ROBERT FINN L'ADEPTO (Adept, 2004) 1 Martedì 8 aprile (prime ore del mattino) Londra, poco dopo mezzanotte... non ci sono stelle; una coltre di nubi, come un'umida, vecchia coperta dell'esercito, ricopre la città. Il cielo rovescia una luce a vapori di sodio che si riflette dalle migliaia di lampioni, colorando gli angoli del mondo di arancione e facendo scintillare debolmente le nubi notturne, simili a nebbia radioattiva. Quest'alba artificiale e permanente stana gli uccelli dai nidi e i loro cinguettii campagnoli s'insinuano tra i cigolii e i borbottii della sinfonia urbana. Alla periferia della città vecchia, una volpe s'allontana saltellando; qualche ubriaco ritardatario ripercorre d'istinto la strada di casa. Nei labirinti del fuligginoso quartiere commerciale tutto è quieto. Un paio di guardie sonnecchiano su alcune riviste, ammazzando il tempo dietro il banco della reception. Altrove la città non dorme mai, però qui l'attività è di natura commerciale; alimentata dal sole, in un certo senso. Di notte i macchinari riposano. Tutto ciò che si muove fra l'intreccio di strade sono le folate di vento col loro carico di nebbia e polveri inquinanti. Ma ecco un cigolio di sospensioni, mentre un furgone Transit bianco malconcio si ferma davanti a una silenziosa fila di palazzine adibite a uffici. Il guidatore controlla la strada a destra e a sinistra, scrutando ogni angolo e ingresso. Passa un intero minuto prima che il motore venga spento e le portiere siano aperte. Ne emergono con fare circospetto tre figure. Sembrano gli ultimi tre componenti di una qualche specie minacciata d'estinzione. Il guidatore è massiccio ed energico. Sembra sulla cinquantina, ma è del genere per cui l'età è una questione meramente estetica. La seconda figura è più giovane, sulla trentina, alta e dinoccolata. Se il compagno ha un aspetto energico, lui sembra semplicemente spaventato. Indossa un berretto da baseball, che continua a tormentare, calandoselo sugli occhi. In contrasto con gli altri due, che indossano una tuta, il terzo uomo sembra abbigliato per una tiepida giornata sui pendii montani: giaccone nero di
taglio raffinato chiuso con la zip fino al collo e pantaloni neri di una fibra di ultima generazione, derivata dal nylon. La testa è riparata da un berretto di lana nero. La corporatura compatta e i movimenti agili non fanno nulla per dissipare l'illusione che si trovi qui per perfezionare il suo record di discesa libera. Gli mancano gli occhiali da sole per completare l'immagine. La barba ben curata è nera come i capelli tagliati corti, particolari che conferiscono un'aria vagamente orientale ai lineamenti che potrebbero appartenere a qualsiasi luogo, da Oslo a Kabul. L'espressione del viso, composta e imperscrutabile, suggerisce l'idea di un uomo di quarantacinque anni in perfette condizioni fisiche. Di fianco al furgone, un viottolo conduce verso l'ala laterale della palazzina, consentendo l'accesso a vari portelli e porte di manutenzione. Il guidatore tira fuori dal veicolo una pesante cassetta degli attrezzi e si sistema davanti a uno dei portelli. Il suo inquieto compagno giocherella col berretto e borbotta, rivolto all'uomo tarchiato: «I nostri addetti alle pulizie sono tutti neri». Senza distogliere lo sguardo dal suo lavoro all'interno del portello aperto, il guidatore commenta: «Tu potresti essere il supervisore». Il tono cantilenante dà l'idea che stia parlando a un bambino. L'uomo più giovane continua a stuzzicare il berretto; la sua ansia è inequivocabile. Appena sopra la pallida fronte, l'etichetta sul berretto reca la scritta: T.J. OFFICE SERVICES. Nel frattempo, l'uomo col completo da sci si è piazzato davanti all'ingresso principale dell'edificio. Dalla strada, il vestibolo buio della reception è appena visibile dietro le doppie porte di vetro e metallo. Lo sciatore armeggia con la serratura. Alza lo sguardo e lancia un'occhiata alla strada, prima a sinistra, poi a destra, e infine torna a fissare la serratura. Qualcosa nella porta si spezza, producendo un rumore secco. A lato dell'edificio, il guidatore fa indietreggiare di qualche passo il compagno e, traendo involontariamente un profondo respiro, abbassa una leva all'interno del portello. Non succede nulla di drammatico, ma un sibilo di sottofondo, appena percettibile, s'interrompe. All'interno della palazzina, le spie luminose sul centralino della reception si spengono. La lampada dell'uscita di emergenza brilla con minore intensità. Una luce rossa inizia a lampeggiare dietro un pannello con un frontalino di vetro proprio all'interno del portone. «Conta fino a cento, poi solleva questa leva», dice il Guidatore. «Dammi la mano.» Prende Berretto da Baseball per il braccio e gli guida la mano
sulla leva. «Non morde», lo rassicura, anche se il giovane non sembra convinto. «Ma non ha senso», protesta Berretto da Baseball, quasi uggiolando. Si becca un'occhiataccia, ma continua imperterrito: «Perché non la lasciamo com'è, finché non abbiamo finito?» L'altro è irritato, però tiene la voce bassa. «Interrompi la corrente per cinque minuti e vedrai cosa succede. Abbiamo spento le luci, e quella dannata macchina del caffè; il sistema d'allarme non l'abbiamo neanche sfiorato. Ha una riserva che basta per una settimana.» «Allora perché preoccuparsi...» Il giovane non riesce a concludere la domanda. Una mano gli afferra la tuta proprio sotto la gola, impedendogli di parlare. L'uomo tarchiato si china, finché i volti dei due non sono che a pochi centimetri di distanza. «Se incasini questa roba, sarà l'ultima cosa stupida che farai. Mi hai capito?» ringhia l'omone, poi controlla l'orologio. «Conta fino a settantacinque.» Quindi solleva la cassetta degli attrezzi e si dirige a grandi passi verso il portone. Una volta raggiunto lo Sciatore, il Guidatore inclina la testa di lato verso le doppie porte. «Sono aperte?» Lo Sciatore annuisce e l'altro spinge le porte ed entra nel vestibolo, piazzando la cassetta davanti al pannello del sistema d'allarme col frontalino di vetro. La spia rossa dell'ALIMENTATORE BATTERIE risplende, luminosa. L'uomo inserisce un righello d'acciaio nella fessura tra il bordo del frontalino e l'intelaiatura e, dopo averlo infilato per un tratto, con uno scatto apre lo sportello. Lascia cadere il righello nella cassetta e recupera un paio di pinze tagliafili, infilandone un'estremità nella tasca della tuta, da cui ciondolano come la Colt di un cowboy. Poi tira fuori un cacciavite e inizia ad allentare le viti ai quattro angoli del pannello, tenendolo fermo con la mano sinistra. Poi aspetta. Passa un minuto. Sotto di loro, da un punto indefinito del sotterraneo, proviene un tonfo sordo, come quello di un'ancora che colpisce il fondo del mare. «Ci siamo», bisbiglia. La spia rossa si spegne. L'indicatore verde di ALIMENTAZIONE RETE si accende. Accanto, un altro indicatore verde inizia a lampeggiare. È contrassegnato: ACCENSIONE, AUTODIAGNOSTICA. «Qui viene il bello», sussurra il Guidatore all'altro. Togliendo la mano
dal pannello, lo sgancia, infilando le unghie sotto il bordo. Il dorso è un intreccio di fili collegati. «Disattivare la corrente? Potrebbe essere un problema. Riattivare la corrente? Nessuno al mondo avrebbe da eccepire. Il momento ideale perché l'impianto avvii una rapida diagnostica. Al progettista non è mai venuto in mente che qualcuno avrebbe potuto ripristinare la corrente durante un'intrusione.» Allarga una matassa di fili. Ne sceglie due. Sollevando il pannello, controlla dove conducono: a un interruttore a chiave contrassegnato DISATTIVATO. Afferra la pinza che gli pende dalla tasca e recide i due fili, strappando coi denti la guaina alle estremità e attorcigliando tra loro i due filamenti di rame. «Anche questa è fatta», annuncia. Rimette la pinza nella cassetta e lascia il pannello contro la parete, a penzolare dai collegamenti. «È ora che il nostro piccolo lanciatore si guadagni la sua parte», dice. Esce dalla porta a grandi passi, lasciando lo Sciatore da solo. Di lì a poco è di ritorno, preceduto da Berretto da Baseball. Lo Sciatore parla per la prima volta. «Il tesoro?» chiede con una pronuncia da annunciatore radiofonico. Berretto da Baseball annuisce e comincia a salire le scale. Gli altri due lo seguono; il Guidatore ha la sua cassetta degli attrezzi. Al primo piano, attraversano un grande ufficio open space, tra due file di scrivanie con computer, ciascuna decorata con biglietti adesivi, piante e fotografie incorniciate. Una fievole luce proveniente dalle finestre illumina in parte l'ambiente. Sedici piccoli mondi: un cardigan rosa posato sulla spalliera di una sedia, un diario Weight Watchers, un lieve sentore di Opium. In fondo all'open space, raggiungono una porta chiusa a chiave. Il Guidatore tira fuori un piede di porco dalla cassetta e, con due potenti strattoni, spacca lo stipite della porta intorno alla serratura quel tanto che basta per aprirla. Il rumore è quasi assordante nel salone silenzioso. L'ufficio privato nel quale entrano ha una scrivania di vero legno, sistemata accanto a una grande finestra. La sedia è di pelle nera, con lo schienale alto. Berretto da Baseball apre un mobiletto basso sotto la finestra a rivelare una cassaforte. Il Guidatore posa ancora una volta la sua cassetta e inizia a studiare la cassaforte. Senza pensarci, ruota la stanghetta di plastica delle veneziane, angolando gradualmente le lame in modo da escludere il panorama. Il cielo nero, l'autoparcheggio a più piani sul lato opposto e i binari del treno scompaiono. Vedendo il Guidatore occupato con la cassaforte, lo Sciatore si rivolge a
Berretto da Baseball, dicendo: «L'ufficio del presidente». Ripercorrono il tragitto fra le scrivanie, con Berretto da Baseball che fa da guida. Salgono al secondo piano. L'arredamento è molto più costoso e il pavimento è rivestito di moquette. «L'ho visto solo una volta, quando l'ho accompagnato durante il trasloco», sta dicendo Berretto da Baseball. «Sapevo che c'era qualcosa lì dentro, ma pensavo si trattasse di un mobile bar.» Arrivano alla fine di un corridoio. Non ci sono finestre qui; solo luce a sufficienza a suggerire la presenza di una scrivania. Lo Sciatore accende la lampada da tavolo, illuminando il triangolo di moquette rosso scuro sul quale è poggiata la scrivania, posizionata ad angolo rispetto al corridoio. Al di là ci sono due porte di spesso e lucido legno di betulla. «È quella», dice Berretto da Baseball, tirando fuori la mano dalla tasca abbastanza a lungo da indicare la porta di destra. Lo Sciatore posa una delle sue mani guantate sopra la maniglia, saggiandola. Chiusa a chiave. «L'avevo detto che la chiudono sempre a chiave. Glielo avevo detto», ripete il giovane. Lo Sciatore fa scorrere la mano sulla serratura, senza dar segno di aver udito. «Guarda nel primo cassetto della scrivania», suggerisce col suo tono da annunciatore. Berretto da Baseball aggira la scrivania, voltando la schiena all'altro e tira la maniglia del cassetto un paio di volte, trovando l'ostacolo della serratura. Poi prova con l'ultimo cassetto, più grande. «Chiusi. Tutti e due...» Uno scricchiolio di legno che si scheggia lo interrompe. Gira la testa di scatto, trasalendo, spaventato dal suono inatteso. La porta di destra adesso è leggermente aperta, l'area intorno alla serratura e parte dello stipite sono spaccati. Lo Sciatore ha mosso un passo in avanti. Mentre Berretto da Baseball è ancora pietrificato, accovacciato dietro la scrivania, lo Sciatore entra nell'ufficio. «Fammi vedere dov'è», dice senza girarsi. Anche questa stanza è priva di finestre. C'è una serie di tre pulsanti a lato della porta e lo Sciatore preme il primo in basso. Lampade alogene protette da riflettori di vetro fumé illuminano una combinazione di scaffalature che occupa un'intera parete. Ricorda la suite presidenziale di un moderno albergo americano. La combinazione di vetro e legno impiallacciato, lunga sei metri, non manca di nulla: un piccolo televisore, bicchieri, un minuscolo lavabo nero... E il tutto è rivestito di vetri a specchio. Una grande scrivania di legno di betulla occupa un altro angolo della stanza. Nello spazio restante sono disposti un tavolo rotondo e due poltro-
ne. Ci sono numerosi armadietti e cassettiere su rotelle. Berretto da Baseball si dirige all'estremità della parete e apre un mobile ad altezza d'uomo. All'interno si accende una luce. Benché la porta suggerisca un vestibolo dove appendere gli abiti, dietro c'è un'alcova profonda un paio di metri. La larghezza è inferiore al metro. C'è una minuscola toeletta con uno specchio in fondo. Da un lato, una piccola panca, larga abbastanza da appoggiarsi. Su alcune mensole, il necessario per la toeletta. Appesi a una serie di ganci di fronte alla panca, numerosi completi e camicie sulle loro grucce. C'è un vago sentore di legno di sandalo. «Quella volta, quando sono entrato, la porta era aperta e lui era qui. È proprio così, tranne che non riuscivo a vedere il lavabo. Questa parte del muro era aperta», spiega Berretto da Baseball, entrando nell'alcova. Solleva e rovista tra gli abiti appesi finché non trova un chiavistello. Una sezione della parete rivestita di pannelli si apre al centro, provvista di cardini come le antine di un orologio a cucù. Difficile vedere cosa ci sia al di là, se non stando al centro delle ante. Poiché le sezioni della parete munite di cardini comprendono le due metà della fila di ganci, gli abiti girano verso l'esterno quando le ante vengono aperte. «Ora, non sapevo cosa ci fosse dentro. Pensavo che ci tenesse la roba buona. Ma poi ho parlato con una delle ragazze, che era qui, una volta in cui la cassaforte era aperta e ha visto dove si trovava.» E infatti, dietro i pannelli di legno, c'è la porta di acciaio grigio di una cassaforte, con tanto di disco combinatore e manovella. Berretto da Baseball è indietreggiato per consentire allo Sciatore di accedere all'alcova. Questi si tuffa sotto il pannello aperto, scostando gli abiti, e osserva la porta della cassaforte. «Ottimo lavoro, Peter. Trova una finestra e assicurati che sia tutto a posto, poi vai a vedere se Alan ha bisogno di qualcosa. Vi raggiungerò quando avrò finito con questa», annuncia lo Sciatore. Peter sembra riluttante ad andarsene. «Vai», lo sprona gentilmente l'altro. Il ragazzo torna verso la scala e trova una finestra affacciata sulla via. La strada svolta bruscamente in entrambe le direzioni e il furgone è l'unico veicolo visibile su quel tratto. Tutto è come l'hanno lasciato: asfalto umido, lampioni, notte. Dopo venti secondi, il respiro di Peter ha appannato troppo il vetro per consentirgli di vedere bene, perciò lui scende al piano inferiore. Quando raggiunge il primo piano, sente il ronzio lontano di un trapano, che si fa più forte via via che attraversa l'open space, diretto verso l'ufficio privato. Raggiunta la soglia, intravede il Guidatore, Alan, accanto alla finestra
con le veneziane chiuse. Un trapano industriale, che tiene appoggiato all'anca, è puntato contro la cassaforte. Il sudore è visibile tra i capelli radi. Il trapano è già penetrato di un paio di centimetri nella porta. Il rumore, benché notevole, non è assordante. Peter alza la voce per contrastare lo stridore del metallo e grida: «Tutto a posto...» Alan trasale violentemente, mandando la punta del trapano a sfregare contro la superficie della cassaforte. Una riga sinuosa di fulgido metallo s'imprime sulla rifinitura di smalto. «... fuori», conclude debolmente Peter. L'acuto ronzio del trapano s'interrompe, mentre il dito di Alan si stacca dal pulsante. «Cristo santo. Non ti ha mai detto nessuno di non sbucare all'improvviso davanti alle persone, soprattutto quando stanno ficcando il naso nelle casseforti altrui?» sbotta rabbioso Alan, alzando la voce sulle ultime parole. Poi rimette la punta del trapano in posizione e lo riaccende, lo sguardo di nuovo sulla cassaforte. «Dovresti usare gli occhiali di protezione», bisbiglia Peter a denti stretti. Resta a osservare per qualche istante, il volto adombrato, illeggibile. Poi con noncuranza si dirige verso le finestre che danno sulla strada. Da una scrivania prende una pinzatrice e si guarda intorno, in cerca di qualcosa da pinzare. Un movimento all'esterno cattura la sua attenzione. Quattro uomini vestiti di nero si stanno avvicinando velocemente alla palazzina. Due sono armati di mitragliette, il calcio appoggiato contro l'incavo della spalla. Proprio all'angolo della strada, adesso è visibile una BMW col logo della polizia. Mentre si avvicinano, uno dei poliziotti armati alza lo sguardo verso la finestra dalla quale Peter sta osservando. Il giovane si abbassa di colpo. Rannicchiato sotto la finestra, si morde un labbro. Il panico è evidente sul suo volto. Poi, sempre accovacciato per tenersi basso, corre verso Alan, serpeggiando tra le scrivanie. Va a sbattere contro l'ultima, urtando un angolo col fianco. L'impatto sposta la scrivania in avanti di qualche centimetro e i piedi strappano un lamento stridente al rivestimento di linoleum torturato. La collisione manda all'aria la cancelleria e le cianfrusaglie, scalzandole dal loro luogo di riposo notturno. «Merda», annaspa Peter, afferrandosi il fianco. Continua a correre, con una gamba rigida, e irrompe nell'ufficio dove Alan si sta stirando la schiena, il foro ormai finito, il trapano silenzioso. «La polizia», grida Peter nel silenzio, continuando a massaggiarsi il fianco. «Fuori in strada. È qui.»
In quel momento, lo Sciatore risale le scale di corsa. Si muove rapido, ma i suoi passi sono quasi silenziosi. Si ferma sulla soglia che, dal piano in cui si trovano, conduce verso la scala. La porta è stata montata in modo da aprirsi verso l'esterno; al loro arrivo l'avevano trovata aperta, bloccata da un estintore. Lo Sciatore lo afferra e, mentre lo solleva, la porta inizia a chiudersi. Lui la blocca con un piede. Poi alza il voluminoso estintore fino alle spalle e lo abbatte diagonalmente sulla maniglia esterna della porta. Mentre lo risolleva, lampi dorati s'irradiano dal suo polso. Poi risuona un colpo e la maniglia a forma di anello prende a rimbalzare sulla passatoia che riveste gli scalini, il metallo che risuona come il campanello di una bicicletta. Retrocedendo nell'ufficio, lo Sciatore lascia che la porta si chiuda dietro di sé. Afferra la parte centrale di un vicino attaccapanni, stacca la stanga cromata dalla sua base di plastica e la rovescia, gettando la corona di ganci a terra. Adesso ha una sbarra diritta; la fa roteare una volta, con abilità, poi la infila nella parte interna della maniglia con un'angolazione di quarantacinque gradi. Non riesce a infilarla tutta; l'estremità della sbarra sfrega contro il legno della porta quand'è dentro solo per un terzo. Posando le mani su ciascuna estremità, l'uomo esercita una leggera rotazione fino a portare la stanga in posizione orizzontale. Con la sbarra ben incuneata - un'estremità contro la porta, l'altra contro la parete -, la porta adesso è bloccata dall'interno. Benché l'operazione non richieda che pochi secondi, viene conclusa appena in tempo. Già si sente la polizia che sale le scale. Gli agenti raggiungono la porta bloccata nello stesso istante in cui i tre intrusi completano la loro ritirata nell'ufficio all'altra estremità del piano. Il poliziotto che guida il gruppetto batte la mano sulla porta. Senza maniglia, solo l'intelaiatura della finestrella di vetro retinato offre un qualche appiglio. Ma non è sufficiente per consentire una presa adeguata. Alan è sulla soglia dell'ufficio privato. Gira la testa per guardare lo Sciatore. «Che cosa stava facendo di sotto?» chiede. Lo Sciatore non risponde. Peter, nel frattempo, è in preda al panico. «E adesso cosa facciamo?» Ripete la domanda parecchie volte a bassa voce. Tira con violenza la corda delle veneziane, a rivelare un salto di dieci metri fino agli scintillanti binari d'acciaio. Il suo sguardo passa nervosamente dai binari alla porta dell'ufficio per poi tornare sui binari. Inizia a raspare l'intelaiatura della finestra, alla ricerca di una maniglia, ma invano. La finestra è un blocco unico, si-
gillato. Lo Sciatore lo supera, flettendo le mani guantate. Si china sulla cassetta degli attrezzi aperta davanti alla cassaforte e afferra il manico di un cacciavite. Si raddrizza e conficca la punta del cacciavite nel torace di Peter. Peter si raggela. La sua espressione sbalordita e gli arti contratti gli danno l'aspetto di un uomo che abbia appena afferrato un cavo elettrico sotto tensione. Nella stanza nessuno si muove. Poi Peter abbassa lo sguardo. Il corpo nervoso è immobile per la prima volta dal loro arrivo. Il mento gli cede e lui fissa il manico di plastica gialla che gli spunta dalla cassa toracica. Strabuzza gli occhi come farebbe qualcuno nel vedere uno scorpione attaccato al risvolto della giacca. Alza una mano come intontito, e non è chiaro se intenda afferrare il manico o dargli uno strattone. Mentre la mano si solleva, le ginocchia cedono e i suoi occhi terrorizzati si rovesciano nelle orbite. Si accascia al suolo, ai piedi dello Sciatore, esanime. Alan rimane come paralizzato, poi si mette a frugare freneticamente nella tasca della tuta, con un'espressione di panico sul volto. Lo Sciatore non si muove. Qualche istante dopo, Alan trova la rivoltella, la estrae dalla tasca e la punta, esitando, verso lo Sciatore che si staglia contro la finestra. I loro occhi s'incontrano e Alan fa involontariamente un passo indietro. Continuando a fissare l'altro con uno sguardo feroce, lo Sciatore dice: «Adesso tocca a te». Ogni parola è chiara, ma l'accento perfetto, da annunciatore, non c'è più. Tutto il corpo di Alan si tende, i muscoli sono così contratti che la pistola gli trema leggermente nelle mani sudate. Sta ansimando. I suoi occhi, fermi, sono fissi sullo Sciatore che restituisce lo sguardo con intensità spietata. Nessuno si muove. Poi, con uno scatto improvviso, lo Sciatore si lancia verso Alan. Questi spara istintivamente, ma l'affondo dell'altro è solo una finta, perché all'ultimo momento l'uomo si sposta di lato. La pallottola rimbalza su qualcosa e manda in frantumi la finestra sigillata. Schegge di vetro si rovesciano sui binari sottostanti. Abbandonando la posizione accovacciata, lo Sciatore propone: «Vogliamo riprovare?» Il suo accento è di nuovo perfetto. Sulle scale, un agente sta armeggiando davanti alla porta con un piede di porco. Una figura vestita di nero, con le mostrine da sergente, è piegato su
un ginocchio, con una mitraglietta appoggiata contro la spalla e puntata verso la porta. Il dito è posato sul grilletto. Il poliziotto col piede di porco stacca un altro pezzo di legno dall'intelaiatura. «E se la facessimo saltare con un colpo, sergente?» chiede uno degli uomini. Il sergente scuote la testa. Al quarto tentativo, l'estremità piatta del piede di porco s'infila tra la porta e lo stipite quanto basta per non scheggiare il legno. L'agente esercita una forte pressione finché d'un tratto la sbarra che tiene chiusa la porta si piega con uno scricchiolio e cade rumorosamente a terra. Così liberata, la porta si apre di qualche centimetro. Ma, non essendoci nulla a tenerla aperta, si richiude con un colpo secco. In quel momento, dall'altra parte della porta, si ode il suono inconfondibile di uno sparo. Il poliziotto col piede di porco si getta di lato, portandosi fuori della traiettoria del fuoco. Il sergente si abbassa ancora di più, spostando rapidamente la mitraglietta avanti e indietro, alla ricerca di un obiettivo. Non c'è nulla da vedere attraverso la finestrella della porta chiusa. Dopo un paio di secondi, il sergente parla. «Chi ha voglia di tenere aperta questa porta per me?» chiede, continuando a sbirciare dalla finestrella. Un paio di agenti sbuffano. Vedendo che nessuno si fa avanti, aggiunge: «Slap, c'è uno spazzolone di sotto, corri a prenderlo. Chris, tu apri un po' la porta e c'infili dentro lo spazzolone. Fallo scivolare sul pavimento, poi tienilo fermo col piede quando la porta si apre, in modo che possiamo entrare. Dean, sistemati laggiù, così ci copri». Lo spazzolone viene recuperato e passato all'agente col piede di porco, che esegue le istruzioni. Mentre la porta si apre, si sente uno schianto proveniente dall'interno e, qualche secondo dopo, un altro sparo. Entrambi i poliziotti si tendono, le dita ferme sul grilletto. Non riescono a vedere nulla di ciò che sta accadendo nell'ufficio. «Dean, a destra e tieni sotto tiro», ordina il sergente. «Okay, capo», ribatte l'agente e supera con un balzo la porta, spostandosi a destra. Si piega su un ginocchio e punta l'arma verso l'angolo più lontano del salone. «Slap, a sinistra e tieni sotto tiro.» Slap solleva il fucile, toglie la sicura e supera la porta. «Chris, quando sono dentro, tieni sotto tiro queste scale, sopra e sotto.
Nessuna sorpresa, per favore.» Chris annuisce. Il sergente oltrepassa la porta e questa si chiude alle sue spalle, mentre Chris si posiziona nell'angolo della scala. Avanzando con passi rapidi, usando le scrivanie come riparo, i tre agenti armati si avvicinano all'ufficio silenzioso. Il sergente alza una mano e grida: «Polizia. Arrendetevi subito. Ripeto: polizia. Posate le armi, adesso. Avete capito?» Silenzio. Attendono per trenta secondi. Una folata di vento rovescia alcuni fogli da una scrivania. Con un cenno della mano, il sergente indica agli altri due uomini di avanzare verso la porta dell'ufficio. Lui rimane immobile, il fucile puntato verso la porta aperta. «Vedo un corpo», annuncia Slap. «Io ne vedo due... non si muovono», aggiunge Dean. Il sergente fa segno a Dean di avvicinarsi. Questi avanza come uno schermitore esitante, strisciando i piedi sulla moquette finché non raggiunge la soglia. Si accovaccia, dà una rapida occhiata all'interno, poi torna indietro, sempre piegato. «Sono spacciati», comunica. Alzandosi, il sergente fa segno agli altri due di restare fermi. S'incammina lentamente verso l'ufficio. Vede i due corpi: uno è vicino alla porta, l'altro è sotto la finestra in frantumi. Supera la porta e scivola leggermente nell'appoggiare il piede su una pozza di sangue. Il corpo vicino alla finestra ha un manico di cacciavite piantato nel torace. Nella mano protesa ha un revolver. Il sergente mette con cautela la suola della scarpa sopra il polso, immobilizzandolo, il fucile puntato sul corpo immobile. «Slap, controlla l'altro», grida. Poi si china, il piede sempre sulla mano armata, e sente il polso. «Questo è morto.» «Anche questo», annuncia Slap, chinandosi sull'altro corpo. Il sergente si sporge dalla finestra andata in frantumi, adocchiando i binari. Guarda a destra e a sinistra. Non c'è nulla da vedere, eccetto pareti a strapiombo e rotaie inospitali. Quando riporta lo sguardo sui due cadaveri, chiede, senza rivolgersi a nessuno in particolare: «Che diavolo è successo qui dentro?» 2
Lunedì 7 aprile (sera, qualche ora prima) David Braun fece un passo indietro, mentre il suo avversario sferrava un rapido diretto al viso con la destra. Un secondo attacco mancò di poco la punta del naso... il quale, data la sua conformazione, non sempre era stato così fortunato. L'avversario, un gigante biondo grande e grosso, con un forte accento sudafricano, lo stava pressando, sferrando pugni veloci e tenendo alta la guardia. David retrocedette ancora di un passo. Non aveva quasi più spazio. Piegò il ginocchio sinistro e fece una leggera torsione, fingendo d'inciampare. Poi attese di vedere come avrebbe reagito l'altro. Il sudafricano avanzò rapido con l'intento di assestargli un colpo definitivo. Compresa la mossa, David partì al contrattacco: ruotando su un tallone, sferrò un calcio laterale con cui colpì l'avversario alla testa, facendolo crollare al tappeto. Allora sgranò gli occhi, scioccato. «Oh, mio dio, Tommy, scusa», si affrettò a dire, avvilito. Tommy si era alzato su un ginocchio, la testa ancora dondolante, e si tastava il punto in cui era stato colpito. Trovò una parte indolenzita. «Per la miseria! Mi hai colpito in testa.» Aveva un'aria sofferente, ma più che arrabbiato sembrava turbato. Si stava toccando con cura il profilo dell'orecchio che si andava arrossando, per valutare il danno. «Mi hai sfigurato, fratello. Adesso dubito che riuscirò a incantare quel bocconcino di Vanessa.» David scoppiò a ridere. «Mi spiace davvero», ripeté. Chinandosi, osservò prima l'orecchio arrossato, poi la sua pallida controparte. «In realtà, penso che sia servito a pareggiarli un po'.» Avevano entrambi il fiato corto ed erano tutti sudati. «Per questa sera ho chiuso. Dammi una mano ad alzarmi.» David aiutò Tommy a rimettersi in piedi e gli diede una pacca sulla spalla. «Che ne dici di un altro giro?» chiese poi. «Nessun contatto, promesso. Parola di scout.» Tommy lo guardò male, ma senza cattiveria. «Ci stiamo allenando da due ore, cinese. Sono distrutto.» Riassestandosi la casacca, s'incamminarono verso gli spogliatoi ed entrarono nelle docce comuni. Reggendosi con una mano alla parete, il sudafricano teneva la testa re-
clinata, lasciando che il getto della doccia lo colpisse in faccia. David dimostrava una maggiore industriosità, sfregandosi con un gel. Tommy girò la testa, allontanandosi dal getto. «Ci dai dentro con gli allenamenti, amico. Dico sul serio, non ti risparmi. Dove vuoi andare a parare?» David aveva quasi finito di sciacquarsi. «Anche tu ci dai dentro», ribatté. Girò la manopola della doccia, poi si passò le mani tra i capelli bagnati. Il suo respiro era tornato regolare, mentre Tommy era ancora un po' affannato. «Non come te. Non ho mai visto nessuno allenarsi così seriamente, tanto più che non partecipi neanche ai tornei», replicò l'altro. «È vero che non hai nemmeno una cintura?» David lo superò per tornare verso le panche nello spogliatoio. «Dove l'hai sentito?» chiese. «A nove anni ho preso la cintura blu di judo. Ce l'ho ancora da qualche parte», aggiunse da sopra la spalla. Di lì a qualche minuto, David salutò Tommy e uscì dalla palestra, diretto verso il parcheggio avvolto dall'oscurità e reso scivoloso dalla pioggia. Adesso indossava un paio di jeans e una camicia nera. Si passò una mano fra i capelli umidi e si guardò intorno in cerca della sua auto. Era nell'angolo più lontano, parcheggiata da sola sotto un lampione. La luce a vapori di sodio faceva sembrare nera la vernice blu. Gettandosi la borsa su una spalla, s'incamminò verso l'auto. Minuscole gocce di pioggia gli sfioravano il volto, fermandosi sulle ciglia. Una volta salito in auto, buttò la borsa sul sedile posteriore. Mise in moto, poi recuperò il cellulare dal vano portaoggetti, accendendolo. Mentre s'immetteva nella strada principale, la suoneria annunciò la presenza di messaggi vocali. Tenendo il volante con una mano sola, con l'altra si portò il cellulare all'orecchio. «Primo messaggio», fu l'annuncio della segreteria, seguita dalla voce piuttosto sfibrata di una ragazza: «David, sono Judy. Chiamami se sentì questo messaggio prima delle nove». Lui lanciò un'occhiata all'orologio sul cruscotto: 21.45. Ci fu un lieve sospiro, poi: «Anzi, sai una cosa? Lascia perdere!» Le ultime parole erano state pronunciate con una certa veemenza. «Potresti anche... Senti, ne ho abbastanza. È come passare il tempo con uno... zombie. Sei sicuramente il ragazzo più carino con cui sono mai uscita, anzi non ho nulla da rimproverarti. Tranne che non ti fregherebbe niente se dovessi crepare domani. Hai idea di come ci si senta? È un insulto. Be', sai una cosa? Puoi anche crepare fu.» Il tono con cui erano state
articolate quasi tutte le frasi apparteneva a qualcuno che ovviamente non era abituato a urlare. La voce della ragazza esprimeva tutte le sue emozioni. Per un paio di secondi si udì il respiro concitato di lei, poi il messaggio ebbe termine. «Secondo messaggio», annunciò la segreteria, cui seguirono alcuni colpi di tosse. «Accidenti, credo di aver ingoiato una vespa.» Altri colpi di tosse e fine del messaggio. Di nuovo la segreteria: «Terzo messaggio». Poi: «Sono Banjo, amico. Dannate noccioline, sono una vera e propria minaccia, se vuoi sapere come la penso. Ho temuto di aver bisogno di una tracheotomia. Mi sto facendo controllare proprio in questo momento». In sottofondo si udì la voce di una donna: «Stessa storia, caro?» Poi Banjo proseguì: «Vogliono tenermi qui tutta la notte. Passa a vedere il tuo vecchio amico, se hai un attimo. Mi troverai nell'unità di cura intensiva, all'Old Grey Goose, dove mi praticano la respirazione a bocca a bocca». La stessa voce di donna in sottofondo commentò: «Molto improbabile», poi la chiamata finì. Sorridendo tra sé, David si diresse verso il locale dove si trovava Banjo. Dieci minuti più tardi, aveva parcheggiato ed era sceso dalla macchina. Entrando nel locale illuminato a giorno, scorse Banjo al banco, che si stava abbottonando una camicia rossa a quadrettoni. Era chiaro che aveva appena mostrato all'avvenente barista sulla quarantina qualunque cosa ci fosse sotto. «Posso ripassare», esordì, a mo' di saluto. «Ti ho visto, amico», ribatté Banjo, adocchiandolo. «Che cosa bevi?» David spostò lo sguardo da Banjo alla barista. «Sto morendo di sete. Potresti darmi un bicchiere d'acqua?» «E...» lo spronò Banjo. «E una pinta di Boddingtons, grazie.» «Per me lo stesso, Helen, amore. E serviti pure quello che vuoi», aggiunse Banjo, aprendo il collo della camicia, a mostrare il torace lentigginoso. Helen increspò le labbra in segno di lieve disgusto. «Copriti. Se quel pescecane non ti ha toccato, sarà difficile che ti tocchi io, giusto?» ribatté amabilmente e andò a occuparsi delle ordinazioni. Qualche istante dopo tornò e, dando un buffetto sulla mano a Banjo, aggiunse: «Prenderò qualcosa più tardi, gioia». Premette un tasto sulla cassa e sul display apparve la cifra di 50 pence.
Banjo indicò un tavolo in disparte, accanto alla finestra; David annuì e si avviarono coi loro boccali. Banjo squadrò David da capo a piedi. «Cribbio, ogni volta che ti vedo somigli sempre di più a un buttafuori. Probabilmente stai risparmiando per comprarti uno di quegli impermeabili lunghi di pelle, non è così?» E tastò con curiosità uno dei bicipiti dell'amico, abbastanza rigonfi da tendere il tessuto della camicia. «Se non fosse uno spaventapasseri rosso a dirmelo, penso che mi offenderei», commentò David. Poi bevve un lungo sorso d'acqua e, quando posò il bicchiere sul tavolo, era quasi vuoto. Si lasciò sfuggire un lieve sospiro di approvazione. Banjo rivolse l'attenzione al suo boccale. «Allora, sei andato a menar le mani anche stasera? Contro marinai nerboruti? Se proprio vuoi fare un po' di esercizio fisico, e tu sai come la penso in proposito, perché non ti dai all'aerobica, così mentre balli ti guardi quelle pollastrelle fasciate nel Lycra, che dimenano il loro culetto davanti ai tuoi occhi?» «Mi hai visto ballare. Immagina a che cosa somiglierei tutto serio e con indosso una calzamaglia», ribatté David. «Nessuno vorrebbe vedere una cosa del genere.» «Avresti potuto darmi una mano qualche ora fa. È passato mio zio Jess. Ti ricordi dello zio Jess? Quello della cerimonia di laurea?» Un'espressione afflitta attraversò il volto di David. «Quello allucinato?» «Già, proprio lui. Comunque, devi perdonarmi se sono un po' brillo. Non è facile convincerlo ad andarsene quando ti è rimasto ancora un po' di senno», spiegò Banjo. «Ricordo che gli piace essere l'ultimo che resta in piedi», disse David. Banjo bevve un sorso della sua birra. «Allora, come va il giro del mondo? Non ti lascerai scoraggiare da tutte le storie che si leggono sui giornali, vero?» «No», ribatté David. «Naturalmente, dovrò apportare qualche cambiamento in base a... uhm... agli sviluppi locali.» «Tipo se decidono di bombardare la località che hai scelto proprio nella settimana in cui intendi andarci?» chiese Banjo. «Questo sarebbe sicuramente un fattore, sì», rispose David. «Ma stavo pensando più che altro al viaggio in aereo. Pare che gli aerei siano sempre più inaffidabili, e le compagnie stanno riducendo il numero dei voli.» «Be', forse sono in crisi a causa di tutte quelle dannate zone di guerra», rifletté Banjo alzando la voce. Helen guardò dalla loro parte.
«La situazione non è proprio così disastrosa», ribatté David. «In ogni modo, potrei rinunciare al Medio Oriente. Non ho ancora deciso.» «Vuoi sapere cosa penso?» chiese Banjo, chinandosi verso David e guardandolo negli occhi «Penso che tu sia così annoiato da quel tuo inutile lavoro che ti faresti tranquillamente ammazzare giusto per animare un po' le cose. Come tutta 'sta faccenda delle arti marziali... Quand'eravamo al college aveva un senso. Le ragazze pensavano che tutte quelle storie sul guerriero fossero affascinanti e c'era un bel gruppetto al club. Ma tu continui a prendere la faccenda sul serio. Credo che adesso tu lo faccia perché colpire in testa qualcuno, o essere colpito, è l'unico modo in cui puoi sfogarti e magari sentirti allo stesso tempo un po' più vivo.» David non disse nulla e Banjo continuò: «So soltanto che ci sono migliaia di altri lavori che potresti fare». Si batté un dito sul labbro. «Senti, perché non intraprendere un viaggio per fare anche qualcosa di divertente? Imparare il surf, per esempio, oppure fare un trekking in Thailandia, o attraversare l'Australia in auto. Sarei persino disposto a venire con te. Ma non farti ammazzare in un posto che non riesco nemmeno a pronunciare. Al notiziario delle nove non è che fanno vedere luoghi esotici, invitandoti ad andarci. Le immagini sono eloquenti, quindi uno capisce che deve starsene alla larga.» Calò il silenzio per qualche minuto. Poi David iniziò: «Senti, Banjo...» «Va bene, va bene», lo interruppe l'altro. «Scusa. Forse ho esagerato. Ma ci sono delle cose che mi stanno sullo stomaco e ho bisogno di sfogarmi», si giustificò, con un tono di voce più calmo. Bevve un altro sorso. «Credo che le persone facciano sempre delle cose idiote nella loro vita privata, per compensare tutti i danni che fanno quando sono al lavoro. Gli esseri umani non erano destinati a trascorrere i loro giorni in cubicoli..» Il tono della voce stava riprendendo vigore. «Non lavoro in un cubicolo», borbottò David. «... a preparare il budget del prossimo trimestre per Vattelapesca», proseguì Banjo. «Ma lo sai che esiste veramente un tipo che si chiama...» interloquì David, ma l'altro non mollava. «L'animo umano è più plastico che elastico», sentenziò con enfasi Banjo, bevendo un altro lungo sorso di birra. Il suo sguardo era perso altrove. «Se lo spremi forte e lasci andare, cerca di riprendere la sua forma originaria, ma adesso porta su di sé una grande, sporca impronta di qualcuno. Ogni volta che cerchi di cambiare te stesso per adeguarti, resta il segno. Il
lavoro, la scuola, andare d'accordo coi suoceri petulanti, e cose del genere. Accetti un lavoro facendo finta di essere un 'entusiasta pieno d'iniziativa, con un potenziale dinamico' o quant'altro. In pratica, affermi di avere un forte appetito per qualunque genere di sterco di cavallo quelli producano. Se riesci a fotterli e vieni invitato a entrare nel loro mondo, è perché hai assunto la giusta forma per passare attraverso la cruna del loro ago particolare.» Banjo aveva uno sguardo quasi folle. «Ora ci sei dentro. Ma non puoi rilassarti, non puoi riprendere la tua forma originale, qualunque sia, altrimenti ti beccano. Tieni dentro quell'invisibile ventre d'individualità e non puoi lasciare andare il fiato. Se lo fai, sei segnato. Tu non sei uno di loro. Ti becchi il discorsetto tipo: 'Le cose non stanno andando come speravamo'. Ma, se continui a fingere, puoi passare tra loro e ingozzarti alla tavola dell'azienda.» «Calmati», mormorò David, ma l'amico era irrefrenabile. «Ora, a te piace pensare che, una volta che ti togli il doppiopetto e ti rilassi, torni alla forma originale. Che il tuo vero sé è all'interno, che aziona le leve, il maestro illusionista che si prende gioco di tutti, ma non è così.» Scosse la testa con fare mesto. «Nessuno recita una parte per anni. Se lo fai, non è finzione, sei veramente tu.» Benché Banjo stesse sbraitando e bevendo da un bel po', continuava ad avere l'attenzione di David. Alcune delle cose che aveva detto, dopotutto, avevano colpito nel segno. «La cosa peggiore, David, è che per entrare in quei posti devi abbassarti. Potresti essere veramente qualcuno se tu lo volessi. Invece ti pieghi e te ne vai in giro incespicando, fingendo di essere uguale a tutti quei grigi pigmei che ti stanno intorno. Potresti sovrastarli, se solo scegliessi di svelare il segreto.» Trasse un profondo respiro. «Forse. O forse non riusciresti più a farlo. Forse trascorreresti i prossimi quarant'anni piegato in due, convinto di aver riso per ultimo, perché stai solo fingendo.» Lo sguardo di Banjo andò a posarsi sul suo boccale. Sembrava essersi sfogato e adesso aveva un'aria malinconica. «Ci mutiliamo ogni giorno solo per adeguarci; non aspettiamo neanche che ce lo chiedano. Ci piace mostrare la nostra disponibilità. E se, alla fine di tutto, c'è una macchina sportiva con lo stereo, infiliamo una mano dentro di noi e ci strappiamo quel nostro dannato cuore. La maggior parte di noi si accoltellerà con un sorriso, perché, alla fine del tormento, quando ormai siamo distratti, speriamo che chiunque ci abbia porto il coltello ci sorrida, dicendo: 'Benvenuto a bordo, figliolo'.» Senza più fiato, Banjo finì la birra.
«Per la miseria, Banjo, adesso passerò la notte in bianco. Non chiuderò occhio», commentò David, fingendosi turbato. Vi fu una lunga pausa. Il volto di Banjo si distese, mentre l'intensità che aveva messo nelle parole cominciava ad affievolirsi. Dopo qualche istante, riprese a sorridere. «Sai una cosa?» disse. «La miglior cura per non dormire è darsi da fare come dei matti. Alza le chiappe e vai a prendere qualcosa da bere. Ti farà un gran bene. Io devo fare una rapida deviazione.» Banjo si diede una spinta per alzarsi e s'incamminò più o meno nella direzione dei bagni degli uomini. Prese a borbottare qualcosa mentre si allontanava, ma l'unica parola udibile fu: «assicurazione». David ordinò per Banjo un'altra pinta della birra per cui il locale era famoso. Poi lanciò un'occhiata al suo boccale e scoprì di averne bevuto solo un terzo. Helen, seguendo il suo sguardo, disse: «Potrei rabboccartelo. Giusto per migliorare l'aspetto... Che ne dici, cocco?» «Grazie», disse David. Poi soggiunse: «Mi hai davvero chiamato cocco?» Helen gli strizzò l'occhio. «Ci tengo alla tradizione.» Mentre David portava le bibite al tavolo, Banjo tornò. «Helen è una stella, non trovi? Un gioiello inestimabile. Una volta faceva l'insegnante, prima che il marito morisse.» Lanciò un'occhiata verso il banco. «Non tirare fuori l'argomento, però.» Sorseggiarono le birre. «A proposito di quello che hai detto», cominciò David, alzando una mano per bloccare l'inevitabile interruzione dell'amico. «Non sto cercando di farmi ammazzare, lo dico onestamente, ma... hai ragione. Sono annoiato. E forse sto facendo delle cose che non farei in altre circostanze.» Si schiarì la gola. «Ma, se può tranquillizzarti, non è mia intenzione fare questo lavoro all'infinito. Quello che devi capire, però, è che mi riesce bene ed è ben pagato. Inoltre, per la maggior parte del tempo, mi diverto anche. Lo so che non sono 'io'. Se sapessi 'chi' sono, ti garantisco che me ne andrei come un lampo.» Banjo cercò d'intromettersi di nuovo, ma David alzò ancora una volta la mano. «No, lasciami finire. So che cosa intendi e sono d'accordo con la maggior parte delle cose che hai detto. E apprezzo il fatto che ti preoccupi per me, anche se dio solo sa quanto io sia poco bravo a badare a me stesso.» Banjo annuì con fare serio. «Quindi, che ne dici di questa proposta? Qui e ora, ti do la mia parola che tra un anno farò qualcosa di totalmente diverso. Anche se non è la cosa giusta. Ci proverò.» Si appoggiò allo schienale e osservò Banjo, che aveva un'espressione pensierosa. Poi aggiunse: «E anche se stai cercando di di-
stogliermi dal mio attuale impiego lucrativo, vorrei sottolineare che non sembri preoccupato del fatto che ho pagato di tasca mia ogni curry che abbiamo mangiato a partire dal 1995». Banjo ignorò il commento sul curry, limitandosi ad annuire lentamente un paio di volte e dandogli una pacca sulla spalla. «Sì. Okay. Bene. E scusa se ho esagerato su questo argomento.» Poi la sua espressione s'illuminò. «A proposito, come sta quell'adorabile Judy? Cribbio, quella ragazza ha delle gambe che non finiscono più. Per non parlare del didietro, che ti fa venire voglia di morsicarlo, se mi consenti di parlare della tua futura moglie in questi termini.» «Uhm. Le cose con Judy non vanno tanto bene», confessò David, frugando nella tasca alla ricerca del cellulare. «Credo che qui ci sia l'aggiornamento più recente.» Premette un paio di tasti e porse a Banjo il telefonino. L'amico ascoltò il messaggio. «Ohi, ohi, ohi», fu il suo commento. «Non hai perso il vecchio smalto, vero? Riesci sempre a incasinare le cose pur facendo tutto come si deve», disse. «Adesso lascia che ti chieda una cosa molto importante, e devi dirmi la verità: hai intenzione di provare a rimetterti con lei?» «No», rispose David, scuotendo la testa. «A essere onesti, sono piuttosto sollevato.» «Bene», ribatté Banjo. «Allora posso dirti che non ho mai pensato che foste fatti l'uno per l'altra. Ricordati le mie parole: la prossima volta che la incontri, si sarà sposata con un ragioniere con cui potrà fare la prepotente. Sarà felice come una Pasqua e niente risentimenti.» David era d'accordo. «Sì, a essere onesti stavo pensando a un modo per uscirne senza lasciare nessuno dei due troppo traumatizzato. Questo è meglio di ciò che mi aspettassi. Ricordi quando ho chiuso con Hope, dopo la girata che mi aveva fatto? Ero così scosso che ho temuto di diventare balbuziente.» «Sì, eri uno straccio», sbuffò Banjo. «Probabilmente non riuscivo a credere che avesse accumulato tanto odio in così poco tempo. Judy e io non ci siamo mai spinti tanto lontano», sospirò David. «Lei mi piace, ma quello che m'impensieriva era che mi dimenticavo facilmente della sua esistenza quando lei non c'era. Non è un buon segno, vero?» Banjo non disse nulla e David proseguì: «Ma che mi dici di te? Come vanno le cose con quell'infermiera, Melissa, per la quale sbavavi?»
«In effetti, ci sono stati alcuni sviluppi su quel fronte, amico mio», rispose Banjo, battendo le mani e sfregandosele. «E che fronte.» Mezz'ora dopo, stavano ancora parlando - e ridendo - delle prospettive romantiche di Banjo, quando Helen gridò: «Per favore, signori, è ora di chiudere. Non avete una casa dove andare?» E fece l'occhiolino a entrambi. I due amici riportarono i boccali al banco, mentre Banjo si scolava l'ultimo goccio, e David porgeva il suo quasi pieno. «'Notte, Helen», le augurarono e uscirono dal locale. L'odore di pioggia era ancora nell'aria, ma qualche squarcio si era aperto tra le nubi e s'intravedevano le stelle. «Ti chiamo in settimana», disse David. «D'accordo, amico», ribatté Banjo, dandogli una pacca sulla spalla per poi proseguire, lasciando David davanti alla sua auto. Qualche ora più tardi, David era a casa, immerso in un sonno profondo, quando il suo cercapersone cominciò a emettere il suo trillo penetrante. Lui accese la lampada sul comodino e mise giù i piedi dal letto. Rimase così, sfregandosi il viso e passandosi le mani tra i capelli. Poi trasse un profondo respiro, scosse la testa un paio di volte e allungò la mano per prendere il cercapersone. Sul display c'era un numero. David si alzò, un po' traballante, e premette un paio di tasti; raggiunse il salotto e accese la luce. Prese il cordless, e vi posò accanto un taccuino e una penna. Dopodiché si sedette sul divano di pelle consunta, si mise il taccuino sulle ginocchia e compose il numero. Risposero al primo squillo. «David? Reg Cottrell.» Era una voce molto raffinata e, dal tono, si capiva che apparteneva a un uomo più anziano di lui. «Ciao, Reg. Che cos'è successo?» chiese David. «Scusa per l'ora, ma credo che tu debba essere coinvolto in quello che è accaduto. Ho appena ricevuto una chiamata dalla centrale operativa. C'è stata un'intrusione negli uffici della Interfinanzio. Pare che sia un macello. Sul posto c'è la polizia... C'è stato un incidente, sono arrivate anche delle ambulanze. Non so altro, tranne che il responsabile è l'ispettore capo Hammond della Serious Crime Squad; gli è stato annunciato il tuo arrivo.» David aveva buttato giù degli appunti. «Si tratta degli uffici nell'East End? Credo che abbiano un ufficio anche in un'altra zona.» «Uhm», borbottò Reg, consultando le sue note. «Vicino a Bow Road, in
Mile End. È questa la sede. Ce la fai ad andare?» «Nessun problema, Reg. Ci andrò. Ci sei, domattina?» chiese David. «Sono le tre e mezzo», borbottò l'altro, pensando ovviamente ad alta voce. Poi disse: «È probabile che prenda un treno più tardi del solito, ma ci sarò». «D'accordo. Allora ti aggiornerò quando ci vediamo», disse David. «Bene, bene.» Reg fece una pausa. «Sono certo che non ci sia bisogno di dire...» «No. Non temere. Questa sarà la mia priorità da adesso in poi», lo rassicurò David. «Fantastico, fantastico. Sono clienti importanti. Allora, a domani», concluse Reg. David era già in piedi mentre ribatteva: «Certo», dopodiché ripose il cordless sulla base. Dieci minuti più tardi era sbarbato e vestito di tutto punto: completo blu scuro, camicia azzurra, cravatta grigio antracite. Mise il taccuino in una cartella di pelle, infilò in tasca le chiavi dell'auto e il cellulare, e uscì di casa. 3 Lunedì 7 aprile (pomeriggio) Susan Milton si stava proprio incavolando. Era seduta e osservava un tavolo su cui erano sparpagliate varie carte. Il suo assistente, Kevin, era alle sue spalle. «Mi sembravi un po' tesa, tutto qui», commentò Kevin, col suo accento del Midwest. «Io sono tesa, Kevin, perché mi stai irritando. Piantala di ciondolare in giro e siediti», sbottò Susan. Anche lei era americana, ma il suo accento era più difficile da cogliere. «Aspetta...» mormorò Kevin con voce suadente. Le divise i capelli biondi e le posò le mani sulle spalle. Coi pollici iniziò a massaggiarle i muscoli del collo. «Piantala, o ripenserai a questo momento come all'inizio dei tuoi guai», gli ingiunse Susan, glaciale. Kevin scoppiò in una risata nervosa, allontanandosi e alzando le mani in segno di resa. «Va bene. Accidenti. Adesso capisci cosa intendo quando
dico che sei tesa?» «Ascolta, genio, forse è un concetto difficile per te, ma fai uno sforzo. Se io fossi il professor Shaw, mi faresti un massaggio? Lo fai con tutti quelli per cui lavori? Vecchie di settant'anni comprese?» chiese Susan, esasperata. «No», rispose lui, a disagio. «E tu non sei il mio professore.» Poi, a denti stretti, borbottò: «Non sei neanche tanto più vecchia di me», come se quel fatto liquidasse la faccenda. «Giusto. Eppure, per qualche motivo, il college ha pensato che avresti potuto imparare qualcosa facendomi da assistente... come finire la tua tesi di dottorato, per esempio.» Si girò per guardarlo, anche se lui si rifiutò d'incontrare il suo sguardo. «Senti, cerca di capire: io non sono la tua prossima, grande conquista. Sono una persona per cui lavori e penso che tu sia raccapricciante. Sono stata sufficientemente chiara?» Sbuffando, Kevin si lasciò andare sulla sedia; la sua espressione suggeriva che si sentiva trattato in modo ingiusto. «Abbiamo ancora parecchio da fare», lo informò Susan, ma lui non diede segno di averla sentita. Stava fissando uno dei suoi stivali, la gamba allungata davanti a sé. Susan osservò pensierosa il collega imbronciato. «Ehi, stavo per dimenticarmene», aggiunse allora, tutta allegra. «Jill mi ha detto di salutarti.» L'espressione del giovane si animò, ma solo per un istante, cancellando subito la prova della sua curiosità. «Davvero?» commentò in tono annoiato. «Proprio così. L'ho incontrata mentre tornava dalla lezione di ballo. Ragazzi, un esercizio che ti tiene davvero in ottima forma.» Kevin adesso stava guardando dalla sua parte. «Dio mio, mi piacerebbe essere così tonica e sinuosa», confessò, senza rivolgersi a qualcuno in particolare. «Comunque ha detto di salutarti.» L'espressione di Kevin era neutra e la sua mente sembrava altrove. «Mi sa che per oggi ne ho abbastanza», mormorò Susan, alzandosi. Sfilò il giubbino di jeans color lavanda dallo schienale della sedia e si gettò sulla spalla la borsa. Poi uscì nel corridoio, incamminandosi verso la sala docenti. Era pomeriggio inoltrato, e il college era praticamente deserto. Tutti gli studenti e la maggior parte del personale erano andati a casa. Mentre attraversava l'atrio, avvicinandosi alla sala docenti, Susan vide il professor Shaw.
«Salve, professore», lo salutò con un sorriso. Tenne la porta aperta col piede in attesa che lui la raggiungesse. «Bene, ecco una bella sorpresa. È venuta a bere qualcosa?» domandò lui. «Giusto una tazza di caffè. Perché non mi fa compagnia?» lo invitò in tono caloroso. «Che cosa ho fatto per meritarmi tanto?» si chiese lui divertito. «Non importa. Se non ha nulla di meglio da fare, allora è una fortuna per me.» La sala docenti era una grande stanza quadrata con le pareti rivestite di pannelli di legno, piena di tavoli e sedie di legno dalla vernice scura. Alte finestre provviste di grata si affacciavano su un quadrangolo e sul cielo di Cambridge prossimo al tramonto. Dalla parte opposta della sala si trovava il banco del bar, di legno di quercia. Due caffettiere erano posate su piastre calde di fianco al bar; Susan se ne versò una tazza da quella più piena. Il professor Shaw scambiò alcune parole col barista e ricevette un bicchierino di sherry e un cortese cenno del capo. Si diressero verso un paio di vecchie poltrone di pelle. La sala era pressoché deserta. I jeans di velluto a costine marroni a vita bassa e la T-shirt bianca (con la scritta POLO a lettere rosse) che Susan indossava non si confacevano molto allo standard accademico. Il professore, invece, era un esempio vivente del vecchio studioso: camicia di flanella a quadretti in una tonalità di marrone chiaro, un cardigan verde salvia e pantaloni di velluto a coste color ruggine. «I giovanotti di oggi sono ovviamente meno perseveranti di quanto pensassi, se non ha nulla di meglio da fare per trascorrere le sue serate», commentò lui, facendo un brindisi col suo sherry. «Tanto di guadagnato per me, comunque.» «Oh, no, lo sono eccome, se vuole il mio parere, e non solo di sera. Kevin Hartman è un esempio calzante», ribatté Susan. «Oh, cara, la sta importunando?» «Questo è un eufemismo, professore», replicò Susan a bassa voce. «Non è un problema. Solo che è come lavorare con un cucciolo non addestrato. Ha un sacco di energia, ma è incapace di concentrare la sua attenzione», spiegò, studiando il disegno sulla sua tazza. «Be', temo che ormai le regole della buona educazione siano cambiate da quand'ero giovane, tanto che le mie opinioni in merito potrebbero inte-
ressare solo uno storico. Ai miei tempi, era impensabile fare la corte a una collega, ma perfettamente lecito sposarla. E lei si chiederà senza dubbio in che modo potesse iniziare una relazione, non è così?» disse il professore. «Oggigiorno è un campo minato, glielo assicuro.» Susan fissò la sua tazza, le dita che sfioravano distrattamente l'emblema in rilievo del college. «L'avevo messo in cima alle mie priorità, ma poi non mi sarei mai data pace», borbottò. Quindi, a voce più alta, aggiunse: «Sa una cosa? Se un ragazzo mi facesse la cortesia di concentrarsi sul lavoro, di fatto potrebbe colpirmi a tal punto da farmi venire voglia di uscire con lui. Le suona ironico, vero? Forse sarebbe meglio che ci abituassimo tutti a separare la vita privata da quella lavorativa. È un peccato che io conosca solo persone sul posto di lavoro». «Oh, dubito che continuerà a essere così ancora per molto. Lei è ancora in una fase di rodaggio. So che è molto lontana da casa, ma ci sono persone splendide intorno a lei; aspetti solo che la novità si stemperi e ben presto si ritroverà a cercare disperatamente un po' di solitudine. E che mi dice di quel club che frequenta? Non c'è un segretario particolare?» Shaw ridacchiò, come se avesse fatto una battuta divertente. «Oh, intendo dire che è perfettamente lecito...» Susan accennò un debole sorriso. «Comunque mi faccia sapere se Mr Hartman inizia a infastidirla seriamente. Abbiamo un vero e proprio agitatore in Relazioni o Risorse umane o come dir si voglia, e si divertirebbe un mondo a illustrare a Mr Hartman le ultime tendenze in fatto di comportamento corretto sul posto di lavoro.» Sorrise. «Oppure potrei dargli una lavata di capo», suggerì. «Anche questo si usava molto, ai miei tempi.» «Per caso la BBC ha trasmesso di recente un film di gangster con James Cagney?» chiese Susan. «In realtà si trattava di Humphrey Bogart. Una storia travolgente», rispose Shaw. «Ma mi dica... come procede la relazione?» Susan sbuffò attraverso le labbra increspate. «A parte i contributi non richiesti di Kevin, sta procedendo lentamente. A dire la verità, non sono neanche sicura di avere abbastanza materiale. Sembrava molto più consistente, prima che iniziassi.» Shaw alzò all'improvviso un sopracciglio e disse: «Sa una cosa? Mi è venuta un'idea geniale. Anzi, avrei dovuto pensarci stamattina». Posò il bicchierino di sherry e si premette le mani sulle cosce, sporgendosi leggermente in avanti. «A Londra hanno trovato una cosa veramente affasci-
nante. Avrei pensato subito a lei, ma sapevo che era immersa fino al collo nella relazione. In questo modo, però, tutto calza!» Il sorriso di Susan esprimeva un certo stupore. «Dovrei spiegarle di che cosa sto parlando, giusto?» disse Shaw. «La School of Antiquities di Londra, dopo la morte del suo ultimo proprietario, ha appena ricevuto una raccolta di documenti finora sconosciuti. Da quanto mi è stato detto, tali documenti riguardano perlopiù pratiche e credenze magiche, e risalgono a epoche diverse. Ci hanno chiesto se volevamo mandare qualcuno. Loro hanno maggiore dimestichezza con un genere, diciamo, più concreto: resoconti, lettere e vari tipi di documenti ufficiali. Stavo per andare io stesso, anche se sarebbe stato un po' troppo impegnativo. Preferirei di gran lunga che ci andasse lei. Inoltre è un tema che rientra proprio nel suo campo di competenze. Avrebbe la possibilità di esaminare per prima una collezione che sembra decisamente affascinante. Potrebbe persino trovare qualcosa di utile per la sua relazione nonché dare a Mr Hartman la possibilità di smaltire i bollori. O, ancor meglio, di mettere gli occhi su chiunque sia quella donna che va in giro solo con la biancheria intima.» «Jill Jenkins», pronunciò lentamente Susan. «Le grandi menti pensano in modo simile, eh? Allora, mi dica qualcosa di più. Cosa sa di questa scoperta?» Il professore le raccontò ciò che sapeva, in realtà quel tanto che bastava per stimolare la sua curiosità. Dopo qualche minuto, chiese: «Presumo che non abbia un posto dove stare a Londra, giusto?» «Pensavo di prendere il treno tutti i giorni», rispose Susan. «Ho un'idea migliore... Anche se, naturalmente, può fare come crede. Ma lei sarebbe più che benvenuta nella casa della mia defunta sorella. Avevo intenzione di affittarla, però è così comoda, ogni volta che ho degli affari da sbrigare in città... di questi tempi, ormai, non molto spesso. In ogni modo, questo potrebbe essere un buon motivo per tenerla: fare un occasionale beau geste.» «Be', è molto gentile da parte sua...» tentennò Susan. «Tremendamente imbarazzanti, queste situazioni, vero? La generosità è tanto disorientante quanto l'avarizia. Be', lascio decidere a lei. Si porti le chiavi e, se andasse a farci giusto un salto per vedere se la casa è ancora in piedi, gliene sarò grato. Il dottor Williams vi ha soggiornato un paio di volte, ma lascia sempre un tale disordine per la signora che va a fare le pulizie... Confesso di avergli fatto credere che non è più disponibile», con-
cluse. Susan rifletté. «Sono sicura di poter essere un'ospite migliore del Tricheco. Grazie, professore. Prima mi trova un incarico appropriato e adesso questo. Lei è un tesoro.» Poi alzò un sopracciglio. «Uhm, mi chiedo se la politica del college mi consenta di dire una cosa del genere.» «Farò in modo che sia così, la prossima volta che sarò costretto a presenziare a una delle loro incomprensibili riunioni», fu il commento di lui. «E mettiamo le cose in chiaro, cara. Sono certo che andremmo splendidamente d'accordo lo stesso, ma è la qualità del suo lavoro che la mette in cima alla lista. L'ultima volta in cui ho lasciato che il fascino o la caviglia aggraziata di una donna m'influenzassero su una questione accademica, Giorgio VI era ancora sul trono.» Continuarono a chiacchierare e, alla fine, Susan accettò un bicchiere di vino bianco, mentre Shaw prese un bicchiere di vino rosso del college e un sandwich al prosciutto. Poi si misero a discutere della spedizione londinese di Susan. Shaw aveva poco da aggiungere in merito alla raccolta, però sapeva molte cose sulla School of Antiquities e sul corpo docenti. Alla fine, la conversazione tornò sulla casa. «Sa, Lizzy lavorava per l'intelligence, però non voleva mai parlare del suo lavoro e io non facevo domande. Quand'è morta, benché fosse in pensione ormai da parecchi anni, alcuni gentiluomini del governo sono andati a casa sua e si sono portati via tutti i suoi documenti. Più di una volta l'avevo consigliata di trasferirsi da qualche parte, come Hampstead, ma la sua attività la teneva legata alla City. E, una volta libera di spostarsi, penso che non avesse più voglia di farlo. Credo che sareste andate d'accordo, voi due. Due donne molto in gamba.» Di lì a pochi minuti, il barista si avvicinò per chiedere se volevano qualcos'altro prima che il bar chiudesse. Erano appena passate le nove, ma erano rimasti solo loro due nella sala. Entrambi convennero che era ora di andare a casa. Susan espresse ancora una volta il suo entusiasmo per l'idea del professore e disse che sarebbe andata a Londra l'indomani, nel pomeriggio, dopo aver sistemato un paio di faccende che aveva lasciato in sospeso al college. Lasciò la sala con un'espressione molto meno preoccupata di quando vi era entrata. 4
Martedì 8 aprile (prime ore del mattino) Infilatosi nel dedalo di Londra ancora avvolta nell'oscurità, diretto a sud, da Islington verso la vecchia City, David seguì il corso ormai dimenticato del fiume Fleet, negli ultimi cento anni rimasto come assopito sotto il cemento delle strade. Si avvicinò alla sua destinazione. In fondo alla strada, una BMW con le strisce argentate fluorescenti sulle fiancate bloccava il traffico: polizia di alto rango per vittime di alto rango. David fermò la Saab blu in un parcheggio libero, a una decina di metri dalla BMW. L'orologio sul cruscotto segnava le 4.35. Dall'altra parte della strada, celato in parte da una curva, un edificio a tre piani di soli uffici sembrava non aver interrotto le sue attività. Mentre altrove, lungo la via, le finestre erano buie e i portoni chiusi, nella palazzina le luci erano tutte accese. Figure in uniforme piantonavano l'ingresso e numerose auto di servizio erano parcheggiate in vari punti sulla strada. David s'incamminò in quella direzione, con la piccola cartella di pelle sottobraccio. L'aria notturna era ancora umida e la temperatura era scesa. Granelli di ghiaia bagnata scricchiolavano sotto le suole di cuoio. Era a una quindicina di metri da un gruppo di poliziotti in uniforme allorché questi interruppero la loro conversazione. «Buongiorno. Devo vedere l'ispettore capo Hammond. Posso passare?» chiese David. Una radio gracchiò in sottofondo. «Il suo nome, signore?» domandò l'agente più vicino a lui con espressione severa. «Sono David Braun, della compagnia di assicurazione Marshall and Liberty.» Mostrò un biglietto da visita che lo identificava come Account Manager. «La sta aspettando, signore?» volle sapere l'agente, senza guardare il biglietto. «Sì», rispose David con un sorriso cortese. L'altro annuì. «Okay, vada pure», disse, con un tono di voce quasi amichevole. «Ma non tocchi nulla.» David superò il gruppetto; salì le scale, oltrepassò la porta ed entrò nell'atrio a vetrate: molto cemento lavorato, bello, ma poco elegante. Di fianco alla porta, il pannello del sistema d'allarme era aperto e fili uscivano in tutte le direzioni. Sotto il pannello, c'era una cassetta di metallo, il cui coperchio aperto rivelava numerosi vasi e bottiglie di plastica. In giro non
c'era nessuno. David salì le scale fino al primo piano, dove incontrò un altro poliziotto fermo davanti a una porta antincendio, tenuta aperta da un estintore. La porta e lo stipite erano ammaccati e scheggiati. Una delle maniglie si trovava poco distante, sul pavimento. «Sto cercando l'ispettore capo Hammond», disse David. «Arriverà a minuti, capo», ribatté l'agente. «Vuole aspettare qui?» «Non sono della polizia. Sono dell'assicurazione.» «L'avevo scambiata... Aspetti qui, signore», disse l'agente e si diresse verso il grande ufficio. David sentiva delle voci provenire dall'altra parte dello spazio illuminato. Una folata di vento gli sfiorò il viso e agitò dei fogli sulle vicine scrivanie. Pochi istanti dopo, l'agente fece ritorno insieme con un uomo tarchiato, sulla cinquantina. Indossava pantaloni neri, una camicia bianca e una cravatta blu decorata con piccoli pinguini. Mentre si passava una mano tra le rade ciocche dei lunghi capelli castani, rivolse uno sguardo assente a David. «Sono della compagnia di assicurazione. In realtà, ci siamo già conosciuti, ispettore. Sono David Braun», disse lui, tendendo la mano. Hammond rimase a fissarla per qualche secondo. Poi all'improvviso alzò il mento, come se gli fosse venuto in mente qualcosa, e strinse la mano di David. «Sì, sì. La gioielleria in Bond Street. Giusto.» Non sorrise, ma il linguaggio del corpo suggeriva che David aveva smesso di essere un estraneo per lui. «Ricordo quel caso. Lei ci ha dato una mano. Le cose sono andate più veloci una volta che il proprietario si è dimostrato... ecco, ragionevole.» Hammond voltò le spalle a David ed entrò nell'ufficio, ma protese una mano dietro di sé, agitando un unico dito, quasi si aspettasse che David lo afferrasse. «Venga. Venga», lo incitò, senza girarsi a guardarlo. David lo seguì. «Vuole una brodaglia nera?» gli chiese Hammond, indicando alla sua destra, mentre superavano un piccolo spazio adibito a cucina. «Meglio di no», rispose David, tallonando l'ispettore. «Decisione saggia», commentò Hammond, sempre senza voltarsi. Quando furono vicini alla porta dell'ufficio d'angolo, dove sembrava concentrarsi la maggior parte delle attività, l'ispettore si fermò e David gli si affiancò.
«Vuole che le racconti quello che sappiamo?» chiese, scrutando David con uno sguardo tagliente. «Grazie», rispose lui, aprendo la cartella di pelle per prendere il taccuino. Dalla tasca della giacca estrasse una penna. «L'allarme è scattato poco dopo l'una. La centrale operativa alla quale era collegato ci ha passato la chiamata. Ci sono stati parecchi furti a mano armata in questa zona, quindi è stata inviata una pattuglia della Serious Crime Squad. In questo caso, un gruppo di quattro uomini. Il portone era aperto. Quando gli agenti sono entrati, hanno trovato sbarrata la porta che conduce a questo piano. E, mentre tentavano di aprirla, hanno sentito due spari. Poi, una volta entrati, si sono avvicinati a questo ufficio...» Indicò l'ufficio d'angolo davanti al quale si erano fermati. «... trovando due cadaveri. Uno pugnalato con un cacciavite, l'altro con un proiettile in corpo. Quello col cacciavite nel petto aveva in mano una rivoltella, cui mancavano due colpi, ma sulla sua vittima c'era solo un foro. Il vetro della finestra era in frantumi, quindi è lì che è finito il secondo proiettile. Anche quello che è stato ucciso con un colpo d'arma da fuoco aveva il torace mezzo schiacciato, e non abbiamo ancora capito come sia potuto accadere. La cassaforte laggiù presenta il foro di un trapano, ma non sembra essere stata aperta. Stando alle apparenze, devono essere stati disturbati all'ultimo momento dalla polizia. Sembra anche che abbiano fatto irruzione nell'ufficio del presidente, di sopra. Ma non ci sono segni evidenti di furto. Le farò avere il rapporto dell'autopsia e del medico legale. Magari potrebbe accordarsi col suo cliente per svolgere un altro sopralluogo onde verificare che non manchi nulla. Anche se mi stupirei un po' del contrario, perché sui due cadaveri non abbiamo trovato niente», sbuffò Hammond. «Domande?» «Tre, se non le dispiace», rispose David. «Ecco, ho qualche perplessità sul sistema d'allarme. Mi scusi se glielo chiedo, ma se i ladri lo hanno fatto scattare facendo irruzione nell'edificio, com'è possibile che abbiano avuto il tempo di trapanare la cassaforte prima di essere interrotti?» «Ci stiamo lavorando», rispose Hammond. «L'allarme era disattivato quando sono entrati. Non sappiamo ancora esattamente come, anche se il pannello è stato ovviamente manomesso. Orca un quarto d'ora dopo, l'allarme in qualche modo è scattato. Forse un intervento maldestro sul bypass. Le farò sapere le nostre conclusioni. Noi, comunque, siamo intervenuti in meno di cinque minuti, compresa la segnalazione della centrale operativa. Seconda domanda.» «Le è mai capitato un caso come questo? Due rapinatori che si uccidono
a vicenda?» «No. Non con questa dinamica. Mi è già capitato di trovare dei cadaveri, ma si è sempre trattato di un regolamento di conti, diciamo, interno. Questa è la prima volta che sento parlare di un'intrusione in cui non rimane vivo nessuno. Sta cercando d'insinuare qualcosa, Mr Braun?» «No. Trovo semplicemente che sia una situazione insolita», ribatté David. «Be', sono tutte insolite. La normalità è starsene a casa a dormire, non entrare di soppiatto nell'ufficio di qualcuno. Ma, glielo garantisco, quanto è accaduto è molto simile a quel programma televisivo I cattivi più stupidi d'America. Forse dovrei scrivere una monografia per la Gazzetta del Detective», commentò Hammond, con espressione impassibile. David ci mise qualche secondo a capire che l'ispettore aveva fatto una battuta. Sogghignò. «Qual è l'ultima domanda?» «Posso guardare fuori di quella finestra?» chiese, indicando la porta dell'ufficio dalla quale proveniva la brezza notturna. Per la prima volta Hammond mostrò una reazione emotiva: corrugò la fronte. Forse era irritazione. Per qualche istante non disse nulla. Poi entrò a grandi passi nell'ufficio. «Non tocchi niente, né con le mani né coi piedi. C'è una grande confusione, qui.» Il pavimento era ricoperto di segni, nastri e varie macchie ancora umide, una delle quali era di sangue. Era enorme e il rosso appariva nero sulla moquette grigio scuro. Entrambi girarono intorno alla macchia. David raggiunse Hammond davanti alla finestra, che conservava solo qualche frammento frastagliato del doppio vetro, e sbirciò fuori, nell'umida notte. Sotto la finestra, a una distanza di circa dieci metri, correvano due serie di binari. L'acciaio scintillante delle loro superfici rilucenti rifletteva la fioca luce circostante. In mezzo a essi baluginavano schegge di vetro. Alcune erano grandi come un pugno; in altri punti, una polvere sfavillava, come se appartenesse a stelle lontane. I binari parevano situati sotto il livello stradale e, per parecchi metri in entrambe le direzioni, erano racchiusi da muri ripidi. Inoltre attraversavano una galleria artificiale, formata dalle pareti dei seminterrati degli edifici che li costeggiavano. Dalla parte opposta rispetto al punto di osservazione di David, c'era un altro muro, anch'esso piuttosto ripido e alto una decina di metri. In cima, la parete, peraltro liscia, presentava grandi finestre, incassale nel cemento
grezzo, ma le aperture, invece di essere chiuse da un vetro, erano protette da una rete di metallo. Dall'altra parte della rete, lampade fluorescenti spandevano la loro luce fioca. L'edificio sembrava un autoparcheggio a più piani. «Nessuno fa un salto di... quanto? Di dieci metri?... E su schegge di vetro e acciaio... Almeno non senza finire in ospedale. Ed è una bella arrampicata per uscire. Abbiamo interrotto la ferrovia per un'ora, per controllare, ma solo perché laggiù potrebbero esserci delle prove. Non ci aspettiamo di trovare le orme di Spiderman», commentò Hammond. David si chinò ed esaminò il bordo inferiore dell'intelaiatura. «Braun, voglio che si metta in contatto coi suoi clienti, che ottenga le informazioni che voglio, che li tenga buoni», disse l'ispettore capo, lasciando ormai trasparire una certa irritazione nei confronti dell'interessamento di David. «Non cominci a fare indagini su questo caso. Tanto per cominciare, non c'è stato nessun furto.» David si raddrizzò, allontanandosi dalla finestra per guardare Hammond. «D'accordo. Grazie, ispettore. Farò qualche telefonata e prenderò degli appunti. Le spiace ridarmi il suo numero di telefono?» Hammond puntò su David uno sguardo severo. Poi esitasse un biglietto da visita dal taschino e glielo porse. David gli diede il suo. «Mi chiami, se c'è qualcosa che posso fare per essere d'aiuto», concluse. Dopodiché riattraversò l'ufficio. Con l'intensificarsi del vento, i fogli avevano preso a volteggiare all'intorno. Di sotto, adesso, c'era un agente che stava spennellando una polverina sul pannello del sistema d'allarme, alla ricerca d'impronte. David si fermò di fianco all'uomo. «Salve, l'ispettore Hammond mi stava giusto dicendo che non avete ancora capito come mai è scattato l'allarme.» L'agente distolse subito lo sguardo dal suo lavoro, esaminò l'abito di David, i suoi capelli corti e la corporatura massiccia. «Be', è così, signore, non c'è ancora una versione ufficiale», ribatté. «Ma, se va di fretta, posso dirle che cosa dirà il rapporto. Questi fili...» - indicò con un dito guantato un paio di filamenti scoperti - «... sono stati separati. Si può anche vedere dove sono stati attorcigliati.» Due fili fuoriuscivano dal pannello, formando un arco, poi presentavano un piccolo tratto piegato a zigzag, dopodiché proseguivano diritti fino alle estremità scoperte di rame. «Gli occhielli si trovano nel punto in cui ciascun filo è stato attorcigliato. Quando il filo esce dalla fabbrica, ha una piccola piega. All'esterno degli occhielli, la piega è ancora evidente. All'interno, dove i fili hanno subito la tensione
della separazione, sono stati raddrizzati», spiegò l'agente. «Qualcuno ha disattivato l'allarme, poi ci ha ripensato, oppure è intervenuto un altro a manomettere questo circuito.» «Grazie», disse David e lasciò l'agente al suo lavoro. Superò la porta d'ingresso e uscì nell'umida oscurità, indugiando per qualche istante in mezzo alla strada, davanti alla palazzina illuminata. Osservò gli edifici su entrambi i lati, poi s'incamminò verso la sua auto, scrutando i viottoli fra una costruzione e l'altra. Una volta raggiunta la macchina, salì e mise in moto. Tuttavia, invece di partire subito, prese una mappa stradale dal vano portaoggetti. Trovò la strada in cui era parcheggiato e fece scorrere il dito lungo la linea ferroviaria adiacente. Il dito andò a fermarsi su una via che attraversava i binari. Allora, inserendo la retromarcia, fece un'inversione e partì, seguendo la strada individuata sulla mappa. A qualche centinaio di metri dalla palazzina, i binari si trovavano circa quattro metri sotto il livello stradale. Un ponte avrebbe dovuto essere alto solo un metro o poco più per superare la ferrovia. E infatti David trovò un ponticello arcuato, lo superò, poi si mise a cercare l'autoparcheggio a più piani che aveva visto quando si era affacciato dalla finestra dell'ufficio. Dopo alcuni tentativi, lo localizzò. Fermò la Saab sul ciglio della strada, dopodiché passò sotto la barriera che dava accesso all'autoparcheggio e sbirciò nel gabbiotto della guardia. Nessuno. S'incamminò sulla rampa, superando diversi livelli senza finestre, finché non raggiunse un piano con alcune aperture da cui si poteva vedere la palazzina della Interfinanzio. Nel piano in cui si trovava, non c'erano auto parcheggiate e solo due delle sei lampade fluorescenti funzionavano. David si avvicinò all'apertura e guardò fuori, attraverso la rete, oltre i binari della ferrovia, sino alla finestra senza vetri dell'ufficio illuminato, esattamente di fronte. La stanza era vuota, ma lui riusciva a intravedere una certa attività nel grande open space che stava oltre a essa. Prendendo un fazzoletto dalla tasca, afferrò la parte inferiore della rete e spinse. Era solidamente ancorata alla parete di cemento. Si spostò più in là, oltrepassando la prima di due colonne che dividevano l'apertura. Controllò il reticolo metallico a intervalli di un metro, ma non trovò sezioni staccate né segni di manomissione. Allora, infilatosi le mani in tasca, prese a osservare la struttura reticolare. Dopo quasi un minuto di osservazione e riflessione, all'improvviso socchiuse le palpebre. Si avvicinò alla sezione che aveva suscitato il suo interesse. Utilizzando
il fazzoletto, alzò le braccia e spinse l'estremità superiore della barriera, che si staccò dal cemento. Se una persona fosse rimasta aggrappata all'esterno, avrebbe potuto staccare la parte superiore della rete e avere abbastanza spazio per sgusciare dentro, ritrovandosi così al quarto piano dell'autoparcheggio. Poi David si accovacciò per scrutare il pavimento. Quindi si spostò in un punto diverso e ripeté l'operazione per cinque volte, ma non trovò nulla d'interessante. Allora si alzò e si guardò intorno, sfregandosi le mani per togliere la polvere e il terriccio. Il suo viso aveva la stessa espressione concentrata di quando si era messo a studiare attentamente la rete. I suoi occhi continuavano a scrutare il pavimento di cemento, le pareti... D'un tratto venne colpito da un pensiero. A grandi passi raggiunse la rampa più vicina, dove le finestre davano sulla strada in cui aveva appena parcheggiato. L'illuminazione era leggermente migliore; solo due lampade erano spente. Dovette accovacciarsi solo una volta prima di saltare in piedi, sorridendo. Si diresse verso un punto in cui un'unica scheggia di vetro luccicava nella fioca luce fluorescente. Nel posto macchina c'erano le impronte di quattro grossi pneumatici, neri rettangoli lunghi mezzo metro, la parte posteriore più larga di quella anteriore. Una delle impronte passava proprio sopra la scheggia. Chinandosi, David prese una penna dalla tasca e si accovacciò. Con delicatezza, sollevò di un paio di millimetri la scheggia. Nella luce fioca, era difficile dire se sul cemento sottostante ci fosse della gomma oppure no. Rimise la scheggia al suo posto, poi sfilò il cellulare dalla custodia appesa alla cintura e recuperò il biglietto da visita di Hammond. Digitò il primo numero indicato. La risposta giunse dopo il primo squillo. «Hammond.» «Sono David Braun. Ascolti, c'è qualcosa che credo lei debba sapere. Tornando a casa, sono passato davanti all'autoparcheggio, quello che si trova proprio di fronte alla palazzina, dall'altra parte dei binari della ferrovia. Sono salito a dare una rapida occhiata e ho trovato un frammento di vetro in uno dei posti macchina. Non è uno di quei cubetti tipici di quando si rompe il finestrino di un'auto; sembra il vetro di una finestra. Magari potrebbe mandare qualcuno a controllare.» La risposta di Hammond fu rabbiosa. «Braun, non sono stato chiaro, forse? Lei non svolge indagini, non s'immischia, tiene tranquillo il suo cliente, come dice il suo contratto. Se ha incasinato la scena del crimine, ragazzo mio, l'accuserò d'interferire nelle indagini...»
«Aspetti, Hammond», lo interruppe David in tono tagliente. «Lei mi ha detto che c'erano due persone coinvolte in questa irruzione e che si trovano entrambe all'obitorio. Se lei ha ragione, allora questa non è la scena di un crimine. Se invece ho ragione io, in quale modo il fatto di correggere il suo errore costituisce un'interferenza? Questo autoparcheggio apre fra un'ora e mezzo, quindi veda lei se vuole ispezionare le impronte dei pneumatici del terzo uomo prima o dopo che un paio di centinaia di pendolari sarà entrato qui dentro. Aspetterò un quarto d'ora, poi me ne andrò a casa.» E premette il pulsante rosso sul cellulare, troncando la conversazione. Dopo meno di dieci minuti, un furgone si fermò accanto all'auto di David, che agitò una mano in direzione del veicolo. Una donna sulla cinquantina, rotondetta, con una massa di capelli rossi sgargianti aprì la portiera del guidatore e scese, seguita immediatamente dal passeggero, un uomo magro, dall'aria triste, sui venticinque anni. «Ha trovato qualcosa d'interessante?» chiese la donna, la voce energica e acuta. «Credo di sì. Lasci che le mostri», disse David. Li condusse anzitutto a vedere la rete staccata. «Non mi chieda come ha fatto a salire fin qui, eppure lo ha fatto; potrebbe essersi infilato in quel punto...» spiegò, indicando una sezione della rete. L'agente più giovane spinse la barriera con la mano rivestita di un guanto di lattice e sbirciò attraverso la fessura. Poi David li guidò al piano di sotto. «Questa parte dell'edificio dà sulla strada e da qui sino in fondo non ci sono finestre che si affacciano sull'altro lato. Quindi, se ha parcheggiato qui, potrebbe essersi allontanato in auto dalla scena del crimine senza essere visto, anche se aveva i fari accesi.» Si avvicinò al frammento di vetro. «C'è una scheggia che credo provenga dalla finestra dell'ufficio.» «Potrebbe averla portata lei, no?» insinuò seccamente la donna. «Be', anzitutto non l'ho portata io... L'ho vista prima di raggiungere questa zona dell'autoparcheggio. Inoltre guardi...» - sollevò un piede per mostrare la suola - «... cuoio. In quell'ufficio, in pratica, non ci sono schegge, sono finite tutte sui binari, e ho dovuto fare a piedi circa quattrocento metri per arrivare qui. È molto improbabile che io abbia portato qualcosa tanto lontano. E adesso immagini un individuo sospetto che è finito su un ammasso di schegge, a una quarantina di metri da qui... Questo individuo, se dispone di un po' di buonsenso, indossa scarpe con suole di gomma e di certo ha strusciato i piedi contro il pavimento esattamente in questo punto...» - indicò la scheggia - «... se aveva intenzione di salire nell'auto che
ha lasciato queste impronte.» «Fantastico», esclamò la donna, battendo le mani. Si girò verso il suo assistente e disse: «Perché non sei così?» Quello scrollò le spalle con scarso entusiasmo. «Probabilmente verrà fuori che è il vetro sbagliato», continuò la donna con vivacità. «Ma la sua teoria è proprio graziosa. Ispezioneremo per bene questo posto.» Poi aggiunse, con un sorriso: «Lei può anche andare. Qualunque cosa abbia detto a George Hammond, penso che per oggi ne abbia avuto abbastanza di lei». Infine si rivolse di nuovo all'assistente. «Allora, musone, va' a prendere la valigetta e la macchina fotografica, io mi occupo delle misurazioni.» David li lasciò al loro lavoro. Tornò alla sua auto e si diresse verso casa. Aveva giusto il tempo di darsi una rinfrescata prima che arrivasse il momento d'iniziare la normale giornata lavorativa. 5 Martedì 8 aprile (pomeriggio) Cassetti cartografici di mogano, pavimenti rivestiti di parquet, alte finestre e radiatori di ferro indistruttibili: tutti gli ornamenti della scienza del XIX secolo. Susan si trovava nella Sala Assira, all'interno della School of Antiquities di Londra e guardava fuori della finestra del primo piano. Era arrivata con un impermeabile bianco lungo fino al ginocchio che adesso portava ripiegato su un braccio. Sull'altra spalla aveva la borsa. L'abbigliamento semplice - jeans scuri e un maglioncino bianco di lana, oltre agli stivali color carminio - in qualche modo la faceva apparire più elegante di tutte le persone che aveva incontrato entrando. Dalla finestra, alla sua sinistra, vedeva l'oppressiva torre della Senate House Library, cui si era ispirato George Orwell per il ministero della Verità di 2984. Più libri di quanti chiunque avrebbe potuto leggere: una montagna di conoscenza troppo alta per essere scalata da qualsiasi studioso. Una coppia di turisti si era fermata a osservare l'edificio e adesso armeggiava con una macchina fotografica. «Miss Milton», chiamò una voce alle sue spalle. Susan si girò e vide sulla porta un uomo grassottello, dai lineamenti delicati, un sorriso incerto sul volto, le mani incrociate dietro la schiena. Indossava una camicia arancione stinta e jeans neri slavati. Doveva essere vicino alla quarantina.
«Sono io, ma Susan è sufficiente», disse. I loro sguardi s'incrociarono e l'uomo parve arrossire un poco. «Oh, bene, è un piacere conoscerti. Io sono Bernard, Bernie Lampwick.» Fece una risatina. «Quasi tutti mi chiamano Bernie. Almeno di fronte.» Un'altra risatina. Ondeggiò sui talloni, apparentemente a disagio. «Sono il responsabile della Collezione Teracus.» Susan aggrottò le sopracciglia, confusa. «Oh, è così che chiamiamo la collezione che sei venuta a esaminare», spiegò Bernie. «Comunque benvenuta.» Cominciò a porgere la mano, ma, con l'impermeabile da una parte e la borsa dall'altra, Susan non fu in grado di rispondere al saluto. L'uomo lasciò ricadere il braccio lungo il fianco e sorrise nervosamente. «Va bene. Ascolta, appoggia la tua roba, qui andrà bene. Ti faccio fare un giro, poi magari andiamo a prendere un tè. O un caffè, se preferisci. È più americano, giusto?» «Il caffè andrà benissimo», ribatté Susan. Appoggiò l'impermeabile sulla spalliera della sedia più vicina e ci posò accanto la cartella. «Qui?» chiese. «Oh, sì, lì va bene», rispose Bernie. «Se a qualcuno venisse in mente di rubare qualcosa da questa sala, molto probabilmente sceglierebbe uno di questi inestimabili pezzi antichi.» Susan rise. Bernie si girò verso la porta e le fece segno di passare per prima. Chiacchierando tornarono nell'atrio per poi superare una porta a doppi battenti. Con la coda dell'occhio, Susan si accorse che Bernie la stava osservando. Girò leggermente la testa nella sua direzione e lui spostò subito lo sguardo sul corridoio davanti a sé. Le sue guance avvamparono di nuovo. «Arrivano molti visitatori come me?» chiese, fissandolo negli occhi. «Intendo dire...» Fece una pausa piuttosto lunga. Bernie si umettò le labbra nervosamente mentre attendeva che lei continuasse. Il suo volto mostrava un notevole disagio. «... americani?» concluse Susan. Lui scoppiò a ridere, palesemente sollevato. «No, davvero. No, qui conduciamo una vita monastica. Non abbiamo molti contatti col mondo esterno.» Rise di nuovo. «Mi scuso se le vecchie, buone maniere sono un po' arrugginite.» Stavolta, quando Susan distolse lo sguardo, lui non fece altrettanto. «Allora: perché Teracus?» «Era lo pseudonimo del proprietario della collezione», spiegò Bernie. «Il suo vero nome probabilmente era Terry Cousins, anche se sembrano esserci dubbi in merito. Per qualche motivo, usava più di un nome quando ac-
quistava dei documenti nuovi. Ma la maggior parte della corrispondenza che abbiamo è firmata Teracus. Era un personaggio strano, anzi forse sarebbe meglio dire misterioso. È morto in Grecia, in un incidente automobilistico, ma la polizia locale ci ha messo un po' a scoprire chi era e a risalire a lui. Poi hanno avvisato la polizia inglese che ha mandato qualcuno a casa sua. Non aveva famiglia, solo una signora che gli aveva affittato una stanza. Quando le hanno comunicato la brutta notizia, lui era già morto da due mesi, quindi lei si è chiesta cosa fare con la collezione, soprattutto sapendo che il suo affittuario aveva girato il mondo per raccogliere tutti quei documenti. Inoltre aveva l'impressione che lui avrebbe voluto una qualche forma di riconoscimento del suo lavoro, quindi ha deciso di donare tutto all'università. Sembra che il marito sia stato un portiere qui da noi... Abbiamo mandato qualcuno a dare un'occhiata, giusto per capire di che cosa si trattava.» Con fare cospiratorio, aggiunse: «Ci arrivano edizioni arretrate delle cose più strampalate, oppure ci lasciano copie vittoriane della Bibbia come se fossero tesori inestimabili. In ogni modo, l'assistente che abbiamo mandato ci ha telefonato quasi fuori di sé dalla gioia. Teniamo ogni cosa di sotto, nella Sala Alessandrina. Ci sono circa quattrocento documenti: dai più recenti appunti di Teracus ad alcune pagine di un libro scritto alla metà del XVII secolo... sempre che siano autentici. Naturalmente la cosa più interessante è che parecchi di questi documenti sono copie recenti di scritti molto più antichi. C'è persino un frammento scritto con una biro, ma le parole sono in ieratico. Abbiamo tradotto abbastanza da convincerci che non si tratta di un testo insensato o, peggio, della sezione di un lavoro già noto». Arrivarono in una mensa gremita. Bernie dovette alzare un po' il tono per contrastare il vocio e gli scricchiolii delle sedie che venivano spostate sul pavimento di linoleum. Prese un vassoio e ci posò sopra una tazza di tè, una di caffè e un paio di doughnut per sé. Susan scelse un pacchettino di biscotti allo zenzero. Poi trovarono un tavolo tranquillo, lontano dalla confusione. «Ho quasi finito un primo elenco», le spiegò Bernie. «Ho classificato i documenti per argomento, insieme con qualche particolare dello stile e dell'aspetto. Naturalmente è stato importante fare una distinzione tra l'epoca degli scritti e l'epoca della carta e dell'inchiostro.» Bevve un sorso di tè, poi proseguì. «Stavo pensando che questo potrebbe essere un buon punto di partenza per te. Dai un'occhiata alle mie classificazioni e magari inizia a controllarle. Se ritieni che io abbia fatto qualche errore, dimmelo. Non
sono geloso di queste cose. Più errori scopri, meglio è.» «Avete fatto una scansione di qualche documento?» chiese Susan. «No. Abbiamo un archivio digitale, ovvio, ma in linea di massima preferiamo classificarli, prima d'inserirli nell'archivio», rispose Bernie con una certa autorità. «Vorrei proprio fare qualche scansione», disse Susan. «Mi sarà d'aiuto, se posso iniziare subito ad annotare le copie digitali.» Bernie apparve un po' infastidito. «Be', c'è una procedura da seguire», ribatté in tono poco rassicurante. «Di quali permessi abbiamo bisogno? Posso occuparmene io», si offrì decisa Susan. Adesso Bernie aveva un'aria allarmata. «Ah, no, aspetta. Non ho detto che non si può. Perché non lasci fare a me?» Lei lo guardò dritto negli occhi. «Speravo di fare qualche scansione oggi, Bernie. Io lavorerò sui documenti che hai già classificato. In questo modo, non bloccherò il tuo lavoro e viceversa.» Il suo tono di voce era molto diretto, ma l'effetto risultò un po' addolcito dal sorriso. La velata scontrosità di Bernie si trasformò in rassegnazione. «Sono sicuro che risolveremo la questione, se è così importante... Intendo se può essere d'aiuto.» «Grazie, Bernie», disse Susan, con un sorriso allegro. «Questo Teracus mi affascina. Hai idea del motivo per cui ha raccolto tutto questo materiale? Era un commerciante o uno studioso?» Bernie s'illuminò. «Be', è curioso. Dal momento che l'intera collezione era chiusa a chiave nella sua camera ammobiliata, direi che si trattava di una collezione privata. Ed esaminando la sua corrispondenza sembra che si sia limitato ad acquistare; non compare la registrazione di una singola vendita. Quindi non era un commerciante. Ma, d'altro canto, non apparteneva a nessuna istituzione accademica che io sia stato in grado d'individuare. Sembra che abbia trascorso gli ultimi trent'anni ad accumulare documenti per puro divertimento. Che cosa facesse per vivere, non lo so proprio. Come ho detto, era un uomo misterioso.» «Davvero», commentò Susan. «È tutto così interessante. E l'intera collezione riguarda i miti e la magia?» «C'è parecchio sulla magia: leggende di grandi stregoni, manuali d'istruzioni, persino brani di filosofia. La maggior parte è in latino medievale... intendo la lingua in cui è scritta; il materiale non è medievale. Dato che sono soprattutto copie recenti, non sarà facile capire a quando risalgono le
fonti originali, a meno che non si riescano a trovare riferimenti altrove. Sono abbastanza sicuro che siano copie, comunque, e non dei falsi, ma è meglio che tu non escluda questa possibilità a priori. Non è stato facile raccapezzarsi. Di fronte ad alcune delle sue note più recenti avrei detto che risalivano al Medioevo, tranne che in calce c'era la data dell'anno scorso. Sembra che avesse una notevole padronanza del latino. Ci sono anche brani qui e là che parlano di reliquie mistiche. Il primo documento che ho esaminato era incredibilmente affascinante. Sembra il pezzo più recente della collezione. Si presume che sia una traduzione latina di un testo classico tibetano che parla dei segni o dei sigilli del taumaturgo. Pare che gli dei trovassero interessanti certi schemi. Disegnando sul corpo di una persona malata uno di questi schemi, si attirerebbe l'interesse di una divinità che potrebbe scegliere di operare la guarigione. Davvero molto interessante. Poi c'è un altro testo, presumibilmente fiorentino e del XVI secolo, in cui si discute delle regole che proibiscono agli stregoni di aggredirsi l'un l'altro facendo ricorso agli incantesimi. Mi sono ritrovato a chiedermi chi lo avesse scritto. A chi era rivolto? Credevano sul serio in quello che dicevano? Qualsiasi documento si scelga, tutti sembrano reclamare un'ulteriore indagine.» Susan annuì. «Non vedo l'ora di cominciare.» «Be', io qui ho finito», replicò Bernie. In qualche modo, mentre parlava, era riuscito a mangiare i due doughnut e finire la tazza di tè. «Andiamo giù. Sai, questo edificio ha lo stesso numero di piani, sopra e sotto. Lavoreremo al meno due, proprio in fondo. Ambiente perfetto per conservare i documenti, sempre che il livello di umidità venga mantenuto basso. Non soffri di claustrofobia, vero? Comunque ti abituerai presto.» Bernie riportò Susan nell'atrio principale, guidandola verso un vecchio ascensore a gabbia, abbastanza grande da contenere un pianoforte a coda. Per entrare nell'edificio, Susan aveva risalito una scalinata: il pianterreno era dunque quasi due metri sopra il livello della strada. Mentre l'ascensore scendeva, superò un ammezzato situato leggermente al di sotto della strada. Sotto c'erano altri due piani, dove la luce del sole era stata sostituita da lampade fluorescenti. Sopra la pulsantiera dell'ascensore, gli indicatori si accesero in sequenza, indicando la discesa. Dopo qualche istante, l'ultima spia luminosa a sinistra s'illuminò, indicando -2. Bernie e Susan si avviarono verso una grande stanza di fronte all'ascensore. Non era molto illuminata, ma i tavoli e le postazioni di lavoro attive erano rischiarate da potenti lampade. Bernie spese un paio di minuti a mo-
strare a Susan dove si trovavano le varie cose, come aprire l'archivio e come accedere a una postazione di lavoro. Poi, mentre lei dava un'occhiata ai documenti, la lasciò per andare a procurarle un tesserino di riconoscimento. Susan esaminò parecchie carte, poi ne tirò fuori una, la mise sul leggio, accanto alla postazione di lavoro che aveva scelto, e accese la piccola lampada alogena. Quindi prese un notes giallo e una penna dalla sua borsa e iniziò a prendere appunti. Quando Bernie fece ritorno, lei alzò a malapena lo sguardo. Passarono due ore prima che Susan facesse una pausa per rivolgersi a Bernie, ricordandogli la scansione dei documenti. Lui le fece vedere come usare la nuova fotocamera ad alta risoluzione e le mostrò lo scanner. Susan si mise subito al lavoro. Dopo un'ora, Bernie annunciò che sarebbe andato a casa. «Grazie di tutto, Bernie», disse lei. «Ci vediamo domattina, va bene? Prepara un piano di lavoro per me.» Lui fece un cenno di assenso e aggiunse: «Non fare troppo tardi. Comunque ti chiederanno di uscire alle nove». «Ah, Bernie, è possibile fare una telefonata? Vorrei chiamare il professore a Cambridge.» «Ah, sì, il famoso professor Shaw. Il nostro rettore è stato uno dei suoi allievi... probabilmente all'epoca delle Crociate. Oh, senza offesa, naturalmente... Ecco il numero per la linea esterna.» E, dopo averglielo scritto su un foglietto, se ne andò. Un paio di altri ricercatori erano entrati e usciti nel pomeriggio, ma adesso Susan aveva la stanza tutta per sé. Nella debole luce, andò alla scrivania vicina, dove c'era un telefono, e compose un numero. «Pronto?» «Professore, sono Susan Milton.» «Susan, mia cara, come va?» «Professore, è fantastico. La devo ringraziare per avermi offerto questa opportunità. Dovranno buttarmi fuori, perché altrimenti non riuscirò a staccarmi dal tavolo. Questa collezione è sorprendente.» «Bene, proprio come speravo.» «Ascolti... Può stare al telefono? Non interrompo nulla?» «Ho appena ricevuto il catalogo di un'agenzia che organizza vacanze in Toscana. Alcune proposte sono piuttosto allettanti, ma non sarà un problema accantonare per qualche minuto la spiegazione dettagliata dei loro
meriti, dal momento che lei è stata così gentile da chiamarmi.» «Sono sicura che stava facendo qualcosa d'importante, ma è molto carino da parte sua negarlo», ribatté Susan. «Posso spiegarle su cosa ho lavorato questo pomeriggio?» Chiacchierarono allegramente per qualche minuto. Di tanto in tanto, Shaw dava qualche suggerimento o, se un particolare dettaglio catturava il suo interesse, chiedeva altre informazioni. Dopo un po', disse: «E tutti si comportano e la trattano bene, spero». «Oddio, che cos'ha fatto?» chiese Susan, all'improvviso allarmata. «Mi hanno detto che il rettore è stato un suo allievo. Ha minacciato di telefonare ai suoi genitori, o qualcosa del genere, se non mi avesse trattata come una regina?» «Lei ha un'immaginazione davvero sfrenata per essere una giovane donna così ragionevole», la rimproverò bonariamente lui. «È probabile che, casualmente, io abbia espresso un certo interessamento per il suo benessere. Di certo non ricordo minacce esplicite, però.» «Be', allora devo ringraziare lei e Humphrey Bogart. Bernie Lampwick è stato molto premuroso con me. All'inizio era un po' nervoso, una reazione che ho attribuito al mio fascino irresistibile. Adesso invece capisco che, a giocare un ruolo decisivo, è stata la paura per chissà quali ripercussioni. Comunque andiamo d'amore e d'accordo.» «Splendido. Visto che va tutto a gonfie vele, li lascerò in pace. A proposito, ha già avuto occasione di vedere la casa?» «No. Sono venuta direttamente qui. Se per lei va bene, mi fermerò per questa notte.» Diede un'occhiata all'orologio sulla parete. «Non ho più tempo per cercare un'altra sistemazione.» «E non deve farlo. A meno che non riesca proprio a sopportare il posto, a me sembra ovvio che dovrebbe rimanere.» Poi, come se avesse riflettuto attentamente, aggiunse: «Anche se presumo che potrei parlare col rettore per trovarle un'altra sistemazione...» Susan ridacchiò. «Già, e finirei probabilmente con le chiavi del suo appartamento, mentre lui sarebbe costretto a dormire nel suo ufficio. Se per lei non è davvero un problema, sarei onorata di stare a casa sua. Ho ancora una telefonata da fare, ma poi ci andrò.» «Mi faccia sapere in che condizioni la trova.» «Certo. La richiamo domani, verso quest'ora, va bene?» «Attenderò con ansia la sua chiamata.» «D'accordo, grazie ancora, professore.»
«Arrivederci, Susan.» Susan posò lentamente il ricevitore. Il suo sguardo era perso in un'immaginaria lontananza e sul suo volto c'era un sorriso soddisfatto. Poi, tornando alla realtà, frugò nella borsa e ne estrasse una scheda telefonica internazionale e una rubrica. Aprì quest'ultima alla lettera D e guardò l'orologio. Si fermò, incerta. Quindi appoggiò il ricevitore sulla spalla e compose una lunga serie di numeri, leggendoli prima dalla scheda e poi dalla rubrica. «Dee», rispose una voce di donna. «Ciao, sono Susan», disse lei, un po' esitante. «Oh, sorella!» Il tono era effervescente e sicuro. «Dov'eri finita? È una settimana che lascio messaggi.» «Scusa, Dee. Ho dovuto spostarmi per lavoro», spiegò. «Adesso sono a Londra. Ci starò per almeno un paio di settimane.» «Ma è perfetto, Susie. Voglio venire a trovarti. Non ti vedo mai, eccetto a Natale. E poi non sono mai stata in Inghilterra. Ci sarà un congresso laggiù, tra poco, e ho pensato che avrei potuto vedere la mia sorellona e dare un'occhiata a tutti quei ragazzi inglesi con cui vai in giro. Per vedere se uno di loro è abbastanza bello da portartelo via.» «Dee, non è affatto divertente. E poi... Vieni qui? Pensavo che odiassi tutto ciò che non è New York.» «Ascolta, non puoi rifiutarti, fai parte della famiglia, è come un contratto legale o qualcosa del genere. Susie casa, mi casa, ricordi? Ce l'ho scritto qui, nero su bianco. Allora, hai un posto dove posso stare a Londra o devo andare a cercarmi una bettola?» «Non saprei. Il mio professore mi ha offerto di stare in una casa che ha qui, ma non l'ho ancora vista, quindi non so com'è. Puoi chiamarmi fra un paio di giorni, quando ne saprò di più? Hai proprio intenzione di venire?» «Non ti agitare troppo, Susie. Non ti rovinerò la vita. Puoi dire ai tuoi amici che sono stata adottata o qualcosa del genere. Non dovranno per forza sapere che hai una sorella ignorante.» «Dee, piantala. Per me non farebbe differenza neppure se tu non avessi finito le elementari. Solo che ho da fare. Dio, guadagni più soldi tu in un mese che io in un anno. Sei una donna di successo.» «Questa è nuova. Adulazione. Bene, potrei abituarmici. Allora, ascolta, ti richiamo quando ho i dati del volo, fra un paio di giorni. Nel frattempo, vuoi che ti porti qualcosa? Questo fine settimana vado a fare shopping. A meno che tu non abbia messo su quei chili coi quali staresti comunque
magnificamente bene con le cose che vanno bene a me... Che ne dici di quel top di Betsey Johnson di cui ti ho parlato un po' di tempo fa?» «È molto generoso da parte tua, Dee, ma non indosso nulla con una scollatura sotto l'ombelico. Quello a fiori si avvicinava di più al mio genere.» «Be', non c'è da stupirsi se sei finita circondata dai libri. Ti prenderò quella T-shirt virginale tutta ricamata. A proposito, hai chiamato la mamma di recente?» «E tu?» «L'ho chiamata una settimana fa. Be', forse un paio di settimane fa. Dovremmo andare a trovarla. Torna per le vacanze estive, dai.» «No, è una roba da studenti. E comunque non ho più pause estive, ma la chiamerò. Giuro.» «Brava. Adesso, però, devo andare. Abbiamo apprezzato la sua telefonata e le auguriamo buona giornata.» «Ciao, Dee.» Dopo aver riagganciato, Susan sfogliò la rubrica. Si fermò sulla lettera M e per un po' rimase pensierosa. Poi chiuse il libricino con un colpo secco e cominciò a mettere via le sue cose. 6 Giovedì 10 aprile (due giorni dopo) David era tornato sulla scena dell'irruzione. Dopo aver parcheggiato in una via laterale, s'incamminò verso la palazzina, con la ventiquattrore in mano. Non c'erano segni che l'edificio, solo un paio di giorni prima, fosse stato teatro di parecchia attività. Risalendo i gradini che portavano all'ingresso, osservò la doppia porta di vetro. La piastra intorno alla serratura era lucida come uno specchio... nuovissima. Aprì la porta e, una volta entrato nell'ampio vestìbolo, lanciò uno sguardo alla sua sinistra, notando che, dietro il frontalino di vetro fumé, era stato montato un nuovo sistema d'allarme, con un display a cristalli liquidi. Anche il colore era diverso: prima era nero, adesso invece beige, intonato con le pareti. David si avvicinò al banco della reception, dove una ragazza truccatissima, non ancora ventenne, stava parlando in una cuffia. «Adesso ti devo lasciare», bisbigliò nel microfono, poi premette un tasto sulla console davanti a lei ed esibì un sorriso abbastanza largo da rivelare i molari. «Sal-
ve!» salutò, col tono cantilenante tipico delle centraliniste, e reclinò la testa di lato. «Salve, sono David Braun della Marshall and Liberty. Sono qui per parlare con Alessandro Dass», disse lui. Quando pronunciò il nome del presidente, il sorriso della ragazza sbiadì. «La sta aspettando?» chiese. David annuì. «Ho un appuntamento alle nove e mezzo.» Controllò il suo orologio: erano le 9.25. «Allora vedo...» disse lei e alzò gli occhi verso il soffitto. Poi digitò un numero. «Mrs Billings, sono Stephanie. C'è un giovanotto qui...» - lanciò un'occhiata a David increspando le labbra - «e dice di avere un appuntamento con Mr Dass.» David prese un biglietto da visita dal taschino e glielo porse mentre lei gli chiedeva: «Può ripetermi il suo nome?» Stephanie lesse il nome, restò in ascolto, poi disse: «Va bene». Premette un tasto e tornò a guardare David. «Sta venendo qualcuno a prenderla. Se intanto vuole accomodarsi.» Indicò due panche arancioni imbottite sistemate a ridosso della parete, tra una pianta e un tavolino basso. Sul tavolino c'erano dei giornali. David si sedette e prese a sfogliare la rubrica sportiva del Telegraph. Non ci volle molto. Una donna dall'aria severa, magra come uno stecco, con un abito a sacco smanicato e di colore marrone, apparve al suo fianco, accompagnata da un tintinnio di braccialetti. Aveva la pelle coriacea dei sempre-abbronzati che si addiceva perfettamente alla sua espressione. «Il presidente l'aspettava alle undici», annunciò con voce inespressiva. La mascella di David ebbe una lieve contrazione. Alzandosi, disse garbatamente: «Com'è più conveniente per Mr Dass». Posò il giornale. «Allora torno alle undici?» Ci fu un sospiro spazientito. «Vedo se Mr Dass è disposto a riceverla adesso», disse la donna, benché il suo tono suggerisse che si trattava di una richiesta enorme. «La prego, Mrs Billings, non disturbi inutilmente Mr Dass. Se mi aspetta alle undici, perché importunarlo?» ribatté amabilmente David, allargando le braccia. Mrs Billings gli lanciò uno sguardo sospettoso, socchiudendo le palpebre. Gli occhi, ridotti a due fessure, diedero al volto incartapecorito l'aspetto di un piccolo caimano. «Non ha senso. Visto che è qui, può anche salire», disse con stizza. Si girò e si diresse verso le scale. David la seguì.
Mentre passava davanti a Stephanie, lei catturò il suo sguardo, lanciò un'occhiata verso le spalle della segretaria del presidente e silenziosamente compitò: stronza. David rise suo malgrado, ma con una certa discrezione, in modo da non farsi udire da Mrs Billings. Raggiunsero il secondo piano, attraverso un lungo corridoio coperto da una passatoia. Una scrivania, posizionata ad angolo, formava una strettoia, creando una postazione di controllo davanti alla quale qualsiasi visitatore avrebbe dovuto passare. Sulla scrivania c'era la targhetta: M. BILLINGS. Dietro la scrivania c'erano due porte. Mrs Billings alzò una mano, a indicare di fermarsi, e bussò sulla porta di destra. La socchiuse e infilò la testa. Quando la ritrasse, le ultime tracce di quello che doveva essere un sorriso smagliante si trasformarono in un cipiglio severo. Il gelo era disceso ancora una volta, quando si girò verso David, dicendo: «Il presidente la riceve». David la superò ed entrò in un ufficio lussuoso, anche se privo di gusto. Dietro una grande scrivania di legno di betulla, pressoché vuota, sedeva un uomo in un immacolato completo beige, il cui taglio, e il modo in cui si sposava perfettamente con la cravatta di seta chiara e la camicia bianca sporco gli conferivano l'aspetto di un modello. Il viso era abbronzato e rugoso, ma caratterizzato di quell'aria maschia così ricercata dalle mature star del cinema, e sprizzava salute. I capelli argentei erano folti e impeccabilmente ordinati. Sorrideva; anche i denti erano perfetti, e il contrasto con gli occhi scuri, inespressivi, era inquietante. David si avvicinò alla scrivania e porse la mano, dicendo: «Buongiorno, Mr Dass». L'altro si alzò e gli strinse la mano per una frazione di secondo. Mrs Billings indugiava ancora sulla porta. «Grazie, Maureen», la congedò Dass. La donna si chiuse la porta alle spalle. «Che cosa posso fare per lei, Mr Dass?» chiese David. Adesso erano entrambi in piedi. Dass aveva reclinato la testa e stava osservando un punto imprecisato, oltre il soffitto. Strinse le labbra, pensieroso. «Marshall and Liberty... Siamo in affari con questa compagnia da molti anni. Più di cento, se la memoria non m'inganna.» Aveva una voce profonda, con un accento italiano, raffinato. «L'abbiamo sempre considerata molto... sollecita. Una compagnia alla quale non interessa questo marketing moderno.» Aveva pronunciato le ultime due parole con grande disgusto. «Offerte speciali o cose del genere.» Il tono di voce divenne più fermo. «Una compagnia
che svolge un buon lavoro per i suoi clienti non ha bisogno di questi mezzucci, di tutto questo vociare e supplicare per fare affari. Non implora la fiducia dei suoi clienti; se la guadagna. Bene, Marshall and Liberty si è guadagnata la nostra fiducia.» Dass continuava a fissare il soffitto, quindi David non disse nulla. «Lei... Oh, com'è quell'espressione? Lei ha rotto le uova nel paniere con la sua indagine, l'altra notte. Il terzo uomo. È stato lei a tirarlo fuori, vero?» Lanciò uno sguardo a David. «Sì.» Dass sorrise e si guardò intorno. Abbassando la voce, disse, quasi a se stesso: «Mio dio, ma questo è un compito ingrato. Perché una nazione che potrebbe comandare un impero permette che la sua grandezza scivoli via? Governi deboli, funzionari indolenti, poliziotti corrotti... i giornali non parlano d'altro». Fece un gesto circolare con l'indice, a includere tutta la stanza. «... e architetti che non sanno fare il loro mestiere.» Agitò la mano, scacciando quel pensiero. «Sì, questo terzo uomo c'incuriosisce. Un uomo all'interno, che lavorava qui, sì; un altro che conosceva gli impianti antifurto e i sistemi d'allarme, certo; ma un terzo uomo con sufficiente cervello...» Tamburellò le dita sulla fronte. «... per concepire un piano. Qualcuno che pensa, qualcuno che elabora un piano... Magari qualcuno che prima osserva.» Si diresse verso un angolo dell'ufficio e aprì una porta. All'interno, si accese una luce a rivelare un'alcova. Poi lui chiuse la porta. «La Interfinanzio è una vecchia società. In un certo senso, una società a conduzione familiare. Come ogni famiglia, ha i suoi cimeli, i suoi piccoli tesori.» All'improvviso, si accomodò su una delle due poltrone. I suoi movimenti erano flessuosi, molto più giovanili di quanto suggerissero i capelli grigi e il viso rugoso. «Perdoni l'argomento sgradevole, ma una volta ho conosciuto un americano, che collezionava cavalli di razza. Non così com'erano, nel senso di vivi. No, creature morte. Che fascino può avere una cosa del genere? Si era costruito una stanza privata, quasi un museo.» Agitò di nuovo la mano, per liquidare la questione. «No, è incomprensibile», sogghignò. «In ogni modo, ho il sospetto che quell'uomo non vedesse la carne morta, bensì la gloria passata. Il simbolismo non proviene dall'oggetto in sé; nasce nella mente di colui che lo osserva. E potrebbe essere altrimenti? Lo stesso vale per la questione che l'ha portata qui. Lei è venuto a parlare di quelle cose che, per la mia gente, rappresentano potenti simboli, cose che riecheggiano le glorie del passato.» Dass si era messo a fissare un quadro sopra la scrivania. Si trattava di un
disegno impressionista, astratto e scuro. Dava l'idea che troppi colori fossero stati mischiati insieme. La vista del quadro, o di qualsiasi cosa stesse pensando mentre lo fissava, sembrò inquietarlo vagamente. David era sempre in piedi al centro della stanza, reggendo la ventiquattrore con entrambe le mani. Dass indicò la porta che aveva aperto qualche istante prima. «All'interno c'è una cassaforte. È stata scassinata.» David s'irrigidì. Poi Dass gli indicò l'altra poltrona. «Si sieda. Prenda appunti.» David obbedì, appoggiando la ventiquattrore sulle ginocchia. L'aprì, e ne tirò fuori un taccuino che ci posò sopra. Dalla tasca interna della giacca prese una stilografica e iniziò a scrivere. «Penso che il nostro terzo uomo sia venuto in qualche modo a conoscenza del fatto che sarei rimasto in Inghilterra per qualche tempo», spiegò Dass. «Magari sapeva che ci sono un paio di tesori di famiglia che amiamo tenere con noi. Le sto dicendo queste cose perché ho fiducia nella Marshall and Liberty, nella sua serietà, nella sua discrezione... Ci sono altre istituzioni che ci ispirano molto meno fiducia. L'indagine che lei ha svolto l'altra notte rivela l'errore che avrei fatto, se mi fossi affidato totalmente alla polizia. La polizia di cui leggo ogni giorno sul mio quotidiano, la polizia che non riesce a contare fino a tre senza l'aiuto di un professionista...» - e indicò David - «... di una mente competente e scrupolosa dedita alla sua società.» Fissò sul suo interlocutore gli occhi scuri con una tale, improvvisa intensità che David vacillò. Non riuscì a sostenere il suo sguardo. Un'espressione che avrebbe potuto essere di paura attraversò il suo volto. Ma, poco dopo, si fece coraggio e incontrò gli occhi di Dass. Il contatto visivo fu stabilito, David sbatté le palpebre una volta, involontariamente, ma non distolse lo sguardo. Dass si alzò e scrutò David dall'alto. La sua voce si era fatta lieve, quasi eterea, ma l'intensità del volto era impressionante. «Posso chiamarla David? Mi ascolti, David. Voglio che lei svolga delle indagini su questo furto, che si assuma questo compito. Desidero che la polizia la tenga al corrente di ogni cosa, in modo che lei possa confrontare le loro informazioni con quello che lei scoprirà. Non ho vissuto tanto a lungo senza farmi qualche amicizia, perciò non ci saranno problemi. Ma, in questa faccenda, ho bisogno di qualcuno di cui mi possa fidare.» David fece per parlare, lottò per far uscire le parole, ma Dass alzò una mano. Non aveva mai smesso di trafiggerlo con lo sguardo. «Cerchiamo di capirci, non le sto chiedendo
nulla d'illecito. Desidero che lei stabilisca un contatto con la polizia, per essere messo al corrente degli eventi e proseguire in autonomia se mai avesse l'impressione che i loro sforzi non stiano producendo risultati. Sono consapevole che, se un cliente è sospettato d'ingannare la compagnia di assicurazione, i fatti vengono controllati, i particolari verificati e gli investigatori assunti in tutta segretezza. Bene, in questa occasione ciò va fatto con l'approvazione del cliente e, se l'indagine avrà successo, con la sua riconoscenza. Vorremmo riavere ciò che ci è stato sottratto, senza pubblicità, senza clamore o azioni illegali.» Dass fece una pausa, poi riprese: «Naturalmente potrei accontentarmi di reclamare il premio assicurativo». Agitò leggermente una mano, a indicare che quella era la soluzione più facile in assoluto. «Potrei ritenermi soddisfatto con una somma di denaro, invece di un tesoro che la mia famiglia custodisce dall'epoca in cui Alessandro VI venne proclamato papa. Temo però che tale decisione risulterebbe assai onerosa per la Marshall and Liberty. Ci si rende a malapena conto del valore monetario che un oggetto possiede, almeno finché non arriva il momento di pagare per la sua scomparsa. No, dubito che la sua compagnia sopravvivrebbe a una tale decisione, e per me è praticamente impensabile seguire questa strada, quando c'è ancora la possibilità di recuperare ciò che abbiamo perduto.» Dass distolse il suo sguardo penetrante e ancora una volta lo lasciò vagare verso il soffitto. La sua attenzione tornò ad appuntarsi su quell'indefinibile cosa che si trovava oltre le pareti dell'ufficio. David si rese conto di aver trattenuto il fiato sino a quel momento ed espirò silenziosamente. Abbassò lo sguardo sugli appunti e sistemò la penna. Gocce di sudore gli imperlavano la fronte. «Mi dispiace di non poterle dare delle fotografie», si scusò Dass. «Abbiamo sempre avuto l'impressione che l'invisibilità fosse la protezione migliore per i nostri tesori.» Corrugò la fronte e distese un po' le mani, come se volesse ammettere che quello era stato un errore. «Ma stiamo parlando di qualcosa di estremamente antico. Un cofanetto d'insolita fattura, rivestito di pelle e fatto di osso. I materiali dell'epoca... All'interno c'è un gioiello, una filigrana d'intricata fattura. Il metallo è platino, amato dagli incas e dagli antichi egizi, anche se noi non riteniamo che quel gioiello sia originario di uno di questi imperi. Proviene dall'Oriente, dalla Cina, ed è un pezzo unico.» Dass si alzò, attraversò la stanza fino alla scrivania e aprì un cassetto. Prese un unico foglio e una matita, poi iniziò a disegnare. «Alcuni anni or sono, alcuni criminali molto potenti tentarono di rubare l'oggetto
e, da allora, abbiamo impedito che circolassero rapporti sulla sua esistenza. I registri della sua società, per esempio, lo elencano, ma in modo indiretto... Confido nel fatto che non le abbiano neppure svelato questa informazione, finora. Vi sono riportati un peso preciso, la larghezza e la lunghezza totale che la filigrana intrecciata raggiungerebbe se venisse dipanata. Ma non ci sono né foto né disegni. In realtà, abbiamo offerto un enigma di cui l'oggetto trafugato è la risposta... abbastanza per riconoscerlo, ma non abbastanza per descriverlo.» Aveva quasi finito di disegnare. «Tuttavia a lei potrebbe servire qualche informazione in più. L'uomo che ha preso questo...» - Dass indicò il disegno - «... deve aver pensato una cosa: mai e poi mai noi avremmo voluto che la polizia prima e il mondo intero poi venissero a conoscenza della sua esistenza. Quindi non avremmo potuto denunciarne la scomparsa. Ciò, a sua volta, significherebbe la fine delle indagini, perché non ci sarebbe motivo per cui la polizia debba sospettare il coinvolgimento di un terzo uomo. Lei non soltanto ha dimostrato l'esistenza del terzo uomo in maniera autonoma, ma ci ha anche fornito un modo per denunciare un furto senza svelare il segreto. La polizia ha una descrizione ingannevole di ciò che è stato rubato. Lei lavorerà con loro, ma sarà a conoscenza della verità.» Dass smise di disegnare e alzò il foglio. Una rete di linee ondulate, intrecciate tra loro, solcava il foglio, a formare un intricato mandala. Nell'insieme, lo schema somigliava vagamente a una piuma, ma larga come la foglia di una palma e simmetrica rispetto alla linea mediana. «Un tempo, questo oggetto era venerato per le sue proprietà misteriche. Ma parlo di epoche più primitive e presumo che ciò sia valido per qualsiasi oggetto straordinariamente antico. Mi è stato detto che, se si viaggia in lungo e in largo per la Cina, e si parla con un numero sufficiente di persone, è ancora possibile ascoltare storie che lo collegano a diverse leggende e racconti popolari, benché esso sia stato portato via dalla Cina secoli fa.» Dalla tasca del suo completo immacolato, Dass prese un sottile accendino Dunhill. Con un lieve scatto, produsse una fiamma che agitò sotto il bordo inferiore del foglio. «Non mi piacciono i melodrammi, ma non sarà attraverso di me che una descrizione del nostro tesoro perduto raggiungerà gli avidi collezionisti di tutto il mondo. E spero che non avvenga tramite lei», sentenziò, lanciando a David un altro sguardo intenso. E continuò a fissarlo mentre il disegno avvampava e frammenti di cenere iniziavano a volteggiare per la stanza. Quando le fiamme ebbero quasi raggiunto le sue dita, Dass agitò il foglio ormai quasi carbonizzato sul cestino accanto alla scrivania. Sembra-
va incurante del fuoco che gli sfiorava le dita. «Adoro cucinare», confessò. «Insegna a non temere un po' di calore.» Infine estrasse da una tasca un fazzoletto di seta color giallo limone e si pulì le dita. «Qualora avesse bisogno di me per le sue ricerche, chiami la mia segretaria. Magari sarà così gentile da tenermi informato dei suoi progressi», concluse. Il colloquio era evidentemente terminato. David ripose il taccuino nella valigetta con mano malferma, si alzò e si avviò verso la porta. «Mi perdoni se non le stringo la mano», si scusò l'uomo. David annuì, come intontito, e abbassò la maniglia con la mano sudata. Uscì nel corridoio, richiudendo la porta, poi ci si appoggiò. Chiuse a pugno la mano, che stava tremando. Era visibilmente scosso. Abbassò le palpebre per un istante. Poi, imitando in modo maldestro le azioni di Dass, frugò nella tasca alla ricerca di un fazzoletto, con cui si deterse la fronte sudata. Quando riaprì gli occhi, vide Mrs Billings, seduta alla scrivania, che lo scrutava come un gatto studia un topo. Sul volto aveva un sorriso quasi sensuale. «Qualcosa che non va?» chiese, apparentemente divertita dalla mancanza di compostezza del visitatore. David non rispose. Ritrovato il controllo, superò la donna a grandi passi, con un secco: «Arrivederci», e si affrettò a raggiungere la reception. Passò davanti a Stephanie e, senza badare ai tentativi della ragazza di attirare la sua attenzione, uscì in strada, e infine raggiunse la sua auto. All'angolo, prima del parcheggio, c'era un pub, la cui insegna spiegava: CAFFÈ, CAPPUCCINO, APERTO PER L'ORA DI COLAZIONE. David entrò. Due muratori impolverati stavano bevendo una birra in fondo al banco. Intorno a loro, numerosi tavoli erano occupati da clienti che consumavano la colazione. David ordinò una pinta di Guinness, adocchiando l'orologio. Erano le 10.04. Quando venne servito, raggiunse il tavolo più lontano dalla porta e si sedette, sorseggiando la bevanda per qualche minuto. Posò una mano sul tavolo, davanti a sé. Era quasi ferma, benché si potesse ancora percepire un lieve tremore. Tirò fuori il cellulare e recuperò un numero dalla rubrica. Poi si portò il telefonino all'orecchio. «Kieran, sono David.» Restò in ascolto della risposta. Poi disse: «Benissimo, grazie. Ascolta, sei libero all'ora di pranzo? Ho bisogno di chiederti un paio di cose, quindi scegli il posto che preferisci, paga la ditta». Ascoltò l'altro, poi aggiunse: «Ti racconto tutto quando ci vediamo. Allora sei libero?» Un'altra pausa. «Sì, chi l'avrebbe detto? Sono
sicuro di non essere mai stato così critico in merito alla storia, ma ho capito. Speriamo che tutta la tua competenza sia quello che mi serve per questo progetto... No, sul presto va bene. Ci vediamo là, allora. Chiamami se ti trattengono. Fantastico. Ci vediamo a mezzogiorno.» David interruppe la comunicazione e rimise il cellulare in tasca. Poi prese il taccuino. Continuò a sorseggiare la birra, buttando giù di tanto in tanto degli appunti, finché il boccale non fu vuoto. Poi lo riportò al banco, pagò e prese anche una scatoletta di mentine. Se ne mise una in bocca e tornò all'auto. Due ore più tardi era seduto di fronte a Kieran in una bella brasserie del West End. Molti clienti erano in giacca e cravatta, e la maggior parte vestiva alla moda; Kieran era l'unico a indossare una polo. «Avresti dovuto avvisarmi prima, ho l'impressione di essere fuori posto col mio abbigliamento», si lamentò. David sorrise compiaciuto, guardando verso la strada. Bevve un sorso d'acqua. «Stai bene, David?» domandò Kieran. «Non mi sembri del tutto a posto. Mattinata dura nelle miniere di sale?» «Scusa, Kieran. Ma ho incontrato il più... Hai mai incontrato qualcuno che ti spaventa a morte e non sai neanche perché?» «Tutti i giorni. Faccio il bibliotecario. Ma l'idea che in giro ci siano individui che spaventano te è assai inquietante. Chi sarebbe questo troglodita?» «Un cliente. Un uomo d'affari. Deve avere una sessantina d'anni, per niente corpulento, per niente ostile, anzi piuttosto cortese, ma ho fatto fatica a guardarlo negli occhi.» David continuava a fissare la strada. «Caspita. Be', chiunque sia, deve avere qualcosa che non va. Non si è reso conto che avresti potuto ucciderlo col dito mignolo?» commentò Kieran. David sbuffò. «Evidentemente no. Comunque, lasciamo perdere. Tu come stai? Come vanno le cose?» «Le cose? Intendi Hope? Lo sai che è a Hollywood? Sta girando un film; una storia sulla fuga di un lupo che è il prodotto di un programma d'ingegneria genetica della CIA. Dev'essere una roba piuttosto orrenda, ma probabilmente andrà bene. Non l'abbiamo vista molto da quando voi due vi siete lasciati. Ogni tanto telefona, parla a raffica di tutta una serie di cose che noi non capiamo, dopodiché riaggancia perché non ha più tempo. Co-
munque penso che per una volta tanto sia felice.» «Mi fa piacere che lo sia. È sempre stato importante per lei sentirsi apprezzata. Possibilmente da parecchi milioni di persone alla volta», commentò David, sorridendo. «Non dovrei permetterti di parlare così di mia sorella. Questo è compito mio», lo rimbrottò Kieran. Presero a studiare il menu e poi arrivò il cameriere. Una volta ordinato, Kieran osservò: «Bevi all'ora di pranzo? Pensavo che tu fossi molto rigido su queste cose. Non rientra nello stile di vita di un monaco guerriero». «Non credo che tua sorella esca con dei monaci, Kieran. E poi di tanto in tanto bevo un bicchiere di vino», precisò, un po' stizzito. L'altro alzò le mani in segno di resa. «Scusa, non intendevo prenderti in giro.» Proprio in quel momento portarono il vino e David ne bevve un sorso. «A essere sincero, sono ancora un po' scosso per l'incontro di stamattina con quel pezzo grosso.» «È questo cliente che ti spinge a elemosinare il mio aiuto?» volle sapere Kieran. «A pagarti un pranzo costoso e a chiedere gentilmente il tuo aiuto, sì. Ha perso qualcosa e io devo ritrovarlo. Devo scoprire chi potrebbe volere questo oggetto, a chi potrebbe rivolgersi il ladro per cercare di venderlo, con chi parlare...» «Sembra che tu abbia bisogno di un esperto. Parlami di questo ninnolo scomparso. Che cos'ha perso il tuo cliente?» «Be', non ha voluto darmi troppe informazioni, ma so che è antico, pregiato, un gioiello particolare dell'artigianato orientale», spiegò David. «Se si riuscisse a ottenere un centrino dal platino, potrebbe somigliargli. Ha detto che proveniva da qualche parte della Cina, dove si narrano ancora delle leggende sui suoi poteri magici.» Arrivò l'antipasto. Kieran, masticando, alzò la forchetta e l'agitò verso David. «Sai una cosa? Se ha un qualche significato superstizioso, i ragazzi della School of Antiquities potrebbero essere in grado di aiutarti. Hanno appena formato un team che studia tutte le cose mitiche e venerabili. Conosco il tipo che lo coordina, Bernie Lampwick... È stato a casa mia ai tempi della scuola.» David annuì, senza mostrarsi sorpreso. «Se non era a casa tua ai tempi della scuola, sarebbe stato un amico di famiglia, oppure suo padre sarebbe stato uno dei fittavoli di tuo padre o qualcosa del genere.»
«Bada che mio padre non ti senta parlare in questo modo. Gli impediscono di aumentare gli affitti dei suoi cottage dal 1981. Dice che quelli vivono meglio di lui», protestò Kieran. David non fece commenti. «Puoi parlare con questo Bernie, per capire se è disposto a farci da consulente per un paio di giorni? La compagnia è piuttosto generosa in questi casi; potrebbe rifarsi il guardaroba di tweed.» «Penso che Bernie segua più uno stile grange che country, ma lo chiamerò. E la mia parte?» chiese Kieran. «Tu avrai salmone affumicato, seguito da boeuf en croûte e da torte tatin, più due bicchieri di vino e un caffè. Non male per dieci secondi di lavoro», ribatté David. «Dieci secondi per parlarti e una vita per costruire i contatti e il sapere enciclopedico che li accompagna. Ti sto dando tutto questo, lo sai?» borbottò Kieran. «Va bene. Aggiungerò un brandy», concesse David. «Questo Bernie è disposto a spostarsi? A parlare con qualche mercante d'arte, ammesso che ne esistano per questo genere di oggetti?» Kieran rifletté. «Hmm. Bernie non è esattamente un tipo socievole. Gli viene l'ulcera se gli chiedono di tenere una conferenza. Comunque lascia fare a me, troverò qualcuno all'altezza, con un po' di buonsenso... e che abbia un disperato bisogno di denaro.» La conversazione tornò su Hope e sul tentativo di Kieran di spiegare la trama del film in cui lei lavorava. Lui propose a David di andare a cena da loro, quando Hope fosse tornata, in autunno, e David si chiese ad alta voce se fosse una buona idea. La questione fu lasciata in sospeso, ma si misero d'accordo per incontrarsi di nuovo di lì a qualche settimana e riparlarne. Sull'incontro di David con Dass non venne più detto nulla. 7 Venerdì 11 aprile (il giorno dopo) Susan mostrò il nuovo tesserino alla guardia, la quale annuì e premette un pedale, consentendole di superare il tornello. Attraversò l'atrio, lanciando un'occhiata al soffitto decorato. Alla destra della scala principale, si trovava la grande porta dell'ascensore. Scese ai piani inferiori. Qualche istante dopo, entrava nella Sala Alessandrina. Bernie la salutò dal suo angolo.
Susan appoggiò la borsa e il bicchiere colmo di caffè, e appese il soprabito all'attaccapanni accanto alla porta. «Buongiorno, Susan. Come stai oggi?» chiese Bernie, che si era furtivamente avvicinato. «Alla grande. E tu?» rispose lei, allegra. «Oh, sì. Benissimo. Ecco, io... volevo parlarti di una cosa...» La sua tendenza al nervosismo tornò in piena evidenza. Susan si sedette, allungò una gamba e, col piede, avvicinò una sedia che si trovava sotto la scrivania accanto alla sua. «Va bene. Siediti», lo invitò, ruotando la sedia verso Bernie e allungando un braccio alle sue spalle per recuperare la tazza. Il collega si sedette, appoggiandosi allo schienale. In quella posizione, però, era scomodo, perciò si sporse in avanti. «Ieri sera mi ha telefonato un amico. Conosce un tipo che lavora in una compagnia di assicurazione; uno dei loro clienti ha perso un oggetto antico e raro. Hanno bisogno di un esperto che gli dia una mano. L'oggetto che stanno cercando dovrebbe rientrare nel tuo ambito di conoscenze.» Susan non disse nulla e Bernie si affrettò ad aggiungere: «Non ho detto che saresti andata tu. Certo che no». Stava sorridendo nervosamente, come se, nel suo resoconto, ci fosse qualcosa che non aveva ancora rivelato. «Ma...» intervenne Susan con fare interrogativo. «Hmm. Ma ho detto che avresti parlato con quel tipo», concluse Bernie, alzando lo sguardo su di lei per valutarne la reazione. Susan non sembrava dispiaciuta. «Pagano per questo genere di collaborazione, vero?» chiese, incuriosita. Bernie annuì. «E anche bene, credo. Il mio amico ha detto che avrebbero bisogno di un paio di giorni di assistenza, forse non insieme, ma nell'arco di un paio di settimane. Cercare l'oggetto smarrito, scrivere una breve relazione che indichi al loro investigatore la direzione da seguire, magari accompagnarlo a un'asta o da un paio di mercanti d'arte. Non era sicuro dei particolari, ma penso che tu ti sia fatta un'idea.» «Be', sai che ti dico? Ha tutta l'aria di essere una cosa divertente», commentò Susan. «Però non mi va di passare troppe ore fuori. Come sei rimasto d'accordo?» «Ecco, ho detto che ti avrei chiesto d'incontrare questo assicuratore nel pomeriggio. Ho il suo numero qui», rispose Bernie, cercando di porgere a Susan un post-it, che però gli rimase attaccato alle dita. Riprovò, ma il foglietto sembrava incollato alla sua mano. «Bernie!» esclamò Susan con fermezza. Mentre lui alzava lo sguardo, lei
protese una mano per afferrare il foglietto con una tale velocità che Bernie non ebbe neanche il tempo di muoversi. «Grazie per aver organizzato le cose, Bernie. Potrei ricavarci un bel gruzzoletto. E dio solo sa cosa non farei con qualche soldo in più», ammise Susan. «Oh, bene, allora è tutto sistemato», concluse l'altro, tutto soddisfatto. E si alzò per tornare alla sua postazione. «A proposito, Bernie, tra un po' esco. Vado a trovare la signora che ha donato la collezione, la padrona di casa di Teracus. Ho pensato che qualcuno dovesse sapere dove sono. Potresti credere che ho marinato la scuola o qualcosa del genere.» Bernie sembrava incerto sul significato da dare a quella informazione. «Non pensare che io... Spero che non ti dispiaccia se te lo chiedo, ma perché vuoi vederla?» «Per un sacco di motivi. Voglio sapere qualcosa di più sulla provenienza di questo materiale e se potrebbero esserci in giro altri documenti. Sono anche abbastanza curiosa di sapere chi era veramente questo signor Teracus. Domani ti racconterò quello che ho scoperto.» Bernie sorrise con fare compiaciuto e annuì un paio di volte, tornando nel suo angolino. Susan bevve un altro sorso di caffè e appiccicò il post-it al suo telefono. Mise il ricevitore contro la spalla e digitò il numero. «David Braun», rispose una voce dopo il secondo squillo. «David, salve, sono Susan Milton. Bernie Lampwick mi ha dato il suo numero.» «Buongiorno, Miss Milton. Allora, pensa che la cosa la interessi?» «Forse. Bernie ha detto che voleva vedermi nel pomeriggio. Ha qualche impegno?» «Oggi pomeriggio? Non proprio. Lei quand'è libera?» «Se c'incontriamo in centro, posso essere ovunque per le quattro. Potremmo fare anche prima, ma devo andare in un posto e non so quanto tempo ci vuole», spiegò Susan. «Allora diciamo alle quattro. Che ne dice del Museo di storia naturale, vicino al grande dinosauro che c'è nell'atrio?» propose David. Susan scoppiò a ridere. «Lei è per le cose concrete, vero? Questione di assicurazioni.» «Lo giuro sulle mie tabelle attuariali. Possiamo vederci qui in ufficio, se preferisce. Solo che pensavo...»
«No, no. Il dinosauro va bene. È da quando sono arrivata in Inghilterra che ho intenzione di visitare quel museo», confessò Susan. «Allora siamo d'accordo. Conservi i biglietti e glieli rimborserò.» «Non è un problema. Però, ecco, lei che aspetto ha?» «Secondo la maggior parte dei miei amici, di una guardia del corpo», rispose David. «Comunque sarò quello che visita un museo in giacca e cravatta. Mi chiami sul cellulare se non riesce a trovarmi.» «Perfetto. Ascolti, adesso devo andare. Ci vediamo alle quattro», concluse Susan. «Arrivederci.» Susan riagganciò. Dalla borsa prese la sua rubrica e vi scrisse il nome e il numero di telefono di David. Poi l'aprì alla lettera Il e digitò un altro numero. Dall'altra parte risposero con un: «Pronto?» Era la voce fragile di una donna anziana. «Mrs Harris, sono Susan, dell'università.» «Oh, chiamami Hilda, tesoro», ribatté la donna. «Grazie. È sempre d'accordo se vengo a trovarla più tardi?» «Ma certo, cara. Vieni quando vuoi. Ho preparato degli scones. Sarebbero comunque troppi per me.» «Spero che non si sia disturbata troppo... Hilda. Per mezzogiorno, va bene?» «Nessun problema. Sono in casa tutto il giorno. A parte fare un salto ai negozi più tardi, per prendere un po' di pesce. Mi piace mangiare un po' di pesce quando prendo il tè e piace anche a Herbert. Conoscerai anche lui più tardi. Non sei allergica, vero?» «Ai gatti?» tirò a indovinare Susan. «Al pelo.» «No. Mi piacciono i gatti. A mezzogiorno, allora; non vedo l'ora di conoscere lei e Herbert.» «Sarà un piacere anche per noi», ribatté la donna, benché l'impressione fu che non si stesse rivolgendo a Susan. «A più tardi, Hilda.» «D'accordo, cara.» Susan completò la scansione degli ultimi documenti e, dopo aver copiato su un CD i documenti dell'intera collezione, infilò il disco nel drive del suo iBook, prima di riporre il portatile nella custodia. Era giunta l'ora di andare. Prese l'ascensore per risalire in superficie e
riemerse nel luminoso sole primaverile. A grandi passi si diresse verso la fermata della metropolitana di Russell Square. Un'ora dopo, raggiunse la periferia occidentale di Londra e cominciò ad attraversare Brentford, con una carta stradale in mano. La strada che stava percorrendo formava un gomito più o meno a metà, come se i lavori di costruzione fossero iniziati da entrambe le estremità, ma alla fine non si fossero incontrati al centro. La meta di Susan era all'angolo della prima curva. Quando si ritrovò davanti all'indirizzo giusto, si attardò a osservare la casa. Era una villetta indipendente di discrete proporzioni, un po' malandata, più o meno degli anni '20. Al centro del giardino, con la pavimentazione a mosaico, c'era una piccola aiuola ovale, da cui spuntavano belle rose con enormi boccioli di un rosa pallido che si stavano già schiudendo. Susan aprì il cancello di ferro battuto e salì i gradini verso la porta d'ingresso. Quando suonò il campanello, in lontananza sentì risuonare un motivetto conosciuto. Una donna sulla settantina, coi capelli biondo platino laccati, aprì la porta. Indossava un paio di pantaloni larghi e una T-shirt bianca, con le maniche lunghe, dov'era ricamata in luccicanti fili dorati una tigre, sotto la quale c'era la scritta: NEPAL. «Salve, sono Susan.» «Oh, ciao, cara. Sei riuscita a trovarci senza difficoltà? Vieni, entra», la invitò Hilda. Due porte si affacciavano sulla piccola anticamera. Quella sulla sinistra era aperta, a rivelare pareti tappezzate con una carta da parati rossa e una stanza dominata da due poltrone e un sofà rosa chiaro. «Metto sul fuoco il bollitore. Tè o caffè solubile?» chiese. «Tè, per favore.» La fece accomodare sul grande sofà accanto alla finestra. Alle sue spalle, tende fucsia ornate da ruches impedivano la visuale sulla strada. Quando Susan si fu seduta, Hilda andò ad armeggiare in cucina, lanciando di tanto in tanto delle battute - solo in parte udibili - sul tempo e sulla quantità di spazzatura che si accumulava in strada. Di lì a poco il tè fu pronto e servito; un vassoio di biscotti al cioccolato e crema era stato posato su un tavolino di legno di teak e vetro accanto alle ginocchia di Susan, mentre Hilda aveva preso posto vicino alla porta. Un panno quadrato rosso rivestiva il bracciolo destro della poltrona su cui sedeva la donna. Il suo utilizzo fu ben presto chiaro: dalla cucina uscì un gattone nero, miagolò una volta in direzione di Susan, poi saltò sul panno. Si accovacciò in modo perfetto, con le zampette sotto la pancia, e infine
fissò il suo sguardo sulla nuova arrivata. Hilda sembrò prenderlo come un segnale per mettersi a parlare. «Terry era un uomo adorabile. Molto tranquillo. Sempre assorto nella sua collezione; non mi ha mai dato nessun disturbo. Ho versato qualche lacrima quando mi hanno informata della sua morte. Gli avevo affittato la stanza di sopra dopo che Herbert - mio marito, non questo suo piccolo omonimo l'aveva ristrutturata... Dev'essere stato nel 1977, perché sugli strofinacci per i piatti c'erano immagini che commemoravano i venticinque anni di regno di Elisabetta II... comprati al mercato.» Abbassò la voce. «Da allora, tutti i suoi ritratti sono spaventosi, non trovi? Se avessi fatto io le immagini che adesso compaiono sulle banconote, avrei paura di essere trascinata alla Torre di Londra con l'accusa di alto tradimento. Non capisco perché lei sopporti tutto questo.» Susan stava per ribattere, ma la donna prese la teiera, rimestò il contenuto un paio di volte, poi versò nelle tazze l'infuso fumante. Anche con l'aggiunta del latte, permaneva un colore rosso, che suggeriva quanto fosse forte. «Grazie», disse Susan quando la donna le porse la tazza e la zuccheriera, entrambe di porcellana decorata con scene agresti in colori pastello. «Sa di che cosa si occupava Terry, a parte la collezione?» chiese poi. «Non l'ho mai visto interessarsi ad altre cose. Penso che abbia svolto altri lavori, ma non per molto. Era quasi sempre in viaggio. Molti di quei piccoli frammenti che raccoglieva venivano dall'estero, e non intendo un estero 'vicino'. Un estero vero e proprio, come l'Africa o il Nepal.» Abbassò lo sguardo sul tavolino. «Questo me lo ha portato lui. Lo prendevo sempre in giro perché, per quanto stesse via, non cambiava mai colore. Come si fa a stare un mese in Africa e tornare a casa pallido come un cencio? Ma penso che non mettesse mai il naso fuori dell'albergo. In un certo senso non riesco a immaginarmelo all'aperto», borbottò con aria pensierosa. «Ha idea del perché tenesse la collezione? A quanto pare non ha mai venduto nulla, quindi non era un'attività vera e propria. Lo faceva solo per sé?» domandò Susan. «In realtà non ci ho mai pensato. Del resto non vedeva mai nessuno. Quindi non era esattamente una biblioteca ambulante, se capisci ciò che intendo. No, era il suo hobby, ecco cos'era. Ci sono cose peggiori da collezionare che vecchie carte, e ritengo che in quelle ci sia probabilmente qualche prezioso brandello di storia.» Colse lo sguardo di Susan. «Avete
già cominciato a guardare i documenti?» chiese. «Be', c'è ancora molto da fare, ma, sì, abbiamo passato parecchio tempo a esaminarli. Sono straordinari e tutti noi le siamo molto grati per averceli donati.» «Ecco, benché Terry non sarebbe felice di sapere che un sacco di estranei frugano nelle sue cose, dopo aver riflettuto a lungo sulla questione, ho pensato che avrebbe gradito ancor meno che la collezione finisse nel cestino dei rifiuti. No, mi è venuto in mente che avrei potuto trovarle una casa. Se dovevano essere degli estranei a metterci le mani sopra, mi piace pensare che Terry avrebbe preferito qualcuno in grado di prendersene cura. E di trarne altrettanto piacere.» «E dove teneva la collezione?» volle sapere Susan. In quel momento si udì un tonfo provenire dalla stanza di sopra. Anche Hilda lo udì e alzò gli occhi al soffitto. Rispose alla domanda distrattamente, come se tendesse un orecchio verso la porta. «Aveva un grande baule di metallo, ai piedi del letto, chiuso con un lucchetto. La chiave era tra i suoi effetti personali quando la polizia me li ha restituiti. Tutta la collezione era lì dentro, eccetto...» Ci fu un altro rumore, come di un cardine arrugginito e di un oggetto pesante trascinato. La donna alzò di nuovo lo sguardo verso il soffitto. «È tutto a posto?» chiese Susan. «Mi chiedo se Herbert non si sia chiuso dentro... Oddio, ma cosa dico, sei qui, tesoro, non è vero? Devo aver lasciato una finestra aperta. Meglio che vada a dare un'occhiata, prima che il vento faccia danni.» Hilda posò la tazza e andò in cucina. Tornò subito dopo con una chiave di ottone agganciata a una cordicella con un cerchietto di ferro. «Torno subito, cara. Serviti pure dell'altro tè...» Infilò la chiave nella serratura dell'altra porta che dava sull'anticamera e scomparve. Susan sentiva il rumore smorzato dei passi della donna che saliva le scale, le quali dovevano trovarsi proprio al di là della parete di fronte alla quale era seduta. Poi fece per sorseggiare il tè, ma si umettò appena le labbra e, con una smorfia, posò la tazza. Hilda continuava a muoversi al piano di sopra. D'un tratto si udirono uno schianto e un rumore simile a un ansito o a un grido soffocato. Susan balzò in piedi. «È tutto a posto, Mrs Harris?» urlò nella direzione della porta, mentre si guardava intorno. Dentro il caminetto di mattoni era stata messa una stufa elettrica e, accanto, si trovava una serie di arnesi di
ferro, a puro scopo ornamentale. Susan prese l'attizzatoio e uscì. Superò la porta e prese a salire le scale, tenendo l'attizzatoio davanti a sé. «Mrs Harris, vuole che qualcuno di noi salga?» gridò. Udì uno strillo e fece di corsa gli ultimi gradini. In cima alla scala c'era una grande stanza. Da una parte si trovava il letto; dall'altra c'erano una scrivania e un classificatore di metallo. Riversa al centro della stanza c'era Mrs Harris, che cercava di rialzarsi. Un uomo tutto vestito di nero era fermo proprio fuori della finestra. L'uomo lanciò un'occhiata a Susan e poi si mise a correre - ma lungo che cosa? - e sparì alla vista. Indossava una maglia nera a maniche lunghe, ma gran parte della manica destra era stata strappata, lasciando così scoperto un bicipite muscoloso. Su di esso, Susan vide una grande placca brunastra e altre due placche, più piccole, sull'avambraccio. Brandendo l'attizzatoio, corse verso la finestra. La casa era stata ampliata al pianoterra, ma non di sopra, dov'era rimasto un tetto piatto, simile a una terrazza, che si allungava per cinque metri oltre la finestra. Guardò fuori, ma l'uomo era scomparso. Allora chiuse rapidamente la finestra col chiavistello, poi corse da Hilda. La donna stava cercando di dire qualcosa, ma la sua bocca si muoveva senza produrre nessun suono e negli occhi spalancati aveva uno sguardo terrorizzato. Sembrava non essersi accorta della presenza di Susan. «Mrs Harris», ripeté la giovane diverse volte, ma Hilda non le prestò ascolto. Allora cercò di aiutarla ad alzarsi, ma le gambe dell'anziana donna erano malferme e lei ricadde sul pavimento. Per poco non la trascinò con sé. «Non si preoccupi, cara. Torno subito», la rassicurò Susan. Corse di sotto, tornando nel salotto. Su un tavolo accanto alla poltrona - che Herbert aveva lasciato - c'era un cordless bianco. Susan lo afferrò e premette il tasto verde per avere la linea. Poi digitò il numero del pronto intervento e chiese un'ambulanza. Fornì più dettagli che poté, immaginando che la donna dovesse avere poco meno di settant'anni. Non aveva idea di quale fosse il suo reale stato. Sempre parlando, tornò di sopra, allungando l'antenna per non perdere la comunicazione. Conclusa la telefonata, riagganciò e posò il telefono sul pavimento, in cima alle scale. Quindi prese un cuscino dal letto nell'angolo, lo mise sotto la testa di Hilda e cercò di convincerla a sdraiarsi e a non agitarsi. Poi le tenne la mano per qualche minuto, accarezzandola. Infine riprese il telefono, digitando ancora una volta il numero del pron-
to intervento, e chiese di parlare con la polizia. Fu la polizia ad arrivare per prima, circa tre minuti dopo la sua chiamata. Quando udì il campanello, Susan lasciò andare la mano di Hilda e riprese l'attizzatoio. Scese di sotto e, una volta giunta alla porta d'ingresso, riuscì a vedere chiaramente, attraverso la finestrella di vetro smerigliato, due figure in uniforme. Aprì la porta e accompagnò di sopra i poliziotti. «Che cos'è successo, signora?» chiese l'agente che si era inginocchiato accanto alla povera donna. «Stavamo chiacchierando in salotto. È venuta qui perché abbiamo sentito un rumore, e c'era qualcuno. Ho pensato di sentire... Be', non so esattamente cosa, ma ho avuto l'impressione che fosse in difficoltà. L'ho chiamata, poi sono corsa di sopra. C'era un uomo sul tetto, ma è scomparso subito.» L'altro poliziotto si era messo a esaminare il bauletto di metallo ai piedi del letto; il coperchio era stato quasi interamente scardinato. Poi si spostò verso la finestra, l'aprì e uscì sul tetto. Mentre scrutava oltre il bordo della superficie catramata e cosparsa di ghiaia, si mise a parlare nel microfono che teneva sul risvolto. Il primo agente, intanto, stava parlando dolcemente a Hilda. «Non si preoccupi, cara. Adesso è tutto a posto. Non si preoccupi.» Poi, rivolto a Susan, mormorò: «Adesso può posare quell'attizzatoio». Lei guardò l'arma improvvisata, che stringeva ancora nella sinistra, ed emise un lieve sospiro, quasi una risatina. Poi sentì qualcosa. «Penso che stia arrivando l'ambulanza», disse. Scese le scale, fece una piccola deviazione per riporre l'attizzatoio e il telefono al loro posto, poi aprì la porta ai due barellieri e, mentre li conduceva da Hilda, spiegò loro ciò che sapeva. La stanza stava diventando un po' troppo affollata, quindi Susan scese di nuovo le scale e prese il cordless. Aveva quattro pulsanti a ricerca rapida, ciascuno con un nome accanto. Il primo era DAISY. Susan premette il tasto. Quando sentì rispondere una voce di donna, chiese: «Mi scusi, lei è un'amica di Mrs Hilda Harris?» «Sono la sorella», rispose l'altra. Susan le spiegò quello che era accaduto. La notizia sconvolse Daisy, che cominciò a fare domande a raffica, senza neanche aspettare la risposta. Susan la interruppe e, in tono calmo e deciso, la rassicurò, spiegandole che avrebbe accompagnato Hilda in ospedale. Le dettò il suo numero di cellulare e le chiese se aveva una chiave
della casa della sorella. Daisy rispose di sì. Ciò significava che Susan poteva lasciare che fosse la polizia a chiudere, perché Daisy, se ce ne fosse stato bisogno, avrebbe potuto entrare. Quindi le suggerì di prendersi un paio di minuti per calmarsi e di recarsi in ospedale una volta sistemate le sue cose. Lei l'avrebbe aspettata lì. Infine chiese a Daisy di attendere e andò a chiedere ai barellieri in quale ospedale avrebbero portato Hilda. Una volta terminata quella telefonata, Susan attraversò la cucina per recarsi nella camera da letto, dove trovò una borsa in cui infilò alcuni effetti personali della donna. Aveva appena finito quando i barellieri iniziarono a scendere, portando Hilda sulla barella. Susan strappò un foglietto da un taccuino che aveva in borsa e vi scrisse i suoi dati. Poi prese l'impermeabile e la borsa. Quando la barella ebbe oltrepassato la porta, scesero anche i poliziotti. Lei spiegò che avrebbe accompagnato la donna e diede loro il foglietto coi suoi dati, pregandoli di chiudere la porta una volta ultimato ciò che dovevano fare. I barellieri si opposero al fatto che lei salisse sull'ambulanza, sostenendo che avrebbe dovuto prendere un taxi, ma, davanti alle ferme proteste di Susan, capitolarono e la fecero accomodare sul sedile di fianco a quello dell'autista. «Herbert...» mormorò Susan, ricordandosi all'improvviso del gatto. Tirò fuori una penna e scrisse il nome sulla mano. 8 Venerdì 11 aprile Susan Milton era in ritardo. David guardò di nuovo l'orologio: erano le 4.49. Girò molto lentamente intorno al Diplodocus. «David Braun?» disse una dolce voce femminile, dal vago accento americano. David si girò e vide una ragazza graziosa, in jeans scuri e camicetta bianca di cotone, che reggeva una borsa e un impermeabile con una mano sola, e aveva un'espressione preoccupata. «Miss Milton?» chiese David. «Anzi dovrei dire: 'dottoressa Milton'?» Susan si sistemò la cinghia della borsa sulla spalla e protese una mano. Poi disse: «Okay. Senza un ordine particolare: mi dispiace molto averti fatto aspettare. Due: chiamami Susan. Tre: ho avuto una giornata bestiale, scusa se te lo dico, quindi dovrai andarci piano con me».
David contò i punti sulle dita, quindi ribatté: «Nessun problema. Ciao, Susan. Mi dispiace che tu abbia avuto una brutta giornata». Sorrise. «Allora andiamo al bar, prima che chiuda, così almeno potrai sederti», concluse, facendole strada. Entrarono nella caffetteria, che era pressoché deserta. David appoggiò la sua cartella su una sedia e indicò a Susan di sedersi. «Di solito, per accettare di parlare con me di lavoro, la gente ottiene in cambio una cena. Lascia che ti prenda almeno una tazza di caffè, mentre riprendi fiato.» Susan annuì con un debole sorriso. Mentre si girava per andarsene, lei lo richiamò. «Puoi prendermi anche un tramezzino? Sono affamata.» «Certo», rispose lui, quindi andò a prendere un vassoio e si mise in fila. David era l'ultimo. Pagò per il caffè e tre tramezzini che riportò al tavolo. Mentre faceva la coda, l'aveva osservata un paio di volte, e l'aveva vista ripiegata su se stessa, mentre si passava le mani tra i capelli, la testa bassa. Una volta finito di pagare, vide che faceva un bel respiro e si ricomponeva. Raddrizzò la schiena e protese il mento. David tornò al tavolo e posò il vassoio. «Non so che cosa ti piace, quindi ho preso tonno, formaggio e sottaceti o prosciutto. Prendi quello che vuoi, il resto lo mangerò io.» Le passò la tazza e dispose i tramezzini davanti a lei. Susan si portò subito la tazza di caffè alle labbra. «Ascolta, mi devo scusare, però talvolta sono un po' lento», esclamò David. «Mi hai detto di aver avuto una giornata disastrosa... Vuoi che rimandiamo?» Susan stava scartando il tramezzino al tonno e, a quelle parole, alzò gli occhi. David scoppiò a ridere. «Il tramezzino lo puoi avere comunque.» «Ci devi solo provare a portarmelo via», ribatté lei, staccandone un grande morso. «No, sto bene. Sono un po' tesa. Diciamo che oggi avrebbe potuto andarmi molto peggio.» David sostenne il suo sguardo, soppesando la sincerità di quelle parole, poi annuì. «Bene, allora lascia che ti spieghi di cosa ho bisogno, poi mi dirai se rientra nelle tue competenze e se può interessarti.» Susan era molto indaffarata a mangiare, ma annuì con entusiasmo, ruotando un dito, per indicare a David che poteva continuare. «Okay. Io lavoro per quella che si potrebbe definire una compagnia di assicurazione di alto livello. I nostri clienti sono perlopiù individui benestanti o famiglie ricche. Il mio lavoro consiste nell'accertarmi che tutto
vada per il verso giusto ogni volta che loro vogliono qualcosa o hanno bisogno di presentare un reclamo. Mi occupo dei contatti, della compilazione dei moduli e anche di parlare con la polizia. All'inizio di questa settimana, uno dei nostri clienti ha subito un'intrusione nei propri uffici. Un'azione pianificata in modo piuttosto elaborato. Chiunque fosse a capo della banda ha concentrato, in apparenza, il suo interesse sul denaro custodito nella cassaforte principale, ma il suo vero obiettivo era un altro: un oggetto raro e prezioso che si trovava nella cassaforte personale del presidente. Ed è qui che entri in gioco tu. Se qualcuno rubasse un oggetto d'argento del XVIII secolo, saprei a quali mercanti rivolgermi, perché mi sono già fatto una certa esperienza in questo campo. Conosco grosso modo il circuito che seguono questi oggetti prima di essere rivenduti. Con questo pezzo, invece, non so da dove cominciare, quindi ho bisogno di aiuto.» Susan inghiottì l'ultimo boccone del tramezzino al tonno e allungò una mano per prendere quello al formaggio e sottaceti, dicendo: «Pensavo che fosse un lavoro della polizia, non dell'assicurazione». «Be', se siamo fortunati, di entrambi. La polizia svolge le indagini, noi ficchiamo un po' il naso, tutto viene condiviso e alla fine ne esce, si spera, qualcosa di buono. Ovviamente, un'indagine come questa procede più velocemente se i poliziotti coinvolti sono, diciamo, esperti di argenti del XVIII secolo, ma, come puoi immaginare, non ce ne sono molti. In effetti, però, molte volte lasciamo che siano loro a svolgere tutto il lavoro. In questo caso, ci sono parecchi motivi per cui vogliamo fare tutto il possibile... non ultimo il fatto che è stato il cliente a chiedercelo espressamente. La sua azienda paga per i nostri servigi da oltre un secolo; sarebbe bello se non fossi io a fargli cambiare idea.» Sorrise. «Allora, cos'è stato sgraffignato?» scherzò Susan. David le rivolse un sorriso sarcastico. «Oh, già, lo slang...» Lei chinò il capo, come se volesse fargli un riverenza, e addentò l'altro tramezzino. «Non ho molte informazioni. Si tratta di un cofanetto di pelle e osso, contenente un antico gioiello di platino. Tipo un oggetto di filigrana», spiegò David. «Posso farti un disegno approssimativo in base a uno schizzo molto approssimativo che mi è stato mostrato.» Tirò fuori il taccuino dalla cartella e iniziò a disegnare. «Pensavo che il platino fosse un metallo moderno, come l'alluminio», commentò lei. «A quanto pare non è così. Secondo il mio cliente, gli egizi e gli aztechi
producevano gioielli di platino. O forse erano i maya», borbottò David, incerto. «Direi gli incas», suggerì Susan. «Si tratta di popoli che vivevano molto tempo fa, insomma. Allora, si tratta di un oggetto egizio o sudamericano?» David aveva finito il suo schizzo. «Cinese, in apparenza, anche se non conosco la provenienza esatta.» Girò il taccuino e lo fece scivolare verso Susan. «Non è proprio di Michelangelo, ma...» S'interruppe, vedendo la sua espressione. «Che cosa c'è?» Susan stava cercando di aprire la custodia del computer e, nella fretta, non riusciva a sganciare il fermaglio. «Aspetta», disse, riuscendo finalmente a estrarre il suo iBook. Sollevò lo schermo e accese il computer. «Quando dici cinese, potrebbe essere tibetano?» «Be', tutto ciò che ho è la Cina e il fatto che, a quanto sembra, ancora oggi si narrano leggende su questo oggetto. Essendo tu un'esperta di leggende e mitologia...» Susan intanto stava digitando qualcosa sulla tastiera. «Scusami, ci vorrà poco», disse. Poi annunciò trionfante: «Sì, ci sono delle leggende, ed eccone una». Ruotò il portatile in modo che David potesse vedere il monitor e lui scorse l'immagine di un foglio su cui qualcuno aveva vergato un testo piuttosto lungo, in alfabeto latino, ed eseguito uno schizzo non molto dissimile da quello di David. «Accidenti, che brava», si complimentò. «Allora, che cos'è?» «Non hai capito. Stamattina stavo leggendo questo», esclamò lei, tamburellando sullo schermo. «E adesso tu mi chiedi d'identificarlo. Non è inquietante?» David restò in silenzio per qualche secondo, limitandosi ad alzare le sopracciglia. Susan, d'altro canto, aveva un'espressione curiosa sul viso. All'improvviso, si sporse in avanti e guardò David negli occhi. «Lascia che ti racconti perché è stata una giornata così tremenda per me», disse in tono impaziente. «Va bene», ribatté David, incerto. «Di solito lavoro a Cambridge, ma sono venuta a Londra per via di una grande scoperta. Qualche mese fa, il proprietario di una collezione privata è morto e la School of Antiquities l'ha ereditata. Siccome il materiale è decisamente notevole, sono andata a fare quattro chiacchiere con la donna che ha donato la collezione: la padrona di casa del proprietario. Volevo sapere qualcosa in più su di lui. Lei mi ha detto che questo signore era sempre in viaggio per acquistare nuovi documenti... e che non era più tor-
nato dall'ultimo viaggio.» Fece una pausa e, quando riprese, la sua voce aveva un tono agitato. «Mentre ero lì, qualcuno ha fatto irruzione nella casa e ha aggredito la donna. Sono appena tornata dall'ospedale dov'è stata ricoverata. È in condizioni precarie, ha delle lesioni interne, come se fosse stata colpita da un oggetto pesante. Il tipo che l'ha aggredita aveva già scardinato il bauletto dove di solito veniva custodita la collezione.» Tamburellò di nuovo le dita sullo schermo. «Dove di solito si trovava questo documento. Quello che descrive il tuo oggetto trafugato. Che te ne pare di questa coincidenza? Chiunque fosse alla ricerca dell'oggetto antico probabilmente è alla ricerca anche del documento che ne parla.» «Com'è morto il proprietario della collezione?» chiese David dopo qualche istante di silenzio. «Credo che l'espressione usata dalla polizia sia: 'cause imprecisate'», rispose Susan. Ma anche lei aveva una domanda da fare. «C'è stata violenza nella tua irruzione?» «Parecchia», replicò David. «Qual è l'opposto di un intervento pacifico? Be', insomma... Due morti, apparentemente solo per sviare la polizia. Adesso dove si trova la collezione?» «Al sicuro, alla School of Antiquities», rispose Susan, benché la sicurezza iniziale con cui aveva pronunciato quelle parole sembrò sfumare alla fine. David sollevò un sopracciglio. «Be', penso che dovresti fare due chiacchiere con l'ispettore Hammond della Serious Crime Squad e raccontargli quello che mi hai appena detto.» Cercò il biglietto da visita di Hammond. «Penso che sarebbe saggio se questa collezione avesse una protezione extra.» Gli ci volle qualche istante per trascrivere i dati, poi strappò la pagina dal suo taccuino e la diede a Susan. «Lo chiamerò anch'io, per fargli sapere quello che sta succedendo...» Poi sbiancò di colpo ed esclamò: «Oddio, mi dispiace. Mi rendo conto solo adesso... Vuoi dire che eri sul posto quand'è accaduto l'incidente?» «Già, proprio così. La signora era andata di sopra a controllare quale fosse l'origine di un rumore che avevamo sentito; poi ho udito un lamento e mi sono preoccupata. Ho gridato qualcosa sul fatto che di sotto c'era più di una persona. Quando sono arrivata in cima alle scale, qualcuno stava scavalcando la finestra.» «Tu stai bene?» «Ascolta, ho lavorato come volontaria a New York per un anno e ho visto cose ben peggiori del sedere di un rapinatore. Però stare accanto a quel-
la povera donna... Nel giro di venti secondi, una donna normale è diventata una fragile vecchietta che, secondo i medici, probabilmente non si riprenderà.» Il tono della sua voce s'incrinò. «Perché non mi hai chiamato per cancellare l'appuntamento?» chiese David. «Anzi, perché non hai rinunciato a venire? Come avrei potuto biasimarti?» «Non è questo il modo in cui lavoro», replicò lei. «Dio mio, se crollo quando non ho neanche un graffio, cosa faccio di fronte a una vera emergenza?» David la guardò, impressionato. «Perdonami il cliché, ma speriamo che tu non debba mai scoprire la risposta a questa domanda», mormorò. I suoi occhi vagarono alla ricerca di qualcosa su cui posarsi, qualcosa di diverso dalla sofferenza sul viso di Susan. Si ritrovò a guardare lo schermo del suo portatile. Fissò con maggiore attenzione l'immagine. «Senti un po'... Perché non ci scambiamo i ruoli?» le propose. «Io mi occuperò dello scampato pericolo, mentre tu gestirai la ricerca. Ti occuperai di questo, per esempio.» Indicò il testo sullo schermo. «Riesci a leggerlo?» «Certo», rispose lei. «È scritto in latino e probabilmente si tratta di una traduzione dal tibetano. Almeno questo è ciò che dice alla fine.» La voce di Susan era tornata normale. «Si tratta della storia di un Magic Marker.» Fece una risatina, come se si fosse resa conto di quello che stava dicendo solo mentre lo pronunciava. David le rivolse uno sguardo interrogativo. «Scusa, umorismo americano. Il Magic Marker è un grosso pennarello, dal tratto spesso, che si usa negli States. Come voi quando dite 'biro' e noi non sappiamo cosa significa... Comunque, nella storia, questo Marker è magico, in quanto attira l'attenzione degli dei. Loro rimangono affascinati dallo schema. In altre parole, lo si mette su una persona malata e, se un dio nota il Marker, può decidere di guarire quella persona.» «Tipo un bracciale di pronto soccorso divino?» buttò lì David con una certa insolenza. «Be', non è un bracciale, ma in linea di massima sì», ribatté Susan. Aveva uno sguardo vago e David lo notò. «Che c'è?» chiese a bassa voce. «Mi hai appena fatto venire in mente una cosa. È un'idea pazzesca, ma è una coincidenza così strana. No, lascia perdere», mormorò Susan. «Cosa?» chiese di nuovo lui, incoraggiante. «Quando ti ho accennato al mio lavoro di volontariato, mi sono venuti in mente alcuni senzatetto coi quali avevamo a che fare. Non dico che sia
così, è solo un'idea, però... Sono riuscita a intravedere quel tipo che ha aggredito la vecchietta. Lei gli aveva strappato una manica e sul braccio ho scorso degli strani segni.» «Tipo tatuaggi?» volle sapere David. Susan scosse la testa. «No, non erano tatuaggi. Mi hanno fatto venire in mente un paio di tossicodipendenti che venivano al centro. Sai che cos'è il sarcoma di Kaposi?» «Qualcosa che c'entra con l'AIDS, giusto?» «Esatto. È una specie di tumore della pelle ed era piuttosto raro, prima della diffusione dell'AIDS. Di solito lo si contrae quando il sistema immunitario è... andato.» Dopo una pausa, proseguì: «Mi è venuto in mente leggendo questo». Con un cenno del capo indicò il portatile. «Tu hai detto che questo tipo è molto violento. Be', io ho visto l'aggressore lanciarsi da un tetto. L'AIDS è estremamente diffuso tra i tossicodipendenti, i quali tendono ad agire in modo violento e ad assumere atteggiamenti spavaldi, tipo saltare da un tetto. Forse prende qualcosa che lo rende aggressivo e non gli fa sentire il dolore... Il pentaclorofenolo, per esempio.» «Pare che, dopo l'intrusione, sia fuggito lanciandosi da una finestra, facendo un salto di dieci metri», aggiunse David. «Ecco. Quindi avrebbe senso», commentò lei. «Allora è un tossicodipendente», concluse David. «Forse. Ma stavo pensando a un'altra cosa. E se fosse un tossico violento e anche gravemente malato? Se sta cercando qualcosa di abbastanza potente da fargli immaginare di essere Batman, potrebbe farsi venire delle idee strane.» Sembrò riluttante a proseguire. «E...» la spronò lui. «E se non volesse questo oggetto per venderlo? Se fosse convinto che potrebbe davvero guarirlo?» Entrambi rifletterono sulla questione. David non sembrava persuaso, ma nessuno dei due si espresse. La conversazione si spostò su questioni più pratiche. Era ovvio che Susan sarebbe stata coinvolta nell'indagine; non si presero nemmeno la briga di discuterne. David le spiegò ciò di cui aveva bisogno e quale sarebbe stato il compenso. Susan accettò di mettere il lavoro sul Marker - come avevano deciso di chiamarlo - in cima alla sua lista... Dove in realtà già si trovava, anche prima degli avvenimenti di quella giornata. «Quando possiamo rivederci?» chiese David.
«Be', ho bisogno di qualche giorno. Che ne dici di martedì?» «Per me va bene. A che ora?» «Di solito finisco di lavorare alle sei...» rispose pensierosa Susan. David sembrò vagamente sorpreso. «Oh, va bene, possiamo incontrarci di sera, se è più semplice.» «No, volevo solo dire... Stavo pensando ad alta voce. A meno che... Sì, sarebbe più semplice. Ma forse tu non lavori di sera.» «Solo se devo. Ascolta, al mio amico Kieran ho pagato un pranzo completo, e lui non ha fatto altro che spendere due minuti al telefono con Bernie, il tuo collega. In confronto, tu meriti molto di più di un tramezzino.» Abbassò lo sguardo sugli involucri vuoti. «Tre miseri tramezzini.» «Non avevo mangiato nulla», si giustificò timidamente Susan. «Va bene. Che ne dici... di trovarci da Villandry, Great Portland Street, alle sette e mezzo di martedì? Paga la compagnia, naturalmente. Compreso il taxi.» Si fece un appunto per prenotare. «D'accordo», rispose Susan con una punta d'incertezza. «E chiama Hammond. A quest'ora, parecchie persone sapranno dove si trova la collezione. Se qualcuno la sta cercando...» Susan annuì. «Non preoccuparti, non me lo dimenticherò.» S'incamminarono verso l'uscita. Mancavano pochi minuti alla chiusura del museo. «La prossima volta verrò a visitarlo», dichiarò Susan. Uscirono dall'ingresso principale e si avviarono verso la stazione della metropolitana. David chiese a Susan di parlarle del suo lavoro di ricerca e di come si trovava a Londra. Sempre chiacchierando, scesero nella stazione e superarono le barriere. Scoprirono che avrebbero preso linee diverse. «A martedì sera», gridò Susan, salendo sulla scala mobile. David la salutò con un cenno della mano. «A presto», disse. Rimase a guardarla per qualche istante, poi si voltò e si diresse verso le altre scale mobili. 9 Lunedì 14 aprile (tre giorni dopo) David era seduto nell'ufficio di Reg Cottrell e gli stava descrivendo la sua visita alla Interfinanzio.
«E così hai conosciuto il presidente», disse Reg, lasciando intendere che quello fosse un fatto piuttosto importante. David scrutò il viso dell'altro, cercando di valutare quale fosse il significato sotteso di quelle parole, e rispose: «Un personaggio notevole, eh?» «Notevole, sì. Mettiamola così. Anche se avrei usato un altro aggettivo», ribatté Reg. «Com'è andato il colloquio?» «Be', devo ammettere che è riuscito a mettermi addosso una grande agitazione, anche se mi sembra che alla fine ci siamo intesi abbastanza bene», spiegò David. «Ha caldeggiato un nostro coinvolgimento. Vuole che svolgiamo alcune indagini, per integrare il lavoro della polizia. Anzi, a dire la verità, dalle sue parole mi è sembrato di capire una cosa: vuole che recuperiamo l'oggetto rubato e al diavolo la polizia.» La reazione di Reg fu di vaga sorpresa. «Forse avrei dovuto esprimermi in un altro modo, ma questo è il succo della questione. Questo e l'implicazione che la Marshall and Liberty andrebbe in fallimento qualora lui decidesse di reclamare il premio assicurativo», concluse David. Reg annuì, serio. «È una reale possibilità, a meno che non riusciamo a trovare un modo per rivedere la valutazione. Questo è un momento più difficile per il nostro settore rispetto all'epoca in cui la polizza venne stipulata. Comunque adesso tocca a te fare la prossima mossa. Come pensi di giocartela?» «Speravo in un aiuto da parte dei soci», rispose cautamente David. «Se faccio troppo poco, non solo rischio di rovinare i rapporti con uno dei nostri migliori clienti, ma anche, a quanto sembra, di mandare sul lastrico la compagnia. Se mi espongo come Mr Dass vuole, direi che ho buone probabilità di mettermi contro la polizia, e questo non ci porterà nessun vantaggio. Noi contiamo su un buon rapporto con la polizia e non vogliamo attriti... ed entrambe le cose potrebbero essere un problema, a seconda dei guai in cui riesco a cacciarmi.» L'espressione di Reg era imbarazzata. «Come ho detto, la decisione è tua, ed è difficile. Ma tieni presente che Alessandro Dass è un pezzo grosso... Sappiamo che più di una volta ha usato la propria influenza. Ed è l'ultima persona che si vorrebbe deludere. Per lo stesso motivo, tutto ciò che ha la sua approvazione non incontrerà ostacoli in altri ambienti... ci penserà lui. Dubito che la polizia s'intestardisca su una questione che soddisfa Dass e i suoi soci, a meno che non ci sia qualcosa di veramente illegale.» David ponderò quelle parole. «Reg, forse sono un po' duro di compren-
donio, quindi spero che mi perdonerai se insisto... Ma perché questa pratica non viene seguita da uno dei soci?» L'altro parve ancora più a disagio. «Ecco, non so cos'altro ci sia da discutere. Diciamo solo che i soci ritengono che tu abbia grandi potenzialità. Questa è la tua occasione per dimostrare ciò di cui sei capace, senza qualcuno che ti guardi le spalle. Ti viene data carta bianca e sono sicuro che tu immagini quanto ti sarà grata la società se riuscirai a concludere la faccenda in modo soddisfacente.» David annuì lentamente, con un'aria di stanca rassegnazione sul viso. «Era quello che pensavo: la possibilità di farmi notare e nessuno che mi guarda le spalle. Quindi avrò tutti i meriti se la faccenda va a buon fine. E se invece va male...» Reg lo interruppe bruscamente. «È inutile pensare adesso a questa eventualità. Mi sembra che tu abbia la situazione abbastanza in pugno per gestirla.» «Credo di sì», ribatté David e aggiunse in tono incisivo: «Grazie per avermi messo al corrente». L'altro non lo guardò negli occhi, ma si mise a sfogliare dei documenti che aveva sulla scrivania, dando l'impressione che stesse cercando qualcosa. «Bene, allora è tutto a posto», commentò. «Fammi sapere se c'è qualcos'altro che posso fare per te.» David si alzò e si diresse verso la porta. L'altro continuava a esaminare con grande attenzione una pagina della sua agenda. «Ci vediamo più tardi», lo salutò David. «Ciao. E auguri», ribatté Reg, sempre senza guardarlo. «Salve, ho un appuntamento con l'ispettore Hammond», disse David all'agente seduto alla scrivania. «Un attimo, signore», ribatté quello, alzando il ricevitore del telefono. Consultò le copie malconce di una rubrica telefonica e digitò un numero. Ci fu una breve conversazione che David non riuscì a udire. «Entri pure», lo invitò l'agente, indicando una porta nell'angolo dell'atrio. Premette un pulsante sotto il banco e lo tenne premuto. La serratura emise un forte ronzio, a indicare che era stata sbloccata. Una volta che David ebbe oltrepassato la soglia, l'agente lasciò andare il pulsante e il ronzio cessò. Il poliziotto si guardò intorno, in direzione di un'altra porta. «L'accompagnerei, ma sono solo. Salga al secondo piano, poi giri a sinistra. L'ufficio dell'ispettore è il primo.»
«Grazie», disse David e infilò le scale. Trovò l'ufficio di Hammond senza problemi e bussò sulla porta di compensato verniciato. «Avanti», disse una voce. David aprì la porta ed entrò in un piccolo ufficio. Proprio davanti a lui c'era una scrivania, dietro la quale sedeva George Hammond. Di fronte alla porta si trovava una finestra polverosa, attraverso la quale si scorgevano un tubo di scarico incrostato di calcare e una sezione di muro di mattoni. Sparsi per l'ufficio c'erano numerosi fogli, alcuni volanti, altri racchiusi nei raccoglitori. «Mr Braun», disse Hammond a mo' di saluto. «Ispettore», ribatté David. Hammond inalberava il suo mezzo cipiglio di circostanza. «E così il suo cliente ha dei contatti.» «Mi ha detto che avrebbe fatto qualche telefonata. È questo che intende?» chiese David. «Sì, è questo che intendo», rispose Hammond in modo piuttosto brusco. David rimase impassibile. «Allora vuole cominciare lei o comincio io?» domandò. Hammond si limitò a corrugare la fronte. Intuendo che non avrebbe ottenuto una risposta adeguata, David continuò, affabile: «Okay, comincio io, ma prima potrebbe dirmi se è incazzato con me o col mio cliente». Hammond continuò a mantenere un'espressione corrucciata. David rimase in silenzio. «D'accordo, dica pure», concesse Hammond, con un tono che avrebbe potuto essere la sua versione burbera di una conciliazione. «Va bene. Spero che abbia ricevuto il mio messaggio su Susan Milton. L'ha chiamata?» volle sapere David. Hammond annuì. «È una studiosa di storia. Ha rintracciato alcune copie di antichi documenti che descrivono il pezzo prelevato dal terzo componente della banda dalla cassaforte del presidente. Se ha parlato con lei, allora saprà che qualcuno è andato a cercare quei documenti.» Hammond continuava a tacere. «La dottoressa Milton sta facendo il possibile per capire di quale oggetto si tratti e, se siamo fortunati, con quali mercanti d'arte possiamo parlare», continuò David. «Sarò lieto d'informarla di qualsiasi scoperta prima di prendere iniziative.» Poi aggiunse: «Vorrei anche parlare con alcune per-
sone...» «Lei non farà niente del genere», sibilò Hammond. David perse la staffe. «Oh, la faccia finita, Hammond. Ho appena detto che è una scelta sua.» Hammond era fuori di sé dalla rabbia; si sporse in avanti, appoggiando i pugni sulla scrivania, pronto a scattare in piedi. David non batté ciglio. Con un po' più di calma, ma con la stessa veemenza, disse: «Mi dispiace se qualcuno ha fatto pressione su di lei per coinvolgermi in questa indagine. Non è stata un'idea mia, e io non ero d'accordo. Però non segua una direzione opposta solo per testardaggine. Quando parlerò con Mr Dass, non gli dirò che lei si è dimostrato disponibile, se è vero il contrario. Lui potrebbe farmi perdere il posto con una telefonata. Se mi chiederà come stanno andando le cose, io gli dirò la verità. Se sceglie d'inimicarsi Dass, lei resterà solo». Hammond continuava a fissare David, con tutto il peso del corpo ancora appoggiato sui pugni, come se stesse per balzare in piedi. David restò impassibile. Dopo qualche istante, l'ispettore chiese, in tono calmo: «Non ha mai pensato di entrare nella polizia?» Seppure con circospezione, David si rilassò un poco e rispose alla domanda scuotendo la testa. «Ci sono esami da fare e cose del genere. E poi non ci so fare con le persone.» Hammond scoppiò a ridere, reclinando il capo all'indietro. «Piccolo bastardo presuntuoso», borbottò, conciliante. Era chiaramente divertito, anche se il sorriso sul suo volto scomparve in fretta, lasciando solo una lieve increspatura intorno agli occhi. Poi aggiunse: «Non faccia una cosa come quella dell'altra notte o litigheremo sul serio. Chiaro?» «Sì», rispose David, secco. «Non le starò tra i piedi.» «Allora andremo d'accordo.» Hammond rivolse l'attenzione alla pila di scartoffie che aveva sul tavolo. Ci frugò in mezzo finché non trovò una cartellina particolare. Gli ci volle qualche istante per risistemare le altre decine che occupavano la scrivania. Poi le spinse da parte e, nello spazio che aveva ricavato, posò quella che aveva tirato fuori, aprendola. «Abbiamo i risultati della scientifica», annunciò, leggendo velocemente la prima pagina. Mentre gli occhi di Hammond erano concentrati sul rapporto, anche David lanciò una rapida occhiata alla pagina, leggendo al contrario. Rialzò lo sguardo prima che l'ispettore se ne accorgesse.
«Il frammento di vetro che ha trovato nell'autoparcheggio corrisponde a quello della finestra dell'ufficio. Ciò significa che le impronte dei pneumatici molto probabilmente sono del nostro indiziato... ammesso che fossero fresche e che siano passate sopra la scheggia di vetro. Vuole provare a indovinare di quale marca era l'auto usata per la fuga?» «Una grande, vecchia Jaguar», buttò lì David. Hammond ridacchiò. «Una...» Abbassò di nuovo lo sguardo sul rapporto. «... Porsche 911 Turbo nuova di zecca. Questa è un'auto da novantamila bigliettoni, quindi persino a Londra non ce ne saranno molte. Stiamo ancora controllando l'elenco dei proprietari, ma ne abbiamo già trovata una registrata a nome di un tizio morto nel 1996. La nostra idea è che un'auto del genere venga fermata spesso, perciò, a meno che il vero proprietario non voglia farsi inseguire ovunque da noi, è probabile che abbia l'assicurazione a posto. Dunque, anche se ha dato un nome falso, l'indirizzo probabilmente è collegato a lui in qualche modo... ha bisogno di ricevere la posta. Comunque sia, non c'è nessuno a casa, perciò abbiamo deciso di tenerla d'occhio, caso mai torni. È sufficiente?» «Sono tutte buone notizie. E che mi dice dei due uomini morti nell'irruzione?» chiese David. «Giusto», annuì Hammond. «Uno lavorava in quell'ufficio. Di certo era quello che sapeva dove si trovava la cassaforte e cosa si trovava lì dentro. L'altro è una nostra vecchia conoscenza. È stato dentro un paio di volte per essersi preso quello che non gli apparteneva. È uno scassinatore... anche se sembra che non avessero bisogno di lui per la cassaforte del presidente. La talpa doveva avere la combinazione.» «Ma non si sono ammazzati a vicenda, vero?» volle sapere David. Hammond scosse la testa. «È stata una bella messinscena. Ma c'erano un paio di piccole pecche. Per prima cosa le dirò quello che dovremmo credere sia successo, va bene?» Si rimboccò le maniche, quindi riprese: «Scoppia una lite, forse per l'arrivo degli sbirri... e lo scassinatore pugnala la talpa col suo cacciavite. La talpa allora tira fuori il revolver, sparando due colpi: uno manda in frantumi il vetro della finestra e lo scassinatore si butta di lato per evitarlo. Ma il secondo sparo gli trapassa il cuore e lui spira dopo qualche minuto. Quello che invece pensiamo sia realmente accaduto è che il terzo uomo abbia pugnalato la talpa col cacciavite dello scassinatore; indossa i guanti, perciò ci sono solo le impronte dell'altro. Lo scassinatore estrae la pistola, rendendosi conto che sarà il prossimo, però manca il terzo uomo e colpisce la finestra. Il terzo uomo tramortisce lo scassinatore
con un oggetto contundente, riuscendo a metterlo fuori combattimento. Quindi mette la pistola in mano al morto e preme il grilletto in vece sua, uccidendo l'altro. Dopodiché fugge dalla finestra.» «Qualche idea del perché non si sia rotto l'osso del collo facendo quel salto?» «Ci stiamo ancora lavorando. In realtà, abbiamo organizzato una specie d'indagine di mercato, al dipartimento. E sono venuti fuori un bel po' di suggerimenti.» Lanciò un'occhiata all'elenco. «L'autoparcheggio di fronte è alto cinque piani e in cima c'è un corrimano... Uno suggerisce che abbia agganciato una fune proprio a quel corrimano, usandola per passare dall'altra parte. Secondo un altro, forse ci siamo imbattuti in qualcuno che fa salto con l'asta. Non so cosa pensare a questo proposito. Un altro ancora ha suggerito che abbia nascosto là un materassino gonfiabile, ci sia saltato sopra e, dopo averlo tagliato, l'abbia portato via con sé. Sono tutte idee un po' strampalate, ma potrebbero anche funzionare. Riteniamo che sia stato fortunato a schivare la prima pallottola, ma è probabile che indossasse un giubbotto antiproiettile.» Hammond chiuse la pratica e si alzò. «Questo dovrà bastarle. Adesso ho da fare.» «La ringrazio. Me ne vado», disse David. «Allora siamo intesi? È soddisfatto? Non parlerà male di me al suo boss?» chiese Hammond. «Non ho nulla da dirgli, tranne che sta svolgendo un ottimo lavoro. Ci sentiamo presto», concluse David in tono gentile. Hammond agitò semplicemente la mano in un gesto di congedo. David scese le scale di corsa, superò la porta di sicurezza e si ritrovò in strada. Non appena si fu allontanato dalla centrale di polizia, tirò fuori un taccuino e prese un appunto. Era l'indirizzo che era riuscito a leggere sul primo foglio della pratica sulla scrivania dell'ispettore. Quella sera, David stava rincasando dopo l'allenamento. Aveva fatto un salto nel pub vicino per un drink. Sembrava che tutti avessero intenzione di fermarsi sino alla chiusura, ma lui, poco dopo le dieci, aveva salutato ed era uscito. Nell'auto, dietro il sedile del passeggero, nascosta alla vista, c'era la sua cartella. Mentre guidava, allungò un braccio e la recuperò, appoggiandola sul sedile accanto. Continuava a guardarla. Al successivo semaforo rosso, prese la cartella, la aprì e ne tirò fuori il
taccuino. I lampioni fornivano luce a sufficienza per leggere. Dopo parecchie pagine, trovò l'indirizzo che aveva copiato dal rapporto di Hammond. Era un indirizzo di Notting Hill. Prese a tamburellare le dita sul volante, in attesa del verde, lanciando di tanto in tanto un'occhiata al taccuino. Quando scartò il verde, fece un'inversione a U e si diresse a ovest. Il traffico era scorrevole. Imboccò la Euston Road e s'immise nel flusso verso ovest. Deviando leggermente a sud, raggiunse la Westway. Quando si ritrovò più o meno nella zona giusta, abbandonò l'arteria principale, parcheggiò e prese una mappa stradale dal vano portaoggetti. Ripiegò l'angolo della pagina dov'era indicata la zona verso cui era diretto, quindi ripartì lentamente. L'abitazione che stava cercando si trovava all'angolo tra una tranquilla via secondaria e una strada residenziale leggermente più larga. Quando la scorse, David mise la freccia per girare a sinistra, ma, poco prima di raggiungere la curva, notò una Mondeo blu scuro con due uomini a bordo. Due paia di occhi seguirono il suo arrivo. «Furbi», mormorò. Evitò di guardare i due e svoltò lentamente nella via secondaria. Le auto erano parcheggiate su entrambi i lati, ma, a una ventina di metri, scorse due posti vuoti. Li ignorò, fermandosi soltanto quando fu a un centinaio di metri dall'angolo. Quindi spense il motore e i fari e regolò lo specchietto in modo da poter vedere la strada alle sue spalle. Tutto era assolutamente tranquillo. Si trovava in un bel quartiere residenziale ed erano quasi le undici. Di certo l'attività in strada era scarsa e nient'affatto pericolosa. David restò in attesa per una decina di minuti, guardando di tanto in tanto nello specchietto, benché non ci fosse nulla da vedere. Infine scosse la testa, come se fosse irritato dalla sua stupidità, e mise in moto. Stava per accendere i fari, quando scorse un'auto che risaliva la strada a fari spenti, diretta verso l'angolo. D'istinto si buttò giù, appiattendosi sul sedile del passeggero. Una macchina di grossa cilindrata lo superò lentamente, quasi a passo d'uomo. David sentì il profondo ronzio del motore farsi sempre più silenzioso, più distante. Muovendo solo le dita, premette il pulsante per abbassare il finestrino di qualche centimetro e tese l'orecchio. Il motore continuava a borbottare. L'auto sembrava in folle. Si rialzò, sapendo che i poggiatesta dei sedili anteriori lo nascondevano
a sufficienza. Guardò nello specchietto. Una Porsche nera stava accostando a una ventina di metri da lui. David spense il motore dell'auto, poi, con estrema lentezza, riabbassò la testa, allungandosi sul sedile del passeggero. Lo specchietto laterale di sinistra era regolabile; lo spostò finché non riuscì a vedere il marciapiede alle sue spalle. Dietro la Porsche apparve un uomo vestito tutto di nero. Attraversò rapido il marciapiede e si appiattì contro il muro. Grossi rami spioventi creavano coni di oscurità all'interno dei quali la sua figura scura si confondeva. Era visibile soltanto se si sapeva dove guardare. La figura alzò una mano, puntandola verso l'auto, e un mazzo di chiavi baluginò, illuminato dalla luce dei lampioni. Ma le frecce della Porsche non lampeggiarono e non ci fu il solito cinguettio dell'antifurto. La figura abbassò la mano, rimettendo le chiavi in una tasca la cui cerniera venne richiusa. «Hai cambiato idea», sussurrò David. Muovendosi di soppiatto, la figura avanzò verso l'angolo, allontanandosi sempre di più da David e diventando più indistinta via via che s'immergeva tra le ombre. La porta d'ingresso della proprietà all'angolo si trovava sull'altra strada, dov'erano appostati i poliziotti. David poteva scorgere solo un lato della casa e l'alto muro di cinta del giardino. La figura raggiunse l'estremità del muro di cinta. La casa era piuttosto grande; infatti l'uomo si trovava ancora a una trentina di metri dall'angolo ed era celato alla vista degli agenti. Con due ampie falcate superò il muro, appoggiando una mano sul bordo mentre scavalcava. Lo fece sembrare un movimento semplice e fluido, ma in realtà era molto strano, visto che il muro superava di un metro la sua altezza. David continuò a osservare per un minuto buono. Poi allungò la mano e modificò l'accensione delle luci interne dell'auto, in modo che non scattassero una volta aperta la portiera. Prese anche un panno dal vano portaoggetti. Quindi aprì la portiera e scese lentamente. Col palmo della mano la spinse con delicatezza, senza farla chiudere del tutto. Tenendosi basso, si avvicinò alla fiancata della Porsche e sbirciò dentro. Sul sedile del passeggero c'era una ventiquattrore. Avvolgendo la mano nel panno, David afferrò la maniglia. Scrutò la strada a destra e a sinistra, poi, vedendo che non c'era nessuno in giro, saggiò la portiera.
Era aperta. Mise dentro la testa e, usando sempre il panno, fece scattare le chiusure della ventiquattrore. L'aprì e guardò all'interno. Era piena di carte. Prendendone una manciata, cominciò a sfogliarle rapidamente. Era difficile capire che cosa ci fosse scritto a causa della scarsa illuminazione. Come aveva fatto David, le luci interne della Porsche erano state spente. C'erano molte fatture... Un altro foglio era scritto in una lingua straniera.... Trovò una lettera stampata su carta intestata e la sollevò, inclinandola in modo che vi cadesse il fascio di luce del lampione. Era di un'agenzia immobiliare. Sembrava il contratto di locazione di un appartamento. C'era un indirizzo... Un cane abbaiò e da qualche parte una porta sbatté, quasi simultaneamente. Sembrava provenire dalla direzione della casa d'angolo. David sgusciò subito fuori dell'auto e scrutò la strada. Nulla. Rimise le carte nella valigetta, e la richiuse, facendo scattare le chiusure. Poi chiuse la portiera silenziosamente, ma con una spinta decisa, usando il palmo della mano ancora avvolta nel panno. Infine, sempre tenendosi accucciato, tornò alla sua auto e aprì la portiera dal lato del passeggero, ma non salì. Girò la chiave d'accensione e il motore si mise subito in moto, quasi senza far rumore. Lasciando spalancata la portiera, che sporgeva sulla strada, si avvicinò all'auto dietro la sua e appoggiò la mano coperta dal panno sul parafango della Mercedes, spingendo forte. L'auto sobbalzò sulle sospensioni. David premette di nuovo, con forza ancora maggiore, e stavolta scattò l'allarme, che infranse il silenzio. Gli indicatori cominciarono a lampeggiare. Tornato di corsa alla sua auto, David saltò dentro e uscì dal posteggio il più rapidamente possibile. Mentre risaliva a grande velocità la strada, tenne la mano sul clacson. Una luce si accese in una casa vicina. Continuando ad accelerare, e sempre con la mano sul clacson, David raggiunse una curva. Soltanto allora lasciò andare il clacson e accese i fari, poi rallentò. Infine si diresse verso casa, rendendosi conto che stava guidando come se avesse bevuto un po' troppo... In modo eccessivamente cauto, geriatricamente legale. 10
Martedì 15 aprile (la sera seguente) Stavolta Susan era in anticipo. Il ristorante vendeva anche prodotti gastronomici, così Susan gironzolò tra le bottiglie, i barattoli e le scatole, esaminando tutto ciò che la incuriosiva. Il completo blu le conferiva l'aspetto di una donna d'affari, senza apparire severo. La camicetta di seta rosa era senza maniche, con una profonda scollatura a V, e le avrebbe permesso di avere un look meno rigido qualora avesse scelto, più tardi, di togliersi la giacca. I capelli biondi erano come sempre sciolti sulle spalle, ma, rispetto alla settimana precedente, apparivano leggermente ondulati. Il viso aveva quel sano colorito roseo tipico di chi non fa uso di cosmetici... un effetto che le aveva richiesto un po' di tempo. A un certo punto, alzando lo sguardo, vide entrare David. Indossava un completo nerofumo, con camicia e cravatta blu notte. I capelli corti, scuri, erano leggermente sparati. Aveva l'aria di chi si è appena lavato e rasato. «Ciao», lo salutò sorridendo Susan. «Ciao», rispose David. «Hai...» Fece una pausa come se cercasse di ricordare qualcosa, poi riprese: «Hai un aspetto splendido. Come stai?» «Benissimo.» Si guardò intorno. «Che bel posto.» «Di solito il cibo è buono, anche se non sono proprio un esperto di ristoranti. Non mangio fuori spesso», confessò David. «Nemmeno io, a meno che un muffin da Starbucks non conti», ribatté Susan. David lanciò un'occhiata verso la sala ristorante. «Andiamo a vedere se hanno perso la mia prenotazione», disse in tono cospiratorio, avviandosi per primo. La sala era avvolta da una penombra invitante. Lampade poste su piedistalli e sistemate in vari punti davano l'impressione che fossero state accese tante candele. La parete esterna era un'unica vetrata, dal pavimento al soffitto, ed era affacciata sulle eleganti abitazioni cittadine e sul cielo notturno. Una cameriera li fece sedere proprio al centro della sala. Dopo un breve scambio di opinioni, convennero di ordinare una bottiglia di Chablis e si misero a scorrere il menu. Susan fu la prima a introdurre l'argomento lavoro. «Ho parlato con Hammond. Non ho avuto l'impressione che farà granché. Pare che abbia
chiamato quelli della sicurezza all'università, dando loro un po' di consigli. Adesso accanto all'ascensore c'è un signore sulla sessantina in quella che a me sembra un'uniforme dell'UPS. Che cosa possa fare se il nostro geniale tossicomane si facesse vivo non lo so proprio. Per fortuna, noi lavoriamo nel sotterraneo. Sarebbe costretto a passare davanti a quelli della sicurezza all'ingresso e poi a scendere un paio di piani prima di raggiungere il pensionato di guardia, quindi non dovremmo avere problemi.» E sorrise con ironia. Un cameriere portò il vino, che David accolse con un cenno del capo. Mentre i loro bicchieri venivano riempiti, disse: «Mi dispiace che Hammond non sia stato di grande aiuto. Potrebbe essere il mio vecchio insegnante di matematica reincarnato. Sembra essere depresso o fuori dei gangheri a seconda di come va la giornata». Poi aggiunse: «Hammond e io abbiamo quasi litigato quando sono passato da lui, ieri. Il mio cliente deve aver sollecitato certe sue conoscenze e fatto la cosa peggiore agli occhi di Hammond: metterlo nella posizione in cui deve essere d'aiuto. Gli procura una vera sofferenza. Comunque, secondo me, è un buon poliziotto, a parte il carattere». Sorseggiarono il vino. «Ascolta, ho riflettuto su quella teoria del drogato...» disse Susan, ma in quel momento arrivò il cameriere a prendere le ordinazioni. Lei scelse una zuppa e poi del pesce; lui optò per la bruschetta seguita da una bistecca. «Drogato», ripeté David, quando il cameriere se ne fu andato. «Già. Non mi piace più questa idea», dichiarò Susan. «Perché?» «Credo che tu lo sappia già», rispose Susan, sospettosa. «Perché è organizzato, disciplinato e un pianificatore meticoloso», elencò David. «Non dà l'idea di un tossicomane che perde il contatto con la realtà. Inoltre, dal punto di vista fisico, è l'atleta più sorprendente che io abbia mai visto.» «L'hai visto?» chiese Susan sorpresa. «Ecco, io...» David sembrò sul punto di rimangiarsi le parole, ma non lo fece. Un po' imbarazzato, inspirò aria a denti stretti e ammise: «Sì, l'ho visto ieri sera». Parlando, Susan si era accalorata; ma adesso si raffreddò di parecchi gradi. «Che cos'hai fatto?» sibilò, scrutandolo. «È stata solo una coincidenza», ribatté lui. «Sono passato davanti alla
casa in cui, secondo Hammond, abita il nostro uomo. Il 'vecchio Bill' ha messo un paio di uomini di guardia. Ho pensato che avrei potuto dare un'occhiata. Non so perché...» «E lo hai visto? Era lì?» volle sapere Susan. Ma non sembrava impressionata. «Be', qualcuno era lì. L'auto corrispondeva a quella che l'ispettore sta cercando. L'ho visto sgattaiolare nel giardino della casa. Gli agenti appostati davanti all'ingresso non potevano accorgersi di nulla, allora ho fatto un po' di baccano, facendo scattare l'antifurto di un'auto. Se sono andati a controllare, avranno visto la sua Porsche. Altrimenti... Be', cos'altro avrei potuto fare?» esclamò, sulla difensiva. «Non potevo certo andare a bussare al loro finestrino. In quel modo, almeno, avevano la possibilità di prenderlo.» «Ma perché mai...» fece Susan incredula. Poi s'illuminò, come se avesse capito, e un'espressione furiosa le attraversò il volto. Puntò un dito contro David. «Il tuo cliente non ti ha affatto chiesto di svolgere un'indagine su questo furto, vero? È tutta una storia che ti sei inventato per sfoggiare la tua... virilità», lo accusò, alzando la voce. «Ehi, calmati», sussurrò lui. «Io sto agendo su espressa richiesta del mio cliente e con l'approvazione della mia società. Se non fosse stato per la più incredibile delle coincidenze, il nostro farabutto avrebbe avuto la possibilità di prendere le sue cose, la polizia non si sarebbe accorta di niente, e io non avrei fatto altro che dare una rapida occhiata alla facciata della sua abitazione. Che cosa ho fatto di così tremendo?» «Nulla che Rambo avrebbe considerato eccessivo», ribatté lei con più calma. «Forse mi sbaglio, ma ho l'impressione che tu non faccia sempre ciò che ti viene detto», borbottò David. «Quando quell'anziana signora è stata aggredita, sei corsa di sopra disarmata, giusto?» «Avevo un attizzatoio», rispose Susan a mezza voce. David rise, ma senza allegria, e annuì. «Stavo cercando di aiutare qualcuno che pensavo fosse nei guai», riprese Susan, sempre a voce bassa, ma in tono animato. «Non stavo ficcando il naso in un'indagine della polizia giusto perché alla televisione non c'era nulla da vedere.» Si stavano accalorando entrambi. David aveva l'aria di chi sta per ribattere in modo offensivo, quando arrivò un cameriere raggiante e chiese con un forte accento italiano: «Di chi è la bruschetta?»
«È mia, grazie», rispose David. A Susan servirono la zuppa un minuto dopo. Nessuno toccò il cibo per qualche secondo, poi entrambi allungarono la mano simultaneamente per prendere il bicchiere. David trasse un profondo respiro. «Hai ragione... Non era affare mio intromettermi, ma per qualche motivo l'ho fatto.» Prima che lei potesse ribattere, proseguì: «Ti avevo detto che la polizia pensava che ci fossero solo due uomini coinvolti nell'intrusione? Le cose sarebbero rimaste così, se io non fossi andato in giro a curiosare, dimostrando che ce n'erano tre. Ho sbagliato; sono un ficcanaso. Ma tutti sono più tranquilli grazie alla prova che ho trovato. Non avremmo saputo della Porsche e neanche della casa a Notting Hill. Non avremmo in mano nulla. E ieri sera, lui sarebbe entrato e uscito... avrebbe preso le sue cose, e si sarebbe dileguato senza lasciare traccia. Anche in questo caso, giacché ho infranto le regole e ho ficcato il naso, ho un'idea abbastanza precisa di quale sarà la sua prossima destinazione». Era calmo, ma c'era anche una nota d'urgenza nella sua voce. Desiderava veramente che Susan capisse. «E non lo dico per provocarti, ma non è compito tuo farmi una ramanzina, giusto? Però questo caso sta coinvolgendo anche te, e lo stai prendendo come se fosse una questione personale.» Susan non disse nulla, ma sembrava essersi in qualche modo placata. Cominciarono a mangiare. Dopo qualche secondo, un guizzo illuminò lo sguardo di Susan. «Allora sai quale sarà la sua prossima destinazione, Sherlock?» chiese. «Pensavo di essere Rambo», le ricordò. «La giuria è ancora riunita.» Fece una pausa, poi aggiunse: «Mi dispiace di essere stata arrogante. Hai ragione, non è compito mio farti una ramanzina». David sorrise, palesemente sollevato e rilassando le spalle. «Se detesti chiedere scusa tanto quanto io detesto chiedere l'approvazione di un'altra persona, allora mi sa che siamo pari.» «Quindi stavi per darmi il benservito?» chiese lei, ironica. «Non te lo meritavi, ma è proprio quello che avrei fatto in altre circostanze. Il gioco di squadra non è il mio forte. Allora, vuoi sapere quello che ho scoperto?» «Non ti pregherò di certo», ribatté lei, fingendosi arrabbiata. «Okay. Mentre lui era in casa, ho dato un'occhiata nella sua auto», disse David.
Susan sgranò gli occhi. Lui alzò una mano. «Non mettermi in croce finché non avrai appreso tutti i miei segreti... La tua curiosità non te lo perdonerebbe mai.» Bevve un sorso di vino per umettarsi le labbra. «Aveva lasciato la macchina aperta e io ho trovato una valigetta piena di carte. Una di queste era il contratto d'affitto di un appartamento vicino alla City.» Susan assunse un'aria allarmata. «Il nostro genio non riesce a ricordarsi di chiudere l'auto?» «Credo che ci abbia pensato. Ma mi sa che la sua è dotata di uno di quegli irritanti antifurti che emettono un lieve bip bip per farti sapere che è in funzione. Se hai pagato novantamila bigliettoni per una macchina, è importante che tutti si voltino quando ne scendi. È uno dei motivi principali per cui le auto sportive non vengono usate per una fuga.» «Allora hai trovato un indirizzo?» «Sì, proprio vicino a Great Eastern Road, in fondo a Old Street», rispose David. «Che cos'hai intenzione di farne? Dell'indirizzo, intendo», volle sapere Susan. Era chiaramente una domanda fondamentale. Non aveva intenzione di strapazzarlo, ma neanche di rendergli la vita facile. «Be', credo che dipenda da una cosa: se lo hanno preso ieri sera o no. Se siamo fortunati, a quest'ora sarà tutto finito. Potrebbe già essere dietro le sbarre», ribatté David. «Non mi sembri convinto.» «Avresti dovuto vederlo. Ha scavalcato un muro che sarà stato alto tre metri. Non ho mai visto nulla di simile. E ne ho viste di cose strane.» «Forse è una specie di guru delle arti marziali», suggerì Susan. «Credimi, conosco alcune persone che rispondono a questa descrizione, e nessuna di loro è in grado di fare quello che ha fatto lui.» «Davvero? Hai una cerchia di amici interessanti», commentò lei, sollevando un sopracciglio. David scrollò le spalle. Susan allungò una mano e gli prese il braccio, tenendogli il polso attraverso la giacca. Lui non oppose resistenza. Gli girò la mano e studiò le nocche. Le prime due erano rivestite da una callosità lucida, quasi fosse cera. «Devi allenarti piuttosto duramente per avere delle nocche così», commentò, lasciandogli il braccio. Lui scrollò di nuovo le spalle. «Certi fanno le parole incrociate.» Abbassò lo sguardo sulle mani di lei. «Tu che cosa fai per restare in forma?»
chiese. «Indovina», replicò lei, girando le mani. Non avevano calli, ma sembravano più elastiche sui palmi. «Canottaggio?» buttò lì. «No», rispose lei, senza approfondire. Il cameriere tornò per portare via i piatti vuoti e versare di nuovo il vino. La bottiglia finì mentre riempiva il bicchiere di David. «Allora... Chi è in grado di scavalcare un muro come quello?» domandò Susan. «Questa è una bella domanda», replicò David. «E c'è anche l'enigma di come sia riuscito a fuggire dalla scena del furto. È un volo di dieci metri che finisce sui binari della ferrovia. Poi, in qualche modo, si è arrampicato su una parete verticale dall'altra parte. Uno degli agenti di Hammond ha suggerito che sia uno che fa salto con l'asta. Potrebbe sembrare un'idea stupida, ma, invece di un'asta, immagina di avere una scala. Ci puoi camminare sopra, poi la spingi da parte, dietro di te.» «Come Buster Keaton? Allora questo tizio è un atleta che usa le sue doti per darsela a gambe dopo un colpo. Ma per favore!» esclamò Susan. «Come? Gli atleti professionisti non andrebbero mai in crisi, dunque? E che mi dici di O.J. Simpson?» suggerì David. Susan rise. «Non lo so, ma in qualche modo è riuscito a fare tutte queste cose. Per uno che dovrebbe essere un malato terminale, è straordinariamente in forma», insistette David. Vennero serviti i secondi. «È buono», commentò Susan, dopo il primo boccone. «Hai scoperto altro sul Marker?» volle sapere David. «Un sacco di cose, ma nulla che ci possa servire a recuperarlo. Non ho ancora idea a chi ci si possa rivolgere per vendere una cosa del genere; sono sempre più convinta che il ladro non abbia intenzione di venderlo.» Dopo una pausa, proseguì: «Se vuoi fare soldi, ci sono un sacco di cose migliori da rubare... contanti, per esempio. Tu hai detto che c'era una cassaforte piena di denaro che avrebbero potuto svuotare». «Be', forse aveva intenzione di prendere anche quelli, ma si è ritrovato alle strette», ipotizzò David. «Però Hammond ha raccontato di aver trovato la cassaforte principale aperta, quando sono arrivati. Quindi è molto probabile che abbia scartato il denaro a favore del Marker.» «Naturalmente potrebbe valere molto di più dei contanti», commentò
Susan. «Ho trovato quello che potrebbe essere un riferimento al Marker in un documento che riguarda il regno dell'imperatore Shi Huangdi. Offriva un premio a chiunque glielo avesse riportato. Potrebbe essere irrilevante, oppure trattarsi di un tesoro cinese risalente al HI secolo avanti Cristo.» «Huangdi?» ripeté David. «Il primo imperatore di tutta la Cina. Dinastia Qin. Quello che fece costruire la Grande Muraglia», precisò Susan. «Allora questo oggetto potrebbe essere paragonato ai gioielli della Corona. In tal caso, il suo valore sarebbe inestimabile.» «Se si tratta dello stesso oggetto. Ma chi potrebbe dimostrarlo? Non è possibile datare il metallo e non sono riuscita a trovare fotografie. Il rimando a Huangdi parla di un gioiello fatto di un metallo molto più prezioso dell'oro, che conferiva l'immortalità. Mi è capitato sottomano perché stavo cercando dei riferimenti a gioielli con sorprendenti poteri curativi. Ma l'idea che abbia tali poteri nasce da un documento trovato nell'attico di un signore che abitava a Brentford. Non c'è nulla che colleghi il gioiello rubato con la storia di Huangdi, tranne il brano che ti ho mostrato.» «Allora sarebbe proprio impossibile venderlo?» «Be', è pur sempre una favolosa filigrana di platino, quindi vale sicuramente migliaia di sterline e forse si potrebbe dimostrare che il platino viene dalla Cina. Tutto sommato, però, non credo che si possa provare che si tratta del pezzo di Huangdi. Insomma, per farla breve, credo che sarebbe meglio avere una borsa piena di soldi.» «A meno che la tua teoria dell'AIDS non sia giusta», suggerì David. «Tu non ci credi.» «Non dico questo. Tuttavia potrebbero esserci molte possibili spiegazioni per ciò che hai visto. Comincio a pensare che questo tizio sia una specie di membro di una Squadra Speciale, magari qualcuno addestrato a svolgere lavori sporchi per conto del governo, magari messo da parte dopo la Guerra Fredda e quindi disoccupato. Sappiamo che è un meticoloso pianificatore e che si è personalmente esposto. E se fosse stato una spia? È una vita piuttosto dura; quello che hai visto potrebbe essere il risultato di ustioni o ferite. Oppure è davvero malato di AIDS e le leggende sul Marker sono solo una coincidenza.» Dopo una pausa, proseguì: «Se ritenesse assurde le leggende, avrebbe scelto i contanti, quindi forse ci crede. Però non riesco a far quadrare le diavolerie che è in grado di fare, come ben sappiamo, con l'idea che crede nelle fiabe...» David trasalì. «Nei miti e leggende, intendevo dire. Scusa.»
Susan agitò una mano come per invitarlo a non preoccuparsi. «Neanch'io. Ma qui non stiamo parlando solo di superstizioni tipo evitare di essere in tredici a tavola e cose del genere. Dovrebbe essere a conoscenza delle pratiche occulte... L'altra cosa che mi viene in mente è che abbia eseguito il furto su commissione. Se qualcuno era al corrente del fatto che il tuo cliente aveva questo oggetto e ha commissionato il furto, allora non ci sarebbe bisogno di autenticarlo.» «Sai che potrebbe aver senso?» replicò David, intrigato da quell'ipotesi. «Se vuoi che un oggetto venga rubato, il nostro uomo misterioso sarebbe proprio il tipo giusto da ingaggiare.» Notò l'espressione dubbiosa di Susan. «Concorda coi fatti, e meglio di qualsiasi altra ipotesi fatta sinora. Che cosa mi sfugge?» «Solo una cosa», rispose lei. «Diciamo che è un mercenario e che ha rubato il Marker per un collezionista; ma perché è andato a cercare anche la collezione? Sono documenti preziosi soltanto per uno studioso. Si tratta perlopiù di copie recenti di opere più antiche. Quella che hai visto l'altro giorno è scritta con una penna a sfera. Non ha valore se non per le informazioni che contiene.» «Be', forse è alla ricerca di quelle informazioni. Che cosa dice esattamente?» «C'è una breve introduzione su un monaco folle che lo ha compilato, ma in pratica equivale al libretto che troveresti nella confezione di un robot da cucina o di uno stereo.» David la guardò perplesso. «Cioè?» «Istruzioni per l'uso», spiegò Susan. «È tornato indietro per le istruzioni. Comunque rigiri la questione, qualcuno, il mercenario o il suo boss, crede nella leggenda.» Stavano entrambi riflettendo in silenzio quando arrivò un cameriere. «È tutto a posto?» chiese. «Sì, grazie mille», rispose David. «Potrebbe portarmi un bicchiere di rosso della casa?» Guardò Susan. «Per me un bicchiere di bianco. Grazie.» Poi, tornando a David, disse: «Di fatto non hai risposto alla mia domanda in merito all'indirizzo che hai trovato. Che succede se il nostro mercenario non è dietro le sbarre? Hai un'informazione di cui la polizia ha bisogno, e le ore passano». David sembrò di nuovo a disagio. «Non c'è modo di rivelarlo direttamente a Hammond. Era già piuttosto incazzato per la questione del terzo uomo. E potrebbe pensare che ho ficcato di nuovo il naso nelle indagini,
invece che essere d'aiuto.» «Da un certo punto di vista non avrebbe torto», commentò Susan, paziente. «Questo lo capisci, vero?» «È il vecchio dilemma del vigilante, giusto?» disse David. «Quando le autorità ti scaricano, devi alzare le spalle e dire: 'Pazienza', oppure ti è permesso dare una mano?» «Sei sicuro di avergli dato la possibilità di sbagliare, prima d'intrometterti?» «L'ho fatto con l'auto usata per la fuga. Quella notte non avevano nessuna intenzione di fare un sopralluogo nell'autoparcheggio. Nel giro di ventiquattr'ore, migliaia di veicoli sarebbero passati sopra quelle impronte.» «Va bene. Possiamo anche non essere d'accordo sul fatto che i livelli del tuo testosterone si siano alzati un po', ma credo sia ormai chiaro che non è compito mio bacchettarti», sospirò Susan, scrollando le spalle. «Tuttavia sono convinta che potresti cacciarti in un mare di guai, persino rischiare la vita, se insisti su questa strada del ranger solitario. Lo sto dicendo da amica.» David, che nel frattempo aveva tenuto gli occhi sul piatto, la guardò. Lei distolse lo sguardo e aggiunse: «O dell'impiegato retribuito, comunque». «Ah, be', in tal caso...» commentò lui ridendo. «Ascolta, non puoi fare semplicemente una telefonata, facendola passare per un'informazione anonima?» David non sembrava convinto. «Non lo so. Non voglio che la polizia sprechi troppo tempo a scervellarsi su chi potrebbe essere l'informatore. In men che non si dica, penseranno che dietro tutto questo ci sono due persone... D'altro canto, non mi sorprenderebbe se Hammond ignorasse del tutto una soffiata.» Susan si sfiorò le labbra con un dito, pensierosa. «Be', hai già fatto una cosa del genere. Perché non dici che è una soffiata che hai ricevuto? Chiama Hammond e digli che, secondo te, è importante verificare questa informazione, anche se non puoi spiegargliene il motivo.» David valutò la proposta. «Questa idea mi piace di più. Hammond non sarà contento, ma del resto potrebbe rischiare il posto, se ignorasse la cosa.» «Giusto», convenne Susan. «Ma fallo subito, d'accordo? La polizia ha bisogno di quell'indirizzo.» «Questo mi ricorda che devo telefonare a mia madre», commentò sarcastico David.
Susan fece una smorfia. «Non cominciare a confondermi con tua madre», lo rimproverò, togliendosi la giacca. Nel girarsi per appoggiare la giacca sullo schienale della sedia, la camicetta si sollevò, rivelando un giro vita perfetto. Gli occhi di David indugiarono. «Non credo che questo sia un problema», commentò. Il cameriere arrivò coi bicchieri di vino. Impulsivamente, David sollevò il suo e lo protese per fare un brindisi. «Al nostro piccolo team!» «A Rambo e a sua madre», ribatté Susan, toccando il suo bicchiere. Le questioni di lavoro vennero accantonate per un po', e la conversazione si spostò sulle loro storie personali. Susan parlò del suo lavoro e David, a sua volta, spiegò meglio di che cosa si occupava. Entrambi adottarono un tono leggero e per nulla presuntuoso. Invece del dolce, optarono per un Irish coffee. David bevve un paio di sorsi del suo, sporcandosi la punta del naso con la panna. Risero entrambi mentre si puliva col tovagliolo. «Sai una cosa che non è affatto divertente?» disse lui. «Siamo ubriachi.» «Forse io», ammise Susan. «Ma tu sei grosso il doppio di me. Ci vogliono più di tre bicchieri di vino per farti ubriacare.» David alzò quattro dita, si corrucciò, poi ne piegò uno. «Tre e mezzo... ed erano grandi.» Poi chiese: «Non hai mai compilato uno di quei questionari che ci sono ogni tanto sulle riviste, dove scopri quante unità di alcol ingerisci in una settimana?» «È possibile», rispose lei, ridacchiando. «Il mio era facile: due unità alla settimana, una pinta col mio amico Banjo. Non ho mai retto l'alcol. E mi alleno un sacco; credimi, l'ultima cosa auspicabile è presentarsi a un allenamento coi postumi di una sbornia... una tortura.» «Lo so», disse Susan, alzando i palmi per ricordargli che anche lei si allenava. «Campanara», disse lui con decisione. «Spiritoso», ribatté lei, agitando un dito. «No, i miei genitori erano metodisti piuttosto rigidi. Il fascino per la fede mi è passato, ma non l'atteggiamento nei riguardi di chi alza il gomito.» «Tranne questa sera», puntualizzò David. Lei sembrò confusa. «Già, non so cosa sia successo. Non finirà sulla mia fedina penale, vero?» chiese in tono serio. «Non essere sciocca. Posso sempre chiamare i tuoi genitori», si offrì lui.
Mentre sorseggiavano il caffè, parlarono un po' di Londra. Sembrava che la serata volgesse ormai al termine e, quando i bicchieri furono vuoti, David chiese il conto. «Risentiamoci fra un paio di giorni. Per allora saremo di nuovo sobri», propose lui. «D'accordo. Fammi sapere come vanno le cose con Hammond. E chiamami se scopri che il nostro uomo è in prigione.» Scrisse il suo numero di cellulare sulla ricevuta del ristorante. «Ricordami di trascriverlo, prima che lo passi in amministrazione», scherzò lui. Susan rise. «Sai una cosa? È la riunione d'affari più divertente che abbia mai avuto.» «Già, fatichi a renderti conto che stai lavorando, vero?» convenne David. Si alzarono. Susan si rimise la giacca, poi si avviarono verso l'uscita del ristorante. Era una serata tiepida e percorsero un centinaio di metri quasi senza parlare. Poi David scorse un taxi e lo chiamò, dicendo a Susan: «Fatti dare la ricevuta». Il taxi accostò. Susan comunicò all'autista il suo indirizzo, poi aprì la portiera. Prima di salire, si girò verso David e mormorò: «È stata proprio una bella serata». «Anche per me», ribatté lui. Ci fu un momento d'imbarazzo. Non sembrava giusto stringersi la mano, però non era chiaro cos'altro avrebbero potuto fare. «Torna a casa sana e salva», la salutò lui. Susan annuì, sorridendo, e salì sulla vettura. Lui chiuse la portiera e restò a guardare il taxi che se ne andava. 11 Mercoledì 16 aprile (il giorno dopo) David si trovava ancora una volta nell'ufficio dell'ispettore Hammond. Quel giorno, l'ispettore sembrava abbastanza civile, ma del resto aveva trascorso al telefono la maggior parte dei dieci minuti in cui David era rimasto lì, quindi le sue opportunità per essere ostile erano state ridotte al minimo. Gran parte della conversazione telefonica di Hammond si era limitata a
brevi grugniti. Alla fine disse: «Lascio la cosa a te. Ho da fare». E riagganciò. Si girò a guardare David, seduto di fronte a lui. «Ha saputo che cos'è successo agli agenti che erano di guardia?» chiese, aggiungendo una salva d'imprecazioni pronunciate a denti stretti. «No, non so niente», rispose David. Il volto di Hammond si contorse in un sorriso privo di umorismo, poi si rilassò di nuovo. «Il suo terzo uomo ha picchiato a sangue due agenti ed è scomparso. Sembra che fosse tornato a casa a prendere qualcosa. Gli agenti lo hanno bloccato mentre stava per risalire in macchina. Lo hanno tenuto sotto tiro, intimandogli di fermarsi. Quando hanno cercato di ammanettarlo, quello li ha aggrediti. In qualche modo - e, mi creda, verrò a capo di questa storia -, è riuscito a disarmarli, poi li ha riempiti di botte. Ho un elenco da qualche parte... rotto questo, spappolato quell'altro. Se la caveranno, ma per un po' non vinceranno nessun concorso di bellezza. Li ha conciati per le feste.» Mentre parlava, Hammond aveva scorso le carte sulla sua scrivania. In quel momento, alzò lo sguardo e incontrò quello di David. «Soddisfatto?» David serrò leggermente le mascelle. «Mi dispiace molto... intendo dire che i suoi uomini siano stati feriti.» Fece una pausa, poi proseguì: «Ho un'informazione, che penso dovrebbe sapere. D'altro canto, potrebbe considerarla un'interferenza». «Che cos'ha combinato, Braun?» ruggì Hammond. «Io? Niente. Ma, come ben sa, la compagnia per la quale lavoro nel corso degli anni ha recuperato centinaia di oggetti trafugati; abbiamo parecchi contatti. Uno di questi ci ha passato un'informazione», spiegò David. Le mani dell'ispettore cominciarono a tendersi per l'agitazione. «Sputi il rospo», sibilò. David si sporse in avanti. «Si calmi, Hammond, mi sta facendo venire il mal di testa.» «Se mi sta prendendo per i fondelli...» sbottò l'ispettore, alzando la voce. Ma non terminò la frase. David restò anche lui in silenzio per qualche secondo, mentre Hammond lo fissava, furibondo. Poi tirò fuori dalla tasca un foglietto e lo posò sul tavolo. «Una Porsche Turbo, nera, con questo numero di targa», disse, tamburellando sul foglio, «è rimasta ferma per parecchio tempo in questa strada...» Picchiettò un poco più in giù sullo stesso foglio. «E il nostro informatore ha ritenuto che fosse sospetta.» «Ha spifferato i dati dell'auto che stiamo cercando?» insinuò Hammond,
sempre in tono belligerante. «Non mi piace il verbo spifferare», replicò David, pacato. «I suoi uomini hanno fatto diverse centinaia di telefonate identificandosi, ogni volta, come agenti di polizia; io ho chiesto ad alcuni contatti molto discreti di tenere gli occhi aperti. Non è proprio la stessa cosa.» «E cosa vuole che ci faccia con questo indirizzo?» ringhiò Hammond. «Be', se la targa corrisponde, vorrei che lei arrestasse il proprietario e lo mettesse in galera. In caso contrario, accetti le mie scuse per averle fatto perdere tempo», ribatté David. L'ispettore tirò il foglietto verso di sé e lo girò in modo da poterlo leggere. La sua testa iniziò a muoversi a scatti. Sporse il labbro inferiore. Infine, in tono piatto, disse: «Me lo lasci». David non rispose. Sempre con lo stesso tono, l'ispettore chiese: «C'è altro?» David scosse la testa e si alzò. «Arrivederci», disse. Ma Hammond non diede segno di averlo udito. Grazie a una qualche misteriosa alchimia, l'olezzo di birra e di fumo di sigaretta stantio si erano mescolati, sviluppandosi tra le pareti del pub fino a diventare l'odore di una seconda casa, un confortante olezzo di lievito, familiare come quello della casa in cui si era cresciuti. Respirando l'aria del pub, seduto a un tavolo non molto distante dal banco, Banjo stava sciorinando a David quello che lui definiva un «riassunto mediatico». David non guardava quasi mai la televisione e Banjo si era fatto un dovere di raccontargli sinteticamente ciò che si perdeva. «Allora, che cos'hanno di tanto speciale queste persone?» chiese David, confuso. «Nulla. Sono dei parassiti piagnucolosi e acefali», rispose Banjo. «Pensavo che fossero delle celebrità», commentò David, senza capire. «Be', ne hanno fatto uno con delle celebrità, e poi un altro girato nella giungla dal titolo: Fatemi tornare a lavorare in TV: una volta ero una celebrità. E, naturalmente, dopo diventano tutti famosi, perché il Paese intero resta a guardarli mentre si scaccolano e si trascinano da una parte all'altra per settimane con aria annoiata.» «Allora è di questo che parlano costantemente in ufficio: una mezza dozzina di persone normali che più o meno non fa nulla e non va mai da nessuna parte?» suggerì David. «Esatto», ribatté l'amico, illuminandosi. «È come osservare le scimmie
allo zoo.» «Perché si prestano a fare una cosa del genere?» «C'è un premio, ma penso che la maggior parte di loro lo faccia perché è un modo per smettere di essere uno stupido, inetto nessuno per qualche tempo...» «E diventare uno stupido, inetto qualcuno», interloquì David. «Ed è molto più facile che decidere di fare qualcosa della propria vita», concluse Banjo. «Allora non sei un fan. Però sembra che abbiano il tuo sostegno», commentò David. «Non ho nulla contro di loro, se dovessi incontrarli per la strada. In un certo senso, sono come il mio postino: è un tipo gentile, sempre molto allegro. Mi porta la posta, e questo è bello. Ma se facesse un suo talk show, mi farebbe venire i nervi. Oppure immagina se andassi alla Tate Gallery e ci trovassi esposti solo i disegni di mia nipote Siobhan del suo cane, Pokey. Farsi inquadrare da una telecamera non ti rende più interessante o speciale. Per credere che il Paese voglia guardarti mentre fai colazione e stai spaparanzato sul divano, ci vuole un ego delle dimensioni di un bufalo indiano. Non puoi fare a meno di disprezzare qualcuno convinto che la propria esistenza sia uno spettacolo da prime time.» «Vacci piano con l'eloquenza, Banjo», lo redarguì David. «Qualche socio del club del biliardo potrebbe entrare e sentirti. Meglio che mi racconti una barzelletta sconcia per rimediare.» «Accidenti a te, amico, sei così snob», ribatté con noncurante disprezzo Banjo. «Non è mia intenzione esserlo, ma non è ciò cui miro quando... ti stuzzico. Trovo divertente il fatto che tu sia superistruito. Pensavo che questo genere di cose fossero scomparse con la regina Vittoria. Ma la verità è che probabilmente saresti più felice se non avessi così tante nozioni nella testa. Se non te ne fossi mai andato da Bromley, saresti uguale alla marmaglia con cui sei cresciuto. E non ti renderesti neanche conto che c'è qualcosa di sbagliato. Trovo buffo che una cosa così positiva come l'istruzione possa anche essere una spina nel fianco.» Banjo sembrava a corto di argomenti. Dalla sua espressione, era difficile dire se fosse risentito, ma di sicuro era spiazzato. David si affrettò ad aggiungere: «Intendevo dire stranamente divertente, non divertente da riderci sopra. Non sto scherzando. Dico solo che, secondo me, talvolta tu ti senti un po' come un traditore nei confronti della tua
banda, a casa. Anche se non intendevi farlo, li hai superati. Ma capita a tutti. Devi decidere in quale mondo ti va di vivere. E non è facile. Se fai parte di un gruppo, il crimine più grande è pensare di essere migliore degli altri, ma è difficile non sentirsi così, quando noti che sono un po' sempliciotti rispetto a un sacco di cose». Banjo espirò rumorosamente, le sopracciglia arcuate, gli occhi che fissavano le immaginarie profondità del suo boccale di birra. «Questa è una faccenda privata. Non è una chiacchierata da fare in un pub», borbottò, evitando lo sguardo dell'amico. David lo guardò con affetto. «Mi dispiace di averti criticato duramente, ma ogni tanto mi sarà consentito di essere saggio e perspicace, no?» Poi, in modo molto gentile, aggiunse: «Non è solo compito tuo». Banjo rivolse a David un sorriso malinconico e mostrò qualche segno di ripresa. «Hai ragione, sai. Riesco a sparare critiche, ma non a incassarle. È ciò di cui stai parlando, in effetti. Mi piace fingere di prendere il mondo per quello che è, ma mi piace anche darmi delle arie, predicendo la fortuna agli altri. Forse non posso fare tutt'e due le cose.» David annuì, con fare incoraggiante. «È più o meno quello che sto dicendo. Tu sei profondo, ma cerchi di far finta di niente, perché in realtà la cosa t'imbarazza un po'. Preferisci tenerla da parte, usarla come un trucco da tirar fuori alle feste. Ti ricordi quel discorso sull'adattamento? Più ci rifletto, più mi convinco che hai ragione... ma credo che valga anche per te. Non che io pensi che tu non sia più che perfetto.» Banjo proruppe in una specie di sogghigno. «Vecchio bastardo. Allora: è tutto, oppure hai ancora in serbo qualche altra penetrante intuizione su Banjo?» «Non conosco la risposta, se è questo che vuoi sapere», ribatté David. «Se riesci a migliorare te stesso, qualunque cosa significhi, questo può scavare un abisso fra te e le persone che ti circondano, e se non... Be', del resto non penso che sprecare il proprio talento faccia sentire a meraviglia. Guarda me e i miei genitori: adesso non ho nulla in comune con loro. Viviamo in mondi differenti. Pensavo che sarebbero stati orgogliosi di me se mi fossi laureato e via dicendo, ma l'unico risultato è che adesso io sono un mistero per loro e loro, a me, sembrano un po' meschini.» «E pensi che io soffra della stessa cosa?» David annuì. «Credo che tu abbia ragione, amico», concesse Banjo. «Ma cosa dovrei fare quando sono con la banda? Chiudere la bocca oppure dimostrare
quanto sono intelligente? È una scelta piuttosto odiosa, non trovi? Mentire ai tuoi amici su chi sei veramente oppure rischiare di perderli?» David scrollò le spalle. «Be', io ho seguito la seconda alternativa. Dimmi tu come sta andando.» «Visto che sei così sincero e introspettivo...» disse Banjo, abbassando la voce. «A volte penso che tu sia un po' solo e forse anche un po' frustrato in merito al tuo destino.» «Probabilmente non sei andato molto lontano dalla verità», ribatté David, imbarazzato. Adesso era lui a evitare lo sguardo dell'altro. «Lo sai che detesto parlare di queste cose, ma sembra quasi che io abbia fatto un patto - non chiedermi con chi - e che non sia stato rispettato. È la scelta di cui stavamo parlando: cercare di migliorarsi e realizzare il proprio potenziale o restare indietro col resto del branco? Be', sapevo che ci sarebbe stato un prezzo da pagare, se fossi andato avanti. Sapevo che rischiavo di essere tagliato fuori, ma... Non lo so, ho pensato che ci sarebbero state delle ricompense, qualcosa di più di una remunerazione.» «Tipo?» chiese Banjo, interessato. «Potrà suonare un po' semplicistico, adesso che lo dico ad alta voce, ma pensavo che, se mi fossi dato da fare, se mi fossi allenato, se avessi lavorato sodo e studiato... pensavo che sarebbe successo qualcosa di più grande e di migliore che se me ne fossi fregato.» «Come in quel film con Kevin Costner, quando la voce gli dice: 'Se lo costruisci, lui tornerà'? E lui sacrifica tutto per costruire il campo da baseball, per realizzare il sogno», suggerì Banjo. «Oppure una specie di comunismo karmico? A ciascuno secondo i propri bisogni, da ciascuno a seconda delle proprie capacità?» «Più o meno. In un certo senso, sto ancora aspettando che la mia vita abbia inizio... Parlo della vita autentica, dove accadono tutte le cose davvero importanti. Penso che, in qualche recesso della mia mente, mi fossi convinto che quanto più competente fossi diventato come individuo tanto più decisivo sarebbe stato il mio destino, una volta che fosse finalmente arrivato.» David alzò le mani al cielo. «Suona davvero demenziale.» Il volto di Banjo diceva il contrario. «Tutti credono nel destino, David, tutti. Ascolta le ragazze che parlano dei loro innamorati e continuano a chiedersi: 'Sarà lui quello giusto?' Se la vita fosse una serie di circostanze fortuite, non esisterebbe la persona giusta per te, non ci sarebbero scelte giuste. Nessuno potrebbe dire: 'È questo che dovevo fare? È questa la cosa giusta?' perché non avrebbe significato. Sarebbe semplicemente una serie
ininterrotta di giornate a casaccio. Persino quelli che non credono in dio, nelle superstizioni o nel paradiso sono convinti che ci sia un nesso tra l'oggi e il domani, tra il presente e il futuro, non importa quanto debole sia. Tutti credono di avere una sorta di destino.» «D'accordo. E, a dire il vero, mi sento un po' imbrogliato dal mio», ribatté David. «Mi sento come se avessi messo il mio nome su un contratto, che conservo ancora... Però non è successo nulla. Oh, come sono ingrato.» «Non credo che c'entri la gratitudine», mormorò Banjo, corrucciandosi. «Probabilmente così te la sei cavata molto meglio che se il tuo grande, infelice destino si fosse palesato. Dopotutto qui stiamo parlando di sfide, giusto? Di scoprire di che pasta sei fatto. È come l'idea di partire per la guerra. Un sacco di ragazzi si chiedono in che modo l'affronterebbero. Si presume che non sia un pic-nic.» «Non la stai facendo sembrare una cosa meno stupida ma, almeno, messa in questi termini, vedo che non sono l'unico idiota che la pensa così», fu il commento di David. «Gli esseri umani sono cantastorie; non possiamo farne a meno, se vogliamo che la nostra esistenza si trasformi in una bella storia», continuò Banjo. «Magari persino una leggenda», aggiunse con aria melodrammatica. «Dovrò parlarne con Susan. È un'esperta di leggende», disse David. «Ah, sì. La donna finora conosciuta come 'Miss Milton'. Come sta Susan?» chiese Banjo. «Non farti venire strane idee. È una ragazza interessante, ma stiamo solo lavorando insieme», lo rimbeccò David. «Oh, raccontalo a qualcun altro, amico. Così è troppo facile. Anche a me piacciono le sfide, lo sai.» Banjo chiuse gli occhi, si portò le dita alle tempie e, in tono esitante, disse: «Sento qualcosa. Mi sta giungendo un messaggio dall'aldilà. Dice... Dice...» Poi la voce si fece tremula e lamentosa: «'A David piace questa ragazza'». David scoppiò a ridere. Banjo continuò il suo spettacolo da gigione. «Aspetta, c'è dell'altro.» Di nuovo la voce querula. «'David vorrebbe chiederle di uscire, ma non vuole rischiare, perché potrebbe dargli del filo da torcere.' E cosa stanno dicendo le voci? 'David...'» L'altro lo interruppe. «Forse è arrivato il momento di mostrarti quella mossa che ho imparato in palestra. Se la eseguo correttamente, dovrei riuscire a spezzarti la laringe senza che nessuno se ne accorga.»
«A tuo rischio e pericolo», ribatté con fare altezzoso Banjo. «Lo sai bene che conosco a menadito la serie completa di alcune leggendarie tecniche di azzoppamento, menomazione e mutilazione.» «Va bene, Banjo, ti stavo solo sfottendo. Non vorrai far del male a un uomo cui spetta il prossimo giro, eh?» «Così va meglio. Adesso devo assentarmi. Mi aspetto di trovare una pinta di Old Nasty ad attendermi al mio ritorno, a meno che tu non voglia un assaggio della mano tremolante», lo minacciò Banjo, alzando con cautela una mano, come se anche lui temesse il suo potere. Con passo lento si avviò verso i bagni, mentre David andava al bancone del pub. Quando Banjo tornò, c'era una nuova pinta di birra ad attenderlo. Anche David se n'era presa una per sé. «Non sei passato al cordiale al sambuco?» commentò Banjo. «Sei diventato una spugna, ragazzo. Tre pinte? Cosa mi tocca vedere!» «Susan e io ci siamo scolati parecchio vino, ieri sera. Non c'è come bere troppo per farti venire sete», ribatté David. Abbassò lo sguardo sul suo boccale e sbuffò. «In effetti hai ragione. Non ho neanche voglia di berla, e domani devo parlare di nuovo con quello stoccafisso della Serious Crime Squad. Meglio farlo senza i postumi di una sbornia.» «Già, forse è meglio», convenne Banjo, mentre David allontanava il boccale intonso. «Smidollato», disse poi, neanche a voce troppo bassa. «Allora questa non la bevi?» chiese, indicando la birra. David scosse il capo e ordinò una Coca-Cola. Banjo saltò in piedi, prendendo il boccale con sé, e si diresse dall'altra parte del pub. Seduto da solo a un tavolo c'era un uomo anziano, le mani posate su un bastone da passeggio. Davanti a sé teneva un quotidiano aperto sulla pagina di un cruciverba non ancora finito. L'uomo indossava un vecchio completo nero che aveva l'aria di essere comodo e informale come i jeans sbrindellati di Banjo, e altrettanto costoso. David non riuscì a sentire la conversazione, ma quando Banjo tornò, senza boccale, l'anziano signore alzò il mento e sollevò il bastone verso David, per ringraziarlo. Quando Banjo si fu seduto, David disse: «Voglio chiederti una cosa». «Sono tutt'orecchi», ribatté Banjo. «L'oggetto rubato di cui ti parlavo...» Banjo annuì, come per invitarlo a continuare. «Be', proviene dalla Cina e pare che nell'antichità fossero convinti che avesse poteri curativi. La cosa strana è che il ladro sembra credere a tali
leggende. Susan pensa che stia morendo e che voglia questo oggetto... lo abbiamo chiamato Marker, a proposito. Insomma, che lo voglia per curarsi.» «Una storia piuttosto strampalata. Cosa volevi sapere da me?» domandò Banjo. «Mi stavo chiedendo se è totalmente da escludere», replicò David, lanciandogli un'occhiata di sottecchi. «Che cosa sarebbe da escludere?» ripeté l'altro, perplesso. «Credo di aver detto già un sacco d'idiozie stasera, quindi una in più non guasterà. Mi chiedo se ci può essere qualcosa di vero nell'idea di essere curati da un oggetto di metallo che ha duemila anni.» «Rispetto al fatto di essere curati da un oggetto di metallo del XX secolo, tipo quello che usano per la radioterapia?» domandò Banjo. Invece di rispondere, David continuò il suo racconto. «Ricordi che ti ho detto di avere un cliente che mi ha spaventato a morte? Be', il tipo che gli ha rubato questo Marker non è migliore. Anzi, considerato che ha ucciso due persone, dovrebbe incutere ancora più paura. Solo che c'è qualcosa in quei due tizi... È come se fossero alieni o qualcosa del genere. Sembrano persone normali, ma c'è qualcosa in loro che ti fa rizzare i capelli in testa...» Osservò pensieroso i capelli rossi dell'amico, decisamente ritti sulla testa. Banjo increspò le labbra con aria riflessiva. «Non credo di averti mai visto spaventato. Ricordi quando andammo alla festa per il ventunesimo compleanno di Rebecca Stevenson, e gli amici di suo fratello volevano darcele di santa ragione? Quella volta sì, che avresti dovuto aver paura... Erano degli armadi.» David sorrise. «Questa è la cosa migliore dell'allenamento: una volta che le hai prese dai maestri, non ti preoccupi granché dei dilettanti che vogliono fare a botte.» Banjo scosse la testa. «Be', allora magari dovresti andarci piano. Hai detto che questo tizio ti ha spaventato a morte. Se non hai paura di essere ferito, di che cos'hai paura?» Restarono in silenzio per qualche minuto, poi Banjo tornò alla domanda iniziale. «A proposito di cure bizzarre... Penso di credere alla guarigione per fede, in parte almeno, e forse all'ipnoterapia. E penso che molte persone siano disposte a credere che certi rimedi cinesi, come quelli usati per migliaia di anni, abbiano una loro efficacia. Forse questo Marker è simile - che ne so - all'agopuntura. Hai mai visto quei servizi in televisione in cui mostrano un paziente che sfa subendo un inter-
vento da sveglio, e l'unica cosa che gli impedisce di sentire dolore sono un paio di aghi?» «Questo è vero», ammise David. «Sono sicuro che, se la gente avesse avuto motivo di smitizzare l'agopuntura, a quest'ora lo avrebbe già fatto. E si tratta semplicemente d'infilare qualche ago di metallo nel corpo.» «Nel posto giusto», puntualizzò l'amico. Poi gli venne in mente qualcosa. «Non mi hai detto che uno dei tuoi sensei era paralizzato?» «Sì, nel suo dojo avevano messo un'apparecchiatura a raggi X, e così avevano scoperto che aveva una frattura alla spina dorsale. Non ricordo quale vertebra, ma lui è rimasto immobilizzato dal bacino in giù per un anno. Apparentemente era una condizione incurabile, però lui è migliorato. A suo dire, c'era riuscito attraverso la meditazione e certe tecniche di respirazione.» «E tu ci credi?» chiese Banjo. «Presumo di sì», rispose David. «È molto complicato fingere. Se voleva inventarsi una storia, avrebbe potuto affermare di aver steso Bruce Lee o almeno di aver ripulito un bar pieno di teppisti. Se tu avessi intenzione di pagare una mezza dozzina di persone perché sostengano la tua versione, sceglieresti qualcosa di un po' più grintoso e concreto, no?» «Allora non è poi così difficile capire come il tuo uomo si sia autoconvinto a credere nei miracoli», commentò Banjo. Poi osservò l'espressione di David e chiese: «Stai dicendo che ci credi anche tu?» David indugiò, facendo una smorfia. «No. Avrà anche il fisico per fare la controfigura di Capitan America, ma ciò non significa che sia il latore della verità.» «Non mi dirai che è pure atletico!» esclamò Banjo. «Da non credere. O si fa di qualcosa, oppure si sottopone ad allenamenti tali che io, al confronto, sembro il vecchio zio Jess, laggiù», rispose David. «Be', allora faresti meglio a stargli alla larga, non credi?» suggerì Banjo. 12 Giovedì 17 aprile (il giorno dopo) Erano le sette di sera e fuori era ancora chiaro. Nei sotterranei della School of Antiquities, Susan stava finendo di scrivere i suoi appunti. Aveva le dita posate sulla tastiera dell'iBook, il polpastrello dell'indice destro che tamburellava delicatamente sulla lettera Il senza premerla... Un
metronomo per i suoi pensieri. Poi le dita si animarono, RIMANDO A MERCURIO, ECCEZIONE AGLI ELEMENTI ARISTOTELICI? Aveva sistemato il portatile leggermente alla sua sinistra; un documento della collezione era appuntato a un leggio alla sua destra. Girando un poco la testa poteva digitare e al tempo stesso studiare il foglio ingiallito con la sua scrittura precisa, minuta. Era seduta in quella posizione da ore. Staccò le mani dalla tastiera e si premette la spalla destra, ruotandola. Con la mano sinistra, strinse e rilasciò le fasce muscolari del collo parecchie volte. Quindi prese una decisione. «Adesso me ne vado», sentenziò, salvando e chiudendo il documento sul quale stava lavorando. Spense il portatile, poi tolse con cautela il foglio di carta dal leggio e lo rimise nella busta trasparente, che era stata etichettata. Infine prese con sé la busta e uscì dalla stanza. L'archivio dove venivano conservati i documenti si trovava in una stanza diversa da quella in cui c'erano le postazioni di lavoro dei ricercatori. Tirando fuori un portachiavi dalla tasca dei suoi jeans color verdemare, Susan aprì la pesante porta antincendio e accese la luce. Schedari e classificatori erano allineati lungo le pareti, ma alcuni si trovavano proprio al centro della stanza. Benché in apparenza la stanza fosse immacolata, in essa c'era odore di polvere, una polvere che si bruciacchiava se le lampadine venivano lasciate accese per un certo periodo di tempo. L'archivio situato nell'angolo opposto alla porta era stato messo su una piattaforma di legno e aveva un aspetto a metà tra una cassaforte e un casellario. Non aveva un disco a combinazione, solo una serratura coperta e una grande maniglia cromata. Susan girò la chiave nella serratura, alzò la maniglia - che produsse un risucchio metallico - e aprì lo sportello. Su tre scomparti erano sistemate le buste trasparenti e le cartelle con le etichette gialle. I numeri di codice e le lettere dell'alfabeto scritte a mano erano posizionati verso l'esterno. La giovane rimise la busta al suo posto, quindi richiuse lo sportello e prese il registro sopra l'archivio. Poi, impugnando una biro mezza rotta - attaccata alla molletta di metallo con una logora cordicella bianca - e dopo aver guardato l'orologio, Susan riempì un paio di caselle sul modulo, i cui margini e titoli erano sbiaditi a furia di fotocopiarlo. Infine uscì dalla stanza, spegnendo la luce e chiudendo a chiave la porta. Per fare spazio all'archivio, da quella stanza erano state portate via parecchie cianfrusaglie, che adesso giacevano abbandonate nel corridoio accan-
to alla porta. Susan notò un vecchio casellario verde, avvolto nel polietilene. Era riverso su un fianco: segno inequivocabile della sua fine imminente. Alcuni schedari e un vecchio otturatore a tendina, rinforzato da una logora gomma nera, condividevano il catafalco del casellario. Fermatasi davanti al distributore automatico, vicino all'ascensore, Susan scelse una zuppa di pomodoro e trasalì leggermente quando la macchina fece scattare un bicchiere di plastica nel suo contenitore con una rapidità fulminea, che fece vibrare il pannello anteriore. Il tonfo esplosivo della macchina, seguito da un gorgoglio crescente, era l'unico rumore di quel piano. Si era fatto piuttosto tardi e Susan era l'ultima persona ancora al lavoro. Gli occasionali rumori dell'attività diurna erano ormai cessati. Un suono simile a quello di un cuscinetto a sfera che veniva ripetutamente fatto cadere sul pavimento di marmo risuonò alcune volte fino a lei, poi tornò il silenzio. Persino la nuova guardia non si vedeva. Tornata nella Sala Alessandrina, Susan si lasciò cadere sulla sedia. Le strette plafoniere, con la loro luce fioca, e la lampada da tavolo alogena erano Tunica illuminazione. La ragazza trangugiò qualche atomo di zuppa bollente, poi iniziò a frugare nella borsa alla ricerca della rubrica. In mezzo era infilata una scheda telefonica, che posò sul tavolo. Poi compose una lunga sequenza di numeri. «Pronto», disse la voce di Dee. «Dee, sono Susan.» «Aspetta, Susie...» Dee evidentemente premette una mano sulla cornetta, ma Susan la sentì comunque gridare: «Portalo fuori del mio ufficio prima che l'ammazzi, Jack. Fila. E chiudi la porta!» Poi la sua voce tornò normale. «Scusa. E mi dispiace di averti chiamato Susie. Come stai, sorella?» Quell'affettuosità improvvisa colse Susan di sorpresa. «Ehm, bene. Alla grande», farfugliò. «E a te come va?» «A gonfie vele.» Ebbe una vaga esitazione. «Ci hai ripensato?» chiese. Ma non le diede il tempo di ribattere. «Magari potrei rimandare la mia visita, se pensi...» «Dee, l'altro giorno intendevo solo dire che ho un casino di roba da fare», la interruppe Susan in tono gentile. «Mi piacerebbe molto vederti. Mi dispiace solo che in questo periodo abbia un sacco di lavoro, e non potrò passare con te tutto il tempo che vorrei. Ecco perché avevo qualche riserva.» «Be', e se io fossi autosufficiente? Mi comprerò una guida e andrò in gi-
ro da sola. Magari posso prenotare un albergo in centro.» Susan s'illuminò. «Oh, quel posto in cui sto, la casa del mio professore, non costa niente», esclamò. «Devi venire a stare con me... anche se io non sarò molto a casa. Immagina che Miss Marple abbia acquistato una residenza in pieno centro. L'arredamento è in stile edoardiano. Tutti pezzi d'antiquariato... e niente TV. Ti piacerà.» «Sembra fantastico. Allora ti va bene?» chiese Dee. «Certo», rispose Susan. Ed era sincera. «Non vedo l'ora.» «Bene, arriverò martedì. È troppo presto?» «Il prossimo martedì?» Susan era piuttosto sorpresa. «Esatto», ribatté timidamente la sorella. «Stavo solo pensando... Lascia perdere. Va bene. Anzi è fantastico.» Dee si schiarì la gola, poi disse allegramente: «Allora, che cos'è che ti tiene tanto occupata? Sono in grado di capirlo, se me lo spieghi?» «Sai che cos'è la carta, vero?» scherzò Susan. «Be', ne sto esaminando una quintalata. Un sacco di vecchi documenti che hanno bisogno di essere letti, analizzati e catalogati. Solo a uno sfigato potrebbe piacere. Per fortuna...» «Allora non vai a fare bisboccia tutte le sere?» «Una cioccolata e a letto alle undici», le assicurò Susan. «Però mi è successa una cosa eccitante; mi hanno chiesto di collaborare a un'indagine. Una compagnia di assicurazione mi paga per svolgere una ricerca su un oggetto antico trafugato. Guardie e ladri veri.» «Uh, una novella Nancy Drew. Allora non esci solo con bibliotecari, ma anche con assicuratori. Meno male», commentò Dee, divertita. «Esco con un tipo che non corrisponde al tuo cliché di assicuratore», la rimbeccò Susan, pentendosi immediatamente. «Chi? Quale tipo?» chiese Dee. «Quello della compagnia di assicurazione», rispose Susan con noncuranza. Poi aggiunse: «Si chiama David». «E se fosse una celebrità, sarebbe...» «Dio, non lo so. Un Clancy Brown più giovane e coi capelli più scuri», ribatté Susan. «Chi? Ah, quello che faceva il Kurgan in Highlander? E uno così venderebbe polizze assicurative? La mia mente si rifiuta di visualizzare l'immagine», borbottò Dee, vagamente incredula. «Pessimo paragone, lo ammetto. Non ha un aspetto spaventoso, è solo massiccio. Comunque, il succo della storia è il lavoro interessante che sto
svolgendo, non il tizio per cui lavoro.» «Certo, certo», tagliò corto Dee. «È single?» «Presumo di sì», rispose Susan con indifferenza. «Ma smettila di farmi domande su di lui. È solo un diversivo.» Si corresse: «È un lavoro extra, ed è uno dei motivi per cui ho pensato che non avrei avuto molto tempo da dedicarti». Poi aggiunse enfaticamente: «E comunque non è il mio tipo». «Okay. Messaggio ricevuto. È un bel figo, è disponibile e a te non interessa. Ho capito. Non dire altro.» Aveva un tono cospiratorio, come se avesse intuito quello che stava succedendo. «Allora posso passarti i dati del volo? Riesci a venire a prendermi? Comunque non ci sono problemi. Posso arrivare in città da sola.» Susan sbatté le palpebre, stupita che Dee avesse rinunciato tanto prontamente al suo terzo grado su David. «Ah, sì. Prendo una penna. Okay, vai.» Dee sarebbe arrivata all'aeroporto di Heathrow martedì sera e quindi Susan poteva andare a prenderla senza interrompere il suo lavoro. «Sei cambiata? Più alta? Hai tatuaggi?» chiese Dee. «Non preoccuparti. Mi presenterò con un cartello», ribatté Susan. «Ci vediamo martedì.» «Va bene. Ciao, sorella», la salutò Dee e riagganciò. Susan rimase per qualche istante immobile, col gomito appoggiato sul tavolo. Poi, mentre abbassava il ricevitore, il clic della plastica contro la plastica coincise con un tonfo lontano, come se lei avesse riagganciato una cornetta del peso di una tonnellata. Sfogliando oziosamente la rubrica, si ritrovò a fissare la pagina sulla quale era riportato il numero di David. Protese il labbro inferiore, riflettendo. Poi inserì il numero nella memoria del suo cellulare, ma involontariamente lo cancellò, quindi dovette ripetere l'operazione daccapo. Un rumore la distolse bruscamente da quel compito. Sembrava che qualcuno stesse battendo due pietre l'una contro l'altra. Il suono proveniva dall'altra parte della parete... dalla stanza in cui erano conservati i documenti. Susan reclinò il capo, tendendo l'orecchio. Sentì un debole scricchiolio soffocato, come se qualcosa venisse trascinato sul linoleum. Oppure era lo stridio distante di un metallo che veniva torto e deformato? Si guardò intorno, allarmata. Poi alzò il ricevitore e digitò lo zero. Squillò parecchie volte, ma nessuno rispose. Riagganciò. Con passo felpato si diresse verso la porta, abbassò la maniglia con estrema lentezza e socchiuse l'uscio. La porta dell'altra stanza era spalancata
e le luci erano accese. Sempre con estrema cautela, lasciò andare la maniglia, poi aprì la porta a sufficienza per sgusciare fuori. Si soffermò un istante a osservare le cianfrusaglie abbandonate tra il punto in cui si trovava e la porta dell'altra stanza. I suoi occhi si posarono su una vecchia asta di legno di quercia: era lunga un metro e sormontata da una tilde di ferro nero; si usava per agganciare i saliscendi delle alte finestre vittoriane. Susan si avvicinò con estrema lentezza, afferrò l'asta e la estrasse con cautela dal groviglio in cui era infilata. La catasta di oggetti si trovava in un angolo del corridoio, tra le due stanze. Chiunque si trovasse nella stanza dell'archivio non avrebbe potuto vederla. Uno schiocco riecheggiò nella stanza, come di un cavo d'acciaio che si spezzi sotto tensione. Susan afferrò l'asta di legno dalla punta ferrata e avanzò, sempre con passo felpato, verso la porta aperta. Una volta lì, sbirciò dentro e vide un uomo, vestito di nero e grigio, piegato su un ginocchio davanti allo sportello aperto dell'archivio. Intorno a lui erano sparpagliate alcune cartelle, ma lui reggeva un foglio sul quale era evidente un disegno intricato. Era lo stesso documento che lei aveva mostrato a David sul suo portatile. L'intruso teneva il foglio in alto, leggermente inclinato per cogliere la luce. Benché indossasse un berretto nero - e quindi il suo volto fosse seminascosto -, sembrava in un certo modo affascinato da ciò che stava osservando. La ragazza avanzò di un passo. S'irrigidì quando lui si girò all'improvviso... ma in direzione dell'archivio. Estrasse un'altra cartella. Non l'aveva ancora vista, ma Susan fu certa che si trattava dello stesso uomo da lei intravisto quand'era corsa ad aiutare Mrs Harris. Adesso si era appena sbarbato, però era impossibile sbagliarsi. Fece un altro passo. E un altro ancora. Era quasi alle sue spalle. Dopo un altro passo, ruotò l'asta sopra la spalla destra e l'abbatté pesantemente sulla testa dell'uomo; il legno e il metallo lo colpirono di lato, facendo volare via il berretto e mandando l'uomo al tappeto. L'impatto generò un rumore curioso, secco e inorganico. Susan non scorse altro che un lampo metallico, uno scintillio. Il berretto di lana era volato ai suoi piedi e, all'interno, era visibile una fascia dorata. L'intruso indossava un cerchio di metallo intorno alle tempie. Un colpo così forte avrebbe potuto essergli fatale. Invece, benché il san-
gue scorresse da una brutta ferita tra i corti capelli scuri e gli occhi sembrassero momentaneamente offuscati, l'uomo era vivo e vegeto. La fascia di metallo aveva attutito in parte l'impeto del colpo. Adesso giaceva su un fianco, con un braccio sotto la schiena e l'altra mano alzata col palmo verso il viso, come se si sforzasse di schiarirsi la vista. Avanzando verso di lui, Susan sollevò l'asta per assestargli un altro colpo. L'intruso scattò all'indietro, raspando coi piedi, e andò a sbattere contro il bordo tagliente di un casellario grigio, ma un istante dopo fu in piedi. Era instabile sulle gambe e il suo sguardo, simile a una falena accecata dal calore, oscillava in un'orbita intorno alla testa di Susan. Infine l'uomo mosse un passo in direzione della giovane, le mani alzate in posizione di difesa, ma col taglio rivolto contro di lei. Senza staccare gli occhi dal suo avversario, Susan urlò con tutto il fiato che aveva in corpo. L'eco in quello spazio angusto fu così forte che l'intruso si fermò di colpo. Un istante dopo le fu addosso. Nel momento in cui l'intruso si mosse, con un movimento che sferzò l'aria, Susan portò l'estremità più grossa dell'asta davanti a sé ed essa andò a colpire la mascella di lui. Il grugnito che Susan emise a causa dello sforzo coprì il rumore del legno sull'osso. L'uomo barcollò, cadde su un ginocchio, ma si rialzò subito, saltando su come un pupazzo a molla, e strappò l'asta dalle mani di Susan, sbilanciandola. Lei appoggiò un piede all'indietro per stabilizzarsi, ma venne colpita da un rapido sinistro sullo zigomo; le ginocchia le si piegarono e la giovane barcollò all'indietro, andando a sbattere la testa contro lo spigolo dello sportello contorto dell'archivio. Finì a gambe all'aria, cadendo sopra la fascia di metallo. Dal corridoio giunse un clangore di chiavi. Il lato sinistro del volto dell'uomo era coperto di sangue, che stillava, una goccia dopo l'altra, dal mento. Sulla guancia destra, invece, era evidente un segno color porpora, l'impronta dell'asta. La bocca era spalancata. L'intruso mosse un passo verso Susan, che stava arrancando per infilare una mano sotto la schiena, incapace di rialzarsi. Due figure in uniforme irruppero nella stanza e si fermarono di colpo. Il ladro girò la testa nella loro direzione, tenendo il collo rigido ed eseguendo un movimento innaturale delle spalle. I nuovi arrivati portavano i distintivi
delle guardie di sicurezza. «La polizia sarà qui a momenti», urlò la giovane guardia di colore all'intruso che, sanguinante e senza fiato, li stava fissando. «Si allontani dalla ragazza», ordinò poi, avanzando verso di loro e afferrando uno sgabello di metallo appoggiato sopra una cassa, le cui gambe erano abbastanza irregolari da fungere da arma. «Si allontani», ripeté la guardia, in tono fermo ma persuasivo, senza alzare né lasciare lo sgabello. Il collega, pallido e nervoso, era rimasto sulla soglia. L'intruso fece due passi esitanti verso le guardie, la schiena ricurva, la testa bassa e il sangue che colava sullo zigomo e gli gocciolava dal naso. Avanzava come uno storpio. Ma era una finta. All'improvviso afferrò una manciata di documenti da terra e corse verso la porta. La prima guardia venne scaraventata di lato mentre tentava di fermarlo. Il collega, che si era aggrappato alla manica dell'intruso, si ritrovò a mani vuote, mentre quello lo superava con uno strattone. Qualcosa intorno al polso dell'uomo scintillò per una frazione di secondo. «Ernie, bada alla ragazza», urlò la guardia di colore, rialzandosi in fretta e inseguendo il fuggiasco che aveva già sbattuto dietro di sé la porta antincendio adiacente all'ascensore e stava risalendo le scale tre gradini alla volta. L'altra guardia lanciò uno sguardo ansioso a Susan, poi al collega che stava correndo fuori. Susan protese una mano e lui si affrettò a raggiungerla per aiutarla ad alzarsi. Era molto instabile e, per restare in piedi, fu costretta a cingere con un braccio le spalle puntinate di forfora della guardia. «Mi aiuti ad andare nell'altra stanza, presto», gli disse. Lui la sorresse, mentre Susan raggiungeva la sua scrivania. Numerose gocce di sangue caddero da una ciocca dei suoi capelli biondi e andarono a formare un'ellissi scarlatta sulla T-shirt bianca. Inciampò e per poco non cadde sulla sedia. La rubrica era ancora aperta, col cellulare posato al centro, come un segnalibro troppo grande. Afferrò il cellulare e digitò un numero il più in fretta possibile. Trasalì quando l'apparecchio le sfiorò la guancia. Uno squillo... Due squilli... poi una voce rispose. «David», disse. 13
Giovedì 17 aprile (alcuni minuti dopo) «Li chiamo io, ma sono vicino, a soli cinque minuti», disse David, il cellulare all'orecchio, l'altra mano sul volante. Ascoltò la voce di Susan dall'altra parte. «Mio dio, stai bene? Santo cielo!» Rimase ancora in ascolto. «Ascolta, sei vicinissima all'ospedale. Ti chiamo sul cellulare quando sei lì... Va bene, va bene. Li chiamo subito.» S'interruppe per concentrarsi sul sorpasso di un autobus che lo stava rallentando. «Va' all'ospedale, ti richiamo subito.» Riagganciò e digitò il numero del pronto intervento. Dovette dare alcune spiegazioni, ma riuscì a chiarire alla donna che aveva risposto al centralino della polizia che un uomo aveva appena commesso un crimine violento in una zona di Londra e che probabilmente aveva un secondo obiettivo. Citò l'ispettore Hammond e diede i suoi dati. Dopo pochi minuti, ricevette l'assicurazione che una pattuglia era stata allertata e riagganciò. Restò momentaneamente bloccato nel traffico, in attesa che scattasse il verde, sulla strada che da Islington portava a Old Street. Richiamò la rubrica del cellulare, trovò il numero di Hammond e premette il tasto di chiamata. «Hammond», sbraitò una voce dopo il primo squillo. «Sono David Braun. Il nostro uomo ha appena aggredito Susan Milton all'università e ha rubato i documenti di cui lei le ha parlato. Ha qualcuno all'indirizzo che le ho fornito?» «Non in questo momento», rispose Hammond. «Be', ho avvisato la polizia, ma ho pensato anche di comunicarglielo personalmente. Magari ha una pattuglia in quella zona», disse David. Tenendo fermo il volante con le ginocchia, strattonò il nodo della cravatta finché non si sciolse. La giacca se l'era già tolta, gettandola sul sedile accanto. «Adesso devo occuparmi di questa faccenda. Arrivederci, Braun», disse Hammond. Poi aggiunse quasi a denti strettì: «Grazie». L'indirizzo verso il quale David era diretto a tutta velocità si trovava in una strada laterale, poco distante da Great Eastern Road, la strada principale che da Old Street portava alla City e alla Torre di Londra. Il quartiere era un labirinto di laboratori e officine a tre piani, tutte di mattoni rossi. Molti edifici avevano ancora le porte dei fienili ai piani superiori e vecchie carrucole di ferro agganciate sotto i tetti: le vestigia di un passato di duro lavoro superato dall'avvento della borghesia.
Da qualche parte, il sole si stava tuffando sotto l'invisibile orizzonte. La crescente oscurità faceva sembrare più strette le strade tortuose. Nascosto nel dedalo di viuzze, David stava percorrendo una via lastricata. Imboccò un'ultima curva alla luce dei fari. Sul ciglio della strada, a poca distanza da un ingresso rientrato, c'era una Porsche nera. Un portone di legno a doppi battenti, dipinto di blu, sbarrava l'accesso al pianoterra di un laboratorio. Una figura vestita di nero aveva aperto uno dei battenti e stava armeggiando col catenaccio dell'altro. Oltrepassata la curva, David riconobbe l'uomo: era lo stesso che lui aveva visto scavalcare un muro di tre metri. E adesso era di fronte a lui, che armeggiava col catenaccio della porta, incapace di sollevarlo da terra. La spalla destra, appoggiata a un battente, e il modo in cui la mano sinistra era posata sulla pesante maniglia di ferro suggerivano che, se non fosse stato per quel sostegno, le sue gambe non lo avrebbero retto. Di certo stava aprendo il portone per far entrare l'auto. Una nuda pavimentazione di cemento, appena visibile all'interno, suggeriva la presenza di un garage. David iniziò a rallentare solo quando arrivò all'altezza del portone, senza tuttavia dare nessun preavviso sulla direzione che avrebbe seguito. Mentre superava la figura in nero, frenò di colpo, puntando il muso della Saab verso il centro della strada, e fermandosi a pochi centimetri dalla Porsche, bloccando la strada. Poi saltò fuori della macchina, ma l'altro, invece di darsi alla fuga, si limitò a rialzarsi dalla posizione reclinata in cui si trovava e a raddrizzare le spalle. Un lato del volto era nero: uno strato di sangue rappreso lo ricopriva dalla fronte al mento. Sull'altro lato, il profilo della mascella era orribilmente gonfio, la pelle tesa sulla guancia distorta. La brutalità dei colpi ricevuti era impressa nella carne di quell'individuo. «Solo un segugio e senza tributo. Mi sento insultato...» disse, aspirando il sangue tra i denti, le labbra ritratte dalle gengive insanguinate. L'effetto era quello di un teschio parlante. «... forse mortalmente», aggiunse con un lieve sibilo, che forse voleva essere una risata. David si era fermato a pochi passi dall'uomo, che stava immobile sulla soglia. La figura malconcia lo studiò. «Com'è stato intelligente il tuo maestro a inviare un figlio leale. Fra cento anni ti pentirai di non averlo tenuto per te.» David continuò a rimanere in silenzio.
«Allora vediamo se hai imparato bene le tue lezioni», lo sfidò l'altro. L'ultima parola venne accompagnata da una bollicina rosa di sangue che gli si formò nell'angolo della bocca. L'altro mosse un passo in avanti e, quando portò davanti a sé la mano sinistra che teneva dietro la schiena, nel pugno stringeva un coltello. D'istinto, alla vista dell'arma, David fece un mezzo passo indietro. Spostò il peso sul piede posteriore, dato che la pericolosità di un coltello rendeva preferibile un calcio a un pugno. Alzò maggiormente la guardia, in una posizione più difensiva, con le mani davanti al volto, i gomiti rivolti verso il nemico. L'altro spostò il coltello nella mano destra, brandendolo come se volesse porgerlo a David. La punta formava piccole spirali, mentre l'uomo sferzava l'aria davanti a sé. Mosse un passo verso David, poi un altro, costringendolo a retrocedere. Lo stava spingendo verso le auto. Il coltello scattò verso la guardia di David, mirato in alto, al livello degli occhi e delle dita, ma l'allungo non era stato perfetto e questo permise a David di schivare la punta lucente. Per due volte l'arma tracciò un arco nell'aria, costringendo David a indietreggiare. Si ritrovò a pochi centimetri dalla sua auto, incastrato tra la fiancata e la portiera aperta. Era in trappola. Landò una rapida occhiata di fianco, come per valutare la ritirata, e i suoi occhi si staccarono da quelli dell'avversario. Nell'istante in cui il contatto visivo s'interruppe, il coltello sfrecciò verso il suo viso. Mentre abbassava lo sguardo, David scaricò il peso sul piede sinistro. Poi, quando l'uomo attaccò, David sferrò un calcio laterale contro il ginocchio dell'altro. Infine si lasciò andare all'indietro, contro la fiancata dell'auto e fuori dalla traiettoria del coltello. L'avversario indietreggiò, barcollando, il ginocchio piegato, portando le braccia in alto e di lato per cercare di ritrovare l'equilibrio. David si diede una spinta e si slanciò in avanti, assestando un calcio col piede sinistro sul petto dell'uomo, il quale, scagliato all'indietro, finì a gambe all'aria. La sua testa rimbalzò sul granito scivoloso del paracarro e le mani si protesero verso l'alto. Rimase disteso a terra in una posa scomposta. David si avvicinò e gli afferrò il polso con una mano, poi, posandovi sopra anche l'altra, tirò, bloccandogli nel frattempo la spalla col piede destro. Gli tese il braccio completamente e la mano imprigionata faticò a mantenere la presa sul coltello. L'uomo ferito ansimò. David avvolse il palmo intorno al pugno dell'altro, afferrò la base del
pollice e ruotò la mano finché le dita non si aprirono come un fiore e lasciarono cadere il coltello sull'acciottolato. Impartendo un'altra torsione, smise di tirare e lasciò che il braccio teso dell'altro si piegasse; la mano, ormai priva di coltello, raggiunse l'orecchio. L'uomo alzò leggermente la spalla da terra nel tentativo di alleviare la tensione. Ma David, tenendo sempre stretto il pollice e il polso, continuò a ruotare il braccio, costringendo l'avversario a girarsi completamente. Quando l'uomo fu riverso a faccia in giù, David gli puntò un ginocchio contro la schiena. Così immobilizzato, quello smise di lottare. Nessuno dei due parlò o si mosse per un tempo lunghissimo. Quindi le sirene, il rombo di motori in accelerazione e infine lo scalpiccio di passi affrettati annunciarono l'arrivo della polizia. Due agenti si avvicinarono, e un terzo e un quarto si posizionarono ai lati. «C'è un coltello alla mia sinistra», li informò David. «Se uno di voi vuole prenderlo, io starò fermo. Mi chiamo David Braun. L'ispettore Hammond della Serious Crime Squad può garantire per me. Questo è l'uomo che Hammond sta cercando.» Con la coda dell'occhio, David vide che un agente aveva mosso qualche passo. Poi sentì un calcio e un tintinnio, e il coltello scivolò via sull'acciottolato. «Ditemi quando posso lasciarlo andare», li sollecitò David. «Rimanga dov'è, signore», ribatté un agente. Poi parlò nel microfono agganciato al bavero. «Prima che qualcuno si muova, dobbiamo accertare chi siete.» Passarono alcuni minuti; David e il suo prigioniero stavano ancora allacciati insieme e immobili, mentre i poliziotti conducevano una conversazione via radio. Alla fine, l'agente si rivolse di nuovo a lui. «Credo che sia abbastanza chiaro che lei è Mr Braun, signore. Se mi lascia mettere una manetta su quel polso che sta stringendo, poi può lasciarlo andare.» David sollevò prima un polso dell'avversario poi l'altro, in modo che l'agente potesse ammanettarlo. Quindi si alzò e si mise in disparte, spolverandosi i pantaloni e controllando di non avere ferite. Aveva ancora il respiro corto, benché non si fosse praticamente mosso per cinque minuti. Infine mostrò un biglietto da visita e disse: «L'ispettore Hammond ha tutti i miei dati, ma ve li do ugualmente. Presumo che vorrete fare un verbale...» L'agente borbottò: «Ci può giurare». «... chiamatemi, quando avete bisogno.» Il prigioniero, che adesso era seduto in mezzo alla strada, si rivolse a David. «I tuoi ordini erano di non uccidermi?»
«Non capisco cosa intendi», ribatté David, tanto al poliziotto quanto al prigioniero. «Dovrebbe farsi vedere», suggerì l'agente. «Quando scorre l'adrenalina, è facile farsi male e non accorgersene.» Poi, rivolgendosi ai colleghi, ordinò: «Voi due... Date un'occhiata in casa, controllate che non ci sia nessuno. E fate attenzione. Noi ci occupiamo del prigioniero. E portate via quella», aggiunse, indicando la Porsche con un cenno del capo. Una volta che il prigioniero fu caricato sul sedile posteriore di una delle auto della polizia,, questa ripartì, percorrendo il tratto di strada in retromarcia. «Forse è meglio che la sposti», disse David indicando la sua auto, e ricevendo un cenno d'assenso da parte di uno dei due agenti rimasti. David si avvicinò alla macchina e vi salì. Le chiavi erano ancora inserite nel quadro. Alzò una mano che tremava leggermente. Poi avviò il motore e fece retromarcia finché non ebbe raddrizzato l'auto. Quindi inserì la prima, superò la Porsche e accostò al marciapiede. Scese e tornò verso il portone aperto del garage, ma i poliziotti erano già entrati. Mosse qualche passo all'interno, vedendo solo una nuda gettata di cemento, macchiata di olio, e una scala di legno che conduceva a un piano superiore non visibile da quella posizione. Dall'alto giunsero voci molto risolute. Si girò per andarsene, ma qualcosa catturò la sua attenzione. Il suo avversario non era riuscito ad aprire il secondo battente. Nell'angolo buio tra il battente chiuso e la parete c'era una borsa. David si avvicinò per vedere meglio. Una bella borsa da viaggio nera, quasi nuova, era posata sul sudicio pavimento di cemento. Chiaramente non era lì da molto. Si trovava proprio nel punto in cui l'avrebbe appoggiata chiunque avesse avuto momentaneamente bisogno di avere le mani libere. David lanciò un'occhiata verso la scala. Nessun segno dei poliziotti. Riportò lo sguardo sulla borsa. Era quasi invisibile nell'oscurità. La afferrò e, con passo deciso, risalì in auto. Partì alla massima velocità possibile. Quando la strada svanì dal suo specchietto retrovisore, non c'era ancora nessun segno dei poliziotti. 14 Giovedì 17 aprile (un'ora dopo)
Susan sedeva con la testa tra le mani. Intorno a lei, solo alcune delle seggiole arancioni di plastica rigida erano occupate. E la maggior parte sarebbe rimasta libera finché i pub non avessero cominciato a svuotarsi. Aveva scelto proprio un buon momento per arrivare al pronto soccorso, le aveva detto un medico inglese di origine asiatica. Aveva atteso solo mezz'ora prima di essere visitata. La presenza di un agente di polizia - che prendeva nota dei suoi dati e chiedeva alle infermiere quanto tempo avrebbe dovuto aspettare - le aveva garantito una certa attenzione. L'agente se n'era andato quando lei era sparita dietro una tenda, perché le ripulissero le ferite e gliele suturassero. Il taglio che si era procurata sbattendo la testa aveva richiesto cinque punti. Il sangue si era rappreso, incrostandole i capelli e appiccicandoli al cranio. Il pugno sulla guancia aveva provocato una lacerazione e si sarebbe trasformato in un livido spettacolare... così, almeno, le avevano assicurato. Il medico aveva chiuso la ferita con uno Steristrip, un cerotto per sutura e il trattamento si era concluso con un'antitetanica. Non essendo ancora in grado di affrontare il viaggio verso casa, Susan tornò nella sala d'attesa. In quell'ambiente caldo e illuminato, circondata da personale vigile e attento, si era ritrovata a chiudere gli occhi, anche se erano passate da poco le nove di sera. Il medico che l'aveva curata uscì dalla sua stanzetta e le si avvicinò. «Ha un'aria molto stanca», disse, rivolgendole un sorriso professionale. «È stata una giornataccia», rispose lei, alzando lo sguardo. «Ricorda che cosa stava facendo prima dell'incidente?» chiese. «Certo. Ho telefonato a mia sorella.» «E non è svenuta?» «Come le ho già detto, non mi ricordo se è successo. Non penso ci sia stato il tempo», ribatté. Con uno sguardo preoccupato, il medico le appoggiò le dita sulla fronte, poi, reclinandole la testa, osservò di nuovo la ferita. «C'è qualcuno a casa che può tenerla d'occhio, stanotte?» volle sapere. In quel momento, una voce chiamò: «Susan!» Quando lei si girò, vide David poco lontano, con la camicia grigia stropicciata e sporca. «È venuto a prendere la paziente?» chiese il medico a David. «Sì. Sta bene?» domandò lui, con un'aria di profonda preoccupazione sul viso.
«Non c'è motivo di pensare altrimenti, ma un trauma alla testa è sempre imprevedibile. Può farmi un favore? Può tenere d'occhio la sua ragazza stanotte?» Poi guardò Susan. «Probabilmente è solo esausta, ma se avverte un senso di stordimento e confusione» - tornò a guardare David - «o se non riesce a svegliarla, chiami un'ambulanza. C'è solo un rischio minimo, però è meglio andare sul sicuro.» Susan cominciò a dire: «Lui non è...» Ma David la interruppe. «Puoi venire a stare da me. Mi sento responsabile.» Il medico guardò prima l'uno poi l'altra. «E così non siete ancora nella fase del 'rimani a dormire da me', eh? Be', indovinate un po'! Ci siete arrivati proprio adesso. Prendetelo come un intervento del destino.» Si girò per andarsene, poi ci ripensò. «I punti probabilmente verranno via fra una settimana. Passi da qui o vada dal suo medico a farseli togliere.» Si allontanò a grandi passi, congedandosi con un: «Buona fortuna». David si sedette accanto a Susan. Le mise una mano sulla spalla e disse: «Mi dispiace tanto. Come... Come ti senti?» Susan gli rivolse un sorriso mesto. «Sto bene. Lo hanno preso?» «Sì», confermò David, cupamente trionfante. «È sotto custodia. Qualcuno lo ha proprio conciato per le feste prima che arrivassi io.» «Lo hai affrontato?» chiese lei, guardandolo con severità. «Non l'hai fatto anche tu?» ribatté David, fissandola negli occhi. Susan proruppe in una risatina stanca. «L'ho colpito con un'asta», ammise. «Due volte.» David le restituì il sorriso, alzando le sopracciglia. «Aveva l'aria di essere stato travolto da un autobus.» Il sorriso scomparve. «Che cosa ti ha fatto?» «Giusto quello che puoi vedere», rispose lei, indicando la guancia gonfia e incerottata. «In più, ho sbattuto la testa contro qualcosa.» «Mi dispiace così tanto di averti coinvolta...» Susan scrollò le spalle. «Credo di essermi fatta coinvolgere da sola. Vorrei arrabbiarmi con te perché ancora una volta hai agito in modo irresponsabile, ma presumo che nessuno abbia costretto me a colpirlo invece di scappare a gambe levate. Comunque sono troppo stanca per pensarci. Adesso è dietro le sbarre e noi siamo ancora tutti interi.» Si alzò con una certa rigidità e lui la aiutò. «Dicevo sul serio», la rassicurò David. «Sei la benvenuta a casa mia. Oppure possiamo andare da te, se preferisci.» «Stai cercando di rimorchiarmi?» insinuò Susan, socchiudendo le palpe-
bre. «No, intendevo solo...» disse lui, poi esitò, non riuscendo a trovare le parole. Susan si appoggiò a lui. «Sto scherzando. Rilassati. Se non è un problema, preferirei venire da te. Una grande, vecchia casa vittoriana non è ciò che desidero in questo momento. Voglio un posto intimo. Il tuo appartamento è intimo?» Stava parlando sempre più lentamente, appoggiata al suo braccio per restare in equilibrio. «Sono conformista, maschio e sotto i cinquanta, quindi, no, non è intimo. Ma è abbastanza confortevole e, grazie a dio, in questo momento è ordinato.» David si ritrovò a guidare Susan verso l'uscita; riusciva a camminare, ma sembrava aver perso il senso dell'orientamento. Stava quasi dormendo in piedi. «Accidenti, l'adrenalina ti toglie tutte le forze. O forse è l'effetto dell'anestesia locale», commentò la giovane. David aveva parcheggiato l'auto a pochi minuti a piedi dall'ospedale. L'aria fresca sembrò risvegliare un poco Susan, benché lei continuasse ad appoggiarsi a lui. «Sai che cosa penso?» disse. «Penso che sia un miracolo che siamo entrambi vivi.» David non fece commenti. «Ci stavo riflettendo, mentre ero nella sala d'attesa», proseguì Susan. «Ha ucciso due persone... magari ha strappato la pistola a una di loro per farlo. Ha mandato all'ospedale due agenti di polizia e una guardia di sicurezza, oltre a una povera vecchietta. Ed è in grado di scardinare una porta chiusa a chiave e di strappare via lo sportello di una struttura che in pratica è una cassaforte, apparentemente a mani nude... dio solo sa come. E tu l'hai visto scavalcare un muro di tre metri. Siamo stati incredibilmente fortunati a non essere stati uccisi. Tutti quelli che lo hanno incontrato si sono ritrovati davanti una sorta di mostro; per qualche motivo, noi siamo gli unici ad aver avuto a che fare soltanto con un uomo.» David annuì con aria grave. «Sono arrivato sul posto prima della polizia. Potevo lasciarlo stare. Solo che... Non sapevo che cosa ti aveva fatto e non volevo che scappasse», confessò. «Non hai avuto paura?» chiese lei. «A un certo punto. Ma non prima. Semplicemente non ci ho pensato. Mi sono spaventato solo quando ho visto che aveva un coltello.» Susan gli strinse il braccio. «Oddio.» «Poteva avere una pistola. Poteva avere una mezza dozzina di amici. In
realtà, se tu non lo avessi bastonato di santa ragione, non credo che avrebbe avuto bisogno di qualcosa, forse nemmeno del coltello. E questo lo sapevo; avevo visto come si muoveva. Ma, per certi versi, non aveva importanza. Ero un tale idiota, ma non m'importava. Volevo fermarlo.» «Allora... cos'hai pensato quando lo hai affrontato?» chiese Susan. «Ho pensato: 'Posso batterlo'», rispose David. «Credo che tutti gli allenamenti abbiano deformato il mio modo di pensare. In un certo senso, mi sembrava un test, una prova attraverso la quale dovevo passare.» Alzò le mani al cielo. Poi la guardò negli occhi. «Qual è la tua scusa?» Erano arrivati all'auto. David si staccò dal braccio di Susan e aprì la portiera. Quando lei fu salita, la richiuse e salì a sua volta. Mentre lui metteva in moto e aspettava d'immettersi nel traffico, Susan raccontò: «L'ho colto di sorpresa. Aveva trovato il documento che descrive il Marker e doveva dargli un'occhiata. Sapevo che per un paio di secondi avrebbe abbassato la guardia. Dopodiché sarebbe tornato a essere incontrollabile. Naturalmente avrei preferito che fosse stato qualcun altro a trovarlo con la guardia abbassata, ma c'ero solo io. Quindi ho provato». David si protese per stringerle la mano. «È come hai detto tu: siamo stati molto fortunati.» Restarono in silenzio per alcuni minuti. Susan si girò a guardare fuori del finestrino, appoggiando la fronte contro il vetro. All'improvviso chiese: «La polizia ha recuperato i documenti? Quelli che ha rubato?» «Non proprio», rispose David con fare misterioso. Susan attese che lui proseguisse. «Ho preso io la sua borsa», annunciò David. Poi aggiunse: «Aveva una borsa con sé. Dentro c'erano i documenti. E qualcos'altro in un cofanetto. Credo che sia il Marker». Lanciò un'occhiata a Susan, distogliendo lo sguardo dalla strada, nel tentativo di sondare la sua reazione. Lì per lì lei non disse nulla. Poi cominciò a ridere. «Oh, fantastico, perché no?» proruppe, quasi con indifferenza, tra una risata e l'altra. David si ritrovò a sorridere, contagiato dal suo buonumore, benché gli sembrasse un po' isterico. Dopo un po', Susan riacquistò il controllo. «Perché non sono sorpresa?» esclamò. David non seppe cosa ribattere. «Hai un piano?» volle sapere lei. «Restituirò la borsa domani, inventando qualche storia», rispose. «Ma prima volevo vedere quell'oggetto», aggiunse con una certa enfasi. La
guardò con la coda dell'occhio. «Adesso lo hai visto anche tu. Sai che c'è qualcosa di strano, di arcano, comunque tu lo voglia chiamare, in lui. Be', il proprietario del Marker è uguale. C'è qualcosa di strano anche in lui. Ed entrambi sono ossessionati da questo oggetto.» Susan ascoltava, assorta. «Lui pensava che fossi andato lì per ucciderlo», proseguì David, scuotendo la testa, incredulo. «Mi ha definito 'figlio leale', affermando che tra cento anni mi pentirò di non averlo tenuto per me. Non ho capito che cosa volesse dire. Poi ha accennato a un tributo... Qualunque cosa stia succedendo, voglio vederci chiaro. Voglio sapere chi diavolo sono queste persone e di che cosa stava parlando lui.» Aveva pronunciato le ultime parole in tono esasperato. «Ha parlato di 'tributo'?» chiese Susan, incuriosita. «Già, ha detto che ero 'senza tributo'. Ti dice qualcosa?» «Uno dei documenti della collezione parla del tributo. È... come un lasciapassare, qualcosa che indossi. Potrebbe trattarsi di un enigma, di una specie di gioco di parole. Letteralmente, 'tributo' significa 'distribuire per tribù', e 'tribù', secondo alcuni, deriva dal sanscrito tri che vuol dire 'tre' e bhu che vuol dire 'essere'. Insomma: 'essere tre'... Qualunque cosa sia il tributo, io credo che sia in tre parti. Il documento, poi, menziona il tributo sulla fronte di qualcuno, dunque uno di questi tre oggetti va chiaramente portato in testa.» Fece una pausa, quindi increspò le labbra in un sorriso sghembo e proseguì: «Non siamo molto diversi, tu e io. Tu sei peggio, su questo non ci sono dubbi. Ma anch'io ho le mie colpe». «Come sarebbe a dire?» chiese David. «Di che cosa stai parlando?» «Ho nascosto una cosa alla polizia», mormorò lei. «Che cosa?» domandò David, pacato. «L'uomo che mi ha aggredito portava qualcosa sulla testa, un cerchio di metallo, forse un cerchio d'oro. Quando l'ho colpito con l'asta... Be', in realtà ho colpito il cerchio. Altrimenti mi sa che l'avrei ammazzato.» S'interruppe e portò una mano alla bocca. Le sfuggì un debole suono, un singolo singhiozzo. Poi rialzò la testa e, con voce decisa, annunciò: «L'ho tenuto. È nella mia scrivania». «Stai dicendo che, quando ha parlato di 'tributo', intendeva il cerchio d'oro che indossava?» Susan si strinse nelle spalle. «Che cosa significa?» le domandò allora lui in tono appassionato. «È una specie di società segreta? Che ne so, come i Templari o gli Illuminati,
per esempio?» buttò lì senza troppa convinzione. «Ne sai qualcosa?» chiese Susan. «No, nulla... tranne che sono famosi per ordire cospirazioni», rispose David. «Avresti potuto citare i Massoni o magari il Priorato di Sion. Ce ne sono a bizzeffe.» «Tu non credi a queste cose, vero?» «Non alla lettera, no. Non dico che tutti i particolari siano inventati... Secondo me, la maggior parte delle cospirazioni è composta da elementi sconnessi, collegati tra loro quando non dovrebbero esserlo.» «Allora come colleghiamo tutto quello che sta succedendo in modo che abbia un senso, invece di apparire come un'illusione paranoica?» Susan sospirò. «Forse non possiamo farlo. Daremo un'occhiata al Marker. Tu lo restituirai ai suoi proprietari. Il cattivo finirà in prigione, o magari in manicomio. Forse non riusciremo mai a trovare una spiegazione. Forse non abbiamo elementi sufficienti. Forse è in questo modo che nascono le cospirazioni: prendendo una situazione a metà e pretendendo che racconti tutta la storia.» David guidava in silenzio, rimuginando. Susan gli appoggiò una mano sulla spalla. «Potrebbe anche non essere così male», mormorò. «Abbiamo sfiorato il pericolo e scoperto che non siamo codardi... o magari che abbiamo una rotella fuori posto. Questo è il momento buono per mollare. Non credo che mi piacerebbe riprovare una seconda volta.» «Forse hai ragione», convenne David. «Io avrò un cliente soddisfatto, e tu potrai studiare la collezione in santa pace. Siamo ancora vivi. Non è male come risultato, eh?» «Decisamente», ribatté lei con aria rassicurante. E aggiunse sorridendo: «Potremmo persino diventare amici...» Erano arrivati davanti alla casa di David. Lui riuscì a parcheggiare proprio di fronte. L'appartamento si trovava al piano superiore di una villetta di fine secolo riadattata. Aveva una camera da letto spaziosa e una seconda più piccola, che ospitava un letto a una piazza e varie scatole ammucchiate. David offrì a Susan la sua camera, ma lei insistette che sarebbe stata molto più comoda di lui in un letto piccolo. Poi chiese se poteva fare una doccia, dato che la sua T-shirt bianca era sporca di sangue e i suoi capelli erano tutti appiccicosi.
Mentre lei era in bagno, David cercò qualche indumento pulito; trovò una vecchia maglietta da rugby, i pantaloni di una tuta, calze di spugna e un paio di boxer bianchi di cotone, tutti freschi di lavanderia. Li appoggiò sul letto, dopo aver tolto le scatole e rifatto il letto con lenzuola pulite. Susan era ancora sotto la doccia. Dopo quasi venti minuti, uscì dal bagno avvolta negli asciugamani e, a passi rapidi, entrò nella stanza. David bussò alla porta chiusa. «Vuoi una cioccolata calda?» chiese. «Tutti hanno bisogno di una cioccolata calda quando si sentono un po' pesti.» Susan socchiuse la porta e sbirciò fuori, mostrando i capelli bagnati e una spalla nuda coperta di goccioline d'acqua. «Hai per caso quel nettare alle mandorle? Il liquore?» «L'Amaretto?» volle sapere David. «Sì, proprio quello.» «Dovrei averne un po', se il mio amico Banjo non se l'è scolato tutto. Tende a dare per scontato che, se non finisco una bottiglia nel giro di un mese, ho bisogno di una mano. Lo vuoi nella cioccolata o a parte?» «Nella cioccolata. Tanto per cominciare», rispose lei. «Vedo che non sei ancora vestita. Ho il tempo di farmi una doccia?» «Ehi, questa è casa tua. Fa' quello che vuoi. Però temo che non sia rimasta una sola goccia d'acqua calda in tutto il quartiere. Scusa...» David mise il latte sul fuoco, con la fiamma al minimo, e andò in bagno. Quando tornò, era abbigliato in modo simile a Susan, che si era seduta sul divano di pelle nera, con le gambe ripiegate di lato. «La biancheria intima è stato un tocco delicato», commentò lei. David assunse un'aria un po' imbarazzata. «Non sapevo se volevi... Se porti...» «Tranquillo. Dovrò smetterla di prenderti in giro; non è una sfida. In realtà, quando andavo al college, portavo i boxer. Una specie di ribellione 'intima'.» «Non dirmelo...» ribatté lui, scuotendo la testa. «Tanto non potrò mai sapere quello che indossavi sotto l'uniforme scolastica. Anzi probabilmente mi sono appena macchiato di qualche crimine.» «Oh, adesso ti preoccupi di commettere dei crimini», lo prese in giro lei. Poi indicò il bricco del latte. «Fa' il bravo ragazzo e trovami l'Amaretto», lo pregò. Poi, imitando l'accento del Sud degli Stati Uniti, aggiunse: «Marna ha bisogno della sua medicina».
David scoppiò a ridere. «Aspetta...» Andò nella zona cucina, che era un prolungamento del salotto, e cominciò a cercare nei mobiletti. «Ma puoi bere alcolici?» chiese. «Non mi sembra che il medico ne abbia parlato.» «Tiralo fuori», disse lei. «Altrimenti m'innervosisco.» David rise di nuovo. «Okay.» Dal fondo di un mobiletto recuperò una bottiglia impolverata. «Ecco. A Banjo dev'essere sfuggita.» Riempì due tazze di cioccolata calda, e in quella di Susan versò una dose generosa di liquore. Nella sua, invece, mise una goccia di whisky, poi sorrise soddisfatto dopo averla assaggiata. Quindi tornò verso il divano. Susan prese la sua tazza e ritirò un po' i piedi, in modo che David potesse sedersi accanto a lei. Sospirò e appoggiò la testa sullo schienale. «Ho bisogno di una vacanza.» «Dove ti piacerebbe andare?» chiese lui a bassa voce, sorseggiando la bevanda. «Su un'isola», rispose lei, sognante. «Magari su un'isola greca. Un bar, un albergo, un ristorante e un ufficio postale. E una capra, magari.» «Sembra bello. E che cosa faresti laggiù?» chiese David, quasi sussurrando. Lei gli rispose con una voce insonnolita. «Mi siederei sotto un albero coi miei libri. Andrei in cerca di olive. Parlerei con la capra.» La tazza che aveva in mano cominciò a inclinarsi e David si sporse per prenderla, mettendo le mani a coppa intorno a quelle di lei. Susan aprì gli occhi e sollevò il capo, sorpresa. Si raddrizzò leggermente e quel movimento li portò a essere molto vicini. Le loro dita erano intrecciate e David ci mise qualche istante per staccarsi. «Ce l'hai?» chiese lui. «Ce l'ho», replicò Susan. Le lasciò la mano e si allontanarono. Per un lungo attimo, nessuno dei due parlò. Dopo qualche istante, si resero conto che si stavano fissando, quindi Susan distolse lo sguardo. «Sarà meglio che vada a letto», annunciò. «Qual è il tuo programma per la mattinata?» «Il medico ha detto che devo tenerti d'occhio. So che è una seccatura, ma voglio venire a controllarti ogni due ore.» Lei fece una smorfia, ma si arrese. «Oh, certo. Ha detto proprio così, non è vero?» «Busserò alla tua porta, e tu mi dirai se è tutto a posto. Penso che mi alzerò verso le sei. Quando verrò a chiamarti e ti sarai alzata, faremo un pro-
gramma.» Susan bevve ancora qualche sorso della cioccolata, poi posò la tazza ancora mezza piena. «Hai uno spazzolino di riserva?» chiese alzandosi, per poi trascinarsi verso il bagno, strusciando i piedi nelle calze troppo grandi e nei pantaloni troppo lunghi. «Ne troverai uno per te», rispose lui. Quando Susan ebbe chiuso la porta del bagno dietro di sé, David andò nella stanzetta e raccolse i suoi vestiti. I jeans e la biancheria intima finirono nella lavatrice, impostata per un lavaggio a bassa temperatura, mentre la maglietta insanguinata venne messa in una bacinella con acqua fredda. Mentre era così affaccendato, sentì il rumore dello scarico e di piedi strascicati che si spostavano. «'Notte», disse lei. La porta della camera si chiuse. Quando bussò alla porta, all'una, David chiese: «Quante dita ho sollevato?» «Meglio che sia più di una», gli rispose una voce assonnata. Alle tre, domandò: «Chi è il presidente?» «Al Gore.» Siccome era alzato, mise i vestiti nell'asciugatrice. Poi puntò la sveglia per le sei e andò a dormire. 15 Giovedì 17 aprile (sera) Sull'auto c'erano tre persone: il guidatore, un passeggero e un prigioniero. «Nome?» ripeté l'agente, seduto accanto al guidatore, stavolta in tono più brusco. Il prigioniero era sul sedile posteriore, con la testa china e il respiro che sovrastava persino il borbottio del motore dell'auto, che viaggiava a velocità sostenuta. Il sibilo e il rantolo che accompagnavano ciascun respiro, insieme con l'impronta del piede di David chiaramente visibile sul suo petto, non offrivano certo un quadro di perfetta salute. La ferita alla testa non sanguinava più, ma dalle sue condizioni non era chiaro quale sarebbe stata la prima tappa, se la centrale di polizia o l'ospedale. Teneva le mani in grembo, i polsi legati dalle manette. Invece di bloc-
cargli le mani con le palme congiunte, prima di ammanettarlo l'agente gli aveva fatto incrociare le braccia, così che ciascuna mano toccasse il gomito opposto. La testa era china, lo sguardo perso nel nulla. Le spalle erano curve. Era impossibile anche solo intuire se fosse consapevole di ciò che lo circondava o se capisse le domande che gli venivano rivolte. Non avendo ricevuto una risposta né una reazione, l'agente distolse lo sguardo dal prigioniero. In quel mentre, la figura malconcia gracchiò: «Jan». «Jan o Chan?» chiese l'agente. Nessuna replica. Qualche secondo dopo, Jan cominciò a tossire sommessamente, le braccia premute contro il petto come a reggersi le costole. Sul volto comparve una smorfia di dolore. Di lì a qualche minuto, l'accesso silenzioso terminò e l'uomo tornò immobile. Si accasciò, sdraiandosi sul sedile posteriore, gli occhi chiusi. L'agente seduto di fianco al guidatore disse al collega: «Una volta dentro, chiama subito il medico. E chiedi di scattare qualche foto a quelle ferite. Non voglio che qualcuno pensi che se le sia procurate in prigione». L'altro lanciò una rapida occhiata da sopra la spalla, osservando la forma inerte. «Non mi sembra messo bene», mormorò. «Dobbiamo svegliarlo?» «No, lascia perdere», ribatté il collega. «Sarebbe una manna se fossero tutti così.» Mentre i due agenti guardavano la strada, la figura sul sedile posteriore cominciò a muoversi. Usando i denti, prese a sollevare una manica, centimetro dopo centimetro. Aveva afferrato il tessuto proprio sotto la spalla e tirava, reclinando la testa all'indietro. Il tessuto grigio scuro si allontanò lentamente dal polso destro, mettendo in mostra un largo bracciale di metallo. «Con quali accuse lo arrestiamo?» domandò il guidatore, gli occhi sempre fissi sulla strada. «Ci penseranno in centrale», rispose l'altro. «Accertati solo che qualcuno si occupi delle scartoffie prima di andare via.» La parte inferiore del bracciale del prigioniero aveva due palline di metallo sollevate e inserite in due fessure. Jan cominciò a strattonarne una coi denti, nel tentativo di sganciarla dall'incavo in cui era inserita. Una volta liberata la pallina, si scopriva che, all'interno del bracciale, era avvolto un cavetto. Inserendo nelle fessure le palline che sormontavano le estremità del cavetto, queste restavano bloccate. La parte posteriore del bracciale era
aperta, e ciò consentiva di estrarre il cavetto, di metallo intrecciato. Jan estrasse lentamente il filo scintillante, celandolo nel pugno finché non l'ebbe fatto uscire per intero. Muovendosi furtivamente e con enorme difficoltà, a causa dei polsi ammanettati, cominciò ad avvolgere il cavetto - lungo complessivamente un metro - intorno alla testa, trasalendo ogni volta che il metallo sfiorava la ferita incrostata di sangue. Quindi fissò il cavetto, annodando le estremità sulla fronte. Poi ripeté l'operazione con l'altro bracciale. «Potrei avvisare addirittura il medico», disse l'agente di fianco al guidatore, sganciando il microfono dalla radio. L'attenzione del collega era concentrata sul traffico, mentre l'auto della polizia viaggiava veloce attraverso le strade di Londra avvolta dal crepuscolo. Meno di un minuto dopo, Jan aveva fissato il cavetto dell'altro bracciale intorno alle tempie, legandolo saldamente. Adesso teneva i polsi ammanettati di fronte al viso. L'agente si mise a parlare via radio con una voce lontana; le risposte roche erano incomprensibili a un orecchio non avvezzo a quel tipo di comunicazione. Quando ebbe finito, disse: «Hai già incontrato Saunders, quello che hanno trasferito?» «L'ho incontrato per caso in cortile. Non è stato molto ciarliero. Com'è la storia?» «Non so quanto sia affidabile, ma ho sentito dire...» S'interruppe. «C'è qualcosa che brucia?» chiese, piegandosi in avanti e annusando nella direzione della radio. Il collega reclinò la testa e annusò a sua volta. «Viene da fuori», disse con indifferenza. In quel momento, stavano superando le massicce ville edoardiane poste lontano dall'ampio viale. Lungo la magnifica distesa di edifici lussuosi non si vedeva nulla che suggerisse un incendio. L'agente continuò ad annusare l'aria, poi girò la testa e diede un'occhiata al prigioniero, ancora sdraiato, coi polsi legati tenuti davanti al volto. Le manette erano costituite da un pezzo unico, senza catena: i due cerchi e la parte centrale di metallo che li congiungeva formavano un blocco unico. Ma adesso la sezione mediana aveva qualcosa di strano. Sembrava danneggiata. D'un tratto, un filo di fumo si alzò dal metallo corroso. «Che cosa stai facendo?» sbraitò l'agente, scorgendo il cerchio di metallo giallo che avvolgeva la fronte del prigioniero. «Fermati subito», ordinò poi bruscamente.
Con un grugnito, Jan fece uno sforzo per separare le mani. La barra centrale delle manette si divise come argilla secca, aprendo uno squarcio a V al centro. Alla fine, non ci fu che un brandello di metallo contorto a tenere insieme le due metà. Allora, con uno sforzo enorme, Jan ruotò gli avambracci in direzioni opposte, esercitando una pressione sulla giuntura. Con un suono simile a quello di un ciottolo lasciato cadere sul selciato, l'ultimo brandello di metallo si spezzò. I polsi del prigioniero non erano più legati. «Ferma l'auto!» ingiunse l'agente al collega, girandosi completamente sul sedile per agguantare le braccia del prigioniero, nel tentativo d'immobilizzarlo. In quel mentre, l'auto della polizia stava superando un veicolo che procedeva a bassa velocità e aveva il logo di una scuola guida. Il poliziotto accelerò al massimo, per concludere rapidamente la manovra. Lanciò una rapida occhiata da sopra la spalla, ma riuscì a vedere ben poco prima di riportare l'attenzione sulla strada. Il motore rombò. Il collega aveva agguantato il prigioniero per il braccio destro, giusto sotto il gomito, e stava cercando di afferrargli anche l'altra mano. La manovra gli fece perdere la presa, ma Jan non stava lottando. Era immobile. Invece di divincolarsi, aveva assunto una posizione di assoluta rigidità. I suoi occhi si rovesciarono all'indietro, poi le palpebre si richiusero. Con uno schianto e uno stridore di acciaio ritorto, la portiera posteriore di sinistra si staccò dall'intelaiatura con un'esplosione e volò in mezzo alla strada. L'auto della polizia aveva appena superato il veicolo della scuola guida. La portiera scardinata volteggiò davanti allo sconcertato guidatore principiante, andò a schiantarsi contro uno degli enormi lampioni e rimbalzò, scomparendo infine sotto le ruote dell'auto, che sterzò bruscamente, finendo sul marciapiede. Anche l'agente alla guida frenò di botto. Le ruote si bloccarono e l'auto cominciò a sbandare, rischiando di fare un testa-coda. Il poliziotto girò il volante nella direzione opposta, nel tentativo di mantenere il controllo. Lo squittio dei pneumatici che stridevano sull'asfalto fu assordante. L'altro agente, essendo girato per metà, perse la presa sul braccio di Jan. Venne scaraventato di lato e andò a sbattere con la spalla e con la nuca contro il finestrino. Lo schiocco del cranio contro il vetro fu soffocato dal frastuono meccanico, ma gli occhi dell'agente si spalancarono e istintivamente lui si piegò in due, schiacciando il viso contro il petto, alzando le braccia intorno
alla testa e increspando le labbra in un'imprecazione lasciata a metà, mentre il dolore gli impediva qualsiasi movimento. Ancor prima che l'auto della polizia si fermasse, Jan era schizzato a sedere, slanciandosi fuori dell'apertura creatasi dopo il distacco della portiera. L'agente alla guida ebbe una reazione più lenta: si avventò sulla maniglia della propria portiera, la spalancò e, facendo leva sul volante, cercò di catapultarsi fuori dell'auto, ma si ritrovò imprigionato dalla cintura di sicurezza. Un'altra frazione di secondo andò persa prima che il suo cervello registrasse il problema. Allora la sua mano ghermì la cintura, trovando la chiusura al secondo tentativo. Il prigioniero era corso sul marciapiede, diretto nello stesso senso in cui l'auto della polizia stava procedendo solo qualche minuto prima. Arrivato a una trentina di metri dal luogo dell'incidente, tuttavia, si era fermato. Si girò a guardare il veicolo dal quale era appena fuggito, prendendo nota dello stato in cui versavano i due occupanti: il primo era stordito; il secondo cercava freneticamente di sganciare la cintura. I muscoli del collo s'irrigidirono e le palpebre si chiusero, come se tutta l'energia del suo corpo fosse stata attratta altrove, lasciando i suoi occhi momentaneamente incapaci di aprirsi. Alzò le mani davanti a sé, girandole e intrecciando le dita, finché non furono congiunte, come se stesse pregando. Infine avvicinò i pugni chiusi. Finalmente libero dalla cintura di sicurezza, l'agente uscì rapidamente dall'auto. E si rese conto che il prigioniero non era scomparso; al contrario, si trovava proprio di fronte a lui, a qualche metro di distanza. Soffocò l'impulso di correre verso di lui e sollevò una mano. «Fermo dove sei», gridò allora in tono perentorio. «Non muoverti.» L'altra mano si abbassò sulla fondina e liberò l'arma. Il prigioniero non si mosse... almeno non subito. Trasse un profondo respiro, poi abbassò la testa fino a sfiorare i pugni congiunti, tenendo sempre gli occhi chiusi e le spalle incurvate. L'esplosione scaraventò l'agente dall'altra parte della strada, mentre il serbatoio dell'auto prendeva fuoco. Gli occupanti dell'altra vettura danneggiata - che era andata a sbattere contro il muretto di un giardino - erano gli unici testimoni di quel fatto sconcertante. La maggior parte del carburante in fiamme, che eruttava dal serbatoio scoppiato, zampillava verso l'alto, uscendo dal tappo del filtro squarciato come vapore da un bollitore rotto. Poi, all'improvviso, le fiamme tinsero la
nube di un accecante arancione biancastro, cancellando ogni particolare. Il rombo della benzina che esplodeva risuonò come la deflagrazione di un'arma da fuoco e fu immediatamente seguito dal mostruoso sibilo della combustione, che scoppiò e crepitò per diversi secondi, come un tuono, facendo tremare i vetri delle finestre e diffondendo la sua eco in tutto il quartiere. Dalla nube scesero gocce incandescenti, che cosparsero il terreno di pioggia infuocata. L'ondata di calore fu tale che i capelli sulla testa del poliziotto, che adesso giaceva sul selciato, si bruciacchiarono. L'esplosione lo aveva infatti scaraventato a terra, a faccia in giù, lasciando solo la nuca e le mani esposte alla vampata di aria rovente. L'uomo rimase stordito per parecchi secondi, poi si rigirò, cercando di spegnere il fuoco che si era sviluppato in diversi punti della sua uniforme. Riparandosi gli occhi con una mano, cercò di allontanarsi dalle fiamme e dal fuoco che divampava sopra di lui, impedendogli di alzarsi. Indietreggiando carponi fino a raggiungere il lato opposto della strada, si alzò a fatica, aggrappandosi a un cestino della spazzatura per sorreggersi. Tenendo sempre la mano aperta davanti agli occhi per ripararsi, osservò la scena: l'auto era avvolta dalle fiamme, l'interno era una tale massa di fuoco da rendere tutto indistinto. Non c'era traccia del suo collega, ma la portiera sul lato del passeggero era ancora chiusa. Solo dopo una decina di secondi, quando ebbe mosso un passo esitante verso il rottame in fiamme, si guardò intorno. Il prigioniero sembrava svanito nel nulla. 16 Venerdì 18 aprile (il mattino dopo) «Il caffè è pronto», mormorò David, bussando alla porta della camera da letto. «Hmmm», fu la flebile risposta. «Susan?» chiamò lui, appoggiando l'orecchio contro la porta. «Che diavolo vuoi?» rispose una voce roca, appesantita da un torpore che accavallava le parole. «Vuoi un caffè?» «Voglio dormire», ribatté la voce insonnolita. David sospirò e bussò di nuovo. «Posso entrare?»
Non ci fu risposta. Lui aprì la porta e sbirciò nella stanza avvolta nella penombra. All'esterno, il sole stava sorgendo e la luce s'insinuava intorno alle tende. C'era chiarore a sufficienza per distinguere il letto e qualcosa del suo occupante. Una massa di capelli biondi e un braccio posato sul piumone. Non si vedeva altro, al di là di un rigonfiamento al centro delle dimensioni di una persona. Sembrava la tana di una creatura in letargo. «Appoggio la tazza qui», disse David, avvicinandosi in punta di piedi per posare la tazza sul comodino. Un lamento coincise con un movimento sotto le coperte. Il braccio scoperto venne ritirato. «Susan», ripeté David, posando una mano sulla figura coperta e scuotendola delicatamente. Si bloccò all'improvviso, interrompendo il gesto a metà. «Toglimi le mani di dosso», proruppe una voce nitida da sotto le coperte, il torpore del sonno completamente svanito. David ritrasse immediatamente la mano. Dal nascondiglio spuntò una mano che scostò un angolo del piumone. Apparvero un paio di occhi azzurri che si fissarono su David. Susan spostò di un altro poco il piumone, rivelando le spalle coperte dalla maglietta. Nel sonno, si era rannicchiata: la schiena arcuata, una spalla infilata sotto il cuscino, l'altra sollevata verso l'orecchio... il che significava che David doveva aver posato la mano più o meno sul seno sinistro. «È come essere tornata al tempo del dormitorio del college», commentò lei. «Pensavo che fosse una spalla», si scusò David, impacciato. «Certo», disse lei, senza convinzione. David si allontanò dal letto, indietreggiando verso la porta. «Ti lascio il tempo di svegliarti», mormorò, e fece un cenno indicando la tazza di caffè. Lui era già vestito; indossava una camicia beige e un paio di pantaloni scuri. «Che ore sono?» chiese Susan, allungando una mano per prendere la tazza. «Le sei. Andrò in ufficio solo in tarda mattinata. Devo riflettere su alcune cose e apprezzerei il tuo punto di vista...» S'interruppe, come se fosse infastidito dalle sue stesse parole. «Intendevo dire che mi piacerebbe avere il tuo aiuto, se te la senti. A proposito, come stai?» Susan si appoggiò a un gomito e bevve un sorso di caffè. Dopo aver posato la tazza, si sfiorò la guancia. «Sto bene», rispose. «Dammi qualche
minuto e sarò da te. Il bagno è libero?» «È tutto tuo. I tuoi vestiti dovrebbero essere asciutti», replicò lui e fece per andarsene. «Sto morendo di fame», disse lei a voce più alta. «Hai qualcosa da mangiare?» «Vestiti, poi andiamo al bar all'angolo.» Diede un'occhiata all'orologio. «Apre presto.» Mentre Susan era sotto la doccia, David tirò fuori i vestiti di lei dall'asciugatrice. La maglietta era ancora macchiata di sangue. Benché fosse sbiadita, la macchia rimaneva molto evidente. Sgattaiolò nella stanzetta e cominciò a frugare nel guardaroba ai piedi del letto, dove relegava i capi di abbigliamento fuori moda o smessi. Trovò una camicetta di seta blu scuro e la sollevò per giudicarne la taglia. Era ancora inserita nella busta di plastica della lavanderia. Rifece il letto e vi distese sopra gli abiti di Susan, insieme con la camicetta. La ferita alla testa aveva lasciato diverse macchioline di sangue sul cuscino. David se ne accorse e lo girò. Era seduto nel salotto da qualche minuto, quando apparve Susan, coi capelli ancora bagnati. Era vestita e indossava la camicetta. Le andava bene. «Allora, di chi è questa?» domandò. «Della mamma? Di una sorella? Di una fidanzata?» «Di una ex fidanzata», rispose lui. «Non è mai venuta a riprenderla, e dato che possiede già il quattro per cento del fabbisogno mondiale di abiti...» Susan si strinse nelle spalle. «Comunque mi va bene. Te la restituirò. Grazie per il pensiero. Presumo che la mia maglietta...» David scosse la testa in un gesto di esagerata tristezza. «Non ce l'ha fatta», disse tirando su col naso, e indicando il bracciolo della sedia dove l'aveva posata. Susan la esaminò, controllando le macchie, poi la ripose. David la osservò muoversi per la stanza. «Hai l'aria stanca», commentò. «È che non mi hai mai visto senza trucco», ribatté lei con un sorrisetto. «Non è facile apparire smaglianti a trentun anni. Ma presumo che tu sia a corto di mascara.» «Non intendevo questo. Non era una critica», replicò gentilmente David. Lei scrollò le spalle e gli rivolse un altro debole sorriso, stavolta più sincero. «E altre dodici ore di sonno non sarebbero male...» «Già, siamo nella stessa barca», confessò lui con enfasi. «In quanto a ore di sonno, intendo. Tuttavia io non mi preoccupo molto del mascara», ag-
giunse. Sempre sorridendo, Susan prese la tazza del caffè che aveva portato dalla camera da letto e la sollevò, agitandola leggermente. «Posso averne dell'altro prima di uscire?» «Certo. Come prima?» chiese David, alzandosi dal divano. «Senza latte, grazie», rispose lei distrattamente. I suoi occhi si erano infatti posati su una borsa di pelle nera sistemata sul divano. «È quello che penso?» domandò, indicando la borsa, in tono un po' teso. David le passò accanto e andò a versare dell'altro caffè. «Sì», rispose da sopra la spalla. Susan sembrava nervosa, come se fosse attratta dalla borsa e nel contempo non desiderasse avvicinarsi. «Voglio vederlo», disse. David tornò e le porse la tazza colma. Si sedette accanto alla borsa e si girò in modo da essere comodo. Poi aprì la cerniera e ne estrasse un pesante cofanetto di legno. Susan andò a sedersi accanto a lui, sul bracciolo del divano. Gli mise una mano sulla spalla, chinandosi per vedere meglio. Il cofanetto somigliava a uno splendido umidificatore per sigari, benché fosse un po' troppo grande per quella funzione: aveva più o meno la dimensione di una decina di riviste impilate l'una sull'altra. Era fatto di un legno di rosa così scuro, liscio e con una venatura così fitta da sembrare quasi cromato, almeno finché non veniva rischiarato dalla luce. David mise la borsa per terra e appoggiò il cofanetto sul divano. Aveva un'altezza di circa dieci centimetri e, sul davanti, c'era un piccolo bottone per far scattare la chiusura. David premette il bottone e sollevò il coperchio. All'interno c'era un altro scrigno. Visto da quella prospettiva, il cofanetto di legno di rosa era ancora più bello. La cavità interna era stata ricavata da ciò che doveva essere stato un unico blocco di legno lucido. La parte centrale era stata scalpellata finché il cofanetto esterno non aveva raggiunto lo spessore uniforme di un paio di centimetri. Nella cavità, tuttavia, era stato sistemato qualcosa in profondo contrasto con la magnificenza di quel contenitore. Lo scrigno era un oggetto strano, dall'aspetto logoro. La parte superiore era fatta di pelle grigia ormai consunta, la trama simile a un foglio di carta semilavorato. Lungo i bordi, era visibile lo scheletro della struttura. Rotoli di pergamena color avorio, ingialliti dal tempo, formavano una cornice sopra la quale la pelle chiazzata era stata tesa a formare i lati dello scrigno.
Una specie di filo trasparente assicurava la membrana all'ossatura. La cucitura era fine e accurata, ma i punti si erano ormai dissolti. Il rivestimento rugoso del coperchio, con quella colorazione a macchie, sembrava danneggiato dall'acqua. «Sembra l'ala di qualche animale morto», commentò David un po' a disagio, mentre osservava il piccolo scrigno. «Quella di un pipistrello, forse. Un grande, orrendo pipistrello consunto dalla muffa», convenne Susan. Dallo scrigno si levò un intenso, strisciante odore di umidità. Era un odore malsano che provocava un pizzicore alla gola ogni volta che s'inspirava, e non era difficile immaginare sgargianti spore gialle che si annidavano nel morbido e roseo tessuto polmonare. «Hai intenzione di aprirlo?» chiese Susan quasi sussurrando. «Non lo voglio neanche toccare», rispose David. «Sembra che sia morto di peste.» Susan saltò giù dal bracciolo, andò al tavolo e prese una matita. La porse a David, offrendogli l'estremità con la gomma. «Ti darei dello smidollato, se non fosse che poi chiederesti a me di aprirlo», disse, guardando lo scrigno con disgusto. David prese la matita per la punta e, con la piccola gomma, toccò il coperchio dello scrigno. «Sul serio non l'hai ancora aperto?» fece Susan. David scosse la testa, fermandosi, e ritraendo la matita. «Ho aperto solo il cofanetto per vedere che cosa c'era dentro.» «Grazie per avermi aspettato», ribatté lei, senza distogliere gli occhi dallo scrigno. David riappoggiò l'estremità della matita contro il coperchio dello scrigno. «Che specie di osso è?» chiese mestamente, iniziando a sollevare il coperchio. «Non so molto di ossa. Somiglia al radio... Non so a quale creatura appartenga.» Alzò la mano, valutando la lunghezza del suo avambraccio. «Quelle sui lati devono provenire da qualcosa di molto più piccolo di un uomo.» «Come un bambino, per esempio», suggerì David con aria torva, sollevando completamente il coperchio. Entrambi trattennero il fiato quando videro il Marker. Era posato su un cuscinetto ripiegato di velluto nero ed era tenuto fermo da numerosi cer-
chietti di avorio. L'intricato merletto di fili di platino intrecciati aveva tutta la minuta, ordinata complessità di qualcosa di organico: le venature di una foglia o le delicate e ramificate barbule di una piuma. Il Marker aveva all'incirca la stessa larghezza e lunghezza della mano di David completamente distesa. «È splendido», disse David. Entrambi rimasero a osservare il Marker; Susan fece un mezzo giro e si chinò accanto alla gamba di David, per poter guardare all'interno del cofanetto. Gli prese la matita, scostò il coperchio dello scrigno e appoggiò le mani sul cofanetto di legno di rosa. Lo inclinò leggermente perché vi cadesse la luce. Il platino aveva una lucentezza burrosa, come di argento che inizi a ossidarsi. Trattenendo il fiato, con una mano sopra la bocca, Susan si avvicinò per studiare la lavorazione. Era fatto di finissimi fili di platino che si assottigliavano via via che l'intreccio si allontanava dal centro. Non era chiaro come fossero tenuti insieme. Il metallo si diramava e convergeva, incrociandosi e congiungendosi, come se fosse stato fuso in un singolo pezzo. In tal caso, tuttavia, sarebbe stato necessario fondere una quantità di metallo sufficiente a formare, senza interruzioni o bolle, il lunghissimo e finissimo filo, allo scopo di creare lo schema filigranato. Non erano evidenti neanche segni di strumenti. David si avvicinò alla libreria e prese un'enciclopedia. «1649 gradi Celsius. Ovvero 3000 gradi Fahrenheit.» Susan gli rivolse uno sguardo interrogativo. «È la temperatura di fusione del platino», spiegò David. «Mi stavo chiedendo come si possa creare un oggetto del genere.» Poi continuò a leggere. «Ehi, senti qui: 'Il platino è un metallo unico nel suo genere, in quanto corrompe gli strumenti di metallo coi quali viene lavorato. Entrando in contatto col bordo di uno strumento, il platino indebolisce persino gli utensili da taglio di carburo di tungsteno'. Questo non lo sapevo.» «Neanch'io. Non c'è da meravigliarsi se McDonald's usa la plastica per le posate», fece lei. Ma David non la stava ascoltando; era assorto nei suoi pensieri. «Non è possibile che sia un oggetto antico. L'unico modo per fare quelle giunzioni è saldarle, ma ciò non ha senso», commentò. «Scusa? Qual è il problema?» «Ho studiato ingegneria all'università», rispose lui. «Quindi conosco parecchie cose sulla lavorazione dei metalli. L'acciaio di alta qualità è un
prodotto relativamente recente, perché occorrono altiforni potentissimi per fabbricarlo e lavorarlo. La saldatura è un processo ancora più recente, poiché implica l'uso di temperature elevatissime in un punto preciso. Se si riuscisse a creare questa filigrana, allora la lavorazione dell'acciaio sarebbe uno scherzo da ragazzi. Questa è tecnologia moderna. È escluso che un oggetto simile abbia più di duecento anni. Mi sa che siamo stati presi in giro.» «Potrebbe essere un pezzo unico», suggerì Susan. «Pensa al disco di Festo, i cui simboli sembra siano stati impressi con una specie di punzone... tremila anni prima che Gutenberg nascesse.» «Già, mi ero dimenticato del disco di Festo», commentò David con un'espressione di totale smarrimento sul volto. «E adesso mi dirai che non sei mai stato al museo di Iraklion», ribatté lei con uno sguardo di finta commiserazione. Poi provò con una tattica diversa. «Prendiamo la biblioteca di Alessandria, allora. Una città-Stato in cui vigeva la libertà di parola, con una passione per il sapere costruita intorno a un'enorme e sempre più vasta biblioteca, che fungeva da punto di riferimento. Tuttavia non durò a lungo. Forse la rivoluzione industriale era pronta a svilupparsi prima della fine del I millennio, ma una singola concentrazione di conoscenze non basta a...» Si passò una mano sulla fronte. «Ascolta, possiamo parlarne mentre facciamo colazione? Sto per svenire dalla fame.» «Oddio, certo», esclamò David. Chiuse lo scrigno e il cofanetto, li ripose nella borsa e si guardò intorno, alla ricerca di un posto dove metterla. «Alzati», disse a Susan, ancora inginocchiata accanto al divano. Lei obbedì e andò verso la porta. David allora sollevò la parte posteriore del divano, spingendolo in avanti sulle gambe anteriori. Sotto, il robusto tessuto di protezione era strappato, mettendo a nudo la cavità interna. Lui sistemò la borsa sul pavimento e con cautela riabbassò il divano, allineando la borsa allo strappo nel tessuto. «Non è la prima volta che usi questo trucco», commentò Susan. David sorrise. «In realtà, sì. Ma ricordo che abbiamo strappato il tessuto quando lo abbiamo portato di sopra durante il trasloco.» Indietreggiò di qualche passo ed esaminò il suo lavoro. «Non so perché, ma non potevo lasciarla in bella vista.» Susan annuì. Mentre uscivano di casa, David si ritrovò a guardarsi intorno, a controllare l'attività della strada. Un postino stava consegnando alcune lettere.
Una signora di mezza età portava a passeggio il cane. Non sembrava esserci nulla fuori posto. Tagliarono per un viottolo e sbucarono su una strada dove c'erano alcuni negozi. Tra l'ufficio postale e un posteggio di taxi, trovarono una caffetteria aperta. Tre tavoli erano occupati da giovanotti dall'aspetto sano. A giudicare dall'abbigliamento e dagli strumenti - una borsa degli attrezzi accanto a un tavolo, una livella a bolla d'aria su una sedia -, probabilmente lavoravano nell'edilizia. David suggerì a Susan di andare a sedersi accanto alla porta, mentre lui si recava al banco. Strada facendo, avevano parlato di cibo, così David fu in grado di ordinare per entrambi. Tornò al tavolo con due tazze di tè. In attesa che fosse pronto ciò che avevano ordinato, sorseggiarono la bevanda calda. Susan fu la prima a parlare. «Hai idea di che cosa stia succedendo?» chiese. David sembrò non afferrare esattamente il senso di quella domanda. Sorrise e stava per fare una battuta, quando Susan si affrettò ad aggiungere: «Intendevo il furto, il terzo uomo, l'assurdità di tutta la faccenda». Lui scosse la testa. «No, non ho proprio la più pallida idea di cosa significhi tutto ciò.» «Perché io non capisco come sia riuscito a realizzare il colpo», confessò Susan. Poi, con crescente irritazione, aggiunse: «Non capisco come abbia fatto a entrare e uscire dalla casa della vecchietta. Non capisco come abbia fatto ad aprire quel piccolo baule ai piedi del letto o l'archivio all'università». Ormai aveva alzato la voce. «Non capisco come abbia fatto a scavalcare quel muro. Non capisco come sia riuscito a disarmare due poliziotti. E non capisco che cos'è quella cosa...» - abbassò il tono - «... che hai nella borsa a casa.» Riprese fiato e proseguì. «Non solo non capisco queste cose, ma comincio a fare la somma di tutte le persone che sono state ferite e persino uccise finora. E vedo noi che brancoliamo in mezzo a qualcosa di pericoloso... di estremamente pericoloso, se vuoi sapere come la penso. E io voglio uscirne viva.» David la guardò, consapevole della rabbia sottesa nelle sue parole. «Stai dando la colpa a me, vero?» disse, con un velo d'irritazione nella voce. «Ma certo che no. Non sei mica tu, il pazzo che ha architettato tutta questa faccenda... Tuttavia, pur non avendo la minima idea di quello che succede, non hai la minima intenzione di tirarti indietro.» «È il mio lavoro essere...» Ma lei non lo lasciò finire. «Non è il tuo lavoro», disse, con aria quasi
sprezzante. «Ieri sera non dovevi fare altro che lasciare la borsa dov'era perché la trovasse la polizia. Hammond avrebbe fatto tutti i collegamenti. Ma tu hai scovato un modo per restare coinvolto e per coinvolgere me. Non capisci che non è il tuo lavoro? Spetta alla polizia agire, esiste per questo.» Nonostante la concitazione, Susan aveva tenuto la voce bassa. «Credi veramente che Hammond sappia più cose di te e che sia più intelligente di te?» replicò David in tono ugualmente concitato, ma quasi sussurrando. «Se avessi lasciato la faccenda nelle mani della polizia, adesso io sarei senza lavoro e la mia società sarebbe fallita.» Alzò una mano e prese a contare. «Primo: la polizia non avrebbe avuto nessun indizio sul terzo uomo, anzi non avrebbe neanche saputo che c'era un terzo uomo. Secondo: non avrebbe saputo dove cercarlo... gli hanno persino lasciato portar via le sue cose da un'abitazione che avrebbero dovuto tenere sotto controllo. Terzo: se avessero saputo dove cercare, non l'avrebbero preso. Non l'hanno preso l'ultima volta che ne hanno avuto l'opportunità... un'opportunità che io ho creato per loro.» Si sporse in avanti. «Mi hanno fatto capire che, se il cliente avesse chiesto il risarcimento di quell'oggetto...» - fece un gesto sopra la spalla, come se volesse indicare il Marker - «... io sarei stato licenziato e ciò anche nell'improbabile circostanza che la società fosse sopravvissuta.» Prese fiato e proseguì: «Dass vuole indietro quell'oggetto e ha conoscenze altolocate. Se gli dicessi che Hammond è una seccatura, scommetto che, nel giro di ventiquattr'ore, il nostro detective verrebbe trasferito. La polizia non ha l'ultima parola in questa faccenda, svolge solo un servizio pubblico. Sono riuscito a recuperare il tesoro di Dass; mi sono accertato che il ladro sia dietro le sbarre; ho impedito che la mia società fallisse e ho conservato il mio posto di lavoro. Nessuna di queste cose sarebbe successa se avessi lasciato il caso nelle mani della polizia. Mi spieghi allora in che modo sei arrivata alla conclusione che questo non è compito mio?» E si riappoggiò allo schienale. Susan non replicò. Quando una cameriera con indosso un grembiule sgargiante si avvicinò con la colazione, erano ancora in silenzio. Mangiarono per un po'. Dopo qualche minuto, ricominciarono a guardarsi intorno, invece di fissare il volto dell'altro o il vuoto. Alzando il coltello e puntandolo verso il soffitto, Susan disse con voce piatta: «Non voglio litigare con te. So che stai cercando di svolgere il compito che ti hanno affidato, e hai ragione: ci sei riuscito contro ogni evidenza. Ma non dimenticare che in questa faccenda c'è ben altro. Ci sono
tutti i motivi per credere che ci troviamo tra un killer professionista e un oggetto che lui desidera più di ogni altra cosa al mondo. Lui sa chi sei tu, lui sa chi sono io e... per ragioni che credo di conoscere, gli abbiamo rotto di nuovo le uova nel paniere». Prese fiato. «Hai pensato a che cosa accadrebbe se non fosse solo? Gli basterebbe avere un unico complice ancora a piede libero e noi saremmo nei guai. Non so come, ma ieri sera noi due ce la siamo cavata solo con qualche escoriazione. Credi che saremmo così fortunati una seconda volta? Nessuno lo è stato.» David non fece commenti e Susan proseguì, parlando piano, con calma. «Lo sanno tutti che non mi fido mai di nessuno», disse con un sorrisetto ironico. «E voglio credere che, quando ti lanci in queste prodezze, la tua unica preoccupazione non sia quella di conservare il posto di lavoro. Voglio credere che tu sia consapevole che alcune persone possono morire... altre sono già morte. Voglio credere che tu ci pensi due volte prima di fare qualcosa che potrebbe mettere a repentaglio la vita di uno di noi. Voglio fidarmi di te, però non mi rendi le cose facili.» Tese la mano e la posò su quella di David. La strinse per qualche istante, poi la lasciò andare. Si guardarono negli occhi. Non era facile leggere le loro espressioni, poiché le emozioni controverse e la tensione residua di quello scambio di battute avevano indurito i loro volti. Un cellulare squillò. David si rese conto che era il suo. «Chi diavolo è?» si chiese ad alta voce, mentre tirava fuori il telefonino dalla tasca posteriore dei jeans. Guardò il display. «È Hammond.» «Rispondi.» David obbedì. Hammond parlò per quasi mezzo minuto prima che David dicesse: «Cos'è successo?» Il suo volto s'irrigidì. Evidentemente era molto inquieto, ma non interruppe l'ispettore. Passò un minuto. «Che cosa suggerisce di fare?» chiese poi. «In questo momento sono con Susan Milton. Che cosa...» Ascoltò per un altro minuto. «Oh, non dubiti che la chiamerò», dichiarò infine con una punta di sarcasmo. «Per favore, mi faccia sapere se ci sono novità. D'accordo. Arrivederci.» Rimise il cellulare in tasca e guardò Susan, con un'aria incredula e imbarazzata nel contempo. «Il prigioniero è scappato. Non sono riusciti a prenderlo. Non sanno dove sia.» Susan impiegò qualche istante per afferrare le implicazioni di quelle parole. La sua unica reazione fu un commento sarcastico: «Grandioso». Poi disse con decisione: «Usciamo di qui».
17 Venerdì 18 aprile (continua....) David stava infilando degli abiti in un borsone. «Mettiamoci in macchina, poi decidiamo cosa fare, va bene?» «Sono d'accordo», rispose Susan. «Però, mentre ti prepari, raccontami che cosa ti ha detto Hammond.» Era nel salotto di David e lo osservava andare da una parte all'altra. «Dammi due minuti, poi ti racconto tutto.» David corse nell'altra stanza, portando il borsone con sé. Quando tornò, lo stava chiudendo. «Bene. Se abbiamo bisogno di qualcos'altro, ci fermiamo e lo compriamo.» Sollevò il divano e tirò fuori la borsa di pelle. «Puoi prendere questa?» chiese, porgendola a Susan. Con una borsa ciascuno, lasciarono l'appartamento e scesero le scale verso la porta d'ingresso. Susan alzò una mano all'improvviso e David, che la stava seguendo, si fermò di colpo. Attraverso il vetro smerigliato della porta s'intravedeva un'ombra. Era immobile. Poi ci fu un cigolio. Una busta beige cadde sul tappetino e la figura cominciò a indietreggiare. Entrambi si rilassarono. «Adesso ricordo perché non sono una spia», borbottò Susan, ridendo nervosamente. Quando uscirono, videro il postino davanti a un'altra porta. L'uomo fece un cenno di saluto a David. Misero le due borse nel bagagliaio della Saab, poi salirono in macchina. Pochi istanti dopo erano in viaggio. David percorse qualche chilometro, quindi cominciò a parlare. «Okay. Scusa per averti tenuta in sospeso. Allora, che cosa mi ha detto Hammond?» borbottò, come se stesse cercando le parole giuste. «Ti ripeterò le frasi che ha pronunciato, così potrai interpretarle come meglio credi. Allora, qualcosa come: 'Devo informarla che quel pazzo fottuto è libero. Il suo terzo uomo...' A Hammond piace chiamarlo così. Come se non avesse mai torto un capello a nessuno. Comunque ha detto: 'Il suo terzo uomo non è mai arrivato in cella. Ha incenerito un'auto della polizia con un agente dentro, poi si è dato alla fuga'.» «Oddio», esclamò Susan. «Allora gli ho chiesto cos'era successo», proseguì David. «E lui ha risposto: 'L'agente che era alla guida dell'auto non è ancora sicuro della dinamica dei fatti, ma, a quanto pare, il prigioniero, dopo aver detto loro di
chiamarsi Jan, è svenuto per le ferite riportate. Sicuro di non aver mai pensato di entrare nella polizia?'» «E questo cosa significa?» chiese Susan. «Umorismo da piedipiatti. Ho picchiato il prigioniero... Si presume che siano le autorità a farlo. Poi ha aggiunto: 'L'altra cosa che l'agente ricorda è che questo Jan non aveva più le manette. In qualche modo è riuscito a fonderle, come se avesse un cannello da taglio. Poi la portiera è stata scardinata e il prigioniero si è buttato fuori. Ha fatto una corsa di qualche metro, si è girato e li ha guardati. Infine l'auto è saltata in aria. L'autista è in ospedale, il suo sergente all'obitorio'.» Susan aveva lo sguardo fisso davanti a sé. «Fammi pensare. Cos'altro ha detto? Ah, sì. 'Gli dico sempre di perquisire i prigionieri. Quel bastardo doveva avere addosso più gadget di James Bond. Come ti può sfuggire una bomba a mano? L'autista afferma pure che il prigioniero avesse un filo d'oro avvolto intorno alla testa. Senza dubbio per impedirci di leggergli nel pensiero.'» «Il tributo», mormorò Susan. «Gli ho fatto volare via il cerchio d'oro dalla testa e lui l'ha sostituito. Dev'essere qualcosa di più di un accessorio alla moda...» Lanciò uno sguardo a David. «Cosa ti ha detto quando gli hai chiesto che cosa dobbiamo fare?» «Secondo lui, Jan sarebbe tornato a recuperare la refurtiva - quello che lui crede sia il Marker - o forse a riprendere i documenti che non è riuscito a portar via dalla School of Antiquities. Hammond ha detto di aver messo quattro uomini ad aspettarlo. Naturalmente ignora che Jan non ha il Marker e ce l'abbiamo noi. Ha affermato che probabilmente non siamo in pericolo, ma che dovremmo comunque prendere qualche precauzione. Oh, e ha suggerito di chiamarlo se dovessimo imbatterci nel fuggiasco.» «Be', il gioco del 'te-l'avevo-detto' lo faremo un'altra volta. Secondo te, cosa dovremmo fare?» «Allora, Jan non sa dov'è il Marker», rispose David. «Darà per scontato che l'abbia trovato la polizia, quindi, se decide di cercarlo, darà la caccia a loro e non a noi. Nel frattempo, noi lo restituiamo a Dass, il quale può inventare una storia qualsiasi su come sia riuscito a ritrovarlo. Se Jan non sa quello che sta succedendo, allora penserà che il Marker è in mano alla polizia... Inoltre, se per caso ha qualche contatto all'interno, verrà a sapere che il Marker ce l'ha Dass. In un modo o nell'altro, noi siamo fuori dei guai.» «A meno che i suoi contatti non siano davvero buoni. Nel qual caso, sarà
già stato informato che il Marker non è nelle mani delle autorità.» «Esatto», ribatté David. «Quindi noi dovremo essere cauti per qualche ora, finché non c'incontriamo con Dass.» «Che cosa sa di te questo Jan?» chiese Susan. «Non molto», rispose David, poi trasalì. «Sempre che non abbia prestato attenzione mentre davo alla polizia le mie generalità e il nome della società per cui lavoro.» Per un po' restarono in silenzio, poi Susan chiese: «Dove siamo?» Erano le sette del mattino e si stavano dirigendo a ovest, sulla Marylebone Road. Il traffico era intenso ma abbastanza scorrevole, data l'ora. «Sto andando più o meno verso l'autostrada. Voglio uscire da Londra. Scegli un posto dove non sei mai stata e ci andiamo.» «Va bene. Dammi retta, però... Non telefonare a Dass finché non abbiamo riflettuto bene su cosa fare. Qualche ora non farà differenza, purché ci allontaniamo il più possibile prima di fermarci da qualche parte.» «D'accordo. Dove vuoi andare?» chiese David. «A Brighton», rispose decisa Susan. «Si può fare?» «È perfetto», ribatté David. Passò un'altra ora e mezzo prima che si ritrovassero a percorrere la M23, diretti verso la costa. Il sole si era alzato e, per tutto il tragitto, avevano ascoltato la radio. Per tacito accordo sia l'uno sia l'altra potevano abbassare il volume se volevano dire qualcosa. Stavano superando l'aeroporto di Gatwick, quando David abbassò il volume. «Non aveva una bomba a mano», disse. «Come sarebbe?» chiese Susan, incuriosita. «Hai visto com'era vestito, no? Dove terresti una bomba a mano, ammesso che tu giudichi valida l'idea di portartene una addosso?» «Be', penso che cercherei di trovare una borsina dove potrebbe starci un paio di scarpe. Se fossi Jan, però... Non so. In tasca? Agganciata alla cintura?» «Queste sono le soluzioni cui ho pensato anch'io. Però gli ho tenuto premuto il ginocchio sulla schiena per quasi cinque minuti e posso assicurarti che non aveva addosso niente di visibile. Fabbricano bombe a mano in miniatura? Lo stesso vale per quel cannello da taglio che pensano avesse con sé. Ne ho visti di piccoli, ma piccoli così» - allargò le dita -, «non piccoli come un accendino, o cose del genere. Inoltre, c'è quell'altra cosa che ha usato per scardinare la portiera.»
«E se fosse davvero una spia? Se quei congegni in miniatura alla James Bond esistono davvero, sarebbero le spie a usarli. Quando un agente segreto vuole un cannello da taglio, probabilmente non va dal ferramenta», commentò Susan. Ormai erano in campagna. Campi e alberi costeggiavano l'autostrada. David le lanciò un'occhiata. «Quella è un'altra questione. Non hai mai pensato a quanto fosse buffo che, all'inizio di ogni film, a James Bond venissero dati due o tre aggeggi che alla fine si rivelavano proprio quelli di cui avrebbe avuto bisogno? Non è mai stato dotato di una calamita superpotente, ma alla fine saltava fuori che aveva bisogno proprio dell'orologio col laser.» Susan sorrise. «Vero. Oppure si ritrovava ad affrontare uno squalo armato solo di una fotocamera in miniatura. Penso di aver visto una commedia su questa falsariga.» David annuì. «Quindi, anche se Jan aveva addosso, non si sa come, due chili di esplosivo e un cannello da taglio, come faceva a sapere che avrebbe avuto bisogno proprio di quella roba? Non si aspettava di essere catturato, altrimenti non si sarebbe recato a quell'indirizzo.» «Intendi dire che, nella vita reale, si dovrebbe andare in giro con una ventina di congegni, giusto per essere sicuri di avere quei tre che ti serviranno?» «Più o meno, sì», convenne David. Susan rimase pensierosa, poi disse: «Quelli sono i congegni che mi porterei se dovessi entrare in casa di qualcuno e aprire una cassaforte. Anzi è esattamente ciò che prenderei». Lui fece una smorfia. «Hai ragione. Dimentica i giochini alla James Bond», borbottò con un'espressione impacciata. «Stavo pensando ad alta voce.» «Aspetta. Non ti scoraggiare. Ho detto che sarebbe quello che io prenderei... quello, e magari una pistola. Ma io non sono Jan», sottolineò Susan. David parve sorpreso. «Chiaro. Stai dicendo che lui sceglierebbe qualcosa di diverso?» «Chi lo sa? Forse aveva le tasche imbottite di esplosivo e di minuscoli cannelli, o forse no. Ma in tal caso non gli sono serviti per fare un'irruzione, perché non li ha usati. Ha scardinato una serratura, poi ha letteralmente piegato in due lo sportello dell'archivio senza far saltare in aria alcunché o praticare un foro. Mentre eri seduto su di lui ti sei per caso accorto se nascondeva un martello da fabbro o un martinetto idraulico? Perché questi
sono gli strumenti che sembra abbia usato.» David era sconcertato. «Stai forse pensando che possa... Come riesce a fare cose del genere?» «Cosa vuoi che ti dica? In questa faccenda possono forse essere applicate le teorie 'normali'? Una cosa è certa, però: voglio studiare a fondo questa storia del cerchio d'oro. Vorrei avere il mio portatile... c'è l'intera collezione lì.» «I documenti che ha rubato sono nella borsa, insieme col Marker. Ce n'è solo una manciata, tuttavia puoi iniziare con quelli, se vuoi», suggerì David. Restarono in silenzio per altri cinque minuti. Poi, all'improvviso, Susan premette il dito indice contro il finestrino e disse: «Un agnellino...» Sembrava entusiasta. David lanciò un'occhiata al prato, poi le sorrise. Lei notò lo sguardo divertito e alzò le spalle. «Sai che Brighton è famosa come la città dove i boss si portano le segretarie per trascorrere un week-end trasgressivo?» disse lui. «Penso di aver capito il significato di questa frase pittoresca. Risale ai giorni in cui 'boss' significava automaticamente 'uomo', giusto?» commentò Susan. «Già, è buffo. Oggigiorno un sacco di boss sono donne, ma non hanno segretari uomini. Dove sta la parità?» Susan gli rivolse un'occhiata vagamente sprezzante. «Mamma mia, che mistero! Pare che non ci sia altrettanta rivalità per occupare i livelli più bassi di un'azienda.» Riportò lo sguardo sui campi per qualche secondo, poi aggiunse: «Allora è per questo che hai reagito con tanto entusiasmo quando ho detto Brighton? Ti ha solleticato l'idea di portarci la tua piccola impiegata?» Le sue parole erano cariche di sarcasmo. «Come? Sei stata tu a scegliere Brighton!» sbottò David. «E tu hai detto: 'È perfetto'», ribatté Susan, stizzita. «E infatti mi sono chiesta come mai avevi approvato la mia scelta con tanto entusiasmo. L'unico commento che hai fatto è stato quello sui boss che si scopano le segretarie.» «Okay», ribatté David, punto sul vivo. «Primo: Brighton si trova a una distanza ottimale da Londra. Secondo: è un viaggio tranquillo. Terzo: la città è stracolma di turisti in mezzo ai quali possiamo confonderci. Quarto: è una località dove la gente va per divertirsi, quindi è l'ultimo posto dove penseresti che ci sia qualche pericolo.» Susan non disse nulla.
«Perché lo fai?» chiese allora David, ancora piuttosto alterato. «Stiamo chiacchierando tranquillamente e tu te ne esci con qualcosa che mi obbliga a mettermi totalmente sulla difensiva.» Susan allargò le braccia e inarcò le sopracciglia. «Ehi, come faccio a sapere che non hai senso dell'umorismo?» replicò, acida. David scosse la testa. «No, quando vuoi, sai essere simpatica. Questa è un'altra cosa. È come se ti desse fastidio passare troppo tempo con me senza che ci sia qualche tensione.» Fu la volta di Susan di mettersi sulla difensiva. «Come? Il diverbio che abbiamo avuto a colazione sul fatto che te ne vai in giro a mettere a repentaglio la vita di quelli che ti stanno vicino non conta? Pensi che non mi basti per tutto il giorno?» «Quella era una cosa concreta», precisò David. «Nonostante la tua irruenza, sei stata leale con me. Poco fa, invece, pur sapendo che non ho architettato tutto questo per sedurti, mi hai accusato comunque, immaginando che avrei reagito.» Susan si mise a guardare fuori del finestrino. «Non capisco cosa vuoi dire», tagliò corto. Con lo sguardo seguiva la campagna che stavano attraversando, ma la sua mente era altrove. David teneva gli occhi incollati sulla strada. Era furente. Proseguirono in silenzio. L'autostrada si trasformò in una strada a rapido scorrimento. Passarono cinque minuti. Alla fine, Susan disse: «Allora stai dicendo che mi trovi brutta?» Il tono era stato duro, accusatorio. David le lanciò un'occhiata truce, ma vide che lei gli stava sorridendo dolcemente. Allora scoppiò a ridere, sollevato. E anche lei rise. Poi David chiese: «C'è un fidanzato da qualche parte che viene torturato in questo modo?» «Adesso pensi che ti stia torturando?» ribatté lei, fingendosi offesa. «Non proprio», ammise lui. Dopo una breve esitazione, Susan replicò: «No, li ho allontanati tutti... E dov'è la proprietaria di questa camicetta?» «A Hollywood a cercar fortuna», rispose David. Susan ridacchiò. «Complimenti. Io così lontani non li ho mai mandati. Il tuo record sono ottomila chilometri?» Lui parve compiaciuto di se stesso. «Non ho fatto una gran fatica, in realtà. Un po' d'indifferenza emotiva, qualche accenno alle tariffe aeree eco-
nomiche...» «Cos'è successo?» chiese Susan, seria. David soppesò la domanda. «È forse possibile riassumere una relazione? È sempre stata una persona molto desiderosa... di attenzioni, di sensazioni forti. Non siamo riusciti a trovare un compromesso tra ciò che volevo io e ciò che voleva lei.» «E adesso siete amici?» «Probabilmente lo siamo. Adesso. Penso che Hope mi abbia perdonato. Del resto non mi ha mai dato seccature.» «Forse era proprio questo il problema.» David le lanciò un'occhiata interrogativa. «È un'attrice, giusto? Forse voleva l'intera gamma delle passioni, non soltanto la giusta dose. Nei film, il protagonista è molto di più di un uomo che si comporta in modo carino.» «Questa è la spiegazione più sensata che abbia sentito finora», ammise David con rassegnazione. «Comunque adesso lei è nel suo elemento e sono felice che abbia seguito la sua strada.» «Lasciate ogni speranza...» mormorò Susan. Ma David non le chiese di tradurre. «A parte questo, tu sei americana... Dovresti essere al tuo quarto marito, ormai», buttò E. Lei sorrise. «Vedo che anche tu hai i tuoi stereotipi. Che resti tra noi, è il motivo per cui me ne sono andata. Non ero stata sposata abbastanza e stavo abbassando la media. Elizabeth Taylor era già impegnata nei doppi turni per riequilibrare la situazione.» «Allora nemmeno un marito?» Susan scrollò le spalle. «No. Un paio di fughe fortunate. Un falso allarme. Ma per raccontare questa storia ci vorrebbe mia sorella. Arriva la prossima settimana, magari potrà ragguagliarti.» Un'espressione preoccupata le attraversò il viso. «Cavolo, mi stavo quasi dimenticando di lei. È incredibile come vedere la morte da vicino possa distrarti. Spero che sia tutto sistemato per allora.» «Una volta che Dass riavrà il suo Marker, l'eccitazione sarà finita», dichiarò David. «Qualunque cosa accada dopo, non è un problema mio. E tu potrai continuare a fare le tue cose in santa pace, senza temere che io cerchi di farti ammazzare.» Susan annuì. Continuarono a parlare di relazioni per un po'. Qualunque fosse la motivazione recondita che li aveva fatti litigare era scomparsa. Chiacchierarono
in modo naturale e spensierato. Ben presto superarono i prati ben curati alla periferia di Brighton. Erano solo le dieci e mezzo, però si ritrovarono entrambi a sbadigliare in modo incontrollato. «Ho la tua parola che non darai in escandescenze se suggerisco un cambio di programma?» chiese David. «Non so se mi piace l'espressione che hai usato», ribatté Susan. «Ma farò del mio meglio. Che cosa suggerisci?» David esitò. «Ascolta, non ci sono assolutamente secondi fini in ciò che sto per proporre, anche se può sembrare...» Susan lo interruppe. «Parla, per l'amor del cielo, altrimenti mi arrabbio sul serio», esclamò, ma senza troppa convinzione. «Siamo entrambi stanchi e abbiamo cose importanti sulle quali riflettere e alcune telefonate da fare. Stavo pensando che avremmo bisogno di una base qui. Quindi perché non prendiamo una camera in albergo?» Susan lanciò a David uno sguardo interrogativo e, nel mentre, sbadigliò. «Vedi?» disse lui. «Dormiamo un paio d'ore, mangiamo qualcosa, poi decidiamo come giocare le nostre carte con Dass.» «E suppongo che dovrà essere una camera matrimoniale, invece che due singole, perché...» «Perché l'ultima cosa che dobbiamo fare è dividerci, se vogliamo dormire un po'», concluse David. Dopo una breve pausa, Susan disse: «Mi sembra un'ottima idea». «Non deve essere la suite presidenziale, fintanto che la Jacuzzi sia abbastanza spaziosa per due», aggiunse David. Susan gli rivolse un sorriso sarcastico. «Sono stato qui solo una volta... per affari. Possiamo usare lo stesso albergo; è proprio di fronte al mare.» Susan sbadigliò di nuovo, mentre cercava di dire: «Va bene». Presero una camera matrimoniale al Grand Hotel, un albergo affacciato su un mare che stava volgendo al grigio. Il sole del primo mattino si era ritirato dietro le nubi e una brezza sostenuta portava gli spruzzi sul lungomare. Entrambi avevano fatto alcune telefonate per avvisare che non sarebbero andati al lavoro per quel giorno. Susan aveva puntato la sveglia del suo orologio da polso sulle tre e mezzo. David tirò le tende. Erano fatte di un tessuto pesante ed erano doppie, ma lasciavano comunque filtrare un po' di
luce. La stanza era avvolta nella penombra, però non era buia. Nessuno dei due era contento all'idea di coricarsi, completamente vestito, sulle coperte. Ma, del resto, nessuno dei due aveva intenzione di spogliarsi di fronte all'altro. «Accidenti, mi sento in imbarazzo», confessò David. «Penso che alla gente capiti di fare cose del genere quand'è ubriaca.» Susan si offrì di andare a mettersi l'accappatoio in bagno. Quando ebbe chiuso la porta dietro di sé, David si svestì rapidamente e s'infilò sotto le coperte. «Una situazione proprio strana», commentò lei, uscendo dal bagno. «Non può essere più strana della necessità di nascondersi da un ladro dotato di superpoteri», sottolineò lui. «È diverso», replicò Susan. «Mi sembra di essere tornata ai tempi in cui giocavo al dottore con Arty Hickson», borbottò, infilandosi sotto le coperte e togliendosi l'accappatoio. «È qualcuno con cui lavori?» chiese David con aria innocente. Susan cercò qualcosa da tirargli addosso. «Abitava vicino a casa mia quando avevo sei anni. A quei tempi credevo ancora all'inferno, ed ero sicura che ci sarei finita. La sai una cosa buffa? Adesso fa veramente il medico.» Di lì a poco, chiese: «Stai dormendo? All'improvviso mi sento sveglissima». Non ci fu risposta... solo un respiro regolare. Da qualche punto dell'albergo proveniva il ronzio attutito e intermittente di un aspirapolvere, che si unì al debole sciabordio del mare. Attraverso le spesse pareti, l'occasionale tonfo dell'aspirapolvere contro la gamba di una sedia ricordava il ritmo smorzato dei timpani, mentre gli stridii lontani dei gabbiani giungevano privi della loro tragicità. Entrambi dormivano. 18 Venerdì 18 aprile (pomeriggio) La temperatura si era abbassata. David e Susan avevano passeggiato senza meta per la città, chiacchierando e fermandosi di tanto in tanto a guardare le vetrine, finché un vento tagliente non cominciò a fax lacrimare loro gli occhi. S'infilarono nel primo ristorante dall'atmosfera calda e accogliente. Da-
vanti a un pranzo tardivo, osservavano il mondo grigio all'esterno. Susan stava mangiando una zuppa di pomodoro speziata, nella quale immergeva dei crostini di pane. «Mi sento peggio che se non avessi dormito affatto», confessò. «Lo so che la sensazione è questa, ma prima eri molto pallida. Penso che ti abbia fatto bene dormire qualche ora», commentò David. Arrivò la cameriera col piatto di ravioli per lui. Benché fossero roventi, David li divorò. Durante la passeggiata, avevano parlato di Dass e della consegna del Marker. E adesso David riprese l'argomento. «Allora, perché pensi che dovremmo prendere delle precauzioni?» «Ho cominciato a riflettere sulle cose che mi hai detto di lui», rispose Susan. «Di come ti sei sentito quando lo hai incontrato la prima volta. Hai confessato di aver percepito qualcosa di strano in lui... Anche con Jan hai sentito qualcosa... ma è stato peggio con Dass. Be', Jan è il killer rozzo. Ma Dass chi è?» «Non è successo nulla di particolare, è stata solo una sensazione», ribatté David. «Con Jan avevo l'adrenalina a mille e potevo agire. Se ti trovi in un contesto sociale, nell'ufficio di qualcuno, è tutta un'altra cosa. Scommetto che certi soldati sono più intimiditi al pensiero di ricevere una medaglia dalla regina che dalle azioni compiute per guadagnarsela.» «Penso che tu stia razionalizzando quanto è accaduto», affermò Susan. «La prima volta che mi hai parlato di Dass, hai detto che ti aveva inquietato profondamente. Adesso invece minimizzi. Racconta l'episodio ancora un paio di volte, e ricorderai le tue sensazioni come un lieve disagio. Non dimenticare che continuo a ripeterti di essere cauto, di tenere presente il pericolo, quindi sono l'ultima persona che potrebbe accusarti di essere un codardo. Nei confronti di questo tizio hai avuto una reazione... viscerale. Credo semplicemente che dovremmo tenere presente questo particolare prima di fidarci di lui.» Susan suggerì alcune precauzioni che avrebbero potuto prendere nei confronti di Dass, però David non era convinto che ce ne fosse bisogno. «Sto facendo quello che mi ha chiesto e avrà ciò che vuole», disse. «Non capisco perché io debba preoccuparmi. Se l'avessi contrariato, allora la faccenda sarebbe diversa, ma ritengo di potermi fidare di lui, fintanto che rimango un leale servitore.» Susan scosse la testa. «Woodward e Bernstein insegnano... Non fidarti di nessuno.»
«A parte te, giusto?» «Be', ovvio. Non fidarti di nessuno... a parte Susan.» «Questo significa che hai deciso di fidarti di me?» chiese David. Lei annuì, seria. «Ce la sto mettendo tutta, davvero», disse con sincerità. Continuarono a parlare per tutta la durata del pranzo. Susan insisteva sulla necessità di prendere alcune precauzioni, ma David si mostrava il più delle volte scettico sull'opportunità di attuarle. Alla fine, però, Susan riuscì a convincerlo a non precipitarsi a Londra quella sera stessa. Dopo mezz'ora avevano un piano che a Susan non sembrava troppo avventato e che David non giudicava insopportabilmente paranoico. Lui guardò l'orologio. Erano passate da poco le cinque. «Voglio chiamarlo prima che gli uffici chiudano per il week-end.» Si affrettarono a tornare in albergo, dove David avrebbe potuto fare la telefonata in tutta tranquillità dalla camera. Usò il suo cellulare e chiamò il centralino della Interfinanzio, chiedendo di Alessandro Dass. La chiamata venne passata a Mrs Billings, la segretaria di Dass, la quale gli comunicò che era impossibile parlare col presidente. «Mrs Billings... Se questo messaggio non gli viene trasmesso subito, probabilmente perderemo entrambi il posto di lavoro», insistette David con cortesia, ma senza celare una certa apprensione. «Le assicuro che si tratta di un'informazione che Mr Dass sta attendendo con impazienza. La prego, faccia del suo meglio per mettermi in contatto con lui.» «Mi dica di cosa si tratta, e farò il possibile per farla parlare con lui.» «Per fare una cosa del genere, dovrei avere il permesso di Mr Dass», ribatté David. «E su questo punto lui è stato molto chiaro.» Mrs Billings rimase in silenzio. Di certo stava valutando le possibilità. Quando parlò di nuovo, la sua voce aveva un tono decisamente più gradevole. «Mi lasci il suo numero e vedrò cosa posso fare.» David le diede il numero, poi interruppe la comunicazione. «Dass mi richiamerà», disse a Susan. Era seduto al piccolo scrittoio, con le spalle alla finestra. Susan era sul letto, di fronte a lui, con le gambe incrociate. Si stava mordicchiando il labbro inferiore. Meno di due minuti dopo la conversazione con Mrs Billings, il cellulare di David squillò. «Mr Dass?» chiese David. «Mr Braun...» rispose la voce raffinata del capo della Interfinanzio. «Ha buone notizie per me?»
«Sì. Ho recuperato il cofanetto che le è stato rubato, col suo contenuto intatto», lo informò David. Dass sospirò. «Mirabile! È gratificante veder ripagata la propria fiducia. Mi dica dove si trova e uno dei miei uomini sarà subito da lei.» «Mi dispiace, ma dovremo procedere in modo un po' diverso, Mr Dass», ribatté David. «Forse le è giunta notizia che il ladro non è più sotto custodia e che nessuno sa dove si trovi. Il mio primo pensiero è stato portare al sicuro il cofanetto, quindi ho lasciato Londra. Posso portarglielo domattina, ma prima di allora sarà difficile.» Fece una pausa. «Vuole che venga nel suo ufficio?» «Iniziativa... una qualità così rara», commentò Dass. «L'ufficio non è il posto ideale, no. Quando le parti interessate verranno a conoscenza che l'oggetto è stato recuperato, io vorrei che si trovasse già al sicuro altrove. E questo sarebbe notevolmente più difficile se fosse costretto ad attraversare un posto di lavoro, seguito da mille occhi curiosi. Ci sarà troppa gente, persino di sabato. Potrebbe essere così gentile da venire a casa mia?» «Non c'è problema», ribatté David e scrisse: A CASA SUA sul taccuino che aveva davanti a sé. Lo sollevò in modo che Susan potesse vederlo. Lei annuì, rivolgendogli un sorrisetto torvo. «Lasci che le spieghi come arrivare», disse Dass e dettò un indirizzo. «Non voglio restare bloccato nel traffico», spiegò David. «È una situazione troppo vulnerabile. Quindi vorrei spostarmi dopo l'ora di punta. Alle undici le andrebbe bene, Mr Dass?» «Direi che è accettabile», rispose l'altro. «C'è un parcheggio riservato proprio davanti a casa mia. Farò in modo che lo trovi libero. Preferirei che non perdesse tempo in strada.» «Non si preoccupi per questo. Ci vediamo domani alle undici», concluse David. Chiuse la comunicazione, posò il cellulare sulla scrivania e sospirò. «È fatta.» «Quante possibilità ci sono che qualcuno intercetti la chiamata?» chiese Susan. «Be', il gestore della rete mobile potrebbe farlo, su questo non ci sono dubbi», rispose David, poi lasciò vagare lo sguardo per la stanza, mentre rifletteva. «Tuttavia penso che ci vorrebbe un'autorizzazione o l'uomo giusto all'interno per predisporre la ricerca. Lo stesso vale per la mia carta di credito. Ma è una cosa che dovresti fare subito, comunque, indipendentemente da quanta influenza hai, se vuoi evitare che qualcuno faccia domande. Solo qualcuno cui non importasse di mettere a repentaglio i propri con-
tatti agirebbe in modo affrettato. Se Dass pensasse che vogliamo tenerci il Marker... ma allora perché ci saremmo offerti di portarglielo? E non vedo come una delle altre parti interessate potrebbe sapere che l'abbiamo noi.» Susan sembrava impressionata. «Caspita, hai usato il cervello, eh? Sono contenta di non essere l'unica ad aver deciso che la paranoia è la parte migliore del coraggio.» David annuì. «Non penso ci sia altro che possiamo fare per proteggerci. Forse la polizia sarebbe in grado di rintracciarci, se volesse, ma quel criminale non ha accesso alle informazioni della polizia. Non sapeva che gli agenti conoscevano l'indirizzo del suo nascondiglio, quindi non vedo in quale modo possa usare le risorse della polizia per sapere dove siamo.» Susan approvò con un cenno del capo e si sdraiò sul letto. Con le braccia distese a toccare la testata, chiese: «Che cosa vuoi fare adesso?» Lui si strinse nelle spalle. «Non ho più fame, non ho più sonno. Non saprei. Voglio solo distrarmi un po'.» Andò alla finestra e guardò fuori, chinandosi fino ad appoggiare i gomiti sul davanzale e tenendo sollevato un lembo della tenda. «C'è un cinema qui vicino... Potremmo vedere cosa danno», propose. Non si girò per vedere la reazione di Susan, ma continuò a guardare fuori della finestra. «Sembra banale, con tutto quello che sta succedendo, però mi sembra che non ci sia altro da fare, tranne concederci un po' di riposo.» Mentre parlava, Susan si era alzata stancamente dal letto e gli si era avvicinata. Guardò oltre la sua spalla, fissando quel mondo grigio che si vedeva dalla finestra. «Mi sento come il clima che c'è fuori», confessò, posando una mano sulla spalla di David e avvicinandosi al vetro. David si raddrizzò e si girò a guardarla... e quel movimento li portò a essere molto vicini. Lo sguardo di Susan era ancora rivolto all'esterno. Stava osservando le lunghe onde grigioverdi che increspavano il mare denso. David la guardò. Sollevò una mano verso la guancia, quasi senza toccarla. «Le ferite ti fanno male?» chiese. Lei non si ritrasse. Lui le sfiorò delicatamente il viso, inclinandole con cautela la testa da una parte, poi si avvicinò per esaminare la ferita. Invece di raddrizzare la testa, Susan lasciò che David le tenesse il viso con la mano e parlò, quasi senza aprire la bocca. «Mi fa male un pochino», mormorò. Un sospiro stanco sembrò sottrarle altra energia, tanto che lasciò ricadere la testa sul petto di David. «Sono esausta, ma so che non riuscirei a dormire.»
Lui la cinse con le braccia. «Lo so, lo so», disse. Non intendeva nulla di particolare; desiderava solo calmarla. Susan si rilassò in quell'abbraccio, abbandonandosi un poco e lasciando che lui la sostenesse. David sollevò una mano e immerse le dita tra i morbidi capelli biondi. Lei non si mosse. Allora lui fece scivolare la mano sulla nuca e iniziò a massaggiarla delicatamente. Susan emise un mormorio di approvazione. Allora David girò un poco la testa e le sfiorò la fronte con un bacio. Le sue dita continuavano a esplorare con delicatezza la rigidità del collo. Inclinò ancora la testa e posò un secondo bacio sulla guancia sana. Susan s'irrigidì e, qualche istante dopo, si ritrasse lentamente da David, che abbandonò le braccia lungo i fianchi. «No», mormorò, scuotendo la testa con aria triste. «Non è giusto. Non voglio.» La sua voce era appena udibile. David indietreggiò lentamente. «Mi dispiace», disse con calma e sincerità. Susan teneva gli occhi bassi e non si era mossa. Poi incrociò le braccia, abbracciandosi, apparentemente inconsapevole di come quel gesto rispecchiasse le attenzioni di David. «Non c'è nulla di cui scusarsi», ribatté. La sua voce era carica di tristezza quando aggiunse: «Ma non è questo che voglio da te». Si allontanarono ancora di più, e Susan andò a sedersi sul bordo del letto. David raggiunse l'altra estremità della stanza e si mise a sfogliare con indifferenza le pagine della guida dell'albergo, che si trovava sul piccolo televisore. Il volto di entrambi mostrava che si erano ritirati nel loro mondo interiore. Ciascuno era assorto nei propri pensieri. David girò un'altra pagina della guida, senza badare al contenuto. Il suo sguardo vagò per la stanza. Accanto al televisore c'era una cassettiera sulla quale era posato un vassoio. Sopra, c'erano un bollitore, tazze, piattini e vari sacchetti. Gli occhi si fermarono sul bollitore. Lo prese, lo riempì per metà di acqua e abbassò l'interruttore. Dopo qualche minuto, l'acqua prese a bollire. «Non voglio sembrarti banale, ma ti va di bere una tazza di tè?» chiese David. Susan sorrise. «Certo», disse, sforzandosi di sembrare allegra. «Cosa pensi che diano al cinema?» David aveva ripreso a sfogliare la guida dell'albergo. «C'è un volantino da qualche parte», disse. Alla fine lo trovò. «T'interessa per caso vedere
Spiderman?» fece in tono dubbioso. «Mitologia moderna. È quasi un dovere per me. Sarà divertente», rispose Susan. David diede un'occhiata all'orologio e disse: «Okay. Ci sto. Abbiamo circa un'ora prima del prossimo spettacolo». Riguardò l'orologio, facendo i calcoli. «Poi possiamo andare a mangiare fish and chips... Non si può venire al mare senza mangiare fish and chips.» «Fish and chips. Ma certo», esclamò Susan come se fosse stata una sciocca a non pensarci prima. «Avevo proprio intenzione di approfittarne prima che il mare del Nord si svuoti completamente. Forse riusciamo ad accaparrarci gli ultimi due merluzzi.» «Questo sì che è umorismo», commentò David con aria vagamente sarcastica. «Chiederemo di darci il pesce a più alto rischio di estinzione.» Si mise a preparare il tè. «Magari potresti acquistare un cambio di abiti. Abbiamo giusto il tempo per comprare qualcosa, se non sei troppo fissata con la moda.» Susan annuì. «Buona idea. Possiamo andare da Gap o in un negozio simile? Comincio a sentirmi un po' sporca con la stessa roba addosso. Anche se hai fatto un gran bel lavoro col bucato.» Bevvero in fretta il tè, poi uscirono. Dall'albergo risalirono la collina verso il centro commerciale. Susan, che aveva tremato di freddo per tutto il tragitto, entrò subito in un negozio di abbigliamento sportivo e si diresse verso la zona della merce in saldo. David si offrì di pagare con la carta di credito della società e lei accettò, comprando una giacca nera a un prezzo stracciato. Poi continuarono a fare acquisti. Dopo il film e il fish and chips, David e Susan si sedettero al bar dell'albergo. Erano le dieci e mezzo. David aveva un bicchiere di whisky Jameson davanti a sé; Susan un bicchiere di Canadian Club. «Il film è stato buffo, vero? In un modo irrazionale, intendo», commentò lei. «Mi è piaciuto tutto, tranne le scene d'azione», ribatté David. «Non appena si metteva la maschera diventava un cartone animato. Come guardare una palla che rimbalzava sulla scena. Come fai a immedesimarti con un pezzo di elastico in pericolo?» Susan bevve un sorso di whisky e fece spallucce. «Mah, io non l'ho considerato un difetto. Non so se sarei riuscita a sopportare qualcosa di più realistico. Le scene d'azione di Tom e Jerry mi sarebbero andate bene u-
gualmente.» Una volta finito il whisky, David ne ordinò un secondo. Di lì a poco la conversazione languì. Si sentivano entrambi esausti. Alle undici fu chiaro che dovevano andare a letto e si diressero in camera. Susan restò in bagno per quasi un quarto d'ora. Quando finalmente ne uscì, la lampada sul suo comodino era l'unica illuminazione. David si era già coricato. Era girato dall'altra parte rispetto a lei, e aveva un respiro tranquillo e regolare. Non chiese se stava dormendo; si limitò a scivolare silenziosamente nel letto e a spegnere la luce. Si addormentò di lì a pochi minuti. 19 Sabato 19 aprile (il giorno dopo) David si trovava nel cuore di Belgravia, e stava percorrendo a velocità ridotta la strada dove sorgeva la casa di Dass. Superò un edificio nel cui portico ornato sventolava una bandiera e davanti al quale stazionava un poliziotto: era un'ambasciata. Alcuni metri più in là, la strada svoltava a sinistra. David era solo; guidava adagio e intanto si guardava intorno, osservando le finestre delle ville eleganti, studiando le auto parcheggiate e le porte d'ingresso. Erano quasi le undici e si stava avvicinando alla sua destinazione. Ormai procedeva quasi a passo d'uomo. Sul sedile del passeggero era posata la borsa da viaggio che aveva sottratto a Jan. Continuò a scrutare la strada tranquilla, in cerca di qualche segno particolare. Davanti a sé, vide il posto auto vuoto che lo attendeva, con la scritta RISERVATO dipinta a caratteri bianchi al centro. Il parcheggio si trovava esattamente davanti a una lucida porta d'ingresso nera, incastonata in un muro di mattoni peraltro disadorno. La residenza non sembrava avere finestre al pianoterra... almeno nessuna che desse sulla strada. Era un edificio curioso. Sembrava che fosse stato costruito di fronte a una strada che ormai non esisteva più. Al contrario, la via correva parallela a quello che, almeno in apparenza, era il lato cieco della palazzina. Dal marciapiede, non si vedeva altro che un muro di mattoni alto tre piani e che terminava a filo col tetto. Appena sotto la linea del tetto si apriva u-
n'ampia vetrata; un punto di osservazione perfetto, dal quale era possibile controllare tutto il quartiere. E chiunque avesse alzato lo sguardo dalla strada, sperando di vedere all'interno, sarebbe rimasto deluso a causa dell'angolo acuto... avrebbe visto semplicemente il riflesso del cielo. David diede un'ultima occhiata intorno prima che fosse troppo tardi per cambiare idea. Una cinquantina di metri più in là, una figura sgattaiolò tra due auto parcheggiate. A quella distanza era difficile cogliere dei particolari; tuttavia era chiaro che la figura adesso si era fermata, in parte nascosta da un platano. Dalla posizione in cui si trovava David, tutto ciò che si poteva scorgere era un lampo di abiti neri e qualche movimento esitante a suggerire che quel qualcuno non voleva farsi vedere. Le sue mani si tesero sul volante. Poi la figura si mosse e lui riuscì a scorgere un profilo femminile, con una borsa della spesa arancione in mano. Non era Jan. Si rilassò. Vedendo che in giro non c'era nessuno, parcheggiò velocemente l'auto nello spazio riservato e spense il motore. Scese in fretta, prendendo la borsa con sé. Con tre rapidi passi raggiunse la lucida porta nera. Nessuno sbucò all'improvviso da un nascondiglio; la strada rimase deserta. Alla destra della porta c'era un citofono. Premette il pulsante sotto l'altoparlante. Nonostante il tepore della bella giornata primaverile, indossava una pesante giacca di pelle. Si strinse nelle spalle come se avesse freddo. Non erano passati neanche due secondi che la porta venne aperta da un giovanotto pallido con indosso una tuta da ginnastica blu scuro col cappuccio sollevato sulla testa. «Entri», disse l'uomo. David entrò nell'atrio e la porta venne richiusa rapidamente alle sue spalle dall'uomo in tuta, che poi abbassò anche una sbarra di ferro dietro l'uscio. Apparve un secondo uomo; aveva lineamenti orientali. Indossava un paio di jeans, una maglietta grigia e un berretto da baseball. La maglietta aderiva intorno ai bicipiti muscolosi. L'uomo in tuta cominciò a perquisirlo alla ricerca di armi. «È proprio necessario?» chiese David. Tuta da Ginnastica non gli rispose e continuò, imperterrito. Mentre tastava e palpava, incontrò qualcosa nella tasca della giacca. L'uomo alzò lo sguardo inquisitorio su David e l'Orientale avanzò di un passo verso di lui. Allora David alzò lentamente le mani verso la testa, con le palme all'infuori, per permettere all'altro di frugargli nelle tasche. Tuta da Ginnastica
si abbassò, infilando una mano nella tasca. Ne estrasse un telefono cellulare. David si strinse nelle spalle. Tuta da Ginnastica ripose il cellulare e continuò a perquisirlo. Quando ebbe finito con David, passò alla borsa, trovando solo un cofanetto di legno di rosa, che evitò di toccare. Poi fece un cenno in direzione dell'Orientale, che disse: «Mi segua». Con l'Orientale davanti e Tuta da Ginnastica dietro, David salì due rampe di scale di legno fino a raggiungere un pianerottolo traboccante di pezzi di antiquariato. Il pavimento era nascosto da una distesa di tappeti color borgogna e le pareti erano coperte da una tappezzeria chiara, su cui s'intrecciavano fiori in stile William Morris. Sulle pareti era appesa una dozzina di cornicette lavorate a mano, ma nessuna conteneva un dipinto, bensì un frammento di carta o di pergamena. Su alcuni erano visibili tratti di pennello o un'iscrizione a inchiostro. Altri apparivano vuoti, semplici angoli strappati da qualche documento antico. Superarono una doppia porta che immetteva in un salotto senza finestre, ma illuminato ad arte perché sembrasse rischiarato dalla luce del sole. Tutto l'arredamento era di colore rosso scuro, oro e avorio. Tonalità molto pesanti che tuttavia risultavano alleggerite in qualche modo dalle magnifiche proporzioni della stanza, che occupava quasi l'intero piano. Diversi mobiletti e tavolini in legno di cedro rosso e in legno di ciliegio, trattato con una vernice scura, erano allineati all'intorno. Divani e poltrone Chesterfield di color rosso sangue erano riuniti al centro della stanza. Tulipani freschi, in una calda tonalità di giallo e rosso scarlatto, erano disposti in una mezza dozzina di vasi sistemati tutt'intorno e il loro profumo era una nota vivace nel sentore di cera d'api e pelle invecchiata che impregnava l'ambiente. Nella stanza non c'era nessuno. L'Orientale indicò una poltrona di fronte alla porta e ordinò: «Si sieda», poi si girò e se ne andò. Tuta da Ginnastica prese posizione di fianco alla porta, come un buttafuori, le braccia incrociate davanti a sé, gli occhi puntati su David. Invece di accomodarsi sulla poltrona, David prese una sedia dallo schienale alto infilata sotto uno scrittoio e la spostò al centro della stanza. Si sedette, posando la borsa accanto alla sedia, poi s'infilò le mani in tasca. Passò un minuto, dopodiché l'Orientale tornò, seguito da Alessandro Dass, che indossava un abito di taglio simile a quello che David gli aveva visto in precedenza, ma di colore grigio chiaro. La cravatta era di un rosso acceso e spiccava contro la camicia color cenere.
Mentre Dass attraversava la stanza, divenne chiaro che il segno visibile sulla sua fronte - un segno che, da una certa distanza, poteva sembrare una ruga profonda o una vecchia cicatrice - era in realtà un sottile cerchio di metallo. L'ornamento si fondeva col colorito di Dass, tanto che da lontano era invisibile. «È arrivato senza incidenti. Bene», esordì Dass. Come sempre, la sua voce raffinata era carica di fascino. Scelse una poltrona di fronte a David e si sedette pesantemente. «Dov'è finito quando ha lasciato Londra? Non che sia tenuto a dirmelo, naturalmente. Mi chiedo se c'è qualcuno cui abbia confidato il suo nascondiglio.» «Ho pensato che fosse meglio sparire», ribatté David. «Non ho ritenuto necessario informare nessuno. Avrei solo moltiplicato inutilmente i rischi.» La sua voce era priva d'inflessione. Sembrava un indiziato che stava rilasciando una dichiarazione soppesando ben bene le parole. Dass sciolse le mani, che fino ad allora aveva tenuto intrecciate, e fece un piccolo gesto, come a dire: «Proprio così». «Ma suppongo che i suoi superiori si siano incuriositi. Indubbiamente li avrà informati che aveva intenzione di lasciare Londra...» insistette, con un lampo d'interesse negli occhi. «... che aveva intenzione di venire qui.» Fissò David. Durante quello scambio di battute, l'Orientale aveva continuato a spostarsi sino a fermarsi quasi alle spalle di David. E, in quel momento, David si accorse della sua presenza. Fece per alzarsi, ma quello allungò una mano per farlo risedere. David anticipò la mossa e scattò in piedi. La sedia dall'alto schienale s'inclinò di lato, andando a sbattere contro il tavolo dal piano di vetro. Nello stesso istante, l'Orientale avanzò verso David, che fece un balzo all'indietro, le mani alzate davanti a sé, pronto a difendersi, mettendosi di traverso rispetto al potenziale avversario. La sedia rovesciata rimbalzò sul bordo del tavolo, producendo un gran fracasso e scheggiando la finitura levigata del legno, ma lasciando intatto il piano di vetro. Con fare aggressivo, l'Orientale avanzò di nuovo verso David, il quale spostò leggermente il peso, preparandosi a una mossa rapida. Dass sbraitò qualcosa in una lingua incomprensibile. L'Orientale indietreggiò tanto rapidamente da dare l'impressione che quelle parole l'avessero trafitto. «Per favore», riprese Dass con pacatezza. «Manteniamo la calma.» Poi si rivolse all'Orientale, dicendo: «Kim, non mi sembra che tu stia facendo
granché per far sentire a suo agio il nostro ospite. Perché non ti siedi?» E, agitando due dita, indicò la poltrona più lontana. Kim tenne gli occhi incollati su David, ma obbedì. Adesso che era stato costretto a sedersi, aveva sul volto un'espressione strana. «Dov'eravamo rimasti?» disse Dass. «Credo che stessi per invitarla a fermarsi a pranzo, se ha tempo.» Si sporse in avanti. «Mi dica, a che ora l'aspettano in ufficio?» Ormai David era in grado di sostenere lo sguardo di Dass senza apparente sforzo. Scrutò l'uomo più anziano e, prima di rispondere, lasciò passare parecchi secondi. «Sanno che sono qui», lo informò. Dass inarcò un sopracciglio. «Sono certo che lo sanno», ribatté in tono rassicurante, riappoggiandosi allo schienale. «Mi devo congratulare per le precauzioni che ha preso stamattina. Evidentemente si è dato molto da fare per non attirare l'attenzione sulla sua visita. In realtà, sono sicuro che nessuno l'ha visto arrivare. Eccezionale.» Dass fece una pausa, come per dare a David il tempo di comprendere le implicazioni di ciò che aveva detto. Poi proseguì: «E devo anche ammettere di essere molto sollevato dal fatto che sia riuscito a raggiungerci. Se non ce l'avesse fatta a venire oggi, se non avesse fatto ritorno dal suo rifugio notturno, chi avrebbe potuto scoprire che fine aveva fatto? Come avremmo potuto venirle in aiuto? Sarebbe stato come se fosse svanito nel nulla». Il tono di voce di Dass era colloquiale, ma la minaccia sottesa alle sue parole non sfuggì a David. «Supponiamo che lei neghi di avermi visto oggi; che cosa ci guadagnerebbe dalla mia scomparsa?» chiese David, caustico. Dass lo guardò con un'aria d'innocente stupore. Alzò lo sguardo sui suoi scagnozzi in cerca di sostegno, ma entrambi rimasero impassibili, gli occhi fissi su David, ma senza dar segno di aver ascoltato la conversazione. Poi sembrò colpito da un pensiero. «Oh, capisco... La sua è un'ipotesi. Stiamo esercitando la nostra immaginazione.» Si guardò intorno per vedere se anche gli altri due erano giunti alla sua stessa conclusione, ma il loro volto rimase inespressivo. «Be', se stessimo giocando, potrei affermare che la restituzione del nostro tesoro perduto ridesterebbe anche la sgradita curiosità di coloro che vogliono appropriarsene. Per noi, la conclusione ideale sarebbe che il mondo lo creda perduto, rendendoci gli unici a sapere che è al sicuro.» Agitò una mano. «Sempre che la faccenda possa essere portata a termine senza che accada nulla d'illegale, naturalmente.» Si sistemò meglio sulla poltrona, poi proseguì: «Chissà? Al mondo ci sono anche persone che vogliono avere la botte piena e la moglie ubriaca. Forse li conosce,
quei venali giochi a quiz tanto in voga negli Stati Uniti, dove il vincitore deve scegliere tra la somma di denaro che ha già accumulato e il contenuto di una scatola misteriosa. Persino gli americani considererebbero un atto di avidità inaccettabile desiderare entrambe le cose. Ma ipoteticamente sarebbe possibile. Una persona veramente avida potrebbe richiedere il pagamento del premio dell'assicurazione persino adesso...» - indicò la borsa di fianco a David - «... un sotterfugio per depistare gli altri». Allungò la mano sinistra, poi la destra. «Proteggerebbe il nostro patrimonio, consentendoci nel contempo di pagare i conti.» Si sporse in avanti. «Ma, prima di sprecare altro tempo a valutare le varie ipotesi, accertiamoci dei fatti. Vuole essere così gentile da restituirmi ciò che mi appartiene di diritto?» E tese un braccio verso la borsa. David rifletté, poi prese la borsa, l'appoggiò sulle gambe e aprì la cerniera. Ne estrasse il cofanetto di legno di rosa, rimise la borsa sul pavimento, quindi posò il cofanetto sulle ginocchia. Fece per aprirlo, ma si fermò, riappoggiandosi allo schienale. Espirò e infilò le mani in tasca. Sembrava combattuto da un dilemma. «Quello che mi preoccupa, Mr Dass, è che lei non ha nessuna intenzione di lasciarmi uscire da qui.» Dass non replicò. «Questo è il motivo per cui ho deciso di avvertire la polizia prima di venire a casa sua.» Per la prima volta da quando David lo aveva conosciuto, Dass sorrise con un'espressione di autentico divertimento. «Ho spiegato alla polizia che uno dei suoi uomini aveva recuperato il cofanetto e che lei mi aveva invitato a essere presente quando le sarebbe stato restituito», proseguì David. Dass continuò a sorridere con fare benevolo, come se fosse deliziato dalla storia. «Ho espresso loro la mia preoccupazione che il ladro potesse tentare ancora una volta di rubarlo. Per essere precisi, ho detto che mi è sembrato di vederlo aggirarsi da queste parti.» Ora Dass stava annuendo con fare assorto, come se si stesse preparando a parlare. «E ho chiesto che mi chiamassero qui», concluse David. Poi si strinse nelle spalle, come se non ci fosse altro da aggiungere. L'altro allungò una mano in direzione del cofanetto. «Una storiella molto divertente, anche se poco originale. Kim, portami il cofanetto», ordinò. Mentre Dass pronunciava quelle parole, David infilò la mano destra nel
cofanetto e ne estrasse qualcosa. Dopodiché scattò in piedi e, col cofanetto stretto nella mano sinistra, corse verso l'angolo opposto della stanza. Con uno scatto deciso del polso destro, l'oggetto nella sua mano si allungò, diventando un bastone di metallo. Lo brandì davanti a sé, pronto ad affrontare un attacco. Kim e Tuta da Ginnastica avanzarono verso di lui. «Aspettate», ordinò Dass. I due si fermarono, come cani che tirino il guinzaglio, in attesa di essere liberati. Dass si alzò e, con disinvoltura, mosse un passo verso David. «Quando ho sentito che lei aveva avuto la meglio sulla nostra pecorella smarrita, mi sono chiesto come avesse fatto a conseguire una tale vittoria. Benché non possa competere con me, Jan avrebbe dovuto schiacciarla sotto i piedi.» Allungò una mano verso il cofanetto, ma David calò il bastone di metallo sul suo polso. Dass non reagì; si limitò a fermarsi. La pesante asta del bastone incontrò un ostacolo invisibile prima di raggiungere il braccio di Dass. L'impatto produsse un rumore come di un martello che colpisca un pavimento di cemento. I due rimasero immobili: Dass con la mano protesa verso il cofanetto e il bastone di David a pochi centimetri dal braccio allungato. «Comincio a sospettare che lei possieda qualche qualità speciale che le ha consentito di superare uno di noi... persino un esiliato», mormorò Dass. David stava lottando per muoversi. Non c'era nessun impedimento, nessun motivo apparente per cui non dovesse superare Dass con un balzo, spingendolo da parte; invece si dimenava come se fosse rinchiuso in una struttura solida o schiacciato contro la parete da qualcosa di massiccio. Sul volto di Dass apparve un'espressione strana, come se un brutto ricordo si fosse insinuato nella sua mente. Simultaneamente, il bastone venne strappato dalla mano di David e volò dall'altra parte della stanza, sospinto da una forza invisibile. Dass si chinò verso David finché non furono a una spanna di distanza. «Penso di aver capito di quale qualità si tratta», disse. Un rivolo di sudore scivolò sulla fronte di David mentre continuava a dimenarsi... senza il minimo successo. «Lei è stato fortunato», concluse Dass, voltandogli le spalle. David vacillò in avanti. La barriera invisibile era scomparsa all'improvviso. A grandi passi, Dass tornò verso la sua poltrona, mentre David caracollava e per poco non cadeva a terra.
«Semplicemente fortunato», ribadì Dass, crollando sulla poltrona e riportando lo sguardo su David, che nel frattempo aveva riacquistato l'equilibrio e adesso si guardava intorno nervosamente. L'altro studiava il suo prigioniero con un misto d'interesse e di disgusto. «Credo di aver capito ciò che devo fare», sentenziò. Poi il tono della sua voce s'indurì. «Kim, prendiglielo.» Kim sorrise. Mentre muoveva il primo passo verso David, uno squillo risuonò da qualche parte nella casa. Fu David, stavolta, a sorridere, anche se debolmente. «A proposito di fortuna... Questa dev'essere la polizia.» Dass gli lanciò uno sguardo truce, e si rivolse a Tuta da Ginnastica. «Va' a vedere chi è, ma senza rispondere.» L'altro corse fuori della stanza. Continuando a fissare David, Dass rifletteva sulla mossa seguente. David lo aiutò. «La mia auto è parcheggiata proprio qua fuori», lo informò, amabile. Dass assunse un'aria preoccupata. Tuta da Ginnastica mise dentro la testa e riferì: «Giù in strada ci sono delle auto della polizia». «Ero particolarmente preoccupato che il ladro potesse sopraffarla e impedire alla polizia di entrare. Spero che si siano ricordati di portare l'ariete. Ma presumo che lei non abbia intenzione di aspettare che le buttino giù la porta, vero?» disse David. Ormai il volto di Dass era contratto dall'ira e i suoi occhi sembravano trafiggere David, che scelse proprio quel momento per raddrizzarsi. Tutti si tesero. Ma David si chinò semplicemente verso Dass, offrendogli il cofanetto. «Da parte di Marshall and Liberty, ho il piacere di restituirglielo, Mr Dass. Ci auguriamo, naturalmente, di servirla ancora negli anni a venire, ma purtroppo dovremo rivedere i termini della polizza. Continueremo a rispettare la sua privacy, è ovvio.» Il campanello suonò di nuovo, e stavolta il pulsante venne premuto per alcuni secondi. Un'espressione di fosca rassegnazione adombrò il volto di Dass, mentre lui prendeva il cofanetto. «Andiamo tutti giù ad accogliere i nostri visitatori», disse. Sollevò il coperchio del cofanetto e scrutò il comparto interno. Poi lo richiuse con un colpo secco, porgendolo infine a Tuta da Ginnastica. «William, vuoi prendertene cura, per favore?»
Riacquistata la compostezza, Dass fece strada. «Ma dove sono finite le mie buone maniere? Grazie per il suo aiuto, Mr Braun. Non avrò che parole di elogio per lei, coi suoi superiori. In altre circostanze, avrei pensato di reclutarla...» Si girò a guardare l'Orientale e disse: «Non puoi presentarti alla polizia con quel berretto da baseball, Kim... Che cosa penserebbero?» Spostò lo sguardo verso una porta e Kim, cogliendo al volo l'ordine, s'infilò dentro. Ne riemerse senza berretto, sistemandosi i capelli corti. Mentre scendevano le scale, David scrutò attentamente Dass. E dopo aver superato una finestrella, che lasciava filtrare la luce del giorno sulla scala in penombra, comprese che l'uomo si era tolto il cerchio di metallo dalla fronte. Ma dove l'aveva messo? Quando raggiunsero la porta, Kim tolse la sbarra e spalancò l'uscio. All'esterno, due agenti erano fermi sul gradino; dietro di loro c'era l'ispettore Hammond e, alle sue spalle, si scorgevano numerosi uomini armati. Un secondo gruppo di poliziotti era fermo accanto a una delle tre auto parcheggiate sulla strada. Con loro c'era una donna che indossava una giacca nera e portava una borsa della spesa arancione... era Susan. La donna incontrò lo sguardo di David per una frazione di secondo, poi si girò, dando le spalle alla porta. Dass era già concentrato su Hammond, e lo stava ringraziando profusamente per il suo interessamento. Hammond e i primi due agenti entrarono su invito di Dass. Una volta all'interno, David sgattaiolò via e raggiunse la strada; nessuno gli prestava molta attenzione. Dass e Hammond stavano parlando, mentre gli agenti si guardavano intorno, alla ricerca di qualcosa che catturasse il loro interesse. Scrutarono con sospetto il muscoloso orientale, che li fissò a sua volta. Una volta all'aperto, David gridò: «Ispettore Hammond! Non ha più bisogno di me, vero?» Sollevò le chiavi della macchina, a indicare che stava per andarsene. «Di nuovo congratulazioni, Mr Dass. Preparerò subito la relazione», disse, salutando. David salì in macchina senza aggiungere altro. Susan si trovava a una certa distanza dalla porta d'ingresso, fuori della portata di Dass e dei suoi uomini. Stava parlando con un agente che di tanto in tanto controllava il suo taccuino. Alzò lo sguardo quando l'auto di David si allontanò, e i loro sguardi s'incontrarono. Poi scomparve alla vista e lei continuò tranquillamente a parlare con l'agente al suo fianco. 20
Sabato 19 aprile (qualche ora più tardi) Alcune ore dopo, il cellulare di David squillò. Era seduto alla sua scrivania, negli uffici della Marshall and Liberty, e stava cercando di organizzare una riunione straordinaria coi soci. Benché fosse sabato, parecchi di loro si trovavano in ufficio. Gli altri li stava contattando per telefono. Controllò il display del cellulare: era Susan. La sua scrivania era abbastanza appartata rispetto al salone dove lavoravano gli assistenti, ma lui si girò comunque sulla sedia dando le spalle agli altri per impedire che sentissero le sue parole. «Ciao», mormorò. La voce di Susan era ansiosa. «David? Stai bene?» «Sto bene... sto bene», la rassicurò lui. Fece una pausa, poi riprese a bassa voce: «Avevi ragione. Aveva intenzione di uccidermi». «Oh, sono così contenta che tu stia bene. Voglio dire, ho visto che stavi bene, ma non sapevo se... Avrei chiamato prima, ma non mi lasciavano più andare.» David corrugò la fronte. «Ti hanno tenuto sotto torchio finora?» volle sapere. Guardò l'orologio: erano le tre passate. «No», rispose lei. «Però non volevo chiamarti da fuori. Adesso sono a casa. La polizia mi ha portato alla centrale, dove ho firmato la deposizione sull'irruzione... Ti hanno già chiamato? Perché lo faranno.» «No, non si sono ancora fatti vivi», ribatté David. «Cosa gli hai raccontato?» «Solo quello che avevamo concordato. Che avremmo dovuto andare a pranzo insieme, dopo il tuo incontro con Dass. Ero in anticipo e mi è sembrato di vedere Jan. Mi sono nascosta dietro un cespuglio e li ho chiamati... Però non mi sono mossa finché non ho visto arrivare un'auto della polizia. Naturalmente Dass non ha menzionato la tua versione, visto che gli agenti sembravano abbastanza soddisfatti del mio resoconto.» «Allora sei nei guai perché li hai chiamati per un falso allarme?» chiese. «Loro non pensano che fosse falso», replicò Susan. «Ormai sanno che a Dass stavano riconsegnando il suo tesoro e credono che io abbia visto davvero Jan. E sono convinti che lui sia scappato quando sono arrivate le auto della polizia. Ritengono di essere intervenuti in extremis... Avresti potuto dire semplicemente a Dass che avevi un socio. Ma se poi avesse confrontato le deposizioni con Hammond, avremmo potuto avere dei guai.» «Penso che sia valsa la pena di rischiare», ribatté David. «Adesso sono
ancora più contento che Dass non sappia del tuo coinvolgimento. Perché dargli la possibilità d'infuriarsi con entrambi? È inferocito con me perché non è riuscito a eliminarmi... Lasciamo che creda che sia stato io a chiamare la polizia.» «Ci hanno messo così tanto ad arrivare», disse Susan. «Sono stata io a suonare il campanello la prima volta; non riuscivo più ad aspettare. Dio solo sa che cosa avrei fatto se qualcuno fosse venuto a rispondere. Ma poi, dopo qualche secondo, è arrivata la prima auto della polizia. Mentre aspettavo, impazzivo al pensiero di quello che Dass poteva farti.» Scuotendo la testa al ricordo dell'incredibile esperienza, David disse: «Be', qualsiasi scenario tu ti sia immaginata, dubito che fosse accurato al cento per cento... Sai, mi hai convinto a elaborare un piano, poi hai fatto esattamente ciò che avevi promesso di fare e la polizia è arrivata appena in tempo. Lo devo a te se sono ancora vivo. Quante volte ti ho chiamato, alla fine? Non facevo che premere i tasti CHIAMATA e CANCELLA. Continuavo a pensare che Dass mi avrebbe chiesto di tirare fuori le mani dalle tasche». «Mentre parlavo con gli agenti, ho visto che c'erano nove chiamate senza risposta provenienti dal tuo cellulare... oltre a quella che, in primo luogo, mi ha fatto chiamare la polizia», spiegò Susan. «Sembra assurdo, ma è stato quasi un sollievo. Continuavo a pensare: e se gli prendono il cellulare e io sono qui fuori mentre loro... Be', mentre sta accadendo qualcosa di terribile? Se chiamavi, sapevo che c'era ancora un po' di tempo. Ma in realtà eri entrato da soli due minuti, quando hai fatto la prima chiamata.» «Già, fin dalla prima domanda di Dass ho capito che aveva in mente qualcosa», spiegò David. «Mi stava sondando per capire se qualcuno sapeva dove mi trovavo. Quando il vecchio Bill è arrivato, Dass era giunto alla conclusione che poteva eliminarmi senza che nessuno si accorgesse della mia scomparsa.» «Be', io me ne sarei accorta», puntualizzò Susan. «Sei sicuro che avesse proprio in mente di ucciderti?» «Oh, sì», rispose David con macabro umorismo. «Si è persino dato la pena di spiegarmi perché la mia scomparsa definitiva sarebbe stata un'ottima soluzione per lui. Lo scontro stava diventando fisico, quando il campanello è squillato la prima volta. Aveva con sé un paio di energumeni che non potevano avere altro scopo se non quello di fare del male a qualcuno... non che avesse bisogno di una mano, comunque.» Susan sembrò perplessa. «Come sarebbe? Dass non avrebbe avuto la
minima possibilità di farti fuori da solo, no?» «Io non... Ascolta, non è facile spiegare quello che è successo. Penso che ci sia una spiegazione, ma tu non sei...» «David!» esclamò Susan, esasperata. «Scusa. Non posso parlarne al telefono. Ho bisogno di dirtelo guardandoti in faccia.» «Ma dai, questo succede nei film. Dimmelo adesso», lo canzonò Susan. David fu irremovibile. «Vorrai guardarmi negli occhi quando ti racconterò tutta la vicenda. Credimi.» Abbassò lo sguardo sull'elenco dei soci, controllando i nominativi non ancora spuntati. «Ne avrò ancora per un'oretta. Possiamo vederci?» Susan non gradiva molto quella soluzione, però disse: «Certo. Dove vuoi che ci incontriamo?» David guardò l'orologio e increspò le labbra. «Ho una fame da lupi», confessò. «Puoi venire a Islington? C'è un posto chiamato S&M, sulla Essex Road, a due passi dalla Upper Street.» «S&M?» ripeté Susan, incerta. David scoppiò a ridere. «Non ti preoccupare; sta per sausage & mash* Ce la fai a essere lì per le quattro e mezzo?» «Ci sarò.» «Okay. Ci vediamo dopo», disse David, riagganciando. Quando David entrò, Susan era già seduta a uno dei tavolini azzurri di formica di quel piccolo locale senza pretese. Era arredato in stile anni '50, in uno schema di bianco e nero, con abbondanti cromature. David diede a Susan un rapido bacio sulla guancia prima di sedersi. Lei gli strinse il braccio e gli rivolse un sorriso preoccupato. «Prima di parlare, ordiniamo. Va bene?» disse David. Susan increspò le labbra e socchiuse le palpebre, come a dire che lui stava scherzando col fuoco, ma accettò e rivolse l'attenzione al menu. «Salsicce e purè», lesse, pensierosa. «Oppure salsicce e purè.» Una simpatica cameriera americana prese le ordinazioni. Non appena si fu allontanata, Susan andò all'attacco. «Cos'è questa storia?» sibilò. «Puoi dirmi che qualcuno ha cercato di ucciderti, ma non puoi raccontarmi il resto della vicenda per telefono. Che c'è di peggio di un tentato omicidio?» David fece per parlare, ma non gli uscì nulla. Scrollò le spalle, come se non riuscisse a esprimere ciò che aveva in animo di dire. Susan lo osservava con aria esasperata.
Finalmente lui cominciò a parlare con voce ferma, ma con piglio concitato. «So come ha fatto Jan ad aprire la cassaforte, a fare un salto di dieci metri, a fondere le manette... So come fa. Be', non so come fa, ma so cosa fa... Voglio dire...» «David!» scattò Susan, innervosita, decisa a non fargli perdere il filo del discorso. La sua espressione rivelava che, se lui non fosse arrivato subito al dunque, lei si sarebbe messa a urlare. «Insomma, cos'è successo?» David trasse un profondo respiro. «D'accordo.» Poi espirò e ricominciò. «Dass mi ha inchiodato al muro e mi ha strappato di mano il bastone, e lo ha fatto senza neanche muoversi. L'ho colpito prima che me lo portasse via, ed è semplicemente rimbalzato su di lui... O, meglio, è rimbalzato su qualcosa prima di raggiungerlo. È stato come se avessi tentato di colpirlo senza accorgermi che c'era un muro di mezzo... tranne che non c'era nessun muro. Mi segui?» Susan era sbigottita. «Stai dicendo che l'ha fatto col pensiero? Come in Carne?» ribatté, incredula. «Come?» chiese David confuso. Susan agitò una mano. «Lascia perdere.» Lo guardò negli occhi. «Stai parlando di poteri psichici, di questo genere di cose? Non è possibile che sia stato qualcos'altro? Sei sicuro che non indossasse una specie di armatura?» «Qualcosa mi ha strappato il bastone dalle mani e mi ha inchiodato al muro e Dass non mi ha nemmeno toccato. Non si è neanche mosso», insistette David a bassa voce, ma con un certo fervore. Susan lo fissò, cercando una conferma. Poi si lasciò andare sulla sedia. «Cavolo», esclamò. «Sì, cavolo!» Si sporse di nuovo in avanti. «Sei assolutamente...» «Sono sicuro», la interruppe lui. «Te lo giuro, è ciò che è accaduto. E Dass ha parlato di Jan, sa chi è. Ha detto che è una pecorella smarrita e un esiliato, il che significa che è uguale a Dass. Entrambi possono fare questo genere di cose. Qualunque cosa siano, non credo che siano umani.» Il cibo e le bibite arrivarono, ma nessuno dei due si mosse né ringraziò la cameriera, che se ne andò un po' perplessa. David prese le posate e cominciò a mangiare meccanicamente, come se non fosse consapevole di quello che stava facendo. Susan continuava a fissare un punto oltre le sue spalle. La sua espressione indicava che era totalmente assorta in qualche pensiero. Quando riportò l'attenzione al presente, chiese: «Indossava il tributo... Voglio dire: indos-
sava un cerchio d'oro?» «Non so se fosse d'oro, ma, sì, quando sono arrivato indossava un cerchio di metallo sulla fronte», rispose David. «Se l'è tolto prima di presentarsi alla polizia.» Susan assimilò l'informazione senza fare commenti. Poi David soggiunse: «In realtà, i due gorilla avevano il capo coperto, quindi potrebbero averlo avuto pure loro». Susan sollevò la forchetta e cominciò a mangiare. Dopo qualche secondo la sua espressione cambiò, come se un peso le fosse stato tolto dalle spalle. «A che cosa stai pensando?» chiese David, che aveva notato il cambiamento. «È molto buono», commentò lei scherzosamente, indicando il piatto con la forchetta. «Nessuna riflessione che non sia collegata al cibo?» chiese David in tono stanco. Susan sembrava quasi euforica e sicura di sé. «Non t'innervosire, ma vorrei raccontarti una storiella stupida», replicò. Lui sembrava poco convinto, perciò lei lo rintuzzò: «Tu mi hai fatto aspettare un'ora dopo che hai troncato a metà la telefonata. Adesso capisci come ci si sente?» David annuì. «Molto tempo fa, sul giornale lessi di un tipo che faceva l'istruttore di nuoto», disse Susan. «Aveva un certo talento: bambini impauriti, adulti nervosi... riusciva ad aiutare tutti. Il giornalista chiudeva l'articolo chiedendo all'istruttore se andava spesso a nuotare. E la risposta era: 'Io insegno, non so come si fa'.» E guardò David piena di aspettativa. Lui la fissò con altrettanta curiosità. «E allora? Mi devi dire qualcosa di più.» Susan era entusiasta. «Non capisci? Non sono alieni, ma normali esseri umani.» David continuava a essere confuso. «Che idiota sono stata», esclamò Susan. «Passo tutto il giorno a studiare pagine su pagine di documenti che descrivono persone in grado di fare tutte le cose di cui stiamo parlando, poi rimetto i documenti in cassaforte, esco e ti dico che non ho idea di quel che succede. È come... un cartografo che non riesca a trovare la strada di casa. O un ornitologo che non riesca a capire perché il coperchio di una bottiglia del latte ha dei piccoli fori.» Un barlume di comprensione apparve sul volto di David. «Stai dicendo che dobbiamo trattare la Collezione Teracus...»
Susan non riuscì ad attendere che David finisse la frase e la completò per lui: «... come qualcosa di reale e non di fantastico». Alzò le mani in segno di trionfo. «Forse è così che ci si sente quando, alla fine, si perde il contatto con la realtà. Ma lasciamo perdere per ora la sanità mentale. Perché non smettiamo di cercare la motivazione concreta dietro tutta questa follia, e prendiamo la questione alla lettera? Jan, Dass e i suoi giullari possono fare le cose descritte nei documenti. E il Marker può davvero curare le persone; infatti questo è il motivo per cui lo vogliono. È così semplice.» Adesso Susan mangiava avidamente, ingoiando piccoli bocconi e parlando con la bocca piena. «Dio mio, mi chiedo se i testi sulla longevità siano veri. Santo cielo, ciò spiegherebbe perché l'alchimia è stata così popolare per centinaia di anni... Devo parlarne col professor Shaw.» Poi si oscurò. «Oh, no. Non posso.» «Perché? Ti farebbe rinchiudere in un manicomio?» chiese David. Susan annuì. «Esatto», convenne, con aria delusa. «Be'...» Scrollò le spalle. Poi le venne in mente qualcos'altro. «Merda.» «Che c'è?» volle sapere David. «Tu hai appena fatto a pezzi la mia tesi di post-dottorato. Non posso fingere che la collezione sia allegorica, tenuto conto di quel che so. Ma non posso neanche scrivere una tesi su come funziona realmente la magia. Sono fregata.» David aveva continuato a osservarla mentre lei sciorinava le sue scoperte. Adesso che Susan aveva un'aria abbattuta, prese la palla al balzo per esprimere le sue elucubrazioni. «Va bene, e io che cosa dovrei fare? Dimenticarmi di tutto? Avevamo deciso che, qualunque cosa stesse architettando Dass, gli avremmo restituito il Marker, lasciando che se la sbrigasse con Jan. Ma non posso permettere che lui tenti di uccidermi e dimenticarmi della faccenda. Quali altre scelte ci sono? Tenuto conto, soprattutto, che probabilmente è in grado di farmi fuori con un semplice gesto della mano.» Rimuginò su quelle ultime considerazioni. «Cos'altro pensi che sappia fare? Volare? Trasformarsi in un pipistrello? Segare in due una donna?» «Be', per il momento, darò per scontato che Teracus sapesse ciò di cui parlava», ribatté Susan. «Quindi mi fiderò dei documenti della collezione... e al diavolo tutte le altre cose che ho letto sulla magia. In tal caso, ho del lavoro da fare per rispondere a questa domanda. Che tu ci creda o no, stavo pensando più o meno alle stesse cose quando ho esaminato la collezione per la prima volta.» Mangiò un altro paio di forchettate. «Hai detto che Dass ha alzato una specie di scudo intorno a sé e che poi ha spostato qual-
cosa senza toccarlo. Sembra che Jan sia anche in grado di bruciare le cose. Ho letto un documento che riguarda la guarigione. Penso che questi tizi guariscano molto in fretta e che non si ammalino.» David la guardò, sorpreso. «Be', pur ammettendo che queste cose siano tutte vere... E devo dire che Dass non mi ha lasciato molto margine al riguardo... allora perché preoccuparsi tanto del Marker? Se sono in grado di guarire se stessi usando un banale filo d'oro, allora perché farsi la guerra per il Marker?» «Il tributo comprende un bracciale d'oro su ciascun polso e un cerchio intorno alla testa», lo corresse Susan. «Ma hai centrato il problema. Credo che ci siano ancora alcuni misteri da risolvere. Però forse mi sbaglio, e solo il Marker è in grado di guarire.» Le venne in mente un'altra cosa. «Prova a immaginare se tu avessi attaccato Jan mentre indossava il cerchio. O se io non fossi riuscita a farglielo saltare la prima volta che l'ho colpito.» David annuì. «Penso che sia saggio affermare che non saremmo qui a parlarne. Com'è possibile fermare uno così? Credo che Jan abbia lasciato che gli sparassero, sapendo che non potevano fargli del male... Santo cielo, immagina se si scontrassero loro due.» Susan agitò il coltello. «Apparentemente c'è una regola che glielo impedisce. C'è un intero rotolo sul fatto che non si può attaccare la magia con la magia. Non che si possa credere che gente del genere presti attenzione alle regole, certo. Forse accade qualcosa di terribile se ci provano.» Sospirò. «Sai, dovrò assolutamente rileggere ogni singola parola di quei documenti. La prima volta non ho riflettuto nel modo giusto.» Fece una pausa ed espirò, poi aggiunse: «Che vuoi fare con Dass?» David si strinse nelle spalle. «Anche mettendo da parte il fatto che è ricco, potente e probabilmente indistruttibile e che io non sono nulla di tutto ciò... non vedo che cosa io possa fare. Anche se fosse un uomo normale, sarebbe difficile farlo arrestare. E siccome non è normale, la cosa finirebbe con qualche poliziotto ucciso, ammesso che riesca a convincere la polizia a provarci. Ci rifletterò, ma non vedo una via d'uscita.» «E Jan?» chiese Susan. «Pensi che abbia intenzione di metterci a tacere? Non bisogna essere dei geni per capire che questa gente si affida alla segretezza per sopravvivere. Naturalmente se un po' di gente venisse a conoscenza di quello di cui sono capaci, qualcuno troverebbe il modo di eliminarli. Verrebbero inviati un centinaio di uomini e un carro armato o qualcosa del genere. Il loro potere è di gran lunga più efficace se nessuno sa
che lo possiedono. E, per nostra fortuna, noi conosciamo il segreto. Ma se loro ci tengono sul serio alla segretezza, non vorranno sbarazzarsi di noi?» David rifletté. «Dass conosce soltanto me... o almeno così supponiamo. Magari può pensare che potrei causargli dei problemi sul lavoro. Potrei persino riferire ai miei superiori che ha cercato di farmi fuori. Ma può ben immaginare che cosa succederebbe se lo accusassi di avere poteri demoniaci senza avere una foto che lo ritrae mentre stringe la mano a Satana per corroborare la mia accusa. Posso diffondere la voce che è disonesto, ma non sarò mai in grado di dimostrare le mie affermazioni. Se mi vedono in giro e poi all'improvviso muoio, questa sì che sarebbe una riprova del fatto che voleva eliminarmi... ma a quel punto sai a che cosa mi servirebbe! Farebbe meglio a lasciarmi vivo e a farmi passare per matto.» «E Jan?» insistette Susan. «Non credi che ucciderci entrambi sarebbe l'ultima delle sue priorità?» ribatté David. «Non solo ha la polizia alle calcagna, ma possiamo anche essere abbastanza sicuri che Dass sguinzaglierà qualcuno per cercarlo. Dopotutto Dass sa che la polizia non è in grado di fermarlo. In realtà, potrebbe esserci un piccolo esercito di Dass sulle tracce di Jan... Non abbiamo idea di quali siano le sue risorse. Abbiamo ragione di pensare che soltanto Jan agisca da solo. Aveva il fattore sorpresa dalla sua, quando ha rubato il Marker, ma adesso tutti lo stanno cercando ed è da solo. Non credo che si possa permettere degli appoggi in questo momento.» Susan non parve del tutto convinta. «Uhm», borbottò. «Queste sono tutte supposizioni. Posso anche credere al fatto che Dass farebbe meglio a ignorarti... dubito che un 'tizio delle assicurazioni', come direbbe mia sorella, possa creargli molti problemi.» Rifletté, poi aggiunse: «Ma non ho dimenticato una cosa che hai detto cinque minuti fa. Secondo te, era meglio che Dass non sapesse del mio coinvolgimento, invece ora sostieni che non c'è nulla di cui preoccuparsi». David le rivolse un sorriso mesto. «A ogni buon conto, è Jan che mi dà da pensare. Gli abbiamo veramente sconvolto la settimana.» «Potremmo sempre chiedere aiuto a Dass», suggerì David. «Stai scherzando?» proruppe Susan sbalordita. David scosse la testa. «Pensaci. Se ci desse una guardia del corpo avrebbe maggiori possibilità di trovare Jan che non mettendosi a setacciare la città. Potrebbe lasciare che sia Jan a venire da noi e poi prenderlo. Sarebbe decisamente nell'interesse di Dass tenerci vivi come esca.» «Capisco», convenne Susan. «Ma non posso credere che torneresti dal
tipo che stamattina ha tentato di ucciderti per chiedergli protezione!» «Dolce?» chiese una voce alle spalle di Susan. «Crostata di mele con crema», disse David, il quale, avendo visto la cameriera avvicinarsi, aveva dato un'occhiata alla pagina dei dessert. Susan restò sorpresa dall'interruzione, ma si riprese subito. «Anche per me, ma si può avere il gelato invece della crema?» La cameriera sorrise. «Certo. Non ci sono problemi.» E se ne andò, portando via i piatti vuoti. «Ancora non me la sento di passare alla crostata con la crema», ammise Susan, a disagio. «Comunque, per quanto concerne le prospettive della nostra esistenza, non ho ancora capito bene a che punto siamo. Dobbiamo scappare per salvarci la pelle o è tutto finito? E, in quest'ultimo caso, mi devo considerare licenziata?» «Be', presumo che questo sia un motivo logico per non essere più pagata. Ma ritengo che si tratti di una faccenda che va oltre il lavoro, non credi? Spero che continuerai a parlarmi, anche se non fai più parte dell'organico. Tu continuerai a studiare la collezione, quindi potrai tenermi al corrente di quello che scopri. Se riuscirai a capire qualcosa di più su questa gente, magari ci servirà a metterci l'anima in pace o forse a spiegarci come proteggere noi stessi. Comunque sono sempre convinto di ciò che ho detto. Penso che, per come stanno le cose, a Dass non interessiamo e Jan farebbe meglio a trasferirsi in Uruguay il più in fretta possibile e a cambiare nome.» Mentre mangiavano il dolce, Susan disse: «Dammi qualche giorno. Lo sai cosa si dice dei mutamenti di paradigma, vero? In qualche modo, essi invalidano tutte le cose che pensavi di sapere. Ho circa sette anni di riflessioni da rivalutare». Finì di masticare un altro boccone di crostata, poi aggiunse: «Naturalmente ci dovremo vedere se succede qualcosa, altrimenti ti darò un colpo di telefono...» La sua voce si smorzò. Aveva un occhio semichiuso, come se il gelato fosse troppo freddo o come se le fosse venuto in mente qualcosa di doloroso. «Di tutte le settimane, proprio questa doveva scegliere mia sorella per venire?» «Ascolta, non c'è fretta», la rassicurò David. «Credo che nessuno dei due sia disposto a dimenticare la cosa, ma in realtà non c'è molto che possiamo fare... a parte il tuo studio della collezione. Perché non ti godi la visita di tua sorella? Distraiti e concediti una pausa da questa esperienza mozzafiato. Continuerò ad aspettare una telefonata, pieno di curiosità, anche se tu dovessi metterci un mese invece di una settimana.» La guardò negli occhi.
«Tuttavia preferirei vederti prima.» Le posò la mano sul braccio e glielo strinse leggermente. «Già, nemmeno io riesco a immaginare di stare un mese senza parlarti», ammise lei. «Inoltre, sei l'unico con cui posso discutere di queste cose.» Sul suo viso apparve una serie di emozioni contrastanti. Gli prese la mano. «Quand'eravamo in albergo, io...» farfugliò. «Ah, mi dispiace per quello», si affrettò a giustificarsi David. «Ho frainteso... Ecco, non so proprio che cosa mi stesse passando per la testa.» «Voglio che tu capisca... Voglio dire, non credo di essere riuscita a spiegare...» ritentò Susan. David la interruppe di nuovo. «Davvero, non ti preoccupare. Non mi devi spiegazioni. Se non altro, dopo quello di cui abbiamo discusso...» Ma non finì la frase. Susan annuì. «Be', la cosa importante, presumo, è che siamo ancora qui a parlarci. Una volta o l'altra... Non qui... Sì, una volta o l'altra dovremo fare una chiacchierata, noi due.» Gli strinse la mano, poi la lasciò andare. L'espressione di David lasciava intendere che per lui la questione era chiusa, ma lui chinò la testa e disse: «Va bene». «Intanto, se non vuoi che passi troppo tempo prima di rivedermi, potresti venire a cena», aggiunse Susan illuminandosi. «Diciamo venerdì, così ti faccio conoscere mia sorella.» David sorrise in modo malizioso. «Perché ho la sensazione che questo non sia un invito disinteressato?» «Non hai nulla da temere», ribatté Susan. «Dee è una donna affascinante. Ti piacerà... Race a tutti. È che dopo un paio di giorni cominciamo a darci reciprocamente sui nervi, quindi un po' di sostegno morale e un cambiamento di ritmo mi serviranno per darmi un obiettivo. Vuoi dare una mano a un'amica e accettare l'invito?» «Lo farò con molto piacere», dichiarò David. * Letteralmente «salsiccia e purè». La perplessità di Susan deriva dal fatto che, in inglese, S&M significa «sadomaso». (N.d.T.) 21 Venerdì 25 aprile (sei giorni dopo) Il sole era basso sull'orizzonte quando David si fermò davanti alla villet-
ta signorile, apparentemente deserta, dove aveva già indugiato alcuni minuti prima. «Dev'essere questa», mormorò. Si trovava in una stradina della City, fiancheggiata da due file di villette tutte uguali. Iniziava come una scorciatoia poco promettente a senso unico tra la sede di una banca e una società di spedizioni. Una trentina di metri prima, svoltato un angolo, la stradina si apriva e c'erano alcune case, tre su ciascun lato, nascoste al mondo. C'era appena spazio a sufficienza per ospitare un trasformatore dell'azienda elettrica recintato, prima che la viuzza finisse col muro posteriore di una chiesa del XVII secolo. Fermo davanti alla prima casa sulla sinistra, David salì i sei gradini che conducevano a un portone. Suonò il campanello. All'interno si udì l'eco dello squillo. Attese. Indossava giacca e pantaloni blu, e una camicia di cotone rosso scuro, senza cravatta. In mano reggeva un pacchettino avvolto in carta dorata, col nome di una famosa pasticceria, rinomata per i suoi cioccolatini, stampato sul nastro. Alla destra della porta c'era un bovindo; dietro un'elegante grata in ferro battuto, le imposte di legno erano chiuse. Sotto il bovindo, il selciato s'interrompeva all'altezza dell'inferriata e David riuscì a intravedere l'interno da una finestrella che si apriva alla base del muro. Rialzò lo sguardo quando la porta si aprì. Sull'uscio apparve una donna magra che prese a studiarlo; era vestita di nero e reggeva in mano un bicchiere di vino. Indossava una corta e aderente gonna di lana, che rivelava lunghe gambe avvolte in collant scuri; un maglioncino di lana merino con una profonda scollatura a V le aderiva al busto. Il volto era una versione più. pallida e delicata di quello di Susan; aveva gli stessi occhi azzurri, ma i serici capelli neri erano più lunghi e ricadevano diritti fino a lambire le spalle. Sorrise a David con labbra dipinte di rosso scuro e bevve un sorso di vino. «Salve», salutò David. «Sei Dee?» Dee sorrise di nuovo senza rispondere. Teneva il bicchiere vicino alla bocca con entrambe le mani e fece tintinnare un paio di volte il bordo contro i denti bianchissimi, come se stesse pensando a qualcosa. La luce fece scintillare lo zaffiro che portava sulla narice destra. Quando David cominciò ad arrossire, lei sollevò le sopracciglia per una frazione di secondo e tese la mano. «Oh, scusami. Devi essere David», disse. Il suo accento newyorkese era melodioso e un po' roco nel contempo.
Si strinsero la mano, poi Dee lo invitò a entrare. «Vieni. Susan è in cucina.» Gli lanciò un'occhiata da sopra la spalla e aggiunse: «Andiamo a prendere da bere». Entrarono in un vestibolo avvolto dalla penombra, tutto in legno scuro. La casa odorava un po' di muffa, ma non era sgradevole... Era un odore di casa vecchia, però non trascurata. Alla loro sinistra c'era una scala, mentre alla destra si dipartiva un corridoio che conduceva sul retro. C'era anche una porta aperta, dalla quale provenivano la luce e le note di una musica reggae. Seguirono la musica. Susan stava cucinando. Quando oltrepassarono la porta, lei stava controllando il contenuto di diversi tegami di alluminio - piuttosto grossi e dall'aria vecchiotta - che stavano ribollendo su una cucina immacolata di colore beige, che ricordava gli elettrodomestici degli anni '50. Il volto di Susan era più colorito del solito e il vapore le aveva incollato alcune ciocche di capelli sulla fronte. La camicetta di seta bianca era appiccicata alla schiena. Mentre David entrava in cucina, Susan alzò lo sguardo e gli rivolse un sorriso teso, che venne brutalmente interrotto da un sibilo proveniente dalla cucina a gas. Un po' d'acqua era fuoriuscita da un tegame e si era riversata sulle fiamme del fornello con uno sfrigolio. «Mirate, la casalinga del futuro», annunciò Dee con una voce mielosa da annunciatrice pubblicitaria. David scoppiò a ridere. «Con gli ultimi ritrovati dell'era spaziale a sua disposizione, la cena del maritino sarà pronta in un battibaleno, lasciando alle ragazze più tempo per spettegolare.» Sollevò una bottiglia di vino rosso. «Merlot?» chiese a David, soggiungendo a bassa voce: «Susan ha le chiavi della cantina. Quanto ad alcolici, siamo milionari». «Grazie», rispose David, poi, rivolgendosi a Susan disse: «Posso fare qualcosa?» «Non credo...» ribatté lei, ma uno schianto proveniente dal forno la interruppe. Un'espressione di panico le attraversò il viso mentre correva alla ricerca di una pattina. Dee gli strizzò l'occhio. «Be', adesso sapremo se il piatto è a prova di forno o no.» Imprecando, Susan aprì lo sportello del forno e sbirciò dentro. Dee bisbigliò a David: «Perché non facciamo un giro della casa?» Poi, alzando il tono, disse a Susan: «Ti lasciamo alle tue faccende, tesoro».
Quindi porse a David un bicchiere di vino e lo prese sottobraccio. «Vuoi vedere la cantina?» propose. Venti minuti più tardi, Susan li chiamò perché scendessero a mangiare. Dee aveva mostrato a David le camere da letto e l'attico dal quale s'intravedeva uno scordo della cupola di St. Paul. Per la maggior parte del tempo aveva raccontato a David aneddoti buffi sulla sua infanzia e su quella di Susan. Quando scesero le scale, i due stavano ancora ridendo. Susan li sospinse nella sala da pranzo vecchio stile sul retro della casa. Due piccoli candelabri diffondevano un languido e morbido lucore sulla tavola coperta da una tovaglia di lino, come se l'elettricità appartenesse a un'epoca di là da venire. L'impressione generale era di un'isola di luce che baluginava al centro di una stanza piena di ombre. «Sembra Natale», commentò David, mentre prendeva posto. Dee e David si sedettero, mentre Susan fece un paio di viaggi avanti e indietro dalla cucina per portare i vassoi con le vivande: petto di pollo in salsa rossa piccante, fagiolini, carote e cavolfiori. Dai vassoi si levavano nuvole di vapore. «Sono abbastanza sicura di aver tirato fuori tutto il servizio di porcellana», annunciò, mentre riempiva i piatti. «Ha un aspetto fantastico», commentò David, mentre Susan si sedeva e li invitava a mangiare. «Accidenti, non ho più mangiato cavolfiori da quando li cucinava la mamma», esclamò stupefatta Dee. «Te ne ho dati pochi», la rassicurò Susan. «Lo so che non ti piacciono molto.» «Squisito», commentò David, dopo il primo assaggio. Susan sorrise, compiaciuta. «Ti meriti un bicchiere di vino, sorellina. Un'ottima cena», si complimentò Dee, prendendo la bottiglia. Ebbe una vaga esitazione. «Uhm, è consentito il vino rosso col pollo? Non si tratta di uno scioccante faux pas?» Guardò David in attesa di una risposta. «Facciamo i contadini», ribatté lui, sollevando il bicchiere e brindando alle due donne. «Mi dispiace, i fagiolini sono un po' crudi. Lasciateli pure», si scusò Susan. «Sciocchezze», interloquì David con calore. «È tutto buonissimo.» Dee alzò lo sguardo. «Ricordi quando hai cucinato la cena per il giorno
del Ringraziamento?» disse a Susan, lanciando un'occhiata a David. Susan si ritrasse con un'espressione imbarazzata. «Avevo solo dodici anni, Dee», mormorò. «Quasi tredici», la punzecchiò Dee. Distese le mani in modo teatrale, indicando i titoli di giornali immaginari e annunciò: «'Famiglia di quattro persone si suicida con la salmonella.' Pensaci, anche quella volta c'era il pollo», puntualizzò Dee col tono di un detective che abbia scorto un indizio importante. David scoppiò a ridere. «Dai, Dee, piantala», la invitò Susan, un po' seccata. La donna alzò le mani in segno di resa. «Scusa. Non bisogna mai prendere in giro i cuochi. Troppo facile per loro vendicarsi. Parliamo di qualcos'altro.» Guardò David, appoggiando il mento sulle mani e sospirando. «Allora, David... Lavori nel campo delle assicurazioni. Dev'essere affascinante.» I suoi occhi ebbero un guizzo d'ironia. David era divertito e, fingendo di sentirsi lusingato, ribatté: «Oh, è proprio così. Un lavoro affascinante, spesso pericoloso, ma almeno ci si sente vivi. Sono così contento di non aver deciso di fare l'astronauta». Sollevò un sopracciglio, poi chiese: «E tu? Susan mi ha detto che consegni giornali, giusto? Dev'essere un lavoro interessante». E si appoggiò allo schienale, in attesa della reazione. Stavolta toccò a Dee sorridere e, nella sua espressione, c'era qualcosa di più di una vaga malizia. In tono sarcastico, ribatté: «Be', al momento mi costringono a scrivere, purtroppo. E, cosa ancor peggiore, si tratta di riviste e non di quotidiani. Ma non mi faccio scoraggiare. Tra qualche anno, riuscirò a passare dalla rubrica 'moda e spettacolo' a quella sportiva, dopodiché spero di entrare nella redazione di qualche giornale locale. A quel punto, sarà solo questione di fare domanda per una di quelle piccole edicole che si trovano fuori delle stazioni della metropolitana. Certo, loro preferirebbero farti guidare un trabiccolo per qualche anno, prima di affidarti un'edicola, ma io ho mandato una confezione di guanti senza dita al commissario per le vendite esterne, in occasione del suo compleanno, e diciamo che nutro buone speranze». Increspò le labbra in un sorrisetto soddisfatto, divertita dal suo stesso acume. David stava sogghignando. «Davvero?» esclamò. «Ma è meraviglioso! Hai già deciso con che cosa terrai fermi i giornali?» Fece uno svolazzo con la mano. «Un sacco di gente pensa che debba essere una grossa pietra o una mezza tegola, ma io sono sempre stato convinto che la cosa ideale sia un bel pezzo di ferro. Sai, un rottame preso da una vecchia auto, qualcosa
del genere.» Dee annuì con fare serio, ma alzò un dito, dicendo: «Non dimenticare gli inverni di New York; il metallo può diventare molto freddo al tatto... almeno finché non ti scoli un bel po' di whisky. È un po' prematuro prendere una decisione definitiva, ma ultimamente ho sentito ottimi pareri sui materiali compositi». David scoppiò a ridere. Dalla sua posizione a capotavola, Susan annunciò: «C'è ancora del pollo, se qualcuno lo vuole. David?» Lui distolse lo sguardo da Dee, posandolo su Susan. «Oh, sì. Fantastico, grazie», rispose. Poi tornò a rivolgersi a Dee. «Forse quello va bene negli Stati Uniti, ma penso che qui da noi la gente non sia ancora pronta per le novità. Siamo molto tradizionalisti.» «Credo che tu abbia ragione», convenne lei. «Di certo c'è un sacco da imparare. Vuoi sapere qual è la cosa che mi preoccupa di più in questo momento?» gli confidò con un'espressione ansiosa. «Far crescere bene i baffi.» Posò un dito sotto il naso. «Li sto facendo crescere da otto mesi ormai e non vedo miglioramenti.» Protese il labbro superiore, come quando un cavallo afferra una zolletta di zucchero, per mostrarlo a David. Lui si allungò sul tavolo, socchiudendo le palpebre. Allora Dee si alzò e, allungando il collo, continuò a protendere il labbro e, nel contempo, cercò di parlare. «Vedi? Vedi?» In quel momento, Susan tornò e mise davanti a David un piatto ricolmo. Lui scosse la testa. «Io non mi preoccuperei se fossi in te. Va bene così. Aspetta ancora un paio di settimane.» Dee lanciò un'occhiata a David, poi disse a Susan: «Spiritoso, il ragazzo. Mi piace». Mentre Susan tornava a sedersi, Dee e David si misero a ridere e lei li osservò entrambi, sentendosi un po' esclusa. David notò la sua espressione e ridivenne serio. «Allora, cos'hai fatto vedere a Dee? Le solite cose?» La sorella rispose per lei. «Siamo andate a fare shopping e ci siamo divertite, ma non abbiamo ancora visitato nulla.» «Sono stata molto occupata questa settimana...» si giustificò Susan, lasciando intendere che si sentiva in colpa. «Inoltre, Susie non è molto più inglese di me. Abbiamo bisogno di una guida locale», azzardò Dee. «Be', potrei darvi una mano. Ho vissuto a Londra per la maggior parte
della mia vita e, sebbene di fatto non abbia mai visitato i luoghi più famosi, penso di aver assimilato una bella dose d'informazioni. Magari domani potremmo andare a St. Nelson's Square, e domenica alla Buckingham Cathedral. Che ne dite?» «Vedi?» ridacchiò Dee, rivolta a Susan. «Te l'avevo detto che non sapevi i nomi giusti. Ascolta l'esperto.» Susan aveva un'espressione strana e ribatté con riluttanza: «Domani devo proprio andare all'università». «Susan, è sabato», sottolineò David. Un lampo d'irritazione attraversò il volto di lei. Fissando David, disse: «Ci sono delle cose importanti su cui sto lavorando». Con immutato entusiasmo, Dee propose: «Potremmo andarci noi!» E indicò se stessa e David. David mantenne un'espressione neutra; ovviamente aspettava che Susan prendesse una decisione per lui. «Dai, possiamo, possiamo?» cominciò a insistere Dee, saltellando sulla sedia. «Prima mi occuperò di tutte le faccende stupide.» David scosse la testa lentamente e, guardando in tralice Susan, disse: «Be', forse dovremmo aspettare che Susan abbia un po' più...» Ma lei lo interruppe. «Andate voi. Magari vi raggiungo più tardi, quando ho finito.» I loro piatti erano vuoti e Susan si apprestò a liberare il tavolo. Dee si alzò per darle una mano. «Ehm, preferisci che facciamo un altro giorno?» chiese David a Susan. «Ha detto di andare, e allora andiamo», protestò Dee. «Qual è il problema? Mica la lasciamo a casa da sola. Ha da fare.» David continuò a guardare Susan, studiandola in cerca di un segno di disapprovazione. «Che cosa vuoi da me?» sbottò lei, esasperata, notando il suo sguardo. «Andate. Divertitevi.» Poi, più pacatamente, disse: «Ti farò sapere quello che ho scoperto». David non sembrava entusiasta di quella soluzione, ma Dee era già passata a un altro argomento. Mentre ritirava i piatti di Susan, annunciò: «Il dolce l'ho comprato io. L'ho persino tirato fuori dal freezer per farlo scongelare, senza l'aiuto di nessuno. Susan, tu stai seduta, ci penso io». E se ne andò in cucina. Susan si risedette. Fu David a rompere per primo il silenzio che era sceso su di loro. «Allora, come procede la ricerca?» chiese.
«Bene. Be', abbastanza bene. Ci sono ancora milioni d'interrogativi, ma credo di aver scoperto qualcosa... Dovremmo proprio trovare un momento per parlarne.» David annuì. «Magari posso dire a Dee che domani ho da fare», disse in tono un po' esitante. «Accidenti!» sbottò Susan. «Lasciami in pace, per favore. Non sono tua madre; non hai bisogno del mio permesso per fare le cose. Pensavo che questo aspetto l'avessimo risolto.» David la guardò, frastornato. «Scusa, volevo solo dire...» Dee ritornò con grande disinvoltura. «Ti piace la cheesecake, vero? Ma che cosa sto dicendo? A tutti piace la cheesecake.» Era ignara della tensione tra David e Susan. «Fetta grande? Fetta piccola?» chiese alla sorella. Una cheesecake impressionante troneggiava davanti a Dee, che agitava una paletta, indicando la grandezza delle fette. Susan distolse lo sguardo da David. «Non ho più fame, grazie», rispose con una scrollata di spalle. Dee si corrucciò. «Impossibile. Be', da te torniamo dopo. David?» Lentamente l'implacabile buonumore di Dee disperse l'imbarazzo degli altri due. Ben presto David ricominciò a scherzare con lei, anche se non con lo stesso entusiasmo di prima. Susan era ancora silenziosa, ma accettò una fetta di dolce, poi si lasciò prendere in giro dalla sorella, quando ne chiese una seconda porzione. Dopodiché Susan andò a preparare il caffè, mentre Dee apriva le antine di un mobiletto, rivelando una serie sorprendente di alcolici e liquori arcani. Si lambiccarono sull'etichetta di una grande bottiglia arancione dal collo ritorto. Quando Susan fu di ritorno con la caffettiera e le tazze, sottobraccio aveva la scatola di cioccolatini che aveva portato David. La sollevò, dicendo: «Ho trovato questa». «Oh, sì», commentò David. «Ho pensato che a voi ragazze piacesse il cioccolato.» Susan e Dee gli rivolsero lo stesso sguardo indulgente. Susan diede un'occhiata alla bottiglia dal collo ritorto e tradusse l'ingrediente principale: violette. La bottiglia venne subito rimessa nel mobiletto, come un'altra verde, di forma esagonale, con alcuni ideogrammi sull'etichetta. Un'annusata al contenuto fu sufficiente a far decidere a tutti che sarebbe stato difficile, se non pericoloso, berne anche solo un goccio. «Probabilmente serve a pulire il mobiletto. Ecco perché è lì. Un errore comprensibile.»
«Io invece penso che lo si debba sventolare sotto il naso di uno che ha alzato troppo il gomito con roba regolare», suggerì Dee. «E, se non funziona, probabilmente lo si può far ubriacare con quello... ha una doppia azione», intervenne Susan. David schioccò la lingua e Dee annunciò: «Susie, hai fatto una battuta. Significa che mi hai perdonato per aver tirato fuori la storia della cena del Ringraziamento? Anzi mi correggo: per averla menzionata. Va da sé che, all'epoca, l'abbiamo veramente tirata fuori». David scoppiò in una grassa risata. Susan alzò gli occhi al cielo, ma sembrò divertita. «Lo prendo per un sì», disse Dee. L'umore rimase allegro mentre allontanavano le sedie dal tavolo e continuavano ad assaggiare il contenuto delle bottiglie stipate nel mobiletto. Verso le undici, David annunciò che se ne sarebbe andato, la qual cosa avviò una discussione con Dee in merito a dove e come incontrarsi il giorno dopo. David fece un altro tentativo per coinvolgere Susan, suggerendo che lui e Dee s'incontrassero nel tardo pomeriggio, soluzione che avrebbe dato a Susan tutto il tempo per finire il suo lavoro e magari raggiungerli. Si accordarono per trovarsi davanti al London Eye, alle quattro. Mentre lui ripercorreva la viuzza, salutando con la mano, Dee rimase sulla soglia a ricambiare il saluto, mentre Susan si ritirò subito in casa. Quando raggiunse la metropolitana, David aveva un'aria felice, ma anche pensierosa. 22 Venerdì 25 aprile A un centinaio di metri dall'ingresso dell'abitazione di Alessandro Dass, c'era una casa in stile tardo georgiano abbastanza grande da poter essere definita una magione. Si trovava dietro un alto muro di mattoni, che si alzava sino a fiancheggiare un grande cancello di ferro artisticamente lavorato, per poi abbassarsi di nuovo verso il lato più lontano della proprietà. Il cancello a due battenti - completo di citofono e di telecamera a circuito chiuso - consentiva a quelli che passavano davanti alla casa d'intravedere un edificio destinato a ospitare persone veramente ricche. Il primo dei tre magnifici piani della villa era cinto da un'impalcatura. Pesanti teli di plastica ricoprivano diverse finestre, alle quali erano state
levate le intelaiature. Di fronte alla casa, sul vialetto di sabbia e ghiaia, era parcheggiata una benna. Due passerelle di legno consentivano agli operai e alle carriole di attraversare il prato per raggiungere la benna senza calpestare l'erba. La casa era disabitata. Al pianterreno le pareti erano state scrostate, mettendo a nudo l'intonaco, mentre i pavimenti mostravano solo le tavole di legno; in alcuni punti persino quelle erano state rimosse. Gli altri due piani erano ancora intatti, ma senza mobili. Le porte che conducevano ai piani superiori della casa erano sigillate. La linea del tetto, che in origine correva diritta, parallela alla strada, era diventata più articolata, seguendo gli ampliamenti della casa. Adesso comprendeva una serie di piani geometrici e angoli dove le estensioni incontravano la costruzione originaria. Nascosto tra due vertici del tetto, un uomo era sdraiato sulla pancia e guardava verso la strada. Indossava una tuta leggera di Gore-Tex e un paio di scarpe da tennis alte, entrambi scuri. Alla sua destra giaceva uno zaino aperto. Un cellulare, un cannocchiale e una bottiglia d'acqua erano appoggiati sopra. L'impugnatura di un lungo strumento fuoriusciva dal lembo aperto dello zaino. Il cellulare cominciò a vibrare e l'uomo lo afferrò, controllando rapidamente il display prima di rispondere. In tono amabile, disse: «Buon pomeriggio, Edward». La voce di una persona non più giovane e carica di tensione rispose: «Sì, sì, Jan? Ho qualcosa per te». «Ben fatto, Edward. Dimmi tutto», ribatté con calma Jan. Edward continuò a parlare in modo affannato, quasi balbettando. «Ho tenuto d'occhio quelle uscite, come avevi chiesto. Ho acquisito informazioni su certi biglietti aerei. Sembra che sia proprio il tuo gruppo. Prima classe per Roma Fiumicino con la British Airways. Il volo è per domani, alle 19.35. AZ209.» Edward fece una pausa prima di chiedere: «Che ne vuoi fare di queste informazioni? C'è niente che io debba sapere?» «Diciamo solo che sarà meglio far sparire qualsiasi traccia del tuo interessamento per l'uomo e per i suoi affari», rispose Jan, placido. «Un sacco di gente farà domande su Mr Dass entro la fine della giornata di sabato. Sarebbe meglio che, per allora, qualsiasi legame con te sia cancellato.» «Cristo!» sbottò Edward. «Che cos'hai in mente? Hai intenzione di coinvolgermi? Sono fregato?» Era inquieto, ma nel suo tono si coglieva ancora una punta di deferenza. Jan si girò sulla schiena e alzò lo sguardo verso il cielo. «Se c'è qualche
problema, Edward, sono sicuro di avere abbastanza tempo per fare un salto dalle tue parti e stritolarti con le mie mani», replicò con veemenza. «Dimmi solo se trovi penoso il fatto di essere ben pagato e di continuare a respirare.» Edward non riuscì a proferire parola per qualche secondo. «Non è il caso. Non è il caso», riuscì poi a farfugliare. «Si tratta solo di essere preparati. Più cose so di quello che sta succedendo, meglio riesco a gestire la situazione. Continuerò a esserti utile. Se sono a conoscenza dei fatti, intendo dire. Capisci?» «Calmati, Edward», lo rabbonì Jan. «Mi dispiace di aver detto qualcosa che ti ha innervosito.» Ridacchiò. «Dopotutto, se continuo a minacciarti, magari finirai col pensare che ti. ucciderò comunque vadano le cose, e allora sì che la situazione si farà davvero tesa.» Edward ammutolì. Allora Jan aggiunse: «No. Forse è meglio che continui a darti da fare per essermi utile. Aiuta entrambi a restare concentrati». Anche stavolta Edward non proferì parola. L'unico suono dall'altro capo della linea era un respiro intermittente. «Oh, non è che per caso sai da quale terminal parte il volo, vero?» chiese d'un tratto Jan. «D... d...» balbettò Edward. «Se pensi di non riuscire ad andare oltre la prima sillaba, posso suggerirti di saltare la parola 'terminal' e dirmi solo il numero?» Dopo un breve silenzio, l'altro ripeté: «D... d...» «Stai tentando di dire 'due'? I voli della British partono dal terminal due, ultimamente?» «Sì. Due. È il terminal due», annaspò Edward. Jan non sembrò molto sorpreso. «Ottimo. Ho fatto bene a chiederlo, vero? Si poteva creare una certa confusione... Penso che per il momento sia tutto, Edward. Ti chiamerò se ho bisogno di altro. Non te la prendere, amico.» E riagganciò. Poi fece una chiamata. «Al, sono Jan.» «Jan?» esclamò l'altro, in tono piacevolmente sorpreso. «Santo cielo, è una vita che non ci si sente. Hai bisogno di qualcosa?» «Sì, e non ho molto tempo», rispose Jan. «Be', dimmi che vuoi e vedrò cosa posso fare.» Chiacchierarono per un paio di minuti, dopodiché Al rilesse la lista che Jan gli aveva dettato: «Un fucile mitragliatore M16, un lanciagranate
M203 con attacco per M16, due granate da 40 mm, più un clip caricatore da 20 colpi M995 AP». «Mi sembra tutto. Ne ho bisogno per domattina. È un problema?» chiese Jan. Al scoppiò a ridere. «È un peccato che tu non ne voglia cinquecento. Dal punto di vista tecnico, è tutta roba obsoleta, questa... anche se ti ammazza lo stesso. Ce n'è a bizzeffe in giro. Deve passare qualche controllo?» «Be', custodie e proiettili, naturalmente. È un problema se qualche congegno rileva il mitragliatore?» Al rise di nuovo. «Non dovrebbe. Questi sono giocattoli che puoi spedire su ordinazione negli Stati Uniti.» Poi fece una pausa. «Ascolta, perché non se ne occupa quel tizio, come si chiama? Il ragazzo? Non hai avuto un battibecco con Mr Dass, vero?» «In questo modo si risparmia tempo. Prima che ti spiegavo ciò di cui avevo bisogno... Lo sai come funziona», rispose Jan con noncuranza. «Va bene. Ma non sei un po' troppo vecchio per questo genere di divertimenti, Jan? Io so di esserlo. I miei due ragazzi adesso si occupano quasi di tutto. Sai che, il prossimo mese, tocco i sessanta?» «Non dirmelo», commentò Jan, vagamente spazientito. «Be', faremo una chiacchierata come si deve quando avrò chiuso questa faccenda.» «Ho capito. Sto parlando troppo, eh? Sicuro di non aver bisogno di un mirino telescopico? Magari di un'arma da portare al fianco o di una spada? Hai ancora quell'aggeggio giapponese?» Jan rifletté. «Lo sai come vanno le cose ultimamente, e forse hai ragione.» Aggiunse qualche altro articolo alla lista e Al lo rassicurò che sarebbe stato tutto pronto per il mattino dopo. Molte ore più tardi, dopo il tramonto, un'auto si fermò davanti alla casa di Dass. Era un'enorme Mercedes nera modello 500SEL. L'autista rimase al volante, col motore in folle, mentre un secondo uomo scendeva e attraversava la strada. Diede le spalle al muro della casa e lentamente girò la testa di centottanta gradi, prendendo nota di ogni dettaglio dell'ambiente circostante. Quando ebbe completato la perlustrazione, bussò due volte alla porta, che si socchiuse. Dass scese dall'auto e si diresse verso la casa; la pesante porta si aprì all'ultimo momento per lasciarlo entrare. Solo quando Dass fu all'interno, l'autista spense il motore e scese dall'auto. Chiuse le portiere, infilandosi in tasca le chiavi, e lui e l'uomo che sorvegliava la strada scomparvero nella
casa. Per quindici minuti non ci fu nessun movimento all'esterno. Poi un uomo che indossava pantaloni scuri, stivali e una giacca sportiva, chiaramente non della sua taglia, si avvicinò alla casa, preceduto da un terrier spelacchiato al guinzaglio. Il cane tirò il guinzaglio per annusare i pneumatici della Mercedes. L'uomo si fermò e tirò una boccata di sigaretta, poi mormorò al cane: «Vieni», e strattonò senza molta convinzione il guinzaglio. Il cane continuò a esaminare la ruota posteriore dell'auto. L'uomo mosse un passo verso l'auto, si piegò su un ginocchio e disse al cane: «Adesso basta, vieni via». Allungò una mano per prendere il collare e, prima di afferrarlo, con un gesto rapidissimo agganciò qualcosa al cerchione interno della ruota posteriore. Infine tornò sui suoi passi, col cane che lo seguiva senza protestare. Dopo alcuni metri, buttò via la sigaretta, fumata a metà, e la schiacciò sotto il piede. Condusse il cane lungo la strada ormai quasi buia, poi svoltò in un vicolo. Dopo una cinquantina di metri, si abbassò dietro una siepe. Tra la siepe e uno scomposto cespuglio d'idrangea, c'era un uomo immobile, in posizione supina. Era senza giacca e aveva le braccia e le gambe aperte. L'uomo col cane infilò l'anello del guinzaglio nel piede dell'altro, sollevando un poco la gamba per far passare la cinghia sotto il polpaccio. Mentre effettuava queste operazioni, il piede ebbe un tremito. Accanto all'uomo privo di sensi c'era una giacca a vento nera. L'altro si tolse la giacca sportiva e, dopo averla lasciata cadere sul volto della figura supina, s'infilò la giacca a vento. Poi si chinò per estrarre il portafoglio dalla tasca posteriore della giacca. Infine ritornò sulla strada principale, allontanandosi sempre di più dalla casa di Dass. Dopo un centinaio di metri, mentre superava un cestino dei rifiuti, vi buttò dentro un pacchetto di sigarette Dunhill quasi intero, un accendino e il portafoglio. Il giorno dopo Era pomeriggio inoltrato allorché un sudicio furgone Transit bianco, con un'ammaccatura arrugginita su una fiancata, rallentò in prossimità di un cavalcavia che sovrastava una delle uscite principali verso l'aeroporto di Heathrow; lungo la tangenziale, dieci metri più sotto, il traffico continuava a scorrere veloce sulle tre corsie. Quando il motore si spense, il furgone sterzò verso il ciglio della strada, andando a fermarsi al centro del cavalcavia. Subito dopo si accesero i lam-
peggianti. Il guidatore del Transit, che indossava una tuta di pelle da motociclista, scese e aprì il cofano. Per qualche minuto studiò con indifferenza il motore, tenendo aperto il cofano con una mano rivestita da un guanto di latice. Dopodiché alzò la sbarra che lo teneva in posizione, riprese posto al volante e chiuse la portiera. Sollevando una copia del Sun, che si trovava sul sedile del passeggero, scopri una scatola nera nella quale c'erano diversi interruttori e quadranti. Un indicatore al centro dello strumento era calibrato da 1 a 100. L'ago sì trovava appena sotto il 50. L'uomo guardò la scatola, poi vi ripose sopra il quotidiano. Scese di nuovo dal veicolo, fece mezzo giro e, con un leggero sforzo, apri il portellone laterale. All'interno, c'era una motocicletta, fissata al pavimento da robuste cinghie agganciate ad anelli disposti agli angoli del sudicio pannello di metallo. Dopo essere entrato, richiuse quasi completamente il portellone. Subito dietro i sedili anteriori, una cassetta degli attrezzi era stata saldata in modo rudimentale. L'uomo estrasse una chiave dalla tasca della giacca e aprì il lucchetto della cassetta. Sollevò il coperchio e ci lasciò cadere dentro il lucchetto. Guardò l'orologio e si sporse sul sedile del passeggero per controllare il quadrante nascosto. L'ago adesso indicava 70. A quel punto, sciolse le cinghie che tenevano legata la moto, e la spostò finché la ruota anteriore non fu quasi a ridosso delle porte posteriori, poi l'appoggiò al cavalletto. Infilò la chiave nel quadro di avviamento. Quindi fece scorrere il chiavistello delle porte posteriori, lasciando uno spiraglio di circa cinque centimetri, attraverso il quale si poteva osservare il traffico che scorreva in basso. Osservò le macchine, chiudendo prima un occhio poi l'altro, quindi aprì il portellone di qualche centimetro ancora. Controllò di nuovo il dispositivo sul sedile anteriore. Quando l'ago fu su 80, il guidatore alzò il coperchio della cassetta e ne estrasse un cilindro di metallo, che posò per terra. Poi tolse un cerchio d'oro dal suo cofanetto e lo appoggiò accanto al cilindro. Un lungo e sottile tubo nero, con un attacco a una estremità, seguì il cerchio. L'uomo lo mise a tracolla, con l'attacco rivolto verso l'alto, usando la cinghia integrale. Infine prese il mitragliatore. Si avvolse la cinghia intorno al polso e all'avambraccio sinistri, posando il calcio contro la spalla. Fece scattare entrambe le sicure e sbirciò attraverso lo spiraglio, tenendo la punta della
canna dentro il furgone. Attese. Passarono parecchi minuti e il flusso di auto continuava a scorrere. Il cecchino manteneva lo sguardo fisso sul traffico sottostante. Una Mercedes nera apparve in lontananza. Viaggiava sulla corsia esterna e si stava avvicinando velocemente al cavalcavia. Il cecchino allungò una mano dietro di sé e accese la moto. Lo starter elettrico emise un rapido ronzio, mentre il motore si accendeva, per poi mantenere un borbottio costante. Il cecchino tornò a scrutare la strada sottostante. Trasse alcune profonde boccate d'aria attraverso lo spiraglio per poi espirare con forza. Sistemò meglio il mitragliatore sulla spalla e lo puntò sulla Mercedes in avvicinamento. La canna si abbassò lentamente. L'uomo tenne l'arma puntata sul veicolo finché il profilo dell'autista non fu visibile dietro lo spesso parabrezza. Quando il cecchino premette il grilletto, l'auto si trovava a un centinaio di metri di distanza. All'interno del furgone, il boato fu assordante. Il fucile sparò tre colpi in rapida successione. Il primo incrinò lo spesso parabrezza di policarbonato della Mercedes senza infrangerlo. Il secondo e il terzo colpo lo trapassarono, colpendo l'autista e andando a conficcarsi nella parte posteriore della carrozzeria. Non appena ebbe sparato, il cecchino si gettò il mitragliatore dietro la schiena e spalancò il portellone. Le guide arrugginite stridettero. L'uomo saltò sul selciato e imbracciò di nuovo il mitragliatore, puntandolo oltre il parapetto e verso il traffico. Con un uomo morto al volante, la Mercedes sbandò, finendo nella corsia centrale dove urtò una Fiat Uno. Questa, a sua volta, fu costretta a spostarsi sulla corsia interna, dove mancò per un soffio un taxi nero. Il guidatore della Fiat frenò di botto, provocando un tamponamento a catena. Il cecchino puntò l'arma contro la Mercedes fuori controllo e spostò la mano sul lanciagranate montato sotto la canna del mitragliatore. Quindi premette il grilletto. Una granata da 40 mm proruppe dall'arma, schizzando verso l'auto. Colpì il paraurti anteriore ed esplose, scagliando in aria la parte frontale del veicolo. La deflagrazione distrusse parte del motore. Allora il cecchino sganciò il fermo del lanciagranate, aprendo il tamburo, poi sollevò la canna. Il bossolo cadde sul cemento. Quindi l'uomo afferrò il cilindro di metallo dal pavimento del furgone, lo inserì nel tamburo del lanciagranate e richiuse. A quel punto afferrò il cerchio d'oro e lo in-
dossò. Con due rapide falcate, raggiunse il parapetto del cavalcavia e lo superò. 23 Sabato 26 aprile «Allora, che tipi sono i vostri genitori?» chiese David. Stavano facendo la coda per salire sul London Eye e parlavano del più e del meno, avanzando lentamente via via che ogni cabina scendeva e rigurgitava un altro gruppo di turisti. Dee inclinò la testa di lato. «Tradizionalisti, direi. Un po' all'antica. Mamma ha sempre avuto dei progetti per noi e papà l'ha sempre assecondata.» «Presumo che tu e Susan non li vediate tanto spesso», commentò David. Dee teneva le mani nelle tasche del suo soprabito di lana nero lungo fino al ginocchio. Il vento che si era alzato dal fiume in quelle ultime ore del pomeriggio era freddo e lei aveva rialzato il bavero per ripararsi il collo. «Be', io vivo a Manhattan, Susie è qui e loro stanno nel Nuovo Messico», ribatté. Poi sembrò dispiaciuta e continuò: «Non dovrei chiamarla Susie. È una cosa che detesta». «Allora è solo 'Susan'? Nessun soprannome o diminutivo consentito?» Lei gli sorrise. «Susan e io una volta abbiamo litigato sulla questione dei nomi. Lei detesta essere chiamata Susie e io detesto essere chiamata Dorothy.» David fece per reagire, ma colse un avvertimento nel sopracciglio arcuato della donna. Sembrava ancora sorpreso quando chiese: «Tu ti chiami Dorothy?» «Già. Ma nessuno mi chiama così. Non so chi se ne sia uscito con 'Dee', ma questo è rimasto... con mio grande sollievo. Per qualche motivo Susan è rimasto Susan.» «Neanche Sue? Sarebbe un'alternativa carina.» «Già. Ma Susan è fatta a modo suo. Detesta il nome, ma non permette a nessuno di storpiarlo o cambiarlo.» «A me piace 'Susan'. Il nome, intendo», precisò David. Dee si strinse nelle spalle. «È il nome di una brava ragazza e Susan lo è sempre stata. Mamma era decisa a...» S'interruppe. «Ma non t'interessa sapere queste cose», borbottò, scuotendo la testa.
«Davvero, m'interessa», le assicurò lui. «Va bene. Qualche retroscena. Mamma e papà si conobbero all'università. Papà era un geografo... Lavora ancora per l'U.S. Geological Survey. Mamma faceva la giornalista, lavorava per il giornale universitario, poi, una volta laureata, venne assunta nella redazione di un grande giornale. Poi papà le chiese di sposarlo, lei restò incinta e da allora non ha più lavorato. Ha riversato su Susan tutti i sogni che lei non è riuscita a realizzare prima del matrimonio e dei figli. Così Susan ha sempre avuto insegnanti che la seguivano, lezioni extra e le scuole migliori.» C'era una nota di frustrazione nella sua voce, di cui parve rendersi conto in quel momento. Così si addolcì. «Non dev'essere stato molto divertente per lei, presumo. Aveva un sacco di pressioni.» «E tu che cosa facevi mentre Susan veniva 'coltivata'?» Dee sbarrò gli occhi e si strinse nelle spalle. «Non lo so... Guardavo la TV? Ero sempre in giro coi ragazzi del quartiere, penso. Ad affinare le mie doti di persona comunicativa. Ma, del resto, ci spostavamo così spesso che non ci sono riuscita tanto bene.» «Susan ha detto che hai un ottimo lavoro a New York... Bada che non voglio prenderti in giro...» disse con circospezione David. «In questo sei riuscita, anche se non hai avuto tutte le spinte di tua sorella.» Tutta la malinconia di Dee si dileguò nell'udire il nome della città e la sua voce divenne nuovamente energica. «Be', devi capire che a diciotto anni ne avevo così piene le scatole di vivere nel Midwest da bastarmi per l'eternità. Me ne sono andata. Si potrebbe dire che sono scappata di casa, ma avevo diciotto anni, quindi, in realtà, sono uscita di casa... benché l'impressione era più quella di un'evasione. La prima tappa è stata Chicago, dove ho fatto la cameriera e alcuni lavori saltuari nei club. Poi ho conosciuto un ragazzo. Alcuni ragazzi, in effetti», precisò con un sorriso malizioso. «Uno di questi ragazzi gestiva un locale. A Chicago era un po' il 're delle nuove tendenze'. Non intendo le tendenze ufficiali, ma quelle underground: musica, moda e arte, purché fosse abbastanza sovversiva. Avevo l'abitudine di seguirlo ovunque, prendevo appunti e poi scrivevo una newsletter - in realtà era un volantino -, in cui informavo la gente di quello che bolliva in pentola, delle ultime novità del momento. È iniziato quasi per gioco. Scrivevo con uno stile ironico, una specie di versione alternativa di una rubrica mondana. Lasciavamo qualche copia del volantino nel locale e andavano sempre a ruba. Così abbiamo finito per distribuirlo ovunque. Allora mi sono procurata un portatile usato e un buco dove lavorare. Ho
aumentato il numero di pagine, vendendo anche un piccolo spazio pubblicitario alternativo. Per farla breve, dopo sei mesi il progetto ha preso il volo, diventando una vera rubrica in uno dei quotidiani della città. Senza dubbio, ciò è successo grazie a qualche specie di restyling concepito dai loro PR per attirare il mercato dei giovani, ma del resto non c'era nessuno che facesse qualcosa di serio. Quel lavoro mi ha dato una certa visibilità e mi ha spinto ad accettare un posto nella redazione di una rivista a New York. Mi sono trasferita laggiù quattro anni fa... e da allora vivo felice e contenta.» Erano quasi arrivati in cima alla coda. «Accidenti. Allora immagino che tua madre sia soddisfatta», disse David. «Fai la giornalista come voleva fare lei. E dato che aveva proiettato su di voi i suoi desideri...» «Be', io sono la sua erede solo in apparenza. La mamma si occupava di politica estera; io scrivo articoli che parlano di come i jeans sono diventati la nuova divisa dei neri... Ma, del resto, dicono che la parodia sia una forma di lusinga.» La cabina si fermò a livello della passerella e la gente scese. Dee e David vennero fatti salire con un'altra decina di persone. Dee si aggrappò al suo braccio, dicendo: «Ascolta, ti proibisco di farmi altre domande su di me. Stai calpestando la mia mistica femminile. Adesso reggimi, l'altezza mi terrorizza». «Perché non l'hai detto?» chiese David, seguendola all'interno dell'abitacolo, mentre la cabina cominciava a sollevarsi da terra. Sarebbe risalita lentamente per 130 metri, consentendo una vista spettacolare della città. Dee si sedette al centro, su una panchina, mentre tutti gli altri schiacciavano il naso contro le pareti di vetro. Persino dalla panchina si godeva un panorama straordinario e David indicava vari punti, mischiando liberamente la realtà con la finzione. «Quella è la Battersea Power Station, dove producevano l'elettricità per gli album dei Pink Floyd. E dietro» - indicò l'antenna radio del Crystal Palace - «si può vedere la Torre Eiffel. Sembra che in questo momento ci sia bassa marea nel Canale della Manica.» Lei gli diede un buffetto sul braccio e disse allegra: «Sono così fortunata che tu sia qui. Sulla mia guida inaffidabile non c'è nulla di questo tenore... di questo realismo locale». Con gentilezza e determinazione, David riuscì a convincerla ad avvicinarsi a una delle vetrate. Dee si teneva sempre aggrappata al suo braccio. Era spaventata, ma euforica, finché un movimento quasi impercettibile
della cabina non la fece tornare di corsa a sedere. «Godzilla deve sentirsi così», commentò, mentre la cabina raggiungeva il punto più alto della ruota. «Aiutami a scegliere quello che schiaccerò per primo.» Passò quasi mezz'ora prima che la cabina ritornasse al livello della passerella. Susan non aveva ancora chiamato, perciò, quando furono di nuovo a terra, discussero su quale sarebbe stata la loro prossima meta. Su insistenza di Dee, presero un autobus turistico scoperto. A bordo, c'era una guida che illustrava i luoghi d'interesse. La guida aveva un accento tipicamente londinese - di quelli che si sentono nei film di gangster inglesi - e faceva ridere Dee ogni volta che faceva un annuncio. David gli faceva il verso, ma a bassa voce, in modo che solo lei potesse sentire. La guida spiegò: «E alla vostra sinistra ecco la National Gallery, dove si possono ammirare molti dei dipinti prediletti della nazione». «Alcuni dei quali valgono qualche dollaro, se riesci a portarti fuori senza che l'usciere ti veda», chiosò David. Una volta concluso il tour, Dee stava ancora ridacchiando, ma tremava anche. «Possibile che questo posto sia più freddo di Chicago?» borbottò. «Londra può essere fredda come vuole, da quello che ne so. Due gradi a Londra battono i meno quindici sulle Alpi, te lo posso assicurare. Ma ricordati, noi locali tendiamo ad assicurarci che un autobus abbia il tetto prima di salirci.» Si allontanarono in fretta dalla fermata. «Ho imparato la lezione. C'è un posto dove posso riscaldare le mie chiappe congelate?» chiese Dee, battendo i denti. David le strizzò l'occhio, poi disse: «Sta' a vedere». S'infilò due dita in bocca ed emise un fischio abbastanza potente da far girare alcuni passanti dall'altra parte della strada. Nel contempo, agitò una mano. Un taxi nero, che era appena passato, fece un'aggraziata inversione al centro della strada e andò a fermarsi davanti a loro. David disse qualcosa all'autista e apri la portiera a Dee. «Impressionante», rise lei. «Hai appena superato la parte pratica dell'esame per ottenere la cittadinanza newyorkese.» David entrò nel tepore del taxi dopo Dee e chiuse la portiera. Lei scivolò sulla lucida e vecchia pelle nera per fargli posto. «Questa dev'essere... la nona volta che faccio una cosa del genere», confessò lui. «Non sono mai riuscito a fermare un taxi prima d'ora.» «Quindi le nove donne che mi hanno preceduto sono state lasciate sul
marciapiede a darti dell'idiota, invece d'intrufolarsi al caldo e sospirare 'mio eroe'?» scherzò Dee, prendendolo sottobraccio. «Più o meno», rispose lui sfrontatamente, poi ammise: «Credo che aiuti il fatto che non sia l'ora di chiusura dei pub e che non siamo tre ubriachi che ne reggono un quarto». «Questa è una delle mie caratteristiche più accattivanti», ribatté Dee. «Lascia che ti chieda una cosa», disse David. «Come mai né tu né Susan avete un fidanzato? È la maledizione di una zingara?» «Chi ha detto che non ho un fidanzato?» lo aggredì Dee con aria altezzosa, come se lui avesse implicitamente affermato che lei non era attraente. «Naturalmente... Ce l'hai», replicò David con calma. «Che cosa mi è saltato in mente? Allora... dov'è?» Lei lo guardò in modo strano. «Ho detto qualcosa di sbagliato?» volle sapere David. «No, nulla. Te lo dico dopo.» David era incuriosito, ma non insistette. «Fammi indovinare. Esci col tuo capo, che ha dieci anni più di te. È un uomo brillante, ma è sposato.» «Quella sgualdrina!» proruppe Dee. «E poi parlano della lealtà dei legami familiari... Oh, tutte balle. Non appena vedo Susan, la ammazzo.» Costernato, David esclamò: «Stai dicendo che ci ho azzeccato?» Dee gli lanciò un'occhiata truce. «Stai dicendo che non ha fatto la spia?» David la rassicurò. «Susan non mi ha detto nulla.» E incrociò le dita sulle labbra a indicare che aveva tenuto la bocca chiusa. «Be', un punto a favore del Telefono Amico», borbottò Dee. «In realtà ha vent'anni più di me, è separato, e in un modo piuttosto complicato è il boss del mio boss. Ma è un uomo brillante. Voglio dire che ci sono dieci probabilità che il destino sia avverso e una che finisca in un matrimonio da fiaba, ma per il momento mi tiene fuori dei guai.» Aggrottò la fronte. «A seconda di che cosa s'intende per guai.» Lanciò a David un altro sguardo sospettoso e chiese: «Susan non ha detto nulla?» David scosse la testa con enfasi. Dee parve convinta. «Oh, merda, sono proprio uno stereotipo.» «No», la rassicurò David. «È solo che sono bravo in questo genere di cose. Cos'altro potrebbe fare una giovane donna con standard di vita elevati, ambiziosa, passionale e sempre impegnata?» «Un cliché?» volle sapere Dee. «Chiamala tradizione», suggerì lui. «Allora, tu sei impegnata. Questo significa che la zitella è Susan?»
Dee gli rivolse un altro sguardo strano, ma, in quel momento, il taxista fece scivolare il divisorio di vetro e bofonchiò: «Siamo arrivati, capo». «Te lo spiego dopo», bisbigliò Dee. Scesero dal taxi. Lui chiuse la portiera e, attraverso il finestrino, allungò una banconota da dieci sterline. «Sono cinque sterline e sessanta, capo.» «Tenga il resto.» «Grazie mille», ribatté il taxista, poi, abbassando la voce, chiese: «È per l'inversione, vero? Ho pensato che l'avrebbe aiutata ad avere successo...» E fece un cenno verso Dee. David non commentò, limitandosi a sorridere imbarazzato e a lanciare una rapida occhiata verso Dee per vedere se avesse sentito. Sembrava di no. Scesero nell'accogliente e sofisticato Café des Amis du Vin. David ordinò una bottiglia di Montepulciano e lasciò che s'intiepidisse. «Dammi pure del rozzo, ma non possiamo proprio bere vino freddo... potrebbero venirti i geloni. E, dato che sei a Londra, dovrai curarti coi rimedi vittoriani.» Trovarono un tavolo tranquillo nell'angolo più distante dalla porta e David riempì due grandi bicchieri di vino. Poi fece per parlare, ma fu lei a precederlo. «Allora, Susan è stata piuttosto misteriosa su quello che voi due state combinando. Ha detto che si è procurata quella ferita sulla guancia perché qualcuno ha fatto irruzione alla School of Antiquities. Che sta succedendo?» «Già. Le cose hanno preso una piega un po' particolare. È una storia lunga e anche poco credibile. Mi dispiace aver coinvolto Susan in tutto questo. Però mi sono reso conto solo all'ultimo momento che correva dei rischi. Anche se non si tira di certo indietro di fronte ai pericoli... Comunque tutto girava intorno a questo oggetto antico rubato che adesso è stato restituito al proprietario, quindi non dovrebbero più esserci problemi. Restano solo alcuni particolari da definire.» «Pare che abbiate avuto qualche frizione, voi due.» Lui annuì. «Susan è una donna straordinaria. Spero che troveremo il modo di restare amici quando, uhm, non ci saranno più motivi professionali per vedersi.» «Certo, amici», commentò Dee, sarcastica. «Speriamo, eh?» «Che cosa c'è?» chiese allora David, confuso. «Continuo ad avere la sensazione di dire qualcosa che non dovrei, ma non capisco di cosa si tratta.»
Dee sospirò lentamente e abbassò le spalle. Dopo qualche istante di silenzio, disse: «Sei un uomo attraente, David». «Ehm, grazie», ribatté lui, impacciato. «E il fatto che in questo momento siamo insieme mi preoccupa... Cosa ci facciamo qui, esattamente?» David non sapeva cosa rispondere. «Okay, proviamo in quest'altro modo», suggerì Dee. «Hai una storia con Susan?» David si mise sulla difensiva. Scosse la testa. «No», rispose in modo provocatorio, poi, quando vide che Dee continuava a stare zitta, aggiunse: «A lei non interessa». «Allora hai pensato di provarci con me?» chiese lei, sollevando un sopracciglio. David era sbalordito e anche un po' irritato. «Ehi, aspetta! Pensavo che ci stessimo divertendo. Se qui è successo qualcos'altro, allora mi dispiace, ma non me ne sono accorto.» Lei continuò a guardarlo con un'aria di sfida, poi si rilassò, e assunse un tono conciliante. «Riproviamo ancora una volta. Quando ho chiesto a Susan di te, lei ha reagito in modo strano. Mi ha detto che sei un ragazzo dolce. E mi ha raccontato come, ogni volta che lei fingeva di essere offesa per qualcosa, tu ti facevi praticamente in quattro per scusarti. E questo la divertiva molto. Io ho provato un paio di volte a prenderti in giro, ma tu non hai battuto ciglio. Mi stavo solo chiedendo perché Susan ti rende tanto nervoso e io no.» David continuò a non fare commenti. Dee sorseggiò il vino. «E continui a chiedermi di lei. Magari sei solo cortese, giusto?» «Non capisco dove vuoi andare a parare», disse David. «Okay, sì, penso che Susan sia stupenda. Hai ragione. Ma in pratica mi ha smontato, se afferri il concetto. Non è successo nulla tra me e lei, e io sto solo cercando di rispettare i suoi desideri. Oggi ha da fare e la sua affascinante sorella ha bisogno di una guida. È vero, sembra più che altro che sia lei a fare un favore a me, e non viceversa, ma è ciò che lei vuole. Non posso farci niente se mi sto divertendo come non mi succedeva da secoli e magari mi sono dimenticato di nascondere la cosa.» Dee lo guardò impassibile per qualche secondo, poi gli rivolse un sorriso seducente. «Sai, è davvero una brutta storia. Potrei anche crederti. Ma penso che qui stiamo scherzando col fuoco, che tu te ne sia reso conto o no.»
Appoggiò i gomiti sul tavolo. «Allora, c'è una cosa che devi sapere, amico. Susan ha una cotta per te. Ci scommetterei una bella sommetta.» David sollevò le sopracciglia e si appoggiò allo schienale. «Non credo», disse con circospezione. Dee fece schioccare la lingua. «Certo. Non appena mi sono resa conto di quanto ti piace, all'improvviso i conti sono tornati.» Si batté delicatamente la mano sulla fronte. «Accidenti. Avrei dovuto capirlo che c'era qualcosa sotto quando le ho chiesto se aveva nulla in contrario se stavo un po' con te. Se avesse alzato le spalle, dicendo: 'Fa lo stesso', avrebbe significato: 'Va' pure'. Ma in pratica ha insistito perché uscissi con te. Il perché lo ignoro, ma Susan non si fida di nessuno. Non di me, né dei nostri genitori, e soprattutto non si fida degli uomini. Ma, per qualche ragione, penso che si fidi di te. Forse ha a che fare con tutta quella faccenda di guardie e ladri che avete condiviso, ma c'è qualcosa di diverso nel modo in cui parla di te.» Proruppe in una risata cinica. «Conoscendola, le ci vorranno altri dieci anni per essere sicura di questa cosa, ma credo che, dentro di sé, ci sia già arrivata. Mi ha confidato che tu non eri il suo tipo, e io l'ho presa alla lettera. Perché, vedi, la scelta è sua. Lei è una ragazza eccezionale. Se l'avessi vista in qualche gara, capiresti che è in grado di badare a se stessa. Allora perché dice che non le piaci, se è vero il contrario?» David era affascinato e al tempo stesso profondamente a disagio. Non fece nessun tentativo per interromperla. Dee bevve un altro sorso di vino e continuò: «Vuoi sentire la mia teoria? Se lei si fida di te, ciò significa che, di fatto, potrebbe aprirsi. Nelle sue precedenti relazioni non c'è mai stato questo rischio. È come tra me e il mio uomo sposato, credo: al di là di quello che ci diciamo, non c'è un reale pericolo d'intimità. Ma credo che, con te, Susan si sia resa conto di essere in un certo senso vulnerabile. Penso che mi abbia spinto verso di te perché è un po' spaventata». «Spaventata di trovarsi troppo bene con me?» chiese David. «Spaventata all'idea che ci possa essere qualcuno in grado di capire chi è veramente. Non abbiamo tutti paura di essere scoperti?» «Che cos'ha da nascondere?» «Nulla, per quanto ne sappia. Ma è sempre stata riservata. Per lei questo è un territorio sconosciuto.» David stava cercando di seguire l'argomentazione di Dee. «Allora, se ha paura di questo rapporto, perché dovrebbe incoraggiarti a stare con me?» Dee svuotò il bicchiere e si versò dell'altro vino. «La mia ipotesi è che io
dovrei sedurti. Com'è già successo una volta, prima d'ora.» «Ma non ha senso», commentò David. «E invece ce l'ha. La gente non fa che allontanare gli altri, giusto per vedere se tornano indietro. È un modo per essere sicuri del loro affetto.» «Mi sta mettendo alla prova, allora?» domandò David. «Non è per il fatto che non le piaccio?» Le sue parole risuonarono come se stesse facendo del suo meglio per crederci, ma invano. Il vino aveva arrossato leggermente le gote di Dee. «Pensaci. I conti tornano. Lei è insicura, quindi ci spinge l'uno verso l'altra. Dice a se stessa che questo è un modo per essere sicura di te, ma in realtà è la paura a guidarla. Se io ti seducessi, lei avrebbe qualcun altro da biasimare per il fallimento del rapporto e, inoltre, si tirerebbe fuori dei guai... i suoi segreti resterebbero al sicuro.» David aveva incrociato le braccia. «Uhm», borbottò. «Be', è una teoria. Da quanto tempo sai queste cose?» «Ho riunito i vari elementi quand'eravamo sul taxi», rispose Dee. «Sapevo che c'era in ballo qualcosa, ma l'ho capito solo quando mi sono resa conto che avevi un debole per lei.» Più David si lasciava influenzare da quella teoria, più si agitava. Alla fine, diede voce alla sua preoccupazione. «Pensi che abbia interpretato il nostro incontro come un appuntamento galante?» Lei si strinse nelle spalle. David sospirò rumorosamente. «Era tanto che non trascorrevo una giornata così piacevole, Dee», borbottò, in tono abbattuto. «Si sta bene con te, e io mi stavo divertendo senza secondi fini. Forse avrei dovuto sapere che ci sarebbe stato un prezzo altissimo da pagare per aver concesso la libera uscita alla mia coscienza. Ho promesso a Susan che non l'avrei abbandonata. Credi che sia quello che ho appena fatto?» «A mio parere, il fatto che tu sia qui è il suo modo per dimenticare la situazione difficile in cui si è messa. Può anche allontanarti, ma sono sicura che, al di là di tutto, lei spera che tu torni subito indietro.» David adesso aveva un'espressione davvero preoccupata. «Dee, non voglio deluderla. So che questo significa coinvolgerti, e che non è leale nei tuoi confronti, ma ho bisogno di un consiglio. Credi che il semplice fatto di essere qui abbia rovinato tutto?» Dee sorrise mestamente. «Be', ritengo che dipenda dall'esito della giornata. Se le dico che sei stato gentile, ma freddo come un ghiacciolo, allora forse supererai il test.»
Lo sguardo di David si accese di speranza. «Allora potresti... Te la senti di dirle questo? Aspetta, però, non voglio che tu le menta. Dev'esserci... Cos'altro potresti dirle?» Dee lo guardò negli occhi. «Le dirò che mi sono divertita un sacco e che tu sei un ragazzo meraviglioso, ma che mi sembra ovvio che sei pazzo di lei», rispose con un sospiro. Dee aveva continuato a sorseggiare il suo vino. David invece ci aveva messo un po' a finire il suo e, quando fece per versarsene dell'altro, ce n'era abbastanza per riempire solo mezzo bicchiere. Come fece notare quando tornò dal bar con una seconda bottiglia, cominciava ad avere la sensazione che fossero vecchi amici. Nessuno dei due flirtava, ma era come se la conversazione fosse diventata più intima, in senso platonico. Adesso che non c'erano più tensioni, furono in grado di rilassarsi sino in fondo. Erano quasi le nove quando Dee controllò il cellulare. «A quest'ora Susan avrebbe dovuto chiamare», commentò. «Non è che sarà scarico? Ho usato il caricabatterie di Susan ma non so se funziona», spiegò, mostrandogli il display. Era vuoto, a parte l'indicatore del livello di carica delle batterie che mostrava quattro delle cinque barre. Non c'era il simbolo dell'intensità di campo né il nome del gestore. D'un tratto, David assunse un'aria abbattuta. «Dee, siamo sottoterra. Me n'ero completamente dimenticato.» Dee sembrava imbarazzata. «Oops», mormorò. «Ah, forse non abbiamo sentito il telefono squillare, se si è degnata di alzare gli occhi da un libro per chiamarci. Dovremmo controllare se ha cercato di raggiungerci.» Lui annuì. «Forse avremmo dovuto chiamarla ore fa, comunque. Non dovevamo divertirci molto, ricordi?» David si alzò per infilarsi il pesante giaccone di pelle, e Dee lo imitò, ma prima si chinò per finire l'ultima goccia di vino. Infine annunciò che era pronta ad andare. La serata si era fatta gelida e Dee rabbrividì non appena l'aria fredda la sfiorò. David si girò verso di lei. «Dee, è stata veramente una bella giornata. E grazie mille per avermi aiutato a capire come stanno le cose con Susan. Spero solo di non aver già rovinato tutto.» Lei sorrise. «Incrociamo le dita. Puoi ripagarmi, convincendo Susan a farmi scegliere il vestito della damigella d'onore.» Poi borbottò: «Le sorel-
le scelgono sempre quelle schifezze con le maniche a sbuffo...» I due telefoni squillarono contemporaneamente e loro si scambiarono un sorriso imbarazzato. Dee fu la prima a collegarsi alla segreteria telefonica. Era un messaggio breve. «E il premio per la 'ragazza del mistero' va a Susan Milton. Mi chiedo dove abbia deciso di passare la notte.» Stava per aggiungere qualcosa, quando vide la faccia di David. Un'espressione di sgomento si era dipinta su di essa. «Cos'è successo?» chiese Dee, con voce carica di tensione. David fece un gesto reciso per invitarla a tacere. Continuò ad ascoltare il messaggio e il suo viso si fece ancora più serio. Infine annunciò: «Devo andare». Il tono era stato sbrigativo. «Cos'è successo?» insistette Dee. Ma tutto ciò che David riuscì a dire, con aria distratta, fu: «Dee, devo andare. Subito». «Dimmelo», ribadì lei con rabbia, afferrandolo per la manica. «Credo che sia successo qualcosa a Susan.» 24 Sabato 26 aprile (qualche ora prima) Susan si trovava nell'atrio della School of Antiquities. Sopra di lei, su una scala a pioli, c'era un uomo con una tuta blu che sbirciava in una botola nel soffitto decorato a stucco. Con pazienza infinita, il suo assistente reggeva la scala. L'unica altra persona presente nell'atrio con lo splendido pavimento di marmo era la guardia seduta dietro la scrivania. Susan aveva appena firmato il registro per ritirare le chiavi della Sala Alessandrina e, stando a ciò che aveva detto la guardia, non c'era nessun altro. In attesa dell'ascensore, Susan aveva premuto un tasto per ascoltare la segreteria telefonica del suo cellulare. «Ciao, Susan, sono David», iniziava il messaggio. «Volevo solo ringraziarti per la cena di ieri sera e spero che tu riesca a raggiungerci oggi. Comunque, è stato bello...» Premette il tasto d'interruzione. «Messaggio cancellato. Fine messaggio», confermò una voce registrata. Chiuse il cellulare e lo ripose nella borsa. La vecchia cabina dell'ascensore arrivò lentamente. Lei aprì con una certa difficoltà le due ante scorrevoli, poi le richiuse dietro di sé, facendosi trasportare tre piani più sotto. Pareva assorta nei suoi pensieri, anche se, un
paio di volte, il lampo di un'emozione non ben definita turbò il suo volto. Quando uscì dall'ascensore, il piano era silenzioso e deserto. Le luci fluorescenti nel corridoio erano accese, ma le porte delle varie stanze che si affacciavano erano chiuse. Susan aprì la porta della Sala Alessandrina e accese un paio di luci. Alla sua solita postazione di lavoro, estrasse dalla custodia il portatile e lo accese. Poi si diresse verso il suo armadietto. Benché la stanza fosse vuota e silenziosa, si guardò alle spalle prima d'infilare la chiave nel lucchetto nell'anta a persiana di metallo grigio. Tirò fuori un sacchetto avvolto intorno a un oggetto più o meno della stessa grandezza e peso di una decina di LP senza la copertina. Tornò alla sua postazione e aprì il sacchetto: all'interno c'erano un secondo sacchetto e una specie di fagotto. Susan esitò, poi si alzò, andò alla porta e sbirciò fuori nel corridoio. La pulsantiera dell'ascensore indicava che la cabina era ferma al pianoterra. Intorno a lei, l'edificio era silenzioso. Chiuse la porta a chiave e tornò alla sua scrivania. Aprì il secondo sacchetto. All'interno c'era un cerchio d'oro. Un solco era visibile su un lato, dov'era stato colpito con l'estremità di ferro dell'asta della finestra. Lo posò quasi con reverenza sulla scrivania davanti a sé. Poi, dalla borsa, Susan prese un cofanetto e lo mise accanto al cerchio. Il cofanetto era fatto dello stesso strano materiale nero, duro e peloso prediletto dai gioiellieri di tutto il mondo. Facendo leva sul coperchio con la chiusura a scatto, lo aprì. Due bracciali d'oro erano schiacciati nella depressione intesa a ospitarne uno solo. Lei li prese e li appoggiò sulla scrivania. Sulla parte interna del primo c'era scritto: A SUSAN, DA MAMMA E PAPÀ, SIAMO TANTO ORGOGLIOSI. L'iscrizione sull'altro diceva: A DOROTHY, CON TUTTO IL NOSTRO AMORE, MAMMA E PAPÀ. Susan rimase a fissare il cerchio e i due bracciali. La forza dell'emozione l'aveva indotta a serrare le labbra e a tendere i muscoli della mascella. La punta della lingua fuoriuscì, umettando rapidamente le labbra secche. Cercò distrattamente di mordicchiarsi il labbro inferiore, gli occhi sempre fissi sugli oggetti luccicanti davanti a lei. Riemergendo all'improvviso dalle sue fantasie, prese alcuni documenti dalla borsa e cominciò a sistemarli sulla scrivania. Poi tirò verso di sé il portatile e aprì Acrobat. Di lì a poco, un documento, scritto in latino, apparve sullo schermo. Ripiegò la prima pagina del suo blocco e cominciò a prendere appuntì.
Dopo un quarto d'ora, andò a prendere dall'armadietto un dizionario di latino. Per un'altra ora, Susan sfogliò e studiò i documenti, buttando giù varie note. Ben presto i fogli di carta nascosero i gioielli sulla scrivania. La sua attenzione, però, si concentrava sempre più spesso su una particolare pagina. Aprì Word e, durante l'ora successiva, scrisse: Solleva il capo dall'acqua e osserva correttamente la disposizione della terra per la prima volta. Il tatto è il primo senso da risvegliare. Il tatto, poi il gusto e la vista e l'udito e lo spirito dell'atmosfera e la permanenza dell'aria e il moto violento delle cose appena fuori portata. La buona salute un giorno è pari a un organo di senso, ma giunge dapprima come un'invisibile compagna/amica. In alcuni c'è una conoscenza superiore ma è [bloccata?]. Una conoscenza inferiore è come avere un piede in due nazioni/terre; la conoscenza superiore è come sollevare il piede posteriore ed essere un esule/ramingo dalla terra natia. La conoscenza superiore è priva di potere effettivo poiché non si ha più l'intenzione di usarla. Si rivolge all'interno, ma questa è un'altra questione. Inizia con questo [canto?] e osserva molto bene questo disegno e rifletti a lungo su che cosa la tua mano invisibile desidera posarsi. È stato detto da molti che un coltello [per mangiare?] è l'oggetto più adatto col quale iniziare, ma forse ciò che viene subito alla mente è semplicemente ciò che viene subito alla mano [idioma corretto?]. Susan salvò il file e allontanò il portatile. Riordinò i documenti e li spostò sulla scrivania accanto. Due fogli stampati rimasero di fronte a lei; erano riproduzioni di documenti scritti a mano. Uno era decorato con uno schema complesso a spirale, di forma più o meno circolare. Alcune parti ricordavano particolari di piastrelle moresche, altri i nodi celtici. Il titolo, in Arial corpo 10, era: SCHEMA 3 TER-119G. Il secondo foglio recava il titolo: RIMA INSENSATA? TER-016L. Sotto di esso, c'era una serie di lettere scritte a mano, dove certe sequenze di sillabe comparivano ripetutamente in diverse disposizioni. Susan si allacciò un bracciale su ciascun polso. Poi indossò il cerchio
d'oro. Era quasi perfetto. Infine, dalla borsa, prese un tagliacarte. Era una barretta sottile d'argento, senza protezione o rivestimento sull'impugnatura: un'asticciola di metallo lucido, a doppio taglio su una estremità e squadrato sull'altra. Lo posò al centro del disegno e trasse alcuni profondi respiri. Poi cominciò a leggere il testo ad alta voce. Quando ebbe finito la pagina, ricominciò. Lo rilesse senza pause per venti volte. La sua voce cominciava ad arrochirsi un poco, ma lei continuò. Dopo averlo letto trentacinque volte, non aveva quasi più bisogno di guardare il foglio, così si concentrò sul tagliacarte e sullo schema sottostante. Continuò a ripetere la sequenza, pronunciando le sillabe a bassa voce, con la gola ormai secca. Stava parlando ininterrottamente da un'ora e cinquanta minuti quando il tagliacarte oscillò leggermente. La punta rimbalzò una volta sul foglio. «Merda!» esclamò lei. Fissò il tagliacarte per un po', le labbra serrate. Aveva appena pronunciato la parola «pervolo» quando il tagliacarte si era mosso. Si chinò, ripetendo la parola con più forza: «Pervolo, pervolo». Chinò ancora di più la testa e pronunciò la sillaba «per» parecchie volte in modo reciso, avvicinando così tanto la bocca al tagliacarte che il suo alito ne appannò la superficie. Non si mosse. Vi soffiò sopra, senza cercare di formulare alcuna sillaba in particolare. Ancora nessun movimento. Soffiò più forte e il tagliacarte oscillò come prima. L'altro foglio scivolò per terra, disturbato dal suo respiro. Susan si abbassò per recuperarlo. «Accidenti», borbottò stupita. Si alzò e appoggiò le mani sulle anche. Guardò di nuovo il tagliacarte e mormorò: «Ragazzi...» Si tolse i bracciali e il cerchio e li ripose sulla scrivania. Poi li nascose sotto alcuni fogli. Si diresse verso la porta e, dopo aver girato la chiave, l'aprì, sbirciando cautamente nel corridoio prima di spalancarla. Non c'era nessuno. Andò al distributore automatico e premette il tasto dell'acqua fredda. Trangugiò due bicchieri di acqua gelata prima di digitare il codice del caffè. Portò il caffè con sé nella stanza, richiudendo la porta a chiave. Si sedette alla scrivania, sorseggiando la bevanda calda. Nel posare la tazza, trasalì un poco e si grattò la testa. «Ragazzi...» esclamò di nuovo, come se le facesse male qualcosa. Ruotò una spalla, poi l'altra, infine si massaggiò i muscoli del collo. Rimase assorta mentre sorseggiava il caffè, un piede calzato nello stivaletto rosso appoggiato sul bordo della scrivania. Quando la tazza fu vuota,
la gettò nel cestino. Poi raccolse i bracciali e li ripose nel cofanetto. Riavvolse anche il cerchio nel panno e lo rimise nell'armadietto. Dopodiché sistemò i documenti e iniziò nuovamente a leggerli e a prendere appunti. Un'ora dopo, fece un'altra pausa. Stavolta salì di sopra e uscì. Affrontando il gelo del tardo pomeriggio, comprò qualche panino, una lattina di birra e una fetta di torta alle carote. Mangiò mentre studiava. Sulla parete alle sue spalle era appeso un orologio elettrico. Quando terminò di scrivere, segnava le sei. Iniziare significa sollevare le redini di una bestia da soma ricettiva. Anche altri hanno le mani posate sulle redini. Essi non possono contraddire/tacitare i tuoi ordini né possono sapere ciò che viene detto, ma udranno la tua voce se ascoltano. Quando incedi abbigliato/ornato [con abiti/protezioni di potere?] è come se tu camminassi accanto ai tuoi nemici ma separato da un terzo di un terzo di un terzo di parasanga [5,6 Km/27 = 200 m] in un giorno senza vento. Susan smise di scrivere e si passò una mano tra i capelli. Poi assunse un'espressione preoccupata. Continuò a studiare il documento sul quale stava lavorando, alzando periodicamente lo sguardo per digitare una frase sul computer. Alla fine, aveva scritto: È in questo, come in tutto il resto, che gli uomini s'impegnano. C'è una piccola quantità di tesoro/ricchezze ed essa è custodita gelosamente. Non c'è mai amore tra coloro che sono stati risvegliati, poiché il mondo non è sufficientemente grande per tutti. In verità, scoprire un proprio simile equivale a scoprire un nemico mortale. L'approssimarsi di un estraneo equivale a una sfida. Ascoltare di nascosto un altro equivale ad ascoltare la voce del tuo conquistatore. Lo trasformerai invece nella tua preda se saprai riflettere in modo saggio. Contesa senza diplomazia è l'ordine naturale delle cose. Per questi motivi, non dormire e non startene mai sdraiato comodamente. Sii sempre vigile e pronto a combattere duramente anche nelle ore più quiete della notte. Susan adesso era accigliata. Si alzò e andò al suo armadietto per prendere un secondo dizionario, più piccolo, rilegato in pelle nera ormai consun-
ta, e tornò a sedersi. Iniziò a perfezionare la sua traduzione. Al termine di un'altra ora aveva apportato pochissimi cambiamenti, ma aveva aggiunto un paragrafo. Gli uccellini non restano vivi a lungo lontano dal nido. Solo coloro che hanno la protezione di un'antica [scuola per re?] sopravvivono. Il primo cinguettio dell'uccellino è molto probabile che attiri su di sé i falchi. È il momento migliore per sbarazzarsi dei propri futuri nemici. La vigilanza e un'azione rapida in questa circostanza sono le cose più importanti. Presta sempre ascolto alle nuove voci, poi eliminale con decisione e più in fretta che puoi. Susan riprese a mordicchiarsi il labbro. Aveva incrociato le mani davanti a sé, e le agitava avanti e indietro, ripetutamente. Nell'osservare il documento, faceva oscillare la testa. «Questo non mi piace», mormorò. «Non mi piace per niente.» Aprì il programma di posta elettronica e passò in rassegna le numerose e-mail finché non trovò quella che stava cercando. Era di Bernie Lampwick. Scorse il testo e raggiunse il brano che la interessava. ... anche se ho dato solo una rapida occhiata, mi sembra che somigli ad alcuni passaggi del Principe. Essendo i trattati politici l'unica cosa che infiammava gli animi a quel tempo, mi chiedo se questo non sia un brano allegorico dello stesso tenore. Forse tende un po' più verso Savonarola che non verso Machiavelli e il linguaggio è molto più oscuro (forse l'autore era caduto in disgrazia in quel momento e occultava il vero significato?), ciononostante mi chiedo se qui non abbiamo il lavoro di un «Profeta della Forza» sconosciuto in passato. Come ho osservato nella mia tesi di dottorato... L'improvviso ronzio attutito di un trapano, che le giunse attraverso la struttura dell'edificio, la fece trasalire. Quand'era tornata col cibo, aveva visto gli operai che stavano trasportando un pesante trapano all'interno dell'istituto ma, nonostante questo, quella punta che si faceva strada nella parete con le sue vibrazioni stridenti la colse di sorpresa. Si costrinse a riportare l'attenzione sull'e-mail e mormorò: «A che cosa stavi pensando, Bernie? Non c'entra niente col governo di Firenze; parla di magia».
Rimase seduta a riflettere. «È un avvertimento», decise poi. Trasalì una seconda volta allorché le porte dell'ascensore si aprirono sferragliando. Trattenne il respiro. Si udiva il rumore di passi lenti che risuonavano sul pavimento di linoleum fuori della porta... Poi la maniglia della porta vibrò. Qualcuno bussò e una voce profonda disse: «Dottoressa Milton?» «Chi è?» replicò lei. La sua voce era abbastanza tranquilla, ma i suoi occhi stavano perforando la porta. «Sono Oswald Olabayo, dottoressa. Sono la guardia di turno. Sto facendo il mio giro», ribatté la voce. Susan sorrise. «È una scusa troppo idiota per essere finta», borbottò. Quando aprì la porta, vide un uomo alto ed elegante, con la pelle nerissima, che indossava un largo maglione blu della RAF. «Mi scusi», disse. «Ma sono un po' paranoica ultimamente.» La guardia le rivolse un largo sorriso. «Certo, signora. Dobbiamo esseri vigili. È tutto a posto?» «Sì, grazie. Uhm, quante volte passa di qui?» «Faccio il giro ogni ora, dottoressa, come da istruzioni.» Susan si astenne dal dire che chiunque avesse fatto il turno prima di lui aveva ovviamente operato in base a una serie d'istruzioni diverse. «Oh, va bene, allora. Ci vediamo tra un'ora.» «Sì, signora», disse la guardia e rivolse l'attenzione alla stanza in cui erano custoditi i documenti. Susan stava ancora sorridendo quando tornò a sedersi. Fece un paio di respiri rapidi. Il SUO sorriso svanì quando l'attenzione tornò sull'e-mail. Nella sua casella c'era un nuovo messaggio. L'oggetto era: CustomNews.biz - Ricerca inoltrata. Aprì il messaggio e lo lesse. Susan Milton, una delle voci predefinite da lei inserite - DASS - è stata trovata in un notiziario recente. Cliccare sul link sottostante per leggere il contenuto. http:\\www.CustomNews.biz/storyid=1447916 Susan cliccò sul link. Probabile attacco terroristico nei pressi dell'aeroporto di Heathrow. Un attacco in pieno giorno, sferrato contro una Mercedes mentre si di-
rigeva verso l'aeroporto londinese di Heathrow, ha provocato la morte di tre persone e il ferimento di numerose altre. Colpi d'arma da fuoco e un'esplosione hanno distrutto l'auto sotto lo sguardo di spettatori ignari. Un giornalista di CustomNews, arrivato sul luogo dell'incidente, ha scoperto che Alessandro Dass, stimato uomo d'affari italiano, era l'obiettivo dell'attacco, mentre lui e due soci si stavano recando all'aeroporto per prendere un volo diretto a Roma. Susan continuò a leggere, ma l'articolo non forniva informazioni sull'aggressore, se non che, a quanto pareva, aveva agito da solo. Provò a cercare su altri notiziari online, ma senza scoprire elementi nuovi. Sollevando il ricevitore del telefono, chiamò il cellulare di Dee. Venne trasferita direttamente alla segreteria telefonica. «Dee... Sono Susan. Ascolta, probabilmente stasera non torno a casa a dormire. Ti richiamo domattina per farti sapere come vanno le cose.» E riagganciò. Poi, consultando la rubrica, digitò un altro numero. Anche in questo caso rispose la segreteria telefonica. «David, sono Susan. Ascolta, ho bisogno di parlarti... subito. Dass è morto e credo che sia stato Jan. Il che significa che potrebbe essersi ripreso il Marker. Il che significa che la Collezione Teracus è il suo prossimo obiettivo. Ha fatto saltare l'auto di Dass in pieno giorno, quindi non credo che si farà problemi a irrompere qui e a mettere a soqquadro tutto per prendere ciò che vuole. Penso che non si preoccupi più del casino che sta facendo. Lo sai che le guardie che ci sono qui non sono assolutamente in grado di fermarlo e non posso neanche spiegare loro con chi hanno a che fare... penserebbero che do i numeri. Sto pensando... Quello che penso di fare... Penso che sposterò la collezione. Subito. In un modo o nell'altro, Jan verrà qui, ma non voglio che si prenda questi documenti. Qualsiasi cosa abbia in mente, non è niente di buono.» Fece una pausa, poi aggiunse: «C'è un'altra cosa. Penso di aver fatto male i conti. Ho fatto un tentativo... un esperimento. Ma non avrei dovuto. Forse ho attirato l'attenzione su di me. C'è una probabilità che Jan adesso possa cercarmi. Sto per...» La maniglia della porta venne strattonata. Susan s'irrigidì. Non le era sembrato di sentire nessuno avvicinarsi, eppure fuori della porta c'era qualcuno. Quaranta minuti prima che la guardia ripassasse per il suo giro d'ispezione. Poi udì uno schianto tremendo provenire dall'alto. Qualcosa di pesante aveva colpito l'edificio. L'impatto fece tintinnare i piccoli oggetti della
stanza. Quasi senza volerlo, Susan sussurrò nel telefono: «C'è qualcuno qui...» Poi fissò la maniglia. Senza abbassare lo sguardo, chiuse la comunicazione. Qualcuno stava cercando di forzare la porta. 25 Sabato 26 aprile (sera) Dee era furente. E benché la sua rabbia non sembrasse rivolta a nessuno in particolare, David ne stava subendo le dirette conseguenze, essendo l'unico obiettivo disponibile. Frenarono di colpo prima d'imboccare una curva stretta e Dee sbottò: «Ma sei in grado di guidare? Abbiamo preso due bottiglie di vino, ricordi?» Anche David era di umore nerissimo. «Già! Le hai bevute tu, però. Io mi sono fatto due bicchieri in due ore. E non mi sono mai sentito così sobrio.» Superò a tutta velocità un semaforo scattato sul rosso, sorpassando un autobus che si era appena staccato dal marciapiede. Dee era aggrappata al cruscotto per evitare di essere sballottata. «Potresti almeno rallentare, per favore?» sibilò in tono glaciale. «No, che non posso, cazzo!» sbraitò David. Dee non replicò. Fuori del locale, gli aveva fatto chiaramente capire che sarebbe rimasta con lui finché non avessero scoperto che cos'era successo a sua sorella. Perciò avevano preso un taxi per andare a recuperare l'auto. Poi David aveva spinto Dee dentro la vettura e, prima ancora che lei fosse riuscita ad allacciare la cintura di sicurezza, stavano già sfrecciando lungo strade secondarie rese anguste dalle auto parcheggiate. David superava tutti i veicoli che lo rallentavano, intimando agli automobilisti provenienti dalla corsia opposta di fargli strada. Un paio di minuti dopo le parole rabbiose di David, Dee si azzardò a parlare ancora. In quel momento, stavano attraversando la Euston Road diretti a sud. «Non ci posso fare niente, va bene? Queste situazioni non le reggo. Mi fanno impazzire.» Aveva la voce impastata dal vino. Benché il tono fosse tutt'altro che conciliante, le sue parole sembrarono colpire David. Il suo viso si addolcì e lui protese una mano per stringere quella di Dee. «Mi dispiace di averti aggredita», si scusò. «Quando mi prende il panico, mi concentro al massimo. Le mie buone maniere vanno a
farsi friggere.» Dee rimase in silenzio. Passò un altro minuto. Il rombo del motore che andava su di giri per i repentini cambi di marcia riempiva l'abitacolo. David lanciò un'occhiata in tralice e vide una lacrima nera di mascara scivolare sulla guancia di Dee. «Mi dispiace davvero», ripeté, sorpreso e nel contempo imbarazzato. «Vivo a New York, ricordi? Non è la tua reazione...» Tirò su col naso. «Piango perché sono preoccupata. Non posso...» L'ultima parola fu soffocata dall'inizio di un gemito, che s'interruppe quando lei serrò le mascelle. Le spalle sobbalzavano in sincronia col sibilo dei singhiozzi, appena udibili sopra il rombo del motore. Dee emise un lamento, un suono carico di dolore, poi si schiaffeggiò sulla guancia. David la guardò, sbigottito. «Ehi, ehi», disse, un po' preoccupato. Di nuovo, Dee tirò su col naso. «Sto bene. Sto bene... Non posso credere che io stia piangendo.» Frugò nella borsa, tirandone fuori un pacchetto di fazzoletti di carta, e si soffiò il naso. Arrivarono alla School of Antiquities. David si fermò sulle doppie strisce gialle proprio davanti all'ingresso, spalancò la portiera e si precipitò dentro. Tamponandosi le lacrime, Dee lo seguì. Quando lo raggiunse, David stava già parlando con la guardia seduta dietro la scrivania. Ci vollero cinque minuti di domande incrociate prima che David si accertasse che non c'era stata nessuna irruzione - non durante quella settimana, almeno - e che desse una spiegazione convincente del perché gli interessava tanto saperlo. Le sue prime richieste avevano messo la guardia sulla difensiva. Solo ricominciando daccapo, e costringendosi alla calma, aveva fatto progressi. Venne fuori che, quel giorno, l'eccitazione maggiore era stata causata da un incidente che aveva coinvolto una sezione del pavimento di marmo dell'atrio. Il disastro era lì da vedere. Un pesante trapano industriale giaceva in mezzo a una serie di lastre di marmo spaccate, il cavo simile alla coda rilasciata di un animale. Un'alta scala a pioli era aperta sul «corpo del reato». La guardia spiegò che Susan aveva firmato il registro quando lui era appena entrato in servizio. Poi c'era stata la caduta del trapano... E lei, pochi minuti dopo, era uscita di corsa, forse perché in ritardo per un appuntamento. Reggeva un sacco di carte, e gli aveva lanciato le chiavi sulla scrivania. L'aveva a malapena salutato. «Come se non bastasse...» mormorò, scuotendo la testa e indicando il pavimento rotto. A quanto sembrava, quel
disastro occupava la maggior parte dei suoi pensieri. Una seconda guardia era apparsa nell'atrio e aveva sentito l'ultima parte della conversazione. «La dottoressa Milton?» intervenne. «Sono andato ad avvisarla dopo l'incidente che volevamo togliere la corrente. Era un fascio di nervi... Non voleva neppure aprire la porta. È sempre così?» «No, non è sempre così», rispose David. Si rivolse di nuovo alla prima guardia e la ringraziò, poi aggiunse: «Mi scusi», mentre tirava fuori il suo cellulare e si girava per fare una chiamata. Dee aveva provato a chiamare Susan due volte da quando avevano lasciato il locale, ma David fece comunque un terzo tentativo. Però raggiunse soltanto la segreteria telefonica. Dee aveva lasciato messaggi allarmati alla fine delle sue chiamate e David evidentemente non riusciva a pensare a nulla di nuovo da aggiungere; riagganciò prima che la voce registrata di Susan finisse di parlare. La guardia si offrì di chiamare David e Dee qualora avesse avuto notizie o visto Susan. Entrambi lasciarono i loro numeri, ringraziandolo per il disturbo. Tornarono lentamente verso l'auto che non era ancora stata scoperta dagli ultimi vigili in circolazione o dal carro attrezzi. «Sembra che si sia fatta prendere dal panico per qualche motivo e abbia reagito in modo esagerato», borbottò David, una volta che furono risaliti in macchina. «Se noi non sappiamo dove si trova, allora non lo saprà nessun altro. Se crede di essere in difficoltà, si nasconderà da qualche parte. Tutto ciò che possiamo fare è aspettare che ci chiami lei. Probabilmente è più intelligente di noi due messi insieme. Sono sicuro che non le succederà nulla.» Dee non aprì bocca per un po'. Aveva un aspetto spaventoso. La preoccupazione, il mascara che si era sciolto a causa del pianto e gli effetti del vino la facevano apparire molto più vecchia rispetto all'inizio della serata. «Penso che dovresti dormire in un albergo», suggerì David. «Adesso andiamo a casa del professore; io faccio una corsa dentro a prendere le tue cose, poi cerchiamo un posto dove tu possa trascorrere la notte.» Dee non oppose resistenza. Sembrava non avere più energia per lottare. Annuì tristemente e rimase tranquilla mentre David guidava, quasi senza muoversi e restando zitta. Ci volle un quarto d'ora per raggiungere la casa. David chiese a Dee le chiavi e le disse di mettersi al volante col motore acceso. «Se succede qualcosa, vai via. Io mi arrangerò.»
«Non so guidare le macchine col cambio manuale», confessò lei. «Va bene. Chiudi le portiere mentre sono in casa e suona il clacson se hai bisogno di me. Correrò subito fuori.» Quando scese dalla macchina, andò ad aprire il bagagliaio per prendere il bastone allungabile che aveva portato con sé quand'era andato da Dass. Lo infilò nella manica e chiuse il bagagliaio, facendo segno a Dee di bloccare le portiere. Avvicinandosi alla casa, cercò qualche indizio che potesse rivelare la presenza di qualcuno. Ma l'abitazione sembrava più deserta che mai. Le finestre al pianoterra erano ancora chiuse e non filtrava nessuna luce dalle persiane. Risalì i gradini e osservò la porta d'ingresso. La serratura sembrava intatta, la piastrina d'ottone opaca priva di segni... nessun segno di scasso. Aprì la porta ed entrò nel vestibolo buio. Con la porta d'ingresso aperta, dalla strada arrivava abbastanza luce per consentirgli di salire le scale. Silenziosamente spostò un vaso di felci in modo che la porta non si chiudesse, poi risalì in fretta le scale. Le finestre del piano superiore non erano state chiuse con le persiane e la notte, come tutte le notti di Londra, era ben lungi dall'essere nera come la pece. Per due volte, alcuni rumori in lontananza lo costrinsero a immobilizzarsi di colpo e a tendere l'orecchio, ma era impossibile dire se provenissero dall'esterno o che cosa li avesse prodotti. Si spostò nella camera da letto sul retro. Le tende lunghe fino al pavimento erano aperte e, attraverso la finestra a ghigliottina, si vedevano i rami di un platano, neri nella flebile luce arancione. Le foglie si muovevano pigramente nella brezza serale, allungando le ombre nella stanza. David afferrò il beauty-case di Dee e un borsone ancora quasi pieno, posato sull'ottomana ai piedi del letto. Poi tornò sui suoi passi. Dall'interno dell'auto, Dee lo guardava. Mise la borsa e il beauty nel bagagliaio, poi fece segno alla donna di abbassare il finestrino. «Visto che siamo qui, posso prendere tutto. C'è dell'altro?» «Due portabiti e tutto quello che trovi sparso per la stanza», rispose lei. David annuì, le fece richiudere il finestrino e si diresse ancora una volta verso la casa buia. Riapparve due minuti dopo, reggendo i due portabiti e una borsa di plastica del duty-free stracolma. Con la punta della scarpa, spinse il vaso all'interno e lasciò che la pesante porta si richiudesse. Quindi, dopo aver
appoggiato i portabiti sul sedile posteriore, si mise al volante, bloccò le portiere e ripartì. «Allora, hai qualche idea di dove potresti andare?» chiese dopo qualche minuto. «Ho un conto aperto all'Hilton», rispose Dee. «Bene, allora cominciamo da Park Lane», celiò David. Il secondo trillo del campanello venne accompagnato da un colpo battuto alla porta. Banjo la spalancò, pronto a fare fuoco. Indossava una vestaglia di seta color rosso scarlatto con piccoli disegni astratti e reggeva una pistola ad acqua, molto simile a quella dei cartoon disneyani che volevano imitare un fucile d'assalto. «Che cosa vi avevo detto?» urlò, mentre la porta si apriva. Poi si zittì di colpo quando vide David sul primo gradino. «Sono stati quei ragazzi a spingerti a fare una cosa del genere?» chiese David, sospettoso. «Dimmi la verità, e non mi arrabbierò.» Banjo squadrò David da capo a piedi. Sembrava che il suo amico fosse andato a dormire vestito. Non si era sbarbato e la sua espressione suggeriva un misto di sofferenza e prostrazione. «Sembri mia sorella Doreen subito dopo aver partorito i due gemelli», commentò Banjo. Mettendosi l'arma in spalla e controllando velocemente la strada, si ritrasse all'interno, facendo segno a David di seguirlo. «E quello che ho detto a lei sembra altrettanto appropriato in questo caso: 'Metterò il bollitore sul fuoco'.» Accompagnò David nella cucina stile anni '30, piena di spifferi e arredata con traballanti mobiletti artigianali. Il linoleum scuro del pavimento era bitorzoluto come la superficie del pane azzimo. David si lasciò cadere su una sedia scricchiolante, mentre Banjo metteva sul fuoco un bollitore d'alluminio ammaccato. «Sembri a pezzi, amico. Vuoi fare colazione?» David scosse la testa, perciò Banjo si concentrò sul tè. Armeggiò per la cucina, canticchiando e lanciando sguardi furtivi verso David. Con le pantofole rosse bordate continuava a inciampare nelle increspature del linoleum, ed era quindi costretto a ciabattare come una geisha per non perderle. Un paio di minuti dopo, due tazze di tè vennero posate sul tavolo della cucina. Quella di David su un ritaglio bianco della dimensione di una fondina, dove il percalle della formica si era consumato, senza lasciare traccia.
Mentre Banjo si metteva a sedere, assunse un'aria allarmata. «Oddio. Non si tratterà del papa, vero? Gli è successo qualcosa?» Il lento sorriso di David sembrava la smorfia di un pesce con un amo infilato nel labbro superiore, ma aveva anche uno stanco barlume di divertimento. «Non conosco il senso della frase 'umorismo inappropriato' vero?» commentò Banjo. Si sorrisero, il sorriso di due vecchi amici. I primi raggi del sole, che scivolavano lungo la parete opposta, si accesero all'improvviso, mentre si apriva uno spiraglio tra le nubi. Per qualche istante, l'aria si tinse di giallo, riempiendosi di particelle di polvere fluttuanti, simili ai microscopici fiocchi di neve in quelle palle di vetro che racchiudono mondi in miniatura. Lo squarcio nelle nubi si richiuse poco dopo, portandosi via il colore, e Banjo rabbrividì leggermente nella vestaglia, mentre la stanza si oscurava. «Allora, si tratta di Susan?» chiese sottovoce. David annuì lentamente e bevve un sorso di tè. Alzò lo sguardo. «Posso raccontarti quello che sta succedendo?» chiese, in tono disperato. «Certo, amico», mormorò con affetto Banjo. «Mi puoi raccontare qualsiasi cosa.» «Potresti non credermi», lo avvertì David. «Mi conosci bene», ribatté l'altro. «Questo mi sembra un ottimo punto di partenza.» Erano alla terza tazza di tè quando David si mise a raccontare gli eventi di qualche ora prima. Banjo sembrava seguirlo senza difficoltà. «Quello che hai consigliato a Dee mi sembra saggio. Susan ha tagliato la corda per non correre rischi. Probabilmente avrà fatto come te; sarà andata a trovare qualche vecchia amica finché non le passa la fifa.» David si massaggiò il collo e annuì lentamente. «E tu dove sei stato da mezzanotte in poi?» chiese Banjo. David si strinse nelle spalle. «Qui e là. Sono tornato davanti alla School of Antiquities, dove lavora Susan, e sono rimasto seduto in macchina per un po', poi ho tenuto d'occhio la casa in cui abita. E, ehm, ho fatto un giro vicino ai due posti dove stava Jan, per vedere se c'era qualcuno. Ah, sì, sono anche passato dalla centrale per vedere se sapevano qualcosa.» Banjo sbuffò. «Be', direi che questo esaurisce le possibilità. Forse dovresti semplicemente tenere acceso il cellulare e andare a dormire. È tutto quello che puoi fare.» Poi aggiunse: «Anche se un bagno non sarebbe una cattiva idea, prima che voi due piccioncini vi ritroviate. Perché non usi la
mia acqua... Prima che tu apra bocca, ti assicuro che ce n'è ancora, non mi sono ancora lavato. Poi potresti dormire un paio d'ore. Non staccherò gli occhi dal tuo cellulare... parola di boy-scout». David lo ringraziò, poi disse: «Non mi sembri molto sorpreso dagli aspetti... più improbabili del mio racconto». Banjo si sistemò i capelli ritti in una foggia da moicano. «Qualsiasi tecnologia sufficientemente avanzata non è distinguibile dalla magia, come ebbe a dire qualcuno», replicò. «Te lo concedo, è un po' troppo semplicistico aspettarsi che le leggi della fisica reagiscano alla forza di volontà dell'essere umano. Ma, del resto, la settimana scorsa mia madre mi ha chiamato da un aeroplano che si trovava diecimila metri sopra l'America. A me è sembrata fantascienza.» Scrollò le spalle. «La gente trova sempre il modo di far fare all'universo ciò che vuole. A che cosa mira la tecnologia se non a lavorare esattamente verso il genere di cose sorprendenti che tu hai visto? Ciò di cui stai parlando, suona un po' come l'ultimo modello di coltellino svizzero.» Si appiattì i capelli e aggiunse: «Comunque, di sopra è tutto pronto per te. Gli asciugamani sono puliti. Darò una rassettata alla suite presidenziale mentre ti lavi». David salì al piano di sopra e Banjo andò a cercare delle lenzuola pulite. Mentre stava per aprire la porta del bagno, questa si spalancò e ne uscì una ragazza pienotta, con una pelle perfetta, che indossava solo un paio di calzoncini color pesca. I lunghi capelli rossi le ricadevano sul volto a forma di cuore e lei fu costretta a piegare la testa di lato per vedere chi le stava di fronte. «Salve», salutò timidamente e superò David, entrando in una delle camere da letto. Prima di scomparire, gridò in tono affabile da sopra la spalla: «Banjo, grande stallone, dov'è il mio tè?» La risposta giunse dal piano inferiore. «Arrivo, principessa!» Con un'espressione di sorpresa sul volto, David entrò in bagno e chiuse a chiave la porta. Con entrambi i rubinetti aperti, la vecchia vasca di ghisa si riempì rapidamente; dall'acqua bollente si alzò un denso vapore nell'aria fredda della stanza. David era immerso nell'acqua fino al collo e stava per addormentarsi, quando Banjo bussò alla porta, dicendo: «Sto tenendo d'occhio il tuo cellulare. La camera è pronta. Ti chiamo fra un paio d'ore». David riuscì a stare sveglio quel tanto che bastava per uscire dalla vasca, asciugarsi e sgattaiolare - nudo, coi vestiti in mano - in una camera con una targa falsa americana sulla porta sulla quale c'era scritto veramente
SUITE PRESIDENZIALE. 26 Sabato 26 aprile (sera) «Mi dica, mia cara, c'è qualcosa che posso dire o fare per convincerla che il suo imbarazzo è assolutamente inutile?» disse il professor Shaw. Susan continuava a mostrare un certo disagio. «Non sono riuscita a pensare a nessun altro posto...» si scusò. Il professore la interruppe. «Questo l'ha già detto. E io ribadisco che lei è la benvenuta. Di questi tempi, il sabato sera mi ricorda molto i piovosi pomeriggi domenicali di quand'ero ragazzo.» La sua voce assunse un tono gentile e condiscendente. «Mi costringo ad aspettare il notiziario di mezzanotte della BBC prima di farmi una tazza di camomilla. È una routine che reclama di essere interrotta, non crede?» Lasciò che Susan si sedesse su un enorme e morbido divano e scomparve in cucina. «Sto anche sperimentando una sensazione a lungo dimenticata che potrebbe essere interpretata come cavalleria. Mi dia qualche istante per capire dove la governante mette le tazze per gli ospiti, poi mi racconterà il motivo delle sue preoccupazioni.» Alcuni minuti dopo, erano seduti alle estremità opposte del divano a sorseggiare un tè caldissimo. «Allora, ho fatto la più grande scoperta nella storia della nostra area di studi», esordì Susan con impeto. «E questa si potrebbe definire la bella notizia. Quella brutta è che ho appena derubato la School of Antiquities, e quindi avrò bisogno di cercarmi un altro lavoro, sempre che non mi arrestino. Penso che qualcuno stia cercando di uccidermi e, se le racconto tutta la storia, lei penserà che mi ha dato di volta il cervello... e con tutta probabilità deciderà di farmi rinchiudere. Queste, secondo me, sono le notizie non troppo belle.» Aveva parlato tutto d'un fiato e, quando ebbe finito, alzò lo sguardo per cogliere la reazione di Shaw. «Mi dica se il tè è troppo caldo», la sollecitò lui. «Posso aggiungerci un goccio di acqua fredda. Non è un problema.» Susan lo fissò con tanto d'occhi, in attesa che dicesse qualcos'altro. «Sono veramente desolato», si scusò lui. «Presumo che l'aplomb sia diventata una sorta di debolezza per me. Un'ostentazione, in verità... Però mi piace credere di poter reagire a un annuncio come il suo con freddezza.» Si
portò alle labbra la delicata tazza di porcellana, poi la rimise sul piattino. «Anzi mi fa molto piacere che a condurla qui non sia stato un problema sentimentale. Avrei fatto del mio meglio per confortarla, almeno spero, ma è sempre la solita vecchia storia dacché Adamo era un fanciullo. Cominciavo a temere che mi avrebbe deluso.» Si batté le cosce con entrambe le mani. «E invece lei mi dice che è rovinata, inseguita, che è stata indotta a commettere un crimine... Inoltre ha in serbo un racconto che, a suo parere, metterà a dura prova le mie convinzioni. Trovo che la mia fiducia in lei sia stata ancora una volta ripagata. E, qualora fosse necessario ripeterlo, l'aiuterò in qualsiasi modo.» E così Susan gli raccontò una storia simile a quella che David aveva narrato a Banjo. Lei si dilungò maggiormente sul ruolo svolto dalla Collezione Teracus e meno sui vari incontri violenti. Anche la sequenza degli avvenimenti fu in qualche modo modificata; tuttavia, quando ebbe finito, aveva esposto approssimativamente gli stessi punti di David: un criminale con doti inimmaginabili era deciso a sottrarre un oggetto misterioso a un suo simile. «Buon dio», aveva esclamato bruscamente e più volte Shaw, durante il racconto. Quando alla fine Susan si appoggiò allo schienale e bevve il suo tè ormai freddo, lui commentò: «Sono molto sollevato che lei non sia rimasta uccisa durante questi drammatici avvenimenti. È un miracolo che non si sia fatta neanche un graffio». «Non è proprio così, professore. Tutto quello che posso dire è che, per fortuna, il trucco c'è. Mi hanno dato cinque punti...» S'interruppe di colpo. Si era passata una mano sulla nuca, dividendo i capelli con le dita mentre parlava, e sul suo volto si era dipinta un'espressione confusa. «Mi scusi, professore... Mi può dire che cosa vede qui?» Tenne il dito fermo su un punto del cuoio capelluto. «È qui che sono stata colpita.» Lui si alzò e andò a controllare. «Un lieve arrossamento, forse il residuo di una ferita. Quando ha detto di essere stata aggredita?» chiese poi, andando a risedersi. Susan lasciò ricadere i capelli e alzò gli occhi al cielo. «Sono dieci giorni oggi. In realtà, avrei dovuto andare a farmi togliere i punti qualche giorno fa.» Shaw annuì. «Questo è uno dei problemi quando si viene colpiti alla testa; è il momento meno opportuno per dare un consiglio medico importante. Durante l'ultima guerra, lavoravo in un ospedale londinese. Ho visto parecchie giovani donne troppo stupide per indossare l'elmetto... Forse lei
può darmi qualche spiegazione, ma io direi che quella ferita risale almeno a quattro settimane fa, anche se più probabilmente a sei, e non c'è segno dei punti.» Il volto di Susan sbiancò. «Ho usato il cerchio che il mio aggressore ha perso!» Lo fissò. «Questo pomeriggio ho provato a usarlo.» Dilatò le narici e sollevò il mento, come se le parole le venissero strappate con la forza. «Non sono sicura, ma credo...» Sembrava che le costasse una fatica enorme continuare, eppure ci riuscì. «Credo di essere riuscita a spostare un tagliacarte con la forza del pensiero. No, dimentichi quello che ho detto. L'ho fatto. Ne sono sicura.» «Può...» Shaw esitò. Si umettò le labbra con la punta della lingua. «Può mostrarmelo?» Susan assunse un'aria molto imbarazzata. «Non posso», disse, quasi gemendo. «Lo so che cosa sta pensando, ma non oso mostrarglielo. Ho riletto il riassunto del mio collega e mi sono resa conto che lui ha sbagliato la traduzione. Da quel che ho capito, è un ordine perentorio tra i... tra questa gente, chiunque sia, eliminare qualsiasi principiante. È una specie di apprendistato alla rovescia, dove i veterani si assicurano che non entri nessun nuovo talento. Neutralizzano qualsiasi potenziale rivale prima che lui impari a cavarsela.» «'Adepti', mia cara. Si stava chiedendo come chiamarli. È questo il termine che suggerirei. Coloro che sono esperti nell'ars obscura», specificò. Poi aggiunse sottovoce, come a se stesso: «Che non è il termine latino per la biancheria intima, come un mio allievo suggerì una volta». Susan ignorò quella digressione e proseguì: «Be', se pratico una di quelle arti occulte, apparentemente è come se annunciassi il fatto ai quattro venti. Non la mia identità, da quanto ho potuto capire, bensì la mia presenza. Non ho idea del raggio d'azione di cui stiamo parlando o di quanto vicini loro debbano essere per percepirmi. Ma, dato che oggi pomeriggio ho fatto qualcosa che equivale ad accendere un faro, ho preferito tagliare la corda». Rabbrividì. «È un pensiero raccapricciante. Orecchi che si rizzano e teste che si girano, adepti che, ovunque si trovino, si sintonizzano all'improvviso con quello che sto facendo.» La sua espressione era davvero terrorizzata. «Ah, forse avrei dovuto incoraggiarla a uscire con indosso solo la biancheria intima, come quella Jenkins che se ne va in giro in body e calzamaglia», borbottò Shaw. «A quest'ora, si sarebbe abituata all'attenzione universale.» Stava cercando di distrarla. «E, a proposito, penso che la sua li-
nea d'azione abbia dato i suoi frutti. Il suo Mr Hartman è stato visto parecchie volte in compagnia di Ms Jenkins da quando lei è andata a Londra.» I tentativi di Shaw di cambiare argomento riuscirono a distogliere Susan dai suoi pensieri macabri. Il suo volto si era rilassato e adesso lei stava scuotendo la testa con fare incredulo. «Mi sembra che siano passati cent'anni e che si tratti di un'altra vita. Ricorda quando la mia unica preoccupazione era quella di avere un Don Giovanni da quattro soldi per assistente?» «Sembra che in questo lasso di tempo si sia data un gran daffare, su questo non c'è dubbio. Ma, per tornare a questa situazione imbarazzante, come potrei esserle d'aiuto?» «Be', custodire documenti rubati, dare asilo a una fuggiasca e aiutarmi a svelare un segreto antico di secoli erano i punti principali della mia lista», rispose Susan. Si allungò per stringergli una mano, ricevendo per tutta risposta un sopracciglio sollevato. «Mi sento molto meglio rispetto a due ore fa, deve credermi. Il semplice fatto di aver parlato con lei mi rivela che dopotutto non sono impazzita.» «Intende in rapporto a quanto io sono pazzo?» chiese Shaw, e Susan scoppiò a ridere. Poi lui lanciò un'occhiata alla borsa stracolma e alla valigetta con cui Susan era arrivata. «Allora, vuole farmi dare un'occhiata alla refurtiva?» chiese, malizioso. «Se è pronto a entrare nella malavita...» ribatté lei. Il salotto comprendeva quella che un tempo doveva essere stata una sala da pranzo, anche se adesso era un salone unico. I due tolsero una tovaglia verde dal monumentale tavolo di mogano e iniziarono a tirare fuori i documenti rubati. Gli originali erano chiusi in cartelline di plastica a portafoglio, mentre le riproduzioni erano pinzate all'esterno. Incapace di resistere, Shaw iniziò a esaminare la pila di documenti più. vicina a sé e quel lavoro lo assorbì a tal punto che, pochi istanti più tardi, lui sembrò essersi dimenticato della presenza di Susan. Lei s'immerse nello studio di un'altra serie di documenti e i due rimasero seduti in silenzio. L'unico rumore era il sonoro ticchettio dell'orologio sulla cappa del camino. Qualche tempo dopo, Susan andò in cucina a preparare un altro tè, stavolta un English Breakfast. Shaw prese la sua tazza, sembrò ricordarsi di dov'era e chiese: «Mi sono estraniato per molto tempo? Mi deve proprio scusare. Le mie buone maniere sono un disastro. È solo che questi documenti, soprattutto alla luce di quanto mi ha detto, costituiscono una lettura
straordinaria... Lo so che le piace prendermi in giro per la mia passione per i film polizieschi», aggiunse, fissandola. «Ma devo chiederle se pensa che in questo momento corriamo qualche pericolo. Non mi preoccupo tanto per me, ma non voglio che qualcuno faccia del male a lei. Potrei fare una telefonata, se ritiene che possiamo aver bisogno di... ecco... un paio di gorilla. Ho dato lezioni al figlio di un poliziotto del posto. Un ragazzo veramente sfortunato a causa di una serie di malattie, ma che non mi ha mai dato eccessivi problemi. A parte questo, mi è stato assicurato che avrei potuto chiamare suo padre, qualora ne avessi avuto bisogno.» Susan gli assicurò che non era necessario e andò a sedersi accanto a lui. «Oh, sarebbe stato orgoglioso del mio piano di fuga, professore», disse. «Sono salita su una carrozza della metropolitana, poi sono scesa poco prima che le porte si chiudessero. Dopodiché ho fatto una fermata, sono scesa e mi sono attardata davanti alle barriere dell'uscita, fingendo di cercare il biglietto, finché tutti quelli che stavano uscendo non mi hanno superato. Quindi sono corsa giù e ho preso al volo un altro convoglio che andava nella direzione opposta. A meno che non mi abbiano installato un microfono spia, sono sicura che nessuno sa dove mi trovo.» «Non ho proprio idea di quali siano le tattiche al riguardo, anche se il fatto di essere sottoterra sicuramente è un vantaggio», commentò Shaw. «Ai miei tempi, il fuggiasco di solito lasciava dietro di sé una bustina di fiammiferi sulla quale, il più delle volte, c'era scritto un importante numero di telefono. Confido che lei abbia fatto attenzione a non commettere questo errore.» Susan annuì con un sorriso. Shaw indicò le pile di fogli sul tavolo. «Non ha letto nulla in questi documenti che suggerisca un metodo arcano per individuare le persone scomparse?» Lei si strinse nelle spalle. «Alcuni di questi documenti sembrano suggerire che tutto è possibile, ma apparentemente fanno rientrare le abilità in due categorie: una specie di 'set da lavoro' che David e io abbiamo avuto modo di vedere, e poi un 'pacchetto premio', una sorta di guru in versione mistica che solo pochi, vecchi e folli eremiti possono raggiungere. Il modo in cui funziona pare molto Zen... Sembra che si possano avere questi poteri extra solo se si è così distaccati dal mondo da non doverli mai usare per il perseguimento di uno scopo pratico. Non so se un mistico sarebbe in grado di rintracciarmi, ma non si parla del fatto che un normale adepto possa farlo... All'inizio, ho pensato che le abilità di livello superiore fossero solo
un'ostentazione priva di fondamento, ma, stando a ciò che ho visto e che sono giunta ad accettare, probabilmente è meglio avere una mente aperta. In ogni modo, per rispondere alla sua domanda, non credo di correre un immediato pericolo. Sono venuta qui con due problemi. Primo: ho avvisato tutti quelli che ho potuto a Londra che c'è in circolazione un pazzo. Non sono stata seguita, quindi nessuno può sapere che mi trovo da lei. Secondo: la collezione. Credo che questo Jan la cercherà, ma dubito che abbia modo di sapere che l'ho spostata. Mi rendo conto che sto facendo ricadere la cosa su di lei, ed è una richiesta enorme, ma spero che possa aiutarmi a uscire da questa faccenda.» Shaw si era alzato, come se avesse intenzione di andare in cucina. Si fermò e assunse un'aria circospetta. «Non crede che quel giovanotto vigoroso, David, potrebbe essere di maggiore aiuto?» Susan abbassò lo sguardo sul tavolo. «È complicato», ribatté. «E comunque non sono riuscita a rintracciarlo quando ho avuto bisogno di lui, quando ho pensato che quel pazzo mi avesse in pugno. Ho bisogno di qualcuno di più affidabile.» «Ahhh», commentò Shaw, con l'aria di chi la sa lunga. Poi le batté affettuosamente una mano sulla spalla. «Allora i problemi sentimentali ci sono, dopotutto, e non c'è tempo per sistemarli. Lei ha già un sacco di cose cui pensare. Eppure i momenti difficili hanno il potere di cementare un rapporto come di dividerlo.» Persa nei suoi pensieri, Susan non ribatté. Poi sbadigliò, coprendosi la bocca con la mano. Dopo un paio di secondi stava ancora sbadigliando e agitava l'altra mano a indicare che stava cercando, senza successo, di terminare lo sbadiglio. Shaw scoppiò a ridere. «Caspita, mi scusi Accidenti», farfugliò lei. Shaw si avviò verso la cucina e la scala che stava oltre. «È meglio che tiri fuori le coperte nella camera degli ospiti. Ci sono acqua calda e tutti i comfort della civiltà moderna. Si ricorda la strada?» Susan fece per rispondere, ma si ritrovò a sbadigliare di nuovo. Scosse la testa. «Lei penserà che ormai dovrei essere abituata all'adrenalina. Mi sa che tra poco avrò un crollo. Mi preoccuperò di queste cose domattina.» E indicò il tavolo. Quindi seguì Shaw attraverso la cucina e lungo le scale. Poi, mentre lui sistemava la stanza degli ospiti, s'infilò nel bagno. Quando uscì, l'uomo era a metà della scala. Si fermò e le disse: «La lascio dormire un po'... a meno che non preferisca il contrario».
L'orologio di Susan faceva l'una meno un quarto del mattino. «Può chiamarmi alle nove, se non sono in piedi?» chiese. «Certo. Mrs Potter arriva verso le otto per dare una rassettata. Vedrò di convincerla a preparare qualcosa per colazione. Dorma bene, cara ragazza.» «Grazie, professore», disse Susan. In camera, la lampada sul comodino era accesa, il copriletto era stato ripiegato e una spia rossa indicava che una termocoperta stava riscaldando le lenzuola. Susan si spogliò in fretta, spense la termocoperta e s'infilò tra le lenzuola con un sospiro. Le palpebre si chiusero prima di riaprirsi quel tanto che bastava per spegnere la luce. 27 Domenica 27 aprile (il mattino dopo) Susan stava mangiando pancetta, uova strapazzate, salsiccia, pane tostato, pomodori e funghi saltati in padella. Seduto di fronte a lei, al piccolo tavolo della cucina, Shaw stava facendo altrettanto. «Il mio medico sostiene che posso mangiare una di queste ogni due o tre anni senza praticamente nessun effetto collaterale», esordì lui, tenendo sollevato un pezzetto di salsiccia infilzato nella forchetta. «Anche se consiglia di attendere sei mesi prima di fare una nuotata.» Susan bevve un sorso di tè da una tazza dorata e chiese: «Ha dormito qualche ora questa notte, professore?» «Be', può anche chiamarmi Joseph o Joe», ribatté lui. «Non credo che lo farà, ma mi sembra che, dopo aver completamente ribaltato la nostra professione, lei non dovrebbe rivolgersi a me come se fossi io l'esperto.» Susan non fece commenti e lui proseguì: «Comunque, faccia come crede. Per rispondere alla sua domanda, forse mi sono appisolato in poltrona per un paio di minuti, tuttavia per la maggior parte del tempo sono rimasto sveglio. Che genere di studioso sarei se, ricevendo questi documenti in casa mia, e sapendo ciò che contengono, me ne andassi a dormire? Inoltre, di questi tempi, il sonno non mi è più necessario del pulirmi gli occhiali... è solo un semplice aiuto per vedere le cose in modo più chiaro». «Allora ha scoperto qualcosa di sconvolgente?» volle sapere Susan. «Intendo dire al di là delle bombe di cui siamo già a conoscenza, ehm, Joseph? Joe... Professore...»
«Ho trovato un codice», rispose lui con nonchalance, palesemente compiaciuto di sé, benché cercasse di nascondere la sua eccitazione. «Voglio sapere tutto», esclamò Susan. «Il suo dottor Lampwick ha lavorato male», ribatté lui. «Uno dei documenti della collezione utilizza un antico cifrario dei mercanti, nel quale mi ero già imbattuto per caso una volta. Mi sarei aspettato che il contenuto del documento facesse sorgere qualche sospetto, essendo una lettera in cui si discute principalmente del tempo, delle condizioni delle strade e della salute di una famiglia numerosa con nomi improbabili.» «Se è quello che immagino, Bernie lo aveva classificato come corrispondenza personale di un precedente proprietario della collezione», commentò Susan con un'aria di vago imbarazzo. «Io mi sono concentrata sui documenti che trattano direttamente di magia, lasciando a lui le parti contestuali.» «Uhm, be', il dottor Lampwick ha trascurato un messaggio velato piuttosto interessante, in cui si parla proprio dell'oggetto che lei ha chiamato Marker. Adesso penso di conoscerne la funzione. Ma, prima di spiegargliela, potrebbe rinfrescarmi la memoria sulle ipotesi che lei ha fatto?» Susan parve dubbiosa. «Non capisco perché lo voglia sapere, visto che ha scoperto la verità, ma confido che abbia in mente qualcosa di più nobile che farmi pesare i miei errori. Allora... Sappiamo che il Marker ha qualcosa a che fare con la guarigione e per un po' ho pensato che questo Jan fosse gravemente malato.» Shaw la interruppe. «Mi scusi, ma cosa glielo ha fatto pensare?» Susan si accigliò. «Forse non gliene ho parlato, ma ho visto che aveva dei segni sulle braccia, segni molto simili a quelli che caratterizzano il sarcoma di Kaposi. Li avevo visti quando facevo volontariato... avevamo a che fare con tossicodipendenti e senzatetto. E una malattia che si contrae quando...» «Quando l'AIDS indebolisce il sistema immunitario», la interruppe di nuovo Shaw. «Naturalmente», borbottò poi, come se quel fatto combaciasse alla perfezione coi suoi ragionamenti. «No, questo particolare non l'ha menzionato, però mi ha detto che, secondo lei, soffriva di una malattia terminale. Considerata la sua straordinaria prestanza fisica, mi ero chiesto perché.» Avevano finito di mangiare e allontanarono i piatti. In quell'istante, Mrs Potter entrò in cucina; con modi sbrigativi raccolse i piatti, versò loro dell'altro tè da un'enorme teiera ricoperta da un copriteiera fatto all'uncinetto,
poi uscì in tutta fretta, sempre borbottando. «Grazie, Mrs Potter. Una colazione squisita», la ringraziò lui, poi riportò l'attenzione su Susan. «E lei ha perfettamente ragione: è risaputo che il sarcoma di Kaposi si manifesta tendenzialmente in seguito all'AIDS. Ma lo sapeva che è anche una malattia che affligge gli anziani? La vecchiaia indebolisce il sistema immunitario proprio come l'AIDS o certi farmaci. C'è anche una forma tipica dell'Africa equatoriale, se la memoria non m'inganna, che tuttavia non ha nulla a che fare con la nostra situazione.» «Come fa a sapere tutte queste cose?» chiese Susan, sorpresa. Lui sorrise. «Tenga presente che ho trascorso gran parte dei miei ottant'anni a leggere e a memorizzare. Alla fine della seconda guerra mondiale avevo quasi ultimato il tirocinio in medicina e, sebbene poi mi sia reso conto che non faceva per me, non ho mai perso il mio interesse per questa materia.» «Oh, non lo sapevo. Deve aver studiato più o meno nel Giurassico, eh?» commentò Susan. Lui le rivolse un sorriso caustico e lei ridacchiò, poi si fece di nuovo seria. «Adesso sto zitta. Non la distrarrò più, finché non mi avrà detto che cosa c'era in quel codice.» «Bene. In base al testo che ho estrapolato, pare che il Marker sia in grado di restituire la giovinezza a coloro che ne conoscono il segreto. Il brano descrive l'ingresso in una sorta di trance simile alla morte, della cui durata non sono sicuro; ma, una volta fatto il suo corso, il destinatario si ritrova in perfette condizioni fisiche. La descrizione dà l'idea che il soggetto emerga da un bozzolo, ma è difficile operare una distinzione tra gli elementi figurati e quelli letterali.» «Be', ho un'esperienza diretta sugli immediati benefici fisici connessi alla pratica della magia», commentò Susan. «Anche se, per altri versi, essa riduce la tua aspettativa di vita. Però non sono riuscita a capire a che punto interviene il Marker.» Protese il labbro inferiore, riflettendo. «Quindi: gli adepti invecchiano, benché non con la stessa rapidità dei comuni mortali. Quando ciò succede, hanno bisogno del Marker per allungarsi la vita. Sicché stiamo dicendo che Jan è un uomo anziano?» «Probabilmente ha qualche anno più di me», rispose Shaw. «E il prossimo giugno io ne compirò ottantatré.» Entrambi rimasero pensierosi per un po'. Fu Susan a parlare per prima. «Avremmo dovuto discutere di questo argomento a mezzanotte, davanti a un fuoco scoppiettante. Non riesco a starmene qui seduta, a guardare i passeri che becchettano avanzi di pancetta fuori della finestra, e parlare d'im-
mortalità e di vecchi di novant'anni in grado di vincere le Olimpiadi. Quasi quasi vorrei avere ancora le mie cicatrici per rammentare che tutto ciò è reale.» «Se da un lato credo a ciò che lei mi ha detto e a quello che ho letto questa notte, dall'altro sembra un sogno, lo ammetto. È come la descrizione del Big Bang: indubbiamente accurata, ma difficile da conciliare col panorama che ci circonda.» A Susan venne in mente un altro particolare. «Escludendo l'ipotesi che Jan abbia usato il Marker in passato, allora è un figlio del XX secolo... Almeno questa è la mia impressione, benché non sappia spiegarne il motivo. In ogni modo, quanti anni aveva Dass, secondo lei?» Lui allargò le braccia. «Possiamo solo fare delle speculazioni. In teoria, presumo che fosse vecchio quanto il Marker, ma lei non lo ha descritto con tratti orientali e io dubito che in Cina ci fossero molti europei al tempo della dinastia Qin. Il cifrario che ho scoperto risale all'Italia della fine del XVI secolo... Chiunque abbia scritto il messaggio, a quel tempo possedeva il Marker e non credo che si trattasse di Dass; penso che fosse arabo di nascita. Proviamo a riunire tutti gli elementi: Dass non era ancora entrato in possesso del Marker quando il messaggio è stato scritto e tale messaggio utilizza un codice inventato intorno al 1580. Quindi potremmo dedurre che, probabilmente, Dass non ha acquisito il Marker prima del 1600, più o meno. Perché potesse usarlo immediatamente, sarebbe dovuto nascere agli albori del secolo precedente. Credo che si possa presumere che non avesse più di cinquecento anni.» Susan si lasciò andare contro lo schienale della sedia, ovviamente turbata da quell'idea. «Cinquecento anni... Ragazzi, non mi sorprende che David l'abbia trovato imponente.» Shaw increspò le labbra, pensieroso. «È un salto fondamentale nell'ordine delle cose, glielo garantisco. Forse mi sto semplicemente illudendo di credervi. Ma, in un modo curioso, questo ha molto più senso del mondo in cui sono vissuto in tutti questi anni.» Protese una mano, col palmo all'insù, e aggiunse: «Prenda la continuità dell'alchimia; come ha potuto essere così popolare per parecchie centinaia di anni senza conseguire neppure un singolo successo?» «Oh, l'alchimia», esclamò Susan, dimenandosi sulla sedia. «Ho una teoria. Lei sa che il linguaggio dell'alchimista è sempre intenzionalmente ambiguo. Per l'uomo, viene utilizzata sempre la stessa simbologia - Marte e ferro -, mentre per la donna si ricorre a Venere e rame... Tanto che non si
riesce a capire se si sta leggendo un trattato di astrologia o di chimica, giusto?» Ridacchiò, imbarazzata. «È ovvio che lei sa benissimo tutte queste cose. Comunque stavo pensando al modo in cui, secondo molti alchimisti, si dovevano purificare il corpo e la mente prima di passare alla purificazione del metallo grezzo in oro; loro avevano l'impressione che questi tre elementi fossero collegati. Be', e se gli studiosi avessero confuso la causa e l'effetto? E se si dovessero purificare la mente e il metallo grezzo prima di purificare il corpo? L'oro puro, sotto forma di tributo, più certi esercizi mentali conferiscono... una costituzione sovrumana. Prendiamo Jan. Ha novant'anni e potrebbe strappare le palle a Bruce Lee.» Le sopracciglia di Shaw si sollevarono, ma Susan non si fermò. «Se è questo ciò che l'alchimia offriva, allora si spiegherebbero alcune cose. Per me non ha avuto mai senso che l'alchimia fosse collegata alla produzione dell'oro... perché era un processo costoso e destinato al fallimento. Qual è lo schema, sempre in auge, che fa arricchire in fretta, e nel quale inizi ricco e finisci per essere sempre più povero?» «Intrigante», commentò Shaw. «Sta pensando al leggendario conte di St. Germain?» «E ad altri», ribatté Susan. «Adesso capisce perché è così facile accettare ciò che mi ha raccontato e i documenti che mi ha portato?» proseguì lui. «Quando una nuova idea riapre così tante prospettive d'indagine finora esaurite, non si può fare a meno di pensare che sia giusta... in quale altro modo potrebbe essere così fruttuosa?» Ormai Susan traboccava di suggerimenti. «Esattamente. Pensi ai poteri di guarigione del re che imponeva le mani... Parliamo di uomini potenti che indossavano corone d'oro intorno alla testa per tutta la loro vita. A questo proposito, come pensa che sia stata associata l'idea dell'aureola a persone in grado di compiere miracoli?» «Mi dica, mia cara, cosa pensa di fare con la collezione?» Susan s'irrigidì immediatamente, ma lui proseguì con dolcezza: «Devo toglierle questo fardello?» L'espressione di Susan suggeriva che lei era combattuta da due emozioni contrastanti. L'offerta di Shaw da una parte la sollevava e dall'altra la terrorizzava. «Ho bisogno di fare qualcosa a questo proposito. Ma potrebbe essere una sentenza di morte per chiunque se ne faccia carico. E deve essere qualcuno che comprende i rischi reali che Jan comporta. Se l'avessi lasciata alla School of Antiquities, l'avrebbero messa sotto chiave, magari
con due guardie davanti, e Jan sarebbe entrato tranquillamente a prendersela. Potrei tenerla io, ma non so dove andare.» La sua voce era carica d'ansia. «Porrei tornare negli Stati Uniti, e sparire da qualche parte.» Shaw fece un cenno come per calmarla. «Mi scuso se sto per sollevare un argomento che da un lato è poco delicato e dall'altro piuttosto personale, ma le assicuro che ho un buon motivo. Secondo lei, quanto tempo mi resta da vivere?» Susan fu colta alla sprovvista. Sembrava incapace di rispondere. «Quand'ero a Princeton, avevo un amico, un uomo parecchio più anziano di me, aveva allora ottantacinque anni. Diceva sempre: 'Ogni giorno è regalato'. Non ci si può ragionevolmente aspettare di vivere tanto a lungo come lui, lo si può solo sperare. Perciò è difficile stigmatizzare qualcuno se fa progetti irragionevoli su come trascorrere gli ultimi anni della propria vita. Se si è così fortunati da raggiungere una tale età e da ritrovarsi in condizioni abbastanza buone, allora questo dev'essere considerato come un dono da usare a propria discrezione.» Alzò lo sguardo per vedere se Susan lo stava seguendo. Poi un'ombra attraversò il suo volto e lui distolse lo sguardo. Per qualche istante non disse nulla e, per puro istinto, Susan evitò d'interrompere quel silenzio. Adesso sembrava che un peso stesse schiacciando Shaw e, quando lui infine parlò, quella pesantezza era evidente anche nelle sue parole: «Nonostante il mio interesse giovanile per la medicina, non ho la minima propensione per i controlli annuali. L'ultima conversazione che ho avuto col mio medico non è stata particolarmente piacevole». Rivolse a Susan un sorriso mesto e proseguì. «Aveva un paio di notizie sgradevoli da darmi, e poco incoraggianti.» Fece una pausa per vedere se lei aveva compreso. «Non è una questione di 'se'; è una questione di 'quanto prima'», precisò. Susan sbiancò. Shaw proseguì, la voce un po' tesa, come se gli facesse male la gola. «Forse ha compreso ciò che sto cercando di dirle, ma il succo è che l'idea di trascorrere più tempo con questa collezione mi dà una grande gioia. E se qualcuno dovesse venire a cercarla, sono sicuro di riuscire a tenerla lontano dalle sue grinfie, indipendentemente dalle offerte allettanti che potrebbe farmi. A dare retta al mio medico, ormai c'è ben poco che qualcuno possa sottrarmi. Mentre lei, mia cara, ha un futuro davanti a sé, e anche promettente, e noi dobbiamo fare tutto ciò che possiamo per difenderlo.» Una lacrima furtiva scivolò sul volto di Susan. Il suo labbro inferiore rifiutava di stare fermo e lei fissava Shaw come se lo avesse già perso.
Lui fece del suo meglio per restare impassibile. «Guardi la situazione in questi termini: nei documenti ci sono risposte a domande sulle quali rifletto da quando sua nonna era una ragazza. L'idea allettante è che posso arrivare molto vicino a quelle risposte e, nel contempo, aiutare un'amica nell'ora del bisogno. L'alternativa? Qualche mese in più di vita tranquilla.» Le rivolse uno sguardo di scusa. «Se vorrà perdonare il mio abominevole egocentrismo, preferirei concludere la mia esistenza di studioso con qualcosa che ricordi anche solo vagamente un atto eroico.» Gli occhi di Shaw erano lucidi e leggermente arrossati. Susan non ebbe più remore e lasciò che le lacrime le scendessero sulle guance. Lui si alzò, spingendo indietro la sedia, e andò a prendere il bollitore. «Mi sa che il tè rimasto è un po' troppo forte. Perché non ne prepariamo un altro?» Guidata dal suo sesto senso, Mrs Potter apparve in cucina in quel preciso istante. «Ci penso io, professore, lei faccia compagnia alla sua ospite», disse. Aveva parlato ad alta voce, come se Shaw fosse un po' duro d'orecchi, benché lui non avesse mostrato la minima difficoltà ad afferrare i toni più bassi di Susan. Mrs Potter non parve notare il turbamento della ragazza. Ma quando Shaw riprese il suo posto, la donna posò un vassoio di dolci, uscito apparentemente dal nulla, di fronte a Susan. Era ricolmo di frollini. «Ne assaggi uno. Li faccio io. Squisiti, se mi è consentito dirlo.» Accanto al vassoio c'era un fazzoletto, che Susan usò subito per asciugarsi le lacrime. «Ne riparleremo più tardi», le disse Shaw. Lei annuì, poi si guardò intorno alla ricerca di qualcosa che occupasse la sua attenzione, per distrarsi dal dolore che provava. «Dovrei telefonare a mia sorella», disse, la voce un po' più impastata del solito. «E David probabilmente sarà nel panico. Gli ho detto che avevo urgente bisogno di vederlo.» Andò nel salone dove aveva lasciato la sua borsa appesa alla spalliera di una sedia. Tirò fuori il cellulare, poi proruppe in un: «Merda!» «Non l'ho mai sentita usare un linguaggio simile, Mrs Potter», dichiarò Shaw. «Non si sente repressa, vero?» «E non mi sentirà mai», ribatté la donna, sdegnata. «Mia madre non l'avrebbe mai tollerato.» «Una donna formidabile sotto tutti i punti di vista», concordò lui, rivolgendole un sorriso incerto. «Qualche problema?» chiese poi a Susan. «La batteria è scarica», rispose lei. «Lo tengo sempre in carica, però mia
sorella mi ha preso il caricabatterie. Posso usare il suo telefono, professore?» E prese a rovistare nella borsa, alla ricerca della rubrica. «Ma certo. Ce n'è uno in anticamera», ribatté lui. Poi, avvicinandosi a Susan, le mormorò: «E mi ricordi di raccontarle quel che ho appreso sul combattimento tra adepti». Susan alzò un sopracciglio, come a invitarlo a proseguire, ma non smise di cercare nella borsa. «Penso che sia importante, anche se non so perché... Pare che non si possa usare la magia per attaccare un altro adepto.» Adesso Susan aveva la testa quasi dentro la borsa. «Una sorta di norma di comportamento, giusto?» «No, mia cara, non è una norma», replicò lui. «Semplicemente non funziona. Non più, afferma il testo, che se cercassero di usare la magia senza il loro ornamento d'oro.» Alla fine Susan riuscì a trovare la rubrica e si avviò verso l'anticamera. Shaw aveva l'aria di un comico che sta per pronunciare l'ultima battuta. «Non indovinerebbe mai in quale modo risolvono le loro dispute», continuò, pieno di aspettativa. Susan aveva il ricevitore posato contro l'orecchio. Aveva ascoltato le osservazioni di Shaw solo in parte. «Cioè? Quella storia sulla difesa funziona ancora?» chiese con aria assente. «Funziona», confermò lui, con aria sempre più compiaciuta. «Be', allora, in questo caso, presumo che se vogliono attaccarsi a vicenda, debbano...» Susan s'interruppe. Dall'altro capo della linea risposero. «David?» disse lei. 28 Domenica 27 aprile (mattino) Seduti nel laboratorio di Banjo, i due amici stavano bevendo il caffè. In qualche capitolo precedente nella storia della casa, quella stanza doveva essere una serra. La luce del sole, per quanto pallida, entrava senza impedimenti attraverso il lucernario spiovente. Sparsi qui e là, c'erano numerosi mobili in vari stadi di riparazione. C'erano anche grandi pezzi di ferro e di vetro, che potevano essere opere d'arte o semplicemente resti di macchinari danneggiati dal fuoco, e infine c'era un banco a parte per svolgere qualche sorta di minuzioso lavoro di metallurgia.
I due amici sedevano su alti sgabelli, di quelli che si usano per lavorare dietro un banco, il cui sedile era stato rivestito con vari strati di moquette. Una stufetta soffiava aria calda verso i loro piedi. «Scommetto che gli ultimi avvenimenti sono stati una botta di vita per il tuo lavoro», disse Banjo. David annuì. «Be', è stato sicuramente un po' più interessante, in questi ultimi giorni, per un verso o per l'altro», ammise, mantenendo un'espressione impassibile e trattenendo un sorriso. «Decisamente diverso da un paio di mesi fa.» «Già», convenne Banjo. «Chi lo avrebbe detto, un mese fa, che saresti stato disposto a rischiare la vita per la tua società?» David alzò lo sguardo. Gli ci volle qualche istante prima di chiedere con circospezione: «Ti stai riferendo al mio cosiddetto 'desiderio di morte'?» Banjo alzò le mani. «Non l'ho mai chiamato così. Secondo me, stavi semplicemente raggiungendo un livello di noia che potremmo definire pericoloso. Ricordi che avevi in mente di attraversare la Cambogia in bicicletta o di girare la Siria in autostop con una benda sugli occhi o qualcosa di simile? Solo adesso puoi dare corpo alla tua fissazione di avere un incontro ravvicinato con la morte.» David assunse un'aria irritata. «Dobbiamo discutere ancora di questa faccenda, Banjo?» L'amico sollevò un dito, come se stesse per dire qualcosa. Poi, in tono estremamente pacato, fece: «Dimmi che non hai rischiato la vita più di, oh, diciamo una volta alla settimana dal nostro ultimo incontro e io lascerò perdere». «Lo sai che è così», ribatté stancamente David. «Già. E io voglio solo sapere perché. Di certo non c'è nulla di male se me lo dici», replicò Banjo. David tentò di dire qualcosa, ma si ritrovò senza parole. Banjo non lo incalzò né apparve impaziente; attese tranquillamente che l'altro raccogliesse le idee. «Be', in mancanza di un'altra definizione che non suoni stupida, direi che si è trattato del destino», dichiarò David alla fine. Aveva pronunciato quell'ultima parola con una certa reticenza, come se si aspettasse di essere contraddetto o deriso. Ma Banjo si limitava ad ascoltarlo. «Come mi hai detto tu, tutti crediamo nel destino», proseguì allora David. «Sono sicuro che più o meno tutti siano convinti che la loro vita corri-
sponda in qualche modo al tipo di persona che sono. Immagino che non sia un aspetto sul quale molta gente riflette, dato che non crea problemi di sorta. Ci sono persone tranquille che conducono un'esistenza tranquilla. Il loro mondo interiore coincide con quello esteriore, se capisci cosa intendo.» Alzò lo sguardo. «Be', i miei non coincidono», affermò con decisione. «Non credo che il mio destino sia quello di avere una vita tranquilla», soggiunse, guardando in tralice Banjo per studiare la sua espressione. «È ovvio che non voglio farmi ammazzare, ma quando questa storia assurda è iniziata ho dovuto scegliere: accettare di assumermi tutti i rischi del caso, intuendo dove ciò mi avrebbe portato, oppure prendere la decisione più sensata e darmela a gambe.» Si strinse nelle spalle. «Sapevo che dovevo buttarmi. E sai una cosa? È la prima volta da non so quanto tempo che mi sento veramente me stesso.» Sembrava che avesse finito, ma Banjo disse: «Va' avanti». David si rese conto che aveva dell'altro da dire. «Ti eri reso conto già da un pezzo che cominciavo a non poterne più, vero? Erano così tante le cose che mi lasciavano indifferente e nulla di ciò che facevo lo consideravo veramente importante. Inoltre avevi ragione nel dire che ero disposto ad assumermi dei rischi - forse anche qualche rischio stupido, presumo giusto per capire se sarebbe successo qualcosa. Ma questo è diverso. Questa cosa ha trovato me. Non so se esista il destino; forse ha ragione quel tizio che diceva che 'il carattere è il fato' e io mi sono inventato tutto. Ma ti dirò una cosa: ho la sensazione che questo sia ciò che devo fare. Andare sino in fondo a questa faccenda, fermare quel pazzo di Jan, fare qualunque cosa mi venga richiesta.» Trasse un respiro. «Non voglio che qualcuno pensi che mi abbia dato di volta il cervello, ma preferisco fare la parte del fallito continuando per questa strada, che vivere per cinquant'anni in periferia, andando a giocare a tennis nei week-end. Insomma, per riassumere: a essere sincero, sono sprecato nelle assicurazioni», concluse, aspettandosi chiaramente una risata. Ma Banjo non rise. Rimuginò su quanto aveva detto David, e alla fine disse: «Sì, ci credo». E s'illuminò come se David avesse appena superato un test o gli avesse appena perdonato un torto passato. «Senti, mi sta bene che tu segua il tuo destino e tutto il resto, ma pensi che potresti evitare di farti ammazzare?» chiese poi. «Ah, e se hai un po' di cervello, potresti lasciare che sia Susan a riflettere un po' per te.» David sembrò valutare l'idea. «Voglio dire, guarda in faccia la realtà: lei è molto più intelligente di te,
giusto?» proseguì Banjo. E sorrise come se avesse fatto un complimento a David. Dopo una breve pausa, l'altro cambiò argomento. «Allora, come vanno le cose fra te e Melissa? Sempre che fossero di Melissa le tette su cui ho posato gli occhi.» «Ehi, bada agli affari tuoi», scherzò Banjo. «No, è fantastica, amico, sono in quella fase dove non sai dire se si tratta di amore o di qualcosa di meno profondo ma di ugualmente bello. Suppongo che dovrò vedere se si esaurisce. Ecco, comunque sarebbe un'ottima cosa se non accadesse.» La chiacchierata sembrava giunta alla sua naturale conclusione. David si stava alzando, pronto a tornare in salotto. Prese il suo cellulare dal banco e lo sollevò, controllando per la centesima volta il display. Anche Banjo si alzò. «Ascolta, c'è qualcosa che posso fare in questa storia di guardie e ladri? Intendo dire, giusto per parlare, se Susan non chiama entro un paio d'ore, vuoi che ti aiuti a cercarla? Oppure avevi in mente qualcosa riguardo al cattivo? Non so come potrei esserti utile, ma se ti viene in mente qualcosa, l'offerta è valida.» Banjo riuscì a suonare abbastanza noncurante degli eventuali rischi. David scosse la testa, mostrando il suo apprezzamento. «Per me è meglio se tu ne resti fuori; rimane una via di scampo segreta. Ma grazie comunque.» Poi cinse Banjo col braccio e gli diede una stretta. «Sei un buon amico», disse, con un largo sorriso. «Tieni giù le mani», esclamò l'altro, fingendo di essere infastidito dal contatto. «Trasformarmi in un gay quando di sopra ho una piccioncina che mi sta aspettando.» David stava ancora sorridendo e fece per ribattere quando un suono lo bloccò di colpo. Il suo cellulare stava suonando. Lanciò un'occhiata al display. «Non conosco il numero», mormorò. Banjo fece un cenno, come a dire: «Ti lascio solo», e uscì dal laboratorio, accostando la porta alle sue spalle. Una volta solo, David rispose alla chiamata: «Pronto?» «David, sono Susan.» Si capiva immediatamente che era sollevata di potergli parlare. «Come stai? Dove sei?» chiese lui, ansioso. «Sono a casa del mio professore, a Cambridge. Sto bene», rispose lei, come se fosse la cosa più naturale di questo mondo. David si accigliò. «Fantastico», ribatté, senza però suonare convincente. «Perché... non hai chiamato?»
«Sto chiamando», replicò lei, in tono poco amichevole. La preoccupazione di David si era trasformata in qualcos'altro. Era come se l'atteggiamento disinvolto di lei l'avesse offeso. «Intendevo dire perché non hai chiamato prima. Ho passato tutta la notte a cercarti, perché pensavo che avessi bisogno del mio aiuto.» Era iniziata come una spiegazione, ma ben presto assunse il tono di un'accusa. «Ero disperato, aspettavo una tua chiamata. Mi sono persino appostato fuori della casa di Jan, nel caso ti avesse portata là...» «Che cos'hai fatto?» esplose Susan. David cercò di mantenere la calma. «Mi hai lasciato un messaggio in cui dicevi che era fuori della porta.» «Io non ho mai detto una cosa del genere», ribatté lei, ma una punta d'incertezza tolse vigore alla sua affermazione. «Dopo tutto quello che abbiamo passato, sei tornato a cercarlo?» «Tu mi hai detto che Jan era fuori della porta, poi non ho più avuto tue notizie. Che cosa avrei dovuto fare?» esclamò lui. «Spassarmela?» Poi cercò di controllarsi. «Senti, non voglio litigare.» «Non credo che spetti a te deciderlo», ribatté Susan freddamente. «Ma del resto non mi sorprende che tu sia convinto di poterlo fare.» David aveva appoggiato una mano sul banco accanto a lui. Ci caricò tutto il peso del corpo, spalancando la bocca, rosso in viso. «Io...» fu tutto quello che riuscì a dire. «Questo non è...» Ma anche Susan ebbe qualche difficoltà a terminare la frase. Subito dopo la sua voce risultò più dolce, ma non era chiaro se avesse rinunciato a recriminare o se lei stesse semplicemente cercando di non discutere. «Vieni a Cambridge», disse alla fine. «D'accordo», acconsenti David, la voce carica di un'emozione indefinita. «Ti detto l'indirizzo», riprese lei, con un tono più dolce. David rispose con una certa rigidità, la rabbia improvvisa sostituita da una specie di compostezza forzata. «Allora ci vediamo fra un po'», concluse, cercando invano di risultare allegro. Entrambi riagganciarono. Banjo, che era rimasto ad ascoltare dietro la porta, adesso la spalancò, senza preoccuparsi di nascondere il fatto che era rimasto a origliare. David non reagì. Aveva l'aria di chi avesse ricevuto un pugno nello stomaco. Banjo imitò un accento americano altisonante ed esclamò: «Qual era il suo problema?» David aveva ancora la testa china. Sbuffò. «Ha ovviamente cambiato i-
dea sul fatto che avesse bisogno del mio aiuto, ieri sera, e ha pensato che non valesse la pena fare una telefonata.» Sembrava addolorato ma anche incredulo. «Eh, le donne...» commentò Banjo, che non sembrava condividere la sua disperazione. «Perché non rifletti un po' su questa cosa? E se, nonostante il fatto che abbia chiesto il tuo aiuto, tu scoprissi che dopotutto non vuole essere salvata da te, ma che nel contempo non ha cambiato idea? Mi segui?» David alzò lo sguardo sull'amico. «No», ribatté. Allora Banjo ripeté in tono cantilenante: «E se, nonostante il fatto che abbia chiesto il tuo aiuto, tu scoprissi che dopotutto non vuole essere salvata da te, ma che nel contempo non ha cambiato idea?» David lo fissava, confuso. «Forse non sono capace di togliere le mie travi...» borbottò Banjo. Poi, dopo quel commento criptico, uscì, mormorando: «Certo, con una donna così...» David aveva già percorso un buon tratto della M11 ed era a venti minuti da Cambridge quando il suo cellulare segnalò l'arrivo di un SMS. Il testo, proveniente dal telefonino di Susan, iniziava con le parole: SONO ANDATA A COMPRARE UN NUOVO CARICABATTERIE, seguito da un indirizzo e dalle istruzioni per raggiungerlo. Una volta arrivato alla periferia della città, David dovette accostare per controllare la carta stradale, ma individuare lo splendido cottage di Shaw, poco distante dal centro cittadino, non fu difficile. Quasi impossibile, invece, fu trovare un parcheggio. Alla fine, David s'infilò nel parcheggio riservato ai clienti di un grande magazzino, e tornò a piedi verso la strada dove abitava il professore. Quando arrivò, fu Susan ad aprire la porta. Indossava un maglioncino bianco con lo scollo a V, un paio di jeans e degli stivali rossi. Aveva un'aria ansiosa, il labbro inferiore che tremava. Lui la fissò con fare guardingo. Ma, prima che lui potesse parlare, lei si avvicinò e lo abbracciò. Lui la strinse tra le braccia. «David», disse Susan con sollievo, la testa premuta contro la giacca. «Ciao», ribatté lui con una risata incerta, il nodo di tensione alla gola improvvisamente scomparso. Quando si separarono, lei disse: «Mi dispiace di essere stata dura con te al telefono». Era chiaro che aveva un paio di cose da dire, prima di entrare
in quella bella casa. Lui chinò la testa di lato. «Stavolta, mi sa che ho cominciato io», si affrettò a dire. «Mi sono comportato come un padre ansioso. Ma ero così preoccupato che la prima reazione, dopo aver capito che stavi bene, è stata quella di aggredirti.» La guardò negli occhi. «Ero davvero preoccupato. Il tuo messaggio era così inquietante.» «E...?» lo incalzò lei, come se lui avesse dimenticato di dire «per favore». Lui assunse un'aria imbarazzata. Sorrise timidamente e concluse: «E mi dispiace». Lei lo strinse di nuovo, poi lo accompagnò nel salone. «Ah! Avete finito di far uscire tutto il calore. Bene, bene», esclamò con energia Shaw. David sorrise, ma Susan parve preoccupata. «Le vado a prendere il maglione, professore», si offrì. Shaw agitò una mano. «Era sarcasmo, non ipotermia.» Osservò David, la cui mole risultava esagerata nel giaccone di pelle. L'espressione del professore era amabile, ma nel contempo indagatrice. David sorrise educatamente, avvicinandosi e porgendo la mano. «Salve, sono David Braun.» «Una stretta di mano debole... Mi piace, in un uomo», commentò Shaw, schioccando la lingua. David lo fissò, perplesso. «Lei risparmia le mie ossa, invece di dimostrare la forza indubbiamente formidabile della sua stretta», chiarì l'altro. «Io sono Joseph Shaw, ma mi chiamano quasi tutti col mio soprannome: 'professore'.» E lanciò un'occhiata eloquente a Susan. «L'uno o l'altro vanno bene.» «Piacere di conoscerla, Joseph», replicò David, guadagnandosi un altro sorriso deliziato da parte dello studioso. «Susan, prenderebbe in considerazione l'idea di preparare un tè, se le dessi la mia parola che i reumatismi alle ginocchia e non un'idea antiquata sui ruoli tra i sessi m'induce a farle questa richiesta?» chiese Shaw. «Ma certo», ribatté con dolcezza Susan, dirigendosi verso la cucina. «Io, ecco...» farfugliò David, puntando il dito a indicare la sua intenzione di darle una mano. Raggiunse Susan in cucina, lasciando Shaw seduto nella sua poltrona, tranquillamente assorto nei suoi pensieri, almeno in apparenza. «Hai parlato con Dee?» chiese poi a Susan, tenendo la voce molto bassa, così che il professore non sentisse.
Susan gli lanciò un'occhiata indulgente e nel contempo distaccata. «Ruffiano», borbottò, sistemando le tazze sul vassoio. David parve confuso. «Intendevo dire se sta bene», precisò. «Oh», esclamò lei con enfasi esagerata. In realtà, aveva compreso perfettamente il senso della domanda di David, ma non era convinta che fosse proprio quello il senso che lui le aveva dato. «Non è contenta, ma non ha ancora deciso con chi prendersela. Per il momento, ha intenzione di starsene rintanata in quell'albergo sciccoso in cui l'hai portata. Ha tutta Londra a disposizione, se si annoia.» L'acqua cominciò a bollire. «Bene», commentò David, ma poi si rese conto che non era proprio una bella notizia. «Intendo che è un bene che non sia più infelice di prima.» Susan sembrava divertita dal suo imbarazzo e lo guardò di sottecchi con tenerezza. «Mi ha spiegato come avete passato il pomeriggio...» E si voltò verso il bollitore che aveva appena cominciato a fischiare. «Susan, devi sapere...» esclamò David in tono ansioso. Poi si mise ad agitare la mano, come per dire che lei aveva frainteso. La mano calò sul bordo del vassoio che sporgeva leggermente dal piano di lavoro, facendo tremare le tazze e rovesciandone una. Susan si girò di scatto e afferrò al volo la tazza prima che andasse a frantumarsi sul pavimento piastrellato. «David!» proruppe, quasi gemendo. «Te lo dico per l'ennesima volta: ti sto prendendo in giro! Dee mi ha detto di che cosa avete parlato. Ti ha descritto come nobile e cavalleresco oltre i limiti della credibilità. Ma ho afferrato il messaggio.» David era ancora sbalordito dall'incredibile velocità e abilità con cui Susan aveva recuperato la tazza. Quando si riscosse, si rese conto di quello che lei stava dicendo e il suo volto si aprì in un sorriso. «Lo so che non è ciò che vuoi, ma non posso farci niente...» si giustificò; tuttavia non riuscì ad aggiungere altro perché Susan gli aveva messo un dito sulle labbra per zittirlo, dicendo: «Un'altra volta...» In silenzio, tornarono da Shaw. Susan aveva trovato la provvista di frollini di Mrs Potter e aveva messo i biscotti su un piatto vicino a David. Quando tutti ebbero avuto la loro tazza di tè, Shaw disse: «Un mio collega mi ha parlato di una nuova e meravigliosa specie di manager chiamata 'facilitatore'». Spostò lo sguardo da Susan a David. «Assaporate l'orrenda novità di questa parola», aggiunse con autentica gioia, rivolgendosi a entrambi. «A quanto pare, una simile figura continua a essere segretamente in carica, ma senza doversi assumere la responsabilità di eventuali risultati
spiacevoli, e per giunta non ci si aspetta neppure che svolga il suo lavoro.» Sorrise, soddisfatto, valutando la loro reazione. «Anzi un suo intervento viene decisamente scoraggiato.» David era un po' stordito, mentre Susan aveva un'aria divertita ma paziente. Era sicura che Shaw aveva in mente qualcosa. «Sembra proprio il ruolo adatto a me. Pensavo di provarci adesso, se voi due siete d'accordo», proseguì l'anziano professore. Interpretando la loro assoluta immobilità come un assenso, si fece più serio. «Allora, secondo me, ciò che dobbiamo fare, prima che passi troppo tempo, è mettere al sicuro i documenti che riguardano il Marker. E sebbene vada contro lo spirito della facilitazione, desidero autonominarmi per questo compito. Bisogna poi fare qualcosa anche in merito al fatto che la collezione è stata trafugata dalla School of Antiquities. Ben presto, qualcuno punterà il dito contro Susan, se non altro perché è lei la responsabile.» David lanciò alla donna uno sguardo allarmato, ma non parlò. «Ora, vorrei offrirmi per risolvere anche questo problema», continuò Shaw. «Ho una certa influenza, in quel posto.» Assunse un'aria vagamente preoccupata. «Oh, cielo, mi sa che sto complicando l'attività del facilitatore. Pazienza. Andiamo avanti.» Alzò un dito come se ostentasse uno stendardo. «Come terza cosa, dobbiamo acquisire maggiori informazioni sulla situazione imbarazzante nella quale ci siamo cacciati. Molte risposte si trovano nella collezione, almeno credo. Essendo qui la sua dimora temporanea, mi offro volontario per gestire anche questa faccenda.» Fece una pausa, quindi, con aria decisamente infastidita, dichiarò: «Anche se ho il sospetto che questo decreterà la fine della mia carriera come facilitatore... Comunque, per finire, benché forse sia l'aspetto più importante, bisogna escogitare qualcosa in merito a Jan, che, ne sono certo, si darà da fare per trovare la collezione. È chiaro che non possiamo rivolgerci alle autorità temporali, per lo stesso motivo per cui, imbattendoci in un leopardo ferito, non ci rivolgeremmo all'ente che protegge i gatti. Ritengo che sia su quest'ultimo punto che ci dobbiamo concentrare». David si schiarì la gola. «Ho qualche domanda. In primo luogo: è sicuro di voler essere coinvolto in questa faccenda? È già abbastanza difficile capire perché lo sono io, ma almeno ero pagato per farlo.» «Forse avrà l'impressione che voglia eludere la sua domanda, ma vorrei che fosse Susan a metterla al corrente di alcuni fatti illuminanti, una volta terminata questa conversazione. Nel frattempo, è disposto a credermi sulla parola, quando le dico che ho i miei motivi e che non ho nessun problema
sia ad accettare i rischi sia a fare la mia parte?» David annuì. Shaw lanciò un'occhiata a Susan. «In merito a quanto abbiamo discusso insieme, potrà raccontare a David ciò che le sembra più opportuno e che ritiene utile.» «Va bene, quindi adesso siamo in tre», dichiarò David. «Allora: c'è qualcosa che voi due sapientoni avete scoperto e che io devo sapere prima di esporvi le mie proposte?» Susan e Shaw si scambiarono un'occhiata. Come se si fossero accordati telepaticamente, Susan iniziò a spiegare che il professore aveva scoperto la vera funzione del Marker, rivelando così le motivazioni di Jan. Accennò solo brevemente al suo tentativo - fallito sul nascere - di usare la magia, aggiungendo che l'intera storia faceva parte di una serie di cose che gli avrebbe raccontato in seguito. Mentre riassumeva alcuni aspetti degli argomenti discussi con Shaw, la conversazione si trasformò in un dibattito. David intervenne nello scambio di battute con una nota di preoccupazione. «Pensate che Dass sia morto sul serio? Questa gente muore come i comuni mortali oppure tornerà a darci la caccia?» «Credo che abbiamo un'idea piuttosto precisa di ciò che sono in grado di fare», replicò Susan. «Non conosciamo i dettagli, ma sono abbastanza sicura che possediamo le informazioni basilari. E dalla morte non c'è ritorno. La polizia ha trovato il cadavere di Dass. Nessuna difficoltà per identificarlo: aveva persino il passaporto con sé. Penso che se ne sia andato per sempre.» Tranquillizzato, David continuò: «Presumo che sia difficile sentirsi in pericolo in un posto come questo...» Alzò lo sguardo e allargò le braccia a indicare il salone. «E ovviamente non serve a nulla cedere al panico. D'altro canto, però, Jan potrebbe scardinare quella porta da un momento all'altro. Quindi, ecco un altro concetto aziendale: affrontiamo subito i problemi urgenti ed esaminiamo gli altri aspetti importanti più tardi.» Nessuno proferì parola. «Primo: la collezione è al sicuro?» Shaw annuì. «Vuole sapere dove si trova?» «Non credo di averne bisogno», rispose David. «A meno che...» «... a meno che non mi succeda qualcosa», concluse Shaw. «Se lei dovesse essere privato all'improvviso del mio sostegno, potrebbe dare un'occhiata alla copia della mia tesi di dottorato che attualmente si trova presso la biblioteca dell'università, una tesi che nessuno consulta dal 1973. Da
pagina 411 in poi ci sono alcune annotazioni a matita... lei sarà in grado di decifrarle, Susan. Indicano dove custodisco un paio di oggetti di valore... tra i quali adesso c'è anche la collezione. Senza quella guida, bisognerebbe smontare questa casa mattone per mattone per scoprire il nascondiglio.» David stava per dire qualcosa, ma evidentemente il dubbio lo trattenne. Shaw gli rivolse un debole sorriso. «E terrò la bocca chiusa qualsiasi cosa accada», aggiunse semplicemente. «Ci sono altre copie?» chiese David. «Ho eliminato il file in rete e ho fatto lo stesso coi backup», rispose Susan. «Inoltre ho portato con me la copia cartacea e gli originali. C'è anche una copia su CD...» Indicò la sua borsa. «Sono abbastanza sicura di poterne fare una copia crittografata, dopodiché infilerò il CD originale nel microonde.» «Per andare sul sicuro, meglio scriverci sopra: Compilation per la festa di Dave, e tenerlo in un lettore CD», suggerì David, dando l'impressione di approvare le mosse di Susan. «Proprio quello che stavo per dire», mormorò Shaw, non avendo evidentemente idea di che cosa stessero parlando. «Ha presente quando si nascondevano i microfilm tra i negativi delle vacanze? Ecco, adesso si fa così», spiegò David. Susan andò a prendere il CD dalla sua borsa. Poi si diresse in cucina e lo infilò nel lettore portatile appoggiato sul davanzale della finestra. «Giusto per il momento», spiegò, quando tornò a sedersi. «Bene. E adesso: come farà Jan a trovarci?» volle sapere David. Dopo una breve pausa, fu Susan a rispondere. «Attraverso di me. Deve solo capire che la collezione è sparita e riflettere sulle circostanze, poi saprà chi l'ha presa.» Quindi aggiunse: «A proposito, David, noi riteniamo che non abbia nessun potere speciale che lo aiuti a trovarmi. Dovrà farlo nel solito, vecchio modo, insomma». «Allora penso che tu e io dovremo sparire», dichiarò David. «Come? Scappare?» esclamò lei. «Quando abbiamo deciso di andare a Brighton abbiamo messo in pratica una giusta intuizione», ribatté lui. «Ci dirigeremo verso una località scelta a caso. Come hai detto tu, a meno che non abbia piazzato un microfono spia, non vedo in quale modo possa trovarci.» «E poi?» volle sapere Susan. «E poi, una volta che tu sarai al sicuro, con tutta calma elaboreremo un piano adeguato.»
29 Domenica 27 aprile Un'ora dopo aver deciso di sparire, David e Susan erano già in viaggio. Avevano concordato che uno dei due avrebbe elaborato un piano iniziale e che l'altro lo avrebbe modificato leggermente; in tal modo, nessuno avrebbe potuto seguire i loro movimenti, neanche qualcuno che li conosceva bene. Entrambi riconobbero che si trattava di un'idea paranoica e un po' ridicola, ma nessuno dei due aveva intenzione di accantonarla. «Bene. Io ho alcuni parenti che non vedo mai. Vivono a sud di Dublino», annunciò David. «Se prendiamo il traghetto da Holyhead, ci porterà fuori del Paese... È la cosa più simile a una via di fuga che abbia la Gran Bretagna. Il porto e il traghetto sono spazi delimitati dove c'è altra gente, ma, prima di arrivarci, abbiamo tutto il tempo di verificare che nessuno ci stia inseguendo.» Poi aggiunse: «Scusa...» rendendosi conto di aver assunto un tono cospiratorio. Susan alzò le spalle. «Va bene. Mi piace l'idea del traghetto. Ma quale traghetto arriva alla punta meridionale dell'Irlanda?» «Quello che va da Eishguard a Rosslare», rispose David, dopo averci pensato su. «Giusto. Andiamo in quella direzione, poi risaliamo da sud. Inoltre contattiamo i tuoi parenti solo se abbiamo bisogno di qualcosa. Sarà come avere delle riserve locali sulle quali fare affidamento se spuntasse qualche problema... E, nel frattempo, non corriamo rischi che rivelino la nostra posizione.» Sorrise cupamente. «Chi è che sta parlando come una spia, adesso?» «Allora è deciso», confermò David. «Perché non hai cercato di dissuadermi dall'intraprendere questa fuga?» chiese allora Susan. «Non ti avrei ascoltato, ma avresti sempre potuto provare.» «A questo punto non vedo come si possa dimostrare a Jan che tu non sei coinvolta. Continuerà a pensare che hai un ruolo in questa faccenda, anche se tu e io la pensiamo diversamente. Se fossi tornata alla tua normale routine, credo semplicemente che lui... capisci...» Non riuscì a trovare le parole giuste, perciò concluse: «Il professore non sarebbe stato in grado di proteggerti».
«Già», replicò Susan, scoraggiata. «Immaginavo che fosse qualcosa del genere.» Rimasero in silenzio per qualche istante. Poi Susan disse: «Vedo se riesco a crittografare il testo per metterlo su quel CD Ho scaricato un programma che dice di poter codificare qualsiasi blocco di dati su un disco, ma non ho ancora capito come funziona». Sollevò la borsa dal sedile posteriore e si mise il portatile sulle ginocchia. Per tutta l'ora successiva non fece che borbottare. Poi, d'un tratto, chiese: «Vuoi sapere qual è la password?» «Sì», rispose David. «È fuzzbundlemilton, tutta una parola, con due 7 al posto delle z, e lo 0 al posto della o.» «Qualche motivo particolare?» volle sapere David. «Oh, era il nome del mio gatto», spiegò Susan. «Anche se mia madre si era rifiutata di far incidere tutte le lettere sulla targhetta. Così lui era diventato semplicemente Fuzz. Per gli estranei.» Susan lasciò vagare lo sguardo in lontananza. David si girò e le sorrise dolcemente. «Che ne facciamo di questo?» chiese Susan, sventolando il vecchio CD. «Hai una busta di plastica?» fece David. Susan tirò fuori il sacchetto del negozio dove aveva acquistato una confezione di CD e il caricabatterie. Distogliendo solo per qualche istante gli occhi dal traffico dell'autostrada, David le prese il CD, infilò la mano nella busta e piegò il disco in due. Si frantumò con uno schiocco in una dozzina di pezzi e di frammenti. «Non so perché, ma pensavo che un CD-ROM si piegasse», commentò Susan. «Forse pensavi alle carte di credito», suggerì David. Susan osservò il CD a pezzi. «Dovresti avere una pazienza da certosino per rimetterlo insieme.» Sollevò uno dei frammenti più piccoli - sembrava una scheggia di luce sulla punta del suo dito - e lo agitò sotto il naso di David. «Troppo complicato», disse, assaporando le parole. Quindi strappò parte della pellicola metallica dai frammenti più grandi, mettendo in evidenza la plastica. Infine si strofinò le mani per togliere i residui della pellicola. «E adesso guarda», annunciò, mostrandogli il nuovo disco, quello crittografato. Con un pennarello indelebile, ci aveva scritto sopra: Rap compilation, disegnandovi alcune stelline. «Se c'è una cosa che un tizio di
novant'anni non è in grado di reggere è il rap.» «Ottima trovata», ribatté David, divertito. «E funzionerà ancora meglio che se tu ci avessi crittografato un sacco di porcheria scrivendoci sopra Collezione Teracus, poco ma sicuro. Nei film, i personaggi smettono subito di cercare nell'istante in cui trovano qualcosa che stuzzica la loro immaginazione. Quindi, a meno che Hollywood non sia talmente a corto di battute da essersi messa a inventare tutto, noi siamo a posto.» Entrambi sorrisero. Calò di nuovo il silenzio, con David concentrato sulla guida e Susan che rifletteva. «Lo sai perché mi piace l'idea di una traversata?» disse Susan dopo un po'. «Perché gli stregoni non possono attraversare le distese d'acqua?» la canzonò David. «Be', tu scherzi, ma è proprio quello cui ho pensato. Scommetto che non gli piace.» Era chiaro che voleva condividere la sua teoria, perciò David la incitò a proseguire. Lei si lanciò. «Allora, sappiamo che sono in grado di creare uno scudo intorno a sé capace di fermare praticamente qualsiasi cosa, persino i proiettili, e di questo sono abbastanza sicura. Ma che cosa accadrebbe se si ritrovassero su una barca che affonda? Non potrebbero fare nulla. Annegherebbero, come chiunque altro. Sulla terraferma, un esercito potrebbe non essere sufficiente a fermarli; in mare, una freccia incendiaria probabilmente basterebbe.» David sembrava colpito. «Comunque non era quello che avevo in mente», proseguì Susan. E in tono neutro, precisò: «Avevo in mente di usare di nuovo il cerchio». Spiegò quindi a David il suo tentativo di spostare il tagliacarte d'argento e il panico che l'aveva colta quando si era resa conto che poteva agire come una specie di faro, consentendo a Jan, o a chiunque altro, di percepire la sua presenza. «Qualche ora in mare è la soluzione perfetta. Voglio dire, quante possibilità ci sono che la stirpe magica viaggi su un traghetto? È lo stesso motivo per cui non riesco a immaginare che Dass avesse un caravan.» E fece un largo sorriso. David le lanciò un'occhiata in tralice, cogliendo la sua soddisfazione. «Sembri quasi contenta di fare questo viaggio», commentò. «Be', non mi piacciono molto le alternative», brontolò Susan. «Inoltre sto attraversando uno di quei periodi irreali in cui la morte imminente per
mano di strumenti soprannaturali non mi appare come una cosa entusiasmante. La vita reale non sembra molto reale in questo momento. Forse sono solo... famelica.» Girò la testa verso la campagna, che scorreva veloce. «La vuoi sapere una cosa davvero strana? Sono stata benissimo a casa del professore... nonostante tutto. Avere troppe preoccupazioni è quasi come non averne affatto.» Nelle ore seguenti, chiacchierarono del più e del meno. Ogni tanto Susan illustrava a David qualche brano che aveva letto nella collezione o che aveva discusso col professore; altre volte parlavano di cose irrilevanti, ponendosi domande sulle specie di uccelli che vedevano librarsi in volo e indugiare sopra le siepi che costeggiavano l'autostrada, pronti a scendere in picchiata su qualsiasi cosa. Dopo un po', David perse interesse. Accorgendosene, Susan chiese: «Che c'è?» Lui si riscosse dai suoi pensieri. «Come ha fatto Jan a uscire da quella finestra dell'ufficio?» chiese di rimando, un po' impacciato. «Non è che... Non è che può volare?» Susan gli rivolse un sorriso gentile, come a dire che la risposta: «Avrebbe potuto» non era affatto ridicola come suonava. «Non credo», rispose tuttavia. «Non si parla di volo. Gli adepti possono sviluppare una specie di energia frenante che sostiene parte del loro peso. Quindi sono in grado di spiccare salti più potenti rispetto alle persone normali; un grande salto a loro sembrerà piccolo. Tale energia, però, non è sufficiente a farli levitare. A quanto pare, riescono a generare qualcosa di più potente, ma non è una spinta, è più simile a quando si colpisce un oggetto con un martello. Non è il genere di cosa che proveresti a usare su te stesso.» David annuì, sollevato. «Il mio amico Banjo ha detto che i loro poteri facevano pensare all'ultimo modello di coltellino svizzero.» «Credo che sia così», approvò Susan. «Oppure si potrebbero paragonare a un set di pesanti attrezzi sportivi che non sei obbligato a trascinarti in giro.» Poi, contando sulle dita, elencò: «C'è uno scudo; c'è qualcosa che sembra riscaldarsi o raffreddarsi; c'è un modo per scendere da una certa altezza; c'è un kit di pronto soccorso e c'è un martello». Si fece pensierosa. «Santo cielo, da dove credi che provenga? Pensi che qualcuno abbia mai cercato di scoprire la fonte di questi poteri? Nella collezione non c'è nulla. E non credo che sia semplicemente un aspetto naturale della fisica.» Guardò David per avere una conferma o una smentita. «O no?» chiese. «Non vedo come», replicò lui, incerto. «Non sono le capacità in sé... È
esattamente il tipo di cose che facevamo durante le lezioni di fisica, ma non credo che il cervello umano si sia evoluto solo per diventare un telecomando delle forze della natura.» Si strinse nelle spalle. «Ma è poi possibile applicare la logica a una cosa del genere? La logica 'ordinaria' ti direbbe che tutta la faccenda è impossibile, no? In ogni modo, questo è l'elenco completo dei poteri? Nessuna sgradevole sorpresa?» «Sono troppi i documenti che concordano», rispose Susan. «Inoltre essi combaciano con ciò che abbiamo visto. Credo che questo sia l'elenco completo. Solo i mistici folli possono fare di più e sembra che nessuno sia mai riuscito a coinvolgere uno di questi personaggi in qualcosa di terreno... come dare la caccia a noi, per esempio.» David annuì, ma non replicò, e ancora una volta entrambi si chiusero nel loro mondo interiore, lasciando che la conversazione scivolasse in un altro periodo di silenzio finché qualche nuova idea non fosse venuta in mente all'uno o all'altra. A un certo punto, però, David lanciò uno sguardo in tralice a Susan e vide che stava piangendo. Non mostrava altri segni di sofferenza e lui non disse nulla. Dieci minuti dopo, le lacrime erano scomparse e lei sembrò di nuovo di ottimo umore. Si mise a parlare delle autostrade americane e delle prelibatezze che si potevano consumare nei diners. Si fermarono a fare benzina e a mangiare un panino, poi Susan dormì per quasi tutto il resto del viaggio attraverso il Galles. Si svegliò poco prima di raggiungere il porto. David stava cercando un parcheggio per andare ad acquistare i biglietti. Un edificio basso e lungo, di vetro e cemento, si trovava proprio davanti a loro. «Non ci metterò molto», disse David, facendo manovra per entrare in uno dei posteggi. «Suona se hai bisogno di me», le suggerì allegramente, indicando il clacson. Poi sganciò la cintura di sicurezza e uscì dall'auto. Mentre David correva verso il vicino edificio, Susan si guardò intorno. Il sole era già tramontato e si era alzato il vento. Qualche gabbiano volteggiava ancora in cielo, lasciandosi trasportare dalle imprevedibili folate. Alle loro spalle c'era una vasta area di cemento armato, punteggiata da segni arcani, pali della luce, transenne accatastate e file serpeggianti di auto. Apparentemente incongrua, la sagoma mostruosa di una nave spiccava dietro tutto ciò, come se qualcuno avesse costruito l'imbarcazione ai margini di un autoparcheggio considerandola una specie di attrazione turistica. Del mare nessuna traccia. Quando David fece ritorno, saltò in macchina in fretta e furia. L'aria
fredda irruppe nell'abitacolo per un paio di secondi e lui tirò su col naso. Susan aveva il bavero del soprabito sollevato e le gambe ripiegate sul sedile. Si raddrizzò. «Bene. Siamo in perfetto orario», annunciò David. «Le navi sono terribilmente in ritardo. Quella del pomeriggio non è ancora salpata perché il mare era troppo mosso. Stanno facendo l'imbarco adesso e ho preso una delle ultime tre cabine.» Mise in moto la macchina e uscì dal parcheggio per mettersi in coda. Gli ufficiali, ben coperti per contrastare il clima, agitavano mani e braccia, come un corpo di ballo eschimese, allineando le auto mentre si avvicinavano alla nave e agendo in base a qualche piano tutt'altro che ovvio per l'osservatore casuale. Ci volle quasi un'ora prima che David e Susan riuscissero a lasciare la Saab dietro di loro, tra le file serrate di veicoli che riempivano lo spazio ristretto della stiva, avvolto in un crepuscolo permanente. Si unirono alla folla che risaliva le scalette di metallo diretta verso i ponti passeggeri ben illuminati. Alcuni minuti dopo essersi lasciati la gente alle spalle, trovarono la loro cabina, piccola ma graziosa. David chiuse la porta, poi si sedette sulla cuccetta di destra, si sfilò gli stivali e, tutto vestito, si sdraiò. Rumori in lontananza e la vaga sensazione di un peso che si spostava suggerirono che erano partiti. «Sembri esausto», commentò Susan, spegnendo la luce centrale e accendendo un'applique sopra lo specchio. «Ho solo bisogno di chiudere gli occhi per qualche minuto», borbottò David nella penombra, le palpebre già abbassate. «Spostati», gli disse lei, prima d'intrufolarsi accanto a lui nell'angusta cuccetta. Premette le spalle contro il petto di David e lui la coprì col lembo del suo pesante giaccone, distendendo il braccio lungo il fianco di Susan, la mano appoggiata sull'anca. Lei gli prese la mano sinistra, la fece scivolare sotto il giaccone e se la premette sul seno, posandovi sopra la propria. «Dormi», disse. Quando David si svegliò, si ritrovò da solo nella cuccetta. Susan era seduta a gambe incrociate sul pavimento, e gli dava la schiena. Teneva la testa china e, nella luce fioca, non si capiva cosa stesse facendo. Indossava ancora i jeans, ma si era tolta il maglioncino, ed era rimasta in canotta bianca e reggiseno.
David si girò sulla cuccetta e, contorcendosi un poco, si sporse; la luce dell'applique colpì il cerchio d'oro che Susan indossava sulla fronte ed evidenziò le gocce di sudore che le scendevano sul viso. Osservando le spalle scoperte, scorse il profilo nitido dei muscoli compatti delle braccia e le fasce delineate sotto la pelle che si muovevano mentre lei cambiava leggermente postura. Dee aveva le proporzioni aggraziate di una ballerina, ma Susan ne aveva lo straordinario tono muscolare. E, sebbene i muscoli ben delineati non le dessero affatto un aspetto massiccio, Susan non avrebbe mai dato l'impressione di essere vulnerabile o fragile, come talvolta accadeva con Dee. Scivolò ancora un poco dalla cuccetta e sbirciò oltre la spalla di Susan. Sul pavimento, davanti a sé, la giovane aveva posato un cerchio rosso di plastica, arabescato e largo forse tre dita, protetto da un coperchio trasparente di plastica rigida. David comprese che si trattava di un giochino da quattro soldi: un minuscolo labirinto lungo il quale correva una pallina di metallo, sempre che il disco venisse inclinato con una certa abilità. Una goccia di sudore si staccò dal collo di Susan e prese a scivolarle tra le scapole, seguendo la linea levigata della colonna vertebrale. Distogliendo gli occhi dalla pelle imperlata di sudore, David riportò lo sguardo sul giochino. La pallina d'argento stava avanzando nel labirinto. La mani di Susan erano ripiegate in grembo e il giochino era appoggiato sul pavimento della cabina, nel suo piccolo spazio circolare. Eppure la pallina continuava a percorrere il labirinto di plastica rossa. David si rese conto altresì che Susan stava respirando a fondo e con un certo sforzo. Con la coda dell'occhio, lei si accorse dello sguardo di lui e, nello stesso istante, la pallina si arrestò. «Ci vuole un sacco di concentrazione», sibilò. «Accidenti, l'ho persa», esclamò subito dopo, ritornando a respirare normalmente. Distolse lo sguardo dal gioco e lo alzò su David. «Incredibile», commentò lui, meravigliato. «Già, tra un paio d'anni spero di sfidare Jan a una partita di biliardino», commentò Susan, sarcastica. Svitò il tappo di una bottiglia d'acqua e ne bevve un lungo sorso. Quindi porse la bottiglia a David. «Grazie», disse lui, sedendosi sulla cuccetta. «Ragazzi, è un lavoraccio», sbuffò Susan, asciugandosi la fronte sudata. Poi si accorse che David stava fissando la Carlotta bagnata che aderiva al
suo corpo. «Ti piace?» scherzò, mettendosi in posa. Alzò un sopracciglio e sorrise. David scoppiò a ridere e per poco non si strozzò con l'acqua che stava bevendo. Susan si alzò con un movimento aggraziato. Poi si avvicinò alla cuccetta e gli posò una mano sulla spalla. Prima che David si rendesse conto di ciò che stava facendo, lei si chinò e premette la bocca, ancora umida, sulla sua. Lo baciò con passione per un paio di secondi, dischiudendo le labbra e accarezzandogli delicatamente la nuca con le dita. Quindi si staccò, con un'aria estremamente soddisfatta. Ansimava leggermente. «Così va meglio, eh?» disse in tono di sfida, guardandolo negli occhi. David era sbigottito. «Mi sono perso qualcosa? La magia è forse una specie di afrodisiaco? Non che abbia qualcosa da ridire. Puoi rifarlo quando vuoi», esclamò, sottolineando le ultime due parole. Susan sorrise. «Sai, potrebbe anche essere una sorta di eccitazione... Vedremo come mi sento la prossima volta.» Poi lo guardò. «Quello», aggiunse, intendendo il bacio, «era per un'altra cosa, comunque. In fondo, domani potremmo essere morti.» Pronunciò la frase distrattamente, come se fosse persa in qualche reminiscenza. «Oh», commentò David, un po' smontato. «Adesso capisco come il pensiero ti abbia eccitata...» ironizzò. «Lo sai che cosa intendo», replicò Susan. «Perché preoccuparsi del futuro? In questo momento sembra un po' accademico. Perché non cogliere l'attimo fuggente?» «Presumo che sia così», ribatté David, incerto se prenderlo come un vago insulto o no. Si sedette e appoggiò i piedi sul pavimento. Poi allungò una mano per prendere uno stivale. Ma quello scivolò via. David trafisse Susan con lo sguardo. L'intensa concentrazione le aveva irrigidito i lineamenti, spingendola a socchiudere la bocca. «Volevo solo vedere se riuscivo a farlo», disse, rilassandosi e in tono di scusa. «Cominci a spaventarmi», confessò David tra il serio e il faceto. Calzò gli stivali, mentre lei si stiracchiava e si massaggiava la mascella come se si fosse resa conto che i denti erano rimasti serrati troppo a lungo. Ci fu un cambiamento nella direzione della nave. «Mi sa che siamo arrivati in porto», annunciò Susan, togliendosi il cerchio. Gli diede un buffetto sulla guancia e si chiuse nel minuscolo bagno, aprendo la doccia. «Ci metto un secondo», gli disse.
David rovistò nelle tasche, tirandone fuori varie carte - che aveva comprato insieme coi biglietti -, mentre Susan si muoveva dall'altra parte della paratia stagna. Il ticchettio smorzato della doccia ricordava il fragore di un acquazzone su un tetto di lamiera. Quando uscì dal bagno, indossava gli stessi indumenti, ma i capelli umidi erano annodati, gonfi e piuttosto ribelli. «Dovremo andare di nuovo a comprarci qualche abito», borbottò. «Altrimenti chiunque abbia un olfatto normale saprà dove sono.» Si sedette sulla cuccetta di fronte a David, che stava studiando una cartina. «Sarebbe un bel viaggio, se non fosse nel cuore della notte», commentò. Un trillo catturò la loro attenzione. A Susan ci volle qualche istante per capire che era il suo cellulare. Lo tirò fuori dalla borsa e vide il simbolo di un messaggio vocale. «Uhm...» mugugnò, pensierosa, e premette il tasto per ascoltarlo. Dopo un paio di secondi, però, si staccò il cellulare dall'orecchio, premette il tasto per riascoltare il messaggio dall'inizio e si sedette accanto a David, allungando il telefono in mezzo a loro e alzando il volume del minuscolo altoparlante. Dopo l'annuncio della voce registrata, si sentì una voce maschile. L'uomo aveva un accento simile a quello di un capitano della RAF in un vecchio film di guerra. Sembrava preoccupato dalla piega che la battaglia stava prendendo. «Ritengo che lei sia in grado d'indovinare chi sono», esordì la voce in tono gradevole, ma senza entusiasmo. Poi, come se riprendesse una precedente conversazione, continuò: «La gente parla di violenza come se ci fosse poco da scegliere. Però è come prendersi gioco della vita. Tutti vogliamo cose diverse, quindi è ovvio che ci si possa opporre a qualcosa; ed è altrettanto ovvio che tale opposizione può trasformarsi in qualcosa di sgradevole. Tuttavia a me sembra che ci sia un abisso tra uno scontro onesto e l'idea di fare arbitrariamente del male a un prigioniero indifeso». La sua voce assunse un tono seducente, sulla falsariga di quelle che si sentono negli spot di assicurazioni sulla vita. «La tortura, invece, è soltanto l'area di competenza di chiunque abbia uno stomaco forte e l'accesso a una cassetta degli attrezzi.» La voce si smorzò, come se l'uomo fosse disorientato. «No, è un pensiero orribile, sul serio. Non riesco a vedervi nessuna soddisfazione.» Sospirò. «Ma senti un po' cosa dico... Come se non mi fossi fatto strada attraverso mezzo continente massacrando persone.» Sospirò di nuovo, divertito, poi si schiarì la gola. «Comunque il motivo per cui ho chiamato è questo: se non vuole riavere sua sorella pezzo per pezzo, la soluzione è consegnarmi i documenti che voglio.» Di nuovo la voce sua-
dente. «Mi chiami sul cellulare di sua sorella in qualsiasi momento. Lo custodirò io per lei.» Né David né Susan si mossero o parlarono mentre la voce registrata snocciolava le varie opzioni per memorizzare o cancellare il messaggio. La voce stava elencando una seconda serie di opzioni - evidentemente riservate a coloro che non si facevano tentare dal menu standard -, quando Susan si riscosse dai suoi tetri pensieri e premette il tasto di fine chiamata. 30 Lunedì 28 aprile (prime ore del mattino) Il messaggio lasciato sulla segreteria del cellulare aveva ovviamente annientato il buonumore di Susan. Con la sua vita in pericolo, si era adeguata a una strategia che le consentiva di comportarsi in modo quasi normale. Pur consapevole della situazione in cui si trovava, essa non l'aveva paralizzata. La notizia del rapimento di Dee, invece, aveva colpito a tradimento un punto vulnerabile, aprendo una profonda crepa nella sua compostezza. Non si era messa a urlare o a piangere, però, in qualche modo, la sua attenzione non si concentrava più sul presente, bensì in qualche oscuro recesso interiore. Quando David le parlò, fu come se tentasse, senza successo, d'introdursi in un'altra conversazione, che solo lei era in grado di udire. Le risposte di Susan erano indolenti e vaghe. Non lo guardava negli occhi né prendeva nota dei suoi movimenti, mentre si spostava irrequieto nella piccola cabina. Alla fine, David prese il giaccone e le disse: «Rimani qui». Susan era seduta, le mani in grembo, lo sguardo perso, lontano da lui. L'aveva sentito? Le si avvicinò e le disse: «Vado a vedere se riesco a trovare un modo per tornare subito in Inghilterra. Potrebbe volerci un po' di tempo e dovrò spostare la macchina...» L'atteggiamento di Susan non mutò. David cercò di attirare la sua attenzione, accovacciandosi accanto a lei, e accarezzandole la mano. «Rimani qui», ripeté con dolcezza. Gli occhi di Susan vagarono su di lui, ma senza fissarsi su un punto. Fece un cenno, come se fosse d'accordo. Non proferì parola, ma almeno sembrò comprendere le sue parole. Lasciandola ai suoi pensieri, David uscì dalla cabina e si fece strada tra la folla di passeggeri che si stava preparando a sbarcare. Più di una volta
dovette passare sotto un braccio teso con noncuranza o procedere di lato per superare una famiglia impegnata in un battibecco in uno stretto corridoio. Quando trovò il banco informazioni, le luci del porto irlandese scivolavano glaciali sugli oblò scuri, sferzati dalla pioggia. Uno steward dall'aria stremata stava cercando di calmare una donna in preda all'ira e con le gote in fiamme. La donna lo stava rampognando con voce stridula e sprezzante e se ne andò come una furia proprio mentre David si stava avvicinando. Lo steward sembrava profondamente irritato perché gli era mancata la possibilità di difendersi e di sfogare a sua volta la rabbia. Cogliendo al volo l'umore dell'altro, David si costrinse a rallentare il passo e ad assumere un'andatura esitante e preoccupata. Assunse un'aria persa e afflitta, che ricordava quella di Susan. Poi, quando si trovò davanti allo steward incollerito, esordì, con voce monocorde e disperata: «Non so cosa fare. È successa una cosa terribile. Ho appena ricevuto una telefonata. Dobbiamo rientrare subito in Inghilterra...» Abbassò lo sguardo sulle mani, senza mai incontrare gli occhi dell'altro. Il connubio tra la mole massiccia di David e il suo atteggiamento remissivo e indifeso lasciò un vuoto di autorità nel quale lo steward s'insinuò con piacere. Esibì un sorrisetto di circostanza e con calma e autorità ribatté: «Mi dica che cos'è accaduto, signore. Sono sicuro che riusciremo a trovare una soluzione». David si sforzò di raccontare la storia, senza dare molti particolari e rimanendo molto sul vago riguardo alla situazione in cui si trovava Dee, lasciando però intendere che si trattava di un grave problema di salute. Dopo aver raccolto tutte le informazioni che poté, lo steward lo accompagnò dal capitano. Anche qui, David comprese che la conversazione sarebbe proceduta più facilmente se lui avesse detto poco, limitando il proprio contributo a qualche sguardo smarrito, e lasciando che fosse lo steward a intercedere per lui. Di fronte ai suoi nervi scossi, il capitano si dimostrò collaborativo e utile quanto lo steward. Così, dopo essersi accertato che fosse abbastanza padrone di se stesso per guidare, sistemò le cose in modo che David, una volta sbarcato dalla stiva, non s'incolonnasse lungo la normale corsia di uscita. Al contrario, avrebbe atteso per qualche minuto in un'area riservata adiacente alla rampa, dopodiché sarebbe risalito sulla nave, e la sua sarebbe stata la prima auto a bordo nel viaggio di ritorno. Ci volle quasi un'ora prima che tutto fosse predisposto per il viaggio, che
l'auto venisse spostata e David potesse tornare in cabina. Quando lui aprì la porta vide che, almeno in apparenza, Susan era emersa dal suo torpore. Sembrava di nuovo coi piedi per terra e, quando lui entrò, sollevò subito lo sguardo. Soltanto il suo volto rimase imperscrutabile. «Ho appena finito la mia imitazione di 'Lassie con una zampa ferita'», le comunicò David, un po' imbarazzato. «Grazie a dio, pare che abbia funzionato. Il capitano sta cercando di recuperare il ritardo, quindi tra un'ora dovremmo essere di nuovo in viaggio. Non c'era un modo più veloce per tornare.» Susan annuì. Era rannicchiata in un angolo, sulla cuccetta che avevano condiviso, un cuscino dietro la schiena, e teneva in mano un taccuino e una penna. Riportò lo sguardo sul taccuino e scarabocchiò qualcosa. David andò a inginocchiarsi vicino alla cuccetta. Le prese la mano, sollevandola delicatamente dal taccuino, e incrociò le dita tra le sue. Susan alzò la testa e i suoi occhi chiari, vacui, incontrarono lo sguardo serio e indagatore di lui. «Non so che cosa dire», le sussurrò David, continuando a tenerle la mano, gli occhi freddi di lei fissi nei suoi, mentre la scrutava nel tentativo di capire quali fossero le sue emozioni. Poi, con un tono improvvisamente appassionato, come se dentro di lui fosse esplosa un'emozione che non riusciva più a contenere, esclamò: «Non preoccuparti, Susan. Per favore, non preoccuparti. Troverò il modo di riportare indietro Dee sana e salva, te lo prometto. Non importa quello che dovrò fare. Fidati di me: troverò un modo». L'assoluta calma di Susan - ormai quasi allarmante - si protrasse ancora per qualche secondo, poi cominciò a dissolversi. Le gote le avvamparono e la fronte, distesa fino a un istante prima, si corrugò in una vaga espressione di collera. Mentre la compostezza si disintegrava, le spalle presero a sobbalzare. Si sciolse dalla stretta di David e posò la mano su quella di lui. Sembrava soffocata dall'emozione. «Che cos'ho detto?» chiese David, percependo qualcosa. Lei sollevò la mano e col dorso gli accarezzò la guancia. Il suo tocco era delicato, pieno di premure e, in qualche modo, tragico. «Lo so che lo faresti, David», disse infine. «Lo so che faresti del tuo meglio per salvare Dee e per salvare me... ma non sono d'accordo. Lo so che tu vuoi solo il nostro bene, tuttavia, se ti permettessi di gestire questa situazione, non potrei mai
perdonarmelo. Lo capisci? Non posso cedere. So cosa fare e tu devi aiutarmi a farlo.» Lo fissò negli occhi. «Ho un piano», annunciò. Dieci minuti dopo stavano sorseggiando un caffè in tazze di plastica. David era riuscito a procurarsi caffè e doughnut grazie a un inserviente del ristorante. Quella pausa gli servì a dissimulare la smorfia di sorpresa e di rifiuto che era apparsa sul suo volto nel momento in cui Susan aveva respinto la sua offerta di prendersi carico della situazione. Avrebbe voluto giustificarsi, spiegare che non era sua intenzione forzarle la mano, che era ingiusta con lui. Ma non lo fece. Susan notò che lui reprimeva l'impulso di allontanarsi da lei, di ritirarsi. David non riusciva a nascondere la sofferenza generata dal rifiuto di Susan a lasciarlo fare, come se quello fosse un lusso che entrambi non potevano permettersi. Osservandolo con sguardo amorevole, Susan comprese quanto lui si sentisse ferito nell'orgoglio, benché cercasse in ogni modo di non darlo a vedere, e per poco non si sciolse in lacrime. Quando gli aveva parlato, lui aveva reagito con un atteggiamento a metà tra la sorpresa e lo sdegno - avvertendo altresì che la loro relazione stava ricevendo un duro colpo -, tuttavia si era sforzato di respingere quelle emozioni e le aveva rivolto uno sguardo determinato e ricettivo. Lo stesso sguardo che aveva in quel momento. Era ovvio che aveva rinunciato a reagire sull'onda delle emozioni, accettando la sua guida. David si era seduto sul bordo della cuccetta, accanto a lei, porgendole la tazza di caffè. «Allora, qual è il piano?» aveva chiesto, in tono sincero, disponibile. Lei protese una mano e, con un sorriso tremante, gli sfiorò le labbra col pollice. Lui reagì con uno sguardo confuso, ma non fece domande. «Un giorno ti spiegherò perché queste parole per me sono più importanti di qualsiasi altra cosa», gli disse. Poi fece un cenno d'assenso, come se stesse riordinando le idee, e infine replicò: «Una tregua. Stavo cercando di pensare a un campo neutro dove incontrarci... un luogo sicuro per uno scambio. Mi stavo scervellando per trovare qualcosa, qualsiasi cosa, che un adepto possa rispettare abbastanza da indurlo a smettere di fare il doppio gioco con noi». «E a quale conclusione sei arrivata?» volle sapere David. «A nessuna», rispose lei. «L'unica cosa abbastanza certa è che non amano gli scontri in luoghi affollati. Perciò ho deciso di usare un deterrente.» Bevve un sorso di caffè. «Ho deciso che abbiamo bisogno di un ambiente
in cui Jan si troverebbe in contatto con centinaia di persone.» Tamburellò le dita sul suo taccuino. «Ho fatto un elenco di ciò che ci serve. Abbiamo bisogno di un luogo molto controllato, in cui ci sia un sacco di gente e che abbia una via d'uscita per noi, un'ottima via d'uscita; se possibile, un luogo con decine di guardie armate. Di certo non basterebbe a fermarlo, però gli renderebbe la vita alquanto difficile e darebbe a noi la possibilità di fuggire, almeno lo spero. Il luogo ideale sarebbe quello in cui non può portare il tributo... Se ci fossero dei metal detector, per esempio. Mi segui? Ti viene in mente qualcosa?» David si strinse nelle spalle. «Una prigione?» suggerì, incerto. «Un aeroporto», ribatté lei con energia. «Certo, Jan potrebbe farsi strada a forza tra la polizia, ma immagina il caos che ne seguirebbe. Non riuscirebbe mai a controllare un ambiente simile. E dovrebbe superare i metal detector. Gli diciamo di non portare bagaglio, poi gironzoliamo nella zona partenze e vediamo se fa scattare l'allarme quando passa.» «E cosa facciamo se l'allarme scatta?» volle sapere David. «Non possiamo andare da nessuna parte. Non lo fermeranno soltanto perché ha un cerchio d'oro e un paio di bracciali; sono oggetti che non destano nessun sospetto. Dopodiché non avrà problemi a darci la caccia.» «Non se studiamo un modo per distruggere la collezione prima che riesca a raggiungerci e ci assicuriamo che lui lo sappia», replicò Susan. Abbassò lo sguardo sul suo taccuino. A un certo punto, quando David si era allontanato dalla cabina, una lacrima era caduta sul foglio. Adesso c'era una grinza asciutta sul foglio liscio nel punto in cui la goccia aveva sbiadito alcune parole. L'espressione di Susan rivelava che c'era ancora un particolare irrisolto. «Come si chiama?» si chiese, premendo una nocca sotto il mento. Sollevò lo sguardo su David e spiegò: «Gran parte del lavoro che svolgo ha a che fare con gli archivi. Catalogare in modo corretto i documenti e avere qualche nozione sui vari tipi di carta fa parte del mio lavoro. Una volta, alcuni fornitori mi hanno proposto un tipo di carta indistruttibile, senza acidi, inventata per essere usata negli archivi. Ricordo che, mentre presentavano il loro prodotto, mi avevano detto pure che vendevano anche altri articoli...» D'un tratto assunse un'aria trionfante. «... MDP, ecco come si chiamava! Si scioglie rapidamente nell'acqua... all'istante, secondo l'opuscolo. È una specie di novità... Ci potresti avvolgere i sali da bagno e introdurre la bustina nella vasca senza doverla aprire.» «Intendi dire che stamperemmo una copia della collezione su quel tipo
di carta? E minacciamo di distruggerla se qualcuno ci segue?» chiese David, perplesso. Susan annuì. «Non possiamo tenere d'occhio tutto quando saremo nella zona partenze e, anche se ci riuscissimo, non sarebbe una cosa rapida. Ma immagina di mettere i documenti in un sacchetto trasparente, in modo che lui possa vederli, mentre noi teniamo a portata di mano una bottiglia d'acqua aperta. Non desterebbe sospetti e noi avremmo bisogno solo di una frazione di secondo per distruggere tutto.» David cominciava a capire il piano. «E dove si acquista questa carta?» chiese. Lei lo guardò con un'aria di commiserazione. «Da nessuna parte. Ci limitiamo a dirlo a Jan. Può facilmente verificare che esiste. Io non farò altro che stampare un testo qualsiasi su carta normale e magari alla fine ci metto qualche brano irrilevante della vera collezione. Andrà tutto bene finché non avrà modo di esaminarla e il pensiero che sia solubile in acqua lo terrà buono.» David assunse un'aria vagamente stupita. «Allora non hai intenzione di consegnargli la collezione? Pensavo che... non avresti rischiato...» «Certo, però, se riusciamo a organizzarci in modo da andarcene sani e salvi, il piano funzionerà, che noi lo prendiamo in giro o no», replicò pazientemente Susan. David scosse la testa, poco convinto. «Lascia che te lo spieghi in un altro modo. Anche se siamo onesti con lui, non possiamo essere certi che non ci ucciderà comunque. Tuttavia, se riuscissimo a organizzare le cose in modo che lui non possa ucciderci, potremmo riuscire a ingannarlo.» Un lampo feroce si accese nei suoi occhi. «Non ho intenzione di regalare a quel bastardo un altro secolo di vita.» Adesso David aveva un'espressione atterrita. «E quando lo avremo ingannato? Non appena scoprirà che lo abbiamo preso in giro, c'inseguirà come una furia.» Susan non si lasciò innervosire. «Be', ci stavo giusto riflettendo. Non è ancora una cosa definitiva, ma davo per scontato che avremmo tentato la fuga. Potremmo prenotare un volo, per esempio. Ammetti pure che lui ne prenoti un altro... È assai improbabile che scegliamo la stessa destinazione, perciò, quando saremo di nuovo 'all'aperto', fuori della zona 'affollata', potremmo essere ovunque. Lui non potrà sapere se siamo andati in Cina, in Islanda o nel Ghana. Ho già pensato a un posto dove Dee potrebbe starsene nascosta per un po'. Devo solo convincere mio padre a portare mia madre
in uno dei loro avventurosi viaggi in camper. Tu dovrai fare lo stesso con la tua famiglia, naturalmente.» Lo guardò, speranzosa, ma colse la sua perplessità. «Forse è più facile per me. Con tutta probabilità, sapendo quello che so, non proseguirò la mia tesi di post-dottorato e in Gran Bretagna sono solo di passaggio... non ho radici, qui. Ma non ci sono tante persone che lui potrebbe usare per ricattarti, vero?» Mentre parlava, David l'aveva osservata con crescente impazienza; adesso spalancò le braccia e proruppe: «Susan, questa è una follia. Non possiamo andare a nasconderci da qualche parte in montagna. Non possiamo semplicemente fuggire dall'altra parte del mondo. Dev'esserci un altro modo». «O gli diamo ciò che vuole, o lo uccidiamo, oppure scappiamo. Le tue alternative quali sarebbero, si può sapere?» Lo guardò negli occhi. «Credi che dovremmo aiutarlo? È questo che stai pensando?» David aveva un'aria imbarazzata e tutt'altro che convinta, ma non riusciva a pensare a un'altra possibilità. «Pensa a cosa farebbe se avesse a disposizione altri cento anni», proseguì allora Susan. «Credimi, non ha intenzione di darsi al volontariato. Noi siamo l'unico ostacolo che ha davanti a sé. Se lo aiutiamo, come ti sentiresti, sapendo che lui se ne va in giro, libero di fare quello che vuole? Per i prossimi cinquant'anni non penseresti che a questo. Anche nel caso in cui non dovesse venire a cercarci. Guarda in faccia la realtà: la nostra vita non sarà più la stessa, indipendentemente da come andranno a finire le cose.» La sua passione si trasformò in qualcosa di simile alla rabbia. «Dio solo sa che cos'ha fatto a Dee. Da me non avrà nessun aiuto.» Restarono in silenzio per alcuni secondi. Susan aveva il respiro affannoso. Si era accalorata durante la discussione e la rabbia le aveva arrossato il viso e il collo. David le rivolse un sorriso sghembo e contrito. «Uno di questi giorni la smetterò di sottovalutarti, lo prometto.» Annuì parecchie volte, protendendo il labbro inferiore. «Hai ragione... su tutto. Hai assolutamente ragione.» Susan si chinò e gli strinse una spalla, sorridendogli di rimando. Lui le prese la mano e la strinse tra le sue, poi se la portò alle labbra e la baciò. «Prima o poi ci sarei arrivato, sai», confessò tra il serio e il faceto. «Certo», ribatté lei, con un sorriso sempre più affettuoso. «Come no.» Continuando a tenerle stretta la mano, David chiese: «Bene, adesso siamo d'accordo sul fatto che siamo fottuti qualsiasi cosa facciamo. E poi?» Sciogliendosi delicatamente dalla sua stretta, Susan posò il taccuino e
appoggiò i piedi per terra. «Andiamo a fare colazione, ovvio», rispose. «Abbiamo del lavoro da fare.» 31 Lunedì 28 aprile (alcune ore più tardi) Susan spense la radio. L'avevano comunque tenuta a un volume così basso che le trasmissioni erano state solo un mormorio di sottofondo. «Se gli ultimi cento anni gli hanno insegnato qualcosa sulle persone è che hanno paura di lui», disse. David annuì. «Comunque sia, lasciare che continui a esserne convinto non guasterà», replicò. «La trovata della carta che si scioglie è un po' troppo fantasiosa. E poi insistere sull'aeroporto mi sembra eccessivo. Diamo l'impressione di avere un piano preciso, di essere perfettamente padroni di noi stessi.» Rifletté. «Penso che tu abbia ragione quando dici che non si aspetta che qualcuno lo affronti, ma non possiamo permetterci d'insospettirlo.» Tamburellò le dita sul volante. «Magari possiamo lasciargli intendere che scegliamo un aeroporto perché vogliamo liberarci di lui. Noi vogliamo che prenda subito un aereo, perché così non ci darà più fastidio. Da un punto di vista psicologico, è ciò che probabilmente direbbe una vittima... come se fosse la paura a governare tutti i nostri pensieri.» Erano di nuovo in macchina, e stavano ripercorrendo la strada che avevano fatto il giorno prima, attraversando il Galles. Il sole di metà mattino era ben nascosto dietro la coltre di nubi che incombeva sui campi a lato dell'autostrada. «Mi piace», disse Susan, poi sorrise. «Ti stai proprio abituando a pensare come un perdente. Prima, la messinscena del piccolo Lassie ferito sulla nave, e adesso questo.» «Quello di Lassie è stato un trucco», replicò. «Quando l'ho messo in atto, stavo pensando a una soluzione per poterti aiutare. Vedi che effetto hai su di me?» «Ti sei reso conto che avrebbe funzionato, anche se potevano benissimo dirci di andare a prenotare due posti come tutti gli altri», rintuzzò lei. David fece un cenno di assenso formale, invece di chinare la testa. «Politica aziendale... la grande maestra. Fino a poco tempo fa, alle riunioni ho sempre avuto il ruolo del più inesperto. Ho scoperto che devi creare un'atmosfera in cui gli altri possono vedersi mentre dicono: 'Sì'. Se percepisco-
no che hai la meglio su di loro, il più delle volte non si dichiarano d'accordo. Lasciare che qualcuno svolga il ruolo dell'eroe o dello spaccone è spesso la chiave di volta.» Susan parve colpita dal suo ragionamento, ma nella sua espressione c'era anche una punta di finta ripugnanza. «Giura che userai i tuoi poteri solo a fin di bene», gli intimò seriamente. David le lanciò uno sguardo sospettoso. «Come? Vuoi dirmi che tu non manipoli le persone? Mai?» Susan fece una smorfia. «No, di solito mi limito a strapazzarle per bene. La manipolazione viene dopo, quando cerco di rabberciare il danno che ho fatto e di convincerle a rivolgermi ancora la parola.» David increspò le labbra. «Questo tuo tentativo di non controllare le persone è ammirevole. Uno scrupolo che non credo di potermi permettere, ma, per certi versi, è nobile da parte tua. Come dare un buffetto a qualcuno prima di mollargli un ceffone.» E aggiunse: «Non mi sorprenderai mai a fare una cosa del genere». Susan sbuffò, ma era divertita. «Ho l'impressione che ci sia un punto debole nel nostro piano», riprese David con aria improvvisamente preoccupata. «Non abbiamo chiarito dove porteremo in salvo Dee. Se arriva nella zona partenze con Jan, vuol dire che avrà fatto il check-in con lui... e ciò significa che lui conoscerà la sua destinazione. Potremmo comprarle un biglietto e lasciarlo all'aeroporto dove potrà ritirarlo, però Jan sarà vicino a lei. Una volta che saprà dov'è diretta, non dovrà fare altro che seguirla, se vuole.» Le lanciò un'occhiata. «Mi chiedo quante compagnie riescano a vendere tutti i biglietti in prima classe o in business prima dell'ora in cui apre il check-in. Non molte, presumo. Potrebbe semplicemente acquistare un biglietto all'ultimo momento e rapirla di nuovo. E la nostra cospirazione andrebbe a farsi friggere.» Susan gli strattonò delicatamente un braccio. «Tu ti agiti troppo. Abbi un po' di fede», esclamò. «Questa è una faccenda seria», scattò lui. Ma si rese subito conto di aver detto una stupidaggine. Il volto di lei si rabbuiò. «Lo so che è una faccenda seria», replicò con rabbia e irritazione. «Scusami, scusami», si affrettò a dire David. «È ovvio che lo sai. Naturalmente.» Susan si calmò e, dopo qualche istante, disse: «Secondo me, le probabilità che Jan abbia preso il passaporto di Dee sono mirarne. Perché avrebbe
dovuto? Perciò acquistiamo tre biglietti sul nostro volo. Io mi compro una parrucca nera e mi vesto in modo da somigliare a Dee. Poi faccio il checkin a nome suo, col suo bagaglio. Dopodiché mi libero della parrucca, mi cambio i vestiti, aspetto una mezz'ora e raggiungo un'altra fila, dove faccio il check-in per me. Se qualcuno dovesse riconoscermi, posso sempre dire che siamo gemelle... La compagnia aerea non ha la data di nascita di Dee, giusto? Visto che siamo sorelle, non vedo come possano scoprirci». David rifletté. «Ma allora anche Jan acquista un biglietto per Dee?» chiese poi. «Esatto», ribatté Susan. «Una volta che io non ho più bisogno del suo passaporto tu lo lasci al banco informazioni, dicendo che l'hai trovato. Poi Dee va a prenderlo quando arriva... dicendo che le era caduto. In questo modo Dee può fare il check-in simultaneamente su due voli, ma Jan sarà al corrente di uno soltanto. La sua carta d'imbarco per il primo volo la farà entrare nella zona partenze. Una volta che l'avremo liberata dalle grinfie di Jan, la scambieremo con quella dell'altro biglietto.» L'espressione di David era ancora meditabonda. «Sto pensando al secondo biglietto. Tu fai finta di essere Dee per fare il check-in, ma poi quel biglietto finisce in tasca tua finché non arriva l'ora di salire sull'aereo. Questo biglietto non verrà visto dagli addetti alla sicurezza né da quelli che controllano i passaporti... da nessuno insomma. Quindi salta parecchi passaggi. La lasceranno salire sull'aereo se non è stata registrata?» Susan si strinse nelle spalle. «Non credo che controllino questo genere di cose. Tuttavia, anche se lo facessero, di che cosa potrebbero accusarla? Abbiamo la vera Dee, col suo passaporto e col suo biglietto, pronta a imbarcarsi. Possono sospettare che si sia materializzata dal nulla nella zona partenze, ma credo che debbano comunque lasciarla salire. Penseranno che gli addetti alla sicurezza hanno cannato qualcosa.» David annuì e la sua espressione rivelava che era quasi convinto. «Funziona, vero? E l'altro biglietto, quello che acquista Jan? Quello non causerà problemi quando Dee non si presenterà all'imbarco?» «Visto che non c'è bagaglio, alla fine partiranno senza di lei», rispose Susan. «Forse causerà qualche problema in un secondo tempo, qualora dovessero fare delle ricerche, ma non credo che riusciranno mai a capire che cos'è successo. A nessun contrabbandiere o terrorista verrebbe in mente una cosa del genere, perché di fatto non porta da nessuna parte. Una persona ha acquistato due biglietti, ma ne ha usato uno solo. Difficile che qualcuno alzi un polverone per questo.»
«Sì», ammise David. «Sì. Ho capito.» Le rivolse un rapido sorriso. «Allora, dove vuoi andare?» Susan guardò fuori del finestrino le nubi gonfie di pioggia che sfioravano le cime delle colline e l'aria nebbiosa carica di goccioline che inzuppava ogni centimetro della verde terra. «In un posto caldo», rispose. Poi aggiunse: «Da dove partano voli regolari per gli Stati Uniti, in modo che Dee possa andarsene in tutta sicurezza». Guidarono in silenzio per diversi minuti prima che Susan aggiungesse, con una certa circospezione: «Ascolta, David, voglio fare ancora un po' di pratica». Lui la guardò, incuriosito. «Intendi...?» E si girò un poco verso la borsa sul sedile posteriore. «Sì», rispose Susan. «La nostra andatura è sui cento chilometri orari e sulla strada ci sono altre macchine, quindi siamo semplicemente un'auto in mezzo ad altre auto. Anche se qualche adepto percepisse la mia presenza, cosa potrebbe mai fare? Stiamo viaggiando a più di un chilometro al minuto. Saremo fuori del suo territorio prima che si renda conto di quello che sta accadendo. E poi... Oli vive a ridosso dell'autostrada? Come ho detto, non riesco a immaginare questi tizi che vivono senza comodità.» David la stava seguendo solo in parte. «È una cosa che mi mette a disagio», borbottò. «Hai trafficato con quegli oggetti all'andata e al ritorno. Che bisogno hai di riprovarci?» Susan lo squadrò. «Ehi, pensi che si tratti di una specie di droga o qualcosa del genere?» David era un po' agitato. «Non so che cos'è. Ma ti dirò una cosa: non credo che ti faccia bene. Vorrei credere che ci siano degli adepti là fuori che combattono al fianco degli angeli, ma ne dubito. In base ai documenti che hai letto, sono un branco di psicopatici fissati col potere.» La guardò. «O no?» «Ma non è la magia che li rende ciò che sono», si difese Susan, rendendosi però conto della debolezza di quella sua affermazione. «Non credo proprio che sia la magia, David. Penso che si tratti della loro natura. Qualsiasi potere è così. Secondo te, quanti politici influenti sono ancora brave persone che si sforzano di svolgere un buon lavoro? Qualsiasi potere può corromperti, se lo ami troppo. Ma io no. Non desidero affatto questo genere di potere.» «Allora perché vuoi usare ancora quell'aggeggio?» chiese David in modo quasi supplichevole. «Perché non lasci perdere, se non dà assuefazione?»
Susan trasse un profondo respiro. «Perché non ho tempo», rispose con calma. «Jan ha avuto a disposizione cent'anni, io solo pochi giorni.» Si girò per guardarlo in faccia. «La magia è l'unica cosa che abbiamo per frenarlo, per depistarlo, per sorprenderlo un po'. Quando lui usa il suo potere, nulla di ciò che tu hai appreso nelle tue lezioni di arti marziali è in grado anche solo di frenare la sua avanzata. Potrebbe ucciderti con un cenno della mano e quindi proseguire per la sua strada. Anche se tu avessi un coltello o una pistola o mezza dozzina di amici con te non farebbe la minima differenza. Ti passerebbe sopra. Questa è l'unica cosa che potrebbe frenarlo.» Un pensiero sgradevole si stava facendo strada nella mente di David. «Vuoi dire che porterai con te il cerchio e i bracciali d'oro in aeroporto? Hai intenzione di affrontarlo?» Susan non lasciò trasparire nessuna emozione. «Se dovesse essere necessario, sì», replicò con circospezione. «Non l'ho programmato. Ma se le cose dovessero mettersi male, ho bisogno di qualcosa con cui confonderlo per guadagnare un po' di tempo.» «Nel senso che Dee e io possiamo scappare mentre tu combatti con lui?» «Non si sa mai. Nel caso qualcosa vada storto. Abbiamo bisogno di qualcosa», ammise lei. Le parole di Susan aleggiarono nell'aria per qualche istante, poi lei cercò di alleggerire l'atmosfera. «Come dice quella battuta? Se non hai un piano di riserva, allora non hai un piano.» Nonostante l'espressione tetra, David fece uno sforzo per sorridere. «Non mi piace, Susan.» «Già, è comprensibile», ribatté lei pazientemente. Invece di girarsi a prendere la borsa, rimase immobile. I minuti passavano e ben presto la tensione si allentò. «Non ti capita mai di avere una frase che ti gira nella testa?» chiese d'un tratto lei, assumendo un'aria distante. «Io ne ho proprio una in questo momento.» David rimase in silenzio, chiedendosi se Susan avrebbe proseguito. E così fu. «Mio padre aveva un fratello maggiore. Adesso è morto. Era in Europa durante la guerra... in Francia, credo. Quand'eravamo piccole, ogni tanto veniva a trovarci.» La sua voce aveva un tono sognante, di reminiscenza. «Aveva l'abitudine di ripetere una frase che per un po' divenne come uno slogan per me e Dee. Ci raccontava quello che faceva e talvolta ci parlava persino della guerra; di solito erano piccoli episodi innocui. Poi concludeva dicendo: 'Non so come affrontare la situazione, ma il cervello funziona ancora'. Riesco a vederme-
lo mentre lo dice con un sogghigno. Dee e io ripetevamo questa frase perché sembrava una cosa da grandi, come un gioco che non capivamo. Non so come affrontare la situazione, ma il cervello funziona ancora.» Scosse la testa, cercando di scacciare quella litania. «Un quadretto un po' melenso, vero?» borbottò, evitando lo sguardo di lui. Mentre lei parlava, David le aveva lanciato qualche occhiata. E adesso sembrava commosso. Voleva ribattere, dire qualcosa, ma era combattuto. Disse: «Tu...» ma s'interruppe. «Tu sei semplicemente...» Ritentò un'altra volta. «Quando penso a te, io...» Poi, invece di restare seri, scoppiarono entrambi a ridere. «Molto eloquente», commentò Susan. «Sai, un sacco di uomini hanno difficoltà a comunicare i propri sentimenti, invece tu riesci a sfruttare la tua straordinaria capacità di esprimerti. Presumo che lo si possa definire un dono.» «Ah, ah», la canzonò lui. «Non è facile. Non ci sono frasi fatte per quello che stavo cercando di dire.» Stava ancora ridendo, ma nel contempo era serio. «In ogni modo, hai rovinato tutto con la tua insolenza. Quello era il mio tentativo di stabilire un contatto. Probabilmente rimarrò emotivamente bloccato per il resto dei miei giorni.» Susan sganciò la cintura di sicurezza e si girò in modo da prendere la borsa dal sedile posteriore. Le dita erano protese verso la cinghia. Per allungarsi, dovette appoggiarsi contro la spalla di David. Quel movimento la portò abbastanza vicina da mormorargli all'orecchio: «Credo di sapere quello che stavi cercando di dire». Poi gli mordicchiò il lobo. «Ahi!» esclamò lui, più sorpreso che sofferente. «Controllati!» «Sì, sì», ribatté lei, prendendo la borsa. Susan infilò i bracciali e mise il cerchio d'oro intorno alla fronte. Poi si tirò davanti i capelli, in modo da nascondere il cerchio, caso mai qualcuno avesse sbirciato all'interno dell'auto. «Avevo intenzione di chiedertelo da un po': è oro normale?» volle sapere David. «Sì», rispose Susan. «Adesso, zitto.» Ogni tanto le lanciava un'occhiata per controllare ciò che faceva, ma, al di là di un'espressione concentrata e degli occhi semichiusi, non c'erano altri segni. Com'era successo in precedenza, dopo alcuni minuti di concentrazione, un velo di sudore apparve sulla pelle di Susan. All'improvviso, ci fu uno stridore di gomme e la Saab sbandò. La lancetta del contagiri era precipitata e l'auto sobbalzava, mentre David girava il
volante nel tentativo di riprendere il controllo del veicolo. Dietro di loro, qualcuno strombazzò. David s'irrigidì immediatamente, scrutando le altre macchine alla ricerca di un indizio che potesse spiegare ciò che era appena accaduto. «Merda», esclamò Susan. «Scusa. Oddio, scusa. Sono stata io. L'ho perso per un attimo.» «Come?» chiese lui, poi sbottò: «Cristo santo. Sei stata fu?» Susan aveva un'espressione avvilita e sorrideva, imbarazzata. «Mi dispiace tanto... Non c'è nulla di cui preoccuparsi. È tutto finito.» David trasse alcuni profondi respiri, in attesa che la scarica di adrenalina passasse. «Stavo alzando degli scudi... ho bisogno di esercitarmi», spiegò Susan, remissiva. «Stavo giocando con la pioggia.» David fissò il parabrezza: era asciutto, e il tergicristalli strideva contro il vetro, benché la giornata fosse più uggiosa che mai. Tuttavia, nell'attimo in cui notò l'assenza della pioggia, questa riprese a battere sul parabrezza, e le gocce scivolarono di nuovo sul vetro. «Devo aver toccato il motore con uno degli scudi», spiegò Susan. «Sono stanca.» E un'aria stanca l'aveva davvero. Respirava con un certo affanno e il sudore che le imperlava le guance era freddo. Le palpebre vibrarono leggermente. «Scudi?» mormorò David. «Ma cosa...» Poi, dopo averla guardata, decise di lasciar perdere. «Non preoccuparti... È solo che mi ha colto alla sprovvista. Siamo ancora interi.» Non sembrava entusiasta, ma la rabbia era passata. Susan colse quel momento per manifestare un pensiero. La sua voce era molto pacata. «Quando lo chiameremo...» Fece una pausa per lasciare il tempo a David di capire a chi si stava riferendo. «... Potresti farlo tu?» proseguì quasi sussurrando. David fu preso in contropiede. «Ehm, presumo di sì. Se vuoi così...» Susan annuì. «Ci ho pensato e non sono sicura di riuscire a mantenere la calma.» La voce le tremò. «Se non penso a quello che sta passando, a come dev'essere spaventata, allora riesco...» Trasse qualche respiro, ma era l'emozione e non lo sforzo a impedirle di parlare. «Allora riesco a stare più o meno bene», concluse, cercando di trattenere le lacrime. Essendo riuscita a terminare la frase, singhiozzò un paio di volte. «Ma certo», la rassicurò David. «Ma certo, farò quello che vuoi, ma...»
S'interruppe. «Lo farò, se è questo che desideri, ma aspetta a prendere una decisione. Sarebbe meglio, visto come ti senti adesso... sarebbe meglio che lo chiamassi tu.» Poi, con grande dolcezza, aggiunse: «Non sospetterebbe nulla». Attraverso le lacrime, Susan gli rivolse uno sguardo ferito. «Sei così calcolatore», lo accusò. Invece di ribattere, David lasciò che lei lottasse con la sua angoscia. E infatti, in tono così basso che lui riuscì a malapena a udirla, Susan ammise: «Hai ragione. Lo farò io». 32 Lunedì 28 aprile (primo pomeriggio) Arrivarono a Londra nel pomeriggio. Erano entrambi esausti. Soprattutto Susan. Tuttavia erano anche determinati: il riposo poteva aspettare. Avevano una serie di cose da fare. Anzitutto avevano bisogno di una base. Nessuno dei due s'illudeva che Jan non conoscesse i loro indirizzi. Se era riuscito a scoprire dove stava Dee o, peggio, se le aveva estorto delle informazioni, ormai probabilmente sapeva tutto. Optarono per un albergo e David suggerì di andare in quello in cui si trovava Dee quand'era stata rapita. Era incredibilmente costoso ma, in qualche modo, dovevano recuperare gli effetti personali di Dee e sarebbe stato molto più semplice se avessero alloggiato nello stesso posto. Susan l'aveva detto: la loro vita non sarebbe mai più stata quella di prima. E David doveva accettare quel fatto. Aveva messo da parte dei soldi per viaggiare, anzi aveva risparmiato parecchio, quindi potevano benissimo attingere a quel gruzzolo. Anche perché adesso si sarebbe messo sul serio in viaggio, benché in un modo diverso da come se l'era immaginato. Fu David a occuparsi della camera, chiedendone una matrimoniale. Avevano deciso così dopo aver discusso se non fosse il caso di prendere due singole. Susan si era accomodata su una delle poltrone nel foyer dell'albergo e si era messa a leggere un giornale, mentre David ultimava le formalità. Si era seduta a una certa distanza, senza dare l'impressione di essere con lui. Quando David si allontanò dal bancone, lei ripose il giornale e si diresse alla reception. «Mi scusi, mi chiamo Dee Milton. Sono desolata, ma ho perso le chiavi
della mia camera», spiegò all'impiegato dietro il banco, esagerando l'accento americano. «Qual è il numero della sua camera, signora?» «Arrivo da New York, lei mi capisce, il fuso orario mi ha scombussolato», replicò Susan, ignorando la domanda. «Non riesco a ragionare come si deve.» Indicò il terminale. «Il nome è Milton», disse, scandendolo. «Dorothy Milton, però mi chiamano 'Dee'.» L'altro digitò qualcosa al terminale, poi chiese: «Ha un documento, Miss Milton?» «Be', certo che ce l'ho, ma ho lasciato tutto in camera», ribatté lei con un sorriso dolce. «Posso darle l'indirizzo o il numero di telefono o qualche altro dato.» «Sì, andranno bene», ribatté l'uomo. Susan snocciolò i dati della sorella. «Devo aver lasciato la chiave in camera, quando sono uscita», spiegò. «Se qualcuno può farmi entrare, non penso di aver bisogno d'altro.» L'impiegato le rivolse un sorriso gelido e, con un cenno, chiamò un giovane usciere, al quale sussurrò qualcosa. Questi uscì da dietro il bancone e, rivolgendosi a Susan, disse: «Se vuole seguirmi, vedremo di risolvere il suo problema». E la guidò verso gli ascensori. «Naturalmente, di solito non tocco alcol all'ora di pranzo quando sono a casa», cinguettò Susan rivolta al giovane, che le sorrideva con cortesia. «Penso che sia il fuso orario... è così disorientante. Lei ne ha mai sofferto?» «No, signora», rispose il ragazzo. Quando uscirono dall'ascensore, Susan sbatté gli occhi, fingendo di non sapersi orientare. Lasciò che fosse lui a guidarla verso la camera. Qualche istante dopo, si trovava nella camera 319. L'usciere era rimasto sulla soglia. Su uno dei comodini, lei individuò subito una bustina di carta, contenente una chiave di plastica simile a una carta di credito. Naturalmente in origine dovevano essercene due. «Eccola», esclamò, girandosi e agitando la chiave. «Grazie mille.» «Non c'è di che, signora. Le auguro un buon soggiorno», concluse il ragazzo, indietreggiando verso il corridoio e chiudendo la porta. Susan diede una rapida occhiata intorno. Non c'era nulla di particolarmente interessante da vedere; le donne delle pulizie avevano chiaramente riordinato la camera da quand'era stata usata l'ultima volta. Non era nemmeno chiaro in quale dei due letti avesse dormito Dee. Sollevò il ricevitore
del telefono, digitò lo zero, poi chiese che le passassero la camera di David Braun. Il telefono prese a squillare. Al secondo squillo, David rispose. «Sono nella camera 319», lo informò Susan. «Perché non vieni qui?» «Arrivo», rispose lui, riagganciando. Meno di un minuto dopo, David stava bussando alla porta. Si misero a rovistare nei cassetti e aprirono le ante della cabina armadio. Susan accese la luce in bagno e perlustrò l'interno. «Sembra che non manchi nulla», disse. «C'è persino la borsetta. Pare che sia uscita solo col cellulare, col portafoglio e forse col soprabito.» Impiegarono qualche minuto per mettere via gli effetti personali di Dee, riponendo i vestiti nella valigia e nei portabiti. Sullo scrittoio, Susan trovò una cartolina scritta solo in parte, con le parole: «Cari mamma e papà» scritte in alto. Con una certa riluttanza, la gettò nel cestino. Portarono tutto nella loro camera, identica a quella di Dee e situata due piani sopra. Una volta posati i bagagli, David cominciò a camminare avanti e indietro, chiaramente immerso in una profonda riflessione. Susan si sedette sul letto più lontano. Stava rovistando nella borsetta di Dee. «Be', almeno abbiamo il suo passaporto», annunciò. «Sfortunatamente il mio è a Cambridge.» A quelle parole, David avrebbe voluto gemere. «Allora ne deduco che dovremo fare parecchi giri. Io devo passare da casa per prendere alcune cose. Sarebbe meglio muoverci domattina presto, prima dell'alba. Possiamo dormire un po', poi uscire quando non c'è traffico.» «Già. Però non sappiamo se Jan ha dei complici... Metti che qualcuno tenga d'occhio i posti dove potremmo andare...» disse Susan. «Finora il lavoro sporco l'ha svolto da solo», replicò David. «Se avesse avuto intenzione di chiedere rinforzi, penso che a quest'ora l'avrebbe già fatto. E non ha più bisogno di tenderci una trappola. Ha Dee con sé.» «Però...» David concluse la frase per lei. «Però dobbiamo stare attenti. Le prime ore dell'alba sono l'ideale per fare queste cose. Nessuno è all'erta alle quattro del mattino.» «Io no di sicuro», convenne Susan. «Oh, e intanto che ci siamo, dovremmo fare un salto anche a casa del professore, qui in città.» Stavolta David non trattenne un gemito. «Certo», disse. «E che ne dici di fare una capatina al ranch dei tuoi genitori nell'Idaho?» «È una casa, ed è nel Nuovo Messico. Inoltre credo che per il momento
potremmo fare a meno del mio vestito da ballo e del diploma di laurea», ironizzò Susan. «Oh, bene», approvò David. Benché scherzassero, nell'aria si avvertiva una tensione crescente. Dovevano ancora contattare Jan e la consapevolezza che il momento della telefonata si stava avvicinando cominciava a influire sul loro umore. Nessuno dei due sembrava pronto ad affrontare l'argomento. David si sedette allo scrittoio. «Devo chiamare l'ufficio», annunciò. «Devo dire... qualcosa.» «Digli che ti sei innamorato», suggerì Susan, buttandosi sul letto a faccia in giù. Lui finse di valutare quel suggerimento. «Penso che non sia così distante dalla realtà», ribatté. Prima che Susan potesse reagire in qualche modo, lui alzò il ricevitore e iniziò a digitare un numero. Poi, con voce professionale, annunciò: «Credo che sia un'ottima idea mettere un pizzico di verità in quel che dirò. Mi faciliterà le cose quando dovrò dare spiegazioni, più avanti». Poi, con aria enigmatica, aggiunse: «Credo che tu stia per ottenere una promozione». Finalmente qualcuno rispose e David chiese di parlare con Reg Cottrell. Quando glielo passarono, esordì dicendo che non si sarebbe presentato in ufficio per un po'. Poi chiese come andavano le cose. Dal tono della conversazione, era chiaro che la stima di cui godeva David si era alzata notevolmente. Aveva salvato l'azienda dalla rovina, recuperando con sprezzo del pericolo l'oggetto trafugato a Dass. Stava anche raccogliendo un certo plauso per aver consigliato ai soci di rescindere il contratto di Dass il più in fretta possibile. Il suggerimento di David aveva dato luogo a una serie di modifiche immediate; modifiche che avrebbero ridotto di molto la responsabilità della società qualora gli eredi di Dass avessero trovato un appiglio per vantare un qualche diritto. Reg lo rassicurò: un congedo per gravi motivi familiari non sarebbe stato un problema per uno della sua levatura. «Si tratta della famiglia della mia fidanzata», spiegò David. Sul letto, Susan trasalì. «C'è stata una specie di crisi familiare e io vorrei proprio dare una mano. Lei è americana e probabilmente dovremo andare laggiù.» David rimase in silenzio mentre Reg commentava. Adesso Susan si era seduta sul letto e lo stava fissando. «Be', non l'ho detto a molte persone», mormorò David. «Non abbiamo ancora fissato una data... È molto gentile da parte tua, Reg. Ti prego di porgere i miei ringraziamenti anche agli altri soci per essersi dimostrati così comprensivi... Questo mi renderà certamen-
te le cose più facili. Allora ti richiamo fra una quindicina di giorni, per farti sapere come vanno le cose. Grazie ancora.» Riagganciò e si rivolse a Susan. «Accidenti. Stanno pensando di prendermi come socio. In pratica, Reg ha insistito affinché mi prendessi una vacanza. Sembra che entrambi abbiamo ottenuto una promozione.» Susan si alzò dal letto e gli si sedette in grembo, cingendogli il collo con le braccia. «E che ne sarà della tua povera, piccola fi-dan-za-ta?» cantilenò con l'accento strascicato del Midwest. David parve un po' imbarazzato, ma la strinse a sua volta tra le braccia. «Se gli avessi detto che ti avevo appena incontrato, il fatto che sto per andarmene in giro per il mondo sarebbe suonato un po' strano, no? In questo modo è più semplice, caso mai tu avessi bisogno di parlare con loro per qualche motivo.» Susan strofinò il viso contro il suo collo. «Nessuna proposta? Niente corteggiamento? Niente anello?» scherzò. «Ascoltami bene», disse lui. «Se tra un mese saremo ancora vivi, potrai avere tutto ciò che vuoi... anello compreso.» Susan si districò dall'abbraccio. «Non sei più divertente», brontolò. «Ho detto che potrai avere tutto ciò che vuoi... Perché non lo trovi divertente?» «Mi piaceva quando riuscivo a prenderti in giro. Dovresti agitarti di più e arrossire. È divertente», insistette lei. «Susan, penso che questa fase dovremmo averla già superata... Rispetto a quello che abbiamo passato e a quello che ci attende, non puoi aspettarti che io mi agiti per uno scherzetto.» «Oh, va bene», sospirò lei. «Dovrò pensare a un nuovo gioco.» S'incamminò verso il bagno. «Abbiamo superato molte cose insieme», ammise. Un istante prima di scomparire al di là della porta, aggiunse, in tono pensieroso: «Credi che riusciremo mai a fare sesso?» Anche se di fatto non poteva vedere David dal bagno, la voce di lei lo raggiunse attraverso la porta aperta. «Vedi? Dopotutto riesci ancora ad arrossire...» gridò Susan. Quando Susan era uscita dal bagno, entrambi avevano riso, ma l'allegria non durò a lungo. Si avvicinava il momento di chiamare Jan e qualsiasi tentativo di fare battute scherzose risultò falso. Il buonumore di Susan si dissolse. La giovane donna era riuscita a nascondersi dietro una maschera di allegria quasi sfacciata soltanto sforzan-
dosi di non pensare a Dee e a ciò che probabilmente stava passando. Ormai incapace di allontanare quel pensiero dalla mente, provò a chiedere a David a quali condizioni avrebbero potuto riottenere la sorella... Però scoprì di non riuscire a formulare la domanda con chiarezza. Da ciò che riuscì a farfugliare, David indovinò qual era la richiesta ed espresse la sua opinione. A quel punto - sostenne - a Jan non conveniva far del male a Dee. Anzi, giacché dovevano spostarsi, era meglio per lui che Dee fosse in buona salute. Il pericolo ci sarebbe stato soltanto se lui avesse percepito una mancanza di collaborazione da parte loro. Ma, dal momento che il loro piano prevedeva una condiscendenza assoluta, l'ipotetico ferimento di Dee avrebbe messo a repentaglio quella collaborazione. Susan non era del tutto convinta, ma le parole di David la confortarono. Si concesse un paio di minuti per ricomporsi, poi prese il suo cellulare e digitò il numero. «Pronto?» rispose la voce raffinata all'altro capo della linea. «Con chi ho il piacere di parlare?» «Sono la sorella di Dee», rispose asciutta Susan. «Ah, la sorella maggiore», replicò l'altro, con voce impostata. «Ma guarda un po' che ore sono. Deve essersi nascosta proprio bene, se ci ha messo così tanto a richiamarmi. Mi stavo chiedendo dove fosse finita. Mi vedevo già costretto ad alzare la posta.» «Che cos'ha fatto a Dee?» tagliò corto Susan. «Voglio parlare con lei.» Il buonumore di Jan sembrò smorzarsi. «Sì, a questo ci arriviamo tra poco. Sono sicuro che ha visto un numero sufficiente di telefilm per avere un'idea di come vanno le cose. Prima ci mettiamo d'accordo, poi lei parla con sua sorella, dopodiché lei concluderà lanciandomi qualche vuota minaccia in merito a quello che mi farà se dovessi sfiorarla. Giusto?» Susan non replicò. «Tacito assenso, presumo», continuò allora Jan. «Molto bene. Ecco la prima domanda: è disposta a consegnarmi i documenti che voglio?» Susan esitò. «A certe condizioni», rispose infine. «Ah, senti, senti, senti», la schernì Jan. «Adesso avanziamo anche delle richieste. Sì o no? Sono sicuro che la nostra Dorothy si augura che lei dia la risposta giusta.» «Sì», ribatté Susan a denti stretti. «È sicura? Splendido. Dorothy mi sembra sollevata. Ha una penna? Le spiego che cosa faremo.» «No», fu la risposta recisa di Susan.
«Scusi? No, non ha una penna?» «No, non voglio sapere qual è il suo piano. Non mi fido di lei.» Jan parve riflettere. «Suppongo che la fiducia sia un bene raro. Vogliamo chiedere a Dorothy che cosa dovrebbe fare, secondo lei?» A Susan si mozzò il respiro in gola. «Per favore, ascolti ciò che ho da dirle...» Ci fu una pausa. «D'accordo. Mi dica», concesse Jan. «Lei non è stupido. Se le consegno semplicemente la collezione, non ha motivo di lasciare andare me o Dee. E lei è riuscito a fuggire quand'è stato arrestato. Dobbiamo incontrarci in un posto dove non possa farci del male; poi deve garantirmi che lascerà il Paese subito dopo.» «Capisco», fu il commento di Jan. «Ma lei, che scelta ha? Qui c'è Dorothy, una delle creature più fragili che io abbia mai visto. Pensi a ciò che potrei farle se lei non dovesse collaborare. Provi a pensarci.» E diede l'impressione che avrebbe fatto qualcosa in quel preciso istante. «No, per favore, non lo faccia», lo supplicò Susan. «Non le faccia del male. Le chiedo solo di ascoltarmi.» Vedendo che non rispondeva, proseguì: «Mi dice che ci lascerà andare, una volta ottenuto ciò che vuole, poi mi fa intendere quanto sia facile per lei far del male a mia sorella... ed esige che io le dia fiducia. Mi deve dare un buon motivo per credere che non ucciderà entrambe. In caso contrario, invece di concedermi la possibilità di salvarla, mi offre solo l'opportunità di morire con lei». Susan aveva parlato con voce incrinata, sull'orlo del pianto. Di nuovo, Jan non proferì parola, ma era ancora in ascolto. «Se lei mi assicura che non le farà del male; se accetta d'incontrarmi in un posto dove sarò protetta; se accetta di lasciare il Paese non appena avrà avuto ciò che vuole... allora le consegnerò la collezione. Però non mi chieda di commettere un suicidio che non aiuterebbe di certo Dee.» «Qual è la sua proposta?» Il tono lasciava trapelare tutta l'ira di Jan e anche la sua pericolosità. «C'incontriamo in un aeroporto... nella zona partenze», spiegò Susan con calma. «Lei verrà senza bagaglio a mano e io la osserverò mentre passa sotto il metal detector. Quindi niente trucchi né armi.» Era una delle cose su cui Susan e David si erano detti d'accordo. Susan non avrebbe rivelato che credeva nella magia. Inoltre non avrebbe parlato di David. «Stamperò una copia della collezione e la terrò pronta per lei. Se cerca di sottrarmela o se si presenta senza Dee, la distruggerò. Utilizzerò una carta solubile in acqua, quindi dovrà prestare attenzione a come la maneggia.»
«Vada avanti», la invitò Jan, di nuovo allegro, quasi divertito. «Una volta che avremo fatto lo scambio, prenderò Dee con me e c'imbarcheremo su un aereo. Lei partirà sul suo e non tornerà più indietro; ci lascerà proseguire la nostra esistenza.» Fece una pausa, quindi riprese: «Dovrà acquistare un biglietto aereo per Dee e avrà bisogno del suo passaporto, che lascerò al banco informazioni». «Molto bene», ridacchiò Jan. «Mi è permesso dare un suggerimento? Ho capito; se voglio che lei rischi di rompersi l'osso del collo, allora devo rassicurarla in qualche modo. Potrei darle la mia parola che l'unica cosa che voglio è la collezione, ma, a quanto ho capito, non si lascerebbe convincere. Io non mi farò neanche vedere. Manderò una persona innocua: la mia amichetta Sati. Ha quasi diciannove anni ed è magra come un chiodo. Sarà alle spalle di Dorothy. Le dirò d'indossare qualcosa di poco pratico per nascondere armi.» Susan non riuscì a ribattere. «Io lascerò comunque il Paese», continuò Jan. «Questo si adatta perfettamente ai miei piani... Tuttavia la piccola Sati deve restare qui. Che ne pensa di un volo interno? Sarà più semplice per voi tornare a casa. Oppure potreste scegliere il treno, così da non perdere tempo coi passaporti. La mia assistente sceglierà una destinazione più lontana, diciamo Aberdeen, mentre sua sorella e lei ne sceglierete una più vicina. Che ne dice?» «Io...» Susan era incerta. «Credo che possa andare», rispose infine, scettica. «È tutto ciò che ha chiesto lei e anche di più. Domani ho un paio di cose da fare...» Tossì e si schiarì di nuovo la gola. «Però mercoledì sarà perfetto e avremo tutto il tempo per organizzarci.» «E lei non si presenterà nemmeno?» chiese Susan. «Non sarò neppure nei paraggi. Se avesse dei sospetti, lei potrebbe distruggere la collezione. Non ci sarò, glielo prometto. Va bene?» Susan esitò per qualche secondo, poi disse semplicemente: «Sì». «Bene, facciamo alle due del pomeriggio, al terminal nord di Gatwick?» suggerì Jan. «Ah, presumo che voglia scambiare due parole con sua sorella. Non si allarmi, ma è meglio per tutti se Dorothy ricorda il meno possibile di questa ordalia. Le ho dato del Valium. Sono sicuro che non avrebbe voluto sentirla terrorizzata.» Ci fu una pausa, poi la voce di Dee disse: «Pronto?» Sembrava stordita. Susan si portò una mano alla bocca. «Dee, sono Susan. Stai tranquilla, sistemeremo tutto.»
«Susie? Sei proprio tu?» biascicò Dee. «Sì, sono Susan. Dee, stai bene? Come ti senti?» «Sì... bene», rispose l'altra, ma la sua confusione era evidente. «Sono un po' assonnata.» Jan tornò all'apparecchio. «Mi faccia sapere se c'è qualcos'altro che posso fare per lei.» E riagganciò. Susan posò il cellulare e si girò verso David con gli occhi pieni di lacrime. «Penso che Dee stia bene e che lui abbia intenzione di restituircela», disse dopo qualche istante. David le si avvicinò e la strinse tra le braccia. Restarono abbracciati a lungo. 33 Mercoledì 30 aprile (due giorni dopo) «Credo che sia lei», disse Susan. Una parete di vetro separava i negozi e le sale d'attesa del terminal dalla zona dei controlli. Attraverso il vetro, Susan e David osservavano le tre file di persone che stavano sciamando verso di loro, dopo essere passate sotto gli archi dei metal detector. La donna che Susan stava fissando si girò a parlare con un amico e il suo volto divenne visibile. Stava ridendo. Non era Dee. «Sai la cosa che mi diverte di più quando vado dal dentista?» buttò lì David. Susan si voltò a guardarlo, grata per quel diversivo, ma scettica sulla piega che lui voleva dare alla conversazione. «Ti diverte andare dal dentista?» «Da quanto tempo sei in Gran Bretagna? Si chiama sarcasmo. Detesto andare dal dentista.» David scrollò le spalle in un atteggiamento da duro, poi spiegò: «Come puoi ben immaginare, non m'importa tanto del dolore, ma non mi entusiasma la sensazione d'impotenza. No, proprio non mi piace. Comunque la cosa che mi diverte sempre è quando ti preparano per la radiografia e poi si precipitano tutti fuori della stanza. Voglio dire, è perfettamente innocua per me, ma loro continuano a scappare come... conigli», concluse, con un filo d'incertezza sull'efficacia del paragone. Gli occhi di Susan andavano da una persona all'altra. «Penso che sia dovuto al fatto che tu ti fai due dosi di raggi X all'anno e loro venti al gior-
no», considerò. «Lo so», ribatté David. «Quindi come pensi che si sentano quegli agenti?» E indicò il più vicino alla macchina a raggi X. «Se ne stanno seduti lì tutto il giorno a venti centimetri da quell'aggeggio che emette in continuazione raggi tanto potenti da vedere attraverso una valigetta di metallo.» Susan ridacchiò, ma non fece commenti. Infine annunciò: «È lei». David stava osservando una fila diversa, ma seguì subito lo sguardo di Susan e intravide una ragazza alta e magra, dai capelli scuri, che si stava avvicinando alle barriere di controllo: era Dee. Indossava un maglione nero di lana mohair e un paio di jeans bianchi tanto sudici da notarsi anche a quella distanza. Sembrava instabile sulle gambe e procedeva a braccetto di un'altra ragazza parecchio più bassa di lei. Quest'ultima aveva la pelle olivastra e i capelli neri. I tratti del viso potevano essere indiani, ma l'abbigliamento era decisamente occidentale. Indossava pantaloni attillati di rayon rosso porpora, stivali argento e una maglietta rosa - troppo stretta persino per la sua esile corporatura - sulla quale spiccava la scritta BABE a caratteri argentati. Una mise economica e sbarazzina portata da una ragazza abbastanza graziosa da farla sembrare divertente... tranne che in quel contesto appariva tremendamente fuori luogo, soprattutto se confrontata con l'espressione tesa della ragazza. Le occhiaie nere sotto gli occhi suggerivano tutto fuorché un'esistenza all'insegna della spensieratezza. Le conferivano l'aspetto di qualcuno quasi malato d'ansia. Mentre Susan e David le seguivano con lo sguardo, la ragazza asiatica diede una spinta a Dee, facendola avanzare di qualche passo verso la macchina a raggi X. Nonostante l'aspetto intontito e trasandato, Dee sembrava comunque più sana della sua accompagnatrice. «Non può essere un'adepta, vero?» si domandò David con meraviglia. Anche Susan sembrava sorpresa. «Sembra più una tossicodipendente che un'adepta, direi. Mi ricorda certe ragazze che frequentavano il centro quando facevo la volontaria. Ha l'aria di una prostituta... ma di quelle che non hanno molto successo.» Mentre fissava la ragazza che stava trascinando Dee verso di loro, David cominciò a provare un certo disgusto. «Adesso capisco cosa intendeva Jan quando ha detto che si sarebbe vestita in modo da non poter nascondere armi», commentò. «Be', comunque sarà meglio fare attenzione», replicò Susan. «Aspetteremo finché non saranno passate sotto il metal detector, poi ci allontaneremo.»
Dee e la sua accompagnatrice passarono sotto l'arco senza far scattare l'allarme. Non avevano bagaglio a mano, a parte i cellulari e la borsetta di Dee. «Probabilmente non dovremmo farci vedere insieme», disse Susan a David. Lui annuì e si diresse verso un telefono pubblico. Alzò il ricevitore e prese a borbottare qualcosa, come se stesse facendo una telefonata. Con la coda dell'occhio, però, seguiva Susan e le due ragazze che si stavano avvicinando. Susan aveva un sacchetto in una mano e una bottiglia d'acqua aperta nell'altra. All'interno del sacchetto, si vedeva un pacco di fogli stampati. Rimase immobile al centro della sala d'aspetto, più o meno in linea con quelli che uscivano dalla zona dei controlli. Dee scorse Susan e sorrise, ma era un sorriso esausto, al rallentatore, come se fosse troppo ubriaca per capire cosa stava succedendo. Il volto di Susan era una maschera rigida. «Tu sei Sati», disse, rivolgendosi alla ragazza asiatica. Il viso teso di lei si corrugò in una espressione di disgusto. «No, io sono Priya. Quello è il nome che mi ha dato lui. Una specie di scherzo», spiegò, quasi sputando le parole nel suo stanco uggiolio londinese. Susan guardò Dee, poi di nuovo la ragazza. «Le avete fatto del male?» chiese. «Io non ho fatto del male a nessuno», ribatté Sati e trasse un grande sospiro. «Non lavori per Jan?» domandò Susan con una certa esitazione. La ragazza scoppiò in una risata priva di gioia. «Lei deve darmi dei documenti», disse. «Non posso tornare indietro senza.» Susan esitò. Una certa preoccupazione per la sorte della ragazza le incrinò la voce. «Ti minaccia?» volle sapere. «Lei che ne dice?» sbottò con rabbia l'altra, come se quelle parole avessero esaurito le sue ultime energie. Dopodiché protese una mano. Susan la guardò, confusa, come se le fosse stato chiesto di stringerle la mano, ma poi si rese conto del significato di quel gesto e mise il sacchetto di plastica sulla mano protesa. Afferrandolo, Sati diede una piccola spinta a Dee in direzione di Susan. Dee fece un paio di passi barcollanti e finì tra le braccia della sorella. «Spero che si riprenda», disse Sati a denti stretti. Poi si girò e si allontanò prima che Susan potesse dire altro.
Allora David si fece avanti e aiutò Dee a mettersi a sedere. «Non mi sembra che vi stessero osservando. C'era solo la ragazza», chiarì. Si sedettero tutti, e Susan prese ad accarezzare i capelli di Dee, che aveva appoggiato la testa sulla sua spalla e teneva le palpebre abbassate. «Quella ragazza ha tutta l'aria di essere una vittima quanto noi. Dio solo sa in che modo la minaccia.» David fissò Dee, notando la sua aria intontita e gli indumenti sporchi. «Come sta?» chiese. Susan sollevò la testa della sorella e la guardò negli occhi. Dee le rivolse un sorriso sghembo. «Fatta sino al midollo, ma non sembra avere un graffio. Se è solo Valium, l'effetto dovrebbe esaurirsi tra qualche ora.» La cinse tra le braccia, stringendola con un senso di gratitudine. Poi cominciò a dondolare leggermente e Dee non oppose resistenza. Dopo qualche minuto, Susan disse: «Aiutami a portarla al gate». Dall'espressione si capiva che, per il momento, stava reprimendo qualsiasi moto di sollievo. Il suo volto conservava il medesimo cipiglio che aveva mostrato nell'ultima ora. Un'ora e mezzo più tardi erano in volo. Dee era seduta accanto al finestrino, ancora insonnolita e poco incline a parlare, ma non più indifferente e inebetita come prima. Susan aveva preso posto al centro e David di lato. Quando la spia luminosa della cintura di sicurezza si spense, Susan si rivolse a David. «Mi sono persa qualcosa? Ce l'abbiamo fatta? Abbiamo messo la parola fine?» «Hai trattenuto il respiro per circa due ore, vero?» ribatté lui. Lei gli rivolse un sorriso nervoso. «Sì», ammise. «Bene», disse David. «A quanto sembra, tu, io e Dee siamo tutti interi. Penso che sia incoraggiante.» «Credi che non corra pericoli se lascio andare il fiato?» Lui le prese la mano e annuì. «Grazie», gli disse Susan. «Voglio che tu sappia una cosa. Mi sono resa conto che per te non è stato facile lasciarmi organizzare tutto, limitandoti a seguirmi, e apprezzo veramente il tuo sforzo.» «Hai pensato a tutto e hai organizzato un buon piano», ribatté David a mo' di spiegazione. «Un piano buono almeno come quello che avrei potuto organizzare a mia volta. Io...» «Cosa?» chiese Susan sorridendo, incoraggiandolo a continuare. «Ecco, speravo che potessimo parlare di questa cosa», rispose lui. «Di cosa? Non mi viene in mente nulla da dire, tranne 'grazie'», replicò
lei. Con estrema cautela, David aggiunse: «Intendevo dire: perché era... così importante quella faccenda della fiducia?» Fece una pausa. «Lo so che questo non è il momento più adatto, ma è l'occasione migliore da non so quanto tempo, e ho bisogno di parlare di questa cosa preferibilmente adesso e non dopo.» Susan era a disagio, ma non lo interruppe. David trasse un respiro. «Susan, lo sento che provi dei sentimenti per me, checché tu ne dica. E io, ecco, be', spero che tu sappia ciò che provo per te, quanto mi stai a cuore.» Sorrise. «Voglio solo... sistemare questa faccenda... qualunque cosa ci sia... qualunque cosa ci sia tra noi che non va bene.» Finalmente affrontò il nocciolo della questione. «Spero che tu sia arrivata al punto in cui senti di poterti fidare di me.» Il volto di Susan tradiva l'imbarazzo. Lei si agitò sulla poltrona mentre ponderava quelle parole. «Non è così semplice», disse poi. «Certo, va bene. Ma è proprio questo il motivo per cui voglio parlarne.» «Vuoi veramente parlarne adesso?» Non era infastidita, ma si capiva che avrebbe preferito rimandare. «Non ti sembra che io abbia fatto abbastanza, che io abbia dimostrato di essere disposto a rischiare quasi tutto, per meritarmi di saperlo?» Aveva parlato a voce bassa, con delicatezza, ma nelle sue parole c'era una richiesta pressante. «D'accordo», si arrese lei. «Se sei sicuro di voler fare questa conversazione...» Non avrebbe voluto parlare, ma s'impose di farlo prima che le forze la abbandonassero. «Non è tanto una questione di fidarmi di te oppure no; il fatto è che sei tu a non fidarti di me... almeno non nel modo in cui io vorrei.» La sua voce si addolcì. «Non ti biasimo per questo. Sei fatto così e basta. Non rientra nella tua natura lasciare che qualcun altro ti dica come prendere le tue decisioni... Secondo te, nessuno capisce veramente ciò che ti frulla nella testa. Se ti sforzi ce la fai, ma è una faticaccia e, ogni volta in cui ti senti sotto pressione, torni al tuo vecchio schema: pensi e agisci a modo tuo... cercando l'aiuto degli altri, ma senza consultarli prima.» Gli posò una mano sul braccio. «Credo che tu abbia capito che non ti sto criticando, vero? È semplicemente il modo in cui sei fatto. E, per come sono fatta io, non riesco a sopportarlo. Scommetto che ci sono decine di ragazze che vorrebbero che ti prendessi cura di loro, che decidessi per loro, ma io non sono una di quelle. Non posso.» David cercò di replicare. «Io non... Veramente non ho...»
«Ecco perché mi sono arrabbiata tanto ogni volta che hai preso l'iniziativa senza dirmelo», proseguì Susan. «È vero, in alcune occasioni hai agito anche in modo irresponsabile, ma più che altro m'innervosivo perché il tuo comportamento mi ricordava che avevo due scelte, entrambe spregevoli: lasciare che tu mi conquistassi oppure respingerti. Ciò che non riuscivo ad avere, e di cui ho bisogno, è una relazione paritaria. Non ho bisogno di protezione, non se ciò significa arrendermi, rinunciare a me stessa. È ciò che ha fatto mia madre... e non ha funzionato. Ha lasciato che fosse mio padre a decidere per lei e questo l'ha resa infelice. Era l'unico modo in cui poteva stare con lui, ma non era il modo giusto. Quando rifletto su ciò che le ha fatto, mi rendo conto che preferisco stare da sola.» Era sull'orlo del pianto. David si stava sforzando di articolare la sua risposta. Voleva cancellare ciò che lei aveva detto, voleva dimostrarne la falsità. «Non è vero», esclamò. «Cioè... È vero che mi sono comportato così in passato, ma non è un atteggiamento immutabile. Provo più rispetto per te che per qualsiasi altra persona e, quando si è trattato di riportare indietro Dee, ti ho lasciato fare a modo tuo, vero? Non ho espresso neanche una lamentela...» Susan annuì. «E la cosa ti ha quasi ucciso», commentò. «L'ho visto. Ecco perché ti sono così grata di averlo fatto ugualmente.» «Ti sbagli, Susan», insistette David. «Va bene, la cosa mi ha irritato un po', e presumo che tu abbia ragione quando dici che mai prima d'ora mi ero affidato a una persona come in questa occasione. Hai capito perfettamente come sono fatto: non mi piace che qualcuno sappia cosa penso veramente. Ma con te è diverso. Io mi fido di te. La prima volta forse è stato difficile, però lo rifarei. Non hai bisogno di arrenderti a me. Non hai bisogno di cambiare. Mi piaci così come sei.» All'improvviso parve vulnerabile, impacciato, poi si fece forza e, con un timbro di voce strano, aggiunse: «O, per essere un po' più preciso, ti amo come sei». Adesso Susan stava piangendo sommessamente... non perché fosse addolorata, ma perché era troppo commossa per non piangere. «Voglio crederti. Voglio crederti più di qualsiasi altra cosa. Sto facendo del mio meglio, ma tu devi capire chi sono.» Alzò lo sguardo su Dee che si stava stiracchiando nel sonno, cambiando posizione. Susan abbassò la voce. «Quand'eravamo piccole, i miei genitori non facevano che spronarmi. Erano contenti solo se ottenevo un risultato. Dee, invece... Ah, lei poteva essere semplicemente se stessa, esistere: era sufficiente. Ovunque andasse, trovava amici. Non doveva fare nulla di particolare, era semplicemente se
stessa e la gente reagiva positivamente. Io non sono mai stata così. Se non m'impegno al massimo non sono soddisfatta, non sono soddisfatta di me stessa, non mi sento... amata. Non sono sicura di essere amabile finché non mi dedico a qualche attività che so fare bene. Non sono una di quelle persone che la gente adora per come sono. Se sono speciale in qualche modo è soltanto grazie a ciò che sono in grado di fare. Ecco perché non posso seguire le orme di mia madre. Spesso vorrei essere come Dee, ma non lo sono.» Susan tacque. Poi si rese conto che, dalla poltrona accanto alla sua, proveniva un rumore. Si girò completamente e vide che Dee era sveglia e stava ridendo. Una risata sommessa, eppure profonda... viscerale, che le scuoteva tutto il corpo. «Dee?» la chiamò, preoccupata. «Stai bene?» «Quattro anni e diecimila dollari», esclamò la ragazza. Rise ancora, come se non riuscisse a frenarsi. David e Susan la fissarono, confusi... Sollevati che si fosse svegliata e stesse parlando, ma sconcertati dal suo comportamento. Riacquistando il controllo, Dee cercò di spiegarsi. «Sono andata da uno psicologo ogni settimana per quattro anni per parlare di quanto mi sentivo affascinante e amabile. Quante ore fanno? Non lo so. Però mai, neanche una volta, mi è venuto in mente che quella fortunata fossi io.» Si raddrizzò, fissando Susan. «Hai ragione. Mamma e papà non mi hanno mai reso la vita difficile; non si lamentavano dei miei voti, non mi tormentavano se non imparavo cose nuove, se non venivo scelta nella squadra della scuola. Anzi non si lamentavano proprio di nulla, qualunque cosa facessi; non avevano da ridire se stavo fuori fino a tardi o sulla gente che frequentavo. Verso la fine, poco prima che me ne andassi di casa, avevo deciso di farmi notare, di distogliere la loro attenzione da te almeno per qualche secondo. E sai una cosa? Non ci sono riuscita. Così me ne sono andata. Li ho lasciati con la loro figlia perfetta, quella di cui si preoccupavano tanto.» Scoppiò di nuovo a ridere. «E indovina un po'! Anche tu non ti sei sentita amata. Quella che ha ricevuto ogni secondo dell'attenzione della mamma ogni giorno di ogni settimana; anche tu non ti sei sentita amata.» Susan era sconvolta. «Non l'ho mai saputo...» Dee si strinse nelle spalle. «Be', presumo che non sia un genere di discorso che si fa tutti i giorni. 'Non ti senti amata? Ehi, nemmeno io, sorellina'.» Fece una pausa, poi proseguì: «Sono andata a parlare di questo con la mamma, l'anno scorso. Il mio psicologo riteneva che mi avrebbe fatto bene. E forse è stato così. Non ha modificato il modo in cui mi sento, tut-
tavia non le porto più rancore. Be', sai cosa mi ha detto? Mi ha fatto sedere, come se fossi tornata bambina, e mi ha confidato: 'Ma, Dorothy, tesoro, tuo padre e io abbiamo deciso di non trattarvi nello stesso modo perché non eravate uguali. Io sono cresciuta cercando di essere una brava figlia, proprio come tuo padre ha cercato di essere un bravo figlio. Non aveva importanza chi volevamo essere, ci si aspettava da noi che ci comportassimo in una certa maniera e venivamo trattati di conseguenza. Tuo padre e io ci eravamo ripromessi che tu e Susan sareste state educate in modo diverso. Avremmo riconosciuto che eravate due individui, ciascuno con la propria personalità e qualità, e che vi avremmo incoraggiato a sviluppare tali qualità e non a soffocarle, obbligandovi a conformarvi col resto del mondo. Non ti abbiamo mai spronato come Susan perché avevamo capito che avevi già tutto quello che ti occorreva per farcela nella vita. Invece eravamo preoccupati che Susan non ce l'avrebbe fatta se non fosse stata spiata ed eravamo convinti che, se non avesse sfruttato il suo potenziale, si sarebbe sentita infelice'». Susan stava tirando su col naso. «Ha detto così?» «Forse non sono proprio le parole esatte, ma ci siamo vicini. Anche se non fossi una giornalista, ricorderei comunque quella conversazione.» «Ho sempre pensato che vivesse attraverso di me, che mi facesse fare tutte le cose alle quali aveva rinunciato e che rimpiangeva», ammise Susan. «Chissà? Ma ti posso dire ciò in cui crede, perché nei suoi occhi ho letto la sincerità delle sue parole. Lei è convinta di averti spronato perché sapeva come ci si sente a non essere stimolati, a non riuscire a realizzarsi, ed era decisa a risparmiarti questo dolore.» Ormai Susan stava piangendo senza più remore e Dee si lasciò contagiare. Poi le due sorelle si abbracciarono. «Gesù» sbottò David a quel punto, fingendosi disgustato. «Siamo in Gran Bretagna. Non siete più nel Paese dei collettivi di autocoscienza.» «Sta' zitto», singhiozzò Susan e, allungando un braccio, lo tirò a sé in modo che tutti e tre fossero vicini. Rimasero così per quasi un minuto, con Dee e Susan che tiravano su col naso e singhiozzavano sommessamente. Dopo pochi istanti, David cedette. Si sciolsero dall'abbraccio solo quando una hostess si fermò accanto a loro, chiedendo se era tutto a posto. David si liberò dalla stretta e disse: «Una festa di famiglia», indicando le due donne in lacrime, ancora abbracciate. «Non è che per caso avete una
bottiglia di champagne?» «Certo, signore. Vado a vedere cosa abbiamo», rispose la hostess, allontanandosi in fretta. «Non per me», annunciò Dee, lasciando andare Susan e stringendosi la testa fra le mani. «Mi sento peggio del mattino dopo il mio ventunesimo compleanno. Voi due festeggiate il mio ritorno anche per me. E magari, quando avete finito, potete raccontarmi cos'è successo mentre ero impegnata nella mia vacanza farmacologica. Nulla di questi ultimi giorni ha senso per me e... Oddio!» Susan e David si girarono di scatto per capire cosa l'avesse allarmata tanto. Dee stava fissando i suoi jeans sudici. «Ma che diavolo ho indosso?» esclamò. 34 Mercoledì 30 aprile (alcune ore dopo) All'aeroporto di Manchester, di fianco all'ingresso della zona dei controlli, Susan e Dee si stavano abbracciando di nuovo. Un flusso ininterrotto di persone passava loro davanti, diretto verso il salone delle partenze internazionali. David era accanto alle due donne, con una mano sulla spalla di Dee e col piede appoggiato sul bordo del loro trolley. «Non penso che sarà per molto, Dee», le disse Susan. «La scelta è tua, ma Lincoln e Petey si prenderanno cura di te, se glielo permetterai. Il loro lavoro consiste nel trovare una nuova sistemazione alle donne che hanno subito abusi da parte del marito, perciò questo compito non sarà un grande sforzo per loro. E, comunque sia, sono tipi divertenti, tosti, e sanno come far sentire la gente al sicuro.» La strinse ancora a sé. «Ti prometto che ti farò subito sapere quando tutti noi potremo tornare alla normalità.» «Come faccio a riconoscerli, quando arrivo a Newark?» chiese Dee. Susan scoppiò a ridere. «Oh, non puoi sbagliarti. Uno è grande e grosso e bianco; l'altro è nero, di media statura... e staranno sicuramente litigando. Chiedi dei Fratelli Zorro, se hai problemi. È così che si facevano chiamare quando lavoravamo insieme.» «Oh, giusto, perché tu eri...» disse Dee ridendo. Susan concluse la frase per lei: «La sorellina di Zorro. Esatto». E scoppiò a ridere a sua volta. Tornando seria, Dee abbracciò di nuovo Susan. «Sii prudente.» Poi guardò David. «Siate prudenti tutti e due. In qualunque cosa siate immi-
schiati, spero che si risolva presto. Quando questa follia sarà finita, magari potreste venire a trovarmi. Scommetto che tra non molto avrete bisogno di una vacanza. Io di sicuro.» «Abbi cura di te, Dee», disse David, chinandosi per baciarla sulla guancia. La giovane prese la sua borsa, che conteneva riviste e svariati snack per il viaggio, e si allontanò. Indossava gli abiti che aveva acquistato presso un negozio dell'aeroporto; i vecchi indumenti erano finiti direttamente nel cestino dei rifiuti. Dopo aver salutato parecchie volte con la mano, inviando baci in direzione di Susan, Dee presentò la carta d'imbarco alla donna seduta dietro il banco della sicurezza, poi scomparve in direzione della zona partenze. Quando non fu più visibile, Susan disse: «Spero che ci sia un punto in cui potremo tornare alla normalità. Anzitutto voglio che lei sia al sicuro, poi, se tra un mese saremo ancora in questa situazione, vedremo il da farsi». «Non penso che ci vorrà tanto», commentò David. «Prima di allora, tu e io riusciremo a escogitare un modo per uscirne.» Fece scivolare un braccio intorno alla vita di Susan, e lei si appoggiò contro di lui, rilassandosi. Poi indicò una fila di sedie poco distante. «Possiamo sederci? Sono stravolto... Aspetta... Cos'era quella storia di Zorro? Non ho capito.» «Ma dai, non conosci Zorro?» esclamò Susan. «Anche qui avranno mandato in onda la serie, no? L'eroe che combatte per la giustizia, e così via?» E con la mano tracciò nell'aria la lettera Z. «Sì, sì. Lo so chi è Zorro. Ma tu cosa c'entri?» chiese David. Lei si fermò di colpo, girandosi a guardarlo, un po' sorpresa. «Non abbiamo mai affrontato questo argomento?» Aggrottò la fronte. «Presumo di no... Be', quando non mi occupo di storia tiro di scherma. Anzi, quand'ero ragazzina, mi avevano detto che avrei potuto far carriera, entrare nella squadra olimpica.» Fece una smorfia. «Non se ne fece nulla perché cambiavamo troppo spesso città per via del lavoro di papà, ma per un po' ci sono riuscita. In ogni modo, quando avevo dodici anni e cominciai ad avere il pallino della scherma, ero un tormento per tutti perché volevo sapere se Zorro aveva una sorella minore. Mi sa che cercavo un modello col quale identificarmi... preferibilmente uno che portasse il reggiseno. In realtà ho vaghi ricordi, ma è uno di quegli aneddoti familiari ormai passato alla storia.» Gli rivolse un sorrisetto e si strinse nelle spalle. Poi si fece seria. «È questo il motivo per cui ho voluto esercitarmi col tributo di Jan. Ho pensa-
to che, se gli adepti combattono con la spada, allora è solo l'aspetto magico della faccenda che mi mette in svantaggio. Voglio dire, se riesco a imparare ad alzare uno scudo come fanno loro, potrei avere qualche possibilità di affrontarli.» David sembrava confuso. «In effetti, in auto, mentre tornavamo a Londra, hai accennato a uno scudo... Ma cosa c'entrano le spade? Non ti seguo.» Susan lo fissò. «Ah, già, non ti ho spiegato... Merda. È stata una settimana intensa», borbottò, con aria imbarazzata. «Ma le spade mi sono venute in mente solo da poco. Allora, ricapitoliamo: gli adepti non possono usare la magia per aggredirsi a vicenda, giusto?» «Sì, sì, fin qui c'ero arrivato», disse David con una certa impazienza. Susan gli strinse il braccio in segno di scusa. «Quindi devono trovare un altro modo per colpirsi. Ma un adepto è in grado di creare intorno a sé uno scudo che lo protegge... dunque non puoi costringere qualcuno a combattere se lui non vuole. Il problema è che, con uno scudo completo, non puoi muoverti. È un po' come essere all'interno di un blocco di ghiaccio; sei protetto, ma in un certo senso sei anche intrappolato. Perciò, se vuoi avere un minimo di mobilità o vuoi colpire l'avversario, puoi alzare solo uno scudo parziale; uno scudo con alcuni varchi... attraverso i quali, secondo me, puoi infilare una spada. È così che combattono. Sono sicura che preferirebbero uccidere i nemici mentre dormono nel loro letto, ma, se ciò non gli riesce, usano una spada o qualcosa del genere.» «Non la pistola?» chiese David. Susan scosse la testa. «Pensaci», lo invitò, aiutandolo a spingere il trolley verso le sedie. «Se decidi d'ingaggiare un combattimento, ed entrambi siete armati di pistola, di conseguenza alzate tutti e due un grande scudo. Naturalmente tu abbasserai il tuo scudo solo nell'istante in cui farai fuoco. Ma, a quel punto, lo scudo dell'altro bloccherà la tua pallottola. Perciò dovrete sparare entrambi nello stesso momento, come in un duello, perché quello sarà l'unico istante in cui il vostro scudo sarà abbassato. Ma, se funziona, morirete entrambi... Certo, tu potresti essere più veloce, ma il rischio è comunque troppo grande. Le spade, invece, possono essere usate come strumento di difesa; anche con uno scudo abbastanza piccolo non sei totalmente esposto, perché ti avvali dell'arma per difenderti. In questo tipo di combattimento, gran parte del danno viene arrecato con gli affondi. Lasci che l'altro avanzi, poi trasformi la tua difesa in un contrattacco, perché quello è il momento in cui capisci dove si trova il varco nello scudo del-
l'avversario.» «Se puoi alzare uno scudo quando vuoi, come fanno gli altri a colpirti?» chiese David. «Perché non è una mossa rapida, tipo muovere il braccio; è più lenta, come spostare un oggetto pesante. Puoi muoverti o cambiare uno scudo in questo modo...» Fece un leggero movimento circolare con le braccia, come se stesse danzando. «Ma non così...» Ed eseguì un allungo e una parata a velocità impressionante. Un bimbo, seduto lì vicino, tirò la madre per il braccio, indicando Susan, ma, quando la madre si girò, non c'era più nulla da vedere. Si sedettero. «È piuttosto... sorprendente», disse David, incerto su quale aggettivo usare. «Già», ribatté Susan. «Anche se sono una principiante nell'alzare uno scudo, il semplice fatto di portare il tributo e di mantenere un minimo di concentrazione sarà sufficiente per impedire a un altro adepto di usare la magia contro di me. Quindi non mi resta altro da fare che confidare nelle mie doti di schermitrice. Credo che un adepto inesperto, però abile nell'usare la spada, possa suonarle a un adepto esperto non altrettanto bravo con la spada.» «Be', io ho praticato kendo per parecchio tempo», dichiarò David. «Uhm», borbottò Susan, poco convinta. «Quella che si usa nel kendo è un'arma da taglio. E il tipo di movimento che richiede potrebbe risultare problematico, in quanto la lama ha bisogno di molto spazio; è probabile che finisca comunque contro lo scudo. Ci vuole un'arma adatta per i colpi di punta, come uno stocco. Con l'affondo non fai che seguire l'altro sull'onda del suo movimento. Se anche l'avversario avesse un'arma da taglio, forse allora potrebbe funzionare, perché, per gran parte del tempo, dovrebbe fare a meno dello scudo per potersi muovere. Tuttavia, a meno che tu non abbia la possibilità di scegliere il tipo di arma per lui, io non ci proverei.» David parve irritato. «Quasi quindici anni di arti marziali e in pratica non mi sono serviti a niente.» «Be', diciamo che non è stato proprio uno spreco di tempo», lo confortò Susan. «Con la tua velocità, forza ed equilibrio puoi imparare a tirare di scherma in metà tempo rispetto a un comune mortale.» Gli rivolse un sorriso smagliante. «Quindi impiegheresti solo sei anni per diventare bravo come me, invece dei dodici che occorrerebbero a chiunque altro.» David le rivolse un sorriso sarcastico.
Susan si appoggiò contro di lui, strofinando il viso sulla sua giacca. «Scusami se non ti ho raccontato prima tutte queste cose. Soprattutto dopo la mia sparata sul fatto che non m'interpelli quando sei occupato a concepire i tuoi grandi piani.» Lui la strinse tra le braccia. «Be', adesso lo so», ribatté, poi aggiunse, con maggiore indulgenza: «Ed era tua intenzione dirmelo; questa è la differenza. È solo che ultimamente il mondo è completamente impazzito». Lei affondò il viso nel bavero della giacca di David, premendo la punta del naso contro il suo collo. «Allora mi perdoni?» mormorò. «Non solo sei perdonata, ma troverò il modo di dimostrarti che fai ufficialmente parte del mio circolo privato, quando sarà ora di pianificare la mia vita. È una promessa.» Lei sospirò... felice ed esausta nel contempo. «Okay», disse con voce assonnata. Alcuni minuti dopo, David borbottò: «Secondo te, quando hanno deciso di fare questi sedili di laminato, erano preoccupati che una comodità eccessiva avrebbe indotto le persone a starsene sedute qui tutto il giorno e a perdere il loro volo?» Susan si mosse leggermente e biascicò: «Sono dei bruti». «Lo slogan del progetto ovviamente era: 'Qualunque cosa, ma fate in modo che il loro didietro voglia lasciare il Paese'», aggiunse David. Susan si abbandonò a una risata, poi si sollevò. «Vado a cercare il bagno, poi prendo un caffè. Tieni d'occhio la mia borsa?» «Va bene», rispose lui. Alzò lo sguardo sul grande orologio digitale. «Mi sa che tra non molto ci chiameranno per il check-in.» Susan annuì. «Perché non chiami Shaw e gli dici come stiamo? Gli parlerò quando torno.» Gli diede un rapido bacio sulla guancia, poi si alzò. Si guardò intorno, per orientarsi, dopodiché si allontanò. David rimase seduto per qualche minuto, perso nei suoi pensieri, prima di prendere il cellulare dalla tasca della giacca e cercare nella rubrica del telefonino il numero del professore. «Cambridge 2616», rispose Shaw. «Professor Shaw... Joseph... Sono David.» «David. Quali nuove dal fronte?» chiese l'altro, palesemente felice di sentirlo. Lui sorrise. «Finora tutto bene. Dee è appena salita sul suo aereo; Susan è andata a prendere un caffè e io sono disoccupato. Le cose sembrano andare per il meglio.»
«Mi fa piacere. Ho capito dal suo tono che le notizie erano buone.» Poi la voce di Shaw assunse una nota di preoccupazione. «La sorella di Susan... Come sta?» «Meglio di quanto osassi sperare», rispose David. «Da un punto di vista fisico è a posto, anche se è un po' confusa. Lui l'ha imbottita di tranquillanti e questo probabilmente le ha reso le cose più facili. Sono sicuro che non fosse nelle intenzioni di Jan, ma l'intera faccenda le appare come un sogno. Sa di essere stata rapita e portata da qualche parte, ma, nel momento in cui poteva rendersi conto di qualcosa, era piena di Valium. Sarebbe potuta andare molto peggio.» «Poverina», commentò Shaw. «Chissà che spavento.» «Avrebbe dovuto vedere la ragazza che scortava Dee», proseguì David. «Si vedeva chiaramente che era stata costretta a collaborare con la forza... No, è andato tutto benissimo. L'unico piccolo disappunto, se vogliamo trovare un difetto in una fuga tanto fortunata, è che Dee non è riuscita a dirci molto di Jan. Non sa dov'è stata portata. L'unica cosa che ricorda è di aver ascoltato l'ultima parte di una telefonata, mentre Jan entrava nella stanza per controllarla. Lo ha sentito menzionare una certa Section 5. A noi non dice niente; ci siamo chiesti se lei ne ha sentito parlare. Presumo che sia una specie di... Qual è l'equivalente maschile di una congrega?» Shaw rispose meccanicamente, come se i suoi pensieri fossero altrove. «Una congrega è un gruppo di streghe, che possono essere di entrambi i sessi», spiegò. «La Section 5, però, non è una congrega», proseguì, con una nota di allarme nella voce. «Almeno non la Section 5 che conosco io.» «E che cos'è allora?» chiese David. «Si è mai chiesto a cosa corrisponde la sigla MI5, quella che indica l'intelligence nazionale? Significa 'Directorate of Military Intelligence Section 5'», rispose Shaw in tono grave. David non sapeva cosa farsene di quella notizia. «E perché avrebbe dovuto parlare con qualcuno dell'MI5? A meno che l'intelligence non abbia certe informazioni... Ritiene che il governo sia al corrente dell'esistenza degli adepti?» Invece di rispondere, Shaw chiese: «Dorothy è riuscita a capire in quale contesto è stato menzionato il nome?» David si passò una mano sulla fronte, in un gesto di profonda stanchezza. «Più o meno», rispose. «Le sembra di aver sentito queste parole: 'Tu dovresti essere la Section 5. Dimmelo tu'. Anche se non ne era sicura.» «David, questo è un problema», disse Shaw. «Quando ho parlato con
Susan dei recenti avvenimenti, abbiamo concluso che Jan operava da solo, almeno per quanto riguardava quelle che possiamo definire 'operazioni sul campo'. Non c'erano indizi che indicassero la presenza di subalterni disposti a intervenire su suo ordine. D'altro canto, abbiamo ritenuto che potesse disporre di contatti da interpellare per ottenere informazioni o magari armi. Eppure, in qualche modo, Jan è riuscito a localizzare l'albergo di Dorothy. Ed era al corrente anche degli spostamenti di Dass. In quest'ultimo caso si potrebbe pensare a un alleato di Jan all'interno dell'organizzazione di Dass. Per individuare il luogo in cui si trovava Dorothy, tuttavia, era necessario un tipo diverso d'informatore.» «Ha rintracciato la sua carta di credito?» ipotizzò David. «È possibile che qualcuno gli abbia passato questo tipo d'informazione?» Poi mormorò: «Anche se non sembra che sia riuscito a rintracciare la mia o quella di Susan». «Sa se Dorothy ha organizzato un viaggio di recente? L'MI5 di solito tiene d'occhio chi entra o esce dal Paese.» «Non so a che punto fosse, però, quand'è stata rapita, stava organizzando il suo rientro... Pensa che sia riuscito a rintracciarla tramite un biglietto aereo? Oddio...» David si era alzato e si stava guardando ansiosamente intorno, alla ricerca di Susan. «Di certo l'MI5 è al corrente delle prenotazioni dei voli», disse Shaw. «Non è insolito per loro prestare attenzione a cognomi 'particolari'. Da quel poco che mia sorella mi diceva, sembra che il dipartimento abbia libero accesso a questo genere d'informazioni. Inoltre i progressi nel campo dell'informatica e l'attuale paranoia sui viaggi aerei avranno reso la pratica ancora più comune.» David si stava spostando verso il punto in cui aveva visto Susan per l'ultima volta. «Susan era del parere che Jan avesse accettato il nostro piano in modo fin troppo repentino. E quindi abbiamo pensato di essere riusciti a raggirarlo. Stupidi! Probabilmente è stata la scelta degli aeroporti a interessarlo.» Lanciò un'occhiata al bagaglio, che aveva abbandonato. Incerto sul da farsi, tornò a grandi passi verso il trolley e salì sul sedile. I suoi occhi scrutavano la folla, passando da un estraneo all'altro, alla ricerca dell'unico volto familiare. «Ci ha consigliato di prendere un volo interno, affermando che sarebbe stato più semplice per tutti noi, perché si trattava di un viaggio di andata e ritorno più breve», continuò. «Abbiamo accettato perché non volevamo fargli capire che avevamo in programma di lasciare il Paese. Si è anche offerto di mandare una persona indifesa, invece di ve-
nire lui stesso, e questo ci è sembrato fantastico.» La voce di David era strozzata dalla tensione. «Ma ciò gli avrebbe permesso di arrivare qui prima di noi.» Shaw ci aveva già riflettuto a fondo. Con voce pacata, ma senza ottimismo, chiese: «David... Sta cercando Susan, vero?» David stava ancora scrutando la folla. «Non riesco a vederla da nessuna parte», rispose, l'agitazione ormai palpabile. Controllò l'ora sul display digitale; erano già passati quindici minuti da quando si era allontanata. «Si è persino offerto di scegliere la destinazione più lontana per la sua assistente», aggiunse, più pensando a voce alta che rivolgendosi al professore. «Voleva accertarsi che noi scegliessimo una località nelle vicinanze.» «E, una volta scoperta la vostra destinazione, l'avrebbe raggiunta in auto», completò con calma Shaw. Gli occhi di David avevano smesso di vagare sulla folla e non fissavano più nulla in particolare. Era arrivato alla stessa conclusione. «Perché, se avesse avuto qualcuno con sé durante il viaggio di ritorno, qualcuno che viaggiava contro la sua volontà, non sarebbe riuscito a farlo salire su un aereo.» «Esatto», convenne Shaw. «David? Tra poco partirò per un viaggio e ho bisogno di parlare con lei di alcuni particolari. Facciamo così: adesso lei cerca Susan e magari, dopo che l'ha trovata, mi richiama.» «D'accordo», ribatté David e chiuse la comunicazione. Era sotto shock. Ridiscese lentamente dal sedile, poi mise via il cellulare, facendo parecchi tentativi prima di trovare la tasca. Infine scosse la testa, concentrandosi sull'ambiente circostante. Si rivolse alla coppia di mezza età che si era appena seduta parecchi seggiolini più in là e chiese: «Potreste darmi un'occhiata alle valigie, per favore?» I due lo guardarono, imbarazzati, e ovviamente stavano per rispondere: «No», ma lui, con voce supplichevole, aggiunse: «Solo un paio di minuti. Sarò subito di ritorno». «Non dovrebbe neanche chiederci una cosa del genere», ribatté la donna. «Non guarda la televisione?» David si allontanò. Poi lanciò un'occhiata ai bagagli. Con la coda dell'occhio, vide che la coppia lo stava osservando. Se si fosse allontanato troppo, avrebbero avvisato la polizia. Gli venne in mente una cosa. Afferrò la borsetta di Susan e si sedette, mettendosela sulle ginocchia. Passò in rassegna il contenuto. Non c'era il cellulare. Ripescando il proprio telefonino, cercò il numero di Susan, poi
premette il tasto verde. Portandolo all'orecchio sentì che cominciava a squillare. Quattro squilli, poi cinque. Infine qualcuno rispose. Un rumore di sottofondo: un'auto? «Interessante...» disse una raffinata voce maschile. «Allora lavorate insieme.» Trasse un respiro. «Procediamo con ordine: se fosse stato molto rapido, sarebbe riuscito a far bloccare le strade, ma credo che entrambi sappiamo che ciò non sarebbe valso a fermarmi e lei non avrebbe riavuto Miss Milton tutta intera.» David non riusciva a trovare la voce. Jan continuò a parlare. «Non nutro rancore...» Fece una pausa per tossire in modo sgradevole. «Anzi trovo il vostro inganno piuttosto accattivante. Dovete essere stati così orgogliosi di voi stessi.» Il suo tono si fece più freddo. «D'altro canto, naturalmente, deve rendersi conto che il suo credito è scaduto. Non starò ad ascoltare altri suggerimenti ingegnosi che potrebbero esserle venuti in mente. Stavolta farà semplicemente ciò che le verrà ordinato.» La mente di David galoppava. Lui si umettò le labbra e si ritrovò a trattenere il fiato, mentre si sforzava di accettare quel drammatico sviluppo della vicenda. «Pronto?» disse Jan. «Sa, per risolvere questa faccenda ci sarebbe di grande aiuto se lei fosse così gentile da parlare, quando le viene rivolta la parola.» «Scusi», disse David senza pensarci. Esitò ancora, poi riuscì ad articolare i suoi pensieri. «Sono pronto a fare quello che vuole. Nessuna discussione. Ma c'è una cosa che lei deve sapere: Susan è malata.» Si schiarì la gola per mascherare una vaga esitazione. «Ha un cancro al fegato. Non può somministrarle dei tranquillanti come ha fatto con Dee... potrebbero ucciderla.» Diede a Jan qualche istante per riflettere, poi aggiunse: «So che sarebbe disposta a fare qualsiasi cosa per impedirle di mettere le mani su quei documenti, ma lei deve promettermi che, se Susan le chiedesse di darle qualche tranquillante, lei la ignorerà. Quei documenti non valgono la sua vita. L'unica cosa che mi preme è di riavere Susan. Si prenda cura di lei e potrà avere ciò che vuole». Suonava disperato, come se la preoccupazione gli impedisse di pensare in modo logico. «Be', tutto ciò è molto toccante... soprattutto la fiducia commovente che lei ripone nelle mie promesse.» La voce di Jan era attutita, a indicare che si stava spostando. «Secondo me, ha un aspetto sano», commentò poi. «Ma ho imparato che l'apparenza può essere ingannevole. In ogni modo, mi
piace il suo atteggiamento. Faccia come le dico e la riavrà in men che non si dica. Semplice obbedienza, nessuna condizione.» «Nessuna condizione da parte mia; tuttavia, prima d'incontrarci, mi dimostri che lei sta bene. Allora le consegnerò i documenti», replicò David. Il tono era molto simile a quello che usava quando parlava con Banjo; meno raffinato, molto diverso da quello di una persona abituata a comandare. «Nessuna condizione tranne questa, intende dire», sibilò con durezza Jan, ma poi si addolcì. «Che posso tollerare. È normale, dopotutto.» La sua voce assunse un piglio concreto, da uomo d'affari. «Questo livello di obbedienza è ottimo. Ma la smetta di pensare; non faccia il furbo. Non voglio che sprechi il suo tempo a inventarsi qualche ingegnoso...» S'interruppe, per tossire di nuovo. «... sì, qualche ingegnoso trucchetto che finirebbe per ucciderla. C'incontreremo domani, quando glielo dirò io, in un luogo che sceglierò io. Lei porterà i documenti e io porterò la sua ragazza. Una volta giunto sul posto, aspetterà fuori e mi telefonerà per dirmi che è arrivato. La farò parlare con lei. Se siamo entrambi soddisfatti di come vanno le cose, lei entrerà e faremo lo scambio. Sarò da qualche parte nel centro di Londra, quindi si accerti di essere nelle vicinanze per allora. Qualcosa da aggiungere?» David rimase in silenzio. «Bravo ragazzo», concluse Jan e riagganciò. 35 Mercoledì 30 aprile (pomeriggio) David chiamò il professore alcuni minuti dopo aver concluso la telefonata con Jan. Gli ci era voluto un po' per riprendersi. Shaw rispose immediatamente. «L'ha rapita?» chiese, senza preamboli. «L'ha rapita», confermò David, il peso del mondo nella sua voce. Un silenzio di piombo calò su di loro. Fu David a romperlo, riassumendo al professore la sua conversazione con Jan e spiegandogli cosa implicavano, secondo lui, le risposte dell'altro. Mentre era al telefono con Jan, David aveva abbozzato un piano, ma, come confessò a Shaw, esso presentava enormi lacune. Glielo spiegò a grandi linee. «Voglio che Jan pensi che io sono ragionevolmente coraggioso e ragionevolmente stupido. E anche un po' macho... Non guasterà.» «Bene, bene», approvò Shaw energicamente. «Mi sembra che, nonostan-
te la situazione drammatica, lei riesca a usare il cervello.» David fece un sorriso mesto. «Apprezzo il sostegno morale, Joseph. Nel caso se lo stesse chiedendo, riesco a far fronte alla situazione. Purtroppo, però, avrò bisogno di molto di più. Penso che il modo per restare lucido sia di non pensare ad altro tranne che riportare indietro Susan.» Fece una pausa. «La cosa che più mi angustia è cosa fare con la collezione. Non credo che Susan voglia che io la dia a Jan, ma non vedo altre possibilità per toglierla dalle sue grinfie se non consegnargliela.» «A me sembra che lei si trovi in una situazione senza uscita», replicò con cautela il professore. «E non mi permetto di consigliarle il modo migliore per risolverla. Se Jan ha la possibilità di ringiovanire, continuerà a rovinare l'esistenza altrui finché camminerà su questa terra... Lei lo sa meglio di me. Eppure da che mondo è mondo sono sempre esistiti uomini malvagi come lui... e di sicuro lei non ha nessuna responsabilità.» David non ribatté e allora Shaw aggiunse, in tono esitante: «Non so se la filosofia sia appropriata, in un momento come questo, ma ho l'impressione che il suo dilemma non sia del tutto nuovo. A molti medici è stato chiesto di prolungare la vita di un assassino o di un tiranno, e molti lo hanno fatto senza battere ciglio e senza l'insopportabile ultimatum che lei si trova davanti». Trasse un profondo respiro. «Quale che sia la sua scelta, probabilmente finirà con l'essere tormentato dai sensi di colpa. Io le suggerirei semplicemente di scegliere il fardello che ritiene di poter sopportare di più. In altre parole, dovrebbe capire qual è la scelta con la quale riuscirà a convivere meglio. Lei sarà sicuramente nei miei pensieri.» David non fiatò. Non era chiaro fino a che punto avesse ascoltato Shaw e se il suo discorso lo avesse aiutato. La conversazione si spostò su altri dettagli. Prima che il piano originale venisse stravolto, David e Susan avevano programmato di partire da Manchester alla volta della Spagna. Adesso David stava progettando di tornare a Gatwick il più in fretta possibile. Dopodiché avrebbe preso la macchina e sarebbe andato a Cambridge quella sera stessa, facendo un salto da Shaw, con l'intento di raccogliere alcune cose di cui avrebbe avuto bisogno il giorno dopo... collezione compresa. «Per caso sa dove posso trovare un rivenditore di attrezzature nautiche?» chiese David. Una volta compreso perché David s'interessasse a quel genere di cose, Shaw suggerì un negozio presso il quale si era servito una volta, molti anni prima, e che riteneva fosse ancora in attività, anche se non poté offrire rassicurazioni sul fatto che, nel frattempo, non avesse cambiato indirizzo.
«Ho molte cose da organizzare...» borbottò David. «Ha scoperto qualcosa che dovrei sapere... qualche potere nuovo? Secondo lei, Jan ha qualche asso nella manica?» «Non ci sono garanzie», rispose Shaw. «Ma la collezione è assolutamente coerente su questa faccenda. Ho qui la traduzione di Susan. Mi dia qualche istante...» Lo si sentì rovistare tra le carte. Poi riprese la linea. «Ecco. Lasci che glielo riassuma. Una certa forma di chiaroveggenza. La capacità di generare calore o freddo. La capacità di creare ciò che Susan chiama uno scudo. Una forza d'urto e una forza distruttiva. E la capacità di guarire che gli adepti possono imparare a influenzare. Tutto ciò unito al fatto che la magia protegge contro la magia. Un elenco formidabile, bisogna ammetterlo, ma non ha impedito a molti di loro di fare una brutta fine per mano di comuni mortali nel corso degli anni.» David non ribatté; stava riflettendo sulle parole di Shaw, mordicchiandosi un labbro. Dopo qualche secondo di silenzio si riscosse e chiese, il più calorosamente possibile: «Allora che cos'è questa storia del viaggio? Quando ha intenzione di partire?» «Ho pensato che sarebbe stata un'ottima idea tagliare la corda per un po' e trascorrere qualche settimana in Cornovaglia. Probabilmente partirò domattina presto. Se tutto va bene, lei sarà ancora in grado di contattarmi. Quando Susan era qui, mi ha detto che magari sarei potuto entrare nel XXI secolo... o almeno sfruttare la sua tecnologia. Mi aveva dato alcuni suggerimenti precisi e ho accettato il suo consiglio. Adesso ho un portatile nuovo di zecca e un cellulare. Una delle mie allieve migliori verrà con me; lei ritiene che una quindicina di giorni di sforzo diligente da parte sua, benché non sufficienti a trasformarmi in ciò che lei chiama un 'hacker', dovrebbero bastare per impartirmi le nozioni di base. Quando recupererà Susan, potrà dirle che la mia allieva mi sta anche aiutando col PGP. Lei capirà.» David annotò il nuovo numero di cellulare del professore e il suo indirizzo e-mail, dopodiché si congedò, assicurandogli che l'avrebbe richiamato se avesse avuto altri contatti con Jan. David arrivò a Gatwick verso sera. L'altra parte del viaggio, dall'aeroporto al luogo in cui aveva parcheggiato l'auto, vicino alla casa di Banjo, durò più del volo da Manchester. Caricò i bagagli, i suoi e quelli di Susan, nell'auto, non sapendo dove altro metterli, e partì per Cambridge. Quando arrivò, Shaw lo accolse calorosamente. Parlarono fino a notte inoltrata, ed erano quasi le tre del mattino quando David arrivò a casa sua e chiuse la porta dell'appartamento dietro di sé.
Shaw si era chiesto se fosse saggio che David tornasse a casa. Ma lui era dell'avviso che, con lo scambio in programma per il giorno dopo, avesse poco senso che Jan andasse a cercarlo proprio in quel momento. Quale che fosse la validità di quel ragionamento, ogni volta che David si svegliò di soprassalto nel suo letto scoprì di essere solo e illeso. Quand'era uscito dalla casa di Shaw, David aveva portato con sé i documenti originali della collezione, mentre al professore aveva lasciato il CD col testo crittografato e la password. Soltanto alle otto del mattino seguente la paranoia ebbe la meglio su di lui e lo spinse a controllare il posto in cui li aveva nascosti. Ovviamente c'erano tutti. Alle otto e mezzo era su un autobus diretto in città e dal rivenditore che Shaw gli aveva segnalato. All'una aveva spuntato tutti gli articoli sulla sua stravagante lista della spesa. Il cellulare squillò mentre lui stava tornando verso il suo appartamento dalla fermata dell'autobus. Era il numero di Susan. «Sì», disse David, rispondendo alla chiamata con un tono il più neutro possibile. «Ha una penna?» chiese con disinvoltura Jan. David tirò fuori una penna dalla tasca e afferrò una ricevuta dalle borse. «Dica.» «La chiesa di St. Bartholomew the Great», disse Jan. «Si trova tra il Bart's Hospital e lo Smithfield Market. Si faccia trovare lì alle due e mezzo di domattina. Non arrivi prima e non porti con sé nulla, tranne il cellulare e la collezione. Mi chiami su questo numero prima di entrare. Ha capito tutto? Non voglio che ci siano malintesi.» «Ho capito», rispose David, teso. «E si accerti di avere con sé la collezione originale», gli intimò Jan. «Le farò un piccolo test prima di farla entrare.» «D'accordo», ribatté David, rassegnato. «Tenga duro. È quasi finita», concluse Jan prima di riagganciare. David afferrò le borse e, affrettando il passo, tornò a casa. Mezz'ora più tardi stava ripercorrendo lo stesso tratto di strada, con uno zaino in spalla. 36 Sabato 2 maggio (prime ore del mattino) La chiesa si trovava proprio all'esterno delle mura della vecchia City di
Londra, incuneata in un angolo dove le normali regole architettoniche erano venute meno. Lì il nuovo non aveva nascosto il vecchio; lo aveva semplicemente ammassato da una parte. Sembrava che l'antica chiesa fosse stata edificata nel giardino di un complesso di palazzi popolari costruito nel dopoguerra. Il vialetto che conduceva all'ingresso attraversava la distesa erbosa, ma era di parecchi centimetri più basso rispetto al prato - molto più recente - che lo circondava e quindi somigliava a un canale. Gli edifici su entrambi i lati incombevano così vicini e così alti che la chiesa, nonostante la solida mole romanico-normanna, restava pressoché nascosta finché non le si arrivava davanti. A quell'ora, tutte le luci all'interno delle case erano spente; solo i lampioni lungo i marciapiedi erano ancora accesi. Il vicino mercato era silenzioso, e David non incontrò anima viva mentre risaliva il vialetto, dopo aver parcheggiato l'auto. Il terreno cominciò a salire in modo costante, finché lui non si ritrovò davanti alla chiesa. Nella destra reggeva il cellulare; nella sinistra una voluminosa valigetta. Indossava un maglione leggero, un paio di jeans e non portava la giacca; un abbigliamento inteso a dimostrare che non aveva nascosto niente su di sé e che quindi non avrebbe insospettito l'aguzzino di Susan. Fermatosi a pochi metri dal vestibolo buio, David posò la valigetta e digitò il numero di Susan. «Sono qui», disse, quando Jan rispose. «Mi legga qualcosa della collezione», ordinò a David. «Che cosa?» «Prenda un foglio qualsiasi e mi legga qualcosa.» David aprì la valigetta, tirò fuori una delle cartelline e iniziò a leggere un brano in latino. «Basta», lo interruppe Jan, come se la pronuncia di David lo avesse offeso. «Siamo pronti per lei.» Ci furono una pausa, alcune parole attutite, poi, con una certa esitazione, Susan disse: «David, sono io». Il tono era incerto, ma la voce era chiara e forte e soprattutto era la sua voce. Quali che fossero le sue condizioni fisiche, la cosa importante, fondamentale, era che Jan non le aveva fatto del male. David si ritrovò a implorarla: «Non preoccuparti, Susan, non preoccuparti:..» Poi fu di nuovo Jan a parlare. «Sì, sì», disse impaziente. «È viva e sta bene, come promesso. Adesso, per favore, ci raggiunga.» David chiuse la comunicazione e infilò il cellulare nella tasca dei jeans.
Apri il pesante portone di legno di quercia del vestibolo, lasciando che si richiudesse alle sue spalle, poi mosse qualche passo sul pavimento lastricato, oltrepassando una porticina che lo condusse all'interno. La chiesa era come un grande geode: racchiusa e incrostata, buia e sfavillante, piena di colonne svettanti e piccole nicchie geometriche; la sezione centrale, che si alzava verso la lontana cupola, era simile alla cavità interna del minerale. Sopra l'ingresso, c'era un organo elaborato che circondava un pulpito. La massa di legno che lo ospitava si congiungeva all'estremità di pietra smussata dell'antica cappella, quasi fosse un nido di vespe. Nel transetto di destra si trovava un fonte battesimale di pietra, circondato da file di banchi. Intorno al pavimento di mosaico, gli archi di pietra sovrapposti si alzavano su tre livelli, a sostenere i longheroni in ombra della volta. I grossi pilastri del livello più basso circondavano un deambulatorio. Superato il chiostro, David si ritrovò nella sezione centrale, e lì vide Jan e Susan, appoggiata contro il solido fonte battesimale. La luce incerta proveniva dai tremuli grappoli di candele votive e dalle decine di ceri, grossi come granate, posati su alti sostegni di metallo. Quando Jan si girò per guardarlo, David notò che il suo aspetto era cambiato. Una macchia simile a inchiostro risaliva dal collo fino alla guancia, nera come una ferita ancora aperta. Tuttavia non si trattava della ferita che David gli aveva visto l'ultima volta che si erano incontrati; era nuova. Da una parte, poi, il collo di Jan aveva una protuberanza, come se qualcosa stesse crescendo all'interno. Eppure, nonostante quei segni del progredire della malattia, i suoi movimenti erano agili e fluidi, e un nuovo cerchio d'oro brillava sulla sua fronte. Lo sguardo di David si spostò su Susan. Era sempre appoggiata al fonte battesimale, ma lui si rese conto che la causa di quella posizione non era la stanchezza; era stata legata. Due corde erano avvolte intorno alla base. Una si estendeva fino ad attorcigliarsi intorno alle sue caviglie; l'altra era legata alla catena centrale di un paio di manette cromate che le imprigionavano i polsi. Sembrava illesa. Aveva un'aria stanca e angosciata e ricambiò lo sguardo di David con ansia, scrutando il suo volto come se sperasse di leggervi qualcosa d'importante. Il fonte battesimale cui era legata si trovava nel punto di congiunzione del transetto e di una navata laterale. L'impressione era quella di una croce sottile con Susan al centro.
David si avviò lungo la navata laterale, incamminandosi verso le due figure. Jan rimase ad attenderlo, osservando ogni suo passo. Quando giunse a una quindicina di metri da Jan, David si fermò e posò a terra la valigetta. Poi, facendo scattare le chiusure, sollevò il coperchio e indietreggiò. Infine si spostò di lato, retrocedendo tra i banchi. «Dove stai andando?» chiese Jan in tono stentoreo. «Lì ci sono i tuoi documenti», annunciò David, indicando la valigetta, come se fosse una spiegazione. Si sedette in uno dei banchi, mantenendo le distanze, come se volesse ritrarsi da quell'uomo. Jan sospirò, quasi fosse esasperato dal fatto di dover trattare con un imbecille. Avanzò a lunghe falcate verso la valigetta e i passi riecheggiarono sonori nella chiesa deserta. «Se lì dentro hai messo qualche trappola, posso ancora uccidere la donna da qui», sibilò. Si fermò a pochi passi dalla valigetta e la trascinò verso di sé. Essa s'inclinò di lato e alcune cartelline di plastica scivolarono sul pavimento di pietra. Allora lui si chinò e ne sollevò una manciata. In quel mentre, curvò la schiena, lasciando intravedere il profilo della spada compatta che portava a tracolla. L'oro lampeggiò intorno alle tempie. Sfogliò un paio di cartelline, cercando di tenere d'occhio sia David sia Susan, legata e immobile a una decina di metri da lui. Poi si soffermò su un particolare documento per qualche istante e, quando rialzò lo sguardo, David era scomparso. «Tu!» tuonò. «Vieni fuori!» La mano destra si spostò istintivamente verso la spada nascosta dietro la schiena, con l'impugnatura a livello della spalla. D'un tratto, David scattò in piedi e cominciò a correre. Si era nascosto sotto uno dei banchi, ma adesso si era lanciato lungo la navata, allontanandosi da Jan e avvicinandosi al fonte battesimale. Prima di scomparire alla vista di Jan, le sue mani erano vuote; ora invece brandiva una spada in ciascuna mano. E c'era anche un'altra cosa: intorno alla fronte portava una doppia catena d'oro. Jan lasciò cadere i documenti e si girò di scatto, i suoi sensi inumani improvvisamente allertati dalla presenza di un secondo adepto. I suoi occhi scattarono verso l'ingresso, ma, un istante dopo, il suo sguardo tornò su David, registrando infine il bagliore dell'oro. Allora tornò indietro come un lampo, snudando la spada e urlando parole incoerenti. David raggiunse per primo il fonte battesimale. Nella sinistra teneva una busta nera di velluto. Aprì il pugno, lanciando la busta e una delle spade ai piedi di Susan. Poi afferrò il fodero e ne estrasse l'altra spada, dalla lama
lunga, perfetta e leggermente ricurva: una katana. Presentava un unico, affilatissimo taglio che si estendeva per tutto il profilo arcuato. Jan raggiunse a sua volta il fonte battesimale, sferrando un attacco di taglio. David riuscì a deviare il colpo. Rispose con un fendente diretto verso il torace esposto di Jan, la punta scintillante che formava un arco verso lo stomaco dell'altro. Ma la lama letale non raggiunse la carne perché una barriera invisibile deviò l'assalto. Jan tuttavia fece un balzo all'indietro. David si trovava tra Jan e il fonte battesimale. Se avesse mantenuto la concentrazione, Jan non sarebbe riuscito ad attaccarlo direttamente con la magia. Indietreggiò, strascicando i piedi, assicurandosi di essere abbastanza vicino a Susan da proteggere anche lei. «La busta...» sussurrò David a Susan, girando leggermente la testa. Nel contempo teneva la punta della spada puntata contro il viso di Jan, brandendo l'arma davanti a sé con entrambe le mani. Jan aveva assunto una postura molto diversa. Si trovava di lato rispetto a David e impugnava la spada con una mano sola, a ricordare uno spadaccino tradizionale; però la mano sinistra era appoggiata all'anca e non tenuta sollevata. La sua spada, poi, era uno strano ibrido. Era stretta e diritta, con una punta affilata, vagamente simile a un fioretto, ma non così sottile; la lama, infatti, era più piatta e i tagli erano affilati come rasoi. Poteva essere usata di punta e di taglio. Mentre David e Jan si confrontavano, fissandosi negli occhi, con le spade pronte, Susan obbedì all'indicazione di David. Con enorme difficoltà, perché impedita dalle corde, rovesciò il contenuto della busta sul pavimento. Il vecchio cerchio di Jan e altri due pesanti bracciali d'oro, simili a quelli che indossava David, rotolarono fuori. Ignorò i bracciali - portava già i suoi -, ma afferrò il cerchio e lo indossò subito. Mentre Susan recuperava il cerchio, Jan aveva mosso diversi passi alla sua sinistra, girando intorno a loro. Adesso fece un affondo, ma diretto non a Jan bensì a Susan. David balzò in avanti, calando la spada per deviare quella dell'altro. In quel mentre, gli occhi di Jan lampeggiarono verso David, che in realtà era sempre stato il suo obiettivo. L'adepto permise che la lama venisse spinta verso il basso e, cedendo, abbassò la punta, liberando la sua spada da quella di David, ma lasciando quest'ultimo impegnato nel movimento, vittima del suo stesso slancio. Una volta liberata l'arma, Jan ne cambiò rapidamente la direzione, riportandola sul corpo proteso in avanti dell'al-
tro; la punta tracciò un solco nella carne della spalla sinistra di David, incastrandosi nel muscolo prima di uscirne con uno strappo. David annaspò, ma si riprese subito. Girò in cerchio per sistemarsi ancora una volta tra Jan e Susan. «Dov'è il tuo scudo, ragazzo?» chiese con asprezza Jan. «Hai almeno idea di quello che stai facendo?» A mo' di risposta, David avanzò, sferrando due colpi di taglio, uno diretto alla testa, l'altro al fianco. Ma, come a sottolineare la domanda di Jan, entrambi i colpi vennero deviati da barriere invisibili. Susan sussurrò a David: «Posso alzarlo io uno scudo, non hai bisogno di proteggermi, ma non riesco a spezzare queste manette; non so come si fa». La sua voce aveva un tono disperato. Jan ignorò la donna o non la udì. «Anche la scelta dell'arma è interessante», lo schernì. «Acciaio giapponese ritorto», ribatté David a denti stretti. «Le più belle spade che siano mai state fatte; possono spezzare in due la lama dell'avversario.» Jan assunse un'aria sprezzante. «Affascinante iperbole da scolaretto», sibilò. «Ma non ti ha mai detto nessuno che sono inutili quando si combatte contro un Risvegliato?» David si spostò leggermente di fianco a Susan, allontanandosi di poco dal fonte battesimale per avere spazio per combattere. «Per quanto ti possa sembrare buffo, la questione è venuta fuori, in un certo senso», replicò David. «Spero che Susan abbia un po' più di fiducia di te nelle mie capacità di giudizio.» E le lanciò un'occhiata allusiva. Lei corrugò la fronte, nel tentativo di cogliere il significato delle sue parole. Avevano formato un triangolo. David e Jan continuavano a fissarsi, la punta delle spade quasi a sfiorarsi. Susan guardò prima l'uno, poi l'altro. «Mi ha consigliato di procurarmi una spada come la sua», continuò David. Alle sue spalle, Susan aveva afferrato la sua arma: una lama lunga e diritta, con una coccia elaborata, una punta affilata, ma nessun taglio. L'aveva snudata, però, avendo le mani legate, la sua presa era goffa. «Naturalmente un'arma come quella...» - con un cenno del capo David indicò la spada di Susan - «... ha anche i suoi svantaggi. Non taglia.» Per un istante, Jan parve sdegnato; evidentemente era convinto che David stesse vaneggiando. Poi sferrò un attacco diretto verso il petto dell'avversario, spostando la lama di lato, quasi a dimostrare come si usava un'arma da affondo. David non riuscì a parare in tempo, ma fece un balzo
all'indietro abbastanza in fretta ed evitò di essere colpito. Gli ci volle qualche istante per ritrovare l'equilibrio. Alle sue spalle, un lampo di comprensione si accese sul volto di Susan, che spostò la spada nella mano sinistra, tenendola di lato, e poi si appoggiò al fonte battesimale, i pugni protesi dinanzi a sé. «Pensa a come mi sarei sentito stupido se avessi messo un coltello in quella valigetta, per poi scoprire che tu avevi usato un paio di manette», disse David. Sollevò la spada sopra la testa e Jan scaricò immediatamente il peso sulla gamba posteriore, pronto a indietreggiare. Poi David ruotò verso Susan. Susan allargò le braccia, tirando al massimo la catena delle manette e appoggiandola sulla superficie di pietra del fonte battesimale. La lama di David si abbassò, diretta al centro della catena. Momentaneamente sbilanciato, Jan si rese conto di ciò che David stava facendo e cercò di trasformare il ritiro in un affondo. Tuttavia, nel preciso istante in cui Jan scattava in avanti, la spada di David si abbatté sulla superficie del fonte battesimale, tranciando la catena sull'ultimo anello a sinistra, pericolosamente vicino alla mano di Susan. David liberò la spada e balzò all'indietro, ma non fu abbastanza rapido da impedire che l'arma di Jan lo raggiungesse. La punta gli trafisse il fianco, scivolando sotto la gabbia toracica, e penetrando per un palmo nella carne. David cadde a gambe all'aria, lontano da Jan, e un gemito di dolore gli uscì dalle labbra. Avendo le mani libere, Susan sferzò la spada con la mano sinistra e disegnò con la punta un solco dietro la nuca di Jan, costringendolo ad abbassarsi e a portarsi di lato. Adesso Jan era davanti a Susan, e David dietro. Ma se Jan stava ripulendo con qualche esitazione il sangue che gli scendeva sulla guancia a causa della ferita, nel tentativo di valutare il danno, David era ancora steso a terra. Susan stava in mezzo a loro due, la spada impugnata con perizia nella mano destra, ma le sue gambe erano ancora bloccate, e la corda legata intorno alle caviglie le impediva di adottare la postura di uno spadaccino o anche solo di fare un passo. David riuscì a rimettersi in piedi, il braccio sinistro premuto contro il fianco per immobilizzare il più possibile i muscoli lacerati. La mano destra brandiva ancora la spada e la punta oscillava in direzione di Jan, sollevan-
dosi e abbassandosi mentre lui lottava per stare diritto. Jan rimase a guardarlo. Emise un brontolio, come a dire che non considerava David un grande pericolo. Poi cominciò a girare su se stesso dirigendosi verso l'avversario ferito e tenendosi bene alla larga da Susan. Mentre la superava, lei fece un affondo, la spada protesa al massimo. Ma non fu sufficiente per raggiungerlo. Mentre la punta della sua arma trafiggeva lo spazio vuoto alla sua destra, l'adepto le lanciò un'occhiata beffarda. «Dopotutto credo che tu rimpianga di non aver messo un coltello in quella valigetta», disse a David, con un sorriso sgradevole sul volto. David si contorse un paio di volte in quella che avrebbe potuto essere una risata dolorosa. «Già», concesse. «Manette e corde. Ci pensi soltanto dopo, e ti prenderesti a calci.» Jan si avvicinò, spostandosi alla sua destra. Adesso si trovava in mezzo, con le spalle rivolte a Susan, che però era troppo lontana per raggiungerlo. «Bene. E adesso?» sibilò. «Lei non può liberarsi. Tu sembri incapace di difenderti. E la tua fittizia conoscenza delle arti marziali al massimo ti servirebbe a impedirmi di strapparti il cuore dal punto in cui mi trovo. Il tuo piano prevede qualche altra brillante mossa? Oppure si conclude con te che muori dissanguato e mi lasci la collezione, e la tua ragazza immobilizzata a mia disposizione perché io la uccida come meglio mi pare?» David non rispose. «Allora?» lo sollecitò Jan con voce più pacata. David annuì. «Ho un paio di idee», ribatté. «Ma non è ancora arrivato il momento.» Appena udibile al di sopra del respiro raspante di David, c'era il ticchettio delle gocce di sangue che cadevano dalle dita della mano sinistra di questi e andavano a colpire il pavimento di pietra. «No, presumo che non sia ancora arrivato il momento», replicò Jan, acido. Poi, osservando la ferita di David e il sangue che usciva dal fianco, aggiunse, come se fosse una notizia utile: «Se solo tu avessi una settimana, probabilmente potresti guarire. Vediamo che cosa riesci a fare in questi cinque minuti prima che io ti uccida». E avanzò di un passo. David vacillò. Cercò di dire qualcosa, ma un'improvvisa fitta di dolore gli tolse il respiro. Riprovò. «Sono stato combattuto da un grande dilemma», cominciò, sforzandosi di tenere la spada diritta. «Lasciare che una merda come te se ne andasse in giro tranquillamente a rovinare l'esistenza alle persone per un altro centinaio di anni o rischiare che la donna per cui farei qualsiasi cosa venisse uccisa perché decidevo di non assecondarti?» Mentre i due uomini si spostavano in cerchio, Susan aveva preso a strat-
tonare il nodo che la teneva legata al fonte battesimale. Era strettissimo. Non c'era modo di allentarlo usando semplicemente le unghie e una spada senza taglio. Si allungò verso uno dei grossi candelieri più vicini, ma era decisamente al di là della sua portata. Chiuse gli occhi e si concentrò, ma il pesante sostegno di ottone si mosse a malapena sull'ampia base. «Un arduo dilemma», stava dicendo David. Mosse due passi alla sua destra, concentrandosi al massimo, con un'aria più determinata. Jan reagì, spostandosi dall'altra parte, l'espressione indulgente, come se avesse tutto il tempo che voleva e fosse disposto a ritardare l'uccisione di David finché non avesse appreso ciò che la sua vittima aveva ancora da dire. Sul volto sfigurato apparve un guizzo di spavalderia. Muovendosi sempre in cerchio, per poco David non inciampò. Ma si raddrizzò subito. «Un amico mi ha detto di scegliere la soluzione con cui avrei potuto convivere meglio. Perciò la notte scorsa ci ho pensato. Quale sarebbe stato il fardello più grande?» Una risata dolorosa lo fece contorcere di nuovo, e Jan gli rivolse uno sguardo interrogativo. «Poi ho capito una cosa.» Fece qualche passo a destra, poi a sinistra, raddrizzandosi. Dopodiché si lanciò a sinistra, cercando un varco, ma la spada di Jan si mosse all'istante per bloccarlo. Si ritrasse. «Ho capito che in realtà non dovevo preoccuparmi», continuò, in tono sempre più trionfante. «Perché non c'è modo che io esca vivo da qui.» Nel pronunciare quelle parole, si tuffò a destra, colpendo Jan con un fendente; l'altro sollevò la spada per parare il colpo e fu costretto, dall'attacco dirompente, a retrocedere di un passo. Susan si allontanò saltellando dal fonte battesimale fin dove glielo consentiva la corda. David assestò un altro fendente, ma la spada rimbalzò sullo scudo che Jan stava proiettando, poi estese l'allungo al massimo, mirando alla corda che teneva legata Susan. Jan era stato respinto, ma si era ripreso di nuovo, prima che l'altro potesse completare il movimento. David aveva creato un varco attraverso il quale spingersi in avanti, ma non c'era nulla che potesse prevenire un contrattacco. Nell'eseguire l'affondo, rimase completamente esposto. Per una frazione di secondo, sul volto di Jan si lesse la sorpresa di fronte a una mossa tanto avventata. Poi, con la stessa rapidità con cui era giunta, la sua sorpresa svanì e lui serrò la mascella per la rabbia. Mentre la spada di David si abbatteva sulla corda, spezzandone solo un filo, Jan avanzò, brandendo la spada a due mani, per poi calare la lama rutilante sul polso di David, che penetrò in profondità nella carne e fratturò l'ulna. Per poco non lo tranciò di netto.
Per la seconda volta, David finì a gambe all'aria. Ma stavolta la spada gli cadde dalla mano devastata. Susan balzò all'indietro, strattonando la corda e spezzando le ultime fibre intatte; le spire intorno alle caviglie si allentarono. Finalmente libera, sferrò una raffica di attacchi contro Jan, riuscendo quasi a fargli saltare la spada dalle mani e costringendolo a indietreggiare, anche se lo scudo dell'altro deviò i colpi più violenti. Sotto quell'assalto, Jan si ritirò, costretto ad allontanarsi da David. Aggiustò un poco la postura, ritirando leggermente lo scudo per muovere più agilmente la spada, e impegnò Susan, confidando nelle sue capacità di spadaccino per attutire i colpi dell'avversaria. Sicuro e capace com'era, non riuscì comunque a impedire che lei lo spingesse indietro e il loro combattimento proseguì lungo la navata, sempre più lontano dall'ingresso. «Forse ho parlato troppo in fretta», disse Jan, ansimando. Con un cenno del capo indicò David, accasciato a terra. «Senza un'arma affilata non avrei potuto conciarlo così.» Susan lo guardò, disgustata, le labbra ritratte sui denti, ma non disse nulla. Tutta la sua ira e la sua rabbia erano concentrate negli attacchi serrati contro di lui, mentre il suo scudo si spostava in modo preciso per proteggersi dalle risposte di Jan. A terra, David si stava muovendo. Se fosse riuscito a mantenere la concentrazione, sarebbe stato protetto dagli attacchi invisibili di Jan. Ma, se avesse vacillato, Susan e Jan lo avrebbero percepito. La donna lanciò un rapido sguardo nella sua direzione. «Concentrati, David», urlò. David non replicò, ma iniziò ad allontanarsi lentamente dal fonte battesimale per rifugiarsi tra i banchi, trascinando la spada con la mano sinistra. «Prima abbasserà la guardia, e prima metterò fine al suo miserabile stato», garantì Jan. Susan approfittò di quell'osservazione per pressarlo da vicino. Ritraendo di scatto la mano dalla sua lama guizzante, Jan commentò: «È una fortuna che tu sappia tirare di scherma». Susan alzò le spalle. «Abbiamo soltanto trovato un altro modo per fermarti», replicò in tono determinato. «Certo, questo non è esattamente tirare di scherma», borbottò Jan, ignorando il commento di Susan. «Che tecnica assurda insegnano al giorno d'oggi, con quelle spade-giocattolo flessibili... E assegnare punti per una mossa che una frazione di secondo dopo ti sbudellerebbe se la provassi in un combattimento vero.»
«Oh, per favore», sbottò Susan, alzando la lama in modo che Jan potesse vederla. Non era affatto un modello moderno e leggero, bensì un pesante stocco tradizionale, con una lama rigida. Cominciò a sospingerlo indietro con ancora più foga, aggiungendo: «Visto quel che faccio, pensavi che avessi imparato solo le tecniche moderne?» E riuscì a far correre l'asta dello stocco lungo la spada di Jan, deviando leggermente la mira dell'altro, tanto che il brutale affondo che lui impresse passò innocuo alla sua destra, mentre il colpo di punta di Susan trafisse il muscolo attraverso la gabbia toracica. Benché la punta avesse colpito una costola, non riuscendo a penetrare, gli aprì comunque uno squarcio sul fianco, e il sangue sgorgò immediatamente. Il materiale sintetico, scuro, della sua maglia a maniche lunghe era stato strappato, rivelando la ferita. Jan urlò per il dolore e sferrò un contrattacco mirando alla testa; un fendente, stavolta, nel tentativo di sorprendere la donna con la guardia abbassata. Ma fu troppo lento. Susan indietreggiò agilmente prima dell'arrivo dell'arma e il suo scudo bloccò il colpo. Allora Jan si ritrasse con un balzo e andò a ripararsi dietro un leggio di legno. Alle spalle di Susan, a diversi metri di distanza, David era riuscito a trascinarsi in mezzo ai banchi. Si trovava nello stesso punto in cui si era nascosto prima e sembrava alle prese con qualcosa. Jan indietreggiò ancora un po', allontanandosi dal leggio, ma ogni volta che Susan faceva per girare intorno all'ostacolo per avvicinarsi, lui si lanciava nella direzione opposta. Allora Susan fece qualche passo indietro, nella speranza di riuscire a fare uno scatto di lato. Benché Jan avesse un'espressione sofferente, la sua voce era ancora ferma quando disse: «Qualunque cosa ti sia stata insegnata, le regole qui sono diverse». Indietreggiò ancora di un passo, come se volesse sgusciare da una parte o dall'altra. Susan fece lo stesso, aumentando la distanza tra loro, in modo che il leggio non la ostacolasse qualora avesse deciso di lanciarsi all'inseguimento di Jan. «Per esempio, si deve tenere vicino a sé una copertura di difesa», spiegò Jan, ansimando. Con un cenno del capo indicò il leggio che si trovava in mezzo a loro. «Altrimenti diventa un obiettivo», concluse. Le sue palpebre tremarono e il leggio esplose, frantumandosi in diversi grossi pezzi, uno dei quali colpì Susan al petto, scaraventandola a gambe all'aria tra i banchi. Ormai, per la prima volta, la distanza che separava Jan e Susan superava
i due metri. Per David fu il segnale per prepararsi a colpire. Lottando con tutte le sue forze si rimise in piedi. Nella sinistra stringeva qualcosa, mentre la destra penzolava inerte lungo il fianco. Jan colse il movimento con la coda dell'occhio e gli rivolse uno sguardo insolente. Spalancò le braccia, invitandolo ad attaccare, e l'aria parve quasi irrigidirsi mentre lui regolava il suo scudo. «Qualunque cosa sia, ragazzo mio, non sarà sufficiente.» David stringeva nella mano qualcosa che sembrava una bottiglia di whisky. Ne percosse il fondo contro il bordo della panca, poi la lanciò come meglio poté verso Jan. Sul fianco della bottiglia era stato attaccato con del nastro isolante un razzo di segnalazione capovolto. Col cappuccio ripiegato, il razzo aveva bisogno soltanto di un colpo netto, come quello impartito da David, per innescare le polveri all'interno. Si sprigionò un accecante bagliore rosso, che incendiò la bottiglia. Poi, dal tubo in fiamme, uscì una colonnetta di fumo. La bottiglia colpì lo scudo di Jan e venne respinta. Cadde sul pavimento, andando in mille pezzi, e il rabbioso, profondo boato della benzina che s'incendiava all'improvviso illuminò tutta la chiesa. Al centro delle fiamme guizzanti, lo scudo di Jan aveva creato una piccola bolla di protezione, attraverso la quale il fuoco non poteva passare. Tuttavia, di lì a poco, il liquido incendiato s'insinuò sotto il bordo inferiore della barriera difensiva e iniziò a bruciare all'interno della bolla. La bolla resistette - un fuoco più piccolo all'interno, schermato dalla conflagrazione più grande -, ma poi Jan lanciò un urlo e la bolla scomparve. Per diversi secondi venne avvolto dalle fiamme. Susan era ancora a terra, ma lontana dall'incendio. A fatica si tirò in piedi e recuperò la spada. Poi iniziò ad avvicinarsi al liquido in fiamme, cercando di scorgere Jan. Stremato, David si accasciò per terra tra due file di banchi, incapace di muoversi. Mentre Susan si avvicinava al rogo, le fiamme si abbassarono all'improvviso. Il fuoco cominciava a languire, anche se la benzina che non si era ancora incendiata continuava a spandersi sul pavimento. Tra le fiamme morenti, Jan si rialzò da terra, rimettendosi in piedi, spada alla mano. Il volto ustionato era una maschera di concentrazione. La temperatura intorno a lui precipitò; le fiamme si affievolirono ancora di più e l'aria assunse una strana qualità cristallina. Alcuni secondi dopo, le ultime fiammelle si spensero con uno scoppiettio e la vampa di fuoco si
estinse all'improvviso. Sopra di lui una polvere di cristalli di neve scendeva a spirale dall'aria gelida, scintillando e catturando la luce, per andare infine a depositarsi tra il ghiaccio indurito ai piedi di Jan, che esalò una nuvoletta di vapore mentre inspirava nei polmoni riarsi. La camicia si era parzialmente fusa contro il petto e il fuoco aveva anche aperto enormi fori irregolari, sotto i quali la pelle bruna appariva ustionata e tesa. I capelli si erano raggrinziti, esponendo chiazze di cuoio capelluto annerito dalla fuliggine. Sul viso, la pelle si era ritratta dai denti, conferendogli un ghigno permanente. Susan fece un passo verso di lui, sollevando la spada e lanciando un'occhiata a David. Un'espressione di terrore le attraversò il volto. «Non ti sento, David», urlò. «Concentrati!» Jan provò a parlare, ma non gli uscì nessun suono, solo un sibilo roco. Tossì, una tosse improvvisa e rapida, come quella di un animale, e uno sgradevole rumore simile a un risucchio accompagnò lo sforzo. Cercò di nuovo di parlare. «Non passerà molto prima che riesca a toglierlo di mezzo», disse, la voce un fragile sussurro, il respiro sibilante che distorceva le sue parole. «David!» chiamò di nuovo Susan. «Devi stare sveglio, altrimenti può aggredirti.» Non ci fu risposta. La donna lanciò una rapida occhiata verso il punto in cui giaceva David. Quando riportò l'attenzione su Jan, vide che lo sguardo dell'adepto era totalmente concentrato sulla figura inerte. Prima che Jan potesse chiamare a raccolta le forze per sferrare un qualsiasi attacco, Susan si avventò su di lui. La spada dell'altro si sollevò, esitante, per deviare il primo colpo, ma lei scivolò intorno alla lama e inflisse a Jan una lunga, profonda ferita sull'avambraccio annerito. Lui parve quasi non farci caso. Si ritrasse un poco, alzando lo scudo e cercando di tenere a bada Susan. I suoi occhi lampeggiarono ancora una volta verso David. Disperata, Susan balzò all'indietro e anche lei si girò a guardare David. Abbassò le palpebre, lasciando che gli occhi si chiudessero completamente. Con uno schianto, uno squarcio apparve nella fila di banchi dietro la posizione in cui si trovava David, e una manciata di schegge esplose nell'aria. «David!» urlò Susan e si girò giusto in tempo per deviare l'affondo di Jan. Ma non fu abbastanza veloce e la punta della spada le trafisse la gamba. Mentre accusava il colpo, inspirò convulsamente. Era un colpo netto
ma, sebbene fosse profondo, non aveva lacerato il muscolo. Riuscì a stare in piedi, nonostante la gamba le tremasse un poco per lo sforzo. «David», chiamò di nuovo, stavolta senza urlare. «Sono qui...» disse una voce stanchissima. Susan indietreggiò rapidamente strascicando i piedi e arrischiò un'occhiata nella sua direzione. «Sono qui», ripeté lui, ancora più debolmente. Cercò di sollevarsi sul banco più vicino, riuscendoci al secondo tentativo. La mano destra - ormai inutilizzabile - gli penzolava in grembo e i jeans erano neri di sangue. La mano sinistra brandiva senza forza la spada, benché la punta fosse appoggiata sul banco di fronte. Mentre lei lo guardava, David abbassò le palpebre. Lottando per riportare l'attenzione su Jan, Susan iniziò a girargli intorno, allontanando ripetutamente la punta della sua spada, ma badando bene a non avvicinarsi troppo per non offrirgli un'apertura. Non gli diede tregua e lo incalzò così duramente che Jan non ebbe la possibilità di pensare a nient'altro che alla sua difesa. Lentamente riuscì a farlo girare in modo che voltasse le spalle a David. Quindi prese ad attaccarlo con maggiore foga. Agganciò la sua lama e la superò, ancora e ancora, ferendolo leggermente e mancandolo per due volte di pochi millimetri con colpi di punta che lo avrebbero trafitto da parte a parte, se fossero andati a buon fine. Con incrollabile determinazione, lo costrinse a indietreggiare sempre di più verso il banco dove David si era accasciato, la spada stretta in pugno. Jan era sempre più instabile sulle gambe. Le sue reazioni si erano fatte via via più lente e lui riusciva a malapena a mantenere una difesa adeguata. Suo malgrado, veniva sospinto, centimetro dopo centimetro, verso un nemico armato. E così, alla fine, la schiena esposta di Jan fu alla portata della spada di David. Ma questi sembrava in difficoltà. Lottò per sollevare l'arma ed essa quasi gli scivolò dalla mano. Susan spinse Jan ancora più indietro, però David non attaccava. Con una serie frenetica di attacchi, Susan riuscì a disarmare Jan e la spada scivolò via tra le ombre dei banchi. «David...» sibilò Susan, avanzando per sferrare il colpo finale. Ma il volto di David mostrò solo un sorriso di scusa, prosciugato di ogni energia. La spada gli cadde di mano e i suoi occhi si chiusero. Jan scattò indietro, superando le gambe di David con un balzo, e afferrò la spada dell'avversario. Qualche istante dopo, aveva la punta premuta sul
cuore di David, le mani chiuse intorno all'elsa. Era pronto a conficcarla nella carne. Susan esitò. Jan emise di nuovo quello strano risucchio e disse: «Decidi tu». Susan stava valutando la distanza che avrebbe dovuto superare per raggiungere Jan. Non sarebbe assolutamente riuscita a muoversi tanto rapidamente da impedirgli di conficcare la lama nel cuore di David. Abbassò la punta della spada finché essa non toccò il pavimento. La donna rimase immobile, ansimante, a guardare Jan, mentre un'espressione di sconfitta si faceva strada sul suo volto. «La spada», ordinò Jan, muovendo di scatto la testa di lato. Susan abbandonò l'arma. «E il mio cerchio», aggiunse, indicando il cerchio d'oro sulla fronte di Susan. Lei si tolse il cerchio e lo gettò accanto alla spada. «Se fossi stato in te, avrei continuato a combattere», disse Jan. Tolse la catena d'oro dalla testa ciondolante di David e la buttò da parte. «Arrenderti non ti salverà», continuò con calma, la voce crepitante, come se qualcosa dentro di lui volesse staccarsi con uno strappo. «Anche se immagino che tu non voglia vederlo morire.» Sollevò la spada dal petto di David e se la portò lungo il fianco. Poi trasse un respiro e chiuse gli occhi. Susan venne scaraventata all'indietro e rotolò tra i banchi dall'altra parte della navata. Rimase immobile, cosciente ma stordita. «Se ti può consolare, non ti avrei lasciato vivere, indipendentemente dall'esito di questa faccenda», la informò Jan. Sollevò la spada e avanzò verso di lei. Il tonfo di una porta che si richiudeva lo distrasse. Dall'ingresso giunse una voce di donna. «Ci rovinerai la reputazione, Jan», disse. Era una donna bionda, molto alta, dalla carnagione bianca tipicamente nordica. Era vestita in modo impeccabile, con un completo di lana grigio a righe sottili. Nella mano affusolata impugnava con noncuranza uno stocco dall'elaborata elsa a cesto. Avanzava con disinvoltura, come se stesse portando l'arma a un amico. Jan girò la testa di scatto verso di lei. Coi denti scoperti e l'espressione folle, pareva un selvaggio braccato. «Come hai fatto a trovarmi, Karst?» «Un uomo anziano... Presumibilmente un amico di quelli che stai tortu-
rando in questo momento.» Del tutto dimentico di Susan, Jan aveva preso a indietreggiare verso il punto in cui aveva visto per l'ultima volta la sua spada. Karst stava osservando il pavimento annerito, il leggio a pezzi, i corpi e il sangue. Con una smorfia espresse la propria disapprovazione. Spiccò un balzo e prese a camminare con grazia sopra i banchi invece che nel mezzo. Si stava dirigendo verso la valigetta aperta e abbandonata all'estremità di quella fila. Quando la raggiunse, lanciò un'occhiata ai documenti sparpagliati e cominciò a raccoglierli. «Penso che il vegliardo abbia mentito. Ha minacciato di rivelare al mondo il contenuto della collezione se non l'aiutavamo. Una decisione, a quanto sembra, che non è mai dipesa da lui.» Poi scrollò le spalle. «Oh, be', presumo di avergli promesso di venire subito qui per non sprecare un'ora alla ricerca del tuo nascondiglio.» Lasciò cadere i documenti nella valigetta e richiuse il coperchio. Poi si girò verso Jan e avanzò verso di lui con determinazione. L'adepto aveva ritrovato la sua spada, che andò a sostituire quella di David, eppure continuava a indietreggiare di fronte a Karst; la spada che aveva recuperato evidentemente non gli arrecava un gran conforto. «Sai come lo chiamano loro? Il Marker», disse Karst, con un sorriso, indicando David e Susan. «Dimmi dov'è», proseguì, adesso in tono glaciale. «E magari arriveremo a un accordo che non mi costringa a infilzarti come uno spiedo.» Sempre indietreggiando, Jan scosse la testa. «Hai bisogno di tutti gli amici che riesci a recuperare», continuò Karst. «Ti offro questa opportunità per tornare nelle mie grazie. Dov'è il Marker?» «In nessuno dei luoghi in cui pensi di cercare, Karst», rispose Jan con tutto il disprezzo di cui fu capace. Lei alzò la mano sinistra e studiò la sua pelle immacolata. «Direi che ho un'altra settantina d'anni prima di averne bisogno di nuovo.» Ormai gli era quasi addosso. «In questo lasso di tempo penso che riuscirò a trovarlo anche senza di te.» La sua spada scattò verso di lui. Jan la bloccò all'ultimissimo momento, ma solo per scoprire che lei era già pronta a colpire di contro. Tentò di deviare il colpo; tuttavia, nell'istante in cui cominciò a muoversi, Karst aveva già spostato di scatto la lama per la terza volta, in modo tanto repentino da dare l'impressione di assistere a un film privo di parecchi fotogrammi. Sferrò due rapidi colpi. La spada guizzò in avanti e lo trafisse,
come se fosse dotata di volontà propria. E poi, con un ultimo rovescio privo di sforzo, spezzò la lama di Jan appena sopra l'impugnatura. La macchia argentea volteggiò, andando a fermarsi con la punta rivolta contro la trachea dell'adepto. «Quei due...» disse Karst, lanciando un'occhiata repentina a Susan e David. «Sono entrambi vittime o uno di loro è un complice?» «La ragazza è con me», rispose Jan. «Uhm», borbottò Karst, come se volesse rifletterci sopra. Poi spostò la punta della spada sotto il mento di Jan e la conficcò trasversalmente fino al cranio. Mentre lui crollava, liberò l'arma e agitò la punta per rimuovere il sangue. Il corpo di Jan crollò a terra come un sacco. Poi Karst si diresse verso Susan, la quale, reggendosi il braccio rotto, non si era mossa dal punto in cui era caduta. Alzò uno sguardo atterrito sulla donna. Karst allungò la punta della spada e la fece scorrere delicatamente verso la testa di Susan, come se volesse sondare la presenza di qualcosa nascosto tra i capelli. Poi le osservò i polsi. «Dimentica ciò che è accaduto», le consigliò Karst, con quello che poteva essere un sorriso. Indugiò nel punto in cui David era disteso in una pozza di sangue, ma lo degnò solo di uno sguardo, prima di spostare l'attenzione verso un tavolo sistemato contro una parete e sul quale c'erano alcuni opuscoli e un leggio. La bianca tovaglia di plastica che lo ricopriva era lavorata in modo da somigliare a tessuto. Con la mano sinistra, Karst la sfilò dal tavolo, sparpagliando gli opuscoli e rovesciando il leggio. Quindi tornò a grandi passi verso Jan, distese la tovaglia per terra e ci fece rotolare sopra il corpo, spingendolo con la punta immacolata dello stivale di pelle scamosciata. Lo avvolse nella tovaglia, poi, apparentemente senza sforzo, si caricò sulla spalla il cadavere racchiuso nel sudario e tornò a prendere la valigetta. Piegando un ginocchio, afferrò la maniglia con la sinistra e, continuando a impugnare la spada nella destra, si diresse a grandi passi verso l'uscita. Con un tonfo, la porta si richiuse alle sue spalle. Susan si tirò in piedi a fatica e, zoppicando, raggiunse il punto in cui giaceva David. Gli frugò nella tasca, tirò fuori il cellulare e digitò un numero. 37
a:
[email protected] da:
[email protected] Cara Dee, è molto carino da parte tua, ma sono sicura che qualsiasi sorella maggiore avrebbe fatto lo stesso. E, naturalmente, continuo a pensare che, in primo luogo, non saresti mai stata coinvolta in tutto questo se non fosse stato per colpa mia. Comunque sia, grazie. Anch'io sono orgogliosa di te. La priorità maggiore è sistemare questa faccenda dei messaggi crittografati. David c'è riuscito con le sue e-mail, quindi non possiamo permettere che ci faccia fare brutta figura. Vorrei evitare che i tecnici informatici che lavorano da te leggano alcune cose. T'invierò un paio di link per aiutarti a risolvere la cosa. A parte questo, credo che mamma e papà possano smettere di preoccuparsi per noi. Se riusciamo a sopravvivere a questa ordalia, allora la loro educazione non può essere stata così disastrosa. Penso che li chiamerò tra qualche giorno, quindi sarà meglio che ci mettiamo d'accordo su cosa raccontare... mi sa che non sono pronti per la versione «hard». E, oddio, non posso credere che esci con Petey. Non che la cosa mi sorprenda. È una specie di principe, quando arrivi a conoscerlo... come presumo tu abbia fatto. Sfortunatamente per te, uscire con lui significa lasciare che Lincoln dorma a casa tua e ti saccheggi il frigorifero. Il che è un pò ' come cercare di tenere un rinoceronte come animale domestico. Saranno dolenti note per i tuoi conti della spesa. È strano pensare che, con tutta probabilità, non avresti conosciuto Petey se non fosse accaduto tutto questo. Lo so che non rende positiva l'esperienza - dev'essere stato tremendo per te -, ma io guardo David e mi chiedo se ci saremmo mai messi insieme in circostanze normali. Dopo quello che abbiamo passato, non riesco a immaginare di non avere fiducia in lui... o di perdere tempo a chiedermi se mi ama o no. Intendo dire che era disposto ad andare sino in fondo pur di salvarmi. Rifiorisce di giorno in giorno. In altre parole, sto dicendo che ci sono almeno un paio di cose consolanti in questa faccenda. Inoltre Petey può farti veramente conoscere «la strada» (è così che si dice?) come facevi a Chicago. Può farti entrare in locali di cui non avresti mai sospettato l'esistenza. Bada solo a non indossare le tue scarpe migliori. Se credo che papà farà qualche battuta idiota quando scoprirà che hai un fidanzato di colore? Spero proprio che abbia abbandonato quelle sue idee
antiquate. So che mamma non ci farà neanche caso. E semmai te lo stessi chiedendo, non ho mai avuto una storia né con lui né con Lincoln. In realtà, quando li ho conosciuti, pensavo che filassero insieme. Non dire loro che te l'ho detto. In ogni modo, staremo qui per un po'. Né io né David abbiamo fretta di tornare a casa... ovunque essa si trovi. Tra non molto dovrebbero arrivare l'amico di David, Banjo (devo scoprire qual è il suo vero nome... presumo che non sia stato battezzato così) e la sua ragazza. Magari potreste venire anche tu e Petey. Purtroppo qui non c'è assolutamente nulla da fare, ma per una volta credo che riuscirai a reggere la cosa. A proposito, i viaggi in aereo sono il mio passatempo... ma ti spiegherò meglio quando useremo la nostra chiave privata. Mandami presto tue notizie. Baci, Susan P.S. Se tu e Petey decidete di venire, fareste meglio a invitare anche Lincoln. Se lo lasciate solo, non si darà pace e finirà col fare a pezzi i mobili. a:
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[email protected] chiave: pgp 8.0.2 freeware for macintosh Caro Banjo, sono contento di sapere che Melissa si illude ancora che tu sia un buon partito (! ) Che possa durare a lungo. Mi hanno detto che sei venuto a trovarmi quand'ero dall'altra parte, e mi sa che non sono stato di molta compagnia. Ero ancora nel mondo delle fate. E, quando ho cominciato a rendermi conto di quel che stava succedendo, Susan ha deciso di rapirmi. Alla fine ho afferrato il senso di quel tuo piccolo rompicapo Zen in merito a Susan che voleva il mio aiuto. Sembra che io sia riuscito a capirlo giusto in tempo... anche se ce l'ho fatta per un pelo. Dopo aver escogitato un piano per soccorrerla - un piano in cui lei doveva assumersi la sua parte -, non credo che Susan possa pretendere una prova maggiore della mia disponibilità a condividere con lei le grandi decisioni della vita. Qualcuno lo avrebbe considerato un piano approssimativo, ma io ho pensato: «Rimettila in piedi, dalle la possibilità di avere una ma-
no libera e troverà il modo di sistemare la faccenda». E, come volevasi dimostrare, l'ha strapazzato per bene. Se non fossi svenuto (e vedi di tenertelo per te), credo che sarebbe riuscita a ucciderlo. Da una parte, tuttavia, sono contento che non abbia questo peso sulla coscienza. Non che lui non se lo meritasse, ma ho l'impressione che sarebbe stato comunque un trauma. Quand'è arrivato il momento critico, non è stato poi così difficile fidarmi di lei come pensavo. Credo che il fatto di trovare la persona giusta aiuti parecchio. O forse ero pronto. Chi lo sa. In ogni modo, dopo averle addossato la responsabilità parziale del salvataggio, probabilmente Susan inizierà a lamentarsi del fatto che io non mi assumo le mie responsabilità. No, sto scherzando. È stata una santa a prendersi cura di me. Mi ha tirato fuori da quell'ospedale quand'ero ancora in uno stato assai precario. Non avevano ancora finito di spiegarmi che in pratica la mia mano era spacciata, anche se l'avevano detto a lei. Probabilmente credevano che fosse uscita di testa: trascinarmi fuori di lì mentre ero ancora a un passo dalla morte... Però, col mio consenso, non potevano impedirglielo. E, naturalmente, aveva in mente un rimedio più efficace. L'altro problema era farmi salire su un aereo mentre ero mezzo morto. Infatti neanche il suo braccio rotto era guarito; ma è stata irremovibile sul fatto che voleva raggiungere un posto sicuro e tranquillo prima di sottoporci a quella strampalata tecnica occulta di guarigione. Il volo per Atene, in effetti, è stato piuttosto divertente, in senso macabro, intendo dire. I punti che mi avevano dato hanno cominciato a saltare via a metà viaggio ed eravamo sicuri che ci avrebbero fermato alla dogana perché lasciavamo pozze di sangue sul pavimento . A quel punto, avrebbero chiesto spiegazioni su quello che Susan portava in giro nella borsa (maggiori particolari tra poco). Ma ce l'abbiamo fatta. Devo ammettere che quest'isola è un paradiso. Qui ci vivono circa trenta persone. Ci sono due bar e due ristoranti, tutti dalle parti del molo. Poi ci sono una chiesa, ma senza prete, e qualche casa. Noi stiamo in cima alla collina, da dove si gode una vista spettacolare del mare. Mentre scrivo questo messaggio vedo Susan dalla finestra. Ha il suo ulivo, sotto il quale si siede, e un libro. Purtroppo nessuna capra, ma non la considero una grande perdita. E questo messaggio lo sto digitando con due mani dopo soltanto quindici giorni. Avresti dovuto vedere com'era conciato il mio polso quando abbiamo tolto le bende. Uno spettacolo sufficiente
per trasformarti in vegetariano avita. Che macello! Adesso ho solo alcuni bitorzoli intorno alla ferita e mi sta ricrescendo la pelle nuova, tutta rosa. Ha ancora un aspetto strano, ma funziona e non fa neanche male! Anche il buco nel fianco sta guarendo. Abbiamo impiegato un paio di giorni a capire come funzionava la trance di guarigione. Usando semplicemente la magia si guarisce rapidamente, ma c'è una tecnica accelerata cui puoi ricorrere se sai quello che fai e hai fretta. Secondo Susan, infatti, è proprio quello che ha fatto Jan per tutta la sera prima che c'incontrassimo per lo scambio. A quanto pare, doveva trascorrere ore intere ogni giorno per curarsi, ma la sua è stata ovviamente una battaglia persa. Forse era molto più vecchio di quanto pensassimo. O magari si trattava di un fattore genetico... Forse, se avesse condotto un'esistenza normale, sarebbe morto a quarant'anni. Comunque, se non mi avesse comunicato con un certo anticipo il luogo dell'appuntamento, sarei stato fregato . Non sarei riuscito a nascondere nulla laggiù ( anche se dio solo sa quanta fatica ho fatto a convincerli che non si trattava di una bomba né di droga). Ma lui aveva bisogno di trascorrere qualche ora in trance per prepararsi all'incontro, quindi mi ha chiamato parecchie ore prima. È sorprendente come i piccoli dettagli possano fare una grande differenza. Se mi avesse chiamato all'ultimo momento, adesso forse non sarei qui. (Non ci sarei comunque, ovvio, senza l'intervento del professore. ) O forse non tutto è dipeso da quella telefonata. Come dice Susan, magari avremmo trovato un'altra soluzione. Devo anche scusarmi per averti aizzato contro (si dice così? ) Hammond. Avevo bisogno di un nome e di un indirizzo in Gran Bretagna da dargli in caso volesse contattarci. Lo so che è una testa dura, ma saremmo ancora alle prese con un sacco di noie se non lo avessimo coinvolto. È stato di grande aiuto il fatto che Dass fosse italiano, perché Hammond ha pensato immediatamente alla mafia (esiste ancora? ) e Susan è riuscita a raccontargli una storia che conteneva un numero sorprendente di fatti reali. Abbiamo tralasciato il rapimento di Dee perché lui detesta la risoluzione fai-da-te dei crimini, ma lo abbiamo informato del rapimento di Susan, il cui riscatto consisteva nella collezione. Inoltre lei ha giustificato il fatto di non averlo coinvolto dicendo che era stato lui ad avvertirmi di non contattare la polizia. Poi, quando ha cominciato a raccontargli che era sbucato fuori qualcuno della banda di Jan per farlo fuori, ha detto di aver sentito Hammond borbottare: «Una resa dei conti in stile malavitoso», come se
fosse quasi eccitato. Sembra che abbia considerato le spade come parte del riscatto che il «professionista» aveva lasciato indietro per la fretta, e questo è stato d'aiuto. Non preoccuparti, però, non dovrai ripetere la stessa versione. Lui sa che non hai assistito a nulla di tutto ciò. Pensavo soltanto che avresti voluto saperlo. Mi ha persino aiutato a recuperare l'auto da dove l'avevano ficcata, senza pagare un soldo. Risultato: Susan dice che le chiavi sono nel cassetto in anticamera. Quindi serviti pure, se vuoi. Bene, penso che per oggi sia abbastanza. Però ho minacciato di dirti cosa c'era nella borsa di Susan. Non so se Jan avesse creduto alla mia piccola menzogna in merito al suo stato di salute, o se semplicemente non abbia ritenuto necessario drogarla; comunque sia, era in condizioni decisamente migliori di Dee per spiarlo. Ancora non sa dove abbia nascosto il Marker, ma ha individuato uno dei suoi nascondigli... uno che Karst si è lasciata sfuggire. Susan, da quella donna coraggiosa (pazza?) che è, è tornata là mentre io mi divertivo a farmi operare, e si è portata via il tesoro. Ha trovato un notevole gruzzolo in contanti, soprattutto dollari, e una specie di agenda o diario. Io non riesco a leggerne nemmeno una parola, ma Susan ci sta lavorando e ritiene che possa esserci ogni genere d'informazione interessante. Ha persino trovato un brano in cui Jan si lamentava del fatto che nessuno porta più il cappello. È vero: in effetti non ci fidiamo di quelli che si coprono la testa. Ha senso. Per farla breve, se dovessi avere bisogno di un anticipo, puoi contare su di me. Ciò di sicuro significa che Susan e io non dovremo preoccuparci di lavorare per vivere per un bel po'. (Ti farà piacere sapere che i miei boss mi terranno il posto finché non mi sarò ripreso... anche se non mi ci vedo a riprendere la vita di prima. ) Credo che sia superfluo dirti di fare attenzione con questa e-mail. Da quanto ho capito, i messaggi crittografati sono difficili da decrittare, ma fa' in modo che Melissa non legga questo da sopra la tua spalla... Potrebbe cominciare a preoccuparsi per te. Bevi alla mia salute. David P.S. Sbrigati a prenotare un volo per venire qui. Voglio vedere che effetto fa l'implacabile sole greco sulla tua pelle bianchiccia. A:
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[email protected] chiave: pgp 8.0 freeware for Windows Cari Susan e David, sempre che siate riusciti a trovare la chiave e che io abbia fatto tutto in modo corretto, leggerete questo messaggio standovene seduti al sole da qualche parte del mar Egeo. Roba da non credere! Tra un po' ci saranno le immagini che parlano... Ma bando alle sciocchezze. Mi affretterò subito a porgervi le mie scuse e a prostrarmi. Spero sia chiaro a entrambi che non intendevo privarvi del diritto di scegliere il vostro destino. Lo so che non mi avete accusato di questo, però magari lo pensate. Vi prego di credermi quando dico che desideravo solo aiutarvi. Ho dato a David un certo consiglio... avendo cura, naturalmente, di premettere che mai mi sarei arrogato il diritto d'impartire istruzioni (ma presumo che l'ipocrisia sia il minore dei miei crimini). Ma mi ero appena espresso che l'ironia ha colpito; ho dovuto soccombere alle mie stesse parole. Mentre valutavo le alternative di David, mi sono reso conto che, qualunque strada avesse scelto, ben presto si sarebbe ritrovato a portare un fardello più pesante di quello che qualsiasi giovane uomo sarebbe stato in grado di sopportare. E la decisione non è mai stata messa davvero in forse. È chiaro che David avrebbe scelto di salvare la tua vita, Susan, se fosse stato in suo potere. Però ho compreso che, se fossi stato disposto ad accollarmi quel fardello, si sarebbe aperto uno spiraglio per inviarti un piccolo aiuto. Informando i soci sopravvissuti di Dass della spiacevole situazione in cui ti trovavi, sapevo che avrei segnato il destino sia della collezione sia del Marker: sarebbero stati ancora una volta gli strumenti della malvagità. Ma ho deciso di andare avanti lo stesso. Sono felice oltre ogni dire che il Marker non sia stato trovato. La collezione non è una grave perdita, considerando che ne abbiamo una copia e che le conoscenze in essa contenute di certo erano in gran parte note ai soci di un tempo di Dass. In ogni modo, avevo deciso che rinunciare al Marker sarebbe potuto essere il prezzo da pagare per salvare la vita di tutti e due. E ho sentito di poter convivere col pensiero di aver aiutato il nemico per il resto dei miei giorni. Inoltre mi era sembrato chiaro che David non sarebbe stato disposto ad aggrapparsi a quel disperato, esile filo, per paura che tu, Susan, lo accu-
sassi di averti tradita. Dopotutto avevi fatto capire senza mezzi termini che non intendevi consegnare a queste persone il loro prezioso tesoro. Io preferivo che tu vivessi, anche se questo avrebbe potuto decretare la fine della nostra amicizia... Ma sicuramente David non poteva andare contro i tuoi desideri in modo altrettanto semplice. Era una decisione che solo io potevo prendere. Spero mi perdoniate un'immagine terribilmente drammatica. .. Forse la mia mostruosa vanità finirà persino per divertirvi, ma la situazione mi ha evocato l'idea di gettarmi su una granata, in senso karmico, se riuscite a capire cosa intendo. Una bravata ridicola, lo so, ma nondimeno irresistibile. Mi piace pensare che chiunque scriverà un giorno il mio epitaffio adesso avrà a disposizione più materiale sul quale lavorare che non la semplice frase: «Uno studioso diligente». A coloro che ho contattato ho lasciato credere che voi due sareste stati tenuti in ostaggio finché non fosse stata consegnata la collezione, che costituiva il riscatto. Ho promesso che non avrei reso pubblico il suo contenuto, a condizione che togliessero di mezzo Jan e lasciassero liberi voi due innocenti. Da quanto mi pare di capire, hanno mantenuto la parola con una mancanza d'integrità pari solo alla mia... Un rischio professionale, forse, quando i bugiardi hanno a che fare con i farabutti. Adesso mi chiedo se, nonostante tutti i pericoli che avete affrontato, il momento in cui Karst ha deciso la vostra sorte non sia stato altrettanto rischioso. Se avesse intravisto brillare dell'oro su uno dei vostri corpi inermi, il vostro destino sarebbe stato segnato. Ma una rapida riflessione da parte tua, Susan, ha completato il lavoro che Jan aveva iniziato, quando ti ha disarmata; sicché, suo malgrado, ti ha aiutato a salvarti da Karst. Se tu non fossi riuscita a nascondere tutto quell'oro, probabilmente Karst non ti avrebbe lasciato andare tanto facilmente. Ma, del resto, credo che abbia visto in te una sorta di «protégé». Pensaci: non ho trovato menzione di adepte donne nella collezione. Ah, ma non dobbiamo indugiare oltre su queste cose. Non ora che il sole splende (dove siete voi, almeno) e tutto procede per il meglio. Perciò, invece di continuare a divagare, risparmierò il resto dei miei futili pensieri per il prossimo messaggio. Tra poco andrò a fare una passeggiata fino al promontorio; l'aria di mare mi fa bene, o almeno immagino che sia così, che poi è quasi la stessa cosa. Oggi mi sento forte come un leone. Naturalmente il fatto che la mia salute sia migliorata forse non ha nulla a che fare col mare. Potrebbe essere il cambiamento di ritmo o qualche sotti-
le, ma importante, modifica nella dieta. Potrebbero persino essere quelle interessanti tecniche di meditazione che ho appreso leggendo la collezione. (Se la mia cara, defunta sorella mi vedesse con addosso i suoi gioielli, credo che si dispererebbe per me. ) E questo mi porta al pensiero di commiato. Quando vi sarete ristabiliti e vi sarete presi un po' di tempo per voi (sto pensando in termini di mesi, dopo tutto quello che avete passato)... Be', una volta che avrete riacquistato le forze, dovremo riflettere su ciò che vogliamo fare di tutto ciò. Qui ci sono cose che forse il mondo dovrebbe conoscere. Credo comunque di poter tranquillamente dire che sarò ancora nella terra dei vivi quando deciderete che è arrivata l'ora di rientrare, perciò non affrettatevi a tornare per me. E sono sicuro che Susan vorrà sapere una cosa: credo di aver trovato un altro codice nella collezione, un codice i cui contenuti sono piuttosto allarmanti. Ma siccome risalgono a trecento anni fa, allarmanti o no, possono attendere fino all'autunno (bisognerà vedere, però, se anche la curiosità di Susan, adesso indubbiamente stuzzicata, saprà aspettare). Adesso vado a vedere se riesco a trovare un cubetto di ghiaccio. Non ci crederete, ma mi sta spuntando un dente nuovo! Sempre vostro, con tutti i migliori auguri, Joseph Shaw RINGRAZIAMENTI Grazie a Em per avermi aiutato in tutti i modi. Un ringraziamento anche a Debra per avermi convinto a iniziare a scrivere... Era questo che avevi in mente? Ho apprezzato anche l'aiuto di tutti coloro che hanno letto le bozze e hanno contribuito coi loro commenti. Non mi sono mai stancato di sentire: «... e pensare che non mi piacciono neanche, i gialli». Ai Board of Canada, per la loro strana, bellissima musica dico: ben fatto! E naturalmente un grazie a mia madre per avermi incoraggiato a non scegliere un lavoro normale. FINE