fa piacere sapere che il periodo passato là non è stato del tutto tempo perso.» «E adesso dove andiamo?» chiese Smith. Randi fece un cenno con la testa verso il corridoio che proseguiva oltre l'atrio. «Per di là» disse. «Una scala centrale porta fino in cima. Ci sono pianerottoli a ogni piano, con porte che danno accesso ad appartamenti separati.» «Nessun residente un po' irrequieto?» si informò Peter. Randi scosse il capo. «No. Da un paio di porte filtra una lama di luce. Per il resto è tutto assolutamente tranquillo. E cerchiamo di non disturbare la pace e il silenzio che ci sono, d'accordo, ragazzi? Preferirei evitare di trascorrere le prossime ventiquattro ore a rispondere alle domande imbarazzanti nella Prefettura di polizia più vicina.» Con Randi che faceva da apripista, il trio salì senza fare rumore le scale, oltrepassando con prudenza pianerottoli intasati di biciclette, passeggini e carrelli a due ruote per la spesa. Un'altra porta chiusa a chiave, stavolta all'ultimo piano, cedette rapidamente all'abilità di Randi e dei suoi attrezzi da scassinatrice. Superarono la soglia e sbucarono sul tetto a terrazza, stracolmo di piante in vaso, del genere tanto amato dai parigini: un piccolo giardino urbano creato da un dedalo di grandi vasi in coccio pieni di piante nane, cespugli, giovani arbusti e piante da fiore. Erano sul retro dell'edifi-
cio, separati da Rue de Vigny da una fila di camini neri di fuliggine e da una foresta di antenne radio e TV. A quell'altezza, il freddo venticello autunnale trasportava con sé i rumori attutiti della città circostante: qualche clacson che risuonava in Boulevard Beaumarchais, il rombo acuto degli scooter che correvano nei vicoli, risa e musica aleggianti da qualche parte nelle vicinanze fuori dalle porte aperte di un night club. Le cupole bianche, illuminate da decine di faretti, della basilica del Sacré-Cæur, d'ispirazione vagamente bizantina, splendevano a nord, alte sulle formicolanti pendici di Montmartre. Smith si avvicinò cautamente al davanzale del terrazzo e guardò in basso, oltre una ringhiera decorativa di ferro battuto. Nell'oscurità sottostante, a livello della strada, riusciva appena a intravedere una fila di bidoni della spazzatura in un vicolo di servizio già abbastanza stretto. La facciata posteriore di un altro palazzo antico, anch'esso trasformato in un condominio residenziale, si innalzava sull'altro lato del vicolo. Chiazze di calda luce gialla proiettata da qualche lampada da tavolo e abat-jour trapelavano fra spiragli di tende e imposte accostate. Jon si ritrasse di qualche passo, tornando nel modesto riparo fornito dagli alberelli e dai cespugli del giardino a terrazza, dove Randi e Peter si erano appostati. Alla loro destra incombeva la massa buia della sede parigina del Lazarus Movement. I due palazzi erano adiacenti, ma il 18 di Rue de Vigny era un piano più alto. Uno spoglio muro di pietra alto sei metri li separava dal tetto spiovente di quello che era il loro obiettivo. «Bene» sussurrò Peter, già chino ad aprire la prima delle due grosse sacche da viaggio. Cominciò a estrarre e a passare ai compagni vari articoli di vestiario e d'attrezzatura. «Prepariamoci.» Con gesti rapidi e precisi, corroborati dall'aria pungente della notte, i tre cominciarono a trasformarsi da semplici civili dall'aspetto ordinario a esperti operatori speciali. Randi tolse per prima cosa la parrucca grigia che copriva i suoi capelli biondi. Poi si staccò dalla faccia la maschera adesiva di gomma, con le rughe e le zampe di gallina, preparata appositamente per il suo viso. Tutti si sbarazzarono dei cappotti pesanti, scoprendo i maglioni neri a collo alto e jeans aderenti dello stesso colore. Berretti di lana neri servirono a coprire i capelli fin sopra le orecchie. Si annerirono la faccia e la fronte con appositi stick di nero mimetico. Si tolsero le scarpe, sostituendole con scarponi da alpinista. Dei pesanti guanti di pelle nera proteggevano loro le mani. Tutti e tre indossarono sopra il maglione un giubbotto antipro-
iettile rigido in kevlar, simile a una corazza, ma leggero, sopra il quale infilarono un giubbotto tattico da combattimento. Terminarono allacciandosi le fondine con le rispettive pistole: una SIG-Sauer per Smith, una Browning Hi-Power per Peter e una Beretta 9mm per Randi. Infine si agganciarono, e non senza fatica, un'imbracatura da alpinista, mettendosi poi tutti e tre a tracolla un sacchetto di stoffa contenente un rotolo di corda da alpinismo. Peter distribuì un assortimento di attrezzi speciali. Alla fine, consegnò anche agli altri due compagni due barattoli cilindrici di latta nera, più o meno della misura di una bomboletta di crema da barba. «Granate stordenti al magnesio» disse con freddezza. «Molto utili per gettare il nemico nello scompiglio più totale. Abbastanza popolari anche nei party più spassosi e meglio organizzati, o almeno così mi hanno riferito.» «Dovremmo fare tutto quanto in segreto» gli ricordò Randi in tono tagliente. «Non è certo il caso che piombiamo là dentro sparando a tutto spiano e scatenando la Terza guerra mondiale.» «Tanto per stare tranquilli» ribatté Peter. «Sempre meglio essere prudenti prima che dispiaciuti poi. Io la penso così. Dopo tutto, quei tipi» l'inglese indicò con un cenno la sagoma scura e alta della sede del Lazarus Movement «potrebbero reagire male se ci scoprissero a ficcare il naso nei loro affari.» Peter girò intorno a Jon e a Randi, ispezionando le loro attrezzature e saggiando le cinghie delle loro imbracature, per assicurarsi che fossero agganciate nel modo corretto. Poi si sottopose con pazienza alla stessa operazione, affidandosi alle attente cure di Jon. «E ora occupiamoci di quel muro» annunciò Peter. Affondò ancora la mano nella sua borsa da viaggio ed estrasse una piccola pistola ad aria compressa, già armata di una piccola fiocina al titanio con punta zigrinata, collegata a un rocchetto di cavo d'acciaio flessibile, rivestito di nylon. Con un accenno di inchino, l'agente inglese offrì l'attrezzatura a Randi. «Le spiacerebbe farci l'onore?» Randi arretrò di qualche passo. Spiò in cima al tratto di muro avvolto nell'oscurità di fronte a loro, scrutando il tetto in cerca di un buon punto d'ancoraggio. Una piccola crepa attirò la sua attenzione. Puntò la pistola ad aria compressa in alto, guardando il mirino lungo la canna, e prese accuratamente la mira. Infine, premette il grilletto. La pistola lanciasagola emise una sorta di sordo colpo di tosse e la piccola fiocina al titanio partì a razzo, trascinandosi dietro il cavo d'acciaio flessibile. Con un breve clangore sordo, gli uncini della piccola punta zigrinata penetrarono a fondo nella crepa,
facendo presa e conficcandosi saldi nel muro di pietra. Smith allungò una mano e controllò la tenuta del cavo d'acciaio rivestito di nylon. Qualche strattone deciso bastò per stabilire che reggeva. Jon si voltò verso i due compagni. «Siete pronti?» Peter e Randi annuirono. Uno dopo l'altro, si arrampicarono lestamente sul muro e si issarono con circospezione sulla sommità del tetto spiovente in tegole d'ardesia del palazzo al civico 18 di Rue de Vigny. Centro di «Lazzaro», isole Azzorre Seduto alla scrivania di tek nel suo ufficio privato, Hideo Nomura osservava con crescente piacere la simulazione al computer a compressione temporale delle prime sortite dei suoi Thanatos. Un grande schermo gli mostrava la carta geografica digitale dell'emisfero occidentale. Alcune icone indicavano la posizione continuamente aggiornata di ogni Thanatos fatto decollare dalla base segreta nelle isole Azzorre, all'incirca a quattromila chilometri al largo della costa americana. Mentre ciascun punto lampeggiante attraversava l'oceano Atlantico e sorvolava gli Stati Uniti, intere strisce di territorio sulla carta digitale cominciarono a cambiare colore, indicando le aree contaminate dalle nubi di nanofagi Stage IV portate dal vento, che i suoi velivoli speciali da alta quota, a scarsissimo rilevamento radar, avrebbero diffuso. Tinte differenti mostravano i tassi di mortalità previsti a ogni rilascio dei nanofagi killer. Il rosso vivo significava l'annientamento pressoché totale della popolazione residente all'interno della zona bersaglio. Mentre Nomura si beava a quella vista, le aree metropolitane di New York, Washington, Philadelphia e Boston si fecero rosse, segnalando la proiezione di morte sicura di oltre trentacinque milioni di uomini, donne e bambini americani. Hideo Nomura, sorridendo, annuì di fronte a quello spettacolo raccapricciante. In sé, quelle vittime sarebbero state insignificanti, semplicemente il primo assaggio della carneficina necessaria che aveva in programma di infliggere all'arrogante America. Queste prime stragi di massa sarebbero servite a uno scopo molto più importante: la distruzione rapida di un gran numero dei più popolosi centri di governo e di potere economico avrebbe di certo fatto precipitare gli Stati Uniti in una crisi disperata, rendendo i leader superstiti del tutto incapaci di scoprire l'origine dei devastanti attacchi portati a segno contro la loro nazione del tutto
inerme e impotente. Il telefono interno trillò una volta, richiedendo la sua attenzione. Con riluttanza, Nomura distolse gli occhi dalla gloriosa visione, simulata al computer, che gli si stava rivelando sul grande schermo. Premette il pulsante di risposta in vivavoce. «Sì? Cosa c'è?» «Abbiamo ricevuto tutti i dati necessari dal ripetitore di Parigi, "Lazzaro"» lo informò l'accento asciutto, accademico, del suo principale biologo molecolare a capo del progetto. «In base ai risultati di Field Experiment Three, a questo punto riteniamo inutile apportare ulteriori miglioramenti o modifiche alla struttura del fago di ultima generazione.» «È una notizia meravigliosa!» esclamò il giovane magnate giapponese che riportò lo sguardo sulla simulazione al computer. Le zone di morte che raffigurava si stavano diffondendo in fretta verso l'interno degli Stati Uniti, raggiungendo in profondità il cuore del territorio americano. «E quando sarà completata la produzione dei primi fagi Stage IV?» «Approssimativamente... tra dodici ore» promise cautamente lo scienziato. «Ottimo. Tenetemi informato.» Nomura interruppe la simulazione d'attacco computerizzata e si collegò a un altro programma. Questo aggiornava in diretta il lavoro che veniva svolto all'interno degli enormi hangar aeroportuali alle due estremità opposte del suo campo d'aviazione privato. La proiezione sul monitor gli mostrò che le squadre di specialisti, che stavano lavorando al montaggio dei vari componenti della sua flotta di Thanatos, erano in orario sulla tabella di marcia. Quando i primi cilindri a gondola aerodinamica dei nuovi nanofagi sarebbero usciti sui carrelli dal suo impianto di produzione segreto, Hideo avrebbe avuto a disposizione tre velivoli pronti a riceverli. Nomura impugnò il suo telefono satellitare ad alta sicurezza e premette il pulsante di composizione automatica di un numero preselezionato. Nones, il terzo membro degli «Orazi», una sua ennesima «creazione», rispose al primo squillo. «Agli ordini, "Lazzaro".» «Il vostro lavoro a Parigi è terminato» lo informò Nomura. «Tornate qui al Centro al più presto. I biglietti aerei e i documenti necessari per te e per i membri della tua unità di sicurezza vi aspetteranno al banco dell'Air France all'aeroporto di Orly Sud.» «Come la mettiamo con Linden e la sua équipe di sorveglianza elettronica?» chiese Nones con la massima serenità. «Quali sono le disposizioni nei loro confronti?»
Nomura alzò le spalle in un gesto seccato. «Linden e gli altri hanno completato con la massima efficienza i compiti a loro assegnati, ma non vedo alcuna necessità di avvalermi dei loro servigi in futuro. Proprio nessuna. Capisci cosa intendo dire?» Il tono di voce del giovane magnate giapponese si era fatto glaciale. «Capisco perfettamente» confermò il suo interlocutore. «E le attrezzature al 18 di Rue de Vigny?» «Distruggete tutto» ordinò Nomura. Un sorriso crudele si fece strada sul suo volto. «Dimostriamo a un mondo inorridito che le spie americane e inglesi stanno ancora muovendo illegalmente guerra contro il nobile Lazarus Movement!» Capitolo 41 Parigi Smith avanzò carponi lungo l'aguzzo apice scosceso del tetto, al numero 18 di Rue de Vigny. Strisciava in avanti aiutandosi con mani e braccia, preferendo non rischiare di fare qualche rumore con gli scarponi da alpinista che avrebbero grattato e raspato sulle vecchie tegole d'ardesia del tetto, già incrinate qui e là. Procedeva lentamente, cercando qualsiasi appiglio disponibile sulla superficie liscia e scivolosa. Il palazzo in cui aveva sede la filiale parigina del Lazarus Movement era uno degli edifici più alti in quella zona del Marais, perciò non c'era nulla che lo riparasse dal vento freddo che spirava su Parigi da est. La brezza gelida e pungente fischiava lamentosa tra le innumerevoli antenne e parabole satellitari ammassate sul tetto. Una folata più forte spazzò all'improvviso i ripidi tratti di tetto inclinato, investendolo con violenza e tirandogli i vestiti e l'equipaggiamento. Jon sentiva che stava per scivolare oltre il bordo del tetto. Strinse i denti e si aggrappò ancora più forte, disperatamente, agli appigli a cui era ricorso. L'idea di un salto di trenta metri in caduta libera, con niente che potesse frenare e attutire la caduta, se non una cancellata sormontata da punte di lancia, qualche auto parcheggiata e l'acciottolato, lo terrorizzò un momento. Jon sentì accelerare il battito cardiaco e le pulsazioni rimbombargli nei timpani, attenuando i rumori vaghi che arrivavano fin lassù dalle vie sottostanti. Sudando, malgrado il freddo, cercò di appiattirsi ancora di più contro il tetto, aspettando che la forza impetuosa del vento diminuisse un po-
co. Poi, ancora tremolante, si rimise in posizione e si spinse avanti, continuando a strisciare. Un minuto dopo, raggiunse il modesto riparo fornito da un grosso camino di mattoni. Randi e Peter l'avevano preceduto poco prima: erano già là e avevano saldamente assicurato due corde da alpinista alla base del camino. Jon si aggrappò al riparo con un sospiro di sollievo e di gratitudine, dopodiché si mise seduto, ansimando forte, scomodamente appollaiato in posizione precaria, come gli altri, sul bordo tagliente del tetto. Peter ridacchiò, guardando i suoi due compagni in fila indiana. «Eccoci seduti qui» commentò sottovoce. «Simili in tutto e per tutto a un'alquanto triste e inzaccherata banda di corvi.» «Due brutti corvacci e un aggraziato cigno» lo corresse Randi con un vago accenno di sorriso, poi premette il pulsante di trasmissione sulla sua radio ricetrasmittente tattica. «Qualcuno in vista, Max?» domandò. Dalla sua postazione, ben nascosta a metà di Rue de Vigny, il suo subalterno rispose attraverso la radio: «Negativo, capo. Tutto tranquillo. Praticamente un cimitero. Una luce si è accesa pochi minuti fa, su al terzo piano. A parte questo, non c'è segno di nessuno in arrivo o in partenza». Soddisfatta, Randi fece un cenno positivo agli altri due. «Via libera.» «Bene» disse Smith in tono pragmatico. «Mettiamoci all'opera.» Uno dopo l'altro, si portarono più vicini al camino e prepararono l'attrezzatura da alpinismo per calarsi in discesa frenata, prestando particolare attenzione alla fase conclusiva di reciproco controllo, per assicurarsi che le corde, le imbracature, i ganci di sicurezza e le maniglie di discesa rapida fossero sistemate in modo corretto. «Chi vuole scendere per primo?» domandò Randi. «Vado io» si offrì Smith senza esitazioni, guardando il tetto spiovente davanti a sé. «Quest'idea brillante l'ho avuta io, ricordi?» Randi annuì. «Certo. Anche se "brillante" non è precisamente l'aggettivo azzeccato.» Ma poi allungò la mano inguantata e gliela posò con fare affettuoso sulla spalla. «Vedi di stare attento, Jon» disse sottovoce. Negli occhi le si leggeva un certo turbamento. Lui le scoccò un sorriso rassicurante. «Farò del mio meglio» promise. Inspirò a fondo un paio di boccate d'aria fresca, sopprimendo l'inevitabile tensione. Poi si girò e scivolò piano all'indietro sul tetto in ripida discesa, controllando attentamente la manovra con una mano sulla corda da alpinismo che si srotolava adagio. Minuscoli frammenti di ardesia sbriciolata ticchettarono sotto di lui e poi caddero nel vuoto nel buio sottostante.
All'interno del civico 18 di Rue de Vigny, il tipo erculeo dai capelli castani che si faceva chiamare Nones uscì dall'ufficio del terzo piano che aveva requisito appena dopo il suo arrivo a Parigi. Normalmente riservato al direttore del programma di educazione e di assistenza sanitaria in Africa del Lazarus Movement, l'ufficio era quello più grande e più sontuosamente arredato in tutto il palazzo. Ma i militanti locali avevano avuto il buonsenso di non contestare le sue decisioni brusche e autoritarie, e di evitare domande inopportune. Dopo tutto, Nones era direttamente autorizzato da «Lazzaro» stesso. Per il momento, lui dettava legge. Nones fece un sorriso crudele. Presto, anzi prestissimo, i ridicoli discepoli del movimento ambientalista si sarebbero pentiti amaramente di aver obbedito senza esitazioni, ma a quel punto sarebbe stato ormai troppo tardi. Cinque uomini del suo servizio di sicurezza lo attendevano pazienti sul pianerottolo fuori dall'ufficio. Le loro borse da viaggio e le loro armi personali erano pronte ai loro piedi. Quando lo videro arrivare, si alzarono in silenzio. «Abbiamo degli ordini da eseguire» disse loro Nones. «Direttamente da "Lazzaro".» «Gli ordini che aspettavi?» chiese con tono tranquillo il piccolo asiatico che si chiamava Shiro. Il terzo membro degli «Orazi» annuì. «Precisi fino all'ultimo dettaglio.» Estrasse la pistola dalla fondina ascellare, la controllò e la ripose di nuovo al suo posto. I suoi uomini fecero lo stesso con le loro armi, poi si abbassarono per prendere le loro borse da viaggio. Si divisero. Due scesero dalle scale principali, diretti al piccolo garage sul retro del palazzo. Il resto della squadra seguì Nones su per le scale, muovendosi con decisione verso le stanze del quinto piano nel sottotetto, occupate dalla squadra di sorveglianza elettronica delle cosiddette «sperimentazioni sul campo». Smith interruppe la discesa frenata in corda doppia e restò sospeso in equilibrio precario proprio sull'orlo del cornicione. Tenendosi aggrappato saldamente alla corda, si costrinse a sporgersi all'indietro nel vuoto, per dare una lunga e attenta occhiata alle finestre degli abbaini sottostanti che si alzavano da ciascun lato, oltre il bordo del tetto. Le finestre si aprivano sulle piccole stanze mansardate del sottotetto e, proprio come nelle foto-
grafie che avevano studiato qualche ora prima, in preparazione dell'impresa, erano chiuse da robuste persiane di legno. Smith annuì tra sé. Non sarebbero riusciti a sfondare quelle pesanti imposte di legno, o almeno non senza provocare un baccano infernale. Avrebbero dovuto trovare un altro punto d'ingresso nel palazzo. Si sporse ancora di più, spiando lungo la facciata del palazzo sottostante. Alcune luci brillavano alle finestre del quinto piano e le imposte là erano aperte. Muovendosi a brevi, cauti saltelli, si calò lungo il muro. Produsse pochissimo rumore: solo il cigolio discreto della corda che scivolava nel gancio di discesa frenata attaccato alla sua imbracatura e il tonfo sordo dei suoi scarponi sulla facciata del palazzo a ogni saltello. Sei metri più in basso, rinsaldò la presa sulla corda, frenando la discesa fino a fermarsi proprio vicino a una delle finestre illuminate. Guardò in alto sopra di sé. Randi e Peter erano lassù, sul bordo del cornicione, due sagome scure delineate sullo sfondo del cielo nero, punteggiato di stelle. Stavano guardando in basso, verso di lui, in attesa del suo segnale di via libera per calarsi a loro volta. Smith fece loro segno di restare dove si trovavano. Poi allungò il collo, cercando di dare un'occhiata all'interno attraverso la finestra più vicina. Ebbe la fugace impressione di una stanza lunga e stretta, che occupava almeno la metà della lunghezza di quel lato del palazzo. Diverse altre finestre a quel piano si aprivano su quella lunga sala. All'interno, un vasto assortimento di computer, monitor, video, radio ricetrasmittenti, apparecchi elettronici da telecomunicazioni e ripetitori satellitari era sistemato in file ordinate su una serie di tavoli spinti contro la parete di fronte alle finestre. Alte scrivanie e altre apparecchiature elettroniche erano sistemate ad angolo retto a intervalli regolari, e suddividevano la lunga sala in una serie di improvvisate postazioni di lavoro computerizzate. Numerosi fili elettrici e cavi di collegamento e di trasferimento dati da un computer all'altro serpeggiavano sul pavimento di legno. Le pareti della stanza erano sporche, macchiate da secoli di utilizzo e intonacate con pittura vecchia, piena di crepe e di ampie scrostature. Più lontano, in un angolo buio, Smith intravide una fila di sei brande militari. Quattro erano occupate. Scorse infatti dei piedi con le calze che sporgevano da sotto alcune coperte di lana ruvida. Ma almeno due uomini erano svegli e ancora immersi nel lavoro, nonostante l'ora. Uno, un tipo anziano coi capelli bianchi e una barba trasanda-
ta, era seduto davanti a una postazione da computer e stava digitando dei comandi sulla tastiera con dita velocissime. Varie immagini lampeggiavano, susseguendosi con vertiginosa rapidità sul monitor davanti all'uomo. L'altro indossava una cuffia radio ed era seduto su una sedia vicino a una delle apparecchiature da telecomunicazioni satellitari. Si sporgeva un po' in avanti, ascoltando attentamente i segnali che gli arrivavano in cuffia e, di tanto in tanto, effettuava alcune regolazioni strumentali agendo sui comandi. Era più giovane del suo collega, e senza barba; gli occhi marrone scuro e la pelle olivastra in qualche modo suggerivano le terre assolate dell'Europa meridionale. Era forse spagnolo? O italiano? Jon si riscosse. Spagnolo, italiano o del Bronx... che importanza aveva? Il Lazarus Movement reclutava i suoi attivisti in ogni Paese del mondo. Al momento, una sola cosa era importante: non sarebbero riusciti a penetrare al 18 di Rue de Vigny inosservati. Almeno non a quel piano. Smith guardò in basso, esaminando la fila di finestre dalle quali non proveniva nessuna luce. Tutt'a un tratto, con la coda dell'occhio, scorse un barlume di movimento all'interno della stanza. Vide l'uomo dai capelli bianchi con la barba sfatta ruotare sulla poltroncina girevole, voltando le spalle alla tastiera, e alzarsi. Parve sorpreso, ma non eccessivamente allarmato, quando altri quattro uomini entrarono in fila nella lunga sala da una stretta porta ad arco. Smith osservò attento la scena. I quattro nuovi arrivati erano uomini dall'espressione dura, vestiti con abiti scuri, con pesanti sacche da viaggio in spalla. Due impugnavano la pistola. Un terzo aveva un fucile a pompa appoggiato nella piega di un braccio. Il quarto gorilla, molto più alto degli altri ed evidentemente il capo della squadra, impartì un ordine brusco ai suoi sottoposti. Gli altri tre si separarono immediatamente. Ognuno si portò verso una zona diversa della sala. Il tipo erculeo dai capelli castani lanciò un'occhiata fugace alla fila di finestre e poi si allontanò. Con una sinistra grazia fluida, estrasse una pistola dalla fondina ascellare. Jon sbarrò gli occhi d'istinto, sbalordito e incredulo. Un brivido di terrore gli percorse la colonna vertebrale. Aveva già visto quella stessa faccia e quegli stessi occhi sorprendentemente verdi... solo sei giorni prima. Appartenevano al capo della cellula terroristica che lo aveva quasi ucciso in un corpo a corpo col coltello, fuori dal Teller Institute. Impossibile!, pensò con espressione disperata. Assolutamente impossibile! Come poteva un uomo interamente consumato da uno sciame di nanofagi assassini resuscitare dalla tomba?
Capitolo 42 Nones si girò verso Willem Linden, dando le spalle alle finestre. Lentamente, alzò la pistola e prese di mira il suo bersaglio. Quindi fece scattare la levetta della sicura con il grosso pollice. L'olandese dai capelli candidi fissò l'arma puntata dritta alla sua fronte. Impallidì di colpo. «Cosa sta facendo?» balbettò. «Questa è la sua indennità di licenziamento. I suoi servigi non sono più richiesti» gli disse Nones senza giri di parole. «Ma "Lazzaro" la ringrazia per il lavoro svolto a suo favore. Addio, Herr Linden.» Il terzo membro degli «Orazi» attese quanto bastava per vedere l'inorridita comprensione trapelare dagli occhi dell'anziano tecnico. Poi premette il grilletto due volte e sparò due colpi a bruciapelo in testa all'uomo. Sangue, frammenti di ossa e materia cerebrale volarono fuori dalla parte posteriore del cranio perforato di Linden, impiastricciando il muro. L'uomo morto si accasciò e cadde scomposto sul pavimento. In quello stesso istante, un colpo di fucile risuonò nell'angolo in penombra della sala, seguito subito dopo da una seconda e poi da una terza detonazione. Nones lanciò uno sguardo in quella direzione. Uno dei suoi tre uomini aveva appena finito di massacrare i quattro membri della squadra di sorveglianza elettronica che stavano dormendo. Intrappolati nelle loro brande, erano stati una facile preda. Esplose a meno di tre metri di distanza da ciascuno, tre cartucce calibro 12 piene di pallettoni li avevano ridotti in pietosi brandelli di carne lacerata e ossa spappolate. Il tipo erculeo udì un improvviso gemito di paura soffocato alla sua sinistra. Si girò di scatto da quella parte e vide il membro più giovane dell'équipe di Linden, il portoghese addetto alle comunicazioni che si chiamava Vitor Abrantes, alzarsi barcollando dalla sua sedia. Abrantes si strappò freneticamente la cuffia radio dalla testa, ma era ancora collegato al trasmettitore satellitare con un lungo e contorto tratto di cavetto audio. Nones sparò due volte in movimento. Il primo proiettile da 9mm colpì il giovane nella parte alta del torace, il secondo penetrò nella spalla sinistra che gli fece fare un giro completo su se stesso. Terreo in volto per lo choc, Abrantes si rovesciò all'indietro sopra il trasmettitore. Gemendo, scivolò sul pavimento e restò seduto a ghermirsi con una mano la spalla ferita. Corrucciato per il modo approssimativo in cui aveva sparato, Nones avanzò di un passo verso l'uomo ferito, alzando di nuovo la pistola. Questa
volta avrebbe mirato con maggior precisione. Puntò l'arma e fissò il mirino lungo la canna. L'indice gli si contrasse sul grilletto e cominciò a premerlo... Ma a quel punto, la finestra alle sue spalle esplose verso l'interno, frantumandosi in una nube tintinnante di taglienti schegge di vetro. Ancora appeso alla sua imbracatura e alla corda da alpinista che lo sorreggeva dall'esterno dell'edificio, Jon Smith vide che in quella stanza stava cominciando la mattanza a sangue freddo. Si rese conto, inorridito, che quei bastardi stavano uccidendo i loro stessi collaboratori, eliminando nodi irrisolti, prove, tracce e testimoni potenziali. Prove e testimoni che a lui servivano urgentemente. Travolto da un'ondata di furia cieca, reagì d'istinto, estraendo la sua SIG-Sauer dalla fondina, poi mirò direttamente al vetro. Tre colpi in successione rapida, sparati dall'alto in basso, sfondarono la finestra, spargendo frammenti di vetro e proiettili vaganti ad ampio arco all'interno della stanza. Prima ancora che le ultime schegge toccassero terra, Smith aveva già rinfoderato la pistola ed estratto da una piccola borsa allacciata alla coscia sinistra una delle due granate stordenti al magnesio. Con il pollice destro inguantato strappò l'anello di sicurezza, che saltò via. Smith lanciò il barattolo nero all'interno della lunga sala e fece leva con tutte le sue forze con i piedi sulla facciata del palazzo per allontanarsi in fretta e il più lontano possibile dalla finestra. Raggiunse il punto terminale dell'arco a pendolo, inarcando la schiena e piegandosi ulteriormente all'indietro e, dondolando sulla corda, tornò indietro verso la finestra sfondata, volando ancora più in fretta. E a quel punto la granata scoppiò, esplodendo in una raffica a fuoco rapido di lampi accecanti e di boati assordanti, intesi a stordire e a disorientare chiunque entro il raggio di portata dell'esplosione. Una densa nuvola di fumo ribollì in senso centrifugo dalla granata, turbinando all'impazzata in un'aria intorbidata dalle serie di crepitanti boati in continua successione. Jon entrò di volata dalla finestra. Atterrò pesantemente sul pavimento, si piegò subito su se stesso eseguendo una capriola e si gettò bocconi. Piccoli frammenti di vetro scricchiolarono sotto di lui. Estrasse di nuovo dalla fondina la SIG-Sauer, cercando già i bersagli umani attraverso il fumo e la foschia. Cercò per primo il gigante dagli occhi verdi. Sul pavimento di legno c'erano alcuni schizzi di sangue nel punto in cui il tipo erculeo si trovava
quando la finestra gli era esplosa alle spalle, ma non c'era altro. Il colosso dai capelli castani doveva essersi tuffato a terra in cerca di un riparo quando era esplosa la granata stordente al magnesio. Le tracce di sangue che si era lasciato dietro scomparivano oltre la porta ad arco. Dei passi affrettati rimbombarono scalpiccianti nelle vicinanze, dall'altra parte di un pesante tavolo. Smith si girò e vide uno degli altri killer armati arrivare a mezza corsa dalla nuvola di fumo che si stava diradando in fretta. Benché stordito dalle irritanti, snervanti raffiche di boati assordanti e di lampi accecanti della granata, l'uomo armato stringeva ancora la pistola in una presa a due mani. Ammiccando rapidamente per schiarire la vista, notò la testa di Jon che faceva capolino sopra il tavolo e si girò da quella parte, tentando di mirare nella sua direzione. Smith sparò due volte, colpendolo una volta al cuore e una volta alla gola. Il mercenario armato si piegò di scatto, crollò in avanti, morto prima ancora di toccare il pavimento. Jon tornò a ripararsi dietro il pesante tavolo e rotolò prontamente nell'altro senso, premendo senza esitazioni il pulsante di rilascio sull'imbracatura per staccare la corda da alpinista, sempre srotolata in scia alle sue spalle. La corda, ancora attaccata a lui, avrebbe ostacolato i suoi movimenti, inoltre sarebbe stato più facile per i suoi avversari individuarlo. Finalmente, riuscì a liberarsi della corda, sfilandola dal gancio di discesa frenata e sgattaiolò via sul vecchio pavimento di legno, tenendosi basso. Un avversario in meno. Contando il colosso, ne restavano altri tre. Dove si trovavano di preciso gli altri killer armati quando la granata era entrata a parabola dalla finestra? Particolare ancora più importante, dov'erano in quel momento? Jon si sporse oltre l'angolo di un tavolo e si trovò davanti il tecnico dai capelli bianchi riverso supino a terra. Fece una smorfia di disgusto alla vista dell'orrenda chiazza di sangue e altri resti del suo organismo che colavano fuori da sotto il cranio sbriciolato dell'uomo morto. Quel cervello crivellato da ben due proiettili aveva conservato fino a poco prima una mole di informazioni utili. Si trascinò oltre il cadavere, diretto verso l'angolo in penombra della lunga sala che aveva visto utilizzata come dormitorio improvvisato. Da qualche parte alle sue spalle, una pistola esplose tre colpi in successione rapida. Un proiettile gli fischiò sopra, a una spanna dalla testa. Un al-
tro strappò alcune schegge aguzze di legno dalla gamba di solido rovere del tavolo, vicino alla sua faccia. Il terzo proiettile da 9mm lo colpì alla schiena e poi rimbalzò via, deviato dal giubbotto antiproiettile rigido in kevlar che indossava. Fu come ricevere tra le scapole un tremendo calcio da un mulo imbizzarrito. Annaspando in cerca d'ossigeno in una bruciante ondata di dolore, cercando di risucchiare l'aria nei polmoni, che tutt'a un tratto gli sembravano come appiattiti da un rullo compressore, Smith si rigirò di scatto su un fianco. Altri due proiettili scheggiarono le assi del pavimento, proprio nel punto in cui lui si trovava fino a un attimo prima, e schizzarono via di rimbalzo dopo aver prodotto due grossi buchi di striscio. Smith si rannicchiò rapidamente, scalciando e rigirandosi all'indietro come un forsennato, cercando di vedere anche solo di sfuggita l'uomo armato che stava mirando nella sua direzione. Eccolo! Una sagoma umana si agitò leggermente nel suo campo visivo reso incerto dal dolore. Uno dei killer era inginocchiato dietro un tavolo a poco più di sei metri di distanza. Puntava con freddezza la pistola verso di lui. Jon rispose al fuoco all'impazzata con la SIG-Sauer, premendo il grilletto il più in fretta possibile. La pistola gli si sollevò leggermente tra le mani a causa del rinculo. I proiettili esplosi scheggiarono il tavolo e fracassarono l'attrezzatura da computer soprastante. Una pioggia di schegge di legno, di scintille, di frammenti di plastica fracassata e di metallo rotto volarono in aria. Spaventato, il mercenario si tuffò al riparo. Smith rotolò su se stesso sul pavimento, nel tentativo di trovare una barriera tra lui e l'uomo armato. Si fermò circa a metà di uno degli spazi di lavoro a U formati da tre tavoli accostati ad angolo retto e si arrischiò a lanciare un'occhiata nella direzione da cui era venuto. Niente. Poi alzò lo sguardo sul monitor che campeggiava sopra il tavolo di fronte a lui e, improvvisamente, il terrore lo paralizzò vedendo la propria morte riflessa nello schermo scuro e spento. Il terzo nemico armato si era alzato dallo spazio di lavoro a U successivo, e gli stava già puntando un fucile a pompa alla nuca. In equilibrio sul bordo del cornicione, Peter e Randi udirono l'improvvisa esplosione di colpi di arma da fuoco, videro il lampo accecante della granata al magnesio e poi assistettero impotenti all'acrobazia di Jon che si
lanciava all'interno del palazzo dondolandosi all'estremità della corda. Si scambiarono un'occhiata sgomenta. «Poveri noi! Alla faccia dell'astuzia e della discrezione!» mormorò Peter. L'inglese estrasse prontamente dal fodero la sua Browning Hi-Power e la impugnò con vigore. Altri spari risuonarono in un crescendo sempre più incalzante, echeggiando sui muri di mattoni e le facciate di pietra dei palazzi circostanti. «Andiamo!» brontolò in tono iroso Randi, che si era già lanciata nel vuoto e si stava calando veloce, in corda doppia, in una serie di brevi e rapidi saltelli. Peter la seguì a ruota, muovendosi a pari velocità ma a balzi più lunghi. Sapendo che era già troppo tardi e che l'indice del suo avversario armato stava già cominciando a premere il grilletto del fucile a pompa, Smith si girò di scatto, tentando di affrontarlo, di prendere a sua volta di mira il nemico. La scarica di adrenalina che gli si diffuse quasi istantaneamente nel sistema cardiocircolatorio parve rallentare il tempo, allungando quell'incubo un attimo prima che una grandinata di pallettoni calibro 12 gli facesse saltare il cervello... E in quell'istante, un'altra finestra esplose verso l'interno, infranta da numerosi proiettili da 9mm sparati a bruciapelo. Colpito diverse volte al torace, al collo e alla nuca, l'uomo col fucile a pompa barcollò di lato, perse l'equilibrio e infine crollò di schianto sopra un tavolo. Il fucile a pompa gli sfuggì dalle dita inermi e cadde sbatacchiando sul pavimento. Prima Randi e poi Peter entrarono dalla finestra infranta, dondolando come trapezisti sulle rispettive corde da alpinista, e atterrarono sul pavimento. Con abile rapidità, si sganciarono dalle corde e presero subito posizione ai due lati di Smith, scrutando la sala lunga e stretta in cerca di segni di movimento. Smith sorrise debolmente, ancora scosso dal pericolo mortale scampato per un soffio. «Lieto che ce l'abbiate fatta» sussurrò. «Cominciavo a pensare che avrei dovuto sbrigarmela da solo.» «Idiota» mormorò Randi di rimando. Ma dal suo sguardo trapelava un affetto inequivocabile. «Non mi sono mai perso una bella festa» disse Peter sottovoce. «Quanti ce ne hai lasciati?» «Uno di sicuro» ribatté Smith. Indicò con un cenno del capo il fondo della sala. «È al riparo da qualche parte laggiù. Credo invece che un altro
bastardo, il capo della banda, se la sia già filata da quella porta ad arco.» Peter fissò Randi. «Mostriamo al nostro amico dottore come agiscono i veri professionisti?» Peter si rivolse a Smith. «Tieni sotto tiro la porta, Jon.» Poi prese dalla borsa tattica allacciata alla coscia una granata stordente al magnesio, strappò l'anello e tenne fermo lo spillo a cucchiaino con il pollice. «Cinque. Quattro. Tre. Due...» Peter si alzò leggermente sul busto e scagliò la granata al di sopra del tavolo. L'ordigno volò attraverso la sala in una lieve parabola allungata, sparì dalla vista ed esplose. Una nuova nuvola di fumo bianco ribollì nella stanza, illuminata dall'interno da una serie di accecanti lampi, simili agli effetti di uno stroboscopio. Randi si era già messa in movimento, e correva avanti, tenendosi molto bassa. La sua attenzione fu attirata dalla fugace visione di una sagoma più scura che si muoveva nel fumo e si tuffò prontamente sul pavimento. Il mercenario superstite barcollò verso di lei. Randi premette due volte il grilletto della Beretta e osservò l'avversario crollare sul pavimento. L'uomo si dibatté per poco, scosso dagli ultimi fremiti di vita, e giacque immobile, fissandola dal basso con occhi vitrei e senza vita. Randi restò bocconi qualche secondo ancora, in attesa che il fumo e la foschia biancastra si dissipassero. «Via libera da questa parte!» gridò ai compagni quando riuscì a vederci abbastanza bene da esserne sicura. «Controlla in giro se c'è qualcuno ancora vivo» le suggerì Smith, rimettendosi faticosamente e dolorosamente in piedi. Lanciò poi un'occhiata a Peter. «Nel frattempo, penso che io e te dovremmo inseguire quell'altro stronzo di un gigante.» «Quello che hai detto che se l'è svignata fuori da quella porta?» Smith annuì con espressione lugubre. «Esatto.» E spiegò all'amico l'inquietante rassomiglianza tra l'omone dagli occhi verdi che aveva visto lì e il capo dei terroristi alla cui morte aveva assistito nel New Mexico. Peter emise un fischio di meraviglia. «Che sgradevole coincidenza.» «Non credo affatto che sia una coincidenza» osservò Smith, meditabondo. «Probabilmente no» convenne Peter. L'inglese sembrava turbato. «Ma dobbiamo fare in fretta, Jon. Al momento i francesi possono anche avere schierato la maggior parte delle forze di polizia alla periferia di Parigi, ma tutto questo baccano attirerà di certo la loro attenzione.» Con le armi in pugno e pronte all'uso, i due agenti avanzarono con cautela verso la stretta porta ad arco. Smith indicò in silenzio le tracce di sangue
sul pavimento. Le grosse gocce, qualcuna estesa a macchia, conducevano diritte verso la porta spalancata. Peter annuì per segnalare di aver capito: stavano inseguendo un uomo ferito. Smith si fermò a un passo dalla porta, a ridosso del muro. Si sporse leggermente dallo stipite e guardò fuori, vedendo parte di un pianerottolo dal pavimento in mattonelle bianche e nere, chiuso da una ringhiera in ferro battuto che arrivava alla vita. Le macchie di sangue proseguivano oltre il pianerottolo, dirette verso l'ampia scala di marmo che scendeva ai piani sottostanti del palazzo. Il tipo erculeo a cui stavano dando la caccia forse stava solo scappando! Deciso a non lasciarselo sfuggire, Jon si lanciò di scatto in avanti di corsa, varcando la soglia della porta ad arco spalancata, ignorando l'urlo allarmato di avvertimento di Peter. Troppo tardi, Jon si rese conto che le tracce di sangue finivano bruscamente due gradini più in basso. Sbarrò gli occhi. A meno che, in qualche modo, avesse imparato a volare, il colosso dagli occhi verdi doveva aver fatto dietrofront. Smith venne scagliato con violenza di lato. Perdendo del tutto l'equilibrio, cadde a terra e scivolò malamente sul pavimento del pianerottolo, andando a urtare con la spalla la ringhiera in ferro battuto. La SIG-Sauer gli sfuggì di mano e slittò via sul pavimento di piastrelle. Per un istante, Jon guardò oltre la ringhiera il vuoto sottostante. Intontito e nauseato dall'impatto, udì un improvviso urlo attutito, poi vide Peter oltrepassarlo di slancio, in caduta libera. L'inglese rotolò a gambe all'aria oltre l'ampio bordo delle scale. Scomparve di vista in un acciottolio di attrezzature sbatacchianti che rotolavano dappertutto. Con un sorriso crudele dipinto sul volto, il gigante dai capelli castani si girò di nuovo verso Smith. La sua faccia, scorticata dai frammenti e dalle affilate schegge di vetro della finestra, era una maschera di sangue rosso vivo. Un'orbita era vuota, devastata da una ferita tremenda, ma l'altro occhio verde brillava di ferocia e odio. Jon si rimise subito in piedi, freddamente consapevole del pauroso salto nel vuoto che aveva proprio alle spalle. Con rapidità, estrasse il pugnale da combattimento che aveva nel fodero allacciato al cinturone. Si abbassò in posizione d'attacco, tenendo la lama puntata in avanti e di fianco a sé. Imperturbato alla vista del pugnale, l'uomo massiccio lo affrontò con audacia. Le sue enormi mani si mossero in piccoli cerchi ingannevolmente lenti mentre avanzava, pronto ad attaccare e a colpire, con tutta la sua bru-
talità, a storpiare e poi a uccidere. Il suo sorriso bieco si fece quasi raggiante. Socchiudendo gli occhi, Smith lo osservò venirgli più vicino. Ancora un piccolo passo, gran figlio di puttana, pensò. Deglutì a vuoto, con la gola secca, reprimendo una crescente sensazione di paura alla vista dell'implacabile avvicinarsi del suo poderoso avversario. Non si faceva nessuna illusione riguardo all'esito probabile di un'intensa lotta corpo a corpo contro quell'uomo. Perfino accecato per metà, il suo avversario era molto più alto, decisamente più forte e molto più esperto nel combattimento a mani nude. Il colosso dai capelli castani gli lesse in faccia la paura. Rise sguaiatamente e si scrollò via dell'altro sangue prima che gli colasse nell'occhio ancora sano. «Cosa c'è? Non hai il fegato per batterti senza una pistola in mano?» domandò quasi sottovoce in un tono cinico di scherno. Rifiutandosi di farsi pungolare a prendere un'iniziativa prematura, Jon restò immobile, pronto a reagire come un fulmine e ad approfittare di qualsiasi occasione favorevole. Mantenne lo sguardo fisso nell'occhio sano del suo avversario, consapevole che gli avrebbe in qualche modo telegrafato in anticipo qualsiasi mossa che non fosse una finta. L'occhio verde emise un lampo di luce all'improvviso. Ci siamo!, pensò Jon. Smith restò in guardia. Muovendosi con terrificante velocità, il colosso ruotò su se stesso ad arco stretto, mirando con un gomito, con rapidità fulminea, il volto di Smith, che piegò di lato il capo appena in tempo. La gomitata fatale lo mancò di qualche millimetro. Smith parò un altro colpo poderoso con l'avambraccio sinistro. Gli si annebbiò momentaneamente la vista per il dolore e sentì saltare i punti alla ferita all'avambraccio. Il massiccio impatto lo fece barcollare all'indietro fino a urtare la ringhiera. Ansimando forte, si abbassò ancora di più sulle ginocchia. Con un ghigno diabolico, l'uomo dai capelli castani tornò all'attacco. Con una mano si tenne pronto a parare qualsiasi fendente del pugnale. L'altra mano, chiusa a pugno, si ritrasse leggermente, preparandosi a sferrare un altro colpo: un pugno che avrebbe scaraventato Smith oltre la ringhiera, facendolo precipitare nel vuoto delle scale, o che gli avrebbe sfondato il cranio. Jon invece scelse di lanciarsi avanti in un affondo, contrattaccando e tuffandosi sotto le gambe divaricate del gigante. Poi roteò rapidamente, si gi-
rò di scatto, e si rimise in piedi giusto in tempo per affrontare un'altra serie di attacchi: una scarica di colpi di taglio e di pugni che parò, seppure con fatica, con la mano sinistra ed entrambi gli avambracci. La forza di quei colpi lo fece sbattere contro il muro e lo lasciò senza fiato. Disperatamente, contrattaccò con il pugnale, vibrando alcuni fendenti micidiali che costrinsero il suo avversario ad arretrare: non di tanto, solo di pochi passi, ma quanto bastava per obbligarlo ad appoggiarsi alla ringhiera. Ora o mai più!, si disse Smith. Con un urlo selvaggio, prese l'ultima granata stordente al magnesio e la scagliò con tutta la forza che gli restava direttamente in faccia al killer. Reagendo d'istinto, l'omone tentò di ripararsi parando l'innocua granata con entrambe le mani, nel tentativo di deviarne la traiettoria, scoprendosi malamente per la prima volta. In quell'unica frazione di secondo, congelata nel tempo quasi al rallentatore, Jon si tuffò in avanti in un affondo, colpendo di punta con il pugnale da combattimento. Solo la punta della lama affondò proprio al centro dell'occhio verde, ancora vedente, del gigante, ma bastò. Sangue e siero sgorgarono dalla nuova, terribile ferita. Del tutto accecato, il colosso dai capelli castani lanciò un urlo disumano di rabbia e di dolore. Mulinò le braccia con violenza, disperatamente, alla cieca, colpendo il polso armato di Jon e facendogli sfuggire il pugnale dalla mano. Poi barcollò in avanti con le braccia spalancate, in un ultimo tentativo di intrappolare il suo invisibile avversario in un abbraccio e stritolarlo a morte. Muovendosi come un fulmine, Jon si abbassò sotto quelle massicce braccia tese e sferrò un pugno poderoso alla gola del gigante, schiacciandogli la laringe. Poi si ritrasse di nuovo, ben deciso a tenersi al sicuro alla larga da lui. Rantolando, ansimando forte, annaspando in cerca d'ossigeno ormai impossibile da inspirare nei polmoni, il gigante scivolò lentamente in ginocchio. Sotto il sangue che colava, la sua pelle stava diventando violacea. Disperato, allungò un'ultima volta un braccio in avanti, tentando ancora di colpire l'uomo che lo aveva ucciso. Poi il braccio si abbassò di colpo. L'uomo si accasciò sul pavimento e rotolò di fianco, restando supino, immobile, con le orbite vuote a fissare ciecamente il soffitto. Esausto, Smith si lasciò a sua volta cadere sulle ginocchia. Da qualche parte, a uno dei piani sottostanti, una nuova scarica di armi
da fuoco risuonò all'improvviso, echeggiando verso l'alto nella tromba delle scale. Smith si rimise in piedi barcollando, raccolse in tutta fretta la pistola nel punto in cui era caduta sul pavimento e corse verso la sommità delle scale. Vide Peter risalire i gradini arrancando faticosamente e zoppicando un po'. «Mi sono fatto male in un capitombolo infernale, Jon» spiegò l'agente inglese, vedendo la sua faccia costernata. «Però sono riuscito a non farmi sfuggire di mano la mia fedele Browning.» Peter accennò un sorriso doloroso. «E meno male. Perché vedi, poi mi sono imbattuto in un altro paio di quei bastardi che stavano salendo dal piano terra.» «Immagino che adesso non ci disturberanno più, eh?» osservò Smith. «Non in questa vita, almeno» convenne Peter con sagace ironia. «Jon! Peter! Venite qui! Presto!» I due amici si voltarono al suono della voce di Randi, che li richiamava urgentemente. Si affrettarono a tornare nella lunga sala. L'agente della CIA era accovacciata accanto a uno dei corpi stesi a terra. Alzò gli occhi e li guardò, stupita. «Quest'uomo è ancora vivo!» Capitolo 43 Con Peter alle calcagna, Smith si affrettò ad affiancarsi a Randi, poi si accovacciò a esaminare il solitario superstite. Era il giovane che aveva visto dalla finestra quando ancora non era scoppiato il finimondo, quello che ascoltava le comunicazioni radiotelefoniche e si occupava dell'apparecchiatura da telecomunicazioni satellitari. Era stato colpito da due proiettili, uno alla spalla e l'altro al torace. «Vedete cosa si può fare per questo poveretto» suggerì Peter. «Scoprite cosa sa. Nel frattempo faccio una ricognizione per vedere se riesco a trovare altri indizi in tutto questo caos.» Peter si allontanò e cominciò la ricerca metodica di prove utili, perquisendo i cadaveri, controllando l'apparecchiatura elettronica e le altre attrezzature che potevano essersi salvate nella sala crivellata di proiettili. Smith intanto si era già tolto un guanto e stava controllando le pulsazioni sul collo del ferito. Il battito cardiaco c'era ancora, ma era debolissimo e accelerato. La pelle del giovane era anche di un pallore cadaverico, fredda e umida al tatto. Aveva gli occhi chiusi e respirava con brevi ansimi affannosi e rantolanti. Smith lanciò un'occhiata a Randi. «Alzagli i piedi di qualche centimetro
dal pavimento» le disse sottovoce. «È sotto choc ipovolemico da trauma violento.» Randi annuì e alzò leggermente i piedi del ferito. Per tenerli sollevati ricorse a un grosso manuale di informatica, che prese dal tavolo più vicino e fece scivolare con delicatezza sotto i polpacci. Lavorando con rapidità e cura, Smith esaminò le ferite riportate dal giovane tecnico, liberandolo in parte degli indumenti per vedere bene da vicino i vari fori d'entrata e d'uscita dei proiettili. Aggrottò le sopracciglia. Sulla spalla sinistra, frantumata dal proiettile, la ferita era abbastanza grave. Molti chirurghi avrebbero optato per un'immediata amputazione del braccio. Ma l'altra ferita era di gran lunga peggiore. Jon si rabbuiò in volto quando verificò meglio l'entità e l'estensione della ferita al torace nel punto d'uscita del proiettile, sulla parte alta della schiena, esattamente tra le scapole. Viaggiando alla velocità del suono, il proiettile da 9mm aveva inflitto gravi danni penetrando nel torace: frantumazione delle ossa, lacerazione di vene e vasi sanguigni e distruzione dei tessuti vitali in un'area ancora più vasta di quella circostante il punto d'entrata. Jon fece quel poco che poté. Prima di tutto estrasse da una delle tante tasche del suo giubbotto da combattimento un piccolo kit di pronto soccorso da campo. Tra le altre cose, conteneva due fogli di plastica speciale arrotolati in un sacchetto sterile. Strappò la confezione con i denti, srotolò i pezzi di plastica e poi li premette forte sui due fori, d'entrata e d'uscita, sul torace e sulla schiena del giovane, in modo tale che l'aria non penetrasse nelle ferite. Dopodiché, fissò con del cerotto sanitario delle compresse di garza sterile sopra la plastica, per limitare al minimo l'emorragia. Alzò gli occhi e scoprì che Randi lo stava osservando. L'amica della CIA inarcò un sopracciglio in una domanda inespressa. Smith scosse lentamente il capo. Il giovane ferito stava morendo. Gli sforzi di Smith avrebbero solo rallentato il processo, ma non lo avrebbero tenuto in vita. C'erano troppe lesioni interne e l'emorragia era impossibile da tamponare. Anche se fossero riusciti a portarlo nella sala operatoria di un pronto soccorso ospedaliero nel giro di pochi minuti, tutto sarebbe stato vano. Randi sospirò. Poi si alzò dal pavimento. «Allora vado anch'io a fare un altro giro d'ispezione» disse. Quindi tamburellò un dito sull'orologio. «Non attardarti troppo, Jon. Ormai, di sicuro, qualcuno nel quartiere avrà avvisato la polizia per le detonazioni. Max ci segnalerà immediatamente se intercetta qualcosa di significativo sulle frequenze della polizia, ma dobbiamo
filarcela molto prima che piombino qui.» Smith annuì. Il giorno dopo la scoperta della guerra segreta di Hal Burke e Kit Pierson contro il Lazarus Movement, l'arresto di un ufficiale dell'esercito americano in servizio attivo e di un agente della CIA nella sede parigina dello stesso movimento - crivellata di proiettili e cosparsa di cadaveri - avrebbe solo confermato i sospetti dei paranoici teorici della cospirazione. Randi gli lanciò un portafogli macchiato di sangue. «Questo gliel'ho trovato in una tasca» disse. «Il documento d'identità potrebbe essere falso, immagino. In questo caso però sarebbe una contraffazione magistrale.» Smith aprì il portafogli. Conteneva una patente di guida internazionale rilasciata a nome di un certo Vitor Abrantes, residente a Lisbona, in Portogallo. Abrantes. Jon pronunciò il cognome a voce alta. Gli occhi del moribondo batterono rapidamente e si socchiusero. Ormai era cinereo. «Sei portoghese?» chiese Smith. «Sim. Sì. Eu sou Portuguese.» Abrantes annuì debolmente. «Conosci chi ti ha sparato?» domandò Smith, scandendo bene le parole. Il giovane portoghese rabbrividì. «Nones» bisbigliò. «Uno degli "Orazi".» Gli «Orazi»?! Smith si scervellò su quella rivelazione. La parola, che gli ricordava qualcosa degli antichi Romani, gli fece suonare un campanello da qualche parte nei recessi della mente. Pensò che fosse qualcosa che aveva visto o sentito proprio lì a Parigi anni prima, ma non riusciva a ricordare con chiarezza. Per il momento, almeno. «Jon!» chiamò Randi in tono agitato. «Vieni a dare un'occhiata a questo!» Smith alzò lo sguardo dal ferito. Randi era in piedi davanti al computer dove Jon aveva visto lavorare l'uomo dai capelli bianchi. L'agente della CIA orientò il monitor verso di lui. Bloccatosi su chissà quale difetto di programma, il computer stava ripetendo a ciclo ininterrotto la stessa sequenza di immagini: uno spezzone di strade gremite di pedoni, apparentemente registrato e trasmesso da un velivolo che sorvolava la zona a bassa quota. Tre parole lampeggiavano in lettere rosse nell'angolo inferiore destro del monitor: DIFFUSIONE NANOFAGI INIZIATA. «Mio Dio!» esclamò Smith, rendendosi subito conto della gravità della situazione. «Hanno contaminato La Courneuve dal cielo.» «Così sembra» concordò Randi in tono tetro. «Suppongo che sia il me-
todo più semplice ed efficace. Meglio che piazzare quelle armi terrificanti nel terreno.» «Molto più efficace» confermò Smith, riflettendo in fretta. «Disperdere i nanofagi a una certa quota evita di affidarsi solo al vento o alla pressurizzazione interna di un edificio per diffondere la nube. In questo modo, si ha un maggiore controllo e si è in grado di contaminare un'area molto più estesa con la stessa quantità di nanodispositivi.» Smith rivolse di nuovo l'attenzione ad Abrantes. Il giovane era in fin di vita, a malapena conscio di dove si trovava e in presenza di chi. Con un po' di fortuna, forse, ormai moribondo, avrebbe chiarito alcune questioni, alle quali sicuramente poco prima non avrebbe risposto. «Perché non mi parli un po' dei nanofagi, Vitor?» lo pungolò Jon in tono suadente. «Qual è il loro vero scopo?» «Non appena i nostri esperimenti saranno completati, i nanofagi purificheranno il mondo» dichiarò il giovane morente, tossendo subito dopo. Bolle di sangue gli si formarono tremolanti a un angolo della bocca, ma nei suoi occhi brillava ancora una luce di puro fanatismo. Con estrema fatica riprese a parlare. «Renderanno nuove tutte le cose. Libereranno la Terra da un contagio. La salveranno dal flagello di un'umanità ribelle.» Quando la piena consapevolezza di quello di cui Abrantes stava parlando gli giunse nella parte razionale del cervello, Smith provò un brivido d'orrore che lo percorse da capo a piedi. Le stragi al Teller Institute e a La Courneuve erano state dei semplici esperimenti. Il che significava che gli eccidi di migliaia di persone erano stati programmati fin dall'inizio come semplici prove pratiche, come test per valutare e affinare sempre più l'efficacia dei nanofagi assassini al di fuori dei confini sterili e limitati di un laboratorio scientifico. Smith fissò inebetito le immagini che si ripetevano in continuazione sul monitor della postazione computerizzata. I nanofagi non erano soltanto un'altra arma micidiale, l'ennesimo strumento di guerra o di terrorismo: rappresentavano qualcosa di ancora più grave. Erano stati progettati come strumenti di genocidio: un genocidio pianificato su una scala senza precedenti nella storia umana. Jon si sentì ribollire di furia cieca. Il pensiero che qualcuno potesse rallegrarsi di fronte all'attuazione di uno sterminio crudele e disumano come quello che aveva avuto modo di vedere con i suoi occhi fuori dal Teller Institute scatenò in lui una sensazione di rabbia esplosiva, come non aveva mai provato in vita sua. Tuttavia, per carpire l'informazione essenziale di
cui avevano urgente bisogno, era di vitale importanza che quel giovane portoghese udisse una voce amica: la voce di qualcuno che condivideva le sue stesse, folli convinzioni. Con questo chiodo fisso in testa, Jon si sforzò di padroneggiare le emozioni che lo avevano momentaneamente sconvolto. «Chi comanderà questo processo di... purificazione, Vitor?» domandò in tono mite e accomodante. «Chi rifarà il mondo?» «"Lazzaro"» rispose semplicemente Abrantes. «"Lazzaro" riporterà la vita dal suo sepolcro di morte.» Smith si accasciò, affranto. Un'immagine terribile e spaventosa stava prendendo forma nella sua mente. Era l'immagine di un burattinaio senza volto che stava freddamente mettendo in scena il dramma della sua maniacale creazione personale. Un istante prima «Lazzaro» denunciava la nanotecnologia come un pericolo per l'umanità e un istante dopo travisava quella stessa tecnologia per i suoi perversi scopi personali, utilizzandola per sterminare perfino i suoi stessi devoti seguaci, come se fossero delle semplici cavie da laboratorio. Con una mano manipolava degli agenti della CIA, dell'FBI e del MI6, convincendoli a condurre una guerra segreta contro il Lazarus Movement, di cui egli stesso aveva il controllo totale, mentre con l'altra rivolgeva quella stessa guerra illegale contro di loro, rendendo i suoi nemici ciechi, sordi e muti proprio nel momento più cruciale. «E dove si trova quest'uomo che chiami "Lazzaro"?» domandò Smith. Abrantes non disse nulla. Trasse un breve respiro affannoso e poi cominciò a tossire convulsamente, vomitando sangue, incapace di liberare i polmoni. Stava soffocando nel suo stesso sangue. Smith lo sapeva bene. Con prontezza, girò di lato il capo al giovane moribondo, liberando per il momento un passaggio per l'aria di cui era affannosamente in cerca. Rivoli di sangue rosso vivo gocciolarono dalla bocca contratta del portoghese. L'accesso di tosse si placò adagio. «Vitor! Dov'è "Lazzaro"?» ripeté Smith in tono incalzante. Randi lasciò perdere il computer che stava esaminando e tornò al suo fianco. Restò in piedi ad ascoltare attentamente. «Os Açores» sussurrò Abrantes. Tossì ancora una volta e sputò altro sangue sul pavimento. Infine trasse un altro breve respiro rantolante. «O console do sol. Santa Maria.» Questa volta lo sforzo fu eccessivo. A un tratto, il giovane moribondo si dibatté spasmodicamente, sconvolto da un altro, torturante parossismo. Quando passò, era morto. «Era una preghiera?» domandò Randi. Smith corrugò la fronte. «Se lo era, dubito che sarà adempiuta.» Jon fis-
sò il corpo accasciato sul pavimento e poi scosse il capo. «Ma penso che stesse cercando di rispondere alla domanda che gli avevo fatto.» A una decina di metri di distanza, Peter si accovacciò accanto al cadavere del mercenario ucciso da Randi. Rovistò nelle tasche del morto e trovò un portafogli e un passaporto. Controllò rapido il passaporto, annotando mentalmente i visti apposti più di recente: Zimbabwe, Stati Uniti e Francia, in quest'ordine cronologico, e tutti nelle ultime quattro settimane. I suoi occhi di un azzurro chiarissimo si ridussero a due fessure mentre rifletteva. Un particolare davvero rivelatore, pensò a mente fredda. Si mise in tasca i documenti e passò a ispezionare una grossa borsa da viaggio che aveva notato prima. La semplice, dozzinale sacca di tela verde era in disparte, in un angolo poco distante. E adesso che ci ripensava, era identica d'aspetto a due altre borse da viaggio rigonfie che aveva visto abbandonate lungo la sala. Peter aprì la cerniera lampo, sollevò la falda e guardò dentro. Trasalendo, completamente senza fiato, restò immobile a fissare i grossi panetti da sessanta centimetri di esplosivo al plastico avvolti insieme. Erano collegati con un cavo elettrico a un detonatore e a una comune sveglia digitale. Semtex di fabbricazione ceca o C4 di produzione americana, decise, con un timer improvvisato. In ogni caso, Peter capì subito che c'era abbastanza plastico nell'ordigno da causare un'esplosione infernale. Proprio in quel momento notò che i numeri sulla sveglia digitale stavano lampeggiando, diminuendo costantemente verso lo zero in un classico conto alla rovescia. Capitolo 44 Casa Bianca, Washington, D.C. «L'ambasciatore Nichols al telefono, signore» annunciò in tono deferente il cameriere della Casa Bianca. «Sulla linea di sicurezza.» «Grazie, John» disse il presidente Samuel Castilla, spingendo da parte il piatto ancora intatto della sua cena. Con la moglie lontana e la crisi causata dalla situazione con il Lazarus Movement, che si aggravava sempre più con il passare delle ore, il presidente americano consumava i pasti in solitudine, di solito, come quella sera, su un vassoio nello Studio Ovale. Impugnò il telefono. «Cosa c'è, Owen?» Owen Nichols, l'ambasciatore degli Stati Uniti all'ONU, era uno dei più
fedeli alleati di Castilla. Erano amici dai tempi dell'università. Nessuno dei due si sentiva costretto ad attenersi alle cerimoniose formalità che le loro posizioni avrebbero richiesto. Nessuno dei due, inoltre, credeva nell'arte di addolcire le cattive notizie. «Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sta pervenendo a un voto finale sulla risoluzione inerente la nanotecnologia, Sam» esordì Nichols. «Prevedo che l'approvino entro un'ora.» «Così in fretta?» domandò Castilla, colto di sorpresa. L'ONU non agiva quasi mai in tempi così rapidi. L'organizzazione preferiva il consenso generale e le discussioni lunghe ed estenuanti, quasi interminabili. Aveva pensato che al Consiglio ci sarebbero voluti almeno un paio di giorni per giungere al voto finale per la risoluzione sulla questione nanotech. «Così in fretta» confermò Nichols. «Il dibattito è stato strettamente pro forma. Tutti sanno che si sono già raggiunti i voti necessari per far passare all'unanimità questa dannata risoluzione... a meno che gli Stati Uniti non pongano il veto.» «Che cosa sai dirmi del Regno Unito?» chiese Castilla, scioccato. «L'ambasciatore britannico, Martin Rees, sostiene che non può permettersi di opporsi al consenso internazionale su questa materia, specie dopo le rivelazioni secondo le quali il MI6 aveva stretti legami con questa guerra segreta contro il Lazarus Movement. Questa volta sono costretti a schierarsi contro di noi. Dice che al punto in cui è giunta la faccenda, la stessa permanenza al governo del primo ministro inglese è appesa a un filo.» «Maledizione!» borbottò Castilla. «Magari fossero solo queste le cattive notizie!» lo incalzò Nichols in tono rattristato. Il presidente strinse spasmodicamente la cornetta del telefono. «Continua.» «Rees ha voluto che mi pronunciassi su un'altra questione che gli è stata riferita dal ministero degli Esteri inglese. La Francia, la Germania e qualche altra nazione europea ci hanno preparato un'ennesima sgradevole sorpresa, lavorando sottobanco. Dopo che avremo posto il veto alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU sulla ricerca nanotech, intendono chiedere formalmente la nostra sospensione immediata da tutti i ruoli politici e militari che ricopriamo attualmente nella NATO... sulla base del sospetto che potremmo avvalerci delle risorse della NATO nella nostra guerra illegale contro il Lazarus Movement.» Castilla emise un sospiro, cercando di tenere a freno la collera che si sentiva ribollire dentro. «Gli avvoltoi stanno orbitando sulla carogna, mi
viene da dire.» «Proprio così, Sam» confermò Nichols in tono stanco. «Tra i massacri avvenuti nello Zimbabwe, a Santa Fe e a Parigi, e ora queste storie sugli omicidi sponsorizzati dalla CIA, il nostro buon nome all'estero vale quanto un fico secco. Perciò, per i nostri cosiddetti amici e alleati, questo è il momento ideale per farci a fettine.» Dopo aver interrotto la comunicazione con Nichols, Castilla restò seduto immobile per qualche minuto, con il capo chino sotto il peso di eventi che si succedevano, sui quali non aveva alcun controllo. Rivolse un'occhiata stanca all'elegante orologio a pendolo lungo una delle pareti ricurve del celebre studio presidenziale. Fred Klein gli aveva riferito che il colonnello Smith era sulle tracce di qualcosa di significativo a Parigi. Il presidente incurvò in basso gli angoli della bocca in una smorfia delusa. Poteva solo sperare che qualsiasi cosa Smith stesse cercando, risolvesse al meglio la situazione. E al più presto. Parigi Per una frazione di secondo più del dovuto, Peter restò fermo a fissare la carica di demolizione attivata, ammirando involontariamente l'ineccepibile meticolosità della parte avversa. Se si tratta di coprire le tracce, pensò, questa gente non si accontenta delle mezze misure. Dopo tutto, perché fermarsi a eliminare pochi potenziali testimoni quando si poteva anche radere al suolo l'intero palazzo? Il timer improvvisato scandì un altro secondo, proseguendo inesorabile il conto alla rovescia verso la fine prestabilita. L'inglese balzò in piedi e corse verso Randi e Jon, zigzagando tra i tavoli di lavoro e l'apparecchiatura elettronica crivellata di proiettili. «Fuori!» gridò, indicando le finestre. «Uscite subito!» Randi e Jon lo fissarono, chiaramente sconcertati dall'improvviso tono imperioso della sua voce. Peter si fermò in scivolata accanto ai due americani perplessi. «C'è almeno un dannato ordigno esplosivo attivato per far saltare in aria il palazzo... e forse anche più di uno!» spiegò in fretta, quasi inciampando sulle parole. Poi prese entrambi per una spalla e li sospinse verso le due finestre sfondate. «Forza! Se la fortuna è dalla nostra parte, abbiamo ancora a disposizione una trentina di secondi!» Finalmente, un'inorridita consapevolezza si dipinse sul volto di Randi e Jon.
Ognuno agguantò una delle tre corde da alpinismo ancora appese davanti alle finestre. «Non c'è tempo da perdere. Lasciate perdere le imbracature!» disse Peter. «Usate soltanto quella dannata corda!» Smith annuì. Salì con un salto sul davanzale di pietra della finestra, si passò la corda intorno alle anche, la fece scivolare in diagonale sulla schiena fin sopra la spalla opposta, la ripassò sulla stessa anca e poi lungo il braccio fino alla mano che avrebbe frenato la discesa. Peter e Randi lo seguirono a ruota, compiendo le stesse operazioni. «Pronti?» chiese Peter. «Pronti!» confermò Jon. Randi si limitò ad annuire. «Allora via! Via! Via!» Smith si sporse in fuori, si piegò di fianco verso terra e lasciò che la forza di gravità facesse la maggior parte del lavoro, calandosi velocemente lungo la facciata del palazzo a balzi enormi. Il suolo gli andò incontro a un ritmo vertiginoso. Sentiva odore di nylon e cuoio bruciato mentre la corda gli scorticava i guanti di pelle e avvertì un attrito rovente sull'anca e la spalla. Si accorse che Peter e Randi non avevano perso tempo a stargli dietro. Tutti e tre si stavano calando in contemporanea a grandi balzi sulla facciata esterna dell'edificio, alla massima velocità consentita dall'attrito delle corde. Quando calcolò di essere a cinque o sei metri dal vicolo acciottolato che passava dietro alla sede parigina del Lazarus Movement, Smith rinsaldò la presa della mano inguantata sulla corda e piegò lo stesso braccio sul petto, in un movimento rigido e rapido. Non voleva rischiare di schiantarsi a terra a quella velocità, e doveva frenare subito e in modo brusco. Si fermò quasi di colpo, restando penzoloni a poco più di tre metri dal suolo. In quell'istante, il rumore di una serie di terrificanti esplosioni sconquassò gli ultimi piani del palazzo che incombeva sopra di lui con la sua mole maestosa, propagandosi da un'estremità all'altra del 18 di Rue de Vigny, in una furia crescente di fiamme e di avvampante aria surriscaldata. Infernali lingue di fuoco dardeggiarono fuori da ogni finestra, bruciando la notte e trasformando il buio in un bagliore simile al giorno. Pezzi di ardesia e di pietra sbriciolata e altre macerie furono scagliati in alto dalle esplosioni in serie, illuminati dal basso dall'inferno che stava consumando la sede del Lazarus Movement. Smith sentì cedere la corda a cui era attaccato, strappata e sfilacciata dalla detonazione. Cadde al suolo, atterrò con un colpo secco e rotolò su se
tesso. Randi e Peter precipitarono a terra da due o tre metri di altezza accanto a lui. Si rimisero frettolosamente in piedi e se la diedero a gambe, lanciandosi di corsa nel vicolo oscuro e correndo il più veloce possibile, sbandando sull'acciottolato umido e liscio. Enormi pezzi di calcinacci e macerie stavano cadendo tutt'intorno, precipitando pesantemente sui tetti vicini e fracassandosi al suolo nel vicolo con forza distruttrice e assassina. Il trio sbucò a razzo dall'imbocco del vicolo e svoltò in un viale. Correndo ancora a rotta di collo, si lanciò nell'androne di una tabaccheria, in cerca di un riparo. Una nuova ondata di detriti incandescenti piovve dal cielo sui palazzi e le vie circostanti, producendo buchi nei tetti e crateri nel selciato, e appiccando una scia di nuovi focolai di incendi. Gli assordanti allarmi antifurto scattati sulle auto parcheggiate nelle strade, bombardate dalle macerie che cadevano come meteoriti, si aggiungevano allo spaventoso fragore che si levava dappertutto. «Qualcuno ha un'idea brillante da proporre?» disse Randi in tono affrettato. Tutti e tre udivano a tratti delle sirene in lontananza che si facevano sempre più vicine. «Dobbiamo abbandonare la zona e sparire dalla circolazione» osservò Smith in tono lugubre. «E alla svelta!» Jon guardò l'amica della CIA. «Puoi chiedere aiuto con la tua ricetrasmittente?» Randi scosse sconsolatamente il capo. «Si è rotta.» La donna si strappò dalla testa la minicuffia con espressione dispiaciuta. «Devo essere atterrata dritta sulla radio agganciata alla cintura quando le esplosioni hanno tranciato la corda. O almeno credo che sia andata così!» Una Volvo blu svoltò a ruote stridenti all'angolo d'uscita da Rue de Vigny. Accelerò rapidamente in sbandata nella loro direzione e proseguì rombando come per investirli. I tre furono inquadrati dai due fari accecanti, e le loro figure si stagliarono sullo sfondo della porta chiusa e sprangata della tabaccheria. Erano in trappola, senza via di fuga e senza un posto dove nascondersi. Smith si voltò stancamente, annaspando in cerca della SIG-Sauer, ma Randi gli bloccò il braccio e scosse la testa. «Che tu ci creda o no, Jon» disse in tono stupito «è uno dei nostri.» La Volvo inchiodò minacciosa, fermandosi a pochi passi da loro. Un finestrino elettrico si abbassò. I tre agenti videro la faccia esterrefatta di Max scrutarli con aria perplessa da dietro il volante. L'americano sorrise debolmente. «Ragazzi! Quando quel palazzo è saltato in aria... ho pensato che non vi avrei più rivisti... tutti d'un pezzo, almeno!»
«È il tuo giorno fortunato, Max» gli disse Randi. Poi salì in fretta al posto del passeggero, mentre Jon e Peter si gettarono sul sedile posteriore. «Dove si va?» chiese a Randi l'agente della CIA. «Per ora, ovunque tu ritenga opportuno» rispose Randi con efficace concisione. «Vedi solo di mettere quanta più distanza possibile tra noi e... quello!» Randi indicò con il pollice dietro di sé l'infuocata colonna di fiamme e di fumo che ruggiva alta nel cielo notturno. «Certo, capo» ribatté Max in tono tranquillo. Manovrò il volante, facendogli compiere un mezzo giro, e ripartì a tutta birra. Poi, tenendo d'occhio con prudenza lo specchietto retrovisore, si allontanò dalla zona a velocità non eccessiva ma costante. Quando i primi camion dei vigili del fuoco e le prime volanti della polizia giunsero alle rovine in fiamme del civico 18 di Rue de Vigny, i fuggiaschi erano già a un paio di chilometri di distanza, diretti verso la periferia di Parigi. La foresta di Rambouillet si estendeva a una cinquantina di chilometri circa a sudovest della capitale francese. Era una magnifica successione di boschi, laghi e antiche abbazie di pietra nascoste tra alberi secolari. Il sontuoso palazzo, con annesso lo splendido parco, del Château de Rambouillet sorgeva nel cuore di quell'ondulato terreno boschivo. Il castello in sé, risalente a oltre sei secoli prima, un tempo era stato la residenza di campagna di numerosi re francesi. Ora ospitava i presidenti della Repubblica francese. I margini settentrionali della foresta, però, erano molto lontani dalle glorie del castello ed erano trascurati e selvatici: un rifugio per branchi di timorosi cervi e caprioli e qualche cinghiale. Anguste stradine sterrate si smarrivano qui e là sotto gli alberi, fornendo libero accesso agli amanti della natura e a qualche occasionale guardia forestale. In una piccola radura, un poco discosta da una di queste rozze piste nel bosco, il tenente colonnello Jon Smith era seduto sul ceppo di un vecchio albero abbattuto, intento a fasciarsi di nuovo la ferita da coltello sull'avambraccio sinistro che si era riaperta. Terminata l'operazione, mise da parte il cerotto e la garza inutilizzata. Poi saggiò la nuova fasciatura protetta da una retina elastica medica, ruotando il braccio avanti e indietro per essere sicuro che avrebbe sopportato le tensioni di eventuali movimenti improvvisi. Smith era consapevole del fatto che la ferita avrebbe, prima o poi, avuto
bisogno di nuovi punti di sutura, ma se non altro quella fasciatura robusta avrebbe fermato gran parte della lenta emorragia. Indossò una camicia pulita, trasalendo leggermente quando il tessuto di cotone strusciò sopra le nuove abrasioni, i lividi e i muscoli indolenziti. Si alzò ed eseguì adagio qualche esercizio di stretching e di riscaldamento muscolare, sforzandosi di liberarsi un po' della fatica, che gli gravava soprattutto sulla mente esausta. Una mezzaluna era sospesa bassa sull'orizzonte a occidente, a malapena visibile sopra il tetto naturale della foresta circostante, ma un piccolo accenno di pallida luce grigia a oriente segnalava il lento approssimarsi dell'alba. Il sole sarebbe sorto tra un paio d'ore. Jon lanciò un'occhiata ai suoi compagni. Peter stava dormendo sul sedile anteriore della Volvo, approfittando di ogni momento libero per riposare, con l'agio esperto di un soldato veterano. Randi era in piedi vicino a una piccola Peugeot nera posteggiata all'estremità opposta della radura, e stava discutendo sottovoce con Max e un altro agente della CIA: un giovane di nome Lewis appena arrivato da Parigi per consegnarle l'abbigliamento borghese di cui tutti e tre avevano bisogno. Senza alcun dubbio, Randi stava anche dando disposizioni per far sparire in modo immediato e definitivo le tenute da combattimento, le armi e i vecchi indumenti: insomma, qualsiasi cosa potesse collegarli alla carneficina avvenuta all'interno dello stabile di Rue de Vigny. Nessuno era a portata d'orecchio. Smith levò di tasca il suo cellulare criptato, inspirò a pieni polmoni, e digitò sulla tastiera il codice numerico della sede centrale segreta della Covert-One. Fred Klein ascoltò in silenzio il rapporto di Smith sugli avvenimenti della notte non ancora conclusa. Quando Jon ebbe finito, il direttore della Covert-One emise un sonoro sospiro. «Sta seguendo uno stretto sentiero tra il disastro e la catastrofe più completa, colonnello, ma suppongo di non aver nulla da eccepire, visto il successo riportato.» «Spero proprio di no» disse Smith con schiettezza. «Mi farebbe pensare che è ingratitudine bell'e buona.» «È convinto che questo Abrantes le stesse dicendo la verità?» domandò Klein. «Sul rapporto tra "Lazzaro" e i nanofagi killer, intendo dire. E se avesse solo cercato di darle a bere un'altra pista fasulla? Tanto per tentare di mandarci alla carica nella direzione sbagliata?» «Non stava mentendo» disse Jon. «Quel ragazzo era in punto di morte, Fred. Per quel che ne sapeva, potevo benissimo essere la sua adorata non-
nina scesa dal cielo per accompagnarlo ai cancelli del paradiso. No, Vitor Abrantes mi ha detto la verità. Chiunque sia questo "Lazzaro" in realtà, è il bastardo che ha manovrato fin dall'inizio dietro le quinte tutti questi attentati. Di più: è l'astuto regista che ha gettato sabbia negli occhi di tutti, orchestrando entrambe le schiere di attori e attrici di questa guerra tra il Lazarus Movement, la CIA e l'FBI.» Dopo una lunga pausa, Klein alla fine chiese: «A che scopo, Jon?». «"Lazzaro" ha preso tempo» rispose Smith. «Gli serviva per effettuare i suoi perversi "esperimenti sul campo"; per analizzare i risultati e riprogettare i nanofagi, facendoli ancor più potenti e micidiali; e per sviluppare e valutare nuovi metodi di dispersione degli stessi sui suoi bersagli prescelti.» Smith fece una smorfia. «Mentre stavamo tutti brancolando nel buio, "Lazzaro" era tranquillamente assorbito dalla progettazione, dallo sviluppo e dalla sperimentazione di un'arma letale in grado di cancellare dalla faccia della Terra la maggior parte della razza umana.» «Prima a Kusasa nello Zimbabwe, poi al Teller Institute e ora a La Courneuve» enumerò Klein, rendendosi conto dello schema. «Tutte nazioni il cui visto compare sui passaporti e gli altri documenti di viaggio recuperati da Peter Howell.» «Esattamente.» «E ritiene che quest'arma sia pronta per l'uso effettivo?» domandò Klein senza scomporsi. «Assolutamente» dichiarò Smith. «Non c'era nessun'altra ragione perché "Lazzaro" ordinasse l'eliminazione fisica delle persone e la distruzione delle attrezzature e della sede parigina che stava usando per monitorare questi "esperimenti". Sta facendo piazza pulita... perché è pronto a colpire.» «Che cosa suggerisce di fare?» «Prima localizziamo "Lazzaro" e qualsiasi laboratorio o stabilimento utilizzato da quel pazzo furioso per produrre la sua arma nanotech, poi lo uccidiamo e sequestriamo le sue scorte di nanofagi killer, prima che vengano disperse su larga scala.» «Breve e conciso, colonnello» commentò Klein. «Ma non particolarmente astuto.» «Ha qualche proposta migliore?» Il direttore della Covert-One sospirò ancora. «No, non ne ho. Il problema sarà trovare "Lazzaro" prima che sia troppo tardi. E questa è un'operazione che nessun servizio segreto occidentale è riuscito a portare a termine in oltre un anno di tentativi.»
«Ritengo che Abrantes ci abbia rivelato più di quel che ci serve» argomentò Smith. «Il vero problema è che il mio spagnolo è alquanto mediocre, ma il mio portoghese è molto peggio. Praticamente zero. Mi occorre una traduzione chiara di quel che mi ha detto quando gli ho chiesto dove si trovava "Lazzaro".» «Posso trovare qualcuno per venire incontro alla sua lacuna linguistica» promise Klein. Il direttore della Covert-One allontanò per qualche secondo il ricevitore telefonico. Smith udì un piccolo scatto sonoro in sottofondo, dopodiché Klein tornò in linea. «Okay, siamo pronti a registrare, colonnello. Proceda pure.» «Ecco qua» disse Smith. Facendo uno sforzo di memoria, e cercando di essere sicuro di usare la stessa pronuncia che aveva sentito impiegare dal giovane in fin di vita, ripeté le ultime parole di Vitor Abrantes. «Os Azores. O console do sol. Santa Maria.» «Registrato. Nient'altro?» «Sì.» Smith si incupì. «Abrantes mi ha detto che gli aveva sparato un uomo che ha definito come "uno degli Orazi". Sono convinto di essermi già imbattuto in due di questi "Orazi": la prima volta fuori dal Teller Institute e ora qui a Parigi. Gradirei sapere qualcosa di più su quei bastardi dalle sembianze identiche... e soprattutto quanti altri ce ne possono essere in circolazione!» Klein disse: «Vedrò cosa riesco a scoprire, Jon. Ma per questa ricerca particolare forse ci vorrà un po'. Può fermarsi ancora nel luogo in cui si trova in questo preciso momento?». Smith annuì, guardandosi intorno. I maestosi alberi secolari erano avvolti nell'oscurità, bagnati da un chiaro di luna in via di lenta attenuazione. «Sì. Ma faccia più in fretta che può, Fred. Ho la sgradevole sensazione che il tempo stia correndo come un treno in questo brutto frangente.» «Intesi, colonnello. Tenga duro.» La linea cadde. Smith passeggiava avanti e indietro nella radura. Sentiva crescere dentro di sé una tensione insopportabile. Il suo sistema nervoso era al limite. Era trascorsa più di un'ora da quando Klein gli aveva promesso di richiamarlo. La luce grigia a est ora era molto più intensa. Il rumore improvviso di un'automobile lo riscosse. Girò i tacchi sorpreso e vide la piccola Peugeot nera che si allontanava, sobbalzando e ondeggiando scomodamente sulla pista sterrata e cosparsa di solchi che si perde-
va nella foresta. «Ho rimandato Max e Lewis a Parigi» spiegò Randi. Era rimasta seduta in silenzio sul ceppo d'albero dove Jon si era rifatto la fasciatura, osservandolo passeggiare. «In questo momento non abbiamo bisogno di loro qui. E poi mi piacerebbe saperne di più su ciò che la polizia francese ha scoperto all'interno di quello che è rimasto della sede centrale del Lazarus Movement.» Smith annuì. Era una cosa sensata. «Io credo che...» Il suo telefono cellulare vibrò. Lo aprì subito. «Sì?» «È solo?» chiese Klein in tono brusco. La sua voce era tesa, quasi innaturale. Jon controllò gli immediati dintorni. Randi era seduta sul ceppo a pochi passi di distanza. E, stimolato da un sesto senso affinato da anni nell'ambiente dello spionaggio e da pratica sul campo, Peter si era svegliato dal suo sonnellino. «No» ammise Jon. «È estremamente inopportuno» disse Klein. Poi ebbe un attimo di esitazione. «Allora dovrà soppesare con cura i suoi commenti e controllare le sue reazioni. Chiaro?» «Sì» disse Smith sottovoce. «Che cos'ha scoperto?» «Cominciamo con gli "Orazi"» attaccò Klein scandendo con calma le parole. «Il nome è tratto da una leggenda dell'antica Roma. I protagonisti sono tre fratelli gemelli, dall'aspetto identico, mandati a duellare contro tre campioni di una città rivale. Erano famosi per il coraggio, la forza, l'agilità e la fedeltà a Roma.» «E fin qui tutto torna» disse Smith, ripensando agli incontri mortali con i due colossi dagli occhi verdi. Entrambe le volte l'aveva scampata per un soffio, o per pura fortuna. Trasalì. Il pensiero di un terzo uomo con la stessa forza e le stesse capacità ancora in agguato e a piede libero era spaventosamente sconcertante. «Esiste un quadro famoso, dipinto dal pittore neoclassico francese Jacques-Louis David» proseguì Klein. «Si intitola Il giuramento degli Orazi.» «Ed è esposto al Louvre» osservò Smith, rendendosi conto all'improvviso del perché quel nome gli avesse evocato vecchi ricordi. «Esatto» confermò Klein. Smith scosse tristemente il capo. «Fantastico! Sicché l'amico "Lazzaro" è appassionato di arte neoclassica e ha un pessimo senso dell'umorismo. Ma questo non ci aiuta molto nell'arrivare alla sua vera identità.» Jon trasse un respiro profondo. «È riuscito ad avere una traduzione corretta delle
ultime parole pronunciate da Abrantes?» «Sì» disse Klein in tono sommesso. «Ebbene?» lo incalzò Smith con impazienza. «Che cosa stava cercando di dirmi?» «Ha detto: "Le Azzorre. L'isola del sole. Santa Maria"» riferì il direttore della Covert-One. «Le Azzorre?» Smith scosse il capo, sbalordito. Le Azzorre erano un gruppo di isolette colonizzate dai portoghesi in pieno oceano Atlantico, vicine alla latitudine che collegava Lisbona a New York. Secoli prima l'arcipelago era stato un avamposto strategico dell'impero portoghese ormai tramontato. Attualmente la popolazione delle isole Azzorre sopravviveva in gran parte grazie all'esportazione di carne di manzo, di formaggi e latticini, oltre che al turismo. «Santa Maria è una delle nove isole che compongono l'arcipelago delle Azzorre» spiegò Klein. «A quanto pare, la gente del posto a volte si riferisce a Santa Maria come all'"isola del sole".» «Allora cosa diavolo c'è a Santa Maria?» domandò Smith, reprimendo a malapena l'irritazione che gli trapelava nella voce. Fred Klein di solito non ci metteva così tanto ad arrivare al punto. «Nella metà orientale dell'isola non molto. Solo qualche sparuto villaggio.» «E nella parte occidentale?» «Be', è qui che la faccenda si complica» ammise Klein. «A quanto pare tutta la parte ovest di Santa Maria è stata data in locazione alla Nomura PharmaTech per la sua opera umanitaria e l'assistenza medica internazionale... incluso un campo d'aviazione con una pista in cemento lunghissima, enormi hangar aeroportuali e annessi vari, e un gigantesco complesso di stoccaggio di materiale sanitario e medico.» «Nomura» ripeté Jon sottovoce, comprendendo finalmente perché il suo superiore sembrava così teso. «Hideo Nomura. È lui "Lazzaro". Ha le finanze, le conoscenze scientifiche, gli stabilimenti, le attrezzature ed è in contatto con i politici più influenti. Quindi può aver realizzato una cosa del genere.» «Così sembra» convenne Klein. «Ma temo non basti. Nessuno sarà persuaso dalle pretese ultime parole di un ignoto moribondo. Senza prove fondate, il tipo di prove che possiamo mostrare ad amici e alleati esitanti, non vedo come il presidente possa approvare un attacco diretto agli impianti della Nomura alle Azzorre.»
Il direttore della Covert-One proseguì. «La situazione qui a Washington è peggio di quel che può immaginare, Jon. Le nostre alleanze politiche e militari si stanno strappando e sfaldando come un fazzoletto di carta bagnata. La NATO è agguerrita. L'Assemblea generale dell'ONU sta seriamente prendendo in considerazione la possibilità di dichiararci una nazione terrorista. Un grosso blocco di deputati e senatori al Congresso, inoltre, sta prendendo in considerazione l'impeachment del presidente. In queste circostanze, un attacco con missili da crociera o con cacciabombardieri, apparentemente non provocato, contro un'istituzione benefica internazionale che fornisce assistenza medica ovunque, e conosciuta in tutto il mondo, sarebbe l'ultima goccia che fa traboccare il vaso.» Smith sapeva che Klein aveva ragione, ma quella consapevolezza non rendeva certo più accettabile la situazione di fronte alla quale si trovavano. «Può darsi che ci condannino se lo facciamo, ma moriremo tutti se non lo facciamo in qualche modo» osservò. «Questo lo so, Jon» sottolineò Klein in tono enfatico. «Ma ci occorrono delle prove a sostegno delle nostre affermazioni prima di poter lanciare dei missili o di far decollare i bombardieri.» «C'è solo un modo per ottenere quel tipo di prova» fece notare Smith in tono tetro. «Qualcuno deve andare nelle Azzorre a dare un'occhiata da vicino.» «Sì» si decise a dire Klein dopo un po'. «Quando potete recarvi all'aeroporto?» Smith alzò lo sguardo e lanciò un'occhiata d'intesa a Randi e a Peter. Avevano entrambi una faccia da funerale, ma erano altrettanto determinati. Avevano udito abbastanza dalle frasi pronunciate da Smith per sapere cosa c'era in ballo. «Subito» rispose, senza troppe cerimonie. «Partiamo subito.» Capitolo 45 Centro di «Lazzaro», isola di Santa Maria, isole Azzorre Fuori dai confini senza finestre del centro del Lazarus Movement, il sole stava appena sorgendo, levandosi adagio sopra l'abbraccio dell'oceano Atlantico. I primi raggi abbaglianti sfiorarono le scogliere a strapiombo della baia di São Laurenço, incendiandole di rosso e rischiarando le ripide vigne terrazzate di Maia. Da là, la crescente luce del nuovo giorno avanzò verso
ovest sopra boschi e pascoli lussureggianti, splendendo sulla spiaggia di sabbia bianca di Praia Formosa, e infine scacciò le ultime ombre indugianti della notte dalla pianura calcarea senz'alberi, al centro della quale si stendeva il campo d'aviazione privato della Nomura PharmaTech. Nel Centro, al sicuro in un silenzio illuminato da lampade al neon, Hideo Nomura leggeva i messaggi più recenti trasmessi da Parigi dai suoi agenti superstiti. In base ai dettagli forniti da informatori prezzolati che facevano parte delle forze di polizia, era chiaro che Nones e i suoi uomini erano morti, uccisi insieme a tutti gli altri all'interno del palazzo semidistrutto al numero 18 di Rue de Vigny. Nomura aggrottò le sopracciglia, confuso e preoccupato da quelle notizie. Nones e la sua squadra speciale avrebbero dovuto trovarsi a una bella distanza prima che le cariche di esplosivo al plastico brillassero. Qualcosa non era andato nel verso giusto. Ma cosa? Diversi testimoni riferivano di aver visto «degli uomini in nero» allontanarsi di corsa dall'edificio un attimo dopo le prime detonazioni. La polizia francese, sebbene dubbiosa in un primo momento, ora stava trattando queste dichiarazioni con la massima serietà, attribuendo la responsabilità di quel che sembrava a tutti gli effetti un attentato di stampo terroristico alla sede parigina del Lazarus Movement alle misteriose forze che si opponevano al movimento ecologista no-global. Nomura scosse la testa. Questo era impossibile, naturalmente. Gli unici terroristi che prendevano di mira il movimento erano uomini ai suoi ordini. Ma poi, riflettendo con più attenzione sulla questione, fu folgorato da un pensiero. E se qualcun altro si fosse avventurato a ficcare il naso all'interno del 18 di Rue de Vigny? Per la verità i suoi complicatissimi piani erano riusciti a creare scompiglio nella CIA, nell'FBI e nel MI6, gettandoli nella confusione totale, ma c'erano altri servizi segreti nel mondo, e forse qualcuno appartenente a una di queste organizzazioni aveva tentato di spiare le attività del Lazarus Movement. Era possibile che avessero scoperto qualcosa che collegasse l'operazione di sorveglianza elettronica a La Courneuve direttamente a lui? Il giovane magnate giapponese si morse il labbro inferiore, chiedendosi se non avesse peccato di eccessiva fiducia in se stesso e nei suoi innumerevoli ed elaborati stratagemmi. Nomura ponderò per un po' quella possibilità. Benché fosse probabile che la sua copertura fosse ancora intatta, avrebbe fatto comunque meglio
ad adottare nuove precauzioni. Il suo piano originale prevedeva un attacco simultaneo agli Stati Uniti continentali con almeno una dozzina di Thanatos, ma assemblare il numero necessario di velivoli - le gigantesche ali volanti uguali al prototipo già sperimentato - avrebbe impegnato le sue squadre di montatori specializzati per altri tre giorni. Particolare ancor più importante, lì nelle Azzorre gli mancava lo spazio di rimessaggio negli hangar, necessario per nascondere così tanti velivoli all'eventuale sorveglianza aerea o spaziale. No, pensò con freddezza, devo agire subito. Doveva procedere mentre era sicuro di poterlo ancora fare, anziché aspettare il momento ideale, che forse non sarebbe mai arrivato. Dopo la morte dei primi milioni di vittime, gli americani e i loro alleati sarebbero stati senza leadership e troppo terrorizzati per dare la caccia con efficacia ai loro nemici segreti. Quando si combatteva per il controllo totale del destino del mondo, si ricordò, la flessibilità era una virtù e non un difetto. Hideo premette un tasto sul telefono interno. «Mandami Terce. Subito.» L'ultimo degli «Orazi» entrò pochi secondi dopo. Le sue spalle massicce sfioravano gli stipiti della porta d'entrata e la sua testa sembrava quasi sfiorare il soffitto. Il colosso fece un cenno d'inchino obbediente e poi restò immobile davanti alla scrivania di tek di Nomura, in paziente attesa di ordini da parte dell'uomo che lo aveva reso un killer così ben addestrato e imbattibile. «Sai che i tuoi due compagni mi hanno abbandonato?» domandò Nomura. L'uomo dagli occhi verdi annuì. «Così ho sentito» confermò in tono gelido. «Io però non ho mai mancato di adempiere ai miei doveri.» «Questo è vero» convenne Nomura. «E di conseguenza le ricompense promesse a loro ora spettano a te. Quando sarà il momento, tu sarai il mio braccio destro ed eserciterai il tuo dominio in nome mio... in nome di "Lazzaro".» A Terce brillarono gli occhi. Nomura si riprometteva di riorganizzare il mondo, creando un paradiso per quei pochi che riteneva degni di restare in vita. La maggior parte delle nazioni, con le rispettive popolazioni, sarebbero state completamente annientate, consumate per mesi e anni da ondate successive di nanofagi invisibili. Le persone a cui sarebbe stato concesso di vivere avrebbero dovuto sottostare ai suoi ordini, modificando le loro esistenze, culture e convinzioni perché si adattassero alla sua visione idilliaca del mondo. Nomura e i suoi obbedienti collaboratori avrebbero eser-
citato un potere inimmaginabile sugli inorriditi superstiti dell'umanità. «Quali sono le tue disposizioni?» domandò l'unico membro ancora in vita degli «Orazi». «Attaccheremo prima del previsto» rispose Nomura. «Tre Thanatos dovrebbero essere pronti al decollo tra otto ore al massimo. Informa le équipe di produzione dei nanofagi che voglio una quantità sufficiente di carichi utili per quei tre velivoli non appena i controlli prevolo saranno espletati. I primi obiettivi saranno Washington, New York e Boston.» Aeroporto di Lajes, isola Terceira, isole Azzorre Tre persone, due uomini e una donna, stavano avanzando nella piccola ressa di passeggeri appena atterrati dal volo di linea dell'Air Portugal proveniente da Lisbona. Erano privi di bagaglio e si muovevano rapidamente attraverso le correnti più lente di gente del posto e di turisti a caccia delle rispettive valigie al terminal aeroportuale. Randi Russell si fermò di colpo. Fissò in alto un grande orologio che indicava mezzogiorno in punto, l'ora locale, e poi il tabellone con gli orari dei voli in partenza e in arrivo. «Maledizione!» imprecò sottovoce con rabbia. «C'è solo un volo di collegamento al giorno tra Terceira e Santa Maria... e l'abbiamo già perso!» Affiancandola, Jon scosse il capo. «Non prenderemo un volo di linea.» Smith condusse i due compagni di viaggio verso le porte d'uscita. Una breve fila di taxi e di auto private era accostata al cordolo del marciapiedi, in attesa di caricare i passeggeri in arrivo. Randi inarcò un sopracciglio. «Santa Maria è a quasi duecento miglia di distanza. Hai in programma di raggiungerla a nuoto?» Smith le rivolse un sorriso sarcastico. «No, a meno che Peter non mandi tutto all'aria.» Randi lanciò un'occhiata all'inglese dagli occhi celesti che le camminava a fianco. «Sai di che cosa sta parlando?» «Non ne ho la più pallida idea» ribatté Peter in tono allegro. «Ma ho notato che il nostro compagno di viaggio ha fatto qualche telefonata, senza farsi sentire da noi, a Parigi, mentre aspettavamo di imbarcarci sull'aereo diretto a Lisbona. Perciò ho il sospetto che abbia un asso nella manica.» Ancora con un ghigno beffardo dipinto sul volto, Smith oltrepassò le porte d'uscita del terminal e sbucò all'aperto. Alzò la mano, facendo un segnale a un Humvee verniciato a colori mimetici verde, marrone e terra
bruciata, che si attardava a motore acceso in fondo alla strada. Il veicolo militare venne loro incontro. «Colonnello Smith e compagnia bella?» domandò il sergente maggiore dell'aeronautica degli Stati Uniti seduto al volante. «In carne e ossa» ribatté Smith, che stava già aprendo le portiere posteriori e invitando Randi e Peter a salire a bordo. Poi montò sulla vettura per ultimo. L'Humvee si staccò dal marciapiedi e percorse la strada fino in fondo. Mezzo chilometro più avanti, svoltò verso un cancello della recinzione perimetrale dell'aeroporto. All'uscita, una coppia di guardie armate di fucili d'assalto M-16, dall'espressione arcigna, controllò i loro documenti di identificazione, verificando con cura le loro fotografie. Soddisfatti, i soldati fecero loro cenno di passare, accogliendoli all'interno della base aerea dell'aeronautica americana a Lajes. Il veicolo militare svoltò a sinistra e accelerò lungo la pista di volo. Enormi C-17 da trasporto, con livrea mimetica grigia, e gigantesche aviocisterne KC-10 da rifornimento in volo erano parcheggiati in fila ordinata lungo la pista asfaltata. Su un lato il terreno scendeva in declivio, precipitando infine quasi a strapiombo nell'oceano Atlantico. Sull'altro lato, dolci pendici collinari, di un verde brillante, si innalzavano sopra il campo d'aviazione militare, frammentate in una miriade di campi terrazzati, separati da bassi muretti di pietre vulcaniche. I profumi dolciastri dei fiori selvatici e l'aroma salmastro dell'oceano si mescolavano in modo innaturale all'odore acre e penetrante di carburante avio un po' bruciato. «Il vostro velivolo è arrivato dagli Stati Uniti un'ora fa» li informò il sergente maggiore dell'aeronautica americana. «È già in fase di preparazione al decollo.» Randi si girò verso Smith. «Il nostro velivolo?!» chiese in tono mordace. Jon si strinse nelle spalle. «Un elicottero UH-60L Black Hawk dell'esercito degli Stati Uniti» spiegò. «Inviato qui a bordo di un C-17 durante il nostro trasferimento da Parigi a Lisbona sul volo di linea. Ho pensato che forse ci sarebbe tornato utile.» «Bell'idea» disse Randi in un tono sarcastico a malapena represso. «Lasciami indovinare. Hai schioccato le dita e l'esercito e l'aeronautica si sono affrettati a inviarti un elicottero da milioni di dollari per tuo uso personale? Dico bene, Jon?» «In effetti ho chiesto a un paio di amici al Pentagono di agevolarmi la cosa» ammise Smith con falsa modestia. «Sono tutti talmente in ansia per
questa minaccia di un nuovo attentato con i nanofagi killer che sono stati più che disposti ad aggirare diversi cavilli burocratici apposta per noi.» Randi si voltò verso l'agente inglese dal volto coriaceo. «E immagino che tu ti ritenga capace di pilotare un Black Hawk, eh?» «Be', mia cara, se non sono capace di farlo, lo scopriremo ben presto nel peggiore dei modi» replicò Peter allegramente. Capitolo 46 Campo d'aviazione privato della Nomura PharmaTech, isola di Santa Maria Hideo Nomura passeggiava con passo lento lungo il bordo dell'estesa pista di cemento. Il vento, soffiando da est, gli sibilava tra i corti capelli neri. La brezza leggera portava l'odore intenso dell'erba che cresceva al sole, sull'altipiano, oltre la rete di recinzione. Alzò lo sguardo da terra. Il sole era ancora alto: aveva appena iniziato la lenta discesa verso l'orizzonte a occidente. In lontananza, a nord, poche nuvole veleggiavano verso l'oceano, solitari sbuffi di bianco su un cielo blu terso. Nomura sorrise tra sé. Le condizioni meteorologiche erano perfette sotto ogni aspetto. Si voltò e vide suo padre immobile alle sue spalle tra le due tetre guardie del corpo di Terce. L'anziano magnate giapponese aveva le mani ammanettate dietro la schiena. Hideo gli sorrise. «Non è un'ironia fantastica?» Jinjiro gli rivolse un'occhiata glaciale e irremovibile. «Le ironie abbondano qui, "Lazzaro"» ribatté in tono freddo, rifiutandosi perfino di chiamare per nome il suo infido figlio. «A quale ti riferisci?» Ignorando la battuta sarcastica, il giovane giapponese indicò con un cenno del capo la lunga pista d'atterraggio che si stendeva davanti a loro. «Questo campo d'aviazione» spiegò. «Fu costruito dagli americani nel 1944, durante la loro guerra contro la Germania nazista e la nostra patria adorata. I loro bombardieri usavano quest'isola come punto di rifornimento di carburante durante le lunghe trasvolate sopra l'Atlantico verso l'Inghilterra. Ma oggi gli rivolgerò contro la loro stessa opera. Questo campo d'aviazione sta per diventare l'area di allestimento per l'annientamento dell'America!» Jinjiro non disse nulla. Hideo scrollò le spalle e si voltò. Ormai era chiaro che aveva tenuto in
vita suo padre per un malaccorto senso di devozione filiale. Quando i primi Thanatos sarebbero stati in volo, avrebbe avuto tempo e agio per provvedere a una fine decorosa per il vecchio. Alcuni dei suoi scienziati erano già al lavoro su diverse varianti dei nanofagi Stage IV. Forse avrebbero ritenuto utile sperimentare i nuovi progetti di fagi killer su un soggetto umano vivo. Il giovane giapponese si diresse verso un gruppetto di ingegneri aeronautici e di controllori di terra in attesa vicino alla pista. Indossavano cuffie radio e ricetrasmittenti a onde corte per le comunicazioni tra gli hangar e la torre di controllo. «È tutto pronto?» chiese loro in tono autoritario. Il controllore di terra di grado maggiore annuì. «La squadra di tecnici nell'hangar principale riferisce che tutto è disposto per far uscire all'aperto i velivoli. Tutti i serbatoi sganciabili aerodinamici con il carico utile sono agganciati.» «Bene.» Nomura rivolse lo sguardo all'ingegnere aeronautico di grado maggiore. «E la messa a punto dei tre velivoli?» «Tutti i sistemi elettronici di bordo sono perfettamente funzionanti. Le prestazioni rientrano nelle norme previste. Le celle solari, le celle a carburante avio ausiliarie, i comandi di volo e i programmi d'attacco sono stati tutti controllati più volte.» «Eccellente» disse Nomura. Poi rivolse di nuovo lo sguardo al controllore di terra. «C'è stato qualche contatto aereo non identificato di cui dobbiamo preoccuparci?» «Negativo» rispose il controllore. «La stazione radar non ha rilevato alcun velivolo in volo nel raggio di cento chilometri. Possiamo stare del tutto tranquilli.» Hideo trasse un sospiro di sollievo. Quello era esattamente il momento per la cui realizzazione aveva speso anni di accurata pianificazione, di complessi intrighi e di omicidi mirati. Era per quello che aveva ingannato, sequestrato e tradito perfino suo padre: tutto per quell'unico istante glorioso di trionfo sicuro e innegabile. Espirò lentamente, assaporando quella deliziosa sensazione. Poi disse: «Date inizio alle prime tre operazioni Thanatos». Il controllore di terra ripeté il suo ordine via radio. «Aprire le porte degli hangar.» In risposta, le enormi porte scorrevoli di ferro dell'hangar più vicino, al margine meridionale del campo d'aviazione, cominciarono ad aprirsi cigolando, rivelando un vasto interno, affollato di uomini e macchine. La luce
del sole penetrò all'interno attraverso il varco che si apriva rapidamente. Colpì le celle a energia solare della prima ciclopica ala volante battezzata Thanatos, che brillarono come un fuoco dorato. «Il primo aereo si sta muovendo» riferì l'ingegnere di volo di grado maggiore. Lentamente, l'enorme e strano velivolo, con un'apertura alare maggiore di quella di un Boeing 747, venne in avanti con tutta la sua pesantezza oltrepassando le colossali porte spalancate dell'hangar, con un margine di meno di un metro a entrambe le estremità. Quattordici eliche a doppia pala ruotavano senza fare rumore, trascinandolo sulla pista all'aperto. Grappoli di cilindri di plastica erano visibili su ciascuna delle cinque gondole aerodinamiche montate sotto l'ala. «Indossate maschere e guanti» ordinò Nomura. Gli ingegneri di volo e i controllori di terra obbedirono all'istante, indossando la pesante attrezzatura speciale che avrebbe garantito loro una protezione, anche se limitata, se qualcosa fosse andato storto durante il decollo. Terce si avvicinò a Hideo Nomura e gli offrì una maschera antigas, il respiratore e un paio di grossi guanti di gomma trasparente. Hideo prese in consegna l'attrezzatura, accennando un inchino cortese di ringraziamento. «E il prigioniero?» domandò il gigante dagli occhi verdi, con la voce attutita dal respiratore. «Come ci comportiamo con lui?» «Mio padre, dici?» Hideo lanciò un'occhiata a Jinjiro alle sue spalle. Il vecchio era ancora in piedi a capo scoperto sotto il sole cocente, rigido e irremovibile tra i suoi due guardiani dotati di maschera antigas. Hideo esibì un sorrisino glaciale e scosse il capo. «Niente maschera e respiratore per lui. Lasciamo che il vecchio corra dei rischi.» «Il secondo aereo si sta muovendo» riferì l'ingegnere di volo, parlando abbastanza forte da essere udito nonostante la maschera e l'apparecchiatura di respirazione autonoma. Nomura si voltò a guardare la pista. Il primo vettore Thanatos era già a duecento metri di distanza e stava lentamente rullando verso nord, portandosi in fondo alla pista per prepararsi al decollo, mentre il secondo stava emergendo dal cavernoso interno dell'hangar, con un terzo velivolo visibile dietro di sé. Hideo allontanò il pensiero della morte imminente di suo padre e si concentrò invece a guardare i suoi sogni crudeli che, prendendo il volo, si stavano realizzando. Terce si allontanò, levandosi dalla spalla un fucile da assalto Heckler & Koch G-36 di fabbricazione tedesca mentre camminava. Girò la testa con
discrezione a destra e a sinistra, controllando le guardie armate che aveva fatto appostare a intervalli regolari lungo la pista. Sembravano tutti all'erta. Un vago cipiglio si dipinse sul volto dell'uomo erculeo. Contando i due uomini che sorvegliavano Jinjiro, c'erano dieci sentinelle schierate. Sarebbero dovute essercene il doppio, ma le gravi e impreviste perdite nel New Mexico, e poi di nuovo in Virginia, non gli avevano lasciato il tempo di procurarsi dei validi sostituti. La morte di Nones e di tutti i membri della sua squadra speciale di sicurezza con base a Parigi aveva solo peggiorato la situazione. Terce alzò le spalle, guardando a ovest verso il mare. Alla fine, non avrebbe avuto alcuna importanza. Nomura aveva ragione. La segretezza superava in valore la potenza di fuoco. A prescindere da quanti soldati, missili e bombe possedevano, gli americani non potevano attaccare un obiettivo che non riuscivano a localizzare. A quel punto si bloccò, raggelato. Notò che qualcosa si stava muovendo in fondo, sopra l'oceano Atlantico, proprio al margine estremo della sua vista periferica. Guardò meglio, concentrandosi su quel puntino. Di qualsiasi cosa si trattasse, l'oggetto si stava avvicinando a velocità sostenuta, ma era difficile distinguere qualcosa attraverso le spesse lenti distorcenti della maschera antigas che indossava. Con un ringhio animalesco, Terce si strappò dal volto la maschera e il respiratore collegato e li buttò da parte. Almeno adesso riusciva a vedere con maggiore chiarezza! Un puntino verde scuro volava basso, quasi rasente le onde increspate dell'oceano. Il puntino si inclinò in virata verso di lui, sbandando leggermente di coda, e si fece sempre più grande. La luce del sole balenò sulle pale dei rotori in funzione a pieno regime. A bordo dell'UH-60L Black Hawk, Smith si sporse in avanti dal sedile del secondo pilota e scrutò il campo d'aviazione che si delineava di fronte a lui, con l'ausilio di un potente binocolo da marina. «Okay» disse a voce alta, quasi gridando, per farsi sentire nonostante il rombo dei due potenti motori a turbina del grosso elicottero da trasporto truppe e i suoi grandi e rumorosi rotori. «Ho contato due An-124 Condor da trasporto in prossimità dell'estremità nord della pista, parcheggiati vicino a un grosso hangar. E anche quello che sembra un jet privato più piccolo, forse un Gulfstream.» «Che cos'è quell'affare che si sta muovendo in fondo all'estremità sud della pista?» gli urlò Randi all'orecchio. L'agente della CIA era accovacciata dietro i due sedili della cabina di pilotaggio, e si teneva aggrappata
agli appigli con una tale forza che le nocche delle sue mani erano quasi bianche. Il Black Hawk stava vibrando e sussultando violentemente, mentre Peter si sforzava di mantenere l'elicottero a una quindicina di metri soltanto d'altezza dalle onde increspate dell'oceano sottostante, il tutto volando a una velocità di oltre cento nodi. Li aveva portati verso il loro obiettivo a una quota di volo bassissima, per evitare di essere rilevati dalla stazione radar del campo d'aviazione. Smith puntò il binocolo a destra. Per la prima volta, vide le tre mastodontiche ali volanti allineate in fila, una dietro l'altra, sulla lunga pista di cemento. Il velivolo di testa si stava già muovendo sempre più in fretta, accelerando senza intoppi in fase di decollo. Sulle prime, la mente esausta di Jon si rifiutò di accettare che un oggetto così enorme e, nel contempo, dall'aspetto così fragile potesse essere atto alla navigazione aerea. Poi, non appena la ragione prevalse nella sua mente, i fatti e le immagini trovarono la giusta collocazione, emergendo dalla memoria. Diversi anni prima aveva letto qualcosa in merito agli esperimenti scientifici della NASA con aerorobot a lunga durata di volo, alimentati a energia solare. Nomura doveva aver clandestinamente copiato la stessa tecnologia per i suoi scopi perversi. «Oh Dio!» esclamò, profondamente scosso dall'improvvisa consapevolezza. «Quelli sono i velivoli d'attacco di Nomura!» Informò subito i suoi due compagni in merito a ciò che rammentava del profilo di volo e delle particolari capacità degli strani prototipi aerei. «I nostri caccia non li possono abbattere?» domandò Randi con espressione fosca. «Volano a un'altezza di quasi trentamila metri» rispose Smith scuotendo il capo. «È una quota che va ben oltre la capacità massima d'altitudine raggiungibile da qualsiasi caccia progettato finora. Nella nostra aeronautica militare non c'è nessun F-16 o F-15 o qualunque altro caccia in grado di volare e di combattere a un'altezza del genere!» «Non si possono usare i vostri missili Patriot?» suggerì Peter. «Trentamila metri di quota vanno ben oltre il tetto d'efficacia anche dei missili terra-aria o aria-aria» ribatté Smith in tono sconsolato. «Inoltre, scommetto che quei dannati uccellacci laggiù sono costruiti con materiali e tecniche speciali, in modo da riuscire a eludere la maggior parte dei radar.» Jon strinse i denti. «Se raggiungeranno la loro quota di volo, saranno invulnerabili e probabilmente non individuabili. Perciò, una volta che quei velivoli saranno operativi, Nomura sarà in grado di colpirci a suo piacere, disperdendo nell'aria immense nuvole di nanofagi killer sopra qualunque
città gli venga in mente di scegliere!» Sconvolto dal pericolo che vedeva profilarsi per gli Stati Uniti, Jon mise a fuoco il binocolo su un piccolo gruppo di uomini in piedi, vicino al margine della pista. Risucchiò in gola un breve, rapido respiro di trasalimento. Indossavano maschere antigas. Per un attimo ebbe l'impressione che il mondo intorno a lui stesse sbiadendo in una chiazza confusa, e che il tempo rallentasse, mentre i suoi processi mentali viaggiavano alla velocità della luce. Perché quei tizi portavano delle maschere antigas? E poi, tutt'a un tratto, la risposta, l'unica risposta plausibile, lo folgorò come una scarica elettrica ad alto voltaggio. «Portaci là, Peter!» ordinò Smith. E puntò l'indice verso il campo d'aviazione. «Dritto là!» L'inglese gli rivolse un'occhiata fugace e stupita. «Questa non è una missione d'attacco, Jon. Era previsto che venissimo qui in perlustrazione, non alla carica con le sciabole sguainate come un dannato squadrone di cavalleria.» «La missione è appena cambiata» ribatté Smith a denti stretti. «Quegli aerei sono armati. Quel figlio di puttana di Nomura sta lanciando il suo attacco proprio in questo momento!» Capitolo 47 Aggrottando le sopracciglia, Peter inclinò in virata il Black Hawk, dirigendosi verso il campo d'aviazione. Il litorale di Santa Maria si fece sempre più incombente, ingrandendo a vista d'occhio e prendendo rapidamente forma, mentre gli volavano incontro alla velocità di cento nodi orari. L'inglese girò la testa giusto un attimo verso Randi. «Sarà meglio che tiri fuori l'artiglieria.» Randi annuì. Tutti e tre indossavano già dei giubbotti antiproiettile rigidi in kevlar, e l'elicottero era dotato di una serie di tre fucili mitragliatori M4, delle versioni ridotte del fucile d'assalto M-16 adottato dalla maggior parte dei reparti militari americani. Randi si spostò nel compartimento di carico destinato alle truppe, aggrappandosi saldamente a qualsiasi appiglio imbullonato alla struttura dell'elicottero. A un tratto, Peter fece un'altra virata stretta e brusca, questa volta dirigendo l'elicottero a nord, in modo da volare parallelo alla pista. «Mezzo miglio alla meta» annunciò. «Ma perché attaccare come forsennati allo sbaraglio? Perché non passiamo semplicemente a volo radente su quei
dannati uccellacci e non li abbattiamo mentre sorvolano l'oceano?» Smith rifletté sul suggerimento. La logica di Peter non faceva una piega. Jon arrossì. «Avrei dovuto pensarci prima» ammise con riluttanza. Peter sogghignò. «Ti sei buttato a capofitto a studiare medicina quando invece avresti dovuto ripassare tattica, eh?» L'inglese tirò indietro la cloche di comando. L'UH-60 si impennò e salì rapidamente di quota, portandosi a un'altezza di duecento o trecento metri sopra il mare nel giro di pochi secondi. «Non perdere di vista il primo velivolo, Jon. Dimmi quando è decollato.» Smith annuì. Si abbandonò contro lo schienale del sedile del secondo pilota a fissare fuori dal finestrino destro della cabina di pilotaggio. Un improvviso lampo bianco e uno sbuffo di polvere nei pressi del campo d'aviazione attirarono la sua attenzione. Un piccolo dardo era partito da terra diretto verso di loro, salendo in fretta su una colonna di fuoco. Per una frazione di secondo Jon lo fissò incredulo. Poi il suo istinto di sopravvivenza si svegliò di colpo. «SAM! SAM!» urlò. «A ore tre!» «Diavolo porco!» imprecò Peter. Agì bruscamente sui comandi, ricorrendo con destrezza ai pedali, alla cloche e all'attrezzatura manuale per far compiere al Black Hawk una stretta virata discendente, ruotandolo su se stesso e lanciandolo in picchiata verso il missile terra-aria in arrivo. Nello stesso tempo fece scattare un interruttore sulla plancia dei comandi, attivando il diffusore di razzi esca infrarossi di cui l'elicottero era dotato. Dei razzi incandescenti partirono in velocità, ad ampio arco, da sotto l'UH-60 in picchiata. Guardando in alto, Smith vide il missile terra-aria in arrivo sfrecciare proprio sopra il Black Hawk e poi virare di colpo lontano da loro, seguendo uno dei razzi esca che precipitava lentamente in discesa graduale verso l'oceano. Emise un sospiro di sollievo. «Doveva essere un missile a ricerca di calore» commentò, irritato di sentire un tremore nella voce. Peter annuì. Aveva le labbra serrate. «I SAM spalleggiabili da fanteria di solito lo sono.» Anche l'inglese sospirò. «E siamo al punto di partenza. Non avrei osato perdere quota... non con un missile che mirava contro di noi.» «Perciò torniamo indietro?» suggerì Smith. «Puoi dirlo forte» ribatté Peter, scoprendo i denti in un sorriso feroce da belva assetata di sangue. Portò il Black Hawk a una quota talmente bassa che il carrello d'atterraggio principale parve sfiorare la cresta delle onde dell'Atlantico. Il campo d'aviazione, ora dritto di fronte a loro, aumentava a
mano a mano di dimensione oltre il tettuccio trasparente della cabina di pilotaggio. «Un attacco duro e veloce, Jon. Tu sbaragli il campo a sinistra, io lo sbaraglio a destra. E Randi, che Dio la benedica, farà tutto il resto!» «Sembra quasi un piano!» fu il commento di Randi alle loro spalle. L'agente della CIA passò a Smith uno degli M-4 e tre caricatori da trenta colpi ciascuno. Con una canna più corta e un calcio telescopico, l'M-4 era un fucile d'assalto più leggero e maneggevole del suo stretto parente, l'M-16. Smith inserì a scatto un caricatore nell'arma e mise quelli di riserva nelle apposite tasche del giubbotto tattico. Il terzo fucile d'assalto andò a Peter, che lo incastrò accanto a sé sul sedile di pilotaggio. «Grazie! E adesso, aggancia la cinture» le urlò Peter di rimando. «L'atterraggio sarà un po' brusco!» Lungo la pista di fronte si propagavano altri lampi. Diversi uomini erano in piedi allo scoperto, intenti a sparare contro l'elicottero in arrivo con dei fucili d'assalto. Alcuni proiettili da 5.56mm centrarono il Black Hawk, fischiando sonoramente sul rotore principale, rimbalzando sul tettuccio corazzato e il cockpit, e perforando il rivestimento di lega leggera sulle fiancate della fusoliera. Smith scorse la prima «ala volante» di Nomura staccarsi da terra e iniziare l'arrampicata immediatamente successiva al decollo. Batté forte il pugno sul fianco del sedile con aria frustrata e furibonda. «Maledizione!» «Ce ne sono ancora altri due a terra!» osservò Peter. «Ci occuperemo di quello più tardi» promise poi. «Ammesso che ci sia un "più tardi", beninteso» soggiunse sottovoce. Il Black Hawk sferragliò basso, rasente alla pista ed effettuò una rapida virata a semicerchio, andando ad atterrare pesantemente sull'erba alta che cresceva accanto alla pista. Altri proiettili di fucile d'assalto rimbalzarono sul tettuccio e fischiarono via, ronzando come api inferocite, in un'esplosone di scintille. Smith premette forte il pulsante della cintura di sicurezza per sganciarsi dal sedile, si alzò, afferrò con vigore il suo M-4 e si addentrò nel compartimento destinato alle truppe. Peter lo seguì a ruota, fermandosi solo il tempo necessario per far scattare due interruttori sulla plancia dei comandi di bordo. Sopra di loro, le pale del rotore principale e di quello di coda rallentarono i giri, ma continuarono a ruotare a basso regime. Randi aveva già aperto il portello scorrevole della fiancata sinistra. Si accovacciò nell'apertura, puntando l'M-4 e prendendo la mira con cura. «Siete pronti?» chiese, lanciando un'occhiata fugace dietro di sé. Jon annuì. «Andiamo!»
Con Randi praticamente alle calcagna, Smith saltò giù dall'elicottero e si lanciò di corsa a sud, lungo il bordo della pista. Vari proiettili di fucile d'assalto crepitarono e fischiarono bassi sopra le loro teste, provenienti da un paio di guardie che correvano verso di loro attraverso la pista asfaltata. Smith si tuffò a terra nell'erba alta e aprì il fuoco, sparando raffiche di tre colpi ciascuna in un arco da sinistra a destra. Una delle due guardie armate lanciò un urlo stridulo e cadde in avanti, tagliato quasi a metà da due proiettili corazzati ad alta velocità. L'altro si appiattì sul cemento e continuò a sparare. Dalla sua posizione alla destra di Smith, Randi prese freddamente la mira. Aspettò che il mirino si posizionasse sulla maschera antigas indossata dall'uomo e poi premette il grilletto. La testa dell'uomo esplose. Jon deglutì a vuoto, distogliendo lo sguardo. Poi controllò gli immediati paraggi. Si trovavano più o meno a un terzo di strada dell'intera lunghezza della pista, a poche centinaia di metri soltanto dal mastodontico hangar all'estremità sud. Un immenso capannone dal tetto in lamiera si allungava a est, non troppo lontano, dietro di loro. Da quella parte sembrava esserci una sola entrata: un portone blindato di acciaio dall'aspetto massiccio, con una serratura a tastiera elettronica. Smith ridusse gli occhi a due fessure mentre il sospetto si trasformava in certezza. Nessuno avrebbe mai montato quel genere di portone su un ordinario deposito merci. Il laboratorio scientifico segreto di Nomura doveva essere da qualche parte all'interno di quel capannone. In quel vasto spazio cavernoso si poteva nascondere una dozzina di sale speciali di produzione biochimica e avere ancora spazio in abbondanza da sfruttare per altri scopi. Il secondo dei tre enormi velivoli a forma di ala volante stava accelerando sulla pista nella loro direzione, prendendo velocità mentre le eliche giravano sempre più in fretta. Jon distingueva bene i contenitori mortali agganciati a grappolo sotto l'unica ala gigantesca a boomerang che costituiva lo strano velivolo. Il terzo vettore era fermo appena fuori dall'hangar, in attesa del suo turno nella sequenza di decollo programmata. Alcuni colpi di arma da fuoco esplosero a nord del campo, dall'altra parte del Black Hawk. Un'altra sentinella lanciò un urlo e stramazzò a terra, crivellata di colpi sparati da Peter. Mentre ruzzolava a terra, l'uomo morente premette involontariamente il grilletto del lanciarazzi spalleggiabile SA16 SAM di fabbricazione russa, con cui stava cercando di prendere la mira. Il missile partì. Lasciando dietro di sé una scia di denso fumo grigio e bianco, il SAM si alzò dritto in verticale, virò a est e poi precipitò inno-
cuamente al suolo ed esplose in un terreno da pascolo deserto oltre il reticolato perimetrale. Smith scorse altri movimenti a sud, non lontano dal secondo velivolo. Tre altri uomini armati, guidati da un tipo molto più alto e massiccio, stavano avanzando lungo il margine occidentale della pista, tenendosi al passo con il gigantesco vettore in arrivo. Si muovevano a scatti brevi di corsa in avanti, divisi a coppie e coprendosi a turno. Smith trasalì. Fantastico, pensò. Questi sono dei veri professionisti. Ed erano guidati dal terzo membro degli «Orazi», i tre superuomini. «Attento davanti a te, Jon!» lo avvertì Randi. L'amica della CIA puntò il braccio verso il terreno aperto dall'altra parte della pista. Un gruppetto di uomini con indosso la maschera antigas e i respiratori stavano fuggendo nella direzione opposta, battendo in ritirata dalla battaglia che stava infuriando intorno alla pista. Per la maggior parte sembravano disarmati. Due di essi però avevano in spalla una mitraglietta, e stavano trascinando un uomo decisamente più anziano, dai capelli bianchi: un uomo privo di maschera antigas e ammanettato. «Io sistemo gli aerei» disse Smith. Poi indicò il gruppetto di uomini in ritirata. «Tu occupati di loro!» Randi annuì, vedendo Jon che già si era lanciato lungo il bordo della pista, diretto verso la ciclopica ala volante che avanzava con tutta la sua pesantezza verso nord. Il fumo di coda del missile terra-aria vagante, che era stato lanciato accidentalmente, aleggiò sulla pista, impedendole a un tratto di vedere dove si trovava Jon. Lasciata sola, Randi balzò in piedi e attraversò di corsa l'ampio tratto di spoglio cemento, macchiato di olio e di carburante avio. Uno degli uomini in fuga la notò e lanciò un frenetico urlo d'avvertimento ai suoi compagni. Tutti si tuffarono bocconi sull'erba. Le due guardie armate spinsero brutalmente a terra il vecchio dai capelli bianchi e si voltarono verso di lei. Le mitragliette che avevano in spalla entrarono in azione. Randi aprì il fuoco in corsa con l'M-4 all'altezza dell'anca, sparando una serie di raffiche di tre colpi ciascuna. Una delle due guardie girò a trottola su se stessa e crollò di peso a terra, perdendo sangue da diverse ferite. Il suo compagno rispose al fuoco, sparando un intero caricatore da venti colpi con la sua Uzi. L'aria intorno a Randi si riempì all'improvviso di proiettili e di frammenti di cemento sbriciolato. L'agente della CIA si tuffò lesta di lato. Qualcosa la colpì con forza al braccio sinistro, scaraventandola indietro. Un proietti-
le di rimbalzo sulla pista di cemento l'aveva centrata, fratturandole il braccio appena sopra il gomito. Un dolore lancinante le si diffuse in tutto il corpo. Randi rotolò su se stessa, tentando disperatamente di togliersi di mezzo prima che l'uomo armato avesse il tempo di prenderla di nuovo di mira e di ucciderla. Stupito di vederla ancora viva, l'uomo con la mitraglietta estrasse il caricatore esaurito e annaspò in cerca di un caricatore di riserva. Stringendo i denti per sopportare il dolore, Randi alzò di nuovo l'M-4 e sparò un'altra raffica di tre colpi. Due proiettili rivestiti in rame andarono a segno, abbattendo il suo avversario, che cadde supino in una pozza di sangue. Randi si costrinse a rialzarsi da terra e a correre attraverso la pista. Gli uomini disarmati balzarono in piedi e si sparpagliarono davanti a lei come pecore spaventate, correndo alla rinfusa in ogni direzione. Con le maschere antigas e i respiratori sembravano tutti uguali. A un tratto, l'uomo anziano con le manette sferrò un calcio mirato, facendo inciampare uno degli uomini in fuga. Ringhiando, il vecchio rotolò sopra l'uomo che aveva fatto cadere, immobilizzandolo a faccia in giù nell'erba alta. Randi si avvicinò, puntando il fucile d'assalto con la mano sana. «Chi diavolo sei?» domandò con voce alterata dalla sofferenza. Il vecchio canuto le mostrò un sorriso beato. «Sono Jinjiro Nomura» disse in tono tranquillo. «E questo» soggiunse indicando la figura che si dimenava sotto il suo peso «è "Lazzaro"... il traditore che un tempo era mio figlio, Hideo.» A malapena capace di credere alla propria fortuna, Randi ricambiò il sorriso. «Lieta di fare la sua conoscenza, signor Nomura.» Tenne l'M-4 puntato contro l'uomo che si dibatteva bocconi per terra mentre Jinjiro si rimetteva in piedi a fatica. «Adesso alzati e togliti quella maschera antigas» ordinò. «Ma fallo lentamente. Altrimenti potrebbe scapparmi il dito e potrei farti saltare la testa.» Il giovane magnate giapponese obbedì. Piano e con esagerata cautela, si levò la maschera antigas e il respiratore, rivelando le fattezze cerulee e scioccate di Hideo Nomura. «Che cosa ne farete di lui?» domandò Jinjiro, incuriosito. Randi alzò la spalla sana. «Lo riporteremo negli Stati Uniti per processarlo, suppongo.» Ci fu una nuova serie di raffiche, stavolta provenienti da nord.
«Suggerisco di spostarci tutti e tre e salire sull'elicottero. Questi paraggi sembrano essersi fatti chiaramente pericolosi.» Peter emerse come un fantasma dalla cortina di fumo alla deriva, con l'M-4 imbracciato e puntato. Udì un sonoro scatto metallico nelle vicinanze e si abbassò, mantenendo la calma, su un ginocchio, scrutando davanti a sé in cerca della fonte del rumore. Un uomo armato spuntò dal fumo che si andava lentamente diradando. La mano era ancora sul selettore di tiro del suo fucile da assalto di fabbricazione tedesca, per regolare l'arma da colpo singolo a raffiche di tre colpi in successione. Restò a bocca aperta quando vide l'inglese che lo prendeva di mira. «Troppo imprudente» gli disse Peter in tono sommesso. Poi premette il grilletto. Colpito in pieno da tre proiettili sparati a bruciapelo, lo sconosciuto si accasciò nell'erba bagnata di sangue. Peter attese che il fumo si diradasse. La cortina aleggiò a ovest, verso l'oceano, sfaldandosi lentamente al vento leggero che spirava dal litorale. Peter scrutò lo spazio aperto che si estendeva davanti a lui. Non si muoveva una foglia. Soddisfatto, si voltò e tornò a passo spedito verso l'elicottero. Di un pallore cadaverico per il dolore al braccio fratturato, Randi sospinse il suo prigioniero verso il Black Hawk in attesa. Inciampò e Hideo Nomura si voltò subito a guardarla con un'espressione stravolta dall'odio. Randi scosse la testa e alzò l'M-4, mirando dritto al torace dell'uomo. «Non provarci. A meno che tu non sia davvero convinto di poter resuscitare. Anche con una mano sola ho una mira infallibile. E adesso sali a bordo!» Camminando dietro di lei, Jinjiro ridacchiò; era chiaro che si stava divertendo un mondo di fronte al turbato sconcerto del suo infido figlio degenere. L'uomo che si faceva chiamare «Lazzaro» si voltò e salì a bordo dell'elicottero. In piedi accanto al portello aperto, Randi gli fece cenno di andare a sedersi su uno dei sedili sul retro rivolti in avanti. Aggrottando la fronte, «Lazzaro» obbedì. Peter spuntò all'improvviso accanto a Randi. Sbirciò nel compartimento destinato alle truppe e guardò il prigioniero. Non seppe nascondere la sua
meraviglia: «Ben fatto, Randi. Davvero ben fatto». Poi si guardò in giro con crescente apprensione. «Ma dove diavolo è finito Jon?» Capitolo 48 Smith si lanciò di corsa verso i quattro uomini armati, avanzando di fianco al gigantesco velivolo in movimento. I suoi avversari si stavano ancora muovendo a due a due. In qualsiasi momento, due di loro si posizionavano bocconi per terra, pronti a fornire fuoco di copertura ai loro compagni che correvano avanti. Erano perlopiù concentrati sulla battaglia che stava infuriando intorno al Black Hawk atterrato, ma erano sicuri che presto avrebbero localizzato Jon. Per un attimo, Smith fu assalito dal dubbio che la sua carica a testa bassa fosse una forma particolarmente stupida di suicidio, ma scacciò quei timori dalla mente. Non aveva alternative. Doveva colpire con rapidità la squadra nemica, prima che lo localizzassero nella cortina di fumo, lo inchiodassero a terra con delle raffiche micidiali e poi si precipitassero a dargli il colpo di grazia. La sua unica possibilità di salvezza era quella di prendere l'iniziativa e mantenerla. La loro tattica d'avanzamento dimostrava che erano dei professionisti bene addestrati, probabilmente più dei mercenari reclutati per il lavoro sporco per l'operazione di Hideo Nomura. In una schermaglia ad azione pianificata, Smith poteva essere in grado di ucciderne uno, forse anche due, ma cercare di combatterli tutti e quattro in contemporanea lo avrebbe condotto a morte sicura. Tuttavia, sapeva per certo che era la presenza del terzo membro degli «Orazi» nel gruppo a far pendere la bilancia verso quell'apparente sconsideratezza. Prima di allora, per ben due volte aveva affrontato uno di quei poderosi e letali assassini. In entrambi i casi era stato davvero fortunato a uscirne vivo, per quanto acciaccato, e non aveva nessuna intenzione di confidare di nuovo nella sua buona stella. Questa volta doveva affrontare la situazione con astuzia, e questo significava correre dei rischi. Avanzò di corsa, alzando i piedi con leggerezza nell'erba alta che delimitava il margine est della pista di decollo. La distanza dall'immensa ala volante in arrivo e dai quattro nemici armati stava diminuendo in fretta mentre la corsa procedeva a una sempre maggiore velocità. Duecentocinquanta metri. Duecento. Centocinquanta. Jon sentiva i pol-
moni affannati per lo sforzo e la tensione. Alzò l'M-4 e lo imbracciò saldamente, poi proseguì la corsa. Cento metri. Il prototipo ad ala volante arrivò rombando lungo la pista dalla direzione opposta. Adesso tutte e quattordici le eliche stavano ruotando forte, producendo dei cerchi lampeggianti di luce nell'aria. «Ora!» Smith premette il grilletto dell'M-4, sparando brevi raffiche in movimento descrivendo un arco che dalla pista di cemento andava verso gli impreparati nemici armati. Frammenti di cemento e zolle di terra ed erba volarono in aria. I quattro si tuffarono bocconi e cominciarono a rispondere al fuoco. Jon deviò a sinistra, allontanandosi a zigzag dalla pista. Diversi proiettili sferzarono l'erba alle sue spalle e gli fischiarono sopra la testa. Jon si gettò in avanti, atterrò sul prato, compì una mezza capriola su una spalla e si rimise in piedi di slancio, proseguendo la corsa. Sparò di nuovo, poi deviò, con un movimento brusco, a destra. Altri proiettili ronzarono rabbiosamente vicinissimi a lui, sparati con l'intenzione di farlo a brandelli. Uno arroventò l'aria a pochi centimetri dal suo volto. I gas surriscaldati in scia al proiettile lo colpirono come un ceffone ben piazzato. Un altro lo colpì di striscio al fianco, rimbalzò sul giubbotto antiproiettile rigido e lo sbatté a terra. Con una certa frenesia, Smith rotolò su se stesso allontanandosi dal punto in cui era caduto nell'erba, udendo vari proiettili fendere la terra dietro di lui. In mezzo a quella sparatoria infernale, Jon sentì una voce baritonale, simile a quella di un toro mugghiante, urlare rabbiosa ordini da qualche parte oltre la pista. L'ultimo degli «Orazi» stava impartendo nuove istruzioni alle sue truppe. E poi, tutt'a un tratto, sorprendentemente, gli spari cessarono. Nel silenzio che seguì, Jon sollevò con estrema cautela la testa. Un impercettibile sorriso di sollievo si disegnò sul suo volto. Com'era nelle sue intenzioni, il secondo velivolo speciale, ancora tranquillamente in fase di rullaggio verso il decollo programmato, si era frapposto tra lui e gli uomini che stavano cercando di ucciderlo. Per un breve momento non poterono più sparare nella sua direzione senza correre il rischio di colpire uno dei loro preziosi velivoli. Smith, però, era consapevole del fatto che il forzato cessate il fuoco non sarebbe durato a lungo.
Si alzò da terra e, tenendosi basso, tornò indietro lungo la pista, cercando di mantenere la stessa velocità della gigantesca ala volante a celle solari in lenta accelerazione. Sbirciò sotto il ciclopico vettore, in cerca di segni di movimento sulla pista di cemento. Ebbe una fugace visione di alcuni anfibi in corsa tra gli stretti varchi fra i cinque carrelli dell'aeromobile e le sue gondole aerodinamiche con il carico utile. Due uomini armati stavano avanzando attraverso l'ampia pista, tagliando dietro il velivolo nello sforzo di avere un campo di tiro sgombro. Jon continuò ad arretrare, in attesa, con l'M-4 appoggiato alla spalla e puntato, con il dito contratto sul grilletto, pronto a sparare. Esalò un respiro, sentendo le pulsazioni cardiache rimbombargli nei timpani. Forza, disse tra sé, sollecitando in silenzio i due uomini in corsa. Commettete un errore. I due parvero udirlo. Impazienti e troppo sicuri di sé, oppure spronati dall'ira del colosso dai capelli castani che li comandava, i due uomini armati sbucarono allo scoperto proprio in quell'istante. Smith aprì il fuoco, sparando una serie di raffiche contro i due avversari improvvisamente sgomenti. L'M-4 gli martellò la spalla con il rinculo. I bossoli vuoti volavano via dall'arma, tintinnando sul cemento della pista. A una cinquantina di metri di distanza, i due uomini lanciarono un urlo rantolante quasi in contemporanea e rotolarono nell'erba. Una grandine di proiettili da 5.56mm li aveva falciati, facendoli a brandelli. E a quel punto, Smith sentì una serie di tremendi colpi di martello al torace e sul fianco destro: una cascata di dolorosissimi impatti sul giubbotto antiproiettile rigido in kevlar che gli fecero fare un mezzo giro su se stesso e lo fecero crollare sulle ginocchia. In qualche modo non si lasciò sfuggire dalle mani l'M-4. Con la vista appannata dal dolore, alzò lo sguardo. Là, a quattro metri di distanza soltanto, un uomo colossale dagli occhi verdi lo fissava di rimando, con un sorriso gelido oltre la canna puntata di un fucile d'assalto. In quell'istante, Jon comprese l'errore che aveva a sua volta commesso. L'ultimo degli «Orazi» aveva sacrificato due dei suoi stessi uomini, mandandoli avanti allo sbaraglio per attirare il fuoco di reazione nello stesso modo in cui un giocatore di scacchi sacrifica le pedine per ottenere un vantaggio strategico. Mentre Jon uccideva i due tirapiedi, il gigante aveva attraversato in rapida corsa la pista davanti allo strano velivolo in fase di rullaggio, per colpirlo di fianco. E ora non c'era niente che Smith potesse fare per salvarsi la pelle.
Senza perdere il ghigno beffardo, l'uomo dagli occhi verdi alzò leggermente la canna del fucile d'assalto, stavolta mirando alla testa di Smith. Alle sue spalle, giusto al margine della sfocata e vacillante vista periferica di Jon, l'estremità alare del ciclopico velivolo entrò nel campo visivo, con i cilindri di plastica contenenti le sostanze letali. La parte più primitiva del cervello di Jon, sconvolta dalla paura, emise un segnale d'allarme di silenzioso terrore allo stato puro, infuriandosi invano contro la sua morte incombente. Jon fece del suo meglio per ignorare quella parte oscura di sé, sforzandosi invece di udire quello che la parte più fredda, più distaccata e più razionale della sua mente stava cercando di dirgli. «Il vento» disse. «Il vento soffia da est.» Senza pensarci oltre, Smith si tuffò istintivamente di lato. Sparò con l'M4 nello stesso momento, premendo il grilletto il più in fretta possibile. L'M-4 esplose i colpi in successione rapida, sollevando il tiro per il rinculo a ogni colpo, mentre Smith svuotava quel che restava del caricatore da trenta colpi. I proiettili crivellarono la gigantesca ala volante, bucherellando le sue superfici di plastica e fibra di carbonio, tranciando cavi di controllo di volo, fracassando computer e apparecchiature di bordo e distruggendo eliche. Il colossale aeromobile oscillò sotto la forza tremenda degli impatti ad alta velocità. Cominciò a sbandare verso ovest, deviando lentamente dalla pista. Terce osservò l'ultima mossa disperata dell'americano dai capelli neri senza pietà né sconcerto. Un angolo della bocca gli si piegò all'insù in un sogghigno malevolo. Era come vedere un animale ferito dibattersi disperatamente in una tagliola. Era una scena da gustare con calma. Restò immobile in piedi, decidendo di seguire il suo bersaglio con la canna del fucile d'assalto, aspettando che il mirino di puntamento si posizionasse sulla sua testa. Ignorò del tutto i proiettili che fischiavano alla sua destra. Da quella ridotta distanza, l'americano non aveva nessuna speranza di colpirlo con dei proiettili di rimbalzo non mirati direttamente a lui. Ma poi udì il ronzio regolare prodotto dai quattordici motori elettrici a celle solari del velivolo sperimentale cambiare tonalità, irruvidendosi in sobbalzi mentre perdevano potenza o si spegnevano. Frammenti e pezzi di plastica fracassata e di fibra di carbonio in frantumi turbinarono in aria e si sparsero sulla pista.
Terce vide il gigantesco velivolo sbandare nella sua direzione, virando violentemente fuori rotta. Fece una smorfia truce. L'ultimo azzardo dell'americano non gli avrebbe salvato la vita, ma i danni prodotti a uno dei tre insostituibili aerei da attacco avrebbero fatto infuriare Nomura. A un tratto Terce fissò incredulo i cilindri di plastica sottile appesi ai pilori alari sotto l'immensa ala a boomerang, notando per la prima volta i fori slabbrati a forma di stella prodotti dalle raffiche dell'americano in parecchi contenitori. Fu solo a quel punto che sentì il vento assassino proveniente da est baciargli dolcemente la faccia. Sbarrò gli occhi verdi, inorridito. In preda al terrore, Terce barcollò all'indietro. Il fucile da assalto gli sfuggì dalle mani tremanti e cadde sbatacchiando sul cemento. Il gigante dai capelli castani emise un gemito irrefrenabile. Sentiva già i nanofagi Stage IV all'opera dentro il suo corpo. Miliardi di orridi nanodispositivi si stavano facendo strada verso l'esterno corrodendo e distruggendo le cellule dai recessi dei polmoni in affanno, diffondendo i loro veleni a ogni fatale respiro. La carne dentro i suoi guanti di spessa gomma trasparente si fece rossa, sbrindellandosi dai muscoli, dai tendini e dalle ossa in una macabra disgregazione innaturale. I due uomini armati superstiti, ancora al sicuro nelle loro maschere antigas, lo guardarono dalle rispettive posizioni di tiro. Con gli occhi sbarrati dalla paura, si alzarono in fretta e batterono in ritirata. Disperato, Terce alzò in muto appello il volto disfatto in via di dissoluzione. «Uccidetemi» sussurrò, tossicchiando e sputando le parole con una lingua che stava cadendo a pezzi. «Uccidetemi! Vi prego!» Invece, presi dal panico per la scena orripilante che si stava svolgendo davanti ai loro occhi, i due gettarono via i fucili d'assalto e fuggirono, senza neanche voltarsi, verso l'oceano. Urlando disperatamente, l'ultimo degli «Orazi» si piegò su se stesso, torturato da un dolore incomprensibile e interminabile, mentre i brulicanti nanofagi assassini lo divoravano vivo dall'interno. Smith corse a perdifiato lungo la pista in direzione nord muovendosi con la velocità di un centometrista, nonostante la fatica e la pena terribile delle lesioni sopportate nel corso dello scontro. Stringeva spasmodicamente i denti, per sopportare il dolore di diverse costole rotte o incrinate, in attrito sotto il giubbotto antiproiettile rigido. Inciampò, imprecò sottovoce e si costrinse a proseguire senza perdere il passo.
Non fermarti!, si incitò in silenzio. Corri come il vento se non vuoi morire. Non si voltò un solo istante a guardare dietro di sé. Conosceva già l'orrore a cui avrebbe assistito. Conosceva la mostruosità di ciò che aveva deliberatamente messo in moto. Ormai la piccola nube dei nanofagi si stava spandendo a ovest all'estremità sud del campo d'aviazione, aleggiando nell'aria portata dal vento verso l'Atlantico. Smith raggiunse, ormai senza più fiato, il Black Hawk. I rotori stavano ancora ruotando lentamente a basso regime. Fili d'erba strappata e tracce persistenti di fumo di scarico del missile SAM lanciato accidentalmente vorticavano pigri nell'aria intorno all'elicottero in attesa. Peter e Randi lo videro arrivare. Le loro espressioni costernate svanirono, e gli andarono incontro entrambi, sorridendo felici e ridendo di sollievo. «Salite a bordo! Presto!» urlò Jon, facendo loro cenno di tornare sul Black Hawk. «Aumenta i giri e decolla immediatamente!» Peter annuì con espressione grave, vedendo il gigantesco aeromobile crivellato di colpi uscire di pista in sbandata, fuori controllo. Sapeva che cosa significava. «Dammi qualche secondo, Jon!» gridò di rimando. L'inglese balzò a bordo dell'elicottero e si precipitò a prendere posto nella cabina di pilotaggio. Con gesti rapidi ed esperti, rivolse l'attenzione alla plancia dei comandi, premendo pulsanti, facendo scattare interruttori e osservando i quadranti elettronici accendersi. Soddisfatto, ruotò la manetta multiuso di regolazione dei motori, dando gas e spingendo i motori a turbina a pieno regime. I rotori cominciarono a ruotare più in fretta. Smith si fermò in scivolata accanto al portello aperto del grosso elicottero da trasporto truppe. Notò che il braccio sinistro di Randi le penzolava inerte. La faccia dell'amica era ancora pallida, tesa a causa delle lancinanti fitte di dolore. «Brutta ferita?» le chiese. Randi esibì un sorrisino ironico. «Fa un male infernale, ma me la caverò. Puoi giocare a fare il dottore in un altro momento.» Prima che Jon avesse il tempo di ribattere, Randi lo fulminò con un'occhiataccia. «E risparmiami qualsiasi commento da saputello. Mi hai sentito?» «Ti ho sentita» rispose Smith in tono pacato. Dissimulando il dolore scatenato dalle proprie ferite, la aiutò a salire a bordo del Black Hawk. Poi si issò a sua volta all'interno dell'elicottero con una certa fatica. Notò gli altri due passeggeri e riconobbe sia Hideo sia Jinjiro Nomura dalle fotografie dei dossier che Fred Klein gli aveva fatto studiare tempo prima a Santa Fe.
Un secolo fa, pensò ironicamente. Solo sei giorni prima. Una vita intera. Randi prese posto su un sedile rivolto all'indietro, di fronte a Hideo Nomura. Trasalendo, stringendo i denti, posò l'M-4 in grembo, assicurandosi che la minacciosa bocca nera della canna fosse puntata dritta al cuore del folle magnate giapponese. Jon si sedette accanto a lei. «Tenetevi forte!» gridò Peter dalla cabina di pilotaggio. «Si parte!» Con gli assordanti motori a pieno regime, il Black Hawk si inclinò leggermente in avanti verso la pista e poi si sollevò in fase di decollo, già in virata mentre prendeva quota allontanandosi dal campo d'aviazione. Capitolo 49 A novanta metri di quota, Peter stabilizzò l'elicottero in volo orizzontale. Ormai erano abbastanza in alto da essere perfettamente al sicuro dalla piccola nuvola di nanofagi che stava veleggiando sopra il campo d'aviazione e l'immenso complesso della Nomura PharmaTech. O almeno così sperava. L'agente inglese aggrottò le sopracciglia, ricordandosi che la speranza veniva sempre dopo la certezza assoluta. Con un leggero colpetto di cloche, si alzò di un'altra trentina di metri. Soddisfatto, Peter fece effettuare al Black Hawk una virata leggera e ampia, iniziando un lento giro orbitale sopra la pista costellata di cadaveri. Poi guardò dietro di sé, lanciando un'occhiata fugace nel compartimento destinato alle truppe. «Adesso dove si va, Jon?» domandò. «Inseguiamo il primo uccellaccio del nostro amico "Lazzaro"? Quello decollato da poco?» Smith scosse deciso la testa. «Non ancora.» L'agente della Covert-One estrasse dal suo M-4 il caricatore esaurito e ne inserì uno nuovo. «Prima ci sono un paio di cose da concludere qui.» Jon si alzò dal sedile e si sdraiò bocconi sul pavimento dell'elicottero, prendendo la mira fuori dal portello aperto. «Posizionati in modo tale che riesca a sparare al terzo vettore, Peter» gridò. «Si è inserito il pilota automatico e sta per decollare.» In risposta alla richiesta, il Black Hawk si inclinò leggermente in virata, puntando a sud. Smith si sporse ancora un po' dal portello, osservando la gigantesca ala volante che si faceva sempre più grande a mano a mano che le si avvicinavano. Quando fu sicuro, premette il grilletto, sparando una serie di raffiche mirate contro l'aeromobile senza equipaggio che stava rullando lungo la pista in fase di decollo. Il fucile d'assalto compatto urtò più volte contro la sua spalla a causa del forte rinculo.
L'UH-60 superò rombando il colossale velivolo e si alzò bruscamente, già impegnato in una virata a orbita circolare completa per ripetere il passaggio in sorvolo. Il percussore dell'M-4 restò bloccato in posizione arretrata dopo l'ultimo colpo. Jon estrasse il caricatore esaurito e ne inserì in fretta un altro carico: l'ultimo che aveva a disposizione. Riarmò il percussore. L'M-4 era pronto a sparare di nuovo. L'elicottero terminò l'orbita circolare e si diresse a nord, tornando indietro per un'altra trasvolata. Smith guardò in basso. Crivellato da trenta proiettili perforanti da 5.56mm, il terzo aerorobot adesso era fermo sulla pista di cemento. Intere sezioni della lunga ala unica a forma di boomerang avevano ceduto, a causa dei numerosi colpi andati a segno. Frammenti di serbatoi sganciabili ed eliche, e di cilindri di plastica contenenti i nanofagi, erano disseminati sulla pista di cemento dietro il velivolo distrutto. «Un uccellaccio di meno» annunciò Smith in tono pratico. «Con questo fanno due su tre. Ne resta soltanto uno.» Hideo Nomura si irrigidì sul suo sedile. «Non muovere un dito» gli intimò Randi, sollevando l'M-4 che aveva in grembo. «Tu non mi spareresti mai all'interno dell'elicottero» la sfidò il giovane magnate giapponese in tono sprezzante. Ogni traccia della garbata facciata cosmopolita coltivata da Hideo in tanti anni di inganno era scomparsa. Ora il suo viso era una maschera rigida, carica d'odio, che rivelava tutta la brutale malizia e l'esasperato egocentrismo da cui era in realtà dominato e guidato. «Morireste anche voi. Voi americani siete troppo deboli. Non avete il vero spirito guerriero.» Randi gli rivolse un sorriso sarcastico. «Può darsi. Ma i serbatoi del carburante che hai alle spalle sono corazzati. E sono pronta a scommettere che tu invece non lo sei affatto. Vediamo chi di noi due ha ragione?» Hideo ammutolì, fissandola con sguardo infuocato. Jinjiro Nomura guardò fuori dal portello aperto, sorridendo serenamente mentre assisteva alla rapida distruzione dei sogni folli e perversi di suo figlio. Tutto ciò che Jinjiro aveva sofferto in dodici mesi di prigionia e di crudele isolamento in quel momento veniva inflitto con gli interessi a Hideo. Guidato da Jon, Peter diresse il Black Hawk verso l'estremità nord della pista e sorvolò i due enormi aerei da trasporto e il jet privato più piccolo
parcheggiati in fondo. Sporgendosi ancora dal portello aperto, Smith sparò un'altra serie di raffiche nelle cabine di pilotaggio degli aerei, mandando in frantumi finestrini e comandi di volo. «Non voglio che nessuno lasci quest'isola finché non arriveranno sul posto le unità delle Forze Speciali e delle squadre di decontaminazione» spiegò. Randi gli passò i caricatori di riserva che non aveva utilizzato. A quel punto Peter portò l'elicottero a una quota più alta, salendo rapidamente e costantemente in un ampio cerchio a spirale, mentre cercavano con lo sguardo le tracce del primo vettore di Nomura. Per alcuni lunghi minuti scrutarono ansiosi il cielo tutt'intorno. Randi fu la prima ad avvistarlo, scorgendo un piccolo bagliore di luce dorata in alto sopra di loro. «Eccolo là!» gridò, puntando il braccio fuori dal portello laterale. «A ore tre. E va dritto a ovest!» «Verso gli Stati Uniti» osservò Smith. Hideo mostrò un sorriso cinico. «Verso Washington, D.C. e i suoi sobborghi, per essere precisi.» L'elicottero compì un'altra virata, mentre Peter posizionava l'UH-60 in rotta parallela al velivolo che stavano inseguendo. Guardò in alto, attraverso il parabrezza della cabina di pilotaggio, con un'insolita espressione angustiata dipinta sul volto. «Quel dannato aggeggio è già troppo in alto, dannazione!» gridò. «Credo che stia volando a tremila metri d'altezza e che stia salendo regolarmente e velocemente di quota.» «Qual è il tetto massimo d'altitudine raggiungibile dal Black Hawk?» domandò Smith, tornando a sedersi al suo posto e agganciando la cintura di sicurezza. «Intorno ai seimila metri d'altezza» rispose Peter, aggrottando le sopracciglia. «Ma a quella quota l'aria sarà molto rarefatta. Troppo rarefatta.» «Non ce la farete» dichiarò Hideo Nomura in tono vittorioso. Nei suoi occhi brillava una luce trionfante. «Siete in largo ritardo. Ormai non potete più fermare il mio Thanatos! E a bordo di quel velivolo c'è una quantità di nanofagi sufficiente a uccidere milioni di persone. Potete anche tenermi prigioniero, ma ho già sferrato al vostro avido Paese materialista un colpo mortale che sarà ricordato per secoli!» Gli altri ignorarono le parole del pazzo magnate giapponese, assorti del tutto a guardare il Thanatos in volo prima che si portasse a quote irraggiungibili. Peter fece impennare il muso del Black Hawk salendo in arrampicata
vertiginosa, all'inseguimento di quel veivolo ormai lontano. L'elicottero prese sempre più quota, salendo a un ritmo di quattrocentocinquanta metri al minuto. Tutti, all'interno dell'elicottero sentirono l'aria farsi sempre più fredda e rarefatta. Quando l'UH-60 superò i tremila metri d'altezza, tutti cominciarono a battere i denti e ad avere le prime difficoltà di respirazione. La densità dell'aria intorno a loro era solo poco più della metà di quella a livello del mare. A quell'altezza la gente poteva ancora vivere e lavorare, e perfino sciare, ma di solito occorreva un po' più di tempo per acclimatarsi. L'ipossia, cioè la mancanza di apporto di ossigeno nel sangue, adesso era un rischio reale. Il Thanatos ora era più vicino, ma era sopra di loro e stava salendo ancora di quota. La ciclopica ala volante si inclinava di tanto in tanto quando i comandi di volo a bordo si adattavano in automatico ai piccoli cambiamenti nella velocità del vento, nella direzione di rotta e nella pressione barometrica. Altrimenti il velivolo manteneva regolarmente la rotta, volando ostinatamente verso il suo obiettivo: la capitale degli Stati Uniti. Peter spinse il Black Hawk ancora più in alto. La testa e i polmoni gli facevano male, e trovava sempre più difficoltoso concentrarsi su quello che stava facendo. La vista gli si offuscò leggermente ai lati degli occhi. Sbatté più volte le palpebre, cercando di schiarirsela. L'altimetro salì lentamente fino a quattromila metri di quota. A quella distanza dalla superficie terrestre, i rotori dell'elicottero fornivano una spinta minore. L'andamento di ascesa e quello di velocità aerea stavano entrambi diminuendo rapidamente. Quattromilacinquecento metri. E ancora il gigantesco velivolo era sopra di loro, sempre più vicino, ma ancora irraggiungibile. Passò un altro minuto, un minuto di freddo sempre più intenso e di spossatezza sempre maggiore. Peter guardò di nuovo in alto oltre il parabrezza. Niente. Il Thanatos non c'era più. «Vieni qui, maledetto!» imprecò. «Piantala di fare la canaglia con me! Dove sei finito adesso?» A un tratto la luce del sole sfavillò su un'immensa superficie alare proprio sotto di loro, riflessa da migliaia di celle solari brillanti come specchi. «Ce l'abbiamo fatta! Siamo sopra il bestione!» esultò Peter. Subito dopo tossì, cercando di aspirare altra aria nei polmoni sotto pressione senza iperventilare. «Ma dovrai fare alla svelta, Jon. Veloce come un fulmine.
Non posso restare così in alto troppo a lungo!» Annuendo, Smith sganciò la cintura di sicurezza e di nuovo si stese sul pavimento dell'elicottero sporgendosi piano dal portello aperto. Ogni pezzo di metallo che toccava era gelato e talmente al di sotto del punto di congelamento da sembrare rovente. La temperatura dell'aria all'esterno era di molto sotto lo zero. Jon si soffiò freneticamente sulle mani per tentare di scaldarle, sapendo che rischiavano tutti di perdere per congelamento le dita e altre parti di pelle scoperta. Poi, stringendo a sé l'M-4, si sporse in fuori, nella scia d'aria, sentendo il vento tirargli i capelli e i vestiti. Ora riusciva a vedere l'immensa ala volante che Hideo Nomura chiamava Thanatos. Era più o meno a una cinquantina di metri sotto di loro. Il Black Hawk rallentò, adattando la velocità a quella del suo bersaglio. Gli occhi di Smith lacrimavano, sferzati dal vento gelido. Li chiuse, serrandoli forte, e si terse le lacrime con il dorso della mano prima che congelassero. Prese la mira. La superficie di quella specie di macchina volante sussultò leggermente e poi si stabilizzò. Jon premette il grilletto. I proiettili colpirono in pieno il Thanatos, distruggendo centinaia di celle fotovoltaiche. Frammenti di vetro e di plastica volarono via come in un turbine e scomparvero a poppa. Per un momento la gigantesca ala a forma di boomerang si fletté al centro in modo allarmante, poi scivolò più in basso. Jon trattenne il respiro. Ma poi i computer di volo del gigantesco velivolo corressero automaticamente i difetti per l'improvviso calo d'energia, aumentando i giri alle eliche. L'aerorobot si stabilizzò e riprese di nuovo a salire. Smith imprecò a denti stretti, annaspando già in cerca di un nuovo caricatore. In mezzo al rumore, al freddo glaciale e all'aria rarefatta, quasi impossibile da inspirare, Randi lottava per non perdere conoscenza. L'acuto dolore lancinante del braccio fratturato adesso si stava mescolando alla terribile cefalea pulsante che le stava spaccando il cervello. Strinse i denti, colpita da un'ondata di nausea. Il dolore alle tempie adesso era così intenso da darle l'impressione di trasmetterle dei piccoli impulsi di luce rossa lampeggiante negli occhi a ogni battito cardiaco. La testa le ciondolò leggermente in avanti.
E in quel breve istante Hideo Nomura attaccò. Con una mano le fece cadere il fucile d'assalto compatto, mentre con l'altra la colpì forte di taglio alla base del collo. La clavicola di Randi emise un rumore secco come quello di un ramo spezzato. Con un gemito sommesso, Randi cadde all'indietro contro il sedile e poi rimbalzò di nuovo in avanti. Solo la cintura di sicurezza le impedì di scivolare sul pavimento del compartimento destinato alle truppe. Nomura raccolse in fretta l'M-4 e glielo puntò alla testa. Smith lanciò un'occhiata dietro di sé, richiamato dal rumore. Si rigirò supino, si mise seduto e poi restò di sasso di fronte alla scena che gli si parava davanti. Un'occhiata terrorizzata bastò a fargli comprendere che la situazione era cambiata. «Getta fuori bordo il fucile» ordinò Nomura. Gli occhi di «Lazzaro» scintillavano, duri come il ghiaccio e altrettanto gelidi. «O farò saltare il cervello a questa donna.» Jon deglutì a fatica, fissando Randi. Non riusciva a vederla in faccia. «È già morta» disse, tentando disperatamente di guadagnare tempo. Nomura scoppiò a ridere forte. «Non ancora» ribatté. «Guarda.» Il giapponese afferrò con la mano libera i capelli biondi di Randi e le sollevò la testa. Randi gemette piano. Aprì gli occhi ammiccando per una frazione di secondo e li richiuse. «Lazzaro» mollò la presa con aria sprezzante, lasciando che la testa di Randi tornasse a ciondolarle sul petto. «Visto?» disse. «Adesso fai come ti ho detto!» Sconfitto, Smith lasciò cadere l'M-4 nel vuoto. L'arma vorticò nella turbolenza d'aria e scomparve. «Molto bene» disse Nomura, che stava riprendendo vigore. «Impari alla svelta a obbedire.» Hideo si abbandonò di nuovo contro lo schienale del sedile, tenendo l'M-4 di Randi saldamente puntato contro il torace di Jon. La sua espressione si fece più dura. «Adesso ordina al tuo pilota di allontanarsi dal mio Thanatos.» Smith alzò la voce. «Hai sentito cosa vuole quest'uomo, Peter?» L'inglese si voltò a guardarli. I suoi occhi azzurro chiaro erano del tutto impassibili. «Ho sentito» ribatté con freddezza. «A quanto pare non abbiamo scelta, Jon. Almeno al punto in cui stanno le cose.» «No» convenne Smith. «Non al punto in cui stanno» disse, enfatizzando l'ultima parola. E piegò leggermente la testa di lato. Un ammiccamento quasi impercettibile aleggiò nell'occhio sinistro di
Peter. L'inglese si girò di nuovo verso i comandi del Black Hawk. Nomura rise ancora. «Vedi, padre» disse Hideo rivolto a Jinjiro. «Questi occidentali sono troppo deboli. Hanno cara la vita più di qualsiasi altra cosa.» L'anziano giapponese non disse nulla. Restò seduto, imperturbabile, paralizzato dalla tristezza. L'improvviso rovescio della fortuna lo aveva di nuovo fatto precipitare nella disperazione. Smith rimase seduto vicino al portello aperto dell'elicottero, con i nervi tesi, in attesa che Peter facesse la sua mossa. A un tratto, l'inglese inclinò in violenta virata l'elicottero a destra, quasi piegando sul fianco il Black Hawk. Nomura barcollò all'indietro e perse l'equilibrio. Andò a sbattere con la schiena contro la paratia in fondo al compartimento destinato alle truppe, poi scivolò sul pavimento. Il dito, curvo sul grilletto dell'M-4 di Randi, si contrasse involontariamente. Tre proiettili perforarono il tetto e rimbalzarono di striscio sulle pale del rotore. Non appena l'elicottero effettuò la brusca manovra di sbilanciamento, Smith si avventò contro Nomura, lontano dal portello aperto. Si tuffò in avanti e colpì il folle magnate giapponese con una testata al torace. Strappò l'M-4 dalle mani dell'avversario e lo gettò lontano sul pavimento dell'elicottero. L'arma sbatacchiò da qualche parte e finì tra i sedili. Il Black Hawk si stabilizzò in volo orizzontale e poi cominciò di nuovo a salire in arrampicata. Ringhiando come una belva ferita, Nomura sferrò un calcio a Jon, respingendolo. I due uomini si alzarono barcollando in piedi. Hideo attaccò per primo, sferrando calci e pugni all'impazzata. Jon parò due pugni con gli avambracci, deviò un calcio con l'anca, si abbassò sotto un terzo gancio mirato al volto e poi contrattaccò. Afferrò Nomura per un braccio, lo colpì alla faccia con un micidiale diretto e lo scaraventò infine oltre la fila di sedili. Hideo Nomura cadde di peso a terra, rannicchiato su se stesso, vicino al portello aperto. Benché intontito, col sangue che gli colava dal setto nasale rotto, si sforzò di rimettersi in piedi, seppure a fatica. Smith si aggrappò a un sedile e urlò con quanto fiato aveva in gola: «Peter! Ora! Rovescia! Rovescia!». L'inglese obbedì all'istante, inclinando di nuovo il Black Hawk in brusca virata, stavolta però a sinistra. L'elicottero si piegò sul fianco, per un attimo parve restare fermo così, alto sopra l'oceano Atlantico, effettuando una stretta virata per invertire la rotta. Il Thanatos si profilò sotto di loro, a una
quindicina di metri soltanto, ancora diretto a ovest per la sua programmata missione di sterminio di massa. Hideo Nomura tentò un tuffo disperato in avanti e si aggrappò per miracolo al montante di un sedile. Le sue gambe restarono sospese a mezz'aria, penzolanti fuori dal portello aperto. Le agitò convulsamente, cercando di trovare un punto d'appoggio che non c'era. Con le braccia tese in avanti, bocconi sul pavimento, cominciò a trascinarsi di nuovo all'interno dell'elicottero. Digrignando i denti in un ghigno bestiale, alzò gli occhi e vide suo padre che lo fissava dall'alto. Jinjiro Nomura scrutò a fondo lo sguardo impazzito dell'uomo che un tempo era stato il suo figlio adorato. «Hai giudicato male questi americani» disse in tono sommesso. Poi emise un sospiro addolorato. «Proprio come hai giudicato male me.» Ciò detto, l'anziano magnate giapponese si piegò in avanti, trattenuto dalla cintura di sicurezza, e pestò con i piedi le mani del figlio, facendogliele staccare di forza dal montante del sedile. Con una maschera inorridita scolpita sul volto stravolto, il giovane Nomura scivolò fuori dal portello aperto, ghermendo selvaggiamente con le unghie e le dita tremanti il bordo dell'apertura, in cerca di un appiglio sul metallo liscio. Poi, con un gemito disperato, precipitò nel vuoto, roteando in caduta libera verso il Thanatos che stava volando sotto al Black Hawk in virata. Ancora scalciando e agitando convulsamente le braccia e le gambe, l'uomo che si faceva chiamare «Lazzaro» andò a schiantarsi sulla fragile superficie dell'enorme ala volante a forma di boomerang. Il velivolo sobbalzò, scosso dall'urto improvviso. Poi, sovraccarico e già danneggiato, il Thanatos si spezzò a metà, piegandosi come un libro che si chiude. Eliche, serbatoi sganciabili e grappoli di cilindri di plastica contenenti i nanofagi si staccarono in una crescente nube di detriti volanti. Sempre più velocemente, i rottami contorti dello strano velivolo vorticarono su se stessi, a trottola, precipitando in una verticale perfetta fino ad affondare di schianto nelle acque voraci e in attesa del vasto e spietato oceano sottostante. Epilogo Primi di novembre Casa Bianca, Washington, D.C.
Sebbene fosse ancora primo pomeriggio, il presidente Samuel Adams Castilla aveva abbandonato il trambusto e la confusione dello Studio Ovale e degli uffici adiacenti, preferendo invece la pace accogliente e la privacy del suo rifugio al primo piano dell'ala est. Quella stanza era tutta sua, esente dai capricci alla moda degli architetti d'interni che avevano arredato il resto della Casa Bianca, seguendo il gusto di sua moglie. C'erano scaffali colmi di libri ricercati, una grande stuoia Navajo a copertura del pavimento in parquet lucidato a specchio, un imponente divano di pelle nera, un paio di comodissime poltrone con il poggiapiedi e un televisore con schermo da 42 pollici. Appese alle pareti c'erano varie stampe di opere di Frederic Remington e di Georgia O'Keeffe, accanto ad alcune fotografie delle aspre montagne circostanti Santa Fe. Castilla guardò dietro di sé con un sorriso. Le sue mani erano sospese su una bottiglia e un paio di bicchieri da whisky, sopra la credenza. «Ti va uno scotch, Fred?» Fred Klein ricambiò il sorriso dal punto in cui si era messo comodo sul grande divano. «Certamente, signor presidente.» Castilla versò il whisky nei due bicchieri e andò a servirlo. «Questo è il Caol Ila, il preferito di Jinjiro.» «Mi sembra più che adatto per questa occasione, Sam» fu il pacato commento di Klein. Il direttore della Covert-One indicò con un cenno il televisore. «Dovremmo vederlo da un momento all'altro.» «Già. E non me lo perderei per niente al mondo» ribatté Castilla. Il presidente depose il bicchiere di scotch sul tavolino e premette un pulsante sul telecomando della TV. Lo schermo si illuminò, mostrando la vasta sala dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York. Jinjiro Nomura era in piedi da solo sul palco, e guardava davanti a sé la marea di delegati e di telecamere con perfetto aplomb, benché sapesse che le sue parole e la sua immagine sarebbero state trasmesse in mondovisione a più di un miliardo di persone che stavano assistendo in quello stesso momento al programma in diretta. La sua espressione era solenne, sebbene ancora profondamente segnata dalle sofferenze lasciate dal tradimento, da un anno di prigionia e dalla morte del figlio. «Sono qui davanti a voi oggi per conto del Lazarus Movement» esordì Jinjiro Nomura. «Un movimento i cui nobili ideali e i cui dediti militanti sono stati traditi dalla malvagità di un solo uomo. Quest'uomo, mio figlio Hideo, ha assassinato i miei amici e colleghi e mi ha imprigionato, elimi-
nando chi fra noi aveva fondato l'organizzazione ambientalista, in modo da prenderne il potere in segreto. Poi, mascherandosi da "Lazzaro", ha usato il nostro movimento per occultare le sue spietate mire personali, arrivando a prefigurare perfino il genocidio, per scopi completamente diversi da tutto ciò che il nostro movimento si prefigge in realtà...» Castilla e Klein ascoltarono soddisfatti in silenzio l'anziano Nomura raccontare con accuratezza e precisione tutti i dettagli del tradimento di Hideo, rivelando sia la sua creazione segreta di nanofagi assassini sia i suoi piani per utilizzarli allo scopo di annientare gran parte dell'umanità, in modo da diventare il padrone assoluto del mondo, unico dominatore dei superstiti che sarebbero stati a lui sottomessi. Informati in precedenza da Jinjiro, i Paesi alleati degli Stati Uniti avevano già cominciato a far ritorno all'ovile, esprimendo tutti il profondo sollievo che i loro sospetti si fossero dimostrati infondati, e ansiosi di rimediare ai compromessi rapporti con gli Stati Uniti prima che la verità fosse pubblicamente resa nota a tutti. Quel discorso alle Nazioni Unite era solo il primo passo di una risoluta campagna per svelare la sovversione del Lazarus Movement e salvare la reputazione dell'America. Sia Klein che Castilla sapevano bene che ci sarebbero voluti del tempo e molti sforzi, ma erano anche sicuri che le ferite lasciate dai diabolici inganni di Hideo Nomura si sarebbero cicatrizzate. Pochi isolati fanatici potevano restare attaccati alla radicata convinzione che l'America fosse colpevole, ma la stragrande maggioranza dell'opinione pubblica nel mondo avrebbe accettato la verità, influenzata dalla pacata persuasione e dalla carismatica presenza dell'ultimo fondatore superstite del Lazarus Movement, oltre che dalla pubblicazione di documenti sequestrati all'interno dei laboratori segreti di Hideo Nomura nelle Azzorre. Il movimento stesso si stava già sgretolando, scosso fin nelle fondamenta dalle prime rivelazioni delle menzogne e dalle trame eversive e assassine del suo folle leader. Qualsiasi cosa si fosse salvata, l'avrebbe fatto solo tornando all'originale visione di Jinjiro di una forza disinteressata, i cui unici scopi erano i cambiamenti pacifici e le riforme ambientaliste. Castilla cominciava a rilassarsi per la prima volta da parecchie settimane a quella parte. Gli Stati Uniti e il resto del mondo l'avevano scampata per un pelo. Emise un sospiro di sollievo e notò che Fred Klein lo stava osservando. «È finita, Sam» sentenziò il direttore della Covert-One in tono tranquillo.
Castilla annuì. «Lo so.» Poi levò alto il bicchiere. «Al colonnello Smith e agli altri.» «Alla loro salute» gli fece eco Klein, levando il proprio bicchiere. «Slainte.» Mall, Washington, D.C. Un pungente venticello autunnale, che portava con sé l'odore di pioggia recente, agitava le foglie ancora attaccate agli alberi ai due lati del Mall, il celebre viale di Washington. La luce del sole filtrava a lame in diagonale tra i rami, chiazzando l'erba di luminose figure in movimento in netto contrasto con le ombre colorate di rosso e di giallo oro. Jon Smith camminava tra le ombre degli alberi avvicinandosi a una donna che stava in piedi, in atteggiamento pensoso, accanto a una panchina. I corti capelli biondi della donna brillavano alla luce intensa del pomeriggio. Malgrado l'ingombrante ingessatura che le bloccava il braccio sinistro e la spalla, appariva snella e aggraziata. «Stavi aspettando me?» le disse quando fu a pochi passi da lei. Randi Russell si voltò verso di lui. Un vago sorriso le increspò le labbra. «Se sei il tizio che mi ha lasciato un messaggio sulla segreteria telefonica invitandomi a uscire a cena, suppongo di sì» rispose in tono sarcastico. «In caso contrario cenerò da sola.» Sul volto di Smith si dipinse un sorriso smagliante. Certe cose non cambiavano mai. «Come va il braccio?» domandò. «Abbastanza bene» rispose Randi. «I dottori mi hanno detto che tra qualche settimana mi toglieranno il gesso. Poi, quando la clavicola si sarà rinsaldata, ancora un po' di convalescenza e di riabilitazione dovrebbero rimettermi in sesto per il servizio attivo. Francamente, non ce la faccio più ad aspettare. Non sono tagliata per stare a scaldare la sedia dietro a una scrivania.» Jon annuì. «A Langley regna ancora il caos?» Randi si strinse nelle spalle. «Pare che le acque si stiano calmando. I fascicoli che i nostri agenti hanno recuperato nelle Azzorre hanno inchiodato quasi tutti i responsabili implicati nell'operazione Tocsin. Hai sentito che Hanson ha rassegnato le dimissioni?» Smith annuì ancora. Il direttore della CIA non era stato direttamente coinvolto nell'operazione illegale di Hal Burke e Kit Pierson, ma nessuno dubitava che la sua cronica incapacità di giudizio e la sua volontà di chiu-
dere un occhio fossero in parte causa di quanto era accaduto. Le dimissioni di David Hanson «per motivi personali» erano un'alternativa salvafaccia per non essere licenziato pubblicamente. «Hai notizie di Peter?» chiese Randi a sua volta. «Settimana scorsa mi ha telefonato. È tornato alla sua vita da pensionato nella Sierra. Stavolta per sempre, insiste a dire.» Randi inarcò un sopracciglio con aria scettica. «E tu gli credi?» Smith se la rise. «Veramente no. Non ce lo vedo proprio seduto sulla sedia a dondolo sotto il portico di casa per troppo tempo.» Randi guardò Jon negli occhi, scrutandolo a fondo. «E tu? Giochi ancora a fare la spia per il Comitato dei capi di stato maggiore riuniti? O questa volta era per conto del Servizio segreto dell'esercito?» «Sono tornato a Fort Detrick, al mio vecchio incarico all'USAMRIID» le disse Smith. «Di nuovo alla noia delle malattie infettive?» Jon scosse il capo. «Non esattamente. Stiamo sviluppando un programma per monitorare la ricerca e lo sviluppo di nanotecnologie potenzialmente pericolose a livello internazionale.» Randi restò a fissarlo un momento. «Abbiamo fermato Nomura» spiegò Smith in tono sommesso. «Ma ormai il genio è uscito dalla lampada. Potrebbe esserci qualcun altro che un giorno o l'altro potrebbe tentare qualcosa di altrettanto distruttivo.» Randi rabbrividì. «Non riesco a sopportarne nemmeno il pensiero.» Jon annuì tristemente. «Almeno ora sappiamo che cosa cercare. Produrre nanodispositivi biologicamente attivi richiede sostanze biochimiche in grandi quantità. E quelle sono sostanze che possiamo rintracciare.» Randi sospirò. «Forse dovremmo solo assecondare la reale e originaria richiesta del Lazarus Movement: bandire completamente la ricerca nanotech.» Smith scosse la testa con vigore. «E perdere così tutti i potenziali benefici? Come curare il cancro? O eliminare l'inquinamento?» Jon alzò le spalle. «È paragonabile a qualsiasi altra tecnologia moderna, Randi. Né più né meno. Come la usiamo, nel bene e nel male, dipende da noi.» «Adesso parli come un uomo di scienza» disse Randi in tono caustico. «È quello che sono» ribatté Smith. «Per la maggior parte del tempo, almeno.» «Giusto» continuò Randi con un sorrisino sarcastico. Poi si raddolcì. «Okay, dottor Smith. Ha promesso di portarmi fuori a cena. Ha intenzione
di onorare la promessa?» Smith accennò a un inchino e le offrì il braccio. «Non sia mai detto che non sono un uomo di parola, signorina Russell. Offro io.» Fianco a fianco, Jon e Randi si voltarono e si incamminarono senza fretta verso l'auto di Smith. Sopra di loro, le ultime nuvole cariche di pioggia si stavano allontanando, lasciandosi dietro un limpido cielo azzurro. FINE