JOHN DICKSON CARR L'ARTE DI UCCIDERE (The Lost Gallows, 1931) 1 L'ombra del patibolo Sul tavolo davanti a noi, fra le ta...
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JOHN DICKSON CARR L'ARTE DI UCCIDERE (The Lost Gallows, 1931) 1 L'ombra del patibolo Sul tavolo davanti a noi, fra le tazze da tè, spiccava il modello di una forca; minuscolo ma perfetto in ogni sua parte. Era alto al massimo venticinque centimetri e costruito in legno di cedro dipinto di nero. Tredici gradini salivano alla piattaforma dov'era la botola, chiusa da cardini in miniatura e da una sbarra. Dalla trave più corta penzolava un piccolo cappio di spago. Mi pare di vederlo ancora, messo in terribile rilievo dalla tovaglia candida, fra le tazze e i piatti di tartine, alla luce gialla delle lampade accese nel tardo pomeriggio. Al di là della finestra a balconcino, nello strombo della quale avevamo preso posto, una nebbia opaca stava avviluppando i lampioni lungo Pall Mall. Il rombo soffocato del traffico, spesso lacerato dai clacson ululanti degli autobus, veniva a infrangersi contro i vetri. Vi si riflettevano i volti di Bencolin e di Sir John Landervorne, intenti a studiare l'orrendo giocattolo. I due cacciatori di uomini erano estremamente diversi. La faccia di Sir John era olivastra e austera, con la fronte alta e stretta sormontata da una lucida chioma grigia. Le sopracciglia nere e sottilissime si corrugavano sugli occhi, che apparivano cupi dietro gli occhiali montati in oro e appoggiati su un naso dal disegno cesellato. Le sue palpebre si aprivano e si richiudevano lentamente, mentre una lunga mano pallida tormentava i baffi grigi e la corta barbetta pure grigia. Sir John Landervorne stava esaminando con estrema attenzione la piccola forca. Un tempo era stato vicecommissario della polizia metropolitana. Dall'altra parte del tavolo, Bencolin lo osservava dietro una cortina di fumo che proveniva da una sigaretta. Il francese era un alto e pigro Mefistofele dall'espressione ironica. I capelli neri avevano la scriminatura nel mezzo e si arricciavano ai lati della testa, quasi a formare due corna. Rughe sottili gli correvano dalle narici al mento, seminascoste da corti baffetti e da un pizzo tagliato a punta. La bocca socchiusa a un accenno di sorriso rivelava il bagliore dei denti. Bencolin aveva zigomi alti e occhi dall'espressione impenetrabile. Il suo viso rivelava un'indole brillante, fiera, ca-
pricciosa e crudele. Anelli scintillavano sulle dita che reggevano la sigaretta. Tale era Henri Bencolin, juge d'instruction del dipartimento della Senna e capo della polizia di Parigi, nonché l'uomo più pericoloso d'Europa. Erano le cinque e mezzo del pomeriggio del 16 novembre. Ci trovavamo nel salone del Brimstone Club di Londra. Il ritrovamento del modellino di forca ci coinvolse nel famoso caso dì omicidio della Forca Perduta nella Strada Perduta, ed ecco come accadde. Io e Bencolin eravamo venuti da Parigi per assistere alla prima del dramma La maschera d'argento all'Haymarket Theatre. Se ve ne ricordate, questo lavoro di Edouard Vautrelle aveva fornito un indizio decisivo per la soluzione del caso Saligny, l'aprile precedente. Avevamo prenotato due stanze al Brimstone, dove Sir John abitava e dove ci avrebbe accolti al nostro arrivo. Sir John era uno dei più vecchi amici di Bencolin, e il suo genio organizzativo aveva fatto miracoli a Scotland Yard. Prima della guerra, era stato vicecommissario di polizia sotto l'onorevole Ronald Devisham. Io lo avevo conosciuto a Parigi, dove lui veniva di tanto in tanto a trovare Bencolin. Era un uomo molto alto e curvo, di maniere cortesi ma austere, scarsamente dotato di senso dell'umorismo e con l'aria di chi stia eternamente progettando una mossa difficile su una scacchiera: il tipo d'uomo che un romanziere della vecchia scuola avrebbe descritto come "piegato dal peso di un segreto". Bencolin diceva che non si era mai rimesso dalla perdita dell'unico figlio in guerra. Si era ritirato dalla sua carica nel 1919, e da allora era diventato un recluso nella sua casa dell'Hampshire fino all'anno precedente, quando aveva preso alloggio stabile a Londra. Quel pomeriggio, era venuto ad aspettarci alla stazione Victoria. Quando il nostro treno si fermò ansimando e sputacchiando sotto l'oscura pensilina, la prima persona che vedemmo, in piedi, sulla piattaforma annebbiata dalla fuliggine, fu proprio lui. Ci diede il benvenuto con una specie di cordialità imbarazzata, ma nessuno di noi si sentiva di umore particolarmente allegro. Faceva troppo freddo, e la nostra traversata della Manica era stata scomoda e burrascosa, per cui noi due eravamo depressi e nemmeno la prospettiva di una serata a teatro ci aveva risollevati di spirito. Ecco perché, non appena ci installammo al Brimstone e prendemmo posto nel salone per fare una chiacchierata insieme, il discorso cadde inevitabilmente sul delitto. Il salone dove avevamo ordinato il tè era un ambiente molto vasto. Vantava pareti tappezzate a pannelli di legno scuro, numerose finestre a balconcino e un'infinità di bassorilievi grotteschi che erano associati con la
storia del club. Un fuoco di legna ardeva nell'immenso caminetto di pietra, brulicante d'intagli raffiguranti forme mostruose e sormontato dal ritratto del fondatore del club, dipinto da De Suérif. Credo che Sir George Falconer avrebbe apprezzato molto la nostra conversazione su quel libertino, duellatore, cavallerizzo e ubriacone che era stato, in mezzo alla folla di turbolenti di nome George che circondavano il Principe Reggente. Nel ritratto lo si vede in piedi, col viso colorito, redingote verde bottiglia, cravatta alla Brummel e pantaloni aderenti quanto una seconda pelle. Ha i capelli accuratamente ondulati e i suoi occhi dallo sguardo insolente guardano in giù, alla scarsa luce delle lampade color ambra. Dal suo posto elevato nel salone maestoso, in quel momento guardava la schiena di Sir John Landervorne, sprofondato in una comoda poltrona di fronte a Bencolin, dall'altro lato del tavolo dov'era stato servito il tè. Sir John parlava con aria esitante, come se considerasse con diffidenza ogni parola prima di pronunciarla. «Sapete, Bencolin, una particolarità che mi ha sempre meravigliato dei delitti commessi sul continente è il loro gusto del pittoresco. Ho sfogliato i vostri verbali e li ho trovati stupefacenti, specialmente alcuni. Riportano delitti che erano il frutto di un'immaginazione spaventosa, direi quasi diabolica.» Si aggiustò meglio gli occhiali sul naso e guardò con aria dubbiosa la sua tazza di tè. Quindi riprese: «Può darsi che ciò sia dovuto alla mentalità gallica... sì, sono quasi certo che sia questa la spiegazione. Gente fatta uccidere da scorpioni, soffocata da corde intrecciate con capelli femminili o trafitta a morte da armature irte di spunzoni di ferro, come la Vergine di Norimberga...» Fino a quel momento, Bencolin era parso studiare le volute di nebbia che si agitavano fuori della finestra, il mento fra le mani. Si girò a guardare l'amico. «Cosa intendete per mentalità gallica?» chiese. «Be', l'abbandono alle emozioni sfrenate proprio del carattere gallico, direi. Voi del continente siete di regola piuttosto volatili, quanto a temperamento.» Bencolin ora fissava le fiamme e aveva sulle labbra un sorriso enigmatico. «"L'abbandono alle emozioni sfrenate"...» ripeté. «Dicendo questo, voi certo immaginate un francese con occhi da pazzo, in preda a una collera cieca, che afferra un pugnale e lo immerge nel petto della sua innamorata.
Ma un delitto simile, Sir John, è frutto di sentimentalismo puro e semplice. Di solito viene commesso da un sentimentale anglosassone che, infiammato dall'ira, pugnala la sua donna e poi piange sul fiore schiacciato lasciato da lei tra le pagine di un libro. Gli anglosassoni hanno una mentalità davvero semplice e diretta. Nel calore della passione, concepiscono il desiderio di uccidere: ergo, procedono immediatamente all'azione e uccidono senza indugio. In altre parole, vanno diritti allo scopo... ed è proprio questo che ripugna alla mentalità gallica in tutte le evenienze della vita, dal commettere un delitto al discutere il prezzo degli zucchini con l'erbivendolo.» Sir John emise un grugnito poco convinto e rivolse un'occhiata scettica al ripiano del tavolo. «La mentalità gallica adora i procedimenti tortuosi. Un francese non entrerà mai in casa vostra dalla porta principale, se è possibile introdurvisi da un passaggio segreto. Tuttavia è sempre freddo, crudele e astuto. Se uccide, uccide con premeditazione strettamente logica. Esprime la sua indole essenziale nel gesto teatrale, nelle fioriture, nel particolare sfacciatamente drammatico, dando con questo la prova più evidente della sua freddezza di temperamento. Un'emozione autentica e spontanea è sempre incoerente. Un uomo veramente, follemente innamorato, non sa mormorare che balbettii sconnessi alla sua donna; invece il don Giovanni gelido e calcolatore scrive per lei versi d'amore bellissimi, armoniosi e complicati.» Bencolin s'interruppe. «Naturalmente, dicendo questo, non sto cercando d'istituire una differenza fra inglesi e francesi: voglio solo fare una distinzione tra due diversi tipi di mentalità, a qualsiasi nazione appartengano. La seconda, però, è quella che maggiormente m'interessa e mi accorda le massime soddisfazioni, perché...» «Avevo già osservato questa tendenza in voi» lo interruppe Sir John. «Perché è la mentalità che produce l'arcicriminale» concluse Bencolin. Teneva socchiusi gli occhi, che brillavano straordinariamente tra le palpebre. «È la mentalità espressa da quei cervelli ciechi e folli che rimuginano in eterno sulla propria superiorità. È questo che li rende veramente pazzi, in un certo senso: il continuo, morboso assorbimento in loro stessi. Uno dei delitti più bizzarri che io abbia mai incontrato sulla mia strada...» Dopo un lungo silenzio, continuò. «Una volta, qualche anno fa, la polizia di Parigi trovò in un bosco, all'alba, il cadavere di un uomo vestito del costume e dei sandali d'oro di un nobile della corte dei Faraoni di quaranta secoli or sono. Gli avevano piazza-
to una pallottola in fronte. Sì, fu un delitto davvero bizzarro. La conseguenza fu che un inglese s'impiccò nella sua cella alla prigione della Santé. Aveva ricavato una corda dalle lenzuola della cuccetta...» Uno strano rossore era salito agli zigomi olivastri di Sir John, che sembrava essersi irrigidito nella poltrona. «Posso chiedervi cosa ha richiamato alla vostra mente quel delitto?» domandò. «Mi pare che vi abbia stupito. Conoscevate quel caso?» «In effetti, anche se vi parrà incredibile, stavo pensando a qualcosa di molto simile. Una faccenda alquanto differente, ma ugualmente connessa con l'impiccagione...» Lo vedemmo rilassarsi. Picchiettò con la punta delle dita sui braccioli della poltrona e gli occhi cupi dietro le lenti parvero contemplare l'oscillazione dei piatti di una bilancia. «Di che cosa si tratta?» chiese Bencolin. «Di un racconto senza capo né coda» rispose oziosamente Sir John. «Il mio parere è che Dallings doveva aver bevuto un bicchiere di troppo... Dallings è un mio giovane amico, il quale pare sia stato coinvolto di recente in uno stranissimo affare. Nel corso della vicenda, si è perduto nella nebbia e giura di aver visto sulla fiancata di una casa l'ombra di una forca e di un cappio. Sostiene che il fantasma di Jack Ketch stava salendo gli scalini per andare ad aggiustare la corda. Oh, un racconto dell'orrore davvero impressionante, ve lo assicuro... Santo cielo, ma cosa vi succede?» Bencolin aveva tenuto gli occhi fissi per qualche tempo ai vetri oscurati della finestra. In quel momento, si voltò di scatto. «Vi chiedo scusa per avervi interrotto, amico mio» disse. «Ma un attimo fa avrei giurato di aver visto io stesso un fantasma, riflesso su quei vetri.» Sir John guardò a sua volta la finestra. «Il vostro sarebbe un modo immaginoso di esprimere qualcosa?» chiese, un po' stizzito. «Oh, solo che ho veduto riflesso nel vetro qualcuno che passava davanti alla porta di questa sala... laggiù, nel corridoio.» Indicò con un cenno l'estremità opposta del salone semibuio, dove una porta che dava nel corridoio disegnava un rettangolo brillantemente illuminato. In quell'istante era vuoto. Nel silenzio improvviso, potemmo sentire lo scoppiettare del fuoco e lo squillo distante del clacson di un'automobile. Bencolin si mise in piedi, altissimo e magro, con l'espressione tesa di chi sta in ascolto.
«Credo che il qualcuno stesse per entrare qui, ma poi avrà cambiato idea quando ci ha visti... Si tratta di un uomo che ho conosciuto tempo fa: un egiziano di nome Nezam El Moulk. Voi lo conoscete, per caso?» «No, non credo proprio. Un momento, però... Ma sì! Ho già sentito il suo nome» mormorò Sir John. «Credo abiti qui anche lui. Il club non è... non è molto esclusivo, sapete. Ma perché me lo chiedete?» Bencolin si strinse nelle spalle e tornò a sedersi. «Oh, era solo un'idea» rispose, rimettendosi a guardare il fuoco. Nell'ombra, i piani angolosi e possenti della sua faccia sembravano ancora più duri, e i suoi occhi scintillanti fissavano le fiamme senza un battito di palpebra. Sir John gli lanciò un'occhiata curiosa, ma non disse niente. Stava rivolgendomi un'osservazione oziosa quando Bencolin ricominciò a parlare. «Sapete, vecchio mio, che il racconto dell'orrore da voi menzionato m'interessa moltissimo? L'ombra di una forca! Chi sarebbe il vostro giovane amico che l'ha veduta?» «Oh... era a quello che stavate pensando? Si chiama Dallings ed era un camerata di mio figlio durante la guerra. A proposito, probabilmente questa sera lo troveremo a teatro.» «E di che genere è stata la sua avventura?» Lo sguardo di Sir John faceva capire chiaramente che lui non si spiegava il bizzarro interesse di Bencolin. Però rispose: «Non posso riferirvi con precisione l'intera storia. C'entra una donna misteriosa che Dallings ha accompagnato a casa nella nebbia... ma io ho ascoltato il suo racconto un po' distrattamente: il ragazzo aveva bevuto, era chiaro. La conclusione della vicenda è stata che lui si è ritrovato senza taxi...» «Dove?» «È proprio questo il problema: lui non lo sa. Quando sono saliti sul taxi, la donna ha sussurrato all'autista un indirizzo che il ragazzo non ha capito. Pare che lei abbia anche pagato subito quell'uomo, e gli abbia detto di ripartire appena loro fossero scesi. Dallings aveva fatto uscire la donna dalla macchina e si era attardato per augurarle la buona notte quando, a un certo punto, il taxi è scomparso e la donna è svanita...» "La nebbia era talmente fitta che Dallings non poteva vedere nemmeno le proprie scarpe. Dice che si è messo a girare in tondo per un'infinità di tempo, scendendo da marciapiedi e attraversando strade senza avere la minima idea di dove stesse andando. Era l'una di notte passata e in giro non c'era un'anima, senza contare che non si vedeva alcuna luce. Il ragazzo a-
veva perso completamente l'orientamento. Mentre girava così alla cieca, è incappato in un alto muro di mattoni: è stato allora che ha perso del tutto la trebisonda. Si era fermato davanti al muro e a un certo punto si è visto apparire dinanzi agli occhi un immenso rettangolo di luce giallastra. Era oscurata dalla nebbia, però vi si stagliava con chiarezza l'ombra di una forca gigantesca con un cappio che penzolava dalla trave trasversale. Almeno, è così che Dallings la racconta. Ha poi aggiunto che qualcuno stava salendo su per i gradini del patibolo e che la figura sembrava agitasse le braccia in aria..." Sir John s'interruppe e le sue labbra si schiusero a un sorriso senza allegria. «E poi?» insistette Bencolin. «Più nulla. L'ombra scomparve quasi subito. Dallings pensa di essere stato vittima di un'illusione ottica. Del resto, era di umore nero e per nulla propenso a investigare a fondo la cosa. Ha ripreso il suo vagabondaggio. Dopo un po' ha trovato un lampione e vi si è fermato accanto finché non ha sentito passare un taxi. In quel momento si trovava a Ryder Street, non lontano da Piccadilly. Ma solo il cielo sa dove era stato.» Sir John si versò un'altra tazza di tè, come a voler accantonare l'episodio. Poi aggiunse: «Se siete ancora curioso, domandate a Dallings di raccontarvi lui stesso la storia. L'ha ripetuta parecchie volte, e pensare che di solito è tutt'altro che loquace. Pare sia rimasto particolarmente impressionato dalla signora. A proposito, si trattava di una francese.» Bencolin stava per accendersi una sigaretta quando rimase immobile, la mano a mezz'aria, fissando l'amico con espressione enigmatica. Ma subito scoppiò a ridere, accese la sigaretta e si rilassò sulla poltrona, fumando di gusto. «Una francese, eh?» disse. «Santo cielo, questa vostra nebbia infernale temo mi stia scuotendo i nervi. Parliamo d'altro. Magari della nebbia, che ne dite?» Lanciò un'occhiata alla finestra. «Non lo trovate un argomento affascinante?» «No» rispose Sir John. Bencolin ebbe un sobbalzo. «Amico mio, voi siete una ventata di aria fresca» disse. «Anzi, una doccia d'acqua fredda! Siete dotato dell'irresistibile e romantico fascino di una tonnellata di mattoni che cada attraverso un lucernario. In una parola, siete proprio quello che ci vuole per me...» "Eppure, vi è davvero un certo fascino nella nebbia. Rende Londra simi-
le a una caverna degli orchi, a un ballo mascherato, a una città sommersa! Le cose più comuni prendono un aspetto misterioso e attraente quando si vedono attraverso un vetro appannato: questo è uno dei più importanti principi della teologia, Sir John. Oppure possono diventare terrificanti, se appaiono in un ambiente che non è il loro. È per questo che il vostro amico Dallings è rimasto così sgomento nel corso della sua avventura notturna. Se uno vede un patibolo a Pentonville, non fa una piega. Vedere invece una forca sotto le proprie finestre, quando ci si sveglia nel bel mezzo della notte..." «Diamine, ne vedo una proprio in questa stanza» lo interruppe Sir John. Ci fu un silenzio improvviso. Sir John teneva gli occhi fissi su una poltrona accanto a noi. Si alzò lentamente e le sue spalle curve si stagliarono contro la luce mentre si dirigeva verso la poltrona. Fu così che trovammo il modello della forca, rovesciato su un fianco. Sir John lo depose sul tavolo tra i residui del nostro tè. Nessuno parlò. Era un manufatto incredibilmente realistico: mancava solo un pupazzetto-vittima che ne salisse i gradini. Bencolin fece schioccare la lingua, annuì e si mise a osservare il giocattolo con aria di rinnovato interesse, come dicendo fra sé: "Finora non avevo mai sospettato che gl'inglesi avessero la curiosa abitudine di lasciare modellini di forche nei saloni dei loro club. L'idea, tuttavia, non manca di un certo fascino...". Sir John scattò: «Che razza di scherzo stupido...» ma s'interruppe e guardò Bencolin. Il grande poliziotto taceva e faceva scorrere le dita, con aria assorta, su e giù per i minuscoli gradini. Tirò un sottilissimo filo metallico che correva lungo il fianco del modello e la botola si spalancò. Sir John suonò il campanello per chiamare il cameriere addetto alla sala; aveva gli occhi lampeggianti di collera. «Victor» lo apostrofò appena lo ebbe davanti «posso chiedervi chi è il responsabile di questo?» «Avete qualche lagnanza da sporgere, signore?» «No, nessuna lagnanza. Ma chi ha lasciato questa roba su quella poltrona?» Victor aveva l'aspetto di un impresario di pompe funebri. Se si fosse rimpicciolito davanti ai nostri occhi fino a raggiungere le dimensioni di un soldatino di piombo, avrebbe costituito proprio la figurina adatta a salire i gradini del modello. «Sono enormemente confuso, signore, ma...» «Oh, lasciamo andare. Portatelo via.»
«Ehm... un momento, prego» disse Bencolin, alzando gli occhi. Aveva la fronte aggrottata. «Ci penso io, Victor, se a Sir John non dispiace.» Tornò di nuovo a dedicare tutta la sua attenzione al giocattolo. Victor ebbe un sussulto. Pareva gli fosse venuta un'idea, e l'effetto fu simile a quello di una spilla che lo avesse punto nel fondo dei calzoni. «Oh...» disse, e continuò rivolto a Bencolin, che aveva alzato il capo. «Oh, signore... con vostra licenza, credo di sapere a chi appartiene questo oggetto.» «Davvero?» «Credo di sì, signore. Dovrebbe appartenere al signore egiziano... al signor El Moulk.» «Al signor El Moulk, eh?» ripeté Bencolin, pensoso. «Volete dire che ne fa collezione o li fabbrica lui stesso?» «Davvero non saprei, signore. Ricordo però che il signor El Moulk ha ricevuto un pacco con la posta del pomeriggio...» Fece una pausa e Sir John, che lo stava guardando con curiosità, lo spronò: «Continuate, su.» «Il signore si trovava in questa sala mentre io stavo vuotando i portacenere. L'ho visto aprire il pacco... che tra parentesi era del formato giusto per contenere un oggetto come questo... e quando ho sentito frusciare la carta mentre la metteva da parte, ho notato che il signor El Moulk aveva un'espressione molto strana: di paura, oserei dire. Ha finito di aprire il pacco e per un po' di tempo è rimasto immobile, come impietrito... Spero di non essere indiscreto, signori!» Victor si guardò intorno, ma parve prender coraggio dalla presenza di Sir John. Drizzò le spalle, più sicuro di sé. «Poi mi ha detto: "Victor, prendi il modellino che si trova in questa scatola e brucialo". Aveva un'aria talmente bizzarra, signori, che ho pensato si sentisse male. A un tratto mi è parso che ricordasse qualcosa. Ha preso il modellino... suppongo almeno che lo fosse, perché personalmente non l'ho visto... lo ha tolto dalla scatola e lo ha gettato su quella poltrona. Quindi ha scaraventato scatola e carta da imballaggio nel fuoco e se n'è andato via in gran fretta. Questo è tutto ciò che so, signori.» «E come mai non avete bruciato il modellino?» domandò Bencolin. «Ne avevo l'intenzione, signore, ma in quel momento mi stavo occupando dei portacenere e temo di essermene dimenticato...» «Capisco. Per caso sapete se più tardi il signore è ritornato qui in salone?»
«Oh, sono sicurissimo di no, signore. L'ho visto anzi uscire dal club, ed è ritornato solo pochissimo tempo fa. Il portiere potrà confermare che...» «Basta così, Victor. Grazie.» Quando il cameriere fu uscito, Sir John chiese: «A che lo scopo di tante domande? Dopotutto la faccenda non ci riguarda, sapete.» Bencolin non rispose. Sedeva immobile, col gomito sul tavolo e il mento appoggiato alla mano, contemplando assorto l'orribile giocattolo. Un ceppo ardente scoppiò nel caminetto con grande fragore. Al di sopra dei rumori della città, sentimmo le note lente e melodiose del Big Ben che suonava le sei. 2 Come giocammo ai cani e alla volpe con un cadavere Oggi il Brimstone Club è una delle bizzarre e meno stimabili istituzioni del West End. Sorge all'angolo orientale tra Pall Mall e St. Jame's Street: una costruzione a quattro piani di granito grigio, annerita dal tempo, con numerose finestre a balconcino e un'aria tranquilla. Considerata la sua precedente reputazione, adesso ha l'aria piuttosto compassionevole di una ragazza che cerchi di sembrare emancipata con un costume da bagno del 1880. Però negli ambienti più vecchiotti e retrivi se ne parla ancora con esitazione, parecchi colpi di tosse e un tono di sdegno virtuoso. Intorno al club indugia ancora un'atmosfera di mondanità spinta e di fuochi infernali. Venne fondato nel 1798 da Sir George Falconer, quindi è praticamente un nuovo venuto tra la folla dei numerosi club più antichi, la cui giovinezza decorosamente turbolenta si è da lungo tempo pietrificata. Durante la Reggenza, il Brimstone offriva sale dove si giocava sfrenatamente e ci si poteva dedicare a passatempi anche meno innocenti. La sua nomea sinistra, dal 1830 in poi, si circondava di un alone romantico forse non privo di una sua grazia antiquata. Passeggiando sui tappeti foltissimi delle sue gallerie, si stenta a ricordare che i gentiluomini effigiati nei ritratti, così imponenti con le loro facce paffute, le cravatte inamidate e le fedine ricciute, in gioventù furono dei gaudenti dissoluti. Esibivano i loro pantaloni indecentemente aderenti nei localini di Leicester Square dove si gustavano ostriche; quando avevano un "affare d'onore" erano capaci di fare a pezzi la rotula di un avversario con un colpo di pistola a distanza piuttosto notevole; e al tavolo da gioco, sotto le fiammelle di centinaia di candele, pote-
vano sperperare le doti delle loro mogli con la massima disinvoltura. Le stanze tappezzate di felpa rossa dove sostavano rigurgitavano di specchi dorati, volanti arricciati e vaghi odori di scuderia. Signore dalla costituzione convenientemente fragile avevano l'abitudine di svenire quando il loro anfitrione ne chiudeva la porta, il che rendeva gli artifici della seduzione assai più agevoli; e non rinvenivano se non quando era troppo tardi per mettere in scena una protesta convincente contro le malvagie intenzioni del seduttore. La situazione raggiunse il suo colmo verso la fine dell'Ottocento, quando la bellissima Kitty Darkins si gettò da una delle finestre dell'ultimo piano e il giovane Lord Rayle si fece saltare le cervella nella camera dov'era quella finestra... per nessuna ragione in particolare, se non che tutti parvero credere che l'idea fosse straordinariamente romantica. Gli uomini del tipo degli amici di Rayle (uomini come Compston e Mirch, tanto per darvene un'idea) avevano un'opinione molto più sensata di come ci si dovesse comportare in circostanze simili. Quando una signora faceva un tale sfoggio di cattivo gusto da sporcarvi la soglia di casa ammazzandocisi sopra, bastava solo bere un paio di bicchieri e poi uscire in cerca di un'altra donna, preferibilmente più ragionevole. Tuttavia, in un club, la condotta di Kitty Darkins costituì a tutti gli effetti una profanazione: ecco perché il Brimstone, da allora in poi, non è stato più un luogo di riunione adatto per gentiluomini. Sul suo conto circolano ogni sorta di dicerie assurde: per esempio, si mormora che contenga un appartamento recondito dove Rayle alloggiava le sue amanti, con una porta nascosta il cui segreto è morto col giovane lord. Il tutto è davvero affascinante, ma non contiene una sola briciola di verità. Eppure, benché oggi il club si sia ridotto a un luogo pacifico e tranquillo, tuttavia il suo tipo di pace è più opprimente e morboso di qualsiasi diavoleria evocata dai fantasmi del passato. La bizzarra cavalleria di un'epoca incipriata e crudele è svanita. Nei corridoi non si ode più (come alcuni giuravano) lo schiocco del cane della pistola spettrale di Falconer. Ma se penso all'inquieto purgatorio che oggi il Brimstone è diventato, quasi mi par di sentire Falconer ridere a crepapelle nel suo sano inferno anglicano, per il quale gli fornirono il passaporto i dadi e l'adulterio. Infatti, ai nostri giorni il Brimstone Club è infestato dai suoi membri medesimi. Chiunque può diventare socio, per cui vi s'incontrano uomini delle più svariate nazionalità e di tutti i tipi. Nessun comitato s'incarica di farne la sia pur minima cernita, e non è richiesto alcun requisito particolare tranne la disponibilità a pagare le quote più spaventosamente alte di tutti gli altri
club di Londra messi insieme. Perciò il Brimstone è il raduno di tutti i ricchi spostati e dei viaggiatori irrequieti sparsi per il mondo: sono ormai trent'anni che è diventato il club dei vagabondi. Viene gestito in modo praticamente simile a un albergo, e in generale è sempre semivuoto. Vi transitano fisionomie inglesi, francesi, tedesche, russe, spagnole, italiane; vi passano soldati, nobili che si sono impegnato il titolo, pecore nere di vario genere, i fanatici della caccia grossa, gl'irrequieti sempre in cerca di posti nuovi dove andare: tutti i malati del male di vivere, gli squilibrati, i falliti, i dannati. Hanno invariabilmente bocche imbronciate e occhi che non si fermano su nessun oggetto. Molto raramente un ospite rimane per più di pochi giorni alla volta. Più spesso lo si vede una sera seduto al bar, la testa china sul bicchiere, e per ore non rivolge la parola a nessuno; la mattina dopo non ci sarà già più. I membri del Brimstone spariscono volta per volta nessuno sa dove, lungo i sentieri segreti che percorrono in un mondo ricco di colori contrastanti come un tappeto orientale. A volte sono allegri e impazienti di seguire il richiamo di nuove rotte; ma quando li si vede riapparire al club dopo qualche mese o qualche anno, appaiono invariabilmente delusi e amareggiati. Allora Martin, che sovrintende al bar, comporrà il cocktail favorito di ciascuno senza dir nulla e glielo metterà davanti come se non avesse mai fatto altro ogni notte, dal momento in cui il Brimstone venne fondato. È questa, immagino, la ragione per cui un'atmosfera di malinconia e di fallimento grava su ogni angolo dell'edificio. Ci si sente oppressi dalla massiccia pesantezza del suo lusso, dai suoi lampadari velati, dai tappeti spessi che spengono ogni suono, dai suoi richiami al suicidio. Le sue finestre illuminate nella nebbia di una notte gelida non suggeriscono un interno caldo e confortevole; fanno pensare piuttosto alle luci dei piroscafi in tutte le baie brumose del mondo, piroscafi che navigano lentamente tra gli ululati dei corni da nebbia... il suono più cupo e luttuoso che si possa sentire. Ci si ritrova a immaginare strani profumi, fantasmi bizzarri e gli arcani tetti di Xanadu. Se era destino che si rinvenisse un modellino di forca in un club di Londra, il posto più adatto era senza dubbio il Brimstone Club. O almeno così fantasticavo quando, quel pomeriggio, smettemmo alfine di guardare il malaugurato gingillo. Bencolin era nervoso e di cattivo umore. Girava per il salone scuotendo la testa, e io affermo che ognuno di noi si sentì sollevato allorché Sir John suggerì che salissimo nelle nostre stanze a indossare l'abito da sera. Bencolin ripose il modellino in un armadio posto a fianco del caminetto. Ne chiuse lo sportello lentamente, come lo
chiudesse sui suoi stessi pensieri. Non parlammo più dell'argomento e poco dopo le sei uscimmo dal salone. Le stanze di Sir John erano al pianterreno, sul retro; quelle di Bencolin al secondo piano e le mie al quarto. Dal salone, un corridoio conduceva a un atrio a cupola con un ascensore in fondo, proprio come in un albergo. Era una costruzione circolare, troppo ricca di tendaggi pesanti e illuminata da pallide lampade a muro. In quel momento era deserta, e qualche brandello di nebbia fluttuava all'intorno. I nostri passi destarono degli echi. Bencolin uscì dall'ascensore al secondo piano e io salii da solo al quarto. Ero così depresso che non mi resi conto di dove mi trovavo finché non udii il ronzio della cabina che discendeva. Al quarto e ultimo piano non erano giunti i conforti dell'elettricità. Il vestibolo era enorme e squallido, malamente illuminato da globi a gas, adorno di dorature fatiscenti e col soffitto a cupola appuntita come un arco gotico. Lassù il silenzio era ancora più profondo che ai piani inferiori, e faceva talmente freddo che potevo vedere il vapore del mio respiro. La mia stanza portava il numero 21 ed era la prima dell'unica fila di camere del piano, a parte un'immensa suite posta sul retro. Avevo notato vagamente, in fondo al corridoio, l'arcata oscura che dava su quel vasto appartamento. Ma ero così immerso in cupi pensieri sulla sinistra bizzarria del pomeriggio appena trascorso che oltrepassai la porta della mia camera senza fermarmi ed entrai nello spazio al di là dell'arcata. In quel momento, urtai contro qualcuno. Al buio avevo incontrato la spalla di un essere umano. Udii l'altra persona trattenere il fiato e poi emettere un gemito soffocato e quasi irreale. Gridai: «Chi è la?» Per un istante rimanemmo immobili, cercando di vederci a vicenda, e adesso si sentiva l'ansimare pesante e faticoso dell'altro. Poi l'uomo mi scansò e insieme sbucammo nel corridoio illuminato. Era un ometto piccolo e magro, avvolto in una vestaglia di seta a fiori. Aveva la pelle scura e il naso adunco, e i capelli neri e folti gli cadevano sulla fronte in disordine; ma quello che mi colpì di più fu l'espressione bizzarra dei suoi occhi. Erano sbarrati, fissi, e di una sfumatura di giallo più facile da trovare negli occhi delle bestie; l'uomo li teneva spalancati a tal punto che l'iride era completamente circondata da un anello bianco. Erano vaghi e immoti come gli occhi di un manichino di cera, anche se l'ometto continuava ad ansimare rumorosamente. Avevano un'intensità quasi ipnotica, gelida, mortale, e parevano allargarsi sempre più mentre li guardavo.
A un certo punto l'ometto parlò, e ciò mi sorprese, perché avrei giurato che le sue labbra non si fossero affatto mosse. «Siete stato voi a mettere questo dannato aggeggio sulla mia scrivania?» chiese. Tese bruscamente la mano verso di me e l'aprì. Sul palmo giaceva una figurina di legno non più alta di tre centimetri. Raffigurava un uomo con la testa coperta da una specie di cappuccio e con il collo ripiegato di lato. La guardai a lungo, in silenzio, e intanto l'ansito dell'ometto si faceva sempre più laborioso. Nella mano bruna, quella figurina nera aveva assunto un significato mostruoso. Non ci fu bisogno di orientarmi dal suo accento per capire che mi ero imbattuto in Nezam El Moulk. Balbettai con voce sconnessa: «No, spiacente. La mia stanza è su questo piano... ho proseguito per errore...» La mano bruna si richiuse. Io alzai il capo e vidi che l'uomo mi stava ancora scrutando con quegli strani occhi spalancati. «Qualcuno si è introdotto nella mia camera...» Cominciò. S'interruppe e, senza aggiungere altro, ripose la figurina nella tasca della vestaglia, si girò di scatto e sparì sotto l'arcata. Io mi affrettai a tornare alla mia porta.' Nella camera da letto della mia suite era acceso un gran fuoco. Nello spogliatoio adiacente sentivo Thomas, il più abile dei camerieri, che si aggirava intorno preparando i vestiti che dovevo indossare. Tutte le mie fantasie erano assurde, eppure non vollero svanire mentre facevo il bagno e mi preparavo a uscire. Erano le sette quando mi avviai per scendere. Nel vestibolo incontrai Nezam El Moulk; anzi, quasi ci urtammo di nuovo, perché lui stava passando davanti alla mia porta per dirigersi all'ascensore. L'ometto, però, era cambiato in modo straordinario e non aveva più l'espressione di prima, a mio giudizio spaventosa quasi quanto la cosa di cui lui aveva tanta paura. Adesso era tutto elegante e disinvolto: l'abito da sera era inappuntabile e il cilindro messo un tantino di traverso gli dava un'aria spensierata e quasi di sfida. Col bastone premette sul pulsante per chiamare l'ascensore, e fu come se tirasse una stoccata con una spada. Osservai in quel momento che portava guanti di un candore immacolato. La faccia bruna era placida, gli occhi avevano un'espressione assente, quasi vacua. L'ometto sorrise, guardando la gabbia dove la cabina stava salendo, e fischiettò un motivo da una commedia musicale. All'improvviso si voltò e mi rivolse la parola, in un inglese cantilenante e strascicato: «Sentite... spero che avrete scusato il mio scatto di poco fa,
laggiù.» Accennò all'arcata con un gesto, alzò gli occhi al soffitto e poi tornò a guardarmi. «Era solo uno scherzo. Mi capite?» «Ma certo. È stata colpa mia, del resto.» «No, no, no!» protestò lui, alzando una mano. «Questo non dovete neanche pensarlo. E, per favore, non ne parlate con nessuno... eh?» Tornò a spalancare gli occhi e ci vidi dentro una traccia dell'espressione di prima. Nella cabina che scendeva, l'ometto si contemplò allo specchio, si raddrizzò i lembi della larga cravatta bianca, assunse un'aria compiaciuta e ricominciò a fischiettare il motivo di prima. Nell'atrio indugiò ad accendersi una sigaretta e io mi diressi al salone. Non vidi né Bencolin né Sir John, e allora sedetti accanto a una finestra ad aspettarli. La nebbia si era sollevata un poco, e le luci dell'edificio scintillavano sull'asfalto attraverso una cortina giallastra molto più chiara. Una lunga berlina Minerva, di un verde particolarmente vistoso, scivolò lungo il marciapiede. Vidi El Moulk scendere i gradini del club picchiettando contro la ringhiera col bastone. Un autista gigantesco, che mi sembrò un negro, gli tenne aperto lo sportello e salutò. El Moulk entrò in macchina, lo sportello sbatté e poco dopo i fanalini di coda della Minerva si allontanarono immettendosi nel traffico. Ci volle quasi mezz'ora prima che Bencolin e Sir John arrivassero. Nessuno fece più allusione agli eventi del pomeriggio, e così io non parlai del breve incontro al quarto piano. Prendemmo un cocktail al bar, un posticino felpato dalle tende rosse e dalle lampade a ombrello, con una grande scimmia di porcellana sogghignante sulla mensola del caminetto. Sir John, che detestava i locali affollati, avrebbe voluto mangiare al club, mentre io suggerii una cenetta rapida in un ristorante di Pall Mall vicinissimo all'Haymarket Theatre. Bencolin, invece, insistette per andare al Frascati, a Oxford Street. Il Frascati era tutto rutilante di ori e di argenti. Era affollatissimo e rumoroso, risonante del fuoco incrociato dei tappi che esplodevano dalle bottiglie e allietato dalla musica di un'orchestrina su una piattaforma illuminata. Sotto i vassoi d'argento fumanti le fiammelle a spirito ardevano bluastre, i coperchi sbattevano, i camerieri apparivano e svanivano come folletti e il vino spumeggiava luminoso e giallo nelle coppe. Sir John guardava il tutto battendo le palpebre, come un uomo appena uscito da un ambiente buio. Pian piano, però, il vino mise una sfumatura rosea nelle sue guance olivastre, e un'espressione lieta e diffidente insieme gl'illuminò gli occhi. Al momento del caffè e del cognac, quando ci eravamo riscaldati tutti e tre,
cominciò a ridacchiare. Si protese sul tavolo con aria confidenziale e si esibì in una filza di barzellette tutte assolutamente scipite, dopo ognuna delle quali faceva una risatina, drizzava le spalle e ammiccava con un occhio, grugnendo un «Eh?» pieno di sottintesi. Quando prendemmo un taxi per recarci a teatro, io avevo quasi cominciato a pregustare la prospettiva di assistere al dramma. Quella notte Londra era un umido caos di nebbia, traffico impazzito e scritte al neon che si accavallavano intorno a Piccadilly. Ma quando svoltammo e ci trovammo davanti all'Haymarket, fummo accolti da un senso quasi d'intimità nel piazzaletto circondato da edifici grigi. Era affollato di gente che andava e veniva sotto i lampioni, la cui luce si rifletteva sull'asfalto bagnato e lucido. Il rombo confuso dei passi e delle conversazioni era punteggiato dagli squilli del fischietto di un poliziotto, il cui braccio enorme, rivestito d'incerato, ogni tanto si rizzava a dare un'indicazione. Si provava come un senso di affiatamento a tuffarsi in quella comitiva di spettatori circoscritta dai bastioni di nebbia. Solo dopo che fummo entrati nel teatro, quando la sala si oscurò e il sipario si alzò su quel livido mondo di terrore che era il dramma di Vautrelle, mi tornarono alla mente le fantasticherie lugubri del pomeriggio... Alla fine del primo atto fu un sollievo poter uscire a fumare una sigaretta. Siccome il teatro era esaurito, i nostri posti erano lontani l'uno dall'altro. Nell'atrio, trovai Sir John che stava presentando a Bencolin un tizio appena arrivato. Si volse a me. «Permettete? Un'altra presentazione. Il signor Dallings, il signor Marie.» Mi trovai a stringere la mano a un uomo ancora giovane e dall'aria languida, il cui braccio era sospeso a mezz'aria e la cui stretta era così fiacca da darmi l'impressione di avere tra le mie la mano di un cadavere. Aveva gli occhi vitrei e astrattamente fissi a un punto oltre la mia spalla. Mormorò qualcosa che stava tra un grugnito e uno sbadiglio ed elargì a tutti una specie di sorriso spettrale, quindi s'immerse nella contemplazione delle proprie unghie. Aveva evidentemente cominciato a ingrassare, ma era ancora abbastanza bello con quella sua bizzarra mescolanza di languore e robustezza. Era stato educato a Oxford, si vedeva, e dopo tanti anni pareva non esserne ancora uscito. Non sarebbe stato facile intavolare una conversazione con lui. Ci fu una pausa, poi qualcuno disse: «Spero che vi stiate godendo lo spettacolo, signor Dallings.» «Eh?» chiese Dallings in tono querulo, uscendo dal suo dormiveglia con
un piccolo sussulto. «Ah!» annuì quindi con aria di comprensione, e abbozzò di nuovo il suo sorriso spettrale. «Proprio non saprei, davvero. Sono appena arrivato. Terribilmente in ritardo, temo. A voi piace?» Adesso ero assolutamente convinto della difficoltà di conversare con lui. Seguì un'altra pausa e alfine qualcuno propose di bere. Pian piano Dallings cominciò a sgelarsi, poi in lui apparve qualche scintilla di calore; poco prima dell'inizio del secondo atto, era diventato quasi amichevole. Tuttavia bisognava faticare parecchio per captare nelle sue parole qualche sillaba intelligibile. Mi sentivo come una volta a Heidelberg, quando un focoso teutone, fermamente convinto che io parlassi tedesco, mi aveva attaccato un bottone che non finiva mai, arringandomi con fervore per tre quarti d'ora su Dio sa quale argomento e fermandosi di tanto in tanto per ascoltare i miei commenti. Io non avevo fatto che annuire, mormorare "Ja, ja" e assumere un'aria interessata, mentre a intervalli mormoravo con espressione comprensiva: "Banhof". Alfine, Sir John domandò: «Oh, a proposito, George, ricordate quella strana storia che mi stavate raccontando? Quella circa l'ombra della forca o qualcosa del genere?» «Come?» chiese Dallings, aggrottando la fronte. «Ah, quella? Sì, la ricordo.» Mi parve che Sir John avesse abbordato l'argomento dietro suggerimento di Bencolin. Fu molto vago, accennò a certi strani avvenimenti verificatisi al Brimstone e probabilmente connessi con quel fatto, quindi invitò Dallings al club per bere qualcosa dopo la rappresentazione. Il giovane, chissà perché, sembrò molto stupito quando Sir John disse che avrebbe voluto sentirgli ripetere il racconto; ma accettò l'invito e rispose che il piacere era tutto suo. «Tra parentesi, signor Dallings» intervenne pigramente Bencolin «non conoscete mica un certo El Moulk? Il nome completo è Nezam El Moulk, credo.» Adesso Dallings parve completamente esterrefatto. Si passò una mano tra i folti capelli scuri, batté le palpebre e balbettò: «Ma sì, diamine, adesso che ci penso ho sentito parlare di lui...» Poi s'interruppe e lanciò un'occhiata sospettosa a Bencolin. In quel momento cominciò il secondo atto, e io tornai al mio posto sentendomi molto perplesso. Bencolin sorrideva. Non ci parlammo più sino alla fine del dramma, la cui atmosfera di orrore arcano si era insinuata nel mio spirito. Uscendo, notai che anche gli altri
spettatori avevano un'aria incupita. Dallings si unì a noi e uscimmo per strada in silenzio. Faceva molto freddo, e una nebbia grigiastra trasparente come fumo disegnava un alone intorno ai lampioni. Il piazzaletto era stipato di taxi strombettanti, ma venivano occupati in un lampo al primo cenno di un bastone alzato; così noi non ne trovammo nessuno libero. Nella speranza di avere maggior fortuna, camminammo quasi fino a Piccadilly Circus. «Be', continuiamo a piedi» disse Sir John, piuttosto stizzito. «La nebbia si è attenuata. Svoltiamo; non c'è molta strada, ancora.» In quel momento, eravamo arrivati all'incrocio di Jermyn Street, dal lato verso Piccadilly. I passanti erano scarsi, il che fu un bene perché io non stavo guardando dove andavo. Un poliziotto aveva alzato il braccio per fermare il traffico e io vidi i miei compagni svoltare e attraversare la strada. Ero appena sceso dal marciapiede per seguirli quando scorsi vagamente, alla luce di una scritta al neon alquanto nebulosa, Sir John che si girava di scatto. Alzò impetuosamente il bastone e gridò: «State attento, Marie!» L'urlo mi penetrò nel cervello. Sobbalzai, feci un salto all'indietro e per poco non caddi. Il traffico si era fermato, ma una delle automobili non aveva obbedito all'ingiunzione del poliziotto. Era sbucata senza rumore da Jermyn Street, come un fantasma. Con la sagoma deformata dalla nebbia, sembrava animata da una sua vita diabolica; e i suoi fari abbaglianti mi si precipitarono addosso mentre mi voltavo. Sentii l'agente gridare e lo squillo stridente del suo fischietto; poi l'immensa berlina verde mi passò accanto a tutta velocità e imboccò Haymarket. Ma non fu questo a lasciarmi là atterrito, scosso da un orrore che mi dava quasi la nausea. Mentre la macchina mi passava davanti, io avevo scorto per un attimo il volto del conducente. L'autista della berlina era morto. Il quadro mi era balenato dinanzi agli occhi solo per un istante, ma era odiosamente vivido. Attraverso le spirali caliginose della nebbia, la faccia dell'uomo era stata quasi proiettata contro la mia. Si trattava di un negro gigantesco in livrea, ma il suo viso nero aveva assunto un colore grigiastro. La testa gli penzolava sulla spalla destra, gli occhi dalle cornee bianchissime erano fissi e sporgenti e la mascella rilassata gli aveva fatto spalancare la bocca. Aveva la gola tagliata da un orecchio all'altro... eppure la berlina continuava a correre e stava svoltando verso Haymarket. Era l'automobile di El Moulk. Mi accorsi solo allora che il cappello mi era caduto ed era rotolato nel fango. Stavo in piedi lungo Jermyn Street e imprecavo con
una voce che non pareva la mia. Bencolin era al mio fianco. Aveva visto tutto e non perse tempo. Dietro di noi, imprigionato in mezzo alle altre macchine, c'era un taxi con la bandierina alzata. Il poliziotto si precipitò verso di noi, ma Bencolin ci stava già spingendo tutti nel taxi. «Dentro, e sbrigatevi!» gridò. «Intendo sfruttare la vostra autorità, Sir John. Scotland Yard!» disse all'autista. «Seguite quella berlina verde che ci sta davanti... quella laggiù, la vedete?» Ruzzolammo tutti e quattro all'interno dell'auto, e io atterrai sulle ginocchia di Sir John. Dallings, sbigottito e senza fiato, si trovò compresso in un angolo. Aveva la sciarpa aggrovigliata intorno alla faccia e protestava con voce soffocata: «Ma dico! Cosa succede?» La pesante auto troppo alta sbuffò e tremò. Si avviò con un orribile stridore del cambio, sorpassando il poliziotto infuriato che agitava il pugno dal finestrino posteriore. Dall'oscurità cavernosa dell'interno, vidi segmenti di edifici scorrer via in un guazzabuglio di luci mentre imboccavamo Haymarket. «Non posso andare più in fretta!» stava urlando l'autista a Bencolin. Il rombo del motore era assordante. Girammo intorno a una piccola Austin così bruscamente che ci trovammo tutti ammucchiati in un groviglio, a imprecare, però non perdemmo di vista la Minerva che continuava a correre davanti a noi. Solo allora la tremenda follia della nostra impresa mi penetrò nella mente: stavamo inseguendo a folle velocità un morto che faceva un giro di piacere attraverso Londra. Eravamo impegnati a correr dietro a un cadavere! Dallings e Sir John cominciarono a parlare all'unisono, ma Bencolin, che si stava sporgendo dal finestrino, li fece tacere con un gesto imperioso. L'autista continuava a urlare. «La nebbia è troppo spessa, capo!» invocava, disperato. «Ma eccolo! Sta girando verso Pall Mall...» Una spessa coltre di nebbia stava calando su di noi. Svoltammo a destra e imboccammo il lungo tunnel di luci che era Pall Mall. La strada era diritta e quasi deserta, e i fanali di coda rossi della Minerva scintillavano chiaramente anche attraverso la bruma. Attraversammo Waterloo Place a tutto gas e continuammo l'inseguimento. Il cadavere, nella sua macabra corsa, stava infrangendo tutti i regolamenti del traffico. Quasi riuscivo a immaginarlo che scuoteva le braccia e si dimenava nell'ebbrezza della velocità. Al di sopra del brusio di Londra si levò la voce del Big Ben, che suonava la mezzanotte. La berlina verde
aveva sorpassato il Carlton Club e, con un guizzo inaspettato, aveva preso a correre ancora di più. I fanali di un'altra macchina parvero balzarci davanti; l'autista sbandò con una frenata improvvisa, e il taxi eseguì uno scarto violento. Ci fu un urto, sentimmo schiantarsi un parafango e riprendemmo velocità, lasciandoci dietro una scia d'insulti sanguinosi. Dall'altra parte della strada, il fischietto di un poliziotto sibilò invano... Adesso la berlina stava rallentando e Bencolin strinse i pugni. Eravamo quasi a St. Jame's Street quando la Minerva girò a destra con uno sbandamento improvviso. «Sta... sta andando al Brimstone» disse Sir John, con una strana voce. Svoltammo a destra anche noi e vedemmo la berlina rallentare e fermarsi. Ne distinguevo vagamente la sagoma; sulla fiancata destra, di un verde brillante, si rifletteva la luce proveniente dal portone del club. Arrivammo a precipizio e ci fermammo bruscamente a nemmeno un metro dalla macchina. Il morto se n'era tornato tranquillamente a casa. Scendemmo sul marciapiede. Con passo maestoso, il portiere stava già scendendo i gradini del Brimstone; potevamo vederne la vasta figura stagliata contro la luce che aveva alle spalle. Sentivo il cuore che mi batteva all'impazzata, e suppongo che gli altri si sentissero impazzire esattamente come me, perché nessuno di noi quattro si mosse. Il portiere aprì lo sportello posteriore della berlina e rimase in attesa. Non uscì nessuno. Il silenzio si prolungò per un minuto terribile, mentre il rombo del traffico risuonava incessante dietro di noi. Nella penombra fluttuante, il portiere allungò il collo per sbirciare nell'interno della Minerva. Aveva assunto un'aria perplessa. Continuò a non apparire nessuno. L'uomo scosse il capo e si fece avanti per rivolgersi all'autista. In quel momento, Bencolin si staccò dal nostro gruppo. La sua alta figura occhieggiò dentro e fuori alcuni banchi di nebbia, mentre lui avanzava verso la parte anteriore della berlina... proprio allora, il portiere emise un urlo terribile e fece un balzo all'indietro, come se si fosse scottato. Vidi il profilo aquilino di Bencolin, sotto il cappello a cilindro, chinarsi in avanti verso le luci del cruscotto. Il suo lungo braccio si protese e spalancò lo sportello con violenza. Una massa enorme parve precipitargli addosso, ma invece si abbatté sul selciato ai suoi piedi con un tonfo sordo. Ora, alla luce dei fari, potevo vedere la faccia di Bencolin simile a una maschera diabolica mentre lui abbassava lo sguardo sul cadavere, senza muoversi. 3
Via della Rovina Mi girai a guardare i miei compagni. Sir John era rimasto immobile e privo di espressione, con solo una vaga meraviglia negli occhi mentre la sua mano protesa tendeva una banconota all'autista del taxi. Quest'ultimo si sporse dal finestrino, troppo sbigottito per accorgersene. Dallings volgeva la faccia pallida da una parte all'altra della strada con una specie di stupore petulante. Ma un istante dopo, ci eravamo tutti radunati intorno alla Minerva. Il colossale negro giaceva prono, con le braccia spalancate, e il berretto gli era caduto dalla testa ricciuta. La sua spina dorsale era tuttavia sollevata e le gambe ripiegate sotto il corpo; il rigor mortis era iniziato mentre lui era seduto, così adesso pareva quasi che si stesse prostrando davanti a Bencolin. Nella nebbia, la sua livrea verde scuro spiccava come il dorso di uno scarabeo enorme. Nell'interno della macchina e lungo il predellino, c'era una cospicua pozza di sangue che non era riuscito a coagularsi interamente e gocciolava ancora lungo il canale di scolo. Dallings, che aveva posato distrattamente una mano sullo sportello, ebbe un sobbalzo e si fece indietro; poi cominciò a strofinarsi le mani con forza, l'una contro l'altra, come stesse cercando di liberarsi da un pezzo di carta moschicida che gli fosse rimasto appiccicato alle dita. Udimmo la voce dura e calma di Bencolin. «Sir John, dove si trova la più vicina stazione di polizia? A Vine Street? Bene. Portiere, fate un salto all'interno e telefonate subito. Se possibile, cercate di parlare con l'ispettore divisionale in persona. Vogliamo che mandino immediatamente qualcuno.» «L'uomo è morto, naturalmente» disse piano Sir John. «E da parecchio tempo» osservò Bencolin, toccando il cadavere con la punta del bastone. Poi aspirò profondamente e gli s'inginocchiò accanto. Dallings si riscosse con un sussulto e gridò: «Ma santo cielo... lui stava guidando!» Bencolin si alzò. Esaminò la parte posteriore e anteriore dell'automobile e annuì. «Così sembra, amico mio. Si è dimostrato anche un guidatore esatto e preciso, oltre tutto: ha spento il motore e» si chinò di nuovo «ha innestato perfino il freno a mano, credo... ma non voglio toccarlo. Nel sedile posteriore non c'è nessuno.» «Aspettate un momento» disse Sir John al portiere. «Un momento solo:
telefonerò io stesso a Vine Street. L'ispettore divisionale è Talbot. Lo conosco molto bene, ha lavorato alle mie dipendenze. Verrà qui subito. Ma di chi è questa macchina?» «È una berlina molto famosa, ma forse è più nota sul continente che qui. Appartiene a Nezam El Moulk. Datemi una mano, adesso, e portiamo dentro questo povero diavolo: non possiamo lasciarlo qui ad attirare una folla di gente. Portiere, voi prendetelo per le spalle, così, e voi» fece un cenno all'autista del taxi «prendetelo per i piedi. Non abbiate paura, lui non può farvi nulla... Attenzione, è molto pesante.» La bizzarra processione salì con passo alquanto malfermo i gradini. Mentre Sir John si accingeva ad andare a telefonare, arrivò di corsa un poliziotto arrabbiatissimo che aveva fatto un bel pezzo di strada nella nebbia allo scopo di arrestare tutti per violazione del codice stradale; ma Sir John si fece riconoscere e lo condusse nel club per fornirgli le spiegazioni necessarie. Fu una fortuna che non arrivasse nessuno spettatore. Entrò dentro anche Dallings; io e Bencolin rimanemmo soli nella nebbia fluttuante. Per un poco restammo in silenzio accanto alla macabra berlina, i cui sportelli erano spalancati sulla notte. «Bencolin» chiesi alfine «dov'è El Moulk?» Lui si strinse nelle spalle. «In quest'automobile comunque non c'è. Perché me lo domandi?» Gli raccontai dei miei due incontri con l'egiziano e gli dissi che era uscito proprio in quella berlina poco dopo le sette. Lui mi ascoltò con attenzione, ma non fece commenti. Si sporse nell'interno dell'auto, cercò a tentoni e trovò l'interruttore della luce. Sul tetto si accesero una fila di minuscole lampadine gialle che diffusero un'illuminazione piuttosto tenue. Vedemmo che i sedili posteriori erano tappezzati di velluto scuro e che sopra c'erano degli oggetti: un bastone di ebano e un paio di guanti bianchi, con accanto una scatola quadrata di cartone che portava la scritta: "Wills, Fioraio, Cockspur Street 8, Londra". Non c'era alcun segno di disordine e nemmeno un granello di polvere. «Osserva questi sportelli posteriori» mi disse Bencolin. «Non noti niente?» «I vetri mi paiono straordinariamente spessi.» «Sono vetri antiproiettile» mi spiegò lui, picchiando leggermente con le nocche su uno dei finestrini. «E a giudicare dallo spessore del bastone che El Moulk ha lasciato sul sedile, sarei incline a pensare che nasconda una lama. Pare davvero che il tizio abbia preso ogni precauzione possibile e
immaginabile per difendersi dai malintenzionati.» Spense le luci dell'interno e continuò a bassa voce. «Eppure lo hanno preso, Jeff. Lo hanno preso.» «Chi?» Bencolin si era piegato a scrutare di nuovo il sedile anteriore. «Guarda come è stato tirato avanti! L'autista, grosso com'era, doveva starci molto stretto... Ehm! Comunque, la polizia ha diritto di esaminare ogni cosa per prima. Andiamo dentro.» «Bencolin» dissi «quando l'automobile mi è passata davanti, ho potuto scorgere con la massima chiarezza il suo interno e l'autista. Non c'era nessuno sul sedile anteriore! Giuro che non c'era assolutamente nessuno! Vorresti dire che un uomo morto...» «Sciocchezze, Jeff: naturale che qualcuno stava guidando la berlina. Magari è scivolato fuori sotto la protezione della nebbia e se l'è data a gambe appena fermata la macchina: la guida è a destra, come puoi vedere, e l'autista dev'essere uscito dalla parte opposta.» «Ma se ti dico...» «E va bene, lasciamo andare: continua pure a pensarla come vuoi. Entriamo dentro.» Lo sgomento autista del taxi stava scendendo giù per i gradini e mormorava tra i denti una filza di bestemmie incredule. Bencolin gli diede del denaro e lo incaricò di sorvegliare la berlina. Lo lasciammo che la fissava con aria assorta, come se si aspettasse di vederla pigliar su e ripartire per conto suo. Entrammo nel Brimstone e ci venne subito incontro il robusto portiere, che si asciugava la fronte col fazzoletto. Ci precedette attraverso l'atrio e giù per un corridoio che cominciava subito dopo l'ascensore. «Abbiamo portato il cadavere nella sala da biliardo, signore» ci spiegò. «La vecchia sala da biliardo, naturalmente. Non l'adoperiamo più, da quando abbiamo trasferito i tavoli in un altro locale adiacente al salone. E inoltre, vi chiedo scusa, ma non volevo che gli ospiti potessero vedere...» Aprì una porta e c'introdusse in un'ampia sala gelida, dove si era accumulata molta polvere. Un vecchio tavolo da biliardo, con la tappezzeria di feltro verde consunta e lacerata, stava al centro dell'ambiente ed era illuminato brillantemente da due lampadari che pendevano dal soffitto. Vi avevano disposto sopra il cadavere e lo avevano coperto con una fodera da divano polverosa, dalla quale spuntavano grottescamente gli enormi stivali del morto. Dietro il tavolo c'era Dallings, in piedi, col cappello spinto
all'indietro sulla nuca. Guardava inorridito e affascinato insieme il corpo nascosto. Quando entrammo, trasalì e fece un'osservazione oziosa. «Gli hanno tagliato la gola, avete visto? Gli hanno tagliato la gola!» Passando per l'atrio, avevo visto Victor affaccendato a togliere le macchie dal pavimento di marmo con un secchio d'acqua e uno straccio. Rabbrividii ancora quando Dallings m'indicò con un dito il rivolo di sangue che, attraverso il feltro verde, correva verso una delle buche. Guardai quel sangue con attenzione e incredulità, come quando, durante il gioco, si aspetta che una pallina vada in buca e ci si chiede se ce la farà a entrarvi. Dallings puntò ancora l'indice e disse con foga: «Ce l'ha fatta, per Giove!» Emise un risolino isterico. Il portiere si voltò e fuggì dalla stanza, andando quasi a sbattere contro Sir John che entrava. Aveva un'espressione perplessa e sconvolta. «Avete chiamato Vine Street?» gli chiese Bencolin. «Calmatevi, per favore, signor Dallings!» «Sì, e per fortuna ho anche trovato Talbot. Però è successo qualcosa di strano...» «Cosa volete dire?» Sir John si morse le labbra. Le sue sopracciglia sottili erano profondamente aggrottate, e i suoi occhi fissavano il cadavere senza vederlo. «La cosa riguarda Talbot» disse. «Non lo avevo mai sentito così turbato. Mi ha detto che sarebbe arrivato immediatamente e mi ha rivolto la domanda più bizzarra che si possa concepire. Mi ha chiesto: "Dov'è Via della Rovina?".» Bencolin si volse, con la mano sulla fodera che ricopriva il cadavere. «Ebbene? Cosa ci trovate di strano?» «È questo il punto» rispose Sir John, scuotendo il capo. «Mi ha chiesto dov'era Via della Rovina... Perché doveva chiederlo proprio a me? Io... io spero di non essere soggetto a voli di fantasia.» Fece questa osservazione col tono di chi si augura di non impazzire. Esitò un poco e poi continuò: «Quando ero ancora in servizio, credevo di conoscere ogni strada, ogni vicolo di Londra. Ma quella strada non l'ho mai sentita nominare.» Quindi alzò gli occhi e fissò Bencolin attraverso le lenti cerchiate d'oro. Il grande investigatore mormorò: «Sciocchezze!» e tornò a voltarsi dalla parte del tavolo. Quando scoprì il cadavere, Dallings si trasse indietro. Il giovanotto tentò di tirar fuori una sigaretta dall'astuccio, ma questo gli sfuggì di mano e cadde a terra, spargendo all'intorno il suo contenuto. Gli occhi spaventosamente bianchi del morto erano fissi di lato, verso la spal-
la, e luccicavano sotto la luce cruda. Un grosso squarcio partiva dal lato sinistro del collo e arrivava sotto l'orecchio destro, dove si assottigliava. In quel momento aveva quasi cessato di sanguinare; pareva inferto da una lama di rasoio. La mano sinistra del cadavere, ripiegata sul petto, portava un anello con un grosso diamante falso. Anche le dita di quella mano erano tagliate quasi fino in fondo, come se l'assassino avesse cercato di reciderle per impadronirsi dell'anello. La giacca verde dell'uniforme era inzuppata di sangue; praticamente, ne era imbevuta. Ma proprio sopra il cuore si notava uno strappo nel tessuto, dove qualcosa di aguzzo era stato conficcato nel petto. Bencolin tirò la fodera ancora più giù ed emise un'esclamazione. «Cosa c'è?» domandò Sir John. «Tutti i bottoni della giacca sono stati tagliati» spiegò Bencolin. «E inoltre guardate qui.» Sollevò le estremità di due vistosi cordoni dorati che pendevano dalle spalle del negro. «Diable! Che razza di gusti ha El Moulk in fatto di livree! Questi cordoni portavano appese in fondo delle grosse nappe di filo d'oro Ebbene, anche le nappe sono state tagliate.» Fece un passo indietro e si fermò, con le mani sui fianchi, a scrutare il cadavere da capo a piedi. «Mi piacerebbe vedere il contenuto delle sue tasche» aggiunse «ma dovremo aspettare finché non arriverà il vostro ispettore.» Poco dopo, Victor ci annunciò che l'ispettore divisionale Talbot era arrivato, e allora Bencolin si ritrasse nella zona d'ombra al di là del cerchio di luce dei lampadari. Vedevo vagamente la sua alta figura appoggiata alla mensola del caminetto e la punta accesa del suo sigaro che andava su e giù. L'ispettore Talbot non era un tipo molto imponente. Era anzi un ometto dalla faccia quadrata e opaca e dall'aspetto stolido, il naso fratturato e la sgradevole abitudine di digrignare rumorosamente i denti. Ma i suoi occhi, in quella fisionomia sonnacchiosa, erano vispi e mobilissimi, e sembravano dotati della capacità di assorbire tutti i dettagli di ciò che vedevano come il sole assorbe l'acqua. Aveva capelli scuri, che stavano diventando grigi alle tempie. Quando si tolse l'impermeabile, vedemmo che era vestito con un'eleganza un tantino troppo ricercata. Non mostrò alcuna sorpresa, salutò Sir John con profondo rispetto e girò un'occhiata distratta sul resto di noi. Un taccuino gli apparve tra le mani quasi per magia. Perfino quando Sir John gli ebbe riferito tutti i particolari della corsa attraverso Haymarket, si limitò ad annuire. «Benissimo, signore» disse dopo una pausa. Meditò e digrignò i denti. Poi fece un largo gesto col braccio. «Pare proprio che questa faccenda sia
estremamente bizzarra, eh?» Ci pensò su un momento, come chiedendosi se per caso non avesse esagerato, ma poi confermò la sua prima impressione. «Sì, davvero bizzarra.» Adesso daremo un'occhiata a quel che il morto ha addosso. «Aspettate un istante, Talbot» disse Sir John. «Cosa mi stavate dicendo poco fa a proposito di Via della Rovina?» «Ah!» brontolò l'ispettore, incerto. Si accigliò. «Vedete... è questa la parte più bizzarra della faccenda. A quel che mi avete detto, la berlina appartiene a un egiziano di nome El Moulk. Quando sono arrivato qui, le ho dato subito un'occhiata. Ho avuto l'impressione che il signor El Moulk vi sia stato dentro, perché ho visto il suo bastone e i suoi guanti, ordinatamente ripiegati, sul sedile posteriore.» «Io l'ho visto uscire dal club questa sera» intervenni. Talbot scrisse un'annotazione sul taccuino e volse verso di me una faccia sonnolenta. «Ah» ripeté. «E quando è stato?» «Dopo le sette. Forse alle sette e cinque.» «"Dopo le sette. Forse alle sette e cinque." Bene...» «E allora?» lo interruppe Sir John. «Questa sera abbiamo ricevuto una telefonata, a Vine Street... di una persona che ha insistito a voler parlare con me. Era una voce piuttosto indistinta. Mi ha detto queste precise parole: "Nezam El Moulk è stato impiccato alla forca di Via della Rovina".» Ci fu un silenzio. Dall'ombra fitta dove si era rifugiato Bencolin, la punta incandescente del suo sigaro sussultò a mezz'aria e poi s'immobilizzò. «Subito dopo, la comunicazione è stata interrotta» continuò Talbot. «Non è stato possibile rintracciarne la provenienza. Naturalmente, ho pensato che qualche bello spirito avesse voluto fare uno scherzo. Succede spesso, sapete» spiegò, sorridendo con indulgenza. «Riceviamo ogni sorta di denunce folli. Gente ci chiama per segnalare che la regina è stata rapita o che qualcuno è scappato all'estero portandosi dietro il monumento a Nelson...» "Io però mi son messo a pensare, dopo, a quanto erano strani i nomi che avevo sentito; e la cosa mi dava fastidio. Continuavo a domandarmi: "Dov'è Via della Rovina?". Alla fine ho chiesto a diversi poliziotti della stazione, ma nessuno l'aveva mai nemmeno sentita nominare. Poi voi avete telefonato per dirmi che la berlina del signor El Moulk era stata guidata fin qui col suo autista morto... e allora, diamine, per un secondo sono rimasto
senza fiato." Emise un suono stranamente simile a un sospiro, digrignò i denti diverse volte e alfine sbottò: «Nessuno di voi, signori, sa per caso dove sia questa Via della Rovina?» Gli occhietti vispi avevano un'espressione alquanto sconcertante quando si fissarono su di me. Ma scossi la testa, e lo stesso fecero tutti gli altri. «Ehm» grugnì Talbot, rassegnato. «Proprio così.» Senza dir altro, si accostò al cadavere e vi si chinò sopra. Con la matita scrisse rapidi appunti sul taccuino. «Solo pochi spiccioli... niente banconote di grosso taglio.» «Pensate sia stata una rapina?» domandò Sir John. «Non posso dirlo, signore... Portafogli vuoto; nessun documento d'identità. Un portasigarette...» «Gran Dio!» esclamò Sir John. Si stava tirando la corta barba e all'improvviso puntò un indice verso il corpo. «Quell'astuccio è di platino! Un autista di colore con un portasigarette di platino?» Il sigaro di Bencolin aveva ricominciato a muoversi normalmente, ma lui continuò a restar fermo accanto al caminetto. Talbot annotò, senza scomporsi: «Platino. Io non me ne sarei accorto, Sir John, e vi ringrazio. Colmo di sigarette. Un mazzo di chiavi. La contromarca di un biglietto di cinematografo. Una guida tascabile di Londra. Un pacchetto di caramelle alla menta. Tutto qui.» L'ispettore chiuse il taccuino. «E adesso, signori» disse con animazione subitanea «non so come la prenderà il sovrintendente quando saprà che avete rimosso il cadavere. Avreste dovuto lasciarlo al volante, sapete. Un sacco d'indizi sono andati distrutti quando voi...» Sir John lo interruppe con una certa durezza. «Credo che sapessimo quello che facevamo, Talbot. Non avete afferrato il nome dell'uomo che è laggiù?» Talbot digrignò i denti per l'ennesima volta e socchiuse gli occhi. Per la prima volta tradì una certa sorpresa e lanciò un'occhiata interrogativa a Sir John, che annuì. Con mio grande stupore, la sua aria autoritaria svanì senza lasciar traccia. Quando Bencolin si avanzò dall'ombra, l'ispettore sorrise... un sorriso bonario, familiare, quasi umile... e tese la mano. «Poco ci è mancato che non facessi una grossa figuraccia, signore. Voi certo non vi ricorderete di me, però io non mi sono mai scordato di voi. Ero sergente a Vine Street quando ci avete assistiti nel caso Gravane. Pe-
rò...» ribadì aggrottando lievemente le sopracciglia «però insisto a dire che non avreste dovuto rimuovere il cadavere.» «Mi sento davvero colpevole, ispettore» disse Bencolin. «Tuttavia, credetemi, son certo che la cosa non ha una grande importanza... Avete qui gli esperti delle impronte digitali, vero?» «Certo. Adesso me ne vado, così il dottore potrà esaminare il corpo. Sarò obbligato a interrogare tutta la servitù di questo posto, e temo di dover chiedere a voi signori di aspettarmi nel salone... Sarebbe proprio una bella sorpresa» aggiunse, con improvvisa energia «se il signor El Moulk entrasse fresco fresco dalla porta, non più defunto di me! Ci vediamo più tardi nel salone, signori, se non vi dispiace.» Bencolin lo guardò uscire con un sorrisetto ironico. «L'ispettore Talbot vede le nostre difficoltà con molta più chiarezza di quanto siamo disposti ad ammettere noi... Lui crede davvero in Via della Rovina, sapete. Questo pomeriggio, Sir John, voi avete interrotto la mia piccola conferenza sulle possibilità che può offrire la nebbia. Ebbene, Talbot sa o sospetta che...» Sir John si stava lucidando le lenti con espressione imbronciata. A quelle parole, alzò bruscamente il capo. «... che una strada di Londra sia andata perduta.» «Di cosa diavolo state parlando?» domandò brusco Sir John. «Di una cosa molto interessante: dov'è Via della Rovina? Il problema mi assilla. Può darsi che non vi sia nulla di strano nella sparizione di un uomo. E qualche tipetto un po' strambo può perfino telefonare per informarci che l'uomo scomparso è stato impiccato. Ma supponiamo che scompaia un'intera strada... Pensate: un'intera strada cancellata dalla mappa di Londra. Cosa può esserci di più fantastico?» Fece una pausa. «Chi abita in Via della Rovina? Come fareste a spedirvi una lettera? Santo cielo, la visione di El Moulk che viene inghiottito da una strada perduta è la fantasticheria più arcana che si possa trovare nel reame dell'incubo! Come farebbe un assassino a trovare un modo migliore per sbarazzarsi della sua vittima che impiccarla a una forca innalzata al cospetto dell'intero firmamento, ma in una strada che la polizia non è in grado di trovare?» Sir John ebbe uno scatto di esasperazione. «Sentite, Bencolin» proruppe «ve lo dico sul serio: dovete smetterla con questa mania di costruire romanzi su tutto. Altrimenti farete della vicenda un così dannato pasticcio che nessuno riuscirà più a raccapezzarvisi. Talbot magari non lo dimostra e
voi non ve ne accorgereste, dal suo modo di fare, ma sappiate che vi considera una specie di divinità. Prenderà sul serio ogni vostro minimo suggerimento, e allora...» La sua barba corta era protesa in avanti, e la faccia olivastra e pallida dell'ex vicecommissario era contratta dalla fretta con cui lui parlava. Purtroppo, senza volerlo, aveva fatto scattare in Bencolin una molla pericolosa. L'istrionismo del francese affiorò di colpo, con la solita arrogante tracotanza. Bencolin rovesciò la testa all'indietro e scoppiò nella sua abituale risata silenziosa, schiudendo appena le labbra. Parlò in tono gelido, ma io sapevo che la sua collera era salita al calor bianco. «Così, amico mio, voi pensate davvero che il mio metodo di lavoro non farà altro che ingarbugliare la faccenda?» «Se questo genere di voli pindarici lo chiamate "metodo di lavoro"... ebbene, sì.» «Ah, bene» annuì Bencolin, sempre con voce fredda. Fece scorrere pensosamente un dito sul bordo del tavolo da biliardo, e quando riprese a parlare la sua voce tremava. Io lo avevo visto di quell'umore in qualche altra occasione, prima di allora, e l'ultima volta lui aveva spezzato la schiena a un uomo in un caffè malfamato della rue Brisemiche. «Io e voi abbiamo spesso avuto delle dispute su questo argomento.» Il grande investigatore alzò il capo e il suo tono si fece velenoso. «Di questo caso io conosco ben poco... anzi, non so neppure con chiarezza cosa sia o non sia avvenuto. Tuttavia, voglio fare una piccola scommessa con voi. Scommetto una cena per noi tre che sarò in grado di fare il nome dell'assassino di quest'uomo entro quarantott'ore.» S'interruppe di colpo e abbatté un pugno selvaggio sull'orlo del tavolo da biliardo. «Dio mandi all'inferno i vostri metodi da lumaca! Io detesto quelli che per riuscire hanno bisogno di fare un passetto alla volta. La vedremo, se sono davvero capace solo di costruire romanzi su tutto! Accettate la scommessa?» Sir John si era drizzato in tutta la sua statura e stava eretto e rigido. Aveva le guance accese, e i suoi occhi gelidi dicevano chiaramente: "Ciarlatano!". Tuttavia si limitò a rispondere: «Per favore, siate serio.» «Non sono mai stato più serio in vita mia.» «Sono costretto a ricordarvi che dalle nostre parti la legge esige delle prove. Qui i vostri metodi spettacolari non possono avere nessun risultato. A voi piace il lavoro induttivo: date per scontato che un paio di supposi-
zioni siano vere, stabilite che il criminale deve aver fatto questo o quell'altro e poi vi mettete al lavoro per provarlo. È un metodo spettacolare, oserei dire, e si adatta alla legge come la si concepisce da voi. Ma un poliziotto inglese che si comportasse così finirebbe male. Le qualità di un investigatore autentico, qui, sono l'esperienza, la pazienza e la perseveranza.» «In una parola» commentò Bencolin «le stesse qualità che si possono trovare, spinte al grado più elevato, nell'ammaestratore di pulci di un circo.» Seriamente irritato, Sir John ribatté: «Perché bisticciare per questo? Intendo accettare la scommessa... Però mi garantite di produrre anche le prove dell'accusa che sporgerete?» «Sì» rispose Bencolin, appoggiandosi al tavolo. Aveva il viso stanco e incupito. «Ebbene, allora la questione è sistemata» concluse Sir John con un pallido sorriso. «Venite, amico! Abbiamo percorso troppa strada insieme per farci cattivo sangue su una sciocchezza simile. Andiamocene nel salone. Credo che un bicchierino o due...» «Magnifica idea!» gridò una voce, uscendo dall'ombra così all'improvviso che io sobbalzai, come se avessi sentito un fantasma. La voce però era quella di Dallings, di cui ci eravamo tutti dimenticati. Sbirciando al di là del cerchio di luce, lo vedemmo seduto sul largo davanzale di una finestra. Aveva un'aria distaccata e quasi incorporea, ma si affrettò a balzare in piedi. Bencolin aprì la porta. Uscimmo e, prima che quest'ultima si richiudesse alle nostre spalle, non seppi trattenermi dal lanciare un'occhiata all'indietro. Il viso del cadavere pareva guardarci con gli occhi spalancati sopra una spalla, come se stesse per augurarci la buona notte. Nell'atrio circolare, la porta dello stanzino del portiere, dal lato opposto rispetto a noi, era semiaperta; potemmo quindi sentire la voce asciutta di Talbot rivolgere delle domande e la voce spaurita di qualcuno che gli rispondeva. Non è possibile immaginare quanto apparisse squallido l'atrio, con le soglie vuote delle porte e le stanze al di là deserte e colme di echi. Pareva proprio che fossimo le uniche persone in giro. Mentre ci dirigevamo al salone, invece, sentimmo il ronzio dell'ascensore che scendeva. Lo sportello sbatté con un fragore che si ripercosse nella vasta rotonda e qualcuno uscì dall'abitacolo talmente in fretta che inciampò e poco mancò che cadesse. Era un uomo alto e dinoccolato, magrissimo, le cui spalle angolose pa-
revano bucare la stoffa della vestaglia che indossava. Aveva il naso molto lungo, il cranio appuntito e calvo che pareva salire dalle anse delle orecchie sporgenti e occhi di un azzurro slavato, circondati da occhiaie profonde. Era tanto turbato che per un istante ci guardò come se non ci vedesse, ma poi gridò: «Sapreste dirmi dov'è la polizia?» Con un cenno del capo, Bencolin indicò la porta dalla quale uscivano le voci. L'uomo ci lanciò al di sopra della spalla un ringraziamento frettoloso e vi si diresse. Le sue lunghe gambe si muovevano con goffaggine estrema, come se inciampassero di continuo contro il fodero di una sciabola. Prima di arrivare alla sua meta, il tizio si girò a rivolgerci un sorriso spettrale. Bencolin mi parve molto sorpreso. Girò gli occhi intorno all'atrio, i cui soli occupanti erano Victor e il poliziotto di guardia al portone. «Strano!» disse fra sé. «Chi sarà quell'individuo?» Sir John scosse la testa. «Non lo so, ma credo di averlo visto qui in giro, qualche volta. Potremmo farcelo dire da...» La sua voce si estinse in una specie di rantolo, come se qualcuno gli avesse dato un pugno nello stomaco. Eravamo arrivati alla porta del salone, le cui cortine erano tirate indietro. Ci arrestammo sulla soglia, impietriti. Poi Sir John si volse e disse con voce quasi lamentosa: «Sentite, Bencolin, questa storia deve finire. Mi capite? Deve finire!» L'enorme sala era illuminata solo dai riflessi del fuoco, che proiettava bagliori vividi e danzanti sulla parete opposta al caminetto. Nella macchia di luce torreggiava su di noi un'ombra nerissima, gigantesca e spigolosa: l'ombra di un patibolo. Dal trave della forca la figura di un uomo, con il cappio che gli serrava il collo. 4 La donna di Chez Aladdin «Non è il caso di allarmarsi» disse Bencolin. «È solo l'ombra della forca giocattolo.» Indicò il tavolo al centro della sala, illuminato dal fuoco. «Vedete? Qualcuno l'ha tolta dall'armadio e l'ha messa là sopra. Uno scherzo di luce...» Sir John fece scattare l'interruttore accanto alla porta e accese il lampadario. Ci avvicinammo al tavolo.
«Ora c'è anche un condannato che pende dal cappio» osservò Sir John. «Santo cielo, guardate! È un pupazzetto di legno!» Dinanzi a noi stava il modellino di forca che avevamo già visto quello stesso pomeriggio. Adesso, però, dalla corda di spago penzolava una figuretta nera la quale mi parve identica a quella che qualcuno aveva lasciato sulla scrivania di El Moulk poche ore prima e che io avevo vista per l'ultima volta fra le sue mani. Raccontai subito la cosa a Sir John. «Ci dev'essere un pazzo che si aggira da queste parti» disse lui, convinto. Bencolin annuì. «Avete ragione su tutti e due i punti. Si tratta davvero di un pazzo, se le mie "induzioni" che vi sono tanto antipatiche sono giuste. E certamente si trova qui. Intendo qui nel club, e senza dubbio in questo momento medesimo.» «Avete già una vostra teoria?» «Sì, ma ne ho abbozzato solo i tratti generali. Quest'uomo, El Moulk, viene perseguitato in modo astuto ed insinuante, probabilmente da... Ma non importa. Ora lo hanno preso. Sarà bene che chiamiamo Victor.» Victor, tuttavia, non poté esserci di nessun aiuto. Arrivò confuso e turbato dopo la sua intervista con l'ispettore Talbot. Espresse un timido e doveroso orrore per la vista che gli mostrammo e spiegò che non era più tornato nel salone dalle sette e mezzo in poi. Però si era trattenuto per tutta la serata nello stanzino del portiere, che dava sulla rotonda. Poteva quindi affermare con la massima sicurezza che nessuno era entrato nel salone, almeno dalle sette e mezzo a mezzanotte. Quando il cadavere era stato trasportato dentro, appunto alle dodici, lui aveva lasciato lo stanzino e non poteva dire se da allora qualcuno fosse entrato o meno nel salone. «C'era molta gente qui al club, stasera?» domandò Bencolin. «No, signore. L'unico che si è fatto vivo è stato il colonnello Mardale. Doveva ritirare la posta. Si è affacciato al bar e alla rotonda, ma se n'è andato quasi subito.» «Chi è il colonnello Mardale?» «Una bravissima persona» intervenne Sir John. «Ha settant'anni, è sordo come una campana e soffre orribilmente di gotta. Lo conosco personalmente; potete lasciarlo fuori da questa faccenda in tutta tranquillità.» «Bene. Tutto ciò suffraga l'ipotesi che il fantoccetto sia stato appeso alla forca dopo mezzanotte, approfittando della confusione che si è creata quando il cadavere è stato portato dentro. Nessuno avrebbe fatto caso a...»
Alzò lo sguardo. «Victor, quanta gente alloggia al club in questo momento? A parte la servitù, naturalmente.» «Certo, signore. Prima di tutto ci siete voi tre. Poi il signor El Moulk, il suo cameriere personale (un francese di nome Joyet) e il suo segretario, il signor Graffin. Infine il dottor Pilgrim. Sette in tutto, signore.» Bencolin si lasciò cadere in una poltrona imbottita e si passò una mano tra i capelli. «Ehm» mormorò. «Chi è dunque quel tizio alto in vestaglia che è uscito dall'ascensore mentre noi stavamo attraversando l'atrio?» «Era il signor Graffia, signore. Il segretario del signor El Moulk.» «Questa sera è per caso uscito?» «Uscito dal club, volete dire? No, signore. È rimasto dentro tutto il giorno, si è fatto servire i pasti in camera.» «E il cameriere, Joyet. È qui, stanotte?» Victor arricciò le labbra in una piccola smorfia di disgusto. «No, signore. Credo sia andato a Parigi in vacanza.» «Infine l'ultima persona che avete nominato... di chi si tratta?» «Il dottor Pilgrim? È una persona davvero tranquilla, signore» rispose Victor con aria rispettosa. «È uscito alle nove circa, signore, e non l'ho veduto rientrare.» «Non abbiamo bisogno d'altro, Victor, grazie.» Adesso tutte le luci color ambra erano accese nel grande salone dal soffitto a costoloni alto quasi otto metri, e gl'intagli grotteschi che lo adornavano erano perfettamente illuminati. Mascheroni, serpenti, colonne a torciglione, pipistrelli, gufi, teste bizzarre strisciavano lungo le pareti e serpeggiavano intorno alle finestre dai vetri a losanga. Figure scheletriche sormontavano i ritratti appesi all'intorno. Seduto nella grande poltrona davanti all'enorme camino vasto quanto un portale di pietra, Bencolin era rimasto immobile. Sir George Falconer sembrava fissarlo con uno sguardo sarcastico. «Conoscete qualcuno di quelli che Victor ha nominato?» chiese infine l'investigatore. Sir John, che stava ancora contemplando il modellino di forca sul tavolo, si volse. «Chi? Ah, gli ospiti del club? Conosco un poco Pilgrim.» «Il dottore?» «Ma sì, mi pare che sia appunto un medico... però non credo che eserciti la professione. È un archeologo di una certa fama: ha scritto alcune opere
assai dotte sulla vecchia Londra. Personalmente, però, non nutro grande simpatia per questi scrittori di oggi» grugnì Sir John. «Fanno giochi di prestigio con le parole: certe volte li capisci, certe volte no e alla fine ti chiedi di cosa diavolo stanno parlando. Il dottore, tuttavia, non manca di sostanza, ed è anche un uomo interessante.» «Per ora lasciamolo stare. La situazione è la seguente: io ho certe teorie che possono essere giuste oppure no; in ogni caso, sono convinto che l'avventura capitata al signor Dallings l'altra notte abbia a che fare con il caso che c'interessa...» Dallings era semisdraiato in una poltrona davanti a quella di Bencolin. Nel sentirsi nominare, spalancò due occhi quasi bovini. «Gli sarei dunque estremamente grato se volesse riferirci la vicenda da capo a fondo.» «Ma santo Iddio» proruppe il giovanotto «si è trattato solo di...» «Sì, sì, certo, si è trattato solo di un'illusione ottica: lo capisco benissimo. Ma parlatemene lo stesso. Sono stato informato inoltre che avete fatto la conoscenza di una donna misteriosa... una francese. Era per caso molto alta, con capelli color rame? Aveva occhi castani piuttosto distanziati?» Dallings si drizzò a sedere e chiese: «Come fate a saperlo?» «Lo so perché è una mia vecchia amica. Immagino che non abbia voluto dirvi il suo nome, eh? Ah, vedo. Be', si chiama Colette Laverne.» «Voi conoscete quella donna?» domandò Sir John. «Un poco. La famosa, l'affascinante, la squisita Colette! Lo prevedevo che ci saremmo imbattuti in lei, presto o tardi...» «Famosa?» si stupì Dallings, fissando Bencolin con uno sguardo piuttosto vacuo. Il suo viso pieno e abbastanza bello esprimeva un imbarazzo penoso. «Raccontateci la vostra avventura.» Il giovanotto esitò. «Ma dico, è proprio indispensabile che ne parli?» «Oh, non alla polizia, credo. Però non esitate a confidarvi con noi, ve ne prego, e lasciate da parte la reticenza così naturale in un gentiluomo.» Bencolin tossì leggermente per nascondere il sorrisetto che gl'increspava le labbra. «Comprendo benissimo come la discrezione possa rendervi difficile parlare della... ehm... conquista che avete fatta.» «Conquista?» ripeté l'altro, sbigottito. «Ma no, non è proprio il caso!» Era più imbarazzato che mai. «No, naturalmente... figurarsi!» lo confortò Bencolin. «Raccontateci solo come sono andate le cose.»
«Debbo dirvi tutto?» «Tutto.» «Ma ci faccio una tale figura da idiota» si lamentò il giovanotto, confuso; quindi i suoi occhi espressero un certo sospetto. «E non capisco quale diritto abbiate voi...» Si aggiustò la cravatta con dita malferme. Parve riflettere un istante, quindi sbottò: «E va bene, ve lo dirò! La faccenda è cominciata... oh, circa una settimana fa. Avevo preso appuntamento con un'amica per andare a teatro, ma all'ultimo momento lei non è potuta venire. Così ci sono andato da solo.» "Avevo fatto una buona cena e bevuto parecchio champagne, che mi aveva dato un poco alla testa. La commedia" aggiunse, socchiudendo appena gli occhi «era una di quelle dove spengono continuamente la luce e qualcuno urla. Era divertente, però.» "Bene, stavo seduto al mio posto appena un tantino sbronzo, cercando di accendermi una sigaretta e spassandomela non poco. Alla fine, però, la rappresentazione ha cominciato a darmi ai nervi. Parlava di un tizio che andava in giro ad affettare gente con un coltello..." Lanciò un'occhiata interrogativa a Bencolin e questi annuì. «Proprio in uno di quei momenti in cui avevano spento la luce e il teatro era sprofondato nel buio, qualcuno mi piazzò la fiammella di un accendino sotto il naso... per la mia sigaretta, capite? Santo cielo, mi fece fare un salto! Vidi chiaramente la faccia del tizio alla luce della fiammella. Si trattava di un uomo seduto dietro di me nel palco; prima non lo avevo notato. Credo fosse quell'egiziano, El Moulk.» "Lo avevo già visto prima da qualche parte: forse da Lady Ponsonby. Quanto non li posso sopportare, i forestieri... Oh, chiedo scusa! Volevo solo dire che non mi andava il suo modo di parlare. Tuttavia, quella sera dovetti ammettere che era un tipo interessante. Bevemmo qualcosa durante l'intervallo e, tra una chiacchiera e l'altra, il discorso cadde sui locali notturni. Lui me ne raccomandò uno che era strettamente riservato agl'intenditori, disse. Si offrì di darmi la sua tessera, visto che lui non ci poteva andare. "Una conversazione di scarsa importanza, come potete vedere. Fu nel locale raccomandatomi da El Moulk che incontrai quella donna. Era un posticino bizzarro, con un giardino artificiale, un'orchestra nascosta e via dicendo. C'era una luna azzurra e, dietro ogni tavolino, un albero con frutti d'argento. Lo chiamano 'Chez Aladdin'... Lei era sola, seduta a un tavolino parzialmente in ombra e avvolta in una sciarpa luccicante. Non ricordo
nemmeno come fu che ci presentammo. Dev'essere stata lei a rivolgermi la parola per prima, perché io non avrei osato... capite?" Bencolin continuava a guardare il giovane con malcelato divertimento, e certo quella dichiarazione dovette sembrargli un po' troppo candida. Dallings si guardò intorno come a cercare incoraggiamento. Poi continuò: «Sì, fu lei a rivolgermi la parola... comunque, a un certo punto ci trovammo insieme, con una bottiglia di champagne sul tavolo. Qualcuno stava cantando una canzone sulla nostalgia delle notti arabe; e questo mi fece ridere, lo ricordo. Lei non volle dirmi il suo nome; più tardi lo chiesi a un cameriere, ma neppure lui lo sapeva. Disse che la chiamavano la signora dai braccialetti. Vedete, portava una fila intera di braccialetti d'argento ornati di gemme azzurre. Uno aveva il gancio allentato e io le dissi che rischiava di perderlo, ma lei ne rise e basta.» "Rideva tanto! Aveva un'aria così allegra quando rideva, e gli occhi le scintillavano: credo la sentissero in tutto il locale. Aveva capelli rossi ed era molto bella. Non ricordo neanche quello che le dissi... a parte il fatto che debbo essermi comportato davvero da idiota, e non esagero. Vedete... ero talmente ansioso di far bella figura! Sapete come ci si sente quando ci si trova quasi al buio, nel séparé di un locale notturno..." Allargò le braccia. «Finimmo con l'incontrarci là tutte le sere. L'ultima sera... be', naturalmente ero sbronzo, lo ammetto, però avevo perduto la testa per lei, sul serio. Volevo ad ogni costo accompagnarla a casa. Lei aveva capito che, se non avesse acconsentito, avrei fatto una scenata, e probabilmente è stato per questo che mi ha assecondato.» Scosse la testa, avvilito. «Chiamai un taxi. Lei diede all'autista un indirizzo che non sentii bene. All'arrivo, nella nebbia, non riuscii a capire dove ci trovassimo. E lei scomparve... senza una parola, senza dirmi nulla. Oh, all'inferno! Dopo, io mi misi a vagare senza meta nella nebbia e vidi l'ombra di una forca...» Dallings si raddrizzò e fece una smorfia. «Lei però mi aveva detto una cosa: "Se dovesse succedere qualcosa, c'incontreremo giovedì sera al solito posto". Giovedì sera è proprio stasera. Ecco perché sono arrivato in ritardo a teatro. Ero passato al locale, ma lei non c'era.» Dopo un lungo silenzio, Dallings si alzò stancamente e si tolse il cappotto. Lo depose su una poltrona insieme alla sciarpa bianca che aveva al collo e si diresse alla finestra. Rimase a guardar fuori, nella foschia. Alfine mormorò con amarezza: «Se questo può servirvi a qualcosa.»
«Vi ringrazio, signor Dallings. Ora, se non vi dispiace, vorrei farvi qualche domanda.» «Non mi dispiace affatto» disse il giovane, girandosi di colpo «purché mi diciate chi è veramente quella donna e perché ha montato tutta quella sceneggiata con me.» «Alla prima parte della vostra domanda è facile rispondere. Lei è un'amica molto intima di Nezam El Moulk... o almeno lo era. Capite?» Dallings annuì. Con le labbra irrigidite, masticò: «Oh... bene!» «Quanto alla seconda parte, credo che la risposta sia un tantino più complicata. Lei si è sempre rifiutata di dirvi come si chiamava?» «Sì.» «Ha mai offerto una spiegazione per il suo rifiuto?» «Io supponevo... che fosse sposata» rispose il giovanotto, imbronciato. Poi sferrò un calcio alla gamba di una poltrona. «Aveva per caso l'abitudine di far domande a voi?» «Io... io non capisco.» «Voleva sapere qualche particolare del vostro passato, per esempio?» «Adesso che ci penso» disse Dallings, aggrottando la fronte «più di una volta mi chiese se ero stato nell'esercito. Le dissi di sì. Allora volle sapere se conoscevo un certo tizio... ho dimenticato come si chiamava, ma comunque non lo avevo mai sentito nominare. Lei insisteva, dichiarando che quell'individuo faceva spesso il mio nome.» Io proprio non riuscivo a capire dove volesse andare a parare Bencolin con quelle domande, ma vidi che sorrideva con aria soddisfatta. «Un'altra cosa ancora, signor Dallings. La notte che andavate vagando nella nebbia... quanto tempo è passato tra il momento in cui lei vi lasciò e il momento in cui finiste col ritrovarvi a Ryder Street?» «Be', sinceramente a me sembrarono ore, e invece si trattò di poco tempo: non più di venti minuti. Ma tra il momento in cui mi ritrovai a Ryder Street e quello in cui riuscii ad acciuffare un taxi passarono davvero diverse ore.» «Allora...» stava cominciando Bencolin, quando s'interruppe e guardò verso la soglia. Un uomo aveva scostato le cortine. Era lo stesso tizio alto e dinoccolato, in vestaglia, che avevamo visto poco prima nell'atrio. Le orecchie parevano sporgergli più che mai ai lati dell'angusto cranio calvo. Gli occhi celesti da gufo ci guardavano come perplessi, e lui pareva tenersi in piedi solo perché si aggrappava ai lembi della portiera.
«Chiedo scusa» disse infine con dignità esagerata. «Ehm... siete stati voi, signori, che lo avete trovato, vero?» Indicò col pollice dietro di sé. Bencolin annuì col capo e l'uomo emise un sospiro di sollievo. Avanzò nel salone con passo maestoso e insieme malfermo. «Mi chiamo Graffin» annunciò. «Tenente Graffia, ma è solo un titolo di cortesia. Mi hanno sbattuto fuori dall'esercito, sapete» spiegò volubilmente. «Sono il segretario del signor El Moulk. Segretario privato e confidenziale.» Scrollava le spalle angolose sotto la vestaglia, che era di un viola estremamente vistoso, come per assestarsela più comodamente addosso. Poi si lasciò cadere in una poltrona come un manichino disarticolato. Si strofinò il lungo naso, batté le palpebre e dopo un poco riprese: «Quanta confusione. Che s'impicchi! Spero non sia successo nulla di male a El Moulk. Che s'impicchi! Finirò con lo scoprire che non era poi un cattivo diavolo, se dovessi apprendere che l'hanno fatto fuori. Ah ah ah! Ah ah ah! Io ero il suo unico amico, capite.» Ci guardò con aria seria e parve sul punto di scoppiare in lacrime. Intanto, un odore ben riconoscibile cominciava a diffondersi nel salone. L'uomo era tranquillamente, dignitosamente e completamente ubriaco. «Ebbene» disse Bencolin «sono lieto che siate arrivato, tenente...» «Grazie!» gridò Graffin, tutto ringalluzzito. «Tenente, appunto! Dell'aeronautica!» Una vena di diavoleria nascosta parve destarsi in Dallings. Il giovanotto assunse un'espressione impassibile, alzò un sopracciglio e parlò con un tono esageratamente pigro e strascicato. «Davvero?» chiese, lanciando a Graffin un'occhiata di disgusto. «Lo ero anch'io. Quando...» «Fu prima che vi arruolaste voi, giovanotto» lo interruppe Graffin in tutta fretta. «Molto prima. Però ero davvero in aviazione. Posso mostrarvi la mia licenza. Che s'impicchi!» «Questa metafora si riferisce direttamente al caso nostro» disse Bencolin per mettere pace. «Sir John Landervorne, che vedete qui, è un ex funzionario di Scotland Yard. Stiamo conducendo una specie d'investigazione non ufficiale sulla morte dell'autista, e se voi foste disposto a collaborare potreste esserci di grandissimo aiuto, penso.» Graffin annuì subito, portandosi un dito alle labbra. «Ne sarò più che felice, signore. L'ispettore là fuori sta interrogando tutti i domestici... ma io non posso tollerare di essere sottoposto a un simile interrogatorio. Lui ci
ha provato, certo... Ah ah ah! Eh? Già, precisamente. Ma io e voi, signore, andremo perfettamente d'accordo: vedo già che siete del mio stesso parere.» Dopo una pausa aggiunse, come ricordandosene in quel momento: «Ero nella RAF.» «Da quanto tempo siete il segretario del signor El Moulk?» Graffin esitò. Gli comparve negli occhi un'espressione scaltra. «Da sei anni circa, più o meno» rispose. «Ci siamo conosciuti al Cairo. Lui ha case dappertutto. Per qualche tempo abbiamo abitato perfino in America. Uff!» «Da quanto tempo vi trovate a Londra?» «Direi da nove mesi. Siamo arrivati a marzo.» «Siete davvero l'unica persona della... cerchia di El Moulk?» «Della sua cerchia più ristretta, sì, certamente, sono lieto di affermarlo. Abbiamo alle nostre dipendenze Joyet, che è francese. E avevamo il povero Smail, che è morto. Era americano.» «Immagino che siate molto bene al corrente degli affari di El Moulk.» Graffin ridacchiò, come se avesse sentito una battuta. «Dunque» continuò Bencolin «potete dirmi se lui avesse per caso... qualche nemico?» «Nemico?» L'uomo sogghignò e fece schioccare la lingua. Poi mormorò, in tono quasi supplichevole: «Un nemico... ma caro signore! Queste sono cose da romanzi. Nessuno ha dei nemici, al mondo.» Bencolin sì protese in avanti e lo inchiodò con una domanda precisa. «Negate allora che da un po' di tempo El Moulk sia vittima di una persecuzione sistematica da parte di qualcuno che è fermamente deciso a ucciderlo?» «Assurdo!» L'uomo stava tamburellando sui braccioli della poltrona con le lunghe dita, e la sua voce si era fatta stridula. Gli occhi slavati, arrossati dall'ubriachezza, fissavano Bencolin con ostilità. «Non vi riscaldate, signor Graffin. Posso chiedervi come avete passato la giornata di oggi?» «Nelle nostre stanze, all'ultimo piano. Ero indisposto. Io...» Si passò una mano sullo stomaco, con una smorfia. «Non ne siete mai uscito?» «No.» «Eravate lì anche alle sei circa di questo pomeriggio?» «Sicuramente. Ero nella sala grande... a leggere. Abbiamo una sala mol-
to vasta, che usiamo come studio.» Bencolin si alzò. Si accostò al tavolo centrale, staccò la figurina di legno dal cappio della forca e tornò indietro per metterla sotto il naso di Graffin. «Eravate là, dunque» scandì «allorché qualcuno ha lasciato questo oggetto sulla scrivania del signor El Moulk?» Graffin emise un singhiozzo, gli occhi sbarrati e fissi sulla figurina nera. Poi in un improvviso accesso di collera respinse la mano di Bencolin. «Mettetela via! Mettetela via!» gridò con voce stridula e altissima. Si dibatteva con violenza sulla sedia, come un pesce preso all'amo, e le sue strida laceravano l'aria. «Tuttavia, avete dichiarato voi stesso di trovarvi là.» «Sì» sussurrò Graffin, calmandosi. «Dio mi è testimone» annunciò, alzando una mano come per un giuramento solenne. «Dio mi è testimone che ero là. Stavo seduto con la schiena voltata alla scrivania, e le porte erano tutte chiuse a chiave.» "Stavo seduto con la schiena voltata alla scrivania, e nella sala non c'era anima viva. A un certo punto, Nezam è uscito dalla sua camera da letto, in vestaglia, e di colpo ha indicato la scrivania col dito. "Io mi sono voltato. Cinque minuti prima, sulla scrivania non c'era niente. In quel momento, invece, era apparsa... quella cosa." Graffin intrecciò le dita con mossa spasmodica. «E nessuno era entrato nello studio, ve lo giuro! Non era entrato nessuno!» 5 Jack Ketch Era caduto un profondo silenzio, ma l'intensità e l'orrore di quel grido sembravano ancora echeggiare e palpitare nelle nostre orecchie. Graffin faceva scorrere i suoi occhi slavati dall'uno all'altro di noi, implorando d'esser creduto. Poi si rilassò sullo schienale della poltrona e cercò di riacquistare un po' di calma. «Questa è la mia risposta, signore» disse. «Potete credermi o no, come volete.» Mentiva? La sua storia era talmente assurda che poteva benissimo esser vera, eppure l'intera persona di Graffin emanava un forte puzzo di duplicità, di frode. Il suo scatto era stato improvviso, teatrale: subito dopo lui aveva accavallato le gambe e riassunto con tanta facilità la sua dignità da
ubriaco! C'era aria di ciurmeria nei suoi occhi arrossati che parevano ammiccare nella faccia colorita dall'alcol, adesso coperta di chiazze livide. Mi guardai intorno. Sir John stava accanto al tavolo e si passava una mano sulla mascella quadrata e ossuta. Dallings non aveva distolto lo sguardo da Graffin e teneva fra le dita una sigaretta dimenticata. Solo Bencolin era imperturbabile come sempre. «Dunque nello studio non c'era nessun altro?» riprese quest'ultimo. «Nessuno. Avrei visto chiunque fosse entrato.» «Bene, bene, non c'è bisogno di insistere su questo punto finché non avremo visto la stanza... Comunque, pare che la figura sia apparsa dal nulla. Ditemi, tenente, El Moulk frequentava spesso i locali notturni?» Una simile domanda, evidentemente, era l'ultima che Graffin si aspettasse. Spalancò la bocca dalla meraviglia. «Ma... ma caro signore!» balbettò. «Che razza d'idea! Locali notturni, dite? Lui non li poteva soffrire. Era un tipo strano, El Moulk. Ci andammo una volta e c'erano certi tizi che cantavano qualcosa come: "Tra-la-la, trala-la bum, bum!"» L'uomo canticchiò il motivetto con voce stonata, ma scuotendo il capo con la massima solennità. "Tra-la-la, quando il mio amore se ne va per la città, tutti gli uccellini fan cip cip!" L'acuto finale s'incrinò in una specie di singulto. «Nezam se ne andò immediatamente e disse: "Peccato che William Wordsworth non sia ancora vivo al giorno d'oggi. Potrebbe fare un sacco di soldi scrivendo le parole per le canzonette alla moda". Locali notturni! Ma scherziamo?» «Vedo» mormorò Bencolin. «Quali che siano le altre qualità di El Moulk, raramente mi è capitato di sentire una critica più sensata. Comunque, il vostro datore di lavoro usciva molto?» «No, di rado; anzi, molto di rado. Era troppo occupato con i suoi... studi.» «Che tipo di studi?» Graffin si batté una mano sulla fronte, cadde in una sorta di meditazione imbronciata, e prese a brontolare tra sé in modo tale che lì per lì pensai stesse scivolando in una trance; per un attimo, poi, sembrò quasi spaventato. Una volta sola parlò a voce alta: «O i demoni che vagano nel profondo del mare...» Ci fu una pausa, poi il brontolio ricominciò. «Tutte diavolerie, vi dico! Ecco cosa studia. Ve ne accorgerete da voi quando esaminerete le sue stanze. Un mucchio di diavolerie, e lui ci crede perfino.»
Era la prima occhiata che ci veniva concesso di gettare sulla strana anima contorta dell'uomo di nome Graffin. «Diavolerie! Robaccia! Tutta robaccia!» «Dove stava andando, dunque, quando è uscito stasera?» lo interruppe Bencolin. L'altro sussultò e riprese la sua posa mondana. «Questo posso dirvelo subito. Aveva appuntamento per cena con una donna.» «Davvero? Con mademoiselle Laverne?» «Conoscete il suo nome? Sì, proprio con lei.» Bencolin assentì. «Una cosa che ci avete detto, tenente, mi è sembrata molto interessante» osservò. «Avete affermato, mi pare, che voi eravate il suo unico amico. Cosa intendevate dire con ciò?» L'allampanato Graffin stava strizzando un occhio al tappeto sul pavimento, come se ne stesse studiando i motivi geometrici. Si riscosse. «Ho detto questo? All'inferno! Non era proprio il caso...» «Ebbene?» «Ebbene, sì, dannazione!» Gli occhi slavati fiammeggiarono di amarezza. «"Il suo unico amico"... Dio, ma sapete che è buffo?... Non intendo restare qui a farmi interrogare ancora. Non avete il diritto di trattenermi! Adesso me ne vado! Me ne vado... Tuttavia vi dirò ancora una cosa: lui era un paria, proprio come me. Un povero paria dannato come sono io. Però vi dico...» Sul viso gli scorrevano lacrime da ubriaco. Puntò un indice contro Bencolin. «Io ho avuto almeno tanti amici quanti ne ha avuti lui. E se qualcuno ha fatto fuori quel disgraziato bastardo, io piangerò sulla sua tomba. E adesso me ne vado! Non avete il diritto di trattenermi!» Si alzò, barcollante e impaurito come un bambino, e indietreggiò lentamente. Quando vide che non avevamo alcuna intenzione di fermarlo, sgattaiolò via. «Cosa ne pensate di tutto questo?» domandò Bencolin. Dallings espresse l'opinione che l'uomo era un tipo eccessivamente volgare. «Meglio tenerlo d'occhio, comunque» osservò Sir John. «A parte ogni questione di simpatia o antipatia personale, io non mi fido di lui. Dà un'impressione di bassezza innata... Ebbene, Talbot?» Il piccolo ispettore era entrato con aria cupa, una matita infilata dietro
l'orecchio. «Non ho messo insieme nulla di veramente interessante» ci disse. «Il medico pensa che l'uomo sia morto da almeno quattro ore, forse di più. Ho appurato qualche fatto qui dentro...» Consultando spesso il taccuino, ci mise al corrente delle sue scoperte. Come già sapevamo, El Moulk era arrivato nel marzo precedente e aveva affittato la grande suite dell'ultimo piano. Siccome il Brimstone non si curava affatto delle convenzioni, ed era gestito nel modo più eccentrico che si potesse immaginare, El Moulk non aveva incontrato nessuna difficoltà a organizzare un suo piuttosto bizzarro ménage. Le tariffe che pagava erano principesche, ma le sue esigenze non erano da meno. Il suo seguito consisteva in Graffin, un cameriere francese adesso in licenza e l'autista, Richard Smail, che era un americano. Graffin e Joyet alloggiavano nella suite. Nessuno sapeva dove dormisse l'autista, ma la macchina veniva tenuta in un vicino garage. Secondo gli accordi stabiliti da El Moulk, nessun membro del personale del club poteva metter piede nelle sue stanze. Talvolta l'egiziano andava a cena fuori e talvolta nel ristorante del Brimstone, ma di regola i pasti gli venivano serviti nel suo appartamento, sotto la supervisione di Joyet. "Era uno strano tipo di francese" avevano detto a Talbot, e si capiva che l'uomo doveva spesso aver avuto delle divergenze d'opinione con lo chef. L'ispettore dichiarò che, secondo il portiere, El Moulk era "un signore tranquillo". Ma perfino questa definizione discreta sottintendeva una certa mancanza di rispetto. Circa la sua corrispondenza, riceveva lettere? Mai. Inviti? Raramente. Però arrivavano di continuo pacchi per lui. Si somigliavano tutti: erano avvolti in carta marrone e sigillati con ceralacca blu. Tutti, assicurava il portiere, portavano la lettera "K" stampata sul sigillo e tutti provenivano da Londra. Quanto a eventuali visitatori... non ce n'era mai stato uno, in tutti i nove mesi. Talbot chiuse il taccuino. «Ho telefonato al garage» disse. «L'autista ha prelevato la berlina alle sette meno dieci circa. Poi dobbiamo interrogare il fioraio dove il signor El Moulk ha comprato la confezione di fiori che abbiamo trovata in macchina. Il negozio adesso è chiuso, ma in mattinata...» In quel momento, Victor si fece avanti con discrezione e mormorò: «Il signor Marie è desiderato al telefono.» Al telefono? Consultai l'orologio uscendo dal salone: era l'una e mezzo. Eppure non mi parve nemmeno bizzarro che qualcuno potesse telefonarmi
a quell'ora, dopo tutti gli avvenimenti grotteschi della serata. Il telefono era proprio davanti alla porta del salone. Afferrai il ricevitore, con la mente traboccante di supposizioni nebulose... Una voce chiamò: «Jeff!» e un'emozione improvvisa mi serrò il petto. Da mesi non udivo quella voce. L'intero passato si ridestò di colpo. Gridai: «Sharon!» Sharon Grey: era la sua voce, non c'era dubbio. Proprio la sua voce inconfondibile, con quelle strane cadenze di contralto che la rendevano unica. Capii allora perché le vaghe memorie che mi si erano agitate nell'intimo per tutta la giornata erano state così tenebrose. Dietro di loro c'era quella ragazza (accidenti a lei) che mi aveva così stranamente ossessionato durante l'orribile e delizioso aprile in cui era esploso il caso Saligny. «Sei tu?» chiese lei, quasi senza fiato. «Sì. E tu...» «Sono io, sì... Come stai?» «Bene! Ehm...» gridai io, sforzandomi di dominare il tremito della mia voce. Seguì una pausa imbarazzata, dopo la quale ricominciammo a parlare tutti e due contemporaneamente e dovemmo perder tempo a districare il discorso che si era ingarbugliato. Dopo un poco venni a sapere che suo padre (il quale nella mia mente era apparso sempre come una specie di orco con tanto di mazza) era ripartito per l'ennesimo dei suoi eterni viaggi e che Sharon era venuta a Londra dal Nottinghamshire, diretta verso il sud della Francia. La casa di città, che i Grey usavano molto raramente, non era stata aperta durante l'ultima stagione mondana; ma piuttosto che soggiornare da amici, col rischio che il padre la scoprisse di nuovo in circolazione, lei aveva preferito fermarsi per qualche giorno nella casa disabitata... almeno finché lui non fosse arrivato in qualcuna delle regioni selvagge che prediligeva tanto. La ascoltai senza capire un gran che di quanto diceva. Me la stavo raffigurando come doveva essere in quel momento, le labbra accostate al ricevitore del telefono, mentre gesticolava con la mano libera che stringeva una sigaretta. Sharon dagli occhi color ambra, che passavano dalla perplessità a un'espressione sognante e subito dopo diventavano vivaci e colmi di un'irrequietezza monellesca. Sharon dalle lunghe ciglia nere, il visetto mobile e animato, i lunghi capelli d'oro antico. Sharon così tenera e dolce, che però sapeva bere come un marinaio e bestemmiare come un giornalista. La rivedevo nelle sue fantasticherie, nei suoi accessi di gelosia, nelle sue col-
lere furiose e nella sua tenerezza improvvisa, come l'avevo conosciuta tanto tempo prima a Parigi... «Senti, Jeff» stava dicendo «non potresti venire qui adesso... subito? Mi stanno succedendo un mucchio di cose...» Quando il caso Saligny si era chiuso, c'era stata quell'indimenticabile e rovente settimana in un minuscolo villaggio lungo la Senna. Vi aveva posto termine suo padre, che era arrivato, furibondo, dopo aver faticato non poco a rintracciare la figlia. Poi l'aveva portata via. Anzi, l'aveva trascinata via alla lettera, quel vecchio figlio di buona donna. Avevo ricevuto da lei certe lettere da cui si capiva che la teneva addirittura rinchiusa. Eppure eravamo riusciti ad averla, quella settimana insieme... Grazie a Bencolin, che aveva distolto il padre di Sharon dalle nostre tracce per tutto il tempo che gli era riuscito. Fortuna che a Bencolin piace vedere i giovani godersi la vita. «... ho sentito dire che il tuo amico Bencolin era qui a Londra anche lui, così l'ho riferito a Colette... Be', allora, puoi venire?» «Ma certo! Aspetta solo che mi metta il cappello. Cos'è successo?» «Non posso dirtelo per telefono. L'indirizzo lo conosci?» Me lo ripeté: era in Mount Street. Il resto della nostra conversazione fu un tantino confuso, anche perché, credo, Sharon doveva aver bevuto parecchio. Solo dopo aver riappeso il ricevitore mi sentii invaso da un presentimento spiacevole. Il presentimento era stato destato dal nome "Colette", che Bencolin aveva attribuito tanto alla signora misteriosa di Dallings quanto alla donna che aveva una tresca con El Moulk. La sua amante, insomma. Il nome era abbastanza comune: era assurdo temere che anche la Colette di Sharon fosse la medesima donna e che ci trovassimo quindi tutti invischiati nello stesso enigma... Cercai di scacciare quell'assurda idea, ma era impossibile. Perciò, vedendo Bencolin uscire dal salone, gli riferii immediatamente la storia della telefonata. Lui rifletté un minuto, aggrottando la fronte. Da dietro la porta, sentivo Talbot che parlava a voce alta. «Come ti ho detto» mormorò Bencolin «quella donna si chiama Colette Laverne. Ma può darsi che in questo momento non usi il suo vero nome.» «Si può sapere chi è, tuttavia?» «Aspetta.» Prese l'elenco telefonico. «È una possibilità piuttosto remota, ma dopotutto El Moulk non è mai stato tirchio con le sue amanti...» Le sue dita sfogliavano rapidamente le pagine. «Diamine, eccola qui! Mount
Street 122, Mayfair uno sette sette otto!» «Sharon abita nella casa adiacente» gli feci notare. «Allora sbrigati ad andarci. Prima, però, stammi a sentire: questo incidente può non avere alcun significato, ma può anche rivelarsi molto importante. Noi sappiamo che El Moulk è uscito di qui per recarsi da lei; se poi ci sia arrivato, resta da vedere. Tieni per te questo particolare... per ora non c'è bisogno che Talbot lo sappia.» «Stai manovrando questa investigazione del tutto a modo tuo, eh?» «Ho fatto una scommessa e intendo vincerla, perciò obbediscimi. Non dire nulla, a meno che non sia assolutamente necessario: so che posso fidarmi di te; non sarai tu a rompermi le uova nel paniere.» El Moulk, Dallings, la donna del locale notturno, Sharon: erano tutti nelle grinfie di piccole deità cieche che li facevano ballare come burattini a loro capriccio. E non in una danza ordinata secondo un disegno preciso, non in un complicato eppur disciplinato balletto di marionette, ma in una confusione cieca come loro, in una cateratta ruggente che c'inghiottiva tutti. Passai in salone per prendere cappotto e cappello e mi fermai un istante. Talbot aveva appena finito il suo resoconto, e il silenzio era così teso che io rimasi immobile, col cappello in mano. L'ispettore stava di nuovo digrignando i denti e aveva l'aspetto di un uomo che ha parlato a perdifiato, il più a lungo possibile, solo per evitare l'idea che maggiormente lo ossessionava. In piedi accanto al tavolo dov'era la forca, grassoccio e tirato a lucido, si schiarì la voce... C'era qualcosa nell'aria, non ne avevo il minimo dubbio: me lo dicevano la luce troppo forte delle lampade color ambra, i bassorilievi bizzarri e sinistri della sala immensa, e Talbot con la testa bruna protesa in avanti. «Cosa vi succede, Talbot?» intervenne Sir John. Gli occhi acuti dell'ispettore si alzarono verso di lui. Era un uomo pratico, certo, per nulla portato ai voli di fantasia... «Poco fa vi ho riferito, signore» disse «che questo El Moulk non ha ricevuto nessun visitatore per tutto il tempo in cui ha alloggiato qui...» «Ebbene?» «Però ne ha avuto uno questo pomeriggio.» Talbot spostò il proprio peso da un piede all'altro e continuò: «Proprio questo stesso pomeriggio... ma non so cosa pensarne. Alle due circa un uomo si è presentato qui e ha chiesto di El Moulk al centralinista. Di regola, l'atrio là fuori è ben poco illuminato. Il centralino ha la sua lampadina, ma tutto il resto è al buio; quindi il centralinista non poteva vedere la fac-
cia dell'uomo. Lui si teneva al di là del banco, in ombra.» "L'addetto però ha visto le sue mani. Avevano dita bianche e lunghe, dice, e l'uomo le teneva posate sul banco. 'C'è il signor El Moulk?' ha domandato. Il centralinista ha risposto che l'egiziano era uscito... L'uomo allora ha esitato un secondo e poi ha detto: 'Ecco il mio biglietto da visita. Volete avere la bontà di dirgli che verrò molto presto a trovarlo?'." Talbot fece una pausa e strizzò gli occhi. «Il telefonista dice che l'uomo gli ha porto il biglietto, ma lui sul momento non vi ha dato nemmeno un'occhiata. Lo ha messo da parte per darlo a El Moulk. Poco dopo, però, è smontato dal servizio e il biglietto non è stato mai consegnato. Eccolo, signore.» L'ispettore trasse dal taccuino un cartoncino rettangolare e lo mise sul tavolo. Scrutò le nostre facce mentre ci avvicinavamo per esaminarlo. Dopo aver gettato al biglietto un'occhiata rapidissima, Sir John si trasse indietro: la sua espressione era troppo impietrita per essere naturale. Sentii Bencolin emettere un risolino soffocato... Io provai un orribile senso di nausea, che mi sconvolse lo stomaco. Ricordai le ultime parole sussurrate dal sinistro individuo: "Volete avere la bontà di dirgli che verrò molto presto a trovarlo?". Sul biglietto da visita era stampato a rilievo un nome tremendo: JACK KETCH. 6 L'uomo che si era impiccato Fuori la nebbia si era diradata, e un alone brillante danzava intorno alle lampade dei fanali. Pall Mall appariva chiara e limpida, spazzata dal freddo intenso. Sentii un'automobile percorrere di corsa Piccadilly. All'angolo, presi al volo un taxi e mi accomodai sull'ampio sedile mentre imboccavamo la salita di St. James's Street. Jack Ketch, il boia, aveva presentato il suo biglietto da visita. Questo era l'atto più folle, più velenosamente brillante dell'intera pazza vicenda. I suoi passi felpati si avvicinavano senza posa, strisciavano al nostro fianco nell'oscurità, strisciavano... forse anche al fianco di Sharon? Al di sopra del brusio notturno di Londra si udiva il pigro ronzio dei pneumatici sulla strada, e nel taxi buio aleggiavano i ricordi. Mi si agitavano nel petto provocandomi un dolore incontenibile, eppure insieme al dolore c'era anche una selvaggia esultanza. Il taxi correva lungo le luci pallide di Piccadilly, e
l'aria gelida rendeva tagliente lo squillo del clacson. Poi imboccammo Berkeley Street e passammo nella quiete di Mayfair. A Barly-sur-Seine, in quel lontano aprile, mi era sfilato davanti agli occhi un panorama costituito di casette candide e strade bianche, percorse incessantemente da carriole cigolanti. Una dignitosa processione di oche avanzava con aria curiosa: somigliavano a professori di Oxford. In quel momento mi pareva perfino di sentire il loro schiamazzare. Le stradine odoravano di paglia e di letame e sonnecchiavano ai raggi del sole, come gli alberi densi di foglie; in sottofondo, il fiume cantava pigramente. A Barly-sur-Seine, lo ricordavo anche troppo bene, c'era stata una piccola locanda le cui tendine rosse e bianche erano perpetuamente agitate dalla brezza proveniente dalla Senna. Sharon era simile a un'atmosfera che la pervadesse tutta: gli occhi di Sharon, le braccia di Sharon... mentre il lucignolo della lampada a petrolio continuava a fumare nell'ombra. Oh, la pena di quei giorni, i sussurri, i bisticci, le parole amare, il troppo bere: tutto si era fuso in un folle romanzo sotto la luna fatata di primavera. Pensai allora con sorpresa, come mi accadeva sempre, che Sharon mi era necessaria. Il taxi svoltò a sinistra. Dopo aver esitato un poco nella strada buia e gelida, trovai facilmente l'indirizzo. Il taxi riprese la corsa e scomparve. Quasi subito il portone massiccio si aprì su un atrio lugubre, in fondo al quale ardeva una lampada velata. Era stata Sharon ad aprirmi. Mi parve più piccola di statura di quanto la ricordassi. La luce fioca cadeva sulle sue spalle candide e sui suoi capelli d'oro antico: si vedeva persino la sottilissima riga bianca che li divideva nel mezzo. Il volto, però, era in ombra. Quando lei lo alzò alla luce e io scorsi il lieve sorriso che le curvava le labbra e il suo sguardo di colpo interrogativo, il passato si levò di nuovo a togliermi il respiro. Scosso da un turbamento inenarrabile, mi udii pronunciare qualche osservazione distratta e altezzosa, com'era abitudine tra noi; ma la collera mi ribolliva dentro perché avevo notato che nell'atrio c'era un'altra persona. Un uomo. Dannazione! Maledizione! Così doveva andare, dunque, il nostro primo incontro? Un uomo! Ebbene, al diavolo. Probabilmente, coricarsi con questo e con quello era un'abitudine, per lei. Sharon mi porse la mano. Nella frazione di secondo in cui la strinsi, una molla essenziale scattò nel mio cuore e compresi che non si sarebbe spostata mai più. «Jeff, ti presento il dottor Pilgrim» disse Sharon. «Dottor Pilgrim, il signor Marie.»
Tirai un profondo sospiro e l'uomo si avvicinò, così che potei vederlo chiaramente. Era alto e snello, ma dava l'impressione di avere una corporatura estremamente robusta. A prima vista ne ricevetti un'ottima impressione. Aveva una faccia quadrata, intelligente e bonaria, con la mascella ben disegnata che denotava forza. Era orribilmente butterata da qualche precedente malattia, e ciò avrebbe potuto renderla assai brutta; ma la illuminavano un paio di occhi verdi da gatto, splendenti di simpatia e di comprensione sotto le sopracciglia cespugliose. Il dottore doveva avere una cinquantina d'anni, però nei suoi capelli folti e neri non si notava un filo bianco; e quando sorrideva, come stava facendo in quel momento, gli si sarebbero dati vent'anni di meno. Le sue spalle possenti si stagliavano controluce. «Felice di conoscervi, dottore» dissi. Pilgrim. Pilgrim? Non avevo già sentito quel nome? «Sentite» domandai «non siete per caso il dottor Pilgrim che abita al Brimstone Club?» Lui mi lanciò un'occhiata sorpresa. «Ma sì, certo, signor Marie; sono proprio io» rispose. «Per Giove! Ho letto sui libri le cronache di questi miracoli di deduzione, ma non avrei mai creduto che gl'investigatori ne fossero capaci nella vita reale. È lecito chiedervi come avete fatto a...» Sorrise di nuovo, con aria interrogativa, e io emisi un brontolio; avevo colto l'occhiata che Sharon mi stava lanciando dietro le spalle dell'uomo. Mi indirizzava cenni frenetici, tenendo un dito incrociato sulle labbra. Quella ragazza aveva la curiosa abitudine di attribuirmi certe abilità che nemmeno i miei amici più cari avrebbero mai sospettato. Adesso, a quanto pareva, io dovevo recitare la parte dell'investigatore; e se giudicavo bene il talento di lei per le vanterie, probabilmente dovevo essere il più brillante segugio d'Europa e dintorni. «Ehm» temporeggiai. «Cosa avete osservato? Fango sui lacci delle mie scarpe, un gemello mancante o che cosa?» insistette Pilgrim. Agitai una mano per smorzare il suo entusiasmo. «Oh, è molto più semplice» dissi. «Alloggio al Brimstone anch'io, ed è capitato che sentissi menzionare il vostro nome.» «Oh!» si rallegrò il dottore. «Bene, sono contento che non abbiate fatto deduzioni sul mio conto. Ho sempre pensato che avere investigatori di un certo genere alle costole dev'essere alquanto imbarazzante...» Si volse a Sharon. Aveva già indossato il cappotto e si toccò la tesa del
cappello. «Credo di aver fatto tutto quel che potevo, signorina Grey» disse. «La signora era impaurita a morte, ma per sentirsi meglio le sarebbe bastato bere un goccio di brandy. Tuttavia ripasserò domattina, per precauzione. La signora è del tutto in grado di tornare a casa sua stasera, naturalmente... E ora vi auguro la buona notte.» «Vi sono infinitamente grata, dottore» osservò Sharon. «Proprio non so cos'avrei fatto senza di voi...» Chiamando a raccolta tutte le mie facoltà istrioniche, cercai di darmi l'aria dell'investigatore; ma più tardi Sharon mi disse che sembravo piuttosto un cherubino col mal di denti. Chiesi con una certa severità: «Potrei sapere cos'è avvenuto, precisamente?» Pilgrim si fece grave. «Si tratta di una certa signorina Laverne, che abita nella casa adiacente» spiegò. I suoi occhi verdi da gatto erano pensosi. «Non posso dirvi gran che sulla faccenda. Stavo camminando lungo Mount Street circa mezz'ora fa... ero andato a giocare a bridge con alcuni amici a Grosvenor Square e avevamo finito piuttosto tardi. Stavo appunto passando davanti alla casa vicina quando il portone si è spalancato e ne è corsa fuori una donna, urlando. Ha fatto appena qualche passo e poi è caduta di peso. Dapprima ho pensato che fosse andata a sbattere contro il lampione e si fosse ferita malamente, ma poi ho scoperto che era solo svenuta. La signorina Grey era andata a farle visita, perciò penso sia in grado di dirvi qualcosa di più su questa brutta avventura. La signorina ha suggerito che portassimo qui la signora, la quale adesso si è ripresa. Non so dirvi altro.» Si calcò in testa il cappello. Un lieve sorriso aleggiò agli angoli delle sue labbra mentre ci osservava con gli occhi socchiusi. «Buona notte, signorina Grey. Buona notte, signor Marie. Spero che mi terrete informato se doveste fare altre... deduzioni. Come già sapete, abito al Brimstone.» La porta si chiuse alle sue spalle. Io guardai Sharon e feci: «Grrr!» Poi le dissi: «Butta fuori di casa quella donna, e in fretta. Desidero parlarti.» Quindi ci scambiammo parecchie battute taglienti, di chiara ispirazione diabolica, e assumemmo un atteggiamento freddo e distaccato. Cento volte avevo immaginato il nostro incontro, dipingendolo con i colori più rosei, eppure sapevo che in realtà sarebbe stato proprio così: squallido, complicato e sgradevole. Entrambi avevamo cercato con tanta perseveranza di escludere il sentimento dal nostro rapporto, e adesso non potevamo far altro
che continuare sulla solita strada. Mi sentii invadere dalla collera. La luce cadeva sugli occhi di lei, scintillanti e malinconici, quegli occhi così belli e nemici, mentre le sue labbra deliziose e ribelli erano serrate. Che pasticcio! «Andiamo a vedere la paziente, allora"» suggerii. «Sta bene. È al piano di sopra.» Attraversammo il grande atrio che odorava di vecchi ritratti e di virtù ancestrali, ma anche di muffa per mancanza d'aria. I mobili spiccavano fantomatici, con le loro fodere di tela bianca contro le pareti a pannelli di quercia. Credo che io e Sharon ci sentissimo ambedue piuttosto mortificati. Cominciammo a salire la scalinata immensa, massiccia, coperta da una corsia foltissima; proprio il tipo di scalinata che sembra fatta apposta per farne discendere una bara. Non fosse stato per la curva che descriveva, anzi, si sarebbe potuto far scivolare una bara lungo la ringhiera senza alcun pericolo. Sotto di noi la lampada schermata pareva ardere in un lago di tenebra, e un soffio di corrente ci colpì in pieno viso. Sharon si arrestò prima che arrivassimo in cima. Ricordo il suo viso bianco e la luminosità dei suoi occhi frangiati di nero quando si voltò verso di me. La sua bella testa spiccava sullo sfondo del grande ritratto annerito di un gentiluomo dal collare inamidato e dall'aria sinistra. Sotto il dipinto scuro e torreggiante, Sharon pareva una bambina che avesse paura del buio. «Volevo spiegarti com'è andata la nostra vicenda...» disse. La sua voce era fioca e gelida, per nulla convincente. Aggrottò le sopracciglia e continuò: «Ho pensato a tutte le volte che siamo stati insieme. Lo sai perché abbiamo bisticciato e ci siamo azzuffati, perché siamo stati sempre così acidi e sospettosi?» Si stava accalorando. «Sì» risposi io a voce bassa. «E invece no! Proprio non lo sai! Tu credi che io voglia intendere che eravamo innamorati, ma non è così. Credi che io abbia mai potuto dubitarne? E tu, ne hai dubitato? Se rispondi di sì, vuol dire che sei un dannato bugiardo!» Il suo sguardo fiammeggiante si distolse da me e finì col vagare senza meta tra le ombre del soffitto altissimo. Eravamo tutti e due tesi, ansimanti, confusi. Sharon batté i pugni contro il muro. «Noi abbiamo escluso qualcosa dal nostro pazzo mondo, esattamente come fanno tutti gli altri. A Nizza, a Cannes, a Deauville, s'incontra un mucchio di gente bizzarra... dura, arida, brillante, sempre con una risata stridula sulle labbra. Oh, sono odiosi! E sono così perché hanno escluso da sé qualche cosa. Tutta la nostra generazione lo ha fatto. Si tratta di una co-
sa molto piccola e non so neppure se sia vera o falsa; ma so con certezza che è necessaria. Ti renderai conto di cosa voglio dire quando parlerai con Colette» aggiunse con più calma. «Andiamo.» «Come diavolo ti è successo di trovarti con lei?» «Oh, la conosco da tempo. Ti avevo telefonato stasera al Brimstone e mi hanno riferito che eri andato a teatro. Colette ha visto la luce e mi ha chiesto di andare da lei: era molto inquieta, vedrai tu stesso... e poi... Dio, ma è spaventoso! Un pasticcio dopo l'altro; solo guai, guai neri, in continuazione!» esplose, serrando i pugni. «Perché deve toccare sempre a me di trovarmi immischiata in cose del genere?» «Sei sola?» «Già. E ho dovuto scassinare una finestra per entrare, quanto a questo. Se mio padre lo sapesse...» Quello sfogo davanti al ritratto annerito fu però di brevissima durata. Ricordava quasi un incontro nelle sconfinate e vertiginose plaghe dell'inferno. Sharon era ritornata disinvolta e noncurante come sempre, quando aprì la porta del salottino che dava su Mount Street. «Sei rimasta via molto a lungo, bambina» disse una voce lamentosa. Colette Laverne era seduta su una grande poltrona dallo schienale alto e avvolgente davanti al fuoco, il quale costituiva l'unica sorgente di luce della stanza. Aveva una voce sorda, dall'accento francese molto spiccato, e scandiva le sillabe come se ogni parola fosse un intero periodo. Volse appena la testa, quando entrammo. La legna nel caminetto sibilava e fumigava, emettendo pallide fiamme bluastre che gettavano riflessi bizzarri sugli alari di ottone e sul viso della donna. Lei sedeva rigidamente eretta tra le ali avvolgenti della poltrona, e si stringeva attorno una vestaglia azzurra che doveva appartenere a Sharon, perché era davvero troppo piccola per lei. Aveva lineamenti di una perfezione gelida e arrogante. La sua carnagione era candida, liscia e opaca come il marmo, e su di essa la bocca dipinta spiccava come una ferita. Gli occhi di un castano scuro avevano la cornea tanto bianca da sembrare luminosa: occhi freddi e calcolatori, estremamente calmi e logici sotto le sopracciglia diritte. I capelli color rame erano raccolti in un nodo basso sulla nuca. Credo che fosse la donna più bella che io abbia mai visto, ma anche la meno attraente. Era alta, e aveva uno di quei corpi che paiono modellati sui sogni libertini degli uomini, come si vedeva anche troppo bene sotto la vestaglia che la ricopriva a malapena. Ma quelle curve voluttuose erano anch'esse dure e metalliche, o meglio marmoree
come la sua faccia. Ne emanava l'aura fredda e calcolatrice che s'intuiva in tutta la persona di lei. Perfino le ombre lievi intorno al naso ben disegnato suggerivano una mente intenta a un continuo bilancio tra dare e avere, così arida e spassionata da sopraffare qualunque parvenza di sentimento. «Dunque, voi sareste l'investigatore» disse, pronunciando chiaramente ogni parola. «Dio mio, quanto siete giovane!» Di colpo scoppiò a ridere forte, mettendo in mostra i bellissimi denti candidi. «Non offendetevi: venite a sedere accanto a me, poi parleremo.» Batté un colpetto sul divano che aveva accanto. Sembrava allegra, ma i suoi occhi mi stavano valutando con calma glaciale, e la sua mascella dalla linea troppo ferma denotava un temperamento che non tollerava opposizioni. Allungò verso di me un braccio squisitamente modellato e io sentii tintinnare i numerosi braccialetti ornati di turchesi che lei portava. Conoscevo le donne del suo tipo: si notano immediatamente nei posti di lusso della Riviera che loro di solito frequentano. Amano il gioco e siedono ai tavoli della roulette per ore e ore, ciecamente assorte; ma rischiano poste limitate e astutamente calcolate. Riservano i loro affetti più intensi ai cagnolini pechinesi, bestiole di regola antipaticissime, che vezzeggiano amorosamente prendendoli spesso in braccio, mentre le loro risate echeggiano rumorose lungo le passeggiate a mare bordate di palme. Portano sempre vestiti di Patou e lunghe collane di perle, non si sa mai se autentiche. Sono abbaglianti, illetterate, intelligenti, superstiziose e gelide come cobra. Colette Laverne si rivolse a Sharon con aria indifferente. «Cara» disse «fai la brava e portami un altro po' di quel buon brandy. E le sigarette Abdullah. Voglio parlare con questo giovanotto.» Sharon s'irrigidì e parve offesa nel sentirsi comandare a quel modo, ma era come se l'altra donna non la prendesse neppure in considerazione. Io provavo un'antipatia crescente nei confronti di Colette Laverne. Decisi di non darle alcuna informazione. Lei mi credeva un investigatore; ergo, da investigatore mi sarei comportato. E con tutte le carte che avevo nella manica, a causa degli avvenimenti di quella notte, avrei giocato una partita superlativa. Lei, inoltre, era molto impaurita. Rideva e continuava a fare i suoi calcoli, però qualcuno o qualcosa l'aveva terrorizzata a morte. Tenendo gli occhi fissi sul fuoco, domandò: «Non fate parte della polizia, vero?» «No.» «Allora con voi posso parlare. Sono nei pasticci: pasticci molto seri, ma
non ve li racconterei se foste della polizia. Sharon mi ha assicurato che posso fidarmi di voi.» Lentamente, volse verso di me i grandi occhi castani dall'espressione indagatrice. Le sue labbra erano contratte, come se lei imprecasse fra sé e sé. Nelle pupille le ardeva una fiamma oscura, e di colpo la donna batté le mani sui braccioli della poltrona e cominciò a pronunciare le sue imprecazioni a voce alta, metallica e traboccante di amarezza: erano dirette contro Nezam El Moulk. I braccialetti tintinnavano e sembravano scandire il tempo. «Voi però di tutto questo non sapete nulla» mi disse, interrompendo quel flusso di maledizioni. «Ora vi spiego.» "Abito nella casa accanto. L'uomo che mi mantiene è un egiziano molto ricco. Capite? Ciò che accadde, accadde dieci anni fa. Sarò sciocca, ma so bene che tutto cominciò allora. "A quel tempo Nezam... si chiama Nezam... viveva a Parigi. Era novembre, lo stesso mese in cui ci troviamo adesso, e la guerra era appena finita. Facevamo parte di una comitiva molto allegra. Io ancora non vivevo con lui, però lui spendeva un sacco di soldi per me. Ha sempre speso un sacco di soldi per me" aggiunse in tono riflessivo. «Bene! Oltre a Nezam, c'erano altri due uomini che mi stavano dietro, chiaro? Uno era francese e si chiamava De Lavateur. Era tanto simpatico ma non aveva molto denaro, e poi» scosse le belle spalle «la guerra lo aveva reso invalido. L'altro era inglese.» "Era un giovanotto alto e robusto, e rideva sempre. Era stato aviateur durante la guerra, ma il suo avion era stato abbattuto e si era creduto che lui fosse morto; invece si trovava in un ospedale di Parigi. Si faceva chiamare 'Keane', non so perché, dato che lui mi aveva detto che non era quello il suo vero nome. Mi aveva raccontato che sotto quel nome aveva scritto un libro, una volta. "Aveva aggiunto che voleva continuare a farsi chiamare 'Keane' perché, se la sua famiglia avesse saputo che era vivo, lo avrebbe richiamato a casa; e lui ancora non se la sentiva di tornarci." Rise, esibendo di nuovo i bellissimi denti. «Ah! Mi diceva sempre: "Betty" (mi chiamava Betty), "è vero che sei la mia ragazza?". E io gli rispondevo: "Sì, sono la tua ragazza, ma per favore non mi arruffare i capelli".» Alzò le spalle un'altra volta, in un gesto di collera, il labbro atteggiato a una smorfia imbronciata. «Nezam era un dannato cretino. Credeva che De Lavateur e Keane fossero i miei preferiti, invece di lui. Santo cielo! Come se io fossi stata una maledetta idiota! Però Nezam la pensava così. Era talmente stupido! Eh bien, aveva comprato un
grande palazzo accanto al Bois de Boulogne...» Aggiunse un'espressione seria e pensosa. «Un palazzo di sessantaquattro stanze. E vi dava delle feste. Ah, che feste! Quanto gli costavano! Una volta, spese centomila franchi soltanto per l'orchestra, figuratevi. E faceva venire ballerini professionisti a dare spettacoli. Poi tutti si ubriacavano.» "Una notte... era la notte del 17 novembre, come domani... aveva dato un gran ballo in costume egiziano, o qualcosa del genere, e tutti erano in maschera. Magnifico! Trecentomila... ma non importa. Quella sera Nezam appariva buffo, strano, più strano di quanto lo avessi mai visto. Aveva un'aria bizzarra, e portava sulla fronte un affare che somigliava a un serpente." S'interruppe e Sharon si avanzò alla luce con una caraffa di brandy e un portasigarette d'argento, che depose su un tavolino accanto alla poltrona di Colette. Poi Sharon sedette sul divano accanto a me. Io fissavo le fiammelle gialle e bluastre che danzavano intorno ai ceppi, e sagome mostruose cominciarono a prendere forma ai margini del mio cervello. "Un affare che somigliava a un serpente"... il diadema regale, l'emblema dei Faraoni! Sarebbe stato a meraviglia sulla fronte di Nezam El Moulk. Mi sentii come se qualcuno mi avesse dislocato con violenza la spina dorsale quando ricordai le parole pronunziate da Bencolin, quello stesso pomeriggio: "La polizia di Parigi trovò in un bosco, all'alba, il cadavere di un uomo vestito del costume e dei sandali d'oro di un nobile della corte dei Faraoni di quaranta secoli or sono. Gli avevano piazzato una pallottola in fronte...". Colette Laverne alzò una mano per accendersi una sigaretta, e i braccialetti scintillanti le scivolarono lungo il braccio. Un ricciolo di fumo le sfuggì dalle labbra e salì fino ai suoi occhi immoti, vitrei. Si stirò voluttuosamente e si accomodò meglio tra i cuscini della poltrona, serrandone i braccioli con lunghe dita irrigidite. Il suo viso era gelido, guardingo, inespressivo. Gli occhi castani erano socchiusi. Le sue labbra troppo rosse si aprirono lentamente sui denti candidi, e notai che vi era rimasto incollato un frammento di carta della sigaretta. «Nezam legge libri che io non comprendo» disse lei tutto d'un fiato. «Io non sono istruita. Ci sono cose...» "Quella notte ci fu una baruffa, ma non vi dirò cos'accadde di preciso. Io cercai De Lavateur e Keane, ma non riuscii a trovarli. Era quasi giorno quando uno dei miei amici venne da me. Tremava tutto perché non era u-
briaco come gli altri, e non riusciva a farsi capire da nessuno... tutti erano terribilmente sbronzi e stavano distesi qua e là, sui fiori. Alla fine, l'amico si mise a urlare: 'Qualcuno ha sparato a De Lavateur! Stanno cercando Keane!'." Ci fu una pausa e il fuoco scoppiettò. «Trovarono De Lavateur nel Bois, morto. Keane fu rintracciato nelle sue stanze all'Avenue Marceau: era disteso sul letto, ubriaco, con una pistola stretta fra le mani. E Nezam sorrideva..» Un'altra pausa. Colette alzò la mano e aspirò profondamente una boccata di fumo. «Quando Keane ridiventò sobrio, si mise a piangere. Disse che si era battuto in duello con De Lavateur. La polizia gli chiese dov'era l'altra pistola... perché non avevano rinvenuto nessun'arma, a parte quella che si trovava in possesso di Keane. Keane disse che Nezam aveva fornito le pistole e aveva detto che li avrebbe accompagnati nel luogo dove doveva svolgersi il duello; anzi, avrebbe dato lui stesso l'ordine di far fuoco. Keane disse che Nezam avrebbe confermato la veridicità delle sue dichiarazioni.» "Ma Nezam si limitò a sorridere, a sorridere e a stringersi nelle spalle. Disse che si trattava di una colossale bugia..." Colette incrociò le lunghe gambe inguainate di seta. Allungò un braccio, si versò un bicchiere di brandy e si lasciò andare di nuovo sui cuscini della poltrona, imperscrutabile come una sfinge. 7 Una mano bussa nella notte Colette levò in aria il bicchiere con feroce allegria, alzando una spalla. «Questo ti diverte, non è vero, cara?» chiese a Sharon. Uno spruzzo di brandy cadde sulla vestaglia azzurra e la donna fece il broncio, mortificata. «Oh, chiedo scusa, tesoro! È tanto graziosa... Alors, revenons à nos moutons!» Sharon si volse rapidamente per lanciarmi un sorriso. «Ah!» commentò Colette «che scena deliziosa! La ragazzina inglese e il grande investigatore! Ma dobbiamo pensare alle cose serie.» Il suo volto s'irrigidì e la mascella parve diventare più squadrata. «Vi stavo parlando...» riprese, dopo aver aspirato qualche boccata dalla sigaretta «vi stavo parlando di Keane. Il poveretto era così ubriaco che non
ricordava un gran che della serata... Disse che aveva stabilito di battersi a duello con De Lavateur e ricordava di avergli sparato, ma non credeva di averlo colpito.» "Ricordava però anche che Nezam gli aveva battuto una manata sulla spalla e gli aveva detto che aveva ucciso De Lavateur; poi lo aveva esortato ad andarsene a casa, perché le cose si erano messe molto male. Tutto qui. "Nezam negò tutto. Disse di aver sentito Keane minacciare De Lavateur, e affermò che, secondo lui, Keane aveva trascinato De Lavateur nel Bois e gli aveva sparato. Disse di poter provare che durante la serata lui non si era mai allontanato dal palazzo. Ma sarebbe stato in grado di provarlo solo attraverso me, perché tutti gli altri erano troppo ubriachi per testimoniare. Io dovevo dunque dichiarare che lui non era mai uscito di casa..." «Ed era vero?» Lei mi lanciò uno sguardo scrutatore; ma alfine un lieve sorriso le aleggiò sulle labbra, mentre le spalle marmoree si stringevano in un gesto noncurante. «Come faccio a saperlo? Non ho mai prestato tanta attenzione agli andirivieni di Nezam. Lui, però, mi regalò una magnifica Hispano-Suiza, perciò cosa volete da me?» Parlò con sorpresa talmente sincera che io annuii. «Capisco. Continuate, prego.» «Certo. Sono lieta che siate un uomo di buon senso e quindi comprendiate... Ebbene, Keane fu processato per omicidio e Nezam depose in tribunale; dovetti testimoniare anch'io. Keane disse che se ne infischiava dell'eventuale condanna: desiderava solo provare che si era trattato di un duello e che lui non era codardo al punto da sparare a un uomo disarmato. Ça, c'est rigolo, hein? Ces anglais, ils sont très, très drôles!» Scoppiò a ridere e bevve, poi esitò un istante e rise di nuovo: quel modo di comportarsi le pareva davvero troppo buffo. Ma subito dopo ridivenne seria. «Keane fu condannato all'ergastolo. Ma non scontò la condanna: s'impiccò nella sua cella.» Sprofondò tra i cuscini. In qualche punto della vasta casa, un orologio suonò le due e mezzo. «Fui molto inquieta finché tutto finì» ammise con aria pensosa. «Tra gli uomini che conoscevo ce n'era uno, uno solo, che mi faceva paura. Forse lo conoscerete anche voi, almeno di nome. Si chiama Bencolin. Ce chameau, ce sale fils de putan!» imprecò, serrando i pugni. «Ride, non fa che ri-
dere in continuazione. Non crede mai a nulla di quanto gli si dice. Ma allora si trovava in guerra e non era a Parigi durante il processo, perciò non poté far nulla quando ritornò, a cose fatte. Ma un giorno bussa alla mia porta ed entra, tutto elegante nell'abito da sera con i guanti bianchi e il cappello a cilindro, poi sorride e mi dice: "Buon pomeriggio, mademoiselle". Io rispondo: "Che cosa volete? Io non vi conosco". Lui allora dice: "Certo che no, mademoiselle". Poi sorride, sorride. "Ma un giorno o l'altro mi conoscerete. Ero venuto a farvi sapere solo questo, mademoiselle, che un giorno o l'altro mi conoscerete."» "E se ne va, senza aggiungere altro. Io ho sempre avuto paura della polizia. I poliziotti non sono stupidi. Ogni volta che penso alla polizia, io penso a quell'uomo... perciò non ho il coraggio di andarci. Ma voi, amico mio... voi siete diverso." Gli dei ciechi continuavano a tessere la loro tela. La morte, il caso e le vanterie di Sharon... tutto aveva cospirato per estorcere a quella donna un racconto che lei non avrebbe mai rivelato alla polizia! Solo un colpo di fortuna mi aveva trattenuto dal dirle la verità; e questo significava... che cosa? «Vi state probabilmente chiedendo perché io vi abbia detto tante cose» riprese lei. «E sta bene. Vi ho anche detto di non aver mai saputo quale fosse il nome autentico di Keane. Ebbene: qualcuno lo sa. Qualcuno pensa che Nezam ed io abbiamo voluto la morte di Keane, e perciò desidera ucciderci tutti e due.» Si protese in avanti e mi scrutò, terribilmente seria. «E questa persona sarebbe...» la incoraggiai. «Non lo so! Ecco cosa voglio che scopriate! È orribile! Si aggira e s'infila dappertutto, e io non riesco a sopportarlo!» A quel punto, dovevo fare molta attenzione a non rivelare quanto sapevo: la trama sinistra era quasi completa e riuscii a malapena a soffocare un'esclamazione di trionfo. «Dunque, secondo voi, una persona che conosceva Keane, forse un amico di vecchia data, sta preparando una sua efferata vendetta?» «Appunto.» «Ma il fatto è avvenuto una decina di anni fa. Intendete dire che qualcuno vi ha perseguitati per tutto questo tempo?» Dovevo esprimermi con la dovuta prudenza. «No, no, no! Non per tutti e dieci gli anni, solo da quando siamo arrivati a Londra. Dunque da pochi mesi soltanto. Ed è stato Nezam il perseguitato, per lo più. Solo qualche settimana fa quella persona mi si è messa alle
costole. Quindi state attento a ciò che sto per dirvi: a me non importa niente di Nezam! È di me che mi preoccupo, capite? Se qualcuno uccide Nezam, affari suoi: c'è in giro un bel testamento che mi lascerà ben provvista Ma se quella persona intende uccidere anche me...» Allargò le braccia, disperata. «Vedo» dissi in tono asciutto. «Ma quali ragioni avete per ritenere che qualcuno vi perseguiti... o che tale persecuzione sia causata dalla morte di Keane?» «Oh, Nezam lo sa benissimo. Ma non mi dice molto, e spesso si esprime in modo strano. A volte vaneggia. Dice che la morte è alle sue calcagna e che lui sa.» Sottolineò il verbo, picchiando sul bracciolo il palmo aperto. Aveva gli occhi dilatati da un terrore superstizioso. «Dice che non serve a nulla chiamare la polizia, e adopera parole bizzarre che io non capisco. Lui, infatti, è un uomo molto, molto istruito, e sa tante cose. Però non vi parlerò di quanto è accaduto a lui: vi parlerò invece di ciò che è accaduto a me.» Fece una pausa, come per mettere bene a fuoco quello che aveva in mente, poi vuotò il bicchiere con una sorsata e lo rimise sul tavolino. «Per parecchio tempo, Nezam mi andava raccontando che qualcuno lo terrorizzava in continuazione, per mezzo di certi oggetti che gli spediva, capite? Io però ci ridevo sopra. Ma poi, Dio mio, ho ricevuto una lettera! Non l'ho qui, è a casa mia; ma il suo contenuto lo so a memoria. Sapeste quante volte l'ho riletta! Perciò posso riferirvela parola per parola!» Alzò in aria un dito e ricominciò, scandendo ogni sillaba: «Dice così: "Cara signorina Laverne, ho appreso da poco che voi avete avuto una parte determinante nella morte di un giovane di nome J.G. Keane a Parigi. Non sono sicuro che meritiate la massima punizione per questo, ma è sempre meglio spingersi troppo avanti piuttosto che rimanere indietro. Il 17 novembre cadrà l'anniversario della sua morte, e io ritengo che questa sarà una data memorabile per voi e per Nezam El Moulk. Sinceramente vostro...".» S'interruppe e inghiottì a fatica. «Ebbene?» la spronai. «"Jack Ketch"» concluse la donna. Ormai l'ombra che doveva incupire di orrore le nostre notti si era levata in tutta la sua spettralità; e mi parve quasi di scorgere le mani bianche di Jack Ketch aleggiare sullo schienale della poltrona di Colette Laverne come il centralinista del Brimstone Club le aveva viste posarsi sul suo banco.
Colette sedeva immobile nella luce danzante del fuoco, le mani strettamente congiunte. «Ho chiesto a Nezam chi indicava quel nome. Mi ha risposto che era uno pseudonimo, il nome di un uomo che un tempo aveva impiccato la gente qui a Londra. Cioè il boia.» «Cos'avete fatto, allora?» «Be'... dapprima, quando Nezam era così spaventato, voleva che io lo aiutassi a scoprire chi lo stava terrorizzando in quel modo. Ma io, je m'en fiche! Cosa me ne importava? Dopo, però, quando sono stata io a ricevere la lettera... allora ho avuto paura. E naturalmente sono stata disposta ad aiutarlo.» Accese un'altra sigaretta dal mozzicone della precedente. «E Nezam ha detto che aveva un indizio...» «Di che specie?» «Non lo so, so solo che le cose stavano così: Keane non parlava mai molto di sé, capite? Una volta, però, Nezam gli aveva sentito menzionare il nome di una persona... una persona che Keane doveva aver conosciuto... e Nezam non dimentica mai nulla. Keane aveva parlato di un uomo, di un suo amico che si chiamava Dallings.» «Ah!» «Quindi Nezam ha pensato che potevamo farci dire da Dallings chi era veramente Keane, vedete? Perché se Keane aveva fatto il suo nome, allora Dallings doveva conoscerlo, no? E se noi riuscivamo a sapere chi era Keane, potevamo scoprire anche chi c'era dietro tutta questa storia...» "Ma quel Dallings è un ragazzo talmente buffo!" Colette scoppiò di nuovo in una risata improvvisa, e al ricordo le scintillarono gli occhi. «Ah! Gl'inglesi come popolo sono proprio bizzarri. Dallings è un po' sciocco, capite? No, no: adesso vi racconto. Nezam lo ha avvicinato e poi lo ha spedito in un locale notturno dove io ho fatto la sua conoscenza. L'altra notte il ragazzo si è ubriacato parecchio e ha insistito per accompagnarmi a casa. Ma a cosa mi serviva la sua compagnia? Così l'ho imbrogliato spedendo via il taxi. Tanto, lui non sapeva né il mio nome né il mio indirizzo...» "Noi non osavamo abbordarlo direttamente e chiedergli se conosceva Keane. Dovevamo stare attenti: non ci siamo azzardati a fargli sapere cosa volevamo, perché..." «Perché credevate che lui potesse essere Jack Ketch?» Colette spalancò gli occhi, esterrefatta.
«Quello lì?» sbottò con disprezzo. «Quello stupido? Con quella faccia da pesce? No, no, no! Senza contare che, secondo voi, io mi sarei arrischiata a salire con lui in taxi se avessi immaginato che era Jack Ketch? Pfui! Amico mio, ho l'aria di una cretina totale? Non sia mai! Io e Nezam credevamo soltanto che forse lui avesse conosciuto Keane.» Fece un gesto d'impazienza. «Invece lui non sapeva niente! Io glielo avevo detto, a Nezam, che sarebbe finita così. Come faceva quel ragazzo a sapere chi era Keane, se "Keane" era solo un nome falso? Come faceva a rivelarci il vero nome di Keane se noi non eravamo capaci di fornirgli altro che lo pseudonimo con cui si faceva chiamare? Bah! Dallings ha un sacco di amici; ho saputo questo e basta. Voilà.» «Non avete alcun ritratto di Keane? Che so, un'istantanea, qualcosa del genere...» «Niente.» «E nessuno ha mai scoperto chi era veramente, neppure al processo?» «No. Lui diceva: "Se devo morire, perché coinvolgere nella mia disgrazia anche qualcun altro?". Così nessuno riuscì a scoprire nulla: lui bruciò le sue carte, tutti i documenti. "Scomparirò e basta" diceva.» «Ebbene, almeno che aspetto aveva?» «Cosa ne so?» Colette scosse la testa con insofferenza. «Non l'ho mai guardato con attenzione. Era alto, aveva capelli scuri e occhi grigi. Avrebbe potuto esser chiunque. Poteva essere perfino voi. Adesso, però, voglio raccontarvi cos'è successo stanotte.» Rabbrividendo, Sharon si alzò dal divanetto e andò ad attizzare il fuoco. I ceppi sfrigolanti eruppero in una grande fiammata, però nella stanza faceva un freddo terribile. Io mi sentivo il cuore battere all'impazzata. «Signor Marie, Jack Ketch ha preso Nezam!» L'annuncio di Colette Laverne non destò la sensazione che lei si era aspettata. Io mi limitai ad annuire e chiesi: «Come fate a saperlo?» «Lui mi ha telefonato nelle prime ore di questo pomeriggio. Aveva un forte raffreddore di testa ed era molto eccitato, ma mi ha detto che sarebbe venuto a prendermi stasera in automobile e saremmo andati a cena fuori. Per me andava bene, perché avevo messo in libertà tanto la cameriera quanto la cuoca. Nezam ha detto che sarebbe arrivato a casa mia verso le otto.» "Così mi sono vestita e preparata, ma lui non è venuto. Ho aspettato Dio sa quanto, tutta pronta, ma lui non veniva. Ero completamente sola in casa
e di colpo ho pensato: Dio mio! E se fosse accaduto qualcosa? Ho fatto il giro della casa accendendo tutte le luci e continuavo a guardar fuori dalla finestra... ogni volta che sentivo passare un'automobile per strada aprivo la porta, ma lui continuava a non venire. Ho telefonato al club dove abita e loro mi hanno detto che era uscito da un'ora. Allora ho pensato: forse Jack Ketch lo ha preso. E se adesso dovesse venire a prendere anche me? Ero terrorizzata!" Le tremavano le labbra mentre si volgeva a guardare Sharon. «Tesoro, dov'è il vestito che mi son tolto per mettere questa vestaglia? Vi ho lasciato dentro una cosa. Dimmi dov'è!» «Sulla poltrona dietro di voi» rispose Sharon. Colette si alzò: era ancora più alta di quanto mi fosse parso. La tensione dei suoi muscoli accentuava le curve del corpo voluttuoso; il seno stupendo e i fianchi dalla linea sensuale erano messi in risalto dalla vestaglietta insufficiente a coprirla, e le gambe erario perfette nelle calze trasparenti di seta nera fermate da giarrettiere sopra il ginocchio. Nonostante la sua statura, i movimenti della donna erano sicuri e pieni di grazia mentre lei usciva dal cerchio di luce. El Moulk doveva sembrare un nano goffo, accanto a lei. La vidi chinarsi a prendere qualcosa da un vestito spiegazzato gettato alla rinfusa su una poltrona; e mentre si chinava, i suoi capelli di rame acceso ebbero bagliori scintillanti. Colette ci lanciò un'occhiata in tralice e ritornò a sedersi, stringendo in mano qualcosa. «È passata un'altra ora e a quel punto ero certa che doveva esser successo qualcosa di brutto. Stavo seduta accanto alla finestra quando ho visto passare un poliziotto. Ero talmente spaventata che ho cercato di farlo entrare, ma lui non ha voluto. Non ne ha voluto sapere!» esplose quasi in un ruggito. «Non volevo andar fuori, e sola in casa avevo paura. Allora ho visto una luce in questa casa e mi son ricordata di aver visto la signorina Grey arrivare nel pomeriggio. Lei mi aveva detto che era sola. Ho suonato il campanello e le ho detto: "Per amor di Dio, tesoro, vieni da me e rimani per un poco a farmi compagnia, perché sono troppo nervosa".» "Fino a quel momento, lei aveva cercato di raggiungervi per telefono, ma voi eravate uscito. Così siamo andate a casa mia, nel salotto del primo piano; lì abbiamo bevuto e chiacchierato e lei mi ha raccontato il magnifico lavoro d'investigazione che avete svolto a Parigi la primavera scorsa..." Lanciai un'occhiataccia a Sharon, ma lei teneva lo sguardo ostinatamente abbassato e aveva le guance rosse.
«Così si è fatto sempre più tardi e Nezam non veniva. A un certo punto, lei ha detto: "Adesso devo proprio andare". Ma io ho ribattuto: "No, no! Per piacere, non te ne andare! Devi rimanere con me stanotte, perché ho troppa paura a star sola".» "Dopo un poco, qualcuno ha bussato alla porta." A quelle parole, un brivido gelido mi percorse la schiena. Lei mi fissava con una disperata richiesta d'aiuto negli occhi. «Faceva toc, toc, toc... proprio così, giù al portone di strada. Toc, toc, toc.» Colette alzò una mano come in sogno e mimò l'atto del bussare. «Mi son detta: è Nezam! Lui però suona sempre il campanello. Così non me la sono sentita di scendere e ho detto a Sharon: "Cara, vieni anche tu".» "Le luci erano tutte accese. Ero così spaventata che mi sentivo soffocare. Intanto, il toc, toc, toc continuava. "Ho aperto la porta... non c'era nessuno. Mi sono sporta a guardar fuori nella nebbia e allora ho visto che qualcuno aveva lasciato un biglietto da visita sulla soglia. Mi sono chinata per raccoglierlo e, di colpo, qualcuno mi ha battuto sulla spalla." Spalancò le braccia. Un singhiozzo le sfuggì dalle labbra aperte sui denti serrati. «Avevo appena raccolto il biglietto quando ho sentito un dito battermi sulla spalla, da dietro. Non sono più riuscita a dominarmi: ho urlato. Mi son messa a correre e poi non ricordo più nulla. Quando sono rinvenuta, mi son trovata qui, sdraiata sul divano, col biglietto stretto fra le dita.» Me lo porse, ma io sapevo già cos'avrei veduto. Alla scarsa luce del fuoco, lessi le parole di malaugurio: JACK KETCH. Un angolo del biglietto era sporco di sangue. Cadde un silenzio lunghissimo... «Non siete stata aggredita?» domandai. «No. Credo che questa volta si sia trattato di... di un avvertimento. Forse lui non è ancora pronto...» «E la persona che vi ha battuto sulla spalla?» «Non ho visto... nessuno.» Mi voltai verso Sharon. «Eri lì quando è successo tutto questo?» «Ero proprio dietro di lei» rispose la ragazza con gli occhi fissi lontano, enormi nel viso contratto. «E non ho visto nessuno neppure io...» «Cos'è accaduto, in seguito?» «Lei è svenuta per strada, accanto al lampione. Ho visto arrivare un uomo e ci siamo chinati su di lei. Ho detto: "Dobbiamo chiamare un medico".
Lui ha risposto: "Io sono un medico, per l'appunto". Così l'abbiamo portata quassù. Dopo essere rinvenuta, lei non ha voluto tornare a casa sua.» «Tornare in quella casa?» gridò Colette con voce stridula. «Credete forse che sia pazza?» «Per favore, parlate più piano. Quando è successo il fatto?» «Io lo so con precisione» rispose la donna, controllandosi a fatica «perché non facevo che guardare l'orologio. Era l'una e un quarto.» Il problema era impostato. Le tessere dell'enigma erano di fronte a noi, nel loro disegno intricato e mortale. Io esitavo. "Non dire niente", mi aveva raccomandato Bencolin. Mi chiesi quali domande potevo azzardarmi a fare. «Così non potevo più andare avanti» mormorò la donna. «Mi son ricordata di quanto mi aveva detto Sharon e l'ho pregata di chiamarvi...» Sharon, quindi, aveva dovuto sostenere il suo bluff, eh? Ma dopotutto, lo avevo sostenuto anch'io. «Ditemi, signor Marie, credete che io sia in pericolo?» «Sì.» «E pensate che lui abbia preso Nezam?» «Sì.» Questo potevo affermarlo con la massima convinzione. Strano come riesce facile assumere un'aria giudiziosa e perspicace, quando tutti vi attribuiscono un'immensa facoltà di penetrazione. Mi accarezzai il mento e aggrottai la fronte, con la solennità e l'importanza del presidente degli Stati Uniti. «Dobbiamo sforzarci di approfondire l'aspetto psicologico della faccenda» aggiunsi, scuotendo il capo. Un'osservazione del genere fa sempre un ottimo effetto quando uno non sa che pesci pigliare. «Ma intanto io cosa devo fare? Ditemelo!» «Fare?» ripetei. Mi picchiai una manata sulle ginocchia, mi alzai e le tenni un bel discorsetto in stile Sherlock Holmes. «Mi avete sottoposto un problema davvero interessante, signorina Laverne, ma ho bisogno di rifletterci sopra. Vi farò sapere qualcosa domani. Nel frattempo, terrò io questo biglietto, se non vi dispiace... Vorrei anche vedere la lettera che avete ricevuta. Ritornerete a casa vostra, adesso?» «No! Rimarrò qui con Sharon. Ci chiuderemo a chiave in una stanza, con una pistola.» Pareva decisissima e non c'era modo di farle cambiare idea. Discutemmo ancora per un poco, ma senza risultati apprezzabili, perché io dovevo stare molto attento a quel che dicevo. Più di una volta provai la tentazione di
raccontare tutta la verità; ma nello stato d'animo confuso e isterico in cui lei si trovava a quell'ora del mattino, ciò non avrebbe prodotto un buon effetto. Che bello spavento avrei potuto far prendere a quella dama egocentrica menzionando appena il nome di Bencolin! Quasi quasi, potevo sentirmi osservare: "Non saprei: dovrò consultarmi con un mio collega. Si chiama...". Finii con l'andarmene, e dalla soglia mi volsi per gettare un ultimo sguardo a Colette. Le rivolsi anche un'ultima domanda: «C'è nessun'altra persona che possa avere qualche idea a proposito dell'identità di Jack Ketch?» «Oh, sì!» fu la sorprendente risposta. «Come?» La donna, che stava contemplando distrattamente il fuoco, si riscosse con un sobbalzo e alzò il capo. In quel momento, potei leggere nei suoi occhi: lei si era resa conto di aver commesso una sciocchezza. Con voce dura, mi disse: «Sì, ripeto: ma si tratta di un uomo che non parlerà mai e poi mai.» «Di chi si tratta? Di chi state parlando?» «Non intendo continuare a discutere con voi» scandì Colette, tagliando corto. «La persona alla quale alludete esiste: ma non ci dirà mai niente, assolutamente niente. Voi non ne sapete il perché, ma io vi assicuro che è così... e adesso basta.» Fu tutto quello che riuscii a cavarle: lei serrò le labbra e cambiò discorso, lanciandosi in un'incoerente diatriba contro El Moulk. Aveva davvero commesso un errore lasciandosi sfuggire quanto aveva detto, ma di che specie fosse quell'errore non avevo idea. Ancora complicazioni! Lei e il suo amante erano corsi dietro a Dallings nella speranza che lui conoscesse il vero nome di Keane; eppure, se Colette aveva detto la verità, avevano sempre saputo che qualcuno lo conosceva davvero, quel nome, e non avevano nemmeno considerato l'ipotesi di rivolgersi a lui. Comunque io non ottenni più nulla, per quanto mi sforzassi d'indurla a parlare. E a coronamento della faccenda, l'umore di Sharon era addirittura peggiorato. Scendemmo insieme la maestosa scalinata, rabbrividendo. In quell'ora vuota e malinconica del primissimo mattino, la casa aveva assunto un aspetto ancora più squallido. I nostri rapporti erano imbrogliati peggio che mai, e nessuno avrebbe potuto dire se e quando si sarebbero chiariti. Perché non rinunciare? Ogni tentativo di andare ragionevolmente d'accordo con Sharon era inutile, come avrei dovuto sapere già da tempo. Lei
era solo una bambina graziosa e viziata, e per soprammercato anche priva di logica. Mi tenne aperto il portone di strada, mentre indossavo cappotto e cappello. Il freddo intenso mi penetrò fino alle ossa: la nebbia era scomparsa e una luna frigida splendeva su Mount Street. Che scena romantica, eh? La sonnolenza mi appesantiva le palpebre. «Buona notte, signor Marie» disse lei con voce glaciale, «e grazie per avermi coinvolta in questo pasticcio.» A questo punto avrei solo dovuto risponderle con una filza d'imprecazioni. Invece dissi, con calma: «Posso ricordarti che devi accusare solo le tue astute vanterie per averci coinvolto me?» L'intera scena era inargentata e di un'immobilità cadaverica. Sharon guardava la luna e si vedeva nell'aria il vapore del suo respiro; ma sebbene lei tremasse di freddo, la fissità del suo sguardo scintillante non vacillò nemmeno per un attimo. «Va' dentro» la esortai «o ti prenderai un malanno.» Che scena romantica! Il vento che precede l'alba si era levato dalle plaghe dormienti di Londra e diffondeva nell'aria altri brividi. I miei passi risuonavano sull'asfalto. Molto lontano un clacson risuonò esitante, e si udì un calpestio di zoccoli, I lampioni sonnecchiavano, emettendo una luce livida... Erano le quattro passate quando arrivai al Brimstone, perché non ero riuscito a trovare un taxi. Nella finestra a balconcino del salone ardeva una luce fioca, ma tutto il resto dell'edificio era immerso nel buio. La porta girevole emise un sibilo sorprendentemente rumoroso. In piedi nell'atrio tenebroso, sbirciai lungo il corridoio di sinistra e vidi trasparire il chiarore attraverso le portiere del salone. Seppi subito chi stava lì a vegliare: l'uomo la cui maledizione era che poteva dormire solo di un sonno artificiale. Bencolin non mi sentì entrare. Era sprofondato in una poltrona massiccia davanti al caminetto, e teneva sulle ginocchia un libro aperto. Una lampada gli ardeva a fianco, ma il resto dell'ambiente altissimo era immerso nel buio. Con un bicchiere in mano, teneva gli occhi fissi sul fuoco senza vederlo. Aveva il mento chino sul petto e non si volse. Ma dopo un poco, lo sentii mormorare: «Quanto sono lunghe le notti, Jeff. Quanto sono lunghe...» Poi si passò distrattamente una mano sugli occhi, vide che nel bicchiere c'era ancora un dito di whisky e lo vuotò. Rivolse al fuoco un sorrisetto d'intesa, come di chi condivide un segreto. «Sono venuto a sapere un sacco di cose sulla faccenda che c'interessa» gli annunciai. «Stammi a sentire! Lo sapevi che...»
«Sì che lo sapevo» m'interruppe. «So benissimo cos'hai appreso. Il fatto è che lo sapevo già da prima, vedi. Ma lasciamo andare. Non ho voglia di parlare di...» «Non vuoi ascoltare quello che ho da dirti?» protestai, poi m'interruppi per guardare il titolo del libro che lui aveva deposto sul tavolo. «Ma santo cielo, Bencolin!» ripresi. «Ti pare il momento di metterti a leggere un giallo di J.J. Ackroyd?» Lui fissò con aria truce il libro e annuì. Mi sentii sicuro che fosse ubriaco. «Ma è un ottimo romanzo, sai» dichiarò lui, parlando in francese. «L'investigatore, poi, è decisamente ammirevole! Ancora non so di sicuro chi sia il colpevole, ma dopotutto non sono arrivato nemmeno a metà della vicenda...» Tacque e abbozzò un sogghigno. «Tiens! Jeff, dovresti vederti! Come sei buffo!» «Con un assassinio autentico per le mani, tu te ne stai qui a leggere...» «Ah, ma tu stai ragionando esattamente al rovescio, mon vieux!» Picchiando un dito sulla copertina scarlatta del romanzo, mi spiegò: «Dinanzi a te, vedi l'unica fonte alla quale un uomo intelligente può attingere qualcosa di emozionante in un mondo generalmente noioso. Mi sento di umore filosofico...» «Questo debbo sentir dire dal più famoso investigatore d'Europa?» sbottai. «È completamente illogico! Posso farti notare che la verità è più bizzarra della...» «Per favore» insistette lui «per favore, risparmiami queste monotone bugie! Stai citando l'unico paradosso che certa gente priva d'immaginazione sia mai riuscita a inventare. Senza contare che si tratta di una sfacciata menzogna. È propaganda subdola, Jeff, messa in giro da anime morte che vogliono rendere la finzione noiosa come la realtà. Probabilmente, è l'unico antico proverbio che nessuno si sogna di mettere in dubbio tra lo scetticismo imperante; noi perciò abbiamo bisogno di un iconoclasta senza paura che temerariamente si ribelli a questa tirannia esecrabile, proclamando: "La finzione è più bizzarra della realtà".» «Versati ancora da bere» gli consigliai. «Eppure pensa, Jeff: quanti danni ha provocato quell'errore così ciecamente ripetuto! Noi lo buttiamo in faccia ai romanzieri come una provocazione quasi oscena... e poi vediamo rosso dalla rabbia quando loro si azzardano a inventare qualche avventura fantastica per restituirci il colpo. Diamine, è come se li sfidassimo a un incontro di lotta Libera e poi ci met-
tessimo a protestare: "Fallo!" appena mettono il piede sul ring. Per chissà quale perversa distorsione della logica e della razionalità, noi non sopportiamo che il romanzo, basato com'è sulla finzione, segua il corso che gli è imposto dalle sue premesse. Facciamo uso del temuto aggettivo "improbabile" per far paura agli scrittori e impedir loro di usare con libertà la loro immaginazione. Però, naturalmente, la verità non potrà mai essere interessante quanto la finzione. Infatti, quando vogliamo fare il massimo complimento a una vicenda reale particolarmente affascinante, diciamo che è "emozionante quanto un romanzo".» Io assunsi un tono cattedratico. «La scienza ha dimostrato che i voli più pindarici della fantasia non sono mai tanto bizzarri quanto le complicazioni della mente umana.» Lui scosse la testa con tristezza. «Mi addolora, Jeff, sentirti parlare come una pubblicità editoriale... Dimmi, credi nei draghi e nei serpenti di mare? Be', io li trovo davvero affascinanti quando cavalieri in armatura montati su cavalli da battaglia danno loro la caccia tra le pagine di un romanzo fantastico; ma l'idea di andare in cerca di draghi tra le mie cellule cerebrali mi sembra noiosa e gratuita. Sarebbe come prendersi a schiaffi per ammazzare le zanzare in una camera buia. I tornei in camicia da notte del dottor Freud non sono eccitanti come quelli di cui ci parlano le storie di Camelot...» «Eppure» obiettai «tu hai preso parte ad alcuni dei più emozionanti casi criminali che...» Ma lui m'interruppe, sbadigliando. «Come la maggior parte della gente, posso dire che mi hanno annoiato a morte. Ecco perché mi distraggo leggendo I delitti della casa sussurrante. È l'unico tipo di romanzo che non mi deluda, ormai. Le storie di guerra, che prima mi piacevano tanto, adesso pare vogliano solo dimostrare quanto i francesi amino i tedeschi e viceversa, e con quanta pertinacia una congiura capitalista abbia impedito che tutti insieme ballassimo un allegro e fraterno girotondo nella terra dei sogni. Le storie d'amore e di colpevoli delizie carnali (che pure adoravo) adesso si sono trasformate in solenni trattati, pesanti come macigni e volti a dimostrare che un uomo e una donna possono fare quello che diavolo gli pare a letto, purché non gli salti il ticchio scandaloso di divertircisi un tantino. Quanto alle opere letterarie "vitali", "importanti" e "significative"... santo Iddio! I loro autori si sforzano tutti di scrivere libri che somigliano a pessime traduzioni da un'altra lingua...» Tacque un momento e mi lanciò un'occhiata allegramente sarcastica. «Io sono un uomo cavalleresco, Jeff» affermò «e quindi non posso am-
mettere che una signora venga sedotta col solo aiuto di pochi monosillabi. È un insulto alla sua virtù; inoltre, l'effetto è di una comicità irresistibile, anche se involontaria. Invece, con le avventure che si svolgono nella casa sussurrante io non debbo temere delusioni. Si tratta di incubi per nulla circoscritti dalla stupida necessità di apparire probabili, e non pretendono di farci credere che siano realmente avvenuti. E l'investigatore non sbaglia mai, il che è proprio quel che mi aspetto da lui. Non riesco a capire perché mai uno scrittore si sforzi di fare del suo investigatore un essere umano e fallibile, paziente e faticatore, incline a sbagliare ma pronto a ricominciare da capo... uff! La ragione, probabilmente, sta nel fatto che i poveracci non hanno abbastanza fantasia da creare un personaggio davvero interessante, e così ci prendono a mazzate in testa con le pedestri avventure dei loro manovali del crimine...» «Santo cielo» sbottai io «quanto durerà ancora la predica?» «Oh, lasciami concludere. In breve: la vita reale manca del fascino, della drammaticità e soprattutto della linearità di svolgimento dei fatti che si trovano invece in questo romanzo. Perciò rispondo alla tua ultima domanda esortandoti caldamente ad andare a letto. Io voglio finire il libro.» «Ma i casi che c'interessano, i casi autentici...» «Jeff, amico mio, nei casi autentici non c'è nulla di veramente enigmatico. Se il macellaio, il panettiere o il farmacista commettono un delitto, sta' certo che io li sbatterò dentro: ma, per favore, non chiedermi di trovarli anche interessanti. Ho sempre pensato che la gente sia terribilmente noiosa, in generale, mentre debbo confessare che l'identità dell'assassino della casa sussurrante ancora mi sfugge...» Lo lasciai immerso nel libro, col capo chino e la fronte aggrottata, mentre le lancette dell'orologio stavano per segnare le cinque. 8 I sigilli blu Rrring, rrring, rrring! Una serie di squilli assordanti mi strappò al buio ovattato del sonno. «Il telefono, signore» disse la voce di Thomas. Sedetti sul letto, con la mente ancora intorpidita, e tesi la mano verso il ricevitore. Accidenti, quanto faceva freddo in quella camera! C'era ancora la nebbia o pioveva? Una tazza di tè fumava sul comodino accanto al letto. «Pronto!» dissi.
«Jeff?» rispose la voce di Sharon, e io mi svegliai di colpo «Jeff, lei se n'è andata stamattina.» «Come?» «Jeff, ieri notte tu sapevi già tutto, eh? Ho letto i giornali.» «Oh?» «Io parto oggi.» «Ma nemmeno per sogno. Ti farò trattenere per complicità o roba del genere... Chiudi quella finestra, entra un gelo polare» ordinai a Thomas. Dopo di che, diedi appuntamento a Sharon nel pomeriggio per prendere il tè insieme, e io promisi di dirle tutto quello che sapevo sul caso. Intanto bevvi il mio e mi riscaldai un poco, ma proprio allora Thomas mi disse che i signori della polizia mi stavano aspettando per la colazione al pianterreno. Mentre mi vestivo, cercai di ricapitolare in ordine di tempo gli avvenimenti del giorno prima. Almeno, adesso avevamo una parziale spiegazione delle minacce di Jack Ketch e dell'avventura di Dallings con la misteriosa donna del locale notturno. Era tempo di continuare le investigazioni! Bencolin e Sir John stavano facendo colazione nella sala da pranzo deserta e buia, illuminata solo da una lampada accanto al loro tavolino. L'ispettore Talbot era arrivato da pochi minuti e aveva accettato una tazza di caffè. Dopo mangiato, ci mettemmo a fumare e ci sentimmo più rinfrancati. Io raccontai la mia storia da capo a fondo e Talbot non fece commenti; però ogni tanto sbarrava gli occhi e digrignava i denti, e la sua matita si affaccendava sulle pagine del taccuino. Alla fine, Sir John si accigliò e batté la pipa sull'orlo del piatto. «Se pensate che il vostro comportamento sia stato leale...» cominciò. «Se aveste parlato con quella donna solo dieci minuti» dichiarai io «la parola "lealtà" si sarebbe cancellata dal vostro vocabolario. Vi sarebbe riuscito molto difficile nutrire simpatia per lei.» «Jeff ha una decisa preferenza per le donne di tipo vittoriano» s'intromise Bencolin. «Però Colette può riuscire davvero irritante.» «Senza contare» incalzai «che lei ha praticamente ammesso di aver contribuito a mettere nei guai quel poveraccio di Keane... Pare che un duello ci sia stato veramente, secondo quello che ha detto.» Sir John strinse le labbra e aggrottò la fronte. «Io credo proprio che voi non comprendiate bene la legge, signor Marie. Che Keane si sia battuto in duello o meno, non poteva cambiar nulla nella sentenza che lo ha colpito.
La legge non riconosce in questo una circostanza attenuante... se mai il contrario. L'intenzione di uccidere si traduce nell'accusa di omicidio premeditato: e, nel caso di un duello, l'intenzione di uccidere è particolarmente chiara e innegabile. Keane, dunque, rimane colpevole di omicidio... D'altra parte, se El Moulk era stato immischiato nella faccenda in qualunque modo, era colpevole di omicidio anche lui. Agli occhi della legge, doveva essere accusato del delitto al pari di Keane. Mi sembra perciò che l'uomo si sia preoccupato di proteggere la propria pelle, piuttosto che di "mettere nei guai" Keane. Certo, il suo modo di procedere non si può definire onorevole, ma...» Io sbottai: «Volete dire che se voi e Bencolin, per esempio, decideste di battervi in duello e io e l'ispettore Talbot ci limitassimo a farvi da secondi, saremmo colpevoli di omicidio premeditato nel caso che uno di voi venisse ucciso?» «Appunto.» «Allora può darsi davvero che El Moulk non ce l'avesse particolarmente con Keane.» «Un momento, per favore!» intervenne Bencolin. Sorrideva con aria di scherno. «Sir John, voi state parlando della legge vigente in Inghilterra, direi.» «Perché, in Francia non è la stessa?» «Oh, in teoria sì. Ma la sentenza compete interamente alla giuria: è affidata alla discrezione dei giurati, come la legge professa e ribadisce, e il giudice non può esortarli ad emettere per forza un verdetto di colpevolezza. Oltre tutto voi non ignorate, credo, sotto quale luce venga considerato in Francia il duello. In generale si pensa (e io condivido tale giudizio) che sia un modo di procedere onesto, diretto e onorevole; molto più onorevole che trascinare un processo attraverso le corti di vari tribunali per vedere alfine alleviate le ferite del proprio cuore con una somma di denaro più o meno vistosa.» Sir John agitò una mano con aria impaziente. «Già, lo sappiamo come vanno i duelli!» ringhiò. «In un duello, la causa della giustizia dipende dalla maggiore o minore abilità dei contendenti a tirare con una pistola.» «Mentre in tribunale la causa della giustizia dipende dalla maggiore o minore abilità dei contendenti a mentire per la gola» osservò Bencolin. «Come vedete, le due condizioni si equivalgono.» «Ma il duello è puro melodramma e basta. Non vedete su quale ragionamento idiota si basa? "Signore, voi mi avete insultato; dunque voglio la
vostra vita."» «Quindi secondo voi è meglio dire, come si fa al giorno d'oggi: "Signore, voi mi avete insultato; dunque voglio i vostri quattrini"?» ribatté pensoso Bencolin. «Onestamente, non so quale dei due ragionamenti sia più logico; ma non ho nessun dubbio su quale sia il più sincero... Comunque, io volevo solo farvi considerare quale sia l'opinione dei francesi a proposito del duello. È assolutamente improbabile che una giuria composta di francesi possa indursi ad affibbiare l'ergastolo a un uomo solo perché si è battuto in duello mentre era ubriaco; e non parliamo poi di quel che succederebbe se l'avvocato difensore si alzasse e facesse un commovente discorso sull'amour... Quanto a El Moulk, il fatto che fosse presente all'accaduto non gli avrebbe fruttato nemmeno un'ora di prigione. Proprio no. Dunque, le azioni del nostro amico scomparso sono state premeditate e motivate da un maligno desiderio di vendetta. Personalmente, credo che sia stato proprio lui a progettare il duello e a mettere i due litiganti l'uno contro l'altro approfittando del loro stato di ubriachezza mentre lui era sobrio: credo che sia stato lui a suggerirlo e a fornire le pistole...» L'ispettore Talbot stava dando segni d'impazienza. «Il punto è questo, signore» disse. «Voi lo sapevate già dall'inizio, non è vero? Cioè da ieri sera.» «Ieri sera lo sospettavo già, certo. Però volevo avere la sicurezza che tutti questi avvenimenti fossero connessi fra di loro... Ma lasciatemi concludere. Infine, io credo fermamente che Keane non abbia mai sparato a De Lavateur.» «Ah!» brontolò Talbot con aria di approvazione. «Anch'io lo avevo pensato subito.» «Arrivai sulla scena troppo tardi per poter fare qualcosa» continuò Bencolin «ma esaminai gl'indizi e le prove. De Lavateur era stato colpito proprio al centro della fronte, e sulla ferita c'erano tracce di polvere. Neppure un duello tra ubriachi si svolge a distanza tanto ravvicinata. Naturalmente, questo fornì all'accusa una magnifica prova per sostenere che non c'era stato nessun duello... e che De Lavateur era stato ucciso deliberatamente da Keane, il quale gli aveva sparato a bruciapelo. Anch'io ero dell'opinione che si trattasse di assassinio deliberato, ma avevo altre idee circa l'identità del colpevole. Ora come ora, però, non è il caso che ci addentriamo nei particolari del mio ragionamento: non ho prove per suffragarli.» Fece una pausa. «Tuttavia, continuo ad esser convinto che El Moulk sparò a De Lavateur
usando la pistola di Keane. E ne è convinto anche l'uomo che si firma Jack Ketch, signori.» Attraverso una finestra accanto al tavolo, potevo vedere gelidi aghi di pioggia flagellare le pozzanghere nel cortile grigio fiancheggiato da persiane chiuse. La luce della lampada sospesa su di noi era abbastanza forte da sottolineare la tensione che segnava i nostri volti. Bencolin aveva la testa rovesciata all'indietro e stringeva tra le dita una sigaretta non ancora accesa. Talbot vuotò d'un fiato il resto del caffè, ormai freddo. «Dunque, voi sostenete davvero che qualche maniaco si sta preparando a vendicare un delitto vecchio di dieci anni?» chiese Sir John, soppesando un cucchiaio. «Temo di sì. E si tratta di un arcicriminale spietato, astuto, deciso a tutto e infinitamente paziente.» «Ma allora perché non ha agito prima? Dieci anni...» «È ovvio: perché ha appreso solo in questi ultimi tempi chi era veramente il giovane Keane. Lo ha detto lui stesso nella sua lettera a mademoiselle Laverne. Quando ha saputo, si è dato a preparare la sua vendetta senza affrettarsi. Ha dimostrato una pazienza disumana nel mettere insieme una quantità di dettagli minuscoli e folli. Deve aver impiegato dei mesi per fabbricare quel perfetto modellino di forca, lavorando tutto felice in segreto e con la massima cura. Può darsi benissimo che abbia imparato anche l'arte dell'incisore, per preparare con le sue mani quei malvagi biglietti da visita. Gli era indifferente darsi da fare per mesi o per anni, senza posa, fino a ridurre la sua vittima a un ammasso di nervi... tanto è vero che El Moulk era pronto a urlare alla minima ombra. Il vendicatore sta portando avanti un suo piano elaborato e minuzioso... e quel piano non è ancora completo.» "Questa sera" aggiunse «ricorrerà il decimo anniversario del delitto, come lui ci ha fatto notare.» «Volete dire, signore» domandò Talbot senza la minima emozione «che il signor El Moulk potrebbe non essere ancora morto?» «Esatto! Non è forse questo che ci suggerisce l'orribile limpidezza del ragionamento di quell'uomo? Da quasi un anno sì va applicando a perfezionare la sua vedetta, e ogni cosa avanza irresistibilmente verso l'ora zero: il punto culminante, il coronamento infernale della sua opera! E noi lo sappiamo. Lui stesso ha fatto in modo che lo sapessimo. Ha nascosto la sua vittima in una strada che la polizia non può trovare.»
Sir John posò il cucchiaio col quale giocherellava. Le sue sopracciglia nere e sottili erano inarcate sugli occhi gelidi, e le narici gli vibravano nervosamente. Si passò una mano sui capelli d'argento, come se volesse difendersi da una rete di ragnatele. «E voi credete a tutte queste sciocchezze, Talbot?» chiese con calma forzata. «Ebbene, signore, dov'è Via della Rovina? E dove si trova il signor El Moulk?» ribatté l'ispettore, senza alzare gli occhi dal tavolo. «Uhm! Ci troviamo di fronte a enigmi privi di senso, ma questo non impedisce che siano reali. Ecco! Ho espresso la mia opinione.» Lanciò uno sguardo inespressivo a Bencolin. «Voi, quindi, ritenete che Jack Ketch abbia catturato El Moulk mentre questi andava dalla signorina Laverne, e che adesso lo tenga prigioniero a... a Via della Rovina per giustiziarlo al momento giusto, vero?» «Perché, ispettore, voi cosa pensate?» Talbot rifletté, poi afferrò dalla sedia che aveva accanto tre oggetti: un bastone d'ebano, una scatola di fiori e un paio di guanti bianchi, che allineò ordinatamente sul tavolo. «Io mi baso sulle prove e basta, signore» dichiarò. «Possiamo ricostruire l'andamento dei fatti fin dall'inizio. Prima di partire, come mi hanno detto al garage, la berlina è stata accuratamente revisionata e lucidata, e il serbatoio è stato riempito di benzina. Il signor El Moulk è uscito di qui poco dopo le sette. L'autopsia eseguita sull'autista ci indica che l'uomo dev'essere stato ucciso non molto dopo: diciamo alle sette e mezzo circa, anche se non ne abbiamo la sicurezza assoluta. Gli hanno tagliato la gola e lo hanno pugnalato al cuore con una lama aguzza e affilata, come per esempio quella di un coltello molto lungo... evidentemente si è trattato di un attacco a sorpresa, perché la vittima non mostra di aver reagito in alcun modo.» Si arrestò e si mise a riflettere, cercando di riferire i fatti nell'ordine esatto. «Quando abbiamo esaminato l'automobile dopo il delitto, nella parte anteriore non abbiamo trovato impronte digitali: c'erano solo quelle del defunto sul volante. Questo, tuttavia, era macchiato di sangue in modo tale da farci capire che un'altra persona, oltre a Smail, deve aver guidato la berlina indossando i guanti. Nel sedile accanto all'autista c'erano altre macchie di sangue, il che dimostra che qualcuno vi si era seduto; era macchiato di sangue anche il pomello del freno a mano...» Che scena macabra! Il quadro dell'assassino che andava in giro per Lon-
dra con un cadavere seduto accanto era ancor peggio del guidatore invisibile. «Come spiegate il fatto che noi non abbiamo visto nessuno accanto all'autista morto?» chiese Sir John. «Forse la colpa è stata della nebbia, signore» suggerì Talbot, rivolgendoci poi quel pigro sorriso che infrangeva per un attimo la sua maschera impassibile. «In realtà, signore, non ne ho idea. Personalmente credo che... be', non lo so. Mi limito a riferire i fatti.» «Allora lo sconosciuto che guidava dev'essersi appoggiato al corpo dell'autista morto per tenere le mani sul volante, no?» domandò Bencolin. «Così pare. E deve aver guidato per un bel pezzo, perché il serbatoio era quasi vuoto.» «Questo giustificherebbe l'intervallo di qualche ora che corre tra la morte dell'autista e il momento in cui noi abbiamo avvistato la berlina» mormorò pensoso Bencolin. «Il guidatore girava avanti e indietro per Londra come se si divertisse. La cosa è pazzesca, ispettore.» Talbot annuì. «Proprio come dite voi, signore: pazzesca, ma vera. Ecco perché... ma non importa. Sul sedile posteriore dell'automobile non c'era nessuna traccia d'impronte e nessun segno di disordine. Niente impronte neppure sul pomello del bastone. Il signor El Moulk doveva indossare i suoi guanti bianchi quando lo ha tenuto in mano...» S'interruppe, vedendo Bencolin prendere i guanti. Il mio amico li ispezionò con cura, sollevandoli alla luce della lampada. I suoi occhi si dilatarono e poi si restrinsero, improvvisamente attenti e scrutatori, quando si fissarono sul palmo del guanto destro. Era di capretto del tipo più fine, foderato di camoscio. Era anche sporco di polvere: ne erano macchiate le punte di tutte le dita, pollice compreso, e una larga striscia nerastra attraversava il palmo. Bencolin alzò gli occhi. Parve guardare qualcosa di remoto e d'inaspettatamente sorprendente, e la sua bocca si aprì senza emettere alcun suono. Dopo un po', lo sentii mormorare: «Dannazione! Mi chiedo se è possibile...» «Cosa, signore?» chiese subito Talbot. «Io non ho motivo di credere che ce ne sia una» riprese Bencolin, parlando fra sé e sé «eppure è l'unica cosa che potrebbe aver prodotto queste macchie. Ma sì, tutto concorda! Perfino l'ombra va al suo posto!» Si girò di scatto verso di me. «Rifletti, Jeff! Ieri sera, quando è uscito dal club, El Moulk portava questi guanti?»
«Sì» risposi con fermezza. «Sì che li portava: lo ricordo benissimo.» «Ti è capitato di notare se il guanto destro fosse macchiato?» Visualizzai la scena della sera prima. Vidi El Moulk protendere la mano in quel curioso gesto di protesta che lo aveva portato a esibire il palmo del guanto destro... «No» affermai. «Il guanto era perfettamente candido.» «Cosa significa tutto ciò?» s'impazientì Talbot. «Calma, ispettore: non so ancora se sono sulla strada giusta. El Moulk, dunque, portava i guanti! Ma naturale! Questa è la bellezza della faccenda. Dio benedica quel damerino, quel perfetto seguace della moda! Portava i guanti!» Gettò il guanto sul tavolo e girò la testa all'indietro, scuotendola con aria compiaciuta. «No, ispettore! Non sentirete da me neppure un'altra parola finché io non abbia trovato prove in grado di sostenere o distruggere la mia ipotesi... e voi, Sir John, mi pagherete la migliore cena di Londra. Allora, ispettore, avete altri fatti da riferire?» Talbot lo andava considerando con sospetto, e i muscoli della sua mascella quadrata erano tesi: perfino la punta lucida del suo naso rotto esprimeva sospetto. «Dalle nostre parti, signore» annunciò gravemente «noi non approviamo questa specie di...» Si controllò. «E sta bene, allora. Ci sarebbe la scatola di fiori...» «A proposito» mormorò Bencolin «cosa c'è in quella scatola?» «È troppo arrischiato dire che contiene dei fiori?» domandò Sir John. «Sì, lo so, ma qualcuno si è preso il disturbo di guardarci dentro?» Servendosi di un coltello da tavola, Talbot tagliò i nastri con gesti frettolosi. Si udì un fruscio di carta velina; quindi l'ispettore si rilassò, emise un sospiro di sollievo e spinse la scatola verso Bencolin. «Sono proprio fiori» disse. «In effetti, si tratta di orchidee» specificò Bencolin, inclinando la scatola. «E per la precisione appartengono alla specie sudamericana chiamata "Farfalla d'oro". Diable! Ma sono preparate a corsage!» Ci fu una pausa mentre il grande investigatore continuava a fissare i fiori con uno sguardo interrogativo. «Ci trovate qualcosa di strano?» domandò Sir John. «Qualcosa che non va?» «Parlate proprio come un uomo che conduce un'esistenza da eremita! Io
stesso non ho una vita sociale molto attiva, ma quando ordino un corsage per una signora ho l'accortezza di farglielo mandare a casa dal fioraio. Si tratta di una preparazione speciale da appuntare al corpino dell'abito, quindi la destinataria deve avere il tempo e la comodità di scegliere il vestito più adatto a farla risaltare. Un corsage non si porta mai di persona. Qui, pertanto, c'è qualcosa di gravemente sbagliato...» Fece schioccare le dita. «Eppure il conto torna! Vi siete informato dal fioraio, Talbot?» «Sì. Al negozio ricordavano benissimo l'ordinazione. El Moulk ha telefonato ieri, nelle prime ore del pomeriggio, e ha ordinato il corsage. Anche loro hanno trovato strano il fatto che non volesse farlo spedire, ma lui si è limitato a ribattere: "Dannazione, fate come vi dico" o qualcosa del genere. Mi hanno riferito che parlava come uno che ha un forte raffreddore.» «È andato lui, dunque, a ritirare le orchidee?» «Qualcuno c'è andato, ma loro non ricordano chi fosse. Solo uno o due dei commessi conoscono di persona El Moulk. Hanno pensato che si trattasse di un domestico: era un uomo alto, col bavero rialzato. È arrivato fra le due e le due e un quarto...» «Comunque, non era El Moulk. Ehm... Avete interrogato la servitù, su questo particolare?» «Nessuno dei domestici del club è stato incaricato di questa commissione, a meno che non si trattasse di un membro del personale di El Moulk» dichiarò l'ispettore. «Il portiere me lo ha giurato. Forse è stato Graffia a ritirare i fiori.» «E il cameriere francese?» «È partito per Parigi ieri mattina presto.» Bencolin annuì, abbozzando un bizzarro sorriso. «Ma sì, certo» mormorò. «Meglio chiamare Graffin.» Il segretario doveva trovarsi in una delle stanze al pianterreno, perché appena mandammo un cameriere a chiamarlo arrivò praticamente subito. Era quasi sobrio. La sua testa oscillava sul lungo collo ossuto, così orribilmente simile a quello di un tacchino. Aveva la faccia chiazzata di macchie rosse e le sue mani tremavano parecchio. «Buon giorno, signori» disse con voce rauca. I suoi occhi infiammati si alzavano pigramente a incontrare i nostri e poi ricadevano, si alzavano e ricadevano. Tutta la sua persona era agitata da fremiti così forti che faceva pena guardarli; ma l'uomo cercava di nasconderlo, reggendosi stretto al bordo della poltrona dove aveva preso posto. «Stavamo appunto discutendo i vari particolari del caso» cominciò Ben-
colin «e c'è qualche punto sul quale vorremmo avere ulteriori informazioni...» Graffin sussultò nel suo modo sgradevole e mormorò: «Ma certamente.» Sbarrò gli occhi. «S-sono un tantino indisposto.» Altro sussulto. «Il signor El Moulk vi ha per caso affidato qualche commissione ieri pomeriggio?» «S-signori?» gridò Graffin. Stava cercando disperatamente di darsi un'aria dignitosa, ma il suo collo scarno continuava a fargli oscillare la testa. «Per un fioraio che si trova a Cockspur Street?» «N-no. Sono rimasto nella mia camera tutto il giorno. Tutto il giorno!» «Ne siete sicuro? Anche fra le due e le due e un quarto?» «Ne sono s-sicuro. Sì, e posso anche provarlo. Un cameriere mi ha portato il pranzo circa a quell'ora.» Appariva così indifeso da sembrare quasi patetico. Dava l'impressione di esser pronto a mettersi a urlare da un momento all'altro, e adesso teneva gli occhi vitrei fissi con rispetto su Bencolin; però non la smetteva di sussultare. Il mio amico disse con voce cortese: «Immagino che non abbiate avuto più notizie del signor El Moulk, vero?» «No!» «Non è ritornato la notte scorsa, per caso?» Graffiti si aggrappò ai braccioli della poltrona e esalò tutto d'un fiato: «Dio mio, perché mi fate questo genere di domande? No, non è tornato!» «E voi continuate a sostenere che non era vittima di nessuna persecuzione?» Cadde un silenzio. La testa dell'uomo si afflosciò sul lungo collo e ogni traccia di vitalità lo abbandonò. Lo vedemmo ingoiare penosamente a vuoto. Alfine disse in un bisbiglio, molto umilmente: «Chiedo scusa, signori. Ho paura di avere urgente bisogno di... di qualcosa da bere.» Gli facemmo portare del whisky e lui lo tracannò rumorosamente. Ansimò per qualche istante e poi i suoi tremori si calmarono; ma ora stava riacquistando la sua aria astuta e strafottente, e la faccia chiazzata di rosso aveva un'espressione imbronciata. «Amico mio» riprese Bencolin «adesso vi ripeterò la stessa domanda che vi ho rivolto ieri sera; voglio vedere se vi deciderete a cambiare la risposta. Per quanto tempo siete stato impiegato alle dipendenze del signor El Moulk?»
«Lo so» disse Graffia, al quale il liquore aveva ridato l'agilità di mente. «Volete cogliermi in fallo, eh? Benone. Ieri vi ho detto che erano sei anni e che avevo conosciuto il mio datore di lavoro al Cairo. Ma voi.. voi siete andato a frugare tra le pratiche personali dell'esercito, no? E avete scoperto che sono uscito dal servizio attivo da dieci anni e che al Cairo non ci sono mai stato. Ebbene, sono entrato al suo sevizio a Parigi. Ieri vi ho mentito.» «Strano. E perché?» «Non sono affari vostri» brontolò Graffiti guardando nel bicchiere. Un occhio rosso ci sbirciò al di sopra del bordo. «I vostri compiti di segretario non erano molto gravosi, credo.» L'uomo scoppiò in una risata sguaiata. «Eppure, il signor El Moulk non si è mai deciso a rimpiangere questa... questa spesa supplementare che pesava sul suo bilancio, credo» continuò Bencolin con voce pensosa. Graffin mise giù il bicchiere con gesto così deciso che per un istante credetti che fosse ridiventato sobrio di colpo. Ci guardò fisso, e una vena gli pulsava accanto alla tempia. «Mi rendevo utile, caro signore» asserì dopo una pausa, con aria modesta. «Bene, bene, amico mio: non desidero trattenervi ulteriormente. Vi rivolgerò solo un'altra domanda. Naturalmente, sapevate che il signor El Moulk stava prendendo precauzioni per tutelarsi da un eventuale attacco alla sua vita?» «Oh... oh, sì.» «Però non avete alcuna idea circa la causa dei suoi timori?» «Assolutamente nessuna!» gridò Graffin, protendendosi in avanti. «Lo giuro!» «Ehm... vedo. A proposito, l'autista era armato?» «Armato? Oh! Volete dire se portava abitualmente qualche arma? Sì, questo lo so, perché El Moulk gli aveva dato una pistola che apparteneva a me: una Smith & Wesson. Una quarantacinque a canna lunga, con il calcio d'avorio. Smail ne andava orgoglioso e non faceva che lucidarla.» Io sedevo in un punto dal quale potevo vedere Bencolin col viso perfettamente illuminato dalla lampada. Nel sentire la risposta di Graffin, i muscoli lungo la sua mascella si contrassero sotto la barba. Il mio amico socchiuse gli occhi pigramente e cominciò a tamburellare con la punta delle dita sul tavolo... «Grazie. Posso pregarvi, tenente, di rimanere qui al club per un poco?
Potremmo aver bisogno di esaminare la suite del signor El Moulk, e ci sarebbe gradita la vostra assistenza.» Graffin annuì e si tirò in piedi. Gli occhi celesti arrossati avevano uno sguardo vigile, però lui non disse più nulla; si limitò ad annunciare che stava prendendo le dovute disposizioni per il funerale dell'autista, poi uscì con passo malfermo. «Ci avevo pensato anch'io» osservò irritato Talbot. «Lo avevo pensato che sarebbe stato il caso di dare un'occhiata alle stanze dell'egiziano... se è permesso.» «Graffin!» stava brontolando Bencolin. «Perché mai quell'uomo si ostina a sostenere che El Moulk non è mai stato vittima delle indebite attenzioni di Jack Ketch? Perché non vuol dirci niente di quei misteriosi pacchetti dai sigilli blu? Sigilli blu con sopra un "K" stampato... il monogramma di Jack Ketch! Eppure, pare che El Moulk ne ricevesse abbastanza spesso, di quei pacchi dal sigillo blu! E perché Graffin ha mentito circa l'epoca del suo incontro con El Moulk? Perché, infine, un uomo dovrebbe tenersi come segretario privato un ubriacone che non solo è completamente inabile a qualsiasi lavoro, ma arriva a vantarsi di trascurare i propri doveri? E comunque, El Moulk che bisogno può mai avere di un segretario? Non capite, ispettore?» chiese di colpo a Talbot. «Questa è la vostra chiave. Ricordate che sobbalzo ha avuto Graffia quando gli ho chiesto...» Con un sorriso enigmatico, Bencolin annuì. «Una alla volta, le tessere dell'incastro si sistemano al loro posto. E il solo punto debole nell'intero piano di Jack Ketch, con tutte le sue complicazioni, è costituito da... Graffia. Graffia in persona.» Talbot si fece attento. «Vorreste dire... Non cercate di confondermi, signore!» esplose. «Nelle stanze di El Moulk appaiono delle cose solo quando Graffia vi si trova da solo. Lui giura e spergiura che si materializzano per aria, il che è idiota. Noi abbiamo stabilito che Jack Ketch dev'essere qualcuno che abita qui al club. Se riusciamo a infrangere l'alibi che Graffia ha addotto, sostenendo di essere rimasto in casa tutto il pomeriggio...» «Anche se ci riuscite, ispettore, quale frutto pensate di ricavarne? Dove può essere andato Graffia? Dopo aver descritto un ampio circolo, la pista ci riporta alla prima domanda, quella più importante: dov'è Via della Rovina?» Talbot appoggiò i gomiti sul tavolo e si prese la testa fra le mani. «Quella strada non esiste su nessun elenco» enunciò, col tono di chi vuol
attenersi al buon senso. «Non esiste! Eppure, il suo nome è l'unico indizio di cui disponiamo per scoprire in quale punto di Londra può essere andata la berlina...» Era ancora seduto a meditare quando arrivò il portiere a dirci che Joyet, il cameriere di El Moulk, era appena tornato da Parigi e desiderava parlarci al più presto. 9 "Il delitto considerato come una delle belle arti" «Mandatelo nell'atrio» grugnì Talbot. «Mandatelo da qualche parte, basta che gli diciate di aspettare...» La faccia del piccolo ispettore era contratta in una smorfia quasi feroce, che lo faceva rassomigliare a uno gnomo maligno. Dopo un po', riprese a parlare. «Io continuerò a darmi da fare; ma voglio dichiararvi apertamente, signori, che questa faccenda non è alla mia portata e lo so benissimo. Mi sono fatto strada dalla gavetta, cominciando come poliziotto di ronda alla divisione K.... e questo significava girare per Limehouse, in caso non lo sapeste. Per quanto concerne i criminali, in questo preciso momento tengo nel palmo della mano un'intera banda di mascalzoni d'alto bordo. Ma questa faccenda... questa faccenda non è un caso di omicidio. È un dannato incubo!» Fece un gesto d'impotenza. «Non c'è niente a cui appigliarsi. Non mi resta che procedere come posso e cercare di avanzare a tentoni; e allora, forse....» "Ascoltatemi. Un uomo di buon senso direbbe che questa storia di Via della Rovina è solo una balla; eppure, Jack Ketch annuncia che farà certe cose e le fa sul serio. Lui dice che Via della Rovina esiste e io sono pronto a prestare più fede alla sua parola che a quella delle cosiddette persone rispettabili, le quali comunque ci dicono balle peggiori delle sue." Fece girare sul nostro piccolo gruppo un'occhiata di sfida. «Dobbiamo trovare quella strada: è la nostra unica speranza. Penso voi sappiate come sono organizzate le mappe di Londra. Ebbene, ho messo un gruppo di uomini a lavorarci sopra. Per adesso sappiamo solo che non esiste una strada che si chiami così. L'unica alternativa è che esista una strada che abbia avuto quel nome in passato. Con tutti i cambiamenti che Londra ha subito, l'ipotesi è tutt'altro che improbabile. Forse cinque, forse quindici, forse cinquant'anni fa...»
«O forse centocinquanta» osservò Sir John. «Ammesso e non concesso che una simile strada sia mai esistita. Vi occorrerà un'intera congrega di antiquari, Talbot. E avete solo una parola colta in un messaggio telefonico...» «Certo, signore, certo. D'accordo. Lo ammetto. Ma ho interrogato domestici, ho consultato elenchi... e non ho concluso nulla. È ora di tentare qualcos'altro. Ammettiamo pure che la strada abbia cambiato nome centocinquant'anni fa... ma questo Jack Ketch non ha proprio l'aria del tipo di persona che chiamerebbe una strada col nome che aveva nel Settecento? Del resto, lo stesso nomignolo di Jack Ketch non risale forse al Settecento?» «Al Seicento» lo corresse Bencolin. «Io sono molto aggiornato su questo genere di argomenti, sapete. Il boia di Tyburn ricevette il nomignolo di Jack Ketch dal nome di un uomo che si chiamava Richard Jacquett e possedeva il castello di Tyburn nel 1678.» «Senza contare» insistette Talbot «che il messaggio diceva: "È stato impiccato alla forca di Via della Rovina". Se cercassimo le strade antiche in cui si ergevano patiboli nei secoli passati... Prendiamo la stessa Tyburn, per esempio: si trovava più o meno all'inizio di Edgeware Road, no?» «Ma dannazione, ispettore» esclamò stizzito Sir John «non supporrete certo che l'uomo sia stato impiccato al Marble Arch!» «Non suppongo niente, signore! E la storia del signor Dallings, di cui ho sentito parlare... lui l'ha vista davvero, quella bizzarra ombra di una forca, e sarebbe troppo pazzesco immaginare che un sacco di persone qualunque, in giro per Londra, si vadano baloccando con patiboli nelle ore piccole della notte. Dallings, quindi, ha visto davvero la forca. E siccome aveva accompagnato a casa la Laverne, deve essergli accaduto a poca distanza da Mount Street, o almeno in quella direzione. Avremmo inoltre tanto più ragione a pensarla così in quanto El Moulk era diretto proprio a casa della sua amica, quando è stato rapito.» Piuttosto imbarazzato dalla sua stessa eloquenza, Talbot si rimise a sedere e incrociò le braccia sul petto. Mentre lui parlava, io non avevo mai distolto gli occhi da Bencolin, e potrei giurare di aver visto errare sulle sue labbra il più lieve dei sorrisi. «Bravo ispettore!» mormorò il mio amico. «Temo che abbiate trascurato solo un unico, minuscolo particolare; ma se ve lo facessi notare in questo momento, ci troveremmo sprofondati nel buio ancor peggio di quanto siamo.»
Sir John considerò Talbot con aria insieme distante e meditabonda. Poi la sua faccia lunga e magra si rilassò in un sorriso e le rughe intorno ai suoi occhi si approfondirono in una maschera quasi allegra. «Mi congratulo con voi, Talbot» disse con velata ironia. «State seguendo le orme del nostro amico Bencolin con notevole abilità. Il sovrintendente Mason ne sarà deliziato. "Scotland Yard intraprende ricerche storiche." Tutti i giornali di Londra, come direbbe Bencolin, si faranno elegantemente beffa di noi.» «Non so che farci, signore: è questa la nostra unica possibilità. E stavo pensando anche a un'altra cosa. Ho avuto notizia di un certo dottor Daniel Pilgrim che abita qui al club. È una vera e propria autorità sulla vecchia Londra, così mi hanno riferito... Perché non gli chiediamo di darci una mano?» «Non è affatto una cattiva idea» approvò Bencolin. «Io stesso sono piuttosto ansioso di conoscere questo signore, da quando Jeff mi ha parlato di lui... Sapete qualcosa sul suo conto, Sir John?» «Pilgrim?» Sir John scosse il capo. «Non ne so molto: non più di quello che vi ho detto ieri sera. Credo che abbia girato il mondo per un certo tempo, e un suo libro ebbe una risonanza notevole, qualche anno fa. Lo battezzarono "l'investigatore della storia".» «L'investigatore della storia?» «Sì. Aveva preso come argomento alcune storie di delitti famosi... enigmi storici che non sono mai stati spiegati a fondo... e ha cercato di spiegarli esponendo gl'indizi e le prove proprio come si fa oggi nei rapporti che la polizia presenta ai tribunali. Alcuni erano davvero affascinanti e presentavano come assassini diversi personaggi del passato. C'è mancato poco che il dottore non venisse scacciato da un'associazione di storiografi di cui faceva parte proprio a causa di quel libro.» «Lo sapevo» mormorò Bencolin. «Probabilmente, i suoi avversari si facevano forti del più brillante e radicato principio degli storici di professione, e cioè che qualunque episodio davvero interessante dev'essere privo d'importanza o riferito in modo errato. A sentirli parlare della vita in Inghilterra durante il Medioevo, vien da pensare che quei signori credano fermamente che la vita nell'Inghilterra di oggi non sia altro che una sequela di discorsi alla camera dei comuni... Ma lasciamo perdere. Andiamo piuttosto a parlare con questo cameriere di El Moulk.» Quando entrammo nell'atrio, Joyet si stava scaldando le mani davanti al caminetto. Era basso di statura e notevolmente grasso, con un faccione
rosso dalle guance pesanti e una grossa testa sulla quale pochi capelli impomatati formavano una specie di ricciolo da elegantone. Una vera e propria mappa di rughe circondava gli occhi azzurri e sporgenti, che sembravano perpetuamente spalancati dalla meraviglia. Sotto il naso a bulbo fiorivano due baffoni prodigiosi, ognuno dei quali era arricciato alle punte in modo buffo e complicato. A prima vista, l'uomo sembrava tutto pancia, catena da orologio e respiro ansimante. «Ah, messieurs!» gridò con una voce che sembrava uscirgli dal profondo delle viscere. Strabuzzò gli occhi, ansimò per l'eccitazione e si arricciò i baffi. «Va male, proprio male, eh? Sono appena arrivato da Parigi!» S'inchinò con grazia elefantina, rizzandosi sulle punte dei piedi come per un minuetto; poi allargò le braccia. «Io non parlo buon inglese... no, no, vedete?» «Parlate in francese, allora» disse Bencolin nella sua lingua. Tutta una serie di sommovimenti cominciò a scuotere la pancia di Joyet. Il cameriere si diffuse in una quantità di risolini compiaciuti e le rughe si animarono nel suo faccione raggiante. «Così va bene; così va proprio bene, monsieur. Io ho tanta voglia di parlare e qui mi sembra di soffocare perché non ci riesco. Eh? Ma questa faccenda...» Si rannuvolò e sbottò in un'imprecazione. «La notte scorsa ho ricevuto un telegramma in cui mi si diceva di ritornare...» «Cosa sta dicendo?» chiese Talbot. «Gli avete mandato voi un telegramma perché tornasse qui?» Talbot squadrò l'uomo da capo a piedi con aria disgustata e annuì. Negli occhi rotondi di Joyet, azzurri ed espressivi, apparve una scintilla di ostilità. «Graffin mi ha fornito il suo indirizzo» spiegò l'ispettore. Joyet parve sul punto di scoppiare dall'eccitazione. Riprese a parlare. «Mia moglie dice: "Marcel, ormai sei qui in licenza. Puoi startene in pace a fumare la pipa e a passeggiare in giardino". Dovreste vederlo, signori, il mio giardino: che magnifici fiori... pare un funerale di prima classe. In estate, naturalmente. Io, però, le ho risposto: "No! Ritorno subito in Inghilterra!".» L'energia di quell'uomo, il potere dei suoi occhi candidamente focosi ci fece quasi fare un passo indietro. Non c'era da meravigliarsi se i domestici del club lo consideravano un tipo difficile. Esibiva una prosopopea quasi napoleonica. Era ovvio che avevamo a che fare con uno di quei democratici camerieri francesi che offrono il servizio più inappuntabile del mondo
purché li si tratti da uomo a uomo. Ecco perché Bencolin disse subito: «Prendete un sigaro.» Sir John ebbe un sussulto, ma non disse nulla. Bencolin prese un sigaro anche per sé e lo aveva appena alzato quando si vide Joyet presentargli un fiammifero acceso: un autentico miracolo di destrezza. L'atteggiamento dell'uomo era serio e deferente. «Accendere i sigari è un'arte» dichiarò, muovendo con abilità il fiammifero. «Il fuoco dev'essere distribuito dappertutto con esattezza... così.» Spense il fiammifero con un sospiro. «E allora, monsieur?» «E allora, Joyet, voi sapete cos'è successo?» «Lo posso immaginare, monsieur, da quello che so già e da quello che ho letto sui giornali questa mattina. È accaduto dunque, eh? Quello che lui temeva?» «Voi ne sapete qualcosa?» «Oh, sì, monsieur... parecchio.» Bencolin traduceva rapidamente a beneficio di Talbot. Noi guardavamo tutti Joyet con tanto d'occhi: lui sapeva parecchio della faccenda, mentre Graffin non ne sapeva niente. Bencolin indicò al cameriere una poltrona e l'interrogatorio continuò, interrotto dalla traduzione di ogni singola domanda e risposta per Talbot: cosa che naturalmente lascerò da parte nel mio resoconto. Joyet fumava a grandi boccate serrando il sigaro tra le labbra, proprio come un bambino che succhi un bastoncino di liquirizia. Con una delle grosse mani, assestava di tanto in tanto un pugno ai braccioli della poltrona. «Dovete sapere, monsieur, che ormai da diversi mesi il signor El Moulk era oggetto di una specie di... persecuzione. A distanza di qualche tempo l'uno dall'altro... a volte si trattava di un mese, a volte di una settimana, a volte solo di pochi giorni... gli arrivavano per posta dei pacchi oppure gli veniva lasciato qualche oggetto nell'appartamento che occupava. Mi capite?» «Cosa intendete con la storia degli oggetti lasciati nell'appartamento?» «Santo cielo, monsieur, il responsabile della persecuzione aveva la dannata sfacciataggine di entrare nelle stanze del signor El Moulk e di lasciare degli oggetti sul tavolo che lui usava come scrivania... insieme al suo biglietto da visita, figuriamoci! Naturalmente, questo succedeva quando noi eravamo fuori. Non ho mai capito come facesse quell'uomo a entrare. Le porte erano sempre chiuse a chiave.» «I domestici del club non hanno mai visto nessuno?»
«Da questi inglesi cosa vi potete aspettare? No!» Joyet si arricciò ferocemente i baffi e fece una smorfia sprezzante. «Ehm... e il tenente Graffin era a conoscenza di ciò?» «Pfui! Quello, poi... è sempre ubriaco. Sempre, sempre e sempre! Però è naturale che fosse informato della faccenda; solo che ci rideva sopra. Alla fine, ho detto a monsieur: "Lo troverò io il colpevole di questi tiri e gli torcerò il collo".» Ammantandosi di una nuvola di fumo, Joyet scosse un pugno con furia. «Eravate affezionato al vostro padrone?» «Ebbene...» disse l'uomo «sì e no.» Scosse la testa con aria di sopportazione. «Era sempre nelle nuvole e aveva un cattivo carattere. Talvolta era davvero terribile. Ma a me, in fondo, cosa importava? Avevo un ottimo salario e un ottimo alloggio... e poi quell'uomo se ne intendeva di cibo! Diamine! Era un autentico buongustaio, ve lo assicuro. Sì, aveva davvero i suoi lati buoni. Il segreto della vita, monsieur, è la logica.» Dopo essersi sgravato di questa massima, Joyet si protese in avanti mettendo un dito accanto al naso, e il suo viso assunse un'espressione di saggezza incommensurabile. Poi si riaccomodò sulla poltrona, raggiante di compiacenza. «Non avete nessuna idea circa l'origine di queste minacce?» «No, monsieur. Il mio padrone non mi confidava mai niente: in genere, dovevo fargli qualche domanda a bruciapelo.» «Chi erano i suoi amici? Qui a Londra, intendo.» «Ah, questo è facile. Non ne aveva. Il teatro, i concerti e i suoi studi (che razza di studi!): non aveva altre occupazioni. Di tanto in tanto, faceva visita a mademoiselle Laverne. Capite? Sì, certo: è naturale. L'ho visto parlare col dottor Pilgrim, un signore che abita qui. E poi...» A questo punto, il cameriere abbassò drammaticamente la voce e alzò una mano con aria d'importanza. «Come ho detto, io non ho idea di chi fosse la persona che lo stava minacciando; ma penso che lui lo sapesse. Penso anzi che l'avesse appena saputo.» «Cosa intendete dire?» «Vedete, è andata così. Lui era preoccupato a morte; non riusciva a dormire, stava impazzendo. Certe notti sbirciavo nella sua grande camera da letto e lo vedevo con la faccia illuminata dalla luce del fuoco, in piedi fra tutti quei suoi gingilli... e tremava. Non riusciva a riposare; non riusciva più nemmeno a leggere. Intanto, il signor Graffin beveva whisky, suonava il pianoforte e gli rideva in faccia. Come sapete, signore, io ho letto
sui giornali che monsieur El Moulk era scomparso. Ma diavolo! Io ho sempre pensato che se qualcuno doveva sparire o farsi ammazzare, sarebbe stato molto più logico che fosse Graffin. Ho visto tante volte il mio padrone stringere forte le mani per trattenersi dal saltare alla gola di monsieur Graffin. Tanto era accecato dalla furia, capite? Ma non faceva mai nulla...» Nell'ambiente semibuio, il racconto di Joyet evocava echi sinistri, ma in quel momento erano privi di senso, almeno per me. Di lì a poco, invece, ci sarebbe stata rivelata la loro macabra importanza. «Però, proprio al momento di partire» continuò Joyet «ho parlato con monsieur, il quale scoppiava quasi dalla gioia. "Ti voglio dire una cosa, Joyet" mi fa. "Se tutto va bene, farò cadere in trappola questo Jack Ketch. Lo coglierò in flagrante, addirittura!" Io domando: "E come, monsieur?". Lui risponde: "Ho trovato un alleato proprio qui al club". Ecco: è tutto quello che so.» Bencolin annuì con aria trasognata. «Infatti» mormorò «dev'essere andata proprio così. Sapete cosa intendesse dire El Moulk?» «Ahimè, no, monsieur; temo di no.» «Adesso state attento. Voi avete visto i pacchi dai sigilli blu, vero?» «Ma certo, li ho visti tutti.» «Che cosa contenevano?» «Lasciatemi riflettere, monsieur. Ah, sì. Tanto per cominciare, una volta arrivarono due pistole da duello in cristallo... deliziose! E una di quelle anfore dove si mettono le ceneri delle persone cremate. Sempre qualcosa di diverso!» Bencolin sorrise. «Nessun innamorato che scelga regali per la sua ragazza ha mai compiuto scelte più accurate e faticose di Jack Ketch. Sono tanto elaborate da far quasi ridere. Adesso, Joyet, pensate alle cose trovate nell'appartamento, quelle che Jack portava di persona...» «Sapevamo sempre dove cercarle, monsieur, perché le lasciava ogni volta nel medesimo posto: sul tavolo di centro del salone.» «Ogni volta nel medesimo posto?» ripeté Bencolin, e si alzò in piedi con impeto. «Sempre nello stesso posto... ne siete assolutamente certo, Joyet?» domandò in tono incalzante. «Mai nell'anticamera o...» «No, monsieur, mai! Una volta, abbiamo trovato sul tavolo un lungo rotolo di corda; e poi libri... molti libri.» Bencolin si girò con un guizzo elegante e rivolse una pigra strizzata d'occhio a Sir John. Il suo lato diabolico faceva capolino, dissimulandosi
appena; il lento sorriso del mio amico era colmo di gaiezza. «Avete capito tutto, non è vero?» chiese. «Il particolare è suggestivo, non c'è che dire. Il modellino di forca è stato spedito per posta, ma il pupazzetto di legno è stato trovato sulla scrivania...» S'interruppe e alzò un sopracciglio con aria compiaciuta. «Tiens! Fa perfino rima!» Il piccolo patibolo per posta fu mandato, mentre l'ometto in casa l'han trovato... Rimase un istante in silenzio, poi ripeté il suo distico tra i denti. «Suvvia. Sir John, non lanciatemi quelle occhiatacce. Proprio non riesco a trovare un'altra rima per completare la strofa. Sapete qual è il segreto dello scrivere poesie? Cominciate sempre con un'idea particolare in mente, ma poi le esigenze del metro e della rima vi costringono a dire qualcosa di diametralmente opposto... però sempre molto più profondo della vostra concezione originale. Il procedimento va comunemente sotto il nome d'ispirazione poetica... Ma venite, Joyet. Se vorrete farci da guida, ora daremo un'occhiata alla suite di El Moulk.» Tutti e cinque attraversammo l'atrio e prendemmo l'ascensore. Sir John era chiuso in un silenzio gelido, Talbot depresso e Bencolin pensieroso. Uscimmo al quarto piano e, siccome la scala era lì accanto, io vidi il dottor Pilgrim che aveva appena girato il pianerottolo e si preparava a scendere. Portava un vestito di tweed alquanto informe e teneva in bocca la pipa. Se la tolse e ci squadrò a turno con un lampo di curiosità negli occhi verdi da gatto sempre acuti, sorridenti e bonari. «Buon giorno, Sir John» salutò. «Buon giorno, signor Marie. Ero salito giusto per venire da voi, ma non vi ho trovato. Volevo riferirvi che ero tornato a vedere la... la nostra paziente, stamattina, e che l'ho trovata perfettamente rimessa. Siete ancora occupato a fare deduzioni, spero.» Vennero fatte le presentazioni e Talbot andò diritto allo scopo. «Pensate di restare qui per un certo tempo, dottore?» chiese. «Noi dobbiamo sbrigare prima una piccola incombenza, ma dopo io sarei lieto di scambiare qualche parola con voi circa... circa i fatti di ieri sera e altri argomenti.» Di nascosto, Pilgrim teneva d'occhio Bencolin. «Ne sarò felice, ispettore. I miei doveri professionali non sono mai veramente pressanti. Se doveste scendere entro mezz'ora, mi troverete nell'atrio.» Il suo sguardo era fortemente interrogativo, ma non ci chiese nulla. En-
trò nell'ascensore. Sapeva che io non ero un investigatore o no? Il volto butterato era un enigma amichevole ma indecifrabile, e in quel momento lui pareva interessarsi solo al fornello della pipa. L'ascensore partì e Bencolin si volse a guardare il lungo corridoio. Non era accesa nessuna luce, e l'arcata scura in fondo al passaggio era piena di ombre. Il mio amico si avvicinò al lato che dava sulla facciata dell'edificio, osservò le pareti che recavano ancora tracce di dorature e scostò i tendaggi pesanti che celavano una delle finestre a balconcino. Per un poco rimase a guardar giù, verso i camini smilzi di St. James's Palace velati dalla pioggia sottile mista a grandine. In silenzio ne sentimmo i chicchi picchiettare sui tetti, tra le mille voci del vento... Poi Bencolin si girò di scatto, e i cuori nei nostri petti fecero un balzo all'unisono. «Dio mio! Cosa succede?» proruppe Talbot. Stavamo ancora rabbrividendo all'eco di quel grido... uno spaventevole grido infantile che era venuto dalla profondità del corridoio. Era soffocato, ma non c'erano dubbi che fosse stato emesso al di là dell'arcata a punta che portava alle stanze di El Moulk. La voce si alzò di nuovo in uno strillo acuto, e qualcosa cadde con un rumore metallico. Mentre fissavamo le tende dell'arcata, una figura ne capitombolò fuori. La figura si precipitò verso le scale, urlando ancora una volta; ma poi inciampò e fece appena in tempo ad aggrapparsi alla ringhiera per evitare di cadere giù a capofitto. Per un instante rimase così, sospesa; poi si guardò intorno nella penombra, con immensi occhi sbarrati, e ci vide. Era un nano dalla faccia livida, e respirava affannosamente. Corse dritto verso Sir John, balbettando qualcosa che non riuscii a capire. Dopo il primo attimo di smarrimento, mi riscossi. L'apparizione non era quella di un folletto, anche se mentre si precipitava verso la scala mi era sembrato che avesse qualcosa di ultraterreno e quasi di diabolico. Si trattava solo di Teddy, col suo sguardo vacuo, i piccoli pugni serrati e la vocina acuta che gridava tra i singhiozzi: «L'ho visto! Oddio, l'ho visto!» Puntava un dito verso l'arcata, pazzo di terrore... Teddy era una curiosità da baraccone, un essere umano il cui sviluppo era stato impedito dal rachitismo contratto durante la guerra. Aveva il corpo di un ragazzotto e il cervello di un bambino piccolo, benché la sua faccia paffuta avesse qualche ruga e i capelli di un rosso carota fossero sempre intasi di brillantina. Lo avevo visto spesso in giro per il club: la direzione gli dava un posticino per dormire e qualche soldo di mancia che lui adoperava per comprarsi dei sigari. Ser-
viva come fattorino e come factotum, e spesso lo si vedeva affaccendarsi per i corridoi con i secchi del carbone cantando certe canzoncine oscene che i domestici gl'insegnavano per scherzo. Credo che Sir John fosse uno dei pochissimi che lo trattavano con gentilezza... «Che ti succede, Teddy? Suvvia, smettila!» disse Sir John con asprezza. Lo scosse per le spalle e il solito sorriso idiota riapparve sul volto dì Teddy, benché la sua voce fosse ancora acuta e incrinata. «Teddy non ha fatto niente!» gemette il nano, bilanciandosi prima su una gamba e poi sull'altra mentre ci sbirciava furtivamente, sempre con quel suo sorriso appiccicato in faccia. «Teddy non ha fatto niente... Stavo solo preparando il fuoco, come faccio sempre.» «Hai detto di aver visto qualcosa là dentro?» Teddy rispose solo con un grugnito, ma dopo un po' proruppe, terrorizzato: «Non lo so. Non sono sicuro!» «Credevo che nessuno dei domestici fosse autorizzato a entrare nella suite» intervenne Talbot. Teddy alzò le braccia. «È così! È così! Nessuno può entrare tranne me. Il signor El Moulk non fa caso a me, non fa caso a Teddy. Una volta mi ha dato uno scellino, davvero. Davvero!» «Coraggio, su» riprese Sir John. «Cosa c'era là dentro? Qualcuno ha cercato di farti paura?... Lo hanno spaventato a morte giù in cucina» aggiunse adirato, rivolgendosi a noi, «raccontandogli storie di fantasmi, uomini neri e indiani...» La paura aveva afferrato di nuovo Teddy, che si aggrappò alla giacca di Sir John. Però continuò a insistere cocciutamente di non aver visto nulla. Si fece venire quasi una crisi isterica: consolazioni, carezze, minacce non servirono a cavargli fuori una parola. Quando Sir John gli offrì un temperino d'oro col suo nome inciso sopra, gli occhi dell'idiota scintillarono di una cupidigia sinistra. Cominciò a tirarsi i capelli con le mani paffute finché la brillantina non gl'impiastricciò la faccia; ma aveva subito un trauma tale che non volle assolutamente parlare. «Perché le cose mi prenderebbero» spiegò. «Ci sono cose che davvero ti prendono, come dice la cuoca. Senza scherzi!» Lui, Teddy, detestava le cose che ti prendono; eppure gli sarebbe piaciuto tanto avere quel bel coltellino col nome sopra. Alla fine lo lasciammo andare e lui sgattaiolò giù per le scale col suo curioso passo saltellante, cantando una delle canzoni più oscene che io abbia mai sentito. Bencolin non fece commenti sul ragazzo; si limitò a chiedere a Joyet: «Le stanze dunque non vengono tenute chiuse a chiave?»
«Lo erano quando monsieur era qui. Naturalmente, a lui non è mai importato dell'idiota. Adesso però che si occupa di tutto il signor Graffin... Da questa parte, signori.» Ci fece strada e scostò la tenda dell'arcata. Al di là di quella, un corridoio più angusto, lungo circa quattro metri, conduceva a un massiccio portone gotico che era rimasto socchiuso. Entrammo in un salone enorme e grottesco, la cui volta a costoloni s'innalzava al centro di almeno sei metri. Quattro lampade di ottone sbalzato erano appese a catene attaccate a ganci di ferro infissi al soffitto, ma l'ambiente era rischiarato solo da una lampada a gas col globo verde posta sul tavolo centrale... Per un istante rimanemmo fermi sulla soglia, a contemplare il bizzarro arredo del salone. Sulla parete di sinistra c'era un vecchio caminetto con la mensola di marmo nero, nel quale era stato preparato un fuoco di carbone. Sulla mensola stavano quattro canopi, urnette funerarie di terracotta smaltata in azzurro, col coperchio a forma di testa sovrastata da un elmo. Con la mia imperfetta conoscenza del vasellame egiziano, li giudicai appartenenti alla seconda dinastia tebana. Al di sopra, si dispiegava un vasto affresco eseguito su legno incavato (si trattava del cavo-rilievo tipico del Nuovo Regno) e raffigurante il Giudizio dell'Anima. I colori erano sorprendentemente ben conservati: su uno sfondo neutro, il dio Horus, con la nera testa di falco e il corpo dorato, stava davanti a una gigantesca bilancia recante su un piatto il cuore del defunto e sull'altro la verità; Maat, dea della verità rivestita di una tunica bianca, osservava dal suo trono; e Toth, lo scriba degli dei dalla testa di ibis, stava da un lato, pronto a registrare il procedimento. Alti scaffali di libri chiusi da tendine di damasco verde svettavano su entrambi i lati del caminetto fino alle porte, una ad ogni estremità. Sulla parete di fronte a noi si aprivano tre altissime finestre, oscurate da tendaggi sontuosi dello stesso verde cupo, e fra l'una e l'altra c'erano alcune bacheche adorne di dorature. Era difficile distinguere qualcosa di più che le sagome, perché la luce della lampada a globo era verdastra e molto tenue. Tuttavia, sulla parete di destra torreggiavano altri scaffali alti fino al soffitto e chiusi dalle stesse cortine; dinanzi a loro c'era un massiccio pianoforte a coda, e la luce fioca traeva pallidi riflessi di colore da un sarcofago dipinto appoggiato verticalmente a un angolo. C'inoltrammo nel salone immenso calpestando una moquette verde scuro estremamente soffice e folta, che ricopriva quasi del tutto il pavimento a lastre di marmo bianco e nero. Le poltrone erano di legno scolpito nero, con una profusione di dorature sbiadite. L'aria all'interno era opprimente, a
causa dell'odore di fiori morti (ne vidi gli steli disfatti in numerosi vasi di porfido rosso), di polvere, di pergamena, di spezie e di quell'indescrivibile effluvio di unguenti da imbalsamazione che aleggia ancora fortemente intorno alle tombe di Abido. Era una stanza di morte. Talbot ad un tratto inciampò contro un secchio da carbone dimenticato in mezzo alla camera; il rumore risuonò aspro e stonato nella pace di quell'atmosfera pesante, permeata di decomposizione e decadenza. Le quattro lampade di ottone tintinnarono nell'oscurità al di sopra delle nostre teste. Non so cosa ci aspettassimo di trovare. I nostri passi sprofondavano in silenzio nel tappeto, mentre avanzavamo senza parlare verso il tavolo dov'era la lampada. Era molto lungo e carico di libri e di carte, cosicché in un primo momento non vedemmo cosa c'era dal lato opposto... Talbot si lasciò cadere in una delle poltrone dorate, il taccuino su un ginocchio. Sir John rimase in piedi, puntellandosi con le dita sul tavolo e scrutando Bencolin da sotto le palpebre socchiuse. Bencolin cominciò a girare per la sala. Si fermò davanti alla porta a sinistra del caminetto, nell'angolo della parete. «Dove conduce questa porta, Joyet?» domandò. «Alla stanza da letto di monsieur, attraverso un corridoio sul quale si aprono tre porte: una sulla stanza del mio padrone, una sulla sala da pranzo e una sulle stanze occupate dal signor Graffin e da me... La suite, come vedete, occupa l'intera ala sul retro dell'edificio.» «E quell'altra porta?» Il mio amico indicò la porta corrispondente, nell'angolo a destra del caminetto. «Dà su una scala esterna, chiusa nel fabbricato, naturalmente. Scende fino a una porta secondaria dell'edificio, con un pianerottolo a ogni piano. La porta, a sua volta, dà su una specie di vicolo.» «Si tratterebbe della porta di servizio del club?» «Oh, no. La porta di servizio è un poco più su, accanto alle cucine. Questa è solo una scala privata, per così dire. Tenevamo la porta chiusa a chiave perché monsieur El Moulk non l'adopera mai. Non ha illuminazione, capite.» «Così, dunque, se un... un visitatore sgradito voleva entrare qui e lasciare uno dei ricordini di Jack Ketch, poteva farlo senza esser visto da nessuno al club?» Joyet arricciò le labbra e scrollò leggermente le spalle. «Quanto a questo, monsieur... no, assolutamente no. Il mio padrone ci aveva pensato. La
porta è sempre chiusa a chiave e sprangata. Inoltre, un estraneo avrebbe bisogno della chiave della porta che dà sul vicolo. Monsieur El Moulk aveva fatto installare delle serrature speciali, e l'unica chiave era sempre in suo possesso.» «Dovunque egli si trovi in questo momento» osservò il mio amico. Dopo una pausa, tirò un respiro profondo e riprese: «Vorrei vedere le camere da letto, Joyet, se non vi dispiace farci ancora da guida... venite, ispettore?» Talbot si affrettò a seguirlo. Sir John rimase immobile davanti al tavolo, le sopracciglia aggrottate. In quell'atmosfera opprimente, io mi sentivo insicuro e a disagio. Bastò che i tre chiudessero la porta per destare nella sala echi da cappella sepolcrale: i tendaggi verdi parvero tremolare, i vasi furono scossi da una vibrazione impercettibile e perfino le lampade di ottone sussurrarono, tintinnando in risposta. Non si sentiva alcun rumore, neppure quello del vento e della pioggia o l'amichevole ticchettio di un orologio. Teddy aveva creduto di vedere qualcosa in quella sala. Vi si era inoltrato... fischiettando, probabilmente, e dondolando il suo secchio di carbone con la testa appena ripiegata sulla spalla nel suo solito modo impertinente. Aveva preparato il fuoco, sempre fischiettando. Poi ebbi l'impressione di vedere la faccetta paffuta e rugosa girarsi all'indietro, lentamente, mentre lui rimaneva inginocchiato davanti al caminetto; poi la visione improvvisa, il contrarsi delle sopracciglia color carota e la bocca che si spalancava in una smorfia di orrore simile a quella delle maschere della tragedia greca. Piantando lì il secchio del carbone, Teddy aveva urlato ed era scappato via... da che cosa? I miei occhi percorsero la parete di destra, tutta occupata dagli scaffali chiusi da tendine verdi. I tasti del pianoforte erano una serie di chiazze biancastre. Al di là, nell'angolo, balenavano confusamente l'oro sbiadito, l'arancione, il nero e l'ocra del sarcofago. La faccia della figura dipinta somigliava ogni momento di più al viso immoto di Nezam El Moulk. Non era un'illusione, la mia: quella dannata figura gli rassomigliava veramente. Gli occhi bruni e rotondi, profondamente cerchiati di nero, avevano la fissità e il vuoto dell'idiozia, come uno di quei volti orribili che si chinano su di noi nei corridoi grigi dell'incubo... Sopra il sarcofago erano appesi degli oggetti: il guantone di cuoio di qualche Faraone, calzato per reggere l'arco o le redini del carro da battaglia; una corazza di pelle trapunta; la terribile ascia da guerra, la lancia, il pugnale e la fionda. Mi avvicinai al sarcofago e fissai con attenzione la faccia dipinta, chiedendomi perché mai il mio cuore battesse a colpi così pesanti e tumultuosi.
Poi mi parve di vedere il tendaggio di damasco fremere sulla finestra più vicina, e allora mi girai di scatto e lo scostai. Ma trovai solo una grande finestra sbarrata; guardai in basso attraverso i vetri e vidi un vicoletto fangoso che si biforcava da St. James's Street alla mia sinistra e finiva in un culde-sac. Alzai lo sguardo al fabbricato di fronte, col suo muro fatiscente e le finestre sbarrate, era la parte posteriore di una casa, e dava sul vicolo come l'edificio che ospitava il club. Lasciai ricadere la tenda drappeggiata. «Chi sta fumando qui?» chiese Sir John. La sua voce pareva giungere da una grande distanza. Mi voltai e lo vidi fissare il tavolo centrale, che adesso mi era visibile dall'altra parte e quindi non era più oscurato dalle pile di libri ammucchiati. «Nessuno» risposi. Lui protese un dito ossuto verso un vasto tampone assorbente. Non mi ero mai accorto, prima, che il solido e fattivo Sir John Landervorne avesse occhi tanto penetranti. Nella sua faccia grigia erano messi in risalto dagli zigomi alti e dalle sottili sopracciglia nere. Mi fissavano immobili alla luce della lampada, ed erano di uno sgradevole color grigioverde. Le sue spalle ossute erano talmente curve da far quasi sparire il collo. Sir John continuava a indicarmi il tampone. Era completamente sgombro; vi riposava sopra soltanto un libro aperto. La poltrona era stata spinta all'indietro, come se qualcuno fosse stato interrotto mentre leggeva. Davanti al libro c'era un piccolo portacenere di bronzo, e da uno dei suoi incavi una sigaretta accesa esalava un filo di fumo perfettamente verticale. Davvero, come se qualcuno fosse stato interrotto mentre leggeva... Mi avvicinai lentamente al tavolo e abbassai lo sguardo. Non un'eco, non un sussurro in quella vasta catacomba, non un ammiccare della lampada verde. La sigaretta era un'Abdullah, fumata a metà. Il libro aperto era una copia dell'opera di De Quincey: Il delitto considerato come una delle belle arti. Sir John lasciò ricadere l'indice puntato e si allontanò dalla scrivania. 10 Il Signore dei Diademi Contemplai talmente a lungo l'insinuante volume che alfine le righe di stampa mi si confusero davanti agli occhi, perdendo ogni significato; e la cenere della sigaretta si allungò tanto che il mozzicone scivolò nel piattino
di bronzo. Allora guardai a destra, verso la porta che dava sulla scala privata. «Siamo stati degli sciocchi a non esaminare quella porta...» mormorai. Sir John disse soltanto: «Davvero? Non saprei.» Mi diressi in fretta da quella parte e trovai quanto mi aspettavo. Il catenaccio era tirato indietro e la porta era chiusa, ma non a chiave. La chiave stessa si trovava nella parte esterna del battente. Al di là c'era un pianerottolo buio, polveroso e privo di aria, con una balaustra malferma che serpeggiava verso il basso a un lato degli scalini e le pareti tappezzate di carta color giallo sporco. Era l'ultimo piano, e quindi la scala terminava lì. Alla mia sinistra c'era solo una scala a pioli che saliva fino a una botola sul soffitto e alla mia destra una finestra. Quando mi volsi indietro, vidi che Bencolin era appena uscito dalla porta che conduceva alle camere da letto. Teneva ancora la mano sul pomello, e Talbot si sporgeva da dietro una sua spalla. «L'avevo già vista poco fa, Jeff» mi disse. «Per il momento, non preoccuparti: non credo che troverai nulla da quella parte.» «Ma non hai visto la scrivania» obiettai. «È certo che qualcuno era qui, un momento fa... Cos'avete trovato nelle altre stanze?» «Proprio niente» mi rispose Talbot. «È un posto abbastanza bizzarro, però è tutto in ordine. Abbiamo trovato, figuratevi, la mummia di quell'aggeggio» indicò il sarcofago «accanto al letto dello scomparso.» Con le mani in tasca, Bencolin era chino sul tampone della scrivania. Dopo un po' allungò una mano e prese il volume rilegato in marocchino; lo esaminò da una parte e dall'altra e alla fine lo lasciò ricadere sul tavolo. «Bah! È tutta una sceneggiata» tagliò corto. «Le pagine non sono state nemmeno tagliate.» Tamburellò con un dito sul libro. «Che titolo magniloquente per conferire un po' di dignità ai goffi delitti di John Williams! Jack Ketch vi troverà una ben misera fonte d'ispirazione. Ma qui cosa c'è?» Uno dei cassetti del tavolo era leggermente socchiuso, e gli occhi di Bencolin avevano colto uno scintillio all'interno. Il mio amico si tolse il fazzoletto dal taschino, se lo avvolse intorno alle dita e tirò il cassetto a sé... Dentro, allineati su un grande fazzoletto rosso, c'erano una pistola a canna lunga, diversi bottoni di vetro, un paio di nappe di filo d'oro e un orologio di latta. «L'assassino ha restituito il bottino» mormorò Bencolin. Talbot gli fu accanto d'un balzo e abbassò sul contenuto del cassetto gli
occhi incupiti. «Ma diamine...» brontolò «questa roba apparteneva all'autista...» Si ficcò in tasca il taccuino con l'aria di uno che è giunto agli estremi della disperazione. Con molta precauzione, Bencolin sollevò un angolo del grande fazzoletto rosso, che dall'altra parte era sudicio di polvere di carbone. Sotto, c'era una grande fotografia raffigurante Smail, l'autista morto, in guantoni e mutandine da pugile. La faccia recava un'espressione minacciosa, evidentemente assunta per l'occasione; i muscoli risaltavano sulle braccia nere e lucide, alzate in posizione di offesa. In un angolo, una mano incerta aveva scritto a grandi lettere: "Cordialmente vostro, Dick (Killer) Smail, New York, agosto 1927". «La sua guardia del corpo dunque era un pugile» osservò Bencolin. S'interruppe e di colpo s'irrigidì. Serrò le dita della mano in un gesto spasmodico, e nei suoi occhi fiammeggiò quella luce terrificante di comprensione istantanea che vi avevo visto tante volte. Ma scomparve in un lampo, dopo di che lui scrollò appena le spalle e fece un passo indietro, mentre un sorriso gli sfiorava le labbra. Io però ebbi la sicurezza che proprio lì, accanto al tavolo illuminato dalla lampada verde, Bencolin aveva risolto il caso. «Le prenderò in consegna io, queste cose» disse Talbot. Avvolse con cura gli oggetti nel grande fazzoletto rosso e li tolse dal cassetto. Il piccolo ispettore continuò, quasi con ferocia: «C'è un'evidenza che ormai dobbiamo accettare: l'assassino si è impadronito di El Moulk e ha le sue chiavi... perciò può entrare dalla porta sul vicolo e venire quassù quando gli garba. Ma perché, perché? Se fossimo arrivati qui prima...» Bencolin scosse la testa, pensoso. «Non sono certo che avremmo fatto in tempo, ispettore. Comunque...» Ispezionò con uno sguardo il ripiano della scrivania e poi si voltò a osservare il sarcofago. Vi si diresse, fece scorrere le mani sull'antico legno e, come seguendo un impulso, ne sollevò il pesante coperchio. «Dentro non c'è nulla» dichiarò, rimettendolo a posto; poi si girò con un ghigno sarcastico. «Lo sapevo che era vuoto, ma volevo tranquillizzare voi. Sì, sì, certo. Ogni volta che compare un sarcofago, le fantasie eccitate dalla lettura di troppi romanzi sospettano che dentro ci sia un bel cadavere fresco di giornata. Anzi, sospettano che ci sia ogni cosa possibile e immaginabile, tranne che una mummia.» Girò per la stanza con aria meditabonda. Poi i suoi occhi si alzarono alla più vicina delle quattro lanterne di ottone che pendevano a quattro metri e
mezzo di altezza sulle nostre teste. «Joyet» chiamò, continuando a fissarla «avete per caso una scala a pioli, qua attorno?» «Chiedo scusa?» si stupì il cameriere. Bencolin indicò la lanterna e annunciò, con la soddisfazione ammirata del conoscitore: «Quello è uno squisito esemplare del raro e antico ottone Whagulian-Kynwitz del periodo post-vertigine. Ho bisogno di esaminarlo più da vicino. Trovatemi una scala.» «Questo scherzo sta passando ogni limite!» gridò Sir John. «Abbiamo sopportato le vostre buffonate tutto il giorno. Adesso volete farci il favore di smetterla con queste scemenze e...» «Non sto affatto scherzando, e voi lo sapete benissimo» rispose il mio amico, senza scaldarsi. «E inoltre, se a voi non interessano gli ottoni Whagulian-Kynwitz, io ne sono un appassionato.» Joyet era sparito in direzione delle camere da letto e ne riemerse quasi subito portando una gigantesca e malferma scala a pioli. La sistemò sotto la lanterna e la tenne ferma mentre Bencolin vi saliva. Là, in alto, l'ombra era densa e praticamente non lo vedevamo. Lo sentimmo però picchiettare le dita sulla lanterna, emettendo una serie di brontolii ammirati. «Rarissimo!» annunciò, e ci tenne una specie di conferenza sulle più stravaganti minuzie della lavorazione dei metalli; ma quando scese dalla scala, aveva un'espressione straordinariamente grave. Joyet andò a rimettere a posto l'attrezzo e Bencolin ritornò alla scrivania, di cui si mise a saccheggiare i cassetti frugando nel miscuglio di oggetti eterogenei che contenevano. C'erano dei papiri incorniciati e sigillati fra due lastre di vetro. C'erano i frammenti di un sigillo di creta macchiato d'inchiostro azzurro; e poi una lente, una piccola testa di cammello intagliata nell'avorio, penne, inchiostro e gomme da cancellare. Gettato alla rinfusa in mezzo a una pila di programmi teatrali, c'era un pendente d'oro ornato di smalti e lapislazzuli. Proprio in fondo a un cassetto, Bencolin trovò una cartella di cuoio dalla quale trasse alcuni fogli manoscritti vergati con calligrafia molto chiara. «Il nostro amico El Moulk si è dedicato alla traduzione di qualche papiro, credo» mormorò. «E in inglese, anche...» Gli altri non gli prestavano molta attenzione, ma io gettai uno sguardo al di sopra della sua spalla mentre lui scorreva la fine del secondo foglio. C'era scritto, nella stessa grafia impeccabile del primo:
Questa è la versione completa della storia di Nezam Kha-emuast e di Uba-Aner, e parla della maledizione dello strangolamento che fu (gettata?) su Nezam Kha-em-uast, nipote del possente re User-maat-ra. Scritta nel mese di Tybi da Anena, proprietario di questo documento. Colui che ne parlerà senza rispetto, possa Tatuiti fulminarlo. «Credo che me lo terrò, questo manoscritto» mormorò Bencolin. «Ma un momento, c'è anche un libro nella cartella.» Lo tirò fuori. Era un volumetto smilzo rilegato in pelle blu scura e col titolo in lettere d'oro: Racconti della Terra Perduta. Il nome dell'autore era J.L. Keane. Bencolin mi lanciò uno sguardo e io ricordai le parole di Colette Laverne: "Keane era lo pseudonimo sotto il quale lui una volta aveva scritto un libro...". Il frontespizio recava la data del 1913, ma il libro era stato stampato privatamente e ciò avrebbe reso molto difficile il tentativo d'identificarne l'autore. Racconti della Terra Perduta conteneva traduzioni di papiri conservati nel British Museum: i papiri Harris e Anastasi, una selezione dalle tavolette di Tell Amarna e alcuni brani non classificati. «Un ennesimo ricordino inviato da Jack Ketch, immagino» commentò il mio amico. «Adesso non manca che un'ultima cosa.» Mentre Talbot prendeva in consegna la cartella, Bencolin si mise a frugare negli scaffali accanto alla porta che dava sulla scala privata e finì per trovare una candela in un candeliere di bronzo. L'accese e, tenendola sollevata, uscì sul pianerottolo. Mi avvicinai alla porta e lo vidi alla metà della prima rampa di gradini. Scendeva all'indietro, molto lentamente, e muoveva la fiamma della candela lungo la ringhiera alla mia sinistra. La luce forte e concentrata si rifletteva nei suoi occhi stretti e crudeli. Tutt'intorno non c'era che ombra, da cui emergeva quella faccia satanica immersa in un alone dorato. Il vento faceva scricchiolare il telaio della finestra alla mia destra. Silenziosamente, il volto di Bencolin scomparve giù per la scala; poi girò l'angolo e svanì del tutto, ed io vidi solo una specie di bagliore tremolante in un pozzo di tenebre. Una volta, però, sentii il mio amico ridere. Talbot intanto aveva accostato una poltrona alla scrivania e stava esaminando il contenuto della cartella. Sir John si era seduto in una poltrona più lontana, accanto alla porta che dava nelle camere da letto, e io potevo scorgere solo la sua sagoma scura. Il vasto salone simile a una catacomba era immerso in una quiete profonda. Io mi appoggiai a una delle bacheche
stipate di oggetti preziosi, e le correnti della morte e del silenzio mi trascinarono in reami tenebrosi. "Nezam Kha-em-uast, nipote del possente User-maat-ra!"... e cioè di Ramsete il Grande. Ricordai l'epigrafe di pietra sotto il cielo di un azzurro insopportabile, lungo la strada che conduceva alle miniere d'oro della Nubia: "Ricco di anni, forte di vittorie, Signore dei Diademi, potente nella Verità di Ra, re dell'Alto e Basso Egitto, Ramsete prediletto di Amen". E ricordai le rovine di Karnak, scottanti nell'afa dell'estate, quando i pipistrelli svolazzavano al tramonto contro un cielo giallo pallido e le torce si accendevano lungo il Nilo... Forse Nezam El Moulk, nel presente anno di grazia, aveva trovato una rassomiglianza tra sé e il primo Nezam del papiro? I libri, gli oggetti preziosi, perfino il sarcofago parlavano come in un sussurro arcano della "maledizione dello strangolamento" gettata sui discendenti dell'antico Nezam. Quali sinistre immagini si aggiravano dunque nella mente di El Moulk? Visioni di raggi di sole su colonne multicolori, di fiori e di flauti a Tebe... e tutto ciò per fuggire urlando dalla minaccia di un boia nelle nebbie di Londra? Ho sentito tanta gente affermare che nessuno crede davvero nella reincarnazione, ma so che hanno torto. Sepolta insieme ai re, c'è una magia arcana e potente, che sconvolge il cervello dello studioso trascinandolo nei giri di una ruota colossale. Quella magia lo acceca e lo confonde, così che alfine mille voci sussurranti si levano intorno alla lampada del suo studio. Al posto dove ora sedeva Talbot, dietro la lampada verde a globo, io immaginai El Moulk curvo sui suoi papiri e immerso nelle loro antiche storie, durante le lunghe notti popolate dalla musica dei flauti. "Signore dei Diademi, potente nella Verità di Ra, re dell'Alto e Basso Egitto, Ramsete prediletto di Amen!" Come il tuonare di quegli attributi destava l'eco dello scroscio dei cembali e del rapido, acuto applauso delle trombe! "Il rombo del suo carro da battaglia è simile al fragore della tempesta e del tuono, e spazza via ogni cosa davanti a sé come il nero uragano che viene dal deserto; torreggiante sul suo carro d'argento, egli indossa l'armatura di bronzo e porta sulla fronte il diadema regale col serpente; con la mano destra egli scaglia il dardo e nella sinistra stringe la spada con la quale sterminò il Khita, e nessuno può prevalere contro di lui." Le figure scure dei miei compagni erano sempre immobili e io mi chiesi a che cosa stessero pensando: forse alle stesse bizzarre immagini che popolavano la mia mente? Infatti, alle mie orecchie risuonavano in quel mo-
mento le buccine fantomatiche delle antiche guerre... le buccine d'argento che avevano destato i palazzi variopinti di Karnak e poi avevano singhiozzato lungo le strade di Tebe. E mentre pensavo all'eletto di Ra alla guida dei suoi due cavalli arabi, Vittoria-in-Tebe e Nura-è-soddisfatto, lungo la via delle Sfingi che percorreva in trionfo, quasi fatalmente il mio sguardo cadde sulla collezione di armi appese al di sopra del sarcofago. Mi appoggiai alla bacheca e la osservai. Come ho già accennato prima, consisteva in un equipaggiamento da battaglia quasi completo. Ma un momento!.... C'era qualcosa di sottilmente sbagliato nel modo in cui erano disposte le armi sulla parete. Tra il pugnale e la mazza c'era uno spazio troppo largo, che sembrava invocare a gran voce un'altra arma per bilanciare le distanze. Per la seconda volta mi accostai al sarcofago ed esaminai attentamente la parete che lo sovrastava, ma la luce era troppo fioca. Allora presi una delle poltrone intagliate, la portai accanto al muro e vi salii sopra. Accesi il mio accendino e ne feci scorrere la fiammella lungo lo spazio vuoto. Le pareti erano stuccate e dipinte in verde pallido; erano anche estremamente polverose. Vidi così con chiarezza una sagoma delineata dalla mancanza di polvere: qualcosa era stato davvero appeso là, una volta. Si trattava di una spada corta a lama larga e dall'impugnatura assai lunga; e sopra la sagoma era infisso il chiodo al quale l'arma era appesa. Se la mia ipotesi era esatta, si trattava di quella tenibile spada a doppio taglio che lo scriba Meremapt chiamava "il tagliagole". Mi si profilò nella mente l'immagine della gola squarciata dell'autista... «Cosa diavolo significa tutto ciò?» ringhiò una voce. Mi voltai, sorpreso, e vidi il tenente Graffin in piedi sulla soglia. I suoi occhietti arrossati e truculenti passavano da me a Talbot; Sir John non lo aveva visto. Appoggiato allo stipite, l'uomo teneva i pollici infilati nei taschini del panciotto e pareva arrivato a quello stadio dell'ubriachezza in cui si è pronti a fare a pugni con chiunque, alla minima provocazione. Lo squadrai da capo a piedi mentre lui mi sfidava con lo sguardo, quindi mi volsi come se non lo avessi visto e continuai il mio esame della parete. Talbot disse con voce severa: «Abbiamo avuto ben poco aiuto da voi, signore; adesso queste stanze vanno esaminate, ed è quello che intendiamo fare. Lo faremo con o senza la vostra assistenza, però io vi consiglierei di stare calmo... per il vostro stesso bene.» La voce del segretario si levò, acuta e stridente. «Ah, mi minacciate, eh?» gridò. «Voi...» L'apostrofe appena iniziata s'interruppe in un gracidio, che si trasformò in un urlo soffocato e finì in
un improvviso clamore discordante che si levò dai tasti del pianoforte. Mi girai di scatto: Graffin era inciampato e la sua mano si era abbattuta sulla tastiera. Poi si rimise in equilibrio e prese a fare gesti frenetici in direzione detta porta che dava sulla scala privata. Gridò con voce rauca dall'ubriachezza: «Tornate indietro, maledetto idiota; tornate indietro!» Sulla soglia apparve Bencolin, e alzò la candela in modo che la fiamma gl'illuminasse il volto. Graffin sbarrò gli occhi come se non riuscisse a credere a quel che vedeva, poi li coprì con una mano tremante. «Oh!» esalò in un soffio. A questo punto, il piccolo ispettore stava scoppiando di ferocia repressa. Squadrò la mandibola, la protese in avanti e marciò su Graffin con andatura pesante. «Sì, quello è il signor Bencolin» scandì. «Voi invece... chi mai pensavate che fosse? Perdio, voglio che mi diate finalmente una risposta sensata!» Graffin lo squadrò altezzosamente, arricciando il lungo naso. «Caro signore» disse «sono i nervi. È un guaio, sapete, ma i miei nervi...» Barcollò e si lasciò cadere sullo sgabello del pianoforte. Talbot si volse a Bencolin come per dirgli, con uno sguardo disperato: "Quest'uomo mente, ma che diavolo posso farci?". In quel momento, pensai che ci fosse qualcosa di buono nel vecchio e famigerato terzo grado. Intanto, però, vidi attraverso la porta che Bencolin aveva spento la candela con un soffio e l'aveva appoggiata distrattamente sulla ringhiera della scala. Nel frattempo, Graffin si era finalmente accorto della presenza di Sir John nella penombra e si stava inumidendo le labbra come per ricominciare a parlare, quando la porta delle camere da letto si aprì e comparve Joyet. Il segretario tornò a sbarrare gli occhi anche peggio di prima. «Salve! Ehm... siete ritornato, Joyet? Io... ehm... proprio non me lo aspettavo. Credevo che vi trovaste a Parigi.» Joyet si avventurò a rispondergli in inglese: «Io ho ritornato» dichiarò con tono di sfida. «Sorpreso voi siete, eh?» «Ditemi, monsieur Graffin» intervenne Bencolin, prendendo la cartella dal ripiano del tavolo «che voi sappiate, qualcuno aveva l'abitudine di usare quella scala?» Il segretario aveva le labbra stirate sui denti come in un ringhio. Emise un singhiozzo che lo squassò in tutto il corpo. «State pensando ai ricordini di cui ci ha tempestati Jack Ketch, eh?» domandò, quindi i suoi occhi da gufo ammiccarono in direzione di Joyet. «Proprio non saprei. Forse, però, potrà dirvelo lui. Aveva la curiosa abitudine di rinchiudermi a chiave nella
mia stanza, la notte.» «Figlio di una cagna!» schiamazzò Joyet, il cui faccione aveva assunto il colore della lava incandescente. «Figlio di una cagna! Io chiudo lui nella camera perché si ubriaca come porco e combina guai e non è possibile tenerlo a bada. Si ubriaca come porco...» «Davvero?» mormorò Graffin, strascicando ostentatamente ogni sillaba. «Però! Bene, non desidero contraddire la parola dì un servitore...» «Figlio di una cagna!» tornò a urlare Joyet. «Io faccio nero tuo muso schifoso, diavolo!» «Calma!» disse Bencolin, afferrando il braccio di Joyet; poi indirizzò alcune rapide parole in francese al cameriere che rimase fermo, irradiando collera e spolverandosi le maniche del cappotto con energia furibonda. Da sotto i baffoni arricciati, rombarono brontolii omicidi. «Che... che volgarità!» commentò Graffin con un singhiozzo. I suoi occhi vagarono all'intorno e finirono per fissarsi su un angolo della mensola del caminetto. «Però posso dirvi che di notte ho sentito delle voci provenienti da qui...» «Voci?» «Già, voci» ripeté il segretario, annuendo. «E adesso, signori, non ho altro da aggiungere.» Ci voltò le spalle con dignità e si rifiutò di ascoltare più oltre; anzi, si mise a suonare al piano una selezione di brani dell'Aida. L'agilità delle sue dita era stupefacente, e il tocco davvero meraviglioso. Quando Talbot cercò di farlo smettere, dichiarò che il capo della squadriglia era lui e non avrebbe tollerato insubordinazioni nelle armate d'Egitto. Dopo un po' lo lasciammo stare e ce ne andammo, mentre il tuonare maestoso della marcia trionfante ci seguiva nel corridoio. «Niente da fare» brontolò Talbot. «Questo è un manicomio.» Lanciò uno sguardo alle nostre spalle, verso la soglia da cui proveniva una luce verdastra, e aggiunse: «Non mi pare proprio che abbiamo appreso un solo particolare che possa fornirci un indizio. A meno di arrestare quell'uomo e sottoporlo a un interrogatorio in piena regola, non vedo in che modo si possa arrivare alla verità. Sarò costretto a farlo, temo... Ma voi, signore, cosa stavate facendo per le scale? Avete trovato nulla?» Bencolin esitò. «Sì» disse dopo una breve pausa. «Sì, ho trovato un certo oggetto. Non lo stavo cercando ma l'ho trovato... e spiega moltissime cose. Vi suggerirei un piccolo colloquio con mademoiselle Laverne, ispettore.» Si tolse una mano dalla tasca, la tese aperta verso Talbot e i suoi occhi si
alzarono lentamente fino a incontrare quelli dell'ispettore. Nel silenzio, sentimmo la marcia trionfante approdare alla sua conclusione in un turbine di note marziali. «Vedo» disse Talbot con voce cupa. La luce era davvero scarsa, ma sul palmo di Bencolin brillava un cerchio d'argento e di turchesi: un braccialetto da donna. L'ispettore aprì il grande fazzoletto rosso dove aveva riposto i trofei raccolti nel cassetto della scrivania e vi aggiunse il braccialetto. Ci dirigemmo all'ascensore senza parlare, scossi da pensieri sinistri. 11 Una luce per le scale Un resoconto di quanto avvenne nel resto di quella mattinata e nel primo pomeriggio sarebbe estremamente noioso. Riguardando le mie annotazioni, vedo che non venne in luce nulla che avesse la minima importanza per lo svolgimento delle indagini seguenti. All'una e mezzo venne tenuta l'inchiesta sulla morte dell'autista; ma, come accade spesso con le inchieste, anche questa non comportò alcuna rivelazione e si limitò a concludere che Richard Smail aveva trovato la morte per mano di persona o persone sconosciute. L'unica sorpresa fu il modo ammirevole in cui la stampa collaborò con Talbot. Non apparve il minimo titolo sensazionale; venne pubblicato solo un resoconto dei fatti nudo e assai disadorno. Un certo Nezam El Moulk era scomparso e il suo autista era morto. Nessun cenno a quanto era successo in seguito. Come l'ispettore aveva suggerito, alla notizia non venne concesso neanche uno spazio in prima pagina. Io mi dissi che un comportamento del genere avrebbe fatto venire l'infarto a qualsiasi cronista americano; ma in Inghilterra, Scotland Yard è una potenza. Dopo l'inchiesta, Talbot fu chiamato a rapporto dal sovrintendente Mason, e al colloquio assistette anche Bencolin. Sapevo che l'ispettore desiderava lavorare in proprio, almeno per il momento, senza richiedere l'assistenza degli specialisti dello Yard; comunque, accettava di venir affiancato da Bencolin in una sorta di collaborazione ufficiosa. Il famoso investigatore parigino era però altrettanto noto nel grigio edificio sul molo di Westminster quanto lo era negli uffici del Quai des Orfèvres, per cui Talbot non si aspettava alcuna opposizione. Fermo nella sua teoria a proposito delle strade perdute, aveva già incaricato della ricerca l'ufficio Mappe del catasto, che faceva capo alla Cancel-
leria di Sua Maestà, al British Museum e alla Biblioteca del Parlamento. Londra sarebbe stata senza dubbio investigata palmo a palmo. Talbot aveva anche parlato col dottor Pilgrim dell'argomento; e benché il medico fosse rimasto dubbioso, tuttavia aveva offerto il suo aiuto. Alle tre in punto, dunque, Talbot e Bencolin si diressero a Scotland Yard, seguiti a breve distanza da Sir John. Io e Pilgrim venimmo lasciati a chiacchierare seduti a uno dei bassi tavolini rossi del bar. Era un posticino confortevole, con comode poltrone di felpa scarlatta, illuminazione indiretta e tende tirate per nasconderci l'addensarsi della nebbia. Avevamo le nostre pipe e una bottiglia di vino, perché il Brimstone Club non rispettava mai l'orario di chiusura per la vendita di bevande alcoliche. Siccome Talbot aveva raccontato a Pilgrim una gran parte della storia, io gli riferii tutti gli ulteriori particolari che mi permetteva la discrezione. Lui mi ascoltava attento, con la faccia butterata tesa dalla concentrazione e gli occhi pensosamente fissi al fornello della pipa. Alla fine, però, scosse il capo. «Io non sono un investigatore di professione, naturalmente» osservò «benché creda che uno storico dedito a ricostruire gli eventi del passato debba possedere doti investigative piuttosto ben sviluppate. Noi storici diamo la caccia agl'indizi più nebulosi frugando in centinaia di biblioteche e appigliandoci ai minimi accenni; mettiamo insieme i frammenti più svariati e valutiamo testimonianze, allo scopo di risolvere enigmi dimenticati o dar la caccia ad assassini morti da secoli e secoli. I delitti di Jack lo Squartatore, ve lo assicuro, non richiedono nemmeno la metà della fatica che ci vuole a indagare i crimini dei Borgia.» Aveva la fronte prodigiosamente aggrottata e le labbra strette in una smorfia. Scosse di nuovo la testa. «Tuttavia, sono costretto ad ammettere che la teoria dell'ispettore Talbot non mi sembra affatto valida... Via della Rovina, uhm! Già, Via della Rovina... No, non credo che la troverò sulle mappe...» Alzò lo sguardo. «Però potrei forse esservi di aiuto in altro modo. Avete qualcosa di speciale da fare in questo momento, signor Marie?» «Ma no! Ho un appuntamento per il tè, più tardi...» «Allora non vorreste fare un salto con me nel mio ufficio medico? Come sapete, non esercito molto la mia professione, però là almeno posso studiare in pace. Si trova a St. James's Street, appena girato l'angolo.» «Con piacere. Ci tenete le vostre mappe?» Lui restò in silenzio per un momento, aprì la borsa del tabacco e mi contemplò da sotto le sopracciglia cespugliose. «Sì, le tengo lì; ma non mi ri-
ferivo a quelle. A voi investigatori di mestiere piace... ispezionare il terreno, se mi passate l'espressione, no? Ebbene, la finestra della mia stanza sul retro dà sul vicolo che corre alle spalle del Brimstone Club. E da quella finestra posso guardare dritto nelle finestre dell'appartamento di El Moulk, dall'altra parte del vicolo...» Io mi raddrizzai con un sussulto. «Badate, non dico che ciò significhi molto» ammonì Pilgrim, alzando una mano. «Fino ad ora non sapevo neppure che fossero quelle le stanze di El Moulk. Quando però ho sentito tutta la storia, mi sono ricordato di una cosa... Andiamo, allora?» Prendemmo dal guardaroba cappelli e cappotti e scendemmo i gradini che portavano al Pall Mall. Pilgrim era una figura voluminosa e imponente col cappello floscio e un curioso mantello a pieghe, e mi camminava accanto a lunghi passi. Pareva vibrare di energia nervosa e, avanzando, masticava il cannello della pipa e dardeggiava occhiate a destra e a sinistra. Faceva un freddo terribile. I lampioni lungo la strada proiettavano nella nebbia chiazze di luce irregolari e velate, i marciapiedi erano scivolosi per il ghiaccio, il traffico era ridotto a un caos e i clacson delle automobili urlavano in coro creando una cacofonia infernale. All'illuminazione incerta di St. James's Street, una folla di figure fantomatiche ci si serrava intorno. La sagoma della mascella di Pilgrim, il fornello della sua pipa e la tesa del suo cappello erano protesi in avanti come il naso di un segugio che scelga la pista a fiuto; e i suoi passi da gigante lo avevano fatto arrivare parecchio prima di me. Ci fermammo davanti a un edificio dall'aria tranquilla, somigliante a un club. Salimmo una lunga scala dai pianerottoli fiocamente illuminati, fino al quarto piano. «Questo è il mio ufficio professionale» disse Pilgrim con ironia, indicandomi una porta dai vetri smerigliati. Attraversammo inciampando un paio di stanze buie ed entrammo in una terza dove il mio compagno accese la luce e chiuse la porta. Era un ambiente spoglio, tappezzato in marrone e arredato con scaffalature dozzinali che ospitavano file di bottiglie vecchissime, attrezzi chimici e un assortimento sbalorditivo di libri e di mappe. La scrivania, sulla quale stava una lampada schermata da un lato solo, somigliava al tavolo da disegno di un architetto ed era posta proprio sotto il davanzale della finestra. Sopra c'era una gran quantità di matite, penne, squadre, righe e boccette d'inchiostro colorati. «Ehm...» brontolò Pilgrim, svuotando la cenere della pipa contro il tappo
di una boccetta d'inchiostro. «Ecco la mia stanza da lavoro... Gradite qualcosa da bere?» Ci accomodammo e lui tirò da parte le tendine della finestra. «Adesso, signor Marie, io spegnerò la luce. Se la nebbia non è troppo densa, potrete vedere la stessa cosa che ho visto io. Pronto?» La stanza precipitò nel buio. Fuori si addensavano sui vetri folate di nebbia, però io riuscivo a vedere con sufficiente chiarezza le finestre dell'edificio di fronte... specialmente le tre finestre sbarrate dello studio di El Moulk. Erano proprio davanti a noi, a distanza di soli sei metri. Due avevano le tende chiuse e mostravano solo poche fessure da cui sfuggiva una luce verdastra; ma la terza, quella alla mia sinistra, aveva i vetri scoperti. Nella luce verde distinguevo la sagoma dorata del sarcofago, con sopra una sezione delle armi appese alla parete. «Spesso lavoro qui tutta la notte» riprese Pilgrim «e di solito tengo le tende chiuse. Ma una certa notte... cinque giorni fa, per l'esattezza... mi stavo preparando ad andarmene e avevo già spento la luce quando mi è venuta l'idea di aprire la finestra per arieggiare un poco la stanza.» "La nebbia era troppo fitta perché si potesse distinguere qualche figura nell'edificio di fronte; tuttavia, di tanto in tanto, la cortina di nebbia si apriva in squarci improvvisi che consentivano una visibilità perfetta. Ho parlato di notte, ma in realtà era l'una del mattino: avevo appena sentito suonare il Big Ben. Nell'appartamento di fronte, non si vedeva nessuna luce. Io mi affacciai al davanzale, e fu allora che sentii qualcuno camminare di sotto, nel vicolo." Pilgrim era proprio un fumatore inveterato: accese per l'ennesima volta la pipa. Ne succhiò forte il cannello, e intanto la luce del fiammifero cadeva sulle rughe e sui crateri della sua faccia squadrata. Le sue palpebre si alzarono un istante e i suoi occhi verdi mi lanciarono uno sguardo indagatore; ma subito tornarono a velarsi e il fiammifero si spense. «Era troppo buio per distinguere una figura laggiù, ma il rumore dei passi continuò fino a raggiungere la porta secondaria sul vicolo. Sentii una chiave girare nella serratura; la porta si aprì e si richiuse. Voi mi avete detto che le finestre disposte l'una sull'altra, a fianco di quelle dello studio, illuminano i pianerottoli di una scala privata. Ebbene, io vidi la luce di una candela accendersi di colpo e salire da una finestra all'altra, sparendo subito dopo che la persona svoltava l'angolo di ciascun pianerottolo. Curioso che si fosse aperta nella nebbia una fenditura tale da darmi una visuale chiarissima dell'altro edificio. Una volta vidi arrestarsi la fiammella della
candela, e per un istante credetti di scorgere un'ombra così alta e sottile da farmi venire i brividi...» "Proprio in quel momento, un'altra luce attirò la mia attenzione: quella della lampada verde nella stanza di fronte. Forse le tende erano state chiuse troppo bene perché potessi vederla prima, o forse l'avevano accesa appena in quel momento; comunque, le tende di una finestra vennero scostate e io vidi la sagoma di un uomo che pareva stesse sbirciando fuori. La scorsi solo per un istante: un'ombra contro la luce verde. La tenda ricadde e intanto la candela continuava a salire su per la scala. C'era qualcosa di così sinistro in quelle figure silenziose e nei colori di quelle luci tremolanti che... debbo dirvelo chiaro e tondo, signor Marie: ne ero troppo affascinato per muovermi. Avevo l'impressione di assistere a una fantomatica danza di marionette. Sapete..." Vidi il suo profilo accigliato stagliarsi contro il grigio della finestra mentre lui si protendeva a battermi un colpetto sul braccio. «Sapete, per me c'è sempre stato qualcosa d'indicibilmente spaventoso nel teatrino di Punch e Judy, dove i bambini stanno lì seduti a ridere mentre Punch uccide un sacco di gente a bastonate... tra le vocette stridule dei burattini e il bang del bastone sulle loro teste di legno... finché alla fine Punch non viene condotto via da Jack Ketch. È sciocco da parte mia, ma tante volte mi è capitato di pensare a quale oscuro e orribile mondo fosse contenuto nello scatolone di un teatrino di Punch e Judy...» Rise piano. «Perfino le facce di quei pupazzi assassini sono orrende... Ma lasciamo andare! Avevo finito per battezzare lo spettacolo nella casa di fronte il mio piccolo teatro di burattini, e mi chiedevo quale laida commedia si stesse recitando là davanti. Me ne son dovuto strappare a viva forza; ho riso delle mie fantasticherie e ho tenuto le tende risolutamente chiuse... fino a ieri pomeriggio.» Finché non mi azzardai a parlare, non mi ero reso conto di quanto fosse malferma la mia stessa voce. «Volete dire... il pomeriggio prima del delitto?» chiesi. «Esatto. Ero ritornato qui verso le cinque e stavo pensando tra me: "Le mie marionette non compaiono se non di sera; quindi adesso posso azzardare un'occhiata".» "L'aria non era del tutto limpida, se ve ne ricordate, ma la distanza tra qui e la casa di fronte è molto poca. Guardate, ecco quello che ho visto! La medesima finestra illuminata che vediamo ora; il sarcofago e le armi appese alla parete... la nebbia le velava e le rendeva confuse, ma le ho viste.
Stavo per voltarmi quando ho osservato una mano". «Una mano?» «Sì. Era piccola... una mano femminile, mi è parsa, ma non posso esserne sicuro a causa della nebbia. Per un istante ho creduto che i miei occhi mi stessero ingannando. La mano era sospesa proprio sulla cima del sarcofago ed appariva fantomatica come quelle altre figure, nella luce verde. Mi è sembrata disincarnata finché non ho capito che il suo proprietario doveva essere in piedi su una sedia proprio all'angolo nascosto da un lembo dei drappeggi della tenda. Per un po' è rimasta ferma, come esitante, con le dita protese verso la collezione di armi appesa sulla parete. Poi ha afferrato...» «Una spada molto corta e a lama larga, dall'impugnatura ricurva.» Il dottore ebbe un sussulto talmente lieve che il fornello acceso della sua pipa vibrò appena. Non potevo veder bene la sua faccia, ma compresi che mi stava scrutando con sospetto. Dopo una pausa, sentii la sua voce chiedermi con calma: «Come fate a saperlo?» «Ho visto il profilo di quell'arma sulla polvere della parete dov'era appesa. Nulla di misterioso, come vedete.» «Be', mi avete fatto prendere uno scossone» confessò Pilgrim con un risolino asciutto. «Sembrava una dì quelle deduzioni inaudite che si trovano sui libri... non che io legga roba del genere, comunque. Sì, signor Marie, avete ragione: era una spada corta o un pugnale lungo, benché a questa distanza io non abbia notato se l'impugnatura fosse ricurva o no. Appena la mano ebbe staccato l'arma dal muro, il suo proprietario parve accorgersi che la tenda era aperta. Così la vidi ricadere di nuovo... Fine del mio spettacolo di burattini! Non credo di aver voglia di vedere quel tipo di marionette ballare ancora per me... Cosa ne pensate di ciò che vi ho detto?» «Ascoltate, dottore: avreste dovuto sul serio parlarne con Talbot. La cosa può avere un'importanza enorme.» Adesso il fornello della pipa brillava e si oscurava con la massima regolarità. «Ma caro signore, lo farò senz'altro. Ho capito la portata di quanto avevo veduto solo poco fa, quando voi mi avete raccontato l'intera storia... Non sapevo nemmeno che quelle fossero le stanze di El Moulk, figuratevi.» Si strinse nelle spalle. «E poi, poteva essersi trattato di una specie di allucinazione da parte mia. Non sarebbe la prima volta che mi capita. Perciò ho esitato. Inoltre, vedete...» Fece scattare ancora l'interruttore. Quando la stanza squallida e polverosa fu di nuovo illuminata, mi sentii più tranquillo. Pilgrim si lasciò cadere su una poltrona zoppa che stava davanti alla
scrivania, ne agganciò col piede un'altra poco lontano e mi fece cenno di accomodarmi. Semisdraiato contro lo schienale, con il bavero della cappa ancora sollevato e la pipa afferrata con fermezza tra i denti forti, fissò accigliato gli oggetti sparpagliati in disordine sul suo tavolo da lavoro. «Vedete, signor Marie, io non sono uno di quegl'investigatori come voi, che si aggirano dappertutto scoprendo gemelli da polso e altri oggetti nelle mani dei cadaveri. Però mi lusingo di aver condotto alcune investigazioni abbastanza acute su indizi vecchi di centinaia d'anni, come vi ho già detto. Prendete per esempio il caso di William Rufus, il re assassinato nella New Forest: un caso con tutte le caratteristiche di un giallo moderno. Un uomo circondato da centinaia di nemici, una partita di caccia i cui partecipanti erano tutti sbronzi, un bosco leggendario colmo di fuochi fatui la notte e infine quel colosso dalla barba rossa che giace tra i cespugli, all'alba, con il petto trapassato da una freccia. Chi lo ha ucciso? Come vedete, il caso ha davvero tutte le caratteristiche di un giallo moderno, solo che si è verificato nel dodicesimo secolo. E son quasi certo, signor Marie, che potrei dirvi il nome dell'assassino. Poi... chi fu, realmente, a far saltare in aria Kirk o'Field la notte che tagliarono la gola al povero Darnley? Qual era il nome autentico del cupo gentiluomo dalla maschera di ferro... che tra l'altro non era affatto di ferro? Son questi i casi di cui mi appassiono. Qui, nella mia piccola Scotland Yard personale, posso perseguire i criminali al di là della tomba ed estradare gli assassini dalle felici contrade dell'inferno.» Alzò un sopracciglio irsuto e la sua brutta e simpatica faccia quadrata s'illuminò in un sorriso, ma lui rimase con la testa china sul petto. «Questa» continuò «non è che la noiosa prefazione a certe mie teorie che senza dubbio sono del tutto prive di fondamento. Eppure...» Aggrottò la fronte e mollò un calcio al bordo della scrivania. «Eppure, signor Marie... supponete che El Moulk non sia morto.» «Come dite?» «Dico: "Supponete che El Moulk non sia morto"» ripeté il dottore, rizzandosi a sedere con un soprassalto di energia. «Supponete, in breve, che tutto l'affare non sia altro che una sinistra e complicata sceneggiata messa su da El Moulk in persona.» «L'idea mi pare alquanto stravagante.» «E lo è, senza dubbio. Ma statemi a sentire» continuò Pilgrim con foga. «C'è qualcosa di straordinariamente bizzarro nell'intera faccenda. Secondo quanto sappiamo, El Moulk viaggia su un'automobile blindata, mette sbarre alle sue finestre e serrature di sicurezza alle sue porte, e per di più non
lascia entrare nessuno nel proprio appartamento. Ebbene, che protezione gli offre tutto questo? In apparenza, il fantomatico Jack Ketch è capace di passeggiare per le stanze del suo nemico quando e come gli garba, di lasciare ricordini e di andarsene senza essere intralciato da nessun catenaccio e senza esser visto da nessuno dei domestici. I quali, inoltre, non gli danno più importanza di quanta ne accorderebbero al postino. El Moulk, da parte sua, dedica una cura particolare a farsi vedere da qualcuno ogni volta che riceve un pacchetto minaccioso e di conseguenza si fa venire un attacco isterico dalla paura... Sono nel giusto fin qui?» «Certo.» «Secondo punto. La scala privata nel retro, con la sua porta chiusa a chiave, a detta di tutti non viene mai usata; eppure ha maledettamente l'aria di un pubblico passaggio. Se non altro, qualcuno ha l'abitudine di adoperarla per fare delle visite all'una del mattino... e apre la porta con la sua chiave, non ve ne dimenticate. Mentre il visitatore notturno sale, qualcuno veglia nell'appartamento, l'ho visto io; ed è ovvio che fa entrare l'ospite...» «Un momento! Questa può non essere la conclusione giusta.» «Be', io vi posso assicurare di aver sorvegliato il vicolo per un'ora dopo che il visitatore era entrato e che non l'ho più visto uscire. A meno che non si fosse accampato fuori della porta dell'appartamento, qualcuno doveva essere d'accordo con lui e averlo fatto entrare. Per me il significato della sceneggiata è il seguente: l'ospite ha l'aria di essere l'occupante di quelle stanze, e qualcuno lassù era alzato e lo stava aspettando. E se si fosse trattato proprio di El Moulk che rincasava tardi? Voi mi avete detto che questo pomeriggio, quando Graffin era con voi e il signor Bencolin è entrato dalla porta della scala con una candela accesa, il segretario lo ha scambiato per qualcun altro e gli ha urlato: "Tornate indietro, idiota" o qualcosa del genere. Questo non puzza fortemente di collusione tra gli ospiti di quell'appartamento? Se invece supponiamo che sia stato El Moulk a inscenare da sé il proprio falso assassinio, non si spiegherebbero tutte le contraddizioni?» La memoria del dottore era stupefacente. Pareva ricordasse i minimi particolari di ciò che gli avevo raccontato, e le sue deduzioni si collegavano l'una all'altra in modo diabolicamente plausibile. «Si spiegherebbero, sì, ma resterebbe oscuro il perché qualcuno abbia voluto inscenare uno scherzo così terrificante» obiettai. «Se vi ho ben capito, voi supponete che la "persecuzione" si sia svolta con la complicità di El Moulk; che non esista alcun nemico segreto, nessun Jack Ketch e nessuna
Via della Rovina. Dovremmo pensare, per giunta, che El Moulk abbia ucciso di sua mano l'autista, usando un'arma della propria collezione, e che in questo momento si tenga nascosto da qualche parte. In una parola, l'intero caso sarebbe una sola grande trama di bugie dal principio alla fine. Santo cielo!» esclamai. «Lasciatemi riprendere fiato!» Pilgrim aveva gli occhi scintillanti di eccitazione, benché si sforzasse di rimanere calmo e imparziale. Si versò un dito di brandy e lo rigirò nel bicchiere, riflettendo su quello che avevo detto. «Si nasconde davvero» approvò, annuendo con vigore. «E si nasconde in un posto vicino al suo appartamento... forse nel suo stesso appartamento.» «Questo non è possibile. Lo abbiamo frugato.» «E va bene... un momento! Cosa mi dite delle altre suite nel retro del club? Ce ne sono tre corrispondenti, una sull'altra per ciascun piano, e ognuna dovrebbe comunicare con quella scala privata. Sono pronto a scommettere con voi cinque sterline che almeno uno di quegli appartamenti è vuoto...» «Ce ne sono due vuoti, quanto a questo. Sir John occupa quello al pianterreno. Ma la suite sotto quella di El Moulk non è occupata...» «Ah! Adesso vedete l'utilità di quella scala privata, non è vero? El Moulk ha un nascondiglio proprio sotto le sue stanze, e un mezzo dì comunicazione con l'esterno libero da ogni sorveglianza. Ciò spiega come gli oggetti dell'autista morto siano potuti arrivare nel cassetto della scrivania; spiega perché Graffin sia rimasto costernato quando ha creduto che El Moulk fosse uscito imprudentemente dal suo rifugio; e spiega infine cosa dev'esser stato a terrorizzare lo sguattero. A forza di rimuginare tra i suoi papiri, El Moulk dev'essersi fissata nel cervello qualche folle idea a proposito di patiboli e di vendette; e questo è il risultato.» Io fissavo la tenda marrone stinta che pendeva davanti alla finestra, e intanto Pilgrim mi spiava con attenzione da sopra il bordo del bicchiere. Non c'era dubbio: la sua teoria si accordava con tutti i particolari in nostro possesso, ed era così sbalorditiva e perfetta che quasi quasi mi trovavo costretto a crederla vera. Eppure, me lo impediva un'istintiva convinzione che fosse invece sbagliata... «La vostra ricostruzione del caso è ingegnosa, dottore, dannatamente ingegnosa» dichiarai. «Eppure... vedete, conferisce un significato a tutte le varie parti dell'enigma ma rende completamente insensato il loro insieme. Avete spiegato i fatti dimostrando che l'autentico El Moulk dev'essere per forza mille volte più pazzo del mitico Jack Ketch. Avete fornito motivi e-
stremamente plausibili per una condotta follemente incredibile... Perché mai El Moulk avrebbe dovuto fare tutte queste stravaganze? Posso ammettere che Jack Ketch abbia ucciso l'autista per poter mettere le grinfie su El Moulk; ma non riesco a credere che El Moulk abbia ucciso l'autista solo per fare uno scherzo.» Pilgrim scoppiò a ridere. «Suvvia, signor Marie! Io non pretendo di spiegare tutto: mi son limitato a suggerire una linea di pensiero. Tuttavia, badate a ciò che dico: dev'esserci un'ottima ragione per la condotta di El Moulk... una ragione davvero fondata per questa sua apparente follia. Non potete biasimarmi se non sono riuscito a offrirvi una sua confessione firmata nel corso di un solo pomeriggio... Ma ditemi, il mio ragionamento vi è sembrato plausibile?» Mi alzai. «Tanto plausibile, dottore, che se avete qui un telefono voglio chiamare immediatamente Talbot a Scotland Yard per consigliargli di far ispezionare subito quegli appartamenti vacanti.» Pilgrim aprì la porta del suo gabinetto di consultazione, accese la luce e m'indicò il telefono. Era un ambientino spoglio, quasi monastico, con una lampada da lettura dal paralume verde su una scrivania a saracinesca, e odorava di medicinali. Mi sedetti davanti al telefono, che stava sulla scrivania. Senza dubbio, Talbot doveva trovarsi ancora col sovrintendente. Il centralino, cortesemente e immediatamente, mi passò una filza di abbonati che non c'entravano affatto con la mia richiesta; ma io ero abituato a sbrogliarmela coi centralini di Parigi, che non si degnavano nemmeno di rispondere, e non mi persi d'animo. Mentre stavo discutendo con un cortese capocameriere, il quale aveva l'impressione che volessi riservare un tavolo alla Wilkinson's House per la cena, notai che il dottore aveva chiuso la porta di comunicazione con la sua stanza da lavoro. Lo sentii aggirarsi all'intorno a passi rapidi e, una volta, vidi la sua ombra profilarsi sul vetro smerigliato... Dopo un po', mi passarono finalmente Scotland Yard. Il sovrintendente Mason mi informò che Bencolin e Talbot se n'erano andati proprio allora. Riflettei. I due avevano espresso l'intenzione di andare a far visita a Colette Laverne, e molto probabilmente avrei potuto trovarli là. Impulsivamente chiesi Il numero della casa di Mount Street, e questa volta mi rispose subito una voce armoniosa e giovanile. «Potrei parlare con la signorina Laverne, per favore?» «La signorina Laverne è fuori, in questo momento. Qui parla la cameriera. Volete lasciare qualche messaggio?»
«Ehm... no. Potete dirmi dov'è andata?» Una pausa. La voce chiese come mi chiamassi e infine rispose: «Ma certo, signore. La signorina è andata a Scotland Yard nelle prime ore del pomeriggio, accompagnata da un signore che è venuto a prenderla.» Riappesi il ricevitore. Tornai da Pilgrim, che stava sdraiato sulla sua poltroncina malconcia come se non se ne fosse mai mosso, lo informai di quanto avevo saputo e aggiunsi: «Solo Dio sa dove siano andati adesso, quei due. Ma se verrete al club per l'ora di cena, sono certo che li troveremo là. E se vi capiterà di assistere ad altre rappresentazioni di marionette...» «Figuratevi. Sarò ben lieto di darvi tutto l'aiuto che potrò.» Mi accompagnò alla porta dell'ufficio e io scesi con precauzione le scale semibuie per tornare in St. James's Street. Prima di raggiungere Sharon, sarebbe stato bene fare un salto al Brimstone Club e lasciare un biglietto per Talbot e Bencolin, in caso si facessero vivi. Quello che Colette Laverne poteva aver detto nel corso di un interrogatorio a Scotland Yard si sarebbe magari rivelato davvero interessante, specie se la donna fosse stata interrogata da un tipo esperto nello sventare le sue tattiche evasive. Ma non ci fu bisogno del biglietto. Incontrai i due nell'atrio del club: indossavano cappotti e cappelli e stavano per uscire. «Ebbene, non dovevi andare a un appuntamento con la signorina Grey?» mi chiese Bencolin. «Certo, ma prima ascoltami. Ho notizie importanti... una testimonianza di grande interesse...» «Allora accompagnaci per un tratto di strada e parleremo. Stiamo andando da Colette Laverne per fare quattro chiacchiere con lei.» Lo guardai con sorpresa. «Andate da Colette Laverne? Ma non l'avete vista a Scotland Yard?» L'ispettore Talbot sbarrò gli occhi. Bencolin, che aveva alzato una mano per sollevare il bavero del cappotto, l'abbassò e latrò: «Che diavolo stai dicendo, Jeff?» «Be', non avevate mandato un uomo a prenderla per accompagnarla a Scotland Yard? La sua cameriera mi ha riferito...» «Iddio santo» intonò Talbot con voce sgomenta. Sotto le luci brillanti dell'atrio la sua faccia era diventata livida, e io venni afferrato da un terribile spavento. Di colpo, l'ispettore pestò un piede a terra, furibondo. «Nessuno è stato mandato a prenderla; e comunque non l'avrebbero accompagnata a Scotland Yard, ma a Vine Street. Svelto, signore, quando è
successo il fatto?» «Non lo so. Ho soltanto parlato per telefono con la cameriera e lei ha detto che è stato nel primo pomeriggio...» Talbot allargò le braccia e si volse a Bencolin. «È stato lui» disse. «L'onnipresente Jack Ketch. E pensare che stamattina ho spedito lì uno dei miei uomini per sorvegliare la casa! Cosa ne è stato di lui? Ehi!» Prima che Bencolin potesse rispondere, Victor apparve nel corridoio che portava al salone. «L'ispettore Talbot è desiderato al telefono» annunciò. La faccia deferente di Victor mi si confuse davanti agli occhi. Le atroci possibilità che quelle parole dischiudevano si cristallizzarono in una sola sagoma mostruosa: quella di un patibolo da cui penzolava un capestro. Per un attimo, Talbot fissò nel vuoto davanti a sé e poi si diresse quasi di corsa al telefono, mentre io e Bencolin restavamo immobili sotto i lampadari scintillanti dell'atrio gelido. Pochi minuti dopo, l'ispettore ricomparve. Camminava molto lentamente e alzò gli occhi su di noi con la stessa lentezza.. «"Colette Laverne è stata impiccata alla forca di Via della Rovina"» mormorò. Poi la sua voce si alzò in un urlo furioso: «Chiamate un taxi, immediatamente! Dobbiamo andare subito a Mount Street!» 12 La risata dell'assassino Eravamo in macchina e stavamo risalendo di corsa St. James's Street quando Talbot ricominciò a parlare. «Hanno ricevuto il messaggio a Vine Street meno di cinque minuti fa» spiegò. «Hanno dato subito ordine di rintracciare la chiamata e hanno scoperto che proveniva da una cabina pubblica di Burlington Arcade. Hanno spedito là due uomini, ma io penso che non troveranno niente quando arriveranno sul posto. Però non credo ci siano dubbi sul fatto che...» «Sì, ispettore, si trattava di Jack Ketch. Eppure, come ha fatto a convincerla ad accompagnarlo, visto che la donna era tanto sospettosa? Bah! Elaborare teorie a questo punto non serve a nulla...» Io, intanto, rimuginavo senza posa sulla storia che mi aveva raccontato Pilgrim; ma nell'agitazione di quel nuovo e atroce sviluppo della diabolica faccenda, decisi di tacere finché non ne avessimo appreso il significato. Un'altra persona si era incamminata nella nebbia per essere ingoiata da Via della Rovina... «Ma quello che mi ossessiona in questo momento» riprese Talbot «è il
problema di cosa sia accaduto a Bronson. È uno dei miei uomini più esperti e fidati. Questa mattina l'ho mandato a sorvegliare la casa, con l'ordine di fermare chiunque si presentasse alla porta e farsi dire cosa voleva. Credevo che sarebbe stata una protezione sufficiente per quella donna...» Non aggiunse altro finché il nostro taxi non si arrestò davanti alla casa di Mount Street. Un lampione accanto alla porta emanava una luce fioca attraverso la nebbia, mettendo in risalto la claustrale e imbalsamata dignità dell'edificio: i battenti con le maniglie lucidissime, la breve scalinata, le luci tranquille accese dietro le imposte. Era un posto calmo e sicuro, era... «Per cominciare, cerchiamo subito Bronson» attaccò bruscamente Talbot. Lo stesso pensiero tormentava tutti noi. Ci guardammo intorno. Bencolin si accostò alla scalinata e guardò i gradini che portavano di sotto. Al livello del seminterrato non si scorgevano luci. Sentimmo il fruscio dei suoi passi sulla scala di pietra, e un presentimento di orrore mi soffocò come se tutta la nebbia gelida mi fosse penetrata in gola... «Meglio che scendiate anche voi» disse Bencolin dal fondo. «Sono inciampato nel piede di qualcuno.» Scendemmo a tentoni, mentre un brivido glaciale ci penetrava nelle ossa. Poi fu il mio turno d'inciampare contro il piede di qualcuno... un piede attaccato a una gamba irrigidita, la cui scarpa sembrò allacciarsi alla mia. Attraverso la nebbia e l'oscurità apparve una piccola luce: era l'accendisigari di Bencolin, la cui fiammella si stava muovendo avanti e indietro lungo il pianerottolo di pietra in fondo alle scale. Nella fioca luce, apparve una figura. Era un uomo che giaceva supino, con la testa incassata contro la parete, così che il mento gli premeva sul petto: una posizione orribile, come se avesse il collo spezzato. Appariva giovane, e i suoi capelli rossi erano intrisi di umidità, come pure i suoi vestiti. Una gamba era ripiegata, come se l'uomo stesse cercando di rialzarsi, e le braccia erano rattrappite all'indietro. Vidi tutto questo a poco a poco, mentre Bencolin passava lentamente la luce sul corpo. Indossava un cappotto avana chiaro, il che rendeva anche troppo visibile un buco nero e strinato all'altezza del cuore. Non c'era traccia del cappello. Bencolin cercò di sollevare la testa irrigidita, e allora io notai sul viso del cadavere un'espressione di straordinario sbalordimento. «Gli hanno sparato» mormorò il mio amico. «È morto da parecchie ore.» Un'automobile passò rombando per Mount Street. Il poliziotto aveva continuato a giacere solitario sul quel pianerottolo umido e angusto; l'assassino non aveva fatto altro che premergli l'arma contro il petto e tirare il
grilletto, e lui si era abbattuto all'indietro senza rumore, con quella strana espressione di sorpresa sulla faccia. I suoi capelli, osservai, erano di quel rosso chiaro che comunemente si associa con la giovinezza. Rabbrividii. «Questo è Bronson, suppongo» disse Bencolin. Proteso in avanti e piegato sulle ginocchia, Talbot era rimasto immoto a fissare il poliziotto caduto. Si riscosse, si alzò e annuì. «Povero diavolo» si limitò a commentare. Si volse e risalì la scala fino al livello stradale, a passi pesanti. Quasi subito lo sentimmo suonare rabbiosamente il campanello. La porta venne aperta da una ragazza bruna, impeccabile e molto graziosa, con il grembiule e la crestina di cameriera. Aveva occhi di un viola profondo e le labbra socchiuse in un lieve sorriso interrogativo. L'ispettore non stette a perder tempo. «Sono l'ispettore Talbot di Vine Street» attaccò. «Sul pianerottolo della scala che scende nel seminterrato c'è un cadavere. Scendete a vedere se siete in grado di riconoscerlo.» Per un secondo, lei rimase a guardarlo ad occhi spalancati... «Scendete, ho detto!» latrò Talbot. La ragazza gridò quando vide il corpo, gridò e cercò di risalire di corsa su per le scale, ma Talbot la tenne ferma stringendola per un braccio. «Lasciatemi andare!» singhiozzò lei nell'oscurità. «Non posso, non posso...» «Lo conoscete? Lo avete mai visto prima?» «No!» Risalimmo ed entrammo in casa. Dal momento in cui varcammo la soglia, ci trovammo di colpo in Francia. Ogni linea dell'atrio, ogni particolare indicava che ci trovavamo nella dimora di una francese; il lampadario di cristallo che diffondeva una luce tenue, gli specchi, le pareti a pannelli chiari... perfino l'odore, un curioso miscuglio di cera per pavimenti, caffè stantio e finestre aperte troppo di rado. La cameriera fece qualche passo indietro, rabbrividì e si premette una mano sugli occhi. «Dov'è il telefono?» domandò Talbot. «Nel retro... nel retro dell'anticamera, signore. Vi faccio strada.» «Lo troverò da me. Accompagnate questi signori da qualche parte; desideriamo parlarvi.» La ragazza c'introdusse in un salotto piuttosto male illuminato, che aveva appesi ai muri i soliti pessimi dipinti a olio ed era ammobiliato in stile Impero con tappezzerie di un rosso sbiadito. Sì, la ragazza era davvero
molto carina: capelli neri e ondulati, occhi non troppo espressivi eppure imploranti, corpicino snello e aggraziato. Talbot l'aveva trattata in modo sciagurato. «Mettetevi comoda» le dissi «sedete» ma lei sussultò e sorrise in modo vagamente inorridito, come se le avessi proposto qualcosa di sconveniente. «Oh, no, signore!» esclamò. «Lasciate che prenda i vostri cappelli.» «Non perdiamo tempo con le formalità» tagliò corto Bencolin. «Come vi chiamate?» «Selden, signore.» «Selden, vogliamo che ci raccontiate tutto quello che è successo oggi.» «Non... non capisco, signore. Cosa dovrei raccontarvi?» «Tutto ciò che ha fatto mademoiselle Laverne.» Adesso la ragazza era perfettamente calma: sembrava una bambola di cera dal sorriso incerto. I suoi occhi vagarono senza fermarsi su di noi; si fissarono sulla mensola del caminetto e, di colpo, si colmarono di brutti presentimenti. I presentimenti parvero acuirsi, e lei lanciò uno sguardo improvvisamente spaurito. «Sì, signore, naturalmente. Io... io avevo la serata Libera, ieri, e questa mattina sono arrivata un po' in ritardo. La signorina Laverne sembrava depressa...» «A che ora siete arrivata?» «Non molto dopo le nove. Mademoiselle mi ha detto che aveva passato la notte con la signorina Grey, nella casa adiacente. Era ritornata qui molto presto e si era vestita assai prima di quanto facesse di solito. Le ho servito la colazione. Lei era... molto turbata.» Le sopracciglia perfette della ragazza si aggrottarono appena, e lei sorrise come per scusarsi. «Sapete per quale ragione fosse turbata?» «Oh, no, signore! Alle dieci e mezzo circa, è venuto un certo dottor Pilgrim ed è salito con mademoiselle al piano di sopra. Hanno parlato insieme per un po'...» S'interruppe; Talbot era entrato nella stanza. La morte di Bronson aveva inferto un brutto colpo al piccolo ispettore, e si vedeva dal suo aspetto. «Continuate» brontolò, scuro in viso. Aveva la bocca contratta in una smorfia amara e le sue rughe si erano approfondite. Si arrestò davanti alla porta, come preparandosi a difenderla da un assalto. «Mademoiselle ha chiesto tutti i giornali del mattino, signore, ed è rimasta di sopra a leggerli. Ha... ha brontolato un po' con me, e aveva un tremendo mal di testa. La sentivo camminare su e giù; piangeva. La cuoca le
ha preparato il pranzo, ma lei non ha voluto nemmeno assaggiarlo... Io... io spero che non le sia accaduto niente di male, signore!» proruppe la ragazza. Poi si controllò e riprese: «Oh, quasi dimenticavo... nelle prime ore del pomeriggio è arrivata una telefonata...» «Da parte di chi?» Lei abbassò gli occhi, con aria imbarazzata, e arrossì. Poi rialzò lo sguardo, si riprese e le sue labbra carnose assunsero un'espressione come di sfida. «Ebbene, signore... colui che chiamava non ha dato il suo nome, ma io l'ho riconosciuto benissimo. Era il signor Nezam El Moulk...» Un silenzio immane, ruggente, pervase la stanza. Talbot tolse lentamente le mani dalle tasche e i suoi occhi assunsero un'espressione perplessa, sbigottita, disperata. Bencolin, che stava in piedi accanto al tavolo e vi faceva scorrere distrattamente sopra le dita, lanciò alla ragazza un'occhiata folgorante e penetrante come uno sparo. «Ne siete davvero sicura?» domandò. Non pareva per nulla sorpreso. «Be', signore, io... io avevo sentito la sua voce parecchie volte prima d'oggi. Io... be', sì che ne sono sicura!» Era chiaro che si preoccupava per la posizione irregolare della sua padrona, e chissà come il suo cervellino era saltato a questa conclusione non appena era comparso l'emissario di Scotland Yard... Scotland Yard che puntava un dito severo e virtuoso contro l'immoralità di Colette Laverne, e magari avrebbe spedito in prigione anche i domestici della donna. Santo cielo, la ragazza doveva essere o incredibilmente ingenua o ipocrita da capo a piedi. «Selden» riprese Bencolin con aria pensosa «per caso avete avuto occasione di scorrere i giornali di oggi?» «No, signore, temo di no.» «Avete parlato con nessuno, a parte la signorina Laverne?» «No, signore. Non ho parlato con nessuno; tranne la cuoca, naturalmente.» Sembrava sempre più spaventata. «Benissimo. Dunque, la signorina Laverne ha parlato con El Moulk. Sapete cosa si sono detti?» «Oh, no, signore! Cioè... ho afferrato qualche parola qua e là. Mademoiselle, sapete, era molto eccitata e parlava a voce talmente alta...» «Capisco. Quali parole avete afferrato?» «Signore, davvero niente che possa interessare la polizia! Mademoiselle ripeteva: "Ma certo, certo che andrò. Andrò con lui, non ti preoccupare!".
È tutto quello che ricordo, signore, ve lo giuro! Poi mademoiselle mi è sembrata ancora più eccitata; aveva le guance tutte rosse e si è perfino messa a cantare. Aveva un'aria talmente soddisfatta... proprio differente da come era prima.» «Continuate.» «Un po' più tardi...» Selden si arrestò per riflettere, i begli occhi viola un po' vacui colmi di sincerità «è arrivato un signore che voleva far visita a mademoiselle. Un certo George Dallings, signore. Lei però non ha voluto riceverlo. È rimasta al piano di sopra e ha gridato cose molto scortesi, signore, se così posso esprimermi.» Le labbra rosee si atteggiarono di nuovo a un'espressione dì sfida. «Capisco. Cos'ha fatto allora il signor Dallings?» «Ma nulla... è rimasto lì nell'atrio, signore. Ha guardato dritto davanti a sé per qualche minuto, con un'aria strana; poi ha detto: "Oh, bene" e si è voltato, si è rimesso il cappello ed è uscito. Dopo di che si è fermato un momento, mi ha guardato con un'espressione ancora più strana e ha chiesto: "Dico, da quanto tempo abitate qui? Con la signorina Laverne, intendo?". Da parecchi mesi, gli ho risposto io, e lui se n'è andato come se non riuscisse a capire, signore.» «E poi?» «Stavo aiutando mademoiselle a vestirsi e lei mi ha detto: "Selden, tra poco arriverà un visitatore per me, un poliziotto di Scotland Yard. Uscirò con lui". Rideva, signore... rideva a gola spiegata! Mi ha detto anche che sarebbe scesa giù personalmente, e se sentivo il campanello della porta non avrei dovuto andare ad aprire: ci avrebbe pensato lei. Proprio in quel momento, però, il campanello ha suonato e io sono andata a rispondere...» Talbot serrò i pugni e si protese involontariamente in avanti. La ragazza era l'unica di noi che in quel momento non provasse una tensione incontenibile; però lei la percepì sui nostri visi ed esitò. «Ebbene?» domandò l'ispettore con voce rauca. «Oh, signore, era solo la signorina Grey, la nostra vicina. Mademoiselle è scesa e io le ho lasciate tutt'e due a chiacchierare qui. Non so altro, signore!» «Non avete più visto la signorina Laverne?» «No, signore! Avevo portato giù il suo mantello e la sciarpa, poi sono scesa nel seminterrato con la cuoca. Non l'ho vista uscire, ma ho sentito chiudersi il portone di strada e ho capito che doveva essersene andata.» «Però avete sentito prima il campanello, vero?»
«Sì, signore. Ma mademoiselle mi aveva detto di non rispondere, come vi ho riferito.» Bencolin era rimasto impassibile e andava tracciando con l'indice disegnini sul ripiano del tavolo. «A che ora lo avete sentito suonare, dunque?» «Non lo so, signore, lo giuro! Alle tre, forse, o alle tre e mezzo; non saprei. Magari potrà dirvelo la cuoca.» «Avete sentito chiudersi la porta di strada» intervenne Talbot. «Per caso non avete sentito anche un rumore simile a uno sparo?» «Uno sparo, signore?» La ragazza stava diventando isterica. Esitò, poi comprese di colpo e, facendo un cenno verso la strada, disse: «Parlate... parlate del povero signore che è morto, vero? No! No, signore. Io però... cioè, noi abbiamo sentito un rumore, a un certo punto, e la cuoca ha detto: "A qualcuno è scoppiata una gomma...".» «Sta bene» disse Talbot. «Adesso andate a chiamare la cuoca. Fatela salire qui.» In quel momento, nella strada risuonò aspro il lamento della sirena di un'auto della polizia. Ci fu un calpestio di passi pesanti sul selciato e poi una lunga scampanellata. «Va' a prendere la signorina Grey» mi ordinò Bencolin. «Accompagnala subito qui.» Quando scesi le scale, diverse figure scure nella nebbia stavano dirigendo in basso i raggi fumosi delle lanterne cieche, verso il pianerottolo del seminterrato. Sentii uno stropiccio di passi sui gradini e qualche imprecazione soffocata. Una voce disse: «Qualcuno vada ad aprire quella porta dall'interno...» Sharon mi spalancò la porta della casa attigua prima che potessi toccare il campanello. Portava un abito azzurro, un colore che le donava molto; ma nei suoi occhi d'ambra c'era un'espressione di paura e io capii che aveva notato la confusione per strada. «Jeff» mi domandò subito «è successo qualcosa, vero?» Le raccontai in fretta quanto era accaduto. Le guance rosee di lei si fecero pallidissime e la vidi aprire e chiudere le mani convulsamente, in atto di sgomento. «Qualcosa» mormorò Sharon «sempre qualcosa!» Il suo aspetto perse l'aura sognante che le aveva conferito la luce del fuoco davanti al quale era stata seduta; il suo profumo, la piega squisita dei capelli parvero di colpo futili, come il tète-à-tète che avevamo concordato. Una spirale di nebbia s'insinuò in quell'ambiente dalle luci discrete, che suggeriva l'intimità di divani soffici e vecchie porcellane preziose. L'umidità gelida dell'a-
ria esterna aveva sciupato quell'atmosfera, come avrebbe potuto sciupare le sfumature delicate di un dipinto su seta. Dalla casa vicina provenne lo scricchiolio di una porta che veniva aperta. Una voce esortò: «State attenti a sollevarlo, ragazzi...» «Sai nulla di questa faccenda?» chiesi. «Ma io l'ho visto! Ho visto l'uomo con il quale lei è uscita!» «E lo hai riconosciuto?» «Come avrei potuto riconoscerlo, secondo te? E poi, non l'ho veduto in faccia. Vieni, su; cerchiamo di farla finita il più presto possibile. Che begli incontri tranquilli abbiamo sempre, noi due?» Ci allontanammo in fretta. Eravamo in procinto di rientrare nel salotto di Colette Laverne quando ne vedemmo schizzar fuori, a passi pesanti e con aria stizzita, una donna dalla faccia rossa e di ampie proporzioni: evidentemente la cuoca. Trovammo Bencolin sprofondato in una poltrona, gli occhi fissi al pomolo del bastone che faceva girare e rigirare tra le mani inguantate di grigio. In piedi accanto al caminetto, Talbot prendeva appunti. La cameriera stava accanto alla porta, in atteggiamento esitante. La grazia elegante e gelida di Sharon dominò subito quella stanza dalle tappezzerie rosse. Il suo volto adesso era diventato del tutto imperscrutabile, e le ciglia nere palpitavano su occhi fattisi di colpo freddi e lontani. Lei si trasformò in un essere impastato di venti limpidi e di luce: non mi vengono in mente altre immagini adatte a descriverla. Prese una sigaretta da un cofanetto d'argento posto su un tavolino cilindrico, l'accese e chiuse il cofanetto con uno scatto. I suoi occhi corsero rapidamente alla figura della Selden, la valutarono in un attimo e, mentre se ne allontanavano, si accesero di un breve, fugace lampo di malizia. Sharon scoppiò in una risata argentina. «Abbiamo l'abitudine d'incontrarci in occasione di delitti, a quanto pare, monsieur» disse a Bencolin. Sharon che si metteva in mostra! La Sharon di ghiaccio, che si burlava di tutto e di tutti! Il mio amico sollevò un sopracciglio mefistofelico con aria pensosa. «Mi par di ricordare» disse «che mademoiselle è un'ospite perfetta, anche per un cadavere. Il signore dinanzi a voi è l'ispettore Talbot. Abbiate la bontà di riferirgli quanto è avvenuto mentre eravate qui durante il pomeriggio.» Lei si lasciò cadere su una sedia. «Non molto, direi. Sono venuta qui verso le tre e mezzo... forse qualche minuto prima. Colette stava giusto scendendo dal piano di sopra. Ci siamo accomodate qui per un po' a chiacchierare. Poi qualcuno è venuto a farle
visita e lei è uscita con quella persona. Tutto qui... Cioè, no! All'arrivo, un giovanotto mi ha fermata sulla porta, si è qualificato per un investigatore di Vine Street e ha voluto sapere per quale ragione venivo in questa casa.» «Siate un tantino più loquace, per favore» le suggerì Bencolin. «Mademoiselle Colette era di buonumore?» «Di buonumore? Diamine! Non l'avevo mai vista con un'aria tanto felice... e questo» precisò Sharon, con un'occhiata di sbieco alla sigaretta «è davvero molto, trattandosi di Colette. Non faceva che accennare a certe misteriose notizie che aveva appena ricevute.» «Vi ha detto di cosa si trattava?» «Oh, no! Io ne ho dedotto che il suo prezioso egiziano fosse sano e salvo, tutto qui.» Si strinse nelle spalle e le sue labbra abbozzarono un piccolo broncio. «Mentre stavamo parlando, qualcuno ha suonato il campanello... no, ho dimenticato una cosa. Proprio un istante prima, abbiamo sentito un rumore: doveva essere lo sparo. Io ho fatto un salto e ho detto: "Pareva proprio un colpo di pistola", ma lei ha ribattuto: "Bah, tesoro, devi avere i nervi in cattivo stato"... Naturalmente, quando era lei ad avere i nervi in cattivo stato tutti dovevano trattarla coi guanti, povera cara. Ricordo l'ora: mancavano venticinque minuti alle quattro.» Esagerando il suo atteggiamento di noncuranza, soffocò uno sbadiglio. «Colette è andata ad aprire e l'ho sentita scambiare qualche parola con una persona, da fuori. Le tende erano tirate, quindi non ho potuto vedere con chi parlasse; e comunque la luce nell'atrio è del tutto insufficiente. Però ho udito Colette ridere. Poi lei si è sporta appena all'indietro e mi ha detto che doveva andare...» "Era sul marciapiede quando sono comparsa sulla soglia, e mi ha gridato di chiudere la porta. C'era un uomo in piedi accanto al lampione, nella nebbia..." Ora Sharon aveva smesso di simulare un pigro distacco, e i suoi occhi avevano acquistato una fissità strana. «Era un uomo alto, con il bavero del cappotto sollevato. Non ero in grado di vederlo bene. In quel momento, stava facendo cenno a un taxi. Ho cominciato a scendere le scale e Colette mi ha salutata con la mano. Rideva a gola spiegata, e all'improvviso anche l'uomo è scoppiato a ridere. Lui... lui rideva ancora quando l'ha presa per un braccio.» "Il taxi si è fermato e Colette ha abbassato gli occhi. C'era un cappello da uomo abbandonato sul marciapiedi..." Mi si presentò alla mente l'immagine di quel cadavere senza cappello
che giaceva irrigidito in fondo al pianerottolo del seminterrato, i capelli di un rosso pallido lucidi di umidità e la macchia nera e strinata sul cappotto chiaro, all'altezza del cuore. Bronson giaceva laggiù, e il suo cappello era rimasto sul marciapiedi mentre Colette Laverne e il suo allegro compagno ridevano a crepapelle aspettando il taxi... L'eco di quella risata satanica serpeggiò negli angoli del salotto silenzioso dove Sharon sedeva con una mano premuta sulla tempia, gli occhi fissi nel vuoto... «Allora» continuò «appena Colette lo ha visto, ha detto qualcosa come: "Oh, guardate! Qualcuno ha gettato qui il suo vecchio cappello!". Al che, l'uomo ha risposto a bassa voce, in francese: "Probabilmente, il suo proprietario non ne ha più bisogno, mademoiselle". Lei ha riso di nuovo, ha dato un calcio al cappello e lo ha fatto ruzzolare nella fogna. Poi i due sono entrati in macchina e sono partiti.» 13 Il braccialetto di turchesi Oltre a tutto il macabro umorismo che pervadeva l'intero caso, ci mancava solo quell'ultima scenetta di una comicità infernale per portare al colmo l'orrore. Era diabolicamente consona al temperamento dell'uomoombra che cercavamo di scoprire, e anche a quello della donna che era stata la sua ultima vittima. L'eco di quella risata macabra rimase nella mia mente molto tempo dopo che Sharon aveva smesso di parlare; vi rimase, anzi, perfino dopo che lei se ne fu andata. Avevamo parlato per molto tempo ancora; erano state avanzate un'infinità di domande nuove, ma la nostra investigazione non era progredita di un passo. «Ci converrà tenere un piccolo consiglio di guerra» aveva detto alfine Bencolin. «Perciò, Jeff, ti consiglierei di metterti d'accordo con la signorina Grey per andare a cena insieme o per qualunque altra cosa vogliate, e poi dimenticarti di lei per almeno un'ora o giù di lì a partire da adesso.» In seguito, l'avevo riaccompagnata a casa, ed ero così turbato e sbigottito che nemmeno Sharon mi sembrava reale. Al mio ritorno avevo trovato in salotto solo Talbot e Bencolin. Il mio amico chiuse le porte scorrevoli che davano nell'atrio e ci indicò un gruppo di poltrone. «Siediti; prendiamo posto tutti e tre» invitò con voce cupa. «È venuta l'ora di chiarire alcuni particolari di questo caso. Dal momento che l'assassino mi ha forzato la mano...»
Le teorie di Pilgrim, che avevo sepolto in fondo alla mia mente, mi tornarono vivide alla memoria. Tutto d'un fiato riferii ai miei compagni ciò che avevo appreso dal dottore, in un fiotto di parole quasi incoerenti, e alfine aggiunsi la sua interpretazione dei fatti. Nel sentirla la prima volta, le avevo dato scarso peso; ma adesso che sapevamo come Colette Laverne avesse ricevuto una telefonata da El Moulk (o da un uomo che la cameriera giurava fosse El Moulk), la terribile plausibilità della storia di Pilgrim emergeva, assumendo i colori spaventevoli della realtà. Bencolin mi ascoltò senza fare un commento; immobile sulla sua poltrona, si faceva schermo agli occhi con una mano. Solo quando menzionai l'arma sulla parete, la corta spada staccata dal suo gancio dalla mano misteriosa, lo vidi scuotersi improvvisamente. «L'arma!» gridò. «Sì, è chiaro... doveva essere qualcosa del genere. Bravo Jeff! Eccellente! La cosa mi era sfuggita. Non che questo faccia alcuna differenza per quanto riguarda lo svolgersi degli eventi, naturalmente.» Qualunque coltello da cucina sarebbe servito altrettanto bene... «E la teoria di Pilgrim?» «Oh, quanto a quella... è magnifica, amico mio, magnifica. Ma non contiene un briciolo di fondamento dal principio alla fine.» Talbot, che era rimasto in piedi, lo guardò con occhi sbarrati. Mentre io parlavo, sul suo viso si era diffusa un'espressione di disagio: era chiaro che lui riteneva la spiegazione del dottore fondata, almeno in buona parte. «Ma sentite, signore» obiettò, incerto «adesso che abbiamo saputo che El Moulk, a quanto pare, è vivo...» Le linee sottili che incorniciavano i baffi e la barbetta a punta di Bencolin si fecero più profonde, e i suoi occhi si restrinsero fino a sembrare due fessure scintillanti sotto le sopracciglia mefistofeliche. Il mio amico batté una manata impaziente sul bracciolo della poltrona. «Ma certo che è vivo! Quando mai io l'ho negato? Non è proprio questo che ho cercato di farvi capire tutto il giorno? Si accorda perfettamente con l'andamento del gioco concepito da Jack Ketch, che deve concludersi con un sacrificio mostruoso: ecco in cosa consiste la sua bella, equilibrata, completa vendetta! El Moulk ha parlato al telefono, verissimo... ha parlato con la pistola di Jack Ketch puntata al cuore e ha trascinato la sua donna in Via della Rovina. Non dimenticate che il boia, ai tempi andati, faceva ben più che limitarsi ad impiccare le sue vittime. Diverse torture molto raffinate precedevano la morte...» Talbot sedette lentamente, calandosi nella poltrona un centimetro alla
volta. Aveva la fronte madida di sudore. «Buon Dio» esalò a voce bassa, come se stesse pregando. «Pensare che si trovano chissà dove in questa città, e noi non abbiamo la minima traccia...» «Sciocchezze!» tagliò corto Bencolin. «Io lo so benissimo dove sono.» «Voi... voi... sapete...» «Ma certo.» «E ve ne state lì a sedere tranquillo, come un dannato manichino...» Talbot si controllò a viva forza e sulla sua fronte pallida le vene si gonfiarono. «Io... io vi chiedo scusa, signore» mormorò, inghiottendo lo scoppio di collera che minacciava di soffocarlo. «Eppure...» Bencolin non batté ciglio. Sedeva, guardando l'ispettore in tralice con quei suoi lunghi occhi scintillanti e imperscrutabili, il gomito sul bracciolo e le dita appoggiate alla fronte. Dalla mensola del camino, il ticchettare di un orologio riccamente ornato evocava lo stillicidio di una fontana... «Ispettore» disse pensosamente Bencolin dopo una lunga pausa «voi nutrivate simpatia per Bronson, vero?» «Noi... noi... gli volevamo tutti bene, signore.» «E quando vi recherete all'Old Bailey a testimoniare contro il suo assassino, volete avere la certezza che costui vada al patibolo... non è così?» «Sì!» «Bene!» Bencolin spostò lievemente il gomito sul bracciolo e si strinse appena nelle spalle. «Non che ciò faccia la benché minima differenza ai miei occhi. Chiamate pure una squadra volante, se preferite, e in un attimo» fece schioccare le dita «vi farò arrivare in Via della Rovina... Ma se lo farete, ispettore, vi garantisco che non prenderete mai Jack Ketch. Peggio: saprete chi è, ma non riuscirete mai a farlo condannare per assassinio. Perché, vedete, lui non ha fatto ancora alcun male alle persone che potrebbero testimoniare contro di lui: ha nuociuto veramente solo a Bronson e all'autista negro. E siccome io non ho qui il mio laboratorio della Sûreté, purtroppo non posso promettervi di farlo condannare per aver ucciso quei due.» Tacque per un istante. «Credo che, per alcune ore ancora, le vite di El Moulk e della donna siano sicure come se fossero già sotto la vostra protezione. Questa notte, come Jack Ketch vi ha detto, ricorre l'anniversario del falso duello di dieci anni fa. Al momento giusto, ma giusto proprio al secondo e non prima, verrà per lui l'ora di serrare il capestro. Su questa mia convinzione io vi chiedo di arrischiare tre vite.»
«Tre vite?» Bencolin sorrise. «Non lo avete ancora capito, eh, Talbot?» chiese ironicamente. «Sì, tre vite. Ci dovrà essere anche un'altra vittima.» Dopo un lungo silenzio, Talbot si sistemò sulla poltrona e tirò fuori il taccuino. «Un minuto fa avete detto che avremmo dovuto chiarire alcuni particolari del caso. Bene... vi ascolto.» «Benissimo» mormorò Bencolin, annuendo. Aggrottò la fronte e guardò davanti a sé. «Non credo di essermi mai imbattuto in un caso nel quale ogni particolare concorresse a formare il disegno centrale con maggiore precisione di questo. I vari particolari, inoltre, non ci hanno mai portati su una falsa strada. Piuttosto, ci venivano presentati alla luce dell'opinione che ogni diversa persona ne aveva; così che, quando si trattava di collocare ogni singolo elemento nell'incastro, tutti cercavano di farci entrare anche le diverse opinioni. Risultato: un incubo.» "Esaminiamo per prima l'ingegnosa teoria di Pilgrim, perché lui si è trovato ad assistere esattamente all'inizio dell'intera faccenda. Ma possiamo demolirla con la massima facilità, se solo consideriamo la sua testimonianza alla luce di tutti gli altri elementi che conosciamo." Tirò fuori un sigaro, ma non lo accese. «In primo luogo, noi sappiamo che El Moulk e Colette Laverne si stavano dedicando insieme a cercar di scoprire l'identità di Jack Ketch. A tale scopo, si sforzavano di estorcere a Dallings certe informazioni di cui lo credevano in possesso. Ciò appariva chiarissimo dalla storia che Dallings in persona ci ha raccontata al principio: il modo sfacciatamente diretto con cui El Moulk lo ha accostato, l'incontro con la donna al locale notturno, l'evidenza della complicità che esisteva tra la Laverne e El Moulk. Naturalmente, proprio per questo gli ho chiesto subito se lei lo aveva interrogato su qualche argomento.» "La notte di lunedì scorso (cinque notti fa, come ricorderete), Dallings si ubriaca e insiste a voler accompagnare la Laverne a casa. Lei gli sfugge, lui si perde nella nebbia e fa qualche giro senza meta, per ritrovarsi infine a Ryder Street. Non avrete dimenticato, spero, che io gli chiesi quanto fossero durate quelle sue peripezie. La sua risposta fu davvero stupefacente, perché lui disse: "Non più di venti minuti". Insomma: era una notte di nebbia fitta, Dallings doveva avanzare a tentoni e lentamente, non aveva la minima idea di dove stesse dirigendosi e oltre tutto girava in tondo per la maggior parte del tempo... In circostanze simili, vi pare possibile credere
che lui abbia percorso tutto il tragitto da questa casa a Ryder Street... un tragitto di parecchi chilometri... in soli venti minuti? Senza contare che, per andare da qui a Ryder Street, avrebbe dovuto per forza attraversare uno dei quartieri più brillantemente illuminati di Londra, e di sicuro si sarebbe imbattuto in una folla di persone... "Tutto ciò significa, ispettore, che Dallings non ha mai accompagnato Colette Laverne fino a questa casa." Bencolin accese il sigaro e tirò qualche boccata in silenzio. «Lo stesso Dallings si è reso conto di questa assurdità quando oggi, per la prima volta, ha appreso che la donna abitava a Mount Street. Ecco perché era così perplesso quando è venuto qui nel pomeriggio; ecco perché ha rivolto alla cameriera quella sciocca domanda: "Ma da quanto tempo abitate qui?". La verità è che lui, senza accorgersene, deve aver fatto scendere Colette dal taxi in un punto molto vicino a Ryder Street, dove alfine è venuto a trovarsi dopo essersi perduto.» "L'ha fatta scendere dalla macchina cinque notti fa, all'una. Ebbene, come abbiamo saputo, proprio cinque notti fa, e sempre all'una, il dottor Pilgrim dalla sua finestra ha sentito qualcuno camminare nel vicolo e aprire la porta secondaria del Brimstone Club con la relativa chiave..." All'improvviso Talbot, batté con violenza il pugno contro il palmo della mano. «Si trattava di Colette Laverne, è naturale» disse Bencolin. «Io ho trovato un suo braccialetto di turchesi lungo quella scala privata, come sapete. Dallings l'aveva avvertita che avrebbe finito per perderlo, e così è stato. La donna si era semplicemente accordata con El Moulk che sarebbe andata a trovarlo per metterlo al corrente dei propri progressi; ed è stato lui a farla entrare. Tuttavia, è chiaro che lei non poteva far sapere a Dallings dove era diretta, o il suo gioco sarebbe andato all'aria. Dallings, come ora potete benissimo capire, non fece altro che camminare dall'angolo di St. James's Street fino a Ryder Street: una distanza di poche centinaia di metri. E se vi rimane ancora qualche dubbio su questo punto, chiamate di nuovo la cameriera e fatevi dire se Colette è ritornata in questa casa la notte di lunedì.» Sapevamo già cosa ci avrebbe risposto la ragazza; tuttavia, facemmo venire Selden e le rivolgemmo la domanda. Lei rispose come previsto. Dopo che si fu congedata, Talbot fece una risatina. «Ragionamento davvero brillante il vostro, signore» ammise. «Io sono stato proprio uno sciocco...»
«Non c'è assolutamente nulla di brillante nel mio ragionamento» dichiarò Bencolin, aggrottando la fronte. «Mi sono limitato a disporre alcuni fatti noti nel loro ordine logico. Non avete mai sentito dire, ispettore, che due più due fa quattro? È un'osservazione comunissima, diamine. Dubito che perfino l'americano Coolidge farebbe molta impressione se la enunciasse in un discorso pubblico, sia pur nel suo stile così capricciosamente umoristico. Tuttavia, proprio qui sta la trappola: noi sappiamo che un due più un altro due fa quattro, eppure non siamo assolutamente capaci di metterli insieme. Appendiamo un due al lampadario e buttiamo l'altro sotto il divano. La difficoltà non risiede nell'addizionarli correttamente, ma nel compiere quella strana, mistica e terribile operazione che consiste nel disporli l'uno accanto all'altro.» «Ma un momento!» intervenni io. «Allora perché la notte scorsa, quando Colette Laverne mi ha raccontato la sua storia, non mi ha detto che Dallings non l'aveva affatto accompagnata qui a Mount Street?» Bencolin ebbe un sorriso ironico. «Devi considerare, Jeff» ribatté «che quella signora ha una mentalità semplice e diretta, del tutto aliena da complicazioni. Non credo le sia nemmeno passato per la testa che un simile particolare avesse la minima importanza... e, tra parentesi, non l'aveva davvero. Per lei non faceva nessuna differenza se passava la notte con El Moulk qui o nella suite di lui al club, e allora perché avrebbe dovuto precisare con te certe distinzioni? No, no. La cosa è importante per noi, come constaterai prima che il caso si concluda, ma non per lei.» «Ma che mi dite della mano che Pilgrim ha visto spiccare il pugnale dalla parete?» domandò Talbot. «Quella è tutta un'altra faccenda. Naturalmente, voi siete saltati alla conclusione che la persona entrata dalla porta privata di El Moulk con una chiave debba esser connessa a quella che ha preso la spada. Ma che basi avevate per fare una congettura simile? Solo le teorie pindariche di Pilgrim, il quale ha immaginato El Moulk intento a mettere in opera uno scherzo complicato e mortale. Ebbene, no! Le visite notturne di Colette Laverne facevano parte del piano di autoprotezione elaborato da El Moulk; mentre la mano che ha tolto la spada dalla collezione faceva parte di un piano elaborato contro di lui...» Bencolin si alzò e fece il giro del salotto. Guardava Talbot, e di colpo ebbe uno scatto. «Ebbene? Non vedete cosa significhi tutto questo? Lasciate da parte le
idee di Pilgrim; ma se ammettete il fatto che Dallings accompagnò davvero Colette Laverne fino al vicolo dietro il Brimstone Club, e che più tardi percorse la breve salita da St. James's Street a Ryder Street, cosa ne consegue? Il particolare veramente significativo è che, durante il camolino brevissimo da St. James's Street a Ryder Street, lui vide quell'ombra della forca! E come voi stesso avete osservato, è troppo pazzesco pensare che un sacco di persone qualunque, in varie parti di Londra, si siedano a baloccarsi con patiboli alle ore piccole del mattino...» «Tutto ciò significa» scandì lentamente Talbot «che abbiamo ristretto le ricerche di Via della Rovina entro uno spazio di poche centinaia di metri quadrati.» Bencolin indirizzò a Talbot un inchino teatrale. «Bravo ispettore! Proprio così. E da questa affermazione possiamo trarre un suggerimento abbastanza evidente... Ma no, no: dovete arrivarci da solo.» Talbot si grattò la nuca con il taccuino e s'immerse in una meditazione profonda, che però non parve procurargli una grossa fatica. «Dannazione!» proruppe alfine. «Ma è chiaro! E voi lo avete sempre saputo?» «Naturalmente.» «E allora perché non dirlo subito chiaro e tondo, signore? Perché mi avete lasciato fare la figura del somaro, a dar la caccia a strade perdute per tutta Londra?» «Perché non volevo mettere in guardia l'assassino» rispose lentamente Bencolin. «Volevo lasciargli credere che eravamo impegnati in una caccia senza speranza per quelle strade smarrite, dappertutto... tranne che nel luogo dove lui ha la sua tana.» «Ma se voi sapete chi è l'assassino...» Bencolin esalò il fumo del sigaro dalle narici in due getti filiformi. Dalla finestra, dove si era fermato a gettare un'occhiata su Mount Street, si voltò verso di noi. «Le uniche prove che possiedo contro di lui» dichiarò, toccandosi la fronte «stanno qui dentro. Ah, se avessi con me il dottor Bayle! Se avessi Sannoy e Disslart e i loro assistenti di laboratorio! Non dovrei far altro che dire: "Messieurs, questa è la verità. Adesso provatela per me". Allora si accenderebbero le luci sui loro microscopi e si metterebbero in funzione le loro provette; dopo pochissimo tempo, i miei gnomi uscirebbero tutti allegri dalla loro caverna e voilà! La mannaia della Vedova Rossa si abbatte-
rebbe sul collo di qualcuno. Ti ricordi, Jeff, di come loro confermarono ogni dichiarazione che ebbi a fare sul caso Saligny? Ma adesso non li ho con me. Perciò debbo snidare il mio assassino in un altro modo. Debbo tendergli una trappola e così, quando cercherà di catturare la terza vittima...» «Questo lo avete già detto. Chi sarebbe la terza vittima?» «Ma il tenente Graffin, naturalmente! Certo lo avevate capito, no?» Talbot balbettò qualcosa e allargò le braccia. «Se la cosa è tanto ovvia come voi sembrate credere» dichiarò in tono piuttosto acido «suppongo che avrei dovuto capirla già da tempo, sì. Invece non mi è mai nemmeno passata per la mente! Scusatemi, ma perché Graffin? Perché proprio Graffin e non un'altra persona?» «Perché Graffin sa chi è Jack Ketch. E inoltre lui... be', forse è meglio che vi spieghi tutto da capo a fondo.» «Prego, non fatevi scrupolo. Ascolto col massimo interesse» disse Talbot con voce mielata, e si asciugò di nuovo il sudore dalla fronte. «Questa mattina, ispettore, vi ho rivolto un certo numero di domande nella speranza che vi mettessero sulla strada giusta. Ci sono parecchi sinistri interrogativi che attendono risposta, a proposito di questo Graffin. Perché mai El Moulk, che fa vita da recluso e non ha né un'occupazione né impegni sociali, impiega un segretario privato? E soprattutto, perché sceglie un tipo come Graffin? L'uomo è un ubriacone, e non solo è inadatto al suo lavoro, ma arriva perfino a vantarsi di trascurare i propri doveri. Non fa che vagare per ogni dove in uno stato quasi di ebbrezza; ride di El Moulk, lo provoca, lo fa stizzire... diamine, spesso lo fa montare in una collera così furiosa che l'egiziano dura fatica per trattenersi dallo strangolarlo. Eppure, a dispetto di tutto ciò, El Moulk non solo tollera qualsiasi insulto, ma in pratica si sforza di tenersi buono Graffin! Ditemi, secondo voi il nostro egiziano brilla forse per il suo sentimentalismo e il suo cuore tenero? No, no, ispettore. Per un simile comportamento c'è una sola spiegazione, e la spiegazione è: ricatto!» Bencolin sferrò un pugno allo schienale della poltrona. «Ricatto, dunque, è assodato: ma di che genere? È chiaro che verte su una faccenda talmente seria che neppure il violento e coriaceo El Moulk, privo di scrupoli com'è, osa protestare... perfino quando viene provocato con insulti tali da spingerlo all'omicidio, in circostanze ordinarie. Quindi viene ricattato per aver commesso un delitto, non si può pensare ad altro. El Moulk non ha una posizione sociale da perdere, non ha una reputazione
che potrebbe venir rovinata da qualche scandaletto di poco conto. Si è reso colpevole di un delitto, ecco la verità, e Graffin ne ha le prove. È ovvio che si tratta di prove legali e tangibili, le quali non richiedono conferme nella parola di un ex ufficiale scacciato dall'esercito e perpetuamente ubriaco. Altrettanto evidente è il fatto che tali prove non si trovino addosso a una persona che quasi sempre è sbronza fradicia. No, sono state depositate presso un estraneo, sotto sigillo e accompagnate dalla nota: "Da aprirsi in caso di mia morte". Altrimenti, non saprei immaginare un Graffin che si fida a star solo accanto all'amabile El Moulk.» "Torno a chiedervi, quindi: perché Graffin ha mentito circa il periodo del suo servizio alle dipendenze dell'egiziano? Quando si è reso conto che poteva finire in trappola, ha ammesso di essersi impiegato presso El Moulk proprio dieci anni fa a Parigi... ma perché, all'inizio, ha mentito esattamente su quel particolare periodo di tempo e su quel preciso luogo? Se ricordiamo quale dubbio episodio si è verificato nella vita di El Moulk dieci anni fa, comprendiamo subito cosa stava cercando di nascondere Graffin con la sua astuzia da alcolizzato." Talbot tirò un profondo sospiro e annuì. «È vero» ammise. «È vero. Graffin sa chi ha sparato a De Lavateur.» «Precisamente. Ricordate com'è diventato pallido quando gli ho domandato se El Moulk avesse mai avuto ragione di rimpiangere quella... spesa supplementare? Il colpo era arrivato a segno! La personalità del nostro selvatico e istupidito tenente adesso emerge nei suoi veri colori, e sono piuttosto sinistri. Ora, però, considerate dove ci porta il nostro ragionamento...» Bencolin si aprì la giacca e si mise a sedere sul bracciolo della poltrona, puntando il sigaro verso l'ispettore. «La persecuzione di Jack Ketch contro El Moulk è cominciata subito dopo l'arrivo dell'egiziano a Londra, poco più di nove mesi fa. In tutti gli anni precedenti, Jack Ketch non aveva mai appreso la verità sul conto di Keane... l'ha saputa solo allora. Fino a quel momento, probabilmente credeva che il giovane da lui conosciuto fosse morto in guerra; non aveva mai sospettato che l'inglese ignoto di nome "Keane" fosse in realtà proprio la persona cara di cui piangeva la morte in battaglia. Ecco che nove mesi fa, invece, apprende la verità; e l'unico che sapesse com'erano andate le cose era Graffin.» "Quindi è stato Graffin a rivelargli tutto, e gliel'ha detto deliberatamente. Forse è stata la sua cupidigia a farglielo fare, o forse il suo odio verso El
Moulk. Il nostro tenente stava già strizzando l'egiziano, e allora perché non vendere il segreto anche a qualcun altro e avere così due finanziatori invece di uno? Poteva benissimo aizzarli l'uno contro l'altro. Poteva ancora cavare oro da El Moulk e nel contempo starsene seduto tra le quinte a ridere della sua agonia. Davvero una cara personcina, il nostro Graffin... "Comunque, lui ha raccontato la verità a Jack Ketch. Se ne deduce che lui ha sempre conosciuto la vera identità di Keane, dal momento che è stato in grado di puntare subito il dito sulla persona che aveva motivo di vendicare il ragazzo. Se volete ulteriori prove di quanto dico, riandate un po' indietro con la memoria." Io fissavo il vuoto innanzi a me e rivedevo gli occhi rossi e infiammati, lo scarno collo da tacchino e il ghigno da alcolizzato di Graffin, che ora si andava trasformando in qualcosa di assolutamente ripugnante. «Ricordate ieri sera» riprese Bencolin «quando stavamo attraversando l'atrio del Brimstone dopo aver esaminato il cadavere dell'autista nella vecchia sala da biliardo? Graffin, come sappiamo, era rimasto di sopra tutto il giorno. Come poteva dunque sapere cos'era accaduto? Invece è sceso in tutta fretta, addirittura in vestaglia, gridando: "Qualcuno sa dirmi dov'è la polizia?". È stato un errore davvero marchiano. Nell'atrio del club non c'era alcun segno che fosse successo qualcosa di anormale; tutto era in ordine; si vedeva solo un poliziotto in piedi accanto alla porta. Il nostro tenente, però, era rimasto di sopra, in quell'appartamento tetro, in attesa della notizia di un disastro; e alla fine, quando non ce l'ha fatta più a tenere a freno la curiosità e il terrore, è sceso giù. Ha visto quell'unico poliziotto nell'atrio e ha capito subito che quanto si aspettava era accaduto... ecco perché si è lasciato sfuggire quelle parole rivelatrici.» Ci fu una pausa. Talbot si batté le nocche contro la fronte. «Vedo! Oh, sì, adesso vedo tutto. Quindi Graffin sa chi è Jack Ketch...» Bencolin scoppiò a ridere. Era la risata profonda, sarcastica e quasi silenziosa che abitualmente lo scuoteva allorché aveva inchiodato qualche avversario come una farfalla su un cartoncino. «Naturalmente lo sa, ispettore. Esaminate adesso la sua condotta alla luce di questo fatto: i suoi scherni contro El Moulk quando l'egiziano riceveva quei pacchetti per posta... il suo continuo, ostinato negare che El Moulk fosse davvero vittima di una persecuzione... la sua insistenza eccessiva sul fatto che lui non aveva la minima idea della sorgente di quelle minacce. Quell'uomo è dotato di una specie di astuzia spregevole e meschina che non ingannerebbe un bambino. In una parola, quindi, esaminate tutto ciò
che ha detto o fatto e vedete se non ho ragione. Rammentate il suo scatto: "Tornate indietro, maledetto idiota, tornate indietro!"... esclamazione così ingegnosamente e così erroneamente spiegata dal dottor Pilgrim... quando mi ha visto uscire dalla porta della scala privata con una candela in mano. Non avrebbe mai e poi mai potuto scambiarmi per El Moulk: io lo supero in statura di almeno un palmo. No, mi ha scambiato per l'assassino... E finalmente, tanto per concludere, ricordate l'affermazione di mademoiselle Laverne secondo cui qualcuno conosceva la vera identità di Keane ma non era possibile persuaderlo a parlare. Lei sapeva, naturalmente, che a conoscerla era Graffin; ma sapeva anche che era perfettamente inutile cercare di apprenderla da lui.» L'orologio batté le sei e mezzo. Talbot sedeva con la testa china, meditabondo. «È tutto vero, certo» mormorò. «Graffin ha ricattato per anni El Moulk e adesso sta ricattando anche colui che...» «È un gioco molto pericoloso da provare con Jack Ketch» disse Bencolin. «Ora capite perché Graffin è logicamente la prossima vittima? Con lui sarà completo il simpatico trio: El Moulk che ha commesso il delitto; Colette Laverne che è stata sua complice; e Graffin che ha tenuto nascosta la storia...» S'interruppe e Talbot balzò in piedi, in un impeto di energia. «Credo che andrò senza indugio a fare quattro chiacchiere col signor Graffin» dichiarò con voce glaciale. «Tornate a sedervi, ispettore!» ordinò seccamente Bencolin. «Sedete, vi dico! Se vi lascerete consigliare da me, non farete nulla del genere. Graffin è l'esca che ci permetterà di accalappiare Jack Ketch. Adesso vi traccerò un piano che sarà messo in esecuzione questa notte. Venite a cenare con me, se vi garba, e ne parleremo insieme. Jeff, tu devi uscire con la signorina Grey; ma ti prego, a qualsiasi costo non tornare al Brimstone più tardi della mezzanotte. C'è del lavoro da fare. Vi assicuro, infatti, che tra qualche ora Jack Ketch metterà in scena l'ultimo atto della sua vendetta.» Scivolò giù dal bracciolo della poltrona e si riabbottonò giacca e cappotto. Era l'ora in cui si comincia a sentir fame e si pensa alle luci di un ristorante, agli aperitivi e a indossare l'abito da sera. Ci si sente animati da una nuova energia; il traffico continua a rombare, ma è più calmo; e nei locali alla moda, gli orchestrali cominciano ad accordare i violini. Fuori dei teatri si stavano già formando le lunghe code dei frequentatori della galleria, tutti presi ad assestarsi gomitate, a scherzare e a divorare panini... e magari a
cercarsi in tasca qualche monetina da gettare a un giocoliere ambulante che li divertiva mentre facevano la fila. Noi, invece, aspettavamo il momento in cui un minuscolo sipario si sarebbe alzato su uno spettacolo di Punch e Judy. Già fin da ora potevamo sentire quelle sinistre marionette agitarsi nelle loro custodie, preparandosi all'ora maledetta in cui si sarebbero destate per ghignare, dare la caccia e uccidere... «Lo stiamo accerchiando, ispettore» disse Bencolin. «Ancora poche ore e poi...» Sorridendo, tracciava disegni sul tappeto con la punta del bastone. «Nel frattempo, io credo che al caro Graffin farà bene crogiolarsi un po' nella sua paura. In un acceso di sconsideratezza, il nostro amico tenente ha venduto il suo segreto a Jack Ketch; e adesso, immagino, starà battendo la testa contro i muri. Il compianto dottor Frankenstein non era nulla, in confronto. È stato lui a creare questo mostro; è stato lui a dar vita a Jack Ketch. E adesso sta perdendo il lume degli occhi dallo spavento, perché si avvede con terrore che la creatura sinistra da lui evocata sta per rivoltarglisi contro... A voi piacerebbe, ispettore, voltarvi indietro e vedere quel volto alle vostre spalle mentre cercate di fuggire?» Una fuga disperata attraverso paludi e intorno ad alberi contorti per il nostro teatrino delle marionette, con la faccia velata di Jack Ketch protesa all'inseguimento senza requie! Mi pareva quasi di vederla, la faccia di Graffin, stravolta dal terrore che ne illividiva le chiazze vermiglie... Di nuovo, nel salotto tappezzato di rosso, risuonò la risata sarcastica di Bencolin. Nella sua perfetta eleganza, stava in piedi accanto al tavolo e picchiettava il tappeto col bastone, come perseguitando una sfortunata formica che gli si aggirasse intorno ai piedi. Lanciò all'ispettore un'occhiata di allegria mefistofelica... Talbot andò verso le porte scorrevoli e le spalancò. Fu come un segnale per l'orchestra. Un calpestio di piedi echeggiò in fondo al corridoio, e nel lucore gelido del tramonto i poliziotti portarono il corpo di Bronson verso l'automobile in attesa. Violoncelli, corni e violini fantomatici parvero intrecciare una marcia funebre al rumore del macabro trasporto. Sul viso del piccolo ispettore, si disegnò un'espressione bizzarra. I suoi occhi parvero restringersi ai due lati del naso rotto; poi, all'improvviso, Talbot si schiarì la voce. «Signore» disse «penso che sia davvero terrorizzante venire inseguiti da Jack Ketch... Però, se io avessi commesso un delitto, son certo che preferirei avere alle mie calcagna il demonio in persona piuttosto che Henri Ben-
colin.» 14 Il guanto del morto ci indicava di accostarci... "Non ho nessuno con cui parlare, Son proprio solo, Nessuno mi fa compagnia, Ma sono felice anche così. Non sto facendo il cattivo!" Sotto luci alquanto da incubo, una voce ugualmente da incubo ululava questa protesta al di sopra del rumore di decine di piedi che si agitavano nella danza. La voce salì con un tremolio fino a una nota alta e venne annegata dal pianto appassionato dei sassofoni. Intorno alla pista da ballo scarsamente illuminata, si agitava l'accaldato e variopinto millepiedi formato dai ballerini, e due di quelle gambe appartenevano a me. Eravamo praticamente accatastati gli uni contro gli altri, così che ondate di calore sembravano salirmi dal colletto della camicia alla testa, mescolandosi nel mio cervello con il rombo della batteria e le nebbie dello champagne. Però potevo almeno abbassare lo sguardo e contemplare la frangia vellutata delle ciglia di Sharon mentre ballavamo, e cogliere l'espressione dei suoi occhi quando dovevamo tenerci troppo stretti; speravo, per diverse ragioni, che la musica non finisse tanto presto... Per tutta la serata, dopo cena, avevamo girato da un ristorante-club all'altro. Si trattava di posti dove si poteva acquistare uno spuntino consistente in tre tartine di cinque centimetri quadrati l'una, tanto per poter bere champagne finché il cameriere non vi strappava la bottiglia dalle mani. Tutto era cominciato, naturalmente, quando Sharon si era ostinata a voler cenare in uno di quei posticini caratteristici di Londra che sono la delizia dei buongustai e di cui la maggior parte del pubblico ignora perfino l'esistenza. Ebbene, se c'è una lezione che qualsiasi persona non del tutto cretina impara presto a Parigi, è di stare attenti alla gente che vi vuol portare in ristorantini caratteristici conosciuti solo dagl'intenditori. Ciò significa, invece, che li conoscono proprio tutti. Più sono minuscoli, discreti e rimpiattati in un labirinto di vicoli e quindi difficili da trovare, più potete star sicuri che sono affollati peggio dell'inferno... anzi, gremiti fino alla soffocazione
da una folla strepitante di scopritori entusiasti. Quando un conoscente in visita a Parigi mi prega di portarlo a cena in un ristorante tranquillo e non eccessivamente frequentato, io consiglio sempre il Ritz. Una cena come si deve si basa infatti su tre elementi essenziali: il cibo, il vino e la quiete. Il tavolo della cena, insomma, è il luogo più adatto per far conversazione e magari filosofeggiare un tantino; e nessuno può sentirsi più imbarazzato di un filosofo circondato da indiscreti che tendono le orecchie. I posticini di Parigi dove vi ammucchiano su una panca con i gomiti nella pancia del vicino (che a sua volta punta i gomiti contro la vostra) vi costringono per forza a farvi sentire da tutti; e, peggio, a sentire tutte le scemenze che dicono gli altri! E poi il frastuono, i camerieri che non riescono a farsi strada nella calca, l'aspettare ore per il servizio! In questo momento, a Parigi, ci sono solo tre ristoranti degni di essere frequentati; e si trovano in questa felice posizione solo perché sono tanto celebri che a nessuno salta in mente di andarci. Tuttavia Sharon, con la sua animuccia romantica, pretendeva assolutamente un ristorantino caratteristico; e noi ci andammo. Con mia grande sorpresa, non era poi eccessivamente gremito di abiti da sera maschili e femminili, e io mi sentii tanto più grato verso la mia compagna in quanto il locale era specializzato nel più nobile dei beveraggi: la birra. Signore troppo belle e raffinate come Sharon, del resto, bevono birra solo nei ristorantini caratteristici... E quella sera Sharon era proprio dell'umore più allegro: beveva Pilsener in un boccale di peltro, e il suo vestito scintillante risaltava contro i pannelli di quercia scura. Le dissi (ed era la pura verità) che i suoi occhi erano del colore esatto di quella birra ineguagliabile; e infatti avevano la tenerezza, la promessa, il fascino squisito e abbacinante della migliore Pilsener. Lei però non parve trovare il mio paragone molto poetico. Dopo, mi disse che aveva voglia di ballare; e così cominciammo il nostro giro. Ballammo al ritmo delle più svariate canzoni nei posti più disparati, e a un certo punto io mi rammentai di Chez Aladdin. Ero curioso di vedere che posto fosse; e trovai che Dallings lo aveva descritto esattamente com'era. La luna inondava di luce azzurrina i globi bianchi issati sulle punte di guglie da moschea, tempestate di pietruzze ammiccanti. I tavolini si accucciavano all'ombra di alberelli nani dai frutti d'argento, e quell'ombra era affollata di camicie inamidate e scollature adorne di gioielli. Eppure, a parte i mormorii soffocati e qualche risatina di tanto in tanto, si sarebbe potuto credere che il locale fosse deserto. Sprazzi di musica jazz provenivano a
tratti, suonati da un'orchestra invisibile; poi un cerchio di luce sbocciava all'improvviso nell'ombra pervadente e si concentrava su qualche tizio dal fez rosso, completamente solo su un ettaro di pavimento lucidissimo. Ne vedemmo diversi, e ognuno di loro portava larghi calzoni a sbuffo di lamé e intonava canzoni lacrimevoli sulla mammina che lo aspettava a Bagdad. Io e Sharon ci eravamo rifugiati a un tavolo d'angolo. L'aria intorno a noi era carica del profumo di spezie, e alle pareti si scorgevano, anche nella semioscurità, le sfumature variopinte dei tappeti che vi erano appesi. La tovaglia era di un candore abbagliante, che accendeva di riflessi i bordi dei bicchieri e il bagliore dorato dei capelli di Sharon. Parlammo a lungo, mentre le bottiglie si susseguivano nell'ombra sempre più calda, e a un certo punto l'orchestra invisibile cominciò a suonare quel tipo di valzer che fa sognare. Sono valzer che si odono talvolta al tramonto; al principio sono appena mormorati, ma riempiono subito il petto di un dolore voluttuoso. Assomigliano a ballerini pallidi, ammantati di veli svolazzanti, che accendano fuochi stregati nei cantucci più intimi del cuore... Vidi il volto pallido di Sharon. Percepii il suo respiro lievemente ansimante, la luminosità indagatrice dei suoi occhi, il lieve sorriso che curvava appena le sue morbide labbra imbronciate. Nelle orecchie mi risuonò un rombo simile al rumore di una cascata lontana. E il sogno si fece ancora più irreale quando ci confessammo, semplicemente e spontaneamente, una cosa che non ci eravamo mai detta: che ci amavamo. I fuochi stregati, accecanti, si concentrarono di colpo sul viso di lei; e io credo che provammo tutti e due un'esaltazione possente e folle, come se i ceppi che ci avevano imprigionati si fossero dissolti. I nostri cuori pulsarono nel tumulto dell'estasi. Estasi, davvero: torno a scrivere questa parola e trovo che non esprime nulla della musica e del fuoco di quell'attimo. Noi due, sciocchi bambini che eravamo stati, ci eravamo irrigiditi per tanto tempo nella vanità, nella stupidità, nel sospetto; ma adesso la marea dei nostri veri sentimenti si era destata e saliva in mille tentacoli che ci avvincevano e ci univano l'uno all'altra, per l'eternità. L'indomani saremmo partiti insieme e non ci saremmo separati mai più. Dopo aver preso questa decisione smettemmo di parlare, troppo immersi nella fiamma che ci scorreva nelle vene; e intanto le nostre labbra si divoravano, mentre noi ci perdevamo nello sbalordimento, nella felicità finalmente esplosa, nel volo che ci sottraeva al caos. Le note del valzer tornarono a confondersi nell'ombra e morirono pian piano. Chi avesse sbirciato nel buio che ci avvolgeva, avrebbe visto solo due sigarette accese scivolare da dita senza forza, cadere sul pavimento e con-
sumarvisi. Ma debbo pur rammentarmi che questa è una storia di delitti... Rabbrividivo dal freddo quando salii la scala d'accesso al Brimstone Club un po' prima della mezzanotte. La nebbia si era dissolta e la notte era oscura e senza luna; i lampioni illuminavano la discesa lenta di alcuni pigri fiocchi dì neve. Sotto una finestra proprio accanto alla balaustra, notai un uomo in piedi, immobile... L'atrio era deserto. Perfino in un posto poco frequentato come quello, di solito si sentiva almeno qualche rumore: voci nel salone, il cozzo delle palle da biliardo, il tintinnio dei bicchieri nel bar. Invece in quel momento non si udiva un suono, e non si vedeva nemmeno traccia di gente. L'ascensore era giù, ma non c'era nessuno a manovrarlo. Il rumore dei miei passi echeggiò sul pavimento di marmo, e i globi lividi delle lampade a muro tintinnarono in risonanza. Alzai gli occhi ai versi incisi come un fregio che correva tutt'intorno alla rotonda: "Dalla strega e dall'orco famelico...". Nel caminetto del salone sonnecchiava un fuoco basso, percorso solo da rade fiammelle rosse. Anche lì non c'erano luci e non si vedeva nessuno. Stavo per lasciar ricadere la portiera quando mi parve di scorgere la sagoma di un uomo stagliarsi debolmente contro una delle finestre. L'uomo non si muoveva. Un debole, pallido raggio di luce da un lampione nella strada cadde sul suo viso e mi sembrò di vederlo sorridere. C'era qualcosa di così arcano in quella figura indistinta, immobile e sorridente che provai l'impulso di accendere la luce. Ma non era il caso di stupirsi davanti alle strane manie dei frequentatori di quel bizzarro club. Se qualcuno aveva voglia di starsene là, seduto al buio, erano affari suoi. Eppure, dopo aver visto l'altra figura in piedi accanto alla scala, ebbi l'impressione di essermi smarrito in un mondo di fantasmi. Lasciai ricadere le tende e ritornai nell'atrio. Perfino al banco non c'era nessuno. Dannazione! Bencolin poteva avermi lasciato un messaggio. Chiamai il fattorino dell'ascensore a voce alta, ma le mie parole mi rimbalzarono incontro senza risposta. Esplorai gli altri locali del pianterreno e li trovai tutti ugualmente vuoti. Gettai un'occhiata alla fine nella vecchia sala da biliardo, dove la sera prima avevamo deposto il cadavere dell'autista. Un minuscolo lampo di luce balenò fuori delle sue finestre, delineando appena la sagoma del tavolo. La stanza era pregna di fredda umidità e di muffa. Nell'atto di richiudere la porta, esitai un istante per lanciarmi uno sguardo alle spalle. C'era per caso un'altra figura silenziosa, seduta sulla panca nello strombo di una finestra?
Mi sforzai di distinguere qualcosa. Per un momento, avrei potuto giurare di aver colto il movimento di una faccia sorridente che dalla finestra si volgeva verso di me. Sciocchezze! Certo era solo l'ingannevole spostamento di una luce al di fuori... Chiusi la porta. Forse Bencolin era di sopra, ad aspettarmi nella sua camera. Riattraversai l'atrio e salii le scale fino al secondo piano; quindi percorsi a tentoni un corridoio buio e arrivai all'alloggio del mio amico. Bussai forte, ma il rumore dei colpi echeggiò a vuoto, senza risposta. Santo cielo, almeno avrebbero potuto lasciare qualche luce accesa in quel dannato posto! Il puzzo di muffa nel corridoio prendeva alla gola. Ripresi a salire le scale, cercando di dominare un'inquietudine sempre crescente. In ogni caso, potevo salire nelle mie stanze, sedermi davanti a un buon fuoco e chiacchierare con Thomas finché Bencolin non giudicasse opportuno farsi vivo. Ero quasi arrivato all'ultimo piano quando ricordai che avevo dato a Thomas la serata libera perché andasse a far visita a certi suoi parenti a Tooting. Fatto abbastanza curioso, trovai illuminato il corridoio dell'ultimo piano. Tutti i globi a gas erano accesi, con la fiammella alzata al massimo, e ciò metteva in aspro rilievo le decorazioni crude e di pessimo gusto. Si distinguevano chiaramente gli affreschi anneriti, di solito invisibili a meno di non ricevere una forte illuminazione... quegli affreschi che una volta avevano tanto scandalizzato i barbuti gentiluomini di fine ottocento. Ricordai allora di aver sentito dire che la suite di El Moulk era stata in origine abitata dallo sfortunato Lord Rayle, quello che si era sparato per amore di Kitty Darkins. Fu come se una ventata mi portasse il profumo di quella processione di damerini adorni di merletti, quasi che all'aprirsi dello sportello di un vecchissimo armadio tornassero a farsi sentire le voci dei galanti che chiedevano musica più indiavolata e vini più gagliardi... Aprii la porta della mia camera da letto ed entrai al buio. Era mai possibile che scorgessi, seduta accanto alla finestra, un'altra di quelle figure pallide e sorridenti? Ma quando accesi un fiammifero, vidi che tutto era in ordine. Me ne servii per accendere la lampada a gas che stava sul tavolo accanto al caminetto. La fiammella si alzò, e alla sua luce presero forma i pannelli color panna e oro sbiadito che tappezzavano quella camera dall'alto soffitto. Girai lo sguardo sul caminetto di marmo bianco, sugli specchi dalle cornici dorate e dal vetro appannato dalla nebbia, sulle gambe a tortiglione del grande letto dal baldacchino spropositato, sui ricchi drappeggi delle tende di velluto bianco alla finestra. Chiusi la porta che dava nel sa-
lotto. Le mie inquietudini erano del tutto prive di fondamento. Tutto nella stanza era come doveva essere: la valigia sotto la finestra, il letto ben rifatto, i vestiti appesi ordinatamente nell'armadio. Mi pareva di essere il vecchio Scrooge che si frugava attorno e non trovava "nessuno nemmeno nella vestaglia che stava appesa alla parete in atteggiamento sospetto". Indossai la mia, di vestaglia, gettando sullo schienale di una sedia la giacca e il cappotto bagnato. Nessuno si era curato di preparare il fuoco e tanto meno di accenderlo, e l'ambiente sembrava un frigorifero. Già seccato com'ero, provai una collera furiosa e premetti selvaggiamente il campanello facendolo suonare a lungo; poi mi gettai su una poltrona davanti al camino spento. Si sentiva forse il rumore di qualcuno che martellava? Mi riscossi di colpo dalla mia contemplazione della grata e tesi le orecchie per cercar di afferrare di nuovo quel debole rumore come di chiodi che venissero infissi in una tavola. Arrivava a tratti. Dapprima mi parve di sentire due colpi; poi ci fu un lungo silenzio, come se l'artigiano si fosse fermato a studiare il suo lavoro e alfine, quando già pensavo di essermi solo sognato quei rumori, udii una sequela di colpi rapidissimi in sordina. Tuttavia erano talmente lontani che potevo benissimo averli soltanto immaginati. Mi accostai alla finestra, che dava su un cortiletto, e cercai di spiare al di fuori; ma i vetri erano troppo incrostati di ghiaccio. Qualcuno bussò alla porta. Debbo confessare che il cuore mi salì bizzarramente in gola quando dissi: «Entrate.» Ci fu una specie di cinguettio e vidi la faccetta rugosa di Teddy far capolino fra i battenti. «Salute, signore!» disse lui, ridacchiando. «Avete suonato, signore?» Arrabbiarsi era mutile. Gli ordinai con asprezza di portare un po' di carbone e di accendere il fuoco; lui annuì diverse volte, battendo rapidamente le palpebre, e sparì in una nuvola odorosa di brillantina. Poco dopo lo sentii ritornare e cominciare a sbattere qua e là il secchio del carbone. Canticchiando tra sé con la sua vocetta stonata, Teddy si affaccendò col caminetto. Dispose il carbone, lo accese e, quasi subito, un'allegra fiammata cominciò a ruggire su per la cappa. Teddy regolò il tiraggio e proprio allora io sentii di nuovo quel martellare. Pareva quasi che stessero costruendo qualcosa: un'impalcatura forse... oppure... Stavo camminando su e giù per la camera quando lo sguardo mi cadde su una di quelle odiose cravatte dai colori accecanti che alle donne piace tanto regalarvi come dono di Natale. La tenni alzata, fingendo di ammirarla estaticamente, e vidi scintillare gli occhi di Teddy quando si volsero a
guardarla. «Hai visto altri fantasmi ultimamente, Teddy?» domandai. Lui lasciò cadere la paletta del carbone con uno scroscio e fece un balzo all'indietro. «Non li ho mai visti, mai!» strillò terrorizzato, serrando i piccoli pugni. «Non li ho mai visti, è verità di Dio!» Poi si mise a piagnucolare. «Buono, buono, va tutto bene: loro non faranno mai del male a te, ragazzo mio. Ti piacerebbe questa bella cravatta, magari con l'aggiunta di uno o due scellini?» «Tanto!» esclamò, guardandomi in tralice. «Però non li ho visti!» continuò con passione furibonda. «Io faccio sempre quello che mi dicono, no? E nessun fantasma mi piglierà mai, vero? Quando mi mandano a fare i giri, io ritorno sempre qui. Sempre! E quando mi danno i soldi per farsi comprare qualcosa, io gli riporto sempre il resto giusto...» «Lo so, Teddy. So che non hai visto niente là dentro, oggi.» «Oh, vorrei davvero non averlo visto!» gemette lui, cambiando umore di colpo. «Mi guardava dritto in faccia; guardava dritto in su...» I suoi occhi sbarrati erano fissi su qualche folle contrada al di là della mia spalla. Poi Teddy raccattò il secchio del carbone. «In su?» ripetei io in tono indifferente. «Guardava in su "verso di te? Allora sei andato per quella scala, Teddy?» Lui si girò e si precipitò fuori della stanza, senza fermarsi nemmeno quando gli corsi dietro per dargli la cravatta. Allora tornai al caminetto e attizzai il fuoco. Sedere davanti a una fiammata ruggente era piacevole; sporsi le mani verso il calduccio. Tra i comignoli, al di fuori, impazzava un vento ballerino... La serratura della porta scattò, chiudendosi. Bencolin stava in piedi dinanzi al battente. Portava una vestaglia di un nero opaco, che accentuava l'angolosità del suo corpo magro e gigantesco; teneva la testa protesa in avanti, e perfino dalla parte opposta della stanza potei distinguere lo scintillio dei suoi occhi... Si accostò al caminetto a grandi falcate, quindi trasse dalla tasca della vestaglia un pistola automatica e un fischietto da poliziotto, che depose sulla mensola di marmo. (I dadi si agitavano nel bossolo.) «Ebbene?» domandai. Lui esibì altri oggetti: un libretto rilegato in pelle e un fascio di pagine manoscritte. Allineò il tutto sulla mensola con estrema cura, come stesse disponendo una fila di regali natalizi, poi si volse verso di me. Era este-
riormente calmo, ma aveva le narici dilatate e in tutta la sua persona vibrava un'allegria contenuta e tremenda. «Ebbene, Jeff!» Parve rilassarsi con un sorriso e sedette pigramente su una poltrona. Da un tavolino, prese una bottiglia di brandy e un bicchiere. «Che succede?» «Il vitello grasso si sta nutrendo di alimenti prelibati» mi rispose «perché possa diventare un'esca ancora più appetitosa... In parole povere, il tenente Graffin sta facendo il giro dei locali pubblici e dei ritrovi notturni, cercando disperatamente i posti più affollati, e beve senza posa allo scopo d'ispirare a se stesso uno stato d'animo abbastanza eroico da azzardarsi a ritornare a casa. Posso aggiungere che i migliori uomini di Talbot non lo stanno perdendo d'occhio neanche per un minuto. Non vogliamo attacchi prematuri.» «E quale sarebbe il tuo piano per stanotte?» «Semplice: offriremo a Jack Ketch l'occasione di catturare Graffin. La trappola è pronta.» «Non stai riponendo per caso una fiducia eccessiva nella tua teoria che Jack Ketch andrà alla caccia di Graffin, stanotte?» domandai. «Supponi che lui non si lasci attirare dall'esca...» «Non credo che importi proprio nulla se lui darà la caccia a Graffin o no. Dovremmo prenderlo ugualmente. Io mi sto solo preparando per ogni eventualità... Ma tra non molto vedrai con i tuoi occhi. Posso contare su di te? Obbedirai ai miei ordini senza chiedere perché?» «Naturalmente.» «Anche se comportano un rischio mortale?» «Perché no? Tuttavia, mi piacerebbe avere almeno un'idea di quello che si prepara. Tu non fai altro che osservazioni misteriose... A proposito, dov'è Talbot?» «Anche lui sta obbedendo agli ordini» rispose Bencolin, rannuvolandosi in viso. «Jeff, se ho male interpretato i segni, se ho fatto il benché minimo errore di calcolo, allora incombono sulla nostra testa gli orrori più indicibili. Una teoria e nient'altro!» Fissò le proprie mani, aprendo e chiudendo spasmodicamente le dita. «Sto giocando con delle vite umane, che Iddio mi aiuti! Se vengo meno a Talbot, sarà lui a soffrirne. Si è messo ciecamente nelle mie mani.» Quasi non sentii le sue ultime parole. Debole, lento, insistente, era ricominciato il fantomatico martellare. Mi parve anche di sentire dei passi. «Rieccolo!» gridai. «Lassù! Lo senti?»
«Cosa dovrei sentire?» osservò Bencolin col bicchiere alzato. «Tendi l'orecchio!» Non era uno scherzo della mia fantasia. Toc, toc; una pausa; toc, toc, toc. I colpi in sordina continuavano. Certo qualsiasi persona di udito normale era in grado di captarli! Come poteva Bencolin ridacchiare e scuotere la testa, strizzandomi l'occhio con simpatia beffarda? «Mio caro Jeff» mormorò «tu hai i nervi troppo tesi. Forse non sei abbastanza in forma per...» «Questo è uno dei tuoi dannati trucchi!» lo interruppi, incollerito. «Il rumore lo senti bene quanto me... non sei mica sordo! Be', se stai cercando di far saltare i nervi all'assassino, accomodati! Ma almeno dillo. Non te ne stare lì a...» «Pensala pure come vuoi» rispose lui con un sospiro. Poi la sua voce s'inasprì: «Calma, vecchio mio, calma! Dimmi, sei con noi oppure no?» «Oh, sta bene; sta bene. Continua pure.» Accesi una sigaretta. Bencolin annuì, come approvando qualche teoria che gli passava per la mente; quindi si alzò e andò ad accomodarsi nella grande poltrona all'altro angolo del caminetto. «Forse dovremo aspettare un po'. Graffin non è ancora rientrato; se ci saranno ulteriori fenomeni interessanti in... in altri luoghi, ne sarò avvertito. Nel frattempo, non possiamo far altro che cercare di aver pazienza. Penso però di poter colmare l'intervallo in modo utile e dilettevole, raccontandoti alcuni fatti che riguardano il caso.» Per qualche istante rimase in silenzio, con la bottiglia del brandy ancora in mano: Poi mi lanciò una di quelle occhiate in tralice che erano una sua caratteristica e domandò quasi distrattamente: «Jeff, dove andò El Moulk la notte che uscì di qui nella sua berlina?» «Andiamo» ribattei «ti pare domanda da rivolgere proprio a me? Scotland Yard, prego, prendete nota. A Via della Rovina o all'inferno, forse. Oppure...» «Usa il tuo cervello» mi esortò lui con voce melata. «Cosa sappiamo noi, della faccenda?» «Se proprio insisti, sappiamo che era diretto a casa di mademoiselle Laverne. Mentre andava a Mount Street, è stato assalito...» Bencolin annuì di nuovo con aria assente e alzò una mano per fermarmi. «Sono lieto che tu abbia detto proprio questo» disse. «Infatti hai enunciato i soli due indizi sicuri che abbiamo. O piuttosto i soli due indizi che ci sono stati serviti su un piatto d'argento. Infatti, sono falsi tutt'e due.» Mi strinsi nelle spalle: non capivo più niente.
Bencolin continuò: «Il bastone e i guanti di El Moulk sono stati trovati nella berlina; e da ciò dovevamo per forza dedurre che lui non fosse mai arrivato a destinazione. Una confezione di orchidee è stata trovata insieme al bastone e ai guanti; e da ciò dovevamo per forza dedurre che tale destinazione fosse la casa di mademoiselle Laverne.» «Ma lui le aveva detto che sarebbe andato a prenderla.» «Sii più preciso: mademoiselle ha ricevuto un messaggio telefonico in cui le si diceva di aspettare El Moulk poco dopo le sette; poi, continuava il messaggio, sarebbero andati fuori a cena. L'interlocutore telefonico aveva una voce piuttosto strana, e ha spiegato il fatto adducendo la scusa di un raffreddore... Tu però hai parlato con El Moulk, Jeff. Dimmi, aveva il raffreddore?» «No.» «Ah, proprio come pensavo. Ora: il messaggio è stato trasmesso alle sei circa. Ma nelle prime ore del pomeriggio, prim'ancora di fissare questo appuntamento... anzi prim'ancora di sapere se sarebbe riuscito a mettersi in contatto con la Laverne o no... El Moulk, ci si dice, ha ordinato una guarnizione di orchidee presso un fioraio. Anche la gente del negozio ha fatto dei commenti su questa faccenda del raffreddore, a proposito. Ebbene, Jeff, dimmi: se volessi uscire a cena con una signora, ti salterebbe mai in testa l'idea di portarle di persona una guarnizione di fiori? Gliela faresti mandare con un certo anticipo, non è vero? Il primo modo di procedere è infatti alquanto ridicolo, soprattutto se si tratta di fiori ordinati parecchie ore prima. Qualcuno va dal fioraio a ritirare le orchidee... un uomo molto alto di statura, ci dicono. Certo non El Moulk. Forse qualcuno al suo servizio? Joyet non può corrispondere a una simile descrizione, anche ammesso che si trovasse a Londra... ma comunque era a Parigi. Graffin? A lui la descrizione si adatta, ma abbiamo appurato che non si è mosso dal club per l'intera giornata. L'uomo che è andato dal fioraio non era neanche qualcuno dei domestici del club. La vicenda si fa sempre più bizzarra, no?... E infine, cosa ne è stato della misteriosa guarnizione di orchidee dopo che l'hanno ritirata dal negozio? La berlina era stata revisionata e lucidata prima che uscisse dal garage, e in essa non c'era nulla di simile a una confezione di fiori. Tu stesso hai incontrato El Moulk quando è sceso dal suo appartamento ed è entrato in macchina. Aveva con se una scatola di orchidee?» «No. Ne sono più che sicuro.» Bencolin fece un gesto quasi di scusa. «Non serve a nulla insistere all'infinito su questo punto. È evidente che il misterioso "uomo col raffreddore"
ha fatto di persona le due telefonate. El Moulk non c'entra affatto. El Moulk non sapeva niente né dell'appuntamento né delle orchidee. E quell'uomo, in una parola, lo ha fatto perché stava pazientemente fabbricando una catena d'indizi atti a persuaderci che l'egiziano avesse intenzione di andare da mademoiselle Laverne. Poteva anche darsi che nessuno ci informasse dell'appuntamento; ed ecco che l'uomo, cortesemente, si propone di darci una prova che El Moulk stava andando da una donna. Ecco il perché della confezione di orchidee. Siccome però non si trovava nella berlina prima che El Moulk vi salisse, e siccome non ve l'ha portata lui stesso, è chiaro che vi è stata messa dopo... dopo che l'egiziano ne era uscito... e dal signore di alta statura che era andato a prenderla dal fioraio. I fiori sono stati usati per fornirci una falsa traccia dopo che Jack Ketch si era già impadronito della sua preda.» Santo cielo, la cosa era talmente evidente dopo quella spiegazione... Gettai il mozzicone nel fuoco e mi accesi un'altra sigaretta. Bencolin rise. «Abbiamo stabilito, dunque» continuò «che Jack Ketch ci ha fornito un indizio erroneo per non farci capire quale fosse l'autentica destinazione di El Moulk. Il bastone e i guanti dovevano suggerirci che lui era stato attirato fuori della berlina, magari con uno stratagemma, e poi assalito... Consideriamo invece cosa dov'essere accaduto in realtà. Visualizza nella tua mente l'immagine di quei guanti com'erano quando li abbiamo esaminati. Ricordi che quello destro recava certe curiose macchie di polvere?» Annuii. Macchie nere sulle punte di tutte le dita, pollice compreso, e una grossa striscia di polvere attraverso il palmo insudiciavano un guanto sinistramente bianco e vivido nella mia fantasia. «Tu stesso ci hai detto» riprese il mio amico «che quando El Moulk è salito in macchina, quei guanti erano immacolati. Siccome la berlina era stata pulita con cura, sappiamo che non era da lì che poteva essersi procurato quelle macchie di polvere vecchia, incrostata, spessa e nerastra. Del resto, è difficile immaginare quale posizione avrebbe potuto assumere la mano dell'egiziano nell'automobile per macchiarsi il guanto in quel particolare modo. Di conseguenza, se lo è insudiciato da qualche parte dopo essere sceso dalla macchina. In quel momento, inoltre, El Moulk portava ancora i guanti: le macchie infatti dimostrano che c'erano le dita, dentro.» Dopo una pausa brevissima, Bencolin gridò quasi: «Eppure, ci si chiede di credere che a un certo punto del suo percorso El Moulk sia stato attirato fuori della berlina, assalito e trascinato via. Che assurdità da incubo, Jeff! El Moulk, portando ancora i guanti, scende dalla macchina. Cade nell'ag-
guato e viene stordito... dopo di che, già in balia del suo aggressore, si toglie i guanti con la massima cura e li depone sul sedile posteriore dell'automobile uno sull'altro, come una brava persona ordinata... Ti pare possibile? No, vecchio mio, questa è la più colossale scemenza che la gola di un credulone abbia mai tentato d'ingoiare.» "È chiaro invece che El Moulk è sceso dalla berlina di sua spontanea volontà. Portava i guanti e il bastone... non ricordi com'era infangato il puntale? L'autista intanto sedeva al volante, tranquillo e senza sospetti. Anche El Moulk non aveva alcun sospetto, benché usasse per i suoi spostamenti un'auto blindata... Aveva raggiunto la sua destinazione, tutto qui." Fiammelle gialle e rosse si contorcevano tra i pezzi di carbone, e al di là della grata del caminetto mi pareva che cominciassero a prendere forma sagome bizzarre e sinistre. La voce di Bencolin, bassa e ipnotica, mi arrivava come da una grande distanza... «Non avrai dimenticato un altro particolare, Jeff: e cioè che le macchie sul guanto erano di polvere, non di fango. Era una nottata umida. Qualsiasi macchia di fango o anche semplicemente di bagnato che il guanto si fosse procurata all'esterno, si sarebbe indurita. Quelle macchie, invece, provenivano dall'interno di una casa: la casa dove El Moulk era diretto, la casa dove alla fine è arrivato...» "Prova a immaginarti quell'elegantone dal cappello a cilindro che scende dalla berlina nella nebbia. Guardalo attraversare la strada, entrare in una casa e lì, al buio, cerca di pensare su che cosa può essersi posata la sua mano per sporcarsi il guanto di polvere proprio con quelle particolari macchie così significative nella loro disposizione..." Le macchie indicavano che le dita avevano afferrato qualcosa e il palmo vi si era posato sopra. Nelle fiamme del caminetto, come in un mostruoso specchio di fuoco, io vidi una mano guantata protendersi e stringere... «La ringhiera di una scala» scandii a voce bassa. Cadde un lungo silenzio. Ad un tratto, sentii il rumore del brandy che veniva versato in un bicchiere. Bencolin scoppiò in una risata improvvisa. «Era quella la traccia che stavo cercando quando mi hai visto esanimare la ringhiera della scala privata con la candela» spiegò. «L'intera elaborata messinscena significa solo che El Moulk ha fatto il giro dell'isolato in macchina, ha parcheggiato nel vicolo ed è salito per la scala del retro nel suo stesso appartamento!» 15
La strada degli uomini strangolati Ci sono momenti in cui la verità nuda e cruda, ovvia e innegabile, vi si abbatte sul cranio quasi come un colpo di manganello. Un sipario si alza di colpo, le luci di scena risplendono e quello che fino a poco prima vi atterriva tanto vi si rivela come un lenzuolo, un manico di scopa e una zucca con una candela all'interno... tanto che provate quasi un senso di disgusto per voi stessi. Allora tirate un calcio pieno di collera alla zucca, per il piacere di vederla volare in pezzi... Bencolin si era alzato dalla poltrona e stava nella sua solita posizione, appoggiato di spalle alla mensola. Mi guardava divertito. «Naturalmente, ho trovato i segni del guanto sulla ringhiera. Quando mi hai visto dall'alto, ho pensato che di sicuro avessi capito cosa stavo cercando. E ancora nel pomeriggio, quando ho fornito a te e a Talbot delle indicazioni molto chiare circa l'ubicazione di Via della Rovina, ho creduto che almeno tu fossi arrivato alla conclusione giusta.» «Dunque, Via della Rovina sarebbe...» «Il vicolo dietro al Brimstone Club, com'era chiaro e lampante fin dal principio. Tra un istante, ti spiegherò il perché di quel nome bizzarro.» Sorridendo, guardò le profondità del bicchiere che aveva in mano e ne fece girare il contenuto. «Ma in nome del cielo» gridai «perché mai un uomo dovrebbe chiamare il proprio autista, salire in macchina e andare dritto alla porta posteriore della casa dove abita?» «Bravo Jeff. Perché, infatti? È stata questa stranezza che ti ha portato nella direzione sbagliata. Quando un uomo esce di casa, non ti viene subito da pensare che ne voglia fare il giro e ritornarci dalla porta posteriore. Era su questo che contava El Moulk.» «Su questo contava El Moulk?» «Appunto... Hai dimenticato quel curioso brano di conversazione che Joyet ci ha riferito? Proprio prima che il cameriere partisse per Parigi, El Moulk e lui si scambiarono qualche parola... e ricordi cosa disse l'egiziano? " Se tutto va bene, riuscirò a far cadere in trappola questo Jack Ketch. Lo coglierò in flagrante, addirittura!... Ho trovato un alleato proprio qui al club."» "Jeff, quella notte El Moulk credeva di tendere una trappola a Jack Ketch... mentre in realtà si stava mettendo nelle sue mani. Ciò che deve per forza essere accaduto è molto semplice, in fondo. L'assassino, sul cui conto
El Moulk non nutre alcun sospetto, fa amicizia con l'egiziano. Gli dice che ha notato dei movimenti bizzarri nella sua suite... forse arriva perfino a dirgli di aver visto Jack Ketch all'opera. Quindi gli suggerisce l'idea di una trappola. Gli propone di uscire una sera in automobile, come se intendesse trattenersi fuori per un certo tempo, e poi ritornare indietro e risalire nelle sue stanze dalla porta del vicolo. Jack Ketch, ingannato dalla falsa partenza, si farà vivo per inscenare qualcuno dei suoi scherzi di pessimo gusto; ed El Moulk, da un nascondiglio adatto, potrà vedere chi è..." Bencolin allargò le braccia. «Personalmente, non mi sembra un'idea tanto brillante, ma che vuoi? El Moulk era così accecato dal terrore che avrebbe accettato qualsiasi proposta. Quindi, non ha mai pensato di andare a far visita a mademoiselle Laverne e di passare la notte con lei: intendeva invece restare in agguato per spiare Jack Ketch.» Mi alzai e mi misi a camminare su e giù per la stanza. Pezzo per pezzo, il piano mi si andava rivelando in tutta la sua completezza. «E vedi quanto infernale è stata l'astuzia dell'assassino? Radicando nella mente di tutti la convinzione che El Moulk fosse uscito dal club, ha reso quest'ultimo il solo posto in tutta la città dove la polizia non si sarebbe mai sognata di cercarlo. Ha attirato la sua vittima fuori di qui... per poi farla tornare subito indietro. Di conseguenza, ha indotto la polizia a frugare l'intera Londra, con l'unica eccezione del nascondiglio che gli agenti avevano proprio sotto il naso. Jeff, credo davvero di poter giudicare questa trovata come una delle più brillanti negli annali del crimine.» Gli splendevano gli occhi e nella sua voce risuonava una nota di sincera ammirazione. «Hai afferrato il quadro, Jeff? El Moulk sale la scala e l'assassino lo aspetta al varco, rimpiattato su un pianerottolo. Forse Jack Ketch ha perfino concordato di vegliare con lui, visto che l'egiziano non ha l'ombra di un sospetto neppure in quel momento. Ansiosa e trionfante, la mosca si accosta senza esitare all'orlo della ragnatela mentre il ragno gongola...» «Ma El Moulk dove immaginava di appostarsi durante la veglia?» domandai. «Abbiamo sentito dire che, a quanto pare, Jack Ketch è in grado di entrare quando vuole nelle sue stanze e lasciarvi i propri ricordini senza esser visto. El Moulk non poteva limitarsi a entrare dalla porta della scala e mettersi a sedere da qualche parte: ciò non avrebbe costituito una trappola per una persona dotata del dono dell'invisibilità come Jack Ketch.» Bencolin protese il suo bicchiere verso di me.
«Ecco che sei arrivato al nodo cruciale del piano dell'assassino» mi annunciò. «Qui sta la ragione per cui Jack Ketch è riuscito a far cadere nelle sue grinfie El Moulk col pieno consenso della sua vittima... Non hai mai sentito dire che in questo edificio c'era un appartamento segreto in cui, ai vecchi tempi, si tenevano delle orge e dove Lord Rayle alloggiava la sua...» «Ma queste sono sciocchezze! Mi è stato riferito...» Bencolin scosse la testa. «Temo proprio, Jeff, che siano tutt'altro che sciocchezze. È possibile non ti sia mai passata per la mente la semplice idea che siccome Jack Ketch poteva introdursi nelle stanze di El Moulk senza farsi vedere e passando attraverso porte sbarrate, lui dovesse disporre di qualche mezzo di comunicazione con la suite dell'egiziano... qualche mezzo di comunicazione segreto?» Mi presi la testa fra le mani. «Infatti anche quella suite, in precedenza, era stata abitata da Lord Rayle!» «Esatto!» approvò il mio amico. «Adesso tutto è chiaro, no? L'assassino deve aver detto a El Moulk che aveva scoperto l'ubicazione dell'appartamento segreto, il quale comunicava con le stanze occupate dall'egiziano. Per cui, suggerisce l'ingegnoso Jack Ketch, El Moulk e lui avrebbero potuto disporre di un ottimo punto di osservazione dove appostarsi per tendere una trappola al criminale.» "Oh, un piano perfetto e perfettamente eseguito! La mosca, felice come una Pasqua, si butta a capofitto nella ragnatela di Jack Ketch. Poi un colpo in testa, una spugna imbevuta di cloroformio e..." Bencolin si strinse nelle spalle e lasciò nell'aria la conclusione inevitabile. «Così lui tiene prigionieri El Moulk e la sua donna... in questa casa... adesso...» «Già.» «E tu sai anche dove si trova l'appartamento segreto, vero?» «Naturale che so dove si trova... perché, tu non lo sai?» Lo guardai con l'idea che stesse solo abbandonandosi alle sue solite pose teatrali; ma subito, appena incontrai il bagliore impaziente eppure stanco dei suoi occhi, compresi che era sincero. Era solo irritato per la lentezza dei nostri processi mentali... irritato e stufo di quella sorta di ottusità che ci affliggeva e non ci permetteva di percepire la verità in un istante. Mi ricambiò lo sguardo con l'aria di chi non riesce a credere alle proprie orecchie. Poi, quasi subito, la tensione della sua persona si rilassò e il suo viso assunse un'espressione d'indulgenza sarcastica.
«Vedo che non lo sai sul serio» osservò. «Eppure, abbiamo un mucchio d'indizi che proclamano apertamente dove si trovano le stanze segrete... tanto che potremmo uscire di qui e andarvi senza la minima esitazione.» "Ma lasciamo stare! Abbiamo stabilito che El Moulk e la donna sono nascosti là. E stanotte..." «Aspetta un momento!» protestai. «Non è assolutamente il caso che tu te la prenda con me in questo modo. Io capisco che l'ingresso di questo luogo segreto debba comunicare con la suite di El Moulk, è naturale... Quello che non riesco a comprendere, è dove cercare l'ingresso medesimo quando uno si trova nelle stanze di El Moulk e...» «L'ingresso non è nelle stanze di El Moulk» mi corresse gentilmente lui. «Ma lo hai detto tu!» «Neanche per sogno, Jeff: non ho detto niente del genere.» «Ci rinuncio» dissi sconfortato, e tornai a sedermi davanti al fuoco. «Continua pure.» «Stanotte, come dicevo, noi prenderemo in trappola Jack Ketch: o mentre si reca nel suo covo o mentre va ad accalappiare Graffin. Tu, però, vuoi sapere come mai l'assassino ha tirato in ballo "Via della Rovina," vero? Ebbene, guarda qua.» Prese il libriccino dalla mensola del caminetto e me lo mostrò. «Racconti della Terra Perduta, di J. L. Keane. Jack Ketch ne ha mandato questa copia a El Moulk, dopo aver sottolineato con la matita blu una delle traduzioni, la stessa sulla quale anche El Moulk stava lavorando, come dimostra il manoscritto trovato nella sua scrivania. Lascia che attiri la tua attenzione su questo brano. Comincia nel solito modo:» Il potente re User-maat-ra aveva un nipote di nome Nezam Kha-em-uast, il quale era uno scriba esperto in tutte le scritture antiche. Costui aveva un amico, Uba-Aner, capitano nell'esercito, i cui pareri avevano un gran peso tra gli uomini che si dedicano allo spargimento di sangue... «Come puoi constatare, il nostro narratore era un pacifista della più bell'acqua. Adesso prendi la traduzione di El Moulk, che praticamente è identica a questa, e comincia da qui.» M'indicò col dito il punto esatto e io attirai la lampada più vicino. Mentre il vento sibilava nella cappa del camino e la neve cadeva su Londra, l'ingenua cronaca si snodava in periodi tranquilli...
Egli ritornò dal paese di Gutium ricco di onori e di numerosi schiavi, con l'oro del valore e ghirlande di fiori intorno al collo. E così, allorché Nezam guardò il suo amico, s'infiammò di collera come il leopardo delle terre del sud. A Tebe viveva una donna, bellissima di membra, che Nezam voleva per sé e contemplava con desiderio; ma gli occhi di lei videro Uba-Aner che tendeva senza sforzo il tremendo arco da battaglia... Il mio sguardo scorse rapidamente il resto. Quindi Nezam sì recò alla presenza del grande Re e dei suoi nobili, e dinanzi a loro accusò il suo amico dicendo che si era macchiato di tradimento contro il Re e contro tutti i capi dell'esercito. Per cui Uba-Aner venne trascinato in giudizio, e chi avrebbe potuto opporsi alla parola del nipote di User-maat-ra? Quindi Uba-Aner fu condannato a morte e giustiziato. Ma Ra ascoltò la sua preghiera e salì in grandissima collera. Perciò accadde che nella notte della luna piena, quando la luna ha mangiato a sazietà ed è ingrassata, Nezam ebbe a incamminarsi nella strada chiamata della Rovina... Mi lasciai sfuggire un'esclamazione e guardai Bencolin, che annuì. Perché è la Via dei Traditori, e risuona delle grida di ogni ka che è nemico del Re. E mentre Nezam vi camminava, strisciò dietro di lui, come un serpente, una corda da arco in cuoio, che nessun uomo muoveva con le sue mani. La corda volteggiò nell'aria, si attorcigliò intorno al collo di Nezam e lo uccise. Da quel momento, la sua stirpe fu maledetta per sempre... Restituii i fogli a Bencolin e mi appoggiai allo schienale della poltrona. «Vedi?» chiese lui. «Tutti cercavano quella strada a Londra, mentre in realtà si trovava nell'antica Tebe. Senza questo brano non avremmo mai capito il significato del suo nome, neppure dopo aver risolto il caso. Oppure avremmo risolto l'enigma di Via della Rovina senza capire dove dovevamo cercare El Moulk.» «Allora, non è importante per la soluzione del caso...»
«Al contrario! Se questa vecchia storia non fosse esistita, il caso avrebbe potuto non verificarsi affatto. Perché vedi, El Moulk ci crede fermamente: ed è stato questo a terrorizzarlo. Supponiamo per esempio che fossi stato tu ad essere scelto da Jack Ketch come vittima della persecuzione dei pacchetti per posta, degli oggettini sul tavolo e degli andirivieni inspiegabili: ebbene, tu non avresti fatto altro che ricorrere alla polizia, punto e basta. Ti saresti ostinato a far piena luce sull'enigma, a qualsiasi costo. Magari la persecuzione sarebbe stata per te una grossa seccatura, ma non ti avrebbe mai ridotto a un cencio dal terrore, come è successo invece a El Moulk. Immaginalo seduto nella sua suite, una notte dopo l'altra, alla luce della sua lampada verde. Immagina l'orrore tenebroso che deve averlo avviluppato la prima volta che ha posato gli occhi su quel papiro... quando ha visto la sua stessa storia dipanarsi passo per passo con macabra esattezza, la condanna fatale emanata contro di lui quattromila anni prima della sua nascita! Non lo vedi urlare e contorcersi, nella consapevolezza inesorabile che quel laccio di cuoio sarebbe balzato su di lui?» «Come in effetti è successo» dissi con voce cupa. Bencolin ripiegò il manoscritto e lo fece scivolare tra le pagine del libro. «Mi chiedo» mormorò «se per caso stanotte non finiremo anche col mettere alla prova la potenza degli dei dell'Egitto...» Raccolse il mio orologio, che avevo lasciato sul tavolino accanto al caminetto. «È quasi mezzanotte: Graffin dovrebbe rientrare da un momento all'altro.» «Non mi hai dato ancora nessun accenno riguardo all'ubicazione dell'appartamento segreto dove si trova la tana di Jack Ketch» insistetti. Lui incrociò le braccia sul petto e mi scrutò da capo a piedi. «Finora non si può proprio dire che tu abbia esibito alcun accecante lampo di genio, Jeff. Be': voglio fornirti un indizio e staremo a vedere cosa ne ricavi. Non è forse vero che Jack Ketch, a quanto pare, avesse l'abitudine di far visita alla suite di El Moulk e lasciare degli oggetti sul suo tavolo mentre lui non c'era?» «Sì, certo.» «È altresì assodato che tutti gli oggetti lasciati in tal modo avevano certe caratteristiche peculiari. Consistevano per esempio in libri, pezzi di corda o magari anche in quel pupazzo di legno...» «Non vedo in loro nessuna caratteristica comune. Erano bizzarri, certo, però...» «Sta' buono e ascoltami. Gli oggetti di cui ho parlato sono stati lasciati sul tavolo. Invece il modellino della forca, le pistole da duello di cristallo e
l'urnetta da cremazione sono state inviate per posta.» Fece una pausa. «Ebbene?» «Ebbene, Jeff, questo è l'indizio.» «Davvero?» scattai disgustato. Bencolin spalancò le braccia. «È la chiave dell'intera faccenda, Jeff! Un indovinello da bambini, che avrebbero potuto proporti tanti anni fa. In che cosa un libro è simile a un pezzo di corda? In che cosa il modellino di un patibolo è simile a un paio di pistole di cristallo? Rispondimi e avrai in tuo possesso il segreto di Jack Ketch. Rispondimi e la porta della verità ti si spalancherà davanti agli occhi!» Il telefono sulla parete emise uno squillo stridente. Era il segnale che Bencolin aspettava, e io sentii il mio cuore battere forte mentre lui afferrava il ricevitore. Ascoltò un istante e disse: «Benissimo» poi riappese. Tornò verso il caminetto battendo le mani, esultante. «Adesso, Jeff, ti darò le tue istruzioni. Graffin è appena ritornato dal suo giro per i locali notturni. È sbronzo fradicio, ma riesce ancora a reggersi in piedi. Il bar al pianterreno è chiuso, e se vuol bere ancora dovrà salire nella sua camera. Non credo che avrà voglia di indugiare molto dabbasso... il nostro amico tenente sta impazzendo dalla paura.» Bencolin prese la pistola e il fischietto da poliziotto che aveva disposto sulla mensola, quindi me li porse. «Mettiteli in tasca. Quando lo sentirai arrivare nel corridoio qua fuori, esci e avvicinalo. Adduci tutte le scuse che vuoi, ma trova qualche pretesto per accompagnarlo nella suite di El Moulk. Quando vi sarete installati là, mettiti a chiacchierare con lui. Non ti sarà difficile: l'uomo è talmente spaventato che coglierà al volo l'occasione di stare in compagnia, e su di te non nutre il minimo sospetto. Fa' in modo che beva ancora molto... anzi, continua a riempirgli il bicchiere finché non perde i sensi. Cerca inoltre di sistemarlo in una posizione bene in vista, nel grande salone. Tutto chiaro?» «Sì.» «Se ti è possibile, trova anche un pretesto per aprire le tende di tutte le finestre del salone. Ma se non ti riesce di farlo senza destare i suoi sospetti, non provarci nemmeno. Aspetta finché lui sarà intontito dal bere e poi aprile. Quindi chinati su di lui come per augurargli la buona notte. Salutalo con la mano e dirigiti verso la porta che dà nel corridoio, come se stessi tornando alla tua camera. La lampada non fa molta luce, e una volta uscito dal suo cerchio d'illuminazione nessuno potrà vederti. Siediti su una sedia
accanto alla porta, nasconditi meglio che puoi e aspetta. Sta' attento a non far rumore. E qualunque cosa tu veda, non sparare a meno che non si tratti di assoluta necessità. Non posso prevedere proprio tutte le possibili circostanze, ma se in qualsiasi momento tu pensassi di aver messo Jack Ketch con le spalle al muro, prendi il fischietto e dacci dentro. Capito?» «Certo.» Bencolin esitò. «A questo punto, non credo ci sia bisogno di avvertirti che Jack Ketch è uno dei compagni di gioco più pericolosi che io abbia mai visti nella mia carriera...» Tesi il braccio in avanti in tutta la sua lunghezza. Mi sentivo il petto serrato come in un cerchio di ferro e il cuore mi batteva forte, ma le dita della mia mano non rivelavano il minimo tremito. Il mio amico annuì. «Silenzio!» Da fuori, nel corridoio, giunsero delle imprecazioni e il rumore di qualcuno che saliva le scale a fatica e barcollando. La persona inciampava ad ogni gradino. A un certo punto attaccò una canzone che finì in un grugnito, come se il cantore fosse andato a sbattere contro il muro... Bencolin si mosse rapido e abbassò la fiammella della lampada a gas. Ora si distingueva solo un puntino di luce nella grande stanza. I passi incerti erano arrivati nel corridoio e si erano fatti più rumorosi. Graffin si era rimesso a cantare, ma come brontolando fra sé e sé. Con la mano sulla maniglia della porta, mi voltai e vidi Bencolin in piedi accanto alla lampada. Si era messo un dito sulle labbra per invitarmi a tacere. La voce di Graffin si alzò a un acuto isterico; i suoi passi esitarono, strascicando. Poi l'uomo riprese ostinatamente a cantare e barcollò in avanti. Io aprii la porta. 16 La maniglia cominciò a girare... Il corridoio era bene illuminato, ma nonostante ciò Graffin vacillò all'indietro e dovette aggrapparsi alla parete per evitar di cadere. Portava un cappello a cilindro e un cappotto da sera, dal cui bavero pendeva una sciarpa bianca. Era così pallido che le vene bluastre gli si mostravano in rilievo a grappoli sulla fronte; il suo naso appuntito era più rosso che mai, come pure i suoi occhi sbarrati e roteanti. «Oh! Siete voi! Io...» ansimò. «Spiacente di avervi fatto sobbalzare, tenente» dissi. «Stavo scendendo
in cerca di qualcuno. Non riesco a dormire e nella mia camera non c'è niente da leggere. Ho pensato che potevo farmi prestare un libro.» Mi fissò senza parlare per un attimo, quindi la sua faccia s'illuminò tutta. «Ma certo!» gridò, afferrandomi per una spalla. «Certo! Ottima idea! Sono felice che vi sia venuta. Sarò deliziato, assolutamente deliziato di... di offrirvi la mia ospitalità. Ho un sacco di libri, migliaia di libri: potrete prendere quelli che vorrete. Forse... forse vi andrebbe anche qualcosa da bere, eh?» Mi gettò un braccio al collo e continuò a parlare con entusiasmo della miriade di libri che avrebbe messo a mia disposizione, mentre avanzava barcollando lungo il corridoio. Intanto rideva, mi batteva manate sulla spalla e dichiarava che gli ero proprio simpatico. Appena fummo davanti alla porta della suite, nei suoi occhi comparve un lampo di astuta malizia. «Signor... signor comevichiamate» sussurrò «ehm... vorreste avere la bontà di entrare per primo e accendere la luce?» Assunse un tono di scusa. «Sono un tantino indisposto. Sapete com'è...» concluse con un singhiozzo da ubriaco. «Ma naturale» risposi. Non era affatto piacevole attraversare quell'enorme salone impregnato di aromi strani al buio. Muovendomi a tentoni e annaspando, per poco non rovesciai a terra la lampada; ma dopo un po' il globo verde si accese. Graffiti entrò frettolosamente, si volse e chiuse a chiave la porta. «Gr-grazie... chiudo anche l'altra» disse tutto d'un fiato. «I ladri, vedete...» Andò alla porta, e pasticciò alquanto con la serratura. Io, intanto, mi chiedevo se fosse consigliabile lasciarla chiusa a chiave. Se bisognava dare a Jack Ketch la possibilità di fare un tentativo contro Graffin... Però, potevo sempre riaprire quella porta più tardi. «Bisogna tirare le tende» disse il mio interlocutore, strizzandomi un occhio con aria d'intesa. «Non credete che sarebbe meglio far passare un po' d'aria?» «No!» gridò, afferrandosi ai drappeggi e guardandomi come un ragazzino al quale stiate cercando di strappare un giocattolo. «Bisogna tirare le tende» ripeté in uno sfoggio di fermezza dignitosa. Mentre si toglieva cappotto e cappello, un'idea sembrò colpirlo. «Dov'è Joyet?» gridò. Era appena venuto in mente anche a me. Dov'era il cameriere? Avevo dimenticato di chiederlo a Bencolin; ma probabilmente l'uomo era stato già preso in considerazione nel piano del mio amico, e il palcoscenico andava
lasciato libero per Graffin. «Strano» brontolò quest'ultimo, guardandosi intorno. Alzò la voce per urlare scompostamente: «Joyet!» Nessuno rispose. Chiamò di nuovo, con una voce che doveva essersi udita fino al pianterreno, ma senza risultato. Gli occhi rossi e strabuzzati di Graffin fecero di nuovo il giro del salone. A un certo punto, lui fece per dirigersi alla porta delle camere da letto, ma ci ripensò. «Sedete, signor... ehm... accomodatevi, prego. Non avete mica fretta, vero? No, no: accomodatevi solo un momento e prenderemo un bicchierino insieme. Ecco i libri, guardate...» Con un ampio movimento del braccio, indicò gli scaffali. «Potrete scegliere. Adesso beviamo.» Sedette con aria da padrone nella poltrona davanti alla scrivania, sbirciandomi da dietro la lampada, e prese da terra una bottiglia di whisky appena aperta. Di nuovo, gli passò negli occhi quel lampo di malizia. «Stupido da parte mia; oh, terribilmente stupido... C'è un bicchiere solo. Forse... ehm... ce n'è un altro nel bagno. Ecco, entrate da quella porta, girate a sinistra e andate sempre dritto: non potete sbagliare. Se non vi dispiace...» Si aggrappò al bordo della scrivania e mi seguii avviarmi con gli occhi. Oltrepassai cautamente la soglia, chiudendo le dita sul calcio della pistola che avevo in tasca. Una piccola alcova con a sinistra una porta... al di là era tutto buio. La suite era gelida, e le finestre non erano che chiazze grigiastre di ghiaccio su uno sfondo più nero. Potevo distinguere solo vagamente le sagome dei mobili e andai a sbattere diverse volte contro le sedie. Pian piano le stanze oscure diventarono infinite e rotanti, e mi parve di essermi perso in un labirinto; forme contorte e indistinte mi s'intrecciavano davanti agli occhi. Piastrelle di ceramica! Avevo piastrelle di ceramica sotto i piedi. Annaspai con precauzione e trovai il bordo di una mensola di vetro; poi le mie dita sfiorarono un bicchiere e lo fecero ruzzolare nel lavandino, con un fracasso infernale che mi strizzò il cuore nel petto. Nella camera accanto, una tavola scricchiolò. Ascoltai immobile, ma il rumore non si ripeté. No, il bicchiere non si era rotto, benché lo schiamazzo della sua caduta mi risuonasse ancora nelle orecchie. Lo presi e mi volsi per tornare indietro... Ma cosa succedeva? Mi parve che lo sportello di un colossale armadio, il cui specchio rifletteva il pallido barlume della finestra, si stesse aprendo lentamente dall'interno. Vedevo bene un'ombra indistinta scivolare obliquamente lungo la superficie dello specchio. Il mio orologio ticchettava percettibilmente nel taschino del panciotto, sotto la vestaglia. No, si
trattava di un'illusione: anzi, della mia stessa ombra. Se muovevo la mano che reggeva la pistola, si vedeva un movimento corrispondente nell'ombra riflessa dallo specchio. Ma in mezzo a quell'immensità nera e vuota mi sentivo smarrito, e il panico si era impadronito di me. Se avessi visto qualcosa di simile a una figura umana muoversi nell'armadio, sapevo bene che avrei sparato a bruciapelo. (Sciocchezze, mi dissi: cerca di ricomporti! Se davvero Jack Ketch dovesse uscire da un cantuccio e posarti una mano sulla spalla, be', allora cosa faresti?) Di ritorno nel salone enorme, respirai più liberamente. Il soffitto a volta si alzava altissimo e fantomatico sulle nostre teste; quelle bizzarre cortine verdi erano tirate su recessi misteriosi, ma lì almeno c'era una benedettissima luce. Graffin mi guardò con aria ansiosa; poi abbozzò una risatina e mi domandò in tono forzatamente scherzoso: «Non avete incontrato nessun ladro, vero, amico carissimo?» Mi salì alla gola un fiotto di repulsione verso quell'essere ripugnante: quel ricattatore piagnucoloso che se l'era goduta un mondo a torturare El Moulk e adesso, istupidito dalla paura, temeva per il proprio esile collo. Un collo simile, pensai, offriva alle mani un'ottima presa: era tanto lungo che si sarebbero potute addirittura mettere una sull'altra. (Pfui! Che orribile idea! Da dove era sbucata?) Misi il bicchiere sul tavolo e risposi freddamente: «Niente ladri. Mi era parso di vedere Jack Ketch, ma mi ero sbagliato.» La sua mano tremò forte sulla bottiglia del whisky. Gli occhi infiammati si spalancarono fino a schizzare dalle orbite; ma poi lui sembrò ricomporsi. Cercando evidentemente d'ingraziarmisi, disse con ansia penosa: «Oh... volete scherzare, eh? Ah, ah! Per Giove, questa è comica! Mi prendete in giro... ma certo.» Si sforzò di ridere e agitò in aria un dito ammonitore. «Ma non dovete farmi questo, amico caro. Mi fa male: ho il cuore debole. Perché era proprio uno scherzo, vero? Vero?» «Sì, era uno scherzo» ammisi stancamente. Graffin versò il liquore nei bicchieri, riempiendoli quasi fino all'orlo. Poi gettò la testa all'indietro e ingoiò il suo a garganella, mettendo in evidenza quel collo rosso da tacchino sul quale il pomo di Adamo andava su e giù a balzi. Il martellare ricominciò di nuovo... L'uomo si raddrizzò di colpo e balbettò: «Cosa... che rumore è questo?» «Io non ho sentito niente.» «Oh... la mia immaginazione, suppongo. Davvero. Be', alla salute!»
Vuotò il secondo bicchiere d'un fiato. Se ne versò un altro e pensai che sarebbe bastato. Non dovevo che lasciarglielo scolare e senza dubbio sarebbe partito. Mi mossi appena nella poltrona e lui pensò che stessi per andarmene. «Oh, no. Non dovete andar via. Proprio no» disse in tono persuasivo. «Guardate... vi piace la musica? Suonerò il piano per voi!» Felice della bella idea, si alzò e andò a fatica verso lo sgabello, voltandosi continuamente a lanciarmi occhiate ansiose. Quello spettacolo stava cominciando a darmi la nausea. «Vi suonerò il piano. Qualunque cosa vi piaccia. So suonare di tutto. Cosa volete sentire?» «Quello che volete voi. Prima però bevete.» «Bravo! Bravo! Un bicchierino solo. Solo un altro bicchierino...» Ritornò barcollando al tavolo, vuotò il bicchiere che aveva riempito e filò via di nuovo verso lo sgabello. Vi sedette sopra, tutto raggomitolato, e diede il via a una tempesta di accordi. Un gran brivido mi percorse. Graffin non aveva perduto nulla di quel suo tocco magnifico, sublime: era come se le mani soltanto fossero rimaste vive, nella rovina di tutte le sue altre facoltà. Solo le mani erano agili, sicure, ispirate. Suonò Chopin con una specie di squisita follia e con la pena straziante dei dannati. Alla sua sinistra, i colori del sarcofago brillavano alla luce; sopra di lui, le cortine verdi si levavano a un'altezza da capogiro. La sua testa calva dondolava come snodata... Suonò per parecchio tempo, e infine quel gorgo di furia e di dolcezza di estinse. Fu come se Graffin se ne fosse dimenticato. Si girò strascicando i piedi e fissò il pavimento. Toc, toc... toc, toc, toc... Alzò la testa e io dissi subito, a voce molto alta: «Siete stato meraviglioso! Suonate ancora. Suonate...» Stavo urlando, quasi. Toc, toc-toc, toc... Graffin si tirò su e, chissà come, riuscì a ritornare al tavolo. Adesso sembrava più calmo. Era come se, in un certo senso, avesse toccato il fondo. Ebbi l'impressione di vederlo disgregarsi di fronte ai miei occhi. «Per me è finita» mormorò pianissimo. «Per me è finita. Non ne posso più... Lui sta costruendo una forca per me.» Le ultime parole uscirono quasi in un soffio, così che potei sentirle a malapena. L'uomo lasciò cadere la testa tra le mani ossute e balbettò: «Voi mi metterete in prigione. Voi siete della polizia: mettetemi in prigione...» Di colpo, si raddrizzò e batté un gran pugno sulla scrivania. «Ma io parlerò! Parlerò, avete capito? Preferisco andare in prigione che sopportare tutto
questo un minuto di più. Lui non mi prenderà. Se vi dico tutto, non lascerete che mi prenda, vero?» "Conoscevo il ragazzo. Il ragazzo era stato sotto le armi con me: dissero che era morto... Io invece... «a questo punto, gli apparvero negli occhi due grotteschi lacrimoni» io invece finii davanti alla corte marziale. Codardia, diserzione, dicevano. Bugie! Volevano fucilarmi. Ma la guerra finì. Mi buttarono fuori dell'esercito a calci. Andai a Parigi. Riconobbi il ragazzo. Il ragazzo era con El Moulk... Non ci fu duello! Non ci fu mai un duello! El Moulk sparò a De Lavateur e lo uccise, capite? Lui ammazzò De Lavateur! E io ne ho le prove!" Batteva debolmente coi pugni il ripiano della scrivania e mi fissava con occhi sbarrati. Stava quasi soffocando nello sforzo di parlare più in fretta. «Avvicinatevi!» Mi fece un cenno con la mano e io mi accostai al tavolo. «Ho cavato a El Moulk un sacco di soldi per stare zitto. Poi, da quando siamo venuti qui, ho saputo che c'era qualcuno che teneva al ragazzo, ed era...» La sua voce si spense in un mormorio confuso. Io non osavo interloquire, per timore che quel tenue filo di lucidità s'interrompesse e il cervello offuscato dell'uomo si chiudesse di nuovo nel silenzio. Trattenni il respiro. «È lui Jack Ketch! Gli ho venduto le prove per cinquantamila sterline... Dio, quanto sono stato pazzo!... Volevo lavorarmeli tutti e due, lui e El Moulk, capite?» Graffin stava cercando disperatamente di parlare in modo coerente, e i suoi occhi infiammati erano vitrei dallo sforzo. Ci fu una pausa. Lui ansimava forte. «El Moulk non sapeva chi mandava qui... quegli oggetti. Non sapeva che Jack Ketch era...» «Chi?» gridai io, afferrandolo per le spalle. «Lasciatemi stare!» esclamò Graffin, sbuffando. Sembrava perplesso: l'esile filo di razionalità si era spezzato. Tese una mano tremante verso la bottiglia del whisky. «Cosa diavolo stavo dicendo? Oh, sì! Jack Ketch...» Con un singhiozzo, si abbatté di colpo sul ripiano della scrivania, privo di sensi. La sua testa vi batté sopra con un forte tonfo e un braccio rovesciò la bottiglia, così che il whisky spillato formò una chiazza intorno alla faccia del tenente. Adesso nel salone si sentiva solo il suo respiro pesante da ubriaco... Dopo un po', mi trassi indietro: farlo rinvenire era impossibile. Per la prima volta mi resi conto del freddo glaciale dell'ambiente. Feci scorrere lo sguardo su quelle vastissime pareti verdi, sulle gelide reliquie stipate nelle
bacheche, sulle quattro lanterne di ottone. Nel silenzio irreale, mi sentii scuotere da un brivido premonitore. Bene, era venuto il momento di agire! Ricordando le istruzioni ricevute, andai alle finestre e tirai indietro le tende. La neve cadeva ancora con silenziosa insistenza. Nel vetro vidi il riflesso della lampada verde e della testa di Graffin, il quale giaceva col viso sepolto nell'incavo di un braccio... Forse qualcuno stava guardando e ascoltando, perché io dovessi sottomettermi alla sceneggiata dei saluti? A voce alta e chiara dissi: «Buona notte, tenente.» Gli battei un colpetto sulla spalla, abbozzai un breve saluto militare e mi dileguai nella zona d'ombra. Mi fermai davanti alla porta che dava nel corridoio e accostai pian piano una sedia al battente. Seduto là nel buio più denso, tenevo le spalle rivolte a una porta sbarrata e avevo in piena vista le altre due. L'attesa era cominciata. Troppo tardi per desiderare una giacca o un cappotto che mi tenessero caldo: avevo addosso solo una vestaglia di seta, insufficiente a combattere quel freddo infernale. Tuttavia, cercai di sistemarmi più comodamente che potei e mi rassegnai ad aspettare... Da St. James's Street non veniva alcun rumore, a parte il ronzio occasionale di un'automobile. Il minuscolo pulsare del mio orologio batteva con regolarità. Di tanto in tanto, Graffin emetteva un brontolio e si muoveva: vedevo la sua testa calva luccicare al di là della lampada verde. Pavimento a mattonelle bianche e nere. Tappeti verde scuro. Alla mia sinistra, il caminetto di marmo nero; poi i quattro vasi azzurri e l'affresco del "Giudizio dell'Anima". Alle pareti, gli scaffali torreggianti e le bacheche dorate. Tre finestre mostravano tenuissimi riflessi della stanza sui vetri... e come si andava ammucchiando, a poco a poco, la neve sui davanzali! Tic-tic, tictic...: era il mio orologio. Al di là delle finestre, solo il buio. Cosa faceva Pilgrim? Era sveglio? Sapeva cosa stava succedendo nel suo teatrino di marionette? Pilgrim. Colette Laverne. Un lampo di luce illuminava il suo corpo straziato... No, via da me queste visioni! Dallings. Mount Street. Sharon, Sharon, il Mediterraneo, le braccia di Sharon, un lento tiepido bagno di sonno. Sonno? Macbeth ha ucciso... Assassinio. El Moulk. I miei pensieri descrivevano un folle girotondo, come scoiattoli in una gabbia. Assassinio... El Moulk; El Moulk... assassinio: pareva il lento dondolio di un pendolo atto a conciliare il... no, non c'è più il sonno: Macbeth lo ha ucciso. Tic-tic... tic-tic... Le ore si trascinavano. Io avevo completamente perso il senso del tempo. A forza di girare continuamente gli occhi lungo i confini della grande stanza, i suoi particolari si andavano distorcendo al di fuori di ogni propor-
zione; come una parola perde il significato quando viene ripetuta più e più volte. Le lanterne di ottone dondolavano avanti e indietro, appese alle loro catene; la statuetta di Hathor in basalto nero, chiusa in una delle bacheche, s'inclinò di lato. Tutto cominciò a girarmi intorno lentamente, come in uno di quei padiglioni delle illusioni ottiche in un luna-park. Caddi giù, sempre più giù, nelle profondità insondabili della lampada verde. Come in un trucco di prestidigitazione, dalle mani di un mago eruttarono carte da gioco. Erano tutte figure, e mi turbinarono intorno: El Moulk, Graffia, Pilgrim, Sharon, Talbot, Sir John, Joyet, Dallings. "Scegliete una carta, signore e signori. Scegliete un assassino...'''' Mi ero addormentato e stavo scivolando dalla sedia. Mi raddrizzai di scatto e un forte dolore mi attraversò le membra rattrappite. Il salone era tornato a fuoco. Qualcuno stava salendo la scala privata. Chissà come, il ticchettio dell'orologio si era confuso col battito tumultuoso del mio cuore. Che ora era? Per quanto tempo avevo dormito? Qualcuno stava salendo la scala privata. Avevo le mani irrigidite dal freddo e rabbrividivo. Frugai nel taschino del panciotto e cercai di concentrare i miei occhi annebbiati dalla stanchezza sul quadrante luminoso dell'orologio. Erano le due e mezzo. Avevo dormito davvero? Le due e mezzo: erano le ore arcane del primissimo mattino, quando perfino l'aria pare stregata e il silenzio è più vicino a quello della morte che a quello del sonno. Cauti, leggeri ma distinti, i passi salivano dal fondo dell'edificio. Si fermavano su ogni pianerottolo, come se chi stava salendo si fermasse ad ascoltare. Jack Ketch stava arrivando... Gran Dio! Avevo dimenticato di aprire la porta che Graffin aveva chiuso a chiave! Lui doveva entrare Liberamente. Doveva arrivare a mettere le mani su Graffin: poi sarebbe bastato date l'allarme col fischietto... La lentezza con cui i passi si muovevano mi faceva impazzire, però mi dava anche il tempo di riparare alla dimenticanza. Mi alzai con precauzione e, camminando sui tappeti, mi diressi alla porta della scala interna. Mi sentivo le gambe leggere, e un'eccitazione sinistra e fortissima mi faceva tremare. Da una fessura sotto il battente, una corrente d'aria fredda mi fece venire la pelle d'oca alle caviglie. Piano, così piano che sentivo il silenzio che mi pulsava nelle orecchie, girai la chiave nella serratura. I passi si stavano avvicinando: riuscivo perfino a percepire il loro leggero scricchiolio sulla polvere che copriva i gradini. Mantenendomi di fronte alla porta, scivolai di fianco verso destra e mi nascosi
nell'ombra delle tende di uno scaffale. Dovevo lasciargli vedere la sua preda che giaceva indifesa, buttata sul ripiano del tavolo. I passi s'interruppero. La mia fantasia sovreccitata riuscì perfino a cogliere il respiro dell'uomo che stava dietro il battente. Serrai il calcio della pistola tanto forte da farmi dolere il polso. Graffin gemette piano nel sonno e il suo braccio libero scivolò giù dal tavolo. Leggermente, ma con insistenza, qualcuno bussò alla porta. Silenzio. Il salone illuminato appena dalla lampada verde ondeggiò e fremette, in quell'enorme boato che chiamiamo silenzio. Poi il bussare si ripeté. Era persuasivo: era la carezza di una zampa di ragno che v'invitava gentilmente ad aprire. E con la massima cortesia vi attirava nella sua ragnatela... La maniglia cominciò a girare. 17 Il nome è... Spianai la pistola all'altezza giusta, mi piantai saldamente contro lo scaffale e presi il fischietto tra le labbra. Mi sentivo di colpo perfettamente calmo, animato da un arcano coraggio e un'estrema chiarezza di pensiero. Ci fu una pausa. ("Avanti, che tu sia dannato! Fatti avanti! Basterà un suono a sistemarti: un colpo di pistola o lo squillo del fischietto, l'uno o l'altro... perciò fatti avanti!" Tamburi fantomatici rullavano in sottofondo. "È suonata l'ora della fine per te, Jack Ketch!") Eppure non si sentiva più alcun movimento, e la maniglia aveva smesso di girare. Rimasi a fissarla per diversi minuti, alla lettera. Ancora oggi mi par di vederla nei miei sogni, quella maniglia di porcellana bianca. Che cosa tratteneva l'assassino? Era ancora là, sul pianerottolo, in ascolto? Era forse bastato il fruscio della mia manica contro la tenda dello scaffale o il ticchettio dell'orologio a metterlo in guardia? Imprecai in silenzio, serrando le mascelle così forte che mi fecero male. La mia eccitazione svaniva a poco a poco, e il mio coraggio si stava estinguendo. Se Jack Ketch non si decideva a muoversi... Forse se n'era andato? No: avrei sentito i suoi passi per le scale, e in tal caso avrei dovuto assumere io l'iniziativa. Aprendo quella porta, potevo trovarmi faccia a faccia con Jack Ketch. Ma un momento! Bencolin aveva teso una trappola: e se fuori di lì ci fosse stato un poliziotto? No. I passi erano stati talmente furtivi che potevano appartenere a un solo uomo... Af-
ferrai la maniglia con fermezza, la girai cautamente e spalancai la porta di colpo. Sul pianerottolo non c'era nessuno. Solo un fievole bagliore proveniente dalla lampada verde filtrava là fuori, ma era sufficiente a mostrarmi che il pianerottolo era deserto. In cima c'era la botola del soffitto; davanti a me scendeva la scala. Tutto polveroso, vuoto e freddo. Stavo diventando pazzo, per caso? Non era possibile che non avessi sentito i suoi passi, se lui fosse ridisceso! La situazione era assurda: Jack Ketch non poteva essersi dissolto nell'aria. Ma un momento... Mi si ripresentarono alla mente le vecchie storie... storie di un appartamento segreto nascosto chissà dove tra le mura del Brimstone Club. Forse non si trattava di una sciocca leggenda. Forse, in qualche recesso di quel folle e antico edificio, esisteva davvero un appartamento segreto dove Jack Ketch celebrava i suoi riti diabolici... e magari lui si era involato attraverso le pareti per piroettare intorno al colossale patibolo riservato a Nezam El Moulk. Che le pareti fossero cave? No, impossibile! Nel frattempo, però, io mi stavo esponendo direttamente, profilato com'ero controluce... Smisi di fantasticare. C'era corrente sul pianerottolo, ma ebbi l'impressione di sentire un soffio d'aria ancora più fredda che veniva dall'alto. I miei occhi corsero alla scala a pioli, la cui cima si perdeva nelle tenebre per raggiungere il soffitto altissimo e la botola, posta a sei metri e più dal suolo. La botola non era visibile, ma il soffio d'aria mi rivelò chiaramente dove fosse andato Jack Ketch. Il suo covo segreto era lassù. Se avessi potuto rintracciarlo... Mi aveva visto? Probabilmente no, dal momento che non aveva chiuso la botola. D'altra parte, però, poteva essersi messo in agguato; e io non avevo luce. Ma era necessario agire da temerario o non farne nulla; senza contare che Graffin era al sicuro, finché il mio uomo si trovava di sopra. Spinto da un impulso cieco, estrassi la chiave dalla serratura e richiusi la porta dall'esterno. Poi mi lasciai scivolare in tasca la chiave. Ormai mi ero tagliato la ritirata: e non dovevo perdermi di coraggio, perché ero in procinto di scontrarmi con Jack Ketch nell'oscurità. Il pianerottolo era completamente buio, a parte una debole fessura verdastra sotto la porta. Avanzai a tentoni verso la scala, riposi il fischietto nella tasca della vestaglia e cominciai a salire. Saggiavo con cura ogni piolo, senza appoggiarmici mai sopra di peso prima di essermi assicurato che non scricchiolasse. La corrente d'aria fredda era piuttosto forte, e la sorgente del misterioso martellare si stava facendo più evidente. A un certo
punto, mi parve che l'oscurità sopra di me fosse un tantino meno profonda; si vedeva una striscia blu che poteva indicare il bordo di una botola parzialmente sollevata, e la corrente mi scompigliava i capelli sulla testa. La pistola era ingombrante. Una volta mi scivolò quasi dì mano, e io mi aggrappai alla scala per un istante, rabbrividendo di nausea e sudando freddo... Adesso avevo la testa dentro l'apertura della botola e la mia mano, esplorando, aveva toccato una superficie di legno. Mi aspettavo davvero di ricevere sul cranio un colpo con il calcio di un'arma; invece non ci fu alcun suono o movimento, e le stelle immaginarie che avevo temuto di vedere svanirono, all'istante. La botola era completamente sollevata, e me ne accertai tastandola tutt'intorno. Mi tirai su, oltre il bordo. Mi trovavo in una sorta di soffitta, ma non riuscii a farmi un'idea della sua forma o estensione. Vi alitava un vento gelido, e mi parve di sentire un fruscio di carte agitate; ma quel buio fremente e ondeggiante era impenetrabile. Sfiorai con le dita qualcosa e ve le feci scorrere sopra: era legno lucidato. Che razza di bizzarra soffitta "per i rifiuti", come dicevano nel club. Il pavimento che avevo toccato era Uscio e solidissimo, e certamente non avrebbe scricchiolato. Del resto, per fortuna avevo scarpe con la suola di gomma. Fu allora che la spaventosa follia della mia condotta mi colpì. La soffitta doveva essere enorme: l'idea che una persona sola e senza luce cercasse di rintracciarvi Jack Ketch, mentre la preda dell'assassino dormiva il sonno dell'ubriachezza al piano di sotto, era pazzia allo stato puro. Non sarebbe stato meglio soffiare nel fischietto? Certo Bencolin aveva disposto un buon numero di poliziotti in giro per l'edificio: loro avrebbero potuto frugare il posto da un estremo all'altro. Non sarebbe stato meglio... Davanti a me, comparve una luce. Mi trovavo ancora seduto sul bordo della botola, del tutto allo scoperto. Mi affrettai a rotolar via e mi allontanai. Adesso sì che gli eventi stavano cominciando a precipitare. Non avremmo più sentito il passo malvagio dell'assassino strisciare davanti alla nostra porta, non lo avremmo più udito bussare nella notte senza prima aver scorto almeno un terribile barlume della sua faccia. Dio mio! Avevo perduto il fischietto! Frugando con la mano nella tasca della vestaglia, avevo trovato solo un pacchetto di sigarette... Caddi in ginocchio e frugai intorno a tentoni, scosso da un senso di frustrazione disperata. No, eccolo! Lo sentii tintinnare appena contro il mio piede. Nel frattempo, il freddo era diventato ancora più glaciale. Certo doveva esserci una finestra corrispon-
dente a quella del piano di sotto: era aperta e io mi ci trovavo vicino... Ecco di nuovo la luce. Se ne giudicavo correttamente la posizione, doveva trovarsi contro la parete di fondo e direttamente dinanzi a me. Era la parete alla quale corrispondeva, nel salone di El Moulk, quella occupata dal pianoforte a coda e dal sarcofago. Dapprima venne avanti, lentamente, come una linea bianca e obliqua che si allargava a ventaglio contro lo sfondo scuro. La luce pareva venire dall'interno della parete, e adesso qualcosa vi si stagliava contro. Un uomo? No, era una sagoma troppo inverosimilmente alta. La vidi profilarsi contro un muro di mattoni e poi contro una canna fumaria di grandezza spropositata. Tra la parete e la canna, anzi contro il fianco della canna stessa, si stava aprendo una porta. E ora sì che vidi sgusciare di sbieco, contro il ventaglio di luce, l'ombra di un uomo. Era grottesca e di un'altezza incredibile... tanto che si proiettò, curiosamente piegata in due, sul tetto della soffitta. La sagoma ondeggiante si contorceva come se l'uomo stesse ridendo, ma non udii alcun suono. Il naso aguzzo, la bocca spalancata, le spalle sobbalzanti: tutto era esagerato. Forse per un bizzarro gioco di luce, l'uomo sembrava portare un cappello a cilindro. Certo non poteva essere... Graffia, che avevo lasciato al piano di sotto ubriaco fradicio e addormentato; o invece era lui? No, dovevo sbagliarmi. La sagoma scheletrica ondeggiava avanti e indietro come in una pantomima al rallentatore, e pareva seguire il ritmo di una musica segreta. Qualcuno rise. La luce si spense. Dietro, sulla nuca, sentivo il tocco gelido dei fiocchi di neve che entravano dalla finestra. Adesso non era il momento di lasciarsi prendere dal panico; dovevo piuttosto fare appello a tutte le mie facoltà mentali. Cominciai ad avanzare nell'oscurità con prudente lentezza. A un certo punto, durante la mia inutile veglia nel salone al piano di sotto, avevo cercato di misurare le dimensioni del gigantesco ambiente. Calcolando che ogni mio passo equivalesse a circa mezzo metro, avevo stabilito che la larghezza della stanza fosse di diciotto passi. A questi ne andavano aggiunti altri cinque, che rappresentavano la larghezza del pianerottolo; quindi avrei potuto sapere, più o meno esattamente, di quanto mi andavo avvicinando alla sorgente di luce. La canna fumaria doveva essere finta, perché al piano inferiore il caminetto si trovava contro la parete opposta. Se ci fossero stati ostacoli sul mio cammino, avrei dovuto affrontare il rischio di far rumore... Contai otto passi, poi nove, dieci, undici, dodici, tredici, quattordici, quindici, sedici...
La mia mano protesa incontrò la parete. Diamine, possibile che sulla larghezza della soffitta mi fossi sbagliato di oltre tre metri? Ma no, doveva essere un muro accessorio: sette passi di differenza erano troppi. Eppure, tastando verso sinistra, incontrai la canna fumaria di mattoni. Era molto sporgente dalla parete, forse di un paio di metri, e la lunghezza era in proporzione. Doveva esserci una differenza di tre metri fra la parete corrispondente al piano di sotto e questa, senza contare i due metri della sporgenza della canna fumaria. Ecco come si spiegava l'appartamento segreto! Un occhio non prevenuto non avrebbe mai notato quella discrepanza, nemmeno alla luce del giorno. Salendo dalla botola, chiunque avrebbe lanciato solo uno sguardo distratto alla parete opposta e, dimenticando l'estensione addizionale del pianerottolo immediatamente sotto, avrebbe giudicato che le dimensioni fossero equivalenti. Solo misurando la distanza nel buio più completo e contando i passi ad uno ad uno, ci si poteva render conto dell'errore di valutazione. In altre parole, l'appartamento segreto doveva occupare l'intera larghezza dell'edificio, con una finta parete che ne chiudeva un intero lato e la falsa canna fumaria che doveva nascondere una specie di piccola anticamera. Mi tenni stretto al fianco della canna e ne feci il giro per trovare l'estremità di destra, dove doveva essere celata la porta. Un suono attrasse la mia attenzione... il debole rumore di un passo non molto guardingo... quindi quello di un piede che strisciava su qualcosa. Il secondo rumore si ripeté, allontanandosi fino a svanire. Qualcuno stava scendendo la scala a pioli. Mi girai di scatto. Era chiaro adesso il perché si fosse aperta la porta segreta. Jack Ketch non era in perlustrazione, stava semplicemente uscendo dalla sua tana. In qualche punto di quell'enorme ambiente buio, ci eravamo incrociati. Io lo avevo mancato... avevo perduto la mia occasione. Forse l'assassino si stava recando da Graffin? Ero in procinto di slanciarmi verso la botola... la cui ubicazione in quel momento non ricordavo nemmeno... quando sentii il rumore inconfondibile di passi che scendevano i gradini della scala interna a partire dal pianerottolo. Certo Bencolin non poteva essere stato così sciocco da lasciare l'intero edificio senza vigilanza! Dovevano esserci in giro abbastanza poliziotti da intercettare l'assassino. Nel frattempo... Ero stordito, avevo perso completamente la testa. Avevo fallito in modo imperdonabile la missione affidatami e adesso non sapevo cosa fare. Intanto il rumore dei passi si faceva ogni istante più debole. Stavo quasi per mettermi a urlare quando la mia mano scivolò lungo il fianco della canna e
trovò un'apertura. Jack Ketch aveva lasciato socchiusa la sua porta segreta. Ciò significava che si riprometteva di tornar presto, e intanto io stavo sulla soglia del suo covo misterioso. Mi sentivo scoppiare la testa. Dall'apertura lungo la canna fumaria, giungeva alle mie narici un puzzo di muffa e rancidume; ma l'aria che ne proveniva era calda, e mi parve di distinguere un vago bagliore di luce rossastra. C'erano anche altri odori, comunque... quello del ferro arroventato e quello dolciastro e nauseante del cloroformio. La porta era formata da una sezione intera del muro di mattoni, molto spessa. M'insinuai nell'apertura. Con la mano che reggeva la pistola, toccai un oggetto freddo che mi fece rabbrividire di sollievo. Era un candeliere, posto su una specie di tavolo accanto alla porta, e al tocco sentii che la candela era ancora calda. Nel taschino del panciotto avevo l'accendino. Lo feci scattare... La fiammella della candela guizzò alta, sotto un'enorme cortina di ombre semoventi. Mi trovavo in un'anticamera abbastanza vasta, che s'innalzava a un'altezza vertiginosa; ma per un istante mi rifiutai di credere che non fossi entrato nei reami dell'incubo. Le pareti erano interamente coperte di drappeggi in velluto nero con fitti arabeschi d'oro, che parevano contorcersi alla luce della candela. Il velluto era tarlato e ammuffito, quasi a pezzi, e la scena nel complesso dava un'orribile impressione di lebbrosa opulenza. Sotto i miei piedi, scintillava lo stesso malefico groviglio di nero e oro. L'odore del cloroformio era più forte, là dentro, e anche quello del ferro arroventato... La fiamma della candela si rifletté in uno specchio alto e stretto, la cui cornice di stucco dorato si era sfaldata a strisce; dentro, vidi il riflesso della mia faccia livida. Globi a gas incrinati penzolavano da un lampadario sospeso a quasi sei metri sopra la mia testa. A sinistra, sul lato opposto della sporgenza formata dalla falsa canna fumaria, mi parve di distinguere una specie di divano; e, davanti al mobile, una botola sul pavimento. A destra c'era una porta pure velata da drappeggi di velluto, che doveva aprirsi su chissà quali profondità misteriose; ma la luce era troppo scarsa perché potessi distinguere forme precise. Posai la candela sul tavolo dove l'avevo trovata, impugnai la pistola e mi diressi verso quella porta. Qualcuno gemette. Mi arrestai di colpo, rabbrividendo a quel suono fioco e irreale; ma non riuscii a localizzarlo. Poteva provenire dallo spazio al di là della porta o dall'anticamera stessa. Cautamente, tirai da parte la cortina nera e oro e vi-
di un lungo corridoio che si estendeva ad angolo retto rispetto all'anticamera; doveva correre dalla facciata al retro dell'edificio. L'odore di muffa era fortissimo. A un certo punto, mi accorsi che dei passi strascicati si stavano avvicinando lungo il corridoio, dal fondo della tana... Dunque, Jack Ketch non era solo. Il boia aveva un aiutante! Ero certo che in quel momento l'assassino non si trovasse nell'appartamento segreto, avrei potuto giurarlo; i passi dovevano essere di un suo complice. Lo strascicare di piedi si fece più distinto, avvicinandosi alla porta dalla cui soglia mi ero ritratto. E, di colpo, sentii una voce alzarsi come in una spaventosa cantilena dolente. «Dove siete? Ma... dove... siete?» Debole, agghiacciante, il gemito fioco echeggiava tra quelle mura orribili, ripetendo: «Dove... siete?» e rimbalzando qua e là con la cecità lamentosa di un'anima sperduta negl'interminabili corridoi dell'inferno. Il vapore del metallo arroventato mi punse le narici da neanche mezzo metro di distanza. Mi schiacciai contro i cortinaggi appesi alle pareti mentre la tenda della porta vibrava al movimento di una mano. Sulla soglia si era affacciata una figura, appena delineata dalla luce della candela. Stringeva in mano un oggetto allungato, la cui punta scintillava di una spettrale incandescenza bianco-rossastra. Di nuovo si levò l'esile lamento soffocato, nella sua vana e perduta battaglia contro il silenzio: «Dove siete? Dove siete?...» La figura non ebbe nemmeno il tempo di emettere un suono prima che le balzassi addosso. Era piccola... L'afferrai per la gola, la scossi e la mandai a sbattere contro il muro, piantandole la canna della pistola nello stomaco. Le sue gambe si contorsero futilmente; la punta scintillante dell'attizzatoio che teneva in mano volteggiò in aria e si abbatté a terra. «Fermo e zitto!» ringhiai. «Non una parola, Teddy!» Non si udì altro che un gorgoglio terrorizzato e l'ansimare del mio respiro. Da dietro le mie spalle, la luce della candela cadeva sulla faccetta contorta di quell'essere infelice, orribilmente rugosa, con le labbra stirate sulle gengive e la bocca sbavante. Aveva sugli occhi una pellicola opaca simile a quella dei pesci morti, e rivoli untuosi di brillantina scorrevano sulle mie mani e gli finivano sul collo. Lo tenevo inchiodato contro il muro come un grottesco crocifisso. Immobilizzato contro i cortinaggi di velluto nero e oro, lui mi guardava fissamente. Sentivo il puzzo del tappeto strinato dalla punta incandescente dell'attizzatoio. Teddy! Tremavo da capo a piedi ed ero tutto sudato. Vidi i suoi occhi farsi ancora più vitrei e sporgenti, e mi resi conto che lo stavo strangolando. Dischiusi un po' le dita e, ricorrendo
al gergo dei bambini, pronunciai parole che, a sentirle sussurrare in quella dimora da incubo, dovevano sembrare l'apice stesso della pazzia. «Teddy, fai appena un rumore» lo ammonii a bassa voce «e...» Gli solleticai lo stomaco con la pistola. Lentamente, lo rimisi giù e gli tolsi le mani dalla gola. Dunque, quel ragazzino deficiente era un alleato di Jack Ketch, e perfino in quel momento stava arroventando i ferri per il sacrificio mostruoso. Tenendolo per la nuca tornai ad attraversare la cortina della porta di destra, la pistola in pugno. Feci in tempo per un pelo. Mi ero appena mosso che dalla porta segreta di mattoni, ancora socchiusa, mi giunse un rumore di legno che scricchiolava e poi un tonfo. Qualcuno aveva chiuso la botola della soffitta. Jack Ketch ritornava al suo covo. Nella penombra, tirai la cortina in modo da aprirla a metà e mi accucciai accanto al mio prigioniero. Non potevo nemmeno vedere la fiamma della candela, perché mi trovavo dietro un aggetto del muro che celava ai miei occhi l'ingresso esterno. La fiammella oscillò alla corrente, e il suo raggio vacillante creò un folle gioco di ombre sui consunti cortinaggi di velluto nero e oro. Tuttavia, quella luce fioca cadeva sul cammino che Jack Ketch doveva necessariamente percorrere. Adesso i suoi passi si stavano avvicinando all'entrata! Avrei voluto sparare o urlare; qualunque cosa, pur di metter fine alla torturante lentezza, di quegli attimi interminabili. Sul tappeto, il buco aperto dalla punta dell'attizzatoio fumava e si slabbrava in una coroncina di fuoco... Il boia adesso era davanti all'entrata, e a me parve che il petto dovesse scoppiarmi. Ora era entrato... Al lume della candela, vidi torreggiare un'alta figura con la faccia in ombra e una spalla curva. Sì, il volto era invisibile, ma vidi distintamente le lunghe dita di una mano bianca rattrappite come artigli sul petto dell'assassino. Oscillava appena e sembrava che stesse in guardia, pronto ad avvertire il minimo sentore di pericolo. La tensione di quel momento ruggente si tese fino all'esplosione. Una tavola scricchiolò sotto il mio piede. Il boia si volse di scatto... «Mani in alto!» Lo squillo del mio fischietto si levò lacerante nell'aria, ma nell'infrangersi di quella tensione estrema mi resi conto troppo tardi che avevo allentato la stretta sul prigioniero rannicchiato sotto di me. Teddy si contorse e rotolò via, emettendo un urlo soffocato. La sua piccola mano tozza afferrò l'attizzatoio caduto. Ne vidi la punta ancora splendente levarsi in alto, al di
sopra della mia spalla. Non feci il tempo a scansarlo e lo sentii abbattersi sul mio cranio. Mi sembrò che la testa mi balzasse via dal collo e partisse roteando nel vuoto; ci fu un caos di luci balenanti e le pareti si dissolsero nell'incubo... Qualcuno stava ancora soffiando nel fischietto! Perfino in quel momento di confusione infernale, seppi di aver scagliato Teddy dall'altra parte della stanza, di aver addirittura gettato via la pistola e di essermi lanciato alla gola di Jack Ketch. Lui era davanti a me e barcollava; balzò all'indietro allargando le braccia, e la luce della candela cadde in pieno sul suo volto... No, no: era follia, dissennatezza, delirio. Non poteva essere... L'uomo lanciò un urlo, al quale rispose un clamore di voci. Con uno scalpiccio furioso, parecchi uomini irruppero dalla porta. Trascinarono Jack Ketch con le spalle al muro, ammanettato ma ancora deciso a lottare. I cortinaggi immensi furono strappati dai loro sostegni. Col fragore delle sue urla ancora nelle orecchie, barcollai. Mi sentivo male. Le luci che mi ruotavano intorno mi si precipitarono addosso, le gambe mi si piegarono e sprofondai in un gorgo oscuro e turbinante. Il volto di Jack Ketch era il volto di Sir John Landervorne. 18 Manette Il volto di Sir John Landervorne... I lineamenti austeri, l'ossatura spiccata, la carnagione olivastra, i lucidi capelli brizzolati, la barba corta e i baffi ben curati; gli occhi grigi e imperscrutabili sotto le sopracciglia sottili, le palpebre sempre un poco abbassate. Gli zigomi alti che gettavano un'ombra su quegli occhi. Il naso diritto e cesellato, le labbra sottili e serrate. Non so se quel volto mi avesse accompagnato nelle nebbie dello svenimento, ma so bene che fu la prima cosa che vidi quando ripresi i sensi. Prima di tutto mi resi conto di una nausea orribile, di un'emicrania violenta e di un suono di voci confuse. Mi trovavo mezzo seduto e mezzo sdraiato contro una parete; alzai la testa. Allora vidi che ero in una camera illuminata da parecchie lampade a gas fiammeggianti; e, proprio davanti a me, c'era il volto di Sir John. Un caleidoscopio di idee mi si agitò nel cervello. Jack Ketch era... Oh, sciocchezze! Non era che un sogno, una visione folle, martellata sull'incudine massacrante che mi pulsava nella testa! Sedeva proprio di fronte a me.
Gli sorrisi, ma lui non mi restituì il sorriso. Aveva la faccia impietrita ma vi si leggeva la tensione, e nei suoi occhi passavano lampi selvaggi. Era più pallido del solito e respirava in fretta e pesantemente, battendo le palpebre come se la luce gli desse fastidio. Sembrava ammalato. Portava un completo grigio e teneva le mani raccolte in grembo. A un certo punto cambiò posizione, forse per mettersi più comodo, e allora vidi che aveva i polsi ammanettati. Il mal di capo atroce mi spingeva a chiudere gli occhi, ma dovevo pur risolvere quell'enigma pazzesco. Riuscivo a scorgere solo la piccola porzione di stanza dove Sir John sedeva, apparentemente solo. Poi però comparve un paio di gambe chiaramente appartenenti a Talbot, e udii come in sogno un mormorio confuso. «... ammonirvi che qualunque cosa diciate potrà essere usata come prova contro di voi.» Sir John parve riscuotersi. Tirò un sospiro profondo e il suo ansimare convulso pian piano cessò. Fu come se le nebbie di un incubo si stessero diradando intorno a lui. Grigio e impassibile, scosse la testa con aria impaziente. «Non fate lo sciocco, Talbot, dannazione.» Quindi le sue labbra si curvarono nel sorriso glaciale che gli era solito. «Sì, fatemi almeno il favore di risparmiarmi la filastrocca. Mi avete inchiodato e lo sapete. Ma dovete fare il "poliziotto imparziale", no?» «Dunque voi non negate di...» «Perché diavolo dovrei negarlo?» scattò aspramente Sir John. «Avete tanto di testimoni, no? Naturalmente, andrò alla forca per questo. Ma potreste almeno darvi la pena di capire...» a questo punto, i suoi occhi diventarono addirittura di ghiaccio «che non me ne importa un accidente.» Con uno sforzo mi drizzai a sedere e cercai di afferrare i particolari della scena. La stanza parve solidificarsi davanti al mio sguardo. Tutte le lampade a gas erano accese. Accanto a me stava Talbot, in piedi, con un'aria piuttosto infelice e smarrita. Dietro la sedia di Sir John c'era un poliziotto in borghese, che stringeva per un braccio Teddy... il poveretto si teneva rannicchiato contro il muro, con le mani premute sugli occhi. Ci trovavamo nell'anticamera all'ingresso del covo, e sul divano a sinistra (il mobile di cui avevo veduto la sagoma indistinta quando ero entrato) sedeva una figura che disperse le nebbie dal mio cervello una volta per sempre: era Nezam El Moulk. Appariva molto pallido e sciupato, aveva la barba lunga e tutta la vivacità abituale si era dileguata dal suo viso malaticcio. Stringe-
va forte i bordi del divano per non tremare, ma i suoi occhi gialli fiammeggiavano di odio. In quel momento, la cortina della porta che dava nel corridoio venne scostata, e nell'apertura comparve un'altra persona. Era Bencolin. Il mio amico aveva un'aria fredda e spassionata: guardò Sir John come avrebbe potuto guardare un insetto bizzarro, e Sir John arrossì di amarezza. Cadde un lungo silenzio... «Vorreste... vorreste fare una dichiarazione?» domandò Talbot al suo ex capo. C'era qualcosa di mortalmente conclusivo in quella cortesia formale, e io ne rabbrividii. Sir John si alzò. Torreggiava alto e magrissimo nel mezzo della piccola stanza, e le sue spalle lievemente curve nascondevano le fiammelle gialloazzurre delle lampade a gas. Sembrava quasi fragile ora, ma l'impressione di fragilità era smentita dall'espressione di sottile disprezzo del suo viso. Con la fronte aggrottata, guardò dritto davanti a sé. «Vi scriverò una dichiarazione» disse «se vorrete condurmi subito giù, nelle mie stanze. Non ci devono essere malintesi...» S'interruppe e di colpo guardò Bencolin. Freddo e distante come sempre, ma con l'ombra dell'oscurità incombente negli occhi, aggiunse rigidamente: «Credo che abbiate vinto la scommessa.» «Credo di averla vinta, infatti» rispose il mio amico senza scomporsi. Sir John continuò con voce rauca: «Allora dovrò mandarvi un assegno, invece di pagare la cena. Amici!» Scosse le sue manette. «Amici! Dio ce ne scampi!»Bencolin gl'indirizzò un inchino. Quali pensieri si agitassero dietro la sua maschera mefistofelica, proprio non lo so. Non mostrava che il lato tagliente di una cortesia crudele, e teneva un sopracciglio alzato col sarcasmo abituale. Sentii però che si stava controllando a fatica per non sorridere. Sir John stava ancora immobile. Abbassò gli occhi sulle manette che aveva ai polsi, esaminandole con curiosità, come se all'improvviso non riuscisse a capire perché... «Credo che potreste anche togliermele, Talbot» disse. «Non ho nessuna intenzione di ripetere il mio scatto di poco fa...» Rapidamente, l'ispettore si fece avanti e gliele tolse. Come se non riuscisse a smettere di torturarsi, Sir John chiese allora a Bencolin: «Voi lo sapevate... fin dal principio, vero?» «Lo sospettavo, certo. Il giovane che si faceva chiamare Keane era...» «Era mio figlio» disse Sir John. Una pausa. La battaglia che infuriava nell'animo del vecchio era perce-
pibile solo dal suo respiro affannoso, ma si capiva che poteva esplodere da un momento all'altro. Lo vidi serrare i pugni: adesso, in quella stanza angusta e grottesca, parve davvero torreggiare. Volse lo sguardo al divano, e per un istante il suo corpo sembrò vibrare. Poco prima, avevo visto vibrare in quello stesso modo la sua ombra, squassata dall'odio. El Moulk lanciò un urlo... «Porco maledetto!» tuonò Sir John. «Era mio figlio!» Il grido tremendo echeggiò nel soffitto cavernoso della stanza. «Calma, signore!» disse Talbot, e nel vederlo irrigidirsi lo afferrò per un braccio. «Calma!» Per un istante, Sir John parve trasformarsi in una statua di pietra; poi il suo volto livido si volse lentamente. La sua voce non suonò più alta del normale, ma greve e terrificante. «Rimettetemi le manette, Talbot» ordinò, porgendo i polsi. «Rimettetemele, vi dico! Subito!» Le mani protese tremavano forte. «Bene... bene... vi ringrazio. E adesso...» Era un po' sconvolto, e alzò verso le fiamme dei lumi a gas uno sguardo quasi cieco. «Vedete» mormorò, esitante «vedete... io ero molto affezionato a quel ragazzo. Lui era... tutto quello che avevo, ed ero orgoglioso... Io... io credevo che fosse morto... da gentiluomo...» La voce del vecchio si spense. «Però» riprese quasi subito, più ferma «adesso credo che sia morto... che sia morto davvero da gentiluomo. Anche se non come pensavo io, capite? Non sapevo... che un porco spregevole lo avesse costretto... a impiccarsi, e per una colpa che non aveva commessa. Quando l'ho saputo, io...» Sir John si controllò con uno sforzo sovrumano. Inghiottì a vuoto, e una determinazione ferrea gl'irrigidì la mascella. «Abbiate la bontà di condurmi dabbasso, Talbot» concluse. Talbot fece un gesto verso l'entrata, sulla quale apparve un secondo agente in borghese che prese Sir John per un braccio. Quindi l'ispettore fece un cenno anche al primo, che spinse Teddy verso la porta. Tutto venne eseguito in una pantomima agghiacciante, senza alcun rumore a parte il lieve tintinnio delle manette e i singhiozzi soffocati di Teddy. «Trattatelo bene, agente» disse Sir John. «La mia dichiarazione proverà la sua innocenza. Questo poveretto ha fatto solo... quello che io gli ho detto.» Si arrestò sulla soglia. Esitò, come sopraffatto dalla stanchezza, e le palpebre sui suoi occhi miopi battevano nervosamente; ma si teneva eretto
con orgoglio e riuscì perfino a sorridere. «Ho un'ultima richiesta da farvi» disse con voce ferma. «Nella stanza verso la facciata di questo... di questo appartamento, troverete uno stipetto nell'angolo di sinistra. Nel cassetto del mobile ci sono le prove inoppugnabili che Nezam El Moulk sparò a Pierre De Lavateur e lo uccise, il 16 novembre di dieci anni fa. Le ho comprate da quella carogna di Graffin. Oltre a tutto il resto, c'è perfino una fotografia. Vi chiedo di far uso di queste prove, Bencolin, e non avrete nessuna difficoltà a mandare l'assassino alla ghigliottina. Nella medesima stanza, troverete la signorina Laverne legata e imbavagliata in un armadio. Può darsi che sia morta soffocata, a quest'ora; me lo auguro con tutto il cuore. Troverete anche la spada antica con la quale ho ucciso l'autista, e la pistola che ho usato per sparare al sergente Bronson: saranno utili al... al processo. Credo che questo sia tutto.» Si eresse nelle spalle e fece un breve cenno col capo. «Buona notte, signori. Non è probabile che... che vi riveda mai più.» Quando se ne fu andato, cadde un silenzio lunghissimo, durante il quale Talbot si aggirò senza meta per la stanza, passandosi le mani tra i capelli già arruffati e brontolando sottovoce. L'ultimo discorso di Sir John ci aveva lasciati con l'amaro in bocca; provavamo un desolato senso di futilità e di disastro. In quell'ora morta della notte, i minuti gelidi ticchettavano verso l'alba. L'ispettore si volse e ci mostrò un volto stanco e teso. «Penso sia meglio che io vada a liberare quella donna» mormorò. «L'ho già fatto io» disse Bencolin. «È stata drogata, ma si rimetterà ben presto...» Qualcuno sputò una parolaccia. Ci voltammo: era stato El Moulk. Finché Sir John si era trattenuto nella stanza, l'egiziano era rimasto rannicchiato contro la parete, ancora tremante di paura. Adesso stava accoccolato sul divano e ci guardava con occhi biechi. Alzò una mano per ravviarsi i capelli; il braccio intorpidito si muoveva con difficoltà e i polsi erano striati di rosso per le profonde escoriazioni lasciate dalla corda che li aveva serrati. Intorno al collo aveva ancora un cavo sottile, che sembrava fatto di fili d'acciaio intrecciati ed era stato evidentemente saldato a fuoco. Le sue larghe spire correvano lungo la parete alle sue spalle, e l'estremità era fissata a un trave del soffitto... Di colpo, El Moulk proruppe in un torrente d'imprecazioni talmente spaventose che raramente ne ho udite di simili. La sua voce si alzava sempre più, stridente di furia; l'ometto agitava i pugni serrati e pareva addirittura animalesco, con quel laccio al collo. «Silenzio, per favore!» gridò Talbot.
Gli occhi gialli lo fulminarono. «Lui crede che io andrò alla ghigliottina, eh?» stridette l'egiziano, battendosi i pugni sul petto. «Perdio, lo vedrà se ci andrò o no! Gli sputerò in faccia. Gli...» «State zitto, per favore!» «Non voglio star zitto! Non voglio! Gliela farò vedere io!» Il laccio metallico gli graffiava il collo, ed El Moulk cercò vanamente di allentarlo mentre si contorceva sul divano. «Insomma, volete liberarmi? O intendete tenermi seduto qui come un cane, con questa catena al collo? Avanti, parlate, stupido idiota... Vi decidete o no?» Un rossore penoso salì al volto di Talbot, che però rispose con calma: «Il laccio è stato saldato, signor El Moulk. Ci vorrà una tronchese per tagliarlo. L'ho mandata a cercare: se avrete un po' di pazienza, vi libereremo tra poco.» «I miei polsi!» gemette El Moulk. «Oh, i miei poveri polsi! E le mie gambe! Non posso ancora reggermi in piedi. Quel cane! Oh, quel...» «Attenzione alla botola!» scattò Bencolin, mentre l'egiziano cercava di tirarsi su. Terrorizzato, El Moulk si lasciò ricadere sul divano. Il mio amico stava indicando la botola sul pavimento che io avevo già notato prima, a poca distanza dal divano. Era larga un paio di metri quadrati e formata da due battenti, in ognuno dei quali era infisso un occhiello; attraverso gli occhielli correva una sbarra di legno che si allungava sul pavimento dall'una e dall'altra parte, unendo i battenti e tenendoli chiusi. In complesso, l'aggeggio aveva un'aria piuttosto fragile e di poca consistenza. «Camminate qua sopra» spiegò Bencolin «e sfonderete la botola, finendo dritto nel salone dabbasso. Credo... Tzens! Jeff è sveglio!» Mi si avvicinò sorridendo e si chinò a battermi una manata sulla spalla. «Il tuo cranio, vecchio mio, è eccezionalmente duro. L'attizzatoio ti ha assestato un colpo di striscio, è vero, però io personalmente non ci terrei a riceverlo. Ecco, bevi... Stai bene, adesso?» «Sto meglio, sì» risposi, prendendo la fiaschetta che mi offriva. «Ma la mia testa... Dio! Aiutami ad alzarmi.» «Ti confesso, Jeff» continuò lui mentre io mi tiravo su, barcollando «che non mi ero mai sognato di assegnarti la parte da "stella" che hai interpretata stanotte. Dovevi solo far la guardia a Graffin, e secondo le mie previsioni non avresti dovuto correre il minimo rischio. Ti assicuro che ho passato diversi brutti momenti quando ti ho visto entrare da quella porta e accendere la candela...» «Tu mi hai visto?»
«Ma certo. Io e Talbot montavamo la guardia nella soffitta già da tempo. Poco è mancato che la tua avventura mandasse all'aria i nostri piani... Ma tutto è bene quel che finisce bene.» «Naturalmente» dissi con amarezza «tu lo sapevi benissimo dov'era l'appartamento segreto.» Talbot si asciugò la fronte. «Per un po' la situazione è rimasta davvero in bilico» osservò. «Quando ho sentito due persone aggirarsi per la soffitta... pfui! Non ci era mai passato per la testa che voi vi sareste immischiato in questa parte della faccenda, e non potevamo gettarci sul nostro uomo finché non avessimo accertato chi dei due ci sarebbe capitato tra le grinfie in tutto quel buio.» Si guardò intorno con aria alquanto perplessa. «Dunque, questo posto si trova direttamente sopra al salone della suite. Però non capisco ancora...» «Venite qui» disse Bencolin. S'inginocchiò accanto alla botola, afferrò i due anelli paralleli e ne sfilò la sbarra. Poi alzò i due battenti. «Adesso guardate giù e ditemi cosa vedete.» Talbot e io ci avvicinammo all'apertura. Perfino El Moulk si riscosse dal letargo in cui era caduto e cercò di sbirciarvi dentro, brontolando tra sé. Otto metri circa sotto di noi, appena spostato a sinistra, vidi il tavolo con la lampada verde. Graffin giaceva ancora lì sopra, e il suo cranio calvo luccicava accanto alla bottiglia rovesciata del whisky. «Come vi avevo già detto» osservò Bencolin, abbassando i battenti e infilando di nuovo la sbarra negli anelli «fin dall'inizio io sono rimasto assai incuriosito dalla storia dell'uomo ombra che era in grado d'introdursi nella suite per lasciarci degli oggetti a dispetto delle porte sbarrate e della sorveglianza dei domestici. In un primo momento, naturalmente, ho pensato a un passaggio segreto da localizzare nelle pareti. Poi ho sentito che tutti i ricordini venivano lasciati nello stesso posto: il tavolo-scrivania che si trova al centro del salone. Mai davanti alla porta, o nelle camere da letto o in qualsiasi altro luogo, no: soltanto sul tavolo. Se ne ricavava una deduzione ovvia: Jack Ketch non poteva raggiungere nessun altro posto tranne il tavolo... e ciò mi ha suggerito che gli oggetti venivano lasciati cadere dall'alto. Quando poi ho ricordato che genere di oggetti erano apparsi sul tavolo...» Ancora accoccolato sull'orlo della botola, alzò lo sguardo verso di me. «Ricordi cosa mi ero sforzato di sottolineare a tuo beneficio, Jeff... e cioè quale fosse la caratteristica particolare dei ricordini trovati sul tavolo? Si trattava di tutte cose solide, infrangibili: libri, un pupazzetto di legno,
un pezzo di corda. Mentre le cose fragili e inclini a rompersi, come il modellino di forca, le pistole di cristallo o l'urnetta di terraglia, sono state spedite per posta... necessariamente, perché si sarebbero infrante se fossero state mandate giù con l'altro sistema. Mi fu dunque chiaro che Jack Ketch mandava i suoi regalucci dal soffitto senza mai lasciarsi vedere.» «Allora qua sotto, durante il pomeriggio» intervenne Talbot «quando avete fatto tanto chiasso su certi ottoni antichi e pregiati di cui non mi ricordo il nome, vi siete procurata la scala a pioli e ci siete salito per esaminare le lanterne... in realtà volevate guardare...» «Volevo guardare da vicino il soffitto, ma certo. La botola era dipinta con abilità e nascosta così ingegnosamente che sarebbe passata inosservata a qualsiasi occhio non intento a cercarla espressamente; ma il mio raziocinio mi aveva già assicurato che esisteva. E una volta localizzata la botola, non è stato per nulla difficile rintracciare il nascondiglio di Jack Ketch... Però in quel momento non potevo dirvi cosa stessi cercando veramente, perché sospettavo già di Sir John: e lasciargli capire che avevo indovinato l'ubicazione dell'appartamento segreto sarebbe stato esiziale. Perfino così, lui ha passato dei momenti abbastanza febbrili mentre discutevamo nel salone, come ricorderete se ripensate al suo comportamento.» Talbot si ficcò le mani nelle tasche e scosse la testa, sbigottito. «Voi lo sospettavate già?» mormorò. «Signore, lui era una delle ultime persone che...» «Sciocchezze, ispettore» lo interruppe bruscamente Bencolin. «La colpevolezza di Sir John era così lampante fin dal primo momento che io mi meraviglio davvero di come non l'abbiate notato. Amico mio, ma se ha commesso almeno un errore marchiano ogni volta che si muoveva! Naturalmente, certi aspetti del caso mi hanno lasciato un tantino perplesso all'inizio, perché non avevo ancora conosciuto il povero deficiente, Teddy; ma appena Teddy ha fatto il suo ingresso nel quadro, l'intera sequenza degli eventi mi è apparsa chiarissima.» «Ebbene, per me non è chiara neanche adesso» brontolò Talbot. «Specialmente la faccenda di come abbiate potuto vedere qualcosa si sospetto nel comportamento di Sir John...» Bencolin andò a sedersi sulla sedia che Sir John aveva occupata prima. Cominciava a subire la reazione agli strapazzi della notte: appariva invecchiato e stanco, e la luce cruda metteva in risalto i profondi cerchi neri intorno agli occhi. Per un istante rimase là, pensieroso, arruffandosi con dita nervose i ciuffi di capelli grigi che aveva alle tempie.
«Sta bene» disse a un certo punto. «Vi racconterò dunque per filo e per segno quale linea di condotta ha seguito l'assassino. Ve la racconterò come se non conoscessimo la sua identità, e allora vedrete voi stesso quale conclusione inevitabile se ne deve ricavare.» "Una gran parte della storia la conoscete già, quindi potrete colmare le lacune mentre io procedo per sommi capi. Jack Ketch doveva essere per forza qualcuno al quale il defunto "Keane" era stato molto caro. Una cura così maniacale nel progettare l'assassinio, un così ossessionante desiderio di vendetta non erano verosimili in una persona che fosse stata semplicemente amica di Keane. Non c'era niente di blando in questa premeditazione: poteva essere opera solo di un parente stretto, animato da una sete di sangue che definirei degna di una tigre. "Jack Ketch dunque, dopo aver pianto la morte di Keane per quasi dieci anni, alla fine apprende la verità. Durante il periodo del lutto, lui non si è consolato nemmeno per un attimo. Tutti i suoi pensieri sono rimasti concentrati sul ragazzo defunto; tutto il suo amore, le sue speranze, i suoi piani per il futuro sono morti con Keane. Figuratevi quindi che colpo terribile dev'essere stato per lui sapere cos'era accaduto in realtà! Pian piano comprende la portata della rivelazione, ed ecco insorgere una folle vampata di odio; con calma ferocia, l'uomo prega il suo Dio di concedergli la vendetta. Poi, con cura quasi amorosa, dedica tutte le sue facoltà a concepire un piano. Una notte dopo l'altra, medita su quali orrori spaventevoli si prepara ad infliggere a..." «No!» urlò Nezam El Moulk. «Non... parlate... così!» L'egiziano si stava torcendo il laccio di metallo intorno al collo, e aveva le labbra stirate sui denti in una smorfia convulsa. Il cavo d'acciaio vibrava. Nella mente di tutti noi incombeva il volto grigio e determinato di Sir John Landervorne, con le sue narici frementi e gli occhi gelidi in cui faceva capolino una lama di follia omicida. Mi pareva di vedere ancora il tremito di quelle lunghe mani bianche... «L'assassino aveva scoperto l'ubicazione di queste stanze segrete. Nel suo cervello sboccia un piano perfetto in tutti i particolari, e ogni notte si arricchisce di una nuova fiorettatura brillante di cui lui si compiace. Per mesi e mesi ha torturato la sua vittima, e adesso, all'anniversario della morte di Keane, è pronto all'azione finale. Abbiamo già stabilito che deve aver fatto ufficialmente la conoscenza di El Moulk. Sappiamo con quale pretesto lo ha attirato fuori quella particolare notte, inducendolo a fare il giro del club e a rientrarvi dalla porta sul retro... Ho ragione finora, amico mi-
o?» «Lui... lui mi aveva detto» balbettò El Moulk «che potevamo spiare Jack Ketch da qui. Della botola io non sapevo niente; è stato lui a rivelarmene l'esistenza. Mi ha assicurato che avremmo potuto vedere quel mostro dal soffitto. Così siamo saliti quassù, e poi...» «A che ora?» «Poco dopo le sette: un quarto d'ora, forse venti minuti. Lui era tanto cordiale! Avevo detto al mio autista di aspettarmi nel vicolo... no, è stato lui a dirgli di aspettare! Io volevo spedire via Smail, ma lui non ne ha voluto sapere. Mi ha condotto qui, mi ha sorriso e... Ma cosa ne è stato di Smail? Perché non è venuto lui a salvarmi e...» «Perché doveva morire. Solo così il piano di Jack Ketch poteva realizzarsi appieno. Dopo avervi messo fuori combattimento, l'assassino è sceso di nuovo. Smail stava aspettando nel vicolo soffocato dalla nebbia. Sono bastati pochi colpi di quell'antica spada...» Bencolin si volse a noi. «Vedete ora perché gli era necessario un complice? Il perfetto equilibrio del suo piano richiedeva che lui avesse un alibi. Perciò non lui ma qualcun altro doveva portar via la berlina. Non era possibile lasciarla nel vicolo, altrimenti avrebbe segnalato a tutti dov'era andato El Moulk. Bisognava portarla via... E fu precisamente allora che il piano di Jack Ketch andò all'aria! Lui aveva stabilito che il suo complice dovesse guidare la berlina in qualche strada poco frequentata, lontana dal club, e ve la lasciasse...» "Signori, io avevo capito che doveva esserci un complice in giro dal primo sguardo che ho gettato all'automobile. Anche ammesso che Jack Ketch fosse matto, tuttavia c'era un metodo nella sua pazzia. Non poteva essere stato lui a tagliare le nappe dorate e i bottoni di vetro di una divisa da autista; non poteva essere stato lui a rubare pistole nichelate che luccicavano e orologi con una doratura da pochi soldi, o a cercar di tagliare un dito per impadronirsi di un anello con un coccio di bottiglia. Una condotta così bislacca non faceva parte della pazzia dell'assassino. Senza contare che non avrebbe mai e poi mai riportato la berlina davanti al club. E, soprattutto, non era di corporatura talmente minuscola da poter guidare la macchina a fianco dell'autista morto senza che nessuno si accorgesse della sua presenza." Bencolin batté un pugno sul bracciolo della poltrona. «Ma, signori» disse con voce persuasiva «fra tutta la gente che abbiamo incontrata, chi era l'unica persona che non sapeva resistere alla vista di
qualsiasi pezzo di metallo che brillasse? Chi era lo strano tipo di ladro che si lanciava a rubare un orologio placcato e luccicante, trascurando completamente un portasigarette di platino perché era opaco e per nulla vistoso, quindi non desiderabile quanto un orologio da pochi soldi o delle nappe di cordone dorato? Chi era l'unica persona abbastanza piccola di statura da poter guidare la berlina restando nascosta dal corpo gigantesco dell'autista? Quando abbiamo incontrato Teddy nel corridoio, questo pomeriggio, io ho compreso subito e senza ombra di dubbio chi fosse il complice dell'assassino.» Talbot annuì. «È chiaro, certo» disse amaramente. «Oh, se è chiaro!... Ma allora, quando era nella suite oggi pomeriggio e si è preso un tale spavento da scappar fuori strillando...» «Stava restituendo il bottino» spiegò Bencolin «perché Jack Ketch glielo aveva ordinato. Il furto di quegli oggetti non faceva parte del piano dell'assassino, il quale da parte sua era un tipo scrupoloso e coscienzioso. Ecco dunque che Teddy aveva riportato indietro la pistola, le nappe, l'orologio... Tra parentesi, io lo avevo intuito appena ho visto quelle cose nel cassetto.» «Lo avevate intuito appena le avete viste?» gridò Talbot. «E come, in nome di Dio?» «La polvere, ispettore, la polvere di carbone!» spiegò Bencolin, spazientito. «Non avevate notato che il grande fazzoletto rosso era sudicio di polvere di carbone? Naturalmente, Teddy aveva nascosto gli oggetti, avvolti nel fazzoletto, in fondo al secchio del carbone. A proposito, era stato Teddy a fumare quella sigaretta; sapete bene che gli piace il fumo, no?» «Ma il libro, L'assassinio considerato come una delle belle arti! Certo non lo stava leggendo lui...» «Oh, no! Il trucchetto del libro deve averlo combinato Sir John, penso. Aveva paura che ci accorgessimo che era stato Teddy a darsi da fare nell'appartamento; e trovando il libro sul tavolo, l'ha semplicemente aperto mentre Jeff gli voltava le spalle... noialtri eravamo fuori del salone, come ricorderete. Poi ha attirato l'attenzione di Jeff sul libro. Io però vi ho detto subito che non lo stava leggendo nessuno: le pagine non erano state tagliate.» «Dunque, Teddy era andato nella suite per restituire gli oggetti... e non si era spaventato per nulla?» Bencolin fece un risolino. Pescò un sigaro dalla tasca della vestaglia e lo contemplò con aria divertita. «Oh, ispettore, sì che si era preso uno spavento! Uno spavento colossale,
oserei dire. Vedete: lui arriva, accende il fuoco e dal secchio del carbone tira fuori le cosucce che doveva rimettere a posto. Accende una delle sigarette di El Moulk e apre il cassetto...» "Ricordate cosa ci ha visto dentro? Nel cassetto, proprio di fronte a lui, c'era una grande fotografia di Smail! Trovarsi così, all'improvviso, davanti alla faccia sorridente del morto che già cominciava a ossessionarlo e pareva guardarlo negli occhi... Il coraggio che l'aveva sostenuto la notte precedente, quando lui aveva acconsentito a guidare la berlina per avere i tesori dell'autista assassinato, era già svanito. La coscienza aveva cominciato a tormentarlo. La fotografia gli è balzata davanti come un fantasma accusatore. Lui sta restituendo gli oggetti rubati... ed ecco che schizza su quell'incubo sogghignante, quell'orrore di ritorno dalla tomba! "Il povero idiota urla e scappa via. Sir John lo incontra nel corridoio e capisce subito cosa è successo. Non avete osservato che mentre in apparenza si sforzava di far dire a Teddy quello che aveva visto, in realtà conficcava le dita nelle spalle del ragazzo... per imporgli il silenzio? Sapeva che Teddy era troppo atterrito per parlare." Bencolin si appoggiò allo schienale della sedia e si accese il sigaro. Io rammentai le parole che quella stessa notte, non molto tempo prima, Teddy si era lasciate sfuggire nella mia camera: "Mi stava guardando dritto in faccia... Guardava in su!...". 19 E alla fine la botola si apre «Ebbene, non serve a nulla insisterci sopra» riprese Bencolin, stringendosi nelle spalle. «Vedete bene in che modo quel ragazzino deficiente ha mandato all'aria l'intero piano, pur così egregiamente architettato. Gli era stato detto di portar via la berlina, lontano, in qualche strada di periferia, e di lasciarcela. Lui una volta non ci ha forse detto, del resto, che la grande ambizione della sua vita era di possedere un'automobile? Tutto felice, pazzo dal piacere di guidare, disposto a farlo perfino con un cadavere accanto pur di mettersi al volante di una berlina così lussuosa... ecco invece che s'imbarca in una folle corsa di piacere in giro per Londra! È tutta qui la spiegazione dell'imbroglio...» «E allora perché diavolo l'ha riportata indietro?» domandò Talbot. «Questo credo di potervelo spiegare io» intervenni, ancora immerso nel ricordo della mia conversazione con Teddy. «Ho scambiato qualche parola
con lui, stanotte. Aveva un'idea fissa in testa, ripeteva che dovunque lo mandassero "a fare i giri" lui ritornava sempre qui al club, sempre. Una vera fissazione da parte sua, ve lo assicuro.» «Già» approvò Bencolin. «Era anche la sua giustificazione, probabilmente; credo che abbia ricevuto una bella lavata di testa da parte di Jack Ketch per la stupidaggine commessa. Immaginatevi la scena! Nebbia o no, terrorizzato e insieme gongolante, il poveraccio scorrazza qua e là senza fermarsi... non avete notato che non prestava nessuna attenzione alle segnalazioni del traffico? Per sua fortuna la nebbia era talmente fitta che la gente, vedendo la macchina, era sicura che fosse il gigantesco autista a guidarla. Solo a guardarla molto da vicino, come ha fatto Jeff, ci si accorgeva che qualcosa non quadrava. Sempre per sua fortuna, la nebbia gli ha permesso di sgusciar fuori della berlina e di squagliarsela senza farsi notare. A proposito, Jeff, ricordi che avevo richiamato la tua attenzione sul fatto che il sedile del guidatore fosse stato spinto troppo in avanti? Per l'autista sarebbe stato scomodissimo, ma si adattava fin troppo bene alle corte gambette di Teddy. Insomma, è stato questo che ha rotto le uova nel paniere a Jack Ketch; lui non si sarebbe mai sognato di mettere in conto il folle comportamento del suo complice. Il nostro assassino dev'essersela vista davvero brutta mentre noi davamo la caccia alla berlina giù per Pall Mall. Sì, Sir John era atterrito esattamente quanto noi...» «Sir John! Sir John!» scattò Talbot. «D'accordo: tutto quello che avete detto finora fila che è un piacere. Tuttavia, non c'è alcun elemento che permetta d'individuare in lui il vero Jack Ketch. Può benissimo aver strizzato le spalle di Teddy: ciò non significa nulla. E non avete nessuna prova che sia stato lui a aprire quel libro mentre il signor Marie gli voltava le spalle... proprio nessuna prova! Come mai vi è saltata in testa, dunque, l'idea di connettere Sir John con i delitti?» «In primo luogo» spiegò Bencolin, pensieroso «credo sia stato per il fatto che l'assassino vi conosceva.» «Mi conosceva?» «Certo. Voi avete ricevuto un messaggio per telefono a Vine Street. Vi si diceva: "Nezam El Moulk è stato impiccato" eccetera eccetera. La chiamata è stata fatta durante il periodo in cui noi tre eravamo a teatro. Ma il particolare curioso era che il tizio aveva chiesto di parlare all'ispettore Talbot. Non l'ispettore in carica alla stazione di polizia di Vine Street, ma l'ispettore Talbot in persona: ce lo avete detto proprio voi.» "La cosa mi lasciò davvero perplesso. Ditemi un po', secondo voi quante
persone a Londra sanno il nome dell'ispettore a capo del loro distretto? Tu lo sai a New York, Jeff? Ed io stesso lo so, a Parigi? In particolare, avevamo stabilito che l'assassino fosse qualcuno che stava al Brimstone Club; ma adesso risultava essere anche qualcuno che conosceva la polizia metropolitana molto, molto bene. Ebbene, qui al Brimstone Club chi c'era che senza dubbio alcuno conosceva benissimo il nome dell'ispettore di Vine Street? Ma Sir John Landervorne... perché dopo l'assassinio dell'autista ha suggerito lui stesso di telefonare a Talbot per farlo venire subito. "Tuttavia, si trattava solo di una teoria abbastanza campata in aria. Poi mi son ricordato, di colpo, che proprio mentre Sir John si era allontanato per andare a telefonare e Talbot, il pupazzetto di legno doveva essere stato impiccato al modellino della forca nel salone del pianterreno. Ebbene, chiunque avesse fatto questo doveva essere per forza l'assassino, perché il pupazzetto era stato visto per l'ultima volta nelle mani di El Moulk..." «Glielo avevo mostrato io!» gridò all'improvviso El Moulk dal suo angolo. «Il pupazzetto di legno! Dopo essermi incontrato con lui ed essere salito quassù, gliel'ho mostrato e lui me lo ha tolto!» «Ecco. Adesso fate un salto all'indietro con la memoria. Noi avevamo lasciato il modellino di patibolo in un armadietto accanto al camino, prima di uscire dal salone alle sei. Qualcuno lo ha tirato fuori dall'armadietto, lo ha disposto sul tavolo centrale e ha impiccato il pupazzo alla forca. Ma chi sapeva che il modellino stava nell'armadietto? Solo tre persone! Esattamente tre persone sapevano questo: tu, Jeff, Sir John Landervorne e io stesso. E quale delle tre è stata l'unica a potersi introdurre inosservata nel salone dopo l'assassinio dell'autista? Sir John Landervorne, che era andato a telefonare a Vine Street per chiamare Talbot dopo averlo suggerito lui stesso, perché...» «Perché» Talbot completò la frase «la cabina telefonica sta proprio davanti alla porta del salone.» «Appunto. Così io mi son chiesto: è possibile che Sir John abbia fatto anche l'altra telefonata? Quella telefonata sinistra che annunciava la cattura dilli Moulk? Ho capito subito che poteva benissimo averla fatta, siccome quando siamo andati a teatro non siamo riusciti a trovare tre posti uno vicino all'altro. Lui avrebbe potuto sgusciar fuori e fare la chiamata da una cabina pubblica senza che nessuno se ne accorgesse. Fino a questo punto ci siamo, no? Era possibile inoltre che fosse stato lui a far sparire El Moulk dalla sua automobile? Quando mi son reso conto che El Moulk aveva fatto solo il giro dell'isolato e che l'autista era stato assassinato non più di venti
minuti dopo essere partito dal club...» Mi ricordai allora di quando ero stato ad aspettare nel salone che arrivassero Bencolin e Sir John per andare fuori a cena. El Moulk era uscito poco dopo le sette: mezz'ora circa prima che Sir John si facesse vivo... «Vedo che siete d'accordo con me» disse Bencolin, reprimendo uno sbadiglio. «Naturalmente, lui aveva attirato El Moulk nella sua tana facendolo passare dal vicolo, aveva ucciso l'autista e spedito via Teddy con la berlina, come adesso sappiamo, prima di uscire con noi. In realtà, non aveva l'ombra di un alibi! Ogni volta che accadevano cose veramente importanti, lui era perpetuamente assente. Proprio come era assente questo pomeriggio, quando è andato a prendere mademoiselle Laverne. Non c'è da meravigliarsi che sia riuscito a convincerla di essere un pezzo grosso di Scotland Yard... a convincere perfino un tipo sospettoso come lei! Le avrà mostrato i suoi vecchi documenti d'identità ufficiali, e lei si sarà sentita parecchio lusingata di avere come scorta nientemeno che un vicecommissario. Ci avevate pensato? E avete notato l'espressione d'incredulità sbigottita sul volto di Bronson, anche dopo morto? Naturalmente, Bronson conosceva Sir John; e vedere il suo ex superiore minacciarlo con una pistola...» Bencolin scrollò le spalle. «Ma la telefonata che la signorina Laverne ha ricevuto nel pomeriggio da El Moulk?» Il mio amico lanciò un'occhiata penetrante all'egiziano. «È stato lui a costringermi a farla» disse l'ometto. «Sì... so a quale chiamata vi riferite. Lui mi ha costretto a farla. Ho dovuto dirle che un poliziotto sarebbe andato a trovarla; ho dovuto dirle che ero al sicuro. Ho dovuto dirle che avevo solo fiuto di sparire, che mi stavo tenendo nascosto e che lei non doveva aver paura di Scotland Yard, perché la polizia mi stava aiutando!» «Le avete anche detto di riferire a tutti che si sarebbe recata allo Yard?» chiese Talbot. «Sì! Sì! Le ho detto di informare tutti perché così l'assassino sarebbe stato portato fuori strada, capite? Lei invece sarebbe venuta qui, e noi due, con l'aiuto di Scotland Yard, avremmo acciuffato il criminale.» «Ma dove diavolo avete fatto la telefonata?» «Ve lo farò vedere io quando esploreremo questo interessantissimo rifugio» intervenne Bencolin. «C'è perfino un apparecchio telefonico molto antiquato, che è collegato con quello di El Moulk nell'appartamento di sotto. Certo lo usavano quando Rayle inscenava le sue orge, e finché il tele-
fono dabbasso è in grado di funzionare, questo di sopra lo è altrettanto. Per l'assassino era perfettamente sicuro servirsi del telefono di qui... infatti, se la sospettosa mademoiselle Laverne avesse fatto rintracciare la chiamata, sarebbe risultato che proveniva dal Brimstone Club; e allora anche il suo ultimo sospetto sarebbe caduto.» Ci fu una pausa, durante la quale il mio amico rimase con gli occhi fissi al suolo. «Dobbiamo ancora apprendere diversi particolari» disse alfine «e per adesso posso solo cercare d'immaginarli. Probabilmente, Graffin e John Landervome junior si son trovati a prestar servizio nello stesso corpo, durante la guerra. Rammento che l'aeroplano del giovane Landervome fu abbattuto verso la fine del conflitto, e lui venne dato per morto. Circa nello stesso periodo, Graffin venne espulso dall'esercito. Graffin e Landervome, comunque, dovevano essersi conosciuti; capitò che si ritrovassero tutti e due a Parigi... Landervome, pare, in ospedale... e che tutti e due facessero la conoscenza di El Moulk. Il fatto che il giovane John fosse un appassionato di egittologia, come dimostra il libro che aveva scritto, può aver favorito il nascere di un'amicizia...» Bencolin s'interruppe all'improvviso, non so per quale motivo. Tutti ci eravamo dimenticati che El Moulk era in ascolto, rannicchiato contro la parete. Talbot parve comprendere che qualcosa non andava, perché si affrettò a domandare: «Come pensate che Sir John abbia saputo dell'esistenza di questo appartamento?» «Molto probabilmente glielo ha rivelato Teddy. Può darsi che, vagabondando in giro, Teddy ne abbia trovato per caso l'entrata. Non posso affermarlo con certezza, naturalmente.» «Mi resta solo un'ultima domanda» riprese l'ispettore. «L'ombra che il signor Dallings vide la notte in cui si era perso nella nebbia...» «Questo punto avrebbe dovuto risultarvi chiaro appena avete visto il modellino di forca» disse Bencolin. «Non ricordate l'ombra mostruosa di tale modellino che la luce del fuoco proiettava contro il muro del salone? Dallings ha visto la stessa proiezione, nel caso suo contro la persiana di una finestra, mentre una mano invisibile faceva salire il pupazzetto del condannato su per gli scalini del patibolo. E a proposito, ispettore» sottolineò, protendendosi in avanti «questa era un'altra indicazione che puntava dritta contro Sir John Landervorne. Dallings vide quell'ombra qui, come ormai dovreste aver compreso: e la vide su una finestra al pianterreno... dunque, la finestra di qualcuno le cui stanze davano sul vicolo. E devo for-
se dirvelo io che l'appartamento al pianoterra sul retro è occupato da Sir John?» «Santo cielo! Se avessi potuto intuire una cosa del genere fin dal primo momento...» «Avreste indovinato di colpo l'intera verità?» Bencolin abbozzò un sorrisetto ironico. «Può darsi. Ma è stato questo il punto culminante di tutto il mio ragionamento: Sir John che si attarda in piena notte a contemplare il giocattolo costruito con le sue mani e a congratularsi con se stesso. Forse ha fatto lo stesso anche quando ha stampato quei macabri biglietti da visita...» "Questo mi ha portato a credere che l'assassino era proprio Sir John. L'ultimo indizio d'importanza decisiva, infine, è stato il fatto che, fra tutti gli ospiti del club, lui occupava l'appartamento con le possibilità logistiche più favorevoli. Soltanto lui, infatti, aveva accesso alla scala privata sul retro, e quindi poteva salire all'appartamento segreto senza esser visto da nessuno. Dopotutto, quella era anche la sua scala privata, e poteva farne uso per aggirarsi nell'edificio come e quando gli pareva." «C'è anche un altro particolare» intervenni. «Qualcuno, poco dopo l'una di notte, è andato a bussare alla porta di mademoiselle Laverne e ha lasciato un biglietto da visita...» «Credo sia stato Teddy» rispose il mio amico. «Il biglietto era macchiato di sangue, se rammento bene; e probabilmente si era macchiato mentre lui sedeva accanto all'autista. Secondo me, aveva ricevuto istruzioni da Sir John di consegnare il biglietto alla signorina molto più presto, subito dopo aver abbandonato da qualche parte la berlina con il cadavere. Ma l'eccitazione del giro per Londra lo aveva talmente inebriato che probabilmente Teddy si è dimenticato del biglietto e non ci ha pensato più. Deve aver ricordato la missione affidatagli solo dopo aver riportato l'automobile davanti al Brimstone: e allora l'ha eseguita. Ha avuto la fortuna sfacciata di non incontrare nessuno mentre andava a piedi a Mount Street... il poveretto è un tipo che si fa notare, come sapete. L'intervallo di tempo tra l'ora in cui è tornato in macchina al club e l'ora in cui ha lasciato il biglietto davanti alla casa della Laverne, certo lo ha impiegato a cercare di liberarsi dal sangue che doveva aver addosso. Si sarà cambiato d'abito, immagino. Non poteva aggirarsi per Londra nello stato in cui era.» «Un ragazzino!» brontolò Talbot. «Un ragazzino che fa certe cose...» «Non è assolutamente un ragazzino, ve lo assicuro» scattò Bencolin. «Non lasciatevi ingannare dalla sua statura ridotta: Teddy ha venticinque
anni, se non di più. Non supererà il metro e quaranta, lo ammetto, ma è abbastanza alto da infilarsi in un sedile e scorrazzare in automobile. Durante la guerra, ho conosciuto un conducente di ambulanza che arrivava appena con gli occhi all'orlo del parabrezza; eppure guidava macchinoni pesanti per strade semicancellate dai buchi delle granate senza avere mai un incidente. In parte, è stato il ricordo di questo fatto a farmi pensare alla possibilità che Teddy...» Si passò una mano sugli occhi. «Vi ho fatto percorrere un cammino lungo e tortuoso, signori, e credo di avervi mostrato come ad ogni passo ne seguisse necessariamente un altro. E adesso che abbiamo appreso la verità, dobbiamo constatare che essa funziona proprio come la maggior parte delle cose della vita. In conseguenza di questi eventi terribili, quelli che hanno sofferto di più sono stati un povero diavolo di sergente di polizia, che ha ricevuto una palla nel cuore, e un gigantesco ex pugile che faceva l'autista e che nessuno piange. Pare davvero che ormai... come dicono alla fine dei film? "Con la coscienza a posto e lo spirito sollevato, El Moulk e la sua bellissima donna potranno incamminarsi verso il tramonto mano nella mano, come due anime gemelle..."» Girò lentamente il capo. Sulle sue labbra errava un sorriso pensieroso e crudele. «Potrete camminare così almeno fino a quando io avrò il piacere di spedire uno di voi in prigione per spergiuro e l'altro alla ghigliottina per omicidio.» Si alzò senza fretta, e il rumore della sedia che strisciò sul pavimento parve quasi troppo forte nel silenzio improvviso e agghiacciante. Le mascelle di Bencolin si erano indurite, e le rughe intorno alla sua bocca parvero più profonde; chiuso nella vestaglia tutta nera, il mio amico parve torreggiare contro i cortinaggi consunti, con i loro arabeschi d'oro, e la luce cruda delle lampade a gas vi proiettava la sua ombra da Mefistofele. Le palpebre pesanti erano appena abbassate sullo scintillio insostenibile del suo sguardo... Rattrappito sul divano, El Moulk rimase per un istante come impietrito; ma quasi subito un lampo di trionfo gli si accese negli occhi. «Lo credete?» domandò a voce bassa. «Lo credete davvero?» «Sir John Landervorne vi ha stretto quel cappio intorno al collo» continuò Bencolin, come se non lo avesse sentito. «Credo che avesse intenzione di farvi camminare su quella botola fragilissima dopo avervi sventrato col
ferro rovente. Vi avrebbe fatto camminare là sopra e voi sareste precipitato di sotto... di sotto, capite?... Sei metri sotto, e il cappio d'acciaio vi avrebbe spezzato il collo come mente. Vi avrebbe lasciato penzolare così fino a quando non vi avessimo trovato, dopo aver spazzato via da quassù ogni traccia di prova... Invece, la morte che io vi riservo, amico mio, non sarà così pittoresca; ma servirà altrettanto bene la mio scopo, ve lo assicuro. La Vedova Rossa agisce sui colli, potete starne certo, con la stessa efficacia della corda e del cappio. In tutta la mia carriera non mi son mai lasciato sfuggire un assassino, capite?» La sua voce era sempre velenosamente gentile. «Ecco perché ero ansioso di salvarvi. Sì: mi sono interessato all'indagine e non ho risparmiato sforzi perché veniste liberato dalle grinfie di Jack Ketch. Volevo riportarvi a Parigi con me; volevo vedervi uscire all'alba per farvi radere il collo da quel caro barbiere tanto bravo che tutti conosciamo...» El Moulk tremava come una foglia, ma dì un trionfo che confinava con la follia. Le spire del laccio di metallo tintinnavano contro la parete. Gli occhi gialli erano orribilmente sbarrati, e l'uomo si torceva sul divano dando la disgustosa impressione di possedere più che un paio di braccia e un paio di gambe... «Sto per dirvi una cosa» ringhiò l'egiziano. «E statemi bene a sentire, voi... voi...» Le parole lo soffocavano. Puntò violentemente l'indice contro il mio amico. «Perdio, non riuscirete a riportarmi indietro! E sapete perché? Sapete perché? Mi hanno tenuto sotto l'influenza di chissà quale droga, quassù. Vero! Mi hanno tenuto legato. Vero! Ma sapete cosa ho fatto, nonostante ciò? Mentre il ragazzo era qui, sono riuscito a liberarmi parzialmente. Non mi avete sentito bussare? Non mi avete sentito sbattere questo laccio contro la porta?» Ecco spiegata l'origine di quel martellare soffocato; ma in quel momento nessuno di noi ci fece caso. Eravamo intenti a fissare quell'essere ansimante, dallo sguardo folle, che continuava a parlare. «Prima che quell'uomo venisse su a drogarmi di nuovo, sapete cosa ho fatto? Ho fatto venire qui il ragazzo. Gli ho offerto una moneta d'oro che avevo purché prendesse quelle carte... compresa la fotografia che Graffiti mi aveva scattato... Era sgusciato fuori, la carogna, e mi aveva scattato una fotografia mentre sparavo a De Lavateur...» Stava diventando incoerente, ma cercò di riprendersi. «Ho offerto al ragazzo la moneta d'oro se bruciava tutto nel fuoco dove stava arroventando i ferri per torturarmi. E lui lo ha fatto... lo ha fatto! Uno scroscio di risa folli lo squassò. Quasi non pareva
umano con quella barba lunga, il disordine selvaggio dei capelli, la camicia sudicia e stracciata...» «E adesso non ci sono prove! Io ho ucciso De Lavateur e non ci sono prove! Voi avete catturato Jack Ketch... e io sono libero! Non potete provare più nulla contro di me! Sono libero! E anche la maledizione è infranta...» Parve rendersi conto di qualcosa all'improvviso, in un lampo di rivelazione accecante che gli fece brillare negli occhi una luce di fanatismo. «La maledizione» ruggì «la maledizione non è più...» Alzò in alto le braccia, d'impeto. La sua voce lacerò il silenzio come uno squillo di vittoria. «Gli dei sono morti! Io li ho uccisi! Morto è Ra! Oh... morto è Anubi! Morta è Sakhmet, la vendicatrice! Morti sono gli dei del mio popolo e non possono più nuocermi! Morti sono gli dei dell'Egitto!» Balzò in piedi! Tempestando, ringhiando, imprecando contro Bencolin, piroettò su se stesso in una danza folle. E intanto rideva, rideva come un pazzo. Fece un salto in avanti e atterrò in pieno sulla botola. La fine avvenne in un istante. El Moulk non emise che un solo urlo. La sbarra di legno si spezzò e, per la frazione di un secondo, io vidi le sue magre braccia sollevate, i suoi occhi colmi di un improvviso sgomento. Con uno schianto fragoroso, la botola si spalancò; il lungo laccio d'acciaio si sgomitolò e si tese con uno schiocco che fece vibrare la trave dov'era sospeso, mentre El Moulk precipitava nel salone, sei metri più sotto. Non avemmo nemmeno bisogno di udire lo scricchiolio del suo collo che si spezzava... In un silenzio irreale, in cui risuonava ancora l'eco del suo ultimo grido, io e Talbot ci avvicinammo all'orlo del trabocchetto. L'egiziano penzolava come un fantoccio di pezza, la testa ripiegata su una spalla, appena sopra la lampada verde. Sotto di lui Graffin giaceva sul tavolo, immerso nel suo torpore animalesco da ubriaco, il cranio calvo che scintillava. Rabbrividimmo, ma non distogliemmo gli occhi dalla vista macabra se non quando un suono basso, lieto e melodioso colpì le nostre orecchie in quell'orrida quiete. Bencolin stava canticchiando una canzonetta allegra, e sorrideva. FINE