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MARGARET ATWOOD LADY ORACOLO (Lady Oracle, 1976) MARGARET ATWOOD L'ACROBATA TRA GLI SPECCHI Nota critica di Grazia Trabattoni It's no coincidence this is a used furniture warehouse. I enter with you and become a mirrar. Mirrors are the perfect lovers1 . Non è una coincidenza che il «magazzino», o «warehouse» della produzione letteraria di Margaret Atwood, poetessa, romanziera e critica, nata a Ottawa nel 1939 e cresciuta nell'ambiente culturale di Toronto, sia addirittura affollato di specchi, come dimostrano i versi sopra citati a sottolineare, in un gioco di rispecchiamenti tra poesia e prosa, la compattezza e la coerenza artistica della scrittrice canadese. Leggere i suoi romanzi seguendo il filo di questa ossessione, leggere, in particolare Lady Oracolo, è come muoversi in un labirinto di riflessi che si richiamano e si intersecano, si affermano e si negano a vicenda, trasformandosi continuamente nel camaleontico gioco della parodia e del grottesco. All'inizio, pare che l'eroina si sia prodotta in un trucco da luna park, uno scherzo ben riuscito nell'arte della distorsione, ma col proseguire della lettura il percorso narrativo si fa sempre più accidentato, affascinante e senza uscita. Joan, protagonista e io narrante di Lady Oracolo, ripercorre mediante flashback e allucinazioni iperboliche il caos della sua esistenza partendo dall'antinomia primordiale vita/morte: «La mia morte l'ho progettata con attenzione, a differenza della mia vita 1
«Non è una coincidenza / che questo sia un magazzino / di mobili usati. // Vi entro con te / e divento uno specchio. // Gli specchi sono gli amanti perfetti» da «Tricks with Mirrors» (Scherzi di specchi) in You Are Happy (1974).
che ha vagato tortuosamente da una cosa all'altra, malgrado i miei deboli tentativi di controllarla. [...] La mia morte, invece, la volevo ordinata e semplice, dimessa, persino un po' austera, come una chiesa quacchera o come il classico abito nero, da indossare con un unico filo di perle, molto elogiato dalle riviste di moda quando avevo quindici anni. Stavolta niente megafoni, niente lustrini, niente sfilacciamenti.». Questa «prova generale» è il suo ultimo, clamoroso tentativo di entrare a fare parte del mondo delle scelte, delle polarità; un mondo che le era stato mostrato quale unica versione accettabile della realtà dalla madre. Ma subito i confini tra realtà e invenzione, tra vero e falso, tra vittima e vincitore si sbavano e il bianco si mescola col nero: «Il trucco era sparire senza lasciare traccia, lasciandomi alle spalle l'ombra di un cadavere, un'ombra che tutti avrebbero preso per realtà concreta.» La falsa morte di Joan, dunque, non porta alla rinascita, al recupero dell'identità, ma al prolungarsi della confusione del passato nell'ulteriore specchio deformante del presente. Ancora una volta, la protagonista sfugge alla definizione dicotomica del mondo e il libro si espande a mano a mano che i diversi codici di scrittura si rifrangono uno nell'altro: così, la trama della vita di Joan si mescola e confonde sempre più con quelle dei romanzi rosa che scrive sotto falso nome di Louise K. Delacourt. Infine non ci sono più divisioni, solo metamorfosi perpetue, reali o fantastiche, serie o farsesche, poiché i personaggi si intrecciano e scolorano al punto che non è più possibile distinguerli. L'intento iniziale di Joan, di mettere ogni cosa al suo posto e di dare ad ogni cosa il suo nome attraverso l'analisi e il rifiuto del suo passato, fallisce: il proliferare delle sue personalità, dei suoi doppi, rimbalza di pagina in pagina, di specchio in specchio. Gli specchi diventano quindi simboli dell'io frammentato, sono ladri di identità che forniscono immagini distorte, divoratori cannibaleschi di personalità come la madre di Joan, che tentava di rubare l'anima degli uomini ritratti accanto a lei nelle fotografie della sua giovinezza ritagliandone accuratamente via la testa. Per uscire dall'incantesimo dell'immagine riflessa, Joan ripercorre il mito della Lady of Shalott di Tennyson, un autore molto caro alla Atwood, che si è laureata presso l'Università di Toronto proprio con una tesi sulla poesia
vittoriana. Nella leggenda italiana della Damigella di Scalott, narrata nella novella LXXXI delle Cento Novelle Antiche e ripresa dal poeta inglese, la dama è prigioniera di una maledizione che la tiene rinchiusa in una torre, su di un isolotto del fiume: mai dovrà guardare in direzione di Camelot, pena la morte. La fanciulla passa il suo tempo tessendo splendidi arazzi riproducenti «ombre del mondo» riflesse su uno specchio che le sta dinnanzi mentre è seduta al telaio e canta, voce senza volto per i contadini della regione e i vagabondi. Ma il poeta ci dice che la Damigella è «stanca di ombre», e quando Sir Lancelot si avvicina cavalcando lungo il fiume nella sua armatura scintillante, tra il luccicore di gemme, cornetti di argento e briglie ornate di campanelli, l'immagine dell'uomo che si specchia nell'acqua si riflette nello specchio della torre e, come per un effetto di doppia rifrazione, distoglie la donzella dall'incantesimo facendole volgere lo sguardo verso Camelot. Lo specchio si spezza e la bella dama sa che la maledizione l'ha colpita. Scrive il suo nome sulla prua di una barca nella quale si adagia e si lascia trasportare dal fiume alla volta di Camelot, cantando mentre il sangue le si ghiaccia nelle vene. Anche Joan è legata da un incantesimo, quello dell'educazione impartitale dalla madre e quando, stanca di continuare a guardare il mondo attraverso i riflessi dei suoi tanti e complessi travestimenti, decide di recuperare la sua identità, come già la Dama di Shalott, fallisce nel suo viaggio acquatico. Il lago Ontario in cui finge di annegare non è il liquido amniotico di una rinascita a se stessa, ma solo una ulteriore fuga di fronte al proprio riflesso; Terremoto, il fittizio paesino italiano ove Joan si rifugia cercando di dare un taglio al passato, è una nuova Shalott; la casa in affitto è una nuova torre, dal cui balcone spiare la realtà attraverso un vetro, aspettando che accada qualcosa di magico. Ma il vetro è rotto e con lei non c'è Arthur, suo marito, a farle da specchio, a porgerle il riflesso del mondo circostante. Questa volta Joan è obbligata dalla sua stessa feroce e inarrestabile fantasia a rimuovere tutti i filtri (occhiali da sole, asciugamani sul viso, tinture per i capelli, pseudonimi poco credibili), a smettere di danzare davanti allo specchio e ad andare oltre la superficie per scoprire che cosa c'è dietro lo specchio. Ecco quindi che ritorna con la mente e con la penna, ultima e definitiva bacchetta magica della metamorfosi, alla sua passata esperienza di scrittura automatica di fronte a uno specchio a tre ante. Seguendo i suggerimenti di Leda Sprott, uno dei tanti ambigui personaggi che popolano il romanzo, a metà oracolo e a metà ciarlatana, Joan fissa una candela accesa che si ri-
flette nello specchio, «il riflesso della candela. Non c'era soltanto una candela, ma tre, e sapevo che se avessi inclinato verso di me le ante dello specchio ce ne sarebbe stato un numero infinito, in una fila a perdita d'occhio... ha stanza sembrava molto buia, più buia di prima; la luce della candela era molto vivida, la tenevo in mano e camminavo lungo una galleria, scendevo, voltavo un angolo. Stavo per trovare qualcuno. Avevo bisogno di trovare qualcuno. Vidi qualcosa che si muoveva al margine dello specchio. Rimasi col fiato sospeso e mi girai. Senza dubbio, in piedi dietro di me, c'era stata una figura. Ma non c'era nessuno.» Da uno di questi esperimenti, durante i quali cade in trance e scrive quei frammenti poetici oscuri e terrificanti che pubblicherà in seguito col titolo di Lady Oracle, Joan rischia di non uscire, poiché resta intrappolata nello stretto passaggio che porta al di là dello specchio. «Una sera entrai nello specchio, con la candela in mano, come al solito, e la candela si spense. La candela si spense sul serio, credo, e fu per questo che rimasi lì imbambolata, nel buio fitto, incapace di muovermi. Avevo perso il senso d'orientamento; avevo persino paura di voltarmi, perché avrei potuto finire ancora più all'interno. Mi sembrava di asfissiare.» Una volta giunta a Terremoto - un paesino inventato dalla Atwood nell'entroterra di Tivoli, il cui suono stesso riassume in modo efficace l'idea che i turisti nord-americani hanno dell'Italia, evocativa di maledizioni e calamità naturali - Joan si trova sola, confusa dall'incontrollabile proliferazione dei suoi doppi e, suo malgrado, torna nel labirinto proprio al seguito di uno dei suoi alter ego: Charlotte, la protagonista del romanzo gotico che Joan sta scrivendo per la «Columbine Books» (chiara allusione agli «Harlequin Books», la «Collezione Harmony» americana). Dapprima non intende smarrirsi, non vuole ancora andare oltre gli schemi della sua educazione: Charlotte viene quindi sottratta dalla morsa delle mani di Felicia, la sua antagonista, grazie a Redmond, l'uomo segretamente amato che da persecutore sì rivela salvatore, come in tutti i romanzi rosa che si rispettino. Ma la visione diretta della realtà non può più a lungo essere evitata: Joan sa di essere «un'artista della fuga», ed è proprio questa consapevolezza a farla vagare ancora nel labirinto, questa volta nelle vesti della fulva Felicia, quasi a voler recuperare se stessa oltre il travestimento. In questo secondo
tentativo in fondo al labirinto, Felicia/Joan trova quattro donne ad aspettarla e a rivelarle che «ogni uomo ha più di una moglie. C'è chi le ha tutte contemporaneamente, chi le prende una per volta, alcuni addirittura hanno delle mogli di cui ignorano l'esistenza.» Joan apprende così che proprio questo specchiarsi contemporaneo ed alterno al tempo stesso di personalità diverse e parenti, questo convivere in una donna di molte donne, come nella mitologia più antica della Grande Madre Terra, è la sua identità. Ma capisce anche che, nel momento stesso in cui congela la folle danza delle sue maschere conglobandole tutte indistintamente nel suo io e si autodefinisce, in quel momento la morte le si rivela al di là dello specchio: «Lascia che ti salvi. Balleremo insieme per sempre, eternamente.» «Eternamente» ripeté Felicia, ormai sul punto di cedere. «Per sempre.» Ecco le parole che un tempo aveva tanto desiderato; per tutta la vita aveva atteso che qualcuno le dicesse [...] «No» disse. «So chi sei.» La pelle si staccò dal volto di Redmond, mettendo allo scoperto il suo teschio. Ecco però che, con un'impennata finale, con un intervento da romanzo gotico, Joan frantuma ancora una volta la sua identità aprendo la porta di casa e rompendo una bottiglia di Cinzano vuota sulla testa di un malcapitato e, naturalmente, innocente giornalista, il quale viene ricoverato all'ospedale, imponendo così al libro una chiusa dove il lieto fine, con bacio risolutivo tra bende e disinfettanti, è di prammatica. Con questo slittamento, la Atwood può finalmente risolvere la tendenza di Joan all'intreccio senza fine - tendenza che è del resto costituzionale in tutti i protagonisti di romanzi di formazione, con la loro impotenza a concludere la storia che hanno prodotto - e riacquista il controllo sulla vicenda narrativa: Joan non è più la protagonista di Lady Oracolo, ma il personaggio di un qualsiasi «Columbine Book» e, come tale, può proporre una conclusione. Lo sberleffo finale con cui il romanzo si conclude, oltre a mettere profondamente in dubbio la crescita della protagonista quale donna consapevole di sé e delle sue contraddizioni, ci rivela subitaneamente che Lady Oracolo non è un libro che parla di romanzi gotici, bensì è un romanzo gotico, che si inserisce perfettamente nella tradizione del gotico femminile quale sostituto domestico del picaresco. Margaret Atwood forza il concetto di mostruosità e l'esercizio della parodia oltre Ann Radcliffe, oltre Mary Shelley, oltre Jane Austen, affermando il peccato contro natura dell'atto
stesso dello scrivere, un atto creativo che dà vita a un novello Frankenstein, romanzo-mostro concepito sui cadaveri di mille altri romanzi, primi fra tutti quelli della stessa Atwood con la loro forte componente mimetica e mitica. In questa ghost story, infatti, il lettore attento e fedele della nostra scrittrice può riconoscere i numerosissimi fantasmi della sua opera poetica, narrativa e critica, sia precedente, sia posteriore a Lady Oracolo. In Lady Oracolo, come in tutti gli altri libri di Margaret Atwood, la protagonista è una donna arguta, moderna, coinvolta nel mondo dei media; una donna apparentemente emancipata eppure vulnerabile, che vive i rischi dell'amore nell'era della tecnologia e che ricerca la sua identità in un universo che non è del tutto credibile, soffocato com'è dal suo consumismo massificato. Proprio per questo ricorrere di personaggi femminili simili tra loro, la produzione artistica della Atwood ha dato occasione a entusiasmi e a rivendicazioni femministe. D'altro canto, l'autrice, dopo aver più volte affermato in interviste, lezioni universitarie, conferenze e articoli che non ha mai inteso enunciare una tesi femminista e che la sua è una semplice esplorazione della psiche femminile frustrata, è approdata col suo ultimo romanzo, The Handmaid's Tale (1985), alla parodia diretta del femminismo, in particolare del femminismo americano degli anni Ottanta. Un femminismo segnato da componenti reazionarie e conservatrici, colorate di quel moralismo e tradizionalismo che, predicando il ritorno alla castità e prescrivendo i rapporti sessuali soltanto a scopo procreativo, riducono le donne al ruolo di «uteri a due gambe, vasi sacri, calici deambulanti» incapaci di scelte, sentimenti, errori. Lo stesso antiamericanismo e l'anelito del Canada a una autodefinizione espressi drammaticamente in Surfacing (1972) e originalmente scandagliati in Survival (1972) sono clownescamente presenti anche in Lady Oracolo con le tirate politiche di Marlene, Don, Sam e Arthur, redattori del Resurgence, «un piccolo periodico nazionalista di sinistra», i quali si riuniscono a discutere per decidere se il futuro del paese dovesse essere «nazionalismo con una punta di socialismo o socialismo con una punta di nazionalismo». Del resto, anche questi personaggi, così sciocchi e irritanti nella loro inettitudine, sono una costante nell'opera narrativa della Atwood. Joan stessa, con la sua donchisciottesca ricerca di una identità che si dissolve immancabilmente in una nuova clonazione, è uno specchio del Canada, un paese dove il bilinguismo ufficiale e non reale si rifrange in un multiculturalismo spesso caotico e poco attento alle matrici culturali originarie; un paese afflitto - per definizione della Atwood stessa - da «schizofrenia pa-
ranoide»; un paese che resta «un territorio sconosciuto per i suoi abitanti», perché è un paese che non ha e che non dà un'immagine di sé: il riflesso che ci rimanda lo specchio è frammentario, indecifrabile, mimetico. E la Atwood vuole riconciliare i suoi conterranei proprio con questa immagine multiforme e caleidoscopica perché «senza questa consapevolezza, non sopravviveremo», come insegna dalle pagine di Survival. Se Joan non ha capito, o non ha voluto capire, che la sua identità è proprio quella molteplicità trovata infine al centro del labirinto, il lettore, in particolare quello canadese, deve capire che è se stesso che ha seguito rincorrendo Joan tra le pagine del libro, che quelle figure talvolta meschine ritratte dalla Atwood sono soltanto nostri doppi che ci riconciliano con la nostra identità intrappolata al di là dello specchio. A guardare più attentamente nello specchio che Lady Oracolo ci porge, notiamo che in certi punti la parodia sbava, traballa, si ripiega su se stessa, laddove l'invenzione fa a metà con la cronaca, la quotidianità, la vita. L'improvviso successo di Joan come poetessa, gli editori Morton & Sturgess, le domande spesso beote dei giornalisti, le recensioni vuote dei critici, i ricevimenti promozionali di un nuovo «idolo letterario», l'interesse più per le doti fisiche che per quelle intellettuali e artistiche di Joan, sono ammiccamenti satirici a un meccanismo letterario che la Atwood conosce bene. Sono proprio questi richiami sussurrati, queste sfuggevoli strizzatine d'occhio che incrinano la levigatezza di ghiaccio della costruzione di Lady Oracolo, fornendo al lettore uno spiraglio, una presa, un appiglio per guardare oltre la superficie, oltre la parodia, oltre il decoro e scorgere che in fondo al gioco scaltro di specchi, intrappolato dietro la cornice, c'è proprio il deus ex machina di tutto questo. Che nello specchio a tre ante di Joan il mostro a tre teste, la Lady Oracolo che è una e trina, è proprio lei, Margaret Atwood. Bibliografia essenziale Raccolte di poesia: Double Persephone (1961) The Circle Game (1966) The Animals in that Country (1968) The Journals of Susanna Moodie (1970) Procedures for Underground (1970)
Power Politici (1971) You Are Happy (1974) Two-Headed Poems (1978) True Stories (1981) Interlunar (1984) Romanzi: The Edible Woman (1969) (Una donna da mangiare, Longanesi, Milano 1976) Surfacing (1972) Lady Oracle (1976) (Lady Oracolo, traduz. F.A. Libardi, Giunti, Firenze 1986) Life Before Man (1979) Bodily Harm (1981) The Handmaid's Tale (1985) Racconti: Dancing Girls (1977) Bluebeard's Egg (1983) Murder in the Dark (1984) Opere critiche: Survival: A Thematic Guide to Canadian Literature (1972) Second Words (1982) Altre opere: Up in the Tree (1978) Days of the Rebels: 1815-1840 (1977) Snowbird (CBC, 1981) LADY ORACOLO PARTE PRIMA
1 La mia morte l'ho progettata con attenzione, a differenza della mia vita che ha vagato tortuosamente da una cosa all'altra, malgrado i miei deboli tentativi di controllarla. La mia vita aveva una certa tendenza ad allargarsi a macchia d'olio, ad afflosciarsi, ad attorcigliarsi in volute e svolazzi come la cornice di uno specchio barocco, e questo perché seguivo sempre la linea di minor resistenza. La mia morte, invece, la volevo ordinata e semplice, dimessa, persino un po' austera, come una chiesa quacchera o come il classico abito nero, da indossare con un unico filo di perle, molto elogiato dalle riviste di moda quando avevo quindici anni. Stavolta niente megafoni, niente lustrini, niente sfilacciamenti. Il trucco era sparire senza lasciare traccia, lasciandomi alle spalle l'ombra di un cadavere, un'ombra che tutti avrebbero preso per realtà concreta. Sulle prime pensai che ci sarei riuscita. Il giorno dopo il mio arrivo a Terremoto me ne stavo seduta fuori sul balcone. La mia intenzione era stata quella di abbronzarmi al sole; già mi vedevo, splendore mediterraneo dall'abbronzatura dorata, entrare a lunghi passi, con un sorriso smagliante, in un mare turchese, finalmente spensierata e libera per sempre dal passato. Ma poi mi ricordai che non avevo la crema solare (Massima Protezione: senza quella, mi sarei scottata e coperta di lentiggini), così mi coprii le spalle e le cosce con parecchi asciugamani di misura ridotta messi a disposizione dal padrone di casa. Non avevo portato un costume da bagno: reggiseno e slip potevano andar bene, dal momento che il balcone non era visibile dalla strada. Mi sono sempre piaciuti i balconi e ho sempre pensato che se solo fossi riuscita a rimanere abbastanza a lungo su uno, su quello giusto, con indosso un lungo abito bianco con lo strascico, preferibilmente durante il primo quarto di luna, sarebbe successo qualcosa: sarebbe partita la musica, sotto il balcone sarebbe apparsa una figura scura e sinuosa e si sarebbe arrampicata verso di me, mentre io, timorosa, speranzosa, leggiadra, mi sarei appoggiata tremante alla ringhiera di ferro battuto. Ma questo non era un balcone molto romantico. Aveva una ringhiera geometrica, come quelle dei condomini piccolo-borghesi degli anni Cinquanta, e il pavimento era un impasto di cementò che già dava segni di erosione. Non era il tipo di balcone sotto il quale un uomo si sarebbe messo a smaniare suonando il liuto, o sul quale si sarebbe arrampicato con una rosa fra i denti o uno stiletto
nella manica. Inoltre, era alto da terra solo un metro e mezzo. Era molto più probabile che chiunque fosse il mio visitatore misterioso, arrivasse imboccando il viottolo accidentato che portava alla casa dalla strada soprastante, coi piedi che scricchiolavano sui detriti e con rose e coltelli solo in testa. Questo, in ogni caso, era più nello stile di Arthur: più che arrampicarsi, lui avrebbe fatto un sacco di rumore. Se solo fossimo potuti tornare a quello che era stato un tempo, prima che lui cambiasse... Me lo immaginavo che veniva a riprendermi, serpeggiando su per la collina con una Fiat presa a nolo che avrebbe avuto qualcosa che non funzionava; mi avrebbe parlato della magagna più tardi, dopo esserci gettati l'uno nelle braccia dell'altro. Avrebbe parcheggiato il più vicino possibile al muro. Prima di uscire avrebbe controllato la sua faccia nello specchietto retrovisore, mettendo a punto l'espressione: non gli era mai piaciuto fare la figura dello stupido, e in questo caso non sarebbe stato sicuro se la stava facendo o no. Sarebbe uscito a fatica dalla macchina, l'avrebbe chiusa a chiave in modo che il suo scarso bagaglio non potesse essere rubato, avrebbe messo le chiavi in una tasca interna della giacca, avrebbe scrutato a destra e a sinistra e poi, chinando la testa in maniera curiosa, come chi schiva il lancio di una pietra o una porta bassa, sarebbe sgusciato dal cancello arrugginito, e avrebbe cominciato a scendere con circospezione il viottolo. Lo fermavano sempre alle frontiere internazionali. Era perché aveva un'aria così furtiva; aveva un'aria furtiva ma corretta, come una spia. Alla vista del dinoccolato Arthur che scendeva verso di me, incerto, la faccia senza espressione, animato da uno spirito di riscossa, con le sue scarpe scomode e la sua stagionata biancheria di cotone, cominciai a piangere. Chiusi gli occhi: di fronte a me, al di là di un'immensa distesa d'azzurro che riconobbi come l'oceano Atlantico, c'erano tutti quelli che avevo lasciato dall'altra parte. Su una spiaggia, naturalmente: avevo visto un sacco di film di Fellini. Il vento gli arruffava i capelli e loro mi sorridevano, salutavano e mi chiamavano, anche se ovviamente non riuscivo a sentire le parole, il più vicino era Arthur; dietro di lui c'era il Real Porcospino, altrimenti noto come Chuck Brewer, con il suo lungo e pretenzioso mantello; poi venivano Sam, Marlene e gli altri. Leda Sprott svolazzava al vento come un lenzuolo con un angolo sganciato dal filo, e riuscivo a distinguere il gomito con una toppa di pelle di Fraser Buchanan che spuntava dal cespuglio marino dietro il quale si era nascosto. Più indietro ancora, mia madre, con un tailleur blu marino e un cappello bianco, e mio padre accanto a
lei, sfocato; e mia zia Lou. Zia Lou era l'unica che non mi guardasse. Avanzava lungo la spiaggia, inspirando profondamente, ammirando le onde e fermandosi di tanto in tanto per togliersi la sabbia dalle scarpe. Alla fine se le tolse e continuò ad avanzare, con pelliccia di volpe, cappello guarnito di piume, calze ai piedi, verso un lontano chiosco di aranciate e panini che sembrava chiamarla dall'orizzonte come un pacchiano miraggio. Ma mi ero sbagliata riguardo agli altri. Stavano sorridendosi e si salutavano tra di loro, ma stavano rivolgendosi a me. Vuoi vedere che gli Spiritualisti si sbagliavano e che i morti, dopo tutto, non avevano alcun interesse per i vivi? Eppure alcuni di loro erano ancora vivi, mentre ero io a essere morta, in teoria: avrebbero dovuto essere in lutto, e invece sembravano piuttosto allegri. Non era leale. Cercai di evocare un'apparizione sinistra sulla loro spiaggia - una colossale testa di pietra, un cavallo riverso - ma senza successo. In verità non assomigliava tanto a un film di Fellini, quanto a un film di Walt Disney che avevo visto a otto anni, e che parlava di una balena che voleva cantare al Metropolitan. La Balena si avvicinò a una nave e cantò delle arie, ma i marinai la arpionarono, e ognuna delle sue voci abbandonò il suo corpo dentro un'anima colorata, che salì fluttuando in cielo, senza smettere di cantare. Credo che il film si intitolasse La Balena che voleva cantare all'Opera. Quella volta piansi a dirotto. Fu questo ricordo a darmi il via. Non avevo mai imparato a piangere con classe, in silenzio, con lacrime perliformi che scorrono giù per le guance da occhi grandi e lucenti, come sulle copertine dei giornali Amore Vero, senza lasciare macchie e rigature. Mi sarebbe piaciuto esserne capace: allora avrei potuto farlo davanti alla gente, invece di rifugiarmi nei gabinetti, nelle sale cinematografiche buie, tra i cespugli, in camere da letto vuote o alle feste, tra i cappotti ammonticchiati sul letto. Se una riusciva a piangere in silenzio, la gente la compiangeva. Invece io tiravo su col naso, i miei occhi assumevano la forma e il colore dei pomodori bolliti, mi colava il naso, serravo i pugni, gemevo, ero imbarazzante, finivo con l'essere divertente, una sagoma ridicola. Il dolore era sempre vero, ma ne usciva una parodia del dolore, un'imitazione esasperata come la rosa al neon dei distributori di benzina Rosa Bianca, ormai scomparsi... Piangere decorosamente era un'altra di quelle arti che non avevo mai padroneggiato, come mettere le ciglia finte. Avrei dovuto avere un'istitutrice, andare a scuola di galateo, farmi legare un'asse alla schiena e imparare l'acquerello e l'autocontrollo. Non si può cambiare il passato, diceva zia Lou. Oh, ma io volevo cambiarlo: era l'unica cosa che davvero volevo fare. Mi torcevo dalla nostalgia.
Il cielo era azzurro, il sole splendeva, alla mia destra un mucchietto di frammenti di vetro luccicava come acqua; sulla ringhiera una piccola lucertola verde dagli occhi blu iridescenti scaldava il suo sangue freddo; dalla valle saliva come uno scampanio, un muggito suadente, la cantilena di voci straniere. Ero al sicuro, potevo ricominciare, e invece me ne stavo seduta sul mio balcone, accanto ai resti di una finestra di cucina rotta prima del mio arrivo, su una sedia fatta di tubi d'alluminio e strisce di plastica gialla, a produrre rumori soffocati. La sedia apparteneva al signor Vitroni, il padrone di casa, che andava matto per i pennarelli colorati, rosso, rosa, porpora, arancione: una passione che condividevo. Lui usava i suoi per mostrare alla gente del paese che sapeva scrivere. Io usavo i miei per le liste della spesa e le lettere d'amore, a volte per tutte e due insieme: Sono andata a prendere il caffè, baci. Il ricordo dell'abitudine, ora abbandonata, di fare la spesa acuì il mio dolore. Niente più pompelmi, tagliati a metà, con una rossa ciliegia al maraschino che sembrava il bottone di un ombelico, e che Arthur di solito faceva rotolare su un lato del piatto; non più porridge di farina d'avena, che io detestavo e Arthur magnificava, bollente e pieno di grumi perché non avevo seguito il suo consiglio di cuocerlo a bagnomaria... Anni di prime colazioni inette, desolate, ormai irrecuperabili... Anni di colazioni massacrate: perché l'avevo fatto? Mi resi conto di essere venuta nel posto peggiore del mondo intero. Avrei dovuto andare in un posto nuovo, immacolato, dove non fossi mai stata prima. Invece ero tornata nello stesso paese, addirittura nella stessa casa in cui avevamo passato l'estate l'anno precedente. E nulla era cambiato: mi sarebbe toccato cucinare sullo stesso fornello a gas a due fiamme, con la bombola 2 che finiva sempre quando il pranzo era a metà cottura; mangiare allo stesso tavolo, che aveva ancora degli anelli bianchi sulla vernice, a ricordo della mia sbadataggine nel maneggiare tazze bollenti; dormire nello stesso letto, sullo stesso materasso in cui gli anni e i grattacapi di molti inquilini avevano scavato dei solchi. Il fantasma di Arthur mi avrebbe perseguitato: già sentivo un debole rumore, come di gargarismo venire dal bagno, e lo struscio della sua sedia sul balcone quando lui la spostava sul vetro sbriciolato, aspettando che gli passassi la sua tazza di caffè dalla finestra della cucina. Se avessi aperto gli occhi e mi fossi voltata, sicuramente l'avrei visto lì, col giornale aperto a quindici centrimetri dalla faccia, il dizionario tascabile su un ginocchio e (forse) l'indice della sinistra infilato 2
In italiano nel testo.
nell'orecchio: un gesto che faceva senza accorgersene, anche se si ostinava a negarlo. Era colpa mia, della mia stupidità. Avrei dovuto andare a Tunisi, alle Canarie, o magari partire per Miami su un pullman della Greyhound, albergo incluso, ma non me l'ero sentita: andare in un posto senza agganci, senza punti di riferimento, senza storia sarebbe stato un po' come morire davvero. Ormai stavo piangendo spasmodicamente in uno degli asciugamani del padrone di casa, e con un altro mi ero coperta la testa, secondo una mia vecchia abitudine: piangevo sempre sotto i cuscini, in modo da non essere scoperta. Ora però, attraverso l'asciugamano, sentivo uno schiocco strano. Doveva essere un bel po' che andava avanti. Mi misi in ascolto, e il rumore si interruppe. Scostai l'asciugamano: all'altezza delle mie caviglie, e a meno di un metro di distanza, c'era una testa; era una testa di vecchio, sormontata da uno sdrucito cappello di paglia. Due occhi sbiaditi mi fissavano, con un misto di allarme e di disapprovazione, e la bocca, un foro sdentato, rimaneva semiaperta da un lato. Evidentemente mi aveva sentito. Forse, vedendomi coperta com'ero di asciugamani e con addosso i miei indumenti intimi, su un balcone, pensò che avessi un attacco di qualche malattia. Forse pensò che fossi ubriaca. Gli feci un sorriso bagnato, per rassicurarlo, mi strinsi addosso gli asciugamani e cercai di alzarmi dalla sedia di alluminio, ricordandomi troppo tardi che aveva il vizio di chiudersi, se ci si dibatteva. Persi vari asciugamani, prima di riuscire a infilare la porta a ritroso. Avevo riconosciuto il vecchio. Era lo stesso che uno o due pomeriggi alla settimana veniva a curare le piante di carciofo che crescevano sull'arida terrazza sotto la casa, tagliando le erbacce più grandi con un paio di cesoie arrugginite e recidendo i carciofi coriacei quando erano maturi. A differenza degli altri abitanti del paese, lui non mi aveva mai detto una parola né ricambiato un saluto. Mi faceva venire la pelle d'oca. Mi rimisi il vestito (lontano dalla finestra panoramica, dietro la porta) e andai in bagno a tamponarmi la faccia con un panno bagnato e a soffiarmi il naso su un pezzo di ruvida carta igienica del signor Vitroni; poi passai in cucina a farmi una tazza di tè. Per la prima volta dal momento del mio arrivo cominciavo ad avere paura. Non era soltanto deprimente essere tornata in quel paese: era anche pericoloso. Non serve a nulla credersi invisibili se non lo si è, e il guaio era che se io avevo riconosciuto il vecchio, anche lui forse aveva riconosciuto
me. 2 Mi sedetti a tavola per bere il mio tè. Il tè era consolante, e mi avrebbe aiutata a pensare, anche se questo non era della migliore qualità: era in bustine, e puzzava di cerotto. L'avevo comprato nella drogheria centrale, insieme a un pacchetto di biscotti Peek Frean importati dall'Inghilterra. Il negozio ne aveva fatto grandi scorte, in previsione di un'ondata di turisti inglesi che non era ancora arrivata. Maestri Pasticceri riconosciuti da sua Maestà la Regina, lessi sulla scatola: una frase che mi tirò su di morale. La Regina si sarebbe ben guardata dal piagnucolare: il rimpianto è una cosa poco fine. Fatti coraggio, mi diceva una severa voce regale. Mi raddrizzai sulla sedia, e cominciai a riflettere sul da farsi. Naturalmente avevo preso delle precauzioni. Mi presentavo con l'altro nome, e quando ero andata a chiedere se l'appartamento del signor Vitroni era disponibile, avevo inforcato gli occhiali da sole e mi ero nascosta la testa sotto un foulard, made in Japan, che avevo comprato all'aeroporto di Toronto sul quale erano stampate delle Guardie a cavallo rosa che eseguivano una cavalcata musicale sullo sfondo di purpuree Montagne Rocciose. Avevo avvolto il mio corpo in un abito a sacco, rosa anch'esso e stampato a fiorellini azzurro tenero, comprato a Roma su una bancarella. Io avrei preferito uno di quelli a grandi rose rosse o dalie arancioni; la fantasia che indossavo mi faceva assomigliare a un rotolo di carta da parati. Ma volevo qualcosa di anonimo. Il signor Vitroni non mi aveva riconosciuta, ne ero certa. Però quel vecchio mi aveva sorpresa senza travestimento e, peggio ancora, aveva visto i miei capelli. E da quelle parti i capelli rossi lunghi fino alla vita davano inevitabilmente nell'occhio. I biscotti erano duri come il gesso e sapevano di scaffale. Mi resi conto di aver finito il pacchetto solo dopo aver mangiato l'ultimo, inzuppandolo nel tè e masticandolo meccanicamente: brutto segno, questo. Dovevo sorvegliarmi. Decisi di prendere delle misure riguardo ai miei capelli. Erano un segno di riconoscimento: il loro colore e la loro lunghezza erano diventati una specie di marchio di fabbrica, e non c'era ritaglio di giornale, benevolo od ostile che fosse, che non li tirasse in ballo dedicando loro molto spazio. In una donna, il fatto che avesse talento o meno passava in secondo piano rispetto ai capelli. L'apprezzata autrice di Lady Oracolo, Joan Foster, sem-
brava uscita da un opulento ritratto di Dante Gabriele Rossetti, ed emanava un intenso magnetismo: ha affascinato il pubblico con la sua soprannaturale ... (The Toronto Star). L'autrice di prose liriche di Joan Foster, in tunica verde e con una cascata di capelli rossi, era davvero giunonica: peccato che in gran parte della sala la sua voce fosse inafferrabile... (The Globe and Mail). Avrebbero fatto prima a rintracciare i miei capelli che me: dovevo tagliarmeli e tingerli, ma non sapevo dove procurarmi la tintura. Certamente non in questo paese; forse avrei fatto meglio a comprarla a Roma. Avrei dovuto pensarci prima e comprarmi una parrucca: ero stata imprevidente. Andai in bagno ed estrassi dal mio nécessaire con la chiusura lampo un paio di forbicine da unghie. Erano troppo piccole, ma non avevo scelta: l'alternativa era uno dei coltelli spuntati del signor Vitroni. Mi tagliai i capelli un ciuffo alla volta, e ci misi un bel po' di tempo. Poi cercai di dare una forma alla mia acconciatura, ma i capelli diventavano sempre più corti, senza guadagnare in regolarità, finché mi resi conto di essermi tosata la testa stile prigioniera di lager. La mia faccia, però, era cambiata: potevo passare per una segretaria in vacanza. I capelli erano rimasti nel lavandino, in un cumulo di ciocche ondulate. Volevo conservarli; pensai per un momento di stiparli in un cassetto della scrivania. Ma cosa avrei risposto se qualcuno li trovava? Si sarebbero subito messi alla ricerca delle braccia, delle gambe, e degli altri resti del cadavere. Dovevo disfarmene. Mi venne in mente di gettarli nel gabinetto, ma erano troppi, e la fossa settica aveva già cominciato a fare i capricci, eruttando esalazioni palustri e brandelli di carta igienica in stato di avanzata decomposizione. Portai i capelli in cucina e, acceso il fornello, cominciai a immolarli a ciocca a ciocca. Si attorcigliarono, si annerirono, si contorsero come una manciata di piccoli vermi e finalmente presero fuoco, sfrigolando come una miccia accesa. L'odore di pollo bruciato era soffocante. Intanto le lacrime mi scorrevano giù per le guance: ero senza dubbio una sentimentale, e per giunta del tipo più melenso. Il fatto era che ad Arthur piaceva spazzolarmi i capelli, e quel frammento del passato mi aveva fatto sciogliere in lacrime: bisogna dire, però, che non aveva mai imparato a non tirare i nodi, e mi faceva un male d'inferno. Troppo tardi, troppo tardi... Non riuscivo mai ad avere le emozioni giuste al momento giusto, l'ira quando c'era da arrabbiarsi, le lacrime quando era il caso di piangere: erano sempre male assortite.
Ero arrivata a metà del mucchio di capelli, quando sentii dei passi avvicinarsi sulla ghiaia del viottolo. Ebbi una stretta al cuore e mi sentii gelare: il viottolo conduceva solo alla casa, e in casa non c'ero che io, perché gli altri due appartamenti erano vuoti. Possibile che Arthur avesse fatto tanto presto a trovarmi? Forse dopo tutto non mi ero sbagliata a suo riguardo. Oppure non era Arthur, era uno degli altri... Il terrore che mi ero vietata di provare durante la settimana passata si rovesciò sul mio capo in un'ondata grigia come il ghiaccio, che trascinava con sé le forme della mia paura: un animale morto, parole di minaccia sussurrate al telefono, i messaggi dell'assassino ritagliati dalle Pagine Gialle, una pistola, la collera... Dei volti apparivano e si disintegravano nella mia mente: non sapevo quale aspettarmi, che cosa volevano? A questa domanda non sapevo mai dare risposta. Avevo voglia di urlare, di precipitarmi in bagno, da dove sarei potuta fuggire sgusciando attraverso l'alta finestra quadrata; poi sarei salita di corsa su per la collina e me ne sarei andata in macchina. L'ennesima fugalampo. Tentavo di ricordare dove avevo lasciato le chiavi. Sentii bussare alla porta, dei colpetti impassibili e disinvolti. Una voce disse: «Ehi? Lei è dentro?» Respirai di sollievo. Era solo il signor Vitroni, Reno Vitroni dall'ampio sorriso, venuto a ispezionare la sua proprietà. Non ne aveva altre, all'infuori di quella casa, per quanto ne sapevo, eppure si diceva che fosse uno degli uomini più ricchi del paese. E se avesse voluto dare un'occhiata in cucina, che cosa avrebbe pensato dei capelli sacrificali? Spensi il gas, e li nascosi nel sacchetto di carta che usavo per i rifiuti. «Vengo» risposi, «un attimo solo.» Non volevo che entrasse: non avevo rifatto il letto, biancheria e vestiti erano stesi in bella mostra sulle sedie e disseminati sul pavimento, mentre sul tavolo e nel lavello c'erano dei piatti da lavare. Mi misi sulla testa un asciugamano a mo' di cappuccio e presi al volo dal tavolo i miei occhiali da sole. «Mi stavo lavando i capelli» gli dissi dopo avergli aperto. Rimase un po' sconcertato per via degli occhiali scuri, ma non eccessivamente: per quel che ne sapeva lui, le straniere praticavano degli strani rituali di bellezza. Mi sorrise calorosamente e mi tese la mano. Io tesi la mia e lui la sollevò come per baciarla, ma poi si limitò a stringermela. «Sono molto lieto di vederla» disse, unendo i tacchi in un curioso inchino militaresco. I pennarelli colorati erano allineati sul suo petto come medaglie. Aveva fatto fortuna durante la guerra, in qualche modo, ma nessuno rivangava queste cose, ora che tutto era finito. Al tempo stesso aveva
imparato un po' di inglese, insieme a frammenti di altri idiomi. Perché mai questo rispettabile signore di mezza età, marito dell'immancabile moglie a barilotto e nonno di numerosi nipotini, era venuto nel mio appartamento di primo pomeriggio, un'ora certamente poco adatta per far visita a una giovane straniera? Teneva qualcosa sotto il braccio, e guardava al di là della mia spalla come se volesse entrare. «Lei sta forse cuocendo il suo pranzo?» disse. Aveva annusato l'odore dei capelli bruciati. Dio sa quel che mangia questa gente, lo sentivo pensare. «Spero che non disturbo.» «No, no, niente affatto,» risposi con cordialità. Intanto rimanevo piantata sulla soglia. «Tutto bene con lei? La luce è ritornata di nuovo?» «Sì, sì» dissi, annuendo più del necessario. Quand'ero entrata nell'appartamento mancava l'elettricità, perché l'ultimo inquilino non aveva pagato la bolletta. Ma il signor Vitroni aveva brigato perché fosse riallacciata. «C'è molto sole, no?» «Moltissimo» dissi, cercando di dissimulare la mia impazienza. Mi stava un po' troppo vicino. «Buono.» Ora veniva al sodo. «Ho qualcosa per lei qui. Così si troverà più...» sollevò il braccio libero, col palmo rivolto verso l'alto, in un gesto esuberante di benvenuto, e mi introdusse nell'appartamento «cosi si troverà come a casa sua, da noi.» Che imbarazzo, pensai, ora mi dà un regalo di benvenuto. Era questa l'usanza? Cosa avrei dovuto dire? «È estremamente gentile da parte sua» dissi, «ma...» Il signor Vitroni accantonò le mie proteste di gratitudine con un cenno della mano. Tirò fuori da sotto il braccio un involto quadrato, lo sistemò sulla sedia di plastica e cominciò a disfare gli spaghi che lo legavano. Arrivato all'ultimo nodo si fermò come un prestigiatore, per creare la suspence. Poi l'involucro di carta da pacchi marrone si aprì, rivelando cinque o sei quadri dipinti - oh Signore! - su un fondo di velluto nero, e con cornici di stucco dorato. Li estrasse e me li mostrò uno per uno. Tutti raffiguravano dei monumenti di Roma, e ognuno era dipinto in un unico tono di colore. Il Colosseo era di un rosso febbrile, il Pantheon malva, l'arco di Costantino giallo evanescente e san Pietro era rosa come una torta. A vederli aggrottai la fronte come un giudice. «Gli piace?» mi chiese in tono imperioso. Ero una straniera e questo era
il genere di cose che sarebbe dovuto piacermi. Mostrai rispettosamente di gradire. Non sopportavo l'idea di offenderlo. «Molto carino» dissi. Mi riferivo al suo gesto, non ai dipinti. «Mio, come dite» disse, «il figlio di mio fratello, lui ha talento.» Guardammo entrambi in silenzio i quadri, ora allineati sul davanzale della finestra, che risplendevano come i segnali dell'autostrada alla luce dorata del tramonto. Mentre li fissavo, cominciarono ad assumere, o meglio a emanare, una certa orribile energia, come le porte chiuse di una fornace o di un sepolcro. Le cose non procedevano abbastanza rapidamente, per lui. «Chi gli piace?» mi chiese. «Questo?» Come facevo a scegliere senza sapere che significato avrebbe avuto la mia scelta? La lingua era solo una delle difficoltà, ma esisteva anche un altro linguaggio, quello delle cose che si fanno e non si fanno. Se accettavo un quadro, sarei stata obbligata a diventare la sua amante? La scelta del quadro aveva un significato, era un test? «Beh» dissi in tono incerto, indicando il Colosseo fluorescente. «Duecentocinquantamilalire» mi rispose con prontezza. Provai subito un senso di sollievo: delle semplici operazioni finanziarie non avevano nulla di misterioso, sapevo come comportarmi. Naturalmente, pensai, i quadretti non erano affatto opera di suo nipote: doveva averli comprati a Roma, da un venditore ambulante, e ora li rivendeva con profitto. «Magnifico» dissi. Non potevo assolutamente permettermi di spendere tanto, ma non avevo mai imparato a mercanteggiare e, a ogni modo, avevo paura di offenderlo. Non volevo rimanere senza luce. Andai a prendere il portamonete. Una volta ripiegati e intascati i soldi, il signor Vitroni cominciò a radunare i quadri. «Ne vuole due magari? Da mandare sua famiglia?» «No, grazie» dissi. «Questo qui è proprio grazioso.» «Pure suo marito verrà presto?» Sorrisi e annuii vagamente. Questo era quel che gli avevo fatto credere quando avevo affittato l'appartamento. Desideravo che in paese sapessero che avevo un marito, non volevo seccature. «Questi quadri gli piacerà» disse, come se ne fosse sicuro. Cominciai a domandarmi se dopo tutto non mi avesse riconosciuto, nonostante gli occhiali scuri, l'asciugamano e il nome diverso. Era un uomo piuttosto ricco: non aveva certamente bisogno di andare in giro spacciando quadri dozzinali ai turisti. Poteva essere stato tutto un pretesto, ma a che
scopo? Mi pareva che nel nostro colloquio fosse successo più di quanto io ero stata in grado di capire, il che non sarebbe stato strano. Arthur mi diceva sempre che ero ottusa. Una volta che il signor Vitroni fu uscito finalmente dal terrazzo, portai in casa il quadro e mi guardai intorno cercando un posto dove appenderlo. Dovevo trovare il posto giusto: per anni ero stata costretta a disporre gli oggetti più importanti della mia camera secondo una logica precisa, a causa di mia madre, e questo, che mi piacesse o no, sarebbe stato un oggetto importante. Era davvero molto rosso. Alla fine lo appesi a un chiodo a sinistra della davvero molto rosso. Alla fine lo appesi a un chiodo a sinistra della porta: così avrei potuto sedermi dandogli le spalle. La mia abitudine di risistemare i mobili dall'oggi al domani e senza preavviso infastidiva Arthur. Non aveva mai capito perché lo facessi: diceva che non si dovrebbe far caso all'ambiente in cui si vive. Il signor Vitroni però si era sbagliato: ad Arthur il quadro non sarebbe piaciuto. A lui quel genere di cose non piacevano, ma era convinto che piacessero a me. Perfetto, avrebbe detto: il Colosseo color rosso sangue, dipinto su un pacchiano velluto nero, in una cornice dorata; fragore, tumulto, folle plaudenti, morte nell'arena, fiere che ruggiscono e ringhiano, urla, martiri che singhiozzano dietro le quinte, preparandosi al sacrificio; e soprattutto la commozione, la paura, l'ira, le risa e le lacrime, uno spettacolo da dare in pasto alla folla. Questa, sospettavo, era la sua immagine della mia vita interiore, anche se non me l'aveva mai detto chiaramente. E in mezzo a tutto quel trambusto, lui dov'era? Seduto al centro della prima fila, immobile, sorrideva appena: ce ne voleva per soddisfarlo! Di tanto in tanto faceva un piccolo gesto, capace di salvare o distruggere: pollice recto o pollice verso. Ora lo spettacolo dovrai fartelo da solo, pensai, procurarti emozioni per conto tuo. Io ho smesso di recitare, il sangue cominciava a scorrere per davvero. A questo punto ero furiosa contro di lui e non avevo nulla da tirare se non i piatti, che erano del signor Vitroni, e nessuno a cui tirarli, se non lo stesso signor Vitroni, che ora stava senza dubbio arrancando su per la collina, ansimando un poco per via delle sue gambe corte e della sua pancia a cuscinetto. Che cosa avrebbe pensato se fossi apparsa alle sue spalle, furiosa, scagliando piatti? Avrebbe chiamato un poliziotto, mi avrebbero arrestata, avrebbero perquisito l'appartamento, avrebbero trovato un sacchetto di carta pieno di capelli rossi, la mia valigia... Ritrovai subito il mio senso pratico. La valigia stava sotto un gran cas-
settone finto barocco con l'impiallacciatura scrostata, ornato da un intarsio a conchiglie. La tirai fuori, e la aprii; dentro, in un busta di plastica verde, c'erano i miei vestiti umidi. Avevano l'odore della mia morte, l'odore del lago Ontario, di catrame, di gabbiani morti, dei minuscoli pesciolini argentei gettati a marcire sulla spiaggia. Erano dei jeans e una maglietta blu marino, il mio no volate via le anime colorate. Non sarei mai stata capace di indossare quei vestiti a Terremoto, anche se non costituivano una prova. Pensai di metterli tra i rifiuti, ma sapevo dall'anno prima che i bambini frugavano nei bidoni della spazzatura, specialmente in quelli dei forestieri. Non avevo trovato un posto dove lasciarli lungo la trafficata strada che portava a Terremoto. Avrei fatto meglio a gettarli via all'aeroporto di Toronto o a quello di Roma; d'altra parte, gli abiti abbandonati negli aeroporti destano sospetti. Anche se era il crepuscolo, c'era abbastanza luce e ci si vedeva ancora. Decisi di seppellirli. Estrassi la borsa dalla valigia con uno strattone e me la ficcai sotto il braccio. I vestiti erano miei, non avevo fatto nulla di male, eppure mi sentivo come se mi stessi sbarazzando di un cadavere, del corpo di qualcuno che avessi ucciso. Mi incamminai giù per il viottolo accanto alla casa, scivolando sui sassi con i miei sandali dalla suola di cuoio, finché mi trovai in basso tra i carciofi. Il terreno era duro come la selce e non avevo una pala: nessuna speranza di scavare un buco. Inoltre, se avessi messo in disordine il suo orto, il vecchio l'avrebbe notato. Esaminai le fondamenta della casa. Per fortuna erano costruite poco solidamente e in molti punti si aprivano delle crepe nel cemento. Ne trovai un pezzo allentato, e lo sollevai facendo leva con una pietra piatta. Sotto il cemento c'era del semplice terriccio: la casa era costruita direttamente sul fianco della collina. Scavai un buco, appallottolai la borsa più stretta che potei, ce la ficcai dentro, e la coprii incastrando di nuovo al suo posto il pezzo di cemento. Forse, centinaia d'anni dopo, qualcuno avrebbe riesumato i miei jeans e la mia maglietta, e ne avrebbe desunto un rito dimenticato, un infanticidio o una sepoltura protettiva. L'idea mi faceva piacere. Strusciai il piede sul terriccio che era caduto attorno, in modo che non si notasse nulla. Mi inerpicai di nuovo fino al balcone: avvertivo un senso di sollievo. Una volta tinti i capelli, tutte le prove più evidenti sarebbero scomparse e avrei potuto cominciare ad essere un'altra, una persona completamente diversa. Andai in cucina e terminai di bruciare i capelli. Poi tirai fuori dalla cre-
denza la bottiglia di Cinzano che avevo nascosto dietro i piatti. Non volevo che in paese si venisse a sapere che ero una che beveva di nascosto, e in verità non lo ero: solo che non avevo un posto per farlo pubblicamente. Qui non era previsto che le donne bevessero da sole nei bar. Mi versai un bicchierino e brindai a me stessa. «Alla vita» esclamai. Dopodiché cominciai a inquietarmi perché avevo parlato ad alta voce. Non volevo mettermi a parlare da sola. Negli spinaci che avevo comprato il giorno prima c'erano le formiche. Vivevano nel muro esterno; carne e spinaci erano le uniche cose a cui davano attivamente la caccia, tutto il resto lo ignoravano, se si dava loro un piattino d'acqua e zucchero. L'avevo già fatto, e loro l'avevano trovato: marciavano avanti e indietro tra il piattino e le loro tane, magre all'andata, grasse al ritorno, e facevano il pieno come autobotti in miniatura. Si assiepavano sui bordi del piattino e alcune che si erano spinte troppo in dentro erano annegate. Mi versai ancora da bere, poi intinsi il dito nel piattino e scrissi le mie iniziali con l'acqua zuccherata sul davanzale della finestra. Aspettavo di vedere le formiche comporre per me il mio nome: un'iscrizione vivente. 3 Quando mi svegliai la mattina dopo, la mia euforia si era dileguata. Non che avessi i postumi di una sbornia, semplicemente non mi andava di alzarmi dal letto tutto d'un colpo. Sul tavolo c'era la bottiglia di Cinzano, vuota; il fatto inquietante era che non mi ricordavo di averla finita. Arthur mi diceva sempre che bevevo troppo. Lui non era un gran bevitore, ma aveva l'abitudine di portare a casa una bottiglia di tanto in tanto, e di lasciarla dove l'avrei vista. Per lui, suppongo, era una specie di gioco del Piccolo Chimico: sotto sotto si divertiva a fare esperimenti su di me, sapeva che sarebbe successo qualcosa di emozionante. Non sapeva mai che cosa avrei fatto, però, e nemmeno che cosa voleva lui; se l'avessi saputo, sarebbe stato più facile. Fuori piovigginava, e io ero senza impermeabile. Avrei potuto comprarne uno a Roma, ma ricordavo il clima come un susseguirsi di giornate assolate e notti calde. Non avevo portato con me l'impermeabile, l'ombrello e tante altre cose perché non volevo lasciarmi dietro degli indizi che rivelassero che avevo fatto le valigie. Ora cominciavo ad avere nostalgia del mio armadio, del mio sari rosso e oro, del mio caffettano ricamato, del mio abi-
to di velluto color albicocca con l'orlo scucito. Ma qui, dove mai avrei potuto indossarli? Eppure rimanevo a letto, struggendomi per il mio ventaglio di piume di pavone, solo una piuma mancante, e per la mia borsetta da sera ricamata a perline blu cobalto, un vero pezzo d'antiquariato. Arthur aveva uno strano rapporto con i miei vestiti. Non gli piaceva che spendessi per il mio guardaroba, perché pensava che non potevamo permettercelo, così da principio mi diceva che i vestiti facevano a pugni col colore dei miei capelli o che mi facevano sembrare troppo grassa. Più avanti, quando cominciò a simpatizzare col movimento femminista per pura autoflagellazione, cercò di convincermi che non avrei dovuto volere vestiti come quelli e che stavo facendo il gioco degli sfruttatori. Ma faceva di più: considerava quei vestiti come una specie di oltraggio, un affronto contro la sua persona. Al tempo stesso ne subiva il fascino, come succedeva con tutte le altre cose di me che lui disapprovava. Sospetto che li trovasse eccitanti, e che questo lo facesse arrabbiare con se stesso. Mi aveva fatto diventare talmente impacciata che mi riusciva difficile indossare in pubblico i miei abiti lunghi. Invece chiudevo la porta della stanza da letto, mi drappeggiavo di seta o di velluto, e tiravo fuori tutti gli orecchini a pendente, le collane e i bracciali che riuscivo a scovare. Mi mettevo una goccia di profumo, mi levavo le scarpe e ballavo davanti allo specchio, volteggiando lentamente in un immaginario valzer tra le braccia di un invisibile cavaliere. Un uomo alto in mantello e abito da sera, dagli occhi assassini. Mentre mi trascinava in cerchio (urtando di tanto in tanto contro il tavolo da toletta o i piedi del letto) mi sussurrava: «Lascia che ti porti via. Balleremo insieme, sempre.» Era una gran tentazione, anche se non era vero... Arthur non ballava mai con me, nemmeno in privato. Diceva che non aveva mai imparato. Rimanevo a letto, guardando la pioggia. Sentivo venire da un punto imprecisato del paese un lamentoso muggito, rauco e metallico. Ero triste, e in quel monotono appartamento non c'era nulla che potesse rincuorarmi. Monotono era una parola che gli si addiceva. Un'inserzione sull'ultima pagina di un quotidiano britannico l'avrebbe definito una villa, ma erano soltanto due camere e una cucina sacrificata. Le pareti erano rivestite di intonaco grezzo, coperte di chiazze e macchie a causa delle infiltrazioni d'acqua. Da un lato all'altro del soffitto correvano delle travi di legno a vista il signor Vitroni doveva aver pensato che avrebbero dato un tono rustico e pittoresco all'ambiente - che davano ricetto a numerosi millepiedi i quali
ogni tanto precipitavano, di solito durante le ore notturne. Le fenditure tra le pareti e il pavimento e qualche volta anche la piccola vasca da bagno ospitavano degli scorpioni bruni di media grandezza, il cui veleno - dicevano - non era mortale. La giornata piovosa rendeva scuro e freddo l'appartamento; sentivo sgocciolare l'acqua. Inoltre echeggiava come una caverna, forse perché i due appartamenti ai piani superiori erano ancora vuoti. L'anno prima sopra di noi c'era una famiglia di sudamericani che suonavano le chitarre fino a tarda sera, sgolandosi e pestando i piedi, tanto che pezzetti d'intonaco cadevano come se grandinasse. Io avrei voluto salire, per sgolarmi e battere i piedi con loro, ma Arthur pensava che sarebbe stato indiscreto presentarci. Lui era cresciuto a Fredericton, nel New Brunswick. Mi rivoltai, e il materasso mi fece male alla spina dorsale. C'era una molla sporgente proprio nel mezzo, ma sapevo che se avessi rigirato il materasso ce ne sarebbero state quattro. Era lo stesso materasso dell'anno precedente, con i suoi abissi, i suoi pinnacoli e le sue insidie, che un anno di altri inquilini non aveva certo migliorato. Ci avevamo fatto l'amore con una fretta che rammentava le camere di motel. I millepiedi eccitavano Arthur, e creavano un'atmosfera di pericolo (un noto afrodisiaco, vedi la Peste Nera). Inoltre, lui amava vivere col solo contenuto delle valigie. Lo faceva sentire come un rifugiato politico, e questa era probabilmente una delle sue fantasie, anche se non lo diceva mai. Per giunta poteva illudersi che saremmo andati altrove, in un posto migliore; e in effetti ogni volta che ci spostavamo, il posto gli sembrava migliore, almeno per un po'. In seguito cominciò a sembragli semplicemente diverso, e infine semplicemente lo stesso. Ma per lui l'illusione della transitorietà valeva di più dell'illusione della permanenza, e tutta la nostra vita coniugale si era svolta in una specie di stazione ferroviaria ideale. Dato che avevamo cominciato dicendoci addio, ci avevamo fatto l'abitudine. Anche quando stava andando soltanto fino all'angolo della strada a comprare un pacchetto di sigarette, gli lanciavo un'occhiata come se fosse l'ultima. E ora non l'avrei visto mai più per davvero. Scoppiai in lacrime e rintanai la testa sotto al cuscino. Poi decisi che dovevo farla finita con questa storia. Non potevo lasciare che Arthur continuasse a controllare la mia vita, soprattutto da quella distanza. Ora ero un'altra persona, anzi, quasi un'altra persona. Mi avevano detto: «Non assomigli per nulla alle tue fotografie», ed era vero; con pochi ritocchi, un giorno avrei potuto incrociare Arthur per la strada, e lui non mi avrebbe
nemmeno riconosciuta. Mi districai dalle lenzuola - le lenzuola del signor Vitroni, sottili e accuratamente rammendate - andai in bagno e feci scorrere dell'acqua fredda su un panno, per eliminare il gonfiore della faccia, notando appena in tempo il piccolo scorpione marrone che si era nascosto tra le pieghe. Era duro fare l'abitudine a quelle imboscate. Se ci fosse stato Arthur avrei cacciato un urlo. Ma dal momento che non c'era, lasciai cadere per terra il panno e schiacciai lo scorpione col fondo di latta di un barattolo di detersivo in polvere, anch'esso fornito dai signor Vitroni. Aveva equipaggiato generosamente l'appartamento di prodotti per la pulizia della casa - sapone, disinfettante per il WC, spazzoloni - ma per cucinare c'erano solo una padella e due cassuerole, una delle quali priva di manico. Mi trascinai fino in cucina e accesi il fornello. Non valgo niente la mattina, prima del caffè. Avevo bisogno di mandar giù qualcosa di caldo per sentirmi al sicuro; c'era del caffè macinato e del latte in un cartone triangolare sul davanzale della finestra. Non c'era frigorifero, ma il latte non si era ancora inacidito. A ogni modo avrei dovuto bollirlo: qui tutto andava bollito. Mi sedetti a tavola, aggiunsi con la mia tazza calda un ennesimo anello bianco alla vernice e, mangiando un pacchetto di fette biscottate, cercai di organizzare la mia vita. Un passo per volta, mi dissi. Per fortuna avevo portato con me dei pennarelli; avrei fatto una lista. In alto scrissi Tintura, in verde mela. Sarei andata a cercarla a Tivoli, o forse a Roma: prima la trovavo e meglio era. Con i capelli tinti non ci sarebbe stato più nessun collegamento tra me e l'altra sponda, tranne le mie impronte digitali. E nessuno si sarebbe preoccupato delle impronte digitali di una donna che era stata dichiarata ufficialmente morta. Scrissi Denaro, e lo sottolineai due volte. Il denaro era importante. Mi sarebbe bastato per un mese, se fossi stata frugale. A essere realistici, mi sarebbe bastato per un paio di settimane. Il Colosseo di velluto nero mi era costato parecchio. Non avevo potuto ritirare molto dal mio conto in banca, perché un prelievo cospicuo il giorno precedente alla mia morte sarebbe apparso strano. Se avessi avuto più tempo, avrei potuto farlo attraverso l'altro conto, quello professionale. Se solo ci fosse stato qualcosa, sull'altro conto. Purtroppo avevo l'abitudine di trasferire sul mio conto personale la maggior parte del denaro, appena veniva versato. Mi chiesi a chi sarebbe andato: ad Arthur, probabilmente. Cartolina per Sam, scrissi. La cartolina l'avevo già comprata all'aeroporto di Roma. Raffigurava la torre di Pisa. Avevo già scritto il messaggio
concordato in lettere verdi a stampatello: CI DIVERTIAMO UN MONDO. SAN PIETRO È MAGNIFICA. ARRIVEDERCI A PRESTO. SALUTI, MITZ E FRED. Questo gli avrebbe fatto sapere che ero arrivata senza incidenti. Se invece ci fossero state delle complicazioni, avrei scritto: IL TEMPO È FRESCO E FRED HA LA DISSENTERIA. FORTUNA CHE C'È L'ENTEROVIOFORMIO! SALUTI, MITZ E FRED. Decisi di imbucare per prima cosa la cartolina e di preoccuparmi del denaro e della tintura. Finii il mio caffè, mangiai l'ultima fetta biscottata e indossai l'altro mio nuovo acquisto, un vestito a sacchetto bianco a losanghe grigie e malva. Mi accorsi che sulla camicia da notte c'era uno strappo a metà della cucitura, all'altezza della coscia. Sarei diventata sciatta senza nessuno che mi guardasse e sorvegliasse queste infrazioni alla regola? Perché non ti curi di più di te stessa, mi disse una voce, non vuoi fare qualcosa di te stessa? Aghi e filo, scrissi sulla lista. Mi coprii la testa col foulard delle Guardie a cavallo rosa e mi misi gli occhiali scuri. Non pioveva più, ma il tempo era ancora grigio; sarei stata strana con gli occhiali, ma non potevo farci niente. M'incamminai verso la piazza del mercato, lungo una strada in salita, tortuosa e lastricata di ciottoli, affrontando gli sguardi delle vecchie che ogni giorno sedevano sulla soglia delle loro case di pietra aggressivamente antiche, matrone dai busti enormi e arcaici stipati in abiti neri, come se portassero il lutto. Erano le stesse vecchie che mi avevano esaminata il pomeriggio del giorno prima, le stesse dell'anno prima e di duemila anni prima. Erano immutabili. Buongiorno3 , mi dicevano mentre passavo, e io annuivo, sorridevo e ripetevo la stessa parola. Non sembravano molto incuriosite di me. Sapevano già dove abitavo, che macchina avevo e che ero una straniera, e ogni volta che compravo qualcosa in piazza non mancavano di venire a saperlo. Che altro c'era da imparare su una straniera? L'unica cosa che avrebbe potuto turbarle era il fatto che vivevo da sola: a loro non sarebbe sembrato naturale. Ma non sembrava naturale nemmeno a me. La posta si trovava nella parte anteriore di un umidissimo palazzo antico. Tutto l'arredamento era costituito da una panca, uno sportello e un pan3
In italiano nel testo.
nello per gli avvisi, sul quale erano attaccate alcune fotografie che assomigliavano alle foto segnaletiche dei ricercati: uomini dalla faccia arcigna, visti di fronte e di profilo. Un paio di poliziotti, o forse erano soldati, stazionavano pigramente sulla panca, con le loro divise che sembravano residuati dei tempi di Mussolini: alti stivali duri, banda sui pantaloni, mostrine e mannelli di grano sui risvolti delle tasche. Sentivo un formicolio sulla nuca, mentre in piedi davanti allo sportello cercavo di far capire all'impiegata che volevo un francobollo per posta aerea. L'unica cosa che mi veniva in mente era Par avion, ma era la lingua sbagliata. Agitai le braccia a mo' di ali, sentendomi idiota, ma lei afferrò il concetto. Alle mie spalle, i poliziotti si misero a ridere. Avrebbero senza dubbio fiutato il mio passaporto, che traspariva dalla mia borsa di cuoio, incandescente come ferro fuso, denunciandomi come una sirena d'allarme, avrebbero certamente chiesto di vederlo, mi avrebbero fatto delle domande, avrebbero informato le autorità... E le autorità, cosa avrebbero fatto? La donna allo sportello prese la cartolina attraverso la fessura del finestrino. Quando Sam l'avesse ricevuta, avrebbe potuto farmi sapere fino a che punto il nostro piano era riuscito. Seguita dai lucidi occhietti da scarafaggio dei poliziotti, uscii. Era un buon piano, pensai; mi compiacqui con me stessa per averlo predisposto. Improvvisamente desiderai che Arthur sapesse quanto ero stata abile. Lui aveva sempre creduto che io fossi talmente disorganizzata da non saper nemmeno fare quattro passi verso la porta per uscire di casa, figuriamoci poi per andare all'estero. Ero capace di incaricarmi di uscire a fare la spesa, munita di una lista redatta accuratamente, in gran parte grazie ai suoi suggerimenti, e di dimenticarmi a casa la borsa, di tornare a prenderla, di dimenticare stavolta le chiavi della macchina e infine di partire scordandomi la lista; oppure tornare a casa con due vasetti di caviale, una scatola di crackers sfiziosi e mezza bottiglia di champagne, per poi giustificare l'acquisito di questi tesori dicendogli che erano in offerta speciale, il che, eccettuata la prima volta, era sempre una bugia. Avrei tanto voluto che lui sapesse che avevo fatto qualcosa di complicato e pericoloso, senza fare nemmeno un errore. Da sempre desideravo fare qualcosa che mi guadagnasse la sua ammirazione. Il ricordo del caviale mi fece venire fame. Attraversai la piazza del mercato per entrare nella drogheria principale, dove si trovavano scatolame e pacchetti, e mi comprai un'altra scatola di Peek Freans, del formaggio e della pasta. Fuori del negozio, accanto al caffè, c'era un vecchio camion
della verdura; doveva essere quello il clacson che avevo sentito prima. Era circondato da massaie pienotte nei loro abiti da mattino di cotone, senza calze, che ordinavano agitando mazzetti di cartamoneta. Il verduraio era giovane, e aveva una criniera di capelli untuosi; in piedi nel retro del camion riempiva sporte e faceva lo spiritoso con le donne. Quando passai mi sorrise e mi gridò qualcosa che suscitò le risate e i gridolini delle donne. Mi offriva un grappolo d'uva, facendolo dondolare con un'aria piena di sottintesi, ma non ero all'altezza di rispondere, il mio vocabolario era troppo ridotto; invece andai alla bancarella normale della verdura. La roba era meno fresca, ma c'era un vecchietto gentile, e potevo cavarmela spiegandomi a gesti. Dal macellaio comprai due fette di manzo care e sottili come carta, che prevedevo avrebbero avuto un pallido sapore. Era carne di animali di un anno, perché nessuno poteva permettersi di foraggiare una mucca più a lungo, e a me, che non avevo mai imparato a cucinarla come si deve, riusciva sempre gommosa. Scesi la collina per tornare a casa, portando i due pacchetti. La mia auto rossa della Hertz Rent-A-Car era parcheggiata di fronte al cancello di ferro battuto, in cima al sentiero. L'avevo presa a nolo all'aeroporto, e c'era già un graffio: era stato a Roma, in una strada che si era rivelata un senso unico4 . Era attorniata da alcuni ragazzini del paese, che disegnavano sullo strato di polvere che la ricopriva, sbirciavano quasi con timore dai finestrini e facevano correre le mani sui paraurti. Quando mi videro si allontanarono dalla macchina e si acquattarono mormorando. Gli feci un sorriso, pensando che erano incantevoli con i loro occhi bruni e rotondi, vispi come quelli degli scoiattoli; molti erano biondi, cosa sorprendente data la loro pelle olivastra, e ricordai che mi avevano detto che i barbari, dieci o quindici secoli prima, erano passati spesso di lì. Ecco perché tutti i paesi erano costruiti sulle colline. «Buongiorno», dissi ai bambini, e loro fecero un timido risolino. Entrai dal cancello e scesi per il viottolo, facendo rumore sulla ghiaia. Due galline nane, color cascami di cartone, si allontanarono precipitosamente. A metà strada mi fermai: cercavo di ricordarmi se avevo chiuso la porta a chiave oppure no. Anche se apparentemente ero al sicuro, non potevo permettermi di essere pigra o sbadata. Era una sensazione irrazionale, ma mi pareva che nell'appartamento qualcuno, seduto sulla sedia vicino alla finestra, mi stesse aspettando. 4
In italiano nel testo.
4 Ma in casa non c'era nessuno. Semmai, sembrava più vuota del solito. Preparai il pranzo senza contrattempi, nulla traboccò o esplose, e mangiai al tavolo. Fra poco, pensai, mangerò in cucina, in piedi, e direttamente dalle pentole e dalle padelle. Cosi si diventa, quando si vive da soli. Sentivo che avrei dovuto tentare di istituire una qualche forma di routine. Dopo pranzo contai il mio denaro; parte era in contanti e parte in travellers' cheques. Come sempre, ce n'era meno di quanto credevo: dovetti rimettermi al lavoro e guadagnarne dell'altro. Andai davanti allo scrittoio, aprii il cassetto della biancheria e rovistai il contenuto, chiedendomi cosa mi aveva ispirata a comprare un tanga rosso con su la scritta Domenica ricamata in nero. Era stato il Real Porcospino, ovviamente; tra le altre cose, era anche un maniaco della biancheria intima. Questo faceva parte di un completo per il fine settimana; avevo anche Venerdì e Sabato, entrambi con scritte bilingui. Li avevo tolti dalla busta di cellophane e il Real Porcospino mi aveva detto: «Mettiti Domenica/Dimanche»: gli piaceva creare immagini di virtù profana. Io me li ero messi. «Che bomba» aveva detto il Real Porcospino. «Ora voltati.» Poi era strisciato verso di me ed eravamo finiti in un voluttuoso groviglio sul suo materasso. C'era anche un reggiseno color carne che si allacciava sul davanti. Solo per amanti, diceva la pubblicità, e io l'avevo comprato per andarci con il mio amante. Alle pubblicità abboccavo sempre, soprattutto a quelle che promettevano la felicità. Avevo portato con me quella biancheria compromettente perché temevo che Arthur, dopo la mia morte, la scoprisse e si rendesse conto di non averla mai vista prima. Durante la mia vita non avrebbe mai guardato in quel particolare cassetto: si teneva alla larga dalla biancheria, gli piaceva credere che i suoi pensieri si soffermassero su oggetti più elevati e, a onor del vero, era proprio così, di solito. Perciò avevo usato il cassetto della biancheria come nascondiglio, e per forza d'abitudine, continuavo a farlo ancora. Presi il quaderno nero di Fraser Buchanan. Sotto, avvolto in uno slip, c'era il manoscritto al quale stavo lavorando al momento della mia morte. Charlotte, in piedi nella stanza in cui egli l'aveva lasciata, stringeva ancora tra le mani, inconsapevolmente, il cofanetto di gioielli. Nell'ampio caminetto scoppiettava il fuoco, e caldi riflessi risplendevano sugli stemmi di marmo del casato che ornavano la cappa riccamente scolpita; eppure
ella aveva freddo. Al tempo stesso, le sue guance scottavano. Aveva ancora dinanzi agli occhi la piega sprezzante delle labbra di lui, la cinica linea delle sue sopracciglia sul volto scuro eppure irresistibile, la sua bocca spietata e rapace dalle labbra sottili. Ricordava il modo in cui i suoi occhi avevano percorso con uno sguardo d'apprezzamento le curve del suo corpo giovane e fermo, mal dissimulate dal suo abito di crespo nero da quattro soldi, che le stava tanto male. Aveva avuto sufficiente esperienza con l'aristocrazia per sapere in quale considerazione erano tenute le donne come lei, che, senza averne colpa, erano costrette a guadagnarsi da vivere. Lui non sarebbe stato diverso dagli altri. Mentre ripensava alle umiliazioni subite, un palpito tumultuoso le scuoteva il petto al di sotto del crespo nero. Falsi e ipocriti, tutti! Aveva già cominciato a odiarlo. Avrebbe finito di incastonare gli smeraldi e avrebbe lasciato Redmond Grange più in fretta che poteva. Da qualche parte, in quella vasta dimora, era nascosta una minaccia, le sembrava quasi di sentirla nell'aria. Le sovvennero le misteriose parole che Tom, il cocchiere, le aveva rivolto quando senza troppa grazia l'aveva aiutata a scendere dalla carrozza. «State lontana dal labirinto, signorina, ecco il mio consiglio.» Era un uomo sinistro, dalla faccia di topo, con i denti guasti e modi furtivi. «Quale labirinto?» aveva chiesto Charlotte. «Lo scoprirete fin troppo presto» aveva risposto Tom con un risolino maligno. «A tante giovani prima di voi sono successe delle disgrazie, nel labirinto.» Ma si era rifiutato di spiegarsi meglio. Fuori, oltre la porta a vetri, sentì l'eco di una risata argentina: era la voce di una donna. Chi mai poteva passeggiare sul piazzale a quell'ora di notte, in pieno novembre? Charlotte rabbrividì e ricordò altri passi che aveva udito risuonare nello stesso luogo la notte prima; quando dalla finestra della sua camera da letto aveva guardato sul piazzale, non aveva visto che la luce della luna e l'ombra dei cespugli agitati dal vento. Si diresse verso la porta, con l'intenzione di salire le scale e recarsi nella sua cameretta, situata sullo stesso piano degli alloggi delle domestiche. Ecco quanto l'apprezzava Redmond, pensò con sdegno. Anche se fosse stata un'istitutrice, un gradino più su della cameriera e della cuoca, certamente non era una signora. Eppure aveva ricevuto un'educazione pari a quella di lui, in verità. Uscita dalla porta del salotto, Charlotte si fermò meravigliata. Ai piedi delle scale una donna alta, coperta da un mantello da viaggio di zibellino, le sbarrava il passo. Il cappuccio ricadeva all'indietro, scoprendo la sua
chioma rosso fiamma; il corpetto del suo abito scarlatto era molto scollato, e metteva in evidenza le rotondità del suo candido seno. Il suo vestito era evidentemente il frutto dell'abilità dei sarti più costosi e in voga di Bond Street, ma sotto quello strato di sofisticata civiltà il suo corpo si muoveva con la sinuosità di un animale da preda. Era di una bellezza incantevole. Lanciò a Charlotte uno sguardo di disprezzo, e i suoi occhi verdi brillarono al chiarore del candelabro d'argento ornato da putti e tralci di vite che teneva nella mano sinistra. «Chi siete, e che cosa fate in questa casa?» domandò imperiosamente. Prima che Charlotte potesse rispondere, il suo sguardo cadde sul cofanetto che ella teneva tra le mani. «I miei gioielli» esclamò, colpendola in pieno viso con la mano inguantata. «Adagio, Felicia» disse la voce di Redmond, che emerse dall'ombra. «Volevo che il restauro dei tuoi gioielli fosse una sorpresa, per darti il benvenuto. Ma sono io ad essere sorpreso, dal momento che sei arrivata prima del previsto.» Rise: un riso secco e sarcastico. La donna di nome Felicia si voltò verso di lui, con un lampo di possessività negli occhi ardenti e un sorriso provocante che rivelava i suoi piccoli denti bianchi, perfettamente regolari. Redmond si portò cavallerescamente alle labbra la mano inguantata di lei. Mancavano otto pagine, le prime otto. Per un momento pensai di averle lasciate a casa, dove Arthur le avrebbe sicuramente trovate. Ma non potevo avere fatto una cosa del genere, non potevo essere stata sbadata fino a quel punto. Doveva averle prese Fraser Buchanan, introducendole nella manica della giacca oppure piegandole e infilandosele in tasca quando era stato in camera da letto, prima che lo trovassi. Ma io avevo il suo quaderno nero, e il mio ostaggio valeva più del suo. Non sarebbe stato troppo difficile ricostruire le pagine iniziali. Charlotte avrebbe imboccato la curva dell'ampio viale fiancheggiato da tigli a bordo della carrozza dei Redmond, non quella padronale, che era stata mandata alla stazione a riceverla. Stringendosi addosso il suo scialle troppo leggero, si sarebbe preoccupata dei suoi vestiti logori e del suo baule rovinato nel portabagagli: i servitori si sarebbero fatti beffe di lei? Poi avrebbe intravisto Redmond Grange, la sua mole femminea, le sue maschie torrette, l'atmosfera malefica. Un maggiordomo insolente l'avrebbe introdotta in biblioteca, dove, dopo averla fatta attendere in modo irriguardoso, il padrone di casa l'avrebbe sottoposta a un colloquio preliminare. Il fatto che i restau-
ratori di gioielli avessero mandato una donna, avrebbe detto, lo sorprendeva; e avrebbe insinuato che lei non era all'altezza del lavoro. Charlotte gli avrebbe risposto con fermezza, con un tono persino un po' provocatorio. Lui avrebbe notato quell'aria di sfida nei suoi luminosi occhi celesti e le avrebbe fatto notare, per il suo bene, che forse era un po' troppo indipendente. «Nella mia condizione, signore» avrebbe risposto lei con un tocco d'amarezza «si è costretti a essere indipendenti.» Charlotte, naturalmente, era orfana. Suo padre era stato il figlio minore di una nobile casata, diseredato dalla sua famiglia perché aveva sposato sua madre, una donna dal carattere dolce che era stata ballerina all'Opera. I genitori di Charlotte erano morti durante un'epidemia di vaiolo; lei se l'era cavata con poche cicatrici, che davano alla sua espressione un che di piccante. Era stata allevata da suo zio, il fratello di sua madre, un uomo ricco ma taccagno che, prima di morire di febbre gialla, l'aveva costretta a imparare un mestiere. Non le aveva lasciato nulla, l'aveva sempre detestata; e l'aristocratica famiglia di suo padre non voleva avere niente a che fare con lei. Desiderava che Redmond sapesse che se si trovava a casa sua, nelle sue mani, non era per scelta ma per necessità. Tutti devono mangiare. Avevo bisogno di un titolo indicativo. Il signore di Redmond Grange, pensai; oppure, meglio ancora, Terrore a Redmond Grange. Insieme ai dettagli storici, il terrore era una delle mie specialità. O magari un titolo con la parola amore: l'amore si vendeva molto bene. Per anni avevo tentato di mettere amore e terrore nello stesso titolo, ma era difficile. Amore e terrore a Redmond Grange era decisamente troppo lungo, e suonava come Le gemelle a SunsetBeach. La donna che amava il terrore... faceva troppo Michey Spillane. Preda d'amore sarebbe andato bene, come titolo d'emergenza. Avevo bisogno anche di una macchina da scrivere. Scrivevo tutto a macchina; era più veloce, e nel mio lavoro la velocità contava molto. Ero una brava dattilografa: nel mio liceo la dattilografia era considerata un carattere sessuale femminile secondario, come il seno. Forse avrei potuto comprare una macchina da scrivere di seconda mano a Roma. Poi avrei potuto riempire le prime pagine, scrivere altri otto o nove capitoli e spedirli alla Hermes Books con una lettera d'accompagnamento in cui avrei spiegato che mi ero trasferita in Italia per motivi di salute. Non mi avevano mai vista, mi conoscevano sotto l'altro nome. Credevano fossi un'ex bibliotecaria di mezza età, timida e con qualche chilo di troppo. Praticamente un'e-
remita, in realtà, allergica alla polvere, alla lana, al pesce, al fumo e all'alcool, come avevo spiegato declinando i loro inviti a pranzo. Avevo sempre cercato di tenere i miei due nomi e le mie due entità quanto più possibile separati. Arthur non scoprì mai che scrivevo romanzi gotici. Dapprima lavoravo solo quando lui non era in casa. Più avanti, presi l'abitudine di andare in camera da letto, chiudere la porta e dire che stavo studiando per un qualche corso di aggiornamento universitario: ceramiche cinesi, religioni comparate, corsi che non riuscivo mai a finire per la semplice ragione che in realtà non li avevo mai frequentati. Perché non gliel'avevo mai detto? Soprattutto per paura. Quando lo avevo incontrato, lui faceva un sacco di discorsi a proposito del suo bisogno di una donna che lui potesse rispettare dal punto di vista intellettuale, e sapevo che se avesse scoperto che avevo scritto Il segreto di Morgrave Manor non mi avrebbe rispettata. Desideravo tanto avere un intelletto rispettabile. Gli amici di Arthur, i libri che leggeva (mai privi di note a piè di pagina), le cause che abbracciava, mi facevano sentire in difetto, una specie di scema del villaggio intellettuale: confessare qual era la mia professione avrebbe certamente peggiorato le cose. Quei libri, sulle cui copertine figuravano lugubri e inquietanti manieri, spaurite fanciulle in civettuole camicie da notte con i capelli al vento, gli occhi fuori dalla testa come vittime del morbo di Basedow e i piedi sospesi a mezz'aria e pronti alla fuga, sarebbero stati considerati come romanzi d'appendice di infimo ordine. Peggio che romanzi d'appendice: non sfruttavano forse le masse, corrompendole con la distrazione, e non perpetuavano forse dei degradanti stereotipi femminili presentando le donne come esseri indifesi e perseguitati? Proprio così, e io lo sapevo, ma non riuscivo a smettere. «Sei una donna intelligente» avrebbe detto Arthur. Diceva sempre cosi prima di esporre qualche mia mancanza, ma lo pensava sul serio. Lo esasperavo e lui era come un padre i cui bambini intelligenti portano a casa delle brutte pagelle. Non avrebbe capito. Non era minimamente in grado di capire il desiderio, il puro, quintessenziale bisogno di evasione delle mie lettrici, che io stessa capivo fin troppo. La vita era stata dura nei loro confronti, e loro non avevano opposto resistenza, si erano accasciate come soufflés in una raffica di vento. L'evasione per loro non era lusso, ma un genere di prima necessità. Dovevano pur procurarsela, da una parte o dall'altra. E quando erano troppo stanche per inventarsi delle evasioni da sole, c'erano le mie a
loro disposizione, nel negozio all'angolo della strada, impacchettate con cura al pari dei farmaci analgesici. Si prendevano in pillole, rapidamente e discretamente, in quei momenti in cui l'asciugacapelli induriva i loro riccioli sui bigodini di plastica, o in cui l'olio da bagno versato nell'acqua trasformava in velluto rosa la loro pelle, lasciando poi tutt'intorno alla vasca un anello da togliere con l'Ajax, che lasciava sulle mani un forte olezzo di ospedale, al che i loro mariti avrebbero osservato che erano sexy quanto uno strofinaccio per i piatti. Si dolevano di non essere belle, di non essere più giovani. Sull'evasione sapevo tutto: era stata alla base della mia educazione. Le eroine dei miei libri erano soltanto delle controfigure dai lineamenti mai troppo definiti: le loro facce erano fatte di una sostanza malleabile nella quale ogni lettrice poteva modellare i tratti della sua, aggiungendo un pizzico di bellezza in più. In centinaia di migliaia di case quegli alter ego segreti si alzavano nottetempo dai letti prosaici delle loro padrone per lanciarsi in avventure talmente seducenti e complicate da non poter essere confessate a nessuno, men che mai ai mariti che, distesi nel loro incantato ronfare, non sognavano niente di più astruso della coniglietta di Playboy. Conoscevo bene le mie lettrici, ero stata una loro compagna di scuola, stavo sempre agli scherzi, mi offrivo volontariamente per far parte dei comitati, decoravo la palestra del liceo con scritte che dicevano VIVA IL SALTELLO e ABBASSO LE PERE COTTE e poi tornavo a casa a mangiare panini al burro di noccioline e a leggere romanzi economici mentre tutte le altre erano a ballare. Io ero 'Miss Personalità,' confidente e amica leale. Mi raccontavano tutto. Ora potevo giocare a fare la fata madrina, malgrado i loro evidenti difetti, l'eccessiva magrezza delle loro caviglie, quei brutti peli che deturpavano il loro labbro superiore, tanto deprecati negli illeggibili annunci pubblicitari sul retro delle riviste di cinema, malgrado i loro gomiti nodosi come zampe di gallina. Avevo il potere di trasformare zucche in oro puro. Guerra, politica, viaggi di esplorazione sul Rio delle Amazzoni, le altre grandi fonti di evasione, in generale venivano loro negate, e per lo hockey o il calcio, giochi che non sapevano giocare, non provavano un grande interesse. Perché privarle dei loro castelli, dei loro persecutori e dei loro principi? E, a pensarci bene, chi era Arthur per decidere cosa era importante socialmente? A volte le sue maledette teorie e ideologie mi davano il voltastomaco. La verità è che io distribuivo speranza, offrivo l'immagine di un mondo migliore, per quanto assurdo fosse. Era proprio tanto terribile? Non
mi sembrava che fosse così diversa dalle immagini offerte da Arthur e dai suoi amici, e non era certo meno realistica. Così a te interessa la gente, i lavoratori, gli dicevo durante le mie solitarie giustificazioni di mezzanotte. Benone, ecco quel che leggono, la gente e i lavoratori, le donne ad ogni modo, quando riescono a trovare il tempo di leggere e non ce la fanno ad affrontare il realismo socialista di Storie Vere. Leggono i miei libri. Pensa un po'. Ma così sarei andata troppo oltre, avrei colpito Arthur nel suo più sacro e sensibile tallone d'Achille. Meglio sarebbe stato affrontare la questione da una prospettiva deterministico-materialista: «Senti, Arthur, si dà il caso che io sia tagliata per questo lavoro, e sono anche brava. L'ho scoperto per caso, ma poi ci ho preso gusto e ora è l'unico modo che conosco per guadagnarmi da vivere. Come dicono le puttane, perché diavolo dovrei fare la cameriera? Mi dici sempre che le donne dovrebbero realizzarsi completamente come persone grazie a un'occupazione significativa, e mi tormenti in continuazione perché me ne trovi una. Bene, questa è la mia occupazione e la trovo significativa. E sono tutt'altro che una fannullona - di quei libri ne ho scritti quindici.» Questa, però, Arthur non l'avrebbe presa per buona. Marlene, il modello di virtù, aveva lavorato per tre mesi come compositrice in una tipografia («Non si possono capire davvero i lavoratori se non li si è conosciuti da vicino») e Arthur, lo snob, non si sarebbe accontentato di qualcosa di meno. Povero Arthur. Pensai a lui, tutto solo nel nostro appartamento, circondato dalle macerie del nostro matrimonio. Che cosa stava facendo in quel momento? Infilava forse i miei abiti rossi e arancioni nel sacco della raccolta pro Invalidi Civili, rovesciava nella pattumiera il contenuto del cassetto in cui tenevo i cosmetici? Stava scorrendo le pagine dell'album di ritagli che avevo cominciato a tenere durante le prime settimane di infantile entusiasmo dopo la pubblicazione di Lady Oracolo? Com'ero stata ingenua a pensare che finalmente tutti mi avrebbero rispettata... L'album sarebbe finito nella spazzatura insieme a tutti quei rimasugli di me che erano restati sull'altra sponda. Che cosa avrebbe conservato? Un guanto, una scarpa? Forse si stava pentendo. Questa era un'idea nuova: si sentiva malinconico, addirittura sconsolato, proprio come me. Mi assalì il pensiero che forse lo avevo giudicato male. Supponiamo che non mi odiasse più, che avesse rinunciato alla vendetta. Forse gli avevo fatto una cosa terribile, irrimediabile. E se gli avessi spedito una cartolina anonima da Roma - Joan non è morta, firmato: un amico - per fargli coraggio?
Avrei dovuto fidarmi di più di lui. Avrei dovuto essere sincera fin dal principio, manifestare i miei sentimenti, raccontargli tutto. (Ma se avesse saputo come ero veramente, mi avrebbe amata lo stesso?) Il guaio era che volevo salvaguardare intatte le sue illusioni, ed era una cosa facile, bastava solo un po' di riservatezza: tutto quel che facevo era non dirgli mai nulla di importante. Non mi sarei salvata grazie a una maggiore sincerità, pensai, ma grazie a una maggiore falsità. Sapevo per esperienza che essere sinceri e manifestare i propri sentimenti portava ad un unico, inevitabile risultato. La catastrofe. PARTE SECONDA 5 Se lasci uscire un verme da un barattolo di vermi, tutti gli altri andranno dietro, diceva sempre zia Lou. Aveva molte massime utili, alcune di sua invenzione. Ad esempio, ho sentito dire anche da altri «Frena la lingua, se vuoi salvare il collo,» ma mai «In ogni sacco ci sta più di un gatto» o «Non far conto sui tuoi conigli prima che escano dal cilindro». Zia Lou credeva nella discrezione, anche se soltanto a proposito di questioni importanti. Questo era uno dei motivi per cui ad Arthur non avevo mai raccontato molto di mia madre. Se avessi cominciato a parlare di lei, avrebbe fatto presto a scoprire la verità su di me. Mi inventai una madre a suo esclusivo uso e consumo, una donna placida e gentile che era morta di una malattia rara - credo che fosse lupus - poco dopo il nostro incontro. Fortunatamente non era mai molto curioso circa il mio passato: era troppo occupato a raccontarmi il suo. Venni a sapere tutto di sua madre: che pretendeva di essersi accorta del preciso istante in cui Arthur fu concepito e che lo aveva destinato senza indugio al sacerdozio (nella chiesa anglicana) mentre era ancora nel suo grembo, che lo aveva minacciato di tagliargli i pollici quando lo aveva sorpreso a gingillarsi all'età di quattro anni. Sapevo che disprezzava sua madre e la di lei fiducia nel duro lavoro e nella realizzazione, curiosamente simile alla sua; sapevo che temeva il suo senso dell'ordine, simboleggiato dalle aiuole che era costretto a diserbare. Mi fu raccontata la sua avversione per il bere, e anche la storia del bar di suo padre nella sala degli svaghi della maestosa residenza da giudice di Fredericton (che lui dichiarava di essersi lasciato alle spalle da tanto tempo) in cui,
in cima alle bottiglie, c'erano teste di scozzesi in miniatura, dorate, perversamente simili a capezzoli, o almeno così le immaginavo io. Sapevo delle numerose lettere isteriche che gli aveva scritto sua madre, ripudiandolo per questo o quel motivo, politica, religione, sesso. Una arrivò quando venne a sapere che convivevamo, e lei non mi perdonò mai. Tutte queste mostruosità e ingiustizie le ascoltavo fedelmente, in parte perché speravo che sarei gradualmente arrivata a capirlo, ma soprattutto per abitudine. C'è stato un periodo della mia vita in cui ero una buona ascoltatrice, coltivavo l'arte di ascoltare, pensavo che dovevo imparare a farlo bene, perché non c'era nient'altro che sapessi fare. Ero capace di ascoltare chiunque parlare di qualunque cosa, mormorando al momento giusto, rassicurante, senza prendere posizione, comprensiva come un cuscino. Cominciai persino a origliare dietro le porte, sugli autobus, nei ristoranti, ma non era certo la stessa cosa, dal momento che era unilaterale. Così mi riuscì facile ascoltare Arthur, e finii per saperne molto di più di sua madre di quanto lui ne sapesse della mia: non che questo mi abbia giovato molto. Sapere non è necessariamente potere. Però una cosa gliela raccontai, e avrebbe dovuto colpirlo molto di più di quanto non lo colpì: mia madre mi aveva chiamata Joan perché portassi il nome di Joan Crawford. Questa è una delle cose che mi hanno sempre lasciata perplessa, di lei. Mi aveva chiamata come Joan Crawford perché voleva che fossi come i personaggi che l'attrice interpretava sullo schermo bella, ambiziosa, priva di scrupoli, rovinauomini - o perché voleva che fossi una donna di successo? Secondo mia madre Joan Crawford lavorava sodo, aveva forza di volontà e si era fatta dal nulla. Mi aveva dato il nome di un'altra perché non voleva che riuscissi mai ad avere un nome tutto mio? A pensarci bene, nemmeno Joan Crawford aveva un nome tutto suo. Il suo vero nome era Lucilie La Sueur, e sarebbe stato molto più adatto a me. Lucilla il Sudore. Quando avevo otto o nove anni e mia madre mi guardava pensosamente, dicendo «E pensare che ti ho chiamata come Joan Crawford» mi si contorceva lo stomaco, me lo sentivo pesante e venivo sopraffatta dalla vergogna: sapevo che mi si rimproverava qualcosa, ma non so ancora bene cosa. Joan Crawford, però, ha più di un volto. In effetti, c'era qualcosa di tragico in lei: aveva grandi occhi seri, una bocca triste, gli zigomi alti; e le succedevano delle disgrazie. Forse questo era il fatto. Oppure, e questo è importante: Joan Crawford era snella. Io invece no, e questa è una delle molte cose che mia madre non mi ha mai perdonato del tutto. Da principio ero solamente paffuta; nelle primis-
sime foto dell'album di mia madre ero una bambina sana, non molto più robusta della maggior parte degli altri bambini, e l'unica cosa strana è che non guardavo mai la macchina fotografica, e cercavo invece di mettermi qualcosa in bocca: un giocattolo, una mano, una bottiglia. Le foto continuavano in ordinata successione: non è che diventassi più rotonda, però non perdevo quello che comunemente si chiama turgore infantile. Giunta all'età di sei anni, la successione di fotografie si interrompeva bruscamente. Dev'essere successo quando mia madre perse ogni speranza a mio riguardo, perché era lei che le scattava: forse non voleva che la mia crescita fosse ulteriormente documentata. Aveva stabilito che io non andavo. Ne divenni consapevole abbastanza presto. Mia madre mi aveva iscritta a una scuola di danza, dove una donna chiamata Miss Flegg, magra e ipercritica quasi quanto mia madre, insegnava danza classica e tip tap. Le lezioni si tenevano in un lungo locale sopra la bottega di un macellaio, e ho sempre ricordato il modo in cui, mentre salivo pesantemente le scale polverose, l'odore di segatura e carne cruda cedeva il passo a un odore stantio di piedi sfiniti, misto a quello della colonia di Yardley di Miss Flegg. Mia madre aveva preso questa iniziativa un po' perché andava di moda iscrivere le bambine di sette anni a scuola di danza - erano ancora in voga i musical di Hollywood - e un po' perché sperava che la danza mi avrebbe reso meno pienotta. A me questo non lo disse, lo disse a Miss Flegg: non aveva ancora cominciato a dirmi che ero grassa. Amavo la scuola di danza. Ero abbastanza brava a ballare, anche se ogni tanto Miss Flegg batteva sul pavimento la bacchetta che usava durante la lezione dicendo: «Joan, tesoro, perché non la smetti di pestare i piedi?» Come la maggior parte delle bambine di quel tempo, idealizzavo le ballerine classiche, era una carriera adatta a una ragazza, e solevo appiccicare il mio nasetto corto e porcino alle vetrine delle gioiellerie sgranando gli occhi di fronte alle statuette di porcellana sui carillons, che raffiguravano lucenti donnine in fragili tutù rosa, con la testa di ceramica dura ornata di rose, e immaginavo me stessa balzare nell'aria, sorretta da un uomo snello in calzamaglia nera, leggera come un aquilone, con indosso un centrino riadattato e i capelli pieni di lustrini e scintillanti come la speranza. Lavoravo sodo durante le lezioni, mi concentravo e facevo addirittura esercizio a casa, avvolta in una tenda di merletto del bagno che non si usava più e che avevo chiesto a mia madre proprio quando stava per infilarla nel bidone della spazzatura. Prima di darmela, però, la lavò: non le piaceva lo sporco. Desideravo ardentemente un paio di scarpette da ballo di raso ma, spiegava
Miss Flegg, eravamo ancora troppo giovani, e l'ossatura dei nostri piedi non si era ancora consolidata. Così dovetti accontentarmi delle ballerine nere con un elastico sullo scollo, per niente romantiche. Miss Flegg era una donna piena di inventiva: immagino che oggi la si di direbbe creativa. Alla sua inventiva, però, l'insegnamento dei passi elementari ai bambini piccoli, che era soprattutto questione d'esercizio, non forniva un grande campo d'azione; ma lei si sfogava sul saggio annuale di primavera. Il saggio serviva soprattutto a far colpo sui genitori, ma anche a far colpo sulle bambine, in modo che chiedessero di poter prendere lezioni anche l'anno successivo. Miss Flegg faceva le coreografie per tutto il programma. Inoltre costruiva le scene e gli accessori, disegnava i costumi e distribuiva modelli e istruzioni alle madri, che avrebbero dovuto confezionarli. A mia madre non piaceva cucire, ma per questa occasione si mise al lavoro, e tagliò e appuntò spilli come tutte le altre madri. In fin dei conti, forse non aveva ancora perso tutte le speranze che riponeva in me, forse stava facendo ancora un tentativo. Miss Flegg organizzò il saggio secondo gruppi d'età, che corrispondevano ai suoi corsi di danza. Ce n'erano cinque: Piccoline, Grandine, Decimine, Dodicine, Fanciulline. Dietro il suo aspetto scontroso, le sue lunghe mani ossute, i capelli attorcigliati in uno chignon e le sopracciglia sottilissime che, me ne accorsi più avanti, erano disegnate con la matita, aveva un fondo di sentimentalismo che dava il la alle sue invenzioni. Io ero una delle Piccoline, il che era già una contraddizione in termini, perché, oltre a essere la più pesante del mio corso, cominciavo a essere la più alta. Ma non mi importava, non lo notavo nemmeno, presa com'ero dalla mia selvaggia agitazione per il saggio, che cresceva di giorno in giorno. Mi esercitavo per ore nello scantinato, l'unico posto in cui mi era permesso farlo, dopo che avevo rovesciato e rotto per errore la lampada del salotto di mia madre, bianca e oro a forma di ananas, che era la gemella di un'altra. Piroettavo accanto alla lavatrice, canticchiando fra me e me la musica del balletto, facevo la riverenza alla caldaia (che a quel tempo andava ancora a carbone), volteggiavo tra le lenzuola piegate in due stese ad asciugare sul filo, e quando ero sfinita salivo le scale della cantina, ansimante e fuligginosa, per trovarmi di fronte a mia madre con la bocca piena di spilli. Dopo avermi energicamente ripulita mi faceva salire su una sedia e mi diceva di girare lentamente su me stessa. Facevo fatica a stare ferma persino quando dovevo provare i miei costumi.
L'impazienza di mia madre era quasi pari alla mia, anche se era d'altro genere. Probabilmente cominciava a pentirsi di avermi mandata a scuola di danza. Per prima cosa, non ero affatto dimagrita; in secondo luogo, adesso facevo il doppio di chiasso di quanto facessi prima, soprattutto quando provavo il numero di tip tap sul legno pregiato del pavimento dell'ingresso con le mie scarpe di vernice che avevano placchette metalliche sulla punta e sul tacco, cosa che mi era stata espressamente proibita; e infine era in difficoltà coi costumi. Aveva seguito le istruzioni, ma nonostante i suoi sforzi avevano ancora qualcosa che non andava. Erano tre, perché le Piccoline facevano tre numeri: La stagione dei tulipani, un balletto di repertorio in stile olandese in cui dovevamo allinearci su due file e muovere le braccia su e giù imitando dei mulini a vento; Levate le ancore, un tip tap con veloci giravolte e saluti militareschi (la guerra era finita da poco e i motivi della marina erano ancora in voga); e Il capriccio delle farfalle, un numero grazioso i cui delicati svolazzi si avvicinavano maggiormente al mio ideale della danza. Era il mio preferito, ed anche il suo costume era quello che mi piaceva di più. Comprendeva un leggero gonnellino, simile a quello di una vera ballerina classica, un corpetto aderente con le spalline, un copricapo dal quale spuntavano antenne ricoperte di paillettes e un paio di ali di cellophane colorato montate su un'intelaiatura di fil di ferro, queste ultime fornite da Miss Flegg. Veramente non vedevo l'ora di mettermi le ali, ma non ci era permesso indossarle prima del giorno del saggio, per timore che le rompessimo. Era proprio quel costume, però, a dare preoccupazioni a mia madre. Gli altri erano più semplici: il completo da olandesina era una lunga e ampia gonna nera, accompagnata da un corpetto nero con le maniche bianche, e a ogni buon conto io ero in seconda fila. Il numero Levate le ancore prevedeva degli abiti col collo alla marinara e guarnizioni di passamaneria stile marina, e anche qui non c'erano problemi perché avevano il collo alto, le maniche lunghe e la vita abbondante. Mi avevano messo in seconda sfila a causa della mia statura; non ero stata scelta per essere una della tre vedettes, tutte bambine dai boccoli alla Shirley Tempie, che avrebbero fatto degli assoli su dei tamburi ricavati da casse di formaggio. Ma non me ne importava molto: io avevo messo gli occhi sul punto centrale del numero delle farfalle. Ci sarebbe stato un duetto con l'unico bambino della classe: si chiamava Roger, e io ne ero un po' innamorata. Sapevo che la bambina che doveva danzare con lui si sarebbe ammalata, così che avrebbero dovuto ricorrere a me. Avevo imparato a memoria la sua parte, e ora la sapevo quasi
quanto la mia, più o meno. In piedi sulla sedia, mia madre mi appuntava addosso gli spilli e sospirava; poi mi diceva di voltarmi lentamente, aggrottava la fronte e ne appuntava degli altri. Il problema era piuttosto semplice: in gonnellino rosa, con vita, braccia e gambe in bella vista, ero grottesca. Sto ricostruendo il punto di vista di un adulto, un adulto ansioso e schizzinoso come mia madre o Miss Flegg; però, con le mie cosce tremolanti, i miei cuscinetti di grasso dove più tardi ci sarebbe stato il seno, i miei avambracci paffuti e la mia vita flaccida, devo aver avuto un aspetto osceno, quasi senile, indecente; dev'essere stato come vedere una spogliarellista decaduta. Io ero il tipo di bambina, devono aver pensato nei lontani primi mesi dei 1949, che non andava esposta al pubblico con così pochi vestiti addosso. Non c'è da meravigliarsi se mi innamorai dell'Ottocento: a quel tempo stando alle cartoline scollacciate dell'epoca, la prosperosità era un pregio. Mia madre si dette molto da fare intorno a quel costume: lo allungò, aggiunse un altro strato di velo per nascondere le mie linee, imbottì il corpetto: ma non servì a nulla. Persino io rimasi un po' stupita quando finalmente mi accordò il permesso di ispezionarmi nello specchio a tre luci sul suo tavolo da toilette. Anche se ero troppo giovane per curarmi delle mie dimensioni, non era proprio quello l'effetto che avevo sperato. Non assomigliavo a una farfalla. Ma sapevo che l'aggiunta delle ali avrebbe cambiato ogni cosa. Già da allora, avevo fede nelle metamorfosi magiche. La prova generale in costume si svolgeva nel pomeriggio, il saggio la sera. Erano tanto vicini perché il saggio non si sarebbe tenuto nel locale sopra la bottega del macellaio, che sarebbe stato troppo piccolo, ma nell'auditorium di un collegio, che era stato affittato solo per quel sabato. Mia madre mi accompagnò, portando i miei costumi in una scatola di cartone. Il palcoscenico era angusto, e rimbombava, ma lo riscattava un sipario di morbido velluto purpureo, che io andai a tastare alla prima occasione. Nel retroscena regnava una vibrante eccitazione. C'erano molte mamme. Alcune si erano offerte di occuparsi del trucco, e dipingevano le facce delle loro e altrui bambine: le labbra col rossetto scuro, le ciglia col mascara nero che le rendeva rigide come aculei. Le bambine pronte e già vestite se ne stavano appoggiate al muro, per non sciuparsi, inerti come vittime sacrificali del tempio. Le allieve più grandi passeggiavano su e giù chiacchierando; per loro la cosa non era tanto importante, l'avevano fatto altre volte, e avrebbero provato i loro numeri più tardi. La stagione dei tulipani e Levate le ancore si svolsero senza intoppi. Ci
cambiammo i costumi nel retroscena, in un groviglio di braccia e gambe, ridendo nervosamente e allacciandoci l'una con l'altra ganci e chiusure lampo. Davanti all'unico specchio c'era una piccola folla. Le Grandine, che si alternavano con noi, eseguirono il loro numero, Le capriole di Kitty Kat, mentre Miss Flegg le esaminava da dietro le quinte, segnando il tempo con la sua bacchetta e gridando di tanto in tanto. Era agitatissima. Mentre infilavo il mio costume da farfalla vidi al suo fianco mia madre. Pensavo che fosse in prima fila, dove l'avevo lasciata, seduta su una sedia pieghevole e con i guanti in grembo, a fumare e a far oscillare un piede nel suo sandalo col tacco alto, e invece stava parlando con Miss Flegg. Miss Flegg mi guardò; poi si avvicinò, seguita da mia madre. Si fermò a osservarmi dall'alto con le labbra strette. «Capisco quel che vuole dire» disse a mia madre. Più tardi, nel mio risentimento per quell'episodio, pensai che se mia madre non si fosse intromessa, Miss Flegg non avrebbe notato nulla, ma questo probabilmente non è vero. Quel che Miss Flegg capiva, che entrambe capivano, era che il suo gaio, artistico, spirituale Capriccio di farfalle stava per esser ridotto a una farsa sconveniente per la presenza di una ragazzina grassa che, più che a una farfalla, assomigliava a un bruco gigante, anzi, a una larva bianchiccia, a voler essere precisi. E questo Miss Flegg non lo avrebbe sopportato. Per lei contava soprattutto l'effetto finale. E quello avrebbe dovuto procurarle dei complimenti sinceri, non compatimento e malcelati sorrisi. Ora la comprendo, anche se allora non potevo. A ogni modo, non era rimasta a corto di idee. Si chinò, pose la mano sulla mia spalla nuda e tondeggiante e mi condusse in un angolo. Lì si inginocchiò e i suoi energici occhi neri guardarono fisso nei miei. Le sue sopracciglia sbiadite si alzavano e si abbassavano. «Joan, tesoro» disse, «ti piacerebbe fare qualcosa di straordinario?» Le sorrisi con incertezza. «Vorresti farmi un favore, tesoro?» chiese con calore. Annuii. Mi piaceva rendermi utile. «Ho deciso di fare un piccolo cambiamento nel balletto» disse. «Ho deciso di aggiungere una nuova parte; e siccome tu sei la bambina più sveglia della classe, ti ho scelta perché il personaggio nuovo, speciale, lo faccia tu. Pensi che ci riuscirai, tesoro?» La conoscevo abbastanza per capire che tutta quella bontà era sospetta, ma mi lasciai sedurre lo stesso. Annuii con ardore, elettrizzata perché ero stata scelta. Forse mi aveva scelta perché ballassi il duetto delle farfalle in-
sieme a Roger, forse mi avrebbe dato delle ali più grandi, più importanti. Ero impaziente di sapere. «Bene» disse Miss Flegg serrandomi la mano sul braccio. «Ora vieni e infilati di corsa il tuo nuovo costume.» «Che cosa sarò?» chiesi, mentre mi portava via. «Una pallottola di naftalina, tesoro» mi rispose serenamente, come se fosse la cosa più naturale di questo mondo. La sua mente piena d'inventiva, e forse alcune esperienze precedenti, le avevano insegnato una regola basilare per risolvere situazioni come quella: se stai per renderti ridicolo e non c'è via di scampo, puoi sempre far finta di averlo fatto di proposito. Io ho imparato questa regola solo molto più tardi, e inconsapevolmente. Rimasi ferita, desolata, a dire il vero, quando risultò che Miss Flegg voleva che mi togliessi il gonnellino soffice come una nuvola e le paillettes per mettermi uno dei costumi da orsacchiotto bianco che le Decimine usavano per il loro numero La merendina degli orsacchiotti: volle anche che mi appendessi intorno al collo un gran cartello con la scritta NAFTALINA. «Così, tesoro, capiranno tutti chi sei.» Il cartello me l'avrebbe scritto lei stessa, durante l'intervallo tra la prova generale e lo spettacolo. «Posso mettere le mie ali?» domandai. Cominciavo a intravedere quanto fosse mostruosa la rinuncia che mi chiedeva di fare. «Andiamo, hai mai sentito parlare di una pallottola di naftalina con le ali?» disse, in un tono che voleva essere pratico e scherzoso insieme. Secondo il suo progetto, una volta che le farfalle avessero finito di saltellare, io sarei pesantemente entrata in scena con la mia tenuta bianca e il mio cartello, e loro, secondo le istruzioni ricevute, si sarebbero sparpagliate. Sarebbe stato molto spiritoso, mi disse. «A me il balletto piaceva così com'era» dissi, per saggiare il terreno. «Voglio che resti così.» Ero sul punto di piangere; probabilmente avevo già cominciato. Allora Miss Flegg cambiò tono. Avvicinò il suo viso al mio, tanto che potevo vedere da vicino le sue zampe di gallina e avvertire il suo alito acido che non sapeva di dentifricio, e mi disse lentamente e con chiarezza: «Farai come ti dico, altrimenti non ballerai affatto. Hai capito?» Essere lasciata completamente da parte era troppo per me. Mi arresi, ma la pagai cara. Dovetti restare in piedi nel costume di naftalina mentre Miss Flegg, tenendomi una mano sulla spalla, spiegava alle altre Piccoline, simili a silfidi nelle loro gonnelline vaporose e con le loro ali iridescenti, i
cambiamenti di programma e il mio nuovo ruolo da protagonista. Mi guardarono con un sorriso beffardo sulle labbra pittate; non si lasciavano ingannare, loro. Tornai a casa con mia madre, rifiutandomi di parlarle perché mi aveva tradita. Nevicava un poco, benché fosse aprile, e me ne rallegrai perché lei, con i suoi sandali bianchi, si sarebbe bagnata i piedi. Andai in bagno e mi chiusi dentro a chiave, in modo che non potesse prendermi; poi piansi irrefrenabilmente, stesa per terra, con la faccia contro il morbido tappetino rosa del bagno. Quindi ribaltai il cesto della biancheria, in modo da poterci salire sopra e guardarmi allo specchio. Il trucco sulla mia faccia si era sciolto; avevo sulle gambe delle righe nere, simili a lacrime fuligginose, e la mia bocca purpurea era gonfia e imbrattata. Che cos'avevo di sbagliato? Non era perché non sapevo ballare. Mia madre cercò brevemente di far valere le proprie ragioni attraverso la porta chiusa, poi passò alle minacce. Uscii, ma non volli mangiare nulla per cena: qualcuno doveva soffrire, oltre me. Mia madre mi tolse il trucco dalla faccia con della crema Nivea, rimproverandomi perché ora avrebbe dovuto rifarlo, e poi ci avviammo nuovamente verso l'auditorium. (Dov'era mio padre? Non era presente). Mi toccò rimanere invidiosamente tra le quinte, con la faccia rossa e grondando sudore nell'aborrito costume; sentii i colpi di tosse preliminare e il rumore delle sedie pieghevoli in platea, e poi guardai le farfalle eseguire lievemente i movimenti che io sapevo a memoria e meglio, ne ero certa, di chiunque altra. Il peggio era che ancora non capivo perché mi facevano questo, perché dovevo subire una tale umiliazione camuffata da privilegio. Al momento giusto Miss Flegg mi dette una spinta, e io piombai in scena, cercando, secondo i suoi ordini, di assomigliare il più possibile a una pallottola di naftalina. Poi danzai. Era una danza senza passi, perché nessuno me li aveva insegnati, e io la inventai sul momento. Roteai le braccia, urtai le farfalle, girai in tondo come una trottola e battei i piedi più forte che potei sul fatiscente impiantito del palcoscenico, fino a farlo tremare. Mi immersi totalmente nella mia parte; fu una danza furiosa e sterminatrice, dietro la pelliccia le lacrime mi scorrevano giù sulle guance, le farfalle sarebbero morte; per giorni, dopo, mi fecero male i piedi. «Non sono io» continuavo a ripetermi, «sono loro che mi costringono a farlo.» Eppure, anche se ero completamente nascosta dal costume da orsacchiotto che mi cadeva addosso e mi faceva sudare, mi sentivo nuda ed esposta, come se quel ballo ridicolo rivelasse quel che ero veramente e tutti potessero veder-
lo. Come da copione, le farfalle fuggirono, e con mia grande sorpresa mi ritrovai al centro del palcoscenico, di fronte a un pubblico che non solo rideva, ma applaudiva vigorosamente. Persino quando le bellezze, le bambine piccole e snelle, si misero in fila per la riverenza, le risate e gli applausi proseguirono, e molti, che immagino fossero padri piuttosto che madri, gridarono: «Brava naftalina!» Il fatto che qualcuno preferisse il mio brutto e voluminoso costume a quelli graziosi delle altre mi sconcertò. Dopo il saggio a Miss Flegg vennero fatte le congratulazioni per quell'impagabile trovata della naftalina. Anche mia madre sembrava contenta. «Sei stata brava» mi disse, ma quella notte io piansi lo stesso sulle mie ali tarpate. Non avrei più avuto occasione di usarle, oramai, perché avevo deciso che, per quanto adorassi la scuola di danza, l'autunno successivo non ci sarei tornata. È vero che personalmente avevo ricevuto più attenzione di qualunque altra, ma non ero certa che fosse del tipo che mi piaceva. E poi, a chi sarebbe mai venuto in mente di sposare una pallottola di naftalina? Una domanda che mia madre, in seguito, mi avrebbe posto di frequente, seppure in altri termini. 6 All'inizio, ogni volta che ripetevo a me stessa questa storia, sotto il cuscino oppure chiusa a chiave nel bagno, che era il mio rifugio, provavo la stessa rabbia, lo stesso senso di impotenza e tradimento della prima volta. Ma col tempo cominciai a considerarla assurda, specie quando pensavo di raccontarla a qualcuno. Probabilmente, invece di scagliarsi contro l'ingiustizia di mia madre, avrebbero riso di me. È difficile compatire senza riserve una ragazzina di sette anni infagottata in un costume da naftalina e costretta a ballare: è un'immagine decisamente troppo spassosa. Ma se mi fossi descritta come una bambina esile e leggiadra avrebbero trovato la cosa commovente e grossolanamente ingiusta. Questo lo sapevo già all'età di dieci anni. Se Desdemona fosse grassa, a chi importerebbe se Otello la strangola? Come mai le ragazze torturate dai nazisti sulle copertine delle più scadenti riviste per soli uomini sono sempre bellocce? Farebbero tutt'altro effetto se fossero grasse. Invece di trovare la cosa immorale o sessualmente stuzzicante, gli uomini la troverebbero comica. Eppure le donne bruttine e paffute non hanno certo meno possibilità di essere torturate di quante ne abbiano le donne snelle. Anzi, ne hanno di più.
L'anno dopo il fiasco della scuola di danza, quando avevo otto anni, ci trasferimmo dalla sacrificata bifamiliare in cui abitavamo in una casa un poco più grande, una scatola che voleva assomigliare a un villino nei pressi di un supermarket Loblaws. Non era certamente il tipo di casa che mia madre si raffigurava come la dimora adatta a lei, ma era meglio degli alloggi effimeri, degli appartamenti scalcinati e degli attici di vecchi palazzi di cui si era dovuta accontentare in precedenza. Il trasloco significava una nuova scuola e dei nuovi vicini, e mia madre pensò che il modo migliore per inserirmi, come diceva lei, fosse quello di iscrivermi alle Coccinelle. Era tipico di mia madre non scegliere le Coccinelle più vicine, dove effettivamente andava la maggior parte delle mie compagne di classe. Mi mandò invece da un gruppo più lontano, in un quartiere più signorile, frequentato da bambine che venivano da scuole del tutto diverse. Così il suo stratagemma fallì entrambi gli scopi che si era prefissi. Non mi aiutò a familiarizzare con le bambine della mia scuola, al contrario anzi, perché per arrivare in tempo alle riunioni del martedì delle Coccinelle dovevo uscire da scuola in anticipo; e per le Coccinelle ero un'estranea che veniva dall'altra parte della frontiera. Per andare da quelle Coccinelle dovevo prendere il tram, e per raggiungere la fermata del tram dovevo attraversare uno dei molti burroni che allora serpeggiavano nell'abitato. Mia madre aveva un vero terrore di quel burrone: brulicava di rampicanti e piante selvatiche, era fitto di salici e cespugli dietro ognuno dei quali lei immaginava un maniaco in agguato, un vecchio derelitto reso pazzo dal vizio del bere, un insidiatore di bambini o peggio ancora. (A volte li chiamava «esibizionisti», il che mi faceva sempre pensare alla National Exhibition del Canada.) Tutti i martedì mi catechizzava a questo proposito prima che uscissi per andare a scuola, con indosso, già di primo mattino, la mia divisa marrone e le scarpe che avevo laboriosamente lucidato la sera prima. «Non parlare a nessun uomo cattivo» diceva. «Se uno di loro ti si avvicina in quel burrone, corri via più veloce che puoi.» Aveva l'abitudine di mettermi in guardia così durante la colazione, con una voce che faceva presagire che per quanto svelta corressi non sarei mai riuscita a sfuggire, perché la mia sorte era segnata, e il porridge di farina d'avena si contraeva in un grumo e mi piombava in fondo allo stomaco. Non accennava mai all'aspetto di quegli uomini e a quel che mi avrebbero fatto se mi avessero presa, cosa che lasciava il campo aperto alla mia immaginazione. E il modo in cui lo diceva sembrava rendermi in qualche misura responsabile, quasi che, se mi avessero presa, fosse stata
colpa mia. Per attraversare il burrone occorreva scendere una collina ghiaiosa e poi passare su un ponte di legno che era piuttosto vecchio. Pendeva da una parte, e alcune delle assi erano completamente marcite, tanto che, tra l'una e l'altra, si vedeva in basso il fondo del burrone. Arrivati dall'altra parte, bisognava salire per un sentiero soffocato dalla vegetazione dove foglie e rami sfioravano chi passava come malefiche dita verdi. Scendevo la collina e attraversavo il ponte di corsa, ruzzolando come un barilotto, ma quando arrivavo ai piedi della salita ero talmente senza fiato che dovevo per forza camminare. Quello era il tratto peggiore. Dopo esserci andata un certo numero di volte da sola, mia madre trovò un rimedio che, come la maggior parte dei suoi rimedi, era peggiore del male. Scoprì che molte madri che abitavano al di qua del ponte nutrivano aspirazioni simili alle sue, o comunque avevano iscritto le figlie alle stesse Coccinelle. Lo sapevo già da qualche tempo, ma non le avevo detto nulla, perché quelle bambine erano più grandi di me, erano qualche anno avanti a scuola e mi incutevano un grande timore. Anche se per andare dalle Coccinelle facevamo la stessa strada, io mi ero sempre curata di camminare a distanza di sicurezza davanti o dietro di loro, e sul tram mi sedevo sempre almeno quattro posti più in là. Ma mia madre in quel periodo della sua vita era una grande organizzatrice: telefonò alle altre madri, che anche loro sapevano degli uomini cattivi, e fece in modo che andassi dalle Coccinelle insieme alle loro bambine. Mi rendevano nervosa, però mi sentivo davvero più protetta ad attraversare il burrone insieme a loro. Il guaio era che, nonostante i terrori di quel tragitto, adoravo le Coccinelle, ancor di più di quanto avessi adorato le lezioni di danza. Da Miss Flegg bisognava cercare di essere migliori delle altre, qui invece si trattava di sforzarsi di essere uguali, e questa idea cominciava a sembrarmi piuttosto attraente. Mi piaceva il fatto che tutte indossavamo la stessa divisa informe col suo strano basco militare e il fazzolettone da collo, imparavamo le stesse cantilene rituali, strette di mano e saluti, e cantavamo all'unisono, salmodiando: La Coccinella obbedisce alle persone grandi; La Coccinella non obbedisce a se stessa! Si facevano persino delle danze. All'inizio di ogni raduno, quando il fungo di cartapesta un po' decrepito che era il totem del gruppo era stato
collocato al suo posto sopra un tappetino di feltro verde erba, e una signora brizzolata in divisa blu da Guida aveva detto ammiccando «Uhu, Uhu!» le Coccinelle si precipitavano dai quattro angoli della stanza, in gruppi di sei, ed eseguivano una danza vorticosa e frenetica, strillando a più non posso le parole del canto della loro squadra. Il mio diceva: Siamo gli Gnomi, siam contenti delle mamme gli aiutanti. Questo, a rigore, non era vero: io non aiutavo mia madre. Lei non lo permetteva. Le poche volte che ci avevo provato, i risultati non l'avevano soddisfatta. L'unico sistema per aiutarla in modo da farla contenta sarebbe stato quello di trasformarmi in un'altra persona, ma a quel tempo ancora non lo sapevo. Mia madre non approvava il mio modo poco ortodosso di rifare i letti, e nemmeno il fracasso di stoviglie e di terraglie quando cercavo di asciugare i piatti. Non amava raschiare via dalle pentole il fondo bruciato quando tentavo di cucinare qualcosa (la «preparazione di un dessert» era uno dei requisiti di ammissione alle Coccinelle), o dover risistemare la tavola dopo che l'avevo apparecchiata alla rovescia. Da principio cercai di sorprenderla con dei Piccoli Servigi improvvisi, come consigliava il manuale delle Coccinelle. Una domenica le portai la colazione a letto su un vassoio, ma inciampai e la innaffiai di cornflakes bagnati. Lustrai le sue scarpe della festa di camoscio blu marina con del lucido da stivali nero. E una volta che portai fuori il secchio dell'immondizia, troppo pesante per me, mi sfuggì di mano e rotolò giù per le scale di servizio. Mia madre non era una donna molto paziente; ben presto mi disse che preferiva fare le cose per conto suo, ma bene e una volta sola, piuttosto che doverle rifare a causa mia. «Goffa», era la parola che mi diceva, e che mi faceva piangere; intanto però venni esonerata dai lavori domestici, un vantaggio che apprezzai solo molto più tardi. Malgrado ciò cantavo intrepidamente le parole della nostra canzone mentre, stringendo le mani sudate di due altri Gnomi, saltavo pesantemente intorno al fungo in una nuvola di polvere di seminterrato parrocchiale. La signora che era a capo del branco era nota sotto il nome di Gufo Bruno; i gufi, ci dicevano, erano animali molto saggi. Non ho mai dimenticato il suo aspetto: la sua faccia raggrinzita come una vecchia mela, la sua chioma grigio-argentea, i suoi vivaci occhi azzurri, sempre pronti a individuare una chiazza ossidata sul distintivo d'ottone, un'unghia sporca o una
scarpa male allacciata. Diversamente da mia madre, era imparziale e gentile, e teneva conto delle buone intenzioni. Di fronte a lei io ero estasiata. Non mi capacitavo che un adulto, addirittura più anziano di mia madre, potesse davvero accoccolarsi sul pavimento e dire cose come «Tuì tuuu» e «Nel cerchio magico stiamo danzando, Tutto si compie come d'incanto!» Sembrava che Gufo Bruno credesse sul serio a tutte quelle cose, e pensasse che fosse così anche per noi. Qualche volta mi faceva un po' pena, perché sapevo quanti pizzicotti, spintarelle e gomitate ci davamo durante i Momenti di Riflessione, e sapevo che c'era chi faceva le boccacce alle sue spalle mentre recitavamo: «Prometto di compiere il mio dovere verso Dio e verso il Re, e di aiutare il mio prossimo ogni giorno, specialmente i miei familiari. Gufo Bruno aveva una compagna d'avventura più giovane, nota come Gufo Fulvo. Come tutti i vicecapi del mondo, era meno ingenua e meno amata. Le tre bambine insieme alle quali attraversavo il burrone nei giorni di raduno si chiamavano Elizabeth, Marlene e Lynne. Avevano dieci anni, e sarebbero presto passate alle Guide: questo si chiamava «prendere il volo», e per farlo bisognava meritare le Ali d'Oro. Altrimenti bisognava salire a piedi. Elizabeth avrebbe senza dubbio preso il volo: era coperta di distintivi come la valigia di un diplomatico. Anche Marlene, probabilmente, avrebbe preso il volo; Lynne probabilmente no. Elizabeth era già in quinta, e a riprova di ciò portava due strisce sulla manica; Marlene era un Elfo, e non ricordo cosa fosse Lynne. Ammiravo Elizabeth, e avevo paura delle altre due, che facevano a gara per attirare la sua attenzione in modi più o meno sinistri. All'inizio tollerarono la mia presenza durante quelle lunghe e pericolose passeggiate fino alla fermata del tram. Dovevo camminare dietro di loro tenendomi a una certa distanza, ma era un modico prezzo da pagare, in cambio della protezione contro gli invisibili uomini cattivi. Questo stato di cose durò tutto settembre e ottobre, quando le foglie ingiallivano, cadevano e venivano bruciate sui marciapiedi in grandi falò che ancora non erano vietati; quando si poteva ancora correre sui pattini a rotelle e saltare con la corda, dai giorni dei calzettoni a quelli delle calze lunghe e dei cappotti invernali. Le giornate diventavano più corte, tornavamo a casa quand'era buio, sul ponte illuminato soltanto da una flebile lampadina a ogni estremità. Quando venne la neve dovemmo metterci i gambali, pesanti pantaloni foderati che si infilavano sopra le gonne, facendole rimanere appallottolate sotto il cavallo, e si tenevano su con delle bretelle elastiche. A quel tempo
le ragazze non avevano il permesso di indossare i pantaloni, a scuola. Il ricordo di quell'oscurità invernale, dei gambali, dei rami di salice carichi di neve soffice che si presentavano al di sopra dei ponte in un arco azzurrino, il ricordo del bianco panorama che si godeva da una parte del ponte e che sarebbe stato tanto bello, per me è associato all'infelicità. Perché ormai Elizabeth e la sua scorta avevano scoperto il mio segreto: avevano scoperto quanto era facile farmi piangere. Nella mia scuola non ci si aspettava che le ragazzine si picchiassero a vicenda, litigassero o si stropicciassero in faccia la neve, e infatti non lo facevano. Durante la ricreazione rimanevamo nel cortile delle bambine, dove era tutto un mormorio e una congiura. Le parole non erano solo i preliminari delle ostilità, ma costituivano esse stesse una guerra sorda e obliqua, che non finiva mai perché non c'erano azioni decisive, colpi capaci di mettere a tappeto l'avversaria, momenti in cui si poteva dire: mi arrendo. La prima che piangeva era perduta. Elizabeth, Marlene e Lynne frequentavano altre classi, altrimenti se ne sarebbero accorte prima. A otto anni ero ancora una piagnona pubblica; mi offendevo facilmente, a dispetto di mia madre che oramai mi esortava con asprezza a comportarmi da bambina grande. Aveva sempre gli occhi asciutti e limpidi, lei, mai umidi o velati; solo molto più avanti riuscii a ridurla in lacrime, e fu un vero trionfo. Elizabeth era la caposestiglia degli Gnomi, e io ero una delle sue cinque seguaci in quei polverosi martedì di cerimonie, distintivi e cucitura di bottoni. Furono i nodi a mandarmi in rovina. Avevamo imparato alla perfezione il nodo piano e Gufo Fulvo, l'esperta in nodi, aveva deciso che eravamo pronte per il nodo parlato; cosi, agganciato allo schienale di una sedia il suo cordone, dal quale pendeva un magnifico e invidiabile fischietto d'argento, ci stava dando una dimostrazione. Mi concentrai fino a diventare strabica, osservai con tale attenzione che non vidi un bel nulla, e quando giunse il mio turno di ripetere quella magica prodezza, il cordone mi scivolò tra le dita come uno spaghetto cotto e non ottenni che un garbuglio. Gufo Fulvo lo fece di nuovo, a mio profitto, ma il risultato non migliorò. «Joan, non sei stata attenta» disse Gufo Fulvo. «Sì che stavo attenta» risposi in tutta serietà. Gufo Fulvo sbuffò. Diversamente da Gufo Bruno, lei sapeva quel che succedeva alle sue spalle, e questo la rendeva sospettosa. Prese le mie proteste per una scusa impertinente: «Se non volete collaborare, Gnomi, dovrò andare a lavorare con gli Elfi. Sono certa che saranno più interessati a imparare.» E se ne andò a passo di marcia, portandosi via il suo fischietto.
Naturalmente cominciai subito a lacrimare. Odiavo essere accusata a torto. Odiavo anche essere accusata a ragione, ma l'ingiustizia era peggiore. Elizabeth mi guardò con gli occhi stretti. Era sul punto di dire qualcosa quando Gufo Bruno, sempre all'erta, si avvicinò trotterellando e disse allegramente: «Suvvia Joan, non ci piace vedere facce tristi alle Coccinelle: a noi piace il buonumore. Ricorda: 'Un cipiglio cupo e arcigno tutto brutto renderà, Ma un sorriso ad ogni cosa ali magiche darà'.» A queste parole piansi ancora più forte e dovettero isolarmi nel guardaroba perché non imbarazzassi nessuno finché non avessi, come diceva Gufo Bruno, ritrovato il mio sorriso da Coccinella. «Devi imparare a controllarti» mi disse con gentilezza, accarezzandomi il basco mentre singhiozzavo e singultavo. Non era mica una cosa da nulla; ma questo, lei non lo sapeva. Quella sera, mentre tornavamo a casa sotto il cielo neroazzurro sulla neve che scricchiolava, Elizabeth si fermò sotto l'ultimo lampione prima del ponte e guardò le altre due. Poi d'improvviso partirono di corsa, scendendo la collina in un turbine di gridolini ilari. Scomparvero nell'oscurità del burrone prima che io potessi capire quel che stava succedendo e, gridando: «L'uomo cattivo ti piglierà!», mi abbandonarono in cima alla collina, ad affrontare tutta sola la traversata. Prima le chiamai, poi le rincorsi, ma erano troppo lontane. Passai sul ponte piagnucolando, strofinandomi il naso moccicoso sul dorso delle manopole e lanciando timorose occhiate alle mie spalle, anche se a nessun insidiatore di bambini o artista delle mostre con la testa a posto sarebbe venuto in mente di gironzolare con una temperatura che si aggirava intorno allo zero. Si sarebbero rintanati nelle stazioni o dietro le chiese, ma questo non lo sapevo. Tra un singhiozzo e l'altro mi arrampicai sull'ultima collina; loro erano in agguato sulla cima. «Sei proprio una frignona» mi schernì trionfalmente Elizabeth, e questo istituì una consuetudine che doveva durare tutto l'anno. Il gioco di quelle tre era escogitare ingegnose varianti. Talvolta si limitavano a fuggire; altre volte minacciavano di farlo. A volte dichiaravano che la loro fuga era una meritata punizione per qualcosa che avevo o non avevo fatto quel giorno: il mio salto nel magico girotondo era stato troppo pesante, non mi ero tenuta abbastanza dritta, il mio fazzolettone era spiegazzato, avevo le unghie sporche, ero grassa. A volte mi dicevano che non sarebbero fuggite, oppure giuravano che sarebbero venute a riprendermi, se solo facevo certe cose: dovevo camminare carponi nella neve abbaiando come un cane, oppure tirare una palla di neve a una vecchietta che passava, dopodiché, segnandomi a dito, mi canzonavano dicendo: «È stata lei! È
stata lei!» A volte mi chiedevano: «Che cosa ti farebbe l'uomo cattivo, se ti prendesse?» Non bastava che rispondessi di non saperlo, loro erano capaci di darsi alla fuga ridacchiando con le mani davanti alla bocca: «Non lo sa, non lo sa!» Una sera stetti mezz'ora in piedi in cima alla collina cantando più e più volte, cento per l'esattezza, con voce tremula «La strada delle Coccinelle ora conosci, Su/Dacci la mano e al gioco giocherai anche tu» prima di rendermi conto che non avrebbero mantenuto la loro promessa di venire a liberarmi. Una volta mi dissero di appoggiare la lingua a un cancello di ferro, sulla strada che portava al burrone, ma non faceva abbastanza freddo e la mia lingua non si congelò sul cancello, come avevano sperato. Il buffo era che anche se le condizioni, le istruzioni e gli ordini mi venivano comunicati da Elizabeth, sapevo che erano le altre due a inventarle. Lynne soprattutto era piena di fantasia: era in una posizione incerta, non aveva un carattere forte e rischiava a ogni momento di diventare una vittima, come me. A mia madre non potevo raccontare nulla, perché sentivo che qualsiasi cosa avesse detto a me, sotto sotto le sue simpatie sarebbero andate alle altre. «Difenditi» sarebbe stata la sua esortazione. Come poteva essere che proprio sua figlia fosse diventata una tale pappamolla? Qualche volta, quando mi lasciavano sola al freddo e al buio, speravo quasi che l'uomo cattivo salisse davvero dal burrone e facesse quel che era destinato a fare. Così, una volta che mi avessero rapita o uccisa, loro sarebbero state punite e finalmente costrette a pentirsi di quello che avevano fatto. Me lo immaginavo come un uomo alto, molto alto, che emergeva dalla neve come una valanga a ritroso, con la faccia blu coperta di ghiaccio, gli occhi rossi, la testa villosa e lunghi denti acuminati come ghiaccioli. Sarebbe stato orribile, ma almeno avrebbe posto fine al quel tormento che si ripeteva e sembrava dover andare avanti per sempre. Mi avrebbe portata via, e di me non sarebbero rimaste tracce. Persino mia madre sarebbe stata addolorata. Una volta lo aspettai per davvero: contai e trattenni il respiro - sarebbe venuto dopo il cento, sarebbe venuto dopo il duecento - tanto a lungo che arrivai a cena con mezz'ora di ritardo e mia madre era su tutte le furie. «Che cosa hai fatto?» mi chiese. «Giocavo» risposi, e lei mi disse che ero egoista e senza riguardo. Finalmente la neve si trasformò in poltiglia e poi in acqua, e scese dalla collina del ponte in due rigagnoli che correvano ai lati del sentiero, che si
riempì di fango. Il ponte era fradicio e odorava di legno marcio; i rami di salice rinverdirono, riapparvero le corde per saltare. Il pomeriggio c'era di nuovo la luce, e un giorno, quando, tanto per cambiare, Elizabeth non era corsa via ma stava soltanto discutendo le possibilità con le altre, apparve per davvero un uomo reale. Si trovava dall'altra parte del ponte, poco lontano dal sentiero, e teneva davanti a sé un mazzo di giunchiglie. Era un signore di bell'aspetto, né vecchio né giovane, e indossava un bel soprabito di tweed, per nulla cencioso o trascurato. Non portava cappello, i capelli color melassa cominciavano a diradarsi e la sua fronte alta splendeva sotto il sole. Camminavo di fronte alle altre, secondo gli ordini (amavano tenermi d'occhio da dietro); loro erano immerse nei soliti piani, così fui io a vederlo per prima. Mi sorrise, gli sorrisi anch'io, e lui scostò le giunchiglie mettendo in mostra uno strano, comunissimo pezzo di carne che faceva flaccidamente capolino dalla patta dei pantaloni aperta. «Guardate» dissi alle altre, come se avessi appena scoperto qualcosa di interessante. Guardarono, e cominciarono immediatamente a strillare e a correre su per la collina. Rimasi talmente spaventata - da loro, non da lui che non mi mossi. L'uomo fece una faccia dispiaciuta. Il suo simpatico sorriso si dileguò, e lui, richiudendosi il cappotto, si voltò e cominciò a camminare in direzione opposta, passando sul ponte. Poi si girò, mi fece un piccolo inchino, e mi porse le giunchiglie. Le altre mi aspettavano in alto, facendo capannello sulla strada a distanza di sicurezza. «Che cosa ti ha detto? Che cosa ha fatto?» chiesero. «Non lo sapevi che quello era un uomo cattivo? Bisogna dire che hai avuto sangue freddo», borbottò Elizabeth. Una volta tanto avevo fatto colpo su di loro, anche se non capivo bene perché; quell'uomo non aveva nulla di terribile, anzi, mi aveva sorriso. Anche le giunchiglie mi piacevano, però le gettai in un fosso prima di arrivare a casa. Ero abbastanza furba per sapere che non avrei mai potuto spiegare a mia madre dove le avevo prese. La settimana seguente, dopo il raduno delle Coccinelle, durante il tragitto verso casa, le bambine furono particolarmente gentili con me, e pensai che ora, passato il mio lungo periodo di prova, avrei finalmente fatto amicizia con loro. Sembrava che fosse davvero così perché Elizabeth mi disse: «Ti piacerebbe entrare nel nostro club? Abbiamo un club, sai.» Era la prima volta che ne sentivo parlare, sebbene a scuola i club fossero molto popolari, ma naturalmente sì, certo che volevo entrare. «Prima devi passare la
cerimonia» disse Marlene, «non è difficile.» Sapevamo tutto dei cerimoniali, le Coccinelle ne avevano moltissimi, e credo che per alcuni particolari di quanto seguì avessero tratto ispirazione dalla cerimonia d'entrata, durante la quale bisognava passare su dei massi da guado di cartone sui quali era scritto BUONUMORE, OBBEDIENZA, SERVIGI E SORRISI. Poi bisognava chiudere gli occhi e si veniva fatte girare tre volte su se stesse, mentre il branco cantava: Se girando ripeti la fatata promessa Guardando ora nell'acqua potrai veder... A questo punto si dovevano aprire gli occhi, guardare nello stagno incantato, uno specchio portatile incorniciato da fiori di plastica e coniglietti di ceramica, e dire: «Me stessa.» La parola magica. Così, quando Elizabeth disse: «Chiudi gli occhi», io li chiusi. Marlene e Lynne mi presero la mano, e sentii che venivo bendata con qualcosa di morbido. Poi mi condussero in basso, avvertendomi ogni volta che c'era una buca o un sasso. Sentii che passavo sul ponte, e poi mi fecero girare molte volte su me stessa in un senso e nell'altro, finché non seppi più da che parte ero rivolta. «Non voglio entrare nel club» dissi, ma Elizabeth mi disse in tono rassicurante: «Ma certo che vuoi; vedrai, ti piacerà!» e mi condussero oltre. «Mettiti qui» disse Elizabeth, e urtai la schiena contro una superficie rigida. «Ora metti le mani dalle parti.» Sentii che mi passavano qualcosa intorno alle braccia e intorno al capo, e che lo stringevano. «Ora» disse Elizabeth con la stessa voce suadente, «ti lasceremo qui per l'uomo cattivo.» Le altre due cominciarono a ridacchiare senza ritegno, e le sentii correre via. Finalmente capii dove mi trovavo: mi avevano legata con la corda per saltare di Elizabeth al palo in fondo al ponte, proprio dove la settimana precedente avevamo visto l'uomo cattivo. Cominciai a piagnucolare. Poi smisi. Sapevo che con tutta probabilità mi stavano osservando per vedere che cosa avrei fatto e così, tanto per cambiare, decisi di non fare nulla. Di nascosto dimenai le braccia per vedere se potevo liberarmi. Ma avevano stretto piuttosto bene la corda, e allora decisi di aspettare finché si fossero stufate e fossero venute a slegarmi. Ero certa che non avrebbero potuto lasciarmi lì e basta: sarebbe stato eccessivo. Non vedendomi tornare, mia madre avrebbe telefonato alle loro mamme e si sarebbero prese una
bella lavata di capo. Da principio potevo ancora sentirle debolmente, ridacchiavano in cima alla collina e una volta mi gridarono: «Ti piace, il club?» Non risposi; ne avevo abbastanza, di loro. Ma dopo un po' sentii solo il canto monotono degli uccelli dal burrone, e poi cominciò a rinfrescare. Dovevano essersene andate con l'intenzione di tornare più tardi, ma poi essersi dimenticate di me. Singhiozzavo tra me e me e mi dimenavo con crescente disperazione, cercando di mettere una mano sopra l'altra in modo da far scivolare via il cappio e sfilarmelo di dosso, quando sentii i passi di qualcuno che veniva verso di me, passando sul ponte. Mi sentii gelare; forse era un uomo cattivo, forse stavolta mi sarebbe successo qualcosa di orribile, anche se come oggetto sessuale non devo essere stata molto attraente: ero una ragazzina di otto anni, grassa col naso a patatina e in divisa da Coccinella. Ma una voce disse: «Che è successo?» e qualcuno mi tolse la benda dagli occhi. (Era il fazzolettone da Coccinella di Marlene.) Era un uomo né vecchio né giovane, che indossava un soprabito di tweed e teneva un giornale sotto il braccia Mi sorrise, e io non riuscii assolutamente a capire se era l'uomo della settimana precedente oppure no. Mi erano rimaste impresse soprattutto la sua testa dalla calvizie incipinte e le sue giunchiglie. Quest'uomo, diversamente dall'altro, fumava la pipa. «Legata per bene, eh?» disse mentre lo osservavo da sotto in su con gli occhi gonfi e dubbiosi. Si mise in ginocchio e disfece i nodi. «Questi sono nodi ben fatti» disse. Mi chiese dove abitavo e glielo dissi. «Ti accompagno a casa» disse. Io risposi che faceva lo stesso, che sapevo dove stavo di casa, ma lui replicò che si stava facendo buio e che le bambine non devono gironzolare da sole dopo il tramonto. Mi prese per mano e cominciammo a salire insieme su per la collina. Ma d'improvviso vidi mia madre che si precipitava verso di noi. Aveva i capelli al vento, era senza guanti e quando mi venne vicina vidi che era furibonda. Mi rimpiattai dietro al soprabito di tweed del signore ma lei mi tirò fuori con uno strattone e mi dette uno schiaffo. Non l'aveva mai fatto prima. «Che cosa hai combinato?» mi chiese. Non dissi nulla; rimasi fissa come un palo e la fissai senza piangere, e questo la colpì, perché le parve ancora più innaturale. Avevo deciso di farla finita con i pianti in pubblico, anche se naturalmente non mi riuscì di tener fede alla mia decisione. A questo punto l'uomo prese le mie difese. Le spiegò che mi aveva tro-
vata legata, che mi aveva liberata e che si era offerto di scortarmi fino a casa. Mia madre allora divenne esageratamente cordiale, come faceva di solito con gli adulti. Si dettero la mano e poi mi condusse via. Fece alle altre madri delle telefonate piene di virtuosa indignazione, e questa fu la fine della mia carriera di Coccinella. Era un peccato, perché mi piacevano davvero. Gufo Bruno era una delle donne più amabili che avessi mai incontrato, dopo zia Lou, e mi mancò. A mia madre questo incidente servì come esempio palese della mia inettitudine e totale mancanza di buon senso. «Sei stata una stupida a lasciare che le altre ti prendessero in giro così» disse. «Pensavo che fossero mie amiche» risposi. «Delle vere amiche non ti avrebbero legata a quel modo, no? E in quel burrone, per giunta. Dio sa quel che avrebbe potuto succederti. Avrebbero potuto ammazzarti. È stata una fortuna per te che sia passato quel bravo signore e ti abbia liberata, tutto qui.» «Madre» dissi solennemente, desiderosa di riscattarmi in un modo o nell'altro, ma senza sapere bene come - forse dimostrandole che si sbagliava? - «penso che quello fosse un uomo cattivo.» «Non fare la cretina» disse. «Ma come, quel bravo signore?» «Io credo che fosse lo stesso dell'altra volta. L'uomo delle giunchiglie.» «Quale uomo delle giunchiglie?» chiese. «Che cosa hai fatto?» «Nulla» dissi, facendo freneticamente marcia indietro; ma era troppo tardi, il primo verme era uscito dal barattolo e tutti gli altri lo avrebbero seguito. Mia madre si irritò. Oltre tutto il resto, ora mi accusava anche di andare in giro di nascosto alle sue spalle: avrei dovuto raccontare tutto subito. Però non ero ancora sicura: quello era l'uomo delle giunchiglie o no? Il signore che mi aveva slegata era un soccorritore o uno scellerato? Oppure, e questa era un'idea ancora più sconcertante, un uomo poteva essere sia l'uno che l'altro? Mi arrovellai mille volte su quel rompicapo, cercando di ricordare e ricostruire l'esatta fisionomia dell'uomo delle giunchiglie. Ma era inafferrabile: si scioglieva e si deformava come una caramella fondente o come una gomma calda, dissolvendosi entro una nebbia di tweed, protendendo minacciosi tentacoli di carne e corda aggrovigliata, ricomponendosi di nuovo in un'allegra, solare esplosione di fiori gialli. 7
Uno dei brutti sogni che facevo su mia madre era questo: sognavo di camminare sul ponte, e lei era dall'altra parte, al sole, che parlava con qualcuno, un uomo il cui volto non potevo vedere. Arrivata a metà, il ponte cominciava a crollare, come avevo sempre temuto. Le sue assi marcite si piegavano e si spezzavano, il ponte si inclinava lateralmente e cominciava a vacillare, rovinando lentamente nel burrone. Io cercavo di correre, ma era troppo tardi: allora mi tuffavo verso il basso e mi aggrappavo all'altra sponda mentre cadevo, cercando di tirarmi su. Chiamavo mia madre, che sarebbe ancora stata in grado di salvarmi, avrebbe potuto correre rapidamente verso di me, tendermi la mano, riportarmi con sé sulla terraferma, ma lei non lo faceva, proseguiva la sua conversazione, non si rendeva nemmeno conto che stava succedendo qualcosa di strano. Non mi sentiva nemmeno. Nell'altro sogno, stavo seduta nella camera da letto di mia madre e la osservavo mentre si truccava. Da bambina lo facevo spesso: era considerato sia da lei che da me come un regalo, un privilegio, e il rifiuto di lasciarmi assistere era uno dei modi di castigarmi di mia madre. Sapevo quanto fascino esercitava su di me la sua collezione di cosmetici e accessori: rossetti, belletti, profumi chiusi in graziose boccette che desideravo avere, smalto per unghie rosso brillante (qualche volta, come un favore d'eccezione, mi permetteva di averne un po' sulle unghie dei piedi, mai su quelle delle mani: «Non sei ancora abbastanza grande,» diceva), pinzette, lime da unghie di metallo e di carta smerigliata. Tutte quelle cose mi era proibito toccarle: naturalmente le toccavo, quando lei non era in casa, ma erano disposte in file talmente serrate sul tavolo da toilette e nei cassetti che dovevo fare molta attenzione a rimetterle esattamente dove le avevo trovate. Mia madre aveva l'occhio di lince per tutto ciò che era in disordine. In seguito estesi quest'abitudine di ficcare il naso nei suoi cassetti e nei suoi armadi, finché seppi tutto quel che contenevano; alla fine non lo facevo più per soddisfare la mia curiosità - sapevo già tutto - ma solo per amore del pericolo. Mi pizzicò solo un paio di volte, all'inizio: la prima perché avevo mangiato un rossetto (e già allora, all'età di quattro anni, fui tanto accorta da chiudere il tubetto col suo coperchio, rimetterlo nel cassetto e lavarmi accuratamente la bocca; come fece a scoprire che ero stata io?) e la seconda perché non avevo resistito alla tentazione di colorarmi tutta la faccia con dell'ombretto azzurro, per vedere come sarei stata con la faccia blu. Questo mi costò settimane di esilio. Fui sul punto di tradirmi il giorno in
cui trovai un buffo oggetto di gomma, simile a una valva di conchiglia, messo via ordinatamente in una scatola. Morivo dalla voglia di chiedere che cos'era, ma non osai. «Siediti lì buona, Joan, e guarda tua madre che si sistema la faccia» mi diceva nei giorni di buonumore. Poi si rimboccava attorno al collo un asciugamano e si metteva all'opera. Sembrava che alcune delle sue operazioni fossero dolorose: ad esempio ricopriva lo spazio tra le sopracciglia con una cosa simile a colla marrone, che lei scaldava in un padellino, e poi strappava via, lasciando una chiazza rossastra; e a volte si spalmava sul viso un certo fango rosa che si induriva e si screpolava. Spesso si guardava allo specchio aggrottando la fronte, scuotendo la testa come se fosse insoddisfatta, e a volte parlava da sola, come se avesse dimenticato che c'ero io. Invece di rallegrarla, quelle sedute sembravano renderla triste, come se vedesse dentro o al di là dello specchio qualche fuggevole immagine che non le riusciva di catturare o riprodurre; e quando aveva finito, era sempre un po' imbronciata. Durante quei procedimenti io la fissavo muta e incantata. Pensavo che mia madre fosse bellissima, e ancora più bella quando era dipinta. E questo era appunto quel che facevo nel sogno: sedevo e la fissavo. Anche se i suoi tavoli da toilette si facevano sempre più pomposi via via che mio padre diventava più ricco, mia madre aveva sempre avuto uno specchio a tre luci, in modo da potersi vedere il viso anche dai lati, oltre che di fronte. Nel mio sogno, mentre guardavo, mi rendevo conto improvvisamente che invece di tre riflessi, mia madre aveva tre vere teste, che si ergevano sulle spalle coperte dall'asciugamano, su tre colli distinti. Questo non mi spaventava, parendomi una semplice conferma di qualcosa che avevo sempre saputo; ma fuori dalla porta c'era un uomo, un uomo che stava per aprire la porta ed entrare. Se l'avesse vista, se avesse scoperto la verità su mia madre, sarebbe successo qualcosa di orribile, non solo a mia madre, ma anche a me. Volevo balzare in piedi, correre verso la porta e fermarlo, ma non riuscivo a muovermi, e la porta si apriva girando lentamente... Quando fui più grande, il sogno cambiò. Invece di voler fermare l'uomo misterioso, me ne stavo seduta desiderando che entrasse. Volevo che anch'egli scoprisse il suo segreto, il segreto che io sola conoscevo: mia madre era un mostro. Non ricordo di averla mai chiamata altrimenti che madre, mai con uno dei soliti diminutivi infantili; di sicuro devo averlo fatto, ma lei deve avermi dissuasa. Il nostro rapporto assunse molto presto uno stile professio-
nale. Lei era il manager, l'artefice, l'agente; io sarei stata il prodotto. Credo che una delle cose più importanti che voleva da me fosse la gratitudine. Desiderava che avessi successo, ma voleva anche che fosse merito suo. Non aveva progetti specifici a mio riguardo. Erano piani vaghi ma vasti, di modo che qualunque cosa realizzassi, non era mai quella giusta. Ma non mi teneva continuamente sotto pressione; per giorni, addirittura per settimane, sembrava dimenticarsi totalmente di me. Veniva assorbita da qualche suo progetto, cambiare la tappezzeria della sua stanza, ad esempio, o dare una festa. Un paio di volte si mise persino a lavorare: fece l'agente di viaggio, e una volta lavorò per un arredatore, andando alla ricerca di lampade e tappeti che si armonizzassero con le tinte dei salotti. Ma nessuno di quei lavori durava a lungo: si scoraggiava, trovava che non erano da lei e si licenziava. Questo però non accadeva perché era aggressiva e ambiziosa, anche se aggressività e ambizione non le mancavano; forse non lo era abbastanza. Se mai avesse deciso quel che voleva fare davvero, si fosse fatta coraggio e l'avesse fatto, non mi avrebbe vista come un rimprovero, come l'incarnazione del suo fallimento personale e della sua depressione: un'enorme, sconfinata nube di materia allo stato nascente che rifiutava di lasciarsi modellare in qualcosa che avrebbe potuto meritarle un premio. Nell'immagine di mia madre che mi trascinai dietro per anni, appesa al collo come un lucchetto di ferro, lei era seduta davanti al tavolo da toilette, si smaltava le unghie con un rosso assassino e sospirava. Aveva le labbra sottili ma si ingrandiva la bocca colorandole sopra e tutt'intorno col rossetto, come Bette Davis, e questo le dava una bocca curiosamente doppia, con quella vera che appariva come un'ombra sotto quella finta. Era una bella donna, anche dopo i trent'anni; aveva mantenuto la linea, e da giovane era stata molto corteggiata. Nel suo album di fotografie c'erano delle istantanee che la ritraevano in abito da sera e in costume da bagno, in compagnia di numerosi giovanotti: lei guardava l'obiettivo, e i giovanotti guardavano lei. Uno di loro, un giovanotto in pantaloni di flanella bianca con una grande automobile, ritornava spesso. Diceva di essere stata fidanzata con lui, più o meno. Non c'era nessuna fotografia di lei da bambina, nessuna dei suoi genitori, nessuna dei suoi due fratelli e della sorella, di cui venni a sapere in seguito. Non parlava quasi mai della sua famiglia o della sua infanzia, ma riuscii lo stesso a ricostruire qualcosa. Suo padre e sua madre erano stati molto severi e molto religiosi. Non erano ricchi; suo padre era capostazione della Ferrovia Canadese del Pacifico. Lei fece qualcosa che li offese -
non venni mai a sapere cosa - e scappò di casa a sedici anni per non tornare più. Aveva fatto vari mestieri: la commessa da Kresge, la cameriera; a diciotto anni faceva la cameriera in una località di villeggiatura del Muskoka, e lì aveva incontrato mio padre. I giovanotti delle foto erano villeggianti. Per mettersi gli abiti da sera e i costumi da bagno, mia madre doveva aspettare il suo giorno di libertà. Mio padre non era andato in villeggiatura: non era il tipo di cosa che faceva lui: aveva incontrato mia madre per caso, quando era andato a fare una breve visita a un amico. C'erano un paio di fotografie di prima del matrimonio, in cui mio padre aveva l'aria imbarazzata, e mia madre gli teneva il braccio come se fosse stato un guinzaglio. Poi la foto delle nozze, e alcune immagini di mia madre da sola, scattate probabilmente da mio padre. Poi non c'ero che io, che sbavavo sui tappeti e ciucciavo animaletti di pezza o le mie manine; mio padre era andato in guerra lasciandola incinta, senza nessuno che potesse farle delle foto. Mio padre non tornò prima che avessi cinque anni, e fino ad allora per me fu solo un nome, una favola raccontata da mia madre, sempre diversa. A volte era un uomo gentile che presto sarebbe tornato a casa portando con sé ogni sorta di migliorie e di gradevoli sorprese: avremmo abitato in una casa più grande, avremmo mangiato meglio, avremmo avuto più vestiti, e il padrone di casa sarebbe stato messo al suo posto una volta per tutte. Altre volte invece, quando facevo i capricci, lui era il castigamatti in persona, il Giorno del Giudizio che alla fine sarebbe venuto anche per me; oppure (e credo che questo si avvicinasse di più a quel che davvero lei sentiva) era uno sciagurato senza cuore che l'aveva abbandonata, lasciandola tutta sola a prendersi cura di ogni cosa. Il giorno in cui finalmente tornò ero quasi fuori di me, lacerata tra la speranza e la paura: cosa mi avrebbe portato, cosa mi avrebbe fatto? Era un cattivo o un buono? (Le due categorie di mia madre: gli uomini buoni facevano delle cose per te, quelli cattivi ti facevano delle cose e basta.) Ma quando il momento giunse, dalla porta entrò un estraneo che baciò prima mia madre e poi me, e sedette a tavola. Aveva l'aria molto stanca, e parlò poco. Non portò nulla, non fece nulla, e quello rimase il suo ruolo. Di solito, mio padre era semplicemente un'assenza. Di tanto in tanto, però, ovunque fosse stato, gli capitava di rientrare nella realtà, e addirittura di vivere i suoi piccoli drammi. Avevo tredici anni, deve essere stato nel 1955, era domenica. Seduta nel cucinino, stavo mangiando metà di una torta farcita all'arancia, azione per la quale sarei stata sgridata in seguito.
Ma ne avevo già mangiato una fetta, e siccome sapevo che il numero di rimproveri corrispondente a una fetta era uguale a quello per mezza torta, continuai a mangiare affrettatamente, cercando di mandare giù tutto prima di essere scoperta. A quell'epoca mangiavo senza tregua, tenacemente e con caparbia tutto quel che mi capitava a tiro. Tra me e mia madre era in corso sul serio una guerra; il territorio conteso era il mio corpo. Non è che lo sapessi, ma lo intuivo in modo confuso; e reagivo agli opuscoli sulle diete che mi faceva trovare sul cuscino, alle promesse di allettanti vestitini che mi avrebbe dato se fossi dimagrita fino alla misura giusta - abiti di gala a balze di tulle e bustino rinforzato, civettuoli vestitini, gonne col vitino di vespa e crinoline spumeggianti - alle sue osservazioni pungenti sulla mia taglia, ai suoi appelli in favore della mia salute (sarei morta di un attacco cardiaco, mi diceva, mi sarebbe venuta la pressione alta), agli specialisti dai quali mi mandava e alle pillole che prescrivevano, concedendomi un'altra merendina Mars o una doppia porzione di patatine fritte. Mi gonfiavo a vista d'occhio, senza sosta, sotto al suo naso; lievitavo come pasta, pollice per pollice il mio corpo guadagnava terreno verso di lei sul tavolo della sala da pranzo: almeno in questo ero imbattibile. Ero alta un metro e sessantadue centimetri ed ero ancora in crescita, pesavo ottantasei chili e mezzo. Ad ogni modo: ero seduta nel cucinino e mi stavo mangiando mezza torta farcita all'arancia. Era una domenica del 1955. Mio padre, in salotto, seduto in poltrona, stava leggendo un giallo: era il suo modo preferito di rilassarsi. Mia madre sedeva sul divano imbottito e stava facendo finta di leggere un libro di psicologia infantile - investiva un po' di tempo per dimostrare che, Dio lo sapeva, lei stava facendo del suo meglio - ma in realtà stava leggendo La volpe, un romanzo storico sui Borgia; io l'avevo già terminato, di nascosto. Il divano ospitava due minuscoli cuscini di raso color porpora, uno per parte, e quei cuscini erano oggetti rituali e sacrosanti, che non andavano mai spostati. Il divano era di un rosa spento, ricoperto con un tessuto operato attraversato da fili d'argento. Aveva una fodera di plastica trasparente che si toglieva quando avevamo degli ospiti. Anche il tappeto, che riprendeva il color porpora dei cuscini, era protetto da un foglio di plastica più pesante. I paralumi erano coperti di cellophane. Mio padre calzava ad ogni piede una pantofola di pelle marrone rossastro, i piedi di mia madre e i miei erano analogamente rivestiti, perché oramai mia madre aveva istituito la regola che in casa non si poteva entrare con le scarpe. Era una casa nuova, e lei aveva appena finito di metterla a punto;
ora che finalmente tutto era a posto non voleva che fosse toccata, voleva che restasse statica, immacolata e definitiva, fino a quando si sarebbe accorta dell'errore commesso e sarebbero arrivati un'altra volta gli imbianchini o i traslocatori, portando con sé lo scompiglio. (Mia madre non desiderava dei salotti diversi da quelli degli altri, e nemmeno molto più belli. Voleva solo che fossero accettabili, uguali a quelli degli altri, anche se la sua idea di quel che erano gli altri cambiava con l'aumentare del salario di mio padre. Forse era per questo che assomigliavano tanto alle esposizioni dei musei, o meglio, alle vetrine di Eaton e di Simpson, quei magici palazzi del centro ai quali mi avvicinavo ogni dicembre insieme a zia Lou, lungo una prospettiva di binari del tram. Noi però non andavamo a vedere i mobili, ma ci dirigevamo verso altre vetrine in cui animali, fatine e nanetti dalle guance rosse giravano meccanicamente al suono di campanelle argentine. Quando ebbi l'età per andare a fare gli acquisti di Natale, fu zia Lou ad accompagnarmi. Un anno annunciai che non avrei comprato nessun regalo di Natale per mia madre. «Ma cara» disse zia Lou, «ferirai la sua sensibilità.» Io non credevo che ne avesse una, ma cedetti e le comprai del bagnoschiuma chiuso in uno splendido cigno rosa di morbida plastica. Non lo usò mai, ma questo lo sapevo in anticipo. Finii per usarlo io.) Terminai la fetta di torta che era rimasta e mi alzai in piedi, dando la pancia contro il tavolo. Avevo delle pantofole grandi e pelose, che facevano sembrare i miei piedi grossi il doppio. In quelle sfilai tetramente, a passo pachidermico, in sala da pranzo, e nel salotto, davanti ai miei genitori e ai loro libri, senza dire una parola. Mi ero fatta un'abitudine di incedere pesantemente, silenziosa ma visibilissima, nelle stanze in cui era seduta mia madre: era una specie di défilé alla rovescia, era un'esibizione, volevo che mi vedesse e constatasse quanto poco effetto avevano su di me le sue sgridate e i suoi appelli. Avevo intenzione di passare nel vestibolo, poi di salire le scale col mio passo di schiacciasassi che faceva tremare le ringhiere, poi di camminare lungo il corridoio fino alla mia camera, dove avrei messo sul grammofono un disco di Elvis Presley, alzando il volume giusto quel tanto da farle reprimere il desiderio di protestare. Cominciava a preoccuparsi circa la sua capacità di comunicare con me. Non agivo secondo un piano intenzionale, ma solo obbedendo a un istinto che avvertivo oscuramente. Sapevo solo che avevo voglia di ascoltare Heartbreak Hotel al massimo volume possibile senza rappresaglie.
Ma quando arrivai in mezzo alla stanza, si sentì improvvisamente battere sul portone. Qualcuno lo martellava con i pugni chiusi; poi si udì il tonfo sordo di un corpo scagliato contro la porta e una rauca voce maschile che urlava: «Ti ammazzerò! Ti ammazzerò, cane!» Gelai. Mio padre si alzò con un balzo dalla sua poltrona e si piegò su se stesso rannicchiandosi come un lottatore. Mia madre mise un segnalibro tra le pagine del suo volume e lo chiuse; poi si tolse gli occhiali da lettura, che portava appesi a una catenina d'argento intorno al collo, e guardò mio padre con irritazione. Era chiaramente colpa sua: chi mai l'avrebbe chiamata «cane»? Mio padre si raddrizzò e andò ad aprire. «Oh, è lei, signor Currie» disse. «Mi fa piacere vedere che è di nuovo in circolazione.» «Le farò causa» gridò quella voce. «Le leverò tutto quello che ha! Perché non mi ha lasciato in pace? Ha rovinato tutto!» La voce ruppe in lunghi, rauchi singhiozzi. «Lei è un po' turbato in questo momento» disse la voce di mio padre. «Ha mandato tutto a monte!» gemette l'altra voce. «Stavolta c'ero riuscito e lei ha mandato tutto a monte! Non voglio vivere!» «La vita è un dono» disse mio padre con calma dignità, ma con una piccola punta di rimprovero, come il cortese dentista che, dal televisore che avevamo comprato due anni prima, dava dimostrazioni sulla carie. «Lei dovrebbe esserne grato. Dovrebbe rispettarla.» «E che ne sa, lei?» ruggì la voce. Poi si sentì un suono strascicato e la voce si allontanò, trascinandosi dietro un borbottio smorzato, come una scia di bolle sott'acqua. Mio padre chiuse piano la porta e rientrò in salotto. «Non capisco perché lo fai» disse mia madre, «non ti sono mai grati.» «Fai cosa?» chiesi, strabuzzando gli occhi e rompendo il voto del silenzio, tanta era la mia voglia di sapere. Non avevo mai sentito piangere un uomo prima d'allora, e la scoperta che qualche volta succedeva anche a loro mi elettrizzava. «Quando la gente cerca di uccidersi» disse mia madre, «tuo padre la riporta in vita.» «Non sempre, Frances» disse tristemente mio padre. «Fin troppo spesso» disse mia madre, aprendo il suo libro. «Sono stufa di ricevere telefonate d'insulti nel cuore della notte. Mi auguro davvero che tu smetta.» Mio padre era anestesista all'Ospedale Generale di Toronto. Aveva studiato per intraprendere quella carriera dietro le insistenze di mia madre,
perché lei pensava che la specializzazione fosse la professione del futuro, e tutti dicevano che gli specialisti avevano più successo dei medici generici. Era anche stata disposta ad affrontare i necessari sacrifici economici, mentre mio padre faceva tirocinio. Ma io credevo che mio padre si limitasse a far addormentare la gente prima delle operazioni. Ignoravo del tutto quest'aspetto resurrezionistico della sua personalità. «Perché cercano di uccidersi?» chiesi. «E tu come fai a farli resuscitare?» Mio padre ignorò la prima parte di questa domanda, era troppo complicata per lui. «Sto provando dei metodi sperimentali» disse. «Non sempre funzionano. Ma a me danno solo i casi senza speranza, quando già hanno provato con tutti i mezzi.» Poi, rivolgendosi a mia madre piuttosto che a me, disse: «Ti stupirebbe vedere quanti sono contenti. Di aver potuto... tornare indietro, di avere un'altra occasione.» «Bene» disse mia madre, «vorrei solo che quelli che sono meno contenti se lo tenessero per sé. A mio parere, è una perdita di tempo. Ci riproveranno, tutto qui. Se fossero persone serie si infilerebbero una pistola in bocca e premerebbero il grilletto. Questo non lascia nulla al caso.» «Non tutti» disse mio padre, «sono risoluti come te.» Due anni dopo, imparai altre cose su mio padre. Abitavamo in un'altra casa, con una sala da pranzo più grande, rivestita di pannelli di legno e imponente. Mia madre dava una cena, aveva invitato due coppie che in privato dichiarava di detestare. Secondo lei, bisognava invitarli a cena perché erano colleghi di mio padre, persone importanti nell'ospedale, e lei cercava di aiutarlo nella sua carriera. Quando mio padre le diceva che invitare o meno quella gente non aveva la minima importanza per la sua carriera, lei non lo stava a sentire: si ostinava e lo faceva lo stesso. Quando alla fine si rese conto che lui aveva detto la verità, smise di fare inviti a cena e cominciò a bere un po' di più. Ma doveva aver già cominciato all'epoca di quella cena, di cui ricordo ancora il menù: petti di pollo alla panna con riso integrale e funghi, insalate in gelatina in porzioni individuali con bacche e sedano, ricoperte di maionese, patate Duchessa, e un complicato dessert composto da mandarini, sciroppo di zenzero e una specie di sorbetto. Ero in cucina. Avevo quindici anni, ed ero al massimo della mia crescita: ero alta un metro e settantatré centimetri e pesavo centodieci chili, chilo più, chilo meno. Avevo smesso di prendere parte alle cene con ospiti di mia madre; era stanca di avere per figlia un'adolescente che sembrava un beluga che non apriva mai bocca tranne che per introdurvi qualcosa. Gua-
stavo la sua commedia di amabile padrona di casa. Per quanto mi riguardava, anche se avrei gradito quest'opportunità di metterla in imbarazzo, con gli estranei era diverso, perché consideravano la mia obesità come uno sfortunato handicap, alla stregua di una gobba o di un piede equino, piuttosto che come una negazione e una vittoria, e vedermi riflessa nei loro occhi minava la mia sicurezza. Solo in rapporto a mia madre traevo un tetro godimento dal mio peso; in rapporto a tutti gli altri, mio padre incluso, mi rendeva triste. Ma non potevo smettere. Ero in cucina, dunque, e origliavo dal corridoio, divorando avanzi e rimasugli. Erano arrivati al dessert, perciò stavo facendo fuori il pollo rimasto, l'insalata coi mirtilli e le patate Duchessa, ascoltando distrattamente nel frattempo la conversazione che si svolgeva nell'altra stanza, come se fosse stato un radiodramma un po' barboso. Uno dei medici invitati era stato in guerra, soprattutto in Italia, da quel che disse; l'altro si era arruolato ma non era mai arrivato più in là dell'Inghilterra. Poi, naturalmente, c'era mio padre, che si limitava sempre a ammettere di essere stato anche lui in Europa, ma non ne parlava mai molto. Avevo ascoltato anche prima conversazioni di questo genere, e non mi interessavano. Nei film di guerra che avevo visto, le donne non avevano nulla da fare, tranne quel che facevano comunque. L'uomo che aveva prestato servizio in Italia terminò di narrare dettagliatamente una delle sue imprese e, dopo un coro di mormorii meditabondi, chiese: «Tu dov'eri di stanza, Phil?» «Oh, hmm» disse mio padre. «In Francia» disse mia madre. «Oh, dopo l'invasione, vuol dire» disse l'altro uomo. «No» disse mia madre con una risatina: questo era un segnale di pericolo. Da qualche tempo aveva cominciato a ridacchiare, quando avevamo ospiti a cena. Quel risolino, che aveva qualcosa di fesso e irrefrenabile, aveva sostituito la forte e gaia risata conviviale che mia madre era solita brandire con la stessa abilità di una mazza da baseball. «Oh» disse cortesemente l'uomo che era stato in Italia. «E che cosa facevi?» «Ammazzava» disse mia madre prontamente e di gusto, come se stesse assaporando qualche battuta che lei sola poteva capire. «Frances» interloquì mio padre. Era un avvertimento, ma aveva il tono di una supplica, e questo era qualcosa di raro e inusitato. Io stavo rosicchiando gli ultimi brandelli della carcassa di un petto di pollo, ma smisi
per ascoltare più attentamente. «Beh, tutti uccidono qualcuno in guerra, immagino» disse il secondo uomo. «Da vicino?» disse mia madre. «Scommetto che lei non li uccideva di vicino.» Ci fu un silenzio, quel genere di silenzio che si fa in una stanza quando tutti sanno che sta per succedere qualcosa di emozionante e probabilmente di sgradevole. Mi immaginai mia madre che scrutava le facce attente, evitando lo sguardo di mio padre. «Lui era nei servizi segreti» disse, con aria d'importanza. «A vederlo non si direbbe, vero? Lo paracadutavano oltre le linee, e lui lavorava con i partigiani francesi. Non ve lo dirà mai, ma parla il francese come se fosse la sua madrelingua; per via del suo cognome.» «Accipicchia» disse una delle donne, «ho sempre desiderato di andare a Parigi. È davvero bella come dicono?» «Aveva il compito di uccidere quelli che erano sospettati di essere finti partigiani» proseguì mia madre. «Doveva solo portarli fuori e sparargli. A sangue freddo. A volte non sapeva nemmeno se aveva sparato all'uomo giusto. Che ve ne pare?» La voce di mia madre vibrava di ammirazione. «Ma la cosa buffa è che non gli piace che io ne parli... il buffo è che una volta mi ha raccontato che la cosa tremenda era che cominciava a prenderci gusto.» Uno degli uomini rise nervosamente. Mi alzai e, i piedi calzati nelle pantofole pelose (sapevo camminare abbastanza piano, quando volevo) mi ritirai sulle scale, rannicchiandomi a metà strada. Come previsto, un attimo dopo mio padre entrò a gran passi in cucina attraverso la porta a vento, seguito da mia madre. Doveva essersi resa conto di aver passato la misura. «Non c'è proprio nulla di male» disse. «L'hai fatto per la giusta causa. Tu non sai mai farti valere.» «Ti avevo pregato di non parlarne» disse mio padre. Dalla sua voce si capiva che era in collera. Per la prima volta mi accorsi che era capace di arrabbiarsi; di solito era calmissimo. «Non hai idea di quel che era.» «Io lo trovo magnifico» disse mia madre con serietà. «C'è voluto davvero del coraggio, non vedo cosa c'è di male nel...» «Taci» disse mio padre. Queste storie risalgono a un periodo più recente; all'inizio lui non c'era, e probabilmente è per questo che lo ricordo come una persona più amabile di mia madre. Poi, lui fu preso dai suoi studi, non bisognava mai disturbarlo,
e in seguito passava la maggior parte del tempo in ospedale. Non sapeva che farsene, di me, anche se non lo sentivo mai ostile, ma solo perplesso. Le poche attività che svolgevamo insieme erano senza parole. Per esempio: aveva cominciato a coltivare delle piante d'appartamento, rampicanti e cleome, felci e begonie. Gli piaceva armeggiare con le piante, il sabato pomeriggio, se aveva del tempo libero; potare le talee, rinvasare e piantare, ascoltando le trasmissioni della Texaco Company Metropolitan Opera alla radio, e lasciava che lo aiutassi. Siccome non parlava mai molto, facevo finta che la voce di Milton Cross, gentile e colta, che descriveva i costumi dei cantanti e spiegava le vicende passionali, tragiche e assurde di cui erano protagonisti, fosse la sua. Era lì, emetteva nuvolette di fumo dalla pipa che aveva cominciato a fumare dopo aver dato l'addio alle sigarette, frugava tra le sue piante d'appartamento e intanto si intratteneva con me su amanti pugnalati, abbandonati o traditi, su gelosia, follia e amore eterno che trionfava sulla morte; poi delle voci agghiaccianti invadevano la stanza, facendomi drizzare i capelli sulla nuca, come se fosse stato lui a farle venire. Era un evocatore di spiriti, uno sciamano con la voce asciutta e distaccata di un anziano commentatore di opere liriche, in smoking. Almeno, mi immaginavo che la sua voce suonasse così, quando mi inventavo le conversazioni che avrei voluto avere con lui, e che non ebbi mai. Volevo che mi dicesse la verità sulle cose della vita, quelle che mia madre non mi diceva e di cui lui, che era medico, che era stato in guerra, che aveva ucciso e risuscitato i morti, doveva pur sapere qualcosa. Continuavo ad aspettare che mi desse un consiglio, un avvertimento, che mi istruisse, ma non lo fece mai. Forse aveva l'impressione che non fossi davvero sua figlia; mi aveva vista per la prima volta cinque anni dopo la mia nascita, e più che come una figlia mi trattava come una collega, o come una complice. Ma qual era il nostro complotto? Perché durante quei cinque anni non era mai tornato in licenza? Questa era una domanda che anche mia madre gli faceva. E perché tutti e due si comportavano come se lui le dovesse qualcosa? Poi ci furono delle altre conversazioni che ascoltai non vista. Andavo nel bagno al piano di sopra, chiudevo la porta a chiave e aprivo il rubinetto dell'acqua, in modo che credessero che mi stavo lavando i denti. Poi sistemavo il tappetino del bagno sul pavimento in modo da non prendere freddo alle ginocchia, mettevo la testa nella toilette e li ascoltavo attraverso i tubi. Era un collegamento quasi diretto con la cucina, dove di solito avevano luogo i loro litigi, o meglio, quelli di mia madre. Era molto più facile sentire lei che mio padre.
«Perché non provi a fare qualcosa con lei, tanto per cambiare? In fin dei conti è anche tua figlia. Io non so più che pesci pigliare.» Mio padre: silenzio. «Non sai quello che è stato, stare qui tutta sola, con lei da tirare su, mentre tu eri là a divertirti.» Mio padre: «Non mi sono divertito.» E un'altra volta: «Lei, non l'ho voluta io. E non è stato per mia scelta che ti ho sposato. Se proprio vuoi saperlo, ho dovuto fare di necessità virtù.» Mio padre: «Mi dispiace che ti sia andata male.» E ancora una volta, quando era molto arrabbiata: «Sei un medico, non venirmi a dire che non avresti potuto farci qualcosa.» Mio padre: (incomprensibile). «Al diavolo queste stronzate, tu hai ammazzato un sacco di gente. Sacra un corno.» All'inizio rimasi scandalizzata, soprattutto per quello stronzate detto da mia madre. Lei si sforzava sempre di comportarsi da signora di fronte agli altri, e anche con me. Più avanti cercai di capire quel che aveva voluto dire, e quando mi diceva, «Se non fosse per me, tu non ci saresti», non le credevo. Mangiavo per sfidarla, ma mangiavo anche per paura. A volte temevo di non esistere davvero, di essere un incidente; l'avevo sentita chiamarmi un incidente. Volevo diventare solida, solida come un masso, così che lei non avrebbe potuto disfarsi di me? Cos'avevo fatto? Avevo forse messo in trappola mio padre, se era poi davvero mio padre, avevo rovinato la vita di mia madre? Non avevo il coraggio di chiederlo. Ci fu un periodo in cui volevo diventare una cantante d'opera. Anche se erano grasse, potevano indossare dei costumi stravaganti, e nessuno rideva di loro, anzi, erano amate e lodate. Malauguratamente non sapevo cantare. Ma la cosa mi ha sempre attratta: potersi esibire di fronte a tutti e strillare a più non posso, esprimendo l'odio, l'amore, la rabbia e la disperazione, gridare a squarciagola e farne uscire della musica. Quella sarebbe stata una gran cosa. 8 «A volte penso che tu non abbia il cervello in testa» mi diceva mia madre. Me lo diceva quando piangevo per qualche motivo poco fondato. A suo modo di vedere, le lacrime erano una prova di stupidità. Te la darò io
qualcosa per cui piangere. Non c'è niente da piangere. È inutile piangere sul latte versato. «Mi sento sola» le dicevo. «Non ho nessuno con cui giocare.» «Gioca con le tue bambole» rispondeva, disegnandosi i contorni della bocca. Ci giocavo, con quelle dee di plastica dalle gambe che non si aprivano, dai capelli riccioluti, coi loro occhioni infantili e i seni che sporgevano e rientravano placidamente come ginocchi, innocui, senza capezzoli. Le agghindavo per avvenimenti mondani a cui non prendevano mai parte, le svestivo di nuovo e le guardavo, desiderando che prendessero vita. Erano caste, non amate e sempre vedove: a quel tempo non esistevano le bambole maschio. Ballavano tra di loro o rimanevano appoggiate al muro, catatoniche. A nove anni le chiesi un cane. Sapevo che non l'avrei ottenuto, ma la stavo ammansendo in vista di un gattino; me ne era stato offerto uno da una mia compagna di scuola la cui gatta ne aveva fatti sei, uno dei quali con sette dita per zampa. Io volevo quello. In realtà quel che avrei voluto era una sorellina, ma era fuori discussione, e lo sapevo. Avevo sentito mia madre dire al telefono che una figlia bastava e avanzava. (Perché non era più felice? Perché non riuscivo mai a farla ridere?). «Chi gli darebbe da mangiare?» chiese mia madre. «Tre volte al giorno?» «Io» risposi. «Tu no» disse mia madre, «non torni nemmeno a casa per pranzo.» Questo era vero, mi portavo il pranzo a scuola in un portavivande. Il gattino fu scartato perché bisognava educarlo a stare in casa e perché avrebbe graffiato i mobili. Poi ci riprovai con una tartaruga; non mi sembrava che ci fosse molto da ridire su una tartaruga, ma mia madre dichiarò che puzzava. «Non è vero» dissi, «a scuola ne tengono una e non puzza.» «Si perderebbe dietro ai mobili» ribatté mia madre, «e morirebbe di fame.» Non volle nemmeno sentir parlare di un porcellino d'India, di un criceto e perfino di un uccellino. Alla fine, dopo quasi un anno di tentativi infruttuosi, la misi con le spalle al muro. Chiesi un pesce. Era silenzioso, inodoro, asettico e pulito: dopo tutto, viveva nell'acqua. Volevo che avesse una boccia con dentro dei ciottoli colorati e un castello in miniatura. Non riuscì a trovare nessun buon motivo per non prenderlo, perciò si arrese e comprai un pesce rosso da Kresge. «Morirà e basta» disse mia ma-
dre. «Quei pesciolini da poco sono tutti malati.» Ma dopo una settimana che l'avevo si arrese e mi chiese come l'avevo chiamato. Stavo seduta con l'occhio contro il vetro e guardavo il pesce mentre nuotava su e giù, rigettando pezzetti del suo mangime. «Susan Hayward» risposi. Avevo visto da poco il film Non voglio morire, in cui Susan Hayward riusciva ad alzarsi dalla sedia a rotelle. Il mio pesce rosso non aveva un filo di vantaggio, e volevo che avesse un nome intrepido. Ad ogni modo morì; mia madre disse che era stata colpa mia, gli davo troppo da mangiare. Poi lo buttò nel water, prima che potessi piangere sulla sua sorte e seppellirlo adeguatamente. Avrei voluto sostituirlo, ma mia madre disse che di certo avevo imparato la lezione. Dovevo sempre imparare qualche lezione. Mia madre diceva che i film erano una cosa volgare; secondo me, però, doveva averne visti molti, altrimenti, come avrebbe fatto a conoscere Joan Crawford? Perciò era stata la zia Lou a portarmi a vedere Susan Hayward. «Ecco, vedi?» mi disse dopo, «i capelli rossi possono avere molto fascino.» Zia Lou era alta e massiccia ed era fatta come la pubblicità dei corsetti per le taglie forti del catalogo Eaton, ma non sembrava darsene pensiero. Si raccoglieva sulla sommità del capo i capelli biondastri che andavano ingrigendo, e si fissava sullo chignon, con l'aiuto di spilloni con la perla, certi stravaganti cappellini guarniti da piume e fiocchi; portava voluminose pellicce e pesanti cappotti di tweed che la facevano sembrare ancora più alta e grassa. In uno dei miei primissimi ricordi di lei, sono seduta sul suo grembo ampio e lanuginoso - l'unico grembo sul quale ricordi di essermi mai seduta, con mia madre che diceva: «Scendi Joan, non seccare zia Louisa» - e accarezzo il pelo della volpe che portava attorno al collo. Era una volpe autentica, marrone, non ancora spelacchiata come divenne in seguito; aveva una coda, quattro zampe, neri occhietti lucenti e un freddo naso di plastica, ma sotto al naso, al posto della mascella, aveva un fermaglio per agganciare la coda. Zia Lou apriva e chiudeva il fermaglio e faceva finta che fosse la volpe a parlare. Spesso mi svelava dei segreti, magari il posto in cui zia Lou aveva nascosto le gelatine che mi aveva portato e mi faceva anche delle domande importanti, come, ad esempio, che cosa avrei voluto per Natale. Quando divenni più grande questo gioco cadde in disuso, ma zia Lou continuò a tenere la volpe nel suo armadio, benché ormai fosse passata di moda. Zia Lou mi portava spesso al cinema con sé. Adorava i film, specialmen-
te quelli che facevano piangere; pensava che un film che non faceva piangere non valesse granché. Li classificava come film da due, da tre o da quattro Kleenex, come le stelle nelle guide dei ristoranti. Piangevo anch'io, e quelle scorpacciate di pianto senza divieti furono tra i momenti più felici della mia infanzia. Per prima cosa godevo della piacevole impressione di farla in barba a mia madre perché, anche se lei dichiarava di darmi la sua autorizzazione quando le chiedevo il permesso, sapevo che in realtà non era d'accordo. Poi prendevamo il tram o l'autobus per andare al cinema-teatro. Nell'atrio facevamo rifornimento di pacchetti tascabili di Kleenex, popcorn e caramelle; poi prendevamo posto in quell'oscurità ovattata e carezzevole per diverse ore di gozzoviglia e singhiozzi, mentre le eroine che aleggiavano di fronte a noi sullo schermo si dibattevano tra le sciagure. Soffrii insieme alla dolce e paziente June Allison che sopravviveva alla morte di Glenn Miller; mangiai tre scatole di popcorn mentre Judy Garland cercava di far fronte a un marito alcolizzato, e cinque merendine Mars mentre Eleanor Parker, nel ruolo di una cantante d'opera zoppa, arrancava dolorosamente in Oltre il destino. Ma quello che mi piacque di più fu Scarpette rosse, con Moira Shearer nel ruolo della ballerina classica combattuta tra la sua carriera e l'amore per suo marito. La adoravo: non solo aveva i capelli rossi e un incantevole paio di scarpette di raso rosso in tinta, ma aveva anche dei bellissimi costumi, e poi soffriva più di ogni altra. Sgranocchiavo sempre più in fretta mentre lei rimaneva sempre più invischiata nel suo dilemma - quelle cose le volevo anch'io, volevo essere anch'io ballerina e moglie di un bel direttore d'orchestra, nello stesso tempo - e quando alla fine lei si buttò sotto un treno mi lasciai sfuggire un gemito profondo e lacerante che fece girare tre file di spettatori indignati. Zia Lou mi portò quattro volte a vederlo. Vidi un gran numero di film «per adulti» molto prima di essere un'adulta, ma nessuno mise mai in dubbio la mia età. Ero piuttosto grassa a quell'epoca, e le donne grasse sembrano tutte uguali, dimostrano tutte quarant'anni. Inoltre, le donne grasse non si fanno guardare più di quelle magre, anzi di meno, perché la gente le trova deprimenti e guarda altrove. A maschere e bigliettai dovevo apparire come un'enorme macchia indistinta. Se avessi rapinato una banca, nessun testimone sarebbe stato in grado di descrivermi esattamente. Uscivamo dal cinema con gli occhi rossi e le spalle ancora scosse dai singhiozzi, ma piene di un caldo senso di compiutezza. Poi andavamo a
berci una soda o due oppure a fare uno spuntino - toast alla polpa di granchio con maionese, insalata di pollo fredda - a casa di zia Lou. Teneva una gran quantità di queste vettovaglie in frigorifero, oppure in lattine sulle mensole della credenza. Il palazzo in cui si trovava l'appartamento di zia Lou era piuttosto vecchio, e aveva infissi in legno scuro e grandi stanze. Anche i mobili erano grandi e scuri, spesso polverosi e sempre in disordine: i giornali sul divano, scialli afgani sul pavimento, scarpe o calze spaiate sotto le sedie, piatti nel lavello. Per me quel disordine significava che si poteva fare quello che si voleva. Lo riprodussi in camera mia, sparpagliando vestiti, libri e carte di cioccolata sulle superfici progettate con tanta cura da mia madre, sul tavolo da toilette con la balza di mussola a fiorellini, sul copriletto della stessa stoffa, sullo scendiletto in tinta. Questa era l'unica forma di arredamento che praticavo, e aveva lo svantaggio che prima o poi bisognava mettere tutto a posto. Dopo aver mangiato i nostri spuntini, zia Lou si versava qualcosa da bere, si sfilava le scarpe, si installava in una delle sue tozze sedie, e mi faceva domande con la sua voce rauca. Sembrava interessarsi davvero a quel che avevo da dire, e non rise quando le rivelai che volevo fare la cantante d'opera. Uno dei modi preferiti di mia madre per liquidare zia Lou era dire che era amareggiata e frustrata perché non aveva marito, ma se questo era vero, zia Lou lo nascondeva molto bene. A me sembrava molto meno acida e frustrata di mia madre, che ora, terminata e arredata la sua casa definitiva, concentrava sempre più energia nel tentativo di costringermi a dimagrire. Provò davvero di tutto. Quando rifiutai di prendere le pillole o di osservare le diete - da lei accuratamente redatte, con dei menù che per ogni giorno della settimana elencavano il numero di calorie - mi mandò da uno psichiatra. «A me piace essere grassa» gli dichiarai, e subito dopo scoppiai in lacrime. Era seduta di fronte a me e teneva le punte delle dita unite, sorridendomi benignamente ma con un pizzico di disgusto mentre singhiozzavo ansimando. «Non ti vuoi sposare?» chiese quando mi calmai. Questo mi fece ricominciare da capo, ma non appena rividi la zia Lou le chiese: «Tu non ti sei voluta sposare?» Lei fece una delle sue risate rauche. Era seduta sulla sua poltrona snodabile dalla grossa imbottitura e stava bevendo un martini. «Oh, sì che mi sono sposata, tesoro» disse. «Non te l'avevo mai detto?»
Avevo sempre supposto che zia Lou fosse una zitella perché il suo cognome era lo stesso di mio padre, Delacourt, pronunciato Délacór. «Aristocrazia francese, non c'è dubbio» diceva zia Lou. Il suo bisnonno, prima che decidesse di migliorare le sue condizioni, era stato agricoltore. Si era messo a lavorare nelle ferrovie fin dal loro principio, e aveva venduto la fattoria per poterlo fare; era così che la famiglia aveva fatto fortuna. «Erano tutti degli imbroglioni, naturalmente» disse zia Lou, sorseggiando il suo martini, «ma allora nessuno li chiamava così.» Venne fuori che zia Lou si era sposata a diciannove anni con un uomo che aveva otto anni più di lei, di buona estrazione sociale e bene accetto alla famiglia. Purtroppo era un giocatore incallito. «Dentro in una tasca e fuori dall'altra» sospirò zia Lou. «Ma io che ne sapevo? Ero innamorata pazza di lui, cara, era alto, bruno e bello.» Cominciai a capire perché le piacevano tanto quei film: assomigliavano molto alla sua vita. «Io ci provavo, tesoro, davvero, ma non serviva a nulla. Stava lontano da casa per giorni e giorni, e io non ero affatto un'esperta di economia domestica o di gestione finanziaria, tutt'altro. Non avevo mai fatto la spesa in vita mia; sapevo solo che bastava sollevare la cornetta del telèfono e qualcuno ti mandava tutto a casa in un pacco. La prima settimana di matrimonio ordinai un chilo di tutto: un chilo di farina, un chilo di sale, un chilo di pepe, un chilo di zucchero. Credevo che si dovesse fare così. Il pepe è durato per anni.» La risata di zia Lou faceva pensare a un tricheco infuriato. Le piaceva scherzare su di sé, ma qualche volta rischiava di strozzarsi. «Poi tornava a casa, e se aveva perso mi diceva quanto mi amava, se aveva vinto invece si lamentava del nostro legame. Era una cosa triste, sul serio. Un giorno non tornò e basta. Forse gli hanno sparato perché non pagava. Mi domando se è ancora vivo; se lo è, suppongo che siamo ancora sposati.» Più avanti scoprii che zia Lou aveva una specie di amico del cuore. Si chiamava Robert, era un ragioniere con moglie e bambini e ogni domenica sera cenava nell'appartamento di zia Lou. «Non dirlo a tua madre, cara» mi disse. «Non sono sicura che capirebbe.» «Non vorresti sposarlo?» le chiesi, quando mi raccontò di lui. «Il gatto scottato ha paura anche dell'acqua fredda» disse zia Lou. «Tra l'altro, non ho mai divorziato, perché avrei dovuto? Ho soltanto riacquistato il mio nome, così non devo rispondere a troppe domande. Segui il mio consiglio, non ti sposare finché non avrai almeno venticinque anni.» Dava per scontato che avrei avuto alle calcagna stuoli di pretendenti; non contemplava nemmeno lontanamente la possibilità che nessuno mi a-
vrebbe voluta. Secondo mia madre nessuna che avesse il mio aspetto avrebbe mai combinato nulla, ma zia Lou tendeva a minimizzare gli handicap o a trattarli come ostacoli da superare. I cantanti d'opera paralizzati potevano farcela, se solo ci provavano. Anche grossa com'ero, ci si poteva aspettare qualcosa da me. Non ero sicura di essere all'altezza. Dopo la sua brutta esperienza con il giocatore, zia Lou si era fatta coraggio e aveva cercato lavoro. «Non sapevo battere a macchina, cara» disse, «non sapevo fare nulla, per via del modo in cui ero stata educata; ma c'era la grande crisi, sai, la mia famiglia non aveva più denaro. Perciò dovevo farlo, no? Mi son fatta strada.» Quando ero piccola, mio padre e mia madre erano molto vaghi circa il lavoro di zia Lou, e anche lei lo era. Tutto quello che mi dicevano era che lavorava nell'ufficio di una società, e che era capo di un settore. Scoprii quel che faceva davvero, solo quando ebbi tredici anni. «Ecco qui» disse mia madre, «immagino sia ora che tu legga questo» e mi mise in mano un libretto rosa con la copertina decorata da una ghirlanda di fiori. Stai diventando grande, c'era scritto. In prima pagina c'era una lettera, che cominciava così: «Diventare grandi può essere divertente. Ma ci sono certe cose che potrebbero sconcertarti. Una di queste è la mestruazione...» In fondo alla pagina c'era una fotografia di zia Lou con un sorriso materno ma professionale, scattata prima che le sue guance si allargassero tanto. Intorno al collo portava un unico filo di perle. Nella vita reale portava davvero le perle, ma mai un solo filo. Sotto la lettera c'era la sua firma: «Con affetto, vostra Louisa K. Delacourt.» Studiai con interesse i diagrammi del libretto rosa; lessi i consigli di galateo per le partite di tennis e le feste da ballo del liceo, le proposte per il guardaroba, i suggerimenti su come lavarsi i capelli, ma furono soprattutto la fotografia e la firma di zia Lou a colpirmi - nemmeno fosse stata una specie di diva del cinema. Ma zia Lou, in un certo senso, era famosa. La interrogai al proposito quando la vidi la volta seguente. «Sono la direttrice delle pubbliche relazioni, cara» disse. «Solo per il Canada. Ma guarda che non sono stata proprio io a scrivere quel libretto. Sono stati quelli della pubblicità.» «E allora tu cosa fai?» chiesi. «Beh» disse, «vado a molte riunioni, e do dei consigli per la pubblicità. E poi rispondo alle lettere. Naturalmente, la mia segretaria mi aiuta.» «Che tipo di lettere?» chiesi. «Oh, sai» disse, «reclami per il prodotto, richieste di consigli, cose di
questo tipo. Ti aspetteresti che siano tutte lettere di ragazzine, e molte lo sono davvero. Sono ragazze che vogliono sapere dov'è la loro vagina e cose di questo genere. Per quelle abbiamo una risposta standard. Ma alcune vengono da donne che hanno davvero bisogno di aiuto, e a quelle rispondo personalmente. Quando hanno paura di andare dal medico o cose del genere, scrivono a me. Metà delle volte non so cosa rispondere.» Zia Lou finì il suo martini e andò a versarsene un altro. «Ne ho ricevuta una proprio l'altro giorno, da una donna che pensava di essere stata messa incinta da un incubo.» «Un incubo?» chiesi. Sembrava il nome di qualche apparecchio terapeutico. «Che cos'è?» «L'ho cercato nel dizionario» disse zia Lou. «È una specie di demone.» «Che cosa le hai risposto?» chiesi, inorridita. E se quella donna avesse avuto ragione? «Le ho detto» rispose zia Lou pensosamente, «di fare un esame di gravidanza, e che se risultava positivo, non era un incubo. Se fosse risultato negativo, non avrebbe avuto di che preoccuparsi, non credi?» «Louisa è socialmente impresentabile» diceva mia madre spiegando a mio padre perché non la invitava più spesso a cena. «È inevitabile che la gente chieda che cosa fa, e lei glielo racconta sempre. Non mi può venir fuori con quelle parole a tavola, nel bel mezzo della cena. Lo so che è buona, solo che non si preoccupa minimamente dell'impressione che fa.» «Dio ti benedica» mi disse zia Lou, con una risatina chioccia. «Mi pagano bene ed è un lavoro simpatico. Non ho nulla da lamentarmi.» Lo psichiatra rinunciò a curarmi dopo tre sedute di silenzi e lacrime. Mi offendeva l'insinuazione che, oltre a essere grassa, in me ci fosse qualcos'altro che non andava, e il mio risentimento lo offendeva. Disse a mia madre che si trattava di un problema familiare che non si poteva risolvere curando solo me, e lei si indignò. «Che spudorato» disse a mio padre. «Tutto quello che vuole è spillarmi dell'altro denaro. Secondo me, sono tutti dei ciarlatani.» Dopodiché, mia madre dette inizio alla fase dei lassativi. Credo che a quell'epoca fosse già disperata; senza dubbio era ossessionata dalla mia mole. Come la maggioranza delle persone, probabilmente pensava per immagini, e allora deve avermi vista come un oggetto con una sola apertura, una specie di tubo, che tratteneva tutto ciò che vi era introdotto senza lasciarlo uscire: immaginava che se fosse riuscita a stapparmi in qualche modo, mi sarei sgonfiata in un colpo solo, come un pallone dirigibile. Co-
minciò a comprare medicinali, dissimulando i suoi tentativi di farmeli prendere - «Ti farà bene alla pelle» - e di tanto in tanto introducendoli di soppiatto nel cibo. Una volta, arrivò perfino a ricoprire una torta al cioccolato con una glassa fatta di Ex-Lax sciolto, lasciandola sul banco della cucina dove, trovatala, la divorai. Mi fece stare malissimo, ma non mi fece dimagrire. A quel tempo andavo al liceo. Mi ero opposta al progetto di mia madre di mandarmi in una scuola privata femminile, le cui alunne portavano kilt e cravattini di stoffa scozzese. Dal tempo delle Coccinelle, diffidavo di tutti i gruppi composti interamente da donne, e soprattutto da donne in divisa. Così, invece, andai al più vicino liceo, che secondo mia madre non era il non plus ultra, ma nemmeno tanto male, visto che oramai abitavamo in un quartiere rispettabile. L'inghippo, però, era che i figli delle famiglie che mia madre considerava come sue pari e prendeva a modello venivano mandati proprio nel tipo di scuole private dove avrebbe voluto mandarmi lei, cosicché il liceo raccoglieva in maggioranza gli esclusi - quelli che venivano dalle casette alla periferia del quartiere, dai nuovi condomini che erano sorti come funghi, ai quali i vecchi residenti si erano opposti, o peggio ancora, dagli appartamenti sopra i negozi delle strade commerciali. Alcune mie compagne di classe non erano affatto quel che aveva in mente mia madre, anche se non glielo dicevo, perché non volevo esser costretta in una divisa. A quell'epoca mia madre mi dava un'indennità di vestiario, come incentivo a dimagrire. Pensava che mi sarei comprata dei vestiti che mi avrebbero resa meno vistosa, gli abiti scuri a pois e righe verticali preferiti dagli stilisti per le taglie forti. Invece, io andavo alla ricerca di abiti particolarmente orridi e ripugnanti, dai colori violenti, a strisce orizzontali. Alcuni li trovavo nei negozi per la maternità, altri in magazzini a prezzo ribassato, che facevano gli sconti; ero molto contenta di una mia gonna a ruota di feltro rosso, sulla quale era applicato un telefono nero. Quanto più i colori erano vivaci e l'effetto tondeggiante, tanto più compravo a colpo sicuro. Non mi sarei lasciata sminuire, neutralizzare, da un sacco color blu marino a pois. Una volta, quando arrivai a casa con indosso una palandrana verde pisello con una fila di alamari sul davanti, brillante come un popone al neon, mia madre si mise a piangere. Piangeva disperatamente, passivamente; si era appoggiata alla ringhiera, e il suo corpo era fiacco, come se non avesse avuto le ossa. Mia madre non aveva mai pianto in un luogo in cui potessi
vederla, e ne ero dispiaciuta, ma al tempo stesso esultavo per questa prova della mia forza, della mia sola forza. L'avevo sconfitta: non mi sarei mai lasciata trasformare nella sua immagine, bella e sottile. «Dove li trovi?» singhiozzò. «Lo fai apposta. Se fossi come te, mi nasconderei in cantina.» Era da tempo che aspettavo questa occasione. La prima che piangeva era perduta. «Hai bevuto» dissi, il che era vero. Per la prima volta nella mia vita sperimentai, consapevolmente, le gioie della recriminazione ipocrita. «Che cosa ho fatto perché tu ti comporti in questo modo?» disse mia madre. Era in vestaglia e ciabatte, anche se ormai erano le quattro e mezza del pomeriggio, e i suoi capelli avrebbero potuto essere più puliti. La lasciai lì e col mio passo pesante mi ritirai nella mia camera, sentendomi alquanto fiera di me stessa. Ma quando ci ripensai, mi vennero dei dubbi. Lei si era attribuita tutto il merito, ma io non ero la sua marionetta; di certo, mi comportavo in quel modo non perché lei mi avesse fatto qualcosa, ma perché lo volevo. E che cosa c'era di male, comunque, nel modo in cui mi comportavo? «Io sono fatta così» mi disse una volta zia Lou. «Se gli altri non sanno prendermi così come sono, affari loro. Ricordatelo, cara. Non si può sempre scegliere la propria vita, ma si può imparare ad accettarla.» Ero solita pensare che zia Lou fosse saggia; e certamente era generosa. L'unico guaio era che le briciole di saggezza da lei distribuite potevano avere molti significati, se ci si rifletteva sopra. Ad esempio, ero io che avrei dovuto accettare mia madre oppure era lei che avrebbe dovuto accettare me? In uno dei miei sogni a occhi aperti immaginavo che zia Lou fosse la mia vera madre, che per qualche oscura ma perdonabile ragione mi aveva affidata ai miei genitori perché mi allevassero. Forse ero figlia del bel giocatore d'azzardo, che un giorno sarebbe riapparso, o forse zia Lou mi aveva avuta fuori dal matrimonio quando era giovanissima. In questo caso mio padre non era il mio vero padre, e mia madre... ma a questo punto il sogno si interrompeva, perché che cosa mai avrebbe potuto indurre mia madre a ospitarmi, se non fosse stata obbligata? Quando mio padre osservava che zia Lou mi voleva molto bene, mia madre rispondeva acidamente che era solo perché lei non mi aveva tutto il tempo per le mani. Mi aveva per le mani, ne aveva fin sopra i capelli: queste erano le metafore che mia madre usava parlando di me, benché non mi toccasse quasi mai. Aveva le mani delicate e le dita lunghe, con le unghie rosse, e i capelli accuratamente acconciati; non c'era un nido per me tra quei riccioli rigidi e immacolati.
Riuscivo sempre a ricordare l'aspetto di mia madre, piuttosto che le sensazioni che mi dava. Zia Lou invece era morbida, piumosa, lanuginosa, pelosa; persino il suo viso, incipriato e imbellettato, era ricoperto di peluria, come un'ape. Ciocche di capelli sfuggivano dalla sua testa, fili dagli orli dei suoi abiti, dolci odori dallo spazio tra il collo e il colletto, dove appoggiavo la fronte mentre ascoltavo le storie della sua volpe parlante. D'estate, quand'ero piccola e andavamo a zonzo per la Mostra Nazionale del Canada, lei mi teneva per mano. Mia madre non mi teneva per mano, doveva pensare ai suoi guanti. Mi teneva per un braccio o per il colletto. E non mi portava mai alla Mostra: diceva che non ne valeva la pena. Zia Lou e io pensavamo che ne valesse la pena, ci piacevano gli imbonitori urlanti, le bande di strumenti a fiato, i batuffoli di zucchero filato rosa e il popcorn unticcio di cui ci rimpinzavamo vagando da un padiglione all'altro. Tutti gli anni andavamo per prima cosa allo stand dei Cibi Genuini, per vedere la mucca fatta tutta di burro; un anno, al posto della mucca, avevano fatto la Regina. Ma c'è una cosa che non son mai riuscita a ricordare. Andavamo al parco dei divertimenti, naturalmente, e sulle montagne russe, quelle più lente - a zia Lou piaceva la ruota panoramica - ma c'erano due tendoni che zia Lou non mi lasciava visitare. Su di una erano dipinte delle donne in costume da harem, con enormi seni sporgenti, e due o tre di queste donne erano in posa su un piccolo palco davanti all'ingresso, con i loro pantaloni di velo e l'addome in mostra, mentre un uomo con un megafono cercava di far comprare biglietti alla gente. L'altra era il Museo dei Fenomeni, e dentro c'erano il mangiatore di fuoco e il mangiatore di spade, l'Uomo di Gomma e i Gemelli Siamesi, UNITI PER LA TESTA E ANCORA VIVI, diceva l'uomo, e c'era anche la donna più grassa del mondo. Zia Lou non voleva entrare nemmeno in quel tendone. «E sbagliato ridere delle disgrazie altrui» disse, più severa del solito. Lo trovai ingiusto: dal momento che gli altri ridevano della mia, anch'io avevo diritto a una possibilità. Eppure, nessuno considerava una disgrazia l'essere grassi; era visto semplicemente come una disgustosa mancanza di volontà. Non era opera del destino, e perciò un fatto straordinario, come essere gemelli siamesi o vivere in un polmone d'acciaio. Ma in quel tendone c'era pure la Donna Cannone, e volevo vederla; però non la vidi mai. Quel che non riuscivo a ricordare era se le tende erano due o una sola. L'uomo col megafono sembrava lo stesso sia per i fenomeni che per le ballerine. Gli uni e le altre facevano spettacolo, erano qualcosa da vedere per
credere. Il posto preferito di zia Lou al parco dei divertimenti era un padiglione con davanti una bocca gigante dalla quale usciva, come un torrente senza fine, una risata registrata. Risate nel buio, si chiamava. C'erano scheletri fosforescenti e specchi deformanti che allungavano e accorciavano. Li trovavo inquietanti. Non volevo essere più grassa di quel che ero, ed essere più magra era impossibile. Ero solita immaginarmi la Donna Cannone seduta su una sedia a sferruzzare, mentre file e file di facce grigio-pallido le passavano davanti e la guardavano, la guardavano. La vedevo in pantaloni di velo, con un reggipetto di raso marrone rossastro, come le ballerine, e delle pianelle rosse. Pensavo a come si sentiva. Un giorno si sarebbe ribellata, avrebbe fatto qualcosa; per il momento si guadagnava da vivere grazie alla loro curiosità. Stava facendo una sciarpa a maglia per una sua parente, che la conosceva fin da quando era bambina e non la considerava affatto strana. 9 Avevo una sola fotografia di zia Lou. La portavo con me sempre e dovunque e la piazzavo sulla prima scrivania che trovavo, ma quando fuggii per Terremoto la lasciai a casa: Arthur avrebbe potuto accorgersi che mancava. Era stata fatta in un caldo giorno d'agosto alla Mostra Nazionale del Canada, di fronte all'edificio del Colosseum, da uno dei fotografi ambulanti che ti scattano un'istantanea e ti danno un foglietto di carta con sopra un numero. «Questa è tua madre?» mi chiese Arthur una volta, mentre la toglievo dalla valigia. «No» dissi, «questa è mia zia Lou.» «Chi è l'altra? Quella grassa.» Esitai, e per un attimo fui sul punto di dirgli la verità. «Quella è un'altra zia» dissi. «Mia zia Deirdre. Zia Lou era fantastica, ma zia Deirdre era una carogna.» «Si direbbe che aveva dei problemi con la tiroide» disse Arthur. «No no, semplicemente mangiava troppo. Faceva la centralinista» dissi. «Le piaceva, perché poteva stare tutto il giorno seduta e aveva una voce forte. Poi ha avuto una promozione ed è diventata una di quelle persone che ti telefonano per sapere com'è che non hai pagato la bolletta.» Quante bugie gli raccontai, e non solo per proteggermi: mi ero già inventata un
passato apocrifo completo per quell'ombra su un pezzo di carta, per quella donna di età indefinibile che sbirciava di traverso la macchina fotografica, reggendo un cono di zucchero filato rosa, con la faccia gonfia e vacua come quella di un povero mongoloide: il corpo dal quale ero sgusciata fuori come da un baccello. «Ti assomiglia un po'» disse. «Un pochino» ammisi. «Non mi piaceva. Cercava continuamente di dirmi come dovevo organizzare la vita.» Mi addolorò un poco tradire me stessa in quel modo. La fotografia era una buona occasione e avrei dovuto coglierla, era ancora abbastanza presto per correre certi rischi. Invece mi nascosi dietro la mia maschera, quello che lui percepiva di me. Immagino che non avrei potuto affidargli tutte quelle sofferenze rimosse, non credevo che sarebbe stato capace di occuparsene. Voleva che fossi incapace e vulnerabile, questo è vero, ma solo in superficie. Al di sotto di questo mito ce n'era ancora un altro: che io potessi permettermi di essere incapace e vulnerabile soltanto perché possedevo un nucleo forte, un serbatoio di solidarietà e calore al quale si poteva ricorrere quando ce n'era bisogno. Ogni mito è una versione particolare della verità, e la solidarietà e il calore c'erano per davvero. Avevo imparato presto la compassione, a Natale regalavo i biglietti da un dollaro all'Esercito della Salvezza e ai venditori di matite senza gambe agli angoli di strada, ero il tipo di persona che i bambini abbordano con la scusa di aver perso il biglietto dell'autobus, e ogni volta tiravo fuori il denaro. Quando scendevo per Yonge Street, gli Hare Krishna mi pescavano ad ogni semaforo rosso, sembrava una processione, non so come facessero a scoprirmi. Simpatizzavo con tutto ciò che soffriva: i gatti investiti dalle auto, vecchiette che cadevano sui marciapiedi ghiacciati e rimanevano mortificate dalla loro debolezza e dall'aver messo in mostra le mutande, deputati che piangevano alla televisione quando perdevano le elezioni. Era per questo, come Arthur sottolineò più di una volta, che le mie idee politiche erano sdolcinate. Non amavo i plotoni d'esecuzione; mi sembrava che chi era stato esautorato non meritasse mai quel che subiva, qualunque cosa avesse fatto a sua volta. «Umanitarismo ingenuo» lo chiamava Arthur. Però gli piaceva, quando il beneficiario era lui. Quello che ignorava era che dietro i miei sorrisi compassionevoli io stringevo i denti, e che c'era in me un esercito di voci che gridavano E io? E la mia sofferenza? Quand'è che arriva il mio turno? Ma avevo imparato
a soffocare quelle voci, a essere calma e pronta ad ascoltare. Al liceo andai avanti a forza di calore umano e solidarietà. Sullo Stendardo di Braeside, il giornale della scuola, sotto le foto di gruppo in cui ragazze con le labbra scure e le sopracciglia disegnate con la matita, pettinate alla paggio o con la coda di cavallo, erano sistemate davanti a ragazzi con la sfumatura alta o con i capelli che finivano in una codina untuosa, sguardi protesi in avanti, piedi incrociati all'altezza delle caviglie, gli epigrammi per me dicevano sempre: «La nostra simpaticona con un carattere eccezionale!!!» oppure: «Una grande amica!!!,» «Una tipa in gamba che non si scompone mai», «Joanie: una risata al minuto!!!» Quelli delle altre ragazze dicevano: «A lei piacciono quelli alti!!,» oppure: «Eh, quelle feste da Don Mills!!,» o «La sua maggiore attrattiva è quel certo picchè di Simpson's» o anche: «Nelle botti piccole c'è il vino buono.» A casa ero imbronciata e abulica, al cinema piangevo insieme a zia Lou, ma a scuola ero tenacemente cordiale ed estroversa, e truccavo di Rosa Perla o Rosso Tropico quella mia boccuccia da amorino persa nel mare della mia faccia. Giocavo bene a pallavolo, ma non a pallacanestro, in cui si doveva correre molto. Venivo eletta a far parte dei comitati, di solito come segretaria; mi iscrissi al Club delle Nazioni Unite e feci parte della delegazione che rappresentava gli Arabi alla mini-Onu della scuola. Mi ricordo che tenni un discorso piuttosto buono sulla situazione dei profughi palestinesi. Aiutavo a fare le decorazioni per le feste da ballo e appendevo lunghissime, mosce ghirlande di fiori fatti di Kleenex lungo i muri della palestra che sapeva di sudore, e naturalmente alle feste non mi facevo vedere. Avevo dei voti discreti, ma non tanto alti da essere offensivi. E, cosa ancora più importante, facevo la buona zia e la consigliera per molte delle mie compagne di classe dalla cipria compatta, dai golfini di cascimir e dalle tette a punta. Era per questo che l'album della scuola diceva tante cose carine di me. C'erano altre due ragazze grasse nella scuola. Una di loro, Monica, era un anno avanti a me. Aveva i capelli grassi tagliati corti e pettinati all'indietro, come un ragazzo, e portava un giubbotto di pelle nera con delle borchie d'argento. A mezzogiorno se ne stava fuori nel parcheggio, in compagnia di alcuni ragazzi tra i più stupidi e rozzi, e lì bevevano alcolici nascosti nei guanti e si scambiavano barzellette sconce. La accettavano, bene o male, ma come se fosse stata un ragazzo anche lei. Non sembravano affatto considerarla una donna. Theresa, l'altra, era del mio stesso anno, ma in un'altra classe. Era pallida e schiva; non parlava mai molto e aveva pochi amici. Pencolava tutta sola per i corridoi, con le spalle cascanti e i
libri stretti al petto per nascondere almeno in parte la sua mole anteriore, scrutando timidamente per terra con i suoi occhi da miope. Portava camicette di rayon color crema a ricami poco appariscenti, come quelle della segretaria quarantacinquenne della scuola. Eppure era lei, invece della sfacciata Monica, ad avere la tradizionale reputazione di ragazza grassa, era a Theresa che i ragazzi gridavano dall'altro lato della strada: «Ehi, Theresa, ehi, cicciona! Che ci vieni per fratte con me?» suscitando le risate di altri ragazzi, meno schietti. Theresa si voltava dall'altra parte, arrossendo; nessuno sapeva se fossero vere le dicerie secondo le quali, in certe circostanze, era disposta a fare «quelle cose,» però tutti ci credevano. Quanto a me, avevo una personalità eccezionale e le mie amiche erano ragazze carine, quelle che i ragazzi volevano portare alle feste e al cinema, dove li avrebbero visti in pubblico e ammirati. Nessuno mi gridava dietro certe cose per la strada; nessuno che facesse la nostra scuola, ad ogni modo. Alle ragazze piaceva tornare a casa con me, chiedermi consigli e confidarsi, per due ragioni: se si avvicinava loro un ragazzo indesiderato c'ero lì io, la grassa governante, una scusa perfetta, come avere un carro armato privato; se invece compariva un ragazzo più desiderabile, come potevano fare a meno di sembrare belle, accanto a me? Inoltre ero molto comprensiva, sapevo sempre quand'era il momento giusto per dire «Ci vediamo domani» e sparire in lontananza come un palloncino nel vento, lasciando la coppia a fissarsi sul marciapiede davanti ai lindi edifici della Braeside e ai prati rasati. Le ragazze mi telefonavano dopo, senza fiato, dicendomi: «Indovina cosa è successo?» e io dicevo «Oh, che cosa?» come se fossi emozionata, felicissima e non vedessi l'ora di scoprirlo. Si poteva star sicuri che non avrei dato segni d'invidia né flirtato in modo competitivo e non mi sarei nemmeno chiesta perché le migliori amiche non mi invitavano alle loro feste con gli scambi di coppia. Anche se ero immersa nella carne, ritenevano che fossi al di sopra delle sue tentazioni, il che, ovviamente, non era vero. Tutti si fidavano di me, nessuno mi temeva, anche se avrebbero dovuto farlo. Sapevo tutto delle mie amiche: le loro speranze, le loro preferenze, la marca del servizio di porcellana e lo stile dell'abito da sposa che avevano già messo da parte all'età di quindici anni, i nomi degli ignari ragazzi ai quali desideravano concedere quei tesori, quel che pensavano davvero dei ragazzi con i quali uscivano, quei rompiscatole insopportabili e odiosi, e di quelli con cui avrebbero preferito uscire, sapevo tutto di quelle bambole viventi. Sapevo cosa pensavano l'una dell'altra e sapevo quel che si dice-
vano dietro le spalle. Ma loro di me non intuivano nulla: ero come una spugna, assorbivo ogni cosa ma non mi lasciavo sfuggire niente, nonostante la tentazione di dire tutto, tutto il mio odio e la mia gelosia, di rivelarmi per quel mostro di doppiezza che sapevo di essere. Resistevo a malapena. Uno dei pochissimi vantaggi di questa vita piena di tensione fu che acquisii un'approfondita conoscenza di una fetta del mio futuro pubblico: quelle che si sposavano troppo giovani, quelle che avevano bambini troppo presto, che volevano principi e castelli e finivano in appartamenti sacrificati con dei mariti brontoloni. Ma a quel tempo non potevo prevederlo. Monica si ritirò dalla scuola più presto che poté. Theresa fece lo stesso, perché si sposò con un meccanico, un uomo più vecchio di lei che non era della nostra scuola, né di nessun'altra. Dicevano che era incinta, anche se una delle mie amiche osservò che grassa com'era, come si faceva a capirlo? Tenni duro, a denti stretti; volevo prendere il diploma in modo da farla finita con la scuola, ma non avevo idea di quello che avrei fatto dopo. Mia madre voleva che andassi al Trinity College dell'università di Toronto, che godeva di un certo prestigio, e quasi quasi volevo andarci anch'io, volevo studiare archeologia o forse storia; ma non sopportavo il pensiero di altri quattro anni di infelicità acuta e segreta, compreso l'orrore delle associazioni femminili universitarie, dei fidanzamenti, delle partite di pallone e degli sposalizi di primavera. Cominciai a fare dei lavori a mezza giornata e aprii un conto in banca. Dissi a zia Lou, e solo a lei, che appena avessi avuto abbastanza denaro, me ne sarei andata di casa. «Pensi che sia una cosa saggia, cara?» mi disse. «Pensi che sarebbe saggio restare?» chiesi. Lei conosceva mia madre, e avrebbe dovuto capirmi. Forse si preoccupava di quello che mi sarebbe successo, una volta lontana da casa. Anch'io mi preoccupavo. Volevo partire, ma avevo paura. Mi sentivo in colpa con zia Lou: negli ultimi tempi non ero più andata al cinema con lei tanto spesso. La verità era che temevo che una delle mie amiche, Barbara o Carole-Ann (che faceva la 'capoclacque') o Valerie, abbottonata in un golfino di cascimir, con i piccoli seni strizzati che spuntavano fuori baldanzosi come pollici eretti, una ghirlanda di fiori finti intrecciata all'elastico che le teneva la coda di cavallo, tirandosi dietro un ragazzo che indossava una giacca con la B, potesse apparire nello stesso cinema e vedermi piagnucolare al fianco della mia robusta e impellicciata zia. «Non partire prima di essere pronta» mi disse saggiamente zia Lou, e come al solito questo poteva significare qualunque cosa.
Il tipo di attività che riuscivo a trovare erano lavori manuali e non molto gradevoli. Di regola i datori di lavoro non volevano assumere una persona tanto grassa, ma alcuni erano troppo imbarazzati per mandarmi via del tutto, specialmente quando avevano messo un'inserzione. Li guardavo tra le palpebre gonfie con aria d'accusa e dicevo «Ecco l'annuncio, proprio qui» e loro mi assumevano per un paio di settimane, raccontandomi bugiardamente che uno dei loro dipendenti abituali era andato in vacanza. In questo modo, lavorai in un bazar economico per tre settimane, come maschera in un teatro per due, come cassiera in un ristorante per tre e così via. Alcuni datori di lavoro mi facevano una buona accoglienza: costavo poco, come capita sempre con una donna, ma non provocavo tra i dipendenti maschi e i clienti quei disordini che causavano le altre donne. Comunque, spesso si trattava di lavori faticosi e sgradevoli, come lavare i piatti, e non ci restavo a lungo. Queste occupazioni sconcertavano mia madre. «Che bisogno hai di lavorare?» mi diceva spesso. «Ti diamo tutto il denaro che ti serve.» Considerava i lavori che facevo degradanti per sé, il che era un vantaggio extra. Tra l'altro, probabilmente, le ricordavano la sua giovinezza. Al tempo della moda della franchezza in materia di sesso, lessi numerosi resoconti delle prime esperienze sessuali degli altri: masturbazioni con maniglie, rubinetti e impugnature di rasoi elettrici, brancicamenti sui sedili posteriori delle auto, nei cinema a drive in, arrancamenti tra i cespugli e via di questo passo. Nessuna assomigliava alle mie. Anch'io ho avuto due esperienze sessuali precoci, sebbene generalmente reprimessi del tutto il mio interesse per il sesso, proprio come reprimevo il mio interesse per i film di guerra. Per me non c'erano ruoli disponibili, e così per quanto possibile, ignoravo la cosa. Anche se fingevo di farlo, non ho mai condiviso la passione collettiva delle mie amiche per i cantanti. Il massimo che mi concedevo era di concupire in modo idealizzato la figura di Mercurio, col cappello e i sandali alati, muscoli impressionanti e un cavo del telefono pudicamente avvolto intorno ai fianchi, che appariva sulla copertina dell'elenco telefonico di Toronto. Qualche anno fa è scomparso. Forse la società dei telefoni ha scoperto che era il dio dei ladri e della frode, oltre che della velocità. Ma accedevo per procura ai misteri del sesso attraverso le Barbare e le Valerie con cui pranzavo e tornavo a casa, anche se tendevano a discutere di queste cose più tra di loro che con me. Mi escludevano per rispetto, co-
me si escluderebbe una monaca o una santa. Dal punto di vista sessuale erano ritrose, si amministravano con parsimonia, un bacio dopo il terzo appuntamento, baci più impegnativi solo se era un ragazzo fisso, protezione dal collo in giù. La pillola ancora non c'era, e avevano sotto gli occhi un numero sufficiente di tristi esempi, forniti loro dalle madri o dai pettegolezzi sulle ragazze che avevano dovuto sposarsi per forza o, peggio ancora, che avrebbero dovuto sposarsi ma non avevano potuto, per restare integre e inflessibili. Se poi andavano oltre il dovuto, non venivano certo a raccontarmelo. La prima esperienza sessuale avvenne così. Stavo tornando a casa insieme a Valerie, che ha trovato posto spesso nei miei romanzi gotici, una volta vestita di un guardinfante, e un'altra in un abito neoclassico dei primi dell'Ottocento, dall'ampia scollatura. Quel giorno, però, indossava un maglione rosso con sopra una spilla a barboncino, un kilt rosso in tinta, mocassini e sopra a tutto un trench blu marino. Mi stava parlando di un'importante telefonata che aveva ricevuto la sera prima, mentre si stava lavando i capelli. Parecchi isolati prima della strada in cui solitamente svoltavo, venimmo intercettate da un ragazzo che aveva tentato per settimane di convincere Valerie a uscire con lui. Non le interessava - secondo lei, come sapevo, era un noioso - ma il galateo le prescriveva di non essere troppo palesemente scortese con lui, altrimenti rischiava di essere considerata arrogante. Così si mise a camminare accanto a noi, conversando nervosamente con Valerie e ignorandomi più che poteva. Valerie mi lanciò un'occhiata significativa e così non svoltai all'altezza della mia strada. Invece la accompagnai a piedi fino a casa sua, sapendo che dopo mi avrebbe telefonato per ringraziarmi di aver intuito la situazione. Davanti al vialetto di Casa sua ci salutò, si girò e trotterellò giù per il marciapiede, con la coda di cavallo che dondolava di qua e di là. La porta di servizio si richiuse alle sue spalle. Rimasi sul marciapiede, con i piedi che sporgevano, gonfi, dai lati dei miei mocassini. Mi facevano male le caviglie, ero andata fuori strada di tre isolati e ora sarei dovuta tornare sui miei passi, per me era ora di andare a casa e di farmi un panino a tre stati di formaggino e burro di noccioline preparandomi ai miei compiti di maschera al cinema Starlite, dove Natalie Wood interpretava Splendore nell'erba. Il ragazzo, che persino io ritenevo insignificante, ora avrebbe dovuto dire: «Ci vediamo» e allontanarsi a gran passi, più in fretta possibile. Ma invece fece una cosa strana. Si inginocchiò di fronte a me, nel bel mezzo di una pozzanghera fangosa - era aprile e aveva piovuto - e spro-
fondò la faccia nella mia pancia enorme. Che cosa feci? Ero stupefatta; ero impietosita; gli accarezzai i capelli. La mia mano odorò di brillantina per giorni. Dopo qualche minuto si alzò, con i pantaloni fradici all'altezza del ginocchio, e se ne andò. Questa fu la prima esperienza sessuale. Tornai a casa e mangiai il mio panino. Del motivo per cui quel ragazzo, il cui nome non sono mai riuscita a ricordare (mentre riuscivo a visualizzare l'espressione tesa, quasi angosciosa del suo viso), abbia eseguito quest'atto grottesco e pure quasi rituale su un fangoso marciapiede nel sobborgo di Braeside Park, davanti a una normale casa di mattoni rossi con le modanature bianche e due cedri potati ai lati del portone, non avevo alcun indizio. Forse era dolore per il suo amore contrastato, e lui stava cercando consolazione. E ancora, poteva essere stato un gesto istintivo di adorazione del ventre; o forse, a giudicare dal modo in cui, abbandonati sull'erba i libri di chimica, mi aveva circondata allungando le braccia più che poteva, affondando le dita, mi aveva vista come un'unica, enorme mammella. Ma queste sono speculazioni a posteriori. Sul momento rimasi talmente sconvolta dalla novità che un ragazzo mi avesse toccata, che dimenticai l'episodio prima possibile. Non era stato molto piacevole. Non lo usai nemmeno per burlarmi di lui, come avrei potuto fare se fossi stata più magra. Dal canto suo, lui mi evitò e non chiese più a Valerie di uscire con lui. Ebbi la mia seconda esperienza sessuale durante uno dei miei lavori a mezza giornata. Fu quando facevo la cassiera in un ristorante, un locale piccolo e mediocre che si chiamava Il bocconcino. Servivano hot dog, hamburger, frullati, caffè e fette di torta; e se si voleva una cena completa c'erano pollo fritto e gamberetti, minuscole bistecche, costolette di maiale alla griglia e roast-beef. Lavoravo dalle quattro e mezza alla nove e mezza, quando chiudeva, e parte del mio salario era un pasto gratuito, scelto tra i più economici. Me ne stavo appollaiata su un alto sgabello dietro al registratore di cassa e prendevo il denaro. Mi occupavo anche dei clienti che sedevano al banco vicino alla cassa, e a questo scopo avevo un citofono collegato con la cucina, con il quale trasmettevo le ordinazioni. La cucina era sul retro, e aveva una finestra passavivande decorata da carta da parati, che simulava i mattoni e pentole di rame che non si usavano mai. C'erano due cuochi, un canadese letargico e permaloso e uno straniero vivace con gli occhi lucenti, italiano o greco, non sapevo. Nelle mie esperienze di lavoro, le cose andavano sempre alla stessa maniera. I cana-
desi che avevano un lavoro come quello non si aspettavano di salire più in alto: nonostante il vantaggio di conoscere la lingua e l'ambiente, questo era il meglio che potevano fare. Gli stranieri, al contrario, erano in ascesa, risparmiavano e imparavano, non intendevano rimanere a livello servile. Il cuoco straniero ci metteva metà del tempo rispetto all'altro, ed era gentile il doppio. Faceva grandi sorrisi alle cameriere quando dava i loro piatti, sgambettava nel suo recinto simile a un forno come uno scoiattolino arrosto, canticchiava brani di canzoni esotiche, e si vedeva bene che l'altro cuoco l'avrebbe ammazzato volentieri. La nostra relazione ebbe inizio quando lui cominciò a rispondere al citofono ogni volta che richiedevo un'ordinazione. Mi vedeva molto bene, attraverso il passavivande. «Pronto?» mi diceva, con voce dolce e melodiosa. «Un hamburger al formaggio e una porzione di patatine fritte» rispondevo. «Per te, lo faccio superspeciale.» Pensai che mi stesse prendendo in giro e lo ignorai, ma un giorno, al citofono, mi chiese: «Tu prendere caffè con me, eh? dopo lavoro?» Rimasi troppo stupita per dire di no. Nessuno mi aveva mai invitato a prendere il caffè. Mi aiutò a infilarmi il cappotto e aprì la porta con me, sfrecciandomi intorno come un rimorchiatore intorno alla Queen Elizabeth; era più basso di me di quindici centimetri, e probabilmente pesava trenta chili di meno. Una volta seduti l'uno di fronte all'altro in un caffè dei paraggi, andò subito al sodo. «Ti richiedo che tu sposi me.» «Cosa?» dissi. Si allungò verso di me attraverso il tavolo, con uno scintillio negli occhi neri. «Io sono serio. Voglio incontrare con tuo padre, e guarda, ti mostro il mio conto in banca.» Con mio grande imbarazzo vidi che spingeva verso di me un piccolo libretto di banca blu. «Mio padre?» balbettai. «Il tuo conto in banca...» «Vedi» disse, «io ho intenzioni giuste. Voglio aprire mio ristorante ora fra poco, ho risparmiato abbastanza. Tu sei una ragazza seria, non sei come tante in questo paese, sei una brava ragazza, ti ho guardata, e io non so come parlare. Tu lavoreresti al registratore di cassa per me e daresti il benvenuto ai clienti. Io cucinerei, roba molto migliore che là dentro.» Fece un gesto in direzione del Bocconcino, dall'altra parte della strada. «Servirò il
vino, chi altro se non un maiale, può mangiare senza vino?» «Ma» dissi. Per un momento, non mi venne in mente nessuna ragione per non dire di sì. Poi immaginai l'espressione sul viso di mia madre, quando fossi apparsa in fondo alla navata con quel piccolo straniero appeso al braccio a mo' di borsetta. «Ti darò bambini» disse, «tanti bambini, vedo che ti piacciono i bambini. Sei una brava ragazza. Poi, quando abbiamo abbastanza denaro, andiamo a visitare il mio paese. Vedrai che ti piacerà.» «Ma» dissi, «io non sono della tua religione.» Fece un cenno vago con la mano. «Cambierai.» Quando andai a Terremoto per la prima volta, si chiarì quel che vedeva in me: ero già fatta come una moglie, avevo la forma che quasi tutte le donne raggiungevano solo dopo anni. Io avevo cominciato un po' presto, ecco tutto. Ma a quel tempo non riuscii a vincere il sospetto che si stesse prendendo gioco di me; o le cose stavano così, oppure era semplicemente una proposta commerciale. Però, quanto sarebbe stato facile; perché, nonostante il suo formato ridotto, era chiaro che era abituato a prendere delle decisioni: non ne avrei più presa una in vita mia. Ma non volevo continuare a lungo a fare la cassiera. Non ero brava a fare le somme. «Grazie tante» dissi, «ma ho paura che sia impossibile.» Lui non si scoraggiò. Nelle poche settimane che seguirono si comportò come se si fosse aspettato il rifiuto, come se fosse una questione di forma. Da parte mia era stato decoroso e modesto rifiutare, e ora tutto quel che ci voleva era un po' di persuasione; con la dose adeguata, avrei finito per capitolare. Flirtava con me attraverso il passavivande quando andavo a ritirare le mie ordinazioni, mi faceva gli occhi da gatto e faceva vibrare i suoi baffetti marroni, mi chiamava al citofono per sospirare e scongiurarmi, senza smettere di tenermi d'occhio dal suo posto davanti alla piastra. Quando per me veniva il momento di fare una pausa e di cenare, mi cucinava delle cose care e proibite, ammassando gamberetti sul mio piatto, sapeva che mi piacevano - e mettendo in cima alla montagnola un ciuffetto di prezzemolo. Il mio appetito cominciava a diminuire, in parte a causa del contatto col cibo altrui per ore e ore di seguito, ma in parte anche perché ad ogni pasto avevo l'impressione che lui mi stesse corrompendo. Tutto questo aveva l'aria di una cerimonia, un atto che bisognava portare a termine prima che io mi arrendessi e facessi quel che voleva lui; eppure, come tutti i rituali nei quali si ha fede, era sincero e curiosamente commovente. Quell'uomo mi piaceva, ma mi rendeva inquieta. Sapevo di non me-
ritare quelle attenzioni, e inoltre avevano un che di assurdo; era come essere perseguitati da Charlie Chaplin. Fui molto sollevata quando la cassiera fissa tornò e io potei andarmene. Per un po', a scuola, fantasticai su quell'uomo (non ho mai saputo il suo nome; deciso com'era a diventare un canadese, persisteva nel dire che si chiamava John). In generale, lo vedevo esclusivamente come un paesaggio, una regione dal cielo blu e dal clima balsamico, con spiagge di sabbia bianca e una maestosa rovina classica su una scogliera, con dei pilastri; un luogo che sarebbe stato in spiccato contrasto con l'austera Toronto e i suoi sabbiosi venti invernali, il suo fango salato che rovinava gli stivali, o le sue estati umide e opprimenti; un luogo adatto a me, in cui sarei stata della misura giusta. A volte pensavo che sarebbe stato carino averlo sposato, sarebbe stato proprio come tenere uh animale domestico, perché con i suoi baffi morbidi e i suoi occhi neri sarebbe sembrato una simpatica bestiolina, uno scoiattolo o una lontra, che zampettava sul mio corpo, per lui enorme come una penisola. Ma a poco a poco queste immagini svanirono, e, sintonizzandomi in modo da non sentire il ronzio del professore di storia che parlava di risorse naturali e altre cose che non mi interessavano, ritornai a una fantasticheria più antica. In questa fantasticheria ero seduta sotto il tendone di un circo. Era buio, e stava per succedere qualcosa, l'attesa del pubblico era carica di tensione. Improvvisamente l'oscurità era tagliata da un occhio di bue che si concentrava su una piccola piattaforma in alto. Su di essa stava in piedi la Donna Cannone del baraccone dei fenomeni alla Mostra Nazionale del Canada. Indossava una calzamaglia rosa con le paillettes, un vaporoso gonnellino rosa, scarpette di raso e, sulla testa, uno scintillante diadema. Era ancora più grassa di come me l'ero immaginata, più grassa del suo rozzo ritratto dipinto sul tabellone pubblicitario, molto più grassa di me. Teneva in mano un minuscolo ombrellino rosa: era un surrogato delle ali che avrei tanto desiderato appuntare su di lei. Persino nelle mie fantasie rimanevo fedele ad alcune fondamentali norme di realismo. La folla scoppiava a ridere. Gridavano, la indicavano e la schernivano; cantavano canzoni offensive. Ma la Donna Cannone, incurante, cominciava a camminare con prudenza sull'alto filo, mentre la banda suonava una lenta, nobile melodia. Era evidente che si trattava di una cosa pericolosa per lei, era così enormemente grassa, come avrebbe fatto a mantenere l'equilibrio, lo avrebbe perso e sarebbe caduta. «Si ammazzerà» sussurravano, perché non c'era la rete di sicurezza. Piano piano, centimetro per cen-
timetro, la Donna Cannone avanzava sul filo, fermandosi per riguadagnare l'equilibrio, l'ombrello rosa arditamente sollevato sopra la testa. Passo dopo passo, le facevo compiere la sua traversata: oltre le segherie della costa occidentale, sulle distese di grano delle province delle praterie, camminava al di sopra delle miniere e dei fumaioli dell'Ontario, appariva tra le nuvole, come una rosea visione, ai contadini poveri della valle del San Lorenzo e ai pescatori di sgombri delle province atlantiche. «Gesù buono, che cos'è?» mormoravano, interrompendo il loro interminabile tirar di reti. Spesso barcollava, e la folla tratteneva il fiato; il filo oscillava, e lei concentrava tutte le sue forze in quella pericolosa traversata, perché cadere significava morire. Poi, un attimo prima del suono della campanella e della fine dell'ora questo era il trucco - arrivava in salvo dall'altra parte, e la gente si alzava in piedi, rendendole un fragoroso omaggio. Compariva una grande gru e la faceva scendere a terra. Forse pensate che io dessi il mio volto a questa Donna Cannone, ma non era così semplice. Aveva invece il viso di Theresa, la mia vilipesa compagna di sofferenze. A scuola la evitavo, ma non ero affatto un mostro senza cuore, desideravo riparare, avevo buone intenzioni. Sapevo l'analisi che Arthur avrebbe fatto di questa fantasticheria. Che peccato, avrebbe detto, quanto mi avevano fatto male i pregiudizi della società, costringendomi entro un modello di femminilità nel quale non sarei mai potuta entrare, infilandomi in quelle ridicole calzamaglie rosa, in quei lustrini, in quelle antiquate scarpette da ballo che rattrappivano il piede. Quanto sarebbe stato meglio per me se mi avessero accettata così com'ero e se anch'io avessi imparato ad accettarmi. Verissimo, giustissimo, parole sante. Ma le cose non erano così semplici. Io volevo quelle cose, volevo il vaporoso gonnellino, il diadema scintillante. Mi piacevano. Per quanto riguarda la Donna Cannone, sapevo benissimo che dopo la sua impresa, in cui aveva sfidato la morte, avrebbe dovuto ritornare al museo dei mostri, sedersi col suo lavoro a maglia, alla sua sedia gigante e farsi guardare a bocca aperta da chi aveva comprato il biglietto. Era quella la sua vera vita. 10 Frequentavo allora la terza classe al liceo di Braeside, e una domenica zia Lou mi invitò a cena. Fui sorpresa, perché sapevo che riservava la domenica sera a Robert, il ragioniere della sua ditta. Ma quando mi disse:
«Mettiti qualcosa di carino, tesoro» mi resi conto che me lo avrebbe fatto incontrare. Non avevo nulla di carino da mettermi, era tipico di zia Lou non tenerne conto. Misi la mia gonna di feltro, quella col telefono. Ero pronta ad essere gelosa di Robert. Me lo figuravo come un uomo alto, prepotente e sinistro, che approfittava dell'affetto di zia Lou. Invece era piccolo e lindo; l'uomo più azzimato che avessi mai visto. Zia Lou aveva persino messo in ordine il suo appartamento per lui, più o meno, anche se scorsi la punta di una calza di nailon fare capolino da sotto la poltrona migliore, seduto sulla quale Robert centellinava a fior di labbra il suo martini. Zia Lou era adorna dalla testa ai piedi: era piena di ciondoli, i suoi polsi tintinnavano, effondeva aromi tropicali. Mentre sfaccendava, dando gli ultimi tocchi al banchetto che ci aveva preparato, sembrava accendersi ed espandersi, invadendo tutta la stanza. Robert la contemplava come se fosse stata un meraviglioso tramonto. Mi chiesi se mai un uomo mi avrebbe guardata in quella maniera. «Mi chiedo cosa ci trova, tua zia, in un vecchio stecco come me» disse, rivolgendosi apparentemente a me ma in realtà a zia Lou. Zia Lou fece una risata che pareva un ruggito. «Non lasciarti trarre in inganno» disse. «Sotto sotto è un diavolo.» Terminata la mousse al cioccolato, zia Lou disse: «Joan, cara, ti piacerebbe venire in chiesa con noi?» Questa era una sorpresa ancora maggiore. Mia madre andava in chiesa per ragioni sociali; mi aveva inflitto vari anni di catechismo, con guanti bianchi, i cappelli rotondi di feltro blu marino assicurati da un elastico e polacchine di pelle lucida. Zia Lou aveva simpatizzato con me, quando le avevo detto che era noioso. Qualche volta mi aveva portato anche lei in una chiesetta anglicana, solo le domeniche di Pasqua, però, per gli inni, diceva, ma questo era tutto. Ora, comunque, si sistemò in cima alla testa uno dei suoi sbalorditivi cappellini, si incipriò il naso e prese in mano i guanti bianchi, con aria pratica. «Non è proprio una chiesa» mi disse, «ma Robert ci va ogni domenica.» Ci andammo con la macchina di Robert, che parcheggiò in una stretta straducola secondaria a nord del quartiere di Queen. Le case erano vecchie bifamiliari a due piani in mattoni rossi con verandine d'ingresso; i dintorni avevano un'aria squallida e decrepita. Una frangia di neve sporca bordava i prati. Una delle case spiccava sulle altre: aveva alle finestre delle tende scarlatte che risplendevano, illuminate dall'interno, e noi entrammo proprio in quella.
Nel vestibolo, su un tavolo, c'era un grande vassoio d'ottone, una pila di foglietti di carta e numerose matite; accanto, soprascarpe, stivali di gomma e galosce sgocciolavano sui giornali aperti. Zia Lou e Robert scrissero ognuno per conto proprio un numero su un foglietto, e poi misero il foglietto sul vassoio. «Scrivi anche tu un numero, cara» disse zia Lou. «Può darsi che tu riceva un messaggio.» «Un messaggio?» dissi. «Da chi?» «Beh, non si sa mai» disse zia Lou. «Ma potresti provare lo stesso.» Decisi di aspettare e vedere quel che sarebbe successo. Dopo essere passati oltre un paio di tende di velluto rosso porpora, ci ritrovammo nella Cappella, come imparai a chiamarla più avanti. Un tempo era stata il salotto della casa, ma ora conteneva cinque o sei file di seggiole pieghevoli come quelle per i tavoli da bridge, e su ognuna c'era un innario. In quella che era stata la sala da pranzo c'era un palco rialzato, con un pulpito coperto di velluto rosso, e un piccolo organo elettrico. Solo un terzo delle sedie erano occupate; la stanza si riempì un po' di più, prima dell'inizio della funzione, ma nel corso delle mie visite successive non la vidi mai completamente piena. La maggior parte dei membri abituali della congregazione erano piuttosto anziani, e molti soffrivano di tosse cronica. Zia Lou e Robert erano tra i più giovani. Prendemmo posto in prima fila, mia zia si agitava come una gallina, Robert diritto e compassato. Per un po' non accadde nulla; alle nostre spalle si sentiva gente che si schiariva la voce e camminava strisciando i piedi. Aprii l'innario, che era molto sottile, diversamente da quello anglicano. Innario Spiritualista, si chiamava, e sotto il titolo c'era un timbro che diceva Proprietà della Cappella del Giordano. Lessi due inni a caso. Uno parlava della gioconda traversata di un fiume per andare sull'Altra Sponda, dove le persone care erano in attesa. L'altro parlava degli spiriti benedetti di coloro che ci hanno preceduto, che vegliano su di noi per la nostra salvezza fin quando non raggiungeremo anche noi l'altra sponda. Quest'idea mi mise a disagio. Era già stato abbastanza sgradevole sentirmi dire a catechismo che Dio ti vede in ogni minuto e in ogni ora, e adesso dovevo fare i conti anche con tutta quella gente che non conoscevo nemmeno e che mi spiava. «Che razza di chiesa è?» sussurrai a zia Lou. «Sss, tesoro, cominciano» disse seraficamente zia Lou; effettivamente, le luci si abbassarono e una donna bassa con un abito di rayon marrone, orecchini d'oro a pasticca e una spilla dello stesso tipo attraversò il palco e cominciò a suonare l'organo elettrico. Un coro di voci tremule si levò in-
torno a me, sottili e acute, come un coro di grilli. A metà dell'inno due persone entrarono dalla porta che conduceva alla cucina, e si misero in piedi dietro al pulpito. Una, come venni a sapere, era il reverendo Leda Sprott, il capo. Era una donna di una certa età, dall'aspetto maestoso, con gli occhi e i capelli azzurri e il naso aquilino; indossava una lunga tunica di raso bianco e portava intorno al collo un nastro ricamato color porpora, simile a un segnalibro. L'altro era un uomo grigio e scarno che venne definito «Il signor Stewart, nostro medium ospite.» Più avanti mi chiesi in che senso era un ospite, dal momento che c'era sempre. Al termine di quell'inno, Leda Sprott alzò le mani sopra la testa. «Meditiamo» disse con voce profonda e sonora, e si fece il silenzio, rotto soltanto da un rumore di passi malsicuri che, oltrepassati i tendaggi rosso porpora, risuonavano lentamente su per le scale. Leda Sprott cominciò una breve preghiera, in cui chiedeva l'aiuto dei nostri cari che avevano raggiunto la somma luce per coloro tra di noi che ancora vagavano nelle nebbie di questo mondo. In lontananza udimmo il rumore di uno sciacquone, e i passi tornarono a scendere. «Ora riceveremo un messaggio ispiratore dal nostro medium ospite, il signor Stewart» disse il reverendo Leda, facendosi da parte. Quando smisi di andare dagli Spiritualisti, avevo praticamente imparato a memoria il messaggio del signor Stewart, perché era lo stesso ogni settimana. Ci diceva di non lasciarsi abbattere, di avere speranza; che quando il buio era più fitto, allora era quasi l'alba. Citò alcuni versi da «Non dire che la lotta a nulla giova» di Arthur Hugh Clough: Non solo dalle finestre d'oriente Entra la luce al nascer dell'aurora; Davanti il sole sorge lentamente, Ma ad occidente già la terra indora. E un altro verso, dalla stessa poesia: Se la speranza inganna, paura è menzognera. «La paura può davvero essere menzognera, amici miei, e questo mi fa pensare a una storiella che ho sentito l'altro giorno, e che può essere di aiuto a tutti noi, in quei momenti in cui ci sentiamo a terra, quando abbiamo l'impressione che niente sia importante e che non serva a nulla continuare a lottare. C'erano una volta due bruchi che camminavano per la strada l'uno accanto all'altro. Il bruco pessimista disse di essere venuto a sapere che presto avrebbero dovuto andare in un luogo stretto e oscuro,
dove sarebbero rimasti fermi e muti. 'Quella sarà la nostra fine' disse. Ma il bruco ottimista rispose: 'Quel posto buio è solo un bozzolo; lì ci riposeremo un po', e poi sorgeremo con delle bellissime ali; diverremo farfalle e voleremo verso il sole.' Ora, amici miei, quella strada era la Strada della Vita, e dipende da ognuno di noi scegliere quale dei due vogliamo essere, il bruco pessimista, pieno di tristezza, che attende solo la morte, oppure il bruco ottimista, pieno di speranza e fiducia, che attende la vita superiore.» Non sembrava che la congregazione se ne avesse a male perché il messaggio era sempre lo stesso. In effetti, probabilmente si sarebbero sentiti truffati se fosse cambiato. Dopo il messaggio, la donna vestita di rayon marrone raccoglieva le offerte, e poi si passava alle cose serie. Era per quello che tutti erano venuti, in realtà: i loro messaggi personali. La donna in rayon marrone portò il vassoio d'ottone: e Leda Sprott prese i foglietti di carta, uno alla volta. Li teneva in mano ancora piegati, chiudeva gli occhi e trasmetteva il messaggio. Poi li apriva e leggeva il numero. Quasi tutti i messaggi si riferivano alla salute: «C'è un'anziana signora dai capelli bianchi che irradia luce dalla testa, e dice, 'Sii prudente quando scendi le scale, soprattutto giovedì; dice anche la parola sulfur. Vuole metterti in guardia; ti manda molti saluti affettuosi'.» «C'è un uomo in kilt, che ha una collezione di cornamuse; dev'essere scozzese; ha i capelli rossi. Ti saluta affettuosamente e dice: 'Riduci i dolciumi, ti fanno male.' Sta dicendo - non riesco ad afferrare la parola. Si tratta di una specie di tappeto. 'Stai attenta ai tappeti,' ecco cosa sta dicendo.» Esauriti i foglietti di carta, il signor Stewart intervenne per trasmettere dei messaggi estemporanei, indicando i membri della congregazione e descrivendo gli spiriti che stavano in piedi dietro le loro sedie. E questo mi parve ancora più inquietante dei numeri: i messaggi di Leda Sprott sembravano provenire dall'interno della sua testa, ma il signor Stewart li trasmetteva a occhi aperti, riusciva veramente a vedere le persone morte in quella stanza. Mi rimpiattai goffamente sulla mia sedia, sperando che non mi indicasse. Dopo i messaggi si cantarono ancora degli inni; poi Leda Sprott ci ricordò la seduta di pranoterapia del martedì, la scrittura automatica del mercoledì e gli incontri privati del giovedì, e questo fu tutto. Ci fu un po' di agitazione e di calca nell'ingresso, mentre vari vecchietti si affannavano ad infilarsi le galosce. Davanti alla porta, la gente ringraziava Leda Sprott calorosamente; lei li conosceva quasi tutti e chiedeva: «Ha avuto quel che de-
siderava, signor Hearst?» «Come è andata, signora Dean?» «Butterò via quella medicina subito» rispondevano, o: «Era mio zio Herbert, quello era proprio il tipo di cappotto che portava lui.» «Allora, Robert» disse mia zia in macchina. «Mi spiace che non sia venuta stasera.» Robert era palesemente deluso. «Forse aveva da fare» disse. «Non so chi era l'altra donna, quella con l'abito da sera.» «Una donna prosperosa» disse zia Lou. «Ah, ah! Sembrava me.» Invitò Robert a salire per bere qualcosa, ma lui disse che si sentiva scoraggiato e che avrebbe fatto meglio a tornare a casa, così salii al suo posto e presi una cioccolata calda, dei pasticcini e un sandwich con i gamberetti. Zia Lou prese un doppio whisky. «Si tratta di sua madre» disse. «È la terza settimana di seguito che non si fa vedere. È sempre stata un po' negligente. La moglie di Robert non la poteva sopportare, e ora si rifiuta completamente di accompagnarlo in chiesa. 'Se mai ti riuscisse di parlare con quel vecchio mostro' gli ha detto, 'io non voglio esserci.' Io la trovo piuttosto crudele, non credi?» «Zia Lou» dissi, «credi davvero a tutte quelle storie?» «Beh, non si può mai sapere, no?» disse. «Li ho visti trasmettere un sacco di messaggi esatti. Alcuni non significano granché, ma altri sono piuttosto utili.» «Potrebbe essere solo lettura del pensiero» dissi. «Non so come facciano» disse zia Lou, «ma trovano tutti che è di grande conforto. Anche Robert, e inoltre gli fa piacere che me ne interessi. Penso che bisogna essere di larghe vedute.» «A me fanno venire la tremarella» dissi. «Io continuo a ricevere messaggi da quello scozzese» disse zia Lou, meditabonda. «Quello con i capelli rossi e le cornamuse. Chissà che cosa voleva dire con quei tappeti. Forse intendeva dire 'cagnetti,' e magari mi morderà un cane randagio.» «Chi è?» chiesi. «Non ne ho la più pallida idea» disse zia Lou. «Nessuno che io conosca ha mai suonato la cornamusa. Certamente non è un parente.» «Oh» dissi con sollievo. «Gliel'hai detto?» «Non me lo sogno nemmeno» disse zia Lou. «Non voglio mortificarli.» Presi l'abitudine di andare regolarmente alla Cappella del Giordano, la domenica sera. Zia Lou preferivo incontrarla lì, piuttosto che andare al cinema, perché così avevo l'assoluta certezza che nessuno del liceo di Brae-
side mi avrebbe scoperta. Persi addirittura un po' di tempo meditando tormentosamente sulle dottrine spiritualiste: se l'Altra Sponda era tanto magnifica, perché gli spiriti consacravano la maggior parte dei loro messaggi a consigli precauzionali? Invece di dire ai loro cari di evitare scale sdrucciolevoli, auto pericolose e alimenti amidacei, avrebbero dovuto attirarli in cima alle scogliere, sui ponti e dentro ai laghi, spronandoli a sempre maggiori imprese all'insegna dell'intemperanza e della gola, in modo da affrettarne il passaggio alla spiaggia più luminosa. Alcuni Spiritualisti credevano anche nelle incarnazioni multiple, e altri all'Atlantide. Alcuni erano cristiani normali. A Leda Sprott, non importava in che cosa si credesse, le bastava che si credesse ai suoi poteri. Io ero disposta ad assistere al tutto con la stessa sospensione d'incredulità che accordavo ai film, ma non arrivavo mai fino a mettere un numero sul vassoio. Non conoscevo nessun morto, e non desideravo conoscerne. Eppure una sera un messaggio lo ricevetti, molto più strano di quanto avessi temuto. Fu durante la seduta con i numeri di Leda Sprott, che stava per elaborare l'ultimo biglietto piegato del vassoio. Come al solito aveva chiuso gli occhi, ma poi li aprì improvvisamente. «Ho un messaggio urgente» disse, «per una persona senza numero.» Guardava dritto dritto verso di me. «C'è una donna dietro la tua sedia. Ha circa trent'anni, ha i capelli scuri e porta un tailleur blu marino con il colletto bianco e un paio di guanti bianchi. Vuole dirti... che cosa? È molto infelice per via di qualcosa... Mi sembra di capire il nome Joan. Mi dispiace, non riesco a sentire...» Leda Sprott si mise in ascolto per un minuto, poi disse: «Non riusciva a comunicare, c'era troppa elettricità statica.» «È mia madre!» dissi a zia Lou in un sussurro perforante. «E pensare che non è ancora morta!» Ero spaventata, ma anche indignata: mia madre aveva rotto le regole del gioco. In caso contrario, Leda Sprott era un'imbrogliona. Ma come faceva a sapere che aspetto aveva mia madre? E se era andata in giro a curiosare, non avrebbe commesso l'errore di usare una persona viva. «Dopo, cara» disse zia Lou. Dopo la fine della funzione, affrontai Leda Sprott. «Era mia madre» dissi. «Sono contenta per te» disse Leda. «Ho avuto l'impressione che stesse cercando da tempo di mettersi in contatto con te. Deve essere molto preoccupata per te.» «Ma è ancora viva!» dissi. «Non è morta affatto!»
Gli occhi azzurri vacillarono, ma solo per un istante. «Allora dev'essere stato il suo corpo astrale» disse serenamente. «Capita, qualche volta, ma non incoraggiamo cose del genere, fanno confusione, e non sempre la ricezione è buona.» «Il suo corpo astrale?» Non avevo mai sentito parlare di una cosa del genere. Leda Sprott mi spiegò che tutti hanno un corpo astrale oltre a quello materiale, è che il corpo astrale era in grado di svolazzare autonomamente, attaccato al proprietario da qualcosa di simile a un lungo elastico. «Dev'essere entrata dalla finestra del bagno» disse. «La lasciamo sempre un po' aperta: il calorifero scalda troppo.» Mi disse che si doveva fare molta attenzione al proprio elastico; se si rompeva, il corpo astrale poteva rimanere isolato dal resto, e che sarebbe successo in quel caso? «Faresti la fine della pianta, pensa un po'» disse Leda Sprott. «Come quei casi di cui si legge, in ospedale. Noi diciamo sempre ai medici che in certi casi le operazioni al cervello fanno più male che bene. Dovrebbero lasciare sempre la finestra un po' aperta, in modo che il corpo astrale possa rientrare.» Questa teoria non mi garbava affatto. Soprattutto non mi piaceva l'idea di mia madre, sotto forma di una qualche gelatina spirituale, che mi rincorreva volando da un posto all'altro, con indosso (così pareva) il suo tailleur del 1949. E non volevo nemmeno sentirmi dire che era preoccupata per me: la sua preoccupazione significava sempre sofferenza per me, e mi rifiutai di crederci. «Robe da matti» esclamai, con la voce più brusca che avevo. Con mia sorpresa, Leda Sprott rise. «Oh, siamo abituati a sentircelo dire» disse. «Lo tolleriamo senza difficoltà.» Poi, con mio grande imbarazzo, mi prese una mano. «Tu hai delle grandi doti» disse, guardandomi negli occhi. «Dei grandi poteri. Dovresti svilupparli. Prova la scrittura automatica, i mercoledì. Non capisco se sei emittente o ricevente... ricevente, direi. Ti aiuterei volentieri a fare pratica; potresti riuscire meglio di molti di noi, ma bisogna lavorare sodo, e devo avvertirti che senza controllo c'è qualche pericolo. Non tutti gli spiriti sono benigni, sai. Ce ne sono di molto infelici. Quando mi infastidiscono troppo, sposto i mobili. Quella è una cosa che li disorienta completamente.» Mi accarezzò la mano, poi la lasciò andare. «Torna la settimana prossima e ne riparleremo.» Non ci tornai mai più. L'apparizione di mia madre mi aveva scossa (quando tornai a casa quella domenica sera, mia madre non aveva affatto l'aria di chi è reduce da viaggi astrali; era la solita, ed era anche un po' brilla). Il giudizio di Leda Sprott circa i miei grandi poteri mi atterrì ancor di
più, soprattutto perché dovevo ammettere che l'idea mi allettava. Nessuno mi aveva mai detto prima che avevo dei grandi poteri. Ebbi una breve, seducente visione di me stessa, avvolta in una fluente tunica bianca dall'orlo dorato, maestosa e irradiante magnetismo spirituale. Leda Sprott era piuttosto grassa... forse quello era il mio destino. Però non ero sicura di volere davvero quei grandi poteri. E se qualcosa fosse andato storto? E se avessi sbagliato pubblicamente, macroscopicamente? E se non fossero arrivati messaggi? Era più facile non provarci nemmeno. Deludere una congregazione sarebbe stato orribile, ma soprattutto quella della Cappella del Giordano. Erano tanto fiduciosi e gentili, con i loro colpi di tosse e le voci esili. Non potevo assumermi quella responsabilità. Parecchi mesi dopo mi confidai con zia Lou. Lei aveva notato subito il mio turbamento e non aveva insistito perché le raccontassi i dettagli. «Leda Sprott mi ha detto che possiedo dei grandi poteri» dissi. «Davvero, cara?» disse zia Lou. «A me ha detto la stessa cosa. Forse li abbiamo tutti e due.» «Mi ha detto che dovrei provare la scrittura automatica.» «Sai una cosa» disse zia Lou pensosa, «io ci ho provato. Magari penserai che sono stupida.» «No» dissi. «Vedi, ho sempre desiderato di sapere se mio marito è ancora vivo oppure no. Pensavo che, se non lo era avrebbe potuto usarmi, diciamo, il riguardo di farmelo sapere.» «Che cosa è successo?» chiesi. «Beh,» disse zia Lou lentamente, «fu piuttosto strano. Mi diede una penna a sfera, una normalissima penna a sfera. Mi aspettavo che mi desse, non so, una penna d'oca o qualcosa del genere. Poi accese una candela e la mise di fronte a uno specchio; dovevo fissare la candela, non quella vera, il riflesso. La fissai per un po' e non successe nulla, a parte il fatto che sentivo una specie di ronzio. Credo di essermi addormentata, o mi sono come assopita, solo per un minuto. Poi, venne l'ora di andare.» «Hai scritto qualcosa?» chiesi, impaziente di sapere. «Non proprio» disse zia Lou. «Soltanto una specie di scarabocchio, e alcune lettere.» «Allora forse è ancora vivo» dissi. «Non si può mai sapere» disse zia Lou. «Se è morto, sarebbe proprio nel suo stile non dirmi nulla. Lui voleva sempre tenermi nell'incertezza. Ma Leda Sprott mi disse che era un buon inizio, e che avrei dovuto tornare.
Disse che hanno bisogno di un po' di tempo per mettersi in contatto. «E tu ci sei tornata?» Zia Lou aggrottò le ciglia. «Robert voleva che lo facessi. Ma, vedi, non sono certa che sia una cosa buona. Avevo esaminato il foglio, dopo, e quel che avevo scritto non assomigliava per nulla alla mia calligrafia. Proprio per nulla. Non mi è piaciuto quel senso di essere come, beh, posseduta. Sentii che dovevo lasciar perdere, e se fossi in te farei lo stesso, cara. Non si vola con un'ala sola. Questo è quel che penso.» Nonostante il consiglio di zia Lou, l'idea di provare la scrittura automatica per conto mio, a casa, nella mia stanza da letto mi tentava molto, e una sera in cui i miei genitori erano usciti ci provai. Mi impadronii di una delle candele del salotto, di una penna a sfera rossa e del blocchetto per gli appunti di mia madre dal tavolino del telefono. Accesi la candela, spensi la luce della stanza da letto e mi sedetti di fronte allo specchio del tavolo da toilette, fissando la fiammella nello specchio, in attesa che qualcosa accadesse. Facevo dei grandi sforzi per muovere la mano consapevolmente: sarebbe stato imbrogliare, e volevo che fosse una cosa autentica. Non accadde nulla, oltre al fatto che la fiamma della candela sembrava diventare più grande. Poi, la prima cosa di cui mi accorsi fu che i miei capelli avevano preso fuoco: mi ero impercettibilmente chinata verso la candela. A quel tempo portavo la frangetta, e i capelli avevano cominciato a scoppiettare e sfrigolare. Mi detti una pacca sulla fronte e corsi in bagno; sul davanti i miei capelli erano malamente bruciacchiati, e dovetti tagliarli, il che provocò una scena con mia madre il giorno dopo, perché mi aveva appena dato un contributo di cinque dollari per il parrucchiere. Decisi che mi conveniva lasciar perdere la scrittura automatica. Eppure c'era qualcosa sul notes: un'unica lunga linea rossa che si snodava e si avvolgeva su se stessa, come un verme o un groviglio di lana. Non ricordavo di averla disegnata; ma se quel che aveva da dirmi l'Altra Sponda era tutto lì, perché prendermi quella briga? Per un po', durante i miei sogni ad occhi aperti a scuola, ricamai sul consiglio di Leda Sprott (potevo, bastava volerlo; umile esordio in un'oscura cappella; rivelazioni miracolose; la fama si diffonde; sale affollatissime; migliaia di persone ne traggono giovamento; commenti mormorati, ammirazione e reverenza - «Sarà anche una donna abbondante, ma che poteri!»). Dopo alcuni mesi, però, svanì gradualmente, lasciandomi soltanto il sermone del signor Stewart indelebilmente scolpito nel cervello e pronto a
venire a galla in momenti poco opportuni: il bruco pessimista e il bruco ottimista, che avanzavano centimetro per centimetro sulla Strada della Vita, assorti nel loro interminabile dialogo. Di solito stavo dalla parte del bruco ottimista, ma nei miei momenti più tristi pensavo: si diventa farfalle, e con ciò? Anche le farfalle muoiono. 11 Dopo il ristorante Il Bocconcino, il primo lavoro che trovai fu alla Fiera dello Sportivo. Si svolgeva ogni anno in marzo, sull'area destinata alla Mostra Nazionale, nell'edificio del Colosseum. Assomigliava a una mostra dell'auto o a una sagra d'autunno; tutti i commercianti di motoscafi, canoe in vetroresina e kayak avevano dei banchi di vendita, così come le ditte di canne da pesca e fucili. I Boy Scouts davano dimostrazioni sul modo di piantare le tende e accendere il fuoco, sgobbando in squadre, nelle loro divise verdi, intorno all'acciarino a trapano, con le ginocchia rosa che spuntavano nude dai pantaloncini corti. Accanto al loro stand, il Ministero dell'Agricoltura e Foreste aveva messo un manifesto sulla prevenzione degli incendi nei boschi. A ore fisse c'erano le danze indiane, eseguite da un gruppo di pellerossa amareggiati, in costumi troppo nuovi per sembrare veri. Sapevo che erano amareggiati perché mangiavano gli hot-dogs alla stessa bancarella dove andavo io, e ascoltavo quello che dicevano. Uno di loro mi chiamava «la Cicciona.» C'era anche una mostra di giochi acrobatici, con gare di lotta sui tronchi galleggianti e concorsi di lancio della lenza, c'era lo stand pomposo di Miss Ariaperta e una foca di nome Sharky che sapeva suonare Dio salvi la Regina, soffiando su una serie di cerbottane. Di tutti i lavori che avevo fatto, questo era quello che mi piaceva di più. Era disordinato e un po' volgare, e potevo camminare tra la folla senza sentirmi troppo fuori posto. Per quel che ne sapevano loro, avrei preferito essere un'esperta lanciatrice d'ami o una lottatrice sui tronchi. Andavo al lavoro dopo la scuola, e lavoravo tutto il giorno sabato e domenica. Durante la pausa per il pranzo, mangiavo cinque o sei hot-dogs e bevevo qualche Honey Dew, poi me ne andavo a zonzo, fermandomi a guardare la mostra della moda sportiva femminile, l'ultima parola in fatto di giacche a vento e giubbotti di salvataggio di kapok, che Miss Ariaperta interrompeva con una dimostrazione della sua tecnica speciale di lancio dell'esca; oppure, andavo sotto una delle gallerie della tribuna a vedere qualcuno che tirava
una freccia a un palloncino, tenendosi in equilibrio sulla sponda di una canoa, due uomini in equilibrio su un tronco galleggiante che si prendevano a spintoni cercando di buttarsi a vicenda nella piscina di plastica. Il mio lavoro era piuttosto semplice. Stavo dietro il baraccone del tiro con l'arco, con indosso un tascone di pelle rossa per gli spiccioli ed ero addetta al noleggio delle frecce. Quando i barilotti di frecce erano quasi vuoti, mi dirigevo verso i bersagli di paglia, lasciando i clienti in piedi oltre la fune limite: bambini, giovanotti amanti dello sport con le loro mogli o ragazze, pochi ragazzi in giubbotti di pelle nera che di solito bighellonavano intorno al baraccone del tiro a segno. Estraevo le frecce, le lasciavo cadere nei barilotti e ricominciavo da capo. Con me lavoravano altre due persone. Rob richiamava i clienti con i suoi discorsi; aveva fatto esperienza come venditore ambulante e imbonitore, lavorava alla Mostra Nazionale in estate, sulle piste, ai chioschi dello zucchero filato, nei giochi del tipo 'Vincete una bambolina'. Si metteva in piedi sugli orli di un barilotto e diceva: «Tre per dieci cents, nove per venticinque, avvicinatevi e dimostrate la vostra abilità, rompete il palloncino e avrete una freccia gratis, le va di provare, signorina?» Bert, una timida matricola universitaria con gli occhiali e maglioni a girocollo, mi aiutava a distribuire le frecce e a riscuotere il denaro. Il difficile era che non potevamo accertarci che tutte le frecce fossero state tirate prima di andare a sbarazzare i bersagli. Rob gridava: «GIÙ gli archi prego, VIA le frecce dalla corda», ma ogni tanto qualcuno lasciava partire una freccia, di proposito o per errore. Fu così che mi colpirono. Avevamo estratto le frecce, e gli uomini stavano riportando i barilotti alla fune; io stavo sostituendo la parte anteriore di un bersaglio e mi ero appena chinata per infilare l'ultima puntina, quando sentii qualcosa che mi colpiva alla natica sinistra. Udii un suono alle mie spalle, una specie di grido ilare, e Rob strillò: «Chi è stato?» prima che avessi il tempo di avvertire qualunque dolore. Il tizio che mi aveva colpito disse di non averlo fatto apposta, ma non ci credetti: alla vista del mio fondoschiena tondo come la luna non aveva saputo resistere. Fui costretta ad andare al pronto soccorso per farmi estrarre la freccia, e dovetti rimboccarmi la gonna mentre la ferita veniva tamponata e bendata. Per fortuna era solo una freccia da bersaglio e non era entrata molto in profondità. «È solo una ferita superficiale» disse l'infermiera. Rob voleva che andassi a casa, ma insistetti per restare fino all'ora di chiusura. Dopo mi accompagnò lui a casa, a bordo della sua antica Volkswagen. Fu molto ca-
rino. Era molto cinico su tutto, però simpatizzava con chiunque fosse rimasto ferito a causa di quel genere di rischi professionali. Anche lui una volta aveva rischiato per un pelo di essere ucciso da un vagoncino Totosprint che aveva deragliato. Quando ci fermammo a un semaforo rosso, staccò la destra dal volante e mi dette uno scappellotto a mo' di carezza sul ginocchio. «Peccato per te che non puoi far pipì in piedi», disse scherzando. Quella fu la mia terza esperienza sessuale. Quando entrai in casa dalla porta davanti, sentii mio padre chiamarmi dal salotto, il che era strano. Oramai i miei genitori mi lasciavano andare e venire a mio piacimento. Erano seduti ai loro soliti posti. Mio padre aveva un'aria afflitta ed esaurita, mia madre sembrava furibonda. «Abbiamo delle brutte notizie da darti, Joan» disse dolcemente mio padre. «Tua zia Lou è morta» disse mia madre. «Di un attacco cardiaco. L'avevo sempre saputo.» Per quanto riguardava i disastri, le previsioni di mia madre erano esatte in modo scoraggiante. Da principio non ci credetti. Ebbi l'impulso di sedermi e lo feci, pesantemente. Lanciai un guaito di dolore. «Ma che diavolo...» disse mia madre. «Mi hanno tirato una freccia» spiegai. «Nel didietro.» Mia madre mi guardò come se fossi stata fuori di me. «È proprio nel tuo stile» disse, come se fosse stata colpa mia. «Ti ha lasciato del denaro» proseguì in tono belluino. «È la cosa più cretina che abbia mai sentito. Secondo me, è una totale e completa perdita di tempo.» Mia madre, che non era tipo da menare il can per l'aia, era andata nell'appartamento di mia zia Lou non appena ricevuta la notizia dall'amministratore del condominio, che aveva trovato la povera zia Lou sul pavimento del bagno, con indosso il suo kimono. Era scivolata sul tappetino del bagno, prima o dopo l'attacco. Il vero testamento ce l'aveva l'avvocato di zia Lou, ma mia madre ne aveva trovato una copia tra le sue carte. «Un caos» disse. «L'appartamento è tutto un caos. Dovrai venire con me e darmi una mano.» Noi eravamo gli unici parenti di zia Lou. Zia Lou mi aveva davvero lasciato del denaro. Duemila dollari, di fatto, che a quell'epoca erano molti, per una persona della mia età. Ma c'era una condizione: li avrei avuti solo se dimagrivo, e zia Lou aveva anche scelto il giusto peso. Avrei dovuto perdere quarantacinque chili. Era per questo che mia madre si era arrabbiata tanto. Non credeva che ne sarei stata capace. Ai suoi occhi, tanto valeva buttare via quel denaro. L'u-
nico altro erede era il marito di zia Lou, il giocatore, ammesso che potesse essere rintracciato. Passai la notte piangendo la morte di zia Lou, spasmodicamente e rumorosamente, anche se le mie lacrime non erano del tutto sentite, perché non ero ancora convinta che fosse morta. Mi resi conto che la sua scomparsa era definitiva solo la mattina dopo quando, con la testa vuota per la mancanza di sonno, seguii zoppicando mia madre nell'appartamento ora deserto. Non era molto cambiato da quando l'avevo visto l'ultima volta, ma senza la baldanza e la vitalità di zia Lou appariva sciatto, sporco, addirittura squallido. Zia Lou dava l'impressione di aver voluto quel disordine, di averlo addirittura progettato. Ora sembrava solo negligenza, o peggio ancora, era come se qualcuno l'avesse perquisito, cercando qualcosa che non si trovava e gettando oggetti e vestiti qua e là senza alcun riguardo per il loro proprietario. Era evidente che zia Lou non si aspettava di morire, altrimenti sarebbe stata più ordinata. Ma d'altra parte doveva esserselo aspettato, altrimenti non avrebbe lasciato quel suo strano testamento. Ora in casa sua mi sentivo un'intrusa, come se avessimo fatto irruzione nella sua vita privata senza chiedere permesso, o stessimo osservando una scena intima attraverso un foro in un nodo del legno. Ma accadde di peggio. Mia madre cominciò a saccheggiare i suoi armadi, togliendo gli abiti dalle stampelle, ficcandoli a forza in una grande borsa marrone per le offerte agli Invalidi Civili che aveva portato con sé e commentandoli via via. «Guarda questo, per favore», disse a proposito del miglior abito da sera di zia Lou, coperto di lustrini dorati. «Pacchiano.» Vidi zia Lou scomparire a pezzo a pezzo nella borsa di carta marrone che la inghiottiva senza tregua, con i suoi vestiti briosi, le sue sciarpe allegre e le sue stravaganze, le prese in giro di se stessa che mia madre prendeva sul serio (quella camicetta rossa magenta, ad esempio), e non lo sopportai. Riuscii a trarre in salvo la volpe, infilandola surrettiziamente nella mia borsa mentre mia madre mi dava le spalle. Poi andai in cucina, per comunicare spiritualmente con zia Lou un'ultima volta, tramite il suo frigorifero. Mia madre non fece commenti e non protestò perché non la aiutavo; sentivo in modo oscuro che non mi aveva portata con sé per aiutarla in caso di necessità, ma per punirmi, tortuosamente, del mio amore verso zia Lou quando era viva. Nella credenza trovai una lattina di aragosta e mi feci un panino. La borsa di zia Lou era lì, e la aprii. Mi sentivo una spia, ma sapevo che mia madre più tardi l'avrebbe aperta e avrebbe gettato via il contenuto. Presi il portafoglio di zia Lou, il suo portacipria e uno dei suoi fazzoletti orlati di
pizzo che ancora aveva il suo odore caratteristico, e li misi nel mio borsellino. Non era un furto, ma un'operazione di salvataggio. Volevo mantenere in vita tutto quello che potevo di lei, visto che mia madre era fermamente decisa a cancellarla. Negli ultimi tempi mia madre aveva avuto un crollo, ma la morte di zia Lou la rianimò, dandole qualcosa da amministrare. Fu lei a dare le disposizioni per il funerale, con efficienza e con un certo tetro piacere. Mandò gli avvisi, rispose a biglietti e telefonate (venivano tutti dall'ufficio di zia Lou) e mise un annuncio sul giornale. Ma mio padre non se la sentiva. Aveva preso parecchi giorni di congedo dall'ospedale e girava per casa con le sue pantafole di pelle marrone, intralciando mia madre che sfaccendava e dicendo in continuazione «Povera Lou,» come un uccello malinconico. A parte questo, le uniche cose che mi disse furono: «Praticamente è stata lei a allevarmi» e «Mi ha fatto un paio di calzettoni a maglia durante la guerra. Erano della misura sbagliata.» Le aveva voluto bene ed era stato in confidenza con lei più di quanto avevo immaginato, eppure non potevo fare a meno di chiedermi come mai una persona allevata da zia Lou potesse essere diventata tanto inespressiva quanto mio padre. Lei diceva sempre: «Acqua cheta, acqua profonda» e «Se non sai dire niente di carino, meglio tacere.» Forse era questa la spiegazione. Non gli aveva lasciato del denaro, però: a lui non serviva, al giocatore sì, avrebbe argomentato. Zia Lou venne esposta nella camera mortuaria dell'impresa di pompe funebri O' Dacre, circondata da cesti di crisantemi bianchi (ordinati da mia madre) e vennero a vederla delle signorine della ditta di assorbenti igienici, tutte suppergiù di mezz'età, che tiravano su col naso rumorosamente, stringevano la mano a mia madre e dicevano che mia zia aveva avuto una stupenda personalità. Al funerale feci una pessima figura perché piansi troppo, e troppo forte. C'era anche Robert, il ragioniere, con gli occhi rossi e rimpiccioliti. Dopo la funzione mi premette la mano. «Si terrà in contatto» disse. «Possiamo contare su di lei.» Ma io non riuscivo a crederci. Quando tornammo a casa mia madre mi disse: «Bene, anche questa è finita.» Poi l'ultima cosa che ricordo fu che stavo guardando il soffitto del salotto. Ero svenuta, travolgendo un tavolinetto (scrostato), una lampada svedese moderna (rotta) e un posacenere di rame smaltato (illeso). Si scoprì che avevo la setticemia, causata dalla ferita della freccia. L'infermiera del pronto soccorso non l'aveva disinfettata abbastanza. Il medico disse che dovevo avere la febbre addosso ormai da giorni. È vero che ave-
vo avuto dei capogiri, mi ronzavano le orecchie e mi sembrava che gli oggetti intorno a me si restringessero e si allargassero, ma ne avevo dato la colpa al dolore. Mi misero a letto e mi fecero delle iniezioni di penicillina. Il medico disse che era un bene che fossi tanto grassa («carnosa» disse lui); sembrava sostenere una specie di teoria della carta assorbente, circa l'azione dei batteri sul grasso. Mia madre mi portò dei brodini a base di dadi di pollo sciolti nell'acqua calda. Mi venne una febbre da cavallo, e deliravo. Uno dei suoi risultati fu l'idea che la freccia mi aveva colpito nel preciso istante della morte di zia Lou, ed era stata guidata dal suo spirito al momento del trapasso. Me lo aveva fatto sapere, mi aveva detto addio, in modo piuttosto strambo, per la verità - e non avrebbe certo voluto che mi venisse la setticemia - ma molto in carattere con lei. Non mi liberai mai del tutto di questa idea, anche se sapevo che era troppo fantasiosa. A quel tempo mi tormentò molto; mi riempì davvero di rimorso, perché non avevo riconosciuto quel messaggio della morta, che era forse un grido d'aiuto. Avrei dovuto lasciar perdere tutto e correre a casa sua, senza fermarmi nemmeno per farmi togliere la freccia. Forse sarei arrivata in tempo. Mi sembrava di sentire la sua voce che mi diceva, da molto lontano: «Una parola in tempo ne salva cento» e «Per mancanza di un chiodo il cavaliere andò perduto», anche se sapevo che questi proverbi erano tutti e due sbagliati. Nei miei momenti di lucidità, e durante la convalescenza, pensai all'altro messaggio che mi aveva lasciato, quello del suo testamento. Come dovevo interpretarlo? Significava che zia Lou non mi aveva davvero preso per come ero, come avevo creduto, che anche lei mi trovava grottesca, che anche secondo lei non andavo? Oppure si trattava di una dimostrazione di pragmatismo da parte sua, perché si rendeva conto che la mia vita sarebbe stata più facile se fossi stata più magra? Mi aveva offerto il denaro per andare via, per fuggire da mia madre, e sapeva di questo mio desiderio; ma me lo aveva offerto in termini tali da costringermi alla resa, o almeno così pareva. Un giorno, mentre ero seduta nel letto e sfogliavo uno dei romanzi gialli di mio padre, mi accadde di gettare uno sguardo sul mio corpo. Mi ero liberata delle coperte, perché faceva caldo, e la mia camicia da notte era salita. Di solito non guardavo il mio corpo, né negli specchi né in altre maniere; ogni tanto lanciavo occhiate furtive alle singole parti, ma il tutto era troppo schiacciante. Ed ecco che lì, sotto ai miei occhi, c'era la mia coscia. Era enorme, oscena, sembrava un arto malato, di quelli che si vedono nelle
fotografie degli indigeni della giungla; si estendeva all'infinito, come una prateria fotografata dall'aeroplano, la carne non verde, ma di un bianco bluastro, attraversata da vene sinuose come fiumi. Aveva la misura di tre cosce normali. Pensai: questa è davvero la mia coscia. È davvero la mia, e poi pensai: non può assolutamente andare avanti così. Una volta ristabilita, dissi a mia madre che sarei dimagrita. Lei non mi credette, ma andai in centro, a Richmond Street, per pesarmi, com'era stabilito dal testamento, in presenza dell'avvocato di zia Lou, un certo signor Morrisey, che continuava a dire: «Era un bel tipo, tua zia.» Nel corso della mia malattia ero già dimagrita un po', e dovevo perdere ancora soltanto trentuno chili. In certo modo, mi aspettavo che una volta presa la mia decisione mi sarei sgonfiata facilmente, come un materassino di gomma. Volevo che la cosa avvenisse tutta d'un colpo, senza eccessivo sforzo da parte mia, e fui seccata quando mi accorsi che non era così. Cominciai a prendere le miracolose medicine di mia madre, tutte insieme: un paio di pillole dimagranti in mattinata, una dose di lassativi, mezza confezione di Slimfast, un po' di fiocchi di segale con del caffè nero, una trottatina intorno all'isolato per fare del moto. Naturalmente soffrii di alcuni spettacolosi effetti collaterali: accecanti emicranie, crampi allo stomaco, tachicardia causata dalle pillole dimagranti, nonché un'allarmante acutezza della vista. Il mondo, che per tanto tempo avevo visto come un insieme confuso, sul quale campeggiava in primo piano l'enorme ma poco indistinta definita sagoma di mia madre, venne nettamente messo a fuoco. La luce del sole e i colori vivaci mi ferivano gli occhi. Soffrivo di attacchi di debolezza e di preoccupanti, morbose ricadute durante le quali mangiavo senza sosta, come in stato di trance, tutto, ma proprio tutto quello che mi capitava tra le mani - ricordo con orrore di aver consumato nove porzioni di pollo fritto una dopo l'altra - finché il mio stomaco contratto e oltraggiato non protestava, e vomitavo. Per via della malattia avevo perso del tempo a scuola, e non riuscii a recuperarlo; era troppo difficile concentrarmi. Passavo le mattine lottando contro il pensiero dell'ora di pranzo, e i pomeriggi rimpiangendola. Divenni svogliata e scorbutica; dissi bruscamente alle mie amiche che non volevo più sentir parlare dei loro stupidi amichetti, mi rifiutai di dare una mano per le decorazioni del Ballo dei Maturandi, che doveva chiamarsi Follie d'Aprile. Ero stufa di fiori fatti con i Kleenex. I miei voti precipitarono, la mia pelle cedette e formò le pieghe flosce dei malati cronici o dei vecchi, cadendomi addosso come una informe tuta da sauna. Verso maggio fui sot-
toposta a un surreale colloquio con il Consulente per l'orientamento durante il quale io, con la testa ronzante per via della dieta rapida e il cervello che schizzava qua e là come un topo meccanico, fissavo a pupille dilatate quel poco credibile signore dai capelli grigio-argentei che mi diceva «Sappiamo che hai buone capacità, Joan. Qualcosa che non va, a casa?» «Mia zia è morta» risposi, e poi mi prese una ridarella talmente violenta che mi mancò il respiro. Per tutto il resto del nostro colloquio fu occupato a darmi pacche sulla schiena. Suppongo che abbia fatto una telefonata a mia madre. A casa passavo ore davanti allo specchio, spiando le mie sopracciglia, e poi la mia bocca, che cominciava a guadagnare terreno sul mio viso. Mi stavo restringendo. La vista di una persona grassa, che una volta mi ispirava sentimenti fraterni, ora mi rivoltava. L'ampia distesa di carne che si estendeva come una duna di sabbia dal mio mento fino alle mie caviglie cominciava a retrocedere, seno e fianchi ne emergevano come il sole. Degli sconosciuti, il cui sguardo in precedenza scivolava su di me e intorno a me come se non fossi esistita, cominciarono a guardarmi dai finestrini dei camion e dai cantieri; uno sguardo sospettoso, come quando un cane sbircia un idrante. Quanto a mia madre, all'inizio se ne compiacque, anche se si espresse a modo suo: «Bene, era ora, ma probabilmente è troppo tardi.» Poi, dal momento che perseveravo, mi diceva cose come: «Ti rovini la salute» e «Perché devi andare agli estremi in ogni cosa?» e addirittura «Dovresti mangiare qualcosa di più, morirai di fame.» Continuò a cucinare leccornie e lasciava biscotti e torte in giro per la cucina, dove sapeva che mi avrebbero tentata; mi resi conto che, in scala ridotta, l'aveva sempre fatto. Mentre mi facevo più snella, lei diventava instabile e insicura. Oramai beveva parecchio, e cominciava a dimenticare dove aveva messo le cose, se aveva mandato i suoi abiti in lavanderia, se aveva detto certe cose oppure no. A volte arrivava quasi a scongiurarmi di smettere di prendere le pillole e di riguardarmi di più; poi aveva degli eccessi d'ira, una rabbia caotica e sconnessa, diversa dalla sua furia premeditata di una volta. «Hai passato il limite» diceva con disprezzo. «Vattene via di qui; solo vederti mi fa star male.» Tutto sommato, l'unica spiegazione che riuscii a immaginare per il comportamento di mia madre era che farmi dimagrire costituiva l'ultimo progetto disponibile per lei. Aveva completato tutte le cose, non le era rimasto più nulla da fare, e aveva contato sul fatto che le sarei durata per sempre. Il suo turbamento avrebbe dovuto farmi piacere, invece ero confusa. Avevo
davvero creduto che se fossi diventata più magra mia madre sarebbe stata soddisfatta; una soddisfazione boriosa e da padrona, ma pur sempre una soddisfazione: era stata fatta la sua volontà. Invece era sconvolta. Un pomeriggio, dopo essermi trascinata a casa da scuola, indebolita dalla fame, mentre mi trovavo in cucina per mangiare l'unica galletta di segala che era la mia ricompensa, mia madre entrò dal salotto con aria smarrita e un bicchiere di scotch in mano, ancora in vestaglia rosa e pantofole di pelo. «Ma guardati» disse. «Mangiare, mangiare, ecco tutto quello che fai. Sei disgustosa, sul serio, e se io fossi in te mi vergognerei di mettere il naso fuori di casa.» Questo era il genere di discorsi che mi faceva quando ero grassa e lei tentava di farmi dimagrire a forza di intimidazione, ma sentivo che questa tirata non era più necessaria. «Madre» dissi, «sono a dieta, ricordi? Sto mangiando un pezzo di galletta di segale, se non ti dispiace, e ho perso trentasette chili. Appena ne avrò persi altri otto andrò nello studio del signor Morrisey a ritirare il denaro di zia Lou, e poi me ne andrò di casa.» Non avrei dovuto rivelarle i miei progetti. Mi guardò con una espressione di rabbia sul viso che rapidamente si tramutò in paura, e disse: «Dio non ti perdonerà! Dio non ti perdonerà mai!» Poi prese un coltello da frutta dal banco della cucina - l'avevo usato per spalmare dello stracchino sulla mia galletta - e me lo conficcò nel braccio, al di sopra del gomito. Forò il mio maglione, mi punse la pelle, poi rimbalzò e cadde per terra. Né io né lei riuscivamo a credere che l'avesse fatto. Sgranammo gli occhi tutti e due, poi raccolsi il coltello da frutta, lo poggiai sul tavolo della cucina e misi disinvoltamente la mano sinistra sul maglione all'altezza della ferita, come se me la fossi fatta da sola e stessi cercando di nasconderla. «Credo che mi farò una tazza di tè» dissi con fare conversevole. «Ne vuoi una, Madre?» «Buona idea» disse. «Una tazza di tè ti rimette sempre in sesto.» Prese posto vacillando su una delle sedie della cucina. «Venerdì vado a far compere» mi disse mentre riempivo il bollitore. «Immagino che tu non abbia voglia di venire.» «È una buona idea» risposi. Quella sera, quando in camera di mia madre non si sentirono più rumori - era andata a letto presto e mio padre era ancora in ospedale - feci una valigia e me ne andai. Avevo preso un grande spavento, non tanto a causa del coltello (il graffio non era profondo, e l'avevo pulito per bene accuratamente con il Dettol, per evitare la setticemia), quanto a causa dei suoi sen-
timenti religiosi. Dopo quel suo accenno a Dio, avevo concluso che doveva essere pazza. Benché mi avesse obbligata ad andare a catechismo, lei non era mai stata una donna religiosa. PARTE TERZA 12 Era una splendida mattina di sole. Attraverso le finestre la luce inondava a fiotti la biblioteca in cui sedeva Charlotte, vestita con semplicità nel suo modesto abito grigio dal colletto bianco, allacciato sotto la gola dalla spilla di sua madre, adorna di un cammeo. Quella spilla ridestava in lei tristi pensieri: sua madre, dalla quale aveva ereditato i pallidi e delicati lineamenti, l'aveva stretta tra le dita poco prima di morire. Le aveva sorriso, la guancia rigata da un'unica lacrima, e le aveva fatto promettere di dire sempre la verità, di essere pura, prudente e obbediente. «Quando arriverà l'uomo giusto, tesoro» le aveva detto, «tu lo sentirai; sarà il tuo cuore a dirtelo. Con il mio ultimo respiro prego per la tua salvezza.» Charlotte aveva sempre custodito gelosamente il ritratto del volto di sua madre, incorniciato da biondi riccioli lievemente ondulati, sottili come fili di seta, e animato da un sorriso triste, ma non privo di speranza. Charlotte si riscosse da questi malinconici pensieri. Si chinò nuovamente sul suo specchio da oreficeria; stava riparando il piccolo fermaglio di un braccialetto di smeraldi. Immaginò di sfuggita l'effetto degli smeraldi sulla pelle bianca di Felicia: il loro verde avrebbe messo in evidenza quello degli occhi di lei, armonizzando con le sue chiome di fuoco. Ma poi abbandonò anche queste riflessioni, che non erano degne di lei, e si concentrò sul lavoro che aveva tra le mani. Risuonò una risata sommessa, come il cinguettio sonnolento di un uccello tropicale. Charlotte alzò lo sguardo. Al di là delle leggere tende bianche vide una coppia che passeggiava a braccetto, immersa in quel che sembrava una conversazione confidenziale. Dai capelli rossi riconobbe Felicia, che indossava un costosissimo abito da mattina di velluto azzurro, guarnito allo scollo e ai polsi da piume di struzzo, e accompagnato da un elegantissimo cappello. Un manicotto d'ermellino le nascondeva le mani, e quando gettò il capo all'indietro in un'altra risata, il sole brillò sul suo collo latteo e sui denti minuscoli. L'uomo che era al suo fianco, e che ora si chinava verso di lei per sus-
surrarle qualcosa nell'orecchio, portava un corto mantello; nella sinistra inguantata teneva un frustino dal manico d'oro, che faceva dondolare con noncuranza. Charlotte pensò che certamente era Redmond, e la assalì una fitta di disappunto; ma quando lui si rizzò, presentandole il suo profilo, si accorse che quell'uomo, pur assomigliando senza dubbio a Redmond, non era lui. Redmond aveva il naso più pronunciatamente aquilino. Charlotte non aveva intenzione di origliare, ma non poté fare a meno di udire parte della conversazione. L'uomo disse qualcosa a bassa voce, e Felicia, scrollando sdegnosamente il capo e ridendo ancora una volta rispose: «No, ti sbagli... Redmond non sospetta nulla. In questi giorni si dedica completamente a quella pallida bambinetta che ha assunto perché ripari i miei smeraldi, e non ha occhi che per lei.» Che cosa voleva dire? Charlotte stava ancora osservando dalla finestra la coppia che si allontanava, quando un lieve rumore la fece voltare. Redmond, ritto sulla soglia, la osservava con lo sguardo fisso; i suoi occhi ardevano come tizzoni. «È di vostro gusto, la nuova amazzone di mia moglie?» le chiese, e il tono beffardo della sua voce le fece capire che l'aveva vista guardare fuori dalla finestra. Una vampa di rossore le salì alle guance: la accusava forse di curiosare, di spiare, di intromettersi? «Le dona moltissimo» rispose con riserbo. «Non ho potuto fare a meno di vederla, quando è passata tanto vicina alla finestra.» Redmond rise e venne verso di lei. Charlotte si alzò dalla sedia e indietreggiò verso gli scaffali carichi di libri dalla raffinata rilegatura in pelle, ognuno dei quali recava sul dorso lo stemma della famiglia Redmond inciso in oro. Il timore le faceva battere più forte il cuore. Il volto di Redmond era arrossato dall'alcool, benché fosse solo mezza mattina, e le vennero in mente gli strani racconti a proposito del suo comportamento che aveva ascoltato dalla buona signora Ryerson, la governante. Anche sua moglie Felicia, Lady Redmond, aveva una reputazione scandalosa. Grazie al loro rango, il pettegolezzo li risparmiava, ma Charlotte sapeva bene che se lei si fosse allontanata anche una sola volta dalla retta via sarebbe stata perduta, condannata a vagare nottetempo per le luride strade di Londra o a trovare asilo soltanto in una casa infamante. «Quel bel piumaggio non suscita la mia ammirazione» disse. «Il vostro abito, questo... sarebbe più adatto... ad una moglie. Ma la vostra pettinatura è troppo severa.» Le si accostò e le liberò una ciocca di capelli, poi
allungò una mano verso il suo collo e con le labbra cercò quelle di lei; i tratti del suo viso erano alterati e selvaggi. Charlotte si divincolava, cercando disperatamente qualche oggetto con cui difendersi. Afferrò una pesante edizione della Vita di Johnson, di Boswell: se avesse nuovamente tentato di umiliarla in quel modo, non avrebbe esitato a colpirlo. Lui non era certo il primo nobiluomo molesto che la costringeva a difendersi, e non era colpa sua se era giovane e graziosa. «Vi prego di ricordare, signore» gridò, «che mi trovo sola e indifesa sotto il vostro tetto. Non dimenticate i vostri doveri!» Redmond la guardò con una nuova considerazione; ma prima che avesse il tempo di replicare, si udì una risata profonda. Sulla soglia era apparsa Felicia, in tutto il suo opulento splendore, dondolando il cappello piumato sulla mano graziosa. Al suo fianco c'era lo sconosciuto in mantello. «Ben detto» disse lo sconosciuto, con un largo sorriso a Charlotte. «Redmond, mi auguro che tu lo prenda sul serio.» Felicia la ignorò e si rivolse a Redmond. «Ho l'impressione, Redmond, che la tua piccola signorina gioielliera vada troppo lenta con i miei smeraldi. Di certo non ci vuole tutto questo tempo per riaggiustare qualche fermaglio rotto e montare un paio di pietre. Quand'è che avrà terminato?» Sentendola parlare di lei così, in terza persona, Charlotte fremette, ma Redmond si inchinò a sua moglie, un inchino ironico. «Devi chiederglielo tu stessa, mia cara» disse. «Le vie dei professionisti sono insondabili, come quelle delle donne.» Si diresse verso la porta. «Molto gentile da parte tua fare una cavalcata fin qui, Otterly» disse, stringendo la mano all'altro sconosciuto. «Sai che sono sempre lieto di averti a pranzo con noi, anche quando non sei atteso.» «La mattina mi piace fare un po' di movimento: è corroborante» rispose l'uomo. I due si allontanarono. Felicia si trattenne un istante, e scrutò Charlotte con uno sguardo da intenditrice, come se fosse stata una suppellettile. «Se fossi in voi non rimarrei qui troppo a lungo» disse. «Le fognature di questa casa sono in cattivo stato; è stato appurato che, in caso di nature sensibili, come la vostra, possono influire negativamente sulla salute, e anche sulla mente. Ad ogni modo, se gradisce fare del moto, potrebbe farle piacere fare quattro passi nel nostro labirinto. Mi hanno detto che è interessante.» Uscì, maestosa, in un fruscio di velluto. Charlotte si sedette, smarrita in un vortice di emozioni confuse. Come
avevano osato trattarla in quel modo! Eppure, quand'era con Redmond, benché potesse essere tanto sgradevole, si era sorpresa a desiderare che la sua mano si trattenesse ancora un attimo sulla sua gola... E lo sconosciuto col mantello doveva essere il fratellastro di Redmond, il conte di Otterly. La signora Ryerson le aveva detto cose poco piacevoli sul suo conto. Era troppo scossa per continuare a lavorare. Ripose gli smeraldi nel loro cofanetto e lo chiuse a chiave; chiuse a chiave anche la stanza, secondo le istruzioni di Redmond, e si recò nella sua camera per ricomporsi. Ma quando aprì la porta della sua stanza da letto, dovette farsi forza per trattenere un grido. Là, steso sul suo letto, c'era il suo vestito buono di seta nera, ridotto a brandelli da una mano maligna. Larghi squarci si aprivano nella gonna, il corpetto era stato mutilato irreparabilmente, le maniche erano a pezzi. Sembrava che fosse stato adoperato uno strumento aguzzo, un coltello o delle forbici. Charlotte entrò nella stanza e chiuse la porta alle sue spalle. Si sentiva le ginocchia deboli e le girava un poco la testa. Chi era stato? Sapeva di aver lasciato il suo vestito nel guardaroba, quando era scesa per cominciare a lavorare ai gioielli. Aprì la porta del guardaroba... Tutti i suoi indumenti avevano subito lo stesso trattamento: il suo mantello da viaggio, l'altro vestito, la camicia da notte, le sottovesti, la mantellina. Non le era rimasto nulla da mettersi, tranne gli abiti che aveva indosso. Ma perché? si chiese mentre, tremando, si accasciava sul suo letto piccolo e duro. Le venne in mente che qualcuno voleva farle paura perché partisse da Redmond Grange... oppure si trattava di un avvertimento, di un segno lasciato da un amico. Aveva cercato un biglietto, ma non c'era. Soltanto quei tagli sinistri. Era uscita dalla sua camera alle nove; aveva fatto colazione, poi aveva lavorato da sola fino alle undici e mezza, quando aveva ascoltato la conversazione tra Felicia e Otterly. Nel frattempo, chiunque, tra i membri della famiglia e della servitù - oppure qualcuno che veniva dall'esterno! - avrebbe potuto entrare nella sua camera senza che lei lo vedesse e aver commesso il fatto. Redmond, Felicia, Otterly, la buona signora Ryerson... le cameriere, la cuoca, William, il giardiniere, Tom il cocchiere, dal sorriso di topo. Poteva essere stato chiunque. Ricordò con apprensione le osservazioni di Felicia circa il cattivo stato delle condutture. Era stata una minaccia? E se non avesse dato ascolto a quell'avvertimento, fino a che punto sarebbe stato disposto ad arrivare, il
suo nemico sconosciuto, pur di liberare Redmond Grange della sua presenza... per sempre? Questo è quanto scrissi a Terremoto, col mio pennarello verde mela. Ci misi quattro giorni: un ritmo decisamente troppo lento. Di solito scrivevo i miei romanzi gotici direttamente alla macchina per scrivere, con gli occhi chiusi. Essere costretta a vedere quel che scrivevo in un certo senso mi inibiva, e il verde mela lo faceva sembrare più fosco di quanto avessi voluto. Decisi che dovevo fare un viaggio a Roma, per la macchina per scrivere e la tintura. Di quel passo non avrei mai finito la storia di Charlotte, e il futuro delle mie finanze dipendeva dal suo. Prima la stabilivo in un luogo sicuro e meglio era. Per il momento era in pericolo, la mia eterna vergine in fuga, la mia dea del guadagno rapido. A darle la caccia erano la sinistra magione, il padrone di casa e forse anche la padrona. Il cerchio si stringeva attorno a lei, anche se fino a quel punto era stata piena di buon senso. Era una ragazza coraggiosa che si rifiutava di cedere alle intimidazioni. Altrimenti se ne sarebbe andata con la prima carrozza. Nemmeno io avevo la minima idea su chi poteva essere stato a fare a pezzi i suoi vestiti. Redmond, naturalmente, le avrebbe rifatto il guardaroba, che le sarebbe andato a pennello, diversamente dai logori abiti smessi che portava prima. Lei avrebbe accettato con titubanza, ma cos'altro poteva fare? Di suo non aveva nemmeno uno spillo. Gli abiti delle mie eroine facevano sempre una brutta fine: abbondantemente macchiati d'inchiostro, sforacchiati da bruciature, gettati dalle finestre, fatti a brandelli, strappati. In Le torri di Tantripp qualcuno li imbottiva di paglia, come uno spaventapasseri o un fantoccio voodoo, e li lasciava galleggiare sulla corrente di un fiume. Una volta vennero sepolti in cantina. A Felicia, però, non sarebbe piaciuto il nuovo guardaroba di Charlotte. «Se hai intenzione di prenderti per amante quella ragazza, Redmond» avrebbe detto, a portata di orecchio di Charlotte, «preferirei che tu lo facessi altrove.» Era una donna cinica, abituata alle sue scappatelle. Rimisi il manoscritto al suo posto nel cassetto della biancheria, indossai il mio travestimento e mi misi in marcia per Roma, avendo cura di chiudere a chiave la porta dietro di me. Guidare in Italia mi innervosiva. La gente manovrava le macchine come se fossero state cavalli. Non ragionavano in termini di strade, ma tenevano conto soltanto di dove volevano andare: la strada è là dove ti vogliono far
andare gli altri, ergo, la strada è un insulto. Ammiravo quel modo di pensare, a patto di non essere al volante. Se c'ero, mi rendeva tesa. La strada fuori dal paese era una serie di curve a zigzag, senza barriere o segnali dalla parte della scarpata. Durante la discesa suonai il claxon senza sosta, mettendo in fuga polli e bambini. Arrivai a Tivoli senza incidenti, e poi mi avviai verso la collina che porta in pianura. Apparve Roma, sospesa in lontananza. Quanto più mi avvicinavo alla città, tanto più vedevo terreni incolti, tubi enormi e parti di macchinari rosse, blu e arancioni disseminate lungo l'autostrada come ossa di dinosauri. Gli uomini scavavano, sterravano, smontavano, abbandonavano; cominciava ad assomigliare all'America del Nord, a tutte le grandi periferie. Ora sulla strada si accalcavano camion, piccoli e grandi, che portavano a rimorchio altri tubi, altre macchine, in entrata e in uscita, ma non sarei stata in grado di dire se questa era una prova di crescita o un declino. Per quel che ne sapevo, l'Italia magari vacillava sull'orlo del caos e sarebbe piombata nella carestia e nella guerra civile nel giro di una settimana. Ma non potevo leggere i giornali, e le catastrofi paesaggistiche rimanevano invisibili per me, nonostante i tubi e le macchine; scivolavo via serenamente come in un filmino turistico, il cielo era azzurro e la luce del sole dorata. Enormi casermoni squadrati fiancheggiavano la strada per Roma, dai balconi pendevano festoni di panni stesi, ma non riuscivo a immaginare la vita che si viveva al loro interno. Nel mio paese l'avrei saputo, ma qui ero sorda e muta. Mi feci strada nel traffico soffocante e trovai un parcheggio. L'ufficio dell'American Express era affollato; lunghe file di donne con gli occhiali da sole come i miei e di uomini in spiegazzati abiti estivi si accalcavano agli sportelli. Il dollaro americano era instabile e le banche si rifiutavano di convertire in denaro i traveller's cheques. Avrei fatto meglio a prendere dei dollari canadesi, pensai. Dopo aver atteso il mio turno, mi dettero del nuovo denaro, e mi misi alla ricerca di una macchina per scrivere. Con l'aiuto del mio limitato vocabolario e facendo segni con le dita, trovai una Olivetti portatile di seconda mano e la comprai. Uscii dal negozio appesantita dalla macchina per scrivere, eppure mi sentivo leggera come una ballerina, anonima e inosservata tra la gente che sfilava sul marciapiede e che non sarei mai stata costretta a conoscere. Poi, improvvisamente, mi ricordai di Arthur. Lui era stato lì con me, eravamo stati insieme sulla stessa strada, me lo sentivo ancora accanto, in carne ed ossa. Ci eravamo tenuti per mano. Ci eravamo fermati a consulta-
re la nostra pianta proprio lì, di fronte a quel negozio, che aveva persino lo stesso odore. Era successo davvero o me lo stavo immaginando? Avevamo davvero camminato insieme nel labirinto delle strade romane, vagando per le strade tortuose in una Fiat presa a noleggio, eravamo passati per l'Appia Antica con le sue tombe e i suoi favoleggiati fantasmi, eravamo scesi nelle Catacombe, stipate di vecchi scheletri di cristiani, guidati da un piccolo sacerdote bulgaro, per poi tornare all'aperto dopo mezz'ora? Eravamo stati noi a fare più volte il giro del Colosseo nella vana ricerca dell'uscita giusta, mentre i camion sfrecciavano fragorosamente da entrambe le parti, carichi di metallo e cemento, di pilastri, di leoni per i giochi, di bottino, di schiavi? I piedi mi facevano molto male, ma ero felice. Arthur era con me, e ora non c'era più, avevamo camminato lungo una strada come questa e poi il futuro ci aveva travolti, finendo per separarci. Ora lui era lontanissimo, al di là dell'oceano, su una spiaggia: il vento gli arruffava i capelli e distinguevo a malapena i tratti del suo viso. Si stava allontanando da me a velocità sempre maggiore, verso il paese dei morti, il paese del passato perduto, irrecuperabile. 13 Avevo incontrato Arthur per la prima volta a Hyde Park. Era stato un caso: lo avevo urtato tra un oratore antivivisezionista e un uomo che profetizzava la fine del mondo. Vivevo insieme a un conte polacco a Londra in quel periodo, e ancora non sapevo bene come mi ero messa in quella situazione. Due anni prima quando ero uscita dalla porta della casa di mia madre, chiudendola piano per non svegliarla, non avevo progetti di quel genere. In realtà non avevo nessun progetto. Con una mano portavo la valigia, e nell'altra tenevo la mia borsetta. La valigia conteneva i pochi indumenti che ancora potevo mettere: gonne con la cintura che si poteva stringere, camicette che si potevano raccogliere e infilare nelle gonne; nell'anno in cui dimagrii dovetti smettere un intero guardaroba. Era le fine di giugno, e avevo quasi diciannove anni. Avevo sostenuto gli esami per il diploma, e sapevo di non aver superato almeno quattro prove, ma fino ad agosto i risultati non sarebbero usciti. Comunque non me ne importava nulla. In valigia avevo la volpe di zia Lou, in borsetta il suo certificato di nascita e la nostra fotografia alla Mostra Nazionale. Avevo circa trenta dollari: diciassette erano miei, tredici li avevo presi dal salvadanaio per le pic-
cole spese che mia madre teneva in cucina: li avrei resi più avanti. Non potevo riscuotere l'eredità di zia Lou perché ancora pesavo troppo, però in banca avevo del denaro guadagnato con i miei lavori e il mattino seguente avrei potuto ritirarne un po'. Presi un autobus per il centro e chiesi una camera all'albergo Royal York. Ero nervosa: in vita mia non avevo mai dormito in un albergo prima d'allora. Detti il nome di zia Lou, per evitare che mia madre mi rintracciasse: era una stupidaggine, perché mia madre avrebbe immediatamente riconosciuto il nome della zia, ma non ci pensai. Mi aspettavo invece che l'impiegato del ricevimento mettesse in dubbio il fatto che ero maggiorenne, e a quel punto avrei potuto sciorinare il certificato di nascita di zia Lou e dimostrare che avevo quarantanove anni. Ma lui si limitò a dire: «C'è qualcuno insieme a lei?» «No» risposi. Lanciò uno sguardo circolare nella hall dorata, oltre le mie spalle, per assicurarsi che gli avevo detto la verità. Sul momento non mi venne in mente che poteva avere il sospetto che fossi una prostituta. Attribuii il mio successo non tanto al fatto che la hall era deserta, quanto ai guanti bianchi che mi ero messa, come simbolo di maturità e signorilità. «Una signora non esce mai di casa senza mettersi i guanti» diceva mia madre. Zia Lou perdeva guanti in continuazione. (Forse è proprio all'albergo Royal York, luogo di delizie ottocentesche e posticcio palazzo incantato, con i suoi tappeto rossi e i suoi lampadari, gli stucchi e le cornici, gli specchi a tutta parete e i lisi divani di velluto, gli ascensori rifiniti in ottone, che si potrebbero far risalire le prime avvisaglie della mia creatività. A me, un tale edificio sembrava destinato a creature ben diverse dai panciuti uomini d'affari e dalle loro scialbe consorti che lo frequentavano abitualmente. Esigeva vestiti da sera, classe, ventagli, abiti che lasciavano le spalle scoperte, come quelli che apparivano sulle scatole di cioccolatini Laura Secord, Selezione d'Estate, crinoline e signori azzimati. Rimasi desolata quando lo rimodernarono.) Quando il fattorino finalmente se ne andò - era rimasto oziosamente nella mia camera per un sacco di tempo, accendendo e spegnendo le luci, aprendo e chiudendo le tende alla veneziana, finché non mi ero ricordata quel che avevo letto sulle mance - aprii tutti i cassetti della scrivania. Morivo dalla voglia di scrivere un elegante biglietto su un'aristocratica carta da lettera, ma non avevo assolutamente nessuno a cui scrivere. Feci il bagno, e adoperai tutti gli asciugamani col monogramma dell'albergo. Mi lavai i capelli e li avvolsi su dei bigodini coperti da una reticella di plastica.
Quando ero grassa avevo sempre portato i capelli cortissimi, cosa che metteva in risalto la rotondità del mio viso. Mia madre mi proponeva di continuo delle pettinature migliori; voleva che me li tagliassi alla paggetta, poi alla tifo, ma avevo sempre rifiutato. Ora però era da un anno che mi lasciavo crescere i capelli e mi arrivavano alle spalle: erano rosso-scuri e lisci. Non li portavo sciolti, ma li trattenevo con due mollette dietro le orecchie. Quand'ebbi finito di avvolgermi ordinatamente i capelli, mi piazzai di fronte allo specchio intero sul retro della porta del bagno e mi esaminai, un po' come un agente immobiliare potrebbe esaminare un acquitrino, con un occhio ai possibili sviluppi futuri. Pesavo troppo ed ero ancora informe. Avevo delle smagliature sulle cosce, e la faccia di una casalinga trentacinquenne con quattro bambini e un marito sempre in giro: avevo un aspetto esaurito. Però avevo gli occhi verdi e i denti piccoli e bianchi, e fortunatamente non avevo brufoli. Dovevo perdere soltanto otto chili. Il mattino dopo comprai un giornale e scorsi la piccola pubblicità, cercando una stanza. Ne trovai una in Isabella Street, chiamai la padrona di casa e al telefono mi descrissi come un'impiegata di venticinque anni, non fumatrice e astemia. Mi tirai indietro i capelli, infilai i miei guanti bianchi e andai a vederlo. Dissi di chiamarmi Louisa K. Delacourt, e usai lo stesso nome anche per aprire un nuovo conto in banca più tardi. Ritirai tutto il mio denaro dall'altro conto, e lo chiusi: non volevo che mia madre mi scovasse. Questo segnò l'inizio ufficiale della mia seconda identità. Mi sorprese la facilità con la quale tutti mi credevano: ma che motivi avrebbero avuto per sospettare? Quel pomeriggio andai a trovare mio padre in ospedale. Non ci ero mai entrata prima, e perciò non avevo idea di come fare per trovarlo. Domandai dov'era alle infermiere del ricevimento e loro girarono la domanda ad altre, finché non scoprirono che era in una delle sale operatorie. Volevano che prendessi un appuntamento o rimanessi in sala d'attesa - non avevo detto loro che ero sua figlia - e dissi di sì. Però ero riuscita a sentire il numero del piano, e mentre nessuna faceva la guardia mi alzai con cautela e mi diressi verso l'ascensore. Mi ero messa ad aspettarlo in piedi fuori dalla porta, e finalmente uscì. Non l'avevo mai visto in tenuta professionale: portava un berretto bianco, un camice, e la metà inferiore del suo viso era coperta da una maschera che si stava togliendo proprio in quel momento. Era molto più imponente di come era sempre apparso in casa: aveva l'aria di una persona che ha potere. Stava parlando con altri due medici. Dovetti chiamarlo, perché si accor-
gesse di me. «Tua madre si è preoccupata da morire» mi disse senza risentimento. «È una vita che si preoccupa da morire» dissi. «Volevo solo dirti che sto bene. Non torno, ho una camera e denaro a sufficienza.' Mi fissò con un'espressione che allora non riuscivo a classificare, perché mi era stata rivolta molto raramente. Era ammirazione, e forse persino invidia: avevo fatto quel che lui non poteva decidersi a fare, ero fuggita. «Sicuro che stai bene?» disse. Quando risposi annuendo disse: «Suppongo che non riuscirei a persuaderti di passare a farle un saluto.» «Ha cercato di uccidermi» dissi. «Te l'ha detto?» Stavo esagerando, perché il coltello non era entrato in profondità, ma volevo fargli capire che non era stata colpa mia. «Mi ha conficcato un coltello nel braccio.» Mi rimboccai la manica per mostragli il graffio. «Non avrebbe dovuto farlo» disse mio padre, in tutta calma, come se mia madre avesse fatto una svolta a sinistra quando invece occorreva svoltare a destra. «Sono sicuro che non l'ha fatto apposta.» Accettai di tenermi in contatto con lui - e mantenni questa promessa, più o meno - ma rifiutai di avere ancora a che fare con mia madre. Lui capì il mio punto di vista. Lo disse esattamente in questi termini, da persona ormai abituata a capire i punti di vista altrui. Ho sempre ricordato quella frase, e molto tempo dopo mi venne in mente che nessuno aveva mai capito il suo punto di vista: né io, né mia madre o zia Lou, né gli altri. Il suo punto di vista era quello di un uomo che ha ucciso degli uomini e li ha riportati in vita, anche se non erano gli stessi, e questi sono misteri difficili da comunicare. D'altra parte, il suo punto di vista era anche quello di un uomo in pantofole di pelle marrone che il sabato e la domenica armeggiava con le piante d'appartamento, e che per questo veniva ritenuto da sua moglie un innocuo imbecille. Era un uomo in gabbia, come la maggior parte degli uomini; ma lo rendeva diverso la sua consuetudine con la vita e con la morte. Nei due mesi che seguirono abitai nella mia stanza in Isabella Street, che mi costava quattordici dollari a settimana. Nel prezzo erano inclusi il cambio di lenzuola, asciugamani e una piastra elettrica, sulla quale facevo bollire l'acqua per il tè e preparavo spuntini ipocalorici. La casa era un palazzo vittoriano di mattoni rossi - in seguito è stata demolita e al suo posto è stato costruito un grattacielo - con corridoi bui dal pavimento di legno scricchiolante, una scala che si dimostrò utile in molte occasioni (Ella salì le scale con passo lieve, una mano sulla ringhiera...) e un onnipresente
odore di cera per mobili. All'odore di cera faceva concorrenza un puzzo, forse di vomito. Sia la casa che il quartiere erano decaduti, ma la padrona era una severa signora scozzese, e certo chiunque vomitasse lo faceva a porte chiuse. C'erano anche altri inquilini, ma li vedevo raramente, anche perché stavo molto fuori. La mattina trotterellavo alla svelta giù per le scale, come se avessi avuto un lavoro, ma in realtà mi denutrivo per poter riscuotere il denaro di zia Lou. La sera tornavo nella mia stanza e mi scaldavo una scatola di piselli o della carne salata sulle piastre elettriche. Mentre mangiavo, piangevo per zia Lou. Ora che era morta non avevo nessuno con cui parlare; tiravo fuori la sua pelliccia di volpe, che odorava di naftalina, e la fissavo sperando che avrebbe aperto la bocca per incanto e avrebbe parlato la voce di zia Lou, come faceva quando ero bambina. Cercavo di andare al cinema da sola, ma non faceva altro che deprimermi, e senza la presenza di zia Lou dovevo vedermela con le attenzioni di sconosciuti, che mi disturbavano durante la proiezione. In agosto visitai la Mostra Nazionale Canadese, un malinconico pellegrinaggio. Erano tre anni che non ci andavamo più - zia Lou doveva aver pensato che ormai ero troppo grande - e mi sembrò diversa, quasi mediocre e pretenziosa, con un'atmosfera di allegria forzata e stridente. Andavo spesso al museo e alla pinacoteca, dove potevo gironzolare e fingere di fare qualcosa, lontana dalle tentazioni del cibo. Feci dei viaggi in corriera: andai a St. Catharines, a Londra nell'Ontario, a Windsor, a Buffalo, a Syracuse e Albany. Ero alla ricerca di una città in cui trasferirmi, dove sarei stata libera di non essere me stessa. Non volevo un posto molto diverso o particolare; volevo soltanto inserirmi senza essere riconosciuta. Fu durante uno di questi viaggi in corriera che scoprii che mi mancava qualcosa. Questa lacuna mi veniva dall'essere stata grassa; era come essere priva della sensibilità al dolore, e il dolore e la paura costituiscono una difesa, in certo modo. In me non avevano mai messo radici le tipiche paure femminili: paura di essere importunata, paura del buio, paura dei respiri affannosi al telefono, delle fermate dell'autobus e delle auto che rallentano, di qualunque persona o cosa che proviene dall'esterno di quel cerchio magico che delimita la distanza di sicurezza. Nessuno fischiava al mio indirizzo negli ascensori o mi dava pizzicotti, nessuno mi seguiva lungo strade deserte. Per me gli uomini non erano aggressivi libertini, ma creature timide e sfuggenti che non sapevano cosa dirmi e scomparivano quando mi avvicinavo. Benché mia madre mi avesse messo in guardia contro gli uo-
mini cattivi del burrone, arrivata alla pubertà i suoi ammonimenti sembravano inutili. Era evidente che non credeva che sarei stata importunata, e non ci credevo nemmeno io. Sarebbe stato come importunare un mastodontico pallone di pallacanestro e sotto sotto, anche se amavo immaginarmi grondante tenera femminilità e molle abbandono, sapevo che avrei potuto spiaccicare contro un muro qualunque potenziale molestatore, semplicemente respirando. Così, una volta ridotta al formato normale, non avevo nessuna di quelle paure, e dovetti acquisirle artificialmente. Ero costretta a ripetermi di continuo: non andare lì da sola. Non uscire di notte. Sguardo diritto. Non guardare, anche se la cosa ti interessa. Non fermarti. Non scendere dal tram. Cammina. Stavo seduta quasi al centro della corriera. Dietro di me c'era un uomo che fumava un sigaro, accanto a me uno sconosciuto. Ogni due ore facevamo tappa in un ristorante lungo la strada, e mi dirigevo come una sonnambula verso la toilette delle signore con il tipico odore di disinfettante e di sapone liquido. Là, con un asciugamano di carta inumidito, mi toglievo dalla faccia la fuliggine della corriera, grassa e nerastra; e più tardi, quando me ne stavo seduta dando la tempia contro il metallo freddo della cornice del finestrino e morivo dal sonno, sulla mia coscia compariva una mano, furtiva, immobile, una mano esploratrice, tesa nella consapevolezza della sua solitaria missione. Quando comparivano le mani non sapevo come reagire. Mi coglievano di sorpresa. Gli uomini non facevano delle avances alle ragazze grasse, perciò io non avevo nessuna esperienza, ed ero terribilmente a disagio. Invece di spaventarmi o eccitarmi, quelle mani mi rendevano conscia che non sapevo che fare. Allora facevo finta di non notare la mano; fissavo il paesaggio fuori dal finestrino, nero come un forno, mentre le agili dita risalivano strisciando lungo la mia coscia. Alla fermata successiva mi scusavo con garbo e scendevo incespicando dalla corriera, senza avere un'idea ben precisa di quel che avrei fatto. A volte cercavo un motel; più spesso, però, mi dirigevo verso il ristorante della stazione delle corriere e mangiavo tutti i krapfen rinsecchiti e le fette di torta alla gelatina di pesce che potevo permettermi. In quei momenti mi sentivo molto sola; avevo anche una gran voglia di tornare grassa. Sarebbe stato uno strato isolante, un bozzolo. Sarei stata di nuovo una semplice spettatrice, nessuno si sarebbe aspettato troppo da me. Senza il magico mantello di pinguedine che mi rendeva invisibile mi sentivo nuda, spoglia, quasi mi mancasse un involucro indispensabile.
Nonostante queste ricadute, dimagrivo. Improvvisamente raggiunsi il peso stabilito, e mi trovai a faccia a faccia con il mio futuro. Adesso ero un'altra persona, un po' come se fossi nata a diciannove anni già adulta: avevo la forma giusta, ma il passato sbagliato. Dovevo sbarazzarmene completamente e costruirmene uno nuovo, più adatto. Inoltre avevo scartato tutte le città che avevo visitato. Vivere in una camera d'affitto ad Albany, in fin dei conti, sarebbe stato come vivere in una camera d'affitto a Toronto, a parte il fatto che avrei avuto meno possibilità di incontrare mia madre per la strada. Lei, o chiunque altro potesse riconoscermi. Il pensiero di continuare a fare sempre lo stesso tipo di vita mi deprimeva. Volevo avere più di una vita, e quando finalmente scesi trionfante dalla bilancia nello studio del signor Morrisey e incassai il denaro, andai dritta in un'agenzia di viaggi e mi comprai un biglietto aereo per l'Inghilterra. 14 «Hai il corpo di una dea», mi diceva il conte polacco nei suoi momenti di passione contemplativa. (Faceva le prove, prima di dirmi queste cose?) «Ho anche la testa di una dea?» gli risposi una volta, con malizia. «Non scherzare così» disse. «Devi credermi. Perché rifiuti di credere alla tua bellezza?» Ma di quale dea parlava? Ce n'era più d'una, a quanto mi risultava. Quella delle scatole di matita Venus, ad esempio, senza braccia e tutta screpolata. Ce n'erano altre del tutto prive di corpo; al museo, poi, ce n'era una con tre teste in cima a un pilastro, che sembrava una colonnina antincendio. Molte si presentavano come dei vasi, altre sembravano dei massi. Quel complimento mi pareva ambiguo. Nel conte polacco ero incappata quasi per caso. Lo avevo incontrato dopo essere caduta da un autobus a due piani vicino a Trafalgar Square. Fortunatamente, non ero caduta dal piano superiore; stavo scendendo e avevo il piede a mezz'aria, ma non ero abituata agli autobus che partono prima che i passeggeri siano smontati senza incidenti, e il mio era sfuggito da sotto i piedi con un balzo, mandandomi a gambe all'aria sul marciapiede. Il conte polacco passava di lì per caso, e mi rialzò. A quel tempo vivevo in un'umida stanza tuttofare a Willesden Green. L'avevo trovata grazie alla Casa del Canada, il primo posto dov'ero andata dopo il mio arrivo a Londra. Non conoscevo nessuno, non avevo un posto in cui stare, e quello che avevo visto dell'Inghilterra dall'autobus che avevo
preso all'aeroporto mi aveva delusa. Finora assomigliava troppo a quel che avevo lasciato, a parte il fatto che tutti gli oggetti sembravano essere stati compressi da due mani giganti e ammucchiati gli uni vicini agli altri. Le auto erano più piccole, le case affollate, gli uomini più bassi; solo gli alberi erano più grandi. Tutto era molto meno antico di come me l'ero aspettato. Volevo castelli e principesse, volevo la Dama di Shalott che scivolava su una barca lungo il fiume come in Poemetti per la Gioventù, che avevo letto in prima liceo. Spinta dalla curiosità, avevo cercato shalott sul dizionario; avevo trovato soltanto shallott: specie di piccola cipolla. L'ortografia era diversa, ma la differenza non era poi tanto grande. Sono ormai stanca d'ombre, disse La Dama Cipollina. Poi c'era un altro verso, che provocava molti risolini tra i ragazzi e imbarazzo tra le ragazze: S'avvera ora il mio fato, disse La Dama di Shalott. Perché i ragazzi trovavano buffo il sangue che colava giù per le gambe di una ragazza? Oppure era il terrore a farli ridere? Ma nulla mi scoraggiava, ero una romantica mio malgrado, e a quel tempo purché qualcuno, chiunque, mi dicesse che avevo un viso grazioso, sarei stata disposta a trasformarmi in un cadavere sul fondo di una barca. Al posto di dame e castelli c'erano un sacco di traffico e una quantità di persone tozze con i denti guasti. La Casa del Canada, al mio arrivo, era un mausoleo di marmo, imponente ma silenzioso. Una donna seduta dietro a un banco di legno scuro in una stanza male illuminata che sembrava una spelonca, dove alcuni canadesi irriducibili leggevano i giornali di Toronto, vecchi di una settimana e ritiravano la loro corrispondenza, mi porse una lista di camere da affittare. Dato che non avevo idea della topografia di Londra, presi la prima che trovai. Malauguratamente distava dal centro un'ora di metropolitana; questa mi sembrava proprio un salottino su binari, tappezzato di velluto rosso; non sarei stata sorpresa di vedere anche sgabelli e vasi di palme. La nuova metropolitana di Toronto, invece, con le sue piastrelle dai colori pastello e il suo odore di Vim liquido, assomigliava più che altro a un gabinetto am-
bulante. Mi sentivo già una provinciale. Uscita dalla metropolitana, mi avviai lungo una strada fiancheggiata da bottegucce; i negozi di dolciumi prosperavano perniciosamente. La donna della Casa del Canada mi aveva disegnato una mappa approssimativa, consigliandomi di comprare un distintivo con la foglia d'acero e di portarlo sul bavero, per non essere presa per una statunitense. La casa era un cottage stile Tudor, identico a tutte le altre case che davano su quella strada, finto Tudor, finto cottage, con davanti un giardinetto recintato da un muro. Il padrone di casa era un uomo arcigno in maniche di camicia e bretelle; sembrava temere che avrei dato feste orgiastiche e me la sarei svignata senza pagare l'affitto. La camera si trovava al piano terra e odorava di legno marcio; era talmente umida che i mobili stavano marcendo, pur se molto lentamente. La prima notte, mentre, distesa nel mio letto umidiccio, mi chiedevo se era per questo che avevo eliminato tanti chili e fatto tanta strada, un uomo di colore entrò nella mia camera scavalcando la finestra. Si limitò a dire: «Mi scusi, ho sbagliato finestra» e uscì alla stessa maniera. Alle mie orecchie giungeva il debole suono di un'animata festa che doveva aver luogo qualche casa più in là. Ero sola da far schifo. Già pensavo di trasferirmi da qualche altra parte, un appartamento sarebbe andato meglio, avrei avuto più spazio, ma la camera era a buon mercato e volevo far durare più a lungo possibile il denaro di zia Lou. Quando fosse finito, avrei dovuto prendere una decisione, trovarmi un lavoro (sapevo battere a macchina) oppure tornare a scuola (forse avrei potuto diventare un'archeologa, malgrado tutto), ma non mi sentivo ancora pronta, ero come disadattata. Per tutta la vita avevo imparato a essere una certa persona, e ora ero un'altra. Ero stata un'eccezione, con tutti i limiti che questo comportava: ora rientravo nella norma, ma non ci ero per nulla abituata. Non era previsto che cucinassi nella mia stanza - il padrone di casa era convinto che i suoi inquilini complottassero di dare alle fiamme la sua casa, anche se sarebbe stato difficile, tanto era umida - ma avevo il permesso di far bollire l'acqua in un bricco sul fornello a fiamma unica. Presi l'abitudine di bere tè e mangiare biscotti Peek Frean a letto, stringendomi addosso tutte le coperte. Era la fine di ottobre e faceva un freddo pungente, il riscaldamento era controllato da un dispositivo a gettone che funzionava con monete da uno scellino. Lo stesso per l'acqua calda nel bagno comune; non feci molti bagni. Cominciai a capire perché la gente sulla metropolitana aveva quell'odore: non un odore di sudiciume, ma di rinchiuso. A parte il tè e i biscotti, andavo a mangiare in ristoranti economici, e presto imparai
a evitare i piatti che avrei mangiato normalmente. Scoprii che «hot dog» corrispondeva a un sottile oggetto rossastro fritto nel grasso d'agnello, «hamburger» era una roba quadrata del colore della segatura messa in mezzo a un panino duro, mentre i «frappé» sapevano di gesso. Mangiavo pesce e patatine fritte, oppure salsiccia e purè. Mi comprai una canottiera. Cominciai a pensare che avrei dovuto fare qualcosa, invece di stare a guardare la mia riserva di traveller's cheques che si assottigliava. I viaggi, dicevano, aprivano vasti orizzonti: perché a me sembravano tanto ristretti? Così mi comprai una carta dell'Inghilterra e scelsi i nomi che mi erano familiari dal liceo, come York, o quelli che mi incuriosivano, Ripon ad esempio. Raggiungevo queste località in treno, passavo la notte in locande di second'ordine o in pensioni private e tornavo a Londra il giorno seguente. Visitavo con zelo le chiese e raccoglievo i dépliants esposti sulle cassette delle offerte; non sempre davo il mio mezzo scellino di contributo. Imparai cos'era un «cleristorio,» e mi comprai delle cartoline, perché mi davano l'impressione di aver girato il mondo. Le stesse cartoline le spedivo a mio padre, all'ospedale, scrivendoci sopra enigmatici messaggi come: «Il Big Ben non è poi tanto grande» e «Perché la chiamano la regione dei Laghi? Dovrebbero chiamarla la regione delle pozzanghere, ah ah.» Cominciavo a pensare che l'Inghilterra fosse un messaggio in codice che non sapevo decifrare, e che prima di capirla avrei dovuto leggere un sacco di libri. Ero in Inghilterra da circa sei settimane, quando caddi dall'autobus. Il conte polacco mi aiutò a rialzarmi e io lo ringraziai. Non fu un esordio molto originale. Era leggermente più basso di me, i capelli castano-chiari e ondulati che si facevano più radi sulla fronte, le spalle cascanti e gli occhiali senza montatura, che allora non andavano di moda. Indossava un soprabito blu marino, un po' sdrucito e liso, e portava una ventiquattrore. Per tirarmi su, posò la ventiquattrore. Per poco non gli cadde addosso; rimessici in piedi, lui riprese la sua ventiquattrore. «Tutto bene?» mi chiese con un accento inglese un po' strano. Se fossi stata inglese, avrei capito subito che si trattava di un nobile polacco; ma nella mia situazione non potevo capirlo. «Grazie mille» dissi. Mi ero smagliata una calza e sbucciata un ginocchio, e avevo preso una brutta storta alla caviglia. «Deve sedersi» disse. Mi pilotò attraverso la strada in un ristorante che si chiamava, mi ricordo, L'uovo d'oro, e mi portò del tè e della torta di ri-
bes un po' spiaccicata. I suoi modi erano cordiali ma paternalistici, mi trattava come se fossi stata una bambina straordinariamente inetta. «Ecco qui», mi disse con un gran sorriso. Notai che aveva il naso aquilino, anche se, per via della sua piccola statura, non rendeva al massimo. «Il tè per gli inglesi è la panacea universale. Sono gente strana.» «Lei non è inglese?» chiesi. I suoi occhi - erano di un grigio verdastro, o forse di un verde grigiastro - si rannuvolarono dietro le lenti, come se gli avessi fatto una domanda inopportuna che toccava la sua vita privata. «No» disse. «Ma, al giorno d'oggi, bisogna adattarsi. Lei, naturalmente, è americana.» Gli spiegai che non lo ero, e lui sembrò deluso. Mi chiese se mi piaceva sciare, e risposi che non avevo mai provato. «Gli sci mi hanno salvato la vita» disse con fare enigmatico. «Tutti i canadesi sanno sciare. Altrimenti, come farebbero a muoversi, sulla neve?» «Qualcuno va in toboga» dissi. Quella parola lo lasciava perplesso, e gli spiegai che cosa erano. Finii di bere il mio tè. Sentivo che era giunto il momento di ringraziarlo affabilmente per la sua cortesia e di andarmene. Altrimenti avremmo dovuto raccontarci le nostre vite e non avevo voglia di parlare della mia: era un argomento troppo deprimente. Perciò lo ringraziai e mi alzai. Poi mi sedetti di nuovo. Mi si era gonfiata la caviglia e quasi non riuscivo a camminare. Insistette per riaccompagnarmi a Willesden Green, sorreggendomi fino alla fermata della metropolitana e mentre avanzavo zoppicando lungo la strada, davanti ai negozi di dolciumi. «Ma è spaventoso» disse quando vide la casa in cui abitavo. «Non può abitare qui. Non si può abitare qui.» Poi si offrì di avvolgermi la caviglia con degli asciugamani bagnati in acqua fredda e strizzati. Proprio mentre era all'opera, inginocchiato davanti a me che sedevo sul letto, apparve il padrone di casa e mi diede una settimana di preavviso. Il conte polacco lo informò che la signorina si era slogata una caviglia. Il padrone di casa rispose che non gli importava nulla di quel che mi ero slogata e che dovevo andarmene il giovedì successivo, perché in casa sua non ammetteva certi traffici. Era stata la vista del mio piede nudo e tumefatto a scandalizzarlo. Quando se ne fu andato, il conte polacco si strinse nelle spalle. «Che mentalità ristretta, questi inglesi» disse. «Sono un popolo di bottegai.» Non sapevo che quella era una citazione, e mi parve un'osservazione molto intelligente. Avevo trovato disgustoso che Stonehenge fosse circondato da
uno steccato, con un ingresso per la biglietteria. «Ha visto la Torre di Londra?» mi chiese. Non l'avevo mai vista. «Ci andremo domani.» «Ma non posso camminare!» «Ci andremo in tassì, e poi prenderemo il battello.» Più che un invito, quello era un ordine: per questo non mi venne in mente di rifiutare. E comunque, a me sembrava un vecchio; in realtà aveva solo quarantun'anni, ma lo mettevo nella categoria degli uomini anziani e quindi inoffensivi. Durante quella gita mi raccontò la storia della sua vita. Prima volle ascoltare la mia, come insegna il galateo. Gli dissi che ero venuta a Londra per studiare arte all'accademia, ma che avevo scoperto di non avere talento. Sospirò. «Lei deve essere una ragazza saggia» disse, «per averlo capito tanto presto. Non si ingannerà con vane speranze. Vede, anch'io un tempo volevo diventare uno scrittore, volevo essere come Tolstoi; ma ora mi hanno esiliato dalla mia lingua, e l'inglese è buono solo per ammassare denaro. È una lingua senza musica, senza canto: par sempre che voglia vendere qualcosa.» Non sapevo chi era Tolstoi; annuii e sorrisi. Proseguì il racconto delle sue vicende personali. Prima della guerra, la sua era stata una famiglia altolocata; lui non era precisamente un conte, ma qualcosa di simile, e mi mostrò l'anello col sigillo che portava al mignolo. Il suo simbolo era un uccello immaginario, non so se un grifone o una fenice. Al tempo dell'occupazione tedesca la famiglia era riuscita a vivacchiare, ma dopo l'invasione russa lui aveva capito di dover scegliere tra la fucilazione e la fuga. «Perché?» domandai. «Lei non aveva fatto nulla di male.» Mi lanciò uno sguardo di compatimento. «Non importa quel che si fa» disse, «ma quel che si è.» Insieme ad altre sei persone aveva raggiunto con gli sci il confine, dove li attendeva una guida che li avrebbe condotti dall'altra parte. Ma lui si era ammalato. Aveva insistito perché gli altri proseguissero senza di lui e si era trascinato in una caverna, oramai certo di morire. Gli altri furono arrestati alla frontiera e condannati a morte. Lui guarì e passò il confine da solo, viaggiando di notte e orientandosi con le stelle. In un primo tempo, dopo il suo arrivo, si era guadagnato da vivere lavando piatti nei ristoranti di Soho; poi, una volta imparata la lingua, aveva trovato un posto in banca e lavorava come impiegato all'ufficio cambi. «Sono l'ultimo esemplare» disse, «di una razza che sta morendo. L'ultimo dei Mohicani.» A dir la verità, in Polonia aveva lasciato una figlia, e anche una madre; ma non aveva eredi maschi, e questo gli pesava molto.
Lì per lì, ascoltata la storia, pensai che mi ero imbattuta in un bugiardo incallito, romantico quasi quanto me. Di solito, però, tendevo per istinto a credere a tutto quel che mi si diceva, e in questo caso il mio istinto non sbagliava, perché il suo racconto, in sostanza, era vero. Rimasi molto impressionata. Mi sembrava che quell'uomo appartenesse a un'epoca felice in cui ancora esisteva il coraggio. Claudicante e sorretta dal suo braccio alquanto muscoloso, visitai la Torre di Londra con un misto di emozioni mai provate: lo compativo a causa delle sofferenze che aveva patito, ammiravo la sua audacia, ero lusingata dalle attenzioni che mi dimostrava e gliene ero grata, e soprattutto mi faceva piacere che mi considerasse saggia. Più avanti scoprii che se ammetti di non avere talento, quasi tutti ti dicono che sei saggia. Questo era successo di domenica. Il lunedì durante la giornata doveva lavorare in banca, ma la sera mi portò a cena in un club per esuli polacchi, affollato di generali con un occhio solo e altri rappresentanti dell'aristocrazia polacca. «Noi siamo i pochi che sono rimasti» disse. «Gli altri, li hanno eliminati i russi.» «Ma non stavate anche voi contro i tedeschi?» chiesi. Rise garbatamente e mi spiegò come stavano le cose, non senza lungaggini. La mia ignoranza mi sorprendeva. A quanto pareva era successo di tutto, senza che ne sapessi nulla: tradimenti e carestie, colpi di stato e intrighi diplomatici, assassinii politici e disperati atti d'eroismo. Perché nessuno me l'aveva detto? O forse me l'avevano detto, ma non ero stata a sentire. Mi preoccupavo del mio peso, io. Martedì mi portò a un concerto di musica da camera, uno spettacolo di beneficenza a favore di un'organizzazione politica polacca che non avevo mai sentito nominare. Accennai al fatto che non avevo ancora trovato un'altra stanza. «Ma verrà a stare da me!» esclamò. «Ho una casa carina, molto carina, un posto adorabile, dove c'è tantissimo spazio. Deve venire assolutamente.» Occupava tutto il secondo piano di una casa a Kensington, proprietà di un lord nonagenario che passava la vita in case di riposo. Al terzo piano abitavano due ragazze che lavoravano, ma mi garantì che erano signorine per bene: facevano le segretarie. Pensai che era molto gentile e premuroso a offrirmi di condividere il suo appartamento. E siccome non mi aveva mai toccata, tranne che per aiutarmi ad attraversare a causa della caviglia, e non si era mai permesso osservazioni equivoche, rimasi piuttosto sorpresa quando, dopo essermi lavata i
denti e mentre stavo per infilarmi a letto (con indosso una pesante, informe camicia da notte di flanella che avevo comprato da Marks & Spencer la settimana prima, credo), sentii bussare discretamente alla mia porta e vidi apparire sulla soglia quel signore di cui ancora ignoravo il nome di battesimo, in pigiama a righe bianche e blu. Per lui era sottinteso che saremmo andati a letto insieme, e dava per scontato che la pensassi allo stesso modo. Ad Arthur, in seguito, raccontai che ero stata sedotta a sedici anni, sotto un pino, da un maestro di vela del campeggio estivo che veniva da Montreal: era una bugia. Non ero affatto stata sedotta. Ero rimasta vittima della sindrome di Miss Flegg: quando ci si trova intrappolati in una situazione dalla quale non si può uscire con grazia, tanto vale far finta di averla voluta. Altrimenti ci si copre di ridicolo. Anche l'innocenza ha i suoi rischi: nel mio caso, uno dei rischi era stato che purtroppo il conte polacco non concepiva che potessero esistere persone ingenue come me. Se un uomo chiede a una donna di trasferirsi nel suo appartamento e la donna acconsente, è chiaro che accetta di diventare la sua amante. È una strana parola, 'amante', ma così mi avrebbe definita lui, queste erano le categorie in cui era organizzata la sua vita sessuale: mogli e amanti. Non ero la sua prima amante. Per lui non esistevano donne in ruoli intermedi. Quando descrissi ad Arthur l'episodio del maestro di vela di Montreal, ebbi l'avvertenza di inserire nella narrazione dei dettagli piccanti. Aggiunsi anche alcuni tocchi realistici, gli aghi di pino che gli pungevano il sedere, le sue mutande sportive col sospensorio, l'odore di brillantina; ero molto brava a inventare. Naturalmente non ero mai stata a un campeggio estivo in vita mia. Mia madre avrebbe voluto mandarmici, ma significava rimanere rinchiusa per due mesi insieme a un branco di Coccinelle sadiche e troppo cresciute, senza scampo. Perciò le mie estati le passavo ciondolando per casa, mangiando e leggendo romanzacci, alcuni dei quali erano ricchi di dettagli piccanti. Furono quelli che adoperai raccontando la mia vita; dovetti prenderli a prestito, perché la mia prima esperienza col conte polacco non fu per nulla erotica. Mi faceva male la caviglia, trovavo il suo pigiama repellente e lui, senza occhiali, aveva una faccia stralunata. Inoltre fu doloroso; anche se dopo divenne paziente e prodigo di consigli, sebbene incline a dare giudizi sulle mie prestazioni - era quasi come prendere lezioni di tip tap - la prima volta non lo fu. Quando scoprì che non ero la studentessa d'arte mancata di facili costumi che aveva creduto - quando si rese conto di avermi tolto la verginità - il conte polacco si fece prendere dai rimorsi. «Che cosa ho fatto?» gemette.
«Povera bambina mia. Perché non me l'hai fatto capire?» Ma qualunque cosa gli avessi detto sarebbe stata poco plausibile. Era per questo che inventavo la mia vita volta per volta: la verità non era convincente. Perciò non risposi e lui mi accarezzò una spalla, preoccupato. Gli pareva di aver leso le mie opportunità di fare un buon matrimonio. Voleva riparare e non capiva perché ero tanto poco sconvolta. Seduta sul letto, mi rimisi la camicia di flanella (perché il suo appartamento era freddo e umido quanto il mio) guardando il suo viso lungo e malinconico con gli occhi verdegrigi un po' strabici. Ero felice che fosse successo. Mi aveva definitivamente dimostrato che ero normale, che il mio alone di carne era scomparso, che non ero più un'intoccabile. 15 Mi sono spesso domandata che cosa sarebbe successo se invece di trasferirmi da Arthur fossi rimasta col conte polacco. Forse sarei diventata una donna grassa e soddisfatta, avrei passato le giornate nel suo appartamento, con indosso un negligé a fiori, avrei ricamato un po', fatto qualche rammendo, letto libracci e mangiato cioccolatini; la sera avremmo cenato al Club degli Ufficiali polacchi e sarei stata trattata quasi con rispetto, avrei avuto un ruolo riconosciuto, sarei stata «l'amante di Paul.» Ma non avrebbe funzionato, lui era troppo metodico. Il suo nome di battesimo era Tadeo, ma preferiva farsi chiamare con il suo terzo nome, Paul, come san Paolo, anche lui un uomo sistematico, senza imprevisti. La sua idea della vita virtuosa era che avrebbe dovuto essere precisa. Anche la sua fuga oltre il confine polacco era stata una questione di precisione. («Ma ti sei salvato la vita per caso!» esclamai. «No» disse, «sarei morto lo stesso, se non avessi usato il cervello.»). Lui aveva accuratamente calcolato la sua rotta e era emerso dalla foresta esattamente nel punto in cui voleva. Per tenersi sveglio e dissipare le allucinazioni di cui soffriva, aveva recitato le tabelline mentre arrancava nell'oscurità e nella neve (arrancava perché aveva ceduto i suoi sci a un membro del gruppo destinato a trovare la morte). Non si era lasciato prendere dal panico, come avrei fatto io; non aveva fatto caso alle vivide figure geometriche, e poi ai volti minacciosi, che gli apparivano davanti nel vuoto. Le figure e le facce le avevo viste anch'io, durante il mio attacco di setticemia, e sapevo che nel profondo di quella foresta, polacca per giunta, folta come una capigliatura, fredda come la disperazione, avrei reagito sedendomi nella neve e soc-
combendo alla sventura. Mi sarei lasciata distrarre dai particolari, dai mozziconi di candela e dalle ossa di chi mi aveva preceduta; in qualunque labirinto avrei perso il filo per correre dietro a una luce vagante o a una voce fuggevole. Sarei stata una di quelle due stupide sorelline della fiaba che aprono la porta proibita e si fanno spaventare dai cadaveri delle mogli assassinate, non certo la terza, l'astuta fanciulla che bada alle cose fondamentali: presenza di spirito, prudenza, e bugie a tenuta stagna. Anch'io dicevo bugie, ma facevano acqua da tutte le parti. Non avevo una gran disciplina mentale, come mi faceva notare Arthur di quando in quando. Anche Paul me lo faceva notare. Era di una puntualità morbosa, doveva uscire di casa esattamente alle otto e quindici, mentre dalle otto e cinque alle otto e dieci si lucidava le scarpe e si spazzolava il vestito. Il mio disordine lo affascinò, ma per poco: presto cominciò a farmi ragionamenti su quanto fosse più semplice riporre i vestiti al momento giusto, invece di lasciarli ammucchiati sul pavimento fino al mattino dopo. Non pretendeva molto da me - in fin dei conti, era solo la sua amante - ma quelle poche cose le pretendeva in modo assoluto. Penso che considerasse la mia educazione alla convivenza alla stregua di un compito di secondaria importanza, un po' noioso, come l'addestramento di un cane: tutto stava in poche cose, ma quelle andavano imparate alla perfezione. Ad eccezione di quella prima, sorprendente notte, dedicava al sesso solo i fine settimana. Credeva nelle camere separate, quindi dormivo su un letto estraibile nella stanza che lui chiamava la biblioteca. Non era un uomo spilorcio o represso per natura, ma aveva una missione, e grazie al fatto che dormivo nella biblioteca, presto scoprii di che cosa si trattava. Il primo giorno, quando lui fu uscito per andare in banca, dormii fino alle undici. Poi mi alzai e mi misi a curiosare per l'appartamento: aprii le credenze della cucina in cerca di qualcosa da mangiare ma anche per esplorare la personalità dell'uomo che la notte prima aveva, come si dice, infranto il mio onore. Ero curiosa, e le credenze possono dire molto sul Carattere di una persona. Quelle di Paul erano assai ben organizzate; prevalevano i cibi in scatola, con alcune pratiche minestre liofilizzate e un pacco di crackers. C'erano due tipi di alimenti: generi di prima necessità e specialità esotiche, tra cui delle seppie, ricordo, e della carne di foca (che poi mangiammo: era rancida e oleosa). Subito dopo passai al frigorifero, immacolato e quasi vuoto. Mangiai un certo numero di crackers insieme a delle sardine in scatola, poi mi feci una tazza di tè e andai in camera di Paul ad ispezionare il suo armadio e i cassetti della sua scrivania. Feci at-
tenzione a non spostare nulla. Sulla scrivania c'erano delle fotografie ritoccate a colori, labbra violacee, capelli di un giallo grigiastro. Calzoncini da pugilato; pigiami, tutti a righe tranne uno, che era di seta. Sotto i calzoncini c'era una pistola, che non toccai. Tornai nella biblioteca con l'intento di vestirmi, ma prima volli dare un'occhiata agli scaffali. Erano quasi tutti libri vecchi, rilegati in tela e in pelle, con i risguardi marmorizzati, il genere di libri che si trovano sui banchi dell'usato. Parecchi erano in polacco, ma c'erano anche dei romanzi inglesi: molto Walter Scott, Dickens, Harrison Ainsworth e Wilkie Collins; me lo ricordo perché in seguito li lessi quasi tutti. Una delle mensole, però, mi lasciò perplessa. Ospitava romanzi d'ambiente ospedaliero, quei libri caramellosi con sulla copertina un'infermiera e un medico sullo sfondo che la guarda con interesse e ammirazione, ma mai con gli occhi fuori dalla testa dalla libidine. I titoli suonavano Janet Holmes, allieva infermiera; Helen Curtis, infermiera specializzata; e Anne Armstrong, giovane infermiera. Alcuni avevano dei titoli più audaci, come Noi due in paradiso e Lucy Gallant, infermiera militare. Li aveva scritti tutti una donna che rispondeva all'improbabile nome di Mavis Quilp. Ne sfogliai un paio: me li ricordavo bene. Ne avevo letti a dozzine, al tempo in cui ero grassa. Il menù non cambiava mai: finivano sempre con un'infermiera e un medico l'uno nelle braccia dell'altra, stretti stretti e asettici come bende elasticizzate. Erano scritti in modo un po' strano, le frasi fatte erano un po' strampalate, appena appena alterate. Ad esempio qualcuno diceva: «Vanno a furto,» invece di «Vanno a ruba,» qualcun altro rispondeva: «Senza batter palpebra» e Anne Armstrong si metteva a «tramare» invece che «tremare» quando il dottore le passava accanto sfiorandola; questo però forse era un errore di stampa. A parte ciò, comunque, non erano particolarmente interessanti; ma erano talmente fuori posto nella libreria di Paul, che quella sera gliene parlai. «Paul» dissi, mentre seduti l'uno di fronte all'altro al tavolo di cucina mangiavamo la foca in scatola, e bevevamo la mezza bottiglia di champagne che aveva portato a mo' di offerta propiziatoria, «perché leggi quei romanzetti di Mavis Quilp?» Mi fece uno strano sorriso storto. «Io non leggo mai quei romanzetti di Mavis Quilp.» «E allora perché ne tieni quattordici in libreria?» Forse Paul era una spia - questo avrebbe spiegato la presenza della pistola - e i libri della Quilp erano messaggi cifrati.
Sorrideva ancora. «Quei romanzetti di Mavis Quilp, li scrivo.» Mi cadde la forchetta di mano. «Vuoi dire che sei tu, Mavis Quilp?» Mi venne da ridere, ma l'espressione offesa del suo viso mi interruppe. «Ho una madre e una figlia dall'altra parte», replicò freddamente. Questo è quello che mi raccontò. Al suo arrivo in Inghilterra, si illudeva ancora di essere uno scrittore. Aveva scritto un'epopea in tre volumi che trattava le vicende di una famiglia della piccola nobiltà (la sua), prima, durante e dopo la guerra, lavorandoci faticosamente con l'aiuto di un dizionario nei ritagli di tempo che gli lasciavano le sue dieci ore quotidiane di lavoro come lavapiatti. Avrebbe preferito scriverla in polacco, ma capì che non era il caso. Il suo romanzo aveva tredici protagonisti, tutti imparentati tra di loro, e ognuno aveva la sua tribù di mogli, amanti, amici, bambini e zii. Dopo aver terminato il suo libro e averlo battuto a macchina da solo, con grande sforzo, lo portò da un editore. Non sapeva nulla di case editrici; sconsideratamente ne scelse una che pubblicava soltanto western, romanzi d'ambiente ospedaliero e romanzi rosa a sfondo storico. Naturalmente il suo romanzo fu respinto, ma furono colpiti dalla qualità e soprattutto dalla quantità di quel che aveva scritto. «Mica male amico, ci sai fare» gli avevano detto. «Ecco qua una trama, tu ci scrivi la storia e la fai semplice semplice, cento sacchi, d'accordo?» Lui aveva bisogno di denaro. Mentre la sua epopea in tre volumi faceva il giro delle case editrici più dignitose - non venne mai accettata - lui sfornava romanzi rosa, usando dapprima le tracce che gli davano, poi inventandole per conto suo. Ora guadagnava dalle duecento alle trecento sterline per libro, e non godeva dei diritti d'autore. Col suo nuovo impiego in banca guadagnava esattamente quanto gli bastava per mantenersi, perciò quello dei romanzi era denaro in più, e lui lo mandava in Polonia a sua madre e a sua figlia. In Polonia aveva anche una moglie, ma lei aveva divorziato. L'editore gli aveva proposto di scrivere dei western e dei romanzi d'amore a sfondo storico, ma lui era rimasto fedele alla sua specialità. Per i western avrebbe dovuto servirsi di parole come «compare» con le quali non aveva confidenza; e i romanzi storici l'avrebbero avvilito, ricordandogli la privilegiata vita d'un tempo. (La letteratura d'evasione, mi disse, dovrebbe essere un'evasione anche per l'autore, oltre che per il lettore.) Con i romanzi ospedalieri non era costretto a studiare niente di nuovo e non doveva usare parole sconosciute, all'infuori di qualche termine medico facilmente reperibile in un manuale di pronto soccorso. Aveva scelto quello pseudo-
nimo perché Mavis gli sembrava il nome inglese per eccellenza. Quanto a Quilp... «Ah, Quilp» sospirò. «Quello è un personaggio di Dickens, un nano deforme e maligno. È così che mi vedo in questo paese; sono stato privato della mia statura, e sono pieno di pensieri amari.» Status, pensai; però non dissi nulla. Stavo imparando a non correggere i suoi errori. «E se provassi con qualcosa di più vicino a te?» suggerii. «Magari un libro di spionaggio, con intrighi e criminali cosmopoliti...» «Sarebbe troppo simile alla realtà» sospirò. «Per le infermiere forse sono i romanzi d'ambiente ospedaliero ad essere troppo simili alla realtà» dissi. «Le infermiere non leggono i romanzi a sfondo ospedaliero. Li leggono le donne che, a torto, vorrebbero essere infermiere. In ogni caso, se le infermiere vogliono sfuggire ai problemi della loro vita, devono leggere i libri di spionaggio, tutto qui. Il boccone che ingrassa il cavallo ammazza il gatto, questo è il destino.» Paul credeva nel destino. Fu per merito di Paul, quindi, che scelsi la mia carriera. Il denaro di zia Lou stava finendo molto prima di quanto avessi previsto, anche se mi sforzavo di fare delle economie, e l'idea di cercarmi un lavoro non mi piaceva. Sapevo battere a macchina, ma mi pareva che avrei fatto i soldi più in fretta scrivendo qualcosa di mio, e inoltre le lettere d'affari altrui sono molto noiose. Tra l'altro non avevo nulla da fare nelle serate dei giorni feriali, mentre Paul, pestando sui tasti, lavorava al suo romanzo del momento, Judith Morris, un'infermiera al Polo Nord, fumando a catena delle Gauloises infilate in un corto bocchino d'oro che teneva stretto tra i denti e bevendo un solo bicchiere di porto per sera. In quei momenti il suo disprezzo verso i suoi lettori e verso se stesso gravava sulla stanza come una cortina fumogena, e dopo quelle sedute la sua collera era nera ma fredda, come lo smog. Chiesi a Paul di procurarmi qualche esemplare dei romanzi rosa a sfondo storico pubblicati dalla sua casa editrice, la Columbine Books, e mi misi all'opera. Mi iscrissi alla biblioteca di quartiere e presi in prestito un libro di storia dell'abbigliamento. Compilai degli elenchi di parole come fichu, sopravveste e pellegrina; passai pomeriggi interi nella sala dei costumi del Victoria and Albert Museum respirando l'odore del tempo e del legno lucidato, e quello secco e sardonico dei custodi, a studiare le bacheche e le raccolte di disegni. Pensavo che se avessi trovato i vestiti giusti, poi tutto
sarebbe venuto da sé. E fu proprio così: l'eroe, un uomo bello e gentile con appena un inizio di calvizie, che sfoggiava una mantella di tweed dal taglio perfetto, come quella di Sherlock Holmes, inseguiva l'eroina e premeva le sua labbra contro quelle di lei in un cabriolet, spiegazzandole la pellegrina. Il cattivo, altrettanto beneducato e vestito in modo molto simile, faceva suppergiù la stessa cosa: solo che lui le infilava la mano dentro al fichu. L'antagonista femminile sotto al corpetto squisitamente ricamato aveva un corpo flessuoso come un animale della giungla, e come tutte le sue pari faceva una brutta fine. Non ero ancora diventata un'esperta in brutte fini: forse le feci semplicemente inciampare nella sopravveste mentre scendeva le scale. Ma se lo meritava, dal momento che aveva cercato di condannare l'eroina a un'esistenza infamante, legandola come un salame e abbandonandola in un bordello, sotto la sorveglianza di una signora alla quale avevo prestato i lineamenti di Miss Flegg. Ma avevo voluto strafare. La mia prima fatica ritornò con delle istruzioni che mi invitavano a non usare parole come fichu, pellegrina e sopravveste senza spiegare quel che significavano. Feci le correzioni necessarie e ricevetti le mie prime cento sterline, insieme a una richiesta di nuovo materiale. Materiale, lo chiamavano, come se l'avessi prodotto in serie. Fui piuttosto emozionata il giorno in cui ricevetti due copie de Il signore di Chesney Chase in un pacchetto, con sulla copertina una donna bruna avvolta in un mantello da viaggio color prugna e il mio pseudonimo stampato a lettere bianche: Louise K. Delacourt. Perché ovviamente avevo usato il nome di zia Lou; era un modo per commemorarla. Molti anni più tardi, quando passai a pubblicare con una casa editrice statunitense, mi chiesero una fotografia. Mi dissero che era per gli archivi, e che sarebbe stata usata per la pubblicità; perciò spedii loro l'istantanea di zia Lou alla Mostra, in cui apparivo anch'io. Non la usarono mai. Le autrici dei libri come i miei dovevano avere un aspetto sano e curato, e i capelli dignitosamente grigi. Al contrario delle lettrici, tenevano le spalle dritte e avevano successo. Non era previsto che strizzassero gli occhi nel sole, scoprissero i denti di sopra e di sotto e tenessero in mano un cono di zucchero filato. Le lettrici si rifiutavano di immaginare che le loro fate madrine, artefici di raffinati balli in maschera notturni, fossero donne paffute e un po' trasandate, con le spalline della sottoveste in bella mostra e i colletti slacciati, come quelli di zia Lou. O i miei. All'inizio Paul mi incoraggiò, in parte per via del denaro. Gli piaceva l'idea di avere un'amante, ma in realtà non avrebbe potuto permettersela.
Dopo i primi cinque o sei mesi, quando cominciai a guadagnare di più di lui per ogni libro, iniziò persino a farmi pagare l'affitto, anche se il fatto che dormivo nella sua biblioteca non gli costava nulla. Gli fui grata per la fiducia che dimostrò, non proprio nel mio talento, dato che pensava che per scrivere quel genere di libri non fosse necessario, ma nella mia perseveranza: ero rapida quasi quanto lui nell'inventare le trame, e sapevo scrivere a macchina meglio di lui, tanto che nelle serate buone riuscivo a produrre lo stesso numero di pagine. Da principio fu indulgente e paterno. Per certi aspetti, mi ricordava l'uomo col mazzo di giunchiglie che si era esibito in quel modo galante e commovente sul ponte di legno, quand'ero Coccinella. Anche Paul aveva la stessa aria di galanteria volenterosa ma inopportuna; sotto le loro stramberie, pensavo, tutti e due erano delle persone gentili e innocue, che si accontentavano di piccoli piaceri e non abusavano del partner o dell'osservatore. E, forse, entrambi mi avevano salvata, anche se la vera identità dell'uomo dalle giunchiglie per me era rimasta misteriosa. Nemmeno l'identità di Paul mi era tanto chiara, perché con l'andar del tempo cominciò a cambiare. O forse ero io che cominciavo soltanto a conoscerlo meglio. Ad esempio, se da un lato considerava la perdita della mia verginità come una colpa sua personale - attribuendosene così la responsabilità - dall'altro la vedeva come un errore che mi avrebbe precluso per sempre la possibilità di essere una moglie, sua moglie, ad ogni buon conto. Trovava che la mia mancanza di senso di colpa fosse un segno di barbarie. Per lui chiunque provenisse dall'altra parte dell'oceano Atlantico era una specie di selvaggio, e persino gli inglesi erano sospetti, stavano troppo ad ovest. Finì con l'essere arrabbiato con me perché non avevo pianto, anche se gli spiegai mille volte che quello non era il genere di cosa che mi faceva piangere. Poi c'erano le sue opinioni sulla guerra. Sembrava pensare che in qualche oscura, metafisica maniera gli Ebrei fossero responsabili della guerra, e quindi anche della perdita del suo castello di famiglia. «Ma è ridicolo» dissi, sdegnata; non poteva dirlo sul serio. È come dire che la vittima di uno stupro è responsabile dello stupro, o che la vittima di un omicidio...» Aspirò una boccata della sua Gauloise, imperturbabilmente. «Anche questo è vero» disse. «Se la sono andata a cercare.» Mi venne in mente la sua pistola. Non potevo parlargliene senza rivelare che avevo rovistato nella sua camera, e ora avrebbe trovato la cosa imper-
donabile. Cominciavo a sentirmi un po' come Eva Braun nel bunker: cosa stavo facendo lì dentro insieme a quel pazzo, come avevo fatto ad entrare in quel posto ermeticamente chiuso, come avrei fatto ad uscire? Perché Paul era di un fatalismo apocalittico: secondo lui, la civiltà o era già crollata oppure era sul punto di farlo. Era convinto che sarebbe scoppiata un'altra guerra, anzi sperava che accadesse; non perché credesse che un conflitto avrebbe risolto o migliorato qualcosa, ma perché così anche lui avrebbe potuto combattere e distinguersi grazie ai suoi atti di coraggio. Aveva l'impressione di non aver resistito abbastanza nell'ultima guerra; a quel tempo era troppo giovane per capire che avrebbe dovuto rimanere a morire nella foresta con quel che restava dell'esercito massacrato. Lui si era salvato, era sopravvissuto, era fuggito, e quasi gli sembrava disonorevole. Quando pensava alla guerra, però, non vedeva carri armati, missili e bombe, ma se stesso a cavallo e armato di sciabola, che andava alla carica in situazioni disperate. «Le donne non capiscono queste cose», diceva stringendo tra i denti la punta del suo bocchino. «Credono che la vita sia far bambini e cucire.» «Non so cucire», rispondevo, ma lui si limitava a dirmi: «Più avanti cucirai anche tu. Sei tanto giovane» e seguitava a profetizzare sventure. Declamavo massime di speranza, ma invano; lui mi faceva il suo sorrisetto storto e diceva: «Quanto siete ingenui voi americani, si vede che non avete storia.» Oramai avevo smesso di dirgli che non ero americana. «Canadese, americana: ma non è la stessa cosa?» diceva. «Dal momento che siete senza storia, poco importa che sia questa o quella.» Ecco, in definitiva, quali erano le differenze tra di noi: io credevo nel vero amore, lui nella divisione mogli-amanti; io credevo ai lieti fini, lui agli esiti catastrofici; pensavo di essere innamorata di lui, e lui era abbastanza vecchio e disincantato per sapere che non lo ero. Era stata la mia fede nel vero amore a darmi l'illusione di amarlo. Come avrei potuto andare a letto con quello strano uomo, che non era certo il Mercurio dell'elenco telefonico, senza essere innamorata di lui? Era evidente che solo il vero amore poteva giustificare il mio cattivo gusto. Dal momento che Paul sapeva che non ero innamorata di lui, che mi considerava la sua amante e riteneva che le amanti fossero infedeli per natura, cominciò ad avere degli attacchi di gelosia. Fintanto che mi limitavo a ciondolare per casa leggendo e battendo a macchina i miei romanzi gotici, senza mai andare da nessuna parte se non insieme a lui, andava tutto bene. Non faceva caso alle mie visite al Victoria and Albert; non gli dava-
no molto nell'occhio, perché arrivavo sempre a casa prima di lui e non ci andavo durante i fine settimana. Fu al mercatino di Portobello Road che le nostre strade si separarono. Era stato lui a farmelo conoscere, e per me divenne ben presto una fissazione. Passavo ore e ore a contemplare bancarelle di collane usate, servizi di cucchiai dorati, mollette per lo zucchero a forma di zampe di gallina o di minuscole mani, orologi che non funzionavano, porcellane a fiori, specchi maculati e mobili massicci, relitti abbandonati dalla marea dei secoli nel loro indietreggiare, quei secoli in cui mi immergevo ogni giorno di più. Non avevo mai visto prima oggetti come quelli; il passato era lì, a grandi ondate, e lo palpavo, ci nuotavo dentro, lo fissavo nella mia memoria - una tabacchiera di giada, una boccetta di profumo smaltata fin nei minimi particolari, minuziosa e perfetta - allo scopo di cristallizzare e rendere plausibile le nebulose emozioni delle mie eroine, come diamanti in un mare di materia informe. Mi stupì l'incredibile quantità di quegli oggetti, frammenti di vite passate, e il modo in cui circolavano. Le persone morivano ma le loro cose sopravvivevano e continuavano a girare in tondo, come in un lento mulinello. Tutti gli oggetti che vedevo e desideravo erano stati visti e desiderati prima d'allora, avevano attraversato molte vite ed erano destinati ad attraversarne molte altre, invecchiando ma al tempo stesso diventando più duri, più preziosi, più brillanti, come se avessero assorbito le sofferenze dei loro padroni e se ne fossero nutriti. Com'è difficile liberarsi di questi oggetti, pensai: se ne stanno lì acquattati e passivi, come pecore vampiro, aspettando che qualcuno li compri. Per quanto mi riguardava, non potevo permettermi di comprare quasi nulla. Da quei pellegrinaggi tornavo a casa esausta, senza più un briciolo di forza, mentre sulle loro bancarelle, le spille di corallo a forma di rosa e i fermagli di quarzo fumé continuavano a brillare nel buio, satolli come pulci. Non c'è da meravigliarsi che Paul cominciasse a sospettare che avessi un amante e andassi a trovarlo di nascosto. Una volta mi pedinò; lui credeva che non lo vedessi mentre giocava a rimpiattino tra le file di abiti da sera usati e boa di piume, come un buffo investigatore privato. Naturalmente, non si abbassava fino al punto di accusarmi di qualcosa. Invece montava su tutte le furie perché volevo andare a Portobello Road di domenica, la giornata ideale, mentre lui era del parere che avrei dovuto dedicargliela. Cominciò anche a prendersela con i miei romanzi, dicendo che erano frivoli e mediocri, e si infuriò quando gli detti allegramente ragione. Certo che erano frivoli e mediocri, dissi, ma non avevo mai preteso di essere una
scrittrice seria. La prese come un'allusione alle sue ambizioni di un tempo. Piuttosto che scoprire che non avevo un amante, probabilmente avrebbe preferito scoprire che lo avevo. Un amante lo avrebbe umiliato di meno. Paul cominciava a farmi paura. Mi aspettava in cima alle scale dopo le mie orge a Portobello Road, fermo come una colonna, senza dire una parola, e mentre salivo mi fissava con uno sguardo vendicativo e colmo di rimprovero. «Oggi ho visto un fantastico pupazzetto a molla vittoriano» attaccavo, ma il suono della mia voce era falso: sembrava falso anche a me. Mi sono sempre lasciata suggestionare molto dall'altrui modo di vedere, e cominciai a pensare che forse aveva ragione lui, che avevo per davvero un amante segreto. Certamente cominciavo a desiderarne uno, perché mi sembrava di lottare contro uno squalo: aveva smesso di essere gentile, mi pizzicava, mi mordeva e veniva in biblioteca nei giorni infrasettimanali. Niente di male, se non ci fossero stati quei suoi sguardi biechi, i silenzi pesanti, e la pistola, che mi faceva stare in pensiero. Per giunta, mi aveva appena comunicato che il governo polacco aveva deciso di lasciar uscire sua madre dalla Polonia. Aveva messo da parte del denaro per questa evenienza e ora finalmente lei sarebbe venuta, era più facile far uscire i vecchi che i giovani, disse. Ma non volevo che venisse ad abitare insieme a noi una contessa polacca - dove avrebbe dormito? - che avrebbe fatto commenti su di me in polacco, avrebbe preso le parti di Paul contro di me e gli avrebbe stirato i calzoncini da pugilato, cosa che mi rifiutavo di fare. Era molto devoto a sua madre, e la cosa era tollerabile solo finché era lontana. Ma quando accennai al fatto che volevo cambiare casa, con la scusa di lasciare più posto per loro due, non ne volle neppure sentir parlare. 16 Non parlai mai di Paul ad Arthur, e forse commisi un errore. Non gli sarebbe importato molto che vivessi con un altro uomo, però l'avrebbero scandalizzato il titolo, se così si poteva chiamare, di Paul, e le sue idee politiche. Qualsiasi donna capace di vivere con un uomo di quello stampo si sarebbe vista affibbiare da Arthur l'etichetta cattiva in un batter d'occhio, questo lo capii quindici minuti dopo averlo incontrato. Stavo passeggiando per Hyde Park, nel luglio del 1963. Da una parte e dall'altra mi giungeva il suono di discorsi gravidi di anatemi come l'Antico Testamento, ma li ascoltavo solo per metà. Fra poco avrei compiuto
vent'anni, ma non era nemmeno a quello che stavo pensando. Percorrevo, contando i passi, l'itinerario che avrebbe fatto Samantha Deane, l'eroina di Fuga dall'amore, fuggendo le illecite attenzioni di Sir Edmund De Vere. Aveva appena cercato di approfittare di lei nell'aula dei bambini, mentre tutti erano andati in gita al Palazzo di Cristallo. Samantha scese le scale di corsa, le gote ancora ardenti per il ricordo di ciò che era accaduto. Era seduta nell'aula dei bambini e lavorava al ricamo in lana che aveva in serbo per i suoi rari momenti di libertà. Non aveva sentito la porta aprirsi, né Sir Edmund avvicinarsi se non quando si trovava già a un metro dalla sua sedia. Era balzata in piedi con un grido di sorpresa. Sir Edmund aveva il volto congestionato e i capelli scomposti. Il suo ferreo autocontrollo era svanito. Mentre la fissava i suoi occhi mandavano bagliori, come quelli di un animale selvatico che fiuta la sua preda. «Sir Edmund» disse Samantha cercando di parlare con voce ferma, «che cosa significa questa intrusione? Perché non siete con gli altri al Palazzo di Cristallo?» Ma nonostante i suoi sforzi si sentiva le ginocchia deboli, a causa dello spavento oppure dell'emozione che cercava invano di sopprimere. «Sapevo che vi avrei trovata sola» disse egli, venendole più vicino. «Me ne sono andato senza farmi notare. Voi dovete avere pietà di me, dovete sapere quale inferno è la mia vita.» Quella non era un'accorata implorazione, ma un comando. L'afferrò per il polso e la trasse a sé, premendo la sua bocca dura contro quella di lei. Invano Samantha si divincolò, lottando ad un tempo contro di lui e contro i propri intempestivi desideri. Con mani bramose egli stava già tentando di strapparle dal collo il fichu... «Non dimenticate chi siete!» riuscì a dire ansimando. «Voi siete un uomo sposato!» Sir Edmund le rispose con un'aspra risata. In un momento di disperata lucidità si ricordò dell'ago corto e grosso che stringeva ancora nella mano destra. Lo sollevò e gli graffiò la guancia. Egli allentò la stretta, più per la sorpresa che per il dolore, e Samantha approfittò di quel momento per raggiungere la porta, chiuderla con un colpo alle sue spalle e girare la pesante chiave nella toppa. Era troppo atterrita per ricordare di prendere con sé un mantello o almeno uno scialle. Ed ora stava camminando precipitosamente nel parco, senza sapere nemmeno come aveva fatto ad arrivare fin là. Il suo leggero abito nero la proteggeva ben poco dalla gelida aria della sera. Dove sarebbe andata,
che cosa avrebbe fatto? E al loro ritorno, come avrebbe fatto Sir Edmund a spiegare agli altri, e soprattutto a Lady Letitia, come mai si trovava chiuso a chiave nell'aula e l'istitutrice era sparita? Qualunque cosa egli dicesse, l'avrebbe messa in cattiva luce, di questo era sicura; non poteva tornare indietro; e dopo quel che era successo, egli le avrebbe dato la caccia, l'avrebbe perseguitata... Nella sua borsetta a rete aveva solo pochi centesimi. Dove avrebbe passato la notte? Sagome scure le passavano rapidamente ai lati, e di quando in quando udiva delle risate basse e beffarde. Figlie del peccato, creature abiette e derelitte come anche lei sarebbe potuta diventare, se non avesse resistito... Ma forse, ora era esposta a un pericolo ancora maggiore. Sola, debole, indifesa, non rischiava forse di cadere nelle mani di qualche licenzioso gaudente? Ricordava ancora le lascive proposte del conte di Darcy, lo zio di Sir Edmund. Allora, era fuggita dalla sua dimora per recarsi da Sir Edmund, in cerca di protezione; ma ora il suo protettore mancava ai suoi impegni verso di lei... Udì dei passi alle sue spalle. Si rimpiattò nell'ombra di un albero, nella speranza di non essere notata, ma una sagoma indistinta apparve contro il sole calante e una voce, rauca di passione, sussurrò il suo nome... A questo punto della mia prova generale, sentii qualcosa sul mio braccio. Guardai; c'era davvero una mano. Strillai, piuttosto forte anche, e mi trovai sdraiata sopra un giovanotto ossuto dall'aria mortificata. Su di noi piovevano fogli di carta come coriandoli giganti. Poi numerosi membri della folla che si era subito radunata mi aiutarono ad alzarmi in piedi. «Chi ti stava dando fastidio, stella?» disse uno di loro, un uomo corpulento che odorava di birra. «Sovversivi della malora.» «Le stavo solo porgendo un volantino» disse il mio aggressore. Notai con orrore che aveva un taglietto sulla guancia. «Vuoi chiamare un poliziotto, stella? Dovrebbero sbatterli dentro, ecco quel che dovrebbero fare con la gente che dà noia alle ragazzine.» «No, grazie» risposi. Intanto, sia un antivivisezionista che un profeta di sventura erano scesi dalle loro casse di sapone per venire a dare una mano. Erano due vecchi quasi identici, dall'aria ascetica e fine, con gli occhi celesti da veggente. Quando videro che non mi ero fatta male, sia l'uno che l'altro mi dettero un opuscolo. «È stata tutta colpa mia» dichiarai pubblicamente. «È stato un malinteso. Pensavo che fosse un altro. Ho preso uno spavento, tutto qui. Ecco qua, la-
sci che le dia un fazzoletto di carta» dissi al giovanotto. «Mi dispiace molto di averla graffiata.» Rovistai nella mia borsa, ma non riuscii a trovarli. «Non fa nulla» disse stoicamente. Lui si era messo in ginocchio per raccattare i suoi volantini, e mi chinai per aiutarlo. Sui volantini c'era un disegno in bianco e nero che raffigurava un'esplosione atomica e il motto NON LASCIARE CHE IL MONDO SALTI PER ARIA. «Propaganda antiatomica?», chiesi. «Sì» disse mestamente. «Non è che serva a gran che. Ma bisogna andare avanti.» Lo guardai con maggiore attenzione. Portava un maglione nero a girocollo che mi parve elegantissimo. Un malinconico campione delle cause quasi perse, idealista e segnato dal destino, una specie di Lord Byron, del quale avevo appena scorso una biografia. Terminammo di radunare gli opuscoli, mi innamorai e andammo a bere qualcosa nel pub più vicino. Non fu una manovra difficile: mi bastò manifestare interesse nella sua causa. Avrei preferito che lui avesse un accento britannico; purtroppo era solo un canadese, come me, ma sorvolai su questo difetto. Mentre Arthur faceva la fila al banco per il mio doppio scotch e la sua Guinnes - le poche volte in cui beveva qualcosa, tendeva a preferire bevande che avevano fama di contenere minerali che facevano bene alla salute - annaspai ansiosamente alla ricerca di tutti i rimasugli di nozioni politiche che potevano essersi introdotte nel mio cervello a mia insaputa, come pezzetti di spinati tra i denti incisivi. Mi ero presentata come una persona che aveva se non altro un'infarinatura al riguardo; ora dovevo dimostrarmi all'altezza. Tirai fuori persino gli opuscoli che mi avevano dato e li scorsi rapidamente, nella speranza di trovare qualche informazione o qualche argomento di attualità. Uno esordiva così: Lo sapevate che «animale» significa «dotato di anima?»; gli animali a quanto pare, erano la quarta persona della trinità, e ci sarebbero stati anche loro, il giorno del Giudizio Universale. L'altro opuscolo era più ortodosso: l'Armageddon era poco lontano, e chi voleva salvarsi doveva condurre una vita pura. Quando Arthur tornò con i bicchieri, ero pronta. Ogni volta che il discorso diventava troppo specifico, dirottavo la conversazione sulla sorte dei profughi palestinesi. Sapevo un sacco di cose al proposito. Le sapevo dal tempo in cui avevo fatto parte del club delle Nazioni Unite al liceo di Braeside. Allora questo campo era abbastanza sconosciuto da destare l'attenzione di Arthur, e mi accorsi con un po' di vergogna di avergli fatto una discreta impressione.
Mi lasciai accompagnare a piedi fino alla stazione della metropolitana di Marble Arch. Non potevo invitarlo a casa mia, dissi a mo' di spiegazione, perché condividevo l'appartamento con una dattilografa molto grassa e scialba, che diventava triste e depressa se facevo venire nell'appartamento qualsiasi uomo per qualunque motivo. Era meglio evitare le telefonate, dissi; però, se mi avesse lasciato il suo numero di telefono... Lui non aveva telefono, ma tanto meglio così, perché mi invitò a una riunione per il giorno seguente. Illanguidita dal desiderio, mi recai nella biblioteca pubblica la stessa dove trovavo i miei libri sul costume - e presi in prestito tutti i libri di Bertrand Russell che riuscii a trovare, cosa che mi fece passare un momento difficile quando capitarono tra le mani di Paul. «Robaccia comunista» disse furibondo. «Non permetto che entri in casa mia.» «Stavo solo facendo delle ricerche» dissi. «Pensavo che stavolta avrei potuto scrivere qualcosa di più moderno, ambientato negli anni Venti.» «Non venderà» disse Paul. «Se si accorciano le gonne e si tagliano i capelli, non venderà. Preferiscono che la donna conservi il suo mistero. Proprio come me» aggiunse, baciandomi sulla clavicola. Una volta avrei trovato osservazioni di questo genere incantevoli e molto europee, ma ora cominciavano a darmi sui nervi. «Bel mistero» dissi, «se bastano pochi metri di stoffa e una parrucca. Guarda che anche gli uomini sono misteriosi, eppure non mi pare che abbiano i boccoli e portino vestiti da ballo lunghi fino alle caviglie.» «Ah, ma il mistero dell'uomo è la mente.» disse Paul scherzosamente, «mentre quello della donna è il corpo. Che cos'è un mistero se non qualcosa che rimane nascosto? Scoprire il corpo è più facile che scoprire la mente. È per questo che un uomo calvo non viene considerato un mostro di natura, mentre una donna calva sì.» «Immagino allora che la società sia più indulgente verso una donna ritardata che verso un uomo deficiente» dissi, con l'intenzione di fare del sarcasmo. «Proprio così» disse Paul. «Nel mio paese spesso sono state utilizzate come prostitute di infima specie, mentre un uomo senza cervello non poteva servire a nulla.» Sorrideva, convinto di aver dimostrato la sua teoria. «Oh, per l'amore del cielo» dissi. Me ne andai in cucina battendo i piedi, per farmi una tazza di tè. Paul era sconcertato. Si era anche insospettito: non riusciva ancora a spiegarsi il mio improvviso interesse per Bertrand Russell. Facevo molta fatica a capire quei libri, come pure, me ne resi conto, le
teorie e la politica in generale. Non volevo saltare per aria a causa della bomba atomica, ma d'altra parte non riuscivo a credere che una mia qualunque azione potesse impedirlo. Tanto valeva cercare di abolire l'automobile: se mi investivano, sarei morta lo stesso, ragionavo. Trovavo, però, che Russell aveva una faccia molto interessante, e gli diedi immediatamente una particina in Fuga dall'amore, nel ruolo di un anziano signore eccentrico e caritatevole che salva Samantha Deane a Hyde Park colpendo sulla testa il suo aggressore con l'ombrello. («Beccatevi questo, signore! Tutto bene, ragazza mia?» «Come potrò mai dimostrarle la mia riconoscenza?» «Vedo che siete una fanciulla ben educata e voglio credere alle vostre giustificazioni. Permettetemi di darvi asilo per la notte... La mia governante vi presterà una camicia da notte. Signora Jenkins, per cortesia, porti una tazza di tè a questa signorina.») Inoltre gli trovai un hobby - allevava pesciolini esotici - che mi permise di guardare con simpatia alle sue opere e di sopportare l'ammirazione venata da timore reverenziale che Arthur gli tributava. Se Arthur fosse venuto a sapere del mio Russell in versione romanzata sarebbe inorridito. Lui l'avrebbe definita una «volgarizzazione,» come fece molti anni dopo, quando non fui più in grado di nascondere quella mia particolare forma mentis. Anche quando mi dimostrai meno disposta a simulare il culto di ogni suo nuovo astro nascente: Arthur era volubile, non rimaneva mai fedele a lungo alla stessa corrente, e dopo esserci passata un paio di volte cominciai a diffidare. «E la signora Marx?» gli dicevo, oppure «Scommetto che la moglie di Marx avrebbe voluto che lui diventasse un medico.» Per tutta risposta ricevevo uno sguardo schifato, e allora me ne andavo in cucina a fantasticare sulla vita familiare di Marx. «Stasera no, caro, ho mal di testa, voi intellettuali siete tutti uguali, sempre con quell'aria trasognata, perché non cerchi di arrivare da qualche parte visto che sei tanto intelligente, non è certo il talento che ti manca.» Fidel Castro, però, doveva essere una tigre a letto, pensavo, con quei sigari e quella barba, e forse era questo il motivo per cui andava tanto di moda negli Stati Uniti e in Canada. Ma il mio preferito era Mao: si vedeva che era una buona forchetta. Lo immaginavo mangiare a quattro palmenti abbondanti pietanze cinesi, con gusto e senza sensi di colpa, mentre bambini felici gli si arrampicavano addosso. Assomigliava a un grosso omino della Michelin, in giallo però; scriveva poesie, si godeva la vita. La vita privata di Stalin era noiosa. Ma Mao, che giardino di delizie. Favoriva il teatro e i saltimbanchi, amava il rosso, le bandiere, le parate e il ping pong;
sapeva che la gente aveva bisogno di cibo e di svago, non solo di prediche. Mi piaceva pensarlo nella vasca da bagno, tutto coperto di sapone come un cherubino gigante, che sorrideva radioso e lanciava uno sguardo elogiativo alla donna in adorazione - io! - che gli strofinava la schiena. Quanto a me, non riuscivo ad amare una teoria. Non amavo Arthur a causa delle sue teorie, anche se gli conferivano una certa impersonale nobiltà, come un mantello di scena foderato di rosso cremisi. Lo amavo perché aveva le orecchie un pochino a sventola; per il modo in cui pronunciava certe parole - «aunt» e «grass,5 » ad esempio. Lui che veniva dalle province atlantiche diceva ahnt e grahss, mentre io, che ero dell'Ontario, dicevo ant e graas, e per me questo aveva il fascino dell'esotico. Amavo la sua deliberata trasandatezza, il suo fervido idealismo, le sue (a parer mio) ridicole economie - usava due volte la bustina di tè -, il modo in cui si infilava il dito nell'orecchio, la sua presbiopia e gli occhiali malridotti che era costretto a portare. Una volta gli dissi: «Mi sa tanto che ti piaccio solo perché non puoi vedermi bene da vicino.» Era un po' presto per fare una battuta del genere, e lui rispose: «No, non è per quello.» Poi ci fu un lungo, imbarazzante silenzio, come se Arthur stesse cercando di raccapezzarsi circa il motivo per cui gli piacevo. A meno che, pensai con una stretta allo stomaco, non si stesse domandando se gli piacevo oppure no. Questo era un problema. Non riuscivo a capire quali erano i sentimenti di Arthur nei miei confronti, se mai ne aveva. Sembrava che gli piacesse conversare insieme a me sulla filosofia della disobbedienza civile, o meglio erudirmi al proposito, dato che mi guardavo bene dallo svelare la mia ignoranza e più che altro annuivo. Mi concedeva di accompagnarlo a fare volantinaggio, e mangiavo con appetito i panini che mi portavo dietro per l'occasione. Mi parlò di quello che era stato il suo ambiente, di suo padre, il giudice, di sua madre, quella con le manie religiose. Suo padre avrebbe voluto che lui diventasse un avvocato, sua madre aveva insistito perché facesse almeno il medico missionario. Arthur si era opposto ad entrambi iscrivendosi a filosofia, ma non aveva resistito a tutti quei sillogismi («Un uomo calvo è calvo» disse, «che cosa c'entra questo con la condizione umana?» e una volta tanto gli detti ragione senza ipocrisia... fin quando non cominciai a pensarci su; e se fossi tu a essere calvo?). Se n'era andato dopo tre anni, per fare una pausa e meditare sulla sua vera strada. (Era questa la differenza tra di noi: per Arthur esistevano delle vere strade, magari molte, ma sempre una alla volta. Per me le strade non c'erano 5
Le due parole significano rispettivamente «zia» e «erba» (N.d.T.).
affatto. Macchie, fossati, stagni, labirinti, paludi, ma strade niente.) Poi aveva aderito al movimento contro la bomba atomica, che lo aveva tenuto occupato per due anni. Al movimento aveva dedicato molto tempo e molte energie, ma per un motivo o per l'altro era rimasto in una posizione marginale, era uno che distribuiva volantini. Forse perché era canadese. Io sprizzavo simpatia e comprensione da tutti i pori. Eravamo seduti in un ristorante economico che puzzava di grasso d'agnello, e mangiavamo piatti di uova al burro, patatine e piselli, la dieta abituale di Arthur. Stava per finire i soldi; presto avrebbe dovuto trovarsi un altro lavoro temporaneo, spazzare i pavimenti, piegare i tovaglioli o, nel caso peggiore, lavare i piatti; altrimenti avrebbe dovuto accettare quel che considerava il ricatto dei suoi genitori e riprendere i suoi studi all'università di Toronto, verso la quale provava un odio freddo e astratto. Nel suo appartamento di Earls Court c'era una piccola cucina, ma a lui non piaceva far da mangiare, e comunque la cucina era un caos. Divideva l'appartamento con altri due uomini, un neozelandese che studiava alla Scuola di Economia, si cibava di fagioli precotti in scatola, freddi e coperti di ketchup, e lasciava in giro dei piatti sporchi che sembravano teatri di minuscole stragi; e un radicale indiano dagli occhi di gazzella che si cucinava riso integrale e curry, lasciando anche lui i piatti in giro. Arthur era schizzinoso: non amava la confusione. Ma era talmente schizzinoso che non voleva mettere a posto, e per questo mangiavamo fuori. Un paio di volte andai da loro per mettere in ordine la cucina, ma invece di avere effetti positivi la cosa produsse alcuni effetti negativi. Arthur ricevette un'altra opinione sbagliata sul mio conto: non avevo l'indole della riordinatrice di cucine, e più tardi, quando se ne accorse, rimase molto deluso. Il neozelandese poi, che si chiamava Slocum, mi dette la caccia in cucina incalzandomi con le sue suppliche («Sii buona, è da quando sono arrivato in questo maledetto paese senza cuore che non mangio un boccone che è uno»), mentre il radicale indiano perse il rispetto che inizialmente aveva nutrito verso di me in quanto persona 'che faceva della politica' e si mise a sgranare gli occhioni e a lanciare fiamme dal naso. Evidentemente non si poteva essere signorine erudite e rispettabili e al tempo stesso anche sguattere. Nel frattempo con Arthur ci tenevamo mano nella mano, ma non riuscivo ad andare più in là; e la vita insieme a Paul diventava sempre più insopportabile. Che cosa sarebbe successo se mi avesse seguita, scoprendomi mentre distribuivo volantini insieme ad Arthur, e lo avesse sfidato a
duello, oppure avesse fatto qualcosa di altrettanto sconvolgente? Decisi che quello che amavo era Arthur, non Paul. Adottai delle misure drastiche. Attesi che Paul fosse uscito per andare in banca; poi radunai tutte le mie cose, inclusa la mia macchina per scrivere e il manoscritto incompleto di Fuga dall'amore, e feci i bagagli. Scrissi in fretta e furia un biglietto per Paul. Avrei voluto dirgli «Caro, è meglio così», ma capii che non era abbastanza melodrammatico e scrissi invece: «Ti sto rendendo infelice, non possiamo andare avanti così. Non era destino.» Dubitavo che sarebbe riuscito a rintracciarmi, e comunque non credevo che ci avrebbe provato, però non si poteva mai sapere, i punti d'onore erano il suo forte. Forse una sera si sarebbe materializzato sulla soglia brandendo qualche grottesca arma di scena, un coltello di carta o un rasoio. Non lo vedevo a usare la pistola: era troppo moderna. Prima che il mio sangue freddo mi abbandonasse, caricai tutti i miei bagagli su un tassì e li scaricai davanti al portone di Arthur. L'avrei trovato in casa, me ne ero accertata il giorno prima. «Mi hanno sfrattata» gli dissi. Arthur batté le palpebre. «Così, su due piedi?» disse. «Credo che sia vietato dalla legge.» «Beh, è successo lo stesso» dissi. «Per via delle mie simpatie politiche. Il padrone di casa ha trovato un po' di quei volantini... è reazionario in modo viscerale, non so se te l'ho mai detto. Ha fatto il pandemonio.» (Mi sembrava che in quella storia ci fosse un pizzico di verità. In fondo Paul era una specie di padrone di casa, ed era davvero un reazionario. Malgrado ciò, ero un'imbrogliona, e me ne vergognavo.) «Oh» disse Arthur. «Beh, se le cose stanno così...» Se le cose stavano così, ero una profuga politica. Mi invitò a entrare per riflettere insieme su quel che avrei dovuto fare, e mi aiutò persino a portare di sopra le valigie. «Sono senza denaro» dissi di fronte a una tazza di tè che mi ero fatta nella sudicia cucina. Neppure Arthur ne aveva. Stesso discorso, mi assicurò, per i suoi due compagni di stanza. «Non ho altri conoscenti, a Londra.» «Potresti dormire sul divano» disse, «finché non trovi un lavoro.» Cos'altro avrebbe potuto dire? Tutti e due guardammo un vecchissimo divano bitorzoluto; dalle sponde squarciate fuoriusciva l'imbottitura. Dormii due notti sul divano; poi andai a dormire con Arthur. Facemmo anche l'amore. Mi aspettavo un certo ardore, per via delle sue idee politiche, ma le primissime volte tutto si svolse a un ritmo decisamente più veloce di quello a cui ero abituata. «Arthur» gli chiesi con poco tatto, «eri mai andato a letto con una donna?» Ci fu una pausa, durante la quale sentii
che gli si irrigidivano i muscoli del collo. «Ma certo» rispose freddamente. Quella fu la prima e l'ultima bugia esplicita che mi disse di proposito. Ora che mi aveva lì, sotto il naso, insediata a casa sua, Arthur cominciò a curarsi di più di me. A modo suo, divenne persino affettuoso; mi spazzolava i capelli, concentrato e maldestro, e ogni tanto appariva alle mie spalle e mi prendeva tra le braccia senza motivo, come se fossi stata un orsacchiotto. Dal canto mio, ero al colmo della beatitudine e mi brillavano gli occhi: l'uomo giusto era arrivato, e anche una causa alla quale potevo votarmi. La mia vita significava qualcosa. C'erano dei problemi, però: l'indiano e il neozelandese, onnipresenti, aprivano la porta della nostra stanza la mattina per scroccare scellini ad Arthur, il neozelandese con uno sguardo malizioso, l'indiano con aria di ascetico distacco e riprovazione che aveva assunto non appena aveva scoperto che dormivamo insieme. O magari il neozelandese si sedeva sul divano, ascoltando la sua radiolina e facendo calcoli a bassa voce, mentre l'indiano faceva il bagno lasciando gli asciugamani per terra; gli piaceva dire che nessuno conosceva meglio di lui gli svantaggi della società delle caste, nella quale era stato allevato, però non era ancora riuscito a liberarsi da una concezione secondo la quale chiunque raccogliesse un asciugamano si abbassava al rango di servo. La mia presenza li offendeva; o meglio, li offendeva il fatto che ad Arthur fosse toccata quella fortuna. Quanto ad Arthur, lui non si accorgeva né del loro risentimento, né tanto meno della sua fortuna. L'altro problema era che non riuscivo a trovare né il tempo né lo spazio per lavorare a Fuga dall'amore. Quando Arthur usciva si aspettava che lo accompagnassi, e se per caso riuscivo a evitarlo, in casa rimaneva sempre uno degli altri due. Tenevo il manoscritto in una valigia, sotto chiave, perché sospettavo che il neozelandese curiosasse in camera nostra. Un giorno, al mio ritorno, scoprii che l'indiano aveva impegnato la mia macchina per scrivere. Promise che più avanti mi avrebbe risarcita, ma da quel momento in poi gli serbai rancore per ogni chicco di riso integrale che mangiava. Il mio denaro non bastava a riscattare la macchina dal banco dei pegni, e avevo fatto affidamento sulle duecento sterline che avrei ricevuto, come minimo, per il lavoro finito. Di nascosto, diventavo ogni giorno più disperata. Arthur non ne sapeva nulla: continuava a chiedersi perché mai non mi ero ancora trovata un posto di cameriera. Nel passato fittizio che avevo inventato a suo uso e consumo avevo incluso alcuni dettagli veri, e gli avevo detto che una volta avevo fatto la cameriera. Gli raccontai che ero stata ca-
poclaque, e ridemmo insieme sugli errori ideologici del mio passato. Nel giro di tre settimane di convivenza con loro, rimasi quasi completamente al verde. Malgrado ciò, un giorno sperperai scellini preziosi comprando uno scampolo di stoffa per le tende del bagno, una fantasia a fiori rossi e arancioni. Le avrei confezionate io stessa, cucendole a mano. Non avevo mai cucito nulla in vita mia. Salii le scale canterellando tra me e me e con la chiave aprii la porta dell'appartamento. Di fronte a me, ritta nel bel mezzo dell'anticamera, c'era mia madre. 17 Come aveva fatto a trovarmi? Stava in piedi sulla guida color argilla, molto diritta, e portava il tailleur blu marino col colletto bianco; i guanti, le scarpe e il cappello erano anch'essi bianchi, immacolati, e stringeva la borsetta sotto il braccio. Era truccata, e sopra la sua bocca ne aveva dipinta un'altra col rossetto, ma la bocca vera traspariva. Poi mi accorsi che stava piangendo, un pianto muto e raccapricciante; dai suoi occhi colavano lacrime nere, tinte dal mascara. Attraverso il suo corpo vedevo il divano sgangherato; sembrava quasi che l'imbottitura uscisse da lei. Mi si rizzarono i capelli in testa, balzai fuori dalla porta, la chiusi e mi ci appoggiai contro. È il suo corpo astrale, pensai, ricordando quel che mi aveva detto Leda Sprott. Ma perché non riusciva a far rimanere quel dannato aggeggio a casa, al suo posto? Immaginai mia madre in volo sopra l'oceano Atlantico, mentre l'elastico si assottigliava sempre più via via che si tendeva; se non stava attenta, quel filo si sarebbe spezzato, e allora sarebbe rimasta sempre con me, acquattata nell'anticamera come un diafano ricciolo di polvere o come la sua diapositiva Kodak del 1949. Che voleva da me? Perché non riusciva a lasciarmi in pace? Riaprii la porta, decisa ad affrontarla e a farla finita una volta per tutte, ma lei se ne era andata. Spostai immediatamente tutti i mobili, e fu un lavoro difficile, perché erano vecchi e pesanti. Poi feci il giro dell'appartamento per appurare se c'erano delle finestre aperte, ma erano tutte chiuse. Come aveva fatto ad entrare? Non parlai agli altri di quella visita fuori del comune. Rimasero un po' sconcertati per via dei mobili; non che gliene importasse, ma erano del parere che avrei dovuto consultarmi con loro. «Non volevo disturbarvi per
così poco» dissi, «mi pareva che stessero meglio così.» Attribuirono la cosa ai miei istinti casalinghi e dimenticarono l'episodio. Io, invece, non lo dimenticai: se quella volta mia madre era riuscita a volare in astrale oltre l'Oceano Atlantico, questo significava che avrebbe potuto rifarlo, e non avrei affatto gradito una nuova visita. Non ero sicura che lo spostamento dei mobili sarebbe bastato a tenerla lontana. Leda Sprott faceva così contro gli spiriti malintenzionati, ma mia madre non era uno spirito. Ricevetti il telegramma con cinque giorni di ritardo. Era rimasto per quattro giorni in giacenza alla Casa del Canada; infatti continuavo a farmi spedire la corrispondenza a quell'indirizzo e lo usavo come mittente le rare volte in cui scrivevo cartoline a mio padre, in caso mia madre si fosse messa in testa di fare delle indagini su di me per rintracciarmi. Non andavo spesso a ritirare la mia corrispondenza, perché non ricevevo altro che le infrequenti cartoline di mio padre, tutte uguali, con la fotografia di Toronto vista da Central Island di notte - evidentemente doveva averne comprate parecchie dozzine in una volta, di quelle cartoline - accompagnata dal messaggio «Qui tutto bene,» che sembrava una parola d'ordine. Il telegramma diceva: TUA MADRE MORTA IERI. TORNA PER FAVORE. TUO PADRE. Lo lessi tre volte. Dapprima sospettai che fosse una trappola: l'aveva spedito mia madre, aveva copiato l'indirizzo da una delle mie cartoline distrattamente lasciate in giro da mio padre, stava cercando di farmi rientrare nel suo raggio d'azione. Ma in quel caso avrebbe scritto TUO PADRE MORTO IERI. Tuttavia, forse aveva capito che non avevo intenzione di tornare finché lei era viva, e mi aveva mandato quel telegramma come un finto segnale di via libera. E se invece era morta davvero? In tal caso, quella capatina nella mia anticamera l'aveva fatta per mettermi al corrente. Non volevo proprio crederci, ma sospettavo che le cose fossero andate così. Dovevo tornare. Quando rientrai in casa, il radicale indiano, seduto sul pavimento a gambe incrociate, stava spiegando ad Arthur, seduto sul divano, che un numero eccessivo di rapporti sessuali avrebbe indebolito lo spirito e quindi anche il suo intelletto, rendendolo politicamente inutilizzabile. Occorreva, disse, far salire il liquido seminale lungo la colonna vertebrale, fino alla ghiandola pituitaria. Fece l'esempio di Gandhi. Per un paio di minuti ascoltai questa conversazione dietro la porta socchiusa (avevo mantenuto l'abitudine di origliare dietro le porte), ma siccome non riuscivo a sentire le risposte di Arthur, se rispondeva, entrai.
«Arthur» dissi, «devo tornare in Canada. Mia madre è morta.» «Ma se è già morta» obiettò, «perché partire? Non puoi farci nulla.» Aveva ragione, ma dovevo assolutamente sapere se era davvero morta. Anche se avessi chiamato a casa in intercontinentale e avessi parlato con mio padre, non avrei avuto la certezza... dovevo vederla. «Non posso spiegarti» dissi, «è una questione di famiglia. Devo andarci per forza.» Poi tutti e due ci ricordammo che non avevo denaro. Perché mio padre non me ne aveva mandato? Aveva supposto che fossi capace e pronta a far fronte alle mie necessità finanziarie; dava sempre per scontato che stavo benissimo, che ero una ragazza con la testa a posto. Mia madre non avrebbe fatto quell'errore. «Troverò una soluzione» dissi. Mi sedetti sul letto mangiandomi le unghie. La mia macchina per scrivere era impegnata, Fuga dall'amore era chiuso nella mia valigia, non l'avevo toccato da quando mi ero trasferita da Arthur; era rimasto a metà. I soldi che avevo non mi sarebbero bastati nemmeno per comprare la carta per finirlo. Avrei potuto scrivere a mio padre chiedendogli del denaro, ma questo significava buttar via una preziosa sterlina, e oltretutto il mio conto in banca a Londra era a nome di Louisa K. Delacourt. Sarebbe stato difficile da spiegare a mio padre, soprattutto per telegramma. Poteva offendersi. Di nascosto, misi in borsa il mio manoscritto. «Vado in biblioteca» dissi ad Arthur. Prima di andarmene, trafugai uno dei blocchi per appunti gialli di poco prezzo del neozelandese e una penna a sfera. Non era il caso di chiederli in prestito: ci sarebbe stata un'inchiesta. Nei due giorni che seguirono rimasi seduta nella sala lettura della biblioteca, scrivendo faticosamente a stampatello e cercando di eliminare dal mio campo uditivo i fruscii, gli scricchiolii, i respiri asmatici e i colpi di tosse catarrosi degli altri lettori. Samantha Deane fu precipitosamente rapita dalla sua stanza da letto in casa del bonario allevatore di pesciolini; minacciata di violenza carnale dal famigerato conte di Darcy, malfamato zio dell'eroe; salvata dall'eroe; nuovamente sequestrata dai sicari della malvagia contessa di Piemonte, la florida bellezza di origine italiana che un tempo era stata amante dell'eroe. La povera Samantha veniva sballottata su e giù per Londra come un sacco di patate, per poi finire tra le braccia dell'eroe la cui moglie, Lady Letitia, che era sempre stata debole di mente, moriva di febbre gialla, mentre la contessa, ormai quasi pazza, andava incontro alla morte tuffandosi da un bastione durante un temporale e il conte si rovinava con il crollo della Compagnia del Pacifico. Era uno dei libri più brevi che avessi mai scritto, però aveva un ritmo serrato o, come diceva la
copertina, gli eventi si susseguivano senza tregua creando una magnifica tensione. Ne trovai una copia a Toronto, quando uscì. Samantha, in azzurro e con i cappelli increspati come alghe marine contro un'enorme nuvola, era deliziosa, e il castello dei De Vere incombeva minaccioso sullo sfondo. Ma mi pagarono meno del solito, in parte a causa della brevità - Columbine pagava a parola - e in parte perché quei maledetti sapevano che il denaro mi serviva urgentemente. «Il finale è un po' sconclusionato» diceva la lettera. Comunque bastava per un biglietto aereo di sola andata. Mia madre era morta, d'accordo. Come se non bastasse, non ero andata al funerale. Non mi era venuto in mente di telefonare dall'aeroporto e così, quando salii i gradini davanti al portone di casa a Toronto, non sapevo nemmeno se avrei trovato qualcuno a ricevermi oppure no. Era sera, e in casa le luci erano accese. Bussai; non rispose nessuno e provai ad aprire la porta, vidi che era già aperta ed entrai. Mi accorsi subito che mia madre era morta perché alcune poltrone erano ancora coperte dalle loro fodere di plastica ed altre no. Mia madre non avrebbe mai fatto una cosa del genere. Secondo lei le custodie o si mettevano o si toglievano: il salotto aveva due identità separate e distinte, a seconda che avesse degli ospiti o meno. Le poltrone scoperte erano vagamente oscene, come patte sbottonate. Mio padre era seduto su una delle poltrone, e aveva le scarpe. Questo era un altro indizio. Stava leggendo un libro in brossura, ma distrattamente, come se non avesse più avuto bisogno di immergersi completamente nella lettura. Me ne accorsi un attimo prima che lui mi notasse. «Tua madre è morta» disse. «Entra e mettiti a sedere, devi aver fatto un lungo viaggio.» Il suo viso era più rugoso di quanto ricordassi, aveva i tratti più marcati. Un tempo era stato liscio come una moneta, addirittura come una moneta logora, coi lineamenti quasi cancellati, ma non del tutto: velati e indistinti, come intravisti dietro fitte garze. Ora, invece, la sua faccia cominciava ad apparire, con gli occhi azzurri e astuti (non avevo mai pensato che mio padre potesse essere astuto) e la bocca sottile e persino un po' sprezzante, una bocca da giocatore d'azzardo. Perché non me ne ero mai accorta? Mi raccontò che una sera, rientrando dall'ospedale, aveva trovato mia madre ai piedi delle scale della cantina. Aveva un livido sulla tempia e il collo torto in modo strano: lui si era accorto quasi subito che era fratturato. Aveva chiamato un'ambulanza più che altro per questione di forma, ben-
ché avesse capito che era morta. Lei aveva indosso la vestaglia e le pantofole rosa, e probabilmente, disse mio padre, era inciampata, era caduta per le scale battendo più volte la testa e in fondo alle scale si era rotta il collo. Mi lasciò capire che negli ultimi tempi beveva molto. L'inchiesta si era conclusa con un verdetto di morte accidentale. Non poteva trattarsi che di questo, visto che in casa non c'erano tracce di altre persone e non mancava nulla. Questo fu il più lungo colloquio che ebbi mai con lui. Fui sopraffatta da un'ondata di rimorso, per molte ragioni. L'avevo abbandonata, l'avevo piantata in asso pur sapendo quanto era infelice. Nel sospetto che si trattasse di una sua trama, avevo diffidato del telegramma, e non ero riuscita nemmeno a tornare per il suo funerale. Le avevo chiuso la porta in faccia nel preciso istante della sua morte - che comunque non poteva essere stabilito con certezza, perché quando mio padre l'aveva trovata lei era già morta da almeno cinque o sei ore. Avevo l'impressione di averla uccisa io, anche se ciò era impossibile. Quella sera aprii il frigorifero, il suo frigorifero, e mi rimpinzai di tutto quel che conteneva, mangiando a velocità frenetica e senza gusto mezzo pollo, un etto e mezzo di burro, una torta alla crema di banana che veniva dal supermercato, due pagnotte e un vasetto di marmellata di fragole che avevo trovato nella credenza. Mi aspettavo da un momento all'altro che mia madre si materializzasse sulla soglia, con quella sua aria disgustosa e segretamente compiaciuta - amava cogliermi sul fatto - che ricordavo tanto bene, ma questo mio rituale, con il quale in precedenza l'avevo evocata più volte, non bastò a farla comparire. Durante la notte vomitai tre volte: quella fu l'ultima delle mie ricadute. Cominciai a nutrire dei sospetti il giorno dopo a colazione, quando mio padre rivolgendomi il suo nuovo sguardo sornione mi disse, col tono di chi sta recitando una parte: «Forse farai fatica a credermi, ma io amavo tua madre.» Certo che facevo fatica a credergli. Sapevo che dormivano su due letti gemelli, sapevo delle recriminazioni, sapevo che secondo mia madre sia io che mio padre non eravamo riusciti a procurarle le soddisfazioni alle quali sentiva di aver diritto. Diceva sempre che nessuno l'apprezzava come meritava, e questa non era mania di persecuzione. Non l'apprezzava nessuno, anche se aveva fatto quel che si doveva, anche se aveva dedicato la sua vita a noi, facendo della famiglia la sua professione, proprio come le avevano insegnato, e i risultati eccoli lì: una sciattona grassa e immusonita per figlia e un marito che si rifiutava di andare ad abitare a Rosedale, quartiere
bene abitato da anglosassoni rispettabili, dove prima era vissuto con la sua famiglia; si vergognava forse di lei? La risposta, con tutta probabilità, sarebbe stata sì, anche se mio padre durante quelle conversazioni, non diceva nulla o tutt'al più affermava che Rosedale non gli piaceva. Mia madre diceva che mio padre non l'amava, e io le credevo. Ancora più strano era che sentisse la necessità di dirmi: «Amavo tua madre.» Voleva convincermi, questo era evidente; ma era altrettanto evidente che non credeva che sarei tornata davvero dall'Inghilterra. Aveva già dato i vestiti di mia madre agli Invalidi Civili, aveva lasciato numerose impronte sul tappeto, i piatti sporchi nel lavello erano lì da almeno tre giorni, stava sistematicamente trasgredendo tutte le regole. Il secondo giorno disse una cosa ancora più sospettosa. Disse: «Senza di lei non è più lo stesso» e mentre lo diceva sospirava e mi guardava. Mi supplicava con gli occhi di credergli, di stare al suo gioco, di tenere la bocca chiusa. Ebbi una repentina visione di mio padre che usciva di soppiatto dall'ospedale, con la mascherina sul viso in modo da non essere riconosciuto, tornava a casa in macchina, apriva la porta con la sua chiave, si toglieva le scarpe, si infilava le pantofole e scivolava alle spalle di mia madre. Era un medico, era stato con i partigiani, aveva già ucciso: non avrebbe avuto difficoltà a romperle il collo e a simulare un incidente. Nonostante le sue rughe e i suoi sospiri pareva soddisfatto, come uno che l'ha fatta franca. Invano mi ripetevo che lui non avrebbe mai fatto una cosa del genere. Eppure chiunque potrebbe fare cose di qualsiasi genere, date le circostanze favorevoli. Cominciai ad andare a caccia di moventi: un altro uomo, un'altra donna, un'assicurazione sulla vita, un'unica colpa schiacciante. Esaminai i colletti delle camicie di mio padre in cerca di tracce di rossetto, passai al vaglio le carte che avevano un aspetto ufficiale chiuse nei cassetti della sua scrivania, captai le poche telefonate che ricevette accucciandomi sulle scale. Ma non trovai nulla, e rinunciai alle mie indagini molto prima di quanto avrei fatto se fossi stata convinta. Del resto, che cosa avrei fatto se avessi scoperto che mio padre era una assassino? Dirottai le mie congetture su mia madre; potevo permettermi di fare congetture sul suo conto, ora che non c'era più. Che cosa le avevano fatto perché lei mi trattasse in quella maniera? Ora più che mai avrei voluto chiedere a mio padre se mia madre era incinta quando si erano sposati. E quel giovanotto sul suo album di fotografie, con i pantaloni di flanella bianca e la macchina di lusso con il quale, mi aveva detto, si era in un certo senso fidanzata? In un certo senso. Forse quelle parole nascondevano un
dramma. L'aveva lasciata perché era figlia di un capostazione della Ferrovia Canadese del Pacifico? Mio padre era stato solo un ripiego, anche se per lei significava salire un gradino più in alto? Tirai fuori l'album fotografico per rinfrescarmi la memoria. Forse le espressioni dei loro visi mi avrebbero fornito qualche indizio. Ma in tutte le fotografie sulle quali appariva l'uomo dai pantaloni di flanella bianchi, la sua faccia era stata tagliata via nettamente, come con una lama di rasoio. Anche le facce di mio padre mancavano. C'era solo mia madre, giovane e graziosa, che sorrideva allegramente all'obiettivo e stringeva le braccia dei suoi uomini acefali. Rimasi seduta per un'ora intera con l'album di fotografie aperto sul tavolo davanti a me, sbigottita da quella testimonianza del suo tremendo furore. Quasi la vedevo, le lunghe dita intente all'opera con rabbia meticolosa, mentre amputava quel passato che si era trasformato nel presente e l'aveva tradita, intrappolandola in quella casa, quel sepolcro imbottito di plastica senza vie d'uscita. Così doveva essersi sentita. Mi venne in mente che forse si era suicidata, anche se non avevo mai sentito dire che qualcuno si fosse suicidato gettandosi dalle scale della cantina. Questo avrebbe spiegato i modi ambigui di mio padre, il suo desiderio di essere creduto, la sua fretta di sbarazzarsi degli oggetti personali di mia madre, i quali forse gli ricordavano la sua parte di colpe. Per la prima volta nella mia vita cominciai a pensare che era ingiusto che zia Lou piacesse a tutti mentre mia madre, in fondo, non piaceva a nessuno. Era troppo viscerale, per piacere davvero. Ma anch'io avevo la mia parte di torto. Avevo fatto male a voler vivere la mia vita e ad andarmene? Per lei ero stata la grassona mongoloide, la figlia ritardata che la faceva sfigurare e la squalificava, dimostrando che lei non era quel che sembrava. Le mettevo i bastoni tra le ruote, ero la contraddizione vivente alle sue pretese di signorilità ed eleganza. Eppure dopo tutto era mia madre, qualche volta doveva pur avermi trattata come una bambina, anche se non ricordavo che scene fuggevoli, quando mi prendeva in braccio perché mi guardassi nello specchio triplo, ad esempio, oppure quando mi coccolava in pubblico, di fronte ad altre madri. Rimuginai su di lei per giorni e giorni. Volevo sapere com'era stata la sua vita, ma anche com'era stata la sua morte. Come erano andate veramente le cose? E, soprattutto, se era morta in pantafole e vestaglia rosa, come mai era apparsa nel mio ingresso con indosso il suo tailleur blu marina del 1949? Decisi di cercare Leda Sprott e chiederle un colloquio privato.
Cercai il suo nome sull'elenco telefonico, ma non c'era. Non c'era nemmeno la Cappella del Giordano. Presi un tram, andai nel quartiere dove si trovava un tempo, e mi misi a cercarla girando per le strade del circondario. Finalmente vidi la casa; era senza dubbio quella: ricordavo il distributore di benzina all'angolo. Ma ora ci abitava una famiglia di portoghesi che non sapeva darmi nessuna informazione. Leda Sprott e la sua piccola brigata di Spiritualisti erano svaniti nel nulla. Restai con mio padre nove giorni e vidi andare in rovina la casa di mia madre. I suoi cassetti e i suoi armadi erano ormai svuotati, il letto era fatto ma nessuno lo usava. Sul prato erano spuntati dei fiori selvatici, tutt'intorno alla vasca da bagno si erano formati degli aloni, il pavimento era pieno di briciole. Mio padre non era disturbato dalla mia presenza, ma non fece pressioni perché rimanessi. Eravamo stati per tutta la vita dei congiurati silenziosi, e ora che non eravamo più costretti a tacere non sapevamo cosa dirci. Un tempo avevo pensato che fosse mia madre a tenerci lontani, e che se non fosse stato per lei noi saremmo vissuti felici e contenti, come Nancy Drew, l'investigatrice dei gialli per ragazzi, e il suo comprensivo papà che faceva l'avvocato, ma mi ero sbagliata. In realtà era stata mia madre a tenerci uniti, come una calamità nazionale, come un bombardamento aereo. Finalmente mi trovai una stanza per conto mio, in Charles Street. Non me la sarei potuta permettere, ma mio padre disse che aveva intenzione di vendere la casa e trasferirsi in un monocamera più servizi in Avenue Road. (Finì per risposarsi con la segretaria di un avvocato, simpatica, che incontrò dopo la morte di mia madre. Andarono ad abitare in un villino a Don Mills.) Per un certo periodo, dopo la morte di mia madre, non riuscii a scrivere. Gli intrecci collaudati non mi interessavano più, ma non me ne venivano in mente di nuovi. Ci provai - cominciai a scrivere un romanzo intitolato Uragano a Castleford - ma l'eroe giocava a biliardo tutto il santo giorno e l'eroina passava la notte seduta sulla sponda del letto, sola, senza far nulla. Penso di non aver mai scritto niente di più vicino al realismo socialista. Il pensiero di Arthur contribuiva ad aggravare il mio stato depressivo. Non avrei mai dovuto partire, mi ripetevo. C'eravamo dati un bacio d'addio all'aeroporto - beh, non proprio all'aeroporto, ma mi aveva accompagnato fino al terminal degli autobus della BOAC - e gli avevo detto che sarei tornata appena potevo. Gli avevo scritto fedelmente ogni settimana, spiegandogli che non potevo tornare subito perché ero senza denaro. Per un po' mi aveva risposto: strane lettere piene di notizie sulla sua attività di volanti-
naggio, che si concludevano con «cordiali saluti». (In fondo alle mie, io scrivevo: «Con tanto amore e un milione di baci, Joan.»). Poi silenzio. Non osavo pensare a quel che poteva essere successo. C'era un'altra, magari qualche ragazzetta dispensatrice di opuscoli? Forse mi aveva semplicemente dimenticata. Ma come aveva fatto, se avevo lasciato nel suo appartamento quasi tutti i miei bagagli? Trovai lavoro come dimostratrice di prodotti di bellezza al banco dei cosmetici dei magazzini Eaton, dovevo vendere del mascara. Ma siccome la notte piangevo molto e avevo gli occhi gonfi, mi fecero passare al reparto parrucche. Quelle sintetiche, nemmeno quelle vere. Non era un lavoro interessante, e mi deprimeva quella vana ricerca della gioventù e della bellezza da parte delle clienti. Ogni tanto, quando nessuno mi guardava, mi provavo anch'io le parrucche, ma quasi sempre quelle grigie. Volevo vedere come sarei stata da vecchia. Sarei diventata vecchia presto, pensavo, e nel frattempo non mi sarebbe successo niente, perché nulla e nessuno mi interessava. Ormai ero certa di essere stata abbandonata. Ero infelice. 18 Sola e straniera, a Roma, seduta sul bordo di un marciapiede, sulla valigetta della mia Olivetti portatile, piangevo. Qualche passante si fermava; qualcuno mi rivolgeva la parola. Volevo riavere Arthur, lo volevo lì, insieme a me. Gli avrei spiegato tutto, e non avrebbe potuto aversene a male. Avevo combinato un bel pasticcio... Mi alzai in piedi, mi asciugai la faccia con un angolo del foulard, e mi guardai intorno alla ricerca di un'edicola. Comprai la prima cartolina che mi capitò e scrissi sul retro: Non sono morta davvero, ho dovuto partire. Vieni presto. Baci. Non mi firmai e non scrissi indirizzi: avrebbe capito chi ero e dove mi avrebbe trovata. Dopo averla imbucata, mi sentii molto meglio. Sarebbe andato tutto bene; non appena avesse ricevuto la mia cartolina, Arthur sarebbe volato da me attraverso l'oceano, ci saremmo abbracciati, gli avrei detto tutto, mi avrebbe perdonata, lo avrei perdonato e avremmo potuto ricominciare tutto da capo. Si sarebbe reso conto che non potevo assolutamente tornare in Canada e avrebbe cambiato nome. Insieme avremmo sepolto tutti i suoi vecchi vestiti e ne avremmo comprati di nuovi, una volta che avessi venduto Preda d'amore. Si sarebbe fatto crescere la barba, o i baffi - qualcosa di distinto e ben definito, non quel vello informe che faceva assomigliare
gli uomini ad ascelle indisciplinate - e avrebbe potuto persino tingersi i capelli. Mi ricordai della mia tintura. Individuai l'equivalente di una profumeria e per un po' esaminai minuziosamente coloranti, tinture, I lozioni e cachets. Alla fine la mia scelta cadde su «Carissima» di Lady Janine, una morbida e calda tonalità castana dalle sfumature autunnali e dai riflessi dorati, ravvivata da un pizzico di lucentezza. Mi piaceva che ci fossero molti aggettivi sulle scatole dei miei prodotti di bellezza; se ce n'erano pochi, mi sentivo truffata. Per festeggiare la nascita della mia nuova identità (una ragazza di buon senso, riservata, cordiale, onesta e sicura di sé, con dolci occhi verdi, abitudini regolate e capelli castano dorati), mi comprai un fotoromanzo6 e mi sedetti in un caffè all'aperto per leggerlo e mangiare un gelato. Se Arthur fosse stato presente mi avrebbe aiutata a leggere il fotoromanzo. Facevamo esercizio d'italiano così, leggendoci ad alta voce l'uno con l'altro le didascalie dei fumetti rettangolari, cercando le parole difficili sul nostro dizionario tascabile e desumendo i significati dalle fotografie. Arthur trovava la cosa un po' degradante; io la trovavo avvincente. Erano tutte storie di torride passioni, ma gli uomini e le donne non avevano mai la bocca aperta, gli arti erano atteggiati come quelli dei manichini, le teste erano poggiate sui colli come dei cappelli. Capivo quelle convenzioni, quel senso del decoro. L'Italia assomigliava di più al Canada di quanto paresse a prima vista. Tutti quegli urli a bocca chiusa. Nel fotoromanzo che stavo leggendo la madre era l'amante segreta del promesso sposo, il fidanzato della figlia. Ti amo, diceva lei, con volto inespressivo. Aveva indosso un negligé. «Non disperare» diceva lui, afferrandola per le spalle. Sembrava che non si dicessero mai nulla di veramente utile per me, del tipo: «Quanto costano i pomodori?» Nella vignetta successiva il negligé della donna le era scivolato giù da una spalla. Un'ombra si allungò verso di me. Trasalii e alzai lo sguardo: ma era solo uno sconosciuto, denti bianchi, abito troppo stirato, cravatta di fibra sintetica rosa e verde. Sapevo che le signorine non dovevano sedersi da sole nei bar, ma quello non era un bar ed eravamo in pieno giorno. Forse era stato il mio fotoromanzo ad attirare la sua attenzione. Lo chiusi, ma lui si era già seduto al mio tavolo. «Scusi, signora.» Mi fece una domanda; non avevo idea di che cosa volesse dire. Sorrisi debolmente e dissi: «Inglese, no parlo italiano», ma lui 6
In italiano nel testo, come le altre in corsivo (N.d.T).
sorrise ancora più profondamente. Nei suoi occhi vidi i nostri indumenti cadere per terra; poi cademmo anche noi, il tavolino bianco con il piano di vetro si ribaltò disseminando cocci dappertutto. Non ti muovere Signora, non muovere nemmeno la mano con la fede, dov'è tuo marito? Altrimenti ti taglierai e ci sarà un sacco di sangue. Rimani qui per terra insieme a me, e lascia che ti passi la lingua sul pancino. Mi rimisi faticosamente in piedi, raccattai la borsetta, ripresi la macchina per scrivere. L'uomo alla cassa sogghignava, mentre pagavo il conto. Ma come avevo potuto permettermelo, con un uomo come quello, con le scarpe a punta e la cravatta rosa e verde di fibra sintetica? Mi ricordava il verduraio della piazza del mercato, con quei suoi occhi color dell'uva, che carezzava il velluto delle pesche e sollevava i pompelmi soppesandoli possessivamente come fossero seni. La mia mano era scivolata tra i suoi lanosi capelli e ci eravamo sentiti trasportare verso l'alto, su un'ondata di prugne e mandarini, mentre intorno a noi si attorcigliavano pampini... Arthur, pensai, fa' in modo di ricevere la mia cartolina al più presto, altrimenti succederà qualcosa di deplorevole. Quando rientrai a Terremoto era ormai pomeriggio inoltrato. Andai alla posta, come facevo ogni giorno, nella speranza di trovare notizie di Sam. Fino a quel giorno non era arrivato nulla. «Louisa Delacourt» dissi come al solito, ma stavolta l'impiegato si girò con tutto il corpo, come l'indovina di cera della Mostra Nazionale Canadese che estraeva un biglietto per chi le dava un centesimo. Dall'apertura dello sportello uscì la sua mano, con una busta blu per posta aerea. Fuori, lontano dagli sguardi dei poliziotti sfaccendati, la aprii strappandola e lessi una sola parola: BETHUNE. Nel nostro codice, voleva dire che il piano era riuscito. Se invece avessimo fatto fiasco, ci sarebbe stato scritto TRUDEAU. Sam era convinto che la polizia ispezionasse la sua corrispondenza, non solo quella che riceveva, ma anche quella che spediva. «Adesso li sistemo io, quei coglioni» aveva detto. «Vediamo un po' se capiscono questa.» Appallottolai la sottile lettera blu e me la infilai in borsetta. Mi invase un gran senso di sollievo, ora ero davvero libera; durante l'inchiesta tutto era andato bene, le testimonianze di Sam e Marlene erano state credute, avevo avuto un infortunio in barca. Ero ufficialmente morta, anche se il cadavere non era stato ritrovato.
Charlotte stava prendendo il tè insieme alla signora Ryerson, l'amabile e paffuta governante. Fino a quel momento, era l'unica persona in tutta la casa di cui Charlotte si potesse fidare. Il fuoco ardeva nel camino, diffondendo calore e un riverbero rosato. Nonostante ciò, Charlotte non si sentiva del tutto sicura. Si stava domandando se avrebbe dovuto parlare alla signora Ryerson dello scempio del suo guardaroba, ma decise di non farlo, non subito almeno... «Signora Ryerson» disse Charlotte, imburrando una tartina, «che cos'è questo labirinto?» Sul volto della signora Ryerson passò un'ombra. «Che labirinto, signorina?» «Tom, il cocchiere, mi ha consigliato di non accostarmi al labirinto.» «E se fossi in voi io non lo farei, signorina!» disse la signora Ryerson con calore. «È un brutto posto, il labirinto, soprattutto per le giovinette.» «Ma che cosa è?» chiese Charlotte, sconcertata. «Quel labirinto lì, signorina, l'hanno piantato gli antenati del padrone centinaia d'anni fa, al tempo della buona regina Elisabetta, così si dice. Il padrone non ne parla mai, da quando Lady Redmond, la prima, ci si perdette, e poi anche la seconda, e dire che era giorno fatto. C'è chi dice che lì dentro danzano le fate, che non amano gli intrusi, ma questa è una superstizione. Anche la prima Lady Redmond diceva così, e ci entrò proprio per dimostrare che non c'era pericolo, ma non uscì mai più. Lo perlustrarono, poi, ma non trovarono nulla, nulla tranne uno dei suoi guanti, era un guanto di capretto bianco.» Charlotte era sbalordita. «Volete dire... che c'è stata più di una Lady Redmond?» chiese. La signora Ryerson annuì. «Questa qui è la terza» disse. «La seconda, anche lei un tesoro di ragazza, era tanto curiosa di sapere quel che era successo alla prima che è entrata anche lei. Quella volta la sentirono urlare ma quando entrarono - c'era Tom il cocchiere e due stallieri - era sparita. Scomparsa in un batter d'occhio. Là dentro è tutto inselvatichito, sapete, signorina.» Suo malgrado, Charlotte rabbrividì. «Guarda guarda... È straordinario» mormorò. Provava un vivo desiderio di visitare il labirinto, di esaminarlo, fosse pure dall'esterno. Agli agenti soprannaturali lei non ci credeva. «E... l'attuale Lady Redmond?» chiese. «Lei non si avvicina al labirinto, per quel che ne so io» rispose la signora Ryerson. C'è chi dice che il labirinto non ha un centro, e che è per que-
sto che si perdono, ci capitano dentro e non riescono a uscire. C'è chi dice che la prima Lady Redmond e anche la seconda siano ancora là dentro, che vagano in tondo.» La signora Ryerson lanciò uno sguardo dietro le sue spalle e, nonostante il tepore della stanza, si strinse addosso lo scialle. Charlotte terminò la tartina e si leccò le dita con pignoleria. «Andiamo, è una cosa ridicola» disse. «Chi ha mai sentito parlare di un labirinto senza centro?» disse. Intanto però ripensava con inquietudine agli avvenimenti della notte precedente. Si trovava nella sua camera da letto e aveva sentito un rumore... un rumore che proveniva dall'esterno, dalla terrazza, in basso... un rumore di passi... e poi, era certa di non essersi ingannata, qualcuno l'aveva chiamata per nome. Un tremito di ghiaccio l'aveva attraversata. Si era alzata ed era andata alla finestra. Là, al di sotto di lei, ben visibile alla luce fatata della luna, che era appena spuntata da un cespuglio di nubi diafane, c'era qualcuno... una figura avvolta in uno scuro mantello, che le nascondeva i lineamenti. Mentre Charlotte la guardava, la sagoma misteriosa si volse e cominciò ad allontanarsi a passi misurati. Ma chi era che cercava di confonderla con tutti quei misteri? La collera e la curiosità ebbero il sopravvento sulla sua paura: voleva vederci chiaro. Scese in fretta le scale di servizio che terminavano, come sapeva, in una porta laterale che si apriva sulla terrazza. Fece appena in tempo a intravedere la figura mentre scompariva oltre un imponente portale in fondo al vialetto della terrazza. Charlotte, temerariamente, la seguì, scendendo a precipizio la gradinata di pietra. Di fronte a lei si stendeva il prato, con le sue aiuole di fiori, aiuole simmetriche, e più in là... l'ingresso del labirinto, ha figura ammantata si lanciò verso l'entrata e sparì; si udì una risata sommessa che proveniva da un punto impreciso. Charlotte rimase immobile... Improvvisamente la assalì un grande terrore. Qualcosa la attirava verso il labirinto, irresistibilmente, contro la sua volontà, ma sapeva che se fosse entrata le sarebbe successo qualcosa di orribile. Una stretta al braccio la fece trasalire: gridò e vide il volto scuro ed enigmatico di Redmond. «È un po' tardi per uscire, no?» disse in tono di scherno. «O forse avevate intenzione di... incontrare qualcuno? Si direbbe che vi siate vestita all'uopo.» Il viso di Charlotte si fece scarlatto. Si rese conto di indossare soltanto
la sua camicia da notte; sotto la candita stoffa il suo petto palpitava dal turbamento. «Io... devo aver camminato nel sonno» disse, imbarazzata. «Non ricordo di averlo mai fatto prima d'ora.» «Un'abitudine pericolosa» osservò Redmond, serrandole il braccio più forte, perché aveva cercato di divincolarsi, «e le abitudini pericolose vanno pagate.» Si chinò, accostando il volto a quello di lei; i suoi occhi brillavano al chiarore della luna crescente. «E ora...» Stavo scrivendo a macchina, seduta al tavolo, con gli occhi chiusi, ma quando mi fermai per riflettere sul modo in cui Charlotte se la sarebbe cavata stavolta (non avevo sotto mano volumi della biblioteca, attizzatoi del caminetto o candelieri con i quali colpirlo; e se gli avesse dato una bella ginocchiata all'inguine? Ma questo, nei miei romanzi, non era nei patti; sarebbe dovuto per forza intervenire una terza persona), sentii un rumore. Fuori sul viottolo c'era qualcuno. Sentivo dei passi furtivi che venivano verso di me. Una scarpa slittò sulla ghiaia. I passi cessarono. «Arthur?» dissi con un filo di voce. Ma non era Arthur, non poteva essere lui, era troppo presto. Avevo voglia di urlare, di precipitarmi in bagno, chiudere la porta e sprangarla; avrei potuta sgusciar fuori dalla finestrella e salire di corsa su per la collina fino alla macchina, dove avevo messo le chiavi? Dei volti apparivano e si disintegravano nella mia mente... che cosa volevano? Mi resi conto di quanto dovevo essere visibile, illuminata di spalle com'ero davanti alla finestra panoramica. Mi irrigidii, poi spensi la luce e mi rannicchiai dietro il tavolo. Era forse il signor Vitroni, tornato indietro nel bel mezzo della notte per qualche equivoco motivo? Era un estraneo, qualcuno, un uomo, che aveva sentito dire che vivevo da sola? Non riuscivo a ricordarmi se avevo chiuso a chiave la porta, oppure no. Rimasi per un bel po' raggomitolata dietro il tavolo, con le orecchi tese ad ascoltare un possibile suono di passi che si avvicinassero o battessero in ritirata. Sentivo un rumore d'insetti, un lontano piagnucolio, un'auto che saliva serpeggiando su per la collina verso la piazza... ma nient'altro. Alla fine mi alzai e guardai fuori dalla finestra che dava sul balcone, poi dalla finestra di cucina, poi dalla finestra del bagno. Niente e nessuno. Sono stati i nervi, mi dissi. Dovevo sorvegliarmi. Mi infilai nel letto e presi il mio fotoromanzo per calmarmi. Ero quasi in grado di leggerlo senza vocabolario, perché c'erano molte frasi e parole che già conoscevo. Non
ho paura di te. Non mi fido di te. Lo sai che ti amo. Devi dirmi la verità. Aveva un'aria così strana. C'è qualcosa che non va? Il nostro è un amore impossibile. Sarò tua per sempre. Ho paura. PARTE QUARTA 19 «Ma bene!» disse Felicia, precipitandosi su di loro. «Ecco come te la spassi alle mie spalle. Davvero, Redmond, vorrei che avessi più riguardo.» Portava un mantello scuro, gettato disinvoltamente su un sontuoso abito di seta color arancione vivo, bordato di blu. Per un attimo Charlotte ebbe la certezza che era stata Felicia a chiamarla per nome, attirandola fuori di casa in camicia da notte. Era stata Felicia a scrivere con il sangue ATTENTA A TE sullo specchio ingiallito e deformante della sua camera da letto... O forse era un complotto ordito da entrambi. Ma Felicia sembrava essere in buona fede, e la sua sorpresa pareva autentica. La convinzione di Charlotte vacillò, mentre assisteva al loro confronto. «Prima la cameriera» inveì Felicia. «Poi quella ragazza che avevi assunto per restaurare le rilegature di pelle dei libri della biblioteca. Se proprio devi tenere questo contegno, potresti anche avere più gusto. La prossima volta abbi la bontà di sceglierti una donna del tuo rango.» «Di che cosa mi accusate, signora?» ringhiò Redmond. Suo malgrado, Charlotte provò un moto di simpatia nei suoi confronti. Di certo si comportava in quel modo soltanto perché il suo matrimonio era infelice; di certo, se avesse incontrato un amore vero, disinteressato, puro, invece della possessività gelosa di Felicia, sarebbe stato un uomo diverso. Ma subito scacciò quel pensiero. «Intendersela così, senza pudore, con questa... questa...» «Col vostro permesso, signora, posso chiedervi che cosa stavate facendo voi, qui fuori, a quest'ora di notte?» chiese Redmond, con una subdola minaccia nella voce. Prima che Felicia potesse replicare, la collera di Charlotte venne in suo aiuto. «Mi rifiuto di rimanere qui. Potete credermi o no, come preferite, tutti e due.» Si girò e tornò correndo verso la casa, trattenendo le lacrime che sapeva le sarebbero sgorgate spontaneamente dagli occhi non appena fosse stata al sicuro nella sua stanza. Si sentiva degradata, umiliata. Dietro di sé udiva Felicia ridere, e forse anche Redmond stava ridendo. Li o-
diava entrambi. Mentre correva lungo la terrazza, un pesante vaso di pietra, che decorava il balcone soprastante, si rovesciò abbattendosi con fragore accanto a lei sulla balaustrata, andando in mille pezzi e mancandola per un soffio. Charlotte soffocò un grido; alzò lo sguardo nell'oscurità. Ora lo sapeva, non c'era ombra di dubbio, aveva visto guizzar via una figura avvolta in un mantello scuro, qualcuno stava cercando di ucciderla... Avevo sistemato la macchina per scrivere sul tavolo. Funzionava bene, ma non trovavo la lettera k: la sostituivo con la x. Inoltre la tastiera era diversa, e questo significava che dovevo guardare i tasti. Il risultato era inquietante, sembrava uno strano codice marziano. Cominciai a inserire le k a mano, chiedendomi che cosa significava la parola «xill.» Una specie di lucertola azteca, un numero romano? La fissai... Arthur l'avrebbe saputo. Era bravo a fare le parole crociate. Ma Arthur non c'era. Arthur, pensai mentre gli occhi mi si riempivano di lacrime, dove sei? Perché non vieni a cercarmi? Da un momento all'altro sarebbe potuto apparire alla porta, inaspettatamente. Una volta l'aveva fatto. Era arrivato di notte, nel bel mezzo di un acquazzone. La padrona di casa bussò alla porta della mia stanza. «Signorina Delacourt» disse, «sono le dieci. Lei sa che non può ricevere ospiti dopo le sette.» Ero distesa sul letto e stavo guardando il soffitto. «Ma non ci sono ospiti qui dentro» dissi aprendo la porta per mostrarle che era la verità. Io, di ospiti non ne avevo mai. «Giù ce n'è uno» disse. «Gli ho detto che non poteva entrare. Mi ha detto di chiamarsi Arthur qualcosa» disse, mentre si allontanava scalpicciando lungo il corridoio in kimono e ciabatte da doccia. Corsi giù per le scale principali, aggrappandomi alla ringhiera. Non poteva essere Arthur, l'avevo dato per disperso. La sua ultima lettera portava la data dell'8 settembre, e ora era novembre. Ma se per miracolo era Arthur, e la padrona l'aveva mandato via... Spalancai la porta con impeto, pronta a inseguirlo galoppando per la strada col mio accappatoio di spugna. Si era appena voltato per ridiscendere i gradini. «Arthur» strillai, gettandogli le braccia al collo da dietro; portava un impermeabile di plastica gialla con il colletto rivolto fin sopra le orecchie; aveva la testa fredda e bagnata fradicia. Altalenammo per un attimo sull'orlo del gradino, poi mollai la presa e lui si girò.
«Dove diavolo eri?» disse. Non potevo invitarlo ad entrare perché la padrona di casa stava in agguato dietro l'angolo del corridoio al secondo piano, così presi l'ombrello e gli stivali di gomma e mi incamminai insieme a lui nella notte. Bevemmo del caffè solubile in una rosticceria con servizio notturno e sviscerammo il passato. «Perché non mi hai scritto?» gli chiesi. «Scrivevo, ma le lettere venivano respinte al mittente.» Le aveva spedite all'indirizzo di mio padre il quale, naturalmente, non abitava più lì. «Ma ti ho mandato il mio nuovo indirizzo» dissi, «appena ho cambiato casa. Non l'hai ricevuto?» «È dalla metà di settembre che sono tornato qui» disse. «Slocum avrebbe dovuto spedirmi la corrispondenza, ma fino a oggi non ho ricevuto nulla.» Come ero stata ingiusta a dubitare di lui. Ero pazza di gioia per il suo ritorno; pensavo che avremmo dovuto andare subito a festeggiare da qualche parte, e poi balzare a letto insieme. «È fantastico che tu sia tornato!» dissi. Arthur non era del parere che fosse fantastico. Era piuttosto depresso, e si vedeva: era tutto una curva discendente, gli occhi, la bocca, le spalle. «Che cosa c'è» domandai, e lui mi raccontò, dilungandosi. Il Movimento si era sgretolato. Lasciò cadere delle oscure allusioni, ma non son mai riuscita a capire se era stato sconfitto dal di fuori con una prova di forza, se era stato distrutto dall'interno con delle infiltrazioni, oppure se si era sfaldato a causa della demoralizzazione generale e dei battibecchi tra i suoi membri. Qualunque fosse stata la ragione, era fallita una cosa nella quale lui aveva creduto e per la quale aveva lavorato, e questo fallimento l'aveva fatto piombare in uno stato di depressione esistenziale. Per qualche tempo era rimasto apatico e poi, per disperazione, si era rassegnato ad accettare denaro dai suoi genitori - questo mi dava un'idea di quanto fosse stato male - e a tornare all'Università di Toronto. Avrebbe dovuto scrivere una dissertazione su Kant. Allora non era stata soltanto la voglia di rivedermi a condurlo oltre l'oceano. Erano state l'indolenza e la mancanza di una ragione di vita. Non mi importava molto, dal momento che era lì e si era dato molta pena per cercarmi. Aveva camminato per almeno tre isolati sotto la pioggia: era pur sempre un segno di una certa dedizione. Passammo il resto della serata, e molte delle serate che seguirono, a discutere se da parte sua sarebbe stato morale oppure no rimanere a Toronto
e andare all'università con del denaro che considerava corrotto. «Ma se il fine è buono...» dicevo. Non mi importava nulla che fosse una cosa morale o meno: volevo che rimanesse con me, e l'alternativa che mi proponeva era un viaggio nel nord della Columbia Britannica per andare a lavorare in una miniera di amianto. «Il fine non è buono» rispondeva funereo. «E comunque, a che serve Kant? sono tutte stronzate astratte...» Però non aveva abbastanza forza di volontà per smettere. Per tutto quell'inverno mi dedicai a confortare Arthur. Lo portavo al cinema, ascoltavo le sue lamentele sull'università, gli battevo a macchina le esercitazioni, note comprese. Mangiavamo hamburger da Harvey's Hamburgers, facevamo passeggiate a Queen's Park e gite allo zoo di Riverdale, i soli divertimenti che potevamo permetterci, a parte il cinema. Dormivamo insieme, quando potevamo. Arthur era un allievo interno, e quelle cose venivano tollerate solo se si facevano furtivamente; d'altra parte la mia padrona di casa non tollerava proprio nulla, per quanto fosse furtivo. Talvolta, durante quelle notti, mi svegliavo e trovavo Arthur aggrappato a me come se il letto fosse stato un oceano pieno di squali e io una grande zattera di gomma. Quando dormiva era disperato, a volte parlava con persone che non c'erano e digrignava i denti. Ma quando era sveglio era apatico e impassibile, oppure freddamente dialettico. Senza i suoi entusiasmi politici, era molto diverso da come era stato in Inghilterra. Mi permetteva di fare delle cose per lui, ma non partecipava. Tutto ciò non mi preoccupava più di tanto. Il suo distacco arrivava perfino ad affascinarmi, era enigmatico come un velo allegorico. Gli eroi sono tenuti ad essere distaccati. La sua indifferenza era una finzione, mi dicevo: da un momento all'altro sarebbero affiorate le recondite profondità del suo intimo, sarebbe stato pieno di passione e mi avrebbe confessato di avermi amata da tanto tempo. Io gli avrei confessato la stessa cosa e saremmo stati felici. (Più avanti capii che a quell'epoca la sua indifferenza non era affatto una finzione. Capii anche che è meglio evitare le appassionate scene di confessione, e che le profondità recondite devono rimanere tali; le maschere erano per lo meno altrettanto veritiere). In primavera, Arthur mi propose di sposarci. Seduti su una panchina del Queen's Park, mangiavamo degli hamburger da passeggio e bevevamo frappé. «Mi è venuta una buona idea» disse Arthur. «Perché non ci sposiamo?»
Non risposi nulla. Non mi veniva in mente nessun motivo per non farlo. Ad Arthur sì, però, e procedette subito ad analizzarli: né io né lui eravamo ricchi, probabilmente eravamo troppo giovani e instabili per assumerci un impegno tanto serio, e non ci conoscevamo molto bene. Ci aveva riflettuto parecchio, disse. Ma aveva una risposta a ogni obiezione. Il solo matrimonio ci avrebbe reso più stabili, dandoci inoltre il modo di familiarizzare. Se poi non funzionava, beh, sarebbe stata un'esperienza istruttiva. Particolare della massima importanza, vivere insieme ci sarebbe costato molto meno che vivere ciascuno per conto suo. Lui avrebbe lasciato il pensionato e ci saremmo trasferiti tutti e due in una stanza d'affitto più grande della mia, o magari in un piccolo appartamento. Naturalmente, avrei continuato a lavorare, così lui non sarebbe stato costretto ad accettare tutto quel denaro dai suoi genitori. Aveva intenzione di passare a scienze politiche, il che significava continuare a studiare ancora per diversi anni, e non era del tutto sicuro che i suoi genitori l'avrebbero sovvenzionato fino alla fine. Finii di masticare il mio hamburger e lo mandai giù diligentemente; poi succhiai quel che restava del frappé. Era quello il momento di avere coraggio, ora o mai più, pensai. Non vedevo l'ora di sposare Arthur, ma non potevo farlo finché lui non avesse saputo la verità e non mi avesse accettata così com'ero, passata e presente. Avrei dovuto dirgli che gli avevo mentito, che non avevo mai fatto la capoclaque, che ero io la grassa signora della fotografia. Avrei dovuto dirgli anche che mi ero dimessa dal mio posto di venditrice di parrucche parecchi mesi prima è che attualmente stavo terminando Sfida d'amore, con i proventi del quale contavo di vivere come minimo per altri sei mesi. «Arthur» dissi, «il matrimonio è una cosa seria. Ci sono delle cose che penso dovresti sapere di me, innanzi tutto.» Mi tremava la voce: sarebbe certamente rimasto scandalizzato, mi avrebbe trovata amorale, si sarebbe indignato, se ne sarebbe andato... «Se vuoi dirmi che vivevi con un altro quando mi hai incontrato» disse, «lo so già. La cosa non mi dà nessun fastidio.» «Come hai fatto a scoprirlo?» chiesi. Credevo di essere stata molto prudente. «Non ti aspettavi che credessi a quella storia sulla tua compagna di stanza cicciona, vero?» disse con indulgenza. Sorrise e mi circondò col braccio. «Slocum ti ha seguita fino a casa tua» disse, «gliel'ho chiesto io.» «Arthur» dissi, «sei un abbietto spione.» Ero felice che fosse stato sufficientemente geloso o curioso da fare una cosa del genere; mi accorsi anche
che era contento di avere indovinato la mia finzione. Ma quanto fastidio gli avrebbe dato scoprire che non era andato più in là del primo strato? Decisi di rimandare le mie rivelazioni a una data successiva. L'unica difficoltà concreta che il matrimonio ci poneva era che Arthur si rifiutava di sposarsi in chiesa, perché la religione era contraria ai suoi principi. Si rifiutava anche di sposarsi in municipio, perché l'attuale governo era contrario ai suoi principi. Quando dichiarai che queste erano le uniche alternative, mi rispose che doveva pur esserci qualche altro modo. Consultai le Pagine Gialle, sotto Spose e Nozze, ma queste voci comprendevano abiti e torte. Poi cercai sotto Chiese. C'era una categoria denominata Interconfessionali. «Ti basta?» dissi. «Se sposano tutti senza badare a quel che sono, significa che le loro convinzioni religiose non sono molto rigorose.» Lo persuasi, e lui telefonò al primo nome della lista, un certo Reverendo E.P. Revele. «È tutto a posto» disse, uscendo dalla cabina telefonica. «Ha detto che possiamo sposarci a casa sua, che ci fornirà i testimoni e che ci vorranno solo dieci minuti. Dice che vorrebbero fare una piccola cerimonia, niente di religioso.» Per me andava benissimo. Non volevo che mi togliessero la cerimonia; senza, mi sarebbe parso di non essere sposata sul serio. «E tu, cosa hai detto?» «Purché sia breve.» Arthur mi disse anche che avremmo dovuto pagare solo quindici dollari, un'ottima cosa questa, perché eravamo a corto di quattrini. Ero combattuta tra l'impulso di chiedere ad Arthur un rinvio del matrimonio - avrei inventato qualche pretesto, ma in realtà mi sarebbe servito per terminare Sfida d'amore e comprarmi un abito da sposa decente - e quello di precipitarmi senza indugio dagli Interconfessionali, prima che Arthur scoprisse la verità. La paura trionfò sulla vanità, e mi comprai un abito di cotone bianco con su delle margheritine di nylon al piano delle «occasioni» ai magazzini Eaton. Sarebbe stato un po' deludente, ma subire la delusione di un economico matrimonio in cotone non era nulla di fronte al pensiero di non sposarmi affatto. Avevo il terrore di venire smascherata all'ultimo minuto, come truffatrice, falsa e bugiarda. A causa della tensione, cominciai a mangiare razioni supplementari di tartine inglesi imburrate, pagnotte col miele, coppe di gelato alla banana, krapfen e biscotti malriusciti, ma io aumentavo di peso; l'unica cosa che mi impedì di gonfiarmi come il cada-
vere di un annegato fu il giorno stabilito per le nozze, e anche così aumentai di quasi sei chili prima che arrivasse. Riuscivo appena ad allacciarmi la chiusura lampo. Non venne nessuno al nostro matrimonio, per il semplice motivo che non conoscevamo nessuno. I genitori di Arthur erano fuori discussione: Arthur aveva scritto loro una lettera in cui spiegava, con brutale franchezza, che dormivamo insieme da un anno, in modo che non pensassero che il suo matrimonio era una resa alla convenzione. I suoi, naturalmente, inveirono contro tutti e due, e tagliarono i fondi ad Arthur. Pensai di invitare mio padre, ma avrebbe potuto rivelare il mio passato più di quanto desideravo Arthur venisse a sapere. Gli mandai una cartolina più avanti, e lui mi spedì una piastra per le cialde. Ad Arthur non piaceva nessuno degli studenti di filosofia, e io non avevo fatto amicizia con nessuna delle mie colleghe dimostratrici di parrucche, così non avremmo ricevuto nemmeno un regalo di nozze. Andai a comprarmi una pentola da minestrone, un paio di guanti da forno e, d'impulso, un aggeggio per snocciolare le ciliegie e togliere l'osso alle olive, per sentirmi più sposa. Lo stesso giorno, Arthur mi venne a prendere dove stavo a pigione e salimmo insieme sulla metropolitana, in direzione nord. Avevamo preso posto sui sedili in similpelle nera e vedevamo sfrecciare davanti ai nostri occhi le mattonelle dai colori pastello. Arthur sembrava ansioso. Era dimagrito ed era scarno come una targa funebre; i nostri volti riflessi nei finestrini della vettura della metropolitana avevano delle occhiaie profonde. Non vedevo assolutamente come avrebbe fatto a portarmi in braccio oltre la soglia. Ma il problema non si poneva: infatti l'appartamento non l'avevamo ancora preso in affitto, perché avevo pagato in anticipo la pigione della mia stanza e mi restavano ancora due settimane; Arthur disse che non c'era motivo di buttar via del denaro. Usciti dalla metropolitana ci sedemmo in un autobus. Soltanto dopo che fu partito, il nome che recava sul davanti mi colpì. «Dove hai detto che vive, quell'uomo?» dissi. Arthur mi porse il foglietto sul quale aveva scarabocchiato l'indirizzo e me lo disse. Si trovava a Braeside Park. Cominciai a sudare. L'autobus oltrepassò la fermata dove scendevo di solito; in fondo a una strada laterale intravidi la casa di mia madre. Devo essere stata bianca in viso, perché quando Arthur mi guardò, stringendomi la mano per tranquillizzarmi o per tranquillizzarsi, mi chiese: «Ti senti bene?» «Sono solo un po' nervosa, credo» risposi, facendo un risolino da oca.
Scendemmo dall'autobus e camminammo lungo il marciapiede, addentrandoci nella zona più interna e malsana di Braeside Park, davanti alle linde, rispettabili, ossessionanti case in falso stile Tudor della mia adolescenza obesa. Senza dubbio l'officiante sarebbe stato una persona di mia conoscenza, magari il padre di una mia compagna di scuola, qualcuno che mi avrebbe riconosciuta a dispetto della mia metamorfosi. Non sarebbe riuscito a controllarsi, avrebbe avuto un moto di stupore alla vista della mia trasformazione, avrebbe raccontato buffi aneddoti a proposito delle mie dimensioni e del mio peso di una volta e Arthur avrebbe scoperto - nel giorno delle nostre nozze! - fino a che punto l'avevo ingannato. Sarebbe venuto a sapere che non ero mai stata la ragazza di un giocatore di pallacanestro, né la terza classificata all'elezione di Miss Monello, reginetta dei balli scolastici. Gli aceri erano carichi di foglie verdi e molli, l'aria era come un brodo, greve di gas di scarico provenienti dalla più vicina arteria di scorrimento. Il vapore formava goccioline sui nostri labbri superiori; sentivo che il sudore si propagava sotto le mie braccia, compromettendo la purezza del mio abito bianco. «Credo che mi stia venendo un'insolazione» dissi, appoggiandomi contro di lui. «Ma non sei stata al sole» disse Arthur, con logica. «La casa è quella, proprio lassù, ora entriamo e potrai bere un sorso d'acqua.» In un certo senso, era contento che reagissi con tanta angoscia; gli serviva a mimetizzare la sua. Arthur mi aiutò a salire i gradini di cemento davanti alla porta del numero 52 e suonò il campanello. Sulla porta, una targhetta a caratteri arzigogolati diceva «Villa Paradiso»; la lessi senza capire. Stavo tentando di decidere se sarei svenuta oppure no. In quel caso, anche se ci fossero state rivelazioni, avrei potuto fare un'uscita dignitosa, a bordo di un'ambulanza. Sulla griglia in alluminio della porta c'era la silhouette di un fenicottero. Ci aprì una vecchina in guanti rosa, scarpe rosa col tacco alto, vestito di seta rosa e cappello rosa, guarnito da garofani e non-ti-scordar-di-me di panno lenci azzurro. Aveva due tondi di fard sugli zigomi e le sopracciglia appena appena sottolineate dalla matita manifestavano la sua sorpresa. «Siamo venuti dal Reverendo E.P. Revele» disse Arthur. «Ma che vestito delizioso!» squittì la vecchietta. «Adoro i matrimoni; sapete, sono la testimone, mi chiamo Symons. Mi fanno sempre fare da testimone. Arriva la sposa» annunciò a generale informazione della casa. Entrammo. Mi stavo riprendendo; quella lì non la conoscevo di certo.
Inspirai con riconoscenza l'odore di tappezzeria e di lucido per mobili passato di fresco. «Il Reverendo celebra nel salotto» disse la signora Symons. «È una cerimonia davvero deliziosa, sono certa che vi piacerà.» La seguimmo, e ci ritrovammo in una grotta. Era il tipico soggiorno di Braeside, modello povero, che si apriva su una sala da pranzo la quale a sua volta dava sulla cucina; tuttavia le pareti, invece dei tradizionali paesaggi rasserenanti (Torrente in inverno, Strada di campagna in autunno), ospitavano svariati ventagli di piume di pavone, alcuni ricami incorniciati, la foto di una ballerina classica che si illuminava dal retro, ornata da ramoscelli di foglie secche, un quadro che rappresentava una pellerossa dal sorriso accattivante, una composizione di conchiglie (erano fiori in vaso, e ogni fiore era fatto da un diverso tipo di conchiglia), e un gran numero di fotografie sbiadite, anch'esse incorniciate, firmate in basso. Il sofà e le poltrone dello stesso stile erano ricoperte di velluto color prugna, e ogni poltrona era fedelmente accompagnata dal suo poggiapiedi; tutte erano ricoperte da centrini multicolori di lana ed uncinetto. La mensola del caminetto traboccava di oggetti: piccoli Budda, divinità indiane, un cane di porcellana, svariati portasigarette d'ottone e un gufo imbalsamato sotto una campana di vetro. «Ecco il Reverendo» disse la signora Symons in un agitato sussurro. Dietro di noi si udì un rumore strascicato. Mi voltai, poi mi accasciai su una poltrona color prugna: lì, in piedi sulla soglia, con la sua tunica bianca e il segnalibro purpureo intorno al collo, sorretta da un bastone con il pomello d'argento e circondata da un nimbo di whisky scozzese, c'era Leda Sprott. Mi guardò dritta in faccia e vidi che aveva capito benissimo chi ero. Emisi un gemito e chiusi gli occhi. «Panico matrimoniale» strillò la signora Symons. Mi afferrò la mano e cominciò a frizionarmi il polso. «Io sono svenuta due volte quando mi sono sposata. Andate a prendere i sali!» «Mi sento bene» dissi, aprendo gli occhi. Leda Sprott non aveva detto nulla: forse avrebbe mantenuto il mio segreto. «Tutto bene?» mi chiese Arthur. Annuii. «Cercavamo il ministro E.P. Revele» disse a Leda Sprott. «Sono io E.P. Revele» disse. «Eunice P. Revele.» Sorrise, come se fosse stata abituata allo scetticismo. «È autorizzata?» chiese Arthur.
«Certo» disse Leda, indicando un attestato dall'aria ufficiale incorniciato e appeso alla parete. «Non mi lascerebbero celebrare matrimoni se non lo fossi. Allora, che cosa volete? Sono specializzata in matrimoni misti. Faccio gli ebrei, i cattolici, gli induisti, cinque tipi di protestanti, buddisti, membri della Chiesa di Cristo Scienziato, agnostici, Ente Supremo, in tutte le loro combinazioni, oppure la mia specialità.» «Forse dovremmo provare la sua specialità» dissi ad Arthur. Volevo che quella faccenda finisse alla svelta in modo da poter andare via. «Anch'io la preferisco» disse Leda. «Ma prima, la fotografia.» Andò in corridoio da dove chiamò «Harry!» Colsi l'occasione per dare un'occhiata all'attestato. C'era scritto proprio «Eunice P. Revele.» Ero disorientata: o quella donna era in realtà Leda Sprott, nel qual caso la cerimonia non sarebbe stata valida, oppure era davvero Eunice P. Revele; ma se le cose stavano così, perché alla Cappella del Giordano aveva usato un altro nome? Però, pensai, mentre gli uomini che cambiano nome sono con tutta probabilità truffatori, criminali, agenti segreti o maghi, le donne che cambiano nome sono verosimilmente soltanto sposate. Accanto all'attestato c'era una foto di Leda, molto più giovane, che stringeva la mano a Mackenzie King. Notai che sotto c'era l'autografo del primo ministro. La signora Symons stava cercando di costringere Arthur a mettersi intorno al collo una ghirlanda di fiori di plastica, ma invano. Comunque ne mise una a me, e fece il suo ingresso un uomo in abito grigio con una Polaroid. Era il signor Stewart, il medium ospite. «Sorridete» disse, strizzando l'occhio nel mirino. Lui stesso stava facendo un largo sorriso. «Senta» disse Arthur, «questo non è...» Ma ci fu un lampo e la signora Symons mi tolse bruscamente la ghirlanda. «Quando suona il gong, osservate la massima attenzione» disse la signora Symons. Era agitatissima. «Sei molto bella, cara.» «Al telefono sembrava tutto normale» disse Arthur a bassa voce. «Con chi hai parlato?» chiesi. «Tu mi hai detto che era un uomo.» «Così credevo» disse Arthur. Il gong suonò, e Leda entrò a passo lento, con indosso un altro abito lungo, purpureo stavolta, bordato di velluto rosso. Riconobbi i resti delle tende e del pulpito della Cappella del Giordano: evidentemente erano tempi duri. Con l'aiuto del signor Stewart, Leda Sprott salì sul poggiapiedi che si trovava di fronte al caminetto. «Arthr Edward Foster» intonò. «Joan Elizabeth Delacourt. Venite avanti.» Mentre mano nella mano ci facevamo più vicini, le venne un attacco di
tosse. «Inginocchiatevi» disse, allungando le braccia in avanti come se stesse per fare un tuffo dallo sgabello. Eseguimmo. «No, no» disse irritata, «dalle parti. Come faccio ad unirvi se siete già uniti?» Ci alzammo, ci inginocchiammo nuovamente, e Leda collocò sulle nostre teste le sue mani un poco tremolanti. «Per avere l'autentica felicità» disse, «dovete accostarvi alla vita con un senso di reverenza. Reverenza verso la vita, verso le persone care che sono ancora con noi, e anche verso quelli che ci hanno lasciati. Ricordate che tutto quanto facciamo e tutto quanto abbiamo nei nostri cuori viene osservato e registrato e un giorno verrà rivelato. Fuggite l'inganno e la menzogna; agite come se la vostra vita fosse un diario che state scrivendo, ora, e che un giorno la persona che amate leggerà, se non in questo mondo, nell'altro, dove avverranno tutte le riconciliazioni finali. Soprattutto, dovreste amarvi l'uno con l'altra per quello che siete, e perdonarvi a vicenda per quello che non siete. Avete una bella aura, figlioli; dovete adoperarvi a conservarla.» La sua voce si ridusse a un borbottio; immagino che stesse pregando. Oscillò pericolosamente, e mi augurai che non cadesse dallo sgabello. «Amen» disse la signora Symons. «Potete alzarvi» disse Leda. Ci chiese le fedi - io avevo insistito perché ne avessimo due, e le avevamo comprate al Monte di Pietà - le fece ruotare tre volte intorno alla statua di Budda, o forse intorno al gufo impagliato; dal posto in cui stavo in piedi, non riuscivo a vedere. «Per la saggezza, per la carità, per la serenità» disse. Mi dette l'anello di Arthur e ad Arthur dette il mio. «Adesso» disse, «stringendo gli anelli nelle vostre sinistre mettete le mani destre l'uno sul cuore dell'altro. Conterò fino a tre, quando arrivo al tre, premete.» «Tre è il numero mistico» disse la signora Symons. «Anche il quattro lo è, ma...» Oramai l'avevo riconosciuta: era una dei vecchi habitués della Cappella del Giordano. «Il mio nome corrisponde al cinque» proseguì, «con la numerologia, sapete.» «C'è un aneddoto che ho sentito da poco e che sarebbe adatto a questa circostanza» disse il signor Stewart. «C'erano una volta due bruchi che camminavano lungo la Strada della Vita, il bruco ottimista e il bruco pessimista...» «Non ora, Harry» disse Leda Sprott con asprezza. La cerimonia stava
sfuggendo al suo controllo. Ci disse di scambiarci gli anelli, ci dichiarò frettolosamente marito e moglie e scese cautamente dallo sgabello. «E ora, i regali!» gridò la signora Symons. Usci dalla stanza a svelti passettini. Leda esibì un certificato, che avremmo dovuto firmare tutti. «C'è una persona in piedi dietro di lei» disse il signor Stewart. Aveva gli occhi vitrei e sembrava che stesse parlando a se stesso. «È una giovane donna, è infelice, ha i guanti bianchi... sta tendendo le braccia verso di lei...» «Harry» disse Leda, «vai a dare una mano a Muriel per i regali.» «Non vogliamo regali, davvero» dissi, e Arthur mi dette ragione, ma Leda Sprott disse: «Un matrimonio senza regali non è un matrimonio» e la rosea signora Symons stava già rientrando in gran premura dal corridoio, con numerosi pacchetti incartati in carta velina bianca. Li ringraziammo; provavamo entrambi un acuto imbarazzo, perché quei vecchi pieni di buona volontà e un po' patetici si erano dati tanto disturbo per noi, mentre noi eravamo nascostamente così poco riconoscenti. Il signor Stewart ci dette l'istantanea scattata con la Polaroid, in cui i nostri visi erano di un azzurro malsano e il sofà di un rosso brunastro, color sangue secco. «Ora devo dire una parola alla sposa e allo sposo... separatamente,» disse Leda Sprott. La seguii in cucina. Chiuse la porta e ci sedemmo davanti al tavolo, un normalissimo tavolo coperto da una tovaglia di tela cerata a quadretti. Leda si versò un cicchetto da una bottiglia semivuota, poi mi guardò e sorrise. Uno dei suoi occhi, ora che potevo vederli, non era ben centrato; forse stava diventando cieca. «Bene» disse. «Sono contenta di rivederti. Sei cambiata, ma io non dimentico mai nemmeno una faccia. Come sta tua zia?» «È morta» dissi, «non lo sapeva?» «Sì, sì» rispose, agitando una mano con impazienza, «naturalmente. Però deve essere rimasta accanto a te.» «No, non credo» dissi. Leda Sprott sembrò delusa. «Vedo che non hai seguito il mio consiglio» disse. «È deplorevole. Tu hai dei grandi poteri, te l'ho già detto prima, ma hai avuto paura di coltivarli.» Mi prese la mano e la scrutò per qualche istante, poi la lasciò cadere. «Invece di parlarti schiettamente, potrei farti un sacco di discorsi misticheggianti che probabilmente non avrebbero nessun significato, per te» disse. «Ma tua zia mi piaceva, e per questo non lo farò. Non sei tu a scegliere un dono, è questo dono che sceglie te, e se tu lo rifiuti si servirà di te lo stesso, magari in modo meno piacevole. Ho usato i
miei poteri, finché li ho avuti. Sei libera di pensare che io sia una vecchia pazza o una ciarlatana, ci ho fatto l'abitudine. Ma qualche volta dovevo comunicare la verità e in questi casi non ci si può sbagliare. Quando non avevo nessuna verità da dire, dicevo alla gente quel che voleva sentirsi raccontare. Forse pensi che sia una cosa innocua, ma non lo è.» Si interruppe e lanciò uno sguardo alle sue dita, nodose per l'artrite. Improvvisamente sentii che le credevo. Volevo farle tutte le domande che avevo in serbo per lei: avrebbe potuto parlarmi di mia madre... Ma la mia fede si affievolì: in fin dei conti, non mi aveva forse appena lasciato intendere che la Cappella del Giordano era un'istituzione fraudolenta e che le sue rivelazioni erano tutta una commedia basata su congetture? «La gente crede in te» disse Leda. «Si fidano di te. Questo può essere pericoloso, soprattutto se tu ne approfitti. Prima o poi viene tutto a galla. Dovresti smetterla di piangerti addosso in questo modo.» Mi guardava attentamente con l'occhio buono, tenendo la testa piegata da una parte, come un uccello. Sembrava che fosse in attesa di una qualche risposta. «Grazie» dissi goffamente. «Non dire cose che non pensi» mi rispose con irritazione. «Già lo fai abbastanza. Questo è tutto quel che posso dirti, tranne... ah sì, dovresti provare la scrittura automatica. Ora, fai entrare il tuo novello sposo.» Non volevo che Arthur rimanesse solo con lei. Se con me era stata tanto schietta, figuriamoci che cosa non avrebbe detto a lui. «Non glielo dirà, vero?» dissi. «Dire cosa?» chiese Leda con asprezza. Era difficile esprimerlo a parole. «Cos'ero» dissi. Volevo dire Com'ero. «Cosa intendi?» disse Leda. «Eri una ragazzina simpaticissima, per quel che ne sapevo.» «No, voglio dire... la mia corporatura. Ero, insomma...» Non riuscivo a dire «grassa;» era quella una parola che, a proposito di me stessa, usavo soltanto nei miei pensieri. Capì quel che volevo dire, ma la cosa la divertì e basta. «Tutto qui?» disse. «A parer mio è una corporatura del tutto irreprensibile. Ma non ti preoccupare, non rivelerò il tuo passato, anche se devo dire che nella vita esistono tragedie peggiori che pesare qualche chilo di troppo. Voglio sperare che nemmeno tu rivelerai il mio. Leda Sprott ha lasciato qualche debituccio, qua e là.» Fece una risata ansimante e poi cominciò a tossire. Andai a chiamare Arthur. Cinque minuti dopo uscì dalla cucina. Alla nostra partenza, la signora
Symons ci seguì a passo malfermo per il corridoio, sui gradini e lungo il marciapiede, lanciandoci manciate di riso e coriandoli e cinguettando giulivamente. «Buona fortuna» gridava, agitando a mo' di saluto la mano guantata di rosa. Camminammo fino alla fermata dell'autobus, portando i pacchetti. Arthur non diceva niente; aveva la faccia cupa. «Che cosa c'è?» chiesi. Leda gli aveva forse parlato di me, dopo tutto? «Quella vecchia Imbrogliona mi ha scucito cinquanta testoni» disse. «Al telefono mi aveva detto quindici.» Quando arrivammo nella mia camera d'affitto, aprimmo i pacchetti incartati nella velina. Contenevano una scodella per il ponce di plastica, con le tazze uguali, un libro di novantotto centesimi sulla cucina sana, una copia incorniciata della fotografia di Leda che stringeva la mano a Mackenzie King, e alcuni opuscoli, pubblicati a cura del governo, sulle virtù salutari del lievito e il suo giusto impiego. «Ci deve guadagnare un bel po'» disse Arthur. Avremmo dovuto rifare tutto da capo in municipio, pensai, non era possibile che la cerimonia col poggiapiedi e il gufo imbalsamato fosse legale. «Secondo te, siamo sposati sul serio?» chiesi. «Ne dubito» disse Arthur. Eppure, strano a dirsi, lo eravamo. 20 Il nostro viaggio di nozze lo facemmo quattro anni dopo, nel 1968. Era il periodo in cui Arthur si era scoperto la vocazione di separatista del Quebec, perciò insistette perché andassimo a Quebec, dove disorientava tutti i camerieri cercando di parlare con loro in joual, il dialetto franco-canadese. Quasi tutti lo trovavano offensivo; i veri separatisti, poi, si burlavano della sua pronuncia: per loro era troppo parigina. La prima notte la passammo in un motel molto modesto guardando i funerali di Robert Kennedy davanti a un televisore con due antenne che sembravano gli orecchi di un coniglio. Per farlo funzionare bisognava toccare le antenne con una mano, e il muro con l'altra. Ero io quella che toccavo il muro, mentre Arthur guardava. Ormai mi sentivo sposata sul serio. Ci avevo messo un po' di tempo. Da principio, nella nostra vita non c'era niente di stabile. Non avevamo denaro, tranne quello che potevo guadagnare scrivendo romanzi gotici e fingendo di fare lavori saltuari, e vive-
vamo in pensioni, anziché negli appartamenti sgangherati che riuscimmo a scovare in seguito. A volte c'era un angolo-cucina nascosto dietro una tenda di bambù o una porta a soffietto di plastica, ma più spesso c'era soltanto una piastra elettrica. Le cene le preparavo facendo bollire verdure precotte in confezioni di plastica o ravioli in scatola, e mangiavamo seduti sulla sponda del letto, cercando di salvaguardare le lenzuola da ulteriori macchie di sugo di pomodoro. Dopo mangiato gettavo gli avanzi nel gabinetto della pensione e sciacquavo i piatti nella vasca da bagno, perché raramente quelle stanze erano provviste di lavelli. Questo significava che durante i nostri bagni (facevamo sempre il bagno insieme), mentre io insaponavo la schiena di Arthur che con le sue costole sporgenti sembrava la Morte in una xilografia medievale, venivamo spesso sorpresi da un pisello o da una fettuccina sperduti che galleggiavano sulla schiuma di sapone come frammenti sfuggiti al mar dei Sargassi. A me sembrava che dessero a quelle stanze da bagno per il resto polari un gradito tocco tropicale, ma ad Arthur non piacevano. Benché lo negasse, aveva orrore dei batteri. Avevamo vissuto per due anni quell'esistenza improvvisata e precaria; poi Arthur si arrese alle mie lamentele: era diventato assistente di scienze politiche, aveva una specie di stipendio, e così ci trasferimmo in un vero appartamento. Si trovava in un vicolo sordido, - che da allora è stato elegantemente dipinto di bianco e munito di lampioncini - ma almeno, oltre agli scarafaggi, aveva una cucina completa. Fu allora che scoprii, con costernazione, che Arthur si aspettava che cucinassi, ma cucinassi davvero, a partire da ingredienti crudi come la farina e lo strutto. Non avevo mai cucinato in vita mia. Mia madre cucinava, io mangiavo: quelli erano i ruoli; quando faceva da mangiare non mi lasciava nemmeno mettere piede in cucina, per timore che rompessi qualcosa, intingessi in qualche salsa il mio dito brulicante di germi o facessi cadere la sua torta col mio passo troppo pesante. A scuola non avevo scelto economia domestica, ma esercitazioni commerciali. Non mi sarebbe dispiaciuto cucinare, anche se da quanto raccontavano le altre si trattava soprattutto di lezioni sull'alimentazione, ma rifuggivo dal pensiero di dover cucinare. Come avrei fatto a starmene seduta lì a confezionarmi un'enorme tenda fluttuante, mentre le altre lavoravano alle loro eleganti gonne aderenti e a camicette plissettate? Ma per amore di Arthur avrei fatto qualunque sforzo, anche se cucinare era più difficile di quanto pensassi. Mi mancavano sempre i generi di prima necessità, come il burro o il sale, e dovevo precipitarmi nel negozio sotto casa; i piatti puliti non bastavano mai, perché odiavo lavarli; ma ad
Arthur non piaceva mangiare al ristorante. Sembrava che preferisse i miei piatti immangiabili: la fonduta svizzera che si trasformava parte in siero e parte in pallottole di gomma da masticare perché l'avevo surriscaldata, le uova in camicia che si disintegravano come membrane mucillaginose e i polli arrosto che a tagliarli sanguinavano ancora; il pane che si rifiutava di lievitare e rimaneva in fondo alla scodella con la consistenza delle sabbie mobili; le flaccide frittelle dal cuore crudo e melmoso; le torte gommose. Non piangevo quasi mai su quei fallimenti, perché per me non erano fallimenti ma successi, trionfi segreti sulla nozione di cibo in sé e per sé. Volevo dimostrare che in realtà non me ne importava nulla. Di quando in quando trascuravo completamente di fare da mangiare, perché me ne ero del tutto dimenticata. Capitavo in cucina a mezzanotte, trovavo Arthur che si faceva un panino al burro di arachidi ed ero assalita dai rimorsi, perché mi sembrava di fargli patire la fame. Anche se criticava la mia cucina, Arthur mangiava sempre quel che preparavo, e si irritava quando non c'era nulla. Quell'imprevedibilità lo divertiva: somigliava alle mutazioni biologiche o al gioco d'azzardo. Inoltre lo rassicurava: la sua concezione del mondo era costellata da repentini disastri sui quali incombeva la catastrofe finale, e il mio modo di cucinare non la smentiva affatto. Invece per me quei cumuli di pasta, quelle masse raggrumate dai bordi carbonizzati, quel sangue allo stato originale rappresentavano qualcosa di molto diverso. Ogni pasto era una crisi, ma da quelle crisi era sempre possibile uscire senza onta, grazie all'aggiunta di qualche ingrediente... un po' di pepe, della vaniglia... Ero un'ottimista per natura, sempre alla ricerca del lieto fine. Mi ci volle un po' di tempo per capire che Arthur godeva dei miei fallimenti. Lo mettevano di buonumore. Era felice di sentire il fracasso che facevo quando lasciavo cadere per terra una teglia rovente perché mi ero dimenticata di mettermi i guanti da forno; gli piaceva sentirmi imprecare in cucina; e quando, reduce da una delle mie battaglie, apparivo con la faccia sudata e i capelli scarruffati, lui mi accoglieva con un sorriso e una frase scherzosa, o addirittura un bacio che valeva sia per il mio impegno e l'esibizione culinaria, sia per il risultato. La mia rabbia e la mia frustrazione erano vere, ma non ero poi tanto male come cuoca. I miei fiaschi erano uno spettacolo, e Arthur era il pubblico. Tenevo duro grazie ai suoi applausi. Per me andava benissimo. Cucinare male era molto più facile che imparare a cucinare bene, né i piccoli inconvenienti, né i modesti successi compromettevano la mia inventiva. Il mio errore fu quello di pensare che Ar-
thur limitasse il suo compiacimento per i miei insuccessi soltanto al campo culinario. Così pareva all'inizio, perché, per quel che ne sapeva lui, non prendevo altre iniziative. Non che Arthur fosse sleale: non c'era differenza tra quel che pensava e quel che diceva di pensare. Il guaio era che queste cose non avevano niente in comune con quel che sentiva. Covai per anni il desiderio di diventare come Arthur pensava che fossi, o come pensava avrei dovuto essere. Era sempre pieno di progetti per me, di aspirazioni, di modi per mettere a frutto costruttivamente la mia intelligenza, e io invece me ne stavo là, abulica, sdraiata a letto la mattina, mentre lui era già in piedi e si faceva una tazza di caffè nero, pronto a perseguire le sue mete. Era quello il mio problema, diceva: non avevo delle mete. Purtroppo nel mio pensiero la parola 'meta' era collegata soltanto con il rugby, un gioco che mi piaceva poco. Arthur però non era sempre così mattiniero. Anche lui in certi momenti era a terra. Disilluso da quelli del movimento contro la bomba atomica, per qualche tempo rimase fuori dalla politica. Ma poi ricominciò la fase ascendente: stavolta erano i diritti civili. Andò negli Stati Uniti e per poco non gli spararono addosso. Poi anche quel movimento si sfasciò, e lui entrò in un nuovo periodo di depressione. In rapida successione passò per il Vietnam, l'assistenza ai renitenti alla leva, le rivolte studentesche e l'entusiasmo per Mao. Ognuna di queste fasi comportava letture approfondite, non solo per Arthur, ma anche per me. Mi impegnavo molto, ma per qualche ragione ero sempre in ritardo, forse perché facevo tanta fatica ad assimilare le teorie. Quando avevo finito di adeguare le mie idee alle sue, scoprivo che le sue erano già cambiate. Allora doveva nuovamente convertirmi, aggiornarmi, mettermi in grado di scoprire la verità. «Ecco qui» diceva, «leggi questo libro», e io capivo che un nuovo ciclo era cominciato. Il guaio era che Arthur era in buona fede, troppo in buona fede, e avrebbe voluto che gli altri fossero in buona fede quanto lui. Quando scopriva che non lo erano, che invece di ardere tutti del suo sacro zelo alcuni erano superbi, altri erano interessati e avidi di potere, si adirava. Era intrappolato dalla sua coscienza. Una volta pensavo che Arthur fosse una persona semplice, sincera e tutta d'un pezzo; io, al contrario, ero un'infelice accozzaglia di menzogne e alibi, compiuti in sé, ma che si svalutavano a vicenda. Presto però scoprii che Arthur aveva tante facce quante ne avevo io. La differenza era che le mie erano simultanee, mentre quelle di Arthur comparivano in successione. Quando la sua dedizione a una qualsiasi di quelle cause era al culmine, Ar-
thur aveva un dinamismo che sarebbe bastato per sei, non dormiva quasi per nulla, si precipitava di qua e di là ad attaccare fogli con la cucitrice, a tenere discorsi, a reggere cartelli. Invece quando arrivava al fondo del suo scoraggiamento, quasi non riusciva ad alzarsi dal letto: se ne stava tutto il giorno seduto in poltrona, fumava una sigaretta dopo l'altra, guardava la televisione o si incantava alla finestra, faceva le parole crociate, oppure si sprofondava in qualche puzzle per ricostruire un dipinto di Jackson Pollock o un tappeto orientale. Per lui io esistevo come una figura distinta solo nella fase ascendente o discendente; altrimenti ero soltanto una specie di massa amorfa con funzioni alimentari. Faceva l'amore solo nei periodi intermedi: quando era in fase ascendente non aveva tempo, quando era in quella discendente non aveva energia. Ammiravo e invidiavo quella sua coscienza immacolata, a dispetto dei suoi inconvenienti: quando Arthur soccombeva, sopraffatto dalla delusione e da un nugolo di foschi presagi, aveva l'abitudine di scrivere a tutte le persone con le quali aveva lavorato nella fase entusiastica, accusandoli di essere traditori e mascalzoni, e quando loro, offesi, sconcertati o addolorati, telefonavano, ero sempre io a rispondere. «Beh, sapete com'è fatto Arthur» dicevo. «Non stava molto bene, era sconfortato.» Avrei voluto che si giustificasse per conto suo, ma gli attacchi a sorpresa erano il suo pezzo forte. Non litigava mai con nessuno, non discuteva mai le cose a fondo. Si limitava a decidere, in base a un oscuro e complicato processo di valutazione, che certe persone erano indegne. Non perché avessero commesso qualche azione indegna, ma perché l'indegnità era come connaturata in loro. Una volta emesso il verdetto, non c'era più niente da fare. Né processi né riparazioni. Una volta gli dissi che secondo me si comportava un po' come i Dio di Calvino, ma lui se ne ebbe a male e non volli insistere. Sotto sotto, avevo paura che verdetti di quel tipo potessero venire applicati nel mio caso. Spesso mi auguravo che Arthur trovasse qualche gruppo capace di sopportare lo schiacciante fardello della sua fiducia, e non soltanto perché volevo che Arthur fosse felice, anche se naturalmente desideravo che lo fosse. C'erano altri due motivi. Il primo era che i suoi periodi di depressione mi avvilivano, perché mi facevano sentire impotente. Teoricamente, l'amore di una buona moglie avrebbe dovuto salvaguardare un uomo da quel genere di cose, questo lo sapevo. Eppure, in quei momenti non mi riusciva di farlo felice, per quanto male cucinassi; perciò, non ero una buona moglie. Il secondo motivo era che non potevo scrivere i miei romanzi gotici
quando Arthur era depresso. Quasi sempre ciondolava per casa, e se non stava combinando nulla non voleva che combinassi qualcosa nemmeno io. Se entravo in camera da letto e chiudevo la porta, lui la apriva, si piazzava sulla soglia lanciandomi uno sguardo di rimprovero e annunciava di avere mal di testa. Oppure esigeva che lo aiutassi a risolvere le parole crociate. Facevo molta fatica a concentrarmi sul seno palpitante della mia eroina. Ero costretta a fingere di uscire per cercare lavoro, e ogni tanto me ne trovavo uno sul serio, per legittima difesa. Soltanto dopo il mio matrimonio lo scrivere diventò per me qualcosa di più di un facile sistema per guadagnarmi da vivere. L'avevo sempre fatto in modo furtivo e mi sentivo astuta, nessuno mi aveva scoperto, continuavo a farla franca; ma ora cominciava a diventare qualcosa di importante. Importanti non erano i romanzi in sé, che continuavano ad essere più o meno gli stessi; l'importante era che in me c'erano due donne, con due serie di documenti personali, due conti in banca, due gruppi diversi di persone persuase delle mie identità. Ero Joan Foster, non c'erano dubbi al proposito; la gente mi chiamava così, e avevo dei documenti autentici per dimostrarlo. Però ero anche Louisa K. Delacourt. Fin tanto che ogni settimana riuscivo a trascorre un po' di tempo in compagnia di Louisa andava tutto bene, ero paziente e tollerante, cordiale, un'ascoltatrice piena di comprensione. Ma se rimanevo isolata, se non potevo lavorare al romanzo gotico del momento, diventavo scorbutica e permalosa, bevevo troppo e piangevo. Andavamo avanti così, un anno dopo l'altro, nell'alternarsi delle crisi parossistiche di Arthur con le mie, e a dir la verità era magnifico, io lo amavo. Ogni tanto insinuavo che forse era venuto il momento di sistemarci da qualche parte in modo un po' meno instabile e di avere dei bambini. Ma Arthur diceva che non era pronto, che aveva da lavorare, e io stessa dovevo ammettere di nutrire sentimenti contrastanti. Desideravo un bambino, ma che cosa sarebbe successo se il mio bambino fosse diventato come me? Peggio ancora, se io fossi diventata come mia madre? Intanto il pensiero di mia madre mi assillava e mi stava appeso al collo come un amuleto malefico. La sognavo spesso, la mia madre tricipite, fredda e minacciosa. A volte seduta davanti al suo tavolo da toilette, a volte piangente. Non rideva e non sorrideva mai. Nei miei sogni peggiori, non la vedevo affatto. Di fronte a me c'era una porta, forse mi ero nascosta là dietro, oppure ero in piedi davanti a una porta, non era chiaro. Era bianca, simile alla porta di un bagno o all'anta di
un armadio. Qualcuno mi aveva chiusa dentro (o fuori) a chiave, ma oltre la porta sentivo delle voci. Qualche volta le voci erano molte, qualche volta solo due; parlavano di me, discutevano su di me, e ascoltando mi rendevo conto che stava per succedermi qualcosa di molto brutto. Mi sentivo impotente, non potevo fare nulla. Nel sogno indietreggiavo fino all'angolo più lontano del cubicolo e mi ci incastravo, schiacciando le braccia contro la parete e spingendo i talloni contro il pavimento. Non ce l'avrebbero fatta a cavarmi fuori di lì. Poi sentivo dei passi, salivano le scale e avanzavano lungo il corridoio. Arthur mi svegliava scuotendomi. «Che c'è?» dicevo. «Stavi grugnendo.» Grugnendo? Che umiliazione. Urlare era un conto, ma grugnire... «Ho avuto un incubo» dicevo. Ma Arthur non riusciva a capire perché mai avrei dovuto avere degli incubi. Di certo non mi era mai successo niente di tanto terribile, ero una ragazza normale e piena di risorse, ero bella e intelligente, perché non mi davo da fare? Avrei dovuto essere più ambiziosa, diceva. Quel che non capiva era che in realtà esistevano soltanto due tipi di persone: i grassi e i magri. Quando mi guardavo allo specchio, non vedevo quel che vedeva Arthur. Il profilo del mio vecchio corpo mi circondava ancora, come una nebbia, come una luna spettrale, come un'immagine di Dumbo, l'elefantino volante che si fosse sovrapposta alla mia. Volevo dimenticare il passato, ma il passato si rifiutava di dimenticarmi; aspettava il sonno, e poi mi metteva alle strette. 21 Quando mi soffermavo a riflettere sul nostro matrimonio, avevo l'impressione che fosse più felice di tanti altri. Quasi quasi, cominciavo a darmi delle arie. A parer mio, quasi tutte le donne commettevano un errore di fondo: si aspettavano che i loro mariti le capissero. Dedicavano un sacco di tempo prezioso a giustificarsi, a scodellare le loro emozioni e reazioni, il loro amore, la loro rabbia e i loro punti deboli, le loro esigenze e i loro difetti, come se il semplice fatto di esporli potesse dar luogo a dei risultati. Quasi nessuno tra gli amici di Arthur aveva saputo evitare di sposarsi con donne come quelle, le quali, lo sapevo bene, pensavano che fossi placida, sentimentale e un po' stupida. Loro invece campavano tra una crisi e l'altra, e tutte in radiocronaca diretta, grazie a una combinazione di isterismi, sigarette, sincerità tirannica, e quelle che una volta si chiamavano rampogne.
Siccome non facevo così, gli amici di Arthur lo guardavano con un pizzico d'invidia e si confidavano con me in cucina. Erano bersagliati da continui attacchi e sfiniti; ritrovavo nelle loro mogli una punta di quella petulante ipocrisia che mia madre mi aveva reso familiare. Ma io non volevo che Arthur mi capisse, anzi facevo salti mortali per evitarlo. Anche se talvolta la cosa mi tentava molto, resistetti sempre all'impulso di confessare. Arthur aveva dei gusti spartani, la vita e i sentimenti più reconditi della mia giovinezza l'avrebbero fatto inorridire. Sarebbe stato come ordinare una bistecca e vedersi portare una mucca appena macellata. Credo che lo sospettasse; di sicuro troncò sul nascere i miei pochi, timidi tentativi di autosmascheramento. Come se non bastasse, le altre mogli volevano che i loro mariti fossero all'altezza delle vite che sognavano, le quali a parte i costumi, non erano molto diverse da quelle che scrivevo io. Loro non si esprimevano con queste parole, ma me ne accorgevo dalle loro aspettative. Volevano degli uomini forti, sensuali, appassionati e interessanti, ma anche teneri e devoti. Volevano degli uomini avvolti in misteriosi mantelli che le traessero in salvo scalando balconi, ma desideravano anche rapporti affettivi ricchi e profondi e assoluta franchezza. (La Primula Rossa, le ammonivo tra me e me, non ha tempo per i rapporti affettivi ricchi e profondi). Volevano gli orgasmi multipli, volevano la luna, ma volevano anche essere aiutate a lavare i piatti. Mi sembrava che il mio sistema fosse più funzionale. Esistevano due generi d'amore, mi dicevo; Arthur era straordinario nel suo, ma perché pretendere tutto da un solo uomo? Avevo rinunciato ormai a vedermelo cupo e sinistro, un individuo misterioso avvolto in un mantello. Non poteva esserlo: vivevamo insieme, e gli sconosciuti mantellati non lasciano i calzini sul pavimento, non si infilano le dita nelle orecchie e la mattina non fanno gargarismi antisettici. Facevo rimanere Arthur a casa, e gli sconosciuti nei loro manieri e castelli, al loro posto. Mi sembrava che questo fosse un segno di maturità da parte mia, e certo mi permetteva di apparire più serena delle mogli degli amici di Arthur. Inoltre, avevo un vantaggio su di loro: dopo tutto, quanto a vite immaginarie, ero una professionista, mentre loro erano solo delle dilettanti. Eppure, col passare del tempo, cominciai a sentire che mi mancava qualcosa. Forse, pensavo, non avevo un'anima, mi lasciavo trasportare dalla corrente canterellando, come la Sirenetta nella Fiaba di Andersen. Per procurarsi un'anima era indispensabile soffrire e fare rinunce; oppure quello
era il sistema per procurarsi gambe e piedi? Non me lo ricordavo. Però la Sirenetta era diventata una ballerina; una ballerina senza lingua. E poi pensavo a Moira Shearer in Scarpette Rosse. Né l'una né l'altra erano riuscite ad accontentare il bel principe, erano morte tutte e due. In confronto, io me la stavo cavando piuttosto bene. Il loro sbaglio era stato quello di esibirsi in pubblico, mentre io ballavo a porte chiuse. Era meno pericoloso, ma... Era vero che avevo due vite, ma nei giorni di vacanza mi sembrava che nessuna delle due fosse del tutto reale. Con Arthur stavo solo giocando a marito e moglie, senza impegnarmi davvero. E i miei romanzi gotici non erano altro che carta: castelli di carta, costumi di carta, bambole di carta altrettanto inerti e prive di vita, in fin dei conti, delle noiose bambole dall'occhio spento che avevo vestito e svestito a casa di mia madre. Divenni famosa per la mia distrazione, che faceva molta simpatia agli amici di Arthur: per non deludere le loro aspettative, la aggiunsi al repertorio dei miei difetti. «Tu ti scusi troppo» mi disse una delle moglie petulanti, e cominciai a pensarci. Era vero, chiedevo sempre scusa. Ma perché avevo l'impressione di dover essere perdonata? Perché volevo giustificarmi, e di che cosa? Al liceo chi aveva le mestruazioni, oppure mal di stomaco, poteva fare a meno di giocare a pallacanestro, e anche allora preferivo restare in panchina. Adesso, avrei voluto essere riconosciuta per quel che ero, ma lo temevo al tempo stesso. Se avessi messo in contatto quei due aspetti indipendenti della mia vita (come l'uranio, come il plutonio, innocui se visti ad occhio nudo, ma saturi di forze letali), l'esplosione sarebbe stata inevitabile. Per il momento, continuavo a tenermi a galla segnando il passo. Era settembre. Arthur era in fase depressiva, aveva appena finito una serie di lettere che smascheravano tutti coloro che avevano fatto parte del movimento in favore della riforma dei programmi scolastici, la sua causa più recente. Avevo appena cominciato un nuovo romanzo, il cui titolo provvisorio era Riscatto d'amore. Con Arthur che girava per casa, era difficile chiudere gli occhi e lasciarsi scivolare nel mondo delle ombre, tanto più che il tradizionale schema di inseguimento e fuga da stupratori o assassini aveva smesso di interessarmi. Dovevo trovare qualcosa di nuovo, inventare qualche nuova stravaganza: il mercato era più competitivo, i romanzi gotici non erano più considerati soltanto scempiaggini, ma scempiaggini molto redditizie e rischiavo di restare fuori a causa dell'abbondanza dell'offerta. Sfogliando le opere delle mie rivali, come facevo con trepi-
dazione ogni settimana nel magazzino all'angolo della strada, vidi che l'ultima novità era l'occulto. Non bastava più che l'eroe avesse un mantello: ora doveva anche possedere dei poteri magici. Andai alla biblioteca centrale di consultazione e mi documentai sul Seicento. Mi occorreva un rito, un cerimoniale che fosse sinistro ma suggestivo... Al suo destarsi, Penelope si accorse di essere bendata; non riusciva a muovere né mani né piedi: l'avevano legata a una sedia. Li sentiva confabulare all'altro angolo della stanza e si sforzò di afferrare le loro parole, conscia che da questo poteva dipendere la sua vita e quella di Sir Percy. «Possiamo servirci di lei come tramite per ottenere la conoscenza, ti dico,» stava dicendo Estelle, una focosa bellezza nelle cui vene scorreva del sangue gitano. «Faremmo meglio a liberarci di lei» mormorò François. «Ha visto troppo.» «Sì sì» disse Estelle, «ma prima possiamo usarla. Non mi accade sovente di mettere la mani su qualcuno con dei poteri tanto grandi e tanto poco sfruttati.» «Fai come vuoi» disse François parlando fra i denti, «basta che poi tu mi lasci fare a modo mio.» Mentre percorreva con lo sguardo il giovane corpo di Penelope, tremante e indifeso, i suoi occhi mandavano bagliori. «Silenzio!... È sveglia.» Muovendosi con grazia selvaggia e felina, Estelle si avvicinò. Nella penombra i suoi denti piccoli e bianchi brillavano, ed ella ricacciò all'indietro le sue chiome rosse scarmigliate. «Allora, piccola mia» disse con simulata cordialità «ci siamo svegliati. Ora ci renderai un piccolo servizio, vero?» «Per voi non farò nulla» disse Penelope «Ho capito chi siete.» Estelle rise. «Che coraggio, piccola» disse. «Ma non potrai opporre resistenza. Bevi.» Versò a forza tra i denti di Penelope parte del liquido contenuto in una fiaschetta di forma esotica. Poi le tolse la benda e collocò di fronte a lei un tavolinetto sormontato da uno specchio, accese una candela e la mise davanti allo specchio. Penelope sentì che la stanza si riempiva di malefiche esalazioni; si infittivano intorno a lei. Suo malgrado, il suo sguardo veniva attratto dalla fiamma; la sua mente prese a ondeggiare, affascinata, inerme come un moscerino; nello specchio la sua immagine era scomparsa... si inoltrava avanti, sempre più avanti, finché non le parve di camminare dall'altra par-
te dello specchio, in una contrada di ombre confuse. Al di sopra di lei, delle voci mormoravano nella nebbia. «Non avere paura» disse la voce di Estelle, che sembrava provenire da molto lontano. «Dicci quel che vedi. Dicci quel che senti.» Stavo scrivendo a macchina a occhi chiusi, come mio solito, ma a questo punto li aprii. Ero arrivata a un vicolo cieco: non avevo la più pallida idea di quel che Penelope avrebbe visto e sentito. Ci pensai su per una mezz'ora, ma senza alcun risultato. Sarei stata costretta a rappresentarlo. Era una mia abitudine di vecchia data: quando arrivavo a un punto morto, cercavo per quanto possibile di simulare la scena e di abbozzare l'azione, come un regista. Era pericoloso, perché Arthur stava guardando la televisione nella stanza accanto. Per di più, dubitavo che in casa ci fossero delle candele. Andai in cucina, rovistai nei cassetti e tirai fuori un moccolo corto e impolverato che faceva parte di uno scaldavivande comprato in un momento di illusione e buttato via in un momento di rabbia. Lo attaccai a un piattino, trovai i fiammiferi e tornai in camera da letto, chiudendo la porta. Arthur credeva che stessi scrivendo un'esercitazione sulla sociologia dell'arte della ceramica per il corso dell'Università aperta che fingevo di frequentare. Accesi la candela e la misi davanti allo specchio del mio tavolo da toilette. (Ne avevo comprato da poco uno a tre luci, come quello di mia madre.) Solo quando fui seduta, mi tornò alla memoria il mio precedente esperimento di scrittura automatica, ai tempi del liceo. Quella volta la mia frangetta aveva preso fuoco. Scostai i capelli dal viso e li appuntai, per ogni evenienza. Non mi illudevo certo di ricevere dei messaggi solo perché montavo la scena del mio romanzo, ma sentivo che avrei dovuto tenere una matita o una penna a portata di mano. Penelope, naturalmente, aveva dei poteri medianici innati. Si lasciava ipnotizzare facilmente. Inoltre aveva appena bevuto un liquido contenuto in un fiaschetta di forma esotica, il che non guastava. Tornai in cucina, mi versai un bicchiere di whisky e acqua e lo bevvi. Poi mi sedetti di fronte allo specchio, cercando di concentrarmi. Forse Penelope avrebbe ricevuto un messaggio da Sir Percy che le comunicava di essere in pericolo. Forse avrebbe dovuto trasmetterne uno lei stessa... Chissà se era emittente o ricevente. Se si fosse potuto perfezionare quel metodo, per la compagnia dei telefoni Bell sarebbe stata la rovina... Stavo divagando troppo. Tu sei Penelope, mi dissi con fermezza.
Fissai la candela nello specchio e ne osservai il riflesso. Non c'era soltanto una candela, ma tre, e sapevo che se avessi inclinato verso di me le ante dello specchio ce ne sarebbe stato un numero infinito, in una fila a perdita d'occhio... La stanza sembrava molto buia, più buia di prima; la luce della candela era molto vivida, la tenevo in mano e camminavo lungo una galleria, scendevo, voltavo un angolo. Stavo per trovare qualcuno. Avevo bisogno di trovare qualcuno. Vidi qualcosa che si muoveva al margine dello specchio. Rimasi col fiato sospeso e mi girai. Senza dubbio, in piedi dietro di me, c'era stata una figura. Ma non c'era nessuno. Ero ben sveglia ora, e dalla televisione nella stanza accanto mi giunse, attutito, l'urlo della folla e la voce del commentatore: «Tiro, gol! Un formidabile lancio da fermo. Il pallone potrebbe essere rimbalzato... Ecco il replay...» Guardai il foglio di carta. Lo guardai ancora. In una grafia tutta sgorbi, che sicuramente non era la mia, c'era scritta una sola parola: BOW Spensi la candela e accesi la luce centrale. Che diavolo poteva voler dire? Consultai il vocabolario tascabile del Roget che mi serviva per i sinonimi delle parole che usavo più spesso, come «tremare» - v. vacillare, palpitare (VIBRARE); fremere, rabbrividire, raccapricciare (PAURA). E lessi: bow - s. riverenza, inchino, salamelecco (RISPETTO, GESTO DI); prora, sperone, rostro (ANTERIORE, PARTE); arco, balestra (ARMI); gomito, arco, volta (CURVA, PIEGA). bow - v. chinare il capo, inchinarsi, fare la riverenza (RISPETTO, GESTO DI); piegare, inarcare, incurvare (CURVARE, PIEGARE); umiliarsi, piegarsi, inginocchiarsi (SCHIAVITÙ); sottomettersi, cedere, arrendersi (SOTTOMISSIONE). Che parola stupida, pensai: non mi forniva il minimo aiuto per superare l'impasse di Penelope ed Estelle. Ma poi avvertii l'importanza di quel che era successo. Avevo effettivamente scritto una parola, senza esserne consapevole. E per di più, avevo visto nello specchio, o meglio nella stanza, qualcuno in piedi alle mie spalle. Mi tornò in mente tutto quello che mi
aveva detto Leda Sprott; era vero, ero convinta che fosse vero e che qualcuno doveva trasmettermi un messaggio. Volevo scendere di nuovo in quella galleria buia eppure luminosa, volevo vedere che cosa c'era in fondo... E dall'altra parte, non lo volevo. Avevo troppa paura. Mi sentivo anche troppo ridicola: che cosa credevo di fare, gingillandomi con specchi e candele come uno degli Spiritualisti ottantenni di Leda Sprott? Mi serviva un messaggio per Penelope, d'accordo, ma non era detto che dovessi correre il rischio di prendere fuoco per riceverne uno. Andai in cucina e mi versai di nuovo qualcosa da bere. Fu così che cominciò. La vittoria andò allo specchio, la curiosità ebbe il sopravvento. Accantonai Penelope, lasciandola legata alla sua sedia: le avrei dato retta più tardi. La parola non era destinata a lei, ma a me, e volevo scoprire che cosa significava. La mattina dopo, andai a comprarmi due dozzine di candele da tavola nel più vicino supermarket Loblaws e la sera stessa, mentre Arthur guardava una partita di football, entrai di nuovo nello specchio. Ebbi più o meno la stessa esperienza della prima volta, che rimase immutata durante tutto il periodo in cui continuai a compiere l'esperimento, circa tre mesi. Provavo la sensazione di camminare in un corridoio angusto che conduceva verso il basso; non ne dubitavo, mi sarebbe bastato girare il prossimo angolo, o quello successivo - perché quelle escursioni diventavano sempre più lunghe - per trovare qualcosa, verità, parola o persona, che apparteneva soltanto a me, che stava aspettando me. Una cosa sola cambiò: l'impressione che qualcuno stesse in piedi alle mie spalle non si ripeté. Quando mi ridestavo dalla trance (penso che tale si potesse definire) di solito sul blocco per appunti di fronte a me, c'era una parola, talvolta più d'una e di tanto in tanto addirittura una frase anche se due volte non lessi che uno scarabocchio. Guardavo attentamente quelle parole cercando di interpretarle; poi le cercavo sul vocabolario del Roget, e quasi sempre parole nuove venivano a colmare le lacune: Chi è la donna ritta sulla prora Chi è colei che naviga sotto la volta celeste, sotto la volta terrestre sotto un'arcata di frecce sulla nave della morte, perché canta
Inginocchiata, curva sotto il dominio le sue lacrime sono scure le sue lacrime sono come aculei come la morte che temi Nell'acqua, nel cielo d'acqua cadono le sue lacrime, fiori oscuri Il significato non mi era affatto chiaro, e non riuscii mai ad arrivare in fondo alla galleria. Comunque, le parole che mettevo insieme con quel sistema diventavano sempre più strambe e persino truci: ferro, gola, coltello, cuore. Da principio, le frasi si incentravano sempre sulla stessa figura, su quella donna. Dopo qualche tempo mi sembrava di vederla: viveva sottoterra, o comunque in un luogo chiuso, una caverna o un gigantesco palazzo; talvolta era su una nave. Era straordinariamente potente, quasi come una dea, ma il suo era un potere infelice. Quella donna mi assillava. Non assomigliava ad alcuna delle persone che avevo mai immaginato, e certamente non aveva niente in comune con me. Non ero affatto così, ero felice. Felice e inetta. Poi cominciò a farsi vivo un altro personaggio, un uomo. Tra i due stava accadendo qualcosa: sulle pagine prendevano forma delle enigmatiche lettere d'amore, oscure, sinistre. Sentivo che quell'uomo era malvagio, ma non ne ero certa. A volte sembrava buono. Cambiava aspetto ad ogni momento. Ogni tanto c'erano dei brani che sembravano provenire da un'altra fonte, nonché alcuni sermoni oltremodo noiosi sul senso della vita. Custodivo tutte le parole, insieme ai passi più lunghi che avevo elaborato sulla loro base, in una cartella portaschede contrassegnata dalla scritta Ricette. Qualche volta, nello stesso schedario avevo nascosto gli appunti per i romanzi gotici, anche se i manoscritti li tenevo al sicuro nel cassetto della biancheria. Tra una seduta e l'altra, di giorno, mentre lavavo i piatti o scivolavo lungo le corsie del supermarket, venivo assalita da improvvisi dubbi circa la mia attività. Che cosa stavo combinando, e perché? Se proprio dovevo sottopormi a quella specie di autoipnosi, perché non lo facevo in vista di qualche risultato benefico, ad esempio smettere di bere? Stavo (forse) diventando un po' matta? Che cosa avrebbe pensato Arthur se mi avesse scoperta?
Non so cosa sarebbe accaduto se avessi continuato, ma dovetti smettere per forza. Una sera entrai nello specchio, e non riuscii più a venir fuori. Stavo camminando nella galleria, con la candela in mano, come al solito, e la candela si spense. La candela si spense sul serio, credo, e fu per questo che rimasi lì imbambolata, nel buio fitto, incapace di muovermi. Avevo perso il senso d'orientamento; avevo persino paura di voltarmi, perché avrei potuto finire ancora più all'interno. Mi sembrava di asfissiare. Non so quanto tempo trascorse; a me sembrarono secoli, ma poi mi sentii scuotere da Arthur. Doveva essere arrabbiato. «Joan, che stai facendo?» disse. «Che cos'hai?» Ero tornata nella nostra camera da letto. Gli ero talmente grata che gli gettai le braccia al collo e cominciai a piangere. «Ho avuto un'esperienza spaventosa» gli dissi. «Cosa?» disse. «Ti ho trovata qui dentro a luce spenta, che fissavi lo specchio. Cos'è successo?» Non potevo dirglielo. «Ho visto qualcuno fuori dalla finestra. Un uomo. Stava guardando dentro.» Arthur si precipitò alla finestra per dare un'occhiata, mentre controllavo rapidamente il foglio. Era perfettamente bianco: non un segno, non uno scarabocchio. Giurai che l'avrei fatta finita con quelle stupidaggini, e senza indugio. Leda Sprott aveva detto che occorreva esercitarsi, e ora ero disposta a crederle. Il giorno dopo, buttai via le candele che mi restavano e tornai a Penelope e a Sir Percy Somerville. Volevo dimenticare tutto della mia piccola avventura nel mondo soprannaturale. Non sono tagliata per l'occulto, mi dicevo. Stralciai dal romanzo la scena di Penelope e dello specchio: si sarebbe accontentata di stupri e assassini, come tutte le altre. Mi rimaneva la raccolta di scritti. Parecchie settimane dopo, li ripresi in mano e li sfogliai. Mi sembrava che non fossero peggiori dei libri di quel genere che avevo visto in libreria. Pensai che forse avrebbero potuto interessare qualche piccola casa editrice d'avanguardia, perciò li copiai a macchina e li spedii alla Vedova Nera Editrice. Quasi a giro di posta, ricevetti una lettera che mi parve piuttosto offensiva: Gentile Signora Foster, Detto francamente, i suoi lavori ci fanno pensare a un incrocio tra Kahlil Gibran e Rod McKuen. Anche se alcuni frammenti non sono privi di valore letterario, la raccolta nel suo complesso, purtroppo, presenta disu-
guaglianze di tono e incongruenze. Per cominciare, potrebbe sottoporli a qualche rivista letteraria. Oppure potrebbe tentare con Morton & Sturgess: forse è il genere di cosa che trattano loro. Questa risposta mi lasciò per qualche tempo scoraggiata. Forse avevano ragione loro, forse quelle cose non valevano nulla. Non pensavo che sarebbe servito a granché rivelare che i manoscritti mi erano stati dettati da entità che sfuggivano al mio controllo. Perché volevo pubblicarle a tutti i costi? Chi credevo di essere? «Chi credi di essere?» mi chiedeva sempre mia madre, senza mai aspettare la risposta. Eppure avevo il diritto di provare, come chiunque altro. Presi il coraggio a due mani e spedii il manoscritto a Morton & Sturgess, senza tanti complimenti. Quel che accadde in seguito mi colse del tutto alla sprovvista. L'incontro decisivo si svolse nel bar della Casina del Parco. Non c'ero mai stata prima: quello non era il tipo di locale frequentato da Arthur. Tanto per cominciare era troppo caro, e poi era chiaramente un posto da capitalisti. Mio malgrado, rimasi molto colpita. Erano venuti in tre all'incontro: John Morton, il titolare della casa editrice, un signore distinto; Dough Sturgess, il suo socio e addetto alla pubblicità, americano, come capii in un batter d'occhio; e un giovanotto dallo sguardo sofferente che mi venne presentato come il curatore della collana, Colin Harper. «Anche lui poeta» disse giovialmente Sturgess. Tutti e tre ordinarono dei martini. Avevo voglia di un doppio scotch, ma non volevo farmi notare per la mia mancanza di delicatezza femminile, non subito almeno. Se ne sarebbero accorti fin troppo presto, pensai. Perciò ordinai un Grasshopper. «Allora» disse John Morton guardandomi con benevolenza e giungendo i polpastrelli. «Sì, dunque» disse Sturgess. «Allora, Colin, potresti anche cominciare.» «Ci è sembrato che fosse, hmm, come dire, che richiamasse alla mente un misto di Kahlil Gibran e Rod McKuen,» fu l'infelice esordio di Colin Harper. «Oh» dissi. «È proprio pessimo, eh?» «Pessimo?» interloquì Sturgess. «La signora ha detto pessimo? Ma ha un'idea di quante copie vendono, quelli là? È come avere la Bibbia in esclusiva, perdio.» «Vuol dire che avete intenzione di pubblicarlo?» dissi.
«È una bomba» disse Sturgess. «E non è un fiore, la nostra signora? Faremo una copertina favolosa. Tutta a quattro colori. Sa suonare la chitarra?» «No» dissi, sorpresa. «Perché?» «Pensavo che potevamo lanciarla come una specie di Leonard Cohen in versione femminile.» Quest'ultima osservazione mise un po' in imbarazzo gli altri due. «S'intende che bisognerà fare qualche revisione» disse Morton. «Sì» disse Colin. «Potremmo eliminare le parti più come dire...» «Qua e là qualche pezzo potrebbe saltare» disse Sturgess. «Voglio dire, ci son delle cose che stento a capire: ad esempio, chi è l'uomo con le giunchiglie e i denti a ghiacciolo?» «A me quella parte non dispiace» disse Colin. «È come... junghiana...» «La sezione sulla Strada della Vita, però...» «A me piace» disse Sturgess. «Quella è roba chiara, dà soddisfazione.» «Bene, signori, questi sono dettagli» disse Morton. «Avremo occasione di chiarirli in seguito. È evidente che in quel libro ce n'è per tutti i gusti. Mia cara» aggiunse rivolto a me, «saremmo assai lieti di pubblicare il suo libro. Ora, ce l'ha un titolo pronto?» «Non ancora» dissi. «Non ci ho pensato molto. A dir la verità, non credevo proprio che sarebbe mai stato pubblicato. Non me ne intendo molto di queste cose.» «Che cosa ne dice di questo pezzetto, questo qui» disse Sturgess scorrendo rapidamente il manoscritto. «Mi ha dato nell'occhio. Parte quinta: È assisa sul trono di ferro La donna dal triplice volto L'oscura signora la donna scarlatta e dorata la pallida donna sibilla del sangue, cui spetta in eterno obbedienza Fuggite le ali di vetro Il fiume la porta lei canta il suo ultimo canto e così via.» «Sì» disse Morton, «versi molto sonori. Mi ricordano qualcosa.» «Intendo dire, eccolo qui il titolo» disse Sturgess. «Lady Oracolo, la si-
billa. Datemi retta, ho fiuto per i titoli. Il movimento delle donne, l'occulto, c'è tutto.» «Non voglio che il libro sia pubblicato se non è buono sul serio» dissi. Ero al mio terzo cocktail e il mio senso di dignità cominciava a vacillare. Cominciavano anche a sorgermi dei dubbi riguardo ad Arthur. Che cosa avrebbe pensato, lui, di quella storia d'amore infelice ma ardente nonché, temevo, un tantino strampalata tra una donna in barca e un uomo col mantello, ghiaccioli al posto dei denti e occhi di fuoco? «Buono» disse Sturgess. «Non tormentarti quella bella testolina con questa storia della bontà. Di quella ce ne occupiamo noi, è il nostro mestiere, no? La so lunga su come va lanciato. Intendo dire, ce ne sono molti di libri buoni, ma questo è straordinario.» 22 «Arthur» dissi, «mi pubblicano un libro.» L'avevo detto mentre Arthur stava guardando Notizie dall'interno sulla rete nazionale, edizione delle 23, nella speranza che non mi ascoltasse. Invece mi ascoltò. «Cosa?» disse. «Un libro? Tu?» «Sì» dissi. Arthur fece una faccia costernata. Abbassò il volume del notiziario. «Di che parla?» mi chiese. «Beh, dipende; si potrebbe dire che tratta dei ruoli maschili e femminili nella nostra società.» Lo dissi con un certo disagio: pensavo alla parte quattordicesima, in cui si trovava l'amplesso tra la Vergine di Ferro, liscia fuori ma irta di aculei all'interno, e l'uomo col vestito di gomma gonfiabile. Stavo cercando di farmi venire in mente qualche argomento che potesse sembrargli degno di rispetto, e la mia risposta parve funzionare, perché smise di aggrottare le ciglia. «Bene» disse. «Te l'ho sempre detto che avevi delle capacità. Potrei dargli un'occhiata, se vuoi. Mettertelo a posto.» «Ti ringrazio, Arthur» dissi, «ma è già stato corretto.» Era vero: il povero Colin Harper era tornato più volte sul manoscritto, cancellando alcune cose e annotando ai margini sopprimere. Aveva cercato di essere diplomatico, ma si vedeva benissimo che quel libro lo metteva in imbarazzo. Per due volte si era servito dell'aggettivo «melodrammatico,» e una volta aveva scritto «sensibilità goticheggiante,» cosa che mi aveva fatto prendere un colpo: quell'uomo sapeva. Invece era soltanto una coincidenza. «È già in
tipografia» dissi ad Arthur. «Vogliono che appaia in televisione» aggiunsi, allo scopo di impressionarlo, immagino. Arthur si inquietò di nuovo, come avevo previsto. «Perché non me l'hai detto prima?» «Avevi tanto da fare» mormorai. «Non volevo disturbarti.» C'era del vero in questo, perché Arthur aveva incontrato tutto un gruppo di persone nuove ed era nel pieno di un'altra spirale ascendente e attivista. «Beh, è meraviglioso» disse. «Dovrò leggerlo. Potremmo andare a mangiare fuori, per festeggiare; avevo comunque intenzione di farti conoscere della gente.» Festeggiare, secondo Arthur, significava andare ai Giardini di Young Lok, un ristorante cinese nel quartiere di Spadina. «Assomiglia al Sai Woo» disse Arthur «prima che diventasse famoso.» Quel che intendeva era che non costava caro. Una volta ci eravamo già stati, e si mangiava bene, ma la mia nozione del far festa comprendeva come minimo le bevande appropriate, e se possibile anche le candele. I Giardini di Young Lok non avevano la licenza per gli alcolici. Ma Arthur era in vena di suscettibilità, perciò rinunciai a fare proposte alternative. Andammo fino a Spadina a piedi e poi prendemmo un autobus. Non avevamo la macchina, perché Arthur si ostinava a non volerla: diceva che era un lusso inutile. Non negavo che avesse ragione dal punto di vista morale; lui aveva sempre ragione dal punto di vista morale. La cosa era senza dubbio degna di ammirazione, però cominciava a pesarmi. Arthur mi informò che le persone che avremmo incontrato si chiamavano Don e Marlene Pugh. Arthur e Don insegnavano tutti e due nello stesso dipartimento all'Università, e le loro opinioni politiche coincidevano. Arthur mi disse che aveva un grande rispetto per l'intelligenza di Don. Nessuno lo batteva quanto a rispetto dell'intelligenza altrui, in fase iniziale. Poi, però, non mancava mai di scoprire qualche magagna, qualche degenerazione nascosta. «Nessuno è perfetto» gli dicevo. E avevo sempre più voglia di aggiungere: nemmeno tu. Facemmo il nostro ingresso ai Giardini di Young Lok, affollato come al solito. Una coppia che sedeva contro la parete di fondo ci fece dei cenni; noi li raggiungemmo aprendoci un varco tra i tavoli. «Joan, ti presento Don Pugh e sua moglie Marlene» disse Arthur, e improvvisamente mi venne un attacco di nausea. Conoscevo Marlene. Eravamo andate insieme dalle Coccinelle. Non era molto cambiata e, come allora, era molto più magra di me. Por-
tava un completo di jeans scolorito con un fiore ricamato sulla tasca del giubbotto; aveva i capelli biondi e radi che le scendevano disordinatamente sulle spalle e degli occhiali tondi con la montatura d'argento. Era snella e muscolosa, e alle quattro dita della mano sinistra portava dei massicci anelli d'argento, che sembravano un tirapugni. Senza dubbio aveva preso il volo, era diventata una Guida con le maniche coperte da una sfilza di distintivi, e poi era passata per i corsi di danza moderna, terapia gestaltica, karatè, falegnameria. Mi sorrise da sotto in su, competente e disinvolta. Io, naturalmente, ero piena di fronzoli: uno scialle, una collana ciondolante che sarebbe stata l'ideale per strangolarmi, un foulard. I miei capelli avevano bisogno di un bello sciampo, le mie unghie erano sporche e avevo l'impressione che le mie scarpe fossero slacciate, anche se il paio che portavo era senza lacci. Rotoli di grasso mi germogliarono sulle spalle e sulle cosce, la mia pancia divenne gonfia e sporgente come un popone, dal mio cranio spuntò all'improvviso un basco di lana marrone, mentre lunghe mutande tornavano a fasciarmi i fianchi, ora in preda al panico. Gli occhi mi si gonfiarono di lacrime. Come un virus a contatto di una gola debilitata, il mio passato latente proruppe con rigoglioso vigore. «Finalmente ci incontriamo» disse Marlene. «Scusatemi» dissi. «Devo andare al bagno.» Mi diressi verso la toilette delle signore, seguita dai loro sguardi sorpresi. Una volta entrata, mi chiusi a chiave in uno stanzino, mi sedetti e mi abbandonai all'autocommiserazione tirando su col naso e soffiandomelo. Che razza di festeggiamento. Marlene, la mia aguzzina, quella che mi aveva legata a un ponte lasciandomi a mo' di sacrificio umano alla mercé del mostro dei burroni; Marlene, l'ingegnosa inquisitrice. Eccomi di nuovo prigioniera del mio incubo di bambina: correre senza posa dietro alle altre, noncuranti e sdegnose, tendendo le mani e mendicando qualche parola di lode. Lei non si ricordava di me, ma sapevo già quel che sarebbe successo una volta che mi avesse riconosciuta: avrebbe perdonato a se stessa con un sorriso indulgente, e sarei morta dalla vergogna. Eppure non avevo fatto nulla di vergognoso; era lei che aveva di che rimproverarsi. Ma allora perché ero io a sentirmi in colpa, mentre lei era immune dal rimorso? La sua era la libertà dei forti; mentre la mia colpa era la colpa dei perdenti, di chi rischia di venir messo alla berlina, di chi non ce la fa. La odiavo. Non potevo rimanere là dentro tutta la sera. Mi rinfrescai la faccia con una salvietta di carta inumidita e mi risistemai il trucco. Avrei dovuto far-
mi forza. Quando tornai a tavola stavano mangiando un intero pesce in agrodolce, inclusa la testa con gli occhi sporgenti e abbrustoliti. Non si accorsero quasi del mio ritorno: erano immersi in una discussione sull'imperialismo culturale americano. A loro si era unita un'altra persona, un uomo dallo sguardo triste i cui capelli color sabbia cominciavano a sfoltirsi. Capii che si chiamava Sam, anche se nessuno si preoccupò di presentarci. Rimasi seduta ad ascoltarli mentre loro si lanciavano e rilanciavano le idee come palline da ping-pong, segnando i rispettivi punteggi. Stavano decidendo circa il futuro del paese. Nazionalismo con una punta di socialismo o socialismo con una punta di nazionalismo? Don, così sembrava, era ferrato sulle statistiche; Arthur era pieno di zelo. Sam aveva tutta l'aria del teorico; si scoprì che aveva studiato in un collegio rabbinico. Marlene proferiva i verdetti. L'intransigenza era il suo motto, pensai. Era ancora più intransigente di Arthur. Aveva tutte le carte vincenti, una volta aveva persino lavorato in fabbrica, cosa che fece rimanere gli altri senza fiato. A me nessuno disse nulla; sentivo che Arthur avrebbe potuto tirare in ballo il mio libro, ma forse preferiva stare sulle sue. Non voleva esprimersi al proposito prima di averlo letto; non si fidava di me. L'unico essere col quale avevo qualche speranza di comunicare a quella tavola era il pesce arrosto, ormai ridotto alla sola lisca, più la testa. «Prendiamo dei biscotti della fortuna» dissi con allegria forzata. «Ne vado matta, e tu?» Arthur ne ordinò un po', con l'aria di chi la dà vinta a un bambino viziato. Marlene mi guardò con disprezzo. Decisi di affrontarla a faccia a faccia. A quel punto, tanto valeva che arrivassi fino in fondo. «Credo che tu ed io siamo state dalle stesse Coccinelle» dissi. Marlene rise. «Ah, le Coccinelle» rispose, «ci sono passate tutte.» «Io ero uno Gnomo» dissi. «Non riesco proprio a ricordare quello che ero» disse. «Non me lo ricordo quasi per nulla. Però, ci nascondevamo nel guardaroba, dopo, e facevamo delle telefonate dal telefono della chiesa. Quando rispondevano, dicevamo 'È acceso il suo frigorifero?' e quando rispondevano di sì dicevamo Allora lo spenga, prima che bruci.' Praticamente questo è tutto quel che mi è rimasto in mente.» Mi ricordavo benissimo di quel giochetto, perché non mi lasciavano giocare mai. Le portavo rancore, a distanza di tanto tempo, e questo mi meravigliava. Ma ero ancora più offesa dal fatto che non mi avesse riconosciu-
to. Mi sembrava molto ingiusto che una esperienza tanto umiliante per me non l'avesse nemmeno sfiorata. Arrivarono i biscotti della fortuna. Don e Arthur ignorarono i loro, ma noi li aprimmo. A me capitò la frase Un nuovo amore ti attende. Quello di Sam prometteva prosperità e quello di Marlene diceva Spesso è meglio essere se stessi. «È evidente che mi hanno dato quello sbagliato» disse Sam. «Chi lo sa» disse Marlene. «Sotto sotto sei sempre stato un capitalista.» Sembrava che si conoscessero molto meglio di quanto avevo immaginato. «Anche a me hanno dato quello sbagliato» dissi. A me era destinato quello di Marlene, pensavo. Spesso è meglio esser se stessi, sussurrava tra le briciole una vocina, come la voce della coscienza. D'accordo, ma quale delle due avrei dovuto essere, quale? E se mai avessi incominciato, chissà come sarebbero inorriditi. «Che cosa avevi?» mi chiese Arthur una volta tornati nell'appartamento. «Non lo so» risposi. «A esser del tutto sincera, Marlene non mi andava molto a genio.» «Beh, tu le sei piaciuta, e molto» disse Arthur. «Me l'ha detto mentre eri al gabinetto.» «La prima volta?» chiesi. «No» disse. «Penso che fosse la terza.» Sia lode al Signore per gli stanzini delle toilette, pensai, gli unici luoghi in cui era ancora possibile meditare in solitudine e pregare. Per che cosa avevo pregato? Avevo pregato, con tutta l'anima, che Marlene sprofondasse in un buco. Durante la settimana che seguì, Marlene e Don, con Sam al seguito, si trasferirono in pratica a casa nostra. Per Arthur, Marlene divenne un'incarnazione dell'idea platonica della donna. Non solo aveva un'intelligenza che si conquistava il suo rispetto, era pure una cuoca provetta, quasi sempre fedele alla dieta vegetariana. Don e Marlene avevano due bambini piccoli e Arthur, proprio lui che aveva tappezzato la nostra stanza da letto, con ogni genere di contraccettivi, che aveva insistito perché prendessi la pillola imbronciandosi ogni volta che mi faceva vomitare, che diventava verde come un limone quando le mestruazioni tardavano, ora mi guardava con muto rimprovero perché non avevo bambini. Marlene era la caporedattrice di Rinnovamento, un piccolo periodico nazionalista di sinistra di cui Don era il direttore e Sam il redattore. Presto
Arthur divenne un collaboratore alla redazione, e scrisse un articolo scrupolosamente documentato sul decentramento degli impianti industriali, che Marlene lesse fumando una sigaretta dopo l'altra (era il suo unico vizio) e facendo commenti del tipo «Buon ragionamento, questo» mentre lui sorrideva beato. Ecco la musa, pensavo con stizza; mai che si scomodasse ad aiutarmi a fare il caffè, dovevo sbrigare tutto da me. Era il minimo che potessi fare come diceva Arthur, ed ero ben decisa a non andare oltre il minimo. Ero gelosa di Marlene, ma la mia non era la gelosia classica. Sapevo che ad Arthur non sarebbe nemmeno passato per il cervello di mettere una mano sullo scarno posteriore di Marlene, proprio come un buon cattolico non si sognerebbe di palpare la Madonna. E ben presto mi accorsi che Sam e Marlene avevano una relazione, anche se Don non lo sapeva. Decisi di non raccontarlo a nessuno, non ancora. Da un giorno all'altro diventai più benevola; comperavo biscotti per servirli insieme al caffè e cominciavo ad assistere alle riunioni del comitato di redazione. Con Sam ero affettuosa in modo particolare: si vedeva che era decisamente sotto pressione. Sebbene per certi aspetti fosse serio e impegnato come Arthur, aveva anche un lato più rassicurante che manifestava solo in cucina, mentre mi aiutava a fare il caffè. Mi faceva piacere che mi aiutasse, e anche che fosse più maldestro di me. Intanto l'editore mi aveva mandato le bozze di Lady Oracolo. Le corressi con crescente inquietudine. A una seconda lettura, quel libro mi sembrava piuttosto strano. Di fatto assomigliava moltissimo a uno dei miei soliti romanzi gotici, solo che sembrava un romanzo gotico mancato. Era come capovolto. C'erano i patimenti, l'eroe sotto le mentite spoglie di scellerato, lo scellerato sotto le mentite spoglie dell'eroe, le fughe, la morte incombente, la sensazione di essere in trappola, ma non c'era il lieto fine, mancava il vero amore. La scoperta di quella parziale affinità mi mise a disagio. Forse, invece che da un editore, avrei fatto meglio a portarlo da uno psichiatra; ma poi mi tornò alla mente lo psichiatra al quale mi aveva mandato mia madre. Non mi era stata di grande aiuto, e comunque nessuno avrebbe capito la storia della scrittura automatica. Forse, avrei dovuto evitare di usare il mio nome, vale a dire quello di Arthur: in quel caso non sarei stata costretta a mostrargli il libro. Quello era un pensiero che mi terrorizzava ogni giorno di più. Arthur non aveva mai accennato al libro da quando gliene avevo parlato, e io nemmeno. Anche se la sua mancanza di interesse mi rattristava, quel rinvio del Giorno del Giudizio mi dava un certo
sollievo. Ad Arthur il mio libro non sarebbe piaciuto, ne ero certa; anzi, non sarebbe piaciuto a nessuno. Telefonai a Sturgess della Morton & Sturgess. «Ho cambiato idea» dissi. «Non voglio che il libro sia pubblicato.» «Cosa?» disse Sturgess. «Perché no?» «Non posso spiegare» dissi. «È una questione personale.» «Senti» disse Sturgess, «tu hai firmato un contratto, ricordi?» Ma non l'avevo mica firmato col sangue, pensai. «Non potremmo dare una specie di contrordine?» «Siamo già in corso di stampa» disse Sturgess. «Perché non andiamo a bere qualcosa insieme, così ne parliamo un po'?» Mi dette una metaforica pacca sulla spalla e mi dichiarò che tutto sarebbe andato nel migliore dei modi. Mi lasciai convincere. Dal quel momento in poi, cominciò a farmi delle telefonate fuori programma, per tener alto il mio morale. Un giorno mi diceva: «Stiamo scaldando i motori,» un altro: «Ti abbiamo trovato un paio di spot pubblicitari nelle fasce di massimo ascolto.» Oppure: «Ti mandiamo in tournée in giro per il Canada.» Quest'ultima uscita mi fece pensare alla Regina, che salutava agitando la mano dalla piattaforma di coda di un treno. Mi ricordò anche Mister Nocciolina, che in certi sabati speciali compariva sul parcheggio dei supermercati Loblaws. Braccia e gambe, complete di ghette e guanti bianchi, erano di dimensioni normali, ma il suo corpo era un'enorme nocciolina; si esibiva in un balletto cieco e dinoccolato, mentre le ragazze che lo accompagnavano vendevano album da colorare e pacchetti di noccioline. Da bambina, Mister Nocciolina mi piaceva molto; poi però mi ero resa conto bruscamente di quel che significava essere nei suoi panni, chiusi in un involucro goffo e soffocante, esposti agli sguardi di tutti. Forse avevo fatto male a firmare il contratto così, incautamente, a cuor leggero, dopo il terzo aperitivo. La data della pubblicazione si avvicinava, e mi svegliavo ogni mattina in preda a un senso di vago timore prima ancora di tornare alla realtà. Malgrado ciò, le copie-pilota mi rassicurarono. Sembrava proprio un libro vero, e sul retro della copertina c'era la mia fotografia, come se fossi stata una vera scrittrice. Louisa K. Delacourt non era mai apparsa sul retro di copertina. La fascetta pubblicitaria, invece, mi mise un po' in allarme: L'amore e la lotta fra i sessi oggi, sottoposti a un'analisi acuta e penetrante: un'opera di sconcertante freschezza. Non credevo che l'argomento del libro fosse proprio quello, ma Sturgess mi assicurò che sapeva il fatto suo.
«Tu scrivi, a vendere ci pensiamo noi» disse. Inoltre mi comunicò, con aria di trionfo, che aveva «collocato» la recensione più importante. «Che cosa significa?» chiesi. «Abbiamo fatto in modo che il libro vada da qualcuno a cui piacerà di sicuro.» «Ma non è sleale, questo?» chiesi, e Sturgess rise. «Sei proprio incredibile» disse. «Resta come sei.» UNA COMETA NEL CIELO LETTERARIO: SENSAZIONALE ESORDIO DI UNA SCRITTRICE SCONOSCIUTA. Era il titolo della prima recensione, sul Toronto Star. La ritagliai con le forbici di cucina e la incollai sul nuovo album che mi ero comprata da Kresge. Cominciavo a sentirmi meglio. La recensione del Globe lo definiva «gnomico» e «ctonio» nello stesso trafiletto. Cercai quelle parole sul vocabolario. Forse non era tanto male, in fin dei conti. (Ma non mi fermai a meditare sulla natura delle comete. Ammassi di detriti cosmici dalle lunghe chiome rosse, dagli strascichi spettacolari, scoperte da astronomi che le battezzavano con i loro nomi. Araldi di sventura. Presagi di guerra.) 23 Regalai ad Arthur una copia di Lady Oracolo con dedica in prima pagina: Ad Arthur, con tutto il mio amore, baci, Joan. Ma lui, del libro, non disse nemmeno una parola, e avevo paura di chiedergli che cosa ne pensava. Aveva assunto un contegno scostante e trascorreva molto tempo all'Università, o almeno così diceva. Lo sorpresi nell'atto di lanciarmi sguardi oltraggiati quando credeva che non ci facessi caso. Non mi ci raccapezzavo più. Avevo previsto che mi dicesse che il libro era borghese, di cattivo gusto, oscuro, o tutta una burla, ma invece si comportava come se mi fossi macchiata di qualche peccato imperdonabile e innominabile. Mi lamentai con Sam, che ormai aveva preso l'abitudine di fare un salto da me nel pomeriggio per bersi una birra o due. Sapeva che sapevo di lui e Marlene, e quindi poteva lamentarsi con me. «Sono nella merda fino al collo» disse. «Marlene rompe da morire. Vuole dire tutto a Don. Pensa che dovremmo essere sinceri e leali. In teoria va tutto bene, ma... Lei vuole trasferirsi da me, coi bambini e tutto. Diventerei
matto. Tra l'altro» disse, ricadendo nel tono bigotto, «pensa a quel che succederebbe a Rinnovamento, si sfascerebbe.» «Che peccato» dissi. «Ho un problema.» «Tu hai un problema?» disse Sam. «Ma tu non ne hai mai.» «Questa volta sì» dissi. «Si tratta di Arthur e del mio libro. Vedi, non mi ha nemmeno detto che è brutto» dissi. «Non è proprio da lui. Finge di ignorarne l'esistenza, ma al tempo stesso il libro lo offende. Ma è davvero così orrendo?» «Nemmeno io sono un fanatico di poesia» disse Sam, «ma a me è sembrato niente male, come libro. Penso che ci sia molto di vero. Tutta la questione del matrimonio l'hai colta in pieno, è una forza. Arthur non me lo immaginavo proprio così, ma un altro uomo certi aspetti non li può vedere, no?» «Oh Cristo» esclamai. «Tu credi che il libro parli di lui?» «Anche lui ne è convinto» disse Sam. «È per questo che si è offeso. Non è così?» «No» dissi. «Niente affatto.» «Allora chi è l'altro?» domandò Sam. «Guarda che se scopre che parla di un altro, diventerà ancora più nero.» «Sam, il mio libro non parla di nessuno. Io non ho amanti segreti, te lo assicuro. È tutta come una specie di fantasia, ecco.» «Sei nella merda fino al collo, allora» disse Sam. «Arthur non ci crederà mai.» Era proprio quello che temevo. «Forse tu potresti parlargliene.» «Ci proverò» disse Sam, «ma non credo che servirà. Che cosa dovrei dirgli?» «Non lo so» risposi. Sam però doveva avergli detto qualcosa, perché Arthur modificò un poco il suo atteggiamento. Pur continuando a guardarmi come se lo avessi venduto ai nazisti, si comportava come se avesse sportivamente deciso di ignorare l'incidente. La sola cosa che disse fu: «La prossima volta che scrivi un libro, ti sarei grato se me lo facessi vedere in anticipo.» «Non ne scriverò più» dissi. Stavo lavorando accanitamente a Riscatto d'amore, ma non c'era bisogno che lui venisse a saperlo. Avevo altre cose di cui preoccuparmi. La macchina strategica messa in moto da Sturgess marciava a tutto regime, ed era arrivato il momento della mia prima apparizione in una trasmissione televisiva. Dopo, sarei andata a un ricevimento organizzato in mio onore da Morton & Sturgess. Ero ner-
vosissima. Mi spruzzai abbondantemente di deodorante extra-dry, infilai un lungo abito rosso e mi sforzai di ricordare cosa diceva il manualetto di galateo di zia Lou a proposito del sudore sulle palme delle mani. Borotalco, pensai. Me ne misi un po' sulle mani e partii per la centrale della televisione a bordo di un tassì. Sii te stessa, mi aveva detto Sturgess. Quello che doveva intervistarmi era un uomo giovane e molto teso. Scherzò insieme ai tecnici mentre mi sistemavano il cappio intorno al collo; quello, dissero, era un microfono. Deglutii più volte a vuoto. Mi sembrava di essere Mister Nocciolina, grosso e ingombrante. Si accesero i proiettori e il giovanotto teso si girò verso di me. «Benvenuti a Pomeriggio di fuoco. Oggi abbiamo con noi Joan Foster, autore, anzi autrice, di Lady Oracolo. Mi dica, Signora Poster - o preferisce essere chiamata signorina Foster?» Stavo bevendo un sorso d'acqua, e misi giù il bicchiere tanto in fretta che l'acqua schizzò fuori. Fingemmo entrambi di non vederla mentre si spandeva sul tavolo, per poi finire nelle scarpe dell'intervistatore. «Come preferisce» risposi. «Allora lei non fa parte del movimento di liberazione delle donne.» «Beh, no» dissi. «Alcune delle loro idee mi trovano d'accordo, ma...» «Signora Foster, lei si definirebbe una donna felicemente sposata?» «Oh, sì,» dissi. «Sono sposata da anni.» «Beh, non si direbbe. Perché vede, ho letto il suo libro, e mi è sembrato pieno di rabbia. Mi è sembrato un libro molto arrabbiato. Se fossi suo marito, non credo che mi piacerebbe. Lei che cosa ne pensa?» «Non è un libro sul mio matrimonio» dissi in tutta serietà. Il giovanotto sorrise con aria saputa. «Ah, no?» disse. «Allora, forse potrebbe dirci quale è stata la fonte della sua ispirazione.» A questo punto dissi la verità. Non avrei dovuto, ma una volta preso il via non riuscii più a smettere. «Beh, stavo facendo degli esperimenti di scrittura automatica» dissi. «Sa, ci si siede davanti a uno specchio, con carta e penna e una candela accesa e poi... Era un po' come se quelle parole mi venissero donate. Cioè, le trovavo scritte, ma non le avevo scritte io, non so se capisce. E così dopo... insomma, le cose sono andate così.» Mi sentivo una perfetta cretina. Volevo un altro sorso d'acqua, ma non ce n'era più, l'avevo versata tutta. L'intervistatore non sapeva che pesci pigliare. Mi lanciò un'occhiata che diceva a chiare lettere: lei mi sta prendendo in giro. «Vuol dire che quelle
poesie le sono state dettate da una mano fantasma» disse in tono faceto. «Sì» dissi. «Una cosa di questo genere. Può provarci anche lei, a casa sua.» «Bene» disse l'intervistatore. «Grazie mille per essere stata con noi questo pomeriggio. Era la bella Joan Foster, o meglio la signora Foster - oh, questa non me la perdonerà! - la signorina Joan Foster, autrice di Lady Oracolo. Ed ora Barry Finkle, con la sigla di Pomeriggio di fuoco.» Al ricevimento, Sturgess mi afferrò per un gomito e si mise a pilotarmi per la stanza come se fossi stata un carrello del supermercato. «Mi dispiace per l'intervista» gli dissi. «Ho fatto male a dire quelle cose.» «Che vuoi dire?» chicchiricchiò lui. «Hai fatto sensazione! Come hai fatto a inventartele? L'hai rimesso al suo posto proprio per bene!» «Non l'ho fatto apposta» dissi. Non sarebbe servito a nulla spiegargli che avevo detto la verità. C'era un sacco di gente al ricevimento, e quanto a ricordare nomi, ero un disastro. Non bere troppo, annotai sul mio promemoria mentale. Per quel giorno, pensavo, di figure ridicole ne avevo già fatte abbastanza. Dovevo star calma. Quando finalmente Sturgess si decise a mollare il mio gomito, mi defilai, appoggiandomi alla parete. Mi nascondevo per sfuggire al critico di un quotidiano che aveva visto la trasmissione televisiva e voleva intrattenersi con me sui fenomeni paranormali. Mi veniva da piangere. A che mi serviva essere la reginetta del giorno, se mi sentivo ancora come un rospo? E come se non bastasse, mi ero anche comportata da rospo. Arthur sarebbe stato umiliato. Quel che avevo detto, e che era stato diffuso su tutto il territorio nazionale, era decisamente lontano dalla linea di partito. Non che Arthur aderisse a qualche partito. Dunque, quello era un ricevimento. Bel ricevimento. Finii di bere il mio doppio scotch e andai a prenderne un altro. Mentre aspettavo al bar, accanto a me comparve un uomo. «Lei è Lady Oracolo?» disse. «È il titolo del mio libro» dissi. «Magnifico titolo» disse. «Il libro è spaventoso. È un residuato ottocentesco. Penso che sia una combinazione di Rod McKuen e Kahlil Gibran.» «Anche il mio editore era dello stesso parere» dissi. «Immagino che lei abbia avuto un gran successo editoriale» disse. «Che cosa si prova ad essere dei cattivi scrittori di successo?»
Cominciavo ad arrabbiarmi. «Perché non pubblica qualcosa e non lo scopre per conto suo?» «Ehi» disse sorridendo, «che caratterino. A ogni modo ha dei capelli favolosi. Non se li tagli mai.» Stavolta lo guardai. Aveva anche lui i capelli rossi, un elegante paio di baffi e il pizzetto: i baffi erano impomatati e con le punte arricciate all'insù. Indossava un lungo mantello nero e delle ghette, e teneva in mano un bastone da passeggio col pomolo d'oro, un paio di guanti bianchi e un cappello a cilindro ornato di aculei di porcospino. «Mi piace il suo cappello» dissi. «Grazie» disse. «Me lo sono fatto fare da una ragazza. Una mia conoscente. Aveva fatto dei guanti uguali, ma rimanevo impigliato ogni momento, mi impigliavo nella gente in coda alla mensa gratuita, nei cani morti, nelle calze di nylon, in cose così. Questa è la mia tenuta di gala. Perché non viene a casa mia?» «Oh, non posso» dissi. «Grazie lo stesso.» Non sembrava che ci fosse rimasto male. «Beh, se non altro può venire alla mia mostra» disse. Mi tese un cartoncino d'invito, un po' impataccato. «Stasera c'è l'inaugurazione. È solo a un paio di isolati da qui; mi ero stufato del mio ricevimento, è per questo che mi sono intrufolato nel suo.» «Va bene» dissi. Mi sembrava che non ci fosse nulla di male. Ero segretamente lusingata: da molto tempo nessuno mi faceva delle proposte. Inoltre, lo trovavo attraente: lui, o forse il suo mantello, non mi era molto chiaro. E poi volevo levarmi di torno il critico. L'inaugurazione aveva luogo in una galleria d'arte secondaria che si chiamava Il Decollo, mentre il titolo della mostra era SQUACCIATI. «È una specie di gioco di parole» mi disse, mentre attraversavamo Yonge Street. «Squaw e schiacciati, capisci?» «Credo di sì» dissi. Stavo esaminando l'invito alla luce di una vetrina. «Il Real Porcospino» c'era scritto. «Maestro della poesia CONCREATA.» C'era una sua fotografia in alta uniforme, e accanto l'istantanea di un istrice morto, scattata dal basso, così che si vedevano i suoi lunghi incisivi. «Qual è il tuo vero nome?» chiesi. «È quello il mio vero nome» rispose lui, un po' offeso. «Lo sto legalizzando.» «Oh» dissi. «E come è successo che hai scelto proprio questo?» «Beh, sono monarchico» disse. «Vado matto per la regina. Mi sembrava
che il mio nome avrebbe dovuto dimostrarlo. Suona un po' come la Real Casa o i Corazzieri Reali. E poi, pensavo che è un nome che si fa ricordare.» «E il porcospino?» «Ho sempre ritenuto che il castoro non fosse un gran che, come simbolo nazionale» disse. «Il castoro, per carità. Una bestia stupida, troppo ottocentesca: con quella sua industriosità. E sai perché li cacciavano? La pelliccia era per i cappelli, e poi gli tagliavano le palle per farci i profumi. Pensa tu che destino. L'istrice invece fa quel che gli pare, è tutto coperto di spine e nessuno lo malmena. Per di più ha dei gusti strani: i castori rodono gli alberi, i porcospini rodono le assi del water.» «Pensavo che fossero facili da uccidere» dissi. «Gli si dà una bastonata.» «Calunnie» rispose. Quando arrivammo alla galleria, un certo numero di persone stava uscendo; al di fuori, la Società Protettrice degli Animali aveva organizzato un picchetto con dei cartelli che dicevano SALVIAMO GLI ANIMALI. La mostra vera e propria era composta da parecchi congelatori con lo sportello e il piano superiore di vetro, simili agli espositori di gelati e succhi di frutta congelati che si vendono nei supermercati. Dentro i congelatori c'erano vari animali morti, tutti evidentemente investiti da automobili. Erano stati surgelati nell'esatta posizione in cui si trovavano al momento del ritrovamento, e a lato di ognuno, nel posto solitamente riservato al titolo, dimensioni e tecnica del dipinto (Composizione n. 72, m 1,50 x 2,70, acrilico e tubi di nylon), era fissato un cartellino con la specie dell'animale, il luogo del rinvenimento e una descrizione delle lesioni: ORSETTO LAVORATORE CON CUCCIOLO, 401 DON MILLS END, FRATTURA DELLA SPINA DORSALE ED EMORRAGIA INTERNA, per esempio; oppure GATTO DOMESTICO, RUSSEL HILL ROAD, SCHIACCIAMENTO DEL BACINO. C'era una moffetta, numerosi cani, un cerbiatto e un porcospino, insieme ai soliti gatti, marmotte e scoiattoli. C'era persino un serpente, talmente schiacciato da essere quasi irriconoscibile. «Che cosa te ne pare?» chiese il Real Porcospino dopo aver ultimato il giro. «Beh» dissi, «non saprei... il fatto è che di arte non me ne intendo molto.» «Non è arte, è poesia» disse il Real Porcospino, un po' offeso. «Poesia con-creata; io sono colui che ha fuso con-cretezza e creatività.» «Neanche di queste cose, me ne intendo molto.»
«Si vede dalla roba che scrivi» disse. «Io, roba come quella sarei capace di scriverla con le dita dei piedi. L'unico motivo per cui sei tanto celebre è che le tue sono cose superate. Perdio, la gente le compra perché non si è ancora messa al passo coi tempi. Vanno avanti con lo specchietto retrovisore, come dice McLuhan. La nuova poesia è la poesia delle cose. Prima di me non è mai stata fatta così» disse il Real Porcospino, guardando tetramente verso la porta della galleria, da cui un altro grappolo di frequentatori di vernissages, verdi in faccia, stava uscendo nauseato. «Te ne rendi conto?» «Hai venduto qualcosa?» chiesi vivacemente. «No» disse, «ma in futuro venderò. Dovrei portare questa mostra negli Stati Uniti, quassù la gente va con i piedi di piombo, sono poco propensi a correre dei rischi. È per questo che Alexander Graham Bell è dovuto andare al sud.» «È quel che dice mio marito» dissi, esponendomi. Il Real Porcospino mi guardò con rinnovato interesse. «Sei sposata» disse. «Non lo sapevo. Hai i gomiti più conturbanti che abbia mai visto. Ho in mente di fare una mostra di gomiti, è una parte del corpo molto trascurata.» «Dove li troveresti?» «In giro» disse. Mi prese per il gomito. «Usciamo di qui.» Mentre passavamo vicino al picchetto degli zoofili... fuori dall'ingresso borbottò: «Non hanno colto l'essenziale. Gli animali non li schiaccio io, li riciclo e basta. Che male c'è?» «Dove stiamo andando?» chiesi al Real Porcospino, che non aveva ancora mollato il mio gomito. «A casa mia» disse. «Ho fame» dissi, tanto per cercare una scappatoia. Allora andammo da Mister Zums a Bloor Street; presi uno Zumburger con tutti i suoi contorni e il Real Porcospino un frappé al cioccolato. Pagai - lui denaro non ne aveva - e poi discutemmo i pro e i contro di un'eventuale serata a casa sua. «Voglio fare l'amore con il tuo gomito» mi disse, «con i benefici supplementari.» «Ma io sono sposata» dissi, masticando pensosamente il mio Zumburger. Stavo resistendo alla tentazione, e quella era davvero una tentazione. Arthur aveva messo tra me e lui un raggelante divieto d'accesso; per quanto lo riguardava, avrei anche potuta essere una barbabietola. Ultimamente,
mi ero sorpresa a concupire gli uomini meno adatti: cronisti della Canadian Broadcasting Corporation, conducenti d'autobus, tecnici della macchina per scrivere. Nelle mie fantasie erotiche non mi scomodavo nemmeno più a immaginare le scene e i costumi, ma andavo subito ai respiri affannosi. Certo che dovevo stare proprio male. «Per me va benissimo» disse il Real Porcospino. «Preferisco le donne sposate.» «Forse mio marito non gradirebbe» dissi. «Non c'è bisogno che venga a saperlo, no?» «Lo capirebbe. Ha molto intuito.» Questo non era vero; quello che realmente mi crucciava era: se Arthur l'avesse saputo, gliene sarebbe importato? E se non gliene fosse importato? «Penserebbe che tu sei decadente, che nuoci alla mia coscienza politica.» «Può tenersi la tua coscienza politica, ma io mi prendo il resto, non ti pare equo? Dai, lasciati trascinare. Lo vedo che saresti il tipo.» Terminai il mio Zumburger. «È impossibile» dissi. «Fai come vuoi» disse. «Una volta si vince, una volta si perde. Guarda che stai perdendo un'occasione, però.» «Non me la sento proprio» dissi. Si offrì di accompagnarmi a casa e cominciammo a camminare in direzione ovest lungo Bloor Street, dirigendoci verso una strada fiancheggiata da vecchie case a tre piani di mattoni rossi, con portichetti e timpani a punta; Arthur e io abitavamo lì, precariamente come sempre. Il Real Porcospino sembrava essersi già dimenticato della sua proposta. Si preoccupava del successo della sua mostra. «L'ultima che ho fatto ha avuto una sola recensione. Quel vecchio scorreggione ha detto che era un tentativo abortito di suscitare disgusto. Ormai non si riesce nemmeno più a scandalizzare la borghesia; potresti mettere su una mostra di piedi mozzi di orfanelli e troveresti chi ti chiede di farci il tuo autografo.» Passammo davanti al museo e allo stadio Varsity, e continuammo in direzione ovest, attraversando una zona di bottegucce vecchie e sordide che si stavano trasformando in boutiques, oltre una ditta di travi e montanti all'ingrosso. Arrivati a Brunswick, svoltammo a nord, ma oltrepassate numerose case il Real Porcospino si fermò e lanciò un grido. Aveva trovato un cane morto, piuttosto grosso; sembrava un cane da slitta eschimese. «Aiutami a metterlo nel sacco» disse: aveva estratto da sotto il mantello un sacco per la spazzatura di plastica verde. Prese nota del luogo su un taccuino che portava con sé appositamente. Poi sollevò la parte posteriore del
cane e la fece scivolare dentro al sacco della spazzatura. Il sacco non era abbastanza grande e la testa del cane spuntava fuori, con la lingua a penzoloni. «Beh, buonanotte» dissi, «piacere di averti incontrato.» «Un minuto» disse, «non posso mica portare a casa questo affare da solo.» «Io non lo porto di certo» dissi. Era ancora tutto bagnato di sangue. «Allora reggi il mio bastone.» Alzò faticosamente il cane e se lo nascose sotto il mantello. Lo introducemmo furtivamente in un tassì - che finii per pagare io - e andammo nella tana del Real Porcospino. Si trovava nel centro commerciale, in un magazzino ristrutturato e suddiviso in ateliers. «Comunque io sono il solo che ci abita» disse. «Non posso permettermi di fare altrimenti. Gli altri hanno delle case vere.» Un pesante montacarichi ci trasportò al terzo piano. Il Real Porcospino non possedeva molti mobili, però aveva un grande congelatore; portò immediatamente il cane li e ce lo calò dentro. Poi legò le zampe, in modo che il cadavere si congelasse nella posizione in cui l'avevamo trovato. Mentre lui si occupava del cane, feci un giro d'esplorazione. Lo studio era quasi del tutto vuoto. In un angolo c'era il suo letto, un materasso poggiato sul pavimento, senza lenzuola; era coperto da parecchie pelli di pecora spelacchiate e sormontato da uno sbrindellato baldacchino di velluto rosso, bordato da nappe. Aveva anche un tavolo da gioco e due sedie dello stesso tipo; sia sul tavolo che sulle sedie c'erano dei piatti e delle tazze sporchi. Ad una delle pareti era appesa una gigantografia del Real Porcospino, in costume, che teneva un topo morto per la coda. Accanto c'era una fotografia ufficiale della regina e del principe Filippo, con tanto di insegne e diademi, chiusa in una pesante cornice dorata, che mi ricordava quella nello studio del preside al liceo. Contro la parete opposta c'era un bloccocucina, non allacciato alle tubature. Ospitava una collezione di animali impagliati. Alcuni erano giocattoli: orsacchiotti, tigri e coniglietti. Altri erano animali veri, montati e rifiniti con perizia, quasi tutti uccelli: una strolaga, un gufo, una ghiandaia azzurra. C'erano anche alcune lamie e degli scoiattoli, ma molto male impagliati: si vedevano le cuciture, gli occhi di vetro mancavano, erano lunghi e grassi come salsicciotti, con le zampe che sbucavano fuori diritte e rigide. «All'inizio avevo provato a imbalsamarli» disse il Real Porcospino «ma non ero capace. È molto meglio surgelarli, così non li attaccano le tarme.»
Si era tolto il mantello, e girandomi vidi che si stava togliendo anche la camicia. Mentre si sbottonava, si macchiò di rosso col sangue del cane; apparve il suo torace, coperto da una peluria ramata. I suoi occhi verdi si misero a brillare come quelli di una lince, e lui mosse qualche passo verso di me, emettendo un ringhio sommesso. Avevo le ginocchia infiacchite dalla libidine e avvertivo una curiosa sensazione di formicolio ai gomiti. «Beh, credo che ora dovrei proprio andare,» dissi. Lui non disse nulla. «Come si fa ad azionare il montacarichi?» «Per l'amor del cielo» dissi un minuto dopo, «lavati le mani!» «Ho sempre desiderato sapere cosa si prova a scopare con un mito» disse il Real Porcospino, meditabondo. Se ne stava disteso sul suo materasso e mi osservava mentre mi toglievo il sangue del cane dalla pancia, sfregandomi con un angolo della sua camicia, che aveva intinto nel water. Da lui non c'erano lavandini. «Allora» dissi con una certa asprezza, «che cosa si prova?» «Hai un culo carino» disse, «ma non è poi tanto diverso da quello di chiunque altro.» «Che cosa ti aspettavi?» dissi. Tre chiappe. Nove tette. Mi sentivo un'idiota per quel mio desiderio di ripulirmi del sangue del cane, capivo che stavo dissacrando uno dei suoi cerimoniali, lo stavo deludendo. Non ero stata all'altezza della situazione, e mi sentivo già in colpa verso Arthur. «Non è tanto quello che hai» disse, «quanto quel che ci fai.» Non mi disse se quel che facevo rispondeva o meno ai livello richiesto, e in quel momento non me ne importava. Volevo solo tornare a casa. 24 Così ebbe inizio la mia doppia vita. Ma non era stata doppia da sempre, la mia vita? Avevo sempre avuto una gemella fantasma, magra quando ero grassa, grassa quando ero magra, la copia in negativo di me stessa, con i denti scuri e bianche pupille luminescenti che brillavano alla luce del sole nero di quel mondo così altro. Mentre io, imprigionata nella realtà della carne, fissavo la vita quotidiana, la sua monotona polvere, i suoi posacenere sempre pieni. Voleva il paese in cui non esiste il «mai,» la mia sconsiderata gemella. Ma no, era ben più di una gemella: infatti non ero solo duplice, ero triplice, molteplice, e ora mi accorgevo che dinanzi a me, nel mio futuro, si prospettavano molte vite, non una sola. Il Real Porcospino aveva
aperto nel continuo spazio-temporale una porta sulla quinta dimensione, abilmente camuffata da montacarichi, e una parte del mio spirito l'aveva varcata a precipizio, incautamente. Ma le altre no. «Quando potrò rivederti?» mi chiese. «Presto» dissi. «Ma non mi telefonare. Ti telefono io, d'accordo?» «Non sto cercando lavoro, sai?» «Lo so. Cerca di capire, per favore.» Lo salutai con un bacio. Cominciavo già a pensare che non avrei potuto rivederlo. Sarebbe stato troppo pericoloso. Quando tornai nel nostro appartamento, Arthur non c'era, sebbene fosse quasi mezzanotte. Mi buttai sul letto, ficcai la testa sotto il cuscino e mi misi a piangere. Mi sembrava d'aver distrutto la mia vita, ancora una volta. Mi sarei pentita, avrei voltato pagina, non avrei telefonato al Real Porcospino, sebbene non vedessi l'ora di farlo. Come riparare al torto che avevo fatto ad Arthur? Forse avrei potuto scrivere un romanzo gotico appositamente per lui, esprimendo il suo messaggio in una forma che lo rendesse comprensibile al popolo. Sapevo bene che nessuno leggeva Rinnovamento, se non i suoi redattori, alcuni professori universitari e la concorrenza, vale a dire tutti quei gruppi radicali che pubblicavano le loro riviste e dedicavano un terzo di ogni numero alle polemiche interne. I miei libri, invece, avevano almeno centomila lettori, tra i quali si trovavano le madri della nazione. L'avrei intitolato Terrore a Casa Lorna, e ci avrei messo le malefatte del «Family Compact», il sacrificio del patriota canadese Louis Riel, gli orrori del colonialismo, sia inglese che americano, la lotta dei lavoratori, lo sciopero generale di Winnipeg... Ma non avrebbe risolto nulla. Per guadagnarmi la stima di Arthur avrei dovuto rivelargli la vera identità di Louisa K., e questo non potevo farlo. Qualunque cosa facessi, era certo che Arthur mi avrebbe disprezzata. Non avrei mai potuto essere come lui mi voleva. Non sarei mai stata come Marlene. Quando Arthur rientrò, erano le due del mattino. «Dove sei stato?» gli chiesi, col naso ancora tutto intasato. «Da Marlene» rispose Arthur, e io sentii un colpo al cuore. Era andato da lei a cercare conforto, e... «C'era anche Don?» chiesi con un filo di voce. Venni a sapere che Marlene aveva detto a Don della sua relazione con Sam, e Don le aveva dato un pugno in un occhio. Marlene aveva telefonato a tutti i membri del comitato di redazione di Rinnovamento, Sam compre-
so. Erano andati a casa di Marlene, dove si erano lanciati in un'accesa discussione volta a stabilire se quello che aveva fatto Don fosse giustificato o meno. Quelli che gli davano ragione avevano detto che i lavoratori davano spesso dei pugni in un occhio alle loro mogli e che si trattava di un modo franco e diretto per esprimere le proprie emozioni. Quelli che gli davano torto avevano affermato che era una pratica umiliante per le donne. Marlene aveva annunciato che se ne sarebbe andata di casa. Sam le aveva detto che non poteva trasferirsi da lui, e allora era iniziata un'altra discussione. Alcuni avevano detto che Sam era uno stronzo a non dare a Marlene il permesso di stare da lui, altri erano del parere che se davvero non la voleva faceva bene a dirlo. A quel punto Don, che era andato a sbronzarsi alla Grossman's Tavern, era rientrato e aveva detto a tutti di andare a far casino fuori da casa sua. Dentro di me, fui felice di quel putiferio. Arthur non poteva più considerarla un modello di virtù, come faceva prima, e questo attenuò un poco la mia animosità verso di lei. «E Marlene?» dissi, con finta premura. «Come stava?» «È fuori dalla porta» disse con aria grave, «seduta sui gradini. Ho pensato che per prima cosa avrei dovuto sentire il tuo parere. Non me la sono sentita di lasciarla lì, non con lui in quello stato.» Non fece commenti sull'intervista alla televisione, comunque, e gliene fui grata. Forse non l'aveva vista. Sarebbe stata una spaventosa umiliazione, per lui; speravo che nessuno gliene parlasse. Marlene dormì sul divano quella notte, e anche la notte dopo e quella successiva. Evidentemente, aveva piantato le tende da noi. Non potevo farci nulla: non era forse una donna in difficoltà, una profuga politica? Lei almeno la vedeva così, e anche Arthur. Durante il giorno, al telefono, portava avanti le trattative con Don e, cosa un po' strana, con Sam. Negli intervalli tra una conversazione e l'altra si sedeva al mio tavolo di cucina, fumava una sigaretta dopo l'altra, beveva il mio caffè e mi chiedeva che cosa avrebbe dovuto fare. Non era più linda e ordinata; aveva gli occhi cerchiati, i capelli ispidi e le unghie seghettate a furia di mangiarsele. Doveva continuare a vedere Sam, doveva tornare con Don? I bambini li teneva Don, per il momento. Non appena avesse trovato casa, li avrebbe allontanati da lui, a costo di andare in tribunale. Mi trattenni dal chiederle quand'era che avrebbe trovato casa. «Non so» dissi, «tu, quale dei due ami?» Mi rendevo conto che stavo parlando esattamente come le buone governanti dei miei romanzi gotici, ma che altro
potevo dirle? «L'amore» sbuffò Marlene. «Non è questione d'amore. È questione di sapere quale dei due è in grado di condurre un rapporto effettivamente paritario. È questione di sapere chi dei due mi sfrutta di meno.» «Beh» dissi, «così su due piedi, direi che è Sam.» Sam era mio amico, Don no, per questo spezzavo una lancia a favore di Sam. D'altra parte, Marlene non mi piaceva molto, nonostante tutto, e allora perché rifilarla a Sam? «Però sono sicura che anche Don è molto caro» aggiunsi. «Sam è un porco» disse Marlene. Quando era sorto il movimento femminista, Marlene l'aveva liquidato in quanto fenomeno borghese; adesso si era convertita. «Ci vuole un'esperienza in prima persona per aprirti gli occhi sul serio» disse. In modo implicito, continuava a dirmi che non avevo sofferto a sufficienza; persino in quello, ero carente. Sapevo che non avrei dovuto tenermi tanto sulla difensiva, ma non potevo farne a meno. Quando Marlene non era in casa perché andava a trovare Sam, capitava Don in cerca di consigli. «Beh, forse faresti bene a cambiare città» gli dissi una volta. Era quello che avrei fatto io. «Equivarrebbe a una fuga» disse Don. «Marlene è mia moglie, e la rivoglio.» Poi, la sera, quando Marlene andava a vedere i suoi bambini, era Sam a venire, e gli facevo qualcosa da bere. «Dio, questa storia mi sta facendo impazzire» diceva. «Sono innamorato di lei, solo che non voglio vivere di continuo insieme a lei. Le dico che possiamo passare insieme dei momenti importanti, dei momenti significativi, molto più facilmente, vivendo in case separate. E non vedo perché non dovremmo avere degli altri rapporti, fintanto che il nostro rimane quello principale, ma lei non capisce. Voglio dire, io non sono un tipo da gelosie.» Con tutto quel viavai mi pareva proprio di vivere in una stazione ferroviaria. Arthur non stava quasi mai in casa, Marlene e Don avevano dato le dimissione da Rinnovamento, e lui si dava da fare per mandare avanti la rivista da solo. Marlene era troppo angosciata per darmi una mano a cucinare e a fare le pulizie, e anche per quanto riguardava il resto della mia vita non mi era certo di aiuto. Fantasticavo sempre più sul Real Porcospino. Non gli avevo ancora telefonato, ma sapevo che avrei ceduto da un momento all'altro. Esaminai i giornali cercando le recensioni di Squacciati, e ne trovai una nel supplemento spettacoli del sabato. «Un efficace, penetrante commento sulla nostra epoca» diceva. «Che ne diresti di andare a vedere una mostra?» chiesi a Marlene. La
mostra era ancora aperta, non ci sarebbe stato niente di male se ci avessimo fatto una scappata. «Quella pretenziosa stronzata piccolo-borghese?» disse. «No.» «Oh, ci sei andata?' chiesi. «No, non ci sono andata, ma ho letto la recensione. Si vede subito.» E poi c'era la mia carriera letteraria. Il giorno dopo l'intervista alla televisione, erano cominciate le telefonate. A chiamarmi erano soprattutto persone che mi avevano creduto, desiderose di imparare a mettersi in contatto con l'Altra Sponda, però mi telefonavano anche persone piene d'odio che credevano che avessi preso in giro l'intervistatore, lo Spiritualismo oppure sia l'uno che l'altro. Alcuni pensavano che io avessi doti di indovina e volevano che facessi delle previsioni sul loro futuro. Nessuno mi chiedeva filtri d'amore o pozioni contro le verruche, ma sentivo che prima o poi ci sarebbero arrivati. Poi c'erano le lettere, che ricevevo tramite Morton & Sturgess. Generalmente, le persone che mi scrivevano volevano che le aiutassi a far pubblicare qualcosa. Sulle prime cercai di rispondere, ma' presto scoprii che quella gente si rifiutava di veder crollare i propri castelli in aria. Quando spiegavo che non godevo di appoggi a prova di bomba nel mondo dell'editoria, dicendo loro che non avevo nessun potere, quelli lo consideravano un affronto personale. Il fatto di tradire le loro speranze mi procurava un opprimente senso di colpa, e perciò dopo qualche tempo cominciai a cestinare le lettere, prima lasciandole senza risposta e poi senza leggerle nemmeno. Allora la gente cominciò a piombarmi a casa, con la pretesa di sapere perché non avevo risposto alle loro lettere. Nuovi articoli sul mio caso uscivano ogni settimana, intitolati «Le vendite di Lady Oracolo,» «Lady Oracolo: beffa o mistificazione?» e via di questo passo. E per colpa di quella prima, malaugurata intervista televisiva, che era finita su tutti i giornali - Joan Foster: Il mio spirito guida - gli altri intervistatori che Sturgess mi infliggeva battevano sempre su quel tasto. Non mi giovava affatto dire che non volevo parlarne, anzi, stuzzicava ancora di più la loro curiosità. «Ho sentito dire che Lady Oracolo è stato scritto da mano angelica, un po' come il Libro di Mormon» dicevano. «Non proprio» rispondevo; poi cercavo di cambiare argomento, sperando che Arthur non mi stesse guardando. Talvolta erano seriamente interessati, e allora era ancora peggio. «Dunque, lei ritiene che esiste davvero una vita dopo la morte» dicevano.
«Non lo so. Credo che in fin dei conti non lo sappia nessuno, no?» Dopo ogni trasmissione telefonavo a Sturgess, in lacrime, supplicandolo di esimermi da quella successiva. Qualche volta puntellava la mia pericolante fiducia in me stessa: ero meravigliosa, me la cavavo benissimo, le vendite andavano a gonfie vele. Qualche volta, invece, si fingeva seccato e mi diceva che i nostri patti, quando avevamo firmato il contratto, comprendevano anche la mia partecipazione a un certo numero di trasmissioni televisive; me l'ero forse scordato? Mi sembrava di essere alla berlina. Però era come se là fuori, nel mondo reale, ci fosse qualcuno che portava il mio nome, che mi impersonava, dicendo delle cose che non avevo mai detto e che venivano pubblicate sui giornali, compiendo azioni di cui dovevo subire le conseguenze: era la mia ombra gemella, la mia immagine riflessa in uno specchio deformante. Era più alta di me, più bella, più pericolosa. Aveva intenzione di uccidermi e prendere il mio posto, e una volta che ci fosse riuscita, nessuno si sarebbe accorto della differenza, perché anche i mezzi di comunicazione erano dalla sua, facevano parte del complotto. E non bastava. Ora che ero diventata un personaggio pubblico, vivevo nel terrore che prima o poi qualcuno scoprisse la verità sul mio conto, rintracciasse la mia identità originale, scoperchiasse il mio passato. Le mie vecchie fantasticherie sulla Donna Cannone si rifecero vive, solo che ora, mentre camminava sulla corda d'equilibrio in tutù rosa, precipitava giù, al rallentatore, rotolando lentamente mentre cadeva... Oppure la vedevo ballare su un palcoscenico, in costume da odalisca con le babbucce rosse. Soltanto che stavolta non si trattava affatto di una danza, era uno spogliarello, cominciava a togliersi i vestiti mentre assistevo alla scena, senza poterla aiutare. Dimenava le anche, si spogliava dei veli, l'uno dopo l'altro, ma nessuno fischiava, nessuno le urlava: «Togliti anche quello, bambola!» Cercai di allontanare quelle fantasie dal mio campo visivo, ma non c'era niente da fare, ero costretta ad assistere fino alla fine. Partito Sam, un pomeriggio, mi sedetti al tavolo di cucina a bere uno scotch. Marlene era andata dal suo avvocato; aveva lasciato sul tavolo i piatti in cui aveva fatto colazione, un mucchietto di bucce d'arancia e una ciotola ancora piena per metà di fiocchi di riso zuppi. Le sue sane abitudini alimentari erano andate a farsi benedire. Esattamente come le mie. Il mio sistema nervoso era ridotto a un rottame, me ne rendevo conto, e già da qualche tempo. La mia casa sembrava un'area di campeggio disseminata dalle altrui immondizie, fisiche e emozionali: Arthur non c'era mai, cosa
che non gli rimproveravo; l'avevo tradito, ma non avevo né il coraggio di dirglielo né quello di rifarlo, come avrei desiderato. Non era la forza di volontà a tenermi lontana dal Real Porcospino, era la vigliaccheria. Ero inetta, ero sciatta e vuota, ero una burla, una truffa. Le lacrime mi rotolavano giù per le guance, sul tavolo coperto di briciole. Coraggio, mi dissi. Devi venirne fuori. Marlene rientrò, con i denti serrati e gli occhi luccicanti: gli incontri con il suo avvocato le facevano quasi sempre questo effetto. Si mise a sedere e accese una sigaretta. «Gliela farò vedere, a quello stronzo!» disse. Non sapevo bene a chi si riferisse, ma la cosa non mi interessava. «Marlene» dissi, «mi è venuta un'idea fantastica. Questa casa è troppo piccola per noi tre.» «Hai ragione» disse. «Stiamo un po' accalcati. Appena mi trovo una casa me ne vado.» «No» dissi, «ce ne andiamo noi. L'anno accademico sta per finire. Quest'estate partiremo e tu potrai rimanere qui. Ti aiuterà a mettere le cose a posto.» Arthur non ne fu entusiasta, quando gliene parlai. Da principio mi disse che non potevamo permettercelo, ma gli raccontai che era morta mia zia e mi aveva lasciato del denaro. «Credevo che tua zia fosse morta molto tempo fa» disse Arthur. «Quella era l'altra zia, zia Lou. Questa è zia Deirdre. Non siamo mai andate molto d'accordo, ma suppongo che non avesse altri eredi a cui lasciarlo.» La verità era che avevo venduto Riscatto d'amore per una cifra ragionevole. La mia vita personale era un macello, la Louisa K. se la cavava benone. «E la rivista?» mi chiese Arthur. «Non posso lavarmene le mani così.» «Tu hai bisogno di riposo» gli dissi. «Marlene se ne occuperà di nuovo. Ha bisogno di qualcosa che la distragga da tutto il resto.» Raccontai a Sturgess che mia madre stava morendo di cancro e che dovevo andare nel Saskatchewan per prendermi cura di lei. «E tutti i tuoi impegni, allora?» disse, costernato. «E la tournée nazionale?» «Rimandali» dissi. «Li farò al mio ritorno.» «Non potresti almeno andare a Regina per quell'intervista?» «Mia madre sta morendo, te lo sei dimenticato?» risposi, e lui dovette arrangiarsi.
Fu Sam a consigliarci l'Italia e a darci l'indirizzo del signor Vitroni. L'aveva avuto da un amico. Arthur avrebbe preferito andare a Cuba, ma non riuscimmo a procurarci i visti in tempo. Arrivammo a Roma in aereo e prendemmo a noleggio una Fiat rossa, a bordo della quale andammo a Terremoto. Gli comunicavo la rotta, basandomi sulle indicazioni dell'elenco di Sam e sulla carta. Il pomolo del cambio si staccò un paio di volte, ma Arthur aveva sempre problemi con le automobili. Entrammo nell'appartamento e finalmente eccoci là, lontani da tutti, pronti a rimettere in ordine la nostra vita. Immagino di aver sperato in una riconciliazione, o se non altro in un ritorno alla situazione che esisteva prima di Lady Oracolo, e in un certo senso fu proprio quel che accadde. Le mie contorte fantasie sulla Donna Cannone si dileguarono. Lontano dal gruppo di Rinnovamento, Arthur era diventato dolce, più pensieroso. La mattina facevo il caffè e glielo porgevo attraverso la finestra della cucina. Ci sedevamo sul balcone, tra i cocci, lo bevevamo e facevamo esercizio di italiano leggendo i fotoromanzi, oppure guardavamo il panorama della valle. Andavamo a fare passeggiate, sulle colline nei dintorni del paese e contemplavamo il paesaggio. Arthur voleva fare delle ricerche sul campo, come le chiamava, e interessarsi del sistema della proprietà terriera, ma il suo italiano non era abbastanza buono, e cosi abbandonò il progetto. Di quando in quando, scribacchiava un articolo per Rinnovamento, sulle difficoltà del cinema canadese; ma sembrava aver perso il suo fervore. Facevamo molto l'amore e visitavamo ruderi. Un giorno andammo a Tivoli. Ci comprammo dei coni gelato e andammo a visitare Villa d'Este, con le statue e i suoi celebri giochi d'acqua. Scendemmo lungo una scalinata costeggiata da sfingi che gettavano acqua dai capezzoli, e vagammo di grotta in grotta. Alla fine, arrivammo alla Diana Efesina, così diceva la guida, che sorgeva da uno specchio d'acqua. Il suo volto sereno era appollaiato in cima a un corpo che sembrava un cumulo di grappoli d'uva. Era paludata di mammelle dal collo alle caviglie, come se avesse sofferto di una forma di framboesia: mammelle più piccole in basso e in alto, più grosse al centro. I capezzoli erano muniti di zampilli, ma molte mammelle erano guaste. Me ne stavo lì in piedi, leccavo il cono gelato e osservavo la dea con freddezza. Una volta l'avrei considerata un'immagine di me stessa, ma ora non più. La mia capacità di dare era limitata, non ero inesauribile. E non ero serena, no davvero. C'erano delle cose che volevo, e le volevo per me.
25 Quasi subito dopo il nostro ritorno dall'Italia, telefonai al Real Porcospino. Non aveva l'aria sorpresa. «Com'è che hai aspettato tanto?» mi chiese. «Sono stata fuori» dissi enigmaticamente. «Ho cercato di chiamarti prima di partire, ma non ti ho trovato.» Ci incontrammo al chiosco degli hot-dog dei magazzini Simpson, al piano interrato. Il Real Porcospino mi spiegò che era ancora più povero del solito, e che per pranzare quello era il posto più economico della città, perché con un dollaro si prendevano due hot-dog e un'aranciata. Il suo mantello stonava un poco nel seminterrato di Simpson, e le fantasie erotiche che avevo avuto sul suo conto sbiadirono alquanto. Nonostante tutto, però, in lui c'era qualcosa di byroniano. Mi ricordai che Byron soleva tenere nelle sue stanze un orso addomesticato, e bere il vino da un cranio. Gli prestai un biglietto della metropolitana e tornammo insieme a casa sua. «Devo fare una premessa» dissi sul montacarichi. «Questa non dev'essere una cosa impegnativa.» Arthur significava molto per me, gli dissi, e non volevo fare nulla che potesse ferirlo. Il Real Porcospino disse che per lui andava benissimo, e che meno una storia era impegnativa, meglio era. Da principio non fu per nulla impegnativa. Finalmente avevo trovato qualcuno con cui ballare il valzer, e danzavamo da una parte all'altra del suo magazzino come se fosse una pista da ballo, lui con indosso nient'altro che il suo cilindro, io avvolta in una tovaglia di merletto, alla musica dell'orchestra d'archi Mantovani, un disco che avevamo trovato dagli Invalidi Civili. Lì avevamo comprato anche il giradischi, per dieci dollari. Quando non eravamo occupati a ballare o a fare l'amore, bazzicavamo i rigattieri, setacciandoli alla ricerca di gilet, guanti a otto bottoni, cappelli a larghe tese di raso nero e vestiti da sera degli anni Cinquanta. Lui avrebbe voluto un bastone animato, ma non riuscimmo mai a trovarlo. Scoprimmo invece un negozio nel quartiere cinese che aveva delle polacche in liquidazione, rimanenze del 1905. Non le avevano vendute perché erano taglie speciali, e dovetti sedermi sul marciapiede mentre il Real Porcospino si sforzava di infilarmele ai piedi, paio per paio: avevano delle bellissime tinte sfumate, capretto glacé, bianco, grigio perla. Mi sentivo come la sorella brutta di Cenerentola. L'unico che riuscii a calzare fu un paio di stivaletti da allacciare, con un rinforzo d'acciaio sulla punta; stivali da lavandaia, ma
appetibili anch'essi. Li comprammo, e più tardi comprammo anche un paio di calze nere a rete, da mettere insieme agli stivali. Presto mi accorsi che il mio interesse per il bric-à-brac ottocentesco non reggeva il confronto con la mania del Real Porcospino per i detriti culturali. Mentre a me piacevano l'argenteria e le tabacchiere antiche, lui desiderava ossessivamente bottiglie della Coca Cola verdi, consunti giornalini di Capitan Marvel, orologi di Topolino, Piccoli Grandi Libri e bamboline di carta raffiguranti dive del cinema degli anni Venti. Non aveva molto denaro, perciò non poteva comprarsi tutto quel che voleva, ma era un catalogo ambulante dell'effimero, del futile, dell'usa-e-getta. Quel che contava, per lui, era lo stile; il contenuto non aveva nessuna importanza. Vicino a lui, mi sentivo quasi profonda. Purtroppo, gli stivaletti neri che si allacciavano fino alla caviglia mi procuravano lancinanti dolori ai piedi se li portavo per più di mezz'ora; ma era quanto bastava per un bel paio di walzer. Quando eravamo esausti andavamo al Kentucky Fried Chicken all'angolo della strada e ordinavamo un pollo nella confezione a secchiello e due Coca Cole. Poi andavamo a mangiare nel magazzino. Il Real Porcospino avrebbe voluto conservare le ossa di pollo, bollirle e farne una scultura incollandole insieme e legandole con del filo di ferro; l'avrebbe intitolata Joan Foster Kentucky Fried e l'avrebbe esposta nella sua prossima mostra. Era un'idea magnifica, diceva. Le scarpe nere le avrebbe intitolate Ballo Foster n. 30, e avrebbe ricoperto con ciuffi dei miei capelli un disco dell'orchestra Mantovani, intitolandolo Musica Foster capelluta. Se poi avesse avuto un paio di slip del mio completo per il fine settimana, avrebbe potuto... «Molto creativo» dissi, «ma non credo che sia una buona idea.» «Perché no?» chiese, un po' offeso. «Arthur lo scoprirebbe.» «Arthur» disse. «Sempre Arthur.» Arthur cominciava a irritarlo. Per ripicca, si fece un dovere di parlarmi delle altre sue due donne. Entrambe erano sposate, una con uno psicologo, l'altra con un professore di chimica. Mi diceva che erano molto stupide e che a letto non valevano nulla. La moglie del professore di chimica aveva l'abitudine di lasciare accanto al montacarichi delle specialità casarecce per lui, senza preavvisi. Stesi sul suo materasso bisunto mangiavamo le molli tortine di zucca e le schiacciate ad alto contenuto di proteine (lei aveva la mania dei cibi dietetici), mentre il Real Porcospino mi intratteneva sui suoi difetti. Cominciai a domandarmi se per caso non faceva la stessa cosa con
loro due, parlando di me. La cosa mi dispiaceva, anche se non avrei potuto permettermelo. «Perché le frequenti, se sono così noiose?» chiesi. «Devo pur fare qualcosa, quando tu non ci sei» disse stizzito. Aveva già stabilito che, se le vedeva, la colpa era mia. Di quando in quando mi prendeva un attacco di rimorso nei confronti di Arthur, e gli cucinavo dei pranzi speciali che fallivano non meno miseramente di quelli che preparavo di solito. Arrivai persino a trastullarmi con l'idea di dirgli tutto, di giocare la carta dell'onestà e della franchezza come aveva fatto Marlene; ma d'altra parte, non si poteva dire che avesse fatto miracoli nel suo caso, ed ero quasi certa che non sarebbe giovato molto nemmeno a me. Temevo che lui si mettesse a ridere, mi accusasse di aver tradito la causa o mi buttasse fuori a calci. Non volevo che succedesse: lo amavo ancora, ne ero certa. «Forse dovremmo avere un matrimonio a coppia aperta» dissi una sera ad Arthur, che stava faticosamente sminuzzando una costoletta di maiale che avevo infilato nella bistecchiera per poi dimenticarmene completamente. Ma lui non mi rispose nemmeno, forse perché aveva la bocca piena, e non mi azzardai a dire altro. Al nostro ritorno dall'Italia, Marlene non stava più nel nostro appartamento. Era tornata da Don. Dicevano di essere «giunti a un accordo,» però lei continuava a vedere Sam. Doveva essere un segreto, ma naturalmente Sam me lo raccontò subito. «Che cosa avete risolto?» dissi. «Nulla, siamo al punto di prima» disse, «ma abbiamo più esperienza.» A quanto pareva, anche io e Arthur eravamo al punto di prima. Il mio problema, pensai, era che l'esperienza non mi mancava, ma sembravo del tutto incapace di trarne insegnamento. Arthur era tornato al suo posto di insegnante, e il gruppo di Rinnovamento, era di nuovo unito, cosa che avrebbe dovuto renderlo felice. Ma lui non era felice, me ne accorgevo bene. Un tempo avrei fatto grossi sforzi per sollevargli il morale, ma l'emanazione grigia che lo circondava costantemente, come un'aureola alla rovescia, cominciava a irritarmi. C'erano giorni in cui credevo che la colpa della sua infelicità fosse tutta mia, perché lo trascuravo. Più spesso, però, cercavo di non pensarci. Forse lui aveva soltanto una predisposizione all'infelicità, come altri hanno una predisposizione a fare soldi. O forse cercava di autodistruggersi, allo scopo di dimostrarmi che ero io a distruggerlo. Cominciava ad accusarmi di non interessarmi abbastanza al suo lavoro.
Il Real Porcospino rappresentava per me una gradita evasione da quell'opprimente clima familiare. Non aveva molte esigenze; con lui si viveva alla giornata. Diventai imprudente. Presi l'abitudine di telefonargli da casa quando Arthur non c'era, e poi anche se Arthur era nella stanza accanto. Ne risentì anche il mio lavoro: non provavo più il minimo interesse verso i romanzi gotici. A cosa mi servivano, oramai? Quando finalmente partii per la tournée canadese di Sturgess, il Real Porcospino venne con me, e ogni volta che dovevamo introdurlo clandestinamente nelle camere dei motel ci divertivamo come dei matti. A volte ci mascheravamo da turisti di mezza età con degli abiti che avevamo comprato dagli Invalidi Civili, e ci presentavamo negli alberghi con nomi finti. A Toronto iniziai ad andare ai ricevimenti, non proprio insieme a lui, ma cinque minuti prima, o dopo. Facevamo in modo che fossero gli altri a presentarci: erano giochetti infantili, ma pur sempre un diversivo. Fu durante uno di quei ricevimenti che conobbi Fraser Buchanan. Mi si avvicinò, bicchiere in mano, e rimase in piedi con un sorriso affettato mentre domandavo al Real Porcospino che lavoro faceva. «L'imprenditore di pompe funebri» rispose. Ci divertimmo moltissimo tutti e due a questa trovata. «Mi scusi, signora Foster» disse Fraser Buchanan, tendendo la mano. «Mi chiamo Fraser Buchanan. Forse ha sentito parlare di me.» Era un uomo basso, vestito sobriamente, in giacca di tweed con sotto un maglione a collo alto, e delle basette che doveva trovare piuttosto audaci, dal momento che girava la testa in continuazione perché chi lo guardava potesse godersi una veduta di profilo. «No, mi dispiace» risposi. Gli sorrisi; ero in vena di bontà. «Le presento il Real Porcospino, il poeta della creatività concreta.» «Lo conosco» disse Fraser Buchanan, facendomi un sorriso curiosamente familiare. «Conosco bene la sua... opera. Ma a dir la verità, signora Foster, è lei che mi interessa.» Mi venne vicino spostandosi lateralmente, piazzandosi tra il Real Porcospino e me. «Senta un po'» mi disse in un mezzo sussurro, «come si spiega che prima di Lady Oracolo non ho mai visto qualche suo lavoro pubblicato? In genere i poeti, anzi le poetesse, attraversano un, hmm, un periodo d'apprendistato. Pubblicano sulle riviste minori, e via di questo passo. Io le seguo con attenzione, ma non ho mai visto niente di suo.» «Lei è un giornalista?» chiesi. «No no» disse. «Una volta anch'io ho scritto qualche verso.» Il suo tono
lasciava capire che si era ormai liberato da quel vizio puerile. «Potrei essere definito un osservatore interessato. Un amante» disse con un sorriso lezioso, «dell'arte.» «Beh» dissi, «il fatto è che non pensavo che le mie cose meritassero di essere pubblicate. Non le ho mai spedite a nessuno.» Tirai fuori una risatina dall'aria modesta e lanciai uno sguardo al di sopra della sua spalla al Real Porcospino, nella speranza che mi desse una mano. Avvertivo una leggera pressione della coscia di Fraser Buchanan contro la mia. «Dunque lei è come Atena, saltata fuori bell'e fatta dalla testa di Zeus» disse, «anzi, da quella di Joan Morton. Quell'uomo ha senza dubbio molto fiuto per i giovani talenti.» Mi accorsi che in quelle parole era nascosta una qualche sgradevole insinuazione, anche se non capivo esattamente quale. Risi di nuovo e gli dissi che andavo a prendermi qualcosa da bere. Mi venne in mente che l'avevo già visto una volta, durante un'intervista televisiva, seduto al centro della prima fila e intento a prendere appunti su un taccuino nero. Parecchie interviste televisive. Parecchie interviste fuori Toronto. Anche nella hall di un albergo. «Chi è quello strano ometto?» chiesi al Real Porcospino, sdraiato insieme a me sul suo materasso dove, sfiniti, ci eravamo accasciati. «Che cosa fa?» «Conosce tutti» disse. «Una volta lavorava per la televisione canadese, dove credo che siano passati tutti. Poi ha lanciato una rivista che si chiamava Inedito; nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto pubblicare soltanto materiali respinti dalle altre riviste letterarie, meglio se scartati più volte, insieme alle motivazioni del rifiuto. Voleva dare un premio alla migliore lettera di rifiuto, diceva che scriverle era un'arte. Ma è fallita perché nessuno voleva riconoscere di essere stato respinto. Ad ogni modo, nel primo numero ha pubblicato un sacco di cose sue. Credo che sia inglese. Non si perde un ricevimento, va a tutte le feste in cui riesce a intrufolarsi. Una volta andava in giro dicendo: 'Salve, sono Fraser Buchanan, il poeta di Montreal.' Credo che una volta vivesse a Montreal.» «Ma come mai tu lo conosci?» «Ho presentato dei lavori a Inedito» disse il Real Porcospino. «A quell'epoca facevo ancora creazione verbale. Lui li ha respinti. Non può sopportare le mie opere, secondo lui sono troppo intellettuali.» «Credo che si sia messo a seguirmi» dissi. Ma sospettavo di peggio: che ci avesse seguiti tutti e due.
«È un tipo bizzarro» disse il Real Porcospino. «Ha la mania delle persone famose. Dice che sta scrivendo una storia della nostra epoca.» Quella sera tornai a casa presto, in tassì. Ero di nuovo in una delle mie crisi di incertezza esistenziale. Il nocciolo del problema era che trovavo le mie due vite del tutto giuste e naturali, ma soltanto una per volta. Quando ero con Arthur, il Real Porcospino mi sembrava un sogno a occhi aperti, frutto delle mie inverosimili fantasticherie; in lui c'era quell'assurdità che cercavo di bandire persino dai miei romanzi. Ma quando ero in sua compagnia, il Real Porcospino mi sembrava plausibile e concreto. In tutte le sue parole e azioni esisteva una coerenza interna, ed era Arthur, invece, a sembrarmi irreale; svaniva fino a ridursi come un fantasma senza consistenza, come una fotografia sbiadita abbandonata da tanto tempo sulla mensola di un caminetto. Gli stavo davvero facendo del male, gli ero davvero infedele? Ma come si fa a fare del male a una fotografia? Quando entrai in casa, quella sera, ero ancora assorta in questi pensieri. Trovai la combriccola di Rinnovamento, che era lì al gran completo; sembravano tutti molto esaltati. L'unico che mi salutò fu Sam. Con loro c'era un sindacalista, un sindacalista in carne ed ossa, che avevano preso in ostaggio e bloccato in un angolo. Si rivolgeva loro chiamandoli «ragazzi.» «Ragazzi, se voialtri ve la sentite di collaborare, okay» stava dicendo, «ma quando gli operai vogliono sputare addosso ai poliziotti, lasciate che addosso ai poliziotti ci sputino loro. Si tratta dei loro posti di lavoro. Voialtri ragazzi potete anche finire dentro, non avete lavori fissi, potete permettervi di fare delle assenze, ma per loro è un altro paio di maniche.» Don controbatté dicendo che era precisamente quello il motivo per cui dovevano essere loro a fare quelle cose, e non gli operai, ma il sindacalista fece un cenno con la mano come se volesse accantonare l'argomento. «No, no» disse. «Lo so che voialtri ragazzi avete le migliori intenzioni, ma credetemi. A volte, aiutare in modo sbagliato è peggio che non aiutare affatto.» «Che succede?» chiesi a Sam. «C'è uno sciopero in una fabbrica di materassi» disse Sam. «Il guaio è che quasi tutti gli operai sono portoghesi, e la nostra linea politica non fa per loro. Vedi, per loro il nazionalismo canadese sarebbe una grossa fregatura. D'altronde non siamo ancora riusciti a spiegarglielo, stiamo cercando un interprete.» «Chi è che ha sputato a un poliziotto?» «È stato Arthur» disse Sam, e dalla faccia compiaciuta ma al tempo stes-
so mortificata di Arthur capii che era stato proprio lui. Non so perché, ma la cosa mi dette fastidio. Se non mi avessero colta proprio in un momento in cui avevo appena lasciato il Real Porcospino, non avrei detto nulla; ma lui era del parere che la politica fosse una cosa noiosa, e che il nazionalismo canadese fosse noioso in modo particolare. «L'arte è universale» diceva. «Quelli cercano di farsi notare e basta.» Quando ero insieme ad Arthur credevo sinceramente nella sua causa, anzi nelle sue cause, e le abbracciavo tutte: altrimenti come avrei fatto a vivere con lui? Il Real Porcospino, però, le smontava sistematicamente: per lui era sempre la stessa lotta tra Cavalieri e Teste Rotonde. «Oh, santo Iddio» dissi ad Arthur. «Immagino che tu muoia dalla voglia di essere arrestato. E che cosa avresti risolto? Non avresti risolto nulla di nulla. Voi vivete fuori dalla realtà, non aderite a nessun tipo di partito politico e invece di farvi avanti e cambiare davvero le cose ve ne state seduti lì a litigare e a scannarvi a vicenda. Mi sembrate la setta dei Fratelli di Plymouth, l'unica cosa che vi appassiona è definire con precisione i limiti della vostra ortodossia, e lo fate discriminando tutti gli altri. Quando poi vi muovete, vi buttate subito in qualche azione inutile e insensata, come sputare a un poliziotto.» Nessuno mi disse nulla; erano tutti troppo sbalorditi. Di tutte le persone, io ero l'ultima da cui si sarebbero aspettati una tirata del genere, e a pensarci bene, chi ero io per parlare in quel modo? Nemmeno io mi stavo dando molto da fare per salvare il mondo. «Joan ha ragione» disse Marlene, la fredda voce della tattica. «Ma sentiamo se ha da proporci qualche azione alternativa utile e significativa.» «Oh, non saprei» dissi. Cominciai immediatamente a fare marcia indietro e a scusarmi. «Voglio dire, in fondo non sono affari che mi riguardano, non me ne intendo molto di politica. Forse potreste far saltare in aria il Ponte della Pace, o una cosa del genere.» Mi accorsi con orrore che mi prendevano sul serio. La sera dopo, una piccola delegazione si presentò nel nostro appartamento: erano Marlene, Don, Sam e un paio di Rinnovatori in erba. «Ce l'abbiamo, è fuori in macchina» disse Marlene. «Avete che cosa?» chiesi. Mi ero appena lavata i capelli, non li aspettavo. Arthur era andato a tenere il suo corso serale di letteratura canadese; quel giorno non mi aveva rivolto la parola quasi mai, e la cosa non mi ral-
legrava. «La dinamite» rispose Marlene. Era piuttosto emozionata. «Mio padre lavora nell'edilizia, è stato facile rubarla, e ho preso anche un detonatore e un paio di capsule d'innesco.» «Dinamite? E che ci fate con della dinamite?» «Abbiamo discusso la tua idea» disse. «Siamo giunti alla conclusione che non era poi tanto male. Faremo saltare il Ponte della Pace, sarà un gesto dimostrativo. È il più adatto da far saltare, per via del nome.» «Aspettate un secondo» dissi, «potreste far del male a qualcuno.» «Marlene ha detto che lo faremo di notte» disse rapidamente Sam. «E comunque, non lo faremo saltare per aria tutto, sarà più che altro un'azione simbolica. Un gesto, come hai detto.» Volevano che nascondessi la dinamite per loro. Avevano persino escogitato un piano. Volevano che comprassi un'auto di seconda mano, presentandomi sotto falso nome e fornendo un indirizzo fittizio, quello dell'appartamento di un nuovo Rinnovatore che sarebbe stato via per un paio di mesi. Poi avrei dovuto mettere la dinamite nel bagagliaio della macchina e avrei dovuto spostarla ogni giorno, di strada in strada, da un parcheggio notturno all'altro. «Una macchina di seconda mano va pagata» dissi lentamente. «Senti, l'idea l'hai avuta tu» disse Marlene. «Il minimo che tu possa fare è darci una mano. E poi, un'auto economica non ti costerà più di duecento dollari.» «Ma perché proprio io?» «Di te non sospetteranno mai» disse Marlene. «Tu non hai la faccia della dinamitarda.» «Per quanto tempo dovrò farlo?» chiesi. «Soltanto fino a quando non avremo messo a punto il piano. Poi, la macchina la prenderemo noi.» «D'accordo, lo farò» dissi. «Dov'è la dinamite?» «Eccola» disse Don, passandomi una scatola di cartone. Non avevo mai avuto la minima intenzione di mettere in pratica il loro progetto. Il giorno seguente presi un tassì, andai dal Real Porcospino e nascosi la scatola in cantina. In ogni caso, era già piena di casse e scatoloni. Raccontai al Real Porcospino che era un'orrenda statua avuta come regalo di nozze e che mi ero stufata di tenerla in casa. «Preferirei che tu non l'aprissi» gli dissi. «Per motivi sentimentali.»
26 Il Real Porcospino era del parere che chi si accontenta, non gode. Anche per questo mi piaceva: lui non credeva al valore dell'aurea mediocrità, aveva bisogno di assoluti catastrofici. «Dove hai trovato la dinamite?» disse. Eravamo distesi sul suo materasso; i discorsi seri li rimandava sempre a dopo. «Ti avevo pregato di non aprire quella scatola» dissi. «Andiamo, sapevi che l'avrei fatto. Lo sai che le brutte statue sono la mia passione. Dove l'hai presa?» «Quella dinamite non è mia» dissi. «Appartiene a delle altre persone.» «Non mi è mai capitato di veder esplodere quella roba» disse pensosamente. «Però, l'anniversario della Regina Vittoria mi è sempre piaciuto. Era la mia festa preferita, insieme a Halloween.» «Se ti sei messo in mente di far esplodere qualcosa» dissi, «puoi farci una croce sopra. Mi metteresti in un brutto pasticcio, se scoprissero che non l'ho più.» «Potremmo sostituirla con dell'altra dinamite.» «No» dissi. Non avevo dimenticato la volta in cui, per un pelo, non ci aveva fatti morire fulminati tutti e due. Un suo amico, anche lui artista con-creativo, gli aveva detto che se si prende un filo di lumini decorativi per l'albero di Natale, lo si attacca alla corrente, si svita una lampadina e si inserisce un dito nel supporto vuoto al momento dell'eiaculazione, si procura non solo a sé, ma anche al proprio partner un orgasmo fenomenale. La ricetta del suo amico prevedeva anche numerosi spinelli, ma il Real Porcospino aveva smesso di usare stupefacenti. «È una cosa sterile» diceva. «Fred Astaire non fumava marijuana, ti pare?» Per giorni e giorni tentò di persuadermi a compiere quell'azione, anzi quella «creazione,» come lui la chiamava, perché sarebbe stata un vero e proprio capolavoro dell'imprevisto. Aveva persino comprato dei lumini per l'albero di Natale, di terza mano. «Mi rifiuto di trasformarmi in un tostapane elettrico al solo scopo di assecondare i tuoi folli capricci» gli dissi; perciò, un momento prima della mia visita successiva, lui nascose le lampadine sotto il materasso e attaccò la spina. La sua intenzione era quella di far scivolare il dito nel supporto, a mia insaputa; ma non avevamo ancora iniziato, che già da sotto il materasso si sprigionava volute di fumo. Avevo paura che con la dinamite sarebbe successo qualcosa di simile. Come al solito, le mie resistenze non fecero che renderlo ancora più esa-
gitato. Si alzò dal materasso e cominciò a camminare su e giù per la stanza. Si era messo il suo berretto di pelliccia, un berretto nuovo, con dei paraocchi stile guardia a cavallo. «E dai» disse, «sarebbe fantastico! Non distruggiamo nulla, la facciamo soltanto esplodere da qualche parte, di notte, e ci godiamo lo scoppio. Oh, sarebbe sensazionale. Sarebbe un po' come un vero avvenimento, e noi saremmo gli unici spettatori, noi soli. Budubum! Ti si presenta un'occasione unica, come puoi lasciarti sfuggire di mano una cosa del genere?» «Ci rinuncio senza sforzo» dissi. «Non mi piacciono i rumori forti e immotivati.» «Allora ti sei messa con l'uomo sbagliato» disse. Si mise a leccarmi l'orecchio. «Chuck, sii ragionevole.» «Ragionevole» disse con aria imbronciata. «Se fossi ragionevole, tu non mi ameresti. Tutti sono ragionevoli.» Si tolse il berretto e lo lanciò all'altro capo della stanza. «E non chiamarmi Chuck.» (Avevo scoperto da poco che il suo vero nome era Chuck Brewer, e che aveva anche un lavoro: faceva il cartellonista a mezza giornata, specializzato in composizione e grafica. Me lo confidò in gran segreto, come se fosse stato un disonore.) Insomma, cinque giorni dopo eravamo a High Park e camminavamo, cercando un posto adatto. Erano le undici di notte, a metà marzo; c'era ancora del ghiaccio negli stagni e sotto gli alberi era rimasta della neve, la primavera era in ritardo. Il Real Porcospino portava una delle sue pellicce e il berretto di pelo con i paraorecchi abbassati. Sotto la pelliccia portava la dinamite nella scatola di cartone, insieme alla miccia e al detonatore. Disse che aveva scoperto come si faceva funzionare. Non gli credevo; inoltre, ero diffidente circa i suoi propositi. «Guarda che non ci sto se tu hai intenzione di far saltare per aria delle persone» dissi. «No, te l'ho detto.» «E nemmeno animali, case, o alberi.» «Non hai ancora capito» disse con impazienza. «Non si tratta di far saltare per aria qualcosa, si tratta solo di far esplodere la dinamite. È un atto puro.» «Non credo agli atti puri» dissi. «Allora non sei obbligata a venire con me» disse astutamente, ma sapevo che in caso contrario sarebbe stato capace di mancare alla sua promessa e far esplodere qualcosa di importante, magari una cisterna o il monumen-
to a Gzowski, al quale aveva accennato di sfuggita. Dopo aver esaminato alcune zone possibili, scelse un tratto di terreno libero, poco lontano da uno stagno di media grandezza. Non sembrava che ci fossero costruzioni nei paraggi, ed era piuttosto lontano dalla strada, perciò gli detti la mia approvazione. Mi rannicchiai rabbrividendo in un gruppo di cespugli mentre lui armeggiava con la dinamite, collegando la capsula d'innesco e districando il filo. «Siamo abbastanza lontani?» chiesi. «Oh, certo.» Però, quando fece esplodere la carica si udì uno scoppio di tutto rispetto, e ci cadde addosso una pioggia di sassolini e pezzetti di terra. «Ah!» esclamò il Real Porcospino. «L'hai visto?» Non avevo visto nulla, perché avevo chiuso gli occhi e me li ero anche coperti con le mani, complete di manopole. «È stato fantastico» dissi in tono meravigliato. «Fantastico» disse. «Tutto qui quel che sai dire? È stato terribilmente grandioso, è la mia creazione migliore in assoluto.» Mi tirò vicino a sé nella pelliccia e cominciò a slacciare i bottoni. «Dobbiamo andar via di qui» protestai. «Qualcuno l'avrà sentito, presto verrà la polizia, fanno la ronda in questo parco.» «E dai» mi disse con fare implorante, e non potei rifiutarmi, era evidente che ci teneva moltissimo. Facemmo l'amore dentro la sua pelliccia, tesi come sismografi ad ascoltare il suono di sirene che non arrivarono mai. «Sei proprio straordinaria» disse. «Nessun'altra l'avrebbe fatto. Credo di essere innamorato di te.» Queste parole avrebbero dovuto suscitare in me una reazione ironica, ma non fu così. Gli detti un bacio pieno di gratitudine, lo confesso. Rimase un po' deluso perché l'esplosione non apparve come una notizia da prima pagina. Per un giorno infero non apparve nemmeno sui giornali, ma il secondo giorno scovò un trafiletto seminascosto sullo Star. MISTERIOSA ESPLOSIONE A HIGH PARK Ha causato perplessità negli ambienti della polizia uno scoppio di lieve entità che ha avuto luogo mercoledì, provocato apparentemente da una carica di dinamite. Non ci sono feriti, tuttavia l'impianto collettore di un ristorante del parco situato nelle vicinanze è stato messo temporaneamente fuori uso. A quanto pare, l'esplosione è stata del tutto immotivata; si
tratterebbe di un atto di vandalismo. Il Real Porcospino fu affascinato da quell'articolo, e me lo lesse più volte ad alta voce. «Del tutto immotivata» esclamò trionfante. «Incredibile!» Portò il ritaglio di giornale al servizio ingrandimenti fotografici, ne fece fare un ingrandimento, lo sistemò in una cornice intagliata che veniva dagli Invalidi Civili e la collocò in bella mostra accanto alla regina. Per settimane dopo l'esplosione Marlene, Don e gli altri continuarono a credere che stessi facendo circolare la dinamite per la città a bordo di una Chevy celestina classe 1968. Intanto loro meditavano circa la preannunciata azione dimostrativa. Non discutevano su come realizzarla: erano ancora ben lontani da quella fase. Non arrivarono nemmeno alla fase delle mappe e dei piani strategici, si erano fermati al livello puramente teorico: l'obiettivo scelto era quello giusto? Sarebbe stata un'azione patriottica, d'accordo, ma era abbastanza patriottica? E se lo era, avrebbe giovato alla nazione? Si imponeva un gesto decisivo, argomentava Don, altrimenti rischiavano di essere superati. Oramai certe idee in cui solo loro avevano creduto cominciavano ad apparire negli editoriali, e i sondaggi d'opinione della Gallup mostravano che le tendenze si stavano spostando nella loro direzione. A quegli sviluppi assistevano con allarme: la rivoluzione stava finendo nelle mani sbagliate. Non mi dispiaceva trasportare in giro per la città la loro dinamite immaginaria. Mi forniva un ottimo pretesto per uscire di casa ogni volta che ne avevo voglia. «È ora di spostare la dinamite» dicevo allegramente, e Arthur non poteva trovare niente da ridire. Anzi, era addirittura fiero di me. «Devi ammettere che è intrepida» disse Sam. Trovavano che avevo molto sangue freddo. Il più delle volte, andavo a trovare il Real Porcospino. Ma qualcosa stava cambiando. La tovaglia di merletto in cui ballavo il valzer stava ridiventando una semplice tovaglia di merletto, con uno strappo; gli stivaletti neri a punta non valevano più il tormento che infliggevano. I motel ridiventarono motel, e per me, ora, significavano solo fatica e imbarazzo. Sturgess mi faceva viaggiare ancora più spesso, mi mandava a Sudbury, a Windsor, e facevo sempre più fatica a sopportare le interviste. Poi tornavo nel motel e lavavo la mia biancheria e i collants nel lavandino del bagno, strizzandoli negli asciugamani e stendendoli sulle stampelle. La mattina non erano mai del tutto asciutti ma li mettevo lo stesso, e ne avvertivo contro la pelle il contatto viscido e grigiastro, come di lombrichi.
Avevo l'impressione di vestirmi dell'alito viziato di persone estranee. E intanto il Real Porcospino, seduto sulla sponda del letto, pallido e scarno come una radice, mi tempestava di domande. «Lui com'è?» «Lui chi?» «Lo sai, Arthur. Ogni quanto fate...» «Chuck, non sono cose che ti riguardano.» «Mi riguardano, eccome» disse. Non fece storie per il nome; cominciava ad assomigliare sempre di meno al Real Porcospino e sempre di più a Chuck. «Non ti faccio domande di questo genere sulle tue amiche, io.» «Quelle donne me le sono inventate» disse imbronciato. «Ci sei; solo tu.» «Allora chi è che ti porta i tortini di zucca?» «Mia madre» rispose. Sapevo che quella era una bugia. Da sempre viveva nella sua epopea personale, ma ora cominciava a vedere il presente come se già fosse il passato, fasciato da veli di nostalgia. Per ogni ristorante in cui mangiavamo aveva un sospiro e uno sguardo d'addio, quando uscivamo; parlava delle cose che avevamo fatto la settimana precedente come se fossero state istantanee di un album per fotografie da tempo sepolto nell'oblio. Ogni mio gesto veniva trasformato in un fossile non appena l'avevo compiuto, ogni bacio mummificato, come se lui volesse tenerli in serbo. Mi sentivo un articolo da collezione. «Non sono ancora morta» gli dissi più volte, «perché mi guardi in quella maniera?» Non sempre era di quell'umore. Quando cambiava registro, si dimostrava apertamente ostile nei miei confronti. Cominciò a interessarsi in modo morboso delle recensioni, non alle sue, che erano piuttosto rare, ma alle mie. Le ritagliava e se ne serviva per darmi addosso. «Qui dicono che tu rappresenti una sfida all'io maschile.» «Che stupidaggine» dissi. «Ma tu sei una sfida all'io maschile» disse. «Oh, andiamo» dissi. «Chi avrei mai sfidato?» «Qui dicono che tu sei un pericolo.» «Ma che diavolo vuoi dire?» dissi. Mi sembrava di essere stata particolarmente gentile tutto il pomeriggio. «Tu calpesti le personalità altrui senza nemmeno rendertene conto» disse. «Quanto a sensibilità, sei una frana.» «Se dobbiamo continuare la conversazione, mi faresti il piacere di rive-
stirti?» Mi tremava il labbro inferiore; non so perché, ma non sono mai riuscita a discutere con un uomo nudo. «Lo vedi? Mi stai dando degli ordini. Sei una minaccia.» «Io non minaccio» dissi. «Se non minacci» disse, «perché stai urlando?» Cominciai a piangere. Lui mi abbracciò e anch'io lo abbracciai, lacrimando come un'orfana, come una cipolla, come una lumaca cosparsa di sale. «Mi dispiace» disse. «Ad ogni modo non ho un io maschile, probabilmente ho un io da koala.» «Credevo che sarebbe rimasta una storia poco impegnativa» dissi, tirando su col naso bagnato. «Ma non è affatto impegnativa» disse. «Quando lo diventerà, allora vedrai. Il fatto è che sono depresso perché piove e sono senza denaro.» «Andiamo a prendere del pollo fritto» proposi, asciugandomi il naso. Ma lui non aveva fame. In un pomeriggio di pioggia, quando giunsi al magazzino lo trovai vestito di tutto punto: aveva indosso il suo mantello e una cravatta che non avevo mai visto prima, bordò, ornata da una sirena, che proveniva dagli Invalidi Civili. Mi afferrò per la vita e mi fece piroettare intorno alla stanza; gli brillavano gli occhi. «Che succede?» gli chiesi quando ripresi fiato. «Che ti prende?» «Sorpresa» disse. Mi guidò verso il letto: sopra c'era un cappellino piatto degli anni Cinquanta davvero grottesco, bianco, con tanto di piuma e veletta. «E questo, dove l'hai preso?» dissi, cercando di immaginare quale nuova fantasia si fosse impadronita di lui. Gli anni Cinquanta non erano mai stati la sua epoca preferita. «È il cappello della tua partenza» disse. «L'ho preso ad una vendita di beneficenza dell'Esercito della Salvezza, novantotto centesimi.» «Ma a che scopo?» «Per partire, ovvio» disse con lo stesso tono esaltato. «Vedi, ho pensato che potremmo andar via insieme. Una fuga d'amore.» «Devi essere matto» dissi. «E dove andremmo?» «Che ne dici di Buffalo?» Scoppiai a ridere, poi vidi che diceva sul serio. «È molto carino da parte tua» dissi, «ma lo sai che non posso.» Voleva che lasciassi Arthur e andassi a vivere insieme a lui. Era quello il succo del discorso, e alla fine lui lo ammise. Eravamo seduti sul letto l'uno
accanto all'altro e fissavamo il pavimento. «Voglio fare una vita normale insieme a te» disse. «Penso che non saremmo capaci» gli dissi. «Sono una pessima cuoca. Faccio bruciare tutto.» «Voglio svegliarmi la mattina, fare colazione con te e leggere il Globe and Mail» «Potrei venire a fare colazione da te» dissi. «Una colazione tardiva.» «Voglio spazzolarti i capelli.» Cominciai a piagnucolare. Una volta, gli avevo detto che ad Arthur piaceva spazzolarmi i capelli; o meglio, che un tempo gli era piaciuto. «Ma cos'ha lui che io non ho?» Non lo sapevo. Ma non volevo che sciupasse tutto, che diventasse grigio, sfaccettato e complesso come tutti gli altri. Possibile che in ogni Don Giovanni si nascondesse un buon borghese? Cercavo l'avventura o la stabilità e loro, che cosa mi offrivano, rispettivamente? Arthur e il Real Porcospino, forse, non mi offrivano né l'una né l'altra: volevano che fossi io a procurargliele, e ancora una volta, non ero all'altezza. Il Real Porcospino aveva poggiato la testa sul mio stomaco ed era in attesa di una risposta. «Non lo so» dissi. «Non è per quello.» Lui si rimise seduto. «Questo è il tuo difetto, tu non hai delle passioni che ti spingano ad agire. Non capisci quanto è pericoloso? Sei come un pullmino scolastico sfuggito al controllo dell'autista.» «Non lo faccio apposta» dissi. A mo' di riparazione, gli comprai una boccetta di pillole vitaminiche e un paio di calzini, e spolverai i suoi animali imbalsamati. Arrivai fino al punto di dargli la mia volpe, quella che era appartenuta a zia Lou. Quello fu un vero dono: per me aveva un grande valore. Una volta lo avrebbe fatto felice, ma la guardò appena. «Potresti almeno dirgli di noi» disse. «A volte penso che ti vergogni di me.» Quello era il limite oltre il quale non ero disposta a spingermi. «Non posso» dissi, «rovinerebbe tutto. Io ti amo.» «Tu hai paura di scommettere su di me» disse tristemente. «Lo vedo bene. Per il momento non valgo granché, lo ammetto, ma pensa al mio potenziale!» «Mi piaci così come sei» dissi, ma lui non riusciva a credermi. Non che lo amassi: a modo mio lo amavo, ma sapevo che non sarei stata capace di vivere con lui. Nella sua vita fantasia e realtà erano una cosa sola, e questo significava
che per lui la realtà non esisteva. Invece per me sarebbe stata la fantasia a non esistere, e questo significava non avere scampo dalla realtà. Quando scesi dal montacarichi, la volta dopo, per me era pronta un'imboscata. Il Real Porcospino c'era, ma non era più il Real Porcospino. Si era tagliato i capelli più corti e si era sbarbato. Lo trovai in piedi in mezzo alla stanza, senza mantello, senza bastone, senza guanti; aveva solo un paio di jeans e una maglietta con la scritta Honda. Adesso era soltanto Chuck Brewer; forse, sotto la barba, lo era sempre stato. Sembrava che l'avessero depredato. «Mio Dio» dissi, anzi quasi gridai. «Perché l'hai fatto?» «L'ho ucciso» rispose Chuck. «Ha fatto il suo tempo, è finito.» Cominciai a piangere. «Oh, mi ero dimenticato di questi» disse. Strappò dalla parete il ritratto della regina, poi il poster della dinamite, e li gettò in cima al mucchio dei suoi vestiti. «E i tuoi animali?» dissi stupidamente. «Me ne sbarazzerò» disse. «Ora non mi servono più.» Guardavo il suo mento con gli occhi spalancati; non l'avevo mai visto prima. «Adesso verrai a stare con me?» disse. «Non siamo obbligati a restare qui, potremmo trovarci una casa.» Era spaventoso. Aveva creduto che rendendosi più simile ad Arthur avrebbe potuto prendere il suo posto, ma nel far ciò aveva ucciso quella parte di lui che amavo. Quasi non sapevo come fare a consolare la parte superstite. Senza barba, aveva il mento di un apprendista ragioniere. Odiavo me stessa per quei pensieri. Come potevo far caso al suo mento in un'occasione come quella? Mi sentivo un mostro, un gran mostro pasticcione e incorreggibilmente frivolo. Gli gettai le braccia al collo. Non ero in grado di fare quel che voleva, era tutto un errore. «Vedo che mi dirai di no» disse, svincolandosi dal mio abbraccio. «Beh, suppongo che ci sia soltanto una cosa da fare. Che ne diresti di un doppio suicidio? Oppure, forse, potrei spararti e poi buttarmi dal palazzo del governo con il tuo cadavere tra le braccia.» Abbozzò un sorriso smorto, che però non mi trasse in inganno. Stava parlando in tutta serietà. 27 Il montacarichi cominciò a calare, ponderosamente. Con gli occhi della mente vedevo il Real Porcospino scapicollarsi per tre rampe di scale, facendo a brandelli i suoi vestiti, per affrontarmi al pianterreno, completa-
mente nudo; ma quando la porta si aprì stridendo, lui non era lì. Feci tre isolati di corsa, fino al Kentucky Fried Chicken, sgattaiolai all'interno e ordinai un secchiello formato famiglia. Poi tornai a casa in tassì. Avrei raccontato ogni cosa, mi sarei messa a piangere. Avrei ottenuto clemenza, non l'avrei fatto mai più, purché Arthur mi perdonasse e mi salvasse. Salii le scale e spalancai con violenza la porta dell'appartamento, ansimando. Ero pronta per la scenata. Non sarebbe stata solo una confessione, ma anche un atto di accusa; perché Arthur mi aveva spinta a fare quel passo, come intendeva rimediare, avremmo dovuto mettere in discussione il nostro rapporto per capire dove avevamo sbagliato? In base a una sua logica personale, contorta e forse perversa, Arthur aveva permesso che mi legassi a un maniaco omicida, e adesso era ora che venisse a saperlo. Non chiedevo molto, volevo soltanto essere amata. Volevo soltanto un po' di considerazione umana. Era davvero tanto gravosa, tanto impossibile la mia richiesta, e io, ero forse una specie di mostro? Arthur stava guardando la televisione. Mi volgeva le spalle, e la sua nuca aveva un'aria fragile. Mi accorsi che aveva bisogno di farsi tagliare i capelli, e questo mi addolorò. Era come un bambino, le sue convinzioni, le sue certezze erano ancora intatte. Che cosa stava facendo? «Arthur» dissi, «c'è una cosa che devo discutere con te.» Lui, senza girarsi, disse: «Puoi aspettare che finisca?» Mi sedetti per terra vicino alla sua sedia e aprii il secchiello formato famiglia. Silenziosamente, glielo porsi. «Come fai a mangiare queste schifezze americane?» disse, ma poi pescò un petto di pollo, e si mise a rosicchiarlo. Stava guardando il torneo olimpionico di pattinaggio artistico a coppie; una volta guardava solo i telegiornali, ma ora si accontentava di tutto quel che trovava, telefilm comici, partite di hockey, gialli a puntate, dibattiti. Un terzo dello schermo, quello inferiore, presentava uno sdoppiamento verticale del quadro, così che gli ospiti dei dibattiti avevano quattro mani, come divinità orientali, e le scene di inseguimento nei telefilm polizieschi apparivano capovolte, con due gruppi di guardie e due gruppi di ladri; ma Arthur non voleva farlo riparare, costava troppo. Diceva di conoscere qualcuno che l'avrebbe riparato. La coppia austriaca, lui in bianco, maniche lunghe, lei in costumino scuro, scivolavano a ritroso lungo la pista, a una velocità incredibile, in perfetta sincronia. Ognuno di loro aveva quattro gambe. Fecero una giravolta e la ragazza spiccò un balzo nell'aria e si fermò in figura, capovolta, bicipite, mentre l'uomo la reggeva con una mano sola. Scese. «Fallo col piede de-
stro», disse il telecronista; ruzzolarono tutti e due e al contatto col ghiaccio, le loro immagini si moltiplicarono. Anche la coppia canadese, nonostante un inizio brillante, aveva avuto la stessa sorte. La Donna Cannone entrò in pista pattinando. Non potevo farci nulla. Era uno dei momenti più importanti della mia vita, avrei dovuto riuscire a tenerla lontana e invece eccola li, con una tutina rosa e la testa adorna di piume di cigno. Il suo partner era l'uomo più magro del mondo. La Donna Cannone sorrideva alla folla, ma nessuno ricambiava il suo sorriso; gli spettatori non credevano ai loro occhi perché lei volteggiava sulla pista con straordinaria leggiadria, roteando come una trottola sulla punta dei suoi piedi minuscoli, e quando l'uomo la sollevò e la lanciò nell'aria, lei si innalzò fluttuando, in alto, sempre più in alto, fino a rimanere sospesa... aveva un segreto: a dispetto della sua mole era leggerissima perché dentro era vuota, come un palloncino, e dovevano ancorarla al suo letto, altrimenti sarebbe volata via, e per tutta la notte le sue funi rimanevano in tensione... C'è una cosa di cui ti devo parlare, avrei voluto dire durante la pubblicità. Ma Arthur stava frugando nel secchiello alla ricerca di qualche rimasuglio, aveva le dita unte e sul mento gli era rimasta appiccicata una briciola di pollo. Gliela tolsi con tenerezza. In quel momento era inerme: come avrei potuto aggredirlo? Arthur avrebbe avuto bisogno di tutta la sua dignità. Una famosa pattinatrice fece un poco convincente elogio di una margarina, con lo sguardo ipnotizzato dai cartelli del suggeritore. Poi la gara riprese. La Donna Cannone era ancora lì, ora ciondolava all'altezza del soffitto. Come un millepiedi, la coppia americana guizzò sulla parte inferiore dello schermo, ma nessuno li guardò, erano tutti distratti da quell'enorme pallone rosa che ciondolava sopra le loro teste, così poco elegantemente... Scalciava debolmente coi pattini, la Donna Cannone, e le si vedevano le cosce e l'enorme didietro a luna piena. Era davvero una vergogna. «Sono andati a prendere la fiocina» sentii dire al telecronista. L'avrebbero abbattuta a sangue freddo, l'avrebbero fatta scoppiare, noncuranti del fatto che ora si era messa a cantare a voce spiegata... Ma che cosa mi ha preso? pensai, Che cosa mi hanno fatto? «Vado a letto» dissi ad Arthur. Non riuscivo ad agire, non riuscivo a pensare in modo coerente; mi aspettavo che da un momento all'altro il Real Porcospino tempestasse di colpi la porta di casa o urlasse parole terribili al telefono, un attimo prima di lanciarsi nel vuoto, mentre ero lì, impotente, come paralizzata. Potevo soltanto aspettare il colpo della mannaia e, conoscendo il
Real Porcospino, non sarebbe stata una mannaia, ma un tacchino di gomma di quelli che si trovano nei negozi di scherzi di carnevale; oppure una colossale esplosione. Lui non aveva alcun senso della misura. Furono i russi a vincere il titolo, per l'ennesima volta. Il mattino dopo ricevetti la prima telefonata. Dissi ben tre volte «pronto» ma non rispose nessuno; silenzio. Sentii soltanto dei respiri, poi un clic. Ero certa che fosse lui, ma mi sorprendeva quella mancanza di originalità. La seconda telefonata arrivò alle sei, la terza alle nove. Il giorno dopo ricevetti una sua lettera, o almeno credevo che fossa sua. Era un foglio di carta bianco, sul quale era stata incollata una piccola xilografia raffigurante la Morte con la falce, e la didascalia MI CONCEDE QUESTO VALZER? Le parole e le lettere erano state ritagliate dalle Pagine Gialle, l'immagine della Morte da una rivista. La appallottolai e la buttai nella spazzatura. Si era messo al lavoro senza perder tempo, indubbiamente, ma non gli avrei lasciato credere che mi stava spaventando. Quel che attendevo, a dir la verità, era una lettera anonima per Arthur. Detti il via a un'operazione di censura sulla sua corrispondenza, anche se questo significava alzarmi presto la mattina e scendere nel vestibolo per ghermire la posta non appena entrava nella buca. Soppesavo ogni busta, e quando il contenuto non era immediatamente intuibile la mettevo da parte per dissuggellarla con il vapore in un secondo momento. Lo feci per cinque giorni di seguito, ma non successe nulla. Continuavo a ricevere le telefonate. Non sapevo se anche Arthur ne riceveva; in ogni caso, non me ne parlò. Tutto dipendeva dalle intenzioni del Real Porcospino; forse voleva che tornassi da lui, e in quel caso non avrebbe detto nulla ad Arthur, oppure voleva uccidermi, cosa di cui dubitavo, o magari voleva solo vendicarsi. Mi venne in mente di telefonargli per chiederglielo; forse mi avrebbe detto la verità, se lo beccavo al momento giusto. Non avrei mai dovuto dargli quel potere nei miei confronti, il potere di rovinarmi la vita; perché non era ancora rovinata del tutto, la mia vita, qualcosa si poteva ancora recuperare. Accennai ad Arthur che forse ci avrebbe fatto bene trasferirci in un'altra città, tanto per cambiare. Il sesto giorno ricevetti un'altra lettera. L'indirizzo era stato scritto a macchina; non c'era francobollo sulla busta, doveva essere stata recapitata a mano. All'interno c'era un altro messaggio composto di lettere ritagliate: APRI LA PORTA. Aspettai mezz'ora, poi aprii. Sul gradino della porta c'era un porcospino morto, nel quale era stata conficcata una freccia. Alla
freccia era attaccato un cartellino; c'era scritto JOAN. «Per l'amor del cielo» dissi. Se fosse stato il padrone di casa a trovarlo, o magari lo stesso Arthur, sarebbe sorto un pandemonio, o come minimo ci sarebbe stata un'inchiesta. Dovevo farlo sparire, e in fretta. Era un porcospino grosso, con delle ferite piuttosto ampie, e stava già cominciando a decomporsi. Lo trascinai su un lato della veranda e lo scaricai tra le ortensie, sperando che nessun vicino di casa stesse osservando la scena. Poi salii in casa, presi un sacco di plastica verde Glad Bag, ci infilai il porcospino e riuscii a farlo entrare nel bidone della spazzatura su cui era scritto «Condominio», nel cestino dei rifiuti ribaltabile sul retro. Già mi vedevo il Real Porcospino che scongelava i suoi animali, uno per uno, e me li lasciava davanti alla porta di casa. Ne aveva moltissimi, gli sarebbero durati per settimane. Mi sembrava che stesse passando la misura. Nel pomeriggio lo chiamai, da un telefono a gettone. «Chuck, sei tu?» dissi quando rispose. «Chi parla?» chiese, «Myrna?» «Lo sai benissimo che non sono Myrna, chiunque lei sia» dissi. «Sono Joan, e vorrei farti sapere che non ti trovo per nulla divertente.» «Che cosa intendi?» disse. Sembrava sorpreso sul serio. «Lo sai» dissi. «I tuoi bigliettini. Devi esserti sentito molto astuto quanto hai tagliato le lettere dalle Pagine Gialle in modo che non capissi che eri tu.» «No, niente affatto» disse. «Voglio dire, di che bigliettini stai parlando? Io non te ne ho mandati.» «E che cosa mi dici di quella roba che mi hai lasciato stamattina sul gradino della porta? Quello non era uno dei tuoi preziosi animali massacrati, immagino.» «Di che cosa parli?» disse. «Devi essere matta. Non ho fatto proprio niente.» «E potresti anche smetterla di chiamarmi e di farmi sentire i tuoi respiri per telefono.» «Giuro su Dio che non ti ho mai telefonato neppure una volta. Hai ricevuto delle telefonate?» Mi sentivo battuta su tutti i fronti. Se mentiva, questo significava che aveva intenzione di continuare. E se invece stava dicendo la verità, chi era il mio persecutore? «Chuck, sii sincero» implorai. «Credevo di averti pregata di non chiamarmi così» disse con freddezza. «Non ti ho fatto nulla. Perché avrei dovuto? Mi hai detto che tra noi è fini-
ta. Al momento ero fuori di me, d'accordo, ma poi ci ho pensato su, e se tu dici che è finita, è finita. Tu mi conosci, oggi qui, domani là, prendo la vita come viene. Perché dovrei tormentarti?» Mi dispiaceva che la prendesse con tanta flemma. «Tutto qui quel che contavo per te?» dissi. «Senti, sei stata tu a tirarti indietro, non io. Dal momento che non hai voluto vivere con me, cosa avrei dovuto fare, secondo te? Dovevo infilare la testa nel forno?» «Forse ho sbagliato» dissi, «forse dovremmo parlarne.» «Perché prolungare l'agonia?» disse. «E poi, non sono solo.» Poi riattaccò senza aspettare altro. Sbatacchiai il ricevitore e mi misi a premere con furia il pulsante per la restituzione; volevo assolutamente riavere i miei spiccioli, me li doveva. Quel nero apparecchio, però, mi negò qualsiasi risarcimento. Corsi a casa, mi rintanai nella mia camera, tirai fuori la macchina per scrivere e chiusi gli occhi. Avevo proprio bisogno di un uomo alto e avvolto in un mantello. Durante la mia relazione col Real Porcospino non avevo scritto nemmeno una parola. Era per questo che le mie creature sembravano più concrete del solito, più vicine a me, dotate di un vigore maggiore di quel che davo loro prima? Ma era tutto inutile; non si poteva fermare il tempo, non potevo far finta di nulla. Quella sera ricevetti un'altra telefonata, e il giorno dopo un altro biglietto: TI ASPETTO NELLA CAMERA MORTUARIA, c'era scritto, e al foglio era stata incollata la fotografia di un ragno. Il giorno dopo trovai sulla porta di casa una ghiandaia azzurra, morta. Quella notte mi sembrò di sentire qualcuno che saliva la scala antincendio. Adesso esitavo prima di alzare il ricevitore. Pensai di procurarmi uno di quei fischietti acutissimi che si usano contro chi fa le telefonate oscene. Una volta strillai nel ricevitore: «Basta!» prima di rendermi conto che dall'altra parte c'era soltanto Sam. Non è che avessi proprio paura; credevo ancora che quelli fossero soltanto scherzi vendicativi e che il Real Porcospino - perché ero ancora convinta che si trattasse di lui - li considerasse alla stregua di opere d'arte. Forse, quando aprivo la porta e trovavo i piccoli, olezzanti pegni della sua stima, lui mi faceva delle fotografie, e magari le avrebbe presentate in una mostra. Mi venne in mente di andare a trovarlo nel suo magazzino, per cercare di farlo ragionare... Suonò il telefono. Lo lasciai squillare tre volte e poi risposi, pronta a
sentire gli ansiti e magari anche una risata sinistra. «Sì» dissi. «Parlo con Joan Delacourt?» disse una voce maschile, roca e un po' strana. «Sì» risposi automaticamente, prima di far caso che usava il mio nome da ragazza. Adesso mi chiamavano tutti Joan Foster. «Joan. Finalmente ti ho ritrovata.» «Chi parla?» dissi. «Non riesci a indovinare?» disse la voce, in tono birichino. «Sono il tuo amico Mavis.» Risolino galante. «Paul» dissi. «Oh, mio Dio.» «Ho letto un giornale che parlava di te» disse Paul, per nulla turbato dal mio tono sbigottito, «ti ho riconosciuta dalla fotografia, anche se in realtà tu sei molto più bella. Sono stato tanto felice per il tuo successo, non avrai più bisogno di scrivere romanzi gotici, sei una vera scrittrice ora. Ho letto il tuo libro. Promette bene, penso, per essere un primo libro, e di una donna.» Sentivo alle mie spalle Arthur che rientrava in casa. Dovevo riattaccare, ma non volevo mortificare Paul. «Paul» dissi, «devo vederti. Mi piacerebbe incontrarti.» «È quel che desidero anch'io» disse Paul. «So di un buon ristorante...» Fu lì che ci ritrovammo il giorno dopo, un po' tardi rispetto all'ora di pranzo. Il ristorante si chiamava da Zerdo: una volta, Toronto era del tutto priva di ristoranti con nomi del genere, ora invece ce n'erano a bizzeffe. Era molto nello stile di Paul, pensai mentre aprivo la porta, scegliere tra tutti un ristorante il cui nome evocava quello di un detergente per il water. Era un locale stretto, volutamente un po' buio, con tavolini coperti da tovaglie a quadretti e lampade a forma di candela. Tralci di vite artificiali decoravano le pareti. In fondo alla stanza, rivestita da una carta da parati che simulava i mattoni e circondata da pentole di rame, c'era una finestra passavivande... Il maitre, un uomo piccolo e agile, mi venne incontro con sollecitudine; sotto il braccio teneva dei menù guarniti da nappine dorate. «John» dissi, istintivamente. Avrei riconosciuto quei morbidi baffi anche in capo al mondo... «Chiedo scusa, signorina» disse. «Il mio nome è Zerdo.» Paul mi stava già venendo incontro. Mi baciò la mano ossequiosamente e mi guidò con tenera malinconia verso un tavolo. Una volta seduti non disse nulla, ma si mise a fissarmi con occhi pieni di rimprovero da dietro le lenti che, notai, ora erano sfumate: un pallido lilla.
«Questo posto una volta si chiamava Il bocconcino» dissi. Tacqui il fatto che una volta avevo lavorato lì come cassiera, ma dietro la cassa c'era la mia controfigura, una donna obesa con i capelli raccolti a cipolla e un vestito nero che le lasciava scoperti i gomiti corrugati ma non il petto. Lì, in carne e ossa, c'era uno dei miei futuri virtuali di un tempo; la signora Zerdo, non c'era dubbio. In quel momento la invidiavo. «Joan» disse Paul, «perché sei fuggita da me?» Intanto aveva tolto la rosa di plastica dal vasetto e se la rigirava tra le dita, apparentemente ignaro del fatto che era finta. Che cosa potevo dire che fosse adatto al momento? «È stato meglio così» dissi. «No, Joan» disse tristemente, «non è stato meglio. Tu lo sai che ti amavo. Desideravo sposarti, una volta che fossi stata più adulta; ci avevo pensato, avrei dovuto dirtelo. Però tu sei fuggita. Mi hai fatto molto male.» Così diceva, eppure stentavo a credergli. Notai che il suo vestito era decisamente più caro di quelli che aveva potuto permettersi in passato; aveva l'aria sicura di sé, cosa nuova per lui. Il gentiluomo sdegnoso e dimesso era un po' sfocato; al suo posto, come in sovrimpressione, era apparso un nuovo personaggio; il fortunato uomo d'affari. Zerdo si era avvicinato con la lista dei vini; si rivolse a Paul con deferenza e Paul fece un'ordinazione impeccabile. Poi tirò fuori le Gauloises, me ne offerse una e ne introdusse una per sé nel suo bocchino, nuovo e lussuoso. «Sono felice di averti ritrovata» disse Paul mentre sorbivamo il nostro consommé al limone. «Adesso dovremmo decidere che cosa fare, dal momento che tu sei sposata.» «Paul» dissi, allo scopo di cambiare argomento, «tu vivi qui, ora? Ti sei trasferito in Canada?» «No» rispose, «ma vengo qui spesso. Per affari. Ho lasciato la banca sei anni fa, ora ho un altro lavoro. Faccio...» a questo punto ebbe un'esitazione, «faccio l'importatore.» «E che cosa importi?» chiesi. «Tante cose» mi rispose, tenendosi sulle generali. «Lavori in legno, scacchiere e portasigarette, dalla Cecoslovacchia; dall'India importo vestiti, ora vanno molto, e anche dal Messico. Mi aiuta molto la mia conoscenza delle lingue. Non le parlo tutte, però me la cavo.» Era chiaro che non ne voleva parlare. Ripensai alla sua pistola. Mi sembrava che sotto la sua ascella ci fosse una piccola protuberanza: possibile che portasse una fondina? Nel mio pensiero, in rapida successione, sfilarono eroina, oppio, armi
atomiche, gioielli e segreti di stato. «Sono riuscito a far espatriare mia madre dalla Polonia» disse, «ma lei è morta.» Parlammo di lei mentre mangiavamo la moussaka, e anche di sua figlia. «Ho letto sul giornale che tuo marito è una specie di comunista» disse Paul; eravamo arrivati alla baklava. «Joan, come hai potuto sposare un uomo del genere? Ti avevo detto che razza di gente sono.» «Non è proprio comunista» dissi. «Non so come spiegarlo, ma qui non è la stessa cosa. E poi qui non vuol dire nulla, non è detto che un comunista non sia una persona per bene. Loro non fanno nulla a nessuno, si limitano a tenere delle riunioni e a fare un sacco di discorsi, un po' come i teosofi.» «I discorsi sono pericolosi» disse Paul, cupo. «È proprio dai discorsi che nascono certe cose. Sono bravi a far discorsi, come i gesuiti. Povera bambina mia, è così che ti ha indotta a sposarlo. Deve averti fatto il lavaggio del cervello.» «No» dissi, «le cose non sono andate cosi.» Ma Paul era fermo nella sua convinzione. «Tu sei molto infelice, lo vedo» affermò. In questo c'era del vero, e non negai. Godevo molto, in effetti, di tutta quella benevolenza: era confortante, come un impacco caldo. Credevo che Paul sarebbe stato arrabbiato con me, e invece era tanto gentile. Bevvi un altro bicchiere di vino e Paul ordinò del brandy. «Abbi fiducia in me» disse, battendomi affettuosamente sulla mano. «Allora eri una bambina, non sapevi quel che volevi. Ma ora sei una donna. Lascerai quell'uomo, divorzierai, e noi saremo felici.» «Paul non posso andar via» dissi. Mi fluttuava davanti avvolto nelle nebbie della nostalgia. Era forse lui il mio amore perduto, l'uomo destinato a salvarmi? Gli occhi mi si riempirono di lacrime, e cosi il naso. Mi asciugai alla bell'e meglio con il tovagliolo. Sentivo che da un momento all'altro mi sarei messa a piangere. Paul fece la mascella dura. «Lui vorrà impedirtelo. Capisco» disse. «Così sono fatti. Se tu gli dicessi che sono io quello che ami, lui... Ma ho degli amici. Ti rapirò, se sarà necessario.» «No» dissi, «Paul, non puoi rapirmi. Sarebbe pericoloso. Per di più, qui la gente non ama questo genere di cose.» Paul mi accarezzò la mano. «Non temere» disse. «So quello che faccio. Aspetterò, e quando sarà il momento giusto per colpire, colpirò.» Quella per lui era una sfida personale, e voleva vincerla.
Non potevo dirgli che non volevo essere rapita; sarebbe stata una grave scortesia, e avrei rischiato di farlo soffrire molto. «Beh» dissi, «è essenziale che tu non dica a nessuno che mi hai vista. E non dovresti nemmeno telefonarmi... Paul, non è che mi avevi telefonato anche prima, senza rispondere?» «Una volta, forse» disse. «Credevo di aver sbagliato numero.» Dunque non era stato lui. Ci alzammo da tavola per uscire. Paul mi prese sottobraccio. «Scrivi ancora i libri di Mavis Quilp?» gli chiesi, ormai presa dai ricordi. «Immagino che ora tu non abbia più bisogno di farlo.» «Li scrivo ancora, per divertimento», rispose Paul. «Dopo una giornata di duro lavoro, mi calma lo spirito.» Si fermò un istante, per frugare in una tasca interna. «Ecco qui» disse. «Ho portato un regalo, per te. Tu sei un'esperta. Io sono solitario e non ho nessuno a cui farlo leggere. Ma sapevo che ti sarebbe piaciuto.» Mi porse il libro. Un'infermiera al Polo Nord, si leggeva in copertina. Di Mavis Quilp. La rosea infermiera sorrideva con grazia dalla soffice aureola della sua giacca a vento. «Oh, Paul» dissi, «grazie infinite.» So che è ridicolo, ma fui commossa; quell'uomo pieno di illusioni senza speranza mi faceva una tale tristezza che mi venne in mente il film sulla balena che voleva cantare. Gli gettai le braccia al collo e scoppiai in lacrime. Stavolta l'hai fatta bella, pensavo mentre singhiozzavo sulla sua spalla. Il profumo del suo dopobarba Hai Karatè mi fece piangere ancora di più. Come avrei fatto adesso a togliermelo di torno? Anche questa volta, l'avevo incoraggiato troppo. 28 Paul voleva farmi salire su un tassì. Il fatto che partissi a bordo di un tassì faceva parte del suo ruolo, ma gli dissi che avevo voglia di camminare, e così sul tassì ci montò lui. Lo seguii con lo sguardo mentre si lasciava trascinar via tra il luccichio metallico del traffico verso nord, per Church Street. Poi mi incamminai verso casa. Avevo ancora gli occhi gonfi, e mi sentivo depressa e intontita. Paul faceva di tutto per venire in mio soccorso; era uno sforzo galante ma vano: del resto, in quel momento ogni premura galante mi sembrava vana. Magari gli avrei stirato i calzoncini da boxe, con insofferenza, o avrei mangiato
del suo caviale in qualche pretenzioso rifugio, facendo finta di essere felice e riconoscente; e per insofferenza lo avrei piantato di nuovo, lasciandolo mortificato e questa volta magari anche vendicativo. Una volta avevo creduto di essere innamorata di lui; e forse lo ero stata. «Nell'amore e nel sorriso c'è una magia. Accompagnino sempre ogni tua azione, ti renderanno tutto meraviglioso» diceva Gufo Bruno cinguettando, leggendo la frase nel libretto. A questa massima avevo creduto e pensavo che l'assenza di risultati ed eventi meravigliosi fosse dovuta alla mia insufficienza, alla mia scarsa capacità di amare. Ora mi sembrava che qui, al posto della parola «amore» avrei potuto metterci il nome di un lucido per mobili senza alterare minimamente il significato. L'amore era semplicemente uno strumento, e uno strumento era anche il sorriso, entrambi utili per raggiungere determinati scopi. Ma niente magia, soltanto chimica. Mi rendevo conto di non aver mai amato davvero nessuno, né Paul né Chuck il Real Porcospino, nemmeno Arthur. Non avevo fatto altro che lustrarli con il mio amore, nella speranza che diventassero brillanti e lucidi, tanto da poter vedere rispecchiata in loro la mia immagine, potenziata e splendente. In quel momento mi sembrava impossibile poter amare davvero; e anche se qualcuno ci riusciva, dubitavo che da quell'amore potesse scaturire qualcosa di bello e duraturo. Amare significava inseguire delle ombre, e per Paul io non ero altro che un'ombra, fatalmente destinata a sfuggirgli, evanescente come una nuvola. Ma che razza di nuvola sono, pensai, mi fanno già male i piedi. Probabilmente a Paul non importava nulla di me, era l'avventura ad attrarlo: rapirmi da quello che colui considerava un covo di comunisti pericolosi e agguerriti, armati fino ai denti di retorica nefanda e apparecchiature per il controllo del cervello, mentre mi trovavo tra di loro, legata mani e piedi dalle pastoie del loro gergo. Una volta che mi avesse ripresa, non avrebbe saputo che farsene, di me. Già nel passato non era stato in grado di vivere insieme a me perché non tollerava il mio disordine, e gli anni non mi avevano certo reso più ordinata. Non assomigliavo per nulla al mio fantasma. Tornando a casa trovai un'altra lettera, una storia di bare, ma la guardai appena. Salii le scale che conducevano al nostro appartamento, con lentezza: mi era venuta una vescica su un piede. Mi auguravo che Arthur fosse in casa, in modo da avere se non altro il conforto di una figura familiare; però lui non c'era, e mi ricordai che mi aveva detto che sarebbe andato a una riunione. L'appartamento era vuoto, desolato, come sempre quando lui man-
cava, pensai. Avrei dovuto farci l'abitudine; da un giorno all'altro, oramai, il Real Porcospino avrebbe potuto stufarsi del suo gioco e puntare al rialzo. Andai in bagno, riempii la vasca di acqua calda, aggiunsi la schiuma e mi ci calai dentro in compagnia di Mavis Quilp. Il bagno era il rifugio da sempre; era l'unica stanza della casa, di tutte le case, in cui potevo chiudermi a chiave. Sguazzavo nella vasca come un tricheco fumante di vapore, mentre mia madre tossicchiava discretamente dietro la porta, tormentata dai borbottii e dalle proteste del corpo che, anche se non voleva ammetterlo, le apparteneva, eppure senza decidersi a essere esplicita. «Joan, che stai facendo là dentro?» Lunga pausa. «Faccio il bagno.» «È un'ora che ci stai. Anche gli altri potrebbero aver bisogno del bagno, dovresti avere più riguardo.» Ammantata di schiuma, sprofondai nella lettura di Un'infermiera al Polo Nord. Perché mai Sharon, invece di restarsene nel suo comodo ospedale inglese, era partita per le regioni artiche, dove mancavano persino i gabinetti e il bel dottore la derideva ogni volta che lasciava cadere un bisturi? Adesso correva all'impazzata sulla banchisa a bordo della slitta sfuggita al suo controllo, mentre il burbero dottore la inseguiva, a piedi. Si fermi, piccola idiota senza cervello. Non ci riesco, non so come si fa. Prevedevo quel che sarebbe accaduto, perché conoscevo a menadito lo stile di Paul... Solo dopo averla vista gambe all'aria, semisepolta tra le pellicce, il dottore avrebbe capito quanto la amava, e avrebbe dovuto fare di tutto per essere corrisposto. Lui sarebbe rimasto infortunato, oppure l'infortunata sarebbe stata lei: queste erano le alternative. Ghiacci purissimi, nevi immacolate, casto bacio. Mi struggevo per quel mondo così semplice, in cui la felicità era possibile e le ferite erano soltanto simboliche. Perché mai mi era stato vietato l'accesso a quell'irreale paradiso bianco, in cui l'amore era qualcosa di irreparabile, come la morte, e invece ero stata mandata qui, in questo mondo dove tutto cambia e si trasforma? Squillò il telefono, ma lo lasciai suonare. Non avevo la minima intenzione di uscire dalla vasca da bagno, innaffiando il pavimento, per andare a sentire qualcuno che ansimava; volevo starmene li, con Sharon e il dottor Hunter. Le sfiorò la guancia, scostando una ciocca di capelli. Le ricordò, rudemente, che avrebbe dovuto tenere i capelli raccolti: aveva già dimenticato le lezioni? Nei libri di Paul, riccioli seducenti, ciocche e boccoli non mancavano mai, come in Milton. Sharon arrossì e volse il capo per non
farlo notare. Tre quarti d'ora dopo, mentre atterrava l'elicottero con l'eschimese tratto in salvo (dichiarazione e abbraccio erano ormai questione di minuti) - e intanto l'acqua nella vasca si era intiepidita per la seconda volta - mi parve di sentire qualcuno nella stanza accanto. Drizzai le orecchie, evitando di smuovere l'acqua: effettivamente si sentivano dei passi che, attraversato il soggiorno, si dirigevano verso la camera da letto. Mi sentii raggelare nella vasca, irrigidita dalla paura. Per un istante rimasi lì, distesa come un pupazzo; mi passavano davanti fulminee visioni di violentatori dalle zanne sanguinolente, che agitavano coltelli, visioni di scassinatori folli, tossicomani sanguinari, visioni di maniaci pronti a squartarmi e a distribuire i pezzi nei bidoni dell'immondizia. E il bagno non aveva finestre. Forse, se non mi fossi mossa, avrebbe portato via quel che trovava, che non era poi molto, andandosene come era venuto. Avrei giurato di aver messo la sicura alla finestra che dava sulla scala di sicurezza; dalla porta non poteva essere entrato, perché cigolava terribilmente, e l'avrei sentito. Uscii pian piano, con cautela, dalla vasca da bagno. Non tolsi il tappo, per non farla gorgogliare. Distesi il tappetino, mi ci inginocchiai sopra e avvicinai l'occhio al buco della serratura. Dapprima non vedevo nulla. Il misterioso intruso non entrava nel mio campo visivo, era in camera da letto. Aspettai finché attraversò la stanza. Aveva la faccia girata dall'altra parte, ma era basso e mi sembrava di conoscerlo. Secondo me, doveva proprio essere Paul. Non mi aspettavo che sarebbe tornato così presto. Si sentiva un certo tramestio, un borbottare fra i denti: che diavolo stava facendo? Avrebbe dovuto cercare me, non frugare nel mio armadio. Stavo quasi per gridare «Oh, accidenti Paul, guarda che sono qua dentro.» Mi drappeggiai il busto con un telo da bagno; avrei dovuto uscire e parlargli francamente, chiedergli scusa, dirgli che mi spiaceva molto, ma che mi aveva fraintesa, che stavo benissimo con mio marito e che il passato era passato. Sentito questo, non mi avrebbe certo portata via. E poi saremmo rimasti buoni amici. Aprii la porta e raggiunsi senza far rumore, a piedi nudi, la camera da letto. «Paul» dissi, «vorrei...» L'uomo si girò, ma non era Paul. Era Fraser Buchanan, nella sua giacca di tweed con le toppe di pelle e l'elegante maglioncino a collo alto; in più aveva un paio di guanti neri. Aveva appena finito di rovistare nei cassetti della mia scrivania, e dalla precisione e meticolosità si capiva che non era
la prima volta che faceva cose del genere. «Che fa qua dentro, lei?» gli urlai. Lo avevo spaventato, ma fece presto a riprendersi. Mi sorrise mostrando i denti, sembrava un cincillà messo alle strette. «Sto facendo delle ricerche» rispose senza scomporsi. Evidentemente, non era la prima volta che veniva colto sul fatto. «Potrei farla arrestare» dissi. Probabilmente non avevo un aspetto molto dignitoso; reggevo i lembi dell'asciugamano dietro la schiena. «Il fatto è che so di te più di quanto immagini. So certe cose che sicuramente vorresti tenere... riservate. Solo tra me e te.» Che cosa aveva scoperto? A chi avrebbe fatto le sue rivelazioni? Ad Arthur, pensai. Arthur verrà a sapere tutto. Le mie personalità nascoste, le mie vite segrete, spregevoli. Non potevo permettere che questo accadesse. «Che?» mi sforzai di dire con voce stridula. «Ma di che cosa sta parlando?» «Penso che tu abbia capito benissimo, signora Foster. O forse dovrei chiamarti signorina Delacourt, Louisa K. Delacourt, autrice, tra gli altri, di' Sfida d'amore?» Dunque, aveva fatto in tempo ad arrivare al cassetto della biancheria. «Ho letto parecchi dei tuoi romanzi» proseguì, «anche se allora non sapevo che fossero tuoi. Niente male, nel loro genere. Però stonano un poco con Lady Oracolo, non ti pare? Rischiano di rovinarti l'immagine, direi. Dubito che le tue ammiratrici femminili si rallegreranno molto quando verranno a saperlo, anche se altre persone di mia conoscenza potrebbero trovarlo divertente. Per non parlare dello Stendardo di Braeside. Quelle tue fotografie sono proprio una meraviglia. Di' un po', come hai fatto a scaricare tutta quella zavorra?» «Che cosa vuole?» dissi. «Beh, dipende da quel che puoi offrirmi» disse seccamente. «In cambio, per dir così.» «Mi dia un momento per mettermi qualcosa indosso» dissi, e «e poi ne parleremo.» Ero furibonda, ma avevo anche una gran paura. Quell'uomo aveva scoperto almeno due delle mie identità segrete, ed ero così confusa che in quel momento non potevo ricordare se ne avevo delle altre. Se non fossi stata una figura carismatica la cosa non avrebbe avuto poi tanta importanza, anche se non potevo rassegnarmi all'idea che Arthur venisse a sapere qualcosa del mio passato di peso massimo. Se poi avesse raccontato ai media la
vera storia di Louisa K. Delacourt, il breve periodo in cui ero stata presa sul serio sarebbe finito. Certo non era stato del tutto gradevole, ma era molto meglio che non essere presa sul serio. Preferivo esibirmi come una ballerina, per quanto imperfetta, piuttosto che come un impeccabile clown. Indossai la tunica di velluto albicocca, raccolsi i capelli sulla sommità del capo lasciando liberi sul collo alcuni riccioli seducenti, e mi misi un paio d'orecchini d'oro a ciondolo. Mi truccai il viso e mi misi anche del profumo. Bisognava prendere un'iniziativa di fronte a Fraser Buchanan, ma ancora non avevo trovato quale. Decisi di fargli un po' di corte. Entrando in soggiorno, gli feci un sorriso. Era seduto sul divano, le mani sulle ginocchia, come nella sala d'aspetto di un dentista. Gli proposi di andare fuori, dato che in casa non c'era nulla da bere (mentivo). Egli accettò prontamente, come avevo previsto. Si sentiva già il vincitore: ora non gli restava che discutere le condizioni della resa. La sua scelta cadde sul bar Fourth Estate. Sperava che molti giornalisti lo vedessero in mia compagnia. Ordinai un Dubonnet on the rocks con una scorzetta di limone e lui un doppio scotch. Mi offersi di pagare, ma lui non abboccò. «E so anche di quella piccola tresca con quel sedicente artista o poeta o come si definisce» mi confidò, chinandosi verso di me al di sopra del raffinato tavolino rotondo dal piano a specchio. «Ti ho pedinata.» Sentii una morsa di freddo allo stomaco. Questo era quel che temevo sopra ogni cosa. Eppure ero stata tanto prudente; possibile che glielo avesse detto Chuck? Se davvero avesse voluto farmi del male, non avrebbe potuto trovare di meglio. «Ma lo sanno tutti. Persino mio marito ne è al corrente» gli dissi in tono abbastanza sprezzante da farli capire che quello non era uno dei punti sui quali poteva condurre i negoziati. «Quello emanava praticamente dei comunicati stampa. Una volta ha venduto a un'università due mie liste della spesa, in busta sigillata, assicurando che si trattava di lettere d'amore. Le aveva trafugate dalla mia borsetta. Non lo sapeva?» Quella di vendere campioni della mia calligrafia era una minaccia che Chuck mi aveva fatto spesso - per il suo pane quotidiano, diceva lui - ma che io sapessi, non l'aveva mai messa in pratica. La faccia di Fraser Buchanan crollò come un tratto di diga mal costruito: se Arthur sapeva, lui non avrebbe guadagnato nulla minacciandomi di rivelarglielo. «Come ha fatto a entrare in casa?» dissi in tono discorsivo, per lenire il
suo disappunto. Ma anche perché la cosa mi incuriosiva: di canaglie dilettanti ne avevo conosciute molte, ma un professionista mai. «Certamente non è passato dalla finestra delle scale di sicurezza.» «No» disse, «da quella accanto. Ci sono saltato dentro.» «Davvero?» dissi. «È una bella distanza. E immagino che fosse lei che mi telefonava senza dir nulla.» «Beh, dovevo assicurarmi che non ci fosse nessuno, prima di entrare.» «Stavolta non ce l'ha fatta, però.» «Sì, ma prima o poi te ne saresti accorta.» Mi spiegò che aveva rintracciato il mio cognome da nubile, mai apparso nelle interviste, spulciando i registri di matrimonio. «Ma a sposarti è stata proprio una tizia che si chiama Eunice P. Revele?» disse. Poi aveva esaminato gli elenchi annuali del liceo, finché non mi aveva trovata. Era stato l'intuito a fargli scorgere un collegamento tra Louisa K. Delacourt e me, ma per confermare quell'intuizione ci volevano delle prove. La cosa più facile era stata scoprire la storia del Real Porcospino. Lui si era illuso che quello fosse il suo asso nella manica ma ammise, con mio sollievo, di essersi sbagliato. «I matrimoni non sono più quelli di una volta» disse disgustato. «Qualche anno fa una notizia del genere sarebbe valsa un sacco di quattrini. Adesso invece, franchezza a tutti i costi: si direbbe che facciano a gara.» Gli parlai degli animali morti, e delle lettere. «Perché avrei dovuto fare una cosa del genere?» disse, mostrandosi sinceramente sorpreso. «È una cosa che non rende nulla. Sono un uomo d'affari.» «Comunque, dato che mi ha seguita, dovrebbe aver visto chi li ha lasciati. Marmotte e altri orrori.» «Di mattina non lavoro, bellezza» disse. «Solo di notte. Sono un tipo notturno, io.» Ordinammo un'altra bibita prima di venire al sodo. «E da tutta ciò, che cosa spera di ricavare?» «Semplice» disse. «Soldi e potere.» «Beh, denaro non ne ho molto» dissi, «potere poi, non ne ho affatto.» Lui, però, non voleva crederci. Detestava le persone famose, gli sembrava che lo sminuissero. Secondo lui tutti, per quanto la loro gloria fosse effimera, avevano soldi e potere. E non bastava, non ce n'era uno che avesse vero talento, comunque non più di molti altri. Dunque, si erano fatti strada con intrallazzi e imposture e si meritavano che qualcuno gli alleggerisse la borsa. Ce l'aveva in particolare con Lady Oracolo e col mio editore ed era
convinto che per farmi pubblicare il mio libro avessi messo a frutto le mie astuzie femminili. «Non fa che lanciare giovani sconosciute, quell'uomo» disse quando fu al suo quarto bicchiere. «Con grandi fotografie in copertina, faccia, collo e giù fino alle tette. Quasi tutte durano lo spazio di un mattino, anzi, di una nottata. Talento, zero.» «Lei dovrebbe fare il critico letterario» dissi. «Ma davvero» disse, «e lasciar perdere la mia attività? Non rende abbastanza.» Non usava mai la parola «ricatto» e definiva le vittime delle sue estorsioni «clienti.» «Chi sono, gli altri?» gli domandai, fissandolo con gli occhi spalancati e pieni di ammirazione. Gli stavo dando l'imbeccata. Fu allora che fece il passo falso, tirando fuori il suo taccuino e rivelandomene così l'esistenza. «Naturalmente non ti posso raccontare cose che altri preferirebbero tener segrete» disse, «cosi come non racconterò a nessuno i fatti tuoi. Ma tanto per darti un'idea...» Lesse sette o otto nomi, e mi mostrai opportunamente impressionata. «Questo qui, ad esempio» disse. «L'innocenza personificata diresti. Mi ci sono voluti sei mesi, ma ne valeva la pena. Ha un debole per i sederi dei ragazzini. Non c'è niente di male in sé, tutti i gusti sono gusti. Si scopre sempre qualcosa, basta un po' di tenacia. E ora, torniamo ai nostri affari.» Dovevo impossessarmi di quel taccuino a tutti i costi. La mia unica speranza era trattenerlo nel bar quanto bastava per farlo ubriacare e carpirgli il taccuino dalla giacca: avevo visto in quale tasca l'aveva messo. Purtroppo, stavo diventando brilla anch'io. Dopo una lunga, intricata conversazione che a ogni bicchiere si faceva più lenta e tortuosa, ci accordammo sulla cessione del venti per cento delle mie entrate. Avrei dovuto mandargli delle copie dei documenti relativi ai miei diritti d'autore, così sarebbe stato sicuro che non baravo. «Considerami una specie di agente» disse. Era lo stesso accordo che aveva con molti altri autori. Quando ci alzammo per uscire, mi mise una mano sul sedere, con aria circospetta. «Da te o da me?» mi disse, barcollando. «Da te, ovvio» dissi. «Sono una donna sposata, non ti ricordi?» Fu molto più facile di quanto avessi immaginato. Lo feci inciampare sui gradini d'entrata dell'edificio signorile in cui abitava, e gli portai via il taccuino mentre lo aiutavo a rialzarsi. Entrai con lui nell'ascensore e attesi che la porta stesse per chiudersi, poi sgusciai fuori e mi allontanai correndo dal
palazzo. Feci anch'io un capitombolo, a un certo punto, e mi si strappò l'orlo del vestito, ma non era nulla di grave. Presi un tassì al volo: era fatta. Tutto era filato liscio, quasi come alla televisione. Quando rientrai, Arthur era in casa. Lo sentivo battere a macchina nello studio, tac-ta ta-tac. Mi chiusi a chiave in bagno, e mi tolsi l'abito di velluto e cominciai a sfogliare il taccuino di Fraser Buchanan, rilegato in pelle nera, senza nome né intestazione, dal taglio dorato. Era stato scritto in una calligrafia minuta, che faceva pensare alle impronte di uno scarafaggio. Non feci caso alle sconcertanti rivelazioni che aveva annotato; quel che cercavo, freneticamente, era la parte che riguardava me. Il libretto era strutturato come un'agenda, secondo le date. Le notizie utili erano contrassegnate da asterischi; quanto al resto si trattava delle annotazioni e divagazioni di Buchanan. Quasi sempre aveva usato solo le iniziali. J.F. - «apprezzata» autrice di Lady Oracolo. Incontrata a una festa di artisti pretenziosi. Fisico da treno merci. Capelli rossi, certamente tinti, gran tette; continuava a agitarmele sotto il naso. Finta tonta, risata da oca, si guardava molto intorno. Sotto sotto, una massacratrice di maschi, senza dubbio. Piuttosto evasiva circa il libro, dovrei dargli un'occhiata. Sposata con Arthur Foster, che scrive su Rinnovamento. Un coglione presuntuoso. E più avanti: Reddito presunto: ?? Non moltissimo, ma prenderà qualcosa da Foster. *Verificare cognome da nubile. E oltre: Se la fa con C.B. Saranno le scopate più care della sua vita. Sconterà i suoi peccati in rate mensili a favore del sottoscritto. «Verificare registri alberghi. Se possibile, procurarsi fotografie. E più avanti ancora: «Louisa K. Delacourt.
Niente da dire, aveva metodo. Mi domandavo: che cosa avrò mai detto per offenderlo? In quel che leggevo c'era dell'odio, oppure solo il tenace cinismo di uno scroccone? Quella sera, gli avevo veramente agitato le tette sotto il naso? Forse, agli uomini bassi facevano questa impressione. Ridevo davvero come un'oca? Quello mi odia sul serio, pensai. Mi dispiaceva un po', perché in fondo avevamo appena passato una piacevole serata insieme. Ma non importava, avevo finalmente il taccuino e non avevo intenzione di mollarlo. Senza dubbio avrebbe cercato di riaverlo; si sarebbe disperato, perché era quello che gli dava da vivere. Tra l'altro, costituiva una prova a suo carico: era scritto di suo pugno, c'era il suo nome, l'indirizzo sul retro della copertina, era irrefutabile. Mi sorprendeva che nessuno avesse cercato di rubarglielo prima. Ma probabilmente, non ne aveva parlato a nessun altro. Strappai una pagina campione e la chiusi in una busta. Gliela avrei mandata la mattina dopo, come fosse l'orecchio di un sequestro, per fargli capire che il taccuino era nelle mie mani. Acclusi anche un biglietto: Se dovesse accadermi qualcosa, il taccuino è al sicuro. Una parola di troppo e finirà dalla polizia. Scacco matto, pensai. Mi coricai prima di Arthur, ma rimasi sveglia a lungo mentre lui già dormiva, cercando di sbrogliare il gomitolo della mia vita. Da un momento all'altro Paul avrebbe potuto piombare su di me, brandendo la sua spada immaginaria, e lanciarsi in un salvataggio disastroso che avrebbe rovinato la mia vita. E ora, Fraser Buchanan avrebbe fatto di tutto per riavere il suo taccuino. Dovevo trovare un buon nascondiglio; un armadietto in una stazione della metropolitana, o magari avrei potuto spedirmelo e rispedirmelo per posta... no, non era una buona idea. Era meglio depositarlo in una cassetta di sicurezza alla banca. Mi sentivo impigliata in una rete insidiosa e malevola, mi giungevano biglietti assurdi ma sinistri, qualcuno mi chiamava al telefono ansimando; non tutte quelle telefonate erano opera di Fraser Buchanan. Qualcuno depositava animali morti davanti alla porta di casa, e se non era il Real Porcospino, era qualcun altro ben informato. Forse uno si occupava degli animali, un altro mandava i biglietti, un terzo faceva le telefonate... ma non potevo proprio crederlo. Doveva essere una sola persona, con un piano, un complotto ben finalizzato... Poi, d'improvviso, capii. Era Arthur. L'autore di tutto era Arthur. Aveva scoperto la mia relazione con il Real Porcospino, doveva esserne al corren-
te già da tempo. Per tutto quel tempo, mi aveva controllato senza dir nulla; non dir nulla era nel suo stile. Ma alla fine aveva preso una decisione nei miei confronti, una presa di posizione, pollice verso. Non ero degna, dovevo andarmene, e questo era il suo piano per liberarsi di me. Mi domandavo come aveva potuto farlo. Per le lettere anonime, non c'era problema. Potevo dare un'occhiata alle Pagine Gialle per vedere se qualcosa era stato ritagliato, ma non sarebbe stato tanto sprovveduto. La maggior parte delle telefonate le avevo ricevute quando non era in casa, però alcune volte c'era. Magari aveva potuto farsi aiutare da un amico, ma da chi? Quanto agli animali, chiunque era in grado di trovare degli animali morti. Ma piazzarli davanti alla porta era un altro paio di maniche, tanto più che da qualche tempo cercavo di alzarmi per prima. Avrebbe anche potuto metterceli di notte. Era lui, doveva proprio essere lui; architettava qualche cosa, e non volevo nemmeno immaginarmi che cosa. La spiegazione più facile era che l'avesse preso una follia profonda e impossibile da scoprire. Ma non era necessario arrivare fino a quel punto. Tutti gli uomini che avevo conosciuto, pensai, avevano rivelato una doppia personalità: mio padre che guariva e ammazzava; l'uomo dal soprabito di tweed, mio salvatore e probabilmente anche un maniaco; il Real Porcospino e il suo doppio, Chuck Brewer; perfino Paul, secondo me, aveva una losca vita segreta per me impenetrabile. Perché Arthur doveva proprio fare eccezione? Sapevo che aveva alti e bassi, ma quest'aspetto del tutto diverso della sua personalità non l'avevo mai immaginato; almeno fino a ora. Averlo scoperto così tardi lo rendeva ancora più minaccioso. Eppure era lì, nel letto, accanto a me. Ero terrorizzata, avevo paura perfino di muovermi; se si fosse svegliato, con gli occhi sfavillanti, e avesse allungato la mano verso di me...? Lo ascoltai respirare per tutto il resto della notte. Sembrava così tranquillo. Dovevo andarmene, al più presto. Se fossi semplicemente andata all'aeroporto e avessi preso un aereo, chiunque sarebbe stato in grado di rintracciarmi. La mia vita era un guazzabuglio, un groviglio di fili contorti e spezzati. Ormai non potevo più sperare in un lieto fine, ma volevo almeno un taglio netto. Farla finita, un colpo di forbici. Morire, magari. Ma anche per questo avevo bisogno d'aiuto. Su chi avrei potuto contare? 29 La mattina dopo attesi che Arthur uscisse di casa, poi telefonai a Sam.
«Devo vederti» dissi, «è importante.» «Che succede?» disse. A rispondere era stata Marlene; Sam sembrava ancora addormentato. «Non posso parlarne per telefono.» Per Sam era un dogma che il suo telefono fosse controllato dalla CIA, o perlomeno dalla polizia canadese, e probabilmente aveva ragione. Inoltre, volevo apparire fin dal primo momento molto allarmata, per essere più convincente. «Vengo da te?» disse, rianimato. «No» risposi. «Ci vediamo davanti alla Casa della Cravatta a Bloor Street, tra mezz'ora.» Sam abitava ad Annex, ed ero certa che ce l'avrebbe fatta, affrettandosi un po'. Ci tenevo a fargli fretta, avrebbe capito meglio l'urgenza. Poi riagganciai, con aria misteriosa. Avevo riflettuto molto su quanto avrei detto loro, perché indubbiamente sarebbero venuti tutti e due; non c'era da sperare che Marlene non lo accompagnasse. Non ci pensavo nemmeno a dire la verità, anche questa volta. Se l'avessi fatto, avrebbero ritenuto di non potermi aiutare, dato che secondo i loro criteri le questioni unicamente personali non avevano nessuna importanza. Parlando loro separatamente la cosa sarebbe stata diversa, ma insieme erano testimoni e potenziali accusatori l'uno dell'altro. Dovevo far credere loro di trovarmi sotto il tiro di veri nemici della causa che anche a loro stava a cuore. Quell'artificio mi faceva sentire un po' sleale. Come la maggior parte dei membri del gruppo, Sam era fondamentalmente sincero, anche se in modo contorto; io, invece, ero fondamentalmente contorta, anche se con una patina di sincerità. Ma era la mia ultima speranza. Aspettavo impaziente davanti alla Casa della Cravatta, guardavo le cravatte in vetrina e sbirciavo di quando in quando alle mie spalle; infine comparvero Sam e Marlene. Questa volta avevano preso un tassì; normalmente non lo facevano mai, e questo mi dette coraggio. «Non fatevi notare» dissi loro a bassa voce, in tono di cospirazione. «Fate finta di passeggiare per la strada.» Ci incamminammo per la strada verso ovest e indicai loro il luogo e l'ora dell'appuntamento definitivo. «Mi è sembrato di vederne uno, lì all'angolo» dissi. «Attenti che non vi segua.» Poi ci separammo. Quel pomeriggio, alle tre e mezza, ci ritrovammo al Roy Rogers7 , quello di Bloor Street a ovest di Yonge. Chiesi un frappé, Sam prese un Roy completo e Marlene ordinò un Dale Evans8 . 7 8
Nome di un popolare attore americano (N.d.T.). Nome della moglie dello stesso, sua partner nei film (N.d.T.).
Trasferimmo i vassoi su un tavolino rotondo accanto a una finestra a specchio unico, da cui si vedeva un cortiletto di servizio con un enorme cartellone della Coca Cola, un ragazzo e una ragazza che ammiccavano e bevevano a garganella. «Hai scelto il posto ideale» disse Sam. «Questo buco è davvero insospettabile.» «Lo sapevate che vendono dello sterco di Trigger9 autentico, per corrispondenza?» disse Marlene. «Autentico, balle» sbuffò Sam. «Di quella roba ce n'è in giro più che le reliquie della Santa Croce. Del resto, il vero Trigger l'hanno imbalsamato e messo in mostra da anni, oramai.» Marlene sembrava delusa. Controllai sotto il piano del tavolo che non ci fossero microfoni nascosti. Poi mi piegai verso di loro. «Hanno saputo della dinamite» dissi. Sam rimase in silenzio. Marlene si arrotolò una sigaretta. Ultimamente aveva cominciato a farle da sé; quando le accendeva, i frammenti di tabacco che sporgevano bruciavano, ma lei, parlando, teneva la sigaretta con disinvoltura all'angolo della bocca. «Chi sono?» chiese. «Tu come lo sai?» «Non lo so con precisione» dissi. «Forse la polizia dell'Ontario, o le Guardie a Cavallo; magari anche la CIA. Comunque, qualcuno di quelli. L'altro ieri, quando sono andata a spostare la macchina, ho visto due uomini che l'osservavano. Non mi sono avvicinata all'auto, ho tirato dritto come se non mi riguardasse affatto. Quando ci sono tornata, ieri, erano ancora lì, o forse erano altri due. Questa volta non sono nemmeno passata per la strada, ho attraversato e ho preso una via laterale.» «Questo significa che di te non sanno ancora nulla» disse Marlene. «Altrimenti non starebbero a far la guardia all'auto, terrebbero d'occhio te.» «Per ora no» dissi, «ma lo faranno. Scopriranno dove abito; avevo dato l'indirizzo del mio appartamento quando comprai la macchina. Il padrone di casa darà i miei connotati. Se mi scovano, scopriranno il mio vero nome, risaliranno ad Arthur, e poi a voi.» Sam era turbato. Finalmente si avverava il suo sogno proibito, ma lui non era per nulla contento. Dal canto suo, Marlene era piuttosto fredda. Strizzava gli occhi, anche a causa del fumo. «Pensi che siano le Guardie a Cavallo?» «Sarebbe una fortuna» dissi. «Se sono loro, forse non mi troveranno mai, e se mi trovassero almeno potremmo contare su un regolare processo. Ma se sono gli altri, la CIA o qualcosa di peggio, potrebbero semplicemen9
Nome del loro cavallo (N.d.T.).
te farci fuori. Possono sempre farlo passare per un suicidio, o un altro incidente.» «Porca miseria» disse Sam. «Ti abbiamo tirata in un bel pasticcio. Ma non può essere la CIA, noi siamo pesci piccoli.» «Ti sbagli, credo» ribatté Marlene. «Loro i movimenti nazionalisti non li possono vedere, vogliono tenerci sotto, in questo paese.» «C'è un elemento positivo» dissi. «Per ora non possono andare molto più in là del mio appartamento, almeno finché non scoprono chi sono.» «Sarà meglio mandarti all'estero» disse Marlene. «Sì» dissi, forse un po' troppo affrettatamente. «Ma non posso semplicemente saltare su un aereo. Se scomparissi, continuerebbero a cercarmi e mi scoprirebbero. Penso che dovremmo istradarli in un vicolo cieco.» «Che cosa hai in mente?» disse Sam. Feci finta di pensarci. «Potremmo inscenare la mia morte; così, quando cominceranno a ficcare il naso, scopriranno che sono morta, e buonanotte. Non c'è nessun'altra pista che li porti dalla dinamite sull'automobile al vostro gruppo. Lasceremo la macchina dov'è e se la vedranno loro.» L'idea era piaciuta a tutti e due, e cominciammo a discutere sul come e sul quando. Sam tirò fuori un piano: un finto incidente automobilistico, usando un cadavere reso irriconoscibile. Era un appassionato dei programmi televisivi di prima serata. «È il cadavere dove lo rimediamo?» chiese Marlene; il piano fu accantonato. Il volto di Sam si animò. «Che ne diresti se lasciassimo i tuoi denti in un vasca di calce viva? I denti sono l'elemento di identificazione più sicuro che ci sia. È il sistema che si usa per identificare le vittime dei disastri aerei. Penserebbero che il tuo corpo è stato bruciato.» «Già. Da dove li prendiamo, i miei denti?» chiesi. «Te li fai togliere tutti, ovvio» disse Sam, un po' mortificato dalla mia reazione negativa. «Puoi farti mettere una dentiera completa, è anche più igienica.» «No» dissi. «Potrebbero torturare il dentista, e lui rivelerebbe ogni cosa. Posso rinunciare a un dente, o magari due» dissi con aria rassegnata. Sam era imbronciato. «Se prendi le cose sul serio, devi fare tutto per bene.» «Quello che mi occorre è una sparizione molto pulita.» dissi. «Guardate qua.» Tolsi dalla borsetta un ritaglio di giornale. Riportava il caso di una donna annegata nel lago Ontario, una morte semplice semplice, senza
fronzoli. Era andata a fondo come un sasso, e il suo cadavere non l'avevano mai ripescato. Quando le avevano gettato il salvagente, non aveva fatto nulla per afferrarlo. Quella era una delle prime volte, diceva l'articolo, in cui era stata condotta un'inchiesta, ed era stato emesso un certificato di morte, in assenza di cadavere. Ogni tanto ritagliavo dai giornali notizie del genere, pensando che un giorno mi sarebbero servite come elementi negli intrecci dei romanzi. Per fortuna quel ritaglio l'avevo conservato. «Ma è già successo» disse Sam. «Non ci faranno caso» dissi. «Almeno, spero che non ci facciano caso. Ad ogni modo è la mia unica speranza.» «E Arthur?» chiese Marlene. «Non deve saperne nulla?». «Assolutamente nulla. Arthur è un pessimo attore, voi lo sapete. La polizia lo interrogherà, non ci sono dubbi, e sapendo che non sono morta davvero, il suo comportamento sarebbe o talmente finto da metterli in sospetto, o talmente calmo e composto che penserebbero che è stato lui a farmi fuori. Non riuscirebbe a convincere nessuno. Glielo diremo più avanti, a cose fatte. È crudele, lo so, ma è l'unica cosa da fare.» Con loro ritornai più volte su questo argomento. Tirarmi dietro Arthur, in effetti, era l'ultima cosa che volevo. Finalmente accettarono. Li lusingava sentirsi considerati migliori di Arthur in questa messa in scena. «Soprattutto non esagerate col dolore» dissi. «Qualche senso di colpa magari, ma niente tragedie.» Secondo loro, avrei dovuto procurarmi dei documenti falsi per andare all'estero, ma dissi che se ne sarebbe occupato un mio amico, e che per loro era meglio non sapere troppo. Mi rallegravo di aver sempre tenuti aggiornati il passaporto e la carta d'identità di Louisa K. Delacourt. Marlene disse che doveva andare a una riunione, e Sam mi accompagnò a piedi alla fermata della metropolitana. C'era qualcosa che lo preoccupava. Alla fine mi disse: «Joan, sei sicura di quegli uomini? Stavano proprio sorvegliando?» «Sì, perché?» «Non sono proprio così inefficienti. Se sono due giorni che si danno da fare, a quest'ora ormai dovrebbero averti trovata.» «Sam» dissi, «non sono affatto sicura. Forse sono loro, forse mi sbaglio. Ma quello non è l'unico motivo che mi spinge a partire.» «Che c'è ancora?» «Mi prometti che non lo dirai a Marlene?» Promise. «Mi stanno ricattando.»
«Dici sul serio?» disse Sam. «Ma perché?» Avrei tanto voluto dirglielo e stavo quasi per farlo, ma poi ci ripensai. «Non si tratta di politica» dissi. «È una questione personale.» Sam non richiese altri dettagli; sapeva fermarsi al momento giusto. «Anch'io sono vittima di un ricatto» disse. «Marlene mi mette alle strette. Vuole riparlare a Don della nostra faccenda.» «Sam, è proprio necessario che venga anche lei?» «Sì» disse. «Ci servono due testimoni. Comunque, sarà fantastica con la polizia. È un'artista della menzogna.» «Sam, sei molto buono a fare questo per me» dissi. Stavo chiedendogli davvero molto, cominciavo a rendermene conto. «Se ti trovassi veramente nei pasticci, tornerò e ti tirerò fuori.» Mi strinse forte la mano per rassicurarmi. «Vedrai, funzionerà tutto come un orologio» disse. Non gli parlai del resto, gli animali morti, le telefonate e le lettere. Mi sembrava una complicazione eccessiva. E non feci parola nemmeno dei miei sospetti su Arthur; Sam lo conosceva da molto tempo, e non si sarebbe rassegnato a credere che Arthur era in grado di fare cose del genere. Avrebbe pensato che era una mia immaginazione. L'incidente avrebbe dovuto verificarsi due giorni dopo, tempo permettendo. Nel frattempo, mi ero organizzata. Per prima cosa mi ero comprata una gonna e una camicetta da indossare sull'aereo, abiti che nessuno mi aveva mai visto. Ero andata all'aeroporto prendendo la metropolitana e l'autobus e avevo comprato un biglietto per Roma, usando il documento d'identità intestato a Louisa K. Delacourt. Dichiarai che andavo in vacanza per un mese all'estero. Avevo comprato il foulard con le Guardie a Cavallo e un paio di occhiali da sole, ero andata nella toilette delle signore a cambiarmi d'abito, mi ero messa il foulard in testa per nascondere i capelli e avevo noleggiato dalla Herz Rent-a-Car una Datsun rosso fiamma. Dichiarai che l'avrei riconsegnata nella stessa sede due giorni dopo. Poi, tornata nella toilette, mi ero rivestita come prima ed ero filata via in macchina. Parcheggiai all'angolo di casa e dopo essermi accertata che Arthur non ci fosse, tirai fuori dall'armadio una vecchia valigia infilandoci dentro l'indispensabile. Avvolsi la valigia in carta da pacchi e la portai in macchina sistemandola nel bagagliaio. La mattina seguente dissi ad Arthur che avevo mal di testa e che sarei rimasta un po' a letto. Gli chiesi di portarmi un'aspirina e un bicchier d'ac-
qua. Pensavo che sarebbe uscito prima possibile (di solito gli dava fastidio che stessi male), ma con mia sorpresa lui girava per casa, mi portò una tazza di tè e mi chiese se poteva essermi utile. Ne fui commossa: forse l'avevo giudicato male, forse avrei dovuto dirgli tutto, ero ancora in tempo... Però, forse, si comportava così perché aveva capito che stava architettando qualcosa. Gli ricordai l'articolo che doveva terminare di scrivere per Rinnovamento, e finalmente se ne andò. Balzai fuori dal letto, indossai un vestito decente e ficcai maglietta e jeans nella mia borsa, che diventò molto grossa. A causa di Arthur avevo già perso tre quarti d'ora sul tempo previsto. Mi misi in macchina dirigendomi verso est, e attraversato il centro costeggiai il lago Ontario, cercando un posto in cui avrei potuto venire a riva senza finire sotto un dirupo o dove c'era troppa gente. Trovai un tratto di spiaggia con alcuni alberelli bassi e tavoli da picnic vuoti. Speravo e contavo che rimanessero vuoti: eravamo all'inizio di giugno, in un giorno feriale, e la stagione delle scampagnate non era ancora al suo culmine. La macchina l'avrei lasciata lì, per riprenderla più tardi. Le piante mi avrebbero nascosta mentre nuotavo verso la riva. Raggiunsi con la macchina la più vicina cabina telefonica, accanto a un distributore di benzina, e chiamai un tassì, spiegando che mi si era guastata la macchina e che dovevo correre in città per un appuntamento. Avevo descritto il posto precisando che avrei aspettato in piedi accanto a una Datsun rossa. Ritornata alla spiaggia chiusi a chiave l'automobile, con la valigia nel bagagliaio e il biglietto e i documenti nel cassettino del cruscotto, nascondendo poi la chiave nella sabbia, sotto la ruota anteriore di destra. Il tassì arrivò, e mi feci portare all'albergo Royal York, entrai dalla porta principale, scesi al piano interrato, indossai jeans e maglietta e uscii da una porta secondaria. L'attracco dei battelli era solo a qualche isolato di distanza. Sam e Marlene erano già lì ad aspettarmi. «Ti hanno seguita?» mi chiese Marlene. «Credo di no» dissi. Ripassammo ancora una volta la versione che avrebbero dato ad Arthur: ci eravamo incontrati per strada e, di slancio, avevamo deciso di fare una gita in barca a vela intorno all'isola. Avevamo scelto la barca a vela anziché la canoa: da una barca a vela si può cadere in acqua più facilmente, mentre prendendo la canoa avremmo dovuto rovesciarci tutti e tre nel lago, e non c'era motivo che si bagnassero anche loro. Prendemmo il traghetto e raggiungemmo l'isola. Marlene aveva con sé la macchina fotografica; pensava che sarebbe stato utile avere un documento
fotografico che mi ritraesse felice e spensierata, e perciò mi misi in posa prima accanto a Sam e poi accanto a Marlene, appoggiandomi al parapetto del battello e sorridendo con aria cretina. Una volta sull'isola passeggiammo avanti e indietro davanti ai noleggiatori di barche, cercando di individuare quello che avrebbe avuto minori sospetti nei nostri confronti. Scegliemmo il più scalcinato e senza difficoltà lui ci diede una barca, cinque dollari d'anticipo e il resto al ritorno. Era piuttosto piccola, e il bagnino aveva detto che in effetti potevano starci solo due persone; ma se restavamo nella rada del porto, avrebbe chiuso un occhio. «Sapete andare in barca a vela?» disse, ma era più un'affermazione che una domanda. «Certo» risposi subito. Il bagnino ritornò nella sua barca e rimanemmo soli con la nostra. Sam la slegò con energia dal molo. Saltammo a bordo e ci spingemmo al largo nella rada, in cui altre barche a vela, con le vele bianche spiegate al vento, bordeggiavano avanti e indietro con maestria. «E adesso?» dissi. «Adesso bisogna alzare le vele» disse Sam. Srotolò varie funi e le tirò da una parte e dall'altra finché la vela, esitante, cominciò a salire sull'albero maestro. «Ma sai andare in barca a vela?» gli chiesi. «Sicuro. Quand'ero al campeggio estivo non facevo altro.» «Quanto tempo è passato?» chiese Marlene. «Insomma, mi ricordo le nozioni elementari» disse prudentemente Sam, «ma se vuoi provare tu...» «Non sono mai andata in barca in vita mia» disse Marlene, con quel pizzico di disprezzo che le donne tirano fuori quando scoprono uomini che vogliono farsi passare per esperti. A questo punto, stavamo entrando dritti dritti nella rotta di un traghetto che portava all'isola. «Forse faremmo meglio a tornare indietro e prendere una canoa» dissi. «Non possiamo» disse Sam. «Non so come fare.» Alla fine Marlene si mise al timone, mentre io e Sam, reggendoci con le mani e coi piedi e schivando il boma, cercavamo di governare le funi che, a loro volta, in qualche modo tenevano sotto controllo la barca. Funzionava, seppur precariamente, ma mi sentivo molto giù. Perché mai avevo architettato quel copione banale e degno di un melodramma, che rischiava di mandarci tutti all'altro mondo per davvero? Intanto, ondeggiando, aveva-
mo attraversato il porto di Toronto, passando la banchina che sembrava costruita su rifiuti buttati in acqua, e ci trovavamo già nel lago. Una volta che la barca fu bene o male sotto controllo, mi accoccolai sul fondo, e guardandomi nello specchietto del portacipria, cercai di stendermi sulla faccia un po' di ombretto da un vasetto di Azzurro Notte. L'idea di farmi la faccia blu era di Marlene: così, diceva, dalla spiaggia non avrebbero potuto vederla facilmente. Per quello stesso motivo aveva indossato i jeans e una maglietta blu. Fuori dal porto c'era più vento, e le increspature erano diventate vere e proprie onde. Sfrecciavamo verso ovest col vento in poppa. Adesso la mia faccia aveva il colore giusto, e scrutavo la costa, che vista dal largo sembrava molto diversa, cercando di scoprire il punto dove avevo lasciato l'automobile. «Siamo troppo al largo» gridai a Sam, «non puoi farci avvicinare un poco?» Sapevo nuotare, ma non avevo molta resistenza. Non avevo intenzione di nuotare sul dorso per un chilometro e mezzo. Marlene mi passò il binocolo di Don; aveva avuto la buona idea di portarlo, una vecchia abitudine dal tempo delle Coccinelle. Aveva portato tutto, salvo le bandierine di segnalazione. Scrutai con il binocolo la costa: si vedeva il tratto di sabbia, i tavoli da pic-nic e anche la macchina, che si allontanava da noi a vista d'occhio. «È laggiù» gridai indicandola a Sam. «Come si fa ad andare indietro?» «Bisogna virare» urlò Sam, lanciandosi a prendere una fune. «Che?» «Devo prendere il timone» gridò, e cominciò a trascinarsi verso di noi. «Oh Dio, mi è venuta in mente una cosa» disse Marlene; anzi strillò, perché altrimenti non avremmo potuto sentirla, per via del vento e delle onde, che cominciavano a far paura. Sulla cresta erano striate di spuma bianca, e venivano a sbattere contro le fiancate della barca. «Che?» «Don... andremo a finire su tutti i giornali, e lui scoprirà che siamo stati insieme.» «Ditegli che ora siete soltanto buoni amici!» gridai. «Non andrà» disse Marlene, felice che si venisse a sapere quel che lei voleva senza il suo intervento; dalla disperazione, e insieme dalla contentezza, mollò il timone. La barca oscillò, la vela si sgonfiò, Sam si incurvò e il boma mi sferzò sulle natiche facendomi precipitare in acqua. Mi colse di sorpresa, e finii per bere una bella sorsata di acqua sporca di
lago. Era molto più fredda di quanto non mi aspettassi, e sapeva di pinne e di pannolini stantii. Tossendo e ansimando, venni a galla. Sam aveva lasciato calare le vele e la barca rollava indecisa a poca distanza da me. Marlene strillava «Oh, mio Dio!» in modo molto naturale, come se fossi davvero caduta nel lago e stessi per affogare. Mi tendeva le mani sporgendosi molto pericolosamente, ma Sam la tratteneva. Non potevo risalire sulla barca per rifare tutto in modo regolare; ormai, ero costretta a proseguire dal punto in cui ero. Feci un debole tentativo d'immersione e cercai di passare al di sotto della barca, com'era nei nostri piani. In teoria, avrei dovuto riemergere dall'altra parte, in modo che un possibile osservatore dalla spiaggia non potesse vedermi; era una mossa essenziale, perché avevo visto che a uno dei tavoli da pic-nic era seduta una famiglia di gitanti. Al secondo tentativo ci riuscii, ma Marlene e Sam erano ancora rivolti dalla parte in cui ero affondata: sembravano essersi totalmente dimenticati del nostro piano. Mi strappai dal collo il binocolo faceva zavorra - e tentai di lanciarlo sulla barca, ma invano: colò a picco per sempre. Poi mi ricordai del vestito, che avevo stivato a prua, nella mia borsa. «Il mio vestito» urlai, «ricordatevi di buttarlo via!» ma la corrente li aveva trascinati sottovento, e non mi sentivano. Stavano cercando di riprendere il controllo della barca. Sputai ancora un po' di acqua di lago e mi misi supina, appiattendomi al massimo; stare a galla era sempre stata una delle mie specialità. Battendo i piedi sott'acqua, puntai verso la riva; contavo di arrivare fino alla spiaggetta facendo il morto, inosservata, sospinta anche dalle onde che di quando in quando mi si frangevano sulla testa. Eravamo partiti male, ma si poteva rimediare. Meglio così, che se mi fossi tuffata deliberatamente dalla barca. Guardavo il cielo azzurro solcato da nuvole vaganti, e mi concentravo sulla prossima mossa. Per fortuna, toccai terra non vista dai tavoli da pic-nic, protetti dal folto dei cespugli. Ero distante solo cinquecento metri dal punto in cui avrei dovuto arrivare. Uscii e mi stesi sulla battigia per riprendere fiato, mentre intorno a me mulinavano bucce d'arancia, sperlani morti e grumi marroni dall'aria sospetta presi nella risacca delle onde. Avevo i capelli pieni di sabbia e pezzetti di alghe. Quando mi fui rimessa, sgattaiolai lungo la riva cercando di non guazzare nell'acqua e mi acquattai dietro i cespugli. Dall'altra parte c'era la mia macchina ma c'era anche, lo sapevo, la famiglia di gitanti. Non mi arrischiavo ad avvicinarmi tanto da vederli, ma sentivo i bambini frignare e il padre brontolare.
Per una buona mezz'ora rimasi sotto i cespugli, in attesa, bagnata fradicia e raggelata, tenendomi alla larga dall'edera velenosa, dai mucchietti di escrementi umani mezzi secchi, dai fagotti di sacchetti di sandwich appallottolati, pezzettini di salame e vecchie bottiglie a capsula, domandandomi se i gitanti sarebbero rimasti lì tutto il giorno e in tal caso, se ce l'avessi fatta a prendere l'aereo. Finalmente sentii il rumore di un motore e quello delle ruote sulla ghiaia. Lasciai loro il tempo di allontanarsi, poi raggiunsi la macchina, dissotterrai le chiavi da dove le avevo nascoste e mi cambiai sul sedile posteriore, mettendo gonna e camicetta e nascondendo i capelli bagnati sotto il foulard con le Guardie a Cavallo. Nello specchietto retrovisore avevo una faccia spaventosa: non era poi molto diversa da quella di un'annegata. Mi pulii dall'ombretto con un kleenex e lo gettai tra i cespugli. Strizzai jeans e maglietta, li appallottolai, li infilai nella busta di plastica che mi ero portata dietro allo scopo e la riposi sul fondo della valigia. Mentre partivo, vidi con la coda dell'occhio Marlene e Sam; avevano rialzato la vela ma non erano riusciti a virare, e filavano verso Kingston a vele spiegate. Giunsi all'aeroporto, riconsegnai l'automobile e presi l'aereo con venti minuti di anticipo. Il momento peggiore fu quando, preso posto sull'aeroplano, aspettavo il decollo. Non riuscivo a convincermi di non essere stata seguita. Ma ormai ero al sicuro. PARTE QUINTA 30 Al sicuro, ma a che prezzo? mi domandavo. Me ne stavo sul balcone in reggiseno e slip, coperta di asciugamani, a prendere il sole sudata e fumante in quel posto in capo al mondo. L'Altra Sponda non era un paradiso, soltanto un limbo. Adesso capivo perché i morti ritornano e si occupano dei vivi: sull'Altra Sponda c'era da annoiarsi. Non c'era niente da fare e nessuno con cui parlare. Forse ero affogata davvero, pensavo, e tutto il resto, le ore in aereo - avevo visto Gli anni della mia giovinezza senza gli auricolari - l'automobile della Hertz, l'appartamento, la mia corsa a Roma per comprare la tintura, non erano altro che una specie di burla dell'Aldilà. Dopo la morte, l'anima rimane per qualche tempo legata al corpo, perché si sente confusa, così dicevano gli Spiritualisti. Stando così le cose, avrei dovuto svolazzare a poca
distanza dalle viscide acque dell'Ontario, un po' a est dell'isola di Toronto, senza tener conto delle correnti. Oppure mi avevano ripescata, non ero ancora stata identificata e mi trovavo sul tavolo dell'obitorio; o magari, mi avevano fatta a pezzi per recuperare parti di ricambio e vedevo questa scena perché i miei occhi erano andati a finire nel corpo di un qualcun altro. In teoria, tutta la mia vita avrebbe dovuto balenarmi davanti in una fulminea panoramica: non l'avevo vista, ma bisognava aver pazienza, non ero mai stata un fiore precoce. Imparate a vivere nel presente, ad accettare la vita così come viene, dicono i manuali di psicologia spicciola. Ma se il presente è uno schifo e la vita futura sprofonda nelle sabbie mobili? Mi sembrava di essere stata abbandonata su un'isola deserta, e di giorno in giorno si acuiva il mio desiderio di lanciare dei messaggi, in una bottiglia o in qualche altro modo. Sono viva. Confinata qui, da giorni non avvisto una nave. Stanca della flora e fauna locali e di parlare con le formiche. Vi prego salvatemi. Mi trovavo qui, in quest'incantevole paesaggio meridionale, con la brezza e il fascino del vecchio mondo, eppure nel fondo del mio cervello era rimasto conficcato il ricordo del mio paese, come una lamella di metallo rimasta dopo un'operazione; o piuttosto, come una di quelle palline che si mettono in una ciotola d'acqua e si aprono trasformandosi in sgargianti fiori dall'aspetto minerale. Se non l'avessi tenuto sotto controllo, quel pensiero rischiava di farmi scoppiare la testa. Il mio tentativo di fuga era un'assurdità: li avevo portati tutti con me, sentivo ancora le loro voci, con un mormorio di folla lontana ma irosa. Troppo tardi per risistemare i mobili, questi fantasmi non avrei potuto tenerli lontani. E dov'era quella nuova vita nella quale avrei voluto entrare con passo sicuro, senza fatica, come se si trattasse di attraversare un fiume? Non si era avverata, e intanto la vita continuava senza di me, e me ne stavo in gabbia su quel balcone, in attesa della mia trasformazione. Dovrei trovarmi qualche passatempo, pensavo, confezionare trapunte, coltivare piante, collezionare francobolli. Dovrei lasciarmi andare e fare la turista, la femmina rapace, scattare istantanee e trovarmi amanti dalle cravatte di nylon rosa e dalle scarpe a punta. Desideravo distendermi, ubriacarmi di quell'aria, starmene sdraiata e godermi le cose buone della vita, ma non so come, non ce la facevo. Ero sempre in attesa che succedesse qualcosa, della prossima svolta del destino (un cerchio? una spirale?). La mia vita era stata un susseguirsi di intrighi. Mi chiedevo se Arthur avesse già ricevuto la mia cartolina. Mi avrebbe
raggiunta, avremmo ricominciato da capo, avremmo avuto un inizio sereno, una vita nuova? O avrebbe invece conservato il suo astio, se era stato proprio lui...? Forse avrei fatto meglio a non spedire quella cartolina. Ma d'altra parte, avrebbe anche potuto strapparla, ignorando completamente la mia richiesta d'aiuto. Mi distesi sulla sdraia, chiudendo gli occhi. Sulla soglia c'era il fruttivendolo, le braccia cariche di verdura (e cosa altrimenti?), zucchine giganti, carciofi, cipolle, pomodori. Sorrideva e gli correvo incontro, lui mi stringeva tra le braccia scamiciate e olivastre, c'era succo di pomodoro dappertutto sul pavimento, ci scivolavamo sopra cadendo avviluppati tra le zucchine spappolate, era come far l'amore con l'insalata, tenera e croccante al tempo stesso. Però non sarebbe andata così: al suo apparire sulla soglia, invece di corrergli incontro, avrei pensato alla mia biancheria sciorinata sullo schienale della sedia e gli avrei detto: «Un momento, devo sistemare alcune cose.» Che avrebbe mai pensato di me? Sarei corsa affannosamente di qua e di là per la stanza, raccogliendo, riponendo. «Gradisce una tazza di tè» Sguardo smarrito. Il sorriso gli sarebbe morto sulle labbra. Ma perché gli avevo chiesto di venire? E poi l'avrebbe detto a tutto il paese, i maschi di notte avrebbero fatto la posta ghignando intorno alla casa; i bambini mi avrebbero tirato contro dei sassi. Mi tirai su a sedere sulla sdraio di plastica e aprii gli occhi. Niente da fare, avevo i nervi tesi come corde di violino, persino le mie fantasie erotiche erano tormentate dall'angoscia. Avevo voglia di bere ma il Cinzano era finito. E i bambini la sassaiola la facevano già: per poco, ieri, uno non mi aveva colpita. Mi alzai e rientrai svogliatamente nell'appartamento. Non avevo ancora organizzato il mio tempo, e le ragioni per cui avrei dovuto rispettare certi orari mi sfuggivano sempre di più. Andai in cucina, seminando asciugamani sul percorso. Avevo fame, ma da mangiare non c'era nulla, salvo della pasta cotta oramai rinsecchita e un mazzetto di prezzemolo ingiallito in un bicchier d'acqua sul davanzale della finestra. I frigoriferi, pensai, non sono poi una brutta invenzione. È vero che incoraggiano gli sprechi, ma creano anche un'illusoria certezza nel domani, il senso di poter conservare qualcosa in eterno... È strano che gli psicologi dei mass media non si siano mai interessati ai frigoriferi. Chi possiede un frigorifero vede la vita in maniera molto diversa da chi non ce l'ha, non c'è dubbio. Il frigorifero sta al cibo come la banca al denaro... Mentre mi perdevo in queste considerazioni disordinate, mi sembrava che tutta la mia vita non fosse che una lun-
ga digressione. Mi accorsi che stava succedendo qualcosa alle formiche. Controllai il loro piattino di acqua zuccherata: mi ero dimenticata di aggiungere altra acqua, e la soluzione si era ispessita fino a diventare uno sciroppo. Alcune continuavano a mangiucchiare lungo i bordi, ma altre si erano avventurate al largo ed erano rimaste impaniate, come tigri dai denti a sciabola nelle trappole riempite di catrame. Cercai di liberare le formiche superstiti facendole salire su uno zolfanello per poi deporle sull'orlo del piattino, ma nella maggior parte dei casi non c'era niente da fare, erano invischiate senza scampo. Ero sempre stata negata per gli animali domestici. SOS, scrissi con l'acqua zuccherata. Provateci voi. Ritornai nella camera grande per indossare uno dei miei vestiti a sacco. Il foulard rosa delle Guardie a Cavallo non mi serviva più: il giorno dopo la mia gita a Roma mi ero tinta i capelli, e ora erano color fango, completamente privi dei caldi riflessi promessi dalla confezione. A dire il vero, erano orrendi. Perché invece non mi ero comprata una parrucca? Lo sapevo il perché, erano troppo pesanti, mi avrebbe surriscaldato la testa. Però, una bella parrucca grigia mi avrebbe donato di più di quel colore. Salii sulla collina fino alla piazza del mercato. La strada era disseminata di volantini; forse era tempo di elezioni, quasi ogni giorno vedevo dei furgoni con gli altoparlanti arrampicarsi fino alla piazza, li sentivo diffondere motivi orecchiabili e slogan. In quanto straniera, ero estranea a tutto ciò; ma c'era dell'altro, c'era qualcosa che non andava. Camminavo tra due file di occhi ostili, e le vecchie nerovestite dalle gambe a salsicciotto non mi rendevano il saluto, nemmeno con un cenno del capo, ma fingevano di non vedermi o guardavano da un'altra parte. Una di loro coprì con la mano gli occhi di una bambina, che le sedeva accanto e si fece il segno della croce. Che avevo fatto, quale tabù avevo profanato? Arrivata alla macelleria, mi aprii un varco tra le listelle di plastica multicolori, che penzolavano nel vano della porta come liane. Il macellaio e sua moglie erano una coppia gioviale, tutti e due piccoli e grassi, sommersi in grembiuloni bianchi e sporchi di sangue. I vassoi nella vetrina non erano stracolmi come quelli delle macellerie di Toronto. Non c'era molta scelta: alcuni piccoli tagli di vitellone, un po' di interiora, un fegato, un cuore, un paio di rognoni; tre o quattro pezzi bianchi e ovali che secondo me potevano essere testicoli. Di solito il macellaio e sua moglie mi mostravano i pezzi, me li proponevano con raccomandazioni incomprensibili, sempre con gran sorrisi.
Oggi però non sorridevano. Quando mi videro entrare fecero la faccia seria e attenta. Era solo una mia fantasia oppure avevano paura di me? Non si sforzarono di aiutarmi a trovare i nomi, come facevano di solito, e fui costretta a indicare col dito. Benché avessi comprato un'enormità di carne, cinque fettine di manzo quasi trasparenti, non si lasciarono ammansire. E non potevo domandare loro che diavolo avessi fatto per mortificarli o spaventarli tanto. Non sapevo spiegarmi. Successe lo stesso dal fornaio, dal droghiere e al banchetto del fruttivendolo; il denaro usciva dalla mia povera borsa ma non cambiava nulla, c'era qualcosa che non andava. Che male avevo fatto? Esitai prima di andare alla posta, perché sapevo che là davanti c'erano le guardie. Non ho fatto proprio nulla, dissi fra me, dev'essere sorto qualche malinteso. Ne avrei parlato al signor Vitroni e le cose si sarebbero chiarite. «Delacourt,» dissi ad alta voce e con sicurezza alla posta. Dietro lo sportello, l'impiegata era come sempre: del resto gentile non era mai stata. In silenzio mi porse una busta rigonfia. Carta manila, scritta con la macchina di Sam. Uscita, strappai la busta. Ne uscirono una quantità di ritagli di giornale, tutti ben ordinati, per primi i meno recenti, insieme a un biglietto di Sam scritto a macchina. «Felicitazioni. Sei diventata un mito postumo.» Sfogliai rapidamente i ritagli. La morte della scrittrice: sospetto suicidio. Indagini in corso, diceva il primo, e continuava la stessa musica. Su alcuni appariva la fotografia in copertina di Lady Oracolo, alcuni avevano pubblicato le foto scattate da Marlene sul battello il giorno della mia morte, quelle in cui sorridevo. Si faceva un gran parlare della mia sensibilità morbosa, dei miei occhi segnati, dalle crisi di depressione a cui secondo loro ero soggetta (ma non un cenno al Real Porcospino, nulla di Louisa Delacourt... Fraser Buchanan preferiva rimanere nell'ombra). Le vendite di Lady Oracolo erano salite alle stelle; in Canada, tutti quelli che avevano il gusto del macabro correvano a comprarsi il libro. Ero andata a finire tra quella schiera di donne infelici - si contavano a dozzine - che erano rimaste uccise da una valanga di parole. Eccomi dunque sul fondo del funebre naviglio, là dove una volta avevo sognato di essere, col mio nome sulla prora; scendevo per il fiume sinuoso. Parecchi articoli ne traevano una morale: si può avere il dono del canto e della danza, ma la felicità è un'altra cosa, e insieme non si trovano quasi mai. Forse avevano ragione, possiamo passare anni in quella torre a tessere e ritessere, a guardare nello specchio, ma bastava uno sguardo fuori dalla finestra sul
mondo reale ed era finita. La maledizione, il fato inesorabile. Presentavano i fatti con tanta logica: non mi ero suicidata, eppure cominciavo a sentire che forse avrei proprio dovuto farlo. Ma poi pensavo: in questa situazione, non potrò mai tornare indietro. Tutti quei signori mi stavano coprendo di parole come si copre di fiori una bara, in tutta serietà, e naturalmente i loro articoli erano pagati come sempre. Se fossi risuscitata, fresca e giuliva, e avessi dichiarato che era tutta una finta, come avrebbero reagito? Sarebbero rimasti con un palmo di naso, mi avrebbero odiato per l'eternità e mi avrebbero reso la vita impossibile. Le donne sarebbero state indignate per un altro motivo: non c'è nulla di peggio della furia di chi deve rinunciare al culto per un defunto. Sarebbe come se ritornasse in vita James Dean, con la pancetta e trent'anni di più, oppure Marilyn a passeggio per Yonge Street coi bigodini in testa, ingrassata di venti chili. Se fossi tornata in carne e ossa, che colpo sarebbe stato per tutti coloro che avevano manifestato rimpianto e ricordato la mia eterea bellezza. Dovevo restarmene sepolta sull'Altra Sponda, forse per sempre. Difatti, la mia morte era diventata un affare per tanta gente che probabilmente, se avessi messo il naso fuori dall'acqua, mi avrebbero accoppata, immersa in una colata di cemento e mandata a finire sul fondo della rada di Toronto. Dove era andata a finire la mia morte accidentale, così ordinata, tranquilla e bene organizzata? Delle prove erano state fornite - ma come? da chi? secondo le quali non ero caduta, ma mi ero gettata in acqua. Assurdo. Certo che avevo intenzione di buttarmi, ma in realtà ci ero caduta prima del previsto. Alcuni giornalisti erano andati da Marlene, la quale aveva calcato la mano. Mi aveva lanciato un salvagente, diceva, ma non avevo nemmeno cercato di aggrapparmi ed ero affondata quasi senza dibattermi. Naturalmente di salvagenti non ce n'erano, non avrebbe dovuto inventarselo. Ma chi mai aveva fatto un'intervista a mio padre per sentirsi dichiarare che ero una nuotatrice provetta? Non mi aveva mai visto nuotare in vita sua. Certo in acqua non avevo difficoltà. Avevo imparato al liceo nelle ore di ginnastica, era uno sport che non mi dispiaceva, perché potevo farlo senza dare nell'occhio. La mia specialità era il nuoto sul dorso, ma anche il nuoto a rana. Il crawl, invece, non mi riusciva molto bene. Così, secondo loro, mi ero buttata deliberatamente, avevo rifiutato il salvagente ed ero andata a picco di mia volontà, e dal canto mio non potevo fare nulla per dimostrare loro che si sbagliavano, anche se a un informatore anonimo avevo dichiarato spontaneamente che non ero proprio tipo da sui-
cidarmi, che vivere mi piaceva troppo. E infatti non mi ero suicidata. Certo, pensavo, c'era qualcosa di vero nel mio desiderio di morire, altrimenti non avrei montato tutta la faccenda. Ma non era così; avevo fatto finta di morire per poter vivere, per una vita diversa. Travisavano tutto perfidamente, e questo mi esasperava. Tornai giù dal paese con i miei fagotti. Amavo la vita, questo il giornale lo diceva a ragione. E allora perché mi ero messa in quel pasticcio? 31 Avevo deciso di ignorare il mio suicidio, dal momento che non potevo farci nulla. Durante i tre giorni che seguirono, cercai di lavorare. Stavo seduta alla macchina per scrivere con gli occhi chiusi nell'attesa che l'intreccio si dipanasse da sé sotto ai miei occhi, come un film. Ma c'era qualcosa che lo bloccava, come un'elettricità statica. Charlotte l'aveva scampata bella in parecchie occasioni: due volte era stata sul punto di essere violentata e un'altra quasi assassinata (arsenico nel budino, che le aveva provocato un forte vomito). Il finale ce l'avevo già in mente: naturalmente Felicia sarebbe morta, destino fatale di tutte le mogli. Allora Charlotte avrebbe finalmente potuto passare allo stato coniugale. Non prima, però, di uno scontro finale con Redmond, durante il quale l'avrebbe colpito (un candeliere, un attizzatoio o un sasso, andava bene qualunque oggetto contundente) facendogli perdere i sensi e precipitandolo in un febbrone con allucinazioni: in questa fase la sofferenza avrebbe purificato i suoi lineamenti e i suoi desideri, ed egli avrebbe mormorato il suo nome. Ella l'avrebbe curato con compresse fredde, scoprendo la profondità del suo amore per lui; quindi, Redmond doveva svegliarsi con le idee in ordine e chiedere la sua mano. Questa era una possibile trama. L'altra prevedeva un ultimo tentativo di assassinarla, con l'intervento provvidenziale di Redmond; quindi, egli le avrebbe rivelato la profondità del suo amore, e questa volta il febbrone sarebbe toccato a lei. Questi erano i risultati a cui miravo, ma in pratica mi riusciva difficile farli quadrare. Tanto per cominciare, Felicia era ancora viva, e non trovavo il modo di liberarmene. La sua radiosa bellezza andava attenuandosi a poco a poco; cominciava ad avere gli occhi cerchiati, mostrava rughe tra le sopracciglia, aveva un brufolo sul collo e la sua carnagione si faceva sempre più terrea. Invece Charlotte era fresca come una rosa, scattante, anche se aveva paura degli oggetti che potevano piombarle addosso quando camminava lungo la
balaustra. Quella vita rischiosa sembrava fatta per lei; per di più, il suo sesto senso le diceva che avrebbe conseguito il trionfo, anzi i trionfi, perché oltre a Redmond le sarebbero toccati gli smeraldi, l'argenteria di casa, alcuni documenti di proprietà dimenticati in soffitta; avrebbe risistemato i mobili e regalato gli abiti di Felicia gli Invalidi Civili, avrebbe messo alla porta i servi indegni, come il cocchiere Tom, e premiato i meritevoli come Mrs. Ryerson, e in genere avrebbe fatto sentire il suo peso. Quel che doveva fare era tener duro fino a quando le mani assassine si sarebbero strette intorno alla sua gola. Charlotte stava in piedi accanto alla finestra della biblioteca guardando fuori. Due figure, una donna e un uomo, stavano entrando nel labirinto. Cercava di capire chi fossero; non per curiosità, soltanto per informarsi. Un tratto del suo carattere deciso. Sentì un rumore alle sue spalle e si girò. Era Redmond, fermo sulla soglia; il sopracciglio destro era alzato, mentre il sinistro, non si era mosso. Proprio così; aveva alzato, il sopracciglio destro con concupiscenza, in modo compiaciuto e irriguardoso, facendola arrossire da capo a piedi, mentre quell'occhio sinistro scivolava come un'ostrica vagando sul suo viso di fiamma. Redmond aveva per lei della considerazione, oppure provava nei suoi confronti soltanto una lussuria ferina? Charlotte non riusciva a capirlo. Intanto Felicia era sdraiata tra i cespugli del labirinto. Sapeva bene che il labirinto era pericoloso, ma ciò la eccitava ancora di più. Aveva la gonna e la sottogonna tirate su fino alla vita, e il fichu in disordine. Aveva appena fatto l'amore con Otterly che era sdraiato accanto a lei, esausto, la mano sinistra sul suo seno destro, il naso contro l'orecchio di lei, l'orecchio nascosto tra i suoi lunghi capelli fluenti. Redmond non sospettava di nulla, e la cosa era snervante. Felicia avrebbe voluto che gli venissero dei sospetti; almeno, sì sarebbe reso conto di quanto l'aveva trascurata. Otterly era un uomo ardente e fantasioso, certo, ma era anche un po' stupido. Con un sospiro Felicia si mise seduta, liberandosi dalla mano, dal naso e dall'orecchio di Otterly. Un grido di sorpresa le sfuggì dalle labbra. C'era un'apertura nel cespuglio, e attraverso quell'apertura un occhio la guardava. Sotto l'occhio, un ghigno da topo, che si allargava in una risata senza suono. «Mi toccherà raccontarlo al padrone, penso»; era la voce piena di gioia maligna di Tom, il cocchiere.
Non era la prima volta che questo accadeva, e Felicia sapeva per esperienza che sarebbe stata costretta a comprare il suo silenzio. Ma ora non ne aveva più voglia. Quasi quasi sperava che Redmond scoprisse tutto; allora avrebbe finalmente capito come stavano le cose. Quella sera, seduta al tavolo da toilette, Felicia spazzolava i suoi strabilianti capelli rossi lunghi fino alla vita, guardandosi allo specchio. Aveva mandato via la sua cameriera, e si sentiva tristissima; aveva il sospetto che Redmond non l'amasse più. Se l'amava ancora, era pronta a cambiar vita per lui, a ridiventare una moglie amorevole e scrupolosa. Avrebbero licenziato Charlotte, e lei avrebbe smesso di amoreggiare con i signorotti del circondario. «Mi ami?» gli chiedeva ogni sera quando lui si decideva a venire nella sua stanza, un po' traballante per via del troppo porto bevuto e tutto assorto in elucubrazioni sulla sfuggente Charlotte. Si strusciava contro di lui come una pantera, vestita soltanto della camicia da notte. Lei e Redmond dormivano in due camere separate, naturalmente; Redmond, però, non aveva ancora rinunciato alla sua abituale visita notturna: evitava di ostentare il suo desiderio di liberarsi di lei. Inoltre, provava un segreto piacere nel tormentarla. «Mi ami?» domandava Felicia, e generalmente doveva ripetere la domanda perché la prima volta Redmond non sentiva, o fingeva di non sentire. «Ma certo» le rispondeva Redmond a mezza bocca, un po' annoiato. La camicia da notte, alla quale era abituato, non gli faceva più il minimo effetto. In quei giorni Felicia odorava di giacinti appassiti; non l'aroma dolce e ricco del declino dell'autunno, ma quello della fine della primavera, che faceva pensare alle esalazioni di una palude. L'odore di Charlotte, lavanda un po' stantia, gli piaceva di più. «Che cosa farei se tu non ci fossi?» disse Felicia con aria adorante. «Erediteresti un mucchio di soldi» rispose divertito Redmond. Era rivolto verso la finestra, e si specchiava nel vetro alzando il sopracciglio sinistro. Uno spettatore inclemente avrebbe potuto osservare che in quel momento stava provando la sua parte. Pensava a Charlotte; gli piaceva farla arrossire. Era stanco degli eccessi di Felicia, della sua figura invadente come la zizzania, dei suoi capelli che sembravano divoranti lingue di fuoco, di quella sua personalità che si attaccava a tutto, come un cancro, come le piattole. «Controllati» le aveva detto più volte, ma lei era incapace di controllarsi e infieriva su di lui come la peste, lasciandolo inaridito. Charlotte, invece, con il suo ritegno, i modi schizzinosi, il visino di mussolina bianca e le pallide dita... quella sua freddezza lo affascinava.
Almeno così immaginava Felicia, tormentandosi e mordendosi il labbro inferiore, quel labbro pieno e sensuale che un tempo Redmond aveva amato accarezzare. Stasera tardava più del solito. Felicia tirava su col naso e si asciugava le lacrime col dorso della mano libera. Era troppo angosciata per pensare a fazzoletti o simili minuzie. Forse presentiva che la situazione si sarebbe risolta a favore di Charlotte, dopo tutto, e che lei sarebbe stata messa da parte per forza di cose. Una lacrima le rigava la guancia, dalle punte dei suoi capelli sprizzavano minuscole scintille elettriche. C'erano fiamme nello specchio, e acqua; le sembrava di essere in un fiume, e di guardare la sua immagine attraverso un velo liquido. Aveva paura della morte. Essere felice insieme all'uomo che amava era il suo unico desiderio, ed era stato proprio quel desiderio impossibile a rovinarle la vita: avrebbe dovuto accontentarsi, rassegnarsi alle solite menzogne. Aprii gli occhi, mi alzai dal mio posto alla macchina per scrivere e andai a farmi una tazza di caffè. Tutto sbagliato. Quella simpatia nei confronti di Felicia era impossibile, andava contro le regole, avrebbe totalmente guastato l'intreccio. Sapevo per esperienza che sarebbe andata così. Se fosse stata soltanto una amante, e non una moglie, avrei potuto salvarle la vita, ma così come stavano le cose, dovevo farla morire per forza. Nei miei libri, tutte le mogli andavano incontro allo stesso destino: la pazzia o la morte, oppure entrambe. Ma che colpe aveva per meritarsi di morire? Cominciavo ad averne abbastanza di Charlotte, con la sua virtù immacolata e i suoi modi precisini. Se mi mettevo nei suoi panni mi sembrava di avere addosso un cilicio di crine, che mi faceva venire il prurito: avrei voluto farla cadere in una pozzanghera melmosa, farle venire i crampi mestruali, farla sudare, ruttare, scoreggiare. Era asettica persino nei suoi terrori: assassini senza volto, corridoi, labirinti e porte proibite. Forse nella mia nuova vita, pensavo, nella mia vita futura, invece di appassionarmi ai mantelli sarei stata presa dai calzini bucati, dai paterecci, dagli odori fisiologici e dai disturbi della digestione. Magari avrei dovuto cercare di scrivere un romanzo vero, la storia di qualcuno che fa l'impiegato e vive amori squallidi e deludenti. Questo però era impossibile, andava contro la mia natura. Aspiravo al lieto fine, avevo bisogno del senso di liberazione che provavo quando tutto si risolveva nel migliore dei modi e potevo far piovere la felicità sui miei eroi come riso nuziale, lasciandoli alla loro beatitudine. Redmond avrebbe baciato Charlotte fino a farla uscire
di sé, dopodiché avrebbero potuto svanire entrambi. Ma quando avrebbero raggiunto la felicità, e quando avrei vissuto la mia vita? Non c'era caffè, così mi feci una tazza di tè. Poi raccolsi la biancheria che avevo seminato un po' dappertutto, sotto il tavolo, sugli schienali delle sedie, e la misi nel lavandino. La sfregai con una lamella di sapone verde nell'acqua rossastra che aveva un vago odore di ferro e di gas del sottosuolo; il water diventava ogni giorno meno efficiente. Cattive fogne, cattivi sogni: forse era per quello che non dormivo bene. Strizzai la biancheria; la sentivo tutta granulosa. Dal momento che non avevo mollette, la stesi sulla ringhiera del balcone. Poi feci il bagno, ma l'acqua era rosa e ripugnante, come sangue caldo. Mi asciugai, indossai gli ultimi slip e l'ultimo reggiseno che mi erano rimasti e mi avvolsi negli asciugamani. Mi feci un'altra tazza di tè e uscii fuori sul balcone. Seduta sulla sdraio di plastica, con la testa reclinata all'indietro e gli occhi chiusi protetti dagli occhiali neri, cercai di non pensare a nulla. Lavaggio del cervello. Sentivo provenire dalla valle un monotono rintocco metallico, un bambino che spaventava gli uccelli battendo su una lamiera. Ero istupidita dalla luce; in trasparenza, le mie palpebre ardevano di un rosso cupo. Al di sotto di me, accanto alle fondamenta della casa, sentivo i vestiti che avevo sepolto ricomporsi in forma di corpo. Era quasi completo, e per tornare in superficie scavava, come un'enorme talpa cieca, si trascinava in salita lentamente, a fatica, verso il balcone... un essere formato da tutta la carne che un tempo era stata mia e che da qualche parte doveva pur essere finita. Sarebbe stata una creatura senza lineamenti, liscia come una patata, pallida come farina, avrebbe avuto l'aspetto di una grande coscia e la faccia simile a un seno privo di capezzolo. Era la Donna Cannone. Si librò nell'aria e calò su di me, distesa sulla sdraio. Per un istante mi aleggiò intorno come un ectoplasma, come un involucro di gelatina, il mio spettro, il mio angelo; poi si posò e ne fui sommersa. Boccheggiavo all'interno di quel mio corpo primitivo: una specie di pelliccia bianca mi soffocava naso e gola. Ero ormai dissimulata, nascosta. Cancellata. 32 Redmond camminava lentamente sul piazzale. Era notte; il vento sospirava tra i cespugli, Redmond era vestito a lutto. Si sentiva disteso e sereno: ora che Felicia era morta, annegando per disgrazia proprio quando Redmond l'aveva colta in flagrante adulterio col suo fratellastro in una
barca sul fiume Papple, la sua vita sarebbe stata molto diversa. Charlotte e lui avevano fatto segreti progetti di matrimonio, ma per qualche tempo avrebbero evitato di renderli noti, a causa di possibili pettegolezzi. Guardò in alto verso la sua finestra illuminata, con occhi pieni d'amore. Dopo il matrimonio avrebbe ripudiato la sua condotta sregolata e il suo umore malinconico, mettendo finalmente la testa a partito. Charlotte avrebbe suonato il pianoforte e gli avrebbe letto il giornale mentre lui riposava accanto a un fuoco scoppiettante, i piedi calzati da pantofole ricamate dalle sue manine. Avrebbero avuto dei bambini, perché ora che suo fratello era morto, colpito alla testa dalla barca ribaltata, gli occorreva un figlio ed erede, che potesse succedergli come legittimo Conte di Otterly. Certo che le cose erano andate piuttosto bene. Strano, comunque, che il corpo di Felicia non fosse stato ritrovato: eppure aveva fatto dragare il letto del fiume. I cespugli si agitarono, e ne uscì una figura che gli sbarrò il passo. Era una donna enormemente grassa, che portava un abito di velluto azzurro dalla scollatura profonda, bagnato fradicio; i seni le spuntavano dal corpetto come due lune piene. Ciocche scomposte e umide di capelli rossi le scendevano sul volto tumefatto, e sembravano rivoli di sangue. «Redmond, non mi riconosci?» disse la donna con una voce di gola in cui Redmond riconobbe con orrore quella di Felicia. «Bene» disse con palese ipocrisia, «indubbiamente mi fa piacere che tu non sia annegata, dopotutto. Ma dove sei stata in questi due mesi?» Felicia sorvolò su quella domanda. «Baciami» disse con passione. «Non puoi immaginare quanto mi sei mancato.» Controvoglia, egli le baciò rapidamente la fronte, viscida e bianca. Aveva nei capelli un odore di piante palustri, di petrolio, di alimenti andati a male e pesci morti. Di nascosto, Redmond si asciugò le labbra sulla manica della camicia. Nel suo petto la speranza si spegneva come gli ultimi bagliori di un lumicino: e ora cosa avrebbe fatto? Si accorse con ribrezzo che la sedicente Felicia aveva cominciato a slacciare le chiusure del suo abito; armeggiava con dita maldestre intorno ai ganci. «Ti ricordi di quando eravamo sposati da poco?» sussurrò. «Ce ne venivamo sempre qui fuori di nascosto, per abbracciarci al chiaro di luna...» Gli rivolse un sorriso invitante e si tramutò lentamente in una smorfia di angoscia desolata, quando lesse il disgusto sul volto di Redmond. «Non mi vuoi» disse con voce rotta. Cominciò a piangere, il grande
corpo scosso da singhiozzi incontrollabili. Che cosa poteva fare Redmond? «Tu non volevi affatto che ritornassi» gemeva Felicia. «Senza di me sei più felice... e dire, Arthur, che mi è costato tanta fatica uscire dall'acqua e arrivare fin qui, per essere di nuovo insieme a te...» Redmond, sconcertato, arretrò. «Chi è Arthur?» chiese. Allora la donna cominciò a svanire, come nebbia, come inchiostro simpatico, come neve sciolta... Sentivo un rumore di passi sulla ghiaia del viottolo, lontanissimo, come attutito da strati e strati di cotone idrofilo. Ero ancora mezza addormentata: mi alzai dalla sdraio dimenandomi e tutti gli asciugamani mi caddero di dosso. Riuscii ad afferrarne uno mentre battevo in ritirata verso la porta, ma era troppo tardi, il signor Vitroni aveva appena girato l'angolo della casa e ora era lì, sotto al balcone. Sfoggiava tutti i suoi pennarelli, e portava sotto il braccio un pacchetto incartato in carta marrone. Indietreggiai contro la ringhiera, stringendomi addosso l'asciugamano. La parata di biancheria gocciolante non sfuggì al signor Vitroni, che fece il suo piccolo inchino. «Spero di non disturbare» disse. «Per nulla» risposi sorridendo. «Le lampadine funzionano?» «Sì» dissi, annuendo. «Viene l'acqua?» «La casa va benissimo» lo rassicurai, «qui sto a meraviglia, è una vacanza meravigliosa. Qui c'è una pace, un silenzio magnifico.» Avrei tanto voluto che se ne andasse, ma aveva tutta l'aria di volermi vendere un altro dipinto. Sapevo che non sarei stata capace di dirgli di no. Si guardava intorno quasi con timore, come se avesse paura che qualcuno lo vedesse. «Entriamo» disse. Vedendomi esitante, aggiunse: «Devo dirle una cosa.» Non volevo sedermi a tavola con lui in reggiseno, slip e asciugamano; in casa mi sarei sentita ancora più indecente che sul balcone. Gli chiesi di aspettare, entrai in bagno e mi infilai uno dei miei vestiti. Quando uscii lo trovai seduto al tavolo, col pacchetto sulle ginocchia. «È stata a Roma?» chiese. «Le è piaciuto?» Cominciavo a perdere la pazienza. Certo non era venuto per farmi domande sulle località turistiche. «È molto bello» gli dissi. «E suo marito, piace anche a suo marito?»
«Penso di sì» dissi. «Gli è piaciuta molto.» «È una città che va visitata più di una volta per conoscerla bene, come una donna» disse il signor Vitroni. Tirò fuori del tabacco e cominciò a confezionarsi una sigaretta. «Verrà presto?» «Spero proprio di sì» risposi con una risata cordiale. «Anch'io spero che venga presto. Non è bene che una donna stia da sola. La gente ne parla.» Accese la sigaretta, spazzolò le briciole di tabacco restanti nel pacchetto e se lo rimise in tasca. Mi osservava attentamente. «Questo è per lei» disse, porgendomi il pacco. Mi aspettavo un altro dipinto sul velluto nero, ma quando tolsi lo spago e lo scartai trovai i miei vestiti, i jeans e la maglietta che avevo seppellito con tanta cura sotto la casa. Erano stati lavati e stirati accuratamente. «Dove li ha trovati?» chiesi. Forse avrei potuto dire che non era roba mia. «Mio padre li ha visti nel terreno, giù, dove ci sono i carciofi. Ha capito che qualcuno aveva scavato, e ha pensato che ci fosse stato un errore, perché questi vestiti non sono vecchi. Lui non parla inglese, così mi ha chiesto di riportarglieli. Mia moglie li ha lavati.» «Lo ringrazi moltissimo» dissi. «E ringrazi anche sua moglie.» Non mi era possibile dargli delle spiegazioni, anche se era evidente che voleva un chiarimento. Era in attesa; tutti e due fissavamo i miei vestiti ripiegati. «La gente ne parlerà» disse infine. «Non capiscono perché lei ha messo gli abiti sottoterra. Sono venuti a saperlo. Non capiscono perché lei si è tagliata quei capelli tanto belli, che tutti ricordano dalla volta che è stata qui con suo marito; e poi porta sempre gli occhiali scuri, come un pipistrello, e ha cambiato nome. Sono cose che nessuno capisce. Fanno questo gesto» allungò l'indice e il pollice - «perché il suo malocchio non li faccia ammalare e porti sfortuna anche a loro. Io non credo a queste cose» disse in tono di scusa, «ma i vecchi...» Allora mi avevano riconosciuta. Ma certo che mi avevano riconosciuta: qualunque cosa accadesse in quel paese se la ricordavano per cinquemila anni. Come ero stata stupida a tornare nello stesso posto. «Mi hanno detto di chiederle di andarsene» proseguì. «Pensano che lei mi attaccherà il malocchio; mia moglie lo dice.» «Immagino che mi considerino una strega» dissi, ridendo. Ma il signor Vitroni non rise; mi stava mettendo in guardia, ma non c'era proprio nulla di divertente. «Sarebbe meglio se venisse anche suo marito» disse in tono grave. «E
poi, stamattina è stato qui un uomo. Ha chiesto di lei. Non sapeva il nome che mi ha dato lei, ma mi ha detto una signora alta così, con i capelli rossi, e ho capito che era lei.» «Cosa?» dissi, con troppa precipitazione. «Chi era?» Il signor Vitroni scrollò le spalle, studiando la mia espressione. «Non credo che fosse suo marito. E comunque lui avrebbe saputo dove abitava.» Aveva capito che ero sconvolta. Se aveva ragione, e non si trattava di Arthur, allora chi era? «Com'era?» chiesi. «E lei, che cosa gli ha detto?» «Ho pensato che prima avrei dovuto parlarne a lei» disse lentamente. «Gli ho detto che lei è a Roma, e che tornerà tra un paio di giorni. Allora, gli ho detto, avrei potuto aiutarlo. Gli ho anche detto che forse lei non è la donna che cerca.» «Grazie» dissi. «Grazie infinite.» Dopo tanta gentilezza, ero costretta a raccontargli qualcosa. Mi chinai verso di lui e abbassai la voce. «Signor Vitroni» dissi, «sono qui di nascosto. È per questo che ho usato un altro nome e mi sono tagliata i capelli. Nessuno deve sapere dove mi trovo. Penso che qualcuno voglia uccidermi.» Il signor Vitroni non fu sorpreso. Annuì, come se sapesse che cose del genere non erano affatto eccezionali. «Che cosa ha fatto?» chiese. «Nulla» gli dissi. «Non ho fatto assolutamente nulla. È una faccenda molto complicata, una faccenda di soldi. Sono piuttosto ricca, ed è per questo che quella persona, quelle persone, vogliono uccidermi, per prendersi il denaro.» Sembrava che mi credesse, e andai avanti. «L'uomo che è venuto può essere uno dei miei amici, oppure uno dei miei nemici. Che aspetto aveva?» Il signor Vitroni allargò le mani. «È difficile dirlo. Aveva una macchina rossa, come la sua.» Non voleva sbottonarsi con me; che cosa aveva in mente? «Forse dovrebbe arrestarlo la polizia» disse. «Lei è molto gentile» dissi, «ma non posso farlo. Non so ancora con certezza chi sia, e poi non ho prove. Com'era?» «Portava un soprabito» disse il signor Vitroni: un'informazione utilissima. «Un soprabito scuro, americano. Era un uomo alto, sì, giovane, non vecchio. «Aveva la barba?» chiesi. «Niente barba. Aveva i baffi, però.» Nessun elemento utile. Comunque, dalla descrizione, non doveva trattar-
si di Fraser Buchanan. «Dice che è un giornalista, di un giornale» disse il signor Vitroni. «Non credo che sia un giornalista. È sicura di non volerlo far arrestare? Si potrebbe combinare, potrei mettermi d'accordo con la polizia.» Mi stava chiedendo un compenso in denaro? Mi venne in mente che la sua non era una visita amichevole, ma l'avvio di una trattativa, e senza dubbio un negoziato di quel genere si era svolto anche con lo sconosciuto. Se lo avessi pagato, lui mi avrebbe dato una mano. Altrimenti, avrebbe detto a quell'uomo come fare a trovarmi. Malauguratamente, il denaro che avevo non era abbastanza. Presi l'improvvisa risoluzione di partire la sera stessa; sarei andata a Roma, in macchina. «No, davvero» dissi, «me la caverò da sola.» Mi alzai e gli tesi la mano. «Grazie mille» dissi, «è stato molto gentile da parte sua raccontarmi queste cose.» Aveva l'aria perplessa; probabilmente si era aspettato che scendessi a patti con lui. «Potrei aiutarla» disse. «C'è una casa più avanti, lontano dal paese. Potrebbe rimanere lì finché quell'uomo non va via, noi le porteremmo da mangiare.» «Grazie» dissi, «forse lo farò.» «Non si preoccupi» disse, «andrà tutto bene.» Quella sera feci la valigia e la misi in macchina. Ma quando feci per accendere il motore, mi accorsi che il serbatoio era vuoto. Che scema, pensai, ricordandomi che durante il mio ritorno da Roma ero già in riserva. No, pensai subito dopo, qualcuno ha prosciugato il serbatoio. 33 Non avrei mai dovuto dirgli che ero ricca. Capivo tutto, ora, il loro piano era chiarissimo. Fin dall'inizio era stato quello il loro progetto. Il vecchio dei carciofi, padre del signor Vitroni, era una spia, e l'avevano mandato a sorvegliarmi: non appena mi aveva vista senza travestimento, avevano dato inizio al complotto. Se avessi accettato di nascondermi in quella casa isolata, sarei diventata loro prigioniera. Chiedere a qualcuno della benzina sarebbe stata una follia: avrebbero capito che avevo intenzione di partire. Per di più, dal momento che in paese non c'erano distributori, avrebbero dovuto mandare qualcuno a prenderla, e il signor Vitroni sarebbe senza dubbio venuto a saperlo. Sarebbe venuto a dirmi che non ne avevano e alle mie preghiere avrebbe risposto dicendo: «La benzina, la benzina costa ca-
ra.» Anche quei militari, o poliziotti che fossero, facevano parte della congiura; gli avrebbero dato una mano, e nessuno avrebbe potuto impedirglielo. In pratica, avevo detto al signor Vitroni che nessuno sapeva dove mi trovavo: per lui era un invito a nozze. All'arrivo di Arthur gli avrebbero detto che ero partita per ignota destinazione; nel frattempo mi avrebbero legata, ridotta all'impotenza e costretta a inviare richieste di denaro, che non sarebbe arrivato: che cosa avrebbero fatto allora? Mi avrebbero uccisa e sepolta sotto un tumolo di ghiaia tra gli olivi? Oppure mi avrebbero chiusa in gabbia per farmi ingrassare, come usa fra le tribù primitive dell'Africa, nutrendomi però a base di enormi piatti di pasta? Avrebbero forse deciso di farmi indossare biancheria di raso nero come quella pubblicizzata in fondo ai fotoromanzi, avrebbero fatto pagare il biglietto d'ingresso agli uomini del paese, sarei diventata una puttana alla Fellini, mastodontica e informe? Questa è una faccenda seria, mi dissi. Torna in te. Forse stavo diventando isterica. Non volevo passare il resto della mia vita chiusa in una gabbia a fare la puttana cicciona, la grande Madre Terra a profitto di chi vendeva i biglietti d'ingresso. Dovevo escogitare un piano. Comunque, avevo due giorni di tempo, e me ne andai a letto. Inutile cercare di fuggire in quel buio pesto: sarei riuscita soltanto a smarrirmi. O a farmi catturare. Mi svegliai nel cuore della notte. Fuori dalla finestra, sullo spiazzo in basso, sentivo un rumore di passi. Poi sentii uno strascichio: qualcuno si stava arrampicando sul graticcio! Avevo chiuso la porta-finestra a chiave? Non avevo voglia di alzarmi dal letto per controllare. Mi appoggiai alla parete fissando la finestra, contro la quale cominciarono ad apparire, indistinte, prima la sagoma di una testa, e poi le spalle... Adesso, al chiarore della luna, riuscivo a veder di chi si trattava; tirai un respiro di sollievo. Era soltanto mia madre. Portava il suo lindo tailleur blu marino con la vita sottile e le spalle imbottite, e aveva cappello e guanti bianchi. Era truccata, intorno alla bocca se n'era disegnata un'altra col rossetto, ma la bocca vera traspariva. Piangeva silenziosamente, premendo la faccia contro il vetro come un bambino, e dai suoi occhi colavano lacrime nere, tinte dal mascara. «Che cosa vuoi?» chiesi; lei non rispose. Allungò le braccia verso di me, voleva che andassi da lei; voleva che facessimo la pace. Mi avviai verso la porta. Adesso, con la faccia tutta impiastricciata, mia
madre sorrideva; aveva capito che le volevo bene? Le volevo bene, ma c'era quel vetro tra di noi, dovevo passare dall'altra parte. Sentivo un gran desiderio di consolarla. Insieme saremmo scese lungo il tunnel, nell'oscurità. Stavolta le avrei obbedito. La portafinestra era chiusa a chiave. A furia di strattoni, si aprì. Mi ritrovai in piedi sul balcone, con la camicia da notte strappata; il vento mi faceva rabbrividire. Era buio, non c'era nemmeno un raggio di luna. Ora ero completamente sveglia, e battevo i denti dal freddo, ma anche dalla paura. Rientrai nell'appartamento e mi misi a letto. Stavolta mi era venuta molto vicina, ce l'aveva quasi fatta. Non mi aveva mai lasciata del tutto libera, perché ero stata io a trattenerla. Alle mie spalle, riflessa nello specchio, avevo visto lei; lei era la presenza che mi attendeva dietro ogni angolo, lei aveva sussurrato le parole. Era lei la signora sulla nave, sul battello funebre, la tragica dama dalle chiome fluenti e dagli occhi segnati, la signora della torre. Uno sguardo dalla finestra le era stato fatale; la vita era la sua maledizione. Come avrei potuto ripudiarla? Eppure anche lei aveva bisogno di essere liberata; per troppo tempo, era stata soltanto il mio riflesso. Se doveva per forza venire qualcuno dall'Altra Sponda a perseguitarmi, pensavo, perché non veniva zia Lou? Di lei mi fidavo, avremmo fatto una bella chiacchierata, mi avrebbe dato dei consigli, mi avrebbe detto quello che dovevo fare. Ma non riuscivo a immaginarmela in quel ruolo. «Puoi cavartela da sola» avrebbe detto, e tutti i miei sforzi per convincerla del contrario sarebbero stati inutili. Non avrebbe mai ammesso che la mia vita era un fallimento. Mia madre, invece... Perché mai ero condannata a sognare mia madre, a farla entrare nei miei incubi, ad uscire di casa in preda al sonnambulismo per andarle incontro? Mia madre era un gorgo, una voragine oscura, non sarei mai stata in grado di renderla felice. Né lei, né chiunque altro. Forse era ora di farla finita con i miei tentativi. 34 La mattina dopo, per prender forza e calmarmi, mandai giù parecchie tazze di tè. Il trucco era rimanere più calma possibile. Avrei fatto finta di niente, come se tutto andasse benone, e non avrei dato segni di premura; avrei fatto la spesa e sarei andata come al solito alla posta, così avrebbero
creduto che collaboravo al loro piano. Magari sarei andata a cercare il signor Vitroni per chiedergli di quella casa, in modo da far credere loro che mi adeguavo a tutto. Avrei atteso le ore pomeridiane, quando c'era più movimento, e poi non avrei fatto altro che avviarmi a piedi giù per la collina, con la mia borsa ma senza valigia, e fare l'autostop fino a Roma. Non potevo portare molto con me, ma la mia borsa era piuttosto capiente. Esaminai i cassetti della scrivania, facendo la cernita di quel che avrei dovuto lasciare. Misi insieme tre paia di slip e ne feci un fagotto. Potevo fare a meno delle camicie da notte; non del taccuino nero di Fraser Buchanan. La macchina per scrivere avrei dovuto lasciarla lì, ma avrei preso con me Preda d'amore. Presi in mano il manoscritto, con l'intenzione di arrotolarlo a tubo per facilitare l'imballaggio. Poi mi sedetti e cominciai a sfogliarlo. Adesso capivo dov'era l'errore, avevo scoperto cosa dovevo fare. Charlotte avrebbe dovuto entrare nel labirinto, non c'era scampo. Aveva covato quel desiderio sin dal momento in cui aveva messo piede a Redmond Grange, e nessun ammonimento, da qualunque parte provenisse, né i racconti raccapriccianti della servitù, né le insinuazioni beffarde di Felicia, avrebbero potuto farla desistere. Emozioni contrastanti la animavano: entrare nel labirinto significava andare incontro fatalmente alla morte, oppure scoprire la soluzione di un enigma, che, una volta conosciuto, le avrebbe permesso di vivere? Altra questione, e più importante: avrebbe sposato Redmond soltanto a patto di restar fuori dal labirinto, oppure doveva entrarci? Probabilmente, si sarebbe conquistata il suo amore soltanto mettendo a repentaglio la propria vita e offrendo a Redmond l'occasione di salvarla. Egli avrebbe dischiuso a forza le mani già serrate intorno al collo di Charlotte (ma di chi sarebbero state, quelle mani?) e le avrebbe rimproverato di essere una piccola idiota senza cervello, pur ammettendo che aveva un certo coraggio. Charlotte sarebbe diventata Lady Redmond: la quarta. Non andare nel labirinto, Charlotte, ci entri a tuo rischio e pericolo, le dicevo. Fino a ora ti ho sempre tirata fuori, ma adesso non fare più affidamento su di me. Lei, come suo solito, non mi dette retta; si alzò, ripose il suo ricamo e si preparò a uscire. Non dire che non ti avevo messa in guardia, la ammonii. Niente da fare, dovevo andare fino in fondo. Chiusi gli occhi... Era mezzogiorno, quando Charlotte entrò nel labirinto. Per precauzione legò vicino all'entrata il capo di un gomitolo di lana che si era fatto pre-
stare dalla signora Ryerson, dicendole che le serviva per rammendare il suo scialle: non aveva la minima intenzione di smarrirsi. Le siepi del labirinto, formate da un qualche arbusto spinoso e sempreverde, erano davvero molto inselvatichite. Devono essere anni e anni che nessuno viene qui, pensava Charlotte aprendosi un varco nell'intrico dei rami che le si attaccavano al vestito, quasi volessero trattenerla. Svoltò a destra, poi a sinistra, continuando a srotolare il gomitolo a mano a mano che avanzava. All'esterno il cielo era coperto e soffiava il gelido vento di febbraio; ma dentro il labirinto, al riparo delle sue spesse pareti di foglie e rami, Charlotte avvertiva un certo tepore. Il sole era spuntato fuori dalle nuvole, il cielo si apriva; poco lontano, si sentiva il canto di un uccello. Charlotte aveva perso la nozione del tempo: le sembrava di aver camminato per ore e ore lungo quel sentiero coperto di ghiaia, chiuso tra due muraglie verdi e irte di spini. Forse era soltanto uno scherzo della sua immaginazione, ma ora il labirinto appariva più ordinato, più curato... qua e là si sì vedevano anche dei fiori. Senza dubbio era ancora troppo presto per i fiori. Provò una strana sensazione, come se occhi invisibili la stessero osservando. Le sovvennero i racconti della signora Ryerson sui folletti; poi, però, rise di se stessa per aver ceduto, anche solo per un attimo, alla superstizione. Era un comunissimo labirinto, non aveva nulla di particolare. La prima e la seconda Lady Redmond dovevano certamente aver perso la vita in qualche altra maniera. Orinai non doveva essere lontana dal centro del labirinto. Svoltò un altro angolo e infatti eccolo lì, dinanzi a lei, uno spiazzo ellittico ricoperto di ghiaia e bordato di un'aiuola con le giunchiglie già in fiore. Con delusione, Charlotte vide che era vuoto. Si guardò intorno attentamente, alla ricerca di qualche indizio che ne spiegasse la pessima fama, ma non trovò nulla. Tornando sui propri passi, cominciava ad allontanarsi, quando d'improvviso la assalì un grande terrore: voleva uscire di lì, prima che fosse troppo tardi. Si mise a correre, cercando al tempo stesso di riavvolgere il gomitolo, e questo fu un errore: i piedi le rimasero irrimediabilmente impigliati nel filo. Mentre cadeva, delle mani d'acciaio si serrarono attorno alla sua gola... tentò di urlare, si divincolò, con gli occhi ormai quasi fuori dalla testa cercò disperatamente Redmond. Alle sue spalle risuonò una risata di scherno - era la voce di Felicia! «Non c'è spazio per tutte e due» diceva, «una di noi due doveva morire.» Proprio mentre Charlotte stava sprofondando nell'incoscienza, Felicia
venne gettata da una parte come un fagotto di vestiti vecchi, e Charlotte sì ritrovò con lo sguardo rivolto verso l'alto, perso negli occhi scuri di Redmond. «Mia adorata» le diceva in un rauco sussurro. Forti braccia la sollevarono, e contro le labbra sentì la calda pressione di quelle di lui... Così avrebbe dovuto essere, così era sempre stato, ma per qualche motivo le cose non quadravano. Ad un certo punto avevo fatto una mossa sbagliata, doveva esserci qualcosa, un fatto, un indizio, che avevo trascurato. Avevo bisogno di calarmi nella scena, di trovare uno sfondo adatto a ripercorrere ogni gesto. Mi venne in mente il parco del cardinale a Tivoli, con le sue sfingi, le fontane e le dee mammellute: sarebbe andato benone, lì di sentieri ce n'erano parecchi. Ci sarei andata il pomeriggio stesso... Ma stavo dimenticando l'uomo misterioso e la mia macchina senza benzina; mi conveniva lasciare in sospeso il romanzo e concentrarmi sulla mia fuga. Stavolta sarei davvero sparita senza lasciare traccia. Nessuno, proprio nessuno avrebbe saputo dov'ero, nemmeno Sam, nemmeno Arthur. Questa volta, sarei stata completamente libera; sarei sfuggita alle grinfie del mio passato, non me ne sarebbe rimasto attaccato nemmeno un brandello. Avrei potuto fare tutto quel che volevo: magari sarei diventata cameriera in un bar, oppure sarei tornata a Toronto e avrei fatto la massaggiatrice, forse era quella la mia strada. Oppure avrei potuto confondermi nell'ambiente italiano, sposare un fruttivendolo: saremmo andati ad abitare in una casetta coi muri di pietra, avrei avuto dei bambini e sarei ingrassata, avremmo mangiato pietanze fumanti, ci saremmo unti il corpo d'olio, avremmo riso della morte e saremmo vissuti nel presente, e mi sarei raccolta i capelli in un crocchia e mi sarebbero cresciuti i baffi, avrei portato un grembiule con la pettorina, verde, a fiorellini. Non ci sarebbe stato nulla di straordinario, la domenica sarei andata in chiesa, avremmo bevuto dell'aspro vino rosso, sarei diventata zia, nonna: tutti mi avrebbero rispettata. Non so perché, ma quell'ipotesi non mi convinceva. Come mai le mie fantasie si trasformavano sempre in trappole? In quest'ultimo sogno mi vedevo scappare di casa scavalcando la finestra, con la mia crocchia e il grembiule a pettorina, incurante dei pianti di figli e nipoti che mi lasciavo dietro. Tanto valeva guardare in faccia la realtà, pensai: ero un'artista, un'artista della fuga. Qualche volta avevo parlato d'amore e di responsabilità, ma la vera passione della mia vita era quella del mago Houdini per le corde e le casse sigillate: lasciarsi cingere dall'abbraccio delle catene, per
poi sgusciare fuori. Non era forse questo quel che avevo sempre fatto? Questo pensiero non mi deprimeva per nulla, anzi, mi sentivo curiosamente allegra, nonostante la mia paura. Capii che era il pericolo a farmi quell'effetto. Mi lavai i capelli canterellando, come se mi stessi preparando a una serata importante. Venne via molta della tintura marrone, ma ormai faceva lo stesso. Trotterellando, coi piedi scalzi e bagnati, uscii sul balcone per asciugarmi i capelli. C'era un po' di brezza; lontano, in fondo alla vale, risuonavano dei colpi di fucile: probabilmente qualcuno stava sparando a un uccello. Da quelle parti davano la caccia a qualunque cosa si muovesse, o quasi: gli uccelli canterini se li mangiavano arrosto. Quante melodie divorate da bocche fameliche! Anche gli occhi e le orecchie avevano una loro avidità, ma era meno evidente. Da ora in poi, pensavo, avrei danzato esclusivamente per me stessa. «Mi concede questo valzer?» mormorai tra me e me. Scalza, mi misi a volteggiare sulle punte dei piedi, dapprima in via sperimentale. Nell'aria apparve una miriade di scintille. Portai le braccia in alto e le feci oscillare al ritmo di quella musica delicata: ricordavo la melodia, ricordavo ogni passo, ogni gesto. Di lassù la terraferma era lontanissima; avevo un po' di capogiro. Chiusi gli occhi. Mi spuntarono ali sulle spalle, e un braccio scivolò intorno alla mia vita... Merda. Ero saltata dritta dritta sui cocci, e a piedi nudi, per giunta. Altro che farfalla. Rientrai zoppicando nella camera grande a cercare un asciugamano, lasciandomi dietro una scia di impronte sanguinanti. Le piante dei miei piedi avevano tutto l'aspetto di carne macinata; mi lavai i piedi nella vasca da bagno. Eccole, le vere scarpette rosse, il castigo per i piedi ballerini. Puoi darti alla danza, oppure trovare un buon marito che ti ama. Però hai paura di ballare, a causa dell'innaturale timore che, se balli, ti taglieranno i piedi per impedirti di ballare. Alla fine vinci la paura, balli, e loro ti tagliano i piedi. Anche il buon marito che ti ama se ne va: colpa tua, hai voluto ballare. Io, però, avevo scelto l'amore, avevo voluto il buon marito: come mai quella non era stata la scelta giusta? Comunque, non avevo mai avuto la stoffa della danzatrice: un orso nell'arena, anche quando sembra ballare, in realtà si regge sulle zampe posteriori e tenta di schivare le frecce. Mi sedetti sul bordo della vasca, incapace di frenare le lacrime che mi sgorgavano dagli occhi e il sangue che colava dai miei piedi tagliuzzati. Entrai nell'altra stanza e mi stesi sul letto coi piedi appoggiati sul cusci-
no, in modo che il sangue defluisse in senso contrario. E adesso, con i piedi feriti, come avrei fatto a fuggire? 35 Un paio d'ore dopo mi alzai. I piedi mi facevano meno male di quanto prevedessi, riuscivo ancora a camminare. Feci un po' di allenamento zoppicando avanti e indietro per la stanza. A ogni passo sentivo dei dolorini lancinanti. Il ritorno della Sirenetta, pensai, una sirenetta un po' grossa. Avrei dovuto salire in paese, affrontare gli sguardi delle vecchie che avrebbero fatto le corna, avrebbero detto ai ragazzini di scagliare pietre e mi avrebbero augurato la malasorte. Cosa vedevano quegli occhi dalle finestre aperte nei muri di pietra? Un mostro in forma di donna, più grande del normale, certo più grande della media locale, che scendeva la collina a lunghe falcate, i capelli diritti ed elettrici, fluidi malefici ad alta tensione che le sprizzavano dalle dita, e dietro gli occhiali scuri da turista, da mafiosa, un paio d'occhi verdi accesi, incandescenti come quelli di un gatto. State in guardia, vecchi cotechini in calze nere, altrimenti vi fulmino, malgrado i vostri scongiuri e le preghiere che borbottate ai santi. Credevano forse che di notte svolazzassi qua e là come una falena, per succhiar sangue dai loro alluci? Se mi fossi messa un vestito nero e lunghe calze nere, mi avrebbero approvata? Tutto considerato, pensavo, forse mia madre non mi aveva chiamata Joan per via di Joan Crawford; quella sua spiegazione era solo una copertura. Aveva voluto che portassi il nome di Giovanna d'Arco: possibile che non sapesse che cosa succedeva a donne come quella? Venivano accusate di essere delle streghe, venivano legate al palo del rogo e ardevano dando una bella fiamma; in fin dei conti una stella non è che una sfera di gas che brucia. Ma ero una vigliacca, preferivo non riuscire a impormi piuttosto che essere arsa, preferivo restarmene seduta in tribuna a mangiare il mio pacchetto di popcorn ed essere una spettatrice come tutti gli altri. Ci si mette nei pasticci a sentire le voci; soprattutto, poi, se si crede a quel che dicono. Gli Inglesi applaudirono quando Giovanna salì al cielo, come un vulcano, un razzo, un budino flambé. Sparsero le sue ceneri nel fiume; di lei rimase soltanto il cuore. Salii per la collina, camminai davanti alle vecchie nerovestite ignorando i loro sguardi ostili, e lungo la strada che portava alla posta. I poliziotti, o soldati che fossero, erano al loro solito posto; dietro lo sportello trovai il
solito donnone. Oramai sapeva chi ero, non c'era bisogno che chiedessi. Mi porse un'altra lettera di Sam, in una busta di carta marrone. Sembrava, al tatto, che contenesse ancora ritagli di giornale, perciò la aprii strappandola da un lato. Si trattava effettivamente di nuovi ritagli, ma in cima, scritta sulla carta pesante di uno studio legale, c'era una lettera: Gentile signorina Delacourt, Le invio il presente materiale su richiesta del mio cliente, il signor Sam Spinsky. Egli ritiene che un Suo intervento potrebbe essergli di aiuto nella difficile situazione in cui si è venuto a trovare. Mi ha pregato inoltre di non divulgare il suo attuale domicilio fino a nuovo ordine. La firma era uno scarabocchio; sotto la lettera: JOAN FORSTER FORSE VITTIMA DI UNA PURGA TERRORISTA! Trascurando ogni decoro mi misi a sedere sulla panchina, proprio accanto a un poliziotto. Era spaventoso. Sam e Marlene erano stati arrestati per omicidio, li accusavano di avermi uccisa, erano finiti in prigione per davvero. Per un attimo pensai a quanto sarebbe stata contenta Marlene; certo, però, esser finita dentro per causa mia e non per qualche sciopero o manifestazione l'avrebbe seccata. A ogni modo, la prigione era pur sempre la prigione. Non avevano ancora parlato, questo era chiaro. Era stata la famiglia sulla spiaggietta, quelli del pic-nic. Mi avevano visto annaspare nell'acqua e andare a fondo. Avevano letto la notizia sul giornale, l'intervista in cui Marlene dichiarava che mi avevano lanciato un salvagente. Ma il salvagente non c'era, e quando la polizia aveva chiesto informazioni al noleggio barche, quelli avevano ammesso che sulla barca di salvagenti non ce n'erano mai stati. Invece avevano trovato il mio vestito a prua, e la cosa li aveva insospettiti. La famiglia di gitanti si chiamava Morgan. Il signor Morgan diceva di aver sentito un urlo (impossibile: eravamo troppo lontani, c'era troppo vento), e di aver alzato lo sguardo giusto in tempo per vedere Sam e Marlene che si sporgevano dalla barca, un attimo dopo avermi spinta nel lago. Avevano pubblicato la foto del signor Morgan oltre alla mia, quella scattata il giorno della mia morte, in cui sor-
ridevo. Il signor Morgan aveva l'aria grave e compresa: era arrivato il suo momento, finalmente era diventato importante, poteva vivere il suo sogno da protagonista. Povero Sam. A quest'ora gli avevano già svuotato le tasche e tolto i lacci delle scarpe, l'avevano cosparso di polvere anti-pidocchi e gli avevano ispezionato l'ano con un dito. Era stato sottoposto a un interrogatorio serrato da parte di due poliziotti, uno che si fingeva umano e gli offriva caffè e sigarette, l'altro che lo strapazzava, ed era tutta colpa della mia stupidità, della mia vigliaccheria. Avrei fatto meglio a rimanere dov'ero e ad affrontare la realtà. Povero Sam, così mite, con le sue idee violente; non avrebbe fatto male a una mosca. Si parlava di me come «personaggio chiave» in un misterioso complotto dinamitardo. Il padre di Marlene, a quanto pareva, aveva spontaneamente informato la polizia della sparizione di un certo quantitativo di dinamite, e Marlene era crollata e aveva confessato di averla presa lei. Solo che non era in grado di farla saltar fuori. Aveva detto alla polizia che la dinamite era stata affidata a me, e aveva parlato anche dell'auto di seconda mano, ma non erano riusciti a localizzarla. La polizia supponeva che la «cellula» di Sam, come la definivano, mi avesse fatta fuori perché sapevo troppo e avevo cominciato a tradire. Avevano fermato Arthur per accertamenti, ma poi l'avevano rilasciato. La sua innocenza, e anche la sua estraneità al fatto, erano evidenti. Dovevo tornare indietro e farli uscire. Ma non potevo tornare indietro. Forse avrei potuto spedire alla polizia qualche pezzetto di me come segno di riconoscimento, tanto perché sapessero che ero ancora viva. Un dito, una firma autografa, un dente? Mi alzai dalla panca, infilando i ritagli in borsa alla rinfusa. Uscii e feci per avviarmi in cima al paese. Poi vidi il signor Vitroni. Era seduto al tavolino di un caffè all'aperto. Con lui c'era un altro uomo. Non lo vedevo bene, mi dava le spalle, ma senza dubbio era lui. Il signor Vitroni mi aveva vista, stava guardando dritto dritto verso di me. Attraversai la piazza frettolosamente, quasi di corsa. Mi girai soltanto una volta, e vidi che il signor Vitroni si alzava e dava la mano allo sconosciuto... Svoltai l'angolo e cominciai a correre per davvero. Devo restare calma, devo mantenere il controllo, devo controllarmi. A contatto con l'acciottolato, i piedi feriti mi facevano urlare ad ogni passo.
36 Finalmente, raggiunsi il balcone. Il sole calante creava sui vetri un riverbero che lo illuminava tutto di una luce vivida e frastagliata, come lingue di fuoco. Al mio fianco, nel vetro della finestra, vedevo correre il mio riflesso, il volto scuro, il capo circondato da una rossa aureola di capelli arruffati. Tirai fuori la chiave e aprii la porta. Non c'era nessuno nell'appartamento, non ancora, non tutto era perduto... quell'uomo in fin dei conti, non l'avevo visto bene. Forse potevo ancora sfuggirgli. Avrei atteso finché non passava accanto al balcone, e poi sarei sgattaiolata in bagno, sprangandomi la porta alle spalle. Mentre lui cercava di entrare, avrei potuto salire sul water e sgusciar fuori dalla finestrella. Andai in bagno per dare un'occhiata alla finestra. Era troppo stretta, sarei rimasta intrappolata. Non volevo farmi arrestare, o magari dover concedere interviste, sospesa in una finestra, mezza fuori e mezza dentro. Sarebbe stato del tutto contrario al mio decoro. Forse avrei potuto nascondermi tra i carciofi. Forse avrei potuto scendere di corsa giù per la collina, magari sarei riuscita a sparire, a non farmi trovare mai più. Ma se fossi corsa via, presto o tardi mi avrebbero riacciuffata. Questa volta volevo difendermi: ero stanca di battere in ritirata. Andai in cucina e tirai fuori dalla pattumiera la bottiglia di Cinzano vuota, afferrandola saldamente per il collo. Mi rannicchiai dietro la porta, in modo da non poter essere vista dalla finestra, e attesi. Passò del tempo e non accadde nulla. Forse mi sbagliavo, forse non era quello l'uomo misterioso. O magari l'uomo non esisteva, era tutta un'invenzione del signor Vitroni per spaventarmi. Cominciavo a sentirmi inquieta. Eccomi di nuovo rannicchiata dietro una porta chiusa, ad ascoltare le voci dall'altra parte; avevo l'impressione che quella situazione si fosse ripresentata un po' troppo spesso nella mia vita. Di per sé, quella porta non aveva niente di speciale. In alto, attraverso il pannello di vetro, potevo scorgere un pezzo del mondo di fuori: cielo azzurro, qualche nuvola di un grigio rosato. Era mezzogiorno quando entrò nel labirinto, risoluta a scoprirne finalmente il segreto. Quello era un pericolo costante, troppo a lungo tollerato. Spesso aveva pregato Redmond di farlo abbattere, ma egli non le aveva
dato ascolto; le aveva risposto che il labirinto faceva parte del patrimonio familiare da generazioni. Sembrava che non gli importasse nulla di tutti coloro che vi si erano smarriti per sempre. Seguì per un lungo tratto il sentiero tortuoso, senza incidenti di sorta. Doveva assolutamente ricordare il cammino che aveva percorso, e a questo scopo cercò di imprimersi nella memoria dei piccoli particolari, la forma di una siepe, il colore di un fiore. Il sentiero era stato da poco ricoperto di ghiaia; qua e là c'erano delle giunchiglie in fiore. D'improvviso, si ritrovò nella radura centrale. Lungo un lato correva un sedile di pietra sul quale erano sedute quattro donne. Le prime due assomigliavano moltissimo a lei: avevano i capelli rossi, gli occhi verdi, i denti piccoli e bianchi. La terza era una donna di mezz'età; indossava un curioso indumento che le arrivava a metà polpaccio e portava attorno al collo un logoro pezzo di pelliccia. La quarta era straordinariamente obesa. Aveva indosso una calzamaglia rosa e un gonnellino costellato di paillettes. Le spuntavano dal capo un paio di antenne da farfalla, e alla sua schiena erano attaccate delle ali palesemente posticce. Felicia rimase un po' interdetta per via dell'aspetto della donna in rosa, ma era troppo beneducata per manifestare il suo stupore. Le donne mormoravano tra di loro. «Ti stavamo aspettando» dissero; la prima si fece da parte, per lasciarle un posto. «Sapevamo che ora sarebbe toccato a te.» «Chi siete?» domandò Felicia. «Siamo Lady Redmond» disse con tristezza la donna di mezz'età. «Tutte e quattro,» soggiunse la donna grassa con le ali. «Dev'esserci un errore» protestò Felicia. «Lady Redmond sono io.» «Oh sì, lo sappiamo» disse la prima donna. «Ma ogni uomo ha più di una moglie. C'è chi le ha tutte contemporaneamente, chi le prende una per volta, alcuni addirittura hanno delle mogli di cui ignorano l'esistenza.» «Come mai siete finite qui dentro?» chiese Felicia. «Perché non tornate indietro, nel mondo di fuori?» «Tornare indietro?» disse la prima. «Ci abbiamo provato tutte, a tornare indietro. È stato quello, il nostro errore.» Felicia guardò dietro di sé: in effetti i rami erano cresciuti tanto da soffocare il sentiero dal quale era entrata, ed ora non avrebbe nemmeno saputo dire dove si trovava. Era rimasta chiusa in trappola insieme a quelle donne... E non c'era forse qualcosa di strano in loro? Non era forse troppo bianca la loro pelle, troppo tenue il loro sorriso... Si accorse che attraver-
so i loro corpi diafani poteva intravedere il profilo della panca di pietra. «Il solo modo di uscire» disse la prima donna, «è passare per quella porta.» Felicia dette un'occhiata alla porta. Si trovava all'altro lato dello spiazzo ghiaioso e, oltre al telaio sul quale era fissata, non aveva altri sostegni. Felicia le girò intorno: era uguale da una parte e dall'altra. Era una porta semplice, con la maniglia a pomolo; in alto c'era un pannello di vetro attraverso il quale poteva scorgere il cielo azzurro e qualche nuvola di un grigio rosato. Afferrò il pomello e lo girò. Con uno scatto della serratura la porta si spalancò verso l'esterno... Dinanzi a lei, ritto sulla soglia, Redmond la aspettava. Felicia fu sul punto di gettarsi tra le braccia singhiozzando di sollievo, quando notò nei suoi occhi una strana espressione. Allora capì. Era Redmond l'assassino, un assassino mascherato che voleva ucciderla come aveva fatto con le altre mogli... Poi, lei sarebbe stata costretta a restare per sempre con loro al centro del labirinto... Voleva sostituirla con quell'altra, la sua snella, impeccabile rivale che sarebbe diventata la sua prossima moglie... «Non mi toccare» esclamò facendo un passo indietro. Non voleva piegarsi al suo destino. Finché rimaneva al di qua della porta, era al sicuro. Adescandola con astute metamorfosi, Redmond cercava di farla entrare nel suo raggio d'azione. Apparvero sul suo volto prima una mascherina di garza bianca, poi degli occhiali dalle lenti color lilla e infine una barba e un paio di baffi rossicci, che svanirono lasciando il posto a occhi di brace e denti a ghiacciolo. Poi il mantello da sera di Redmond sparì, ed egli le rivolse uno sguardo pieno di tristezza; ora portava un maglione girocollo. «Arthur?» disse Felicia. Avrebbe mai potuto perdonarla? Sulle spalle di Redmond riapparve il mantello da sera. Aveva la bocca dura, rapace, gli occhi ardenti. «Lascia che ti porti via» le sussurrò. «Lascia che ti salvi. Balleremo insieme per sempre, eternamente.» «Eternamente» ripeté Felicia, ormai sul punto di cedere. «Per sempre.» Ecco le parole che un tempo aveva tanto desiderato; per tutta la vita aveva atteso che qualcuno le dicesse... Si vedeva volteggiare lentamente su una pista da ballo, sorretta alla vita da un braccio vigoroso... «No» disse. «So chi sei.» La pelle si staccò dal volto di Redmond, mettendo allo scoperto il suo teschio; mosse un passo verso di lei, protendendo le mani verso la sua gola...
Aprii gli occhi. Sentivo un rumore di passi; qualcuno stava scendendo il viottolo ghiaioso. Erano davvero dei passi, adesso li sentivo sul balcone. Di fronte alla porta, si fermarono. Qualcuno bussò con discrezione, prima un colpo, poi due. Aveva ancora qualche scelta. Potevo far finta di non essere in casa. Potevo aspettare senza far nulla. Potevo contraffare la mia voce e spacciarmi per un'altra persona. Ma se avessi girato la maniglia, la porta si sarebbe spalancata verso l'esterno con uno scatto della serratura e sarei stata costretta ad affrontare l'uomo che mi stava aspettando, che attentava alla mia vita. Aprii la porta. Sapevo chi sarebbe stato. 37 Non avevo intenzione di ferire quell'uomo con la bottiglia di Cinzano. Voglio dire, ero pronta a colpire qualcuno, ma non lui in particolare. Non l'avevo mai visto prima in vita mia e mi era del tutto sconosciuto. Forse ero stata troppo irruenta: mi era sembrato un altro... E certo non avrei pensato di fargli tanto male; ci sono casi in cui uno non ha idea della propria forza. La cosa mi spaventò moltissimo, specialmente quando vidi il sangue. Non me la sentivo di lasciarlo lì e basta, poteva venirgli una commozione cerebrale o morire dissanguato, così mandai il signor Vitroni a chiamare un medico. Pensavo che quell'uomo volesse rapinarmi, gli spiegai; per fortuna era svenuto e non poteva contraddirmi. Durante la convalescenza, ebbe la cortesia di non sporgere denuncia. Da principio, pensavo che lo facesse per amore della notizia: i giornalisti sono fatti così. Gli ho raccontato troppo, naturalmente, è stato uno sfogo di nervi. Ne verrà fuori una storia intricata, quando l'avrà scritta; e il bello è che questa volta non ho raccontato bugie. Beh, almeno non troppe. Alcuni nomi, qualche particolare, ma niente di più. Sarei stata ancora in tempo per tirarmi fuori, credo; avrei potuto dire che soffrivo di amnesia o inventarmi un'altra storia... Oppure svignarmela; non sarebbe stato in grado di rintracciarmi. Mi sorprende non averlo fatto, perché l'idea che mi si potesse scoprire mi aveva sempre terrorizzata. Ad ogni modo non potevo andarmene e basta, lasciandolo lì solo in ospedale senza compagnia, dopo che l'avevo quasi ammazzato per errore. Comunque, dev'essere stato uno choc per lui svegliarsi in un letto, con
sette punti, e me ne sentivo colpevole. Anche il suo soprabito era conciato male, ma lo assicurai che col lavaggio a secco non sarebbe rimasta traccia. Mi ero offerta di pagare io la lavanderia, ma lui non me l'ha permesso. Allora gli avevo portato dei fiori; rose non avevo potuto trovarne, e gli avevo comprato dei fiori gialli, vagamente simili a girasoli. Erano un poco appassiti, e gli dissi che bisognava chiedere all'infermiera di metterli nell'acqua. Sembrava gradirli. Era stato molto gentile a prestarmi il denaro per il biglietto d'aereo. Glielo rimborserò, una volta sistemate le cose. Anzitutto devo tirar fuori di prigione Sam e Marlene, è mio dovere. Era stato l'avvocato di Sam a rivelare che ero ancora viva; non potevo prendermela con lui, faceva soltanto il suo mestiere. E dovrò rivedere Arthur, anche se non mi fa molto piacere, con tutte le spiegazioni che dovrò dargli e quella sua espressione di sdegno represso. Comunque, quando la storia sarà nota a tutti, la verità verrà a saperla anche lui. Quella che amava non ero io, ma un'altra, per questo quando smetterà di amarmi non dovrò sentirmi troppo ripudiata. Probabilmente non ha ancora ricevuto la mia cartolina, non avevo pensato a spedirla per posta aerea. Per dopo, piani precisi non ne ho. Tutta quella pubblicità mi farà sentire ridicola, ma anche questo è scontato. Probabilmente si dirà che la mia scomparsa è stata una specie di trovata pubblicitaria, un trucco... Comunque, romanzi gotici non ne scriverò più: non mi facevano bene. Forse farò un po' di fantascienza. Il futuro mi attrae un po' meno del passato, ma sono certa che non mi metterà nei guai. Penso davvero che dovrei trarre qualche insegnamento da quanto mi è successo, come avrebbe detto mia madre. Per il momento, comunque, la cosa migliore è starmene qui a Roma - mi sono trovata una modesta pensione - e andare all'ospedale nelle ore di visita. Non ha ancora fatto sapere a nessuno dove mi trovo; mi ha promesso di aspettare almeno una settimana. È un uomo simpatico; non ha un naso interessantissimo, ma devo ammettere che un uomo con la testa bendata ha un suo fascino... E poi, ho cominciato a rendermi conto che lui è l'unica persona che sa qualcosa di me. Forse perché non ho rotto una bottiglia in testa a nessun altro, e così non sono arrivati a scoprire questo mio aspetto. A dir la verità, non c'ero arrivata neanch'io. Avevo combinato proprio un pasticcio; comunque, penso che l'ordine non sarà mai il mio cavallo di battaglia.
FINE